Tertium datur. Sintesi e mediazione tra criticismo e idealismo speculativo
 9788857545752

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MIMESIS / FILOSOFIE N. 555 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) comitato scientifico

Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como), Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3), Antonio De Simone (Università degli Studi di Urbino Carlo Bo), Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Giovanni Invitto (Università degli Studi di Lecce), Micaela Latini (Università degli Studi di Cassino), Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno), Luca Marchetti (Università Sapienza di Roma), Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna), Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo), Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Riccardo Roni (Università degli Studi di Urbino), Luca Taddio (Università degli Studi di Udine), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Tommaso Tuppini (Università degli Studi di Verona), Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

Saša Hrnjez

TERTIUM DATUR Sintesi e mediazione tra criticismo e idealismo speculativo

MIMESIS

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino.

In copertina: Triangular Dis/Unity (Ivan Radenković, 2017)

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Filosofie n. 555 Isbn: 9788857545752 © 2017 – mim edizioni srl Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone +39 02 24861657 / 24416383

INDICE

Introduzione: “Il tutto come tre e non più come due”

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PARTE PRIMA IL TERZO TOPOLOGICO Capitolo I: La necessità trascendentale di un terzo intrasoggettivo 1. Le due sorgenti della conoscenza e la necessità della loro unione 31 2. Sintesi e immaginazione 35 3. Sintesi e unità: tra immaginazione e appercezione 46 4. Spontaneità come tertium comparationis tra immaginazione e intelletto 51 5. La validità oggettiva dell’Io penso 57 6. La struttura trascendentale del giudizio: la copula e l’appercezione 63 7. I tre fattori costitutivi dell’esperienza 68 8. Il terzo si deve dare: “Nun ist klar, daß es ein Drittes geben müsse” 76 Capitolo II: La terza Critica come critica del terzo 1. I due domini e l’idea dello Übergang 97 2. Il giudizio riflettente come ulteriore livello della sintesi 104 3. Sensus communis: fondazione dell’intersoggettività 111 4. Il sublime e l’intrusione del noumenico 123 PARTE SECONDA IL TERZO SPECULATIVO Capitolo I: L’identità speculativa: dal termine medio al medio 1. Il bisogno della filosofia come bisogno del terzo – tra riflessione e speculazione

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2. La speculatività dell’immaginazione e l’unità originaria dell’appercezione 148 3. Il verace medio 161 Capitolo II: L’orizzonte onto-logico del terzo 1. Il cominciamento: il divenire come il primo Terzo del sistema della logica 2. Dalla triplicità alla quadruplicità 3. La riflessione e il terzo incluso nella contraddizione

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Capitolo III: La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio

1. La differenza e la struttura duplice dell’autocoscienza 235 2. L’altro resistente: il fallimento della negazione nella figura del desiderio 240 3. Sillogismo dello specchio: lo sdoppiamento dell’autocoscienza 244 4. La lotta mortale e la morte del termine medio 248 5. I due sillogismi della signoria: il dominio e il godimento 252 6. Sillogismo dell’emancipazione 257 7. La resurrezione dello sdoppiamento infelice e il ruolo mediatore del terzo 264 8. Considerazioni finali: l’anello mancante, termine medio, sillogismo 271 PARTE TERZA TERTIUM DATUR COME SFONDO ONTOLOGICO DI SINTESI E MEDIAZIONE 1. Oltre l’ombra della triplicità: mediazione come divenir-altro 282 2. Sintesi immanente e giudizio analitico a posteriori 294 3. Il compimento della mediazione nel sillogismo 301 Bibliografia

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Indice dei nomi

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Indice dei termini

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Questo lavoro è il frutto della mia ricerca dottorale svolta in maggior parte durante gli anni 2013 e 2014 presso l’Università di Torino nonché durante i brevi soggiorni di ricerca alla Freie Universität di Berlino. La tesi di dottorato con l’omonimo titolo “Tertium Datur. Sintesi e mediazione tra criticismo e idealismo speculativo” è stata discussa il 26 marzo 2015 all’Università di Torino davanti alla commissione composta dai seguenti membri: Prof. Maurizio Pagano (Università del Piemonte Orientale), Prof. Gianluca Garelli (Università di Firenze) e Prof. Angelo Cicatello (Università di Palermo). Il testo qui presentato, anche se abbreviato rispetto all’originale, segue fedelmente la struttura della dissertazione e riporta tutti i suoi capitoli principali. Le modifiche apportate durante la revisione del testo riguardano soprattutto l’abbreviazione dell’argomentazione e la sua articolazione sistematica, l’arricchimento bibliografico generale, ma anche un affinamento di certe riflessioni su alcuni aspetti della filosofia hegeliana. La mia riconoscenza va in primo luogo al Prof. Gaetano Chiurazzi per aver incoraggiato e sostenuto questa pubblicazione, nonché per la disponibilità e per la massima attenzione con cui ha seguito il mio lavoro, per le discussioni stimolanti e i preziosi suggerimenti, che sono stati di grande aiuto per trovare e profilare le soluzioni a certi problemi. Vorrei ringraziare anche il Prof. Georg W. Bertram della Freie Universität di Berlino, dove ho trascorso un soggiorno di ricerca tra l’aprile e il novembre 2013: tale momento è stato significativo non soltanto per le ricerche bibliografiche condotte in gran parte presso la Philologische Bibliothek della FU Berlino, ma anche per la possibilità di partecipare ai seminari organizzati nell’Arbeitsbereich del Prof. Bertram, avendo lì avuto l’opportunità di discutere alcuni argomenti affini alle idee di questo studio. I miei ringraziamenti vanno anche al Prof. Anton Friedrich Koch che è stato il tutor della mia ricerca postdoc svolta durante il 2016 grazie a una borsa di ricerca DAAD presso l’Università di Heidelberg: questo sog-

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Tertium Datur

giorno di ricerca mi ha permesso di condurre le ultime ricerche bibliografiche ora integrate nel libro. Ringrazio il Prof. Pagano, il Prof. Garelli e il Prof. Cicatello per le loro obiezioni, critiche e suggerimenti esposti durante e dopo la discussione della tesi: sono stati tutti degli ottimi spunti e punti di orientamento per la revisione della tesi.   Sarebbe in questa sede impossibile, e forse esagerato, menzionare tutti i colleghi e le colleghe, i compagni e le compagne, con cui, in diversi momenti e in diversi luoghi tra Italia, Germania e Serbia, ho avuto la fortuna di condividere un pezzo del mio percorso. Ringrazio tutti loro con un unico messaggio amichevole e caloroso per tutte le discussioni e le chiacchierate in cui, in un modo o nell’altro, abbiamo condiviso il sentire che fare filosofia ha ancora un senso nonostante il clima sociale-ideologico sempre più ostile alla ricerca libera, al pensiero critico, e alle discipline umanistiche in generale. Senza di loro tutto sarebbe stato meno divertente, mentre la condizione di “precariato giovanile” nella quale è nata questa ricerca sicuramente sarebbe stata più gravosa. Infine, ringrazio Lorenzo Pizzichemi, Francesco Lodato, Aris Tsoullos e Sebastiano Pirotta per l’aiuto e i consigli utili nell’ultima fase di stesura del testo per quanto riguarda la sua redazione finale e le ultime correzioni. Un grazie anche a Ivan Radenković che ha creato l’immagine per la copertina prendendo spunto da alcune idee sul terzo e sulla triangolazione.   Dedico questo libro ai miei genitori, Obrad e Mirjana, che durante gli anni precedenti hanno retto con forza d’animo il fatto di avere uno studente di filosofia in famiglia, a distanza.

ABBREVIAZIONI

KANT, Immanuel, Werke. Akademie-Textausgabe, Berlin, W de Gruyter, 1968. KrV

Band III: Kritik der reinen Vernunft (2. Aufl. 1787)

KrV 1

Band IV: Kritik der reinen Vernunft (1. Aufl. 1781)

P

Band IV: Prolegomena

KpV

Band V: Kritik der praktischen Vernunft

KU

Band V: Kritik der Urteilskraft

HN Lo

Band XVI: Handschriftlicher Nachlass: Logik

HN Me

Band XVII: Handschriftlicher Nachlass: Metaphysik

Kant in italiano: CRP

Critica della ragion pura

CRPr

Critica della ragion pratica

CG

Critica del Giudizio

Prol

Prolegomeni ad ogni futura metafisica

Tertium Datur

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HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich, Werke in 20 Bänden. Auf der Grundlage der Werke von 1832-1845 neu edierte Ausgabe, Redaktion Eva Moldenhauer, Karl Markus Michel, Franfurt a. M., Suhrkamp, 1986. HW1 FS

Frühe Schriften

HW 2 JS

Jenaer Schriften

HW 3 PG

Phänomenologie des Geistes

HW 5 L I

Wissenschaft der Logik I

HW 6 L II

Wissenschaft der Logik II

HW 7 PR

Grundlinien der Philosophie des Rechts

HW 8 E I

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften I

HW 9 E II

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften II

HW 10 E III

Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften III

HW 15 A III

Vorlesungen über die Ästhetik III

HW 20 GP III Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie III HEGEL, Georg Wilhelm Friedrich, Gesammelte Werke. In Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, hrsg. von der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften, Hamburg, Felix Meiner, 1968ss. L 1812 Bd. 11 Wissenschaft der Logik. Erster Band. Die objektive Logik (1812/13) hrsg. von Friedrich Hogemann und Walter Jaeschke, 1978. JS Bd. 8 Jenaer Systementwürfe III, hrsg. von Rolf Peter Horstmann und Mitarbeit von Johann Heinrich Trede. Mit einem Beitrag «Die Chronologie der Manuskripte Hegels in den Bänden 4 bis 9» von Heinz Kimmerle, 1976.

Abbreviazioni 11

Hegel in italiano: Pr

I principi di Hegel

PSC

Primi scritti critici

Fen

Fenomenologia dello spirito

SL

Scienza della logica

ESF

Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio



ESF I, La scienza della logica ESF II, La filosofia della natura ESF III, La filosofia dello spirito

LSF

Lezioni sulla storia della filosofia

FSJ

Filosofia dello spirito jenese

E

Estetica

ST

Scritti teologici giovanili

FD

Lineamenti di filosofia del diritto

INTRODUZIONE: “IL TUTTO COME TRE E NON PIÙ COME DUE”

Da un punto di vista storico, la figura del terzo risale agli albori della filosofia occidentale e accompagna le prime problematizzazioni filosofiche rilevate dai filosofi greci. Il terzo qui compare come elemento costitutivo e imprescindibile del pensare dialettico, dia-logico, nella ricerca della verità che opera secondo la logica delle opposizioni. L’esplicitazione di questo significato dialettico-critico del terzo è rimasta per lo più disattesa, lasciata ai margini; e anche quando vi si dedica maggiore attenzione, ad esempio sollevando obiezioni ai procedimenti dualistici e al pensiero dicotomico, essa è di solito di breve respiro e in funzione di qualche altra questione, senza tematizzare cosa esattamente significhi il concetto del terzo in quanto tale. Il terzo in questo senso si è palesato più come termine o problema di sottofondo e meno come concetto articolato e messo in primo piano. Già nel Sofista di Platone viene espressa la necessità di un terzo elemento, un tertium quid. Discorrendo sul moto e sulla quiete Platone si chiede come questi possano trovarsi in opposizione dal momento che entrambi ugualmente “sono”. Se il moto è opposto alla quiete e se nello stesso tempo “il moto è” e “la quiete è”, allora entrambi hanno in comune la determinazione dell’essere, per il fatto che entrambi sono, e perciò non possono essere assolutamente contrari. Inoltre, nell’affermare: “il moto è” oppure “la quiete è”, questo “è” si manifesta come qualcos’altro rispetto ai due (l’essere né si muove né sta in quiete), dunque come un terzo elemento rispetto sia al moto sia alla quiete che li collega. Il terzo è dunque esplicitamente associato all’essere e alla sua funzione sinteticocopulativa1. In altri termini, i due concetti per quanto siano separati ed 1 “Ospite: E allora ponendo l’essere come un terzo elemento nell’anima, al di fuori di questi due, come se sotto di quello il moto e la stasi fossero congiunti, e comprendendo e considerando la loro comunanza con l’essere, tu dici che l’uno e l’altro ‘sono’ ? Teeteto: Rischiamo proprio di preannunciare un terzo elemento, quando diciamo che ‘moto e stasi sono’!” (Platone, Soph, 250b-c).

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Tertium Datur

eterogenei devono avere qualcosa in comune, per il fatto che entrambi “sono”. “Come dobbiamo pensare questo vostro essere? Forse come un terzo accanto a quei due, e dobbiamo porre, secondo voi, il tutto come tre e non più come due?” (Soph, 243e). Anche nel Parmenide possiamo rintracciare lo stagliarsi di un terzo e di un problema che sarà affrontato da Aristotele nella Metafisica (990b 17, 1039a2, 1059b), diventando poi noto come “problema del terzo uomo”. Questo problema si inserisce nel quadro della teoria platonica delle idee e si trova in prossimità di concetti quali metexis (partecipazione) e parousia (presenza), con i quali Platone spiega il rapporto tra la singolarità della cosa e la sua essenza universale. In breve, la cosa singolare riceve la sua qualità partecipando all’idea, cioè all’essenza universale: il problema nasce dallo scarto tra il mondo delle idee e il mondo delle apparenze, anche qualora si mostri la presenza delle idee nel mondo sensibile. La predicazione logica è pensata in virtù della metessi del soggetto all’essenza del predicato, per cui dire che una cosa è grande è come dire che questa cosa partecipa all’idea di grandezza. L’idea di grandezza rimane una, mentre esiste una molteplicità di cose grandi. Tuttavia, il molteplice e l’idea devono avere una nuova forma in comune, appunto un che di terzo. Questo terzo elemento poi deve avere qualcosa in comune sia con le cose sensibili sia con l’idea, per cui si prospetta un quarto elemento mediano che abbraccia tutti gli altri tre elementi. Il procedimento ottiene la forma di una regressione all’infinito, oppure nel lessico hegeliano, di una cattiva infinità. Il terzo che si prospetta in questo problema platonico-aristotelico è un terzo contabile, numerico, un elemento aggiunto che si moltiplica per la sua natura, lasciato alla forza inarrestabile del contare all’infinito. È ben noto come nel quarto libro della Metafisica (1011 b 23-24) Aristotele esprima il principio del tertium non datur, o meglio il principio del termine medio escluso: è impossibile che ci sia nulla di intermedio, alcun termine medio fra due contraddittori, ed è necessario affermare o negare solo uno dei contradditori di una e stessa cosa. Tra i vari tentativi di far presente il principio opposto, cioè il principio del medio incluso, è annoverabile proprio un passo del De Anima (423 a-b), dove si discorre sul tatto e sul medio: ogni cosa tangibile, dice Aristotele, è immersa in un medio che a sua volta non è tangibile. Questo medio ha una doppia funzione perché distingue i due dividendoli, individua gli estremi, ma anche li mette in contatto. In altri termini, l’analisi aristotelica fa vedere che per avere il (con)tatto tra i due ci vuole la mediazione di un terzo, ossia un medio che per certi versi fa parte dell’atto di toccare, ma a sua volta non è percepito. I due non si possono toccare senza un terzo, perché per ave-

Introduzione: “Il tutto come tre e non più come due”  15

re la differenza tra i due ci vuole un terzo2. Che per la differenza ci vogliano i tre è un’idea ricorrente in questo studio. Un altro interessante tentativo di concettualizzare la terzietà nell’ambito della filosofia antica è rappresentato da un concetto di Democrito: den3. Questo neologismo costituisce il tentativo di sottrarsi all’alternativa tra essere e nulla: den non è né essere né nulla, né l’Uno né il vuoto; è un che di terzo. Den nasce dalla negazione di hen (Uno) che si può esprimere sia come ouden sia come meden, ed è appunto il “denominatore comune” nei due modi di dire “nulla”, “niente”, “niuno”; cioè il termine den costituisce il resto comune delle due negazioni, l’esito né positivo né negativo di una doppia negazione (né l’uno né l’altro, né ente né niente, ma appunto Iente, das Ichts, the Othing, Ien, Išta), o meglio, esso è l’esito né positivo né negativo di una negazione e di una sottrazione. È appunto il terzo, la negazione dell’uno, dell’ente, ma anche negazione della negazione dell’uno che non è mero niente. Il termine democriteo den rappresenta un passo storico importante nella concettualizzazione di un’ontologia del terzo che vorrei delineare in questa ricerca. Tenendo presente questo sfondo storico e filosofico4, e senza entrare nel merito di tutta la storia della problematizzazione del terzo nei suoi diversi aspetti, questo lavoro si concentra anzitutto sulla costituzione moderna della figura del terzo, ossia sull’articolazione del terzo in riferimento alla soggettività moderna. Questo non vuol dire che i punti messi in risalto da Platone, 2 3

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Per queste riflessioni sul tangibile e l’intangibile in Aristotele, sui due e sul terzo, sono debitore alla lettura di Mladen Dolar e al suo libro Oficirji, služkinje in dimnikarji, Ljubljana, Analecta, 2010. Per ulteriori approfondimenti del concetto si veda: W. I. Matson, Democritus, Fragment 156, in “The Classical Quarterly”, 13, 1963, pp. 26-29; A. Badiou, B. Cassin, Il n’y pas de rapport sexuel, Paris, Fayard 2010, p. 81; M. Dolar, The Atom and the Void – From Democritus to Lacan, in “Filozofski vestnik”, Vol. XXXIV, Num. 2, 2013, pp. 11–26. Mladen Dolar interpreta den come una mancata doppia negazione, come una sottrazione dalla negazione, dal non-essere, e dunque come un fallimento della negatività hegeliana. Per Slavoj Žižek questo curioso den è “meno di niente”, come indica il titolo del suo libro Less than Nothing, London-New York, Verso, 2012, p. 58ss (“more than something, less than nothing”, Ivi, p. 495). Uno dei tentativi più rappresentativi di ampliare la questione del terzo e del medio lungo tutta la storia della filosofia, è quello di Jan Van der Meulen che nel suo fondamentale studio sul medio infranto introduce il problema della sintesi pura, cioè dell’originaria unità di concetto, tempo e spazio come il problema fondamentale della filosofia occidentale – il problema che comunque solo con Kant sarà reso evidente e poi portato a compimento da Hegel. Cfr. J. Van der Meulen, Il medio infranto, Napoli, Morano, 1987.

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Aristotele o altri Greci perdano il loro valore. Anzi, possiamo notare che le stesse connotazioni messe in risalto dai Greci (l’universale, il particolare, l’essere, il nulla, il movimento, l’uno e il molteplice, il regresso all’infinito, negazione ecc.) emergono di nuovo, arricchite però di ulteriori sfaccettature in virtù del loro riferirsi alla soggettività moderna. Si parte dalla premessa che la modernità ha destituito il grande Terzo metafisico e trascendente per introdurre una sorta di terzo trascendentale, appartenente alla struttura soggettiva. Ad ogni modo, questo passaggio non è così lineare e univoco. Ciò che noi qui tratteremo come Terzo nella tradizione psicoanalitica contemporanea di matrice lacaniana corrisponde in effetti all’Altro5. Nella lunga tradizione della filosofia occidentale la funzione di questo grande Altro era svolta dalla trascendenza divina. Ciò che con la filosofia moderna man mano viene meno è il carattere esterno, esogeno, trascendente rispetto al soggetto di questa struttura ontologicamente determinante e costituente: l’Altro acquisisce sempre di più lo status di qualcosa che va presupposto da parte del soggetto, e smette di essere l’oggetto ultimo in cui si crede e di cui ci si fida6. In questo senso si può dire che con Kant il campo dell’Altro, ossia il presupposto ontologico del sapere e dell’ordine conoscibile, viene ricondotto alla soggettività trascendentale. Ciò che la struttura del grande Altro comunque mantiene è il suo carattere extra-ordinario: l’Altro appartiene a un altro ordine, è fuori dall’ordine esperienziale del contabile, per cui esso non viene semplicemente dopo il primo, non è un altro Uno, un altro successivo. L’ordine dell’Altro è diverso, estraneo, irriducibile (e difatti in Kant la soggettività trascendentale non appartiene all’ordine dell’esperienza e della natura, bensì a un altro registro, appunto al trascendentale). Se la figura del terzo viene presa in considerazione sulla scia di queste riflessioni, allora il terzo non si dà come elemento contabile, un elemento che semplicemente viene dopo i due. Il terzo non è un elemento aggiunto, 5

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L’Altro dell’ordine simbolico, il garante del senso, l’Altro come presupposizione della verità nel dialogo (il terzo del dialogo), in quanto l’Altro che è presupposto; anche l’Altro del linguaggio, l’Altro come l’ultimo destinatario che non si palesa nel dialogo, l’interlocutore assente – insomma, l’Altro come ciò che è presupposto, implicito e comune, originativo e costituente; l’Altro del potere, l’Altro della legge. Per tutti questi significati dell’Autre in Lacan si veda l’articolo di JacquesAlain Miller, Encyclopédie: article ‘Lacan, Jacques’ rédigé pour l’Encyclopédia Universalis, in “Ornicar?”, no. 24, 1981, p. 40. “Unlike other epochs, which could see their order based on God, nature, or established tradition, modernity had to conceive a way for itself to be self-grounding” (S. Lumsden, Deleuze and Hegel on the Limits of Self-Determined Subjectivity, in K. Houle, J. Vernon (a cura di), Hegel and Deleuze. Together Again for the First Time, Evanston, Northwestern Uni. Press, 2013, p. 138.

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ma piuttosto un eccesso, qualcosa di veramente altro che sfugge all’ordine e alla spartizione dell’esperienza. Quindi, il terzo dischiude la dimensione dell’Altro che non è riconducibile alla successione dell’uno dopo l’altro. E tutta la ricerca sul terzo parte dalla domanda principale come questa figura trascendentale, originaria ed extra-ordinaria determini e condizioni l’ordine della realtà e dell’esperienza senza veramente appartenere a essa, ossia, come il terzo sia incluso nella realtà senza appartenervici. In Hegel questa domanda principale diventa la domanda sull’origine della dualità e sul suo superamento: il terzo come origine dei due, come ciò che costituisce la dualità e la differenza e le trasfigura. La trattazione delle questioni salienti del pensiero kantiano e quello hegeliano mette in luce una figura del terzo come qualcosa di più rispetto ai due, ma non come elemento successivo da cui parte la progressione all’infinito; è piuttosto un più che si sottrae all’ordine della dualità e che allo stesso tempo ne è alla base. Sin dall’inizio della sua impostazione moderna, in primis con Cartesio, la soggettività era destinata a svilupparsi come una struttura triadica. Questo è ben presente nella prospettiva cartesiana, la quale, come ben sappiamo, propone il dualismo sia nella strutturazione ontologica del mondo (res cogitans e res extensa) sia nella strutturazione dell’Io (anima e corpo). Il dualismo cartesiano, però, è difficilmente sostenibile senza un terzo che interviene per procurare l’identità del soggetto e dell’oggetto, nonché per far funzionare la stessa soggettività, scissa in due. Questo ruolo in Cartesio è svolto dalla figura di Dio, che viene introdotta nella terza delle Meditazioni sulla filosofia prima 7 come garante ontologico della verità, che, da un punto di vista epistemologico, deve rendere possibile il passaggio dall’Io penso all’Io so, cioè dalla auto-certezza soggettiva alla certezza veritativa. Questo Terzo nell’ordine ontologico deve essere un vero Primo. Il principio dell’autocoscienza, qualora sia posto a partire da una visione dualistica, si apre necessariamente verso il terzo termine che deve mediare e colmare lo scarto generato dal modo in cui la stessa autocoscienza viene impostata. La storia moderna della soggettività è contrassegnata da questa tentazione dualistica, nonché dai diversi tentativi del suo superamento. Avendo in mente questo sfondo storico, sia Kant sia Hegel cercano di configurare la soggettività a partire da un bisogno del terzo, andando oltre il dualismo cartesiano. In Kant questa problematica è articolata sotto il progetto della sintesi trascendentale. In altri termini, Kant non necessita più di un ter7

Cfr. R. Cartesio, Meditazioni sulla filosofia prima, a cura di G. Brianese, Milano, Mursia, 1994.

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zo trascendente, superiore (come Dio)8, per risolvere il problema dell’identità di soggetto e oggetto, ma è la stessa sintesi, intesa come struttura a priori del soggetto, ciò che ora risponde all’esigenza del terzo termine. Ovvero, detto altrimenti, con Kant abbiamo un’operazione di interiorizzazione del terzo (dal terzo trascendente al terzo trascendentale), in quanto principio della stessa soggettività fondata sull’unità trascendentale dell’appercezione. Ciò che in Kant viene esplicitamente chiamato in causa riguardo alla figura del terzo (das Dritte) è l’immaginazione che produce gli schemi – gli elementi necessari per applicare le categorie dell’intelletto alla sensibilità. La problematica messa a fuoco in questo lavoro riguarda soprattutto le conseguenze di un nuovo scarto generato dal soggetto trascendentale kantiano. La posizione kantiana viene così significativamente caratterizzata da una continua riproduzione delle dualità che pongono sempre nuove esigenze di sintesi. L’autocoscienza con Kant è diventata il luogo del terzo, la funzione stessa della sintesi, enunciando il principio del terzo incluso (tertium datur) proprio della stessa struttura della soggettività e fondativo dell’oggettività. L’intento che ci si propone qui è dimostrare come l’impostazione kantiana non supporti totalmente l’inclusione del terzo, proprio per la sua fondazione prettamente soggettiva. Il terzo incluso in Kant passa così facilmente nel terzo escluso facendo riemergere la dualità. Di conseguenza, il soggetto kantiano rimane aperto nei confronti di una esteriorità che gli rimane trascendente, ossia irraggiungibile, e svolge però una funzione regolativa (als ob). Un’altra conseguenza del modo kantiano di impostare il terzo, e dunque la soggettività in generale, è la stessa evidenziata da Aristotele nel problema del terzo uomo, e cioè la cattiva infinità. Hegel continua sulla via imboccata da Kant, traendo però altre conclusioni. Potrebbe sembrare che dopo il trascendentalismo di Kant, l’idealismo assoluto, il metodo speculativo e l’ontologia dello spirito hegeliani rappresentino un passo indietro, un ritorno alla vecchia metafisica che di nuovo necessita di un terzo trascendente, esteriore, un’entità sovra-individuale (che non si chiama più Dio, ma Spirito). Contrariamente a questa interpretazione, si suggerisce che Hegel è un pensatore dell’immanenza radicale9, e che anche il terzo (inteso come principio di sintesi) va inserito in 8 9

Lasciamo da parte ora la questione come il postulato della ragion pratica sull’esistenza di Dio in realtà costituisca il ritorno dalla finestra di ciò che Kant voleva cacciare dalla porta. Su Hegel come pensatore dell’immanenza dell’esperienza (nella Fenomenologia) e dell’immanenza del pensiero (nella Logica) cfr. K. Brinkmann, Idealism Without Limits. Hegel and the Problem of Objectivity, Dordrecht, Springer, 2011, pp. 71-77.

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questo orizzonte di immanenza: all’interno di tale orizzonte il trascendente è concepibile come auto-riflessione dell’immanenza stessa. Il terzo assume il significato dello spirito; il suo carattere è fondamentalmente spirituale. Dunque, anche per Hegel, il terzo è un principio legato strettamente alla problematica dell’autocoscienza, che egli risolve “allargando” il suo concetto, e superando l’accezione soggettivistica dell’autocoscienza (lo spirito è quel concetto hegeliano che appunto significa questo allargamento e l’universalizzazione dell’autocoscienza10). Nella vita naturale non c’è nessun terzo termine e nessuna intersoggettività. Solo il sorgere dell’autocoscienza apre la prospettiva del terzo, dunque quella della mediazione e di un rapporto originario con l’alterità, tale per cui diviene possibile che l’autocoscienza venga pensata in termini di intersoggettività. Sia Kant sia Hegel, anche se in maniera diversa, cercano di evitare le derive dualistiche, prospettando una concettualizzazione del terzo all’interno dell’orizzonte dell’autocoscienza. L’intento del percorso qui proposto è quello di avanzare l’idea dell’autocoscienza come orizzonte originario del terzo. Il terzo però non ha soltanto il tenore soggettivo, nel senso del suo radicarsi nell’autocoscienza dell’Io, ma assume anche un ruolo centrale nella costituzione dell’oggetto, dell’esperienza e del reale: questo è nient’altro che il lascito capitale del trascendentalismo kantiano. Così si compie il circolo tracciato dalla soggettività moderna: il terzo nasce dalle esigenze della stessa autocoscienza di costituirsi come principio del mondo, come quell’elemento sintetico-copulativo che fonda la presenza del 10 Ciò non va inteso come lo intende R. C. Solomon, cioè come se lo spirito hegeliano fosse solo un’universalizzazione dell’Io trascendentale kantiano: “l’universalizzazione” dell’autocoscienza va qui intesa come superamento della sua accezione soggettivistico-coscienziale kantiana. Cfr. R. C. Solomon, In the Spirit of Hegel: A Study of G. W. F. Hegel’s Phenomenology of Spirit, New York and Oxford, Oxford University Press, 1983. Per una critica a Solomon si veda anche R. Stern, Hegel, Kant and the Structure of the Object, London, Routledge, 1990. Nel tentativo di allontanare l’idealismo soggettivo di Kant dall’idealismo assoluto di Hegel Stern però finisce col perdere la soggettività, fraintendendola, insistendo troppo sulla sostanza-forma universale che costituisce l’unità dell’oggetto. Il filo conduttore della mia ricerca, in realtà, tenta di evitare sia la prima che la seconda soluzione, riconoscendo lo scarto tra Kant e Hegel solo come appartenente al compimento hegeliano del paradigma inaugurato da Kant stesso. A tal proposito mi permetto di rinviare a S. Hrnjez, Kant’s Slumber and Hegel’s Ontological Gesture, in D. Jørgensen, G. Chiurazzi, S. Tinning (a cura di), The Experience of Truth — The Truth of Experience: Between Phenomenology and Hermeneutics, Newcastle, Cambridge Scholars Publishing, 2015, pp. 44-59.

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soggetto nel mondo e il suo rapporto con l’oggettività. Kant e Hegel in linea di massima condividono questa strategia, anche se articolano risposte diverse e per certi versi opposte. Dunque, come è appena stato messo in evidenza, il problema della sintesi va indagato in connessione alla tematica della soggettività moderna, basata sul principio dell’autocoscienza. In Cartesio però l’unità tra il soggetto e l’oggetto non è ancora pensata come sintesi. La soluzione cartesiana è infine fondazionalista, perché ricorre al Grande Altro trascendente e divino come fondamento di due sostanze. È solo con Kant che la problematica della sintesi acquista pieno spessore. La questione del terzo in Kant, come si vedrà, viene infatti introdotta esplicitamente riguardo alla possibilità dei giudizi sintetici. La ricerca kantiana intorno alla terzietà della sintesi si svilupperà su più livelli, come dottrina delle tre sintesi (nella prima edizione della Critica della ragion pura), come distinzione tra sintesi intellettuale e sintesi figurata (nella seconda edizione) e culminerà con la dottrina dello schematismo. Va notato che la funzione sintetico-copulativa del terzo sarà sostanzialmente condivisa tra le due facoltà (appercezione e immaginazione). La conclusione a cui intende pervenire la nostra indagine è che in Kant la sintesi si configura come un collegamento attraverso il terzo, come termine medio, o meglio, come anello di concatenazione tra due campi separati. In Hegel, però, sarà problematizzato il tentativo stesso di parlare del terzo come una sintesi. Ammesso il caso in cui di sintesi si tratti, questa sarà piuttosto articolata come una sintesi immanente, che non concerne soltanto la struttura soggettiva con le sue facoltà conoscitive, ma coinvolge piuttosto una categorialità ontologica. Perciò il paradigma della sintesi immanente è la categoria del divenire che unisce l’essere e il nulla, ma non come due entità esteriori che si escludono reciprocamente, bensì come momenti propri che si co-implicano, passando l’uno nell’altro. La dialettica del divenire tratta l’essere che passa nel nulla, e viceversa, il che cambia totalmente lo statuto del terzo che non è più estrinseco, ma fa parte dei membri della relazione: ogni membro della relazione è in sé l’unità con l’altro da sé. La sintesi che produce l’unità opera, per così dire, dall’interno, come il passare dell’uno nell’altro. La sintesi immanente supera il dualismo lasciando una certa dualità dei membri, ma non più come estrinseci, bensì come già passati nel proprio opposto dentro di sé. Così tutti gli opposti che si ritenevano fissi si ricostituiscono come il proprio passare nell’altro, come Übergang entro di sé attraverso la relazione con l’altro. È anche qui che emerge la differenza tra Kant e Hegel: nel primo il passaggio è pensato soprattutto come passaggio dall’uno all’altro dei due eterogenei, che rimangono separati e non mutati, mentre nel

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secondo si tratta del passaggio dell’uno nell’altro dei due opposti; la sintesi immanente è così una trasfigurazione dei membri della relazione e il suo paradigma è infatti sostanza che si manifesta (anche) come soggetto. Per queste ragioni, intendiamo mettere in questione la solita classificazione manualistica di Hegel come pensatore della sintesi. Se Kant è chiaramente un pensatore della sintesi, con Hegel invece abbiamo in atto il pensiero della mediazione: discorrendo a rigore, la sintesi tende a escludere la mediazione, anche se con questa condivide lo stesso terreno, appunto il terreno del terzo. In Kant la mediazione si declina nella mediazione determinante (funzionale alla costituzione dell’esperienza), che in senso stretto possiamo identificare con la sintesi, e nella mediazione riflettente (funzionale alla riflessione su ciò che rimane indeterminato). In entrambi i casi il terzo viene pensato come Mittelglied (l’occorenza del termine si nota soprattutto nella Critica del Giudizio, mentre la Critica della Ragion Pura registra piuttosto il termine das Dritte, il terzo), cioè come termine medio, anello di concatenamento che interviene per stabilire una continuità. Il ruolo di questo termine intermedio si può illustrare con una metafora, utilizzata da Kant stesso: un ponte che si erige sopra l’abisso per rendere possibile il passaggio da una sponda all’altra. L’immagine del ponte11 è stata utilizzata da Kant nel contesto della Critica del Giudizio e del suo progetto di unire la natura con la libertà. D’altra parte, anche le altre immagini, le metafore nautiche e geografiche ed esempi spaziali12, a cui Kant ricorre spesso, testimoniano il carattere fondamentale del suo pensiero: tutta la critica kantiana si può ricondurre a una Grenzbestimmung, una determinazione dei confini che vuole delimitare la topografia della ragione umana, il suo spazio legittimo. Geografo della ragione umana13, Kant cerca la Cfr. Gaetano Chiurazzi, Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. IX-XI. 12 Cfr. KrV, p. 496ss; CRP, p. 1075ss (B787); poi nella prima edizione della Critica sul “nihil ulterius” e l’immagine dell’oceano senza sponde, cfr. KrV 1, p. 247; CRP, p. 1305 (A396). A tal proposito si veda anche il testo Che cosa significa orientarsi nel pensiero? e anche una nota manoscritta in cui si dice che dopo la geografia delle terre della ragione bisogna prendere in considerazione anche la loro storia universale (HN Me, p. 559, R 4458). Per una contestualizzazione delle metafore kantiane rimandiamo a G. Garelli, L’oceano della ragione: metafore kantiane, Milano, CUEM, 1996. Si veda anche H. Hohenneger, Kant geografo della ragione, in P. Totaro, L. Valente (a cura di), Sphaera. Forma immagine e metafora tra medioevo ed età moderna, Firenze, Olschki, 2012, pp. 411- 428. 13 Kant infatti usa questa descrizione per Hume (Cfr. KrV, p. 496; CRP, p. 1075; B788). Il primo a usare la stessa descrizione per Kant è stato Cassirer (Cfr. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, trad. it. di G. A. De Toni, Firenze, La nuova Italia, 1977, p. 52). 11

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delimitazione completa della terra, cioè della sua superficie, il che non si conosce empiricamente, ma tramite una sorta di topologia trascendentale che determina i luoghi confinando l’orizzonte ed escludendo quegli spazi vuoti o abissi che vanno colmati. Potremmo anche richiamare le righe iniziali che aprono il capitolo sul fenomeno e noumeno con una metafora sull’intelletto puro come un’isola con i confini ben protetti e circondata da un oceano vasto e tempestoso14, in cui il navigante (la ragione umana) può vagabondare ed errare illudendosi di aver trovato dei nuovi territori, nuove isole della verità, mentre si tratta soltanto di parvenze (idee trascendentali). La scienza kantiana si presta, dunque, a fornire una mappa di navigazione con i territori sicuri, non soltanto per evitare il naufragio della ragione, ma anche per avere un terreno su cui erigere con sicurezza l’edificio del sapere umano. Il punto è che il navigante (l’uso empirico dell’intelletto), prima di avventurarsi nell’oceano, deve diventare anche cartografo (la critica della ragione umana), e la “mappa nautica” deve essere disegnata sulla base della riflessione sulle proprie condizioni di possibilità di navigare (cioè di conoscere). E siccome la riflessione, come scrive Kant, “non ha a che fare con gli oggetti stessi”15, ma con il rapporto tra le rappresentazioni degli oggetti e le fonti soggettive del conoscere, il disegno della mappa nautica si profila come una disciplina topologica in cui non ci accingiamo a descrivere come stanno le cose, ma a regolamentare e prescrivere il confine tra il possibile e l’impossibile, che garantisce la continuità e la regolarità del sapere. La topologia va oltre la topografia, perché introduce il momento della legge, della norma, della giustificazione (quid iuris). Questa disciplina non è che la topica trascendentale di cui Kant parla nella Nota all’anfibolia dei concetti della riflessione: riflessione che determina il luogo al quale appartengono le rappresentazioni degli oggetti16. Questa riflessione su cui si basa la topica trascendentale è un dovere, dice Kant17 – e, possiamo aggiungere, un imperativo categorico della stessa critica. La topica dunque rende eterogenea la conoscenza umana perché distingue i luoghi, cioè le diverse posizioni (le sorgenti del conoscere) in cui rientrano i concetti. Il terzo, che mira a stabilire una connessione tra due luoghi trascendentali (due isole), non è nient’altro che il terzo topologico – una sorta di copula che mette insieme due zone, due aree del territorio, tenendole ciò nonostante separate. Il terzo topologico funziona come un pon14 15 16 17

Cfr. KrV, p. 202; CRP, p. 451 (B292). KrV, p. 214; CRP, p. 485 (B316). KrV, p. 220; CRP, p. 495 (B325). KrV, p. 216; CRP, p. 487 (B319).

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te e implica una correlazione tra separatezza e unificazione, facendo sì che la prima “appare più come cosa della natura”, e l’ultima “più come cosa dell’uomo”18. La separatezza è un punto di partenza dato, mentre ciò che bisogna dimostrare è come nella situazione di questa separazione viene costituita l’unità dell’esperienza e l’unita degli oggetti dell’esperienza. La risposta kantiana va cercata nella sua teoria dei giudizi sintetici a priori. Il terzo si può dunque ricondurre a quella “curvatura della superficie”19 che ci aiuta a trovare il raggio della sfera della ragione per delimitare il territorio dell’esperienza possibile. La domanda hegeliana da porre alla topologia kantiana sarebbe: ma è possibile fare una mappa di navigazione con le regole di orientamento prima della navigazione? Il terzo portato avanti da Hegel, denominato il terzo speculativo20 in questa ricerca, discorrendo a rigore, non è un termine intermediario, ma è la stessa relazione dell’identità nella differenza, secondo la quale ogni membro della relazione è l’identità di sé e del proprio altro. Così, sia l’uno sia l’altro è già il medio (Mitte) con la funzione di mettersi in relazione con il proprio altro. Gli estremi sono in se stessi uniti con il proprio altro, di modo che essi stessi diventino il terzo. L’intervento di un terzo esterno così appare superfluo. A differenza di Kant, in cui il terzo (come il ponte) rimane sempre fisso, stabile e separato da ciò che connette, in Hegel abbiamo una sorta di dinamicizzazione e di immanentizzazione del terzo. La risoluzione hegeliana del problema epocale dell’Entzweiung (scissione, separazione), dunque, non distrugge i due, la dualità in quanto tale, e non fa dileguare lo spazio tra i due sovrapponendo un’unità superiore 18 Ci avvaliamo qui di questa ispirante descrizione di Simmel, cfr. G. Simmel, Il ponte e la porta, in Id., Saggi di estetica, a cura di M. Cacciari, Padova, Liviana, 1970, p. 6. 19 Cfr. KRV, p. 497; CRP, p. 1079 (B790). 20 Nella Filosofia del diritto, nel paragrafo in cui spiega la singolarità e la concretezza della volontà, Hegel definisce esplicitamente il terzo come ciò che è speculativo e vero: “ma il terzo, il vero e speculativo (das Wahre und Spekulative) (e ogni verità, in quanto è compresa, può essere pensata soltanto speculativamente) è quello, nel quale ricusa di consentire l’intelletto, che chiama sempre inintelligibile il concetto” (HW 7 PR, p. 55; FD, p. 31, §7). E poi continua con gli appunti: “Dies dritte ist nicht Abstraktion, sondern konkret, gesunder Menschenverstand, und Spekulation. Absolute Form – allenthalben und überall – Göttlicher Rhythmus der Welt und Methode des absoluten Erkennens [...] Dieses Dritte – ßß ist erst das Wahrhafte so, daß jene Momente selbst es in sich haben – das Allgemeine – Aufheben der Besonderungen – ist ebenso Rückkehr in sich – aber unbestimmte – und das Besondere – Bestimmen -ist ebenso Subjektivität – Aufheben des Abstrakten – das Anderssein gegen Bestimmtheit” (Ivi, pp. 56-57).

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che schiaccia e soffoca la differenza. Si tratta piuttosto di un atto di riconfigurazione in cui lo spazio mediano è pensato come relazione viva e intrinseca ai membri della relazione, come movimento nel tempo. Questi membri della relazione non sono nulla al di fuori, e nemmeno semplicemente dentro il medio che li divide e unisce allo stesso momento, bensì essi stessi sono questo spazio dinamicizzato e immanentizzato. Per questo, il terzo in Hegel ha carattere di medio (die Mitte), inteso come totalità, e non semplicemente come un termine di congiunzione, un anello di anello di concatenazione (Mittelglied) da frapporre tra due estremi estrinseci. Il medio per di più non è un semplice contesto che mette insieme, al pari della totalità che non è un mero e semplice racchiudere in un’unità. Il medio come totalità significa il contesto della trasfigurazione di ciò che si trova nel medio. Perciò il modello del terzo in Hegel è piuttosto trasfigurativo, a differenza di quello kantiano che possiamo definire comunicativo (mettere in contatto, gettare i ponti, ecc). Ed ecco una delle tesi portanti di questo studio: l’esigenza del terzo in Kant e Hegel si sviluppa in due modelli diversi e secondo due paradigmi diversi: il paradigma della sintesi e comunicazione (Kant) e il paradigma della mediazione e trasfigurazione (Hegel). Questi due paradigmi comunque non si lasciano separare così facilmente perché condividono lo stesso sfondo ontologico e inoltre costituiscono la stessa tradizione filosofica. Dunque, tertium datur: sia per Kant sia per Hegel il terzo si deve dare. Per citare solo due esempi di cui ci occupiamo in questo libro: in Kant il terzo si deve dare come schema e come Giudizio, cioè come immaginazione in entrambi i casi, mentre in Hegel il terzo si deve dare come divenire. Però il necessario es gibt dello schema è diverso dal presentarsi del divenire. Secondo il modello comunicativo kantiano, lo schema, cioè l’immaginazione, deve mettere in contatto ciò che è e deve rimanere separato (concetto e intuizione). Questa funzione comunicativa nella prima Critica mette in atto l’applicazione delle categorie dell’intelletto ai dati della sensibilità, il che è il cardine del costituirsi dell’esperienza. La funzione comunicativa nella Critica del Giudizio invece non è funzionale all’applicazione, bensì alla riflessione allusiva su di un fondamento sovrasensibile di tutte le nostre facoltà. Nel caso di Hegel, dove non vale più il modello comunicativo, bensì quello trasfigurativo, il modo di darsi del terzo è concepito piuttosto come processo, allo stesso tempo riflettente e determinante, che non colma la separazione, ma la trasfigura, prendendo atto del fatto originario che in realtà non c’è nessuna separazione fissa, ma che gli elementi separati sono già uniti con il proprio opposto ed è la separazione il fenomeno derivato.

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In questo modo, prendendo in esame le prime categorie della logica hegeliana, l’essere, passando nel nulla (ossia, l’essere già passato nel nulla), dà luogo al divenire come alla propria verità. Il modo di darsi di questo terzo è piuttosto il modo di darsi di ciò che esso unisce, cioè il divenire è un modo di darsi dell’essere e del nulla che non sono fissi e separati. Il terzo è dunque un modo di darsi sia dell’uno sia dell’altro attraverso il quale entrambi risultano trasfigurati. È dunque il modo di darsi della loro dualità che non può essere più un’Entzweiung incolmabile. Inoltre, è la trasfigurazione della stessa separazione. Perciò si potrebbe dire che anche il divenire è un modo di darsi della stessa separazione tra l’essere e il nulla, che non togliendo la loro differenza (e dunque mantenendo una certa distinzione e divisione) riconosce se stessa nell’unità di ciò che è separato. Prendendo in considerazione tutte queste affermazioni riassuntive e sommarie diventa chiaro perché il percorso della nostra indagine si presenti innanzitutto come lavoro di concettualizzazione e poi di problematizzazione del terzo. Perciò verranno tematizzati quegli aspetti della filosofia kantiana e della filosofia hegeliana che ci permettono di identificare il terzo come figura per certi versi necessaria e implicita. L’idea generale che orienta tutto il lavoro è che l’identificazione, la concettualizzazione e la problematizzazione della figura del terzo possano servire come filo conduttore per riportare alla luce il carattere peculiare dei profili filosofici di Kant e di Hegel nonché per mettere in evidenza le loro differenze. Questo lavoro, insomma, costituisce un modo di mettere a confronto i due più alti esponenti filosofici della modernità21. Delineare un approccio possibile alla filosofia critica e alla filosofia speculativa, attraverso la figura del terzo, non vuol dire soltanto abbracciare e mettere insieme i loro diversi aspetti, che magari sotto un altro riguardo sembrerebbero separati, ma anche affrontare in nuce il modo proprio kantiano e hegeliano di filosofare e concepire le cose. La tesi interpretativa preliminare è che l’esigenza del terzo in entrambi si giustifica soprattutto come tentativo mirato a porre fine a ogni forma dualistica del pensiero, generata dalla fondazione assoluta della posizione del soggetto in Cartesio. La filosofia critica e l’idealismo della filosofia speculativa (in questo lavo21 Come sostiene Vincenzo Vitiello, nel confronto Hegel-Kant “è segnato per molti versi il senso della nostra comprensione della modernità. E con il senso della nostra comprensione anche il destino del nostro esser-moderni” (V. Vitiello, La riflessione tra cominciamento e giudizio, in Id. (a cura di), Hegel e la comprensione della modernità, Milano, Guerini, 1991, p. 84).

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ro però ricondotte soltanto alle loro figure primarie, cioè a Kant e a Hegel) si configurano come due risposte alla stessa esigenza del terzo. E il compito che si assegna è vedere come queste risposte si profilino nelle loro convergenze e differenze. A tal proposito la nostra indagine ottiene anche un significato più ampio: il lavoro di concettualizzazione e la storia dei concetti convergono con l’esperienza storica e politica di un’epoca, che affermando il nuovo principio del mondo – il principio della soggettività moderna e illuminista – ha prodotto nuove scissioni e contraddizioni, vivendo le lacerazioni sociali e la crisi della legittimazione di una forma di vita storica emergente22. Le riflessioni sul terzo si inseriscono così nel quadro di questo generale cambiamento storico-sociale, di cui l’idealismo tedesco è un’espressione paradigmatica, e ciò non soltanto come progetto del superamento delle scissioni (l’esigenza del terzo come esigenza di una nuova sintesi e mediazione epocale), ma anche come riconoscimento della radicalità e fondamentalità della crisi e per certi versi della necessità storica della disgregazione del vecchio mondo. I filoni filosofici attuali e oggi dominanti spesso ignorano totalmente o perdono di vista il nesso tra l’approccio storico-contestuale e quello (onto)logico-trascendentale, che la figura del terzo di fatto tiene insieme23. Questa disgiunzione dell’aspetto storico da quello ontologico è uno dei motivi per cui la figura del terzo al giorno di oggi potrebbe sembrare un problema spettrale, oggetto di una fissazione filosofica specialistica. Ma questa “spettralità” del terzo è un buon punto di partenza per la nostra ricerca, cosicché si potrebbe dire: uno spettro si aggira per la storia della filosofia – lo spettro del terzo. Inoltre, come motto potremmo usare il se22 Questo bisogno di dare una risposta filosofica alle contraddizioni e tensioni crescenti che prevalevano all’inizio dell’Ottocento e dominavano in generale il passaggio dal mondo feudale alla modernità capitalista è il segno particolare della dialettica hegeliana. Sulla logica hegeliana come logica del cambiamento e della trasformazione che non va separata dall’analisi del mondo storico attuale e dalla fenomenologia della sua crisi si veda A. Nuzzo, Dialectic as Logic of Transformative Processes, in K. Deligiorgi (a cura di), Hegel. New Directions, Chesham, Acumen, 2006, pp. 85-105. 23 Come esempi dell’approccio contrario, quell’approccio che contestualizza o addirittura deduce le categorie logiche dall’esperienza storica, individuiamo i lavori di D. Losurdo, Le categorie della rivoluzione nella filosofia classica tedesca, in Id. (a cura di), Rivoluzione francese e filosofia classica tedesca, Urbino, QuattroVenti (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), 1993, pp. 343-358; D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Napoli, La scuola di Pitagora, 2012; C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2012.

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guente adagio di Hegel tratto da Fede e sapere: “c’è un tertium, dice invece la filosofia, ed esiste una filosofia proprio perché c’è un tertium”24 Non possiamo glissare sul fatto che la trattazione del terzo cela un certo disagio o un imbarazzo, quello di occuparsi di un problema inesistente, perfino inventato o fittizio, oppure così astratto che può essere riempito con qualsiasi contenuto. Lungi da essere un problema-fantasma inventato per divenire un unico oggetto di riflessione, il terzo dato, ossia il terzo incluso, costituisce la via principale nel cuore della problematica ontologica che attraversa la storia della filosofia e che per di più ha il suo culmine nell’idealismo tedesco. Per questo il terzo incluso non si può ridurre alla pura e mera inversione del principio logico di contraddizione (tertium non datur) e di conseguenza non si tratta qui di un problema formalmente logico. Si è piuttosto cercato di delineare un profilo onto-logico del terzo partendo dalla convinzione che un’ontologia del tertium datur ci permetta di identificare una struttura sintetica e mediazionale dell’essere e del soggetto sotto il riguardo della loro temporalità. Le prime due sezioni del libro analizzano due configurazioni della figura del terzo, appunto il terzo topologico in Kant e il terzo speculativo in Hegel e cercano in tal modo di mettere in risalto i due modelli del pensiero: il modello comunicativo e il modello trasfigurativo. La parte conclusiva, la terza, esegue un confronto finale tra le posizioni di Kant e di Hegel attraverso i concetti di sintesi e di mediazione. In questo senso le loro stesse posizioni si manifestano come le posizioni del terzo (nel caso di Kant la filosofia critica come “il terzo” nei confronti del dualismo tra dogmatismo e scetticismo, e nel caso di Hegel l’idealismo speculativo come la terza posizione nei confronti della filosofia critica e della metafisica prekantiana25).

24 “Es gibt ein Drittes, sagt dagegen die Philosophie, und es ist dadurch Philosophie, daß ein Drittes ist“ (HW 2 JS, p. 411; PSC, p. 232). 25 Già qui però possiamo ravvisare una certa ambiguità del terzo hegeliano e della triplicità, che cela un quarto incluso: se teniamo conto delle tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività nell’Enciclopedia (metafisica, empirismo/filosofia critica, il sapere immediato) la posizione speculativa di Hegel dunque sarebbe la quarta posizione.

PARTE PRIMA: IL TERZO TOPOLOGICO

L’alienazione del soggetto, in Kant, è precisamente il suo essere lacerato dalla dualità delle forme che gli appartengono allo stesso titolo, forma della recettività e forma della spontaneità. (Gilles Deleuze, Cours Vincennes: 21/03/1978)

CAPITOLO I LA NECESSITÀ TRASCENDENTALE DI UN TERZO INTRASOGGETTIVO

1. Le due sorgenti della conoscenza e la necessità della loro unione Nel suo libro su Kant, Heidegger afferma che la Critica della ragion pura non ha primariamente a che fare con la teoria della conoscenza. Potrebbe sembrare un’affermazione azzardata ed eccessiva, la quale, oltre ad avere un significato polemico nei confronti del neokantismo, che vedeva in Kant un teorico della conoscenza, propone una tesi chiara, forse oggi meritevole di essere riproposta: il trascendentalismo critico di Kant mette al centro dell’indagine filosofica il problema ontologico della sintesi e della costituzione del mondo. Interrogarsi sulla possibilità dell’esperienza vuol dire anche porre la domanda sulla possibilità degli oggetti dell’esperienza, e cioè sulla possibilità della costituzione della natura. O, per dirlo in termini heideggeriani, la critica della ragion pura, se mai dovesse essere definita come teoria della conoscenza, dovrebbe essere la teoria della conoscenza ontologica che indaga “la possibilità della comprensione preliminare dell’essere, ovvero, in pari tempo, la costituzione dell’essere dell’ente”1. La verità trascendentale, la quale, secondo le parole di Kant, “precede e rende possibile ogni verità empirica”2, diventa in Heidegger la verità ontologica intesa come “disvelamento” della struttura dell’ente, grazie alla quale possiamo avere il rapporto con gli enti, cioè rappresentare gli oggetti dell’esperienza (la verità ontica). Il problema del terzo si inserisce qui proprio nel quadro ontologico della possibilità della costituzione soggettiva dell’oggettività. Porre la domanda sul terzo vuol dire porsi la domanda trascendentale intorno al perno su cui poggia l’identità tra soggetto e oggetto: è la domanda sulla verità ontologico-trascendentale, intesa come possibilità del rapporto del soggetto con l’oggetto. Com’è possibile il passaggio dal soggetto all’oggetto in termini 1 2

M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 24. KrV, p. 139; CRP, p. 313; B185.

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di una conoscenza veritativa? In Kant questa domanda (sostanzialmente la domanda sulla sintesi a priori) si traduce nella domanda sul rapporto tra le facoltà soggettive come sorgenti della conoscenza. Già nelle pagine introduttive della sua Critica della Ragion Pura, Kant ci dice che ci sono due sorgenti della conoscenza umana: sensibilità (Sinnlichkeit) e intelletto (Verstand), cioè la capacità di ricevere le rappresentazioni e la capacità di generare spontaneamente le rappresentazioni (ovvero di prescriverle agli oggetti dell’esperienza). Queste due sorgenti – o “tronchi”, come li chiama Kant – della conoscenza indicano le due modalità con cui il soggetto si rapporta all’oggetto. Attraverso la sensibilità gli oggetti sono dati, mentre con la spontaneità dell’intelletto gli oggetti sono pensati, cioè rappresentati secondo le categorie dell’intelletto. Prima di addentrarci nell’analisi di questa distinzione fondamentale per la gnoseologia e l’ontologia kantiane bisogna ribadire che questi due rami della conoscenza sono costitutivamente eterogenei. Sensibilità e intelletto sono separati in maniera tale da essere completamente autonomi. In altri termini, non c’è la possibilità di far derivare l’intelletto dalla sensibilità e viceversa. È impossibile ricondurre l’uno all’altra e perciò l’intelletto, avendo un approccio mediato agli oggetti, non può essere sensibile3, mentre la sensibilità non può essere concettuale, ovvero, non può essere in nessun caso non affetta dagli oggetti mantenendo sempre un rapporto immediato con la datità degli stessi (si può dire che questa datità vuol dire esattamente “esser-affetto da qualcosa di esterno”). Insomma, con questa divisione kantiana abbiamo due piani totalmente separati ed eterogenei per cui il soggetto si manifesta sin dall’inizio come una struttura eterogenea e scissa in sé. Questa dualità – la quale comunque non va definita come un dualismo – si ripete in tutti gli aspetti della filosofia kantiana (natura vs libertà, spontaneità vs recettività, noumeno vs fenomeno, ragione pratica vs ragione teoretica ecc.). Se, dunque, abbiamo davanti a noi una situazione di eterogeneità radicale, in cui i sensi non possono pensare e il pensiero non può intuire nulla, bisogna chiedere: come è possibile la conoscenza umana? E poi: su che cosa si basa l’unità del soggetto? Che cosa costituisce la soggettività kantiana in quanto tale? Con questa interrogazione non si pone nient’altro che la domanda sulla sintesi4, ossia la domanda su quel terzo, un 3

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“L’intelletto puro si distingue completamente, non soltanto da tutto ciò che è empirico, ma persino da ogni sensibilità. Esso è dunque un’unità che sussiste di per se stessa, a se stessa sufficiente, e non aumentabile mediante alcuna aggiunta che le sopravvenga dall’esterno” (KrV, p. 83; CRP, p. 187; B89-90). Scrive Kant a proposito della sintesi: “Essa è dunque la prima cosa a cui dobbiamo prestare attenzione, se vogliamo giudicare quale sia la prima origine della no-

La necessità trascendentale di un terzo intrasoggettivo  33

connettivo senza il quale l’esperienza non sarebbe possibile e il soggetto non funzionerebbe come una struttura unica e unitaria. Si può dire che tutta la ricerca trascendentale di Kant ruota intorno a questo termine medio che deve unire ciò che è sin dall’inizio scisso5. Kant stesso scrive che solo dall’unione di sensibilità e intelletto può scaturire la conoscenza6. Per di più, egli afferma che i due tronchi della conoscenza forse nascono da una radice comune, sebbene noi non sappiamo quale essa sia. È il problema da cui parte Heidegger nel suo celebre saggio su Kant sopra accennato, dicendo che già nominare due sorgenti della conoscenza allude al loro fondamento, cioè a un’unità originaria. Lo stesso Kant indica questa radice comune, senza, però, ulteriore elaborazione, dicendo solo che essa è “a noi sconosciuta”7. E proprio questo nodo kantiano, dove egli si è fermato, è per noi il punto di partenza, per cui bisogna chiederci se Kant non abbia forse già indicato una risposta riguardo a questa radice comune, astenendosi, però, da una conclusione esplicita. Qui il lavoro di Heidegger sui temi kantiani si dimostra di grande rilievo. Forse, con Heidegger, bisogna convenire che Kant non abbia tratto tutte le conseguenze dalla sua stessa posizione. Torniamo al problema del punto sintetico tra intelletto e sensibilità – il terzo, come emerge dalla lettura di Kant. Come abbiamo visto, da una parte abbiamo l’esperienza come già unificata e sintetizzata8, però composta da due elementi eterogenei, per cui dovremmo chiederci qual è il principio di questa unità dell’esperienza, mentre dall’altra parte ci si dovrebbe interrogare sull’unità più profonda e originaria della soggettività e della sua attività sintetica, dato che l’eterogeneità dell’esperienza origina dall’eterogeneità della soggettività stessa scissa in due e divisa nella funzione recettiva, sensibile, e in quella spontanea, concettuale. Basta dire che questi due piani, in cui viene collocato il problema, sono interconnessi nella misura in cui la questione dell’attività sintetica del soggetto è proprio ciò che garantisce l’unità dell’esperienza. Se si getta luce sul noccio-

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stra conoscenza” (KrV, p. 91; CRP, p. 203; B103). Alla fine della Critica della ragion pura Kant ritorna al tema dei due tronchi e della loro radice comune identificandone uno con la ragione: “ e cominceremo solo dal punto in cui la radice comune della nostra capacità conoscitiva si scinde biforcandosi in due tronchi, uno dei quali è la ragione” (KrV, p. 540; CRP, p. 1173; B863). Per un commento a questo brano, cfr. G. Garelli, La teleologia secondo Kant, Bologna, Pendragon, 1999, p. 94. KrV, p. 75; CRP, p. 169; B75-76. KrV, p. 46; CRP, p. 107; B29. Kant all’inizio definisce l’esperienza come un composto (Zusammengesetztes) di ciò che riceviamo e di ciò che è da noi prodotto (Cfr. KrV, p. 27; CRP, p. 69; B1).

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lo che costituisce la soggettività nella sua attività sintetica, allora anche il problema dell’origine dell’unità dell’esperienza sarà risolto. Questa è la conseguenza coerente dell’impostare il problema sul piano trascendentale. Si è visto che Kant, già dall’inizio, introduce il tema della possibilità della conoscenza empirica partendo dalla dualità che contrassegna il soggetto. Ma questa visione della dualità non è senza ambiguità e non senza un certo slittamento da parte di Kant stesso. Troviamo così i paragrafi nella Critica della ragion pura dove Kant parla di tre sorgenti della nostra conoscenza: il senso, la facoltà dell’immaginazione e l’appercezione9. Questa tripartizione si trova, e non per caso, soprattutto nella prima edizione della Critica, dove sembra che all’immaginazione venga attribuita una grande importanza o addirittura proprio quella centrale nel sistema delle fonti di conoscenza. Questa triade (senso, immaginazione, appercezione) è dunque in contraddizione con la tesi sul soggetto scisso ed eterogeneo in Kant? Oppure raddoppia solo, a sua volta, la dualità già esistente? La nostra posizione afferma che questa triade segnala che Kant era consapevole del fatto che un soggetto duale non è sostenibile. Essa è il segno della ricerca kantiana del terzo, di quel punto di concentrazione di tutta l’attività soggettiva10. Per comprenderlo meglio bisogna mettere in primo piano proprio quell’attività intermedia che viene introdotta in questa triade, cioè la facoltà dell’immaginazione. Bisogna anche porre la domanda sul rapporto che l’immaginazione stabilisce rispetto alle altre due fonti di conoscenza, cioè con il senso e l’appercezione. E qui, di nuovo, le riflessioni di Heidegger espresse nel suo saggio su Kant potrebbero essere feconde. Come egli spiega, l’immaginazione non gioca il ruolo del mediatore esterno, collegando i due campi separati (quello della sensibilità con quello dell’intelletto), ma piuttosto l’immaginazione potrebbe essere quella radice comune sconosciuta, soltanto accennata da Kant – l’immaginazione come l’attività di sintesi più originaria11. Per ora ci limitiamo a dire che questa valorizzazione dell’im9 Cfr. KrV 1, p. 74; CRP, p. 235; A94 e anche: KrV 1, p. 86; CRP, p. 1227; A115. 10 Sui raddoppiamenti kantiani che non si limitano soltanto alla dualità tra forma della recettività e forma della spontaneità, perché ciascuna di queste due forme è in sé duplice (spazio e tempo come forme della recettività e “io penso” e i concetti a priori come forme della spontaneità), cfr. G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, a cura di S. Palazzo, Milano-Udine, Mimesis, 2004, pp. 88-89. 11 Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 62, p. 114ss., p. 123. Dieter Henrich rivolge una critica alla riabilitazione heideggeriana dell’immaginazione in Kant: secondo Henrich, Kant rifiutava di identificare una delle facoltà con la presunta radice comune. L’immaginazione dunque non può essere né centrale né il principio primario e unificante del soggetto, perché un tale principio non è conoscibile né attingibile. L’unità del soggetto è soltanto teleologica. La cri-

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maginazione in Kant collega Heidegger a un altro pensatore classico, spesso visto come il suo antipode, cioè Hegel. Quello che il giovane Hegel vede nell’immaginazione è un atto originario della sintesi, l’identità assoluta, ma anche il fondamento della separazione originaria12. 2. Sintesi e immaginazione La più elementare definizione che si può dare alla facoltà dell’immaginazione è che essa faccia rappresentare (vorstellen) in intuizione un oggetto che a sua volta non è presente. Allora l’immaginazione è la facoltà di rendere presente ciò che in realtà è assente. Perciò, nel ragionamento empirico-psicologico, l’immaginazione è la riproduzione di un’immagine che era già posseduta, ricevuta attraverso la sensibilità. È la ri-attivazione della stessa recettività intuitiva. Ri-attivazione e ri-presentazione in quanto empiriche esulano dall’interesse di Kant; l’importanza dell’indagine kantiana sta proprio nella scoperta della valenza trascendentale di questa capacità riproduttiva e del suo ruolo nella conoscenza. Kant, perciò, teorizza un altro tipo di immaginazione, che deve avere un suo posto all’interno del sistema trascendentale, e lo chiama appunto immaginazione trascendentale, assegnando a quest’ultima il ruolo di produrre spontaneamente la rappresentazione di un oggetto senza la sua presenza empirica precedente nell’intuizione. Dunque, qui non si tratta più di una mera riproduzione di qualcosa di assente che era precedentemente presente, ma di una produzione nel presente di qualcosa che non è stato dato precedentemente attraverso i sensi, cioè produzione di una rappresentazione immediata di qualcosa che non è appreso attraverso il senso esterno. Già da queste parole si può concludere che l’intenzione di Kant è di delineare una facoltà che unisce in sé i caratteri prima nettamente distinti – cioè una facoltà che produce spontaneamente le rappretica di Henrich è comunque di carattere epistemologico e non tocca il fatto che nell’interpretazione di Heidegger l’immaginazione assume un significato ontologico, appunto ciò che egli chiama “sintesi ontologica”. Cfr. D. Henrich, The Unity of Reason. Essays on Kant’s Philosophy, London, Harvard Uni. Press, 1994, pp. 17-54. Si veda anche: J. Kneller, Kant and the Power of Imagination, Cambridge, Cambridge Uni. Press, 2007, pp. 95-121. Un contributo al dibattito intorno all’immaginazione in Kant e in Heidegger si trova anche in G. Böhme, H. Böhme, Das Andere der Vernunft: Zur Entwicklung von Rationalitätsstrukturen am Beispiel Kants, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1996. 12 Rimandiamo alle pagine successive che saranno dedicate al problema dell’immaginazione in Fede e sapere, cfr. p. 155ss. di questo lavoro.

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sentazioni, ma con le quali gli oggetti vengono non concettualizzati, bensì dati come nel caso di un’intuizione. Immaginazione deve essere comunque indipendente dalla sensibilità, avendo però in comune con essa una sorta di recettività. Questa caratterizzazione duplice e ambigua porterà Kant a giungere a conclusioni dissonanti, se teniamo conto della prima e della seconda edizione della Critica. Nella seconda edizione del 1787 Kant afferma che l’immaginazione produttiva è un effetto dell’intelletto sulla sensibilità13, cioè soltanto una funzione dell’attività sintetica dell’intelletto. Nella prima edizione del 1781, invece, il discorso è alquanto diverso. Nella prima edizione della Critica Kant mette in luce l’immaginazione come una facoltà fondamentale dell’animo umano e aggiunge: La sintesi in generale – come vedremo in seguito – è il semplice effetto della facoltà di immaginazione, di quella funzione cieca, sebbene indispensabile, dell’anima14, senza la quale non avremmo in assoluto alcuna conoscenza, ma della quale solo raramente siamo coscienti.15

Oltre all’aura quasi misteriosa e tenebrosa intorno all’immaginazione che si discerne in queste righe, bisogna trarre alcune conclusioni riguardanti la sintesi in generale. La sintesi, come si legge, non è una funzione esclusiva dell’intelletto. Anzi, Kant distingue questa sintesi originaria, appartenente all’immaginazione, dall’attività intellettuale che procura piuttosto un’unità concettuale. E scrive: “Ricondurre però questa sintesi ai concetti, è una funzione che spetta all’intelletto, ed è per mezzo di essa che l’intelletto ci procura, per la prima volta, la conoscenza, nel senso proprio di questo termine”16. Dunque, la sintesi dell’immaginazione non ci dà ancora nessuna conoscenza, sebbene, come si legge chiaramente, senza di essa non ci sarebbe nessuna conoscenza. In altri termini, l’immaginazione è un atto sintetico operante al livello preconcettuale, nel senso che collega e raccoglie le diverse rappresentazioni, come elementi per la conoscenza. Ma questo raccoglimento degli elementi non produce ancora la loro unità, per cui al livello dell’immaginazione non si può parlare della conoscenza empirica nel senso vero e proprio. Qui è implicita la differenza tra sintesi e unità. Per avere unità ci vuole il passaggio ai concetti dell’intelletto, cioè alle categorie che svolgono un’attività unificante di un altro e più alto livello. 13 Cfr. KrV, p. 120; CRP, p. 269; B152. 14 Da notare che Kant dice appunto Seele, la funzione dell’anima, Funktion der Seele, e non Gemüth cioè “animo”. 15 KrV 1, p. 64; CRP, p. 203; A78. 16 Ibidem.

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Kant, infatti, in seguito al testo sopra riportato, distingue tre condizioni di una conoscenza a priori di tutti gli oggetti. Al primo posto, vi deve essere dato il molteplice dell’intuizione pura. Poi, la sintesi di questo molteplice mediante la facoltà dell’immaginazione. E come terzo e ultimo grado intervengono i concetti “i quali danno unità a questa sintesi pura: essi consistono unicamente nella rappresentazione di quest’unità sintetica necessaria, e si basano sull’intelletto”17. Questo ultimo grado è terzo soltanto nell’ ordine cronologico esposto da Kant, però è chiaro qui come il vero luogo del terzo nel senso di termine medio sia occupato dall’immaginazione e dalla sua sintesi, definita tra l’altro come sintesi pura. Questa sintesi non vuol dire ancora unità, e perciò la funzione dei concetti puri dell’intelletto sta proprio nel dare “unità alla semplice sintesi di diverse rappresentazioni”18. Dare unità alla sintesi è quella funzione che contraddistingue l’intelletto da tutte le altre facoltà. Da ciò derivano, dunque, due conclusioni: 1. la sintesi stricto sensu non appartiene esclusivamente all’intelletto e per di più essa è necessaria al livello preconcettuale; 2. la sintesi preconcettuale è bensì necessaria, però non è sufficiente per avere la conoscenza empirica; per averla, invece, sono necessari i concetti puri dell’intelletto, cioè le categorie. Collegando queste due conclusioni possiamo capire meglio cosa intende Kant quando scrive che “la logica trascendentale, invece, insegna a ricondurre a concetti non tanto le rappresentazioni, quanto la sintesi pura delle rappresentazioni”19. Per portare le rappresentazioni sotto il dominio delle categorie bisogna che queste rappresentazioni siano già state elaborate e sintetizzate tramite l’immaginazione. Dunque, tra il concetto e una semplice rappresentazione dei sensi ci vuole un termine medio, un terzo che a sua volta non è nessuna rappresentazione, bensì un’attività, qualcosa operante ed efficiente, la sintesi pura. Il discorso sull’immaginazione va collocato proprio qui, nel quadro della sintesi pura preconcettuale. Le tre suddette condizioni che servono “per poter giungere alla conoscenza di un oggetto” seguono in qualche misura20 un’altra tripartizione delle facoltà che Kant espone nella stessa nota in cui parla anche delle tre sorgenti originarie della conoscenza (senso, immaginazione, appercezione)21. Queste tre facoltà che corrispondono alle tre sorgenti 17 18 19 20

KrV 1, p. 65; CRP, p. 205; A79. KrV, p. 92; CRP, p. 205; B105. KrV, p. 92; CRP, p. 205; B104. Sulle tre tavole delle sorgenti soggettive del conoscere si veda P. Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, Torino, Taylor, 1961, p. 146. 21 Cfr. KrV 1, p. 74; CRP, p. 235; A94.

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sono: 1) la sinossi 2) la sintesi 3) l’unità. La sinossi è un atto di unificazione e congiunzione a priori del molteplice mediante il senso. La sintesi è un atto di immaginazione, come abbiamo visto, che interviene dopo la sinossi che rappresenta l’“unificazione preliminare” al piano della sensibilità. L’unità, invece, si rifà alla sintesi dell’immaginazione e avviene mediante l’appercezione originaria. È chiaro come qui Kant attribuisca il termine “sintesi” soltanto all’immaginazione, mentre al senso e all’intelletto (oppure appercezione) sono assegnati gli altri termini che indicano un’attività di congiunzione. Questa scelta terminologica nella tripartizione kantiana conferma la tesi riportata precedentemente, per cui la sintesi in generale è il semplice effetto della facoltà dell’immaginazione. Da ciò si può giungere alla conclusione che tutte le altre attività che Kant definisce sintetiche, in effetti, possono essere riportate all’immaginazione in quanto facoltà della sintesi originaria. È questa la strada per garantire l’autonomia e la centralità dell’immaginazione. Nei brani della prima edizione del 1781 (A96-A130), Kant propone la triplice sintesi: la sintesi dell’apprensione nell’intuizione, la sintesi della riproduzione nell’immaginazione e la sintesi della ricognizione nel concetto. Ci sono, insomma, tre operazioni sintetiche (apprensione, riproduzione, ricognizione) che si effettuano su tre piani distinti (intuizione, immaginazione, concetto). Il punto di partenza è sempre il molteplice, il presupposto dello stato iniziale del disordine sensoriale, una Rhapsodie von Wahrnehmungen (rapsodia delle percezioni), come scrive lo stesso Kant. Questo molteplice sensoriale serve per dimostrare l’esigenza della sintesi, cioè per spiegare i presupposti della possibilità di conoscenza di un oggetto dell’esperienza possibile. L’esperienza umana è sin dall’inizio sintetizzata, e se vogliamo indagare le condizioni della sua possibilità non possiamo prescindere dalla sintesi in quanto operazione fondamentale e costitutiva del soggetto. Dunque, anche il molteplice va inserito in questo quadro: il molteplice è perciò qualcosa di pre-esperienziale (in quanto presupposto del “non-sintetizzato”) e dal punto di vista kantiano serve proprio come presupposto su cui si fonda l’esigenza della sintesi. Nell’intuizione abbiamo a che fare con il flusso delle varie sensazioni. Questo molteplice, scrive Kant, “non potrebbe essere rappresentato come tale se l’animo non distinguesse il tempo nella successione delle impressioni”22. Dunque, anche il molteplice si costituisce per certi versi nel soggetto, in quanto risultato di una distinzione temporale. Il molteplice non esiste prima del soggetto, o almeno non esiste come qualcosa per questo 22 KrV 1, p. 77; CRP, p. 1207; A99.

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soggetto; esso è soltanto l’altro lato dell’attività sintetica del soggetto, ossia, come già detto, il molteplice è un presupposto ontologico che serve per sorreggere tutta la costruzione trascendentale della sintesi. Non ha senso parlare del processo di sintesi se non si presuppone l’esistenza di qualcosa di disgregato e smembrato da sintetizzare. Ma quello che Kant intende dire è che anche questo molteplice esiste come molteplice per un soggetto soltanto in virtù della sintesi di questo soggetto. Perciò non è soltanto la sintesi che presuppone il molteplice, ma anche per avere il molteplice ci vuole la sintesi. Il molteplice è strategicamente presupposto come il punto zero della sintesi, ma per certi versi esso è ontologicamente impossibile senza sintesi, non rappresentabile in quanto tale e, in quanto irrappresentabile, ontologicamente parlando, ha uno status particolare23. Ogni intuizione contiene il molteplice, ma sempre quel molteplice che è unificato e che fa parte di un’unica rappresentazione. Quest’unificazione del molteplice ha il carattere di essere “qui e ora”, cioè è spazio-temporalmente determinata. L’intuizione, come un’unità sensibile, occupa un istante, corrisponde a un’unità temporale minima. L’unificazione che passa dal molteplice, raccogliendolo, all’unità dell’intuizione è opera dell’apprensione, cioè della sintesi dell’apprensione. Anche nella seconda edizione, la cosiddetta edizione B, del 1787, Kant definisce la sintesi dell’apprensione come “quella composizione del molteplice in un’intuizione empirica, per cui diviene possibile la percezione, e cioè la coscienza empirica di quell’intuizione (come fenomeno)”24. Non ci sarebbe stata alcuna rappresentazione, né alcuna cognizione senza questa sintesi originaria e rudimentale al livello delle intuizioni, per mezzo della quale l’intuizione ottiene un’unità originaria che, accompagnata dalla coscienza, si costituisce come percezione, come coscienza empirica. Sarebbe proficuo segnalare qui due punti importanti: la necessità della sintesi che non è concettuale e che riguarda l’intuizione pura, e la ne23

Non è che qui emerge un’inaspettata affinità tra due concezioni kantiane, l’una del molteplice e l’altra della cosa in sé? Anche la cosa in sé è qualcosa che sta fuori dell’esperienza, ma che è funzionale a essa. È un elemento esterno che ha una posizione ontologicamente particolare: essa non si può conoscere, ma si deve presupporre per la sintesi della conoscenza. Il molteplice e la cosa in sé sembrano occupare dei posti esterni rispetto all’ordine dell’esperienza, situati su due lati opposti: il molteplice come qualcosa di pre-esperienziale, che si costituisce però soltanto a partire da una sintesi, e dunque esiste sempre per un soggetto, e la cosa in sé come qualcosa di extra-esperienziale che sta fuori da ogni relazionalità possibile con qualche soggetto. Essi sono i due presupposti ontologici che sorreggono tutto l’edificio della critica kantiana. 24 KrV, p. 124; CRP, p. 279; B160.

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cessità della dimensione temporale che viene introdotta. È importante vedere, quindi, in che modo l’unità temporale della presenza di qualcosa, qui e in questo istante, sia legata alla stessa possibilità di costituire, cioè di sintetizzare la prima rappresentazione sensibile. La domanda che si impone e a cui bisogna tornare con insistenza è se l’orizzonte temporale, pensato nell’unità delle sue tre dimensioni, non sia la fondazione trascendentale e ultima di ogni sintesi in generale. La sintesi non è pensabile se non come un intervento temporale. L’intuizione presa isolatamente per se stessa, cioè soltanto come mera recettività, non può procurare un’unica rappresentazione – e neanche il molteplice come tale – senza intervento di una sintesi. E, appunto, questa sintesi a priori e pura viene definita da Kant l’apprensione (Apprehension). Riguardo alla pura sintesi dell’apprensione, la quale va comunque distinta dall’apprensione empirica, bisogna dire che essa rende possibile la rappresentazione a priori dello spazio e del tempo. Qui la sintesi dell’apprensione, detta pura, non produce soltanto il molteplice per un soggetto, ma anche le rappresentazioni dello spazio e del tempo25. Queste conclusioni si allacciano ad alcuni principi dell’estetica trascendentale che riguardano la cosiddetta realtà empirica delle forme della sensibilità: tempo e spazio sono reali, anche se questa realtà non gli appartiene in sé come se essi fossero delle cose. Tempo e spazio, come – Kant lo ripete più volte – due rappresentazioni, cioè le intuizioni pure, sono oggettivi e reali nel senso relazionale, poiché essi si riferiscono necessariamente agli oggetti dei nostri sensi in quanto loro condizioni della possibilità. La realtà di tempo e spazio è dunque tratta da un rapporto26 che essi hanno con gli oggetti dell’esperienza in quanto questi oggetti sono determinati anche da queste stesse forme soggettive della sensibilità. Il tempo e lo spazio ottengono la realtà attraverso l’effetto di un condizionamento, cioè attraverso il loro effetto sui fenomeni dell’esperienza in quanto questi necessariamente devono stare sotto le condizioni di sensibilità. Da ciò si capisce chiaramente perché queste intuizioni pure, spazio e tempo, devono anch’esse essere prodotte attraverso una sintesi, cioè attraverso la rappresentazione di un fenomeno. In tal modo viene confermata, inoltre, l’i25 Cfr. KrV 1, p. 77; CRP, p. 1209; A99-100. 26 Qui bisogna tener presente anche i passi dell’Estetica trascendentale in cui si dice che l’intuizione non contiene altro che rapporti. Sia il senso esterno (spazio) che il senso interno (tempo) possono contenere soltanto il rapporto di un oggetto con il soggetto; cfr. KrV, p. 70; CRP, p. 157 (B67). Per un’analisi approfondita di questi passi kantiani si veda M. Todorović, O jednoj Kantovoj reči, in “Arhe”, I, 2/2004, pp. 133-155.

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dea dell’insufficienza della “recettività originaria”, poiché questa funziona soltanto attraverso un atto della sintesi. Allora, se la recettività per sé non basta, e ha bisogno anch’essa di una sintesi, non è così già superato il dualismo kantiano del soggetto eterogeneo per cui giustamente si può parlare di dualità in Kant, ma non di dualismo? Nella sintesi dell’apprensione, diretta immediatamente verso le intuizioni, abbiamo dunque a che fare con la successione degli istanti, cioè abbiamo una molteplicità fuggevole attraverso gli istanti, dove da ogni istante scaturisce un’unità dell’intuizione. La continuità originaria delle sensazioni caotiche si trasfigura nella serie discontinua e misurabile delle intuizioni singole27. Se, comunque, la serie delle rappresentazioni si svolge necessariamente nel corso del tempo, si pone allora il problema del rapporto tra queste rappresentazioni che si sono succedute. Non abbiamo più un’intuizione empirica singola data in questo istante, ma un’unificazione di un altro livello che deve raccogliere le rappresentazioni del passato con quelle del presente. Questo è il compito che Kant assegna alla riproduzione nell’immaginazione. Se il passaggio da una rappresentazione all’altra fosse accompagnato da un oblio di quella rappresentazione precedente lasciata indietro, non sarebbe possibile la conoscenza di alcun oggetto. Nella condizione di fugacità continua e di fluidità incessante e mutevole, la facoltà empirica dell’immaginazione non potrebbe mai avere l’opportunità di formare un’unità sintetica. La costituzione dell’oggetto richiede innanzitutto una certa continuità e l’unità tra le diverse rappresentazioni che lo compongono, per cui è necessaria la ritenzione di quanto succedutosi. Ma questa ritenzione non è soltanto empirica, e perciò non si tratta soltanto di semplice riproduzione nella memoria di quello che vi era prima. L’interesse kantiano verte, infatti, intorno alla riproducibilità dei fenomeni28. Al livello trascendentale ci vuole qualcosa che renda possibile la riproduzione delle rappresentazioni. Questa riproducibilità si basa sul non-perdere il precedente; prima della riproduzione empirica esiste cioè una riproduzione pura29, una sintesi del “prima” con il “dopo” in una rap27 Rimandiamo qui al nostro capitolo sullo schematismo, in partic. pp. 93-95. 28 Da notare di nuovo il passaggio dalla facoltà empirica alla facoltà trascendentale. Kant anche qui, come nelle pagine precedenti dedicate all’apprensione, comincia con un aspetto empirico della facoltà per orientarci verso una dimensione trascendentale fondativa. 29 Qui nasce il problema di come qualcosa di riproduttivo possa rientrare nel trascendentale, come nota Heidegger in una nota in Kant e il problema della metafisica (cfr. M. Heidegger, op. cit., p. 157). È possibile solo se questa riproduzione si

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presentazione. L’immaginazione è così pensata come la pura riproduzione perché essa non riproduce alcun contenuto, ma piuttosto produce le stesse condizioni di ogni riproduzione empirica del contenuto. La riproduzione pura dell’immaginazione non è dunque concepibile al di fuori del discorso kantiano sulla spontaneità e sull’immaginazione produttiva. L’immaginazione, infatti, costruisce un orizzonte di “ancora” che permette a un contenuto di ritenersi o ripetersi anche quando non è più presente. La prima condizione a priori per avere questa riproduzione è la differenziazione temporale tra “ora” e “non-più-ora”. Solo a partire da questa discriminazione di stampo temporale è possibile avere anche la sintesi empirica della riproduzione. La sintesi riproduttiva, ossia l’immaginazione, va così contro il flusso incessabile e irreversibile del tempo30 cercando di costruire una continuità in quello che si sta intuendo, però, sulla base di una differenziazione temporale che, andando contro la linearità temporale a senso unico, permette di “tornare indietro”. Kant sostiene che la sintesi della riproduzione, così spiegata, sia connessa in maniera inscindibile con la sintesi dell’apprensione. Senza ritenzione del precedente e senza associazione tra i diversi elementi dell’intuizione non sarebbe affatto possibile la rappresentazione intera di nessun oggetto intuito, e, per di più, senza quest’associazione tra gli elementi non è possibile rappresentare neanche un elemento singolo. Con questo Kant si dissocia da ogni visione atomistica della conoscenza: la singolarità viene pensata e resa possibile soltanto attraverso la relazione con un’altra singolarità in un contesto di interdipendenza. La riproduzione dell’immaginazione segnala appunto la relazionalità tra i diversi elementi come fondativa per qualsiasi rappresentazione, dando a questa relazionalità un valore temporale (la relazione tra “prima” e “presente”). Per quanto riguarda il rapporto tra apprensione e immaginazione, bisogna ricordare il passo in cui Kant definisce l’apprensione come un’operazione appartenente all’immaginazione stessa: Vi è dunque in noi una facoltà attiva della sintesi di questo molteplice, che denominiamo facoltà di immaginazione, e la cui operazione esercitata immediatamente sulle percezioni io chiamo apprensione.31 comprende come pura, cioè come una riproduzione produttiva, pura, trascendentale, che produce l’orizzonte di ogni riproduzione empirica. La sintesi riproduttiva di cui parla Kant qui non può essere la riproduzione empirica. 30 Qui rimandiamo alle pagine successive dedicate all’immaginazione nella Critica del Giudizio, p. 126ss. 31 KrV 1, p. 89; CRP, p. 1233; A120.

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Siccome il ruolo dell’immaginazione è “far sì che il molteplice dell’intuizione diventi un’immagine”32 e siccome con l’apprensione abbiamo la creazione di un’immagine singola e preliminare, l’immaginazione, dunque, diventa il fondamento della sintesi che si svolge nell’intuizione. È l’immaginazione quella che apprende le intuizioni in una serie di istanti. Ciò che Kant vuole dire, inoltre, è che neanche questa sintesi primaria e preliminare, denominata apprensione, non produrrebbe alcuna immagine senza la capacità di ritenzione, senza, detto con le parole di Kant, richiamare la percezione precedente (eine Wahrnehmung herüber zu rufen). Insomma, senza la riproduzione neanche l’apprensione avrebbe senso. Entrambe le operazioni appartengono, nel senso vasto del termine, al lavoro di immaginazione. D’altra parte, l’interconnessione tra l’apprensione e la riproduzione testimonia la connotazione temporale che Kant dà a tutta la sintesi a priori trascendentale, cioè il riflesso dell’interconnessione tra il presente e il passato che fanno parte di un’unica continuità temporale. E qui torniamo di nuovo alla tesi molto indicativa di Kant che diceva che l’animo distingue il tempo nella successione delle impressioni33: senza questa distinzione non potrebbe essere rappresentato nessun molteplice in quanto tale. Non è proprio l’immaginazione quest’operazione dell’animo che fa l’intervento decisivo nel tempo producendo in qualche senso il molteplice e introducendo un altro ordine temporale come condizione per la sintesi? Neanche la riproduzione e l’apprensione prese insieme sono sufficienti per costituire un oggetto di conoscenza. Se le rappresentazioni si susseguissero l’una dopo l’altra e si riproducessero senza connessione tra di esse, allora avremmo soltanto un’associazione esterna tra le rappresentazioni e non una sintesi completa, e per sintesi completa intendiamo qui la coscienza che quello che si è riprodotto sia lo stesso come prima, cioè una sorta di unità del riprodotto con se stesso tramite la coscienza. In altri termini, se la riproduzione non è accompagnata da una ricognizione cosciente di quello che si riproduce, avremmo, come scrive Kant, “i mucchi privi di regole” (regellose Haufen) e quindi nessuna esperienza. Kant, dunque, a questo punto, introduce la terza sintesi, altrettanto necessaria come le prime due: la sintesi della ricognizione nel concetto. In questa sede, per essere più precisi, Kant non parlerà tanto di sintesi quanto di unità e quest’unità può essere procurata soltanto da una coscienza, cioè da un soggetto. È chiaro come qui Kant faccia riferimento all’ap32 Ibidem. 33 Cfr. KrV 1, p. 77; CRP, p. 1207; A99.

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percezione trascendentale come quel centro focale che raccoglie tutti i raggi dell’esperienza procurandogli unità. La coscienza dell’unità della sintesi, per usare precisamente la formulazione di Kant stesso, che mette insieme tutte le determinazioni trascendentali coinvolte finora (sintesi – unità – coscienza), trova origine proprio nel soggetto di questa coscienza che rimane uguale nonostante che il suo contenuto, ossia il correlato oggettivo, cambi. In altri termini, la coscienza dell’unità della sintesi è un’espressione che indica autocoscienza. Questa autocoscienza, infatti, deve riconoscere se stessa in ogni operazione sintetica svolta nei livelli precedenti (cioè durante apprensione e riproduzione), e proprio da quest’atto di riconoscimento sorge l’unità, spiegata con le parole di Kant come “l’unità formale della coscienza nella sintesi del molteplice delle rappresentazioni”34. Già il fatto che si parli dell’unità della sintesi, oppure dell’unità della coscienza nella sintesi, indica che Kant implicitamente distingueva l’unità dalla sintesi, nel senso che la sintesi non procura un’unità da se stessa, ma per certi versi l’unità deve arrivare dopo, ovvero va assegnata alla sintesi nel momento in cui si affianca l’atto di ricognizione, cioè solo con l’autocoscienza. Solo in quel momento abbiamo prodotto un’unità sintetica, come dice Kant, cioè la sintesi del molteplice, operata dall’immaginazione, si è consolidata come un’unità procurata dalla coscienza, cioè dal soggetto unico che rimane permanente e stabile. E appunto, questa identità di se stessi, immutabile e originaria, in ogni rappresentazione del molteplice sintetizzato, è l’appercezione trascendentale che sta a fondamento di tutti i concetti in quanto regole dell’unità. Quando Kant parla della ricognizione nel concetto intende non soltanto le regole che rendono possibile la riproducibilità dei fenomeni, ma anche la determinazione di un oggetto; il fenomeno, cioè, si costituisce come oggetto35 attraverso i concetti tramite la riconduzione di ogni sintesi dell’apprensione e della riproduzione a quell’unità trascendentale definita appercezione. Per essere oggetto, il molteplice fenomenico sintetizzato deve possedere l’unità che gli viene soltanto dai concetti, cioè dall’unità dell’autocoscienza alla quale tutti i concetti si riferiscono. A questo tema Kant tornerà nella seconda edizione della Critica affermando che l’oggetto si costituisce mediante il rapporto necessario del molteplice nell’intuizione 34 KrV 1, p. 80; CRP, p. 1215; A105. 35 Se, come afferma Kant, “l’oggetto indeterminato di un’intuizione empirica si chiama fenomeno” (KrV, p. 50; CRP, p. 113; B34), dunque questo passaggio dal fenomeno all’essere anche oggetto riguarda proprio la determinazione da parte dell’intelletto.

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all’unico Io penso, cioè all’unità trascendentale dell’appercezione, il motivo per il quale questa unità sarà definita anche oggettiva36. Se l’unità trascendentale dell’appercezione è dunque il fondamento ultimo dell’unità del soggetto stesso, allora bisogna interrogarsi se non sia proprio l’appercezione a giocare il ruolo del terzo mettendo insieme e collegando tutti gli aspetti del soggetto, nettamente separati, gettando il ponte tra intuizione e intelletto. Siccome l’appercezione appartiene all’ambito dell’intelletto37 in quel caso non si tratterebbe di alcun terzo intermediario, ma di una riconduzione al suo elemento originario – quello di appercezione – che sta a fondamento di tutta la struttura del soggetto e della sua conoscenza. Se vogliamo avviarci in questa direzione, bisogna chiedersi in quale rapporto stanno appercezione e immaginazione, la quale con più diritto si può nominare come il termine medio, il terzo mediatore. 36 “L’unità trascendentale dell’appercezione è quell’unità con cui tutto il molteplice dato in un’intuizione viene unificato in un concetto dell’oggetto” (KrV, p. 113; CRP, p. 251; B139). Bisogna dire che in queste stesse pagine dedicate alla ricognizione, nella prima edizione della Critica, Kant introduce il concetto di oggetto trascendentale, ampiamente discusso nella storia della ricezione del pensiero kantiano. L’oggetto trascendentale, oppure oggetto = x, come lo chiama Kant, è un correlato oggettivo dell’appercezione trascendentale. Se l’appercezione trascendentale, in quanto coscienza originaria dell’identità con se stessi, che esprime nient’altro che il principio di autocoscienza, significa la pura forma del soggetto la quale dà l’unità a questo soggetto, allora l’oggetto trascendentale procura l’unità formale al materiale oggettivo e sintetizzato. L’oggetto trascendentale è una sorta di oggetto senza oggetto (si potrebbe dire forse Gegenstand senza Objekt); è la forma pura (soggettiva) dell’oggetto in quanto tale, o meglio, la forma pura dell’oggettualità che apre la possibilità del costituirsi di ogni oggetto empirico. Ciò che importa qui è che questa oggettualità pura, denominata x, è un correlato dell’appercezione, del soggetto trascendentale nella sua unità e identità. E in quanto correlato bisogna trattarlo appunto come un oggetto relazionale: l’oggetto trascendentale procura la relazione a qualsiasi oggetto empirico e in fin dei conti garantisce la realtà oggettiva delle nostre conoscenze. Per approfondire il tema dell’oggetto trascendentale si veda J. N. Findlay, Kant and the Transcendental Object, Oxford, Clarendon Press, 1981. Sulla differenza tra l’Objekt e il Gegenstand come due modi di rappresentazione dell’oggetto rimandiamo alle pagine di G. Chiurazzi, Modalità ed esistenza. Dalla critica della ragion pura alla critica della ragione ermeneutica: Kant, Husserl, Heidegger, Roma, Aracne, 2009, p. 89ss. 37 La definizione che ne dà Kant infatti è seguente: “L’unità dell’appercezione in riferimento alla sintesi della facoltà di immaginazione è l’intelletto, e questa stessa unità, in riferimento alla sintesi trascendentale della facoltà di immaginazione, è l’intelletto puro” (KrV 1, p. 88; CRP, p. 1231; A119). In seguito Kant scrive anche che ci sono nell’intelletto conoscenze pure a priori, cioè le categorie, che “contengono l’unità necessaria della sintesi pura della facoltà di immaginazione rispetto a tutti i fenomeni possibili” (Ibidem).

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3. Sintesi e unità: tra immaginazione e appercezione Tutte le rappresentazioni appartengono a un’unica coscienza, cioè a un unico soggetto, e questa identità con noi stessi rispetto a tutte le rappresentazioni che ci appartengono garantisce l’unità sintetica di queste stesse rappresentazioni, affinché si possa appunto costituire un oggetto di conoscenza. Questa unità sintetica come principio primo e originario di tutta la nostra conoscenza, detta appercezione trascendentale, presuppone o include, dice Kant38, una sintesi. La sintesi in questione è appunto la sintesi produttiva della facoltà di immaginazione. Dunque, quello che Kant propone è una sorta di precedenza dell’immaginazione rispetto all’appercezione. Dunque, l’unità trascendentale dell’appercezione si riferisce alla sintesi pura della facoltà di immaginazione, come una condizione a priori della possibilità di ogni composizione del molteplice in una conoscenza [...] Quindi il principio dell’unità necessaria della sintesi pura (produttiva) della facoltà di immaginazione, prima [corsivo nostro] dell’appercezione, costituisce il fondamento della possibilità di ogni conoscenza, in particolare dell’esperienza.39

Qui ci si può chiedere di che tipo di precedenza si tratti: precedenza temporale o ontologico-trascendentale? Si tratta cioè di un ordine temporale in cui la congiunzione del molteplice nell’intuizione operata dalla sintesi dell’immaginazione offre “il materiale”, procura cioè un’immagine40 a cui poi si dà unità tramite l’appercezione, oppure si tratta di una precedenza trascendentale secondo la quale l’immaginazione costituisce per certi versi il fondamento dell’appercezione stessa? L’appercezione così sarebbe soltanto l’ultimo tocco, inquadratura formale di un lavoro di sintesi già eseguito dall’immaginazione. È rischioso imputare a Kant quello che non ha detto e che forse neanche aveva in mente, però già il fatto che usi due termini diversi per spiegare il rapporto tra l’unità sintetica dell’appercezione e la sintesi dell’immaginazione (cioè, dice che la prima presuppone o include la seconda) rivela una certa ambiguità che poi, dal punto di vista della seconda edizione della Critica, può sembrare una vera contraddizione (prevedere l’autonomia e addirittura la precedenza dell’immaginazione e contemporaneamente affermare la sua sottomissione alla spontaneità dell’intelletto). Un ragionamento 38 Cfr. KrV 1, p. 88; CRP, p. 1231; A118. 39 Ibidem. 40 “La facoltà di immaginazione deve cioè far sì che il molteplice dell’intuizione diventi un’immagine” (KrV 1, p. 89; CRP, p. 1233; A120).

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simile lo troviamo anche in questa frase di Kant: “Ora, è questa appercezione che deve aggiungersi alla pura facoltà dell’immaginazione per rendere intellettuale la propria funzione”41. Sembra che si esprima una sorta di insufficienza dell’appercezione, la quale ha bisogno dell’immaginazione. Questa insufficienza ha origine nell’isolamento della funzione dell’appercezione dai dati dei sensi, pur ribadendo che questi dati “si accordino necessariamente all’unità dell’appercezione”. Da questo vicolo cieco si può uscire soltanto ricorrendo a quello che Kant aveva già descritto come facoltà cieca dell’anima, cioè all’immaginazione mediatrice. Anche quella che Kant chiama l’affinità dei fenomeni (Affinität der Erscheinungen) pone in fondo lo stesso problema: prima di essere sottoposti alle regole42 universali, cioè ai concetti dell’intelletto, i fenomeni dei sensi devono essere tra di loro associabili43. È indispensabile presupporre nel molteplice dei fenomeni vari e tra di loro diversi anche un’affinità, una sorta d’attrazione mutua e la tendenza ad associarsi, però questa affinità, conclude Kant “è una conseguenza necessaria di una sintesi nella facoltà di immaginazione, sintesi fondata su regole a priori”44. Il punto interessante è che già in questo concetto di Affinität è compreso il rapporto necessario tra appercezione e immaginazione, e non a caso Kant definisce quest’affinità “fondamento oggettivo di ogni associazione dei fenomeni”45. L’affinità è resa possibile dalla funzione trascendentale della facoltà dell’immaginazione, ma d’altra parte contiene in sé anche il principio secondo il quale tutti i fenomeni si accordano all’unità dell’appercezione. Quest’affinità tra i dati dei sensi rispecchia in qualche misura l’identità del soggetto autocosciente con se stesso. Le conseguenze radicali dell’idealismo trascendentale di Kant si manifestano qui in piena luce: l’associazione empirica esige una fondazione trascendentale per cui il rapporto “attraente” tra i fenomeni stessi trova la sua origine nel soggetto trascendentale. Ciò che questi brani sull’affinità46 tra i fenomeni ci suggeriscono è che non 41 KrV 1, p. 99; CRP, p. 1237; A124. 42 Più avanti Kant dirà: “Questa stessa unità dell’appercezione rispetto ad una molteplicità di rappresentazioni […] è la regola, e la facoltà di queste regole è l’intelletto” (KrV 1, p. 93; CRP, p. 1241; A127). 43 Sull’affinità di tutti i concetti la cui legge fornisce la ragione all’intelletto, cfr. KrV, p. 435; CRP, p. 945; B685. 44 KrV 1, p. 91; CRP, p. 1237; A123. 45 KrV 1, p. 90; CRP, p. 1237; A122. 46 Kant tornerà al tema dell’affinità nella Dottrina del metodo polemizzando con Hume che “ha trasformato un principio dell’affinità, che ha la sua sede nell’intelletto ed esprime una connessione necessaria, in una regola dell’associazione, che

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basta l’unità dell’appercezione per fondare né affinità né congiunzione delle rappresentazioni. Ci vuole anche la sintesi dell’immaginazione47. In tutto ciò un punto è comunque chiaro: l’immaginazione funge da facoltà sintetica necessaria per la costituzione dell’esperienza, però essa non può offrire una coscienza d’identità, la coscienza dell’io stabile e permanente che procura poi l’unità sintetica a tutti i fenomeni dell’esperienza. Come scrive Kant: “in se stessa la sintesi dell’immaginazione, seppure esercitata a priori, è pur sempre sensibile, poiché essa unifica il molteplice soltanto come esso appare nell’intuizione”48. L’immaginazione dunque produce i fenomeni, oppure, detto più precisamente, genera l’immagine di un fenomeno sensibile. Un tale fenomeno, analiticamente visto come una parte costituente dell’esperienza, non è ancora oggetto e ci vuole, di conseguenza, l’unità necessaria dell’appercezione pura come condizione a priori del suo costituirsi. È qui che emerge il ruolo mediatore dell’immaginazione: Entrambi gli estremi (beide äußerste Enden) – cioè la sensibilità e l’intelletto – devono risultare necessariamente connessi tramite questa funzione trascendentale della facoltà di immaginazione; in caso contrario, infatti, la sensibilità fornirebbe fenomeni, ma nessun oggetto di una conoscenza empirica, quindi nessuna esperienza.49

Così anche i concetti dell’intelletto vengono realizzati solo tramite la facoltà dell’immaginazione (vermittelst der Einbildungskraft) che li mette in relazione con la parte fenomenica, con il molteplice sintetico nell’intuizione sensibile. Osservando il problema da un altro lato si potrebbe dire che l’immaginazione riesce a unire le forme dell’intuizione con le regole dell’intelletto. Questa unità è ciò che fonda la validità oggettiva dell’esperienza, cioè la verità. La verità, intesa qui piuttosto come la verità ontologica, anche se ancora nei termini di corrispondenza, vuole semplicemente l’unità tra soggetto e oggetto, la loro corrispondenza. La novità epocale kantiana consiste nel fatto che il fondamento di questa stessa corrispondenza trovi la sede nel soggetto trascendentale. si incontra soltanto nella facoltà dell’immaginazione riproduttiva e presenta connessioni solo contingenti, affatto oggettive” (KrV, p. 500; CRP, p. 1085; B794). 47 L’insufficienza delle categorie del pensiero puro, basate sull’unità dell’appercezione, per la fondazione del sapere da cui si ricava l’importanza e la centralità dell’immaginazione in Kant è uno degli argomenti in S. L. Gibbons, Kant’s Theory of Immagination, Oxford, Clarendon Press, 1994. 48 KrV 1, p. 91; CRP, p. 1237-9; A124. 49 KrV 1, p. 91; CRP, p. 1239; A124.

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Detto questo, l’immaginazione, che fa rapportare le forme della sensibilità (spazio e tempo) all’intelletto come facoltà delle regole, deve giocare il ruolo fondamentale in questa costituzione della verità dei fenomeni. Il passaggio dal soggetto all’oggetto, dove l’oggetto diventa una rappresentazione per il soggetto, viene compiuto grazie alla possibilità di relazione necessaria dell’intelletto con i fenomeni. L’immaginazione, che rende realizzabile questa relazione, si dimostra pertanto di grande rilievo nella fondazione ontologica della verità, intesa come validità oggettiva50. Con ciò, anche la sua posizione del terzo rispetto alla sensibilità e all’intelletto, cioè la sua funzione mediatrice, viene dunque garantita e ulteriormente confermata. Torniamo ancora brevemente alla sintesi della ricognizione nel concetto come viene esposta nell’edizione del 1781 della Critica insieme con le altre due sintesi. Abbiamo visto che, su questo livello della sintesi, la rappresentazione fenomenica diventa una rappresentazione dell’oggetto poiché diverse rappresentazioni del molteplice, oltre a essere raggruppate, ora si accordano l’una con l’altra secondo la regola dell’unità. Questo atto unificatorio, però, si presenta come un atto vuoto, quasi tautologico. Paul Ricoeur, nel capitolo dedicato alla ricognizione in Kant contenuto nel suo saggio Percorsi del Riconoscimento, parla di una sorta di delusione51 che viene provocata quando si capisce che la coscienza dell’unità di una rappresentazione oggettuale proviene dall’unità della coscienza stessa. È una delusione perché la ricognizione nel concetto non aggiunge niente alla sintesi dell’immaginazione precedente. Nessun contenuto nuovo, nessun’aggiunta, ma solo la formalizzazione della sintesi già avvenuta in relazione al soggetto di questa sintesi. L’unità della coscienza stessa appare come sintesi suprema che produce (bewirken) un’unità sintetica nel molteplice delle rappresentazioni. In questo atto di produzione la coscienza si riconosce, si appercepisce come quel soggetto identico e stabile, lo stesso medesimo soggetto sia dell’apprensione sia della riproduzione. Questo autoriconoscimento nella propria attività sintetica è ciò che introduce la relazione con la pura appercezione che precede tutti i dati dei sensi e, per certi versi sin dall’inizio dirige la sintesi dell’immaginazione, in quanto le dà le regole di funzionamento secondo le quali le rappresentazioni riprodotte dall’immaginazione possono poi riferirsi a qualcosa. Dunque, quell’oggetto x, che è “per noi nulla”, è la rappresentazione oggettuale della nullità formale, o più precisamente, il vuoto proiettato dalla stessa autocoscienza vuota. Se 50 A questo proposito rimandiamo ad A. Cicatello, Ontologia critica e metafisica. Studio su Kant, Milano-Udine, Mimesis, 2011. Di particolare interesse per il nostro discorso è il tema del profilo ontologico dell’immaginazione (Ivi, pp. 93-108). 51 P. Ricouer, Percorsi del riconoscimento, Milano, R. Cortina, 2005, p. 54.

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non c’è alcuna operazione nuova al livello concettuale, ma soltanto un cambiamento nei termini del rapportarsi con se stesso, potremmo pertanto concludere che l’unità sintetica del concetto è soltanto l’immaginazione che riflette se stessa, che si riconosce come l’operazione fondamentale di tutta la sintesi. Quasi in una maniera hegeliana la tripartizione della sintesi kantiana si può interpretare dialetticamente come movimento dell’immaginazione verso la sua autocoscienza, dove l’appercezione sarebbe il grado finale, la verità formale dell’immaginazione stessa. Sviluppando questa ipotesi si può teoretizzare quel che segue: nell’apprensione l’immaginazione è ancora immediata, immersa nel sensibile e sconosciuta come immaginazione. Soltanto con la riproduzione, che funge anche da fondamento all’apprensione, l’immaginazione si rivela a pieno diritto una funzione distinta che ha un lavoro specifico, quello di riprodurre o, per meglio dire, di mediare tra il presente e il passato ritenendo il contenuto passato nel presente. Là dove c’è la differenza temporale (tra “prima” e “ora”), l’immaginazione ottiene ragion d’agire e di associare le diverse rappresentazioni andando contro la linearità irreversibile del tempo. Però, soltanto con la ricognizione nel concetto, ossia con l’autoriconoscimento del soggetto in tutte le sue operazioni sintetiche, l’immaginazione viene alzata a un altro livello, instaurando un rapporto con l’appercezione come il centro della sua identità. L’identità di se stesso, di cui parla Kant riguardo all’appercezione, è nient’altro che l’identità di quell’operazione tramite cui l’animo (Gemüt) fa una composizione sintetica del molteplice intuito. Diventa così chiaro che il fattore operante e attivo – causa efficiens, potremmo dire – della sintesi, il suo vero momento dinamico e produttivo, è nient’altro che l’immaginazione. E l’unità della coscienza si può capire soltanto a partire dall’identità dell’immaginazione. Infatti, questa unità della coscienza sarebbe impossibile se l’animo, nella conoscenza del molteplice, non potesse divenir cosciente dell’identità della funzione tramite cui essa congiunge sinteticamente il molteplice in una sola conoscenza.52

Sarebbe lecito allora parlare dell’autocoscienza dell’immaginazione a cui si giunge con la sintesi della ricognizione o, più precisamente, dell’autocoscienza del soggetto grazie all’immaginazione? Non è dunque l’immaginazione ragion di conoscere dell’appercezione nella misura in cui l’appercezione è ragion d’essere dell’immaginazione? Anche se con queste domande usciamo fuori dalla cornice del testo kantiano (e probabilmente 52 KrV 1, p. 82; CRP, p. 1219; A108.

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dalle sue intenzioni), il discorso finora svolto aveva a che vedere con l’idea di una certa primarietà dell’immaginazione nel sistema trascendentale di Kant e del suo nesso fondamentale con l’appercezione. Se prima abbiamo visto l’unità originaria dell’appercezione, che serve da fondamento di tutta la struttura trascendentale del soggetto nella sua unità, come punto focale di tutte le nostre conoscenze, ora vediamo come l’immaginazione, la facoltà sintetica per eccellenza, si impone non soltanto come il terzo intermediario tra l’intelletto e la sensibilità, ma anche come una sorta di sinonimo per la sintesi stessa, e perciò come aspetto che permea tutta la soggettività trascendentale. Questa tensione tra immaginazione e appercezione, tra sintesi e unità, rimane una tensione perenne. 4. Spontaneità come tertium comparationis tra immaginazione e intelletto La seconda edizione della Critica della ragion pura, la cosiddetta edizione B del 1787, lascia comunque spazio per un’altra interpretazione. Come molti studiosi di Kant hanno notato, l’immaginazione sembra aver perso l’autonomia che aveva nella prima edizione, e viene piuttosto sottomessa all’attività dell’intelletto. Questo si avverte già seguendo il testo dell’edizione A (A78-A79), il quale, come abbiamo visto, parla della sintesi pura mediante immaginazione e della sintesi in generale come il semplice effetto della facoltà dell’immaginazione in quanto funzione indispensabile del nostro animo. Invece, nella seconda edizione, Kant scrive: “la sintesi pura, rappresentata in generale, ci dà il concetto puro dell’intelletto [...] è una sintesi secondo concetti”53. La confusione che può nascere dalla lettura contemporanea di questi brani dell’edizione A e dell’edizione B si spiega con lo spostamento che Kant compie muovendosi da un capoverso all’altro. Pare che Kant voglia sganciare la sintesi in quanto tale dall’immaginazione e dire che la sintesi spetta all’intelletto. Come conseguenza di ciò, la distinzione tra sintesi e unità non sembra più così netta e nitida. Le categorie dell’intelletto, in quanto concetti puri, mettono in atto la sintesi pura, dando allo stesso tempo l’unità alla semplice sintesi di diverse rappresentazioni raccolte nel molteplice. Ma se ora la sintesi pura è prettamente concettuale, cosa sarebbe questa semplice sintesi a cui si dà l’unità mediante le categorie? Ossia, se la sintesi pura è secondo i concet53 KrV, p. 91; CRP, p. 205; B104.

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ti, ma non esclusivamente concettuale, bisogna dunque concludere che qualcosa nella sintesi spetta ancora all’immaginazione e rimane sotto la sua guida? Nel paragrafo 24, il quale per certi versi assume una posizione centrale nella sezione dedicata alla deduzione trascendentale, perché prepara il passaggio allo schematismo, Kant affronta di nuovo la questione della sintesi e dell’immaginazione. Il paragrafo porta significativamente il titolo: “Dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi in generale”. Già nelle prime righe Kant afferma che “la sintesi, ossia la congiunzione di un molteplice in quegli stessi concetti, si riferisce semplicemente all’unità dell’appercezione”, e che perciò la sintesi, oltre a essere trascendentale, sarà “anche e soltanto puramente intellettuale”54. La sintesi è così decisamente collocata sotto il dominio dell’intelletto. Nondimeno abbiamo visto che Kant ammette una certa unificazione sintetica al livello della sensibilità. Le nostre esperienze più elementari, quelle di ricevere i dati e avere le sensazioni, sono già sintetizzate. Detto altrimenti: non esiste il molteplice assoluto delle intuizioni, un mondo caotico delle intuizioni slegate. Quando si parla del molteplice bisogna sapere che questo molteplice già fa parte di un’unica intuizione empirica. L’esperienza è sempre sintetizzata, per il semplice fatto che senza la sintesi non sarebbe possibile parlare di nessuna esperienza. Dunque, se la sintesi è operante già nel campo sensoriale, allora come giustificare il suo carattere prettamente intellettuale? In altri termini, come può qualcosa di puramente intellettuale svolgere una tale attività nella sfera dei sensi, essendo quest’ultima tutt’altro che intellettuale? Per risolvere questo problema Kant è portato a trattare di nuovo la funzione mediatrice dell’immaginazione. Kant raddoppia l’attività sintetica e distingue la sintesi figurata (synthesis speciosa) dalla sintesi intellettuale (synthesis intellectualis). La prima è la sintesi del molteplice dell’intuizione sensibile e non riconduce ancora il molteplice ai concetti puri. La seconda è la sintesi operata dai concetti. Nonostante ciò, anche la sintesi figurata si riferisce all’unità sintetica originaria dell’appercezione, cioè in ultima istanza all’intelletto, per cui Kant si spinge a definire anche questa sintesi figurata in riferimento all’attività intellettuale. E, infatti, la definirà come “un effetto dell’intelletto sulla sensibilità”, oppure “la prima applicazione dell’intelletto agli oggetti dell’intuizione possibile per noi”55. Il punto di Kant è che l’intelletto deve 54 KrV, p. 119; CRP, pp. 265-267; B150. 55 KrV, p. 120; CRP, p. 269; B152.

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determinare a priori la sensibilità, e questo atto di determinarla è proprio la facoltà dell’immaginazione56. Dunque, anche la sintesi figurata, identificata con la sintesi trascendentale dell’immaginazione, deve essere conforme alle categorie dell’intelletto, e per certi versi rappresenta già una proiezione della sintesi intellettuale. Non sarebbe tanto sbagliato chiamarla sintesi intellettuale impura per distinguerla da quella sintesi pura, vale a dire, dalla sintesi intellettuale, in quanto puro lavoro di unificazione delle categorie. La sintesi intellettuale impura è applicazione, come scrive Kant stesso, della sintesi pura delle categorie al materiale sensibile. Ma questa applicazione si può interpretare in un modo più flessibile, e non come un intervento superiore dell’intelletto, per il quale l’immaginazione sembra solo una pallida ombra della facoltà dell’unità concettuale. Infatti, se si legge bene, Kant chiama la facoltà dell’immaginazione “la prima applicazione dell’intelletto” alla sensibilità e in quanto tale “il fondamento di tutte le altre applicazioni”. Cosa potrebbe significare questa prima applicazione? La sintesi figurata, cioè la sintesi del molteplice delle sensazioni in un’unica intuizione sensibile (il che potrebbe corrispondere alla sintesi dell’apprensione e alla sintesi di riproduzione della prima edizione), non deve violare le regole dell’intelletto, cioè deve essere conforme alle categorie. Non è possibile che questa sintesi elementare nel campo sensoriale esuli dal campo circoscritto dall’intelletto. E in questo senso essa è la prima applicazione delle categorie in quanto operazione che non può farne a meno, che non può non osservarle. Si tratta di un rapporto indiretto con le categorie dell’intelletto che non schiaccia l’operazione dell’immaginazione sotto il suo dominio cancellandole ogni autonomia. La facoltà dell’immaginazione dunque appartiene ancora alla sensibilità, e potremmo dire che la sensibilità sia il suo campo di lavoro57, però in questo campo essa non può deviare dall’ordine e dalle regole prescrit56 L’immaginazione così diventa un processo, un’azione che si svolge tra l’intelletto e la sensibilità, cioè tra l’appercezione e il senso interno. Qualcosa di simile scrive anche Klaus Düsing che comunque associa l’azione di sintesi (Synthesishandlung) all’appercezione pura: l’immaginazione è il processo messo in moto dall’appercezione pura (K. Düsing, Schema und Einbildungskraft in Kants Kritik der reinen Vernunft, in G. Gawlick, L. Kreimendahl (a cura di), Aufklärung und Skepsis, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 1995, p. 66). 57 Anche se accettiamo questa formulazione secondo la quale la sensibilità è il campo di lavoro per l’immaginazione, bisogna sempre dire che in questo campo l’immaginazione non si trova a casa. La descrizione heideggeriana dell’immaginazione come unheimlich qui potrebbe fare al caso nostro. Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 121.

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te dall’intelletto, lavora cioè secondo l’unità dell’appercezione. E come ultimo punto in un’argomentazione che vuole difendere la peculiarità dell’immaginazione possiamo sostenere che questo lavoro sintetico dell’immaginazione è, in quanto tale, un atto di spontaneità; l’immaginazione, cioè, determina la sensibilità, attuando la sintesi nell’intuizione empirica secondo l’unità dell’appercezione. Il senso non è capace di farlo da solo, in quanto facoltà esclusivamente recettiva, però “offrendo l’ospitalità” all’immaginazione si è reso possibile che la spontaneità permei tutte le attività del soggetto trascendentale, incluse quelle di unificazione nell’intuizione. Non si supera così la dualità tra la recettività passiva e la spontaneità attiva, e ciò proprio grazie a un’estensione della spontaneità che, attraverso l’immaginazione, agisce anche sulla sensibilità? Dal punto di vista della spontaneità, nel senso ampio del termine, il soggetto pare molto più unitario di quanto sembri in considerazione del fatto della sua eterogeneità e scissione in due aspetti. E poi, non è tutto ciò la ragione sufficiente per identificare il soggetto trascendentale intero con la sua attività spontanea? Da questa esposizione si chiarifica la differenza tra l’enunciazione kantiana, sopra riportata, che afferma che la sintesi in generale è un effetto dell’immaginazione, e l’altra, appartenente alla seconda edizione, secondo la quale l’immaginazione è un effetto dell’unità sintetica dell’intelletto. Sembrano due tesi opposte e inconciliabili. Nel primo caso l’immaginazione è una funzione dell’anima, anzi, la funzione fondamentale dell’anima, quasi identificata con la sintesi in quanto tale, mentre nel secondo caso l’immaginazione diventa una sorta di funzione dell’intelletto58. Però, se seguiamo quello che è stato detto riguardo alla spontaneità che costituisce il carattere dell’immaginazione, si può concludere che le due posizioni non sono così lontane l’una dall’altra. Kant, in ogni caso, non ha mai rinunciato al carattere sintetico e intermedio dell’immaginazione, e poi rimane anche l’idea che la sintesi si compie già al livello pre-concettuale, cioè la sensibilità offre le rappresentazioni che sono già il molteplice unificato e raccolto in virtù dell’intervento dell’immaginazione. L’asserzione secondo la quale l’immaginazione è una funzione dell’intelletto non si deve necessariamente interpretare come una sorta di negazione dell’immaginazione che perde il suo valore in virtù della sua sottomissione all’intelletto. Seppure si tratti della sottomissione, essa è funzionale al progetto trascenden58 In una nota autografa sulla sua copia di lavoro Kant sostituisce einer Funktion der Seele (una funzione dell’anima) con einer Funktion des Verstandes (una funzione dell’intelletto).

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tale della costituzione degli oggetti d’esperienza, e perciò anche l’immaginazione si deve riferire all’unità sintetica dell’appercezione. L’immaginazione, comunque, condivide con l’intelletto il carattere di essere spontanea e determinante. Inoltre, ancora nella prima edizione, Kant definisce l’intelletto come una spontaneità della conoscenza restando fedele a questa definizione lungo la linea dello sviluppo del suo pensiero, aggiungendo a questa anche altre definizioni (la facoltà delle regole, la facoltà di pensare, la facoltà dei concetti, o dei giudizi59). Se l’intelletto diventa sinonimo della spontaneità, allora diventa più facile accettare che l’immaginazione è funzione dell’intelletto, in quanto giustamente funzione spontanea. Invece di pensare la questione in termini esclusivistici (o autonomia o subordinazione dell’immaginazione) bisogna ribadire questo carattere di spontaneità. Il pensiero kantiano, incline ai diversi raddoppiamenti, raddoppia perciò anche la sintesi in due sue modalità (figurata e intellettuale), distinguendo con ciò l’immaginazione dall’intelletto, ma ciò che non si può raddoppiare è la spontaneità stessa. La spontaneità rimane una e unica, come l’Io penso dell’appercezione trascendentale che rimane sempre uguale. La spontaneità rimane dunque l’unico filo conduttore che passa dall’intelletto all’immaginazione collegando le loro nature e funzioni diverse. La sottomissione, o la dipendenza dell’immaginazione dall’intelletto, si lascia interpretare in questo senso: essa articola la natura dell’immaginazione stessa senza però danneggiare la sua funzione sintetica. Per di più, questa natura viene determinata da un’altra dipendenza, quella dalla sensibilità. Ora, ciò che connette il molteplice dell’intuizione sensibile è la facoltà di immaginazione, la quale dipende dall’intelletto per quanto riguarda l’unità sintetica della sua sintesi intellettuale, e dalla sensibilità per quanto riguarda la molteplicità dell’apprensione.60

Questa doppia dipendenza non diminuisce lo status dell’immaginazione, ma piuttosto definisce la sua peculiarità rispetto alla sintesi intellettuale e alla sintesi dell’apprensione. In tal modo viene affermata anche la sua posizione centrale perché proprio grazie a questa duplice natura essa è in grado di mediare tra la sensibilità e l’intelletto. Ma perché Kant parla in termini di dipendenza tentando di definire meglio la collocazione dell’immaginazione? Il problema secondo noi sta nella difficoltà in cui si imbatte Kant con59 Cfr. KrV 1, p. 92; CRP, p. 1241; A126. 60 KrV, p. 127; CRP, p. 285; B164.

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cependo l’immaginazione come un principio dinamico e invece la sensibilità e l’intelletto come due istanze statiche e immobili; la prima in virtù della sua recettività e passività, e la seconda in virtù del suo ancoramento all’Io penso stabile e immutabile. Collocare inequivocamente una funzione attiva come l’immaginazione all’interno di un sistema trascendentale delle facoltà diviene un’impresa difficile, se non impossibile, per cui si è costretti a parlare in termini di dipendenza e di effetto dell’uno sull’altro. L’immaginazione rimane perciò unheimlich, nel senso letterale della parola: senza patria. Sembra che essa costituisca la topologia della ragione pura, ma non riesca a trovare un luogo stabile dentro questa topologia. È vero comunque che nella seconda edizione si nota uno spostamento riguardo al trattamento dell’immaginazione, ma questo spostamento sarebbe più corretto definirlo come cambiamento di strategia. L’immaginazione della seconda edizione non è in contrasto con l’immaginazione della prima, e non si tratta per nulla di due immaginazioni diverse. Anche il passaggio dall’immaginazione riproduttiva a quella produttiva non va letto come un vero e proprio scarto tra due tipi di immaginazione. Il problema della prima edizione rimane comunque il fatto che la riproduzione viene pensata insieme con il trascendentale, cioè la sintesi della riproduzione si presenta nel suo operare empirico, ma esigendo d’altronde una costituzione trascendentale. Secondo noi, però, non bisogna contrapporre la riproduzione alla produzione nel discorso kantiano sull’immaginazione, di modo che la prima sia empirica e solo la seconda veramente trascendentale. Anche l’immaginazione produttiva ha a che vedere con la riproduzione, o meglio con la riproducibilità dei fenomeni. La riproduzione non è soltanto empirica, legata alla semplice legge d’associazione, ma anche trascendentale, perché riguarda la produzione dell’orizzonte della riproducibilità. In quel caso, l’immaginazione sul piano trascendentale rimane sempre e prettamente produttiva e spontanea. Le diverse accentuazioni che si presentano dal punto di vista della prima e della seconda edizione non vanno interpretate come due vedute totalmente diverse, bensì complementari all’interno di un cambiamento strategico di prospettiva. Ciò che Kant esibisce nella seconda edizione ha i caratteri di una veduta von oben an61 dove si parte dall’appercezione come principio supremo della soggettività trascendentale per dimostrare la validità degli oggetti d’esperienza. Ma con ciò la posizione dell’immaginazione sostanzialmente non cambia, poiché essa continua a essere sia il terzo termine intermedio e collegante, con il ruolo di colmare l’abisso – per usare un termine kantia61 Rimandiamo a P. Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, cit., p. 169.

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no della Critica del Giudizio – tra l’intelletto e la sensibilità, sia l’operazione sintetica nella sfera del sensibile. 5. La validità oggettiva dell’Io penso Nella deduzione trascendentale dell’edizione B (dal paragrafo 15 in poi) si evidenzia l’intenzione di Kant di ricondurre la congiunzione (Verbindung) di un molteplice in quanto tale a un atto dell’intelletto e alla spontaneità. “Ogni congiunzione, dicevamo, è un’operazione dell’intelletto che in generale potremmo denominare sintesi”62. Il ragionamento di Kant è una dimostrazione per assurdo basata sul principio del terzo escluso. A partire dall’impossibilità della tesi si conclude l’opposto: se la congiunzione non può venire dai sensi, attraverso i quali il molteplice ci viene dato, e se non è neanche contenuta nelle forme pure dell’intuizione (spazio e tempo) che riguardano il modo in cui il soggetto viene affetto, allora l’atto di congiungere, una volta espulso dalla sfera della sensibilità, va cercato (e trovato) nella sfera opposta, quella della spontaneità, cioè nell’intelletto. In termini più generali ciò vuol dire che la congiunzione proviene dall’attività del soggetto stesso, il che è conforme all’enunciazione kantiana dalla Prefazione: “riguardo alle cose conosciamo a priori solo ciò che noi stessi poniamo in esse”63, e anche: “fra tutte le rappresentazioni la congiunzione è l’unica che non può essere data dagli oggetti, ma può essere eseguita soltanto dal soggetto stesso”64. Essendo un’operazione originariamente unica, Kant è spinto a cercare il fondamento della congiunzione nell’unità sintetica originaria del soggetto, cioè nell’autocoscienza irriducibile, alla quale appartengono tutte le mie rappresentazioni. Questa co-appartenenza di tutto il molteplice a qualcosa di unitario e unico, che soprattutto è mio, è la congiunzione originaria in quanto paradigma di tutte le altre congiunzioni. In tal modo tutta l’operazione del congiungere viene ricondotta all’unità, ma non alla categoria dell’unità, bensì a quell’unità originaria che precede l’unificazione categoriale e sulla quale in fin dei conti le categorie si basano65. Bisogna però notare che anche in queste pagine Kant è comunque propenso a distinguere, per lo meno implicitamente, l’unità dalla sintesi: “Il concet62 63 64 65

KrV, p. 107; CRP, p. 239; B130. KrV, p. 13; CRP, p. 37; BXVIII. KrV, p. 107; CRP, p. 239; B130. “Congiunzione è rappresentazione dell’unità sintetica del molteplice [...] è la rappresentazione dell’unità che, aggiungendosi alla rappresentazione del molteplice, rende possibile per prima il concetto di congiunzione” (KrV, p. 108; CRP, p. 241; B131).

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to di congiunzione implica, oltre al concetto di molteplice e di sintesi del molteplice, anche il concetto di unità di questo molteplice”66. Questa triplice divisione (molteplice, sintesi, unità) corrisponde ai tre momenti della sintesi riportati e spiegati sopra (A79). Sembra che gli elementi della deduzione del 1781 siano inclusi nell’elaborazione che poi sarà la deduzione del 1787. Ciò che prevale in questa seconda variante è solo un’accentuazione dell’unità e dunque dell’intelletto, l’unico che è capace di procurare l’unità. Kant è dunque alla ricerca del fondamento dell’unità che costituisce ogni congiunzione e perciò il discorso si sviluppa verso la spiegazione dell’unità sintetica dell’appercezione trascendentale. Questa strategia kantiana di cercare e giustificare l’unità della sintesi, cioè l’unità degli oggetti d’esperienza attraverso l’unità trascendentale dell’autocoscienza, non esclude il discorso sulla sintesi del molteplice e sulla triplice sintesi esposto nella prima edizione del 1781. Per certi versi, anche sei anni dopo, Kant ripete la stessa idea che prima riguardava il rapporto tra appercezione e immaginazione: Difatti, questa continua identità dell’appercezione di un molteplice dato nell’intuizione contiene una sintesi delle rappresentazioni, ed è possibile soltanto mediante la coscienza di questa sintesi.67

Kant qui non accenna all’immaginazione, però parla di “una sintesi delle rappresentazioni” che è contenuta nell’identità dell’appercezione, analogamente al testo del 1781 in cui scrive che l’unità sintetica dell’appercezione “presuppone o include” la sintesi produttiva dell’immaginazione. Va notato l’uso della parola “contiene” che mette chiaramente la sintesi in relazione con l’appercezione alla maniera di un’appartenenza indissolubile, a differenza dell’ambiguità che lasciava il testo precedente parlando della “presupposizione” oppure “inclusione” della sintesi nell’appercezione. Questa “certezza” nell’espressione testuale si deve al mutamento strategico che Kant opera nella seconda edizione, non occupandosi esplicitamente dell’immaginazione e proseguendo con un piano dall’alto, cioè con l’intenzione di dimostrare soprattutto la validità dell’appercezione come principio supremo della conoscenza umana68. 66 KrV, p. 108; CRP, p. 241; B130. 67 KrV, p. 109; CRP, p. 243; B133. 68 In una nota dell’edizione B della Critica, Kant lo spiega senza mezzi termini: “E così, l’unità sintetica dell’appercezione è il punto supremo a cui deve attaccarsi tutto quanto l’uso dell’intelletto, e la stessa logica nella sua interezza, e dopo di essa la filosofia trascendentale – anzi: questa facoltà è l’intelletto stesso” (KrV, p. 109; CRP, p. 245; B134).

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Nonostante ciò, pare che Kant presupponga sempre un piano di operazione preconcettuale, cioè della sintesi del molteplice che viene prima dell’appercezione. E infatti, se torniamo alla citazione e prestiamo attenzione alla sua ultima parte, dove Kant dice che l’identità dell’appercezione è possibile grazie alla coscienza della sintesi delle rappresentazioni, vedremo il significato che Kant attribuisce a questa sintesi contenuta nell’appercezione. Cosa vuol dire essere coscienti della sintesi? Non si tratta della coscienza empirica di un’operazione che succede in noi, ma del fatto che sono Io che congiungo e unifico le rappresentazioni. Ciò non significa che le rappresentazioni diventano mie perché ne sono divenuto cosciente. Esse sono le mie già in virtù del fatto che le loro condizioni di possibilità sono determinate dalla sintesi che attuo. La coscienza della sintesi delle rappresentazioni mette allo scoperto il principio attivo della soggettività, cioè la sua spontaneità. Solo perché sono Io che unifico, nel senso trascendentale, le varie rappresentazioni, queste rappresentazioni appartengono tutte quante alla mia autocoscienza. Perciò l’Io penso (Ich denke) kantiano è sostituibile con l’Io sintetizzo oppure l’Io congiungo (Ich verbinde), purché a questo “Io congiungo” aggiungiamo il momento imprescindibile dell’autocoscienza. Solo l’Io congiungo, divenuto cosciente, si può nominare l’Io penso. Ma anche viceversa: Io congiungo è soltanto quell’Io che è capace di essere autocosciente, che è dotato della facoltà di spontaneità e di pensiero in generale. Ma cos’è, in realtà, questo Io congiungo, ossia “Io sintetizzo”, che diventando cosciente della sintesi delle rappresentazioni ha davanti agli occhi se stesso come Io penso, cioè come un’autocoscienza trascendentale? Se torniamo ad alcuni risultati della prima edizione del 1781, applicandoli a questo discorso, e cioè sostituendo “Io sintetizzo” con la facoltà produttiva dell’immaginazione, allora la conclusione che ci si impone è che l’immaginazione resa cosciente si mostra come appercezione: l’appercezione sembra davvero l’autocoscienza dell’immaginazione produttiva. Dall’altro lato, l’immaginazione sintetizza sotto il segno dell’appercezione alla quale devono sottostare tutte le rappresentazioni, ma come dice Kant “è mediante una sintesi che devono essere portate sotto di essa [sotto l’unità, N.d.A]”69. In realtà, in queste pagine, Kant non parla dell’immaginazione, però possiamo riconoscere il ruolo che essa gioca in quanto funzione mediatrice che riporta la sintesi del molteplice all’unità categoriale dell’intelletto. Questa funzione mediatrice, cioè la funzione del terzo, sarà elaborata nello specifico nel capitolo sullo schematismo, come vedremo più avanti. 69 KrV, p. 110; CRP, p. 247; B136.

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Bisogna tenere presente il rapporto che Kant instaura tra l’appercezione e la coscienza della sintesi del molteplice attraverso il quale si giunge a questa identità di me stesso in tutte le mie attività70. E dunque soltanto attraverso un’attività è possibile pensare l’appercezione. tuttavia esso [principio dell’unità necessaria dell’appercezione, N.d.A] mostra la necessità di una sintesi del molteplice dato in un’intuizione: una sintesi senza la quale la suddetta identità continua dell’autocoscienza non potrebbe essere pensata.71

Dunque la sintesi del molteplice, così spiegata, sembra la ratio cognoscendi dell’appercezione. E allora l’appercezione sarebbe la ratio essendi della congiunzione e della sintesi in generale? L’autocoscienza e l’attività di congiunzione sono insomma pensate insieme, e questo è un esito del rovescio trascendentale di Kant: soltanto un soggetto autocosciente può essere l’agente dotato della facoltà di sintesi che produce l’oggetto della propria esperienza. Per questo Kant giunge alla possibilità di rappresentare me stesso come un’unica identità di coscienza attraverso “il far cosciente” della mia attività di sintesi, cioè della congiunzione del molteplice dato, la quale, d’altro lato, è sempre contrassegnata come un lavoro dell’intelletto che si origina dall’appercezione. L’autocoscienza è il principio della sintesi, ma soltanto attraverso la coscienza di questa sintesi si può giungere all’autocoscienza. Sembra che il rapporto tra autocoscienza/appercezione e sintesi/congiunzione includa due piani: l’uno è il piano dell’esposizione trascendentale (dalla coscienza della sintesi all’appercezione), e l’altro è il piano della costituzione trascendentale (dall’appercezione alla sintesi). Perciò la sintesi e l’autocoscienza creano un circolo e un nodo inestricabile, dimostrandosi come due aspetti indissolubili della stessa soggettività. Prendendo l’argomento dall’altro lato, possiamo dire che il rapporto “verticale” con l’autocoscienza, secondo il quale ogni rappresentazione deve essere congiunta in un’unica coscienza, sta alla base di ogni sintesi “orizzontale”, cioè di ogni connessione del molteplice delle rappresentazioni che costituisce l’oggetto unificato di queste rappresentazioni. Se l’esperienza significa sempre un’esperienza degli oggetti d’esperienza, allora la sintesi denominata orizzontale sarebbe una sintesi che costituisce l’esperienza stessa. L’intenzione originaria di Kant è di stabilire una relazione tra questa sintesi, da un lato, e l’appercezione, dall’altro, vale a dire: l’unità 70 Sull’appercezione come coscienza di un atto e di un soggetto dell’atto cfr. M. Candiotto, Deduzione e critica, Roma, Aracne, 2010, pp. 85-102, in partic. pp. 90-91. 71 KrV, p. 110; CRP, p. 245; B135.

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della coscienza, espressa nell’Io penso, è una condizione oggettiva di ogni conoscenza e dunque riguarda la validità oggettiva delle rappresentazioni. L’appercezione, ossia l’autocoscienza, non è solo un mero principio soggettivo, bensì il principio soggettivo con la funzione costitutivamente oggettiva. E perciò Kant parlerà dell’unità oggettiva dell’autocoscienza, mettendo in luce una sorta di identità tra soggetto e oggetto. Il punto è che questa identità è di carattere soggettivo; l’identità tra soggetto e oggetto è insomma basata sul principio dell’autocoscienza e dell’identità con me stesso. Questo “me stesso” identico, pensato nel principio dell’appercezione trascendentale, assume qui il ruolo del punto originario da cui nasce l’oggettività, ossia, esso è la condizione della possibilità degli oggetti. L’oggetto di esperienza, il che vuol dire unificazione del molteplice in un concetto, alla fine risale a quell’unità originaria dell’appercezione senza la quale non sarebbe possibile nessuna congiunzione, e dunque nessuna conoscenza (lato epistemologico) e nessun oggetto (lato ontologico). L’appercezione perciò ha una valenza ontologica, perché non riguarda soltanto le condizioni della possibilità del nostro sapere, ma anche le condizioni del costituirsi dell’oggetto in quanto tale, essendo l’oggetto un fenomeno determinato dal soggetto72. Quando Kant nel paragrafo 18 della Critica distingue l’unità oggettiva dell’autocoscienza da quella soggettiva intende proprio ciò: per poter diventare un oggetto della nostra conoscenza, il molteplice delle rappresentazioni dato nell’intuizione deve riferirsi all’Io penso, all’unità sintetica originaria dell’appercezione. È molto curioso, e non senza poche ambiguità, che Kant denomini l’unità soggettiva della coscienza qualcosa che è legato al livello empirico, composto delle rappresentazioni date nell’intuizione. L’unità è qualcosa che si acquisisce al livello trascendentale soltanto con la logica delle categorie pure e non può spettare alle forme pure dell’intuizione che al massimo svolgono una sorta di sintesi preliminare. Per Kant, la mera determinazione del senso interno grazie alla quale io sono cosciente empiricamente del molteplice, raccolto sotto le forme dello spazio e del tempo me72 Questo è infatti il senso autentico del termine “fenomeno”. Il fenomeno non è più apparenza di qualche essenza, o di qualche verità che sta dietro il fenomeno. Il fenomeno è la manifestazione (Erscheinung) per qualche soggetto. O come nota Deleuze, la manifestazione non rinvia più all’essenza, ma alle condizioni di ciò che si manifesta, cioè al senso di ciò che si manifesta. Kant non pensa più nei termini di apparenza/essenza, ma promuove invece una nuova coppia correlativa manifestazione/senso. Il luogo del senso è il soggetto che non costituisce la manifestazione nella sua essenza, ma il modo in cui ciò che si manifesta gli si manifesta. Cfr. G. Deleuze, Fuori dei cardini del tempo, cit., p. 58.

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diante la facoltà dell’immaginazione, ha un valore esclusivamente soggettivo, e per “soggettivo” Kant qui intende una sorta di contingenza, dunque una relazione non necessaria e non universale. Siccome anche le forme dell’intuizione, e tutto il molteplice dato a priori attraverso esse, sottostanno necessariamente all’unità originaria dell’appercezione, questo non vuol dire altro se non che anche la cosiddetta unità soggettiva della coscienza è derivata dall’unità oggettiva che ne costituisce il fondamento – il motivo per cui Kant in entrambi i casi usa la nozione di unità. La differenza tra l’unità soggettiva e l’unità oggettiva si può spiegare attraverso la distinzione tra i giudizi d’esperienza e i giudizi di percezione effettuata da Kant nei Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza. Kant esplicita questa distinzione distinguendo l’empirico dall’esperienziale; l’empirico sarebbe costituito dal contenuto dato nell’intuizione sensibile, mentre l’esperienziale richiederebbe la relazione con un oggetto attraverso un’altra relazione, quella che nei Prolegomeni è la relazione con la coscienza in generale, ma che si può esprimere, in realtà, come relazione all’Io penso. Il giudizio che si limita a esprimere soltanto la datità empirica basata su una sensazione è dunque il giudizio di percezione. Ma per diventare un giudizio di esperienza, la percezione si deve tra-sformare attraverso l’intervento dei concetti puri dell’intelletto, cioè delle categorie. Il giudizio d’esperienza è soltanto quello che si basa sulla sussunzione delle percezioni alle categorie dell’intelletto e soltanto quel giudizio ha valore oggettivo, cioè instaura una relazione con l’oggetto dell’esperienza. Dunque, l’unità oggettiva della coscienza della prima Critica è proprio ciò che costituisce il giudizio d’esperienza, convertendo un semplice giudizio di percezione, che constata lo stato soggettivo delle cose, e perciò basato sull’unità soggettiva della coscienza, nell’esperienza intesa come conoscenza oggettivamente valida, che esprime una relazione necessaria e universale. L’originalità e la novità della prospettiva trascendentale sta nel fatto che questa relazione necessaria e universale tra i fenomeni, che dà la validità oggettiva al giudizio d’esperienza, è costituita come relazione con una coscienza in generale, cioè con una sorta di coscienza universale espressa attraverso il principio dell’Io penso73. 73 Nel paragrafo 18 dei Prolegomeni Kant aggiunge ancora un altro aspetto dell’argomentazione chiamando in causa l’intersoggettività. Il giudizio d’esperienza è oggettivamente valido, e dunque vale per tutti, creando il consenso intersoggettivo rispetto all’oggetto giudicato. “Quando infatti un giudizio concorda con un oggetto, devono anche concordare fra loro tutti i giudizi sullo stesso oggetto e così la validità oggettiva del giudizio di esperienza non significa altro che la sua neces-

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In altri termini, l’oggetto è costituito dalla relazione con il soggetto, l’oggetto è per noi, e soltanto in quanto per noi, per qualche soggetto, può essere un oggetto. Gegenstand (oggetto), anche nella sua accezione letterale (ciò che sta di fronte) sta nella prossimità del termine Vorstellung (ciò che è messo davanti, di fronte), implicando sempre il rapporto con il soggetto rappresentante. Il passaggio dalla Vorstellung al Gegenstand corrisponde per certi versi al passaggio dall’unità soggettiva all’unità oggettiva della coscienza, nonché al passaggio dal giudizio di percezione al giudizio di esperienza. Vorstellung diventa oggetto, Gegenstand, grazie all’unificazione nel concetto per mezzo degli schemi. La rappresentazione, Vorstellung, non è necessariamente logica; potrebbe essere il risultato della sintesi dell’immaginazione secondo le forme a priori dello spazio e del tempo. Il Gegenstand invece è sempre mediato dalle forme logiche, nonché degli schemi necessari per applicare queste forme logiche. L’unità dell’oggetto è procurata dall’unità del soggetto stesso nella sintesi delle rappresentazioni che esso esibisce. Dunque, il principio della costituzione dell’oggettività trova il suo ultimo fondamento nel rapporto con l’Io penso e con l’autocoscienza. 6. La struttura trascendentale del giudizio: la copula e l’appercezione Tutto questo trattamento ci porta alla teoria kantiana del giudizio. Il rapporto con l’Io penso, costitutivo per il rapporto con ogni oggetto dell’esperienza, si riflette particolarmente nel ruolo che la copula gioca nel giudizio. Il discorso sulla copula è altrettanto importante per la nostra ricerca sul tersaria validità universale […] non vi sarebbe infatti alcuna ragione per cui i giudizi degli altri debbano necessariamente coincidere col mio, se non vi fosse l’unità dell’oggetto (Gegenstand), al quale tutti si riferiscono e concordando col quale tutti devono concordare anche fra di loro” (P, p. 298; Prol, p. 83; §18). Sembra dunque che la validità intersoggettiva si deduca dalla validità oggettiva e dall’unità dell’oggetto. E siccome l’unità dell’oggetto è costituita dalla relazione con la coscienza in generale, dunque anche il consenso intersoggettivo rispetto a questo oggetto sarebbe messo in dipendenza dall’unità oggettiva della coscienza, cioè da quel soggetto universale espresso nel principio dell’Io penso; e dunque potremmo dire che l’intersoggettività avrebbe una fondazione logico-trascendentale ossia soggettiva: soltanto se c’è l’unità dell’oggetto attraverso il collegamento in un coscienza in generale e attraverso i concetti puri come le funzioni logiche dell’unità sintetica, c’è anche l’accordo intersoggettivo di tutti i giudizi che indicano l’oggetto in questione. A questo argomento e alle altre possibili interpretazioni riguardo all’aspetto intersoggettivo nella costituzione dell’esperienza torneremo più in avanti nella trattazione della Critica del Giudizio.

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zo, poiché la copula non è nient’altro che il terzo elemento del giudizio che collega il soggetto con il predicato secondo la forma: S è P. Il giudizio per Kant non ha soltanto un valore logico, e Kant infatti rivolge una critica esplicita alla definizione logica di giudizio in generale (il giudizio come rappresentazione di una relazione fra due concetti). Si potrebbe dire che il giudizio, con Kant, diventa il paradigma logico della sintesi trascendentale, ossia la forma logico-trascendentale dell’esperienza in generale. Interrogarsi sulla forma logico-trascendentale dell’esperienza significa porsi il problema della possibilità di quella relazione tra i concetti contenuta in ogni giudizio. Inoltre, il giudizio per Kant ha anche un valore ontologicotrascendentale, poiché è attraverso la forma del giudizio che si costituisce l’oggettività dell’esperienza. La connessione delle rappresentazioni che costituisce l’oggetto è resa possibile grazie alla determinazione delle forme del pensiero, cioè delle categorie che rappresentano i giudizi sintetici a priori superiori, dai quali poi si deduce la possibilità di ogni giudizio sintetico. Dunque, la forma del giudizio (S è P) esprime l’aspetto formale-trascendentale della costituzione dell’esperienza secondo il quale la rappresentazione del molteplice dato nell’intuizione deve essere congiunta con i concetti puri determinanti dell’intelletto74. L’attribuzione del predicato al soggetto ha il significato della determinazione del primo, cioè del molteplice sensibile. Cosa significa allora la copula in una visione trascendentale del giudizio? Innanzitutto, come scrive Kant, il giudizio è “il modo di portare delle conoscenze date all’unità oggettiva dell’appercezione”75. È proprio qui che si colloca il ruolo della copula. La copula per Kant sta a significare la relazione con l’Io penso, come, appunto, relazione costitutiva dell’oggettualità dell’esperienza: È a questo che mira la particella relativa (Verhältniswörtchen) “è” – la copula – nei giudizi, e cioè a distinguere l’unità oggettiva di rappresentazioni date, da quella soggettiva76.

L’unità soggettiva delle rappresentazioni date è quella connessione che riporta le rappresentazioni alle forme dello spazio e del tempo in virtù anche delle leggi della facoltà riproduttiva dell’immaginazione; l’espressione di questa connessione soggettiva è il giudizio di percezione. Quando, inve74 Cfr. K. Düsing, Schema und Einbildungskraft in Kants Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 61-62. 75 KrV, p. 114; CRP, p. 255; B141. 76 KrV, p. 114; CRP, p. 255; B142.

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ce, Kant definisce il giudizio come il modo di portare delle conoscenze date all’unità oggettiva dell’appercezione, questa definizione corrisponde ai giudizi d’esperienza dei Prolegomeni, i quali appunto hanno una validità oggettiva perché si basano sulle leggi dell’intelletto espresse dalle categorie secondo il principio dell’appercezione trascendentale originaria. “La copula infatti designa il rapporto di queste rappresentazioni con l’appercezione originaria, e la loro unità necessaria”77. Il terzo connettivo è indispensabile e viene qui pensato come relazione con il soggetto, come luogo dove si esibisce il principio dell’appercezione, in quanto unità sintetica originaria e fondamento trascendentale di tutte le sintesi nell’esperienza78. La copula designa quel per noi costituente di ogni oggetto dell’esperienza. È ovvio che questo per noi non ha nessun significato relativista o solipsista, anche se deve avere un significato relazionale; cioè non ha nessun valore puramente soggettivo, che fonderebbe l’esperienza su basi contingenti e arbitrarie, oppure su un’attitudine abituale come in Hume. Al contrario, per noi significa la relazione necessaria con l’autocoscienza nella sua unità oggettiva e dunque rappresenta la forma a priori di ogni unità oggettiva dell’esperienza. Se la copula nel giudizio si riferisce al soggetto trascendentale espresso nel principio dell’appercezione, allora la copula deve poter accompagnare tutte le sintesi delle rappresentazioni, a patto che queste mirino ad assumere un valore oggettivo, cioè a valere come verità oggettiva con la quale tutti sono d’accordo. La copula deve poter accompagnare ogni sintesi nel giudizio nello stesso modo in cui l’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, e qui l’atto dell’accompagnare (begleiten) non vuol dire stare accanto, seguire, assistere come un testimone, ma starne a fondo, essere costitutivo dell’unificazione sintetica dell’esperienza. Da questo punto di vista anche la domanda inaugurale e programmatica della Critica della ragion pura (“come sono possibili i giudizi sintetici a priori”) viene messa meglio a fuoco. Per cosa sta la copula in un giudizio sintetico a priori? Già nell’Introduzione alla Critica, dove Kant effettua la celebre distinzione tra i giudizi sintetici e i giudizi analitici, emerge il problema del terzo in riferimento alla domanda sulla possibilità dell’esperienza. A differenza dei giudizi analitici che sono esplicativi perché attraverso il giudizio espongono tutto ciò che è già contenuto nel concetto, i giudizi sintetici connettono due concetti che non sono contenuti l’uno nell’altro e 77 Ibidem. 78 Sulla copula come “rappresentante” della relazione trascendentale ed extra-apofantica si veda G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, Roma, Aracne, 2005, p. 55.

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perciò non sono immediatamente identificabili. Affinché si possa connettere il concetto A con il concetto B nel giudizio sintetico, bisogna andare fuori del concetto A per incontrare qualcosa di totalmente diverso ed estraneo, per cui ci vuole anche qualcosa di terzo che permetta la connessione di due concetti estranei. Kant chiama questo terzo X: nei giudizi sintetici, oltre al concetto del soggetto io devo possedere ancora qualcos’altro (x), su cui l’intelletto si poggi per conoscere un predicato che, pur non trovandosi in quel concetto, tuttavia gli appartenga.79

E questo qualcos’altro, l’ x sconosciuta, Kant lo identifica con l’esperienza: Questa x, infatti, è l’esperienza completa dell’oggetto, che io penso con un concetto A, il quale costituisce solo una parte di questa esperienza.80

L’esperienza è vista come un insieme, un tutto a cui il primo e il secondo concetto appartengono come due elementi. L’esempio che fa Kant è lo stesso del paragrafo 19 dedicato alla forma logica di tutti i giudizi: il corpo è pesante. Il predicato di pesantezza, come il concetto che non è contenuto nel concetto di corpo, è aggiunto sinteticamente al soggetto (il concetto del corpo) attraverso l’esperienza. È l’esperienza, dunque, quella x che si trova al di fuori del concetto A, e su cui si fonda la possibilità della sintesi del predicato della pesantezza B con il concetto A.81

Insomma questa soluzione non può soddisfare Kant perché bisogna interrogarsi sulla possibilità dell’esperienza stessa, cioè su come è possibile ricorrere a quell’x incognita per sintetizzare due rappresentazioni in un giudizio. L’esperienza funziona come il giudizio sintetico, per cui è alquanto tautologico dire che è l’esperienza quella su cui si fonda la sintesi in un giudizio. Siccome la concezione dell’esperienza a cui Kant ricorre per spiegare la possibilità di un giudizio sintetico già presuppone gli elementi a priori, la vera domanda sarebbe: su cosa si fonda l’esperienza, cioè quale sarebbe la vera x, quella x trascendentale che costituisce una connessione sintetica? Questa domanda apre la strada verso l’indagine sui giudizi sinte79 KrV 1, p. 21; CRP, p. 85; A8. 80 Ibidem. 81 Ibidem.

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tici a priori. Dunque: cosa significa ora quella x in un giudizio sintetico a priori, dato che il campo dell’esperienza non vale più come il terzo su cui appoggiarsi nella connessione di due concetti? Questa domanda corrisponde alla domanda fatta sopra: per cosa sta la copula in un giudizio sintetico a priori? L’esempio kantiano è la proposizione: tutto ciò che accade ha una sua causa. Dunque cosa mette insieme il concetto di accadimento e quello di causa? Questi due concetti si coappartengono con una necessità e universalità che l’esperienza non può procurare. Tuttavia il concetto di causa e il concetto di ciò che accade non sono analiticamente derivabili l’uno dall’altro, per cui la proposizione in questione non è un giudizio analitico bensì sintetico. Allora, se i concetti sono estranei l’uno all’altro e tuttavia sintetizzati a priori, vale a dire necessariamente e universalmente connessi, cosa li connette? O, come scrive Kant: Qual è in questo caso l’incognita x su cui s’appoggia l’intelletto, quando crede di trovare, al di fuori del concetto di A, un predicato B estraneo a esso, ritenendolo al tempo stesso congiunto con esso? Non può essere l’esperienza, poiché il suddetto principio aggiunge alla prima questa seconda rappresentazione non solo con una maggiore universalità, ma anche con il carattere della necessità, e quindi del tutto a priori e in base a semplice concetti.82

Tutta la deduzione trascendentale per certi versi è la risposta a questo interrogativo di Kant. Siccome il culmine della deduzione trascendentale è la scoperta dell’Io penso come principio supremo di tutta la sintesi dell’intelletto, allora quell’incognita x su cui s’appoggia l’intelletto è identificabile con l’appercezione trascendentale e con la sua rappresentazione dell’Io penso. Il giudizio sintetico a priori si basa sull’appercezione trascendentale, che poi a sua volta serve da fondamento di ogni giudizio empirico a posteriori, e dunque di ogni esperienza in generale. Così abbiamo circoscritto il ruolo della copula nel giudizio. Essa apre il campo trascendentale e, istaurando una relazione con l’appercezione trascendentale, esula dalla mera funzione logico-linguistica. L’Io penso a sua volta assume la posizione del terzo, o di quell’incognita x che rende possibile ogni connessione sintetica in un’esperienza possibile83. 82 KrV, pp. 35-36; CRP, p. 87; B13. 83 Anche alla fine della Critica Kant ritornerà più volte su questo tema del terzo necessario per la sintesi: “Ora, un concetto non si può connettere in modo sintetico e immediato con un altro, poiché per poter andare al di là di un concetto è necessaria una terza conoscenza mediatrice” (KrV, p. 480; CRP, p. 1039; B760) e poi: “Al contrario, nella Logica trascendentale abbiamo visto che, pur non po-

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Nelle pagine precedenti abbiamo già provato a distinguere due sintesi in Kant, ossia due livelli dell’attività sintetica: la prima sintesi, che si può definire orizzontale e che riguarda la semplice congiunzione delle rappresentazioni, formando un giudizio empirico in generale, rientra comunque in ciò che Kant chiama l’unità soggettiva delle rappresentazioni; l’altra sintesi, più fondamentale, segue piuttosto una linea verticale connettendo tutta la sfera dell’esperienza con il soggetto trascendentale, cioè con l’appercezione. La sintesi orizzontale sarebbe dunque a posteriori, contingente ed empirica, senza avere la capacità di produrre necessariamente un oggetto dell’esperienza. La sua forma è semplicemente il tempo e il suo principio è l’immaginazione riproduttiva. La sintesi verticale, invece, è proprio ciò che è originariamente sintetico e che si attribuisce all’appercezione trascendentale come principio necessario di ogni sintesi, a cui tutte le rappresentazioni devono sottostare. E infatti la copula, se possiamo raffigurarla in questo modo, sta proprio nel punto dove si intersecano queste due linee di sintesi, cioè nel punto di incontro tra la sintesi orizzontale e la sintesi verticale, connettendo da una parte il soggetto e il predicato del giudizio in una relazione empirica, e dall’altro indicando quell’unità sintetica originaria che è l’appercezione. 7. I tre fattori costitutivi dell’esperienza Nel capitolo “Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici”, che segue la Dottrina dello schematismo e sulla cui base Kant ora intende esporre i principi trascendentali dell’uso dell’intelletto, appare di nuovo il riferimento al terzo termine costitutivo dell’esperienza. Qui, per certi versi, ritorniamo al discorso dell’Introduzione, dove vengono distinti i giudizi analitici dai giudizi sintetici. I primi hanno come principio supremo il principio di non contraddizione: è impossibile che qualcosa sia e non sia allo stesso tempo. Questo principio non è soddisfacente, perché si tratta soltanto di una regola logica negativa, cioè essa è la condizione necessaria ma non sufficiente per la verità. O, come dice Kant: “una conditio sine qua non della verità della nostra conoscenza, ma non la ragione determinante di

tendo oltrepassare immediatamente il contenuto del concetto che ci è dato, noi possiamo tuttavia conoscere interamente a priori la legge della connessione con altre cose, anche e in rapporto ad una terza cosa, vale a dire all’esperienza possibile, e quindi pur sempre a priori” (KrV, p. 500; CRP, p. 1083; B794).

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questa verità”84. In quanto regola negativa e universale che non deve essere trasgredita, ma che di per sé non è costruttiva, il principio di contraddizione è soltanto il principio della pensabilità: per essere pensabile, basta che un concetto non contraddica se stesso. D’altra parte, il principio di contraddizione ha una limitazione che riguarda la temporalità; cioè per far valere il principio di contraddizione ci vuole un’aggiunta temporale, il che è espresso nella clausola “allo stesso tempo”. A non può essere A e non-A, ma soltanto allo stesso tempo. Se però introduciamo una prospettiva di successione temporale, la contraddizione logica non vale più in questo modo. Ad esempio, un uomo non può essere allo stesso tempo giovane e non-giovane, cioè vecchio, ma in un altro tempo questi due predicati logicamente contradditori possono sussistere insieme. E infatti con il corso del tempo un uomo giovane necessariamente diventerà il proprio opposto, cioè nongiovane. Dunque il principio di contraddizione, in quanto principio puramente logico, è applicabile ai giudizi determinabili nel tempo soltanto nel senso ristretto, perché riguarda la pura forma della pensabilità a prescindere dalla determinazione temporale. Questo punto è di particolare rilevanza per il carattere della sintesi stessa. La sintesi è necessariamente un atto temporale; è impensabile senza i rapporti del tempo. Il giudizio analitico, in quanto giudizio che non sintetizza due concetti eterogenei e tra di loro diversi, tratta il concetto, ossia un solo concetto, secondo la condizione di coesistenza atemporale. Il giudizio analitico è per certi versi “spaziale”, perché appunto circoscrive lo “spazio” coerente e non contraddittorio di un concetto, senza mai uscire da questo spazio e giustapponendo i diversi attributi e predicati di questo concetto che gli appartengono contemporaneamente. Se noi usciamo da questo spazio autarchico di un solo e medesimo concetto per fare la sintesi con un altro concetto, allora già abbiamo coinvolto la dimensione temporale. La sintesi sta sempre sotto la forma del tempo. Per lo stesso motivo la copula, in un giudizio analitico, non può essere una copula vera con lo stesso significato che ha in un giudizio sintetico. La copula del giudizio analitico è soltanto esplicativa. “Il triangolo è una figura con tre angoli” non congiunge due concetti per mezzo della copula come terzo sintetizzante. Ebbene, la vera problematica che sta a cuore a Kant è quella del principio supremo di tutti i giudizi sintetici. Questo problema si può tradurre semplicemente nel quesito: qual è il principio di possibilità dell’esperienza? E a questo punto Kant chiama di nuovo in causa la questione di ein Drittes necessario scrivendo: 84 KrV 1, p. 107; CRP, p. 319; A151-2.

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Ammesso dunque che si debba andare al di fuori di un concetto dato, per confrontarlo sinteticamente con un altro, sarà necessario allora un terzo termine (so ist ein Drittes nötig), nel quale soltanto può nascere la sintesi dei due concetti (worin allein die Synthesis zweier Begriffe entstehen kann).85

Abbiamo visto che Kant nell’Introduzione identifica questo terzo con l’esperienza in quanto tale – l’esperienza nel suo insieme, a cui appartengono gli elementi del giudizio sintetico. Ora, l’insieme dell’esperienza sarebbe ciò che fa da nesso e collega le sue parti, cioè il soggetto e il predicato del giudizio, come parti dell’esperienza in generale. In questa sede, invece, dopo l’esibizione della deduzione trascendentale e soprattutto dopo la Dottrina dello schematismo, Kant compie un passo di più, il passo decisivo, e perciò non identifica il terzo con l’esperienza ma con la struttura che rende possibile l’esperienza. Kant si chiede subito: “Ma che cos’è questo terzo termine, inteso come il medio di tutti i giudizi sintetici?” (“Was ist nun aber dieses Dritte, als das Medium aller synthetischen Urteile? ”). Kant cerca la risposta al livello trascendentale perché solo là si può trovare una risposta soddisfacente ed esaustiva. Sembra però che nelle frasi che seguono questa domanda Kant eviti la risposta, torni indietro (indietreggia, direbbe Heidegger), facendo un breve resoconto e accennando i tre fattori costitutivi dell’esperienza in generale. E dunque, scrive Kant, in risposta alla domanda sul terzo come medio di tutti i giudizi sintetici: L’insieme in cui sono contenute tutte le nostre rappresentazioni è solo uno, vale a dire il senso interno e la sua forma a priori, il tempo. La sintesi delle rappresentazioni si basa sulla facoltà di immaginazione, mentre l’unità sintetica dell’immaginazione (unità che si richiede per il giudizio) si basa sull’unità dell’appercezione. È qui dunque che si dovrà cercare la possibilità di giudizi sintetici e – dal momento che tutti e tre questi fattori costituiscono le fonti delle rappresentazioni a priori – anche la possibilità di giudizi sintetici puri.86

Dunque, la questione del terzo conduce Kant a riportare alla mente le tre condizioni fondamentali dell’esperienza possibile: tempo – immaginazione – appercezione. Il medio, das Medium, di tutti i giudizi sintetici non si può collocare in una sola facoltà, ma coinvolge tutta la struttura trascendentale del soggetto basata su questi tre aspetti. Questi passi sono paragonabili al discorso kantiano sulle tre facoltà dell’anima su cui si fondano tre tipi di operazioni (sinossi, sintesi, unità). L’apertura verso il terzo termine, 85 KrV, p. 144; CRP, p. 323; B194. 86 Ibidem.

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la cui necessità si riconosce, comporta la tendenza verso il superamento della soggettività eterogenea e della dualità a essa intrinseca. Tutte le soluzioni tripartitiche che Kant offre comprovano ancora una volta che la sintesi a priori è concepibile soltanto a partire dal presupposto di un terzo connettivo e mediatore. L’operazione della costituzione dell’esperienza si svolge su tre livelli. Al livello del senso interno le rappresentazioni vengono raccolte sotto la forma del tempo. Poi, in virtù della facoltà dell’immaginazione, queste rappresentazioni vengono sintetizzate e alla fine trovano la loro unità sintetica secondo i concetti sulla base dell’unità dell’appercezione. Queste tre facoltà da sole, però, non possono dare un significato reale alla conoscenza, poiché operano sulla base della datità dell’oggetto nell’esperienza. Sembra che Kant, una volta giunto alle tre fonti dell’esperienza come base ultima di ogni conoscenza, ora voglia metterci in guardia contro l’insufficienza di queste tre fonti, e in ultima istanza, contro l’insufficienza dello stesso soggetto trascendentale, in sé vuoto, che rimarrà tale se non si prende atto delle cose fuori di esso, di ciò che gli è esterno. Quest’argomento dell’esteriorità rispetto al soggetto sarà trattato nella Confutazione dell’idealismo in cui l’esperienza interna, cioè la coscienza di noi stessi, viene fatta dipendere dall’esperienza esterna, cioè dall’esistenza degli oggetti esterni. Di primo acchito può sembrare che Kant inverta la direzione della rivoluzione copernicana; cioè, se la svolta kantiana significava far ruotare tutta l’esperienza della natura e del mondo esterno intorno al soggetto trascendentale e alle sue conoscenze a priori, possiamo ora rimanere perplessi davanti alla tesi kantiana che “la nostra stessa esperienza interna, che per Cartesio era indubitabile, è possibile solo con il presupposto dell’esperienza esterna”87. Cartesio non viene qui nominato a caso, dato che l’intenzione principale di Kant è di confutare l’idealismo cartesiano, definito come problematico, perché dubita dell’esistenza degli oggetti fuori di noi, tenendo come certa e indubitabile soltanto l’esistenza dell’Io sono, eletta a sostanza pensante. La critica che Kant fa è fondamentale anche per capire il suo rapporto con Cartesio, giacché si propone, da una parte, di mettere in relazione di mutua dipendenza l’esistenza del soggetto determinata nel tempo attraverso l’esperienza interna e, dall’altra, l’esistenza degli oggetti esterni determinati nello spazio. La polemica con Cartesio dunque non include soltanto la questione del carattere del Cogito, come di solito ci si limita a interpretare (l’Io penso in Kant è pensato come funzione sintetica, mentre in Car87 KrV, p. 191; CRP, p. 427; B275.

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tesio è una sostanza), ma include anche il rapporto tra l’Io penso e il mondo che secondo i principi della filosofia trascendentale in Kant viene elaborato diversamente. Mentre per Cartesio il rapporto veritativo con il mondo richiede la garanzia ontologica di Dio, Kant vuole dimostrare che la semplice coscienza della mia esistenza dimostra l’esistenza degli oggetti fuori di me, nello spazio. È lo sviluppo ulteriore della massima “Io penso, dunque sono”, perché nel momento in cui si dice “Io sono”, secondo Kant, abbiamo pieno diritto di dire anche che il mondo esterno esiste. Questo non vuol dire che l’esistenza delle cose esterne si deduce dall’esistenza di un’autocoscienza, ma che senza l’esistenza delle cose esterne l’autocoscienza non percepirebbe se stessa come autocoscienza. Bisogna discernere questi due piani: il piano trascendentale dell’autocoscienza e il piano fenomenico della coscienza di sé. L’Io penso trascendentale, cioè l’appercezione originaria, non può essere oggetto dell’esperienza possibile, e perciò noi non possiamo desumere tutta la conoscenza di noi stessi dall’appercezione. Essa è una funzione che necessariamente determina ogni rappresentazione e anche la rappresentazione di noi stessi, ma per avere esperienza di noi stessi, la nostra esistenza deve essere determinata nel tempo, come accade con ogni altro fenomeno. Se prestiamo bene attenzione a ciò che Kant scrive in questo capitolo vedremo che egli parla della “coscienza della mia esistenza” e della “coscienza immediata dell’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me”. L’argomentazione di Kant si svolge sul registro del percepito e di ciò che è empiricamente determinato. E infatti tutto il capitolo sulla Confutazione dell’idealismo si riferisce al cosiddetto secondo postulato del pensiero empirico in generale (“ciò che si connette con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è reale”)88. Dunque l’intenzione di Kant è di stabilire, attraverso la confutazione dell’idealismo nella versione cartesiana e in quella berkeleyiana, i principi dell’uso della categoria modale della realtà89. Il collegamento con la realtà, intesa qui nel senso della materia dell’esperienza, viene dischiuso soltanto attraverso la sensazione, cioè dall’essere affetto da qualcosa fuori di me. L’esistenza delle cose, dunque, non ha niente a che fare con il loro concetto– come dimostra tra l’altro la confutazione kantiana della prova ontologica di Dio – ma ha a che fare con la questione se quella cosa sia data o no nella misura in cui il soggetto è affetto da essa o meno. Tutto questo garan88 Cfr. KrV, p. 185ss; CRP, p. 415ss; B266. 89 Sul significato della modalità in Kant in riferimento alle categorie in quanto operatori della sintesi, l’apriori sincategorematico, si veda lo studio di G. Chiurazzi, Modalità ed esistenza, cit.

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tisce la base materiale dell’esperienza, e ciò che Kant intende dire nella “Confutazione” è che questa base materiale è anche la base della coscienza di noi stessi, in quanto determinati nel tempo, cioè in quanto fenomeni. “In questa sede si doveva dimostrare soltanto che l’esperienza interna in generale è possibile unicamente tramite l’esperienza esterna in generale”90 – asserzione che non smentisce per niente il trascendentalismo kantiano, perché l’esperienza, sia interna che esterna, rimane trascendentalmente condizionata. Kant vuole mettere in rapporto i due tipi di esperienza, quella interna e quella esterna, e ribadire con ciò il valore dell’esterno, dell’esteriorità, in quanto campo delle cause dell’esser-affetto e dunque della realtà (Wirklichkeit) della nostra esperienza. Seppure a volte possa sembrare che l’insistenza di Kant sul primato dell’esterno e dello spazio riduca la posizione del soggetto trascendentale, questo primato invece circoscrive il dominio in cui l’attività trascendentale del soggetto si può svolgere. L’esistenza di oggetti esterni indica la possibilità di una relazione esterna con il soggetto, ossia di una permanenza e di una causa che ha effetto su di noi, che produce un’affezione, cioè che ci determina dal di fuori91. In seguito a questa determinazione nasce l’esperienza interna, come anche la coscienza di me stesso in quanto determinato nel tempo. L’autocoscienza determinata, cioè la coscienza di me stesso che sorge dall’esperienza interna, non è una rappresentazione immediata, ma piuttosto una riflessione mediata dall’esperienza esterna per la quale occorrono oggetti esterni come punto di riferimento permanente. Il cardine dell’argomentazione è proprio questo presupposto di un alcunché di permanente, che Kant trova fuori del soggetto, nella realtà esterna delle cose che causano un certo mutamento nel soggetto, cioè lo determinano92. Però, come scrive Kant, né questa permanenza né la causalità, seppur vengano dall’esterno, si trovano nell’esperienza stessa, ma vengono presupposte a priori. In altre parole, neanche la materia dell’esperienza può essere assolutamente indipendente dal soggetto, perché include già la modalità della determinazione secondo la quale il soggetto viene affetto. Come segno della sua limitazione e dei limiti dell’esperienza possibile, la materia non può essere creata dal soggetto – qualcosa rimane sempre fuo90 KrV, p. 193; CRP, p. 433; B279. 91 Sulla mancante prova degli oggetti che esistono fuori di noi come “scandalo della filosofia” nell’ottica di Heidegger, cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p. 255s., §43. 92 “Dunque, la percezione di questo permanente è possibile solo grazie a una cosa fuori di me, e non in virtù della semplice rappresentazione di una cosa fuori di me” (KrV, p. 191; CRP, p. 429; B 275).

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ri, all’esterno. E grazie a questo esterno io giungo alla rappresentazione di me stesso, perché senza essere determinato, non sarebbe possibile nessuna conoscenza di me (nel senso fenomenico di autopercezione). Ma ciò non cambia il fatto che quel “fuori di me” includa necessariamente una relazione a priori con il soggetto trascendentale, perché altrimenti non potrei essere neanche determinato. Insomma, per autopercepirsi come soggetto, il soggetto deve essere determinato dagli oggetti esterni, ma per essere determinato ci vogliono innanzitutto le condizioni soggettive della recettività. L’idealismo così non viene confutato, ma piuttosto emancipato sia dalle sue derive dogmatiche sia da quelle scettiche. Insomma, bisogna che l’oggetto sia in qualche modo dato (e appunto questo modo in cui l’oggetto si dà è determinato dal soggetto trascendentale). Se entriamo nel merito allo scopo di scoprire che cos’è questa datità dell’oggetto, vediamo che essa è un concetto relazionale. “Dare un oggetto [...] non è altro che riferire la rappresentazione dell’oggetto all’esperienza (sia essa effettiva o soltanto possibile)”93. Anche la possibilità di essere dato è una possibilità radicata trascendentalmente nel soggetto, poiché il soggetto deve essere dotato della capacità di ricevere qualcosa come dato. La datità è comunque sempre per un qualche soggetto a cui si dà un fenomeno. In altri termini, la materia dell’esperienza non è mai data come informe, cioè senza essere formata. La forma precede la materia, come dice Kant nelle Anfibolie94, anche se la forma ha senso soltanto se c’è la materia da formare, cioè da determinare secondo i concetti dell’intelletto95. La precedenza della forma rispetto alla materia per Kant, infatti, significa la precedenza della possibilità rispetto all’attualità. Anche al livello della datità della materia, come abbiamo visto, la forma del soggetto non può essere esclusa; per essere affetto il soggetto deve essere predisposto all’affezione secondo le proprie modalità (le forme)96. 93 KrV, p. 144; CRP, pp. 323-324; B195. 94 Cfr. KrV, p. 219; CRP, p. 493; B324. 95 “L’intelletto, cioè, esige anzitutto che qualcosa sia dato (almeno nel concetto) per poterlo determinare in un certo modo […] e non sarà la materia (o le cose stesse che appaiono) a stare a fondamento (come si dovrebbe giudicare in base a semplici concetti), giacché al contrario la possibilità della materia stessa presuppone un’intuizione formale (tempo stesso) come data” (KrV, pp. 218-219; CRP, p. 493; B323-324). 96 In altri termini, già l’intuizione contiene in sé una dualità, cioè un aspetto passivo e l’altro attivo: l’intuizione è la capacità recettiva delle sensazioni, stare davanti alla datità ed essere sotto l’influsso delle sensazioni, però l’intuizione è anche la forma che ordina queste sensazioni e le mette in determinate relazioni. L’aspetto attivo è dunque imprescindibile.

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Su questa linea di riflessione bisogna cercare anche il senso della frase kantiana: “La possibilità dell’esperienza, dunque, è ciò che fornisce realtà oggettiva a tutte le nostre conoscenze a priori”97. L’esperienza non è soltanto la sua materia, cioè l’empirico, quello che è dato, ma anche ciò senza di cui questo dato non può essere affatto dato, dunque la possibilità del dato, quel “dare un oggetto”. Se nella Confutazione dell’idealismo abbiamo visto la priorità dell’esterno e del suo dato per la possibilità dell’esperienza interna, qui la realtà oggettiva delle nostre conoscenze a priori si può dare soltanto attraverso la relazione di queste conoscenze all’esperienza, intesa come sintesi empirica, o più precisamente, come unità sintetica dei fenomeni. Sembra che il discorso venga di nuovo fatto ruotare intorno al dato, alla materia, a qualcosa di esterno, fuori, qualche x – direbbe Kant. Tutto ciò costituisce l’ambito dove i nostri giudizi sintetici a priori si fanno valere. Però, quest’ambito di esperienza reale e materiale è d’altronde reso possibile dagli stessi principi a priori su cui si fondano i giudizi sintetici. Per questo Kant dirà che la realtà oggettiva si ottiene dalla stessa possibilità. Il primato della possibilità sull’attualità viene riaffermato. L’esperienza, dunque, ha come fondamento i principi della sua forma a priori, vale a dire le regole universali dell’unità nella sintesi dei fenomeni, e la realtà oggettiva di queste regole – intese come condizioni necessarie – la si può mostrare nell’esperienza, anzi persino nella possibilità dell’esperienza.98

Pare che Kant si imbatta in una sorta di circolo vizioso nell’argomentazione: egli vuole giustificare l’esperienza attraverso le regole a priori, le quali a loro volta hanno validità effettiva soltanto nell’esperienza99. Potremmo dire che Kant si muove su due piani da discernere: fondare la real97 KrV, p. 144; CRP, p. 325; B195. Per la realtà oggettiva Kant usa il termine Realität (objektive Realitat), mentre parlando delle condizioni materiali dell’esperienza (ad esempio, nel secondo postulato del pensiero empirico in generale dove si tratta del fondamento del reale), egli usa il termine wirklich. 98 KrV, p. 145; CRP, p. 325; B196. 99 “perciò qui i giudizi sintetici puri si riferiscono – anche se solo mediatamente – all’esperienza possibile, o meglio alla sua stessa possibilità, ed è soltanto su ciò che essi fondano la validità oggettiva della loro sintesi” (KrV, p. 145; CRP, pp. 325-7; B196). Se la possibilità dell’esperienza, tutto sommato, si fonda sui giudizi sintetici puri, e se questi giudizi si riferiscono alla stessa possibilità dell’esperienza, come scrive Kant, per acquisire la validità oggettiva, sembra che i giudizi sintetici puri si riferiscano a se stessi. L’unico modo di evitare il paradosso è di capire che l’esperienza possibile qui significa l’esperienza realmente possibile dove la possibilità già abbraccia tutta la struttura della realtà. E appunto questa struttura è intessuta dai giudizi sintetici a priori. Questi giudizi costituendo la possibilità

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tà oggettiva di ogni giudizio sintetico tramite giudizi sintetici a priori e poi verificare questi stessi giudizi sintetici a priori tramite l’esperienza reale. Il punto è che il rapporto tra l’esperienza e le sue regole a priori non va visto come un rapporto tra l’interno e l’esterno, poiché l’esperienza è già qualcosa che include gli elementi interiori (le proprie condizioni radicate trascendentalmente nel soggetto) accanto al materiale che arriva dall’esterno, dal di fuori del soggetto. Anche il concetto dell’oggetto comporta questi due piani: il piano del reale e il piano del possibile. Tra questi due si inserisce di nuovo la figura del terzo: Al di fuori di questo rapporto, però, le proposizioni sintetiche a priori sono del tutto impossibili, poiché non hanno un terzo termine (kein Drittes), e cioè un oggetto (reinen Gegenstand) nel quale l’unità sintetica dei loro concetti possa mostrare una realtà oggettiva.100

Quando chiama in causa l’oggetto, Kant non si riferisce (soltanto) a qualcosa che ci arriva dall’esterno – il materiale fenomenico –, bensì al materiale fenomenico raccolto nel tempo, sintetizzato attraverso l’immaginazione, formato e unificato secondo il principio dell’appercezione. L’oggetto (Gegenstand), come abbiamo detto, è pur sempre un prodotto. Se l’oggetto qui comincia a giocare il ruolo del Drittes, così è perché per oggetto si intende il risultato della formazione dell’esperienza, il prodotto di tutti e tre i fattori di cui si è parlato sopra. Per di più, Kant vuole dire che questi tre fattori (tempo – immaginazione – appercezione), si dimostrano essi stessi oggettivamente validi soltanto se con le loro forze congiunte producono un oggetto dell’esperienza. A ciò ci rimanda anche l’asserzione kantiana: “Le condizioni della possibilità dell’esperienza in generale sono al tempo stesso condizioni della possibilità degli oggetti [corsivo nostro] dell’esperienza”101. 8. Il terzo si deve dare: “Nun ist klar, daß es ein Drittes geben müsse” È importante tener presente la sintesi trascendentale kantiana come atto intrinsecamente connesso con la forma temporale del soggetto. La tripartizione della sintesi nella edizione A della Critica (apprensione, riproduzione, ricognizione) mostra bene lo sfondo temporale della sintesi. La tempodell’esperienza reale in questo atto costituente acquisiscono la propria validità, cioè la propria realtà. 100 KrV, p. 145; CRP, p. 325; B196. 101 KrV, p. 145; CRP, p. 327; B197.

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ralità della sintesi trascendentale è centrale anche nel famoso e tanto discusso capitolo sullo schematismo. Questo capitolo che Kant stesso ha considerato molto importante e altrettanto indispensabile102 è per molte ragioni centrale nella fondazione della critica trascendentale. Lo schematismo dispiega ed elabora le considerazioni intorno all’immaginazione a partire dalla Deduzione trascendentale, ponendo la questione dell’applicazione dei concetti puri al materiale sensibile, ossia della sussunzione delle intuizioni sotto le regole dell’intelletto103. Possiamo dire che la deduzione trascendentale culmina con questo doppio movimento che è l’applicazione delle categorie (movimento dall’alto) e la sussunzione delle intuizioni empiriche (movimento dal basso). Sia l’uno sia l’altro segnano il problema fondamentale, che è quello della necessità di mediare tra sensibilità e intelletto. L’analitica dei principi, con la quale Kant introduce una terza facoltà – quella del giudizio –, intesa proprio come facoltà della sussunzione, si propone dunque di rispondere alla domanda principale: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Se la deduzione trascendentale ha chiarito la validità oggettiva dei concetti puri dell’intelletto e della sintesi categoriale, il secondo libro dell’Analitica deve esaminare i principi che realizzano il meccanismo della spontaneità esposto e giustificato nella Deduzione. Il compito di trovare i principi della realizzazione o della concretizzazione si può presentare anche come un problema architettonico all’interno dell’edificazione critico-trascendentale dell’esperienza, cioè come bisogno di unire le prime due parti della Critica – l’Estetica e la Logica trascendentale. 102 Cfr. P, p. 316; Prol, p. 103; §34. 103 Robert Pippin nota giustamente che la questione della sussunzione va vista come determinazione del molteplice sensibile secondo un’unità concettuale. Il discorso dello schematismo sembra che torni per certi versi alla visione non-funzionalistica dell’unità concettuale, cioè sembra che, parlando di “sussunzione”, “inclusione”, Kant abbracci una visione più tradizionale del rapporto tra l’oggetto e il suo concetto, secondo la quale l’oggetto sarebbe incluso in qualcosa di più universale, come concetto. Secondo Pippin Kant aveva già rotto con questa visione nella Deduzione dove i concetti sono spiegati come le regole, cioè come le funzioni dell’ordinare e determinare il molteplice sensibile secondo l’unità della sintesi. In altre parole, il concetto è universale non come genere o classe superiore che include gli oggetti sussunti, ma come la regola universale della loro sintesi. E di conseguenza anche il problema del terzo (das Dritte), che lo schematismo mette in evidenza, sarebbe sostanzialmente il problema del terzo tra il determinante (concetto come regola-funzione) e il determinato (fenomeno sensibile). Cfr. R. Pippin, The Schematism and Empirical Concepts, in “Kant-Studien”, n. 67, 1976, pp. 156171. Invece, sul concetto della sussunzione ontologica e sulla differenza fra “riportare sotto concetti” e “riportare a concetti” si veda M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 98.

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Lo schematismo apre indubbiamente l’ambito della teorizzazione di quel terzo elemento necessario per adempiere al compito accennato sopra, quello di colmare lo scarto tra intelletto e sensibilità. Kant lo esprime apertamente: Ora, è chiaro che si deve dare un terzo elemento, il quale da un lato dev’essere omogeneo con la categoria e dall’altro lato con il fenomeno, per rendere possibile l’applicazione della prima al secondo.104

Su che cosa si basa questa necessità di avere un terzo elemento intermediario? Si basa semplicemente sulla necessità degli stessi giudizi sintetici a priori, insomma sulla necessità della sintesi stessa. Il terzo elemento necessario, dunque, risponde alla domanda della possibilità di questa necessità, poiché senza questo terzo elemento la necessità della sintesi a priori non sarebbe possibile. Diciamo che proprio in questo luogo del Drittes si intrecciano la necessità e la possibilità come due categorie modali, che soltanto insieme e nella loro profonda coesistenza fondano la sintesi trascendentale. Ma cosa sarebbe questo terzo di cui si sostiene la necessità? Ciò che svolge il ruolo del terzo, mediando tra il contenuto sensibile e la forma intellettuale, è proprio lo schema. L’orizzonte del terzo, necessario per compiere la sintesi, viene già aperto con l’introduzione della facoltà di giudizio, la quale si avvale degli schemi per applicare i concetti al materiale sensibile105. Questa facoltà, che viene annoverata tra le tre facoltà superiori della conoscenza, non procura però nessun concetto, nessun’immagine e neanche alcuno schema, ma compie l’attività logica di sussunzione del materiale intuitivo all’appropriata regola concettuale, cioè al concetto giusto. La sussunzione giusta sotto le regole è sempre anche un’applicazione giusta del concetto, a cui si sussumono le rappresentazioni. Giudicare perciò significa trovare nel caso singolo, sotto le circostanze particolari, il concetto giusto da applicare. Kant definisce perfino la facoltà di giudicare “un talento particolare, che non può essere insegnato, ma solo esercitato”106. La domanda che si fa di conseguenza è come si possano prescrivere le regole e le norme dell’uso corretto a qualcosa che spetta al talento naturale. La risposta di Kant è senza dubbio negativa e su ciò si basa la differenza tra intelletto e giudizio107. 104 105 106 107

KrV, p 134; CRP, p. 301; B177. Cfr. O. Höffe, Immanuel Kant, Bologna, Mulino, 2002, pp. 92-93. KrV, p 131; CRP, p. 295; B172. Altrove (KrV, p. 86; CRP, p. 191; B94) Kant invece definirà l’intelletto, in generale, come la facoltà di giudicare, per cui le categorie dell’intelletto saranno esposte secondo le funzioni dei giudizi.

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Se l’intelletto si presta a essere istruito attraverso le regole della logica generale, l’addestramento della facoltà di giudizio, invece, procede secondo un altro ordine, che possiamo definire l’ordine degli esempi particolari108 e dell’esperienza induttiva. In questa esperienza non ci può aiutare la conoscenza della logica, ma soltanto il dono di natura, il senso intimo di saper distinguere ciò che rientra sotto un concetto da ciò che non vi rientra. A Kant però interessa giustificare trascendentalmente questa facoltà, cioè determinare le regole a priori, o meglio dire, quali sono le condizioni d’uso delle regole, che rendono possibile la distinzione tra i casi particolari secondo il concetto che va applicato. Quest’applicazione, innanzitutto, presuppone uno scarto tra fenomeno e concetto, e anche un’eterogeneità, la quale, abbiamo visto, contrassegna sin dall’inizio il soggetto kantiano. Messa in questa luce, l’applicazione dei concetti attraverso gli schemi si presenta come la soluzione kantiana finalizzata a far funzionare l’intera costituzione dell’esperienza da parte del soggetto intrinsecamente eterogeneo. Bisogna far notare che c’è una differenza tra l’uso (Gebrauch) e l’applicazione (Anwendung) delle categorie109. L’uso può essere anche non empirico, e infatti tutta la dialettica trascendentale ha a che fare con questo tipo di uso delle categorie, che oltrepassa i limiti dell’esperienza possibile. Invece l’applicazione sottintende un atto di limitazione, poiché essa esige ciò a cui si applica, cioè qualcos’altro che costituisce il terreno dell’applicazione. La problematica kantiana nasce dal fatto che quest’altro, il materiale a cui si applica (i fenomeni), è totalmente diverso da ciò che si deve applicare (categorie). La questione dell’applicazione non avrebbe senso laddove i concetti fossero direttamente intuibili nel puro dato fenomenico o, detto altrimenti, dove il fenomeno dato nell’intuizione fosse una diretta istanziazione del concetto appropriato. Siccome c’è uno scarto che va mediato, il problema dell’applicazione resta aperto. Lo schematismo perciò fa parte della ricerca trascendentale di quel punto fondamentale, il cardine su cui si impernia tutta la costituzione dell’esperienza conoscitiva, cioè quel termine medio che rende possibile l’unità tra concetto e fenomeno. Con ciò si dà uno sguardo decisivo al ruolo che immaginazione gioca nel costruirsi della nostra conoscenza. 108 Kant dice che gli esempi sono come un Gängelwagen, una sorta di dande, per la facoltà di giudizio (KrV, p 132; CRP, p. 297; B174). Interessante da notare è che la stessa parola viene usata nel testo Che cos’è l’illuminismo? come metafora dell’immaturità dell’umanità da cui appunto bisogna uscire. 109 Cfr. W. Detel, Zur Funktion des Schematismuskapitels in Kants Kritik der reinen Vernunft, in “Kant-Studien”, n. 69, 1978, p. 21.

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Sembra che la facoltà di giudizio e la facoltà dell’immaginazione si sovrappongano nella loro funzione di mediazione. È vero che entrambe occupando una posizione intermedia svolgono una certa mediazione, ma, come abbiamo già accennato, la facoltà di giudizio, anche se sicuramente è una facoltà creativa, non è produttiva; non è essa che produce gli schemi, il cui utilizzo effettua l’applicazione. La facoltà di giudizio fa da ponte tra concetto e fenomeno, utilizzando gli schemi prodotti dall’immaginazione, per giudicare un fenomeno come sottomesso a un concetto, cioè per concettualizzarlo e identificarlo110. Grazie a questa facoltà noi siamo capaci, ad esempio, davanti a un cavallo, una chiesa oppure un atto criminale, di riconoscere e identificare giustamente questi fenomeni come determinati da un certo concetto che vi si applica (il concetto di cavallo, di chiesa, o di criminalità). In questo caso, che è il caso dei concetti empirici, lo schema è comunque necessario per effettuare il passaggio dal fenomeno dato al concetto appropriato, ma lo schema che interviene non proviene dalla stessa facoltà di giudizio bensì dall’immaginazione produttiva. Quando si tratta degli schemi trascendentali, cioè degli schemi dei concetti puri, il ruolo dell’immaginazione viene messo a fuoco più precisamente. Nel caso di questi schemi Kant è animato dall’interesse di giustificare l’uso delle categorie (come realtà, sostanza, possibilità ecc.), che poi sono sempre presenti in ogni atto della facoltà di giudizio che riconosce, distingue o identifica i fenomeni. Perciò sarebbe forse più opportuno dire che il giudizio, in quanto funzione logica di sussunzione all’intelletto, è un semplice esecutore che fa il suo lavoro sulla base dei risultati della produzione dell’immaginazione; questi prodotti (Produkte der Einbildungskraft) sono appunto gli schemi. Mentre la deduzione trascendentale mette a fuoco la validità oggettiva delle categorie, lo schematismo si occupa di come queste categorie funzionano nella determinazione del materiale e come questo materiale viene formato e riconosciuto in un concetto. Lo schematismo, dunque, tenta di spiegare ulteriormente anche la triplice sintesi dell’edizione A e soprattutto la sintesi della ricognizione, che procura l’unità alla sintesi del molteplice e costituisce l’oggetto, senza spiegare però in che modo e grazie a quale ele110 La domanda che si potrebbe fare, e che ripete un po’ l’antica obiezione di Aristotele alla teoria platonica, nota come problema del terzo uomo, è la seguente: se ci vuole un terzo termine per applicare il concetto giusto al fenomeno dato, come sappiamo che lo schema impiegato sia giusto? Dunque occorre un altro termine medio, il quarto, che media tra lo schema e il concetto, per determinare lo schema giusto per questo concetto. Però anche questo nuovo elemento, il termine medio aggiunto, non è giusto per sé, così ci vuole un altro termine medio e via discorrendo.

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mento sia possibile mettere insieme due dimensioni separate della conoscenza umana affinché tutto possa funzionare. La domanda “come” è fondamentale nella dottrina dello schematismo e non a caso gli schemi stessi saranno definiti da Kant come rappresentazioni di un metodo per rappresentare una pluralità in un’immagine111. Se le categorie sono regole secondo le quali il materiale viene formato e ordinato, gli schemi sono dunque le regole per queste regole, sono le regole dell’applicazione delle regole. Questa introduzione di un nuovo livello delle regole (schematiche) che si riferiscono alle regole (categoriali) già definite e giustificate nella deduzione trascendentale può sembrare una mera ripetizione superflua. Non mancano le interpretazioni che sostengono una simile interpretazione, descrivendo lo schematismo come superfluo, confuso o persino insensato112. A noi interessa qui insistere sulla legittimità e anche necessità dello schematismo che, lungi dall’essere una confusione aggiuntiva e inutile, serve a specificare e sviluppare i risultati della deduzione delle categorie113. Se questa deduzione ha spiegato che le categorie sono le leggi che si impongono al materiale sensibile, lo schematismo presenta le istruzioni per far entrare queste leggi in vigore nel modo giusto. Lo schematismo, nel suo compito di controllo e di regolazione, per evitare ciò che Kant in latino chiama lapsus iudicii, i passi falsi della facoltà di giudizio, appare così come paradigma del progetto kantiano dell’idealismo critico, inteso appunto come controllo dei confini dell’esperienza possibile. Dunque, la cosiddetta Restriktionsthese kantiana, cioè la restrizione della conoscenza all’ambito delle intuizioni empiriche, trova nello schematismo la sua giustificazione più forte. Lo schematismo deve garantire l’applicazione giusta delle categorie e perciò anche l’esperienza legittima. Lo schematismo, dunque, si può esaminare correttamene soltanto all’interno di un’impostazione trascendentale-critica che circoscrive i confini dell’uso legittimo delle categorie e dell’esperienza possibile. La parola chiave dello schematismo è tuttavia la mediazione, in quanto l’esperienza possibile e la validità oggettiva delle categorie vengono pensate in termini di mediazione con il dato sensibile. Senza questa mediazione, l’esperienza sarebbe o vuota o cieca, e le categorie non avrebbero alcun significato rea111 Cfr. KrV, p. 135; CRP, p. 305; B179. 112 Cfr. H. A. Prichard, Kant’s Theory of Knowledge, Oxford, Clarendon Press, 1909; J. Bennett, Kant’s Analytic, Cambridge, Cambridge University Press, 1966. 113 Sullo Schematismuskapitel come compimento della deduzione (Vollendung der Deduktion) si veda W. Detel, Zur Funktion des Schematismuskapitels, cit., p. 41. Un simile approccio allo schematismo si trova anche in già accennato S. L. Gibbons, Kant’s Theory of Imagination, cit.

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le e oggettivo, ma soltanto quello puramente logico. Lo schema, dunque, nella sua definizione più elementare, è una vermittelnde Vorstellung, che è allo stesso tempo intellettuale e sensibile. È proprio sulla base di questa duplice natura che si basa il ruolo mediatore degli schemi. Essi riescono a colmare l’abisso che separa il concetto intellettuale dal fenomeno sensibile, e dunque a superare la loro eterogeneità intrinseca, proprio perché stanno sia dall’una che dall’altra parte, partecipando a entrambi i domini. E appunto il tempo, per Kant, assume questo significato ambiguo, avendo caratteri comuni sia con l’intelletto che con la sensibilità. Allora, perché non basta la sola forma del tempo come vero mediatore tra l’uno e l’altro? Il tempo, secondo i risultati dell’Estetica trascendentale, è una pura intuizione, la forma del senso interno che definisce il modo in cui ogni rappresentazione che abbiamo sarà collocata nel nostro animo. È ovvio che questo esito non basta a Kant per eleggere il tempo al ruolo di mediatore tra sensibilità e intelletto. Kant, con lo schematismo, invece, parla della determinazione trascendentale del tempo (transzendentale Zeitbestimmung). La determinazione del tempo, in quanto determinazione universale, è omogenea alle categorie, che sono determinanti per definizione, ma d’altronde essa è anche omogenea alle intuizioni, poiché il tempo, come forma del senso interno, come pura intuizione, è la forma di ogni fenomeno in generale che appartiene al soggetto come sua Vorstellung. Perciò gli schemi non sono nient’altro che questa Zeitbestimmung trascendentale. L’applicazione dunque assume anch’essa un significato temporale: “Un’applicazione della categoria ai fenomeni sarà possibile mediante la determinazione trascendentale del tempo”114. Con questa precisazione si amplifica anche il significato stesso di tempo. Non è più soltanto pura forma dell’intuizione, ma è la forma della sintesi in quanto tale, che fa da orizzonte per lo schematismo e per l’applicazione dei concetti. Vediamo ora come Kant descrive gli schemi. Infatti, ci sono tre gruppi distinti da Kant: gli schemi per i concetti empirici, gli schemi dei concetti sensibili puri (come i concetti dell’algebra o della geometria) e infine gli schemi dei concetti puri, cioè delle categorie a priori dell’intelletto. La densità dello Schematismuskapitel sta proprio nella difficoltà di penetrare nelle differenze che ciascuno di questo gruppo di schemi porta con sé – insieme con gli esempi che Kant fa – per poter poi definire cosa è lo schema in quanto tale e quali sono i caratteri comuni che contraddistinguono gli schemi a prescindere dal tipo di concetti che li accompagnano. E già alla prima pagina dedicata allo schematismo abbiamo l’esempio di un piatto, cioè un 114 KrV, pp. 134-135; CRP, p. 303; B178.

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concetto empirico, che è per Kant omogeneo con il concetto geometrico di un circolo. Questo esempio può forse sembrare fuorviante, dato che Kant qui parla dell’omogeneità tra due tipi di concetti, e non di omogeneità tra il concetto e il fenomeno, il che sarebbe il vero tema dello schematismo che gli sta a cuore. Kant, infatti, fa questo esempio per dimostrare la differenza dai concetti puri dell’intelletto, dove manca quell’omogeneità115 che troviamo tra la rappresentazione di un piatto e la rappresentazione di un circolo, perché un concetto puro dell’intelletto è così lontano da una rappresentazione sensibile e questa gli è totalmente estranea che non si può affatto trovare alcuna intuizione sensibile che esprima un concetto puro. Il concetto di piatto è omogeneo a quello di circolo perché la produzione di un’immagine di un piatto, ad esempio designando un piatto sulla carta, necessariamente comporta anche la produzione dell’immagine del circolo: non possiamo disegnare un piatto senza disegnare anche qualche cerchio o figura circolare. Perciò, grazie a questa omogeneità, l’oggetto-piatto potrebbe essere concettualizzato in modo da esser definito come un oggetto circolare. Se ci sono i concetti, che non sono eterogenei, oppure non tanto diversi, come scrive Kant, dai “concetti che rappresentano l’oggetto in concreto”, in questo caso il problema dell’applicazione non si pone e non c’è bisogno del “terzo” tra di loro. È questo il caso dei concetti empirici, come sarebbe l’esempio kantiano di un piatto? Allora i concetti empirici non hanno bisogno dello schematismo116? Sembra dunque che il vero problema dell’applicazione e del come questa sia possibile si trovi appunto nel campo dei concetti puri dell’intelletto, caratterizzato da un’incontestabile eterogeneità rispetto alle rappresentazioni fenomenico-empiriche. Kant tuttavia continuerà a utilizzare gli esempi dei concetti empirici per spiegare meglio cosa intende per schema. E così, proprio con l’esempio del concetto di cane (dunque un concetto empirico), Kant definirà gli schemi in termini di regole che servono all’immaginazione per determinare la nostra intuizione di un qualche oggetto (ad esempio l’intuizione di un cane di una certa razza particolare e con un qualche nome che gli diamo nell’esperienza), cosicché questa intuizione sarà 115 Più precisamente, il termine omogeneità, ovvero la Gleichartigkeit (similitudine, affinità), si riferisce al rapporto tra le rappresentazioni di origine diversa e non tanto al rapporto tra oggetto e concetto. Il rapporto tra oggetto e concetto è pensato nei termini di sussunzione, la quale è però possibile soltanto grazie all’omogeneità tra la rappresentazione intuitiva dell’oggetto e la sua rappresentazione concettuale. Cfr. W. Detel, Zur Funktion des Schematismuskapitels, cit., p. 38. 116 Per approfondire questo tema si veda il già citato articolo di Robert Pippin, The Schematism and Empirical Concepts, in “Kant-Studien”, n. 67, 1976, pp. 156-171.

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concettualizzata e messa sotto il concetto di cane. Invece, quando parla degli schemi dei concetti geometrici (come il triangolo), Kant definisce questi schemi “una regola della sintesi della facoltà di immaginazione riguardo alle figure pure nello spazio”117. Oppure riguardo ai numeri, lo schema sarebbe “la rappresentazione di un metodo per rappresentare [...] una pluralità in un’immagine” ossia “rappresentazione di un modo generale di procedere della facoltà di immaginazione consistente nel procurare ad un concetto la sua immagine”118. Come vediamo, lo schema viene legato a una procedura, ossia un metodo costruttivo che ci permette di disegnare un triangolo sulla carta, oppure di rappresentare il numero cinque con cinque punti. Si tratta sempre di una produzione, soltanto a diversi livelli (cioè lo schema è un prodotto trascendentale che serve per una produzione dell’immagine empirica). Gli schemi in quanto prodotti dell’immaginazione trascendentale servono a loro volta anch’essi a produrre una figura nello spazio, oppure un’immagine, dunque una rappresentazione empirica. Dunque, se i concetti sono pensati come regole o funzioni della sintesi, lo schema potrebbe essere definito appunto nei termini del metodo dell’uso di queste regole. Come risultato di quest’uso abbiamo un’immagine. Dunque il discorso kantiano alla fine ci conduce alla nuova tripartizione: concetto, schema, immagine119. Qui soprattutto entra in gioco la differenza tra lo schema e l’immagine (Bild). L’immagine è sempre una singola rappresentazione legata a un’intuizione sensibile, mentre lo schema è quella regola universale che ci permette di rappresentare un concetto con un’immagine. Scrive Kant a tal proposito: “L’immagine è un prodotto della facoltà empirica dell’immaginazione produttiva”120, mentre lo schema dei concetti sensibili è un prodotto della facoltà trascendentale della facoltà dell’immaginazione. Kant qui fa di nuovo una restrizione, parlando di un certo tipo di schemi, cioè degli schemi che riguardano i concetti sensibili (come quelli geometrici), dei quali dà una nuova definizione: lo schema è un monogramma della facoltà pura di immaginazione. Il monogramma121 dunque sarebbe questa rappresentazione che 117 KrV, p. 136; CRP, p. 305; B180. 118 KrV, p. 135; CRP, p. 305; B179. 119 Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 85ss. Heidegger introduce la nozione dello schema-immagine per designare questo modo particolare di procurare certe immagini che non è un semplice “rappresentare in immagine”, ma piuttosto un rappresentare concettuale. 120 KrV, p. 136; CRP, p. 307; B181. 121 Kant, poi, più avanti nella Dialettica trascendentale parlando dell’ideale in generale definirà i monogrammi come “singole linee tracciate senza seguire alcuna re-

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sta a metà tra concetto e immagine e che per di più rende possibile il disegno di una qualche figura geometrica o, come nel caso del concetto (empirico) di cane, fa delineare una qualche figura di un animale quadrupede122. Il monogramma, oltre ad essere una sorta di matrice di stampa che produce la rappresentazione sensibile di un concetto, serve anche per riconoscere gli oggetti presenti come rappresentati in un concetto. Il riconoscimento concettuale e l’identificazione degli oggetti singoli viene in linea di massima ricondotto alla dimensione produttiva123. Il riconoscere vuol dire produrre, gola accertabile, che vengono a formare un disegno per così dire fluttuante nel mezzo di esperienze diverse, piuttosto che un’immagine determinata” (KrV, p. 385; CRP, p. 835; B598). Kant li paragona con quelle creazioni dei pittori che servono da modello irraggiungibile di intuizioni empiriche possibili; queste creazioni sono come uno Schattenbild, dice Kant, un’immagine-ombra incomunicabile dei prodotti artistici. Perciò Kant li denomina anche “ideali della sensibilità”. Come si vede anche qui il monogramma viene richiamato come modello in un processo creativo e produttivo. Bisogna però accennare che in queste pagine il monogramma viene richiamato soltanto per far differenza con gli ideali della ragione, che sono invece concetti degli oggetti completamente determinabili, anche se questa determinazione non è empirica e non si basa sull’esperienza possibile. 122 Come nota Alfredo Ferrarin: “Lo schema del cane non può essere analogo a quello del triangolo per il motivo che un’intuizione del cane che esibisca il suo concetto in concreto va fornita dall’esperienza” mentre lo schema del triangolo “produce una singolarità sensibile come esibizione a priori di un concetto” (A. Ferrarin, Schematismo e costruzione. Il rapporto tra la matematica e la rappresentazione apriori dei concetti nella sensibilità in Kant, in “Rivista di Estetica”, n. 1-2, 1996, p. 36). Dunque la materia, ossia l’immagine concreta nel caso del triangolo, è “qualcosa che ho prodotto io, non qualcosa che ho trovato”. Lo schematismo matematico è perciò l’esempio della costruzione dell’immagine e dell’esibizione del concetto nell’intuizione. 123 “Kant’s solution involves locating the abstract universal and the mechanism of subsumption in us, and viewing the mechanism of subsumption as essentially ‘constructive’ in character” (L. Chipman, Kant’s Categories and their Schematism, in “Kant-Studien”, n. 63, 1972, p. 43). Deleuze invece distingue la sintesi dallo schema proprio sulla base della separazione tra la regola di riconoscimento e la regola di produzione: la sintesi ha per regola il processo di riconoscimento che parte dalla determinazione spazio-temporale del dato per specificarlo e riconoscerlo come tale o talaltro oggetto; lo schema invece non parte “dal basso”, ma dal concetto che va determinato nello spazio e nel tempo, per cui si produce qualcosa che corrisponde a questo concetto. Come si vede, questa separazione deleuziana si basa sulla riduzione della sintesi alla sua esposizione nella prima edizione della Critica, mentre lo schema viene colto soltanto in un suo aspetto – quello costruttivo, per cui si arriva al punto in cui il riconoscimento sembra non avere niente a che fare con la produzione e costruzione degli oggetti nell’esperienza. Cfr. G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., p. 118ss. Ciò che per Deleuze significa solo il riconoscimento di un dato oggetto (ad esempio, “questa è una

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cioè passare attraverso la produzione dell’immaginazione trascendentale. E questa è la grande novità del trascendentalismo che sta nel carattere dinamico riconosciuto in ogni conoscenza. Questo discorso sul monogramma vale però soltanto per i concetti empirici, nonché per i concetti geometrici puri, e non per i concetti puri dell’intelletto, dato che questi ultimi non possono mai tradursi in un’immagine, come scrive Kant. Questa intraducibilità124 dei concetti puri dell’intelletto è la conseguenza della loro eterogeneità rispetto a ogni rappresentazione sensibile. Ma anche nei casi in cui la traduzione in immagine sia possibile, quest’immagine non può mai esaurire l’universalità del concetto. Lo scarto tra i due livelli dunque rimane, e l’immagine si può riferire al concetto soltanto attraverso quel terzo elemento che è lo schema. Lo schema, dunque, permette il passaggio dall’universalità del concetto a una rappresentazione in concreto, come immagine, ma così facendo dimostra tuttavia che questi due elementi rimangono eterogenei. Nel caso dei concetti puri abbiamo un’eterogeneità pura, cioè uno scarto ancora più estremo. Nessun’immagine di triangolo può essere adeguata al concetto di triangolo, per tornare di nuovo al caso dei concetti geometrici puri, ma per i concetti puri trascendentali non ci sono proprio delle immagini corrispondenti. E perciò lo schema di un concetto puro dell’intelletto è soltanto “la sintesi pura conforme a una regola dell’unità, sulla base di concetti in generale [...] che riguarda la determinazione del senso interno”125. Non esiste nessun’immagine per la sintesi pura, così come non esiste nessun’immagine che raffiguri il tempo, come scrive Kant nelle conclusioni dell’Estetica trascendentale126; soltanto analogicamente possiamo rappresentare il temcasa”) attraverso la sintesi, per Heidegger invece è già lo schematismo (Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., p. 91). 124 Secondo Heidegger, lo schema del concetto puro dell’intelletto è traducibile in un’immagine, cioè è riducibile al sensibile – il tempo è questa pura immagine. Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, cit., pp. 92-94. Sulla “traduzione” come specifico contributo dell’immaginazione si veda M. Barale, Kant e il metodo della filosofia. Sentire e intendere, Pisa, ETS, 1988, p. 99. 125 KrV, p. 136; CRP, p. 307; B181. 126 Il tempo “non appartiene ad una figura, né ad un luogo e così via [...] E proprio perché quest’intuizione interna non comporta alcuna figura noi cerchiamo di sopperire a questa mancanza mediante alcune analogie” (KrV 1, p. 60; CRP, p. 135; B50) – è questo il motivo per cui alla rappresentazione della successione temporale occorre una figura nello spazio, cioè una linea, dunque una figura geometrica che analogicamente può significare il flusso nel tempo, ma questo flusso nel tempo non si può mai rappresentare adeguatamente, cioè non si può mai tradurre in un’immagine.

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po. Se noi vogliamo rappresentare il tempo, dobbiamo avvalerci di un’intuizione esterna, cioè di una figura geometrica come linea, che in fin dei conti è l’immagine di un concetto sensibile puro. La categoria invece non tollera neanche questo tipo di “traduzione analogica” attraverso la raffigurazione nello spazio. Infatti come si possono immaginare la sostanza o la possibilità? Dunque, gli schemi di questi concetti non ci conducono a un’immagine, ma a una determinazione del senso interno secondo le condizioni del tempo127. Però questa determinazione del senso interno, in quanto universale, vale anche per i giudizi che riguardano i rapporti tra i concetti empirici. Siccome i concetti puri dell’intelletto stanno a fondamento dei concetti empirici, anche gli schemi dei concetti puri dell’intelletto, cioè quelli che Kant chiama Zeitbestimmungen, sono universalmente presenti e intervengono in tutti i giudizi sintetici, cioè determinano ogni oggetto singolo dell’esperienza. In altri termini, e per rimanere sugli esempi kantiani, se vogliamo esprimere un giudizio che riguarda un cane (ad esempio: questo è il mio cane, è dalmata, è bianco con le macchie nere), non usiamo soltanto lo schema come monogramma che ci dice “questo è un cane”, ma anche gli schemi che fanno applicare le apposite categorie (ad esempio: realtà, sostanza, esistenza, necessità ecc.). Qui si manifesta la connessione necessaria tra i due tipi di schemi che Kant espone. D’altra parte, e questo può sembrare paradossale, gli schemi trascendentali sono più vicini a quelli empirici, perché in entrambi i casi qualcosa deve essere dato, mentre gli schemi matematici esibiscono direttamente un concetto, costruiscono il dato. Questo non vuol dire che gli schemi trascendentali non sono costruttivi, ma soltanto che lo schema matematico esibisce il concetto nello stesso momento in cui costruisce il dato (ad esempio disegnando un triangolo). Kant è soprattutto interessato all’elaborazione degli schemi trascendentali che fanno applicare a priori le categorie dell’intelletto. E questi saranno trattati secondo la tavola delle categorie e in riferimento a esse. Ogni ca127 Come nota Rudolf A. Makkreel nel suo Imagination and Interpretation in Kant, Chicago, University of Chicago Press, 1990, p. 31, Kant si riferisce allo spazio quando parla del monogramma, mentre si riferisce al tempo quando parla degli schemi trascendentali delle categorie. Il tempo è più inclusivo perché riguarda ogni rappresentazione, sia essa interna oppure esterna. Però, come abbiamo sostenuto sopra, se vogliamo dare qualche rappresentazione empirica esterna del tempo dobbiamo servirci di una figura geometrica spaziale, come ad esempio una linea, e dunque a quel punto abbiamo bisogno anche del monogramma. Sul rapporto condizionante tra il senso interno e gli oggetti del senso esterno rimandiamo al capitolo della Critica di Kant intitolato Confutazione dell’idealismo.

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tegoria dunque ha una sua determinazione del tempo, cioè lo schema che la realizza, la mette in atto. Kant, tuttavia, è rimasto non poco vago e ambiguo riguardo al rapporto tra i tre gruppi di schemi, e soprattutto riguardo agli schemi dei concetti empirici e quelli dei concetti puri: è possibile distinguere fino in fondo lo schema dal concetto empirico, come è invece possibile con gli schemi dei concetti puri128? Il concetto empirico sarebbe dunque soltanto quel concetto che è possibile rappresentare con un’immagine. Lo schema empirico sarebbe la regola di produzione di questa rappresentazione. Però, se anche il concetto empirico è una regola, allora l’unico modo di distinguere queste due regole (concetto-regola e schema-regola) è dire, basandosi sulla distinzione tra l’unità e la sintesi che abbiamo cercato di adoperare nei capitoli precedenti, che il concetto empirico è la regola dell’unità, mentre lo schema sarebbe la regola della sintesi. Con questo però non si risolve il problema di come la regola della sintesi funziona secondo la regola dell’unità. Se, come scrive Kant, lo schema del cane costituisce una regola, secondo la quale l’immaginazione può produrre una figura generale di qualche cane, Kant non spiega come avvenga questa produzione secondo il concetto. In altri termini, anche se il problema dell’applicazione del concetto si può risolvere con l’idea di una regola di produzione, ovvero attraverso lo schema conforme al concetto, questa loro conformità non viene ancora spiegata. Non a caso, proprio nelle righe in cui Kant ha sfiorato questo argomento, lasciandolo aperto, viene espressa un’altra descrizione dello schematismo: Questo schematismo del nostro intelletto [...] è un’arte nascosta (eine verborgene Kunst) nelle profondità dell’anima umana, e difficilmente potremo mai strappare alla natura il vero segreto del suo uso, per svelarlo davanti ai nostri occhi.129

Il testo citato assomiglia irresistibilmente all’affermazione kantiana sull’immaginazione come facoltà cieca, sebbene indispensabile, dell’anima, della quale siamo raramente coscienti. Il problema della rappresentazione sembra che si possa risolvere soltanto ricorrendo a qualcosa di irrappresentabile, di segreto e oscuro. Tuttavia tutti gli schemi vanno pensati come mediatori necessari, occupando una posizione intermedia; lo schema è necessario come un terzo tra 128 Sull’identificazione dello schema del concetto empirico con il concetto si veda L. Chipman, Kant’s Categories and their Schematism, cit., p. 42. 129 KrV, p. 136; CRP, pp. 305-307; B181.

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due piani separati130. Sotto quest’aspetto non c’è nessuna incongruenza nel testo kantiano. Le eventuali ambiguità nascono nel momento in cui bisogna caratterizzare questo terzo mediatore (vermittelndes Dritte), cioè se esso va definito più come qualcosa di statico, semplicemente come un elemento aggiuntivo che sta in mezzo, tra concetto e fenomeno, oppure va definito in maniera più dinamica, cioè come una procedura, un metodo di costruzione131. Se ci fossero soltanto il concetto, come regola dell’unità di un fenomeno, e l’immagine, come sua rappresentazione, il problema dell’applicazione corretta sarebbe insensato; ogni immagine cioè sarebbe la corretta applicazione e le categorie sarebbero univoche di modo che il loro uso sarebbe immediato, con una necessità incondizionata132. Per certi versi, in un sistema perfettamente dualistico (se fosse possibile), dove tra il concetto e l’immagine esiste un rapporto diretto e quasi scontato, e dove non c’è la necessità dello schema come il terzo, non si porrebbe neanche la questione fondamentale kantiana della validità e del quid iuris. Appunto, soltanto là dove bisogna giustificare il passaggio dalla categoria al fenomeno, la questione della validità e della legittimità dell’esperienza viene a porsi in primo piano. E qui finalmente ci si accorge come il problema del terzo rientri nel quadro kantiano basato sostanzialmente su una domanda di legittimità e di validità. Laddove si pone la questione del come, nel senso di legittimità trascendentale, si apre necessariamente l’ambito del terzo, o del passaggio tra l’uno e l’altro (cioè nel nostro caso, tra intelletto e sensibilità, tra categoria e fenomeno, tra concetto e oggetto, tra regola e immagine ecc.). Le categorie, come concetti puri dell’intelletto, prese in sé non garantiscono alcuna determinazione, poiché sono soltanto le funzioni, le forme 130 Lo schematismo lo possiamo interpretare anche come il modo di mediare due sintesi esposte nella Deduzione trascendentale, appunto la sintesi figurata e la sintesi intellettuale. 131 Sui due modi di pensare lo schema, staticamente e dinamicamente, si veda W. H. Walsh, Schematism, in “Kant-Studien”, n. 49, 1957, p. 99. Quando lo schema funge da terzo elemento, che deve mediare tra categoria e apparenza, abbiamo davanti agli occhi soltanto il suo aspetto statico. Quando lo schema si definisce come la regola della sintesi, oppure come procedura, esso viene colto nella sua dimensione dinamica. Secondo Walsh l’aspetto statico è limitato e lo schema si manifesta nella sua universalità soltanto come principio dinamico. 132 Che nella deduzione delle categorie non si tratta di una necessità incondizionata lo dice Kant scrivendo che alcuni oggetti possono apparire senza che essi debbano necessariamente (notwendig) riferirsi a delle funzioni dell’intelletto (Cfr. KrV, p. 102; CRP, p. 227; B122). Quanto alle funzioni dell’intelletto, si tratta di un altro tipo di necessità che non esclude la possibilità di violare le regole dell’intelletto. Sull’argomento si veda P. Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, cit.

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della determinazione a cui bisogna aggiungere anche il materiale determinabile e la facoltà di immaginazione che permette la loro applicazione. Le categorie, quindi, non producono l’oggetto dell’esperienza solo dal fatto che esse contengono la norma secondo la quale questi oggetti debbano essere necessariamente determinati e sintetizzati. Vi è qualcosa che sta al di fuori dell’intelletto ed è il materiale determinabile, e in più vi è qualcosa che è determinante e unico a giustificare il rapporto tra il concetto, come regola d’unità, e l’oggetto dell’esperienza: è lo schema, definito da Kant nell’ultima pagina del capitolo sullo schematismo come “solo il fenomeno o il concetto sensibile di un oggetto, in accordo con la categoria”133. Questa “sensibilizzazione” del concetto134 (Versinnlichung), che spetta allo schema, ha come scopo quello di dare il significato al concetto. I concetti puri, senza questo rapporto con il fenomeno, non hanno nessun significato reale, cioè hanno soltanto un significato logico basato sulla mera possibilità di determinazione135. Disporre soltanto di un significato logico comporta il rischio di non avere nessun significato in senso proprio. Con le sole categorie non si può dire (determinare) niente, perché a esse manca il riferimento empirico. Possiamo dire con Frege che le categorie hanno senso (Sinn) ma non hanno significato (Bedeutung), nel senso che non hanno un riferimento oggettuale. E tutta la dottrina dello schematismo mira a una tale donazione di significato alle categorie dell’intelletto, dimostrando come qualcosa di nonempirico e puro, come la categoria, debba avere un riferimento empirico per essere affatto utilizzabile. L’applicazione delle categorie è indissolubilmente connessa a questa assegnazione di significato alle categorie. In altri termini, la categoria si manifesta come dotata di un significato reale-oggettuale soltanto applicandosi al molteplice nell’intuizione136. E qui, per certi versi, torniamo al tema dell’omogeneità, con il quale abbiamo iniziato il discorso sullo schematismo. La categoria è appunto omogenea alla rappresentazione empirica quando ha significato, quando è oggettivamente reale e dunque effettiva. E la categoria ha un significato reale 133 KrV, p. 139; CRP, p. 313; B186. 134 Lo si può interpretare come produzione di un altro concetto, il quale a differenza della categoria, sta in un rapporto diretto con l’esperienza sensibile, e appunto perciò si tratta del concetto sensibile. 135 Questo significato non-reale si può attribuire alle idee della ragione. Esse non sono schematizzabili, e come suggerisce Kant nel §59 nella Dialettica del Giudizio estetico del Critica del Giudizio: ciò che non si schematizza si simbolizza. 136 “In questo modo le categorie, quali semplici forme del pensiero, otterranno una realtà oggettiva, e cioè troveranno la loro applicazione a quegli oggetti che possono esserci dati nell’intuizione” (KrV, p. 119; CRP, p. 267; B150-1).

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quando effettivamente determina una sintesi che avviene nell’esperienza. Ciò che dobbiamo tener presente qui è che l’effettività (Wirklichkeit) dei concetti puri dell’intelletto non esiste prima dell’effetto (Wirkung) stesso e dell’attività determinante che essi svolgono sul materiale sensibile: l’effettività delle categorie sta nella loro applicazione e nella determinazione del sensibile, il che è un effetto della spontaneità dell’intelletto. Questo non vuol dire altro che il significato reale delle categorie, la loro verità, è anch’essa un effetto reso possibile attraverso l’immaginazione e lo schematismo. Se dal monogramma schematico risulta il disegno geometrico dei concetti puri sensibili (geometrici), gli schemi dei concetti puri dell’intelletto danno a questi un significato. Nel primo caso si ha la produzione dell’immagine, nel secondo invece la produzione del significato; la differenza che sta tra questi due tipi degli schemi è riconducibile alla differenza tra matematica e linguistica. Perciò non sarebbe così inopportuno parlare di una certa semantica dello schematismo137. Se le categorie rappresentano le regole non referenziali che determinano le condizioni secondo le quali i significati saranno ordinati e strutturati, ciò tuttavia non basta ancora per avere il significato. In quel senso le categorie sono paragonabili alle regole sintattiche (dove anche la parola stessa “sintassi”, cioè syn-taxis – ordinare, organizzare insieme – spiega bene le funzioni dell’intelletto). Come accade anche nel linguaggio, noi possiamo usare lettere e parole a piacimento in un gioco di significanti, anche rispettando le regole formali della sintassi, componendo frasi formalmente corrette; ma per dire veramente qualcosa, cioè per determinare un oggetto dell’esperienza, queste parole devono seguire anche delle regole semantiche. Il passaggio dal significato logico al significato oggettivo delle categorie segue questo ragionamento linguistico138. Attraverso le regole semantiche referenziali (lo schema) anche le regole sintattiche ottengono un senso. Le pure regole formali su come strutturare una frase si dimostrano valide soltanto quando si applicano alle parole con significato definito e referenziale. Le regole semantiche qui, però, non definiscono a priori che significato si avrà, cosa che si accerta soltanto attraverso l’esperienza sensibile, ma esse piuttosto determinano la portata dei significati possibili che possono 137 Cfr. R. E. Butts, Kant’s Schemata as Semantical Rules, in L. W. Beck (a cura di), Kant Studies Today, LaSalle Illinois, Open Court, 1969, pp. 290-298. 138 Makkreel interpreta questo passaggio come passaggio dall’Objekt al Gegenstand, cioè da una forma immediata e non determinata dell’oggetto all’oggetto reale, determinato dalla sintesi concettuale e mediato dalla facoltà di immaginazione. In questo senso l’immaginazione si pone come facoltà fondamentale che rende possibile questo passaggio dal logico al oggettivo, cioè dall’Objekt al Gegenstand. Cfr. R. Makkreel, Imagination and Interpretation in Kant, cit., pp. 40-41.

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stare sotto quelle regole sintattiche (categorie) che a loro volta definiscono una struttura, un ordine. Negli schemi si tratta piuttosto dell’anticipazione del significato139 di oggetti dell’esperienza. L’applicazione delle categorie è al contempo la loro limitazione. E qui di nuovo emerge la questione della temporalità. È la connessione con il tempo che limita le categorie all’esperienza concreta. Se alle categorie togliamo questo riferimento al tempo esse rimangono funzioni senza effetto. Per certi versi le categorie senza Zeitbestimmung, private della determinazione del tempo, rimangono prive del loro carattere effettivamente determinante. Soltanto attraverso lo schema, in quanto determinazione del tempo, la categoria realizza il suo carattere e diventa veramente determinante. Con lo schematismo Kant si spinge ancora oltre nella sua trattazione del tempo indicando che il tempo non è soltanto la forma della nostra recettività sensibile, ma anche la forma della sintesi in generale, o più precisamente: la forma dell’applicazione delle categorie. Il tempo “determina” le categorie, nel senso che le fa restringere alle condizioni dell’esperienza, affinché esse possano avere una validità oggettiva, cioè determinare i fenomeni dell’intuizione. La determinazione temporale è necessaria per avere una determinazione concettuale effettiva nei confronti dei fenomeni. Proprio questa determinazione temporale delle categorie, cioè lo schema, è il medium attraverso il quale le categorie riescono a determinare il sensibile. Per avere il punto di contatto con il sensibile le categorie devono essere temporalizzate140. La mediazione temporale da parte dello schema sta nel 139 Cfr. Ibidem. 140 Come nota giustamente Sarah Gibbons (Cfr. S. Gibbons, Kant’s Theory of Imagination, cit., pp. 53-78) Kant non parla né delle categorie schematizzate né delle categorie temporalizzate. Secondo questa autrice, nello schematismo non si tratta della temporalizzazione attraverso cui le categorie vengono applicate, perché le categorie già possiedono una componente temporale. Gli schemi non aggiungono niente ai concetti puri, ma piuttosto esibiscono la temporalità in una singola intuizione. Siccome in questa interpretazione lo schematismo viene trattato secondo l’analogia con la costruzione matematica, la quale appunto esibisce il concetto matematico costruendolo in una intuizione, si perde di vista proprio la differenza tra una determinazione spaziale (operante nelle costruzioni dei concetti matematici) e la determinazione temporale che rimane non-empirica e trascendentale. Questa determinazione temporale, di cui Kant parla proprio a proposito degli schemi trascendentali puri, è qualcosa che spetta alla facoltà dell’immaginazione e non può essere derivata dall’intelletto. E infine, anche se è vero che Kant non dice mai “temporalizzazione” delle categorie, parlando della loro realizzazione ossia limitazione, è chiaro come questa non possa essere fatta senza il coinvolgimento della dimensione temporale, per cui sarebbe più corretto dire che è la temporalità che esibisce le categorie in intuizioni e non vice versa.

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fatto che la determinazione dei fenomeni sensibili presuppone che anche le categorie debbano subire una sorta di determinazione, appunto la Zeitbestimmung. Le categorie temporalizzate sono le categorie determinate dal tempo attraverso gli schemi. La temporalizzazione non intende dire che si tratti di una modificazione che produce un altro genere dei concetti puri che sarebbero paralleli alle categorie già dedotte. Si tratta sempre delle stesse categorie; il punto è soltanto che per essere applicate esse devono subire una sorta di limitazione nel tempo. Sembra che gli schemi, in quanto Zeitbestimmungen, non influiscano soltanto sull’atto dell’applicazione delle categorie, ma anche sulla struttura stessa del tempo. E dunque c’è anche un’altra direzione nel rapporto tra la temporalità e le categorie, per cui non soltanto le categorie sono definite secondo un ordine temporale, ma anche il tempo stesso subisce una certa determinazione. Nello schematismo quindi non si tratta soltanto della realizzazione dell’intelletto e della limitazione delle categorie, ma anche della realizzazione e della configurazione del tempo attraverso la determinazione che esso riceve secondo l’unità che viene dalle categorie. Si rivela così il doppio significato del genitivo nell’espressione “determinazione del tempo” (Zeitbestimmungen, ma anche Bestimmungen der Zeit): da un lato abbiamo la determinazione temporale, cioè l’applicazione e il realizzarsi dei concetti puri nel tempo, ma dall’altro c’è anche la determinazione che agisce sul tempo stesso. In altri termini, tra i concetti dell’intelletto e il tempo esiste un rapporto di reciproca determinazione. Il tempo subisce le modificazioni di modo che si presenti nei suoi vari aspetti seguendo l’ordine intellettivo dei concetti puri. Se l’estetica trascendentale ha analizzato il tempo come pura forma della sensibilità, cioè come intuizione vuota e formale della successione, soltanto con lo schematismo esso ottiene l’unità e la struttura logica141. Qui si manifesta il rapporto del tempo con l’appercezione trascendentale, la quale conferisce al tempo una struttura unitaria – allo stesso modo in cui anche i fenomeni dell’esperienza ottengono l’unità oggettuale – e per cui l’intuizione del tempo può diventare anche il concetto di tempo. Si può parlare dunque di una concettualizzazione del tempo nel capitolo sullo schematismo? Rispondere a questa domanda significherebbe debordare dai compiti assunti in questa sede. Insomma, ciò che è interessante notare in tutto il discorso sulle determinazioni a priori del tempo secondo l’ordine delle categorie, è

141 Riguardo alla struttura logica del tempo si veda M. Caini, The logical structure of the time according to the chapter on the Schematism, in “Kant Studien”, n. 103, 2012, pp. 415-428.

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una sorta di movimento della “produzione (sintesi) del tempo stesso”142, per usare la stessa espressione di Kant. Come si può produrre il tempo se esso è una forma pura dell’intuizione che ci viene data come una condizione della sensibilità? E come si può produrre il tempo, che il più volte viene definito come qualcosa che rimane invariabile e permanente, nonostante sia la condizione di tutto ciò che cambia e che scorre143? Il tempo ci è dato come forma intera e infinita, ma per essere anche una quantità deve essere prodotto, cioè sintetizzato e rappresentato in un diverso modo. Quando parla della produzione, Kant, infatti, intende la costituzione di un specifico ordine temporale che è quello di successione lineare divisibile in molti istanti. Ed è questo ordine temporale – il tempo come quantità estensiva – che viene prodotto soltanto con la determinazione delle categorie della quantità secondo lo schema numerico (come è noto, il numero è lo schema che vale per le categorie della quantità). Sotto questo riguardo il tempo diventa una somma degli istanti, una linea divisibile in molti punti. Ciò ci permette di rappresentare il tempo proprio come la serie dei momenti che si susseguono. Nell’estetica trascendentale abbiamo incontrato la rappresentazione intuitiva del tempo come uno, intero e infinito, ma soltanto qui in virtù dell’intervento dello schema del numero, il tempo diventa divisibile negli istanti numerici che creano una serie omogenea. “L’aritmetizzazione” del tempo significa la sua divisibilità e omogeneizzazione, dove ogni istante, segnato come numero della serie, è distinto dall’altro, ma anche riconosciuto come sostituibile con l’altro istante. E qui, infatti, vengono sviluppate le conclusioni dell’esposizione trascendentale del tempo nell’Estetica trascendentale, perché solo con la sua omogeneizzazione numerica diventa chiaro che ogni istante, ogni parte del tempo, è ugualmente il tempo. Questo percorso si può seguire anche riguardo alle altre categorie e agli schemi corrispondenti: all’inizio, dunque, abbiamo il tempo soltanto come pura serie e progressione in termini di quantità e di un’addizione dei numeri. Poi il tempo è riempito con qualche contenuto qualitativo sulla scala di intensità dell’essere, e determinato non più come estensione, ma anche come intensità del contenuto. Di seguito i diversi contenuti, cioè oggetti fenomenici temporalizzati, entrano in rapporto tra di loro strutturando l’ordine del tempo in termini di permanenza, successione o simultaneità. E infine, abbiamo una totalità del tempo e la sua pura relazione con l’oggetto di esperienza riguardo alla sua possibilità, necessità o esistenza. Questa “ge142 KrV, p. 138; CRP, p. 311; B184. E anche: “io produco il tempo stesso nell’apprensione dell’intuizione” (KrV, p. 137; CRP, p. 307; B182). 143 Cfr. KrV, p. 64; CRP, p. 147; B58. E anche KrV, p. 162; CRP, p. 365; B225; KrV, p. 137; CRP, p. 309; B183.

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nesi del tempo”, la sua modificazione graduale, dalla linearità semplice e quantitativa alla totalità strutturata, dimostra lo sfondo temporale della sintesi e dell’applicazione delle categorie, ma anche – un aspetto che spesso viene omesso – come lo stesso tempo venga configurato e strutturato secondo la sintesi categoriale. La domanda che si impone quasi da sé è la seguente: Come è possibile definire il tempo come forma immutabile di ogni mutamento se proprio nello schematismo si manifestano le modifiche temporali a seconda dell’unificazione sintetica che svolgono le categorie? Se lo schematismo esibisce anche una sorta di genesi del tempo, come esso può mantenere il suo status della forma costante di ogni fluttuazione? Kant ribadisce più volte che il tempo non cambia, nonostante il fatto che esso sia la condizione di ogni cambiamento e movimento, e ora invece vediamo che lo stesso tempo è per certi versi in movimento. A questi si aggiungono anche gli altri quesiti che riguardano la “produzione del tempo”: se il tempo viene prodotto grazie allo schema, e poi lo schema viene definito come una determinazione temporale, il prodotto dell’immaginazione trascendentale, non è che così si istaura un circolo vizioso? Come può il tempo essere prodotto e fungere da condizione della sua propria produzione? Le risposte non si possono trovare nel testo kantiano, e dunque le domande di sopra servono solo per mettere in risalto la problematicità di quel medium, la cui necessità Kant stabilisce come centrale per la costituzione trascendentale dell’esperienza: il problema dell’applicazione delle categorie n’è una prova. La problematicità nasce quando questo medium viene definito in termini temporali, però senza la temporalizzazione del tempo stesso. Gli schemi, quindi non sono altro che determinazioni a priori del tempo secondo le regole, e queste ultime si riferiscono – seguendo l’ordine delle categorie – alla serie del tempo, al contenuto del tempo, all’ordine del tempo, infine all’insieme del tempo, riguardo a tutti gli oggetti possibili. 144

Il tempo è l’orizzonte unico dell’applicazione delle categorie. Il registro della rappresentazione, cioè il pensiero che agisce come Vorstellung, non permette però a Kant di ravvisare fino a fondo la connessione tra il medium e il tempo. La terzietà kantiana esige il tempo – e il capitolo sullo schematismo lo dimostra –, però essa stessa non è concettualizzata come tempo, ma solo rappresentata in riferimento al tempo.

144 KrV, p. 138; CRP, p. 311; B184-5.

CAPITOLO II LA TERZA CRITICA COME CRITICA DEL TERZO

1. I due domini e l’idea dello Übergang La Critica del Giudizio si propone esplicitamente di colmare l’abisso che separa i due domini su cui poggia tutta la conoscenza umana, e perciò in essa troviamo i fondamenti per la teorizzazione del terzo in quanto ponte che deve rendere possibile il passaggio (Übergang) da un dominio all’altro, oppure – all’interno del sistema delle discipline filosofiche – il passaggio dalla filosofia teoretica alla filosofia pratica. Il dominio (Gebiet) del concetto della natura, che è sottomesso alla prima legislazione, e quello del concetto della libertà, sottomesso alla seconda, sono interamente separati, contro ogni influsso reciproco che potrebbero avere (ciascuno secondo le sue leggi fondamentali), dal grande abisso che divide il soprasensibile dai fenomeni.1

Il punto di partenza della terza Critica è, così, strutturalmente analogo al punto di partenza della prima: si prospetta uno stato di eterogeneità e di incommensurabilità tra i due ceppi della soggettività da superare. Nella terza Critica la questione del superamento non è posta in termini di una sintesi costitutiva dell’esperienza, ma in termini di passaggio. E l’abisso che separa i due ambiti non è quello tra le facoltà conoscitive all’interno del soggetto, ma piuttosto quello tra i due tipi di legislazione in cui il soggetto è costitutivo: la legislazione secondo il concetto di natura e la legislazione secondo il concetto di libertà. In ognuna di queste due legislazioni il soggetto è costitutivo e determinante attraverso le sue conoscenze a priori; cioè, nella legislazione della natura il soggetto opera attraverso i concetti dell’intelletto, mentre per la legislazione della libertà il soggetto domina attraverso la ragion pura pratica. Kant perciò parla di due domini nei quali si realizza “la dominazione” del soggetto nel suo aspetto teorico e pratico. 1

KU, p. 195; CG, p. 37 (Introduzione, IX).

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Queste due legislazioni, comunque, condividono lo stesso territorio inteso come campo dove è possibile l’esperienza degli oggetti2. La differenza tra i due domini dipende dal modo in cui l’oggetto dell’esperienza è costituito, vale a dire, se esso si costituisce come oggetto della natura oppure come oggetto della libertà (l’azione libera). Entrambi appartengono allo stesso territorio, però, essendo costituiti diversamente, devono appartenere a diversi domini. Il fatto che non esista punto di contatto tra questi due domini che coesistono l’uno accanto all’altro, è conseguenza del carattere eterogeneo della legislazione che ne sta alla base. L’oggetto della conoscenza teorica non può costituirsi secondo la legislazione della ragion pratica nella stessa maniera in cui l’oggetto dell’azione libera non può essere costituito secondo i concetti della natura risiedenti nell’intelletto. Già qui vediamo la difficoltà di mantenere una posizione prettamente dualistica, dove due legislazioni sarebbero totalmente separate, come vorrebbe Kant. Innanzitutto, Kant scrive che l’intelletto e la ragione esercitano legislazioni differenti “su di un solo e medesimo territorio”3. Come è possibile che due legislazioni che vanno separate debbano riferirsi allo stesso territorio – anche se in diversi modi – e in tal modo avere qualcosa in comune? D’altra parte, già solo il fatto che in entrambi casi si tratti di legislazioni, cioè di due tipi di determinazione secondo concetti necessari a priori, può servire da prova che l’intelletto e la ragione sono uniti appunto in quanto sussunti nello stesso concetto di legislazione. E se per legislazione intendiamo un’operazione non-sensibile, non-empirica, a priori e determinante, non è allora lo stesso atto di legislazione un effetto del sovrasensibile sul sensibile ciò di cui parla il testo kantiano? Kant afferma in ogni caso che i due domini in questione, dunque i due tipi di legislazione che si escludono a vicenda, non possono costituire un solo dominio e al di sopra di ognuna di queste due legislazioni non ve n’è alcun’altra a priori4. Ci si impone la conclusione seguente: la legislazione dell’intelletto e quella della ragione non possono unirsi, e comunque devono essere inconciliabili, anche se in entrambi i casi si tratta di una legislazione, cioè della determinazione a priori da parte del soggetto. Ma allora non è che questa determinazione a priori in quanto tale sarebbe il fondamento comune di en2

3 4

Kant distingue il campo (Feld), il territorio (Boden) e il dominio (Gebiet). Il primo corrisponde alla conoscenza in generale nei termini di pensabilità. Il secondo corrisponde alla conoscenza possibile, dunque con riferimento all’empirico, mentre il dominio segna quel territorio dove la conoscenza è necessaria a priori. Cfr. KU, p. 174; CG, pp. 12-13 (Introduzione, II). KU, p. 175; CG, p. 13 (Introduzione, II). Cfr. KU, p. 176; CG, pp. 14-15 (Introduzione, II).

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trambe le legislazioni? E poi, che carattere avrebbe questa determinazione überhaupt da cui derivano sia quella teorica sia quella pratica, ma che a sua volta non può essere né teorica né pratica? Heidegger nel suo saggio su Kant segue un ragionamento simile dicendo che già il discorso su due rami, cioè, nel nostro caso su due legislazioni, indica un loro fondamento comune. E sembra anche che Kant stesso si muova in questa direzione quando scrive: Ora, sebbene vi sia un immensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura, o il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, o il soprasensibile, in modo che non è possibile nessun passaggio dal primo al secondo (mediante l’uso teoretico della ragione), quasi fossero due mondi tanto diversi, che il primo non potesse avere alcun influsso sul secondo; tuttavia il secondo deve avere un influsso sul primo.5

La congiunzione concessiva “sebbene” con cui inizia il brano esprime con certezza il bisogno di superare la scissione abissale che induce Kant a indicare una sorta di primato della sfera noumenica, che deve avere qualche influsso sulla sfera fenomenica, e sul mondo sensibile, mentre il contrario non è possibile. Il concetto di libertà, nell’impegno di realizzare uno scopo pratico, deve necessariamente conformarsi alle leggi del mondo fenomenico nel quale lo scopo sarà realizzato. D’altronde, anche la natura deve possedere questa possibilità di essere conforme agli scopi che vanno realizzati secondo le leggi della libertà. I due mondi sembrano conciliati già dallo stesso concetto di causalità della libertà, nel quale il motivo, cioè la causa sovrasensibile, segue la legge morale e il dovere nell’ordine noumenico, mentre l’effetto di questa causalità deve attuarsi nel mondo fenomenico. Allora non è che Kant nelle pagine introduttive della terza Critica ci conduce alla conclusione di una certa supremazia della ragion pratica per cui bisogna porre la causalità noumenica come quella che da se stessa unisce se stessa con il mondo fenomenico, influenzandolo? Del primato della ragion pratica Kant parla nella seconda Critica: la ragione è sempre comunque una e la stessa, sia nel suo uso teorico che nel suo uso pratico. Questa unità della ragione, però, è possibile soltanto in virtù della subordinazione della ragion speculativa teorica alla ragion pratica, perché “ogni interesse è pratico e anche l’interesse della ragione speculativa è condizionato e si completa soltanto nell’uso pratico”6. La ragione teorica deve ammettere le proposizioni della ragion pratica come “qualcosa di 5 6

KU, p. 176; CG, p. 14 (Introduzione, II). KpV, p. 121; CRPr, p. 269 (A219).

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estraneo che non è cresciuto nel suo stesso terreno”7 e anche come qualcosa che non la contraddice, perché esse non riguardano la conoscenza, ma l’estensione dell’uso della ragione sotto l’aspetto pratico. La ragion pura speculativa funziona come un’unità senza conflitti interiori, perché è l’uso pratico quello che in qualche modo è più originario8. Siccome il principio pratico consiste nella determinazione della volontà rispetto allo scopo ultimo, il primato della ragion pratica nei termini della subordinazione di tutta l’attività razionale a essa implica che sia il principio della libertà quello che fonda l’unità della ragione e guida anche il suo uso teorico nella determinazione degli oggetti della conoscenza9. L’unità della ragione garantita dalla sua subordinazione all’uso praticomorale comporta, infatti, una relazione di necessità fondata a priori. Nell’introduzione della terza Critica Kant, ovviamente, non parla della subordinazione, ma piuttosto dell’accordo, dell’armonia, e soprattutto della contingenza, come parlerà poi anche del libero gioco e degli altri concetti che introducono un orizzonte diverso rispetto sia all’orizzonte pratico che a quello teorico. Nonostante ciò si nota l’indicazione di un certo primato della sfera soprasensibile10. Se si presta bene attenzione a ciò che scrive Kant in queste pagine si vedrà che egli indica non tanto l’unità tra il mondo sensibile e il mondo sovrasensibile, quanto il fondamento dell’unità tra i due tipi di soprasensibile, cioè “tra il sovrasensibile, che sta a fondamento della natura, e quello che il concetto della libertà contiene praticamente”11. Sembra che così anIbidem. La domanda da porre è se Kant in questo modo possa giustificare a sufficienza l’unità della ragione. Se ogni interesse speculativo è pratico, allora da dove deriva la separazione tra il teorico e il pratico? “La dottrina del «primato» della ragion pratica che riposa principalmente su una riflessione filosofica generale non può superare le difficoltà che sorgono da quella separazione originaria. Questa dottrina regola il rapporto di entrambi i modi della ragione come insieme dell’uno e dell’altro e determina un ordine certo di entrambe le critiche” (M. Horkheimer, Kant: La critica del Giudizio, Napoli, Liguori, 1981, p. 55). 9 Su questo primato della ragion pratica hanno insistito alcuni autori provenienti dalla scuola marxista jugoslava Praxis. Cfr. ad esempio M. Kangrga, Etika ili revolucija, Beograd, Nolit, 1983, p. 84, pp. 164-168. 10 Anche alla fine dell’Introduzione Kant ripeterà: “Ma se i principi che determinano la causalità secondo il concetto della libertà (e la regola pratica che esso contiene) non risiedono nella natura, e il sensibile non può determinare il soprasensibile nel soggetto, il contrario nondimeno è possibile (non relativamente alla conoscenza della natura, ma rispetto alle conseguenze che il soprasensibile può avere sul sensibile)” (KU, p. 195; CG, p. 37; Introduzione, IX). 11 KU, p. 176; CG, p. 15 (Introduzione, II). 7 8

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che i due mondi, fondati su due legislazioni – l’una che vale per il mondo fenomenico-sensibile e l’altra che vale per il mondo noumenico-sovrasensibile – possano conciliarsi soltanto chiamando in causa quel sostrato soprasensibile che sta a fondamento della natura, analogamente alla cosa in sé, intesa da Kant come istanza del soprasensibile, “la cui idea deve esser posta alla base della possibilità di tutti quegli oggetti dell’esperienza”12. Dunque, il mondo fenomenico rinvia a qualcosa oltre a sé indicando un campo illimitato dove non possiamo trovare nessun territorio in cui possiamo costituire gli oggetti della conoscenza. Nonostante ciò questo campo del soprasensibile trova il suo dominio sotto il concetto di libertà e sotto l’interesse della ragion pratica. Se questo campo soprasensibile rimane interamente indeterminato dal punto di vista della conoscenza teorica, come possiamo sapere che c’è un fondamento sovrasensibile anche della natura stessa e del mondo fenomenico intero? Insomma ci risulta che Kant intenda muoversi in una direzione che contesta radicalmente la coesistenza di due legislazioni interamente separate, indicandone un’unità originaria e il loro fondamento comune. Di questo fondamento non possiamo avere nessuna conoscenza empirica e concettuale. Si tratta di un presupposto, ossia di una possibilità presupposta dal Giudizio. E proprio qui si inserisce il ruolo fondamentale che ha la facoltà del giudizio per tutta la critica trascendentale kantiana. Le due legislazioni, quindi, possono accordarsi non attraverso una terza legislazione determinante, ma attraverso un altro ambito che non ha alcun dominio. In altri termini, ciò che unisce natura e libertà non è nessun tipo di determinazione superiore, ma la riflessione che fonda il Giudizio. La distinzione kantiana tra il Giudizio determinante e il Giudizio riflettente mira a spartire ulteriormente il territorio e distinguere l’ambito della determinazione-legislazione universale (il dominio teorico e quello pratico presi insieme) da quell’ambito dove l’universale non è dato e dove non si può eseguire nessun’applicazione sussuntiva dei concetti. Quest’ambito è quello del Giudizio riflettente che si propone di trovare l’universale a partire dal particolare dato. Il Giudizio, come scrive Kant, non avrà dominio, e con ciò viene distinto sia dall’intelletto che dalla ragione. Una tale mancanza del dominio definito, però, gli permette di effettuare il passaggio dal dominio dei concetti della natura al dominio del concetto della libertà13. Il termine medio, per poter mediare tra i due domini, deve essere a sua volta privo di dominio. 12 KU, p. 175; CG, p. 14 (Introduzione, II). 13 Cfr. KU, p. 179; CG, p. 18 (Introduzione, III).

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Ma nella famiglia delle facoltà conoscitive superiori vi è ancora un termine medio tra l’intelletto e la ragione. Questo termine medio è il Giudizio; del quale si ha ragione di presumere, per analogia, che contenga anch’esso, se non una sua propria legislazione, almeno un principio proprio di ricercare secondo le leggi, e che in ogni caso sarebbe un principio a priori puramente soggettivo; un principio che, se anche non avrà dominio su verun campo di oggetti, potrà tuttavia avere un qualche suo territorio...14

Il termine Mittelglied, tradotto qui “termine medio”, con cui si designa il Giudizio, era stato introdotto anche nella Prefazione alla prima edizione della Critica del Giudizio15. Abbiamo visto che il Giudizio anche nella prima Critica, nell’ordine delle facoltà superiori, occupa una posizione intermedia tra l’intelletto e la ragione, e che fa parte del meccanismo dell’applicazione dei concetti puri dell’intelletto al materiale sensibile. Questo Giudizio nel suo uso logico non è nient’altro che il Giudizio determinante che applica la legge (universale) all’oggetto dei sensi (particolare), perfettamente funzionale all’interesse teorico della costituzione degli oggetti della natura. Il Giudizio determinante è costitutivo per la conoscenza degli oggetti e il suo dominio è perciò teorico. Il Giudizio riflettente, invece, a differenza dal Giudizio determinante, non è sussuntivo, ma inventivo e universalizzante. Per certi versi anche il Giudizio riflettente è legislativo, ma questa legislazione non è determinante; esso cioè non dà la legge né alla natura né alla volontà, ma a se stesso16. Per distinguerlo dal principio di autonomia che caratterizza la libertà morale (ma anche il soggetto trascendentale in quanto tale) Kant descrive questo principio del Giudizio riflettente come “eautonomia”. “Eautonomia” sta a significare l’autolegislazione che non è l’autodeterminazione del soggetto, ma un darsi del principio della riflessione della natura. Questo principio è comunque un principio a priori che deve essere ammesso come tale anche se per il nostro intelletto e per la nostra conoscenza è contingente, poiché non è determinabile attraverso i concetti. Kant perciò osserva 14 KU, p. 177; CG, p. 16 (Introduzione, III). 15 “Ora, se il Giudizio, che nell’ordine delle nostre facoltà di conoscere fa come da termine medio (Mittelglied) tra l’intelletto e la ragione, abbia anche per se stesso principii a priori [...] e se il Giudizio dia a priori la regola al sentimento di piacere o dispiacere, come al termine medio tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare (proprio come l’intelletto prescrive leggi a priori alla prima e la ragione alla seconda): ecco ciò di cui si occupa la presente critica del Giudizio” (KU, p. 168; CG, pp. 4-5; Prefazione). 16 “Questo principio trascendentale il Giudizio riflettente può dunque darselo soltanto esso stesso come legge, non derivarlo da altro (perché allora diventerebbe Giudizio determinante)” (KU, p. 180; CG, p. 19; Introduzione, IV).

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che l’intelletto “ha bisogno, inoltre, di un certo ordine della natura nelle leggi particolari, che esso può conoscere solo empiricamente e che rispetto a esso son contingenti”17. Il Giudizio determinante, grazie all’immaginazione che schematizza, si riferisce alle leggi universali (le proposizioni dedotte dalle categorie, come ad esempio: “ogni accadimento è effetto di una causa”) da cui esso prende le mosse per determinare il particolare e, cioè, per riconoscerlo come esempio, come istanziazione di una regolarità universale e necessaria. Con questa legislazione determinante l’intelletto costituisce la natura come oggetto dei sensi; anzi, senza di essa non sarebbe stata possibile nessuna natura e nessun oggetto della conoscenza. Il Giudizio riflettente come oggetto, invece, ha il principio delle leggi particolari della natura che rimangono indeterminate dall’intelletto puro. Sebbene empiricamente necessarie, queste leggi particolari che vanno scoperte attraverso l’esperienza appaiono contingenti rispetto alle leggi universali dell’intelletto puro. Esse (come, ad esempio, la legge di gravità) non possono essere conosciute a priori ma devono essere scoperte appunto empiricamente. Dato che queste leggi sono contingenti per noi, nel senso che non derivano da una conoscenza a priori, la domanda che Kant si pone riguarda l’unità della natura rispetto al molteplice delle leggi empiriche, ossia la sistematicità e la coerenza dell’esperienza della natura. Il problema è strutturalmente analogo, sebbene assai diverso, alla costituzione della natura come oggetto dei sensi nella prima Critica: se le leggi universali determinano la molteplicità sensibile costituendo l’oggetto dell’esperienza, e rendendo possibile la natura stessa, ora nella critica del Giudizio l’intento è di costruire, a partire dalla molteplicità delle leggi particolari empiriche, un ordine della natura dove tutte le leggi particolari stanno in un rapporto di armonia. Nel primo caso abbiamo la molteplicità del materiale sensibile che ora viene sostituito con la molteplicità delle leggi. Perciò la legislazione determinante dell’intelletto (eseguita attraverso il Giudizio determinante) si riferisce agli oggetti dei sensi, mentre la legislazione riflettente del Giudizio si riferisce alle leggi stesse – è l’autolegislazione riflettente, appunto eautonomia18. Sia la legislazione teorica sia quella pratica sfociano in un oggetto determinato dalle leggi a priori. Con il Giudizio riflettente, si può dire che l’oggetto nel suo senso reale va in secondo piano. Ciò su cui si riflette è la for17 KU, p. 184; CG, p. 25 (Introduzione, V). 18 “La sua legalità è una singolare legalità dello specifico, dell’accidentale, che deve servire nella visione di Kant da introduzione al regno puro della libertà” (G. Carchia, Kant e la verità dell’apparenza, Torino, Ananke, 2006, p. 41).

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ma dell’oggetto oppure “l’accordo dell’oggetto con le facoltà conoscitive che sono in gioco nel Giudizio riflettente”19. Sebbene questa legislazione senza dominio (senza determinazione a priori necessaria) non possa costituire l’oggetto dell’esperienza, essa nondimeno gioca un ruolo imprescindibile nella costituzione dell’esperienza, intesa come sistema coerente delle leggi specifiche empiriche scoperte o ancora da scoprire. Il sistema dell’esperienza si costituisce soltanto nell’atto di riflessione seguendo il principio di finalità. Questa idea trascendentale del sistema dell’esperienza conforme alle nostre capacità conoscitive, non attribuisce niente alla conoscenza della natura. Ma anche se la nostra conoscenza per via di ciò non diventa più estesa, essa comunque si basa su questo presupposto: per scoprire le leggi empiriche, cioè anche per estendere la nostra conoscenza, bisogna presupporre un ordine armonioso della natura come principio a priori. È un presupposto dell’intelletto che risponde al suo bisogno di dare unità al molteplice delle leggi empiriche della natura e di avere così una guida teleologica nella ricerca dell’esperienza. Con il Giudizio riflettente si apre l’ambito della specificazione della natura, ciò che Kant chiama “specificazione soggettivamente finale della natura nei suoi generi”20. La specificazione è anche empirica, cioè contingente nei confronti dell’intelletto; e proprio per questo c’è bisogno di un altro principio, che non è quello categoriale-concettuale, per mettere la natura “in ordine”. Kant lascia lo spazio per una declinazione delle categorie pure e per una loro variazione e differentia specifica che proviene dall’applicazione in diversi modi. La lezione della Critica del Giudizio è che la determinazione si effettua in diversi modi, e che questi diversi modi hanno una certa autonomia a prescindere dal fatto che tutti devono stare sotto la determinazione categoriale dell’intelletto. Per metterli tutti insieme e formare una totalità dell’esperienza bisogna avere una prospettiva teleologica e riflettere secondo il principio di finalità. 2. Il giudizio riflettente come ulteriore livello della sintesi Il principio di finalità è la parola chiave della Critica del Giudizio e del Giudizio riflettente. Questo principio è contingente rispetto alla determinazione dell’intelletto, e perciò si addice soltanto al Giudizio riflettente. “La finalità della natura è, dunque, un particolare concetto a priori, che ha la 19 KU, p. 190; CG, p. 31 (Introduzione, VII). 20 KU, p. 188; CG, p. 29 (Introduzione, VI).

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sua origine unicamente nel Giudizio riflettente”21. La finalità è il presupposto trascendentale e necessario del Giudizio che deve pensare la natura sotto un tale principio universale e teleologico “nella riflessione sugli oggetti della natura allo scopo di ottenere un’esperienza coerente in tutto nel suo complesso”22. Il Giudizio è dunque presuntivo, perché presume e ammette un principio per rendere possibile un certo ordine, un certo organismo della natura23. Come si era già visto, riflettere sulla natura seguendo il principio di finalità, implica che si dissolva la realtà dell’oggetto e lo si faccia passare in secondo piano, mentre ciò che entra in primo piano è la forma dell’oggetto. Infatti quando Kant elabora la differenza tra lo scopo (Zweck) e la finalità (Zweckmäßigkeit) ciò che si lascia intendere è proprio questa differenza che coinvolge lo statuto dell’oggetto: lo scopo, secondo Kant, è il concetto di un oggetto che contiene anche il principio della realtà di questo oggetto; la finalità invece riguarda la forma delle cose e rappresenta l’accordo di queste cose con degli scopi24. Dunque, mentre lo scopo rappresenta l’oggetto secondo il principio della sua produzione (come avere un progetto, oppure un piano di costruzione che si realizza nella produzione di un oggetto che corrisponde al piano), quando parla della finalità Kant evita perfino il termine oggetto e parla delle cose (die Dinge). La finalità, infatti, istaura una relazione con il soggetto, perciò esprime l’accordo tra noi e il mondo in generale; in altri termini, la finalità della natura è sempre relativa alle nostre facoltà conoscitive. L’accordo pensato della natura nella varietà delle sue leggi particolari, col nostro bisogno di trovare per essa principii universali, deve essere giudicato come contingente, per quanto ne possiamo sapere; ma nello stesso tempo come inevitabile per bisogno del nostro intelletto (Verstandesbedürfniß), e quindi come una finalità per la quale la natura si accorda col nostro intento, ma soltanto in quanto questo mira alla conoscenza.25

Kant in questi paragrafi introduttivi esprime l’esigenza di un triplice accordo (Zusammenstimmung): l’accordo nella natura come sistema delle 21 KU, p. 181; CG, p. 20 (Introduzione, IV). 22 KU, p. 184; CG, p. 24 (Introduzione, V). 23 “nella natura v’è una subordinazione di generi e specie, che noi possiamo trovare; i generi si approssimano sempre più ad un principio comune, in modo che è possibile il passaggio dall’uno all’altro, e quindi a uno più elevato” (KU, p. 185; CG, p. 25; Introduzione, V). 24 Cfr. KU, p. 180; CG, p. 20 (Introduzione, IV). 25 KU, p. 186; CG, p. 27 (Introduzione, VI).

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leggi empiriche, l’accordo della natura con la nostra facoltà di conoscere26, e l’accordo tra le stesse facoltà conoscitive (ad esempio, tra l’immaginazione e l’intelletto nell’esperienza del bello). A questo possiamo aggiungere anche l’accordo intersoggettivo tra i giudicanti coinvolti nella riflessione attraverso il principio del senso comune. Peculiare è anche il connubio che Kant instaura tra il sentimento del piacere e il Giudizio riflettente. Il Giudizio determinante non produce nessun effetto sul sentimento del piacere, giacché esso opera secondo una necessità inesorabile, senza nessun fine o intento. In altri termini, là dove regna necessità, nel dominio dell’applicazione inevitabile delle regole universali, non vi è alcun posto per il sentimento di piacere o di dispiacere. L’effetto segue sempre la causa, e una volta tolta la sorpresa a tal proposito, viene tolta anche la possibilità di sentire il piacere o meno. Il piacere è, dunque, il segno soggettivo del campo abitato dalla contingenza27, dall’imprevedibilità, dall’eterogeneità e dalla varietà delle leggi empiriche della natura. Quando si scopre un’unità dei principi nella natura, cioè una regola dell’unione tra le due leggi che stabiliscono una relazione necessaria tra i fenomeni – ma due leggi che, in quanto leggi empiriche a posteriori, sono contingenti rispetto a noi e all’intelletto – questa scoperta suscita un notevolissimo piacere, come scrive Kant, e addirittura un’ammirazione che non cessa28. Questo piacere è un effetto, e perciò Kant dirà che anch’esso è determinato mediante la relazione dell’oggetto con la facoltà di conoscere. 26 Cfr. KU, p. 185; CG, p. 25 (Introduzione, V) e KU, p. 188; CG, p. 28 (Introduzione, VI): qui tra l’altro Kant parla della “concordanza” usando gli altri termini, Einstimmung (tradotto anche come consenso), oppure Zusammentreffen. E poi si veda anche KU, pp. 189-190; CG, pp. 31-32 (Introduzione, VII). 27 Sulla contingenza in Kant, e sul suo rapporto con la particolare produttività dell’immaginazione, che perciò ha un suo ordine temporale particolare, cfr. G. Bertram, Imagination and Contingency: Overcoming the Problems of Kant’s Transcendental Deduction, in “Klesis – Revue philosophique”, n. 28, 2013, pp. 35-46. La conclusione del saggio è che l’immaginazione rappresenta quella facoltà che apre l’essere umano verso il futuro, e dunque verso la contingenza (cioè lo pone radicalmente nella possibilità che qualcosa può accadere o no, che si può riuscire o fallire). Ciò che si può aggiungere è che la produttività dell’immaginazione non si riduce soltanto alla proiezione degli stati di cose non dati nell’esperienza presente, che però possono accadere nel futuro. Seguendo Kant, questo tipo di immaginazione è ancora empirico, cioè riproduttivo. La vera produzione dell’immaginazione invece risiede nella produzione dell’orizzonte della possibilità di ogni proiezione, e non nel proiettare gli eventuali scenari immaginari. 28 Cfr. KU, p. 187; CG, p. 28 (Introduzione, VI).

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Si tratta insomma di un effetto determinato da una relazione che spetta al Giudizio riflettente che attinge l’universale a partire dal particolare. Il piacere o il dispiacere deve quindi poter accompagnare ogni scoperta dell’universalità e dell’unità tra i principi. Ma questo sentimento intermedio tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare è possibile sulla base di una “concordanza della natura con la nostra facoltà di conoscere, concordanza che noi consideriamo come puramente contingente”29. Perciò parlare dei sentimenti di piacere e dispiacere non significa introdurre un elemento di arbitrarietà; è vero che si tratta di un elemento puramente soggettivo che si riferisce alla contingenza dell’accordo nella natura e dell’accordo della natura con noi, ma è una contingenza soltanto dal punto di vista del Giudizio determinante che apre un nuovo orizzonte di necessità e di universalità – la necessità del bisogno finalistico e l’universalità dell’accordo contingente. Il piacere riflettente svela anche un orizzonte di speranza: è la speranza che con l’avanzamento della nostra conoscenza della natura questa risulterà sempre più armoniosa e “sempre più unitaria (einhelliger) nell’apparente eterogeneità delle sue leggi empiriche”30. La domanda programmatica della terza Critica, “cosa mi è lecito sperare?”, trova la sua risposta nel principio di finalità e nell’accordo della natura con la nostra facoltà di conoscere. La domanda che dobbiamo affrontare a questo punto è la seguente: in che maniera può il Giudizio, attraverso il suddetto principio di finalità, svolgere il ruolo del terzo, del termine medio che deve rendere possibile il passaggio dal sensibile al sovrasensibile? Il modo in cui il Giudizio riflettente rinvia al mondo della libertà, riflettendo sulla finalità della natura, può essere spiegato attraverso il sentimento del piacere. Come abbiamo visto, nel mondo della natura dominato dalla necessità originata dall’intelletto puro, non v’è posto per il piacere, perché quest’ultimo sorge soltanto in virtù del raggiungimento di uno scopo, di un fine, laddove sia al contempo possibile anche l’inverso, cioè nel caso in cui il perseguimento di uno scopo possa fallire (producendo così un sentimento del dispiacere). Nel mondo della libertà, dove si desiderano vari fini e dove il soggetto si impegna a realizzarli, il sentimento del piacere, per quanto minimo sia, è l’effetto necessario della determinazione della volontà libera31. Secondo Kant, compiere il dovere morale e costituirsi 29 KU, p. 188; CG, p. 28 (Introduzione, VI). 30 KU, p. 188; CG, p. 29 (Introduzione, VI). 31 Sul sentimento riguardo alla moralità si veda il terzo capitolo nel Primo libro della Critica della ragion pratica.

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come soggetto libero comporta anche il sentimento del piacere. Questo piacere comunque si può considerare derivato e determinato dalla legge morale. Nel Giudizio riflettente abbiamo un altro tipo di situazione: non abbiamo il mondo della prassi libera, bensì un rapporto della natura con le nostre facoltà conoscitive, cioè un rapporto di contemplazione e di riflessione. Un piacere scaturisce da questo accordo ogni volta che, giungendo a un ordine o un’unificazione tra le varie leggi contingenti, si esibisca il principio di finalità. Ma non si tratta di un che di derivato o dedotto, in quanto piacere causale, bensì di un piacere giudicato, riflesso, e in ultima istanza casuale. Piacere e dispiacere sono congiunti con la rappresentazione di un fenomeno naturale; essi sono anche l’effetto di qualche conoscenza, come scrive Kant, anche se non accrescono affatto la conoscenza dell’oggetto – il piacere è semplicemente legato alla rappresentazione stessa in maniera tale che in essa si svela il rapporto finalistico della natura rappresentata con le nostre capacità di rappresentazione. Se il sentimento di piacere e dispiacere è necessariamente connesso con la facoltà di desiderare, allora il piacere nella riflessione, il piacere della concordanza tra la natura e noi, rende possibile il passaggio dalla facoltà di conoscere alla facoltà di desiderare, cioè dal mondo della natura al mondo della libertà32. Perciò la relazione che si istaura va proprio in questa direzione: riflettendo sulla natura, seguendo il principio di finalità e provando un sentimento del piacere, si passa dalla natura alla libertà. La direzione contraria (quella dalla libertà alla natura) dovrebbe essere qualcosa che fa parte della stessa causalità della libertà che ordina categoricamente la realizzazione della legge morale nel mondo fenomenico. Un altro modo di rendere possibile il passaggio e gettare un ponte tra natura e libertà è da ricercarsi nel concetto di “sostrato soprasensibile”. Nel paragrafo IX dell’Introduzione alla terza Critica, intitolato “Del legame tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione mediante il Giudizio”, Kant afferma che l’intelletto che conosce la natura come fenomeno mediante leggi a priori a lei prescritte indica e rimanda a un sostrato soprasensibile della natura stessa che resta però indeterminato dal punto di vista del modello conoscitivo dell’intelletto. Qui interviene il Giudizio con il suo principio di finalità, giudicando la natura come sistema armonioso, come insieme accordato secondo i nostri fini. In questo senso il sostrato soprasensibile a cui l’intelletto rinvia, lasciandolo però indeterminato, si scopre come qualcosa che è determinato per mezzo della ragione. In altri termini, guardando alla natura artisticamente e non meccanicamente, essa si scopre come un insieme 32 Cfr. KU, p. 179; CG, p. 18 (Introduzione, III).

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finalistico come se (als ob) fosse prodotto da una volontà libera che segue lo scopo finale. E qui ripetiamo la domanda del sottocapitolo precedente: se si assume che il Giudizio, riflettendo sulla natura, scopre la determinazione razionale del sostrato soprasensibile della natura stessa, non si conferma in tal modo il primato della determinazione della ragione? L’intermediarietà e la terzietà mediatrice del Giudizio sarebbero dunque qualcosa che deve sparire, una sorta di vanishing mediator33 che deve soltanto portarci al primato della ragion pratica? E l’unica connessione tra natura e libertà sarebbe quella che si svolge sotto la guida della determinazione della ragione? Questi due modi del passaggio dalla natura alla libertà sono comunque interconnessi. Il concetto di finalità si fonda su quello del soprasensibile. La stessa finalità non è qualcosa a cui si possa offrire un’intuizione o un’esperienza che la renda conoscibile. Il suo fondamento e principio si trova soltanto nel puro concetto razionale del soprasensibile. Però, la funzione del soprasensibile non si esaurisce qui. In una nota alla fine del paragrafo 57 della Critica del Giudizio Kant distingue i tre modi di intendere il soprasensibile. Il primo riguarda il soprasensibile come sostrato della natura, e Kant qui potrebbe pensare alla cosa in sé. Poi, l’idea del soprasensibile si intende come principio della finalità soggettiva della natura, e dunque esprime un’armonia tra noi e la natura. E infine, il soprasensibile assume un’accezione pratico-morale, come principio dei fini della libertà. Come si può notare, i tre significati del soprasensibile corrispondono ai tre grandi ambiti e oggetti della filosofia kantiana (natura – bellezza/vita – libertà). E tutti e tre gli ambiti sono uniti dalla stessa idea del soprasensibile. Il problema comunque rimane: questa idea del soprasensibile è una e unica, e si de33 Questo termine che possiamo tradurre come “mediatore dileguante”, “mediatore evanescente” o semplicemente “mediatore che sparisce” viene introdotto da Jameson in un suo saggio (F. Jameson, The Vanishing Mediator: Narrative Structure in Max Weber, in “New German Critique”, n. 1, 1973, pp. 52-89) per spiegare il ruolo del protestantesimo nel passaggio dall’epoca medievale alla modernità: a tal riguardo il protestantesimo è il mediatore evanescente che una volta compiuta la sua funzione (razionalizzione della vita interiore) sparisce dando luogo all’epoca moderna. Il concetto poi viene adoperato da Žižek (si veda il capitolo 5 di S. Žižek, For They Know Not What They Do: Enjoyment as a Political Factor, London, Verso, 1991, e anche il capitolo 3 di Id., Enjoy Your Symptom!, New York, Routledge, 1992) e anche da Badiou come “terme evanouissant” (si veda A. Badiou, Theorie du sujet, Paris, Editions du Seuil, 1982). Il mediatore che sparisce è l’operatore principale dialettico che contrassegna la transizione da qualcosa a qualcos’altro. Per eseguire questo passaggio occorre un elemento, un fenomeno strutturale che compare, ma produce qualcosa di nuovo soltanto attraverso la propria assenza, dunque, deve sparire.

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clina diversamente soltanto a seconda dell’ambito a cui si riferisce? Si tratta del soprasensibile che si dice in tre modi? Oppure si tratta di tre tipi di soprasensibilità che hanno bisogno di nuovo di un principio di unità che li colleghi? In altri termini, cosa collega insieme la cosa in sé, la finalità soggettiva e la libertà, oltre al fatto di essere fondate su di un concetto razionale e indeterminato del soprasensibile? Il ponte che Kant vuole gettare da un mondo all’altro34, da una legislazione all’altra è realizzabile soltanto nel Giudizio che riflette la forma dell’oggetto e da cui emerge un piacere per ciò che è rappresentato. Anche se accettiamo la supposizione di sopra, che il Giudizio in fin dei conti sia riconducibile a una determinazione originata dalla ragione, la riflessione comunque rimane il medium di questo percorso. La ricerca continua del terzo, inteso come punto di supporto della sintesi, porta Kant all’estetica e alla teleologia come ulteriore livello della sintesi. Introdurre la prospettiva teleologica, proponendo la finalità come principio a priori del Giudizio, per Kant ha un tenore strategico anche dal punto di vista del sistema filosofico. Il progetto della sintesi non sarebbe completo senza il Giudizio riflettente. Kant è giunto a un ulteriore livello della sintesi, una sintesi riflettente, che si rivela anche una sintesi autoriflettente, perché riflette sullo statuto della stessa Critica kantiana. In altri termini: se il Giudizio riflettente dischiude un’autoriflessione sulle nostre capacità conoscitive, non è allora l’intero progetto kantiano un frutto del Giudizio riflettente? Siccome il soggetto trascendentale non può essere l’oggetto dell’esperienza, e in termini rigorosi non se ne può avere alcuna conoscenza, alla domanda circa il carattere di quel genere del sapere che costituisce la filosofia trascendentale si può rispondere soltanto ricorrendo all’autoreferenzialità e alla riflessione. La riflessione, cioè il Giudizio, fa dunque da ponte non solo con il soprasensibile, ma anche con il trascendentale. Quando alla fine del capitolo su noumeno e fenomeno nella prima Critica Kant vaglia la fattibilità di una proposizione sintetica che riguarda l’oggetto puramente intellegibile (noumenon), egli chiama di nuovo in causa il terzo termine, das Dritte, facendo riferimento all’uso trascendentale delle categorie (intendendo qui per trascendentale qualcosa di non-empirico, cioè l’uso illegittimo dell’intelletto che esula dall’ambito dell’esperienza possibile): 34 Cfr. KU, p. 195; CG, p. 37 (Introduzione, IX). In realtà Kant dice che è impossibile gettare un ponte tra il dominio della natura e il dominio della libertà, ma nonostante ciò egli si impegna a delinearne la possibilità e tutta la Critica del Giudizio è il progetto di questa possibilità.

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Dov’è qui il terzo termine, quello che si richiede sempre per una proposizione sintetica allo scopo di unire in essa concetti che non hanno alcuna affinità logica (analitica) fra loro?35

Non esiste nessun terzo termine per i concetti che si riferiscono ai noumeni, e dunque non esiste nessuna sintesi che riposi sugli elementi dell’esperienza e garantisca un oggetto di conoscenza. In altri termini, dal punto di vista della prima Critica, non esiste nessun terzo termine tra fenomeno e noumeno. C’è un abisso, e quest’abisso poi diventa il punto di partenza della terza Critica. Proprio perciò essa si propone di teorizzare quel terzo termine mancante a un altro livello, non quello della determinazione degli oggetti della conoscenza, bensì quello in cui una qualche forma di terzietà intermediaria è oltre che possibile anche (soggettivamente) necessaria. In tal modo, il progetto della sintesi si allarga nella ricerca perenne di un termine medio che in fin dei conti fondi la soggettività in tutti i suoi aspetti. Il piano estetico e teleologico della sintesi cambia anche la modalità della sintesi stessa, per certi versi la dissolve, liberandola dalla logica della subordinazione e dal dominio. È la sintesi senza dominio, dunque una sintesi debole, una sintesi del libero gioco. Tutto ciò si dà nel Giudizio riflettente come nuovo luogo des Drittes. Kant definirà questo terzo piuttosto come un Mittelglied che deve gettare un ponte (eine Brücke hinüberschlagen), garantire il passaggio (Übergang) dal fenomeno al noumeno. Il proposito rimane comunque chiaro: il terzo non deve sintetizzare noumeno e fenomeno, ma piuttosto, sotto forma di Mittelglied, rendere possibile un passaggio, una transizione. 3. Sensus communis: fondazione dell’intersoggettività Con la struttura del Giudizio riflettente viene aperto un altro tipo di necessità e di universalità, come abbiamo avuto occasione di mostrare. In quanto implica un principio a priori, il Giudizio opera secondo una certa necessità e universalità. È chiaro che questa necessità non può essere oggettiva in senso sussuntivo e concettuale, ma corrisponde al bisogno soggettivo dell’intelletto di fondare la possibilità dell’unità della natura rispetto alle sue leggi particolari. L’universalità, inoltre, non può essere quella oggettiva, ma è piuttosto un’universalità intersoggettiva, pensata nei termini della pretesa di validità per ognuno. Il piacere che viene prodotto dalla 35 KrV, p. 214; CRP, p. 483 (B315).

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riflessione sulla forma di un oggetto, come accade nell’esperienza del bello, contiene in sé l’esigenza di valere per tutti. Perciò il piacere procurato dal giudizio di gusto, malgrado sia soggettivo, non può essere particolare o personale. Il piacere provato deve essere valevole per ognuno, e in questo senso deve essere universale. Perciò il giudizio di gusto (das Geschmacksurtheil), che ha come proprio oggetto il bello, sembra essere un giudizio logico, cioè “egli [N.d.A. colui che giudica] parlerà così del bello come se la bellezza fosse una qualità dell’oggetto”36. Il fatto che si dica sempre “questo oggetto è bello” e non “questo oggetto mi è bello” dimostra che il giudizio di gusto contiene un’esigenza di universalità e il superamento della posizione particolaristica del soggetto individuale. Se vogliamo esprimere un sentimento particolare (“questo mi piace”), allora non abbiamo più a che fare col giudizio di gusto bensì col piacevole e la semplice espressione del gusto personale (il cosiddetto gusto dei sensi). La differenza formale tra il piacere del bello e il piacevole sta nel fatto che nel primo caso il giudizio sul bello assume la famosa clausola kantiana “als ob”: qualcosa è bello come se questo fosse una proprietà intrinseca di una cosa. L’attribuzione all’oggetto è illegittima dal punto di vista della costituzione concettuale dell’oggetto stesso, però essa rivela sotto la forma del “come se” la natura particolare del giudizio di gusto e dell’esperienza del bello. Se si dice “questa cosa è bella” si implica una pretesa al consenso universale che coinvolge tutti richiedendo lo stesso giudizio sull’oggetto in questione. Un giudizio logico, ossia determinante, già di per sé vale per tutti, giacché contiene l’universalità secondo i concetti. La legge universale, come ad esempio la regola secondo cui ogni effetto ha una sua causa, oppure qualsiasi legge empirica (l’acqua bolle a 100 gradi) non richiede il consenso intersoggettivo e non esige validità universale. Sarebbe assurdo pretenderli, perché la validità intersoggettiva è già inclusa nella necessità con la quale il concetto si applica al fenomeno37. Ma quando l’universalità non proviene dai concetti puri e dalla legislativa dell’intelletto, essa si deve configurare come una pretesa, bisogno o presupposto. Questo tipo di universalità estetica presuppone una sfera pubblica, ossia la sfera dell’alterità intersoggettiva a cui ci si rivolge per universalizzare il piacere che si prova 36 KU, p. 211; CG, p. 53 (Libro I, §6). 37 “Ora, ogni giudizio oggettivamente universale è anche sempre soggettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto ciò che è compreso in un dato concetto, esso vale anche per ognuno, che si rappresenti un oggetto secondo quel concetto” (KU, p. 215; CG, p. 57; Libro I, §8).

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nel giudizio sul bello. Il bello non è un predicato che si attribuisce al concetto dell’oggetto, bensì un predicato estetico, nato dalla riflessione su un oggetto e accompagnato dal sentimento del piacere che si estende “all’intera sfera dei giudicanti”. Mentre la molteplicità dei fenomeni, in un giudizio logico, con il quale un oggetto d’esperienza viene costituito, è necessariamente determinata dal concetto, e perciò sussunta sotto il suo dominio, nel giudizio di gusto abbiamo piuttosto la molteplicità indeterminata dei soggetti da cui si richiede la validità comune del giudizio. Questa sfera intersoggettiva composta da un molteplice dei giudicanticontemplatori crea il contesto per il giudizio di gusto. La decisione se una cosa sia bella o meno spetta sempre a ogni singolo soggetto-giudicante. Ciò che Kant intende dire è che anche questa decisione, che sfocia in un giudizio di gusto rispetto al mio sentimento del piacere, deve necessariamente misurarsi con il contesto intersoggettivo. Il giudizio sul bello comporta dunque una “voce universale”, come la definisce Kant. Il giudizio di gusto, per se stesso, non postula il consenso (Einstimmung) di tutti (perché ciò può farlo solo un giudizio logico, che fornisce ragioni); esso esige soltanto il consenso da ognuno, come un caso della regola, rispetto al quale esso attende la conferma non da concetti, ma dalla adesione altrui. La voce universale (Die allgemeine Stimme) è così soltanto una idea (dove sia il suo fondamento, non è da cercare per ora).38

Questa pretesa di validità universale per ogni soggetto-giudicante è il motivo per cui si deve fare una deduzione dei giudizi estetici. Se la paragoniamo con la deduzione della prima Critica, la quale si proponeva di legittimare l’applicazione delle categorie nei limiti dell’esperienza possibile, vedremo che anche in questa sede si tratta di un lavoro di legittimazione. Ma qui la legittimazione non riguarda la necessità delle categorie, bensì la necessità della pretesa dell’universalità soggettiva, del consenso di tutti. Perciò Kant fa notare che la deduzione dei giudizi di gusto vale solo per la bellezza degli oggetti naturali39. Il giudizio di gusto giudica un oggetto come bello come se la bellezza fosse un predicato logico che appartiene al concetto dell’oggetto. Il giudizio di gusto è dunque un giudizio singolare (“questo fiore è bello”)40 perché connette il predicato di piacere “non con un concetto, ma con una data 38 KU, p. 216; CG, p. 58 (Libro I, §8). 39 Si veda il paragrafo 30 del Libro II dell’Analitica del Giudizio estetico. 40 Nel paragrafo 8 Kant fa l’esempio di due giudizi: “La rosa è bella”, come esempio di un giudizio di gusto, e “Le rose in generale sono belle”, come esempio di un giu-

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rappresentazione empirica singolare”41. Ma ciò che è peculiare nel giudizio di gusto è che il suo essere singolare, cioè il suo riferirsi alla rappresentazione singola dell’oggetto, esprime anche la pretesa di valere come se fosse oggettivo, cioè come se questa rappresentazione fosse oggettiva. Tuttavia, il giudizio di gusto è sempre soggettivo, basato sulla condizione soggettiva formale di un giudizio in generale, cioè sulla facoltà stessa di giudicare42. In questa sua soggettività radicale il giudizio di gusto pretende anche di assumere un’universalità intersoggettiva. “Questo fiore è bello” è sempre così “per qualcuno”, ma questa relazionalità non implica nessuna relatività arbitraria. Anzi, questa relazionalità sganciata da ogni rapporto concettuale deterministico svela il rapporto con il soggetto in quanto tale. Perciò il giudizio “questo fiore è bello” esige che “questo fiore deve essere bello per tutti”. Il piacere che si prova in un soggetto e rispetto a un oggetto singolare si riconosce subito come qualcosa che deve valere per tutti i soggetti e che si esprime come se riguardasse quell’oggetto in quanto tale. Ci sono dunque due livelli della pretesa intersoggettiva e universalistica: il primo concerne l’oggetto giudicato come bello, nella sua forma e a prescindere dal suo concetto; l’altro livello invece chiama in causa gli altri soggetti, la sfera intersoggettiva di tutti i giudicanti possibili. Però, nel riferimento all’oggetto nella sua forma – trattandosi appunto della forma – c’è poco di “oggettivo”. Si tratta del rapporto, ossia dell’accordo, tra le facoltà soggettive conoscitive e la rappresentazione con cui l’oggetto giudicato bello è dato. In altre parole, nel bello si esperisce una finalità dell’oggetto rispetto alle facoltà conoscitive del soggetto. L’oggetto singolare giudicato come bello, dalla cui rappresentazione nasce un sentimento del piacere, si sposta in secondo piano. Alla superficie emerge invece la pura forma dell’oggetto, cioè la finalità soggettiva nella quale le nostre facoltà conoscitive e la nostra disposizione a conoscere in generale si accordano con una rappresentazione dell’oggetto in generale43. La forma dell’ogdizio logico basato su un giudizio estetico. “La rosa mi piace” sarebbe un altro tipo di giudizio estetico, sebbene non sia un giudizio di gusto, giacché fondato su una sensazione puramente soggettiva, cfr. KU, p. 215; CG, pp. 57-58 (Libro I, §8). 41 KU, p. 289; CG, p. 145 (Libro II, §37). 42 Cfr. KU, p. 287; CG, p. 142 (Libro II, §35). 43 Gianni Carchia giustamente parla della mancanza dell’oggetto o della purificazione dell’oggetto che accade con il bello: “Si tratta allora di indagare come si manifesta questa amorosa corrispondenza – vero significato della finalità senza fine – fra l’oggetto e la disposizione contemplativa del soggetto che ha dimesso ogni intenzione conoscitiva semplicemente strumentale. In una parola, come viene incontro l’oggetto alla libera disposizione del soggetto? Ciò accade allorché esso si mostra analogamente svincolato dalle sue caratteristiche di oggetto, dal suo carat-

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getto non è nient’altro che il nome della finalità soggettiva nella quale oggetto e soggetto interagiscono in un libero gioco44. Va altresì osservato che il livello della pretesa universalistica e intersoggettiva nel giudizio di gusto non può essere sganciato dal primo livello (quello appena descritto della formalità soggettiva dell’oggetto nella quale sbiadisce la materialità dell’oggetto concreto per far vedere la sua pura finalità e l’accordo con la condizione conoscitiva del soggetto). Anzi, proprio perché nel giudizio estetico riflettente emerge questo accordo finalistico tra il soggetto e l’oggetto che riguarda “le condizioni soggettive dell’uso del Giudizio in generale”45, diventa possibile pretendere che il piacere che ne scaturisce abbia l’universalità valida per tutti. Le condizioni soggettive della facoltà di giudicare si presuppongono uguali in ogni essere umano. Pertanto “la finalità soggettiva della rappresentazione rispetto al rapporto delle facoltà conoscitive nel giudizio di un oggetto sensibile in generale, si può con ragione esigere da ciascuno”46. Se la finalità soggettiva si ammette come qualcosa di universalmente valido, lo stesso si deve pretendere anche per il piacere: Questo piacere deve necessariamente fondarsi in ognuno sulle stesse condizioni, perché sono le stesse condizioni soggettive della possibilità di una conoscenza in generale (Erkenntniß überhaupt), e la proporzione di queste facoltà conoscitive, che è richiesta dal gusto, è richiesta anche dalla comune e sana intelligenza, quale si può supporre in ognuno.47

Anche se il giudizio estetico di gusto è singolare, e anche se il piacere espresso riguarda sempre un singolo soggetto, la forma del giudizio chiama in causa i fondamenti soggettivi delle facoltà conoscitive in generale, e

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tere di res, per così dire. Alla purificazione del soggetto ne corrisponde una dell’oggetto [...] La finalità soggettiva in quanto liberazione delle pure determinazioni formali dell’oggetto apre la dimensione più profonda dell’oggetto stesso nel medesimo atto in cui ne pone l’inconoscibilità teorica” (G. Carchia, Kant e la verità dell’apparenza, cit., pp. 61-62). Nell’Introduzione alla CG Kant dice che ciò che si accorda con la rappresentazione dell’oggetto è solo la legittimità dell’uso empirico del Giudizio in generale (KU, p. 190; CG, p. 32; Introduzione, VII). Il libero gioco tra soggetto e oggetto, attraverso l’altro libero gioco – quello tra intelletto e immaginazione –, costituisce infatti il luogo dove si esibisce la legittimità dell’uso delle facoltà del soggetto rispetto a un oggetto in generale. La finalità dell’oggetto risulta proprio da questa concordanza e corrispondenza al soggetto. KU, p. 290; CG, p. 146 (Libro II, §38). Ibidem. KU, pp. 292-293; CG, p. 149 (Libro II, §39).

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perciò anche il piacere che si prova riflette l’accordo di questa condizione soggettiva con una qualche rappresentazione dell’oggetto. La necessità del piacere che si esige anche negli altri è basata su una validità universale a priori che riguarda la condizione soggettiva in quanto tale. Proprio a causa di una tale sorta di necessità – Kant la definisce “necessità esemplare” (exemplarische Notwendigkeit) – c’è bisogno di una deduzione (legittimazione) in termini trascendentali. Il compito di tale deduzione sarà introdotto dalla domanda: come sono possibili i giudizi di gusto? Questo problema può essere enunciato anche così: come è possibile un giudizio, che dal solo sentimento particolare di piacere per un oggetto, e indipendentemente dal concetto di questo, proclami a priori, senz’aver bisogno di attendere il consenso altrui, che quel piacere inerisce alla rappresentazione dell’oggetto in ogni altro soggetto?48

Siccome anche i giudizi di gusto sono sintetici – aggiungono alla rappresentazione dell’oggetto non un concetto, ossia un’altra rappresentazione, ma il sentimento del piacere – la domanda sulla possibilità dei giudizi di gusto rientra nella domanda principale della filosofia trascendentale: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Come si inserisce il discorso sulla comunicabilità (Mitteilbarkeit) e sul senso comune (Gemeinsinn) nel quadro della critica trascendentale, specialmente in rapporto alla prima Critica? L’aspetto dell’intersoggettività nella Critica della ragion pura è secondario, per chiari motivi. La determinazione concettuale dell’intelletto necessariamente include comunicabilità e consenso49. Dal punto di vista della prima Critica la validità intersoggettiva dei giudizi è derivata, cioè determinata, dalla struttura logico-trascendentale della conoscenza. Se un giudizio è oggettivo, cioè se si riferisce a un oggetto dell’esperienza conoscitiva secondo le leggi a priori della sua costituzione, allora questo giudizio è anche intersoggettivo, cioè vale per tutti. Nella terza Critica la prospettiva viene ribaltata: se un giudizio è assunto come intersoggettivo esso potrà allora aspirare ad uno statuto di universalità normativa. Soffermiamoci un po’ sulla dimensione intersoggettiva così come viene impostata nella prima Critica. Nel Canone della ragion pura, nella sezione 48 KU, p. 288; CG, p. 144 (Libro II, §36). 49 “Ora, ogni giudizio oggettivamente universale è anche sempre soggettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto ciò che è compreso in un dato concetto, esso vale anche per ognuno, che si rappresenti un oggetto secondo quel concetto” (KU, p. 215; CG, p. 57; Libro I, §8).

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intitolata “Dell’opinare, del sapere e del credere” Kant distingue la convinzione (Überzeugung) dalla persuasione (Überredung). In entrambi casi si tratta di un’espressione che si dichiara vera, cioè di un certo ritener vero (Fürwahrhalten). Nel caso della convinzione il fondamento del ritener vero è oggettivamente valido e perciò anche valido per tutti. Però, se questo fondamento oggettivo manca e il ritener vero si basa soltanto su una condizione particolare del soggetto, allora si ha a che fare con la semplice persuasione. La differenza tra queste due è che il ritener vero nella persuasione non è comunicabile, poiché si tratta di un giudizio privato. Inoltre, si tratta di una parvenza che proclama oggettivo ciò che è soltanto soggettivo. È interessante notare che Kant qui introduce il concetto di comunicabile che poi sarà l’oggetto dell’indagine della terza Critica. Ma ciò che va notato è che la possibilità di rendere un giudizio intersoggettivamente valido si costituisce intorno all’oggetto del giudizio. Scrive Kant: “Ma la verità si basa sull’accordo con l’oggetto, e rispetto a questo oggetto, quindi, i giudizi di tutti quanti gli intelletti devono essere concordi fra loro (consentientia uni tertio, consentiunt inter se)”50. Kant dunque propone la classica teoria della verità come corrispondenza (“accordo con l’oggetto”), ma introduce anche l’aspetto intersoggettivo (concordanza tra gli intelletti rispetto all’oggetto). Possiamo dire che nell’accordo tra due soggetti c’è sempre qualcosa di terzo, l’oggetto, che guida e determina il loro accordarsi. Però, secondo Kant, la stessa possibilità di comunicare è un criterio del giudicare riguardo al ritenere qualcosa vero. È la pietra di paragone che distingue la convinzione dalla mera persuasione: Dunque, vi è un criterio esterno per giudicare se il ritener vero (Fürwahrhaltens) sia una convinzione (Überzeugung) o una semplice persuasione (Überredung), ed esso consiste nella possibilità di comunicarlo e nel trovarlo valido per la ragione di ogni uomo.51

Ma su cosa si basa questa stessa possibilità di comunicazione, come criterio sufficiente per riconoscere una convinzione e non confonderla con il semplice giudizio privato? Il fondamento comune che regola l’intersoggettività è l’oggetto, “con il quale concorderanno dunque tutti i giudizi, dimostrando con ciò la loro verità”52. Sin dal principio l’accordo intersoggettivo è fatto dipendere dall’accordo con l’oggetto e dall’asserzione che tende a essere vera. Perciò la possibilità di comunicare può essere assunta a crite50 KrV, p. 532; CRP, p. 1153 (B848). 51 Ibidem. 52 KrV, p. 532; CRP, p. 1155 (B849).

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rio decisivo riguardo al ritener vero, perché questa stessa possibilità è basata su una condizione oggettiva. Va nondimeno indicata una questione che questa impostazione lascia irrisolta. Essa si può riassumere nella domanda: anche se il consenso tra i soggetti viene fondato su un accordo con l’oggetto, come è possibile questa stessa comunicabilità, cioè quali sono le sue condizioni di possibilità? Per rispondere a questa domanda occorre appropriarsi dell’orizzonte della terza Critica. La maniera nella quale il problema della comunicabilità e del senso comune viene impostato nella Critica del Giudizio è assai diversa. Non è più l’oggetto quello che crea intorno a se il consenso dei soggetti nella misura in cui questo oggetto è verificato come oggetto della conoscenza secondo leggi costitutive valide per tutti53. Il consenso intersoggettivo deve fondarsi su un principio soggettivo a priori, il che è implicito nell’idea di senso comune. Anche il senso comune è un presupposto soggettivo – altresì necessario – ossia un’ipotesi (Voraussetzung)54 sulla quale si basa la possibilità di comunicare non soltanto il piacere del bello, ma anche la conoscenza in generale. Ma se il senso comune, pensato esteticamente, riguarda anche la conoscenza in generale (Erkenntniß überhaupt), esso di fatto colma la distanza che separa il consenso incondizionato nel giudizio determinante – come viene impostato nella prima Critica – dal consenso condizionato del giudizio di gusto. In altre parole, soltanto con il giudizio di gusto arriviamo a quel principio a priori, la condizione di ogni consenso, che in fin dei conti condiziona anche il consenso intorno a qualsiasi giudizio di conoscenza. In questo modo la terza Critica dischiude il principio a priori della comunicabilità che sta a fondamento anche della validità comune dei giudizi sintetici di conoscenza, mentre esso non poté trovare nella prima Critica un’adeguata trattazione per ragioni sistematiche. Se le cose stanno così, ci si chiederà se la Critica del Giudizio non assurga a ‘prima’ tra le critiche e rappresenti il presupposto stesso della Critica della Ragion pura? Le conoscenze e i giudizi, con la convinzione che li accompagna, debbono poter essere comunicati universalmente, altrimenti non si accorderebbero per nulla con l’oggetto; sarebbero tutti un gioco puramente soggettivo delle facoltà rappresentative, proprio come vorrebbe lo scetticismo.55 53 “Perché la rappresentazione solo allora è puramente oggettiva, e ha perciò un punto universale di riferimento, col quale la facoltà rappresentativa di tutti è obbligata ad accordarsi” (KU, p. 217; CG, p. 59; Libro I, §9). 54 Cfr. KU, p. 238; CG, pp. 83-84 (Libro I, §20). 55 KU, p. 238; CG, p. 84 (Libro I, §21).

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Se il senso comune funge anche da arma concettuale contro lo scetticismo, si ravvisa bene in che modo il suo principio a priori rientra anche nel quadro della Critica della ragion pura: la comunicabilità è una condizione per la conoscenza oggettuale. Dalla prospettiva della conoscenza teorica la possibilità dell’accordo intersoggettivo non è pensata come una possibilità, ma piuttosto come necessità incondizionata che deriva dalla determinazione dell’intelletto. Però, anche se l’accordo intersoggettivo, nel campo della conoscenza teorica, si può far “derivare” da questo tipo di determinazione, il principio su cui si basa l’accordo stesso e il consenso di tutti non è affatto deducibile e desumibile dalla ragion pura nel suo uso teorico. In altri termini, la prospettiva critica della prima Critica riesce a giustificare il consenso intersoggettivo e la comunicazione dei giudizi intorno a un oggetto, ma non riesce a giustificare il principio della comunicabilità. Per quest’operazione trascendentale ci vuole l’orizzonte aperto dalla Critica del Giudizio che progetta e legittima il senso comune, inteso appunto come un’ipotesi necessaria. In ciò sta un certo primato della critica del Giudizio riflettente, il quale fa venire in superficie i principi a priori che nella fondazione dell’esperienza conoscitiva erano occultati o quanto meno lasciati in secondo piano. Ora, con l’orizzonte del Giudizio riflettente diventa chiaro come il senso comune sia un principio della comunicabilità universale valido non soltanto per l’esperienza del bello, ma anche per ogni altro tipo di esperienza, in quanto “principio costitutivo della possibilità dell’esperienza”56. Esso rappresenta infatti la condizione necessaria dell’universale comunicabilità della nostra conoscenza (allgemeine Mittheilbarkeit unserer Erkenntniß), che dev’essere presupposta in ogni logica e in ogni principio della conoscenza che non sia scettico.57

Il senso comune viene collocato così nel posto che gli spetta nell’organizzazione complessiva del sistema della critica trascendentale58. Questo luogo era invisibile dal punto di vista della critica della ragion teoretica, es56 KU, p. 240; CG, p. 86 (Libro I, §22). 57 KU, p. 239; CG, p. 85 (Libro I, §21). 58 Sul senso comune come principio topologico, in riferimento alla topica trascendentale e ai quattro concetti della riflessione, esposti nell’“Anfibolia”, rimandiamo al già citato libro di A. Makkreel Imagination and Interpretation in Kant, cit., pp. 165-166. Secondo Makkreel, il senso comune va inserito nella topica trascendentale, perché i quattro concetti della comparazione riflettente (identità-diversità, opposizione-accordo ecc.) sono le distinzioni formali implicite al senso comune.

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sendo il senso comune non un principio determinante, ma piuttosto regolativo, “norma ideale” che contiene un dovere (zusammenstimmen solle): “Questo senso comune non dice che ognuno si accorderà, ma che si dovrà accordare, col nostro giudizio”59. Dunque, attraverso l’esperienza del bello si giunge al senso comune che ha valore per l’esperienza in quanto tale. Anche il giudizio di conoscenza opera sulla base del senso comune, solo che nel suo uso logico, come sensus communis logicus, dover accordarsi (zusammenstimmen sollen) diventa dover accordarsi necessariamente (zusammenstimmen müssen). Però prima di avere una necessità incondizionata dell’accordo bisogna avere un’esigenza, una tendenza doverosa per accordarsi, appunto il Sollen. L’esigenza e la possibilità di essere unanimi precede ogni imposizione dell’unanimità attraverso i concetti. E in questa prospettiva il senso comune estetico conquista il suo primato. Se prendiamo insieme tutte le determinazioni con cui Kant definisce il senso comune, cioè se mettiamo in risalto di nuovo che si tratta di un’ipotesi, cioè di un’esigenza a priori, e che in questa ipotesi il senso comune opera secondo il sentimento, e che inoltre rappresenta “l’effetto del libero gioco delle nostre facoltà”60 – se teniamo conto di tutte queste qualificazioni, si solleva una nuova domanda: come può qualcosa di solamente ipotizzato nel suo carattere di sentimento fungere da condizione per la conoscenza determinata senza cedere allo scetticismo? In altri termini, come è possibile che un sistema del sapere si basi su qualcosa di così fragile e incerto come un sentimento61? Bisogna ribadire a tal proposito che per Kant non si tratta mai di un sentimento nella sua accezione empirica. Non si tratta del piacere del godimento (die Lust des Genusses), come egli lo definisce62. Non sarebbe sbagliato definire il sentimento che sta alla base del senso comune quale una sorta di autosentimento – che magari si potrebbe leggere sulla falsariga dell’autoaffezione della Critica della ragion pura –, cioè quello stato d’animo che nasce da un gioco, da un rapporto “sentimentale” tra le facoltà co59 KU, p. 239; CG, p. 85 (Libro I, §22). 60 KU, p. 238; CG, p. 84 (Libro I, §20). 61 Una domanda simile viene posta da Deleuze: “il senso comune estetico è il fondamento, la condizione di ogni altro senso comune. Come potremmo accontentarci di presupporlo, di dargli soltanto un’esistenza ipotetica, se esso deve servire da fondamento per tutti i rapporti determinati tra le nostre facoltà?” (G. Deleuze, L’idea della genesi nell’estetica di Kant, in Id., La passione dell’immaginazione, a cura di T. Villani, L. Feroldi, Milano-Udine, Mimesis, 2000, p. 32. Il testo in originale è uscito come articolo: Id., L’idée de genèse dans l’esthétique de Kant, in “Revue d’èsthétique”, 1963, pp. 113-135). 62 Cfr. KU, p. 292; CG, p. 148 (Libro II, §39).

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noscitive (soprattutto tra l’immaginazione e l’intelletto nel giudizio di gusto, dove l’immaginazione eccita l’intelletto e viceversa). Una volta tolte le leggi della natura prescritte dall’intelletto, nonché la legge morale legiferata dalla ragione, questo stato d’animo è pensabile soltanto in termini di sentimento. Il soggetto sente così se stesso nella propria predisposizione alla conoscenza in generale. Si coglie privato di ogni oggetto di conoscenza e, per così dire, lasciato soltanto a se stesso e alla propria condizione soggettiva. Detto con maggior precisione, e citando Kant, si tratta di quello stato d’animo che consiste nella disposizione delle facoltà conoscitive (die Stimmung der Erkenntnißkräfte) rispetto ad una conoscenza in generale (Erkenntniß überhaupt), e quella proporzione che conviene ad una rappresentazione (con cui è dato un oggetto), affinché essa diventi una conoscenza.63

Possiamo interpretare la “proporzione” di cui parla Kant – “come condizione soggettiva del conoscere” senza la quale “la conoscenza come effetto non potrebbe nascere”64 – come un altro nome riferito all’accordo tra noi e il mondo, come un segno della nostra immersione armoniosa nel mondo, il quale perciò sta in concordanza a priori con le nostre capacità conoscitive65. Vediamo di nuovo come Kant si spinga oltre l’ambito della prima Critica, scoprendo un orizzonte che è per certi versi antecedente alla fondazione della conoscenza teorica – l’orizzonte aconcettuale o preconcettuale della condizione umana in vista della nostra conoscenza del mondo überhaupt. Questa idea viene espressa pregnantemente in un appunto di Kant pubblicato postumo, in cui si dice che le cose belle mostrano che l’uomo è fatto per il mondo e si accorda perfettamente con esso66. La bellezza è dunque la prova dell’armonia preconcettuale. Assieme a questa condizione preconcettuale e preconoscitiva che possiamo definire come condizione della conoscibilità libera, troviamo anche le radici della comunicabilità. Infatti, i due termini si coimplicano: il vero conoscibile può essere soltanto ciò che è comunicabile. Dunque, quando si parla della comunicabilità del piacere che si prova nell’esperienza del bello e sulla base del principio a priori del senso comune, non si tratta tanto di comunicare un sentimento, quanto del sentimento della comunicabilità 63 KU, p. 238; CG, p. 84 (Libro I, §21). 64 Ibidem. 65 Sulla corrispondenza fra contemplante e contemplato si veda L. Pareyson, L’estetica di Kant, Milano, Mursia, 1968, pp. 49-56. 66 “Die schönen Dinge zeigen an, daß der Mensch in die Welt passe und selbst seine Anschauung der Dinge mit den Gesetzen seiner Anschauung stimme” (HN Lo, p. 127).

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stessa. Il sentimento della comunicabilità, ossia, come abbiamo già detto, l’autosentimento della condizione soggettiva, “risulta dal rapporto delle facoltà rappresentative tra loro, in quanto queste riferiscono una rappresentazione data alla conoscenza in generale (Erkenntniß überhaupt)”67. Il libero gioco di cui si tratta qui, il quale non è altro che il gioco liberato dalla costrizione legislatrice del concetto, si presenta come uno stato d’animo universale che coincide con la comunicabilità universale stessa. Kant definirà la comunicabilità proprio in questo senso: La comunicabilità soggettiva universale del modo di rappresentazione propria del giudizio di gusto, poiché deve sussistere senza presupporre un concetto determinato, non può essere altro che lo stato d’animo del libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto (in quanto essi si accordano tra loro come deve avvenire per una conoscenza in generale) (zu einem Erkenntnisse überhaupt).68

E in questa sede Kant ripeterà di nuovo il primato del Giudizio riflettente che scopre questo rapporto “nudo”, questo libero gioco tra il soggetto e l’oggetto attraverso il libero gioco delle facoltà conoscitive, o per meglio dire, attraverso il gioco della facoltà conoscitive liberate dalla sovradeterminazione della legge teorica e di quella pratica. Questo gioco liberato è universale per tutti perché sono in gioco “le stesse condizioni soggettive della possibilità della conoscenza in generale (Erkenntniß überhaupt), e la proporzione di queste facoltà conoscitive, che è richiesta dal gusto”69. E siccome ciò deve valere per ognuno, anche il rapporto soggettivo che si riferisce alla conoscenza in generale deve essere comunicabile, argomenta Kant. La conoscenza teorica determinata è per forza comunicabile, però, come si legge, essa “riposa sempre su quel rapporto in quanto condizione soggettiva”70. In fin dei conti anche la conoscenza teorica si basa sul libero gioco delle facoltà, nel senso che prima di avere la subordinazione di una facoltà all’altra bisogna presupporre il loro libero gioco71. In questo modo anche tutti e tre tipi di accordo che Kant ha in mente nella Critica del Giudizio vengono accordati e sintonizzati tra di loro, cioè compongono una stessa finalità soggettiva. L’accordo intrasoggettivo tra le nostre facoltà conoscitive, l’accordo esterno tra soggetto e natura, e infine l’accordo 67 68 69 70 71

KU, p. 217; CG, p. 60 (Libro I, §9). KU, pp. 217-218; CG, p. 60 (Libro I, §9). KU, pp. 292-293; CG, p. 149 (Libro II, §39). KU, p. 218; CG, p. 60 (Libro I, §9). Cfr. G. Deleuze, L’idea della genesi nell’estetica di Kant, cit., pp. 28-29.

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intersoggettivo tra diversi soggetti da cui si richiede l’approvazione dell’oggetto giudicato bello – tutte e tre le forme di accordo vengono a esprimere una stessa finalità soggettiva, una stessa condizione rappresentativa del soggetto, oppure una stessa “proporzione”, per usare il termine kantiano. 4. Il sublime e l’intrusione del noumenico Se nell’esperienza del bello la funzione mediatrice dell’immaginazione e il suo ruolo del terzo acquistano una dimensione ulteriore – si accorda con l’intelletto e nel libero gioco con esso svela un fondamento preconcettuale del soggetto – cosa accade invece nell’esperienza del sublime? Anche col sublime si scopre una dimensione ulteriore del terzo mediatore: la dimensione non più dell’accordo e del passaggio al noumenico, bensì del negativo, dell’antagonismo e della violenza, e soprattutto dell’intrusione del noumenico72. L’esperienza del sublime, suscitata dagli oggetti naturali, si oppone alla finalità e alla formalizzazione dell’intelletto: davanti a fenomeni che perdono la loro forma, perché il soggetto stesso si dimostra incapace di “formalizzarli”, il sublime urta contro l’inserimento armonioso del soggetto nel mondo, e anzi, contro il principio della stessa oggettività73 (come può essere considerato come oggetto qualcosa che perde la sua limitazione e la forma, e dunque la sua finalità rispetto a noi, un oggetto informe74?). Per questo, scrive Kant, ciò che produce in noi il sentimento del sublime, può apparire “quasi come violento contro l’immaginazione stessa, nondimeno però soltanto per esser giudicato tanto più sublime, quanto maggiore è tale violenza”75. Con la violenza nel sublime è connessa una certa serietà; non 72 Dell’intrusione di una dimensione sul territorio dell’altra nel sublime parla Alenka Župančić nel suo saggio Die Logik des Erhabenen, in M. Dolar, Z. Kobe et al. (a cura di), Kant und das Unbewußte, Wien, Turia Kant, 1994, p. 32. 73 “Da ciò si vede subito che, ci esprimiamo del tutto impropriamente, quando diciamo sublime un oggetto naturale, mentre con tutta proprietà possiamo chiamare belli moltissimi oggetti della natura” (KU, p. 245; CG, p. 92; Libro I, §23). E poi, KU, p. 250; CG, p. 99; Libro I, §25: “Per conseguenza, è da chiamarsi sublime non l’oggetto, ma la disposizione d’animo (Geistesstimmung), la quale risulta da una certa rappresentazione che occupa il Giudizio riflettente”. 74 Per essere più precisi, Kant non dice che il sublime necessariamente riguarda qualcosa d’informe, ma che esso “si può trovare anche in un oggetto privo di forma (auch an einem formlosen Gegenstande zu finden)” (KU, p. 244; CG, p. 91; Libro I, §23). 75 KU, p. 245; CG, p. 92 (Libro I, §23).

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più il gioco dell’immaginazione che intensifica la vita (come nel bello), ma un’immaginazione sopraffatta e soverchiata dalla forte effusione delle forze vitali (Ergießung der Lebenskräfte76). Su questo tema della violenza e dell’immaginazione torneremo più avanti, e per ora è importante solo avere in mente che con il turbamento delle strutture della conoscenza viene scossa anche la struttura dell’oggettività77. Come sostiene Kant, il principio del sublime naturale lo dobbiamo cercare soltanto in noi stessi, “e nel modo di pensare che rende sublime la rappresentazione della natura”78. Dunque, se nel bello il soggetto riflette la forma dell’oggetto, possiamo concludere che nel sublime è la forma del soggetto che viene riflessa? Il sublime è l’autoriflessione del soggetto che, nell’incontro con certi fenomeni naturali come l’immenso e calmo oceano, il cielo stellato oppure l’oceano sollevato dalla tempesta, le eruzioni vulcaniche ecc., raggiunge la consapevolezza della propria natura sovrasensibile sotto la forma delle Idee della ragione79. La scoperta del sovrasensibile viene fatta, però, attraverso un fallimento, uno scacco. E il fallimento dell’immaginazione sta nel tentativo di soddisfare alle richieste della ragione: è in realtà il fallimento di schematizzare (temporalizzare) qualcosa che si trova al di là del tempo, cioè l’Idea stessa della ragione. Nella valutazione estetica, dove la quantità è colta intuitivamente e immediatamente, affinché si possa utilizzare come unità di misura, l’immaginazione – a differenza della sua funzione teorica di costituire gli oggetti d’esperienza – opera senza le categorie dell’intelletto. Nei termini della prima Critica, l’immaginazione qui opera senza la ricognizione in concetti. L’immaginazione è in questa esperienza estetica direttamente sotto l’influenza della ragione e perciò il suo sforzo di cogliere l’unità in un istante non ha successo. Questa esperienza negativa del fallimento e dell’insuccesso genera un 76 Ibidem. 77 Come scrive Gianni Carchia: “Il sublime si caratterizza così come un giudizio estetico nel quale la sfera fenomenica, il mondo reale non sono nulla più che mera apparenza. Il mondo esterno, infatti, tanto più può dar adito all’esperienza del sublime, che è una negazione del limite e della forma, quanto più esso è vicino alle condizioni dell’informe (sublime matematico) o della potenza che supera ogni misura umana (sublime dinamico) [...] Questo ultimo [oggetto, N.d.A] non è altro che la natura vista nel suo stato grezzo, di fronte alla quale nasce l’impotenza classificatrice dell’intelletto teorico” (G. Carchia, Kant e la verità dell’apparenza, cit, p. 69). 78 KU, p. 246; CG, p. 94 (Libro I, §23). 79 “poiché il vero sublime non può essere contenuto in alcuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della ragione, le quali, sebbene nessuna esibizione (keine ihnen angemessene Darstellung) possa esser loro adeguata, anzi appunto per tale sproporzione (Unangemessenheit) che si può esibire sensibilmente, sono svegliate ed evocate, nell’animo nostro” (KU, p. 245; CG, p. 93; Libro I, §23).

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sentimento di perturbamento e di irritante sproporzione tra le facoltà dell’immaginazione e della ragione. Kant dimostra che l’immaginazione è vittima della ragione, la quale esercita violenza su di lei, forzandola a fare qualcosa di cui essa non è capace, cioè di rappresentare l’irrappresentabile, di abbracciare l’infinito e di costruire una totalità nella rappresentazione80. Questa violenza della ragione però può essere considerata come l’altra faccia della violenza inerente all’immaginazione stessa. E su questo problema si gioca il grande “contributo estetico” di Kant alla sua teoria della sintesi trascendentale esposta ed elaborata nella prima Critica, dove l’immaginazione svolge un ruolo conciliatore e mediatore. Questo consiste nella produzione di schemi volti alla realizzazione del passaggio dalle categorie pure dell’intelletto all’intuizione della sensibilità. Senza questa concretizzazione e applicazione dei concetti intellettuali alla sensibilità per mezzo degli schemi non sarebbe stata possibile nessun’esperienza e nessuna cognizione. Ora invece, nella Critica del Giudizio, abbiamo tutt’altro che l’immaginazione conciliatrice e irenica che agisce senza disturbi al servizio dell’intelletto e del suo interesse teorico nella costituzione degli oggetti empirici. “Il libero gioco delle facoltà”, che è la base dell’esperienza armonica del bello, qui nel sublime si ribalta in un conflitto e un fiasco, in 80 Come scrive Remo Bodei: “Il vero contenuto del sublime sono dunque le idee, quei concetti necessari della ragione, ai quali non è dato trovare un oggetto adeguato nei sensi. La ragione come facoltà delle idee, è il luogo abissale della ‘sproporzione’ fra la pretesa alla totalità e l’impossibilità di conseguirla. Le idee non si lasciano esibire sensibilmente, sono irrappresentabili anche dalla più potente facoltà del sensibile” (R. Bodei, Tenerezza per le cose del mondo, in V. Verra (a cura di), Hegel interprete di Kant, Napoli, Prismi, 1981, pp. 199-200). Nello stesso testo Bodei analizza il sublime kantiano alla luce della dialettica trascendentale: il sublime è l’effetto di un equivoco, come anche l’illusione dialettica è un equivoco, una sostituzione illegittima della necessità soggettiva con la necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé. Anche se nel sublime si tratta di uno spostamento, di un rimando (dall’oggetto di natura all’idea della ragione, dell’umanità e della legge morale), o per meglio dire, si tratta di una proiezione del nostro stato d’animo incommensurabile, in tutto ciò tuttavia non c’è niente di illegittimo nel senso di un’estensione illusoria dei concetti della ragione. Con il sublime noi non abbiamo a che fare con l’estensione di qualche idea al di fuori del mondo fenomenico, ma di un’esibizione allusiva di questa idea dentro il mondo fenomenico degli oggetti. Perciò il sublime ha il carattere di un’immanenza che attraverso il fallimento e lo scacco rimanda alla trascendenza irraggiungibile, e ciò non ha niente a che fare con l’illusione dialettica nel trascendere dell’esperienza per approcciare alle cose in sé. Il mondo del sublime è comunque un mondo fenomenico, anche se questo carattere fenomenico è ridotto fino al suo svanire, cioè fino al punto della massima vicinanza possibile con il noumenico.

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cui l’accordo è raggiunto soltanto attraverso il disaccordo. Per di più, nel confronto e nel conflitto con la ragione, l’immaginazione torna riflessivamente su se stessa per scoprire il proprio nocciolo “violento”, il quale è invece invisibile dal punto di vista della critica della ragion teorica. Come si evince dalla prima edizione della Critica della ragion pura, dove Kant propone la nota triplice sintesi (apprensione, riproduzione, ricognizione), la seconda sintesi, quella della riproduzione in immaginazione, commette un atto violento, perché ferma il flusso lineare del tempo, cioè, la successione delle intuizioni discrete nell’apprensione. Per riprodurre e ritenere gli elementi precedenti e le rappresentazioni parziali, al fine di sintetizzarli in una percezione, l’immaginazione deve neutralizzare il continuum temporale estensivo che appare come orizzonte dell’apprensione. Quest’atto di fermare il flusso del tempo per ritenere gli elementi che in un ordine “naturale” si susseguono inesorabilmente è paragonabile a ciò che Kant nella Critica del Giudizio definisce come “il regresso dell’immaginazione”: La misurazione di uno spazio (in quanto apprensione) è nel tempo medesimo una descrizione di esso, quindi un movimento oggettivo dell’immaginazione, e un progresso; la comprensione (Zusammenfassung) del molteplice nell’unità, non del pensiero, ma dell’intuizione, e quindi la comprensione in un istante di ciò che è stato appreso successivamente, è invece un regresso (Regressus), che sopprime (aufhebt) la condizione del tempo nel processo dell’immaginazione (Progressus der Einbildungskraft), e rende intuibile la coesistenza81. Si tratta dunque (poiché la successione temporale è una condizione del senso interno e di ogni intuizione) di un movimento soggettivo dell’immaginazione con cui essa fa violenza (Gewalt) al senso interno, e in modo tanto più notevole quanto maggiore è la grandezza che comprende in un’intuizione.82

Insomma, per sintetizzare le intuizioni staccate e raccoglierle tutte come coesistenti all’interno di un tutto percettivo, l’immaginazione deve andare contro il percorso rettilineo e incontrastabile del tempo. È questo che Kant intende quando parla della soppressione della condizione del tempo. L’immaginazione va contro il suo stesso condizionamento temporale che impone una successione e un ordine lineare nel susseguirsi delle intuizioni. In questo senso l’immaginazione esercita violenza sul senso interno, cioè sul tempo in quanto forma universale della nostra interiorità e dunque di ogni nostra rappresentazione. 81 La parola tedesca che nella traduzione italiana viene tradotta come “coesistenza” è infatti “Zugleichsein” che si può tradurre meglio con “simultaneità” che accentua ancor di più la dimensione temporale che viene in superficie nel testo citato. 82 KU, pp. 258-259; CG, pp. 108-109 (Libro I, §27).

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Questa deriva violenta che viene messa in scena all’interno del soggetto stesso era oscurata nella prima Critica dalla determinazione sistemica dell’intelletto che guida l’immaginazione. Solo con l’estetizzazione del trascendentale nella terza Critica ciò che era occultato nella prima Critica emerge in superficie: ogni unità sensoriale è per certi versi il risultato della violenza dell’immaginazione che impone l’aggregazione sintetica al molteplice e sospende l’estensione irreversibile del tempo affinché possa riprodurre le intuizioni antecedenti. La sintesi non è un’operazione “naturale”, bensì un intervento che va contro l’ordine “naturale” originario. Questo si può scorgere soltanto quando l’immaginazione si sgancia dalla guida dell’intelletto e quando a sua volta esperisce la violenza della ragione, che esige la totalità assoluta come unica misura accettabile delle cose. Nella prima Critica la sintesi della riproduzione è sottoposta alla costruzione logica (matematica) dell’esperienza; siccome essa è soltanto un aspetto della triplice sintesi, dove la sintesi della ricognizione in concetto gioca il ruolo risolutivo, il cosiddetto “regresso” dell’immaginazione nella riproduzione fa parte di un avanzamento ad un altro livello: la riproduzione non si mostra come atto violento, perché in un certo senso l’unità concettuale del molteplice ha recuperato l’ordine temporale lineare attraverso lo schematismo. Nella comprensione estetica invece assistiamo all’annientamento di quest’ordine temporale senza giungere a una sintesi dell’oggetto, senza cioè quella formalizzazione concettuale che ristabilisce l’ordine temporale secondo le categorie dell’intelletto. La soppressione, ossia il ‘togliere’ la condizione del tempo (Kant ha usato il verbo “aufheben”), equivale a negare l’ordine temporale successivo matematico. Questo pone il soggetto di fronte all’assolutamente grande, davanti a una struttura profonda, abissale che attraversa il soggetto. Potremmo dire, rifacendosi alla distinzione kantiana tra grandezze estensive e intensive, che il tempo è annientato come estensivo e confermato come grandezza intensiva83. L’immaginazione estetica, che non riproduce le rappresentazioni nel senso della loro sintesi84, ma comprende l’insieme in un istante e rende intuibile la simultaneità delle intuizioni che prima erano apprese in succes83 Di questo tema mi sono occupato in S. Hrnjez, (Po)ništenje vremena: o dva načina ekstemporalizacije kod Kanta i Hegela, in “Filozofija i društvo”, XXVI (3), 2015, pp. 730-752. 84 Se si potesse parlare della sintesi a pieno titolo nel contesto estetico … cfr. R. Makkreel, Imagination and Interpretation in Kant, cit., pp. 48-51. Bisogna però ricordare che Kant stesso definisce i giudizi di gusto sintetici, perché il loro predicato oltrepassa il concetto e l’intuizione dell’oggetto giudicato (cfr. §36), anche se è chiaro che non si tratta della sintesi nel senso oggettivo-cognitivo.

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sione, ha un ruolo riflettente e non determinante o costruttivo. Ciò di cui si tratta qui è lo stato interiore della relazione libera e disordinata tra le facoltà del soggetto. La violenza85 al senso interno – ciò che Kant chiama “movimento soggettivo” – svela la dimensione abissale della soggettività. Possiamo avvalerci a tal proposito dell’interpretazione deleuziana del tempo come limite interiore e nemico interno, per dire che la tensione tra l’immaginazione e il suo condizionamento temporale è conseguenza diretta della struttura temporale, una volta che essa, con Kant, è stata radicalmente trasformata e definita “fuori cardine”86. La pura esperienza di questo “fuori cardine” corrisponde all’esperienza del sublime costituitasi attraverso la percezione del caos, del disordine, della devastazione e della crudeltà nella natura87. Nel sublime, oltre alla potenza della ragione, l’immaginazione affronta anche la potenza del tempo88. L’esito disastroso dell’immaginazione che non è in grado di comprendere, e di cogliere l’assolutamente grande in un istante, prova che l’immaginazione non può fermare o controllare il flusso del tempo. La soppressione della Zeitbedingung non è mai totale, e in fin dei conti l’ordine temporale esce dal regresso dell’immaginazione come vincitore. Il limite inerente all’immaginazione assume la forma della superiorità del tempo che si rivela come verace grandezza assoluta, quell’abisso in cui l’immaginazione ha paura di perdersi89. Se nella prima Critica abbiamo conosciuto l’immaginazione come facoltà mediatrice e costruttiva della produzione degli schemi (Zeitbestimmungen), in funzione all’unificazione intellettiva della sintesi del molteplice, nella Critica del Giudizio invece vediamo che la forma del tempo mina 85 Le suggestive riflessioni sulla violenza, l’immaginazione e il tempo, in riferimento a Kant e Heidegger, si trovano in J.-L. Nancy, The Ground of Image, trad. di J. Fort, New York, Fordham Uni. Press, 2005, pp. 15-25, pp. 80-84. 86 G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., p. 87. 87 Sul bello come momento del sapere vis-à-vis il sublime come momento della jouissance (godimento) e assumendo una prospettiva psicoanalitica-lacaniana si veda A. Župančić, Die Logik des Erhabenen, cit., pp. 31-52. 88 In una delle note in cui cita l’iscrizione del tempio d’Iside come ciò che forse ha espresso meglio di ogni altra cosa l’essenza del sublime, Kant allude a un certa concezione del tempo eterno, immenso, e non svelabile: “Forse non è stato mai detto qualche cosa di più sublime, o espresso in un modo più sublime un pensiero, come in quell’iscrizione del tempio d’Iside (la madre natura): ‘Io sono tutto ciò che è, che fu e che sarà, e nessun mortale ha sollevato il mio velo’ ” (KU, p. 316; CG, p. 176; Libro II, §49). 89 “Ciò che trascende l’immaginazione (e a cui essa è spinta nell’apprensione dell’intuizione) è come un abisso (Abgrund), in cui teme di perder se stessa” (KU, p. 258; CG, p. 108; Libro I, §27).

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l’immaginazione dall’interno, cosicché il disaccordo tra immaginazione e ragione svela anche una sorta di tensione temporale che impedisce all’immaginazione di adeguarsi alle esigenze della ragione. A questo punto dobbiamo spingerci anche più in là e sostenere che l’esito della terza Critica, compendiato nell’esperienza del sublime, è conseguenza coerente del modo in cui Kant fonda la sintesi nella prima Critica. Assumere che il tempo sia la condizione generale della sintesi, come forma di tutte le rappresentazioni, sia interne sia esterne, e per di più come condizione generale dell’applicazione delle categorie, in quanto getta un ponte tra gli aspetti eterogenei dello stesso soggetto (recettività e spontaneità), significa erigere tutto l’impianto della sintesi trascendentale su di un terreno veramente precario. Ciò che ci insegna l’estetica di Kant, in particolare l’esperienza del sublime, è la fragilità della sintesi in quanto tale90. Questa fragilità, messa in evidenza nel fallimento di sintetizzare l’assolutamente grande e l’assolutamente potente, risulta dall’eterogeneità inerente alla soggettività e dalla tensione interiore lungo la linea del tempo. Il punto di svolta nella teoria del sublime di Kant arriva nel momento in cui immaginazione e ragione, attraverso un ribaltamento dialettico peculiare, giungono all’accordo reciproco. Su cosa si basa quest’armonia e accordo tra facoltà che sembravano totalmente inconciliabili? L’immaginazione, che affronta i propri limiti, riconosce la ragione come facoltà superiore del soprasensibile, in maniera tale da riconoscere il soprasensibile come propria determinazione (übersinnliche Bestimmung). In altre parole, l’immaginazione scopre la sua origine trascendentale e la radice comune con la ragione, attraverso un’esperienza negativa, nella tensione e nel dolore. L’immaginazione non è capace di rappresentare l’idea sovrasensibile, ma tuttavia rappresenta questa stessa incapacità e la propria insufficienza, o in altri termini essa “rende quasi intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive”91. 90 Chi ha insistito molto su questo terreno caotico, precario, insomma “estetico” di tutta la costruzione trascendentale di Kant è stato Deleuze. Nel testo Che cosa è la filosofia? Deleuze e Guattari scrivono che Kant con la vecchiaia è diventato consapevole della catastrofe: “Anche in filosofia, la Critica del giudizio di Kant è un’opera della vecchiaia, un’opera sfrenata; e quelli che verranno dopo non cesseranno di rincorrerla: tutte le facoltà dell’anima superano i loro limiti, quegli stessi limiti che Kant aveva così accuratamente fissato nei libri della maturità” (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 2002, p. VIII). E anche G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., p. 116, 125; cfr. anche D. Cantone, Deleuze lettore di Kant: i corsi di Vincennes, in “Esercizi Filosofici 1”, 2006, pp. 100-113. 91 KU, p. 257; CG, p. 107 (Libro I, §27).

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Attraverso quest’esperienza privativa e autoriflessiva della propria insufficienza, l’immaginazione entra in armonia con la facoltà del soprasensibile, poiché riconosce il soprasensibile come origine di tutte le facoltà, e perciò di se stessa: l’origine che essa non può rappresentare, ma soltanto indicare, esperire negativamente. Nonostante ciò non è solo la ragione ad aspirare alla totalità e all’incondizionato infinito; anche l’apprensione stessa tende verso l’infinito. C’è nella nostra immaginazione “una spinta a proseguire all’infinito”92, cioè l’apprensione che trascorre nella successione temporale infinita le parti sensoriali dell’intuizione. In altri termini, la dimensione soprasensibile dell’infinito è già presente al livello prediscorsivo dell’apprensione sensibile, e in quanto tale essa è costitutiva per la sintesi dell’immaginazione93. Il dissidio con la ragione serve a esplicare questa presenza trascendentale dell’infinito in tutte le nostre facoltà, e altrettanto a scoprire il loro “punto di concentrazione”, cioè l’unità sovrasensibile di tutte le facoltà. Dunque, la teoria del sublime non è una mera appendice (Anhang), come Kant scrive94, oppure una problematizzazione estetica secondaria di scarsa importanza. Al contrario, la questione del sublime non è soltanto una questione estetica, ma per certi versi il culmine dell’intero impianto della sintesi trascendentale. Il sublime è la verità della sintesi nel momento del suo fallimento, del suo scacco. L’estetica del sublime in Kant procura un’ulteriore risposta alla domanda inaugurale: come sono possibili giudizi sintetici a priori? Nella dimensione aperta dalla terza Critica, nel territorio senza dominio, il meccanismo dello schematismo è sospeso e viene meno il “controllo” sul particolare da parte delle leggi universali, cosicché il soggetto riflette, in un’esperienza estetica, l’unicità dell’evento in quanto esibizione della li92 KU, p. 250; CG, p. 99 (Libro I, §25). 93 Oltre alla tendenza all’infinito, che fa parte di ogni apprensione nonché di ogni misurazione matematica, anche la totalità è presente sin dall’inizio, inclusa come costitutiva di ogni comprensione che coglie in un colpo d’occhio un insieme senza procedere progressivamente. Il problema del sublime nasce da un cortocircuito tra la totalità e l’infinità, da cui può risultare soltanto uno scacco, ma anche una presa di coscienza sul sostrato sovrasensibile del sensibile. Non si deve perdere di vista il titolo dato al par. 26 dell’Analitica del sublime: l’idea del sublime richiede la valutazione delle grandezze delle cose naturali. Dunque il sublime non è soltanto il risultato di un’impossibilità, di un fallimento, ma anche una sorta di segno del fondamento. O, per dirla con Deleuze, “non è il fondamento ma la fondazione della sintesi”, la scoperta del sottosuolo della straordinaria vitalità, della ritmicità delle cose (G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo, cit., p. 125). 94 KU, p. 246; CG, p. 94 (Libro I, §23).

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bertà che sovverte l’ordine schematico del tempo. L’esperienza del sublime è perciò l’esperienza di qualcosa di non ordinario, ossia di stra-ordinario, sentito e riflesso come evento ex nihilo. Al livello dell’esperienza oggettiva e della cognizione niente può essere creato ex nihilo, poiché il principio della causalità, come categoria dell’intelletto, richiede lo stato precedente delle condizioni che necessariamente producono un effetto, seguendo gli schemi della successione temporale. Ma siccome il sublime riguarda l’esperienza soggettiva e il “movimento dell’animo”, il fatto che noi esperiamo un fenomeno come evento – inaspettato, imprevedibile, e per certi versi imponente – produce una rottura nell’ordine omogeneo del tempo schematizzato. Un evento così compreso assume un significato liberatorio, di emancipazione dalle condizioni precedenti e dalla rete pre-esistente delle circostanze. La libertà che si esibisce nel sublime non è nient’altro che la nostra libertà intrinseca che rompe con la causalità naturale e con l’ordine lineare del tempo. Infine, l’estetica del sublime aggiunge nuove sfumature al tema del terzo intermedio. Il vero terzo della struttura trascendentale della conoscenza, l’immaginazione, si è dimostrato essere insufficiente, limitato, attraversato dalla linea del tempo, per dirla con Deleuze. Lo scacco dell’immaginazione davanti alla ragione significa un annientamento delle facoltà rappresentative, la loro totale caduta. Ma è proprio qui che emerge la struttura del terzo come Übergang più radicale. L’immaginazione che schematizzava aveva il ruolo del terzo che collegava i due ambiti della facoltà conoscitiva, cioè i due ambiti costitutivi del mondo fenomenico, mentre l’anello di congiunzione mancante rimaneva quello tra il mondo fenomenico e quello noumenico. Con lo scacco dell’immaginazione nel sublime, invece, viene preparato il passaggio, il varco che prima era chiuso e che lasciava così tutto un ambito concettuale fuori della portata del soggetto come mera parvenza. La dimensione sovrasensibile, che in Kant ha un valore etico-pratico, si dischiude così in un atto autoriflessivo, attraverso il crollo della struttura schematico-discorsiva95. Ma anche il bello, in quanto simbolo del bene morale96, funziona come un rimando alla sfera soprasensibile del noumenico e della libertà. Appartenendo all’ordine simbolico, e non a quello schematico, il bello procura un’immagine che non è l’istanziazione sintetica del concetto, il frutto dell’applicazione, bensì un’allusione simbolica a qualcosa che sta oltre e che non si può rappresentare. Il bello e il sublime sono, 95 Cfr. G. Carchia, Kant e la verità dell’apparenza, cit., p. 78. 96 Cfr. KU, p. 353; CG, p. 217 (Libro II, §59).

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dunque, due modi di rimando, di Übergang, che indicano la sfera inconoscibile delle Idee e del razionale; e indicano per di più il fondamento sovrasensibile sia della natura sia della libertà. La terzietà dell’immaginazione, una volta liberata dalla coercizione dell’intelletto, si presenta come luogo vero della sintesi mancante, cioè dell’unità soggettiva del fenomeno e del noumeno – l’unità che però viene articolata piuttosto come un passaggio da un livello dell’unità all’altro. Solo che nel bello e nel sublime abbiamo impliciti i due diversi tipi di passaggio: nel bello il passaggio dalla natura alla libertà è compiuto attraverso un’idea di armonia e di accordo, in cui si rispettano le frontiere tra due domini e due ordini, ma in cui anche si presuppone e si costruisce un ponte. Nel sublime, piuttosto che un passaggio diretto, abbiamo un’interruzione imprevista e l’intrusione di un ordine nell’altro. Qualcosa all’interno della stessa natura si rompe, si incrina e appare come dimensione della libertà. Così, il passaggio, anziché costruito sulla base di una finalità presunta, viene aperto in virtù del fallimento della struttura soggettiva e di una finalità determinata.

PARTE SECONDA: IL TERZO SPECULATIVO

C’è un tertium, dice invece la filosofia, ed esiste una filosofia proprio perché c’è un tertium. (Hegel, Fede e sapere)

CAPITOLO I L’IDENTITÀ SPECULATIVA: DAL TERMINE MEDIO AL MEDIO

1. Il bisogno della filosofia come bisogno del terzo – tra riflessione e speculazione Nel suo saggio Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (Differenz-Schrift), introducendo l’argomento principale, che per la maggior parte si svolge come una vera resa dei conti, un’Ausaneindersetzung con le filosofie della riflessione, Hegel esordisce con la distinzione tra lo spirito e la lettera della filosofia kantiana. Questa distinzione, che secondo Hegel era necessaria in Kant, basta al momento per rilevare un approccio ambiguo che Hegel svilupperà nei confronti di Kant: un approccio che si muove dal riconoscimento e dalla valutazione positiva fino alla critica feroce e al rigetto deciso. In altri termini, tutto ciò che bisogna riconoscere e salvare nella filosofia kantiana sarà attribuito al suo spirito, mentre tutto quello che bisogna criticare e disapprovare sarà fatto valere soltanto come qualcosa appartenente alla lettera, separata dallo spirito che si è espresso in una forma filosofica non adeguata. Questo spirito del kantismo, insufficientemente riconosciuto ed elaborato da Kant stesso, offuscato e adombrato da una riflessione raziocinante, e perciò impostato su un piano inferiore, secondo Hegel deve essere espresso come un principio speculativo. Il principio speculativo della filosofia kantiana, ravvisabile secondo Hegel nella deduzione trascendentale delle categorie, va individuato e separato dalla parte restante del pensiero kantiano, con tutta l’impalcatura delle articolazioni filosofiche in base alle quali la filosofia kantiana si candida a pieno diritto come filosofia della riflessione per eccellenza. L’approccio di Hegel, comunque, non sta nel respingere il pensiero kantiano senza residui; l’intento è piuttosto quello di riconoscere, attraverso una sorta d’indagine dall’interno, i momenti speculativi intuiti da Kant stesso, per salvarli e spogliarli dalla riflessione raziocinante in cui in fin dei conti egli è caduto. La posizione hegeliana si ricostruisce così come compimento della filosofia critica e

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del suo trascendentalismo. Si tratta della ripresa di alcuni elementi della filosofia critica, i quali, trasportati su un altro piano e sotto un’altra luce, dimostrano il suo pieno valore e il suo spessore spirituale-speculativo. Quali sono gli elementi della filosofia kantiana che secondo Hegel non appartengono al suo spirito, diminuendo il suo valore speculativo, cosicché tutto il pensiero di Kant viene definito come una “filosofia dell’intelletto” (e per di più accostato all’empirismo, e addirittura al dogmatismo, due avversari contro i quali la filosofia critica combatte)? Nella DifferenzSchrift Hegel individua tre elementi: la cosa in sé, le categorie dell’intelletto, le Idee della ragione. La cosa in sé, come la pensa Hegel, è un’ipostatizzazione trascendente attraverso la quale l’elemento della cosalità viene posto come un’oggettività assoluta, sotto la forma vuota dell’opposizione (la cosa in sé è soprattutto opposta al mondo fenomenico, in quanto unico spazio dell’esperienza possibile). Anche le categorie sono un bersaglio della critica hegeliana, perché sono intese da Kant come “immobili e morte caselle dell’intelligenza”1. Alle Idee della ragione viene riservato il posto più alto, essendo i supremi principi della conoscenza; questo innalzarsi della ragione però viene subito sminuito ed essa decade, nega se stessa e si riduce alle attività che non esprimono la sua vera indole. Secondo Hegel la ragione in Kant viene trattata con l’intelletto, cioè come un raziocinare negativo, per cui le Idee della ragione vengono svuotate, separate e contrapposte all’essere, e perciò private della realtà e del loro concreto significato ontologico. Le Idee della ragione, come vengono impostate da Kant, non sono adatte a conoscere il vero e l’assoluto. La conoscenza intellettuale, attraverso le dodici categorie2, si dimostra così una determinazione limitata, che lascia al di fuori “un’assoluta aposteriorità, per la quale non è indicata alcuna apriorità, solo una massima soggettiva del Giudizio riflettente”3. Nonostante ciò, i momenti più pertinenti, degni di nota e di carattere speculativo non si trovano in questi aspetti del pensiero kantiano, ma nel “principio trascendentale, che sta alla base della deduzione delle categorie”4. In che cosa consiste un tale principio della speculazione che Hegel rintraccia nella deduzione trascendentale kantiana? Si tratta dell’identità del 1 2

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HW 2 JS, p. 10; PSC, p. 3. Per Hegel le dodici categorie possono ridursi a soltanto nove perché le categorie della modalità vengono escluse. Le categorie della modalità non danno alcuna determinazione oggettiva ed esprimono la non-identità del soggetto e dell’oggetto (cfr. HW 2 JS, p. 10; PSC, p. 4). Ibidem. HW 2 JS, p. 11; PSC, p. 4.

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soggetto e dell’oggetto, quale viene espressa soprattutto nel principio dell’appercezione originaria, e nella sua rappresentazione dell’Io penso. Come insegna Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia l’Io kantiano è pensato come l’unità di ciò che è opposto e duplice (il molteplice sensibile e le categorie). Viene pensato cioè come in sé, l’uno e unico che produce anche l’unità nell’esperienza. L’Io, in quanto tale, rivela ciò che Hegel definisce “il concetto assoluto”5 – il pensiero che contiene in sé la differenza, o meglio, contiene la realtà come propria differenza. Il tema del principio dell’unità sintetica dell’appercezione, eletto a principio speculativo, rimarrà sin dagli scritti giovanili di Hegel uno dei punti chiave del suo rapporto con Kant, e sarà trattato con particolare attenzione anche in Fede e sapere. Esprimere l’identità del soggetto e dell’oggetto nella deduzione delle categorie rappresenta per Hegel un passo in avanti verso la ragione, vale a dire che in tal modo l’intelletto è condotto dalla ragione. Come scrive Hegel: “l’intelletto era stato trattato con la ragione”6; e aggiunge, pensando alla deduzione delle categorie, “questa teoria dell’intelletto è stata tenuta a battesimo dalla ragione”7. Appunto per questo il principio della deduzione è riconosciuto come il principio della speculazione. Tuttavia, la stessa identità del soggetto e dell’oggetto, annunciata da Kant ed espressa nella teoria della deduzione delle categorie, è destinata a sparire nello stesso momento in cui viene posta; l’identità sparisce appunto perché viene posta nel compartimento vuoto dell’intelletto, e così derubricata a un livello inferiore. Di conseguenza, questa identità non è dotata della capacità di fornire una determinazione oggettiva completa, per cui tutta quella aposteriorità per la quale non esiste nessuna apriorità – in altri termini nessuna identità speculativa corrispondente – viene ceduta al campo dell’estetica e della teleologia. In altri termini, ciò che non può essere determinato dal soggetto appartiene alla riflessione. Hegel appunto indaga la ragione per cui qualcosa non può essere determinato, e la trova appunto nel carattere intellettivo dell’identità del soggetto e dell’oggetto, che, infatti, svela una non-identità. Proprio questa non-identità sarà consegnata alla ragione, perché a questa Kant non dà nessuna determinazione oggettiva, e i suoi prodotti (le idee) sono “assolutamente opposti a una sensibilità o natura e possono servire ai fenomeni soltanto come regola di un’unità ad essi esterna”8. 5 6 7 8

Cfr. HW 20 GP III, p. 336; LSF Vol. 3, Tomo 2, p. 291. HW 2 JS, p. 10; PSC, p. 4. Ibidem. HW 2 JS, p. 113; PSC, pp. 93-94.

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La ragione perciò rappresenta un’assoluta non-identità del soggetto e dell’oggetto, ossia un’assoluta differenza rispetto alla sensibilità e alla natura. E nello stesso modo in cui l’intelletto era stato trattato dalla ragione, qui la ragione viene trattata dall’intelletto, cioè le viene tolta l’identità, ovvero, alla ragione viene tolto il suo stesso principio originario, il quale per di più viene assolutamente contrapposto all’essere. Dunque, ciò che sta a cuore a Hegel, in questo vertiginoso ribaltamento secondo il quale l’intelletto (Verstand) nasconde l’autentico principio speculativo e una traccia del razionale, mentre la ragione (Vernunft) stessa viene ridotta all’intelletto e privata del proprio principio, è che l’identità del soggetto e dell’oggetto, come autentica pietra di paragone per il pensiero speculativo, si capovolge in una non-identità, la quale poi viene “innalzata a principio assoluto”9. Questo insomma sarebbe un riassunto del pensiero kantiano visto con gli occhi di Hegel. Oppure, detto con le sue stesse parole: Ma non appena la speculazione esce dal concetto, che essa ha stabilito da se stessa, e si configura in sistema, abbandona se stessa e il suo principio e non ritorna in esso. Essa consegna la ragione all’intelletto e passa nella catena delle finitezze della coscienza, da cui essa non si ricostruisce nuovamente in identità ed in vera infinità. Il principio stesso, l’intuizione trascendentale, ottiene in tal modo la falsa posizione di un opposto contro la molteplicità dedotta da esso. L’assoluto del sistema si mostra solo come viene inteso, nella forma del suo manifestarsi, dalla riflessione filosofica; e questa determinatezza che gli è data mediante la riflessione – quindi la finitezza e l’opposizione (die Endlichkeit und Entgegensetzung) – non gli viene sottratta. Il principio, il soggetto-oggetto, si rivela un soggetto-oggetto soggettivo (ein subjektives Subjekt-Objekt).10

La filosofia critica, come una variante della Verstandesphilosophie, giunge al principio dell’identità, cioè al soggetto-oggetto, ma gli attribuisce un significato soggettivo. Ciò a cui mira Hegel qui è il carattere dell’identità come tale: non basta porre l’identità di soggetto e oggetto, bisogna anche determinarne il carattere. Anche l’identità tra soggetto e oggetto, per essere veramente assoluta, deve essere soggettiva-oggettiva. È l’unico modo per realizzare a pieno titolo l’idea della ragione. Altrimenti succede quello che si lascia ravvisare nelle filosofie di Kant e di Fichte: l’assoluto viene ridotto alle sue manifestazioni, l’identità decade a non-identità, mentre il principio speculativo viene imprigionato in una forma del pensiero puramente soggettivo. Anche se il brano sopra citato contiene dei riferi9 HW 2 JS, p. 10; PSC, p. 4. 10 HW 2 JS, p. 11; PSC, pp. 4-5.

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menti a Fichte (“l’intuizione trascendentale”) e all’Io=Io, come principio speculativo del sistema fichtiano, le stesse obiezioni si possono muovere anche a Kant: si tratta di quel pensiero filosofico che sopprime il proprio principio dell’identità assoluta che esso stesso fa emergere. Questa autonegazione è una caratteristica della filosofia della riflessione che, urtando contro i propri limiti, si dimostra incapace di esprimere la sintesi assoluta, perché forzata a enunciarla in proposizioni formali. ma la riflessione non è in grado di esprimere la sintesi assoluta in una proposizione, se è vero che questa proposizione deve valere per l’intelletto come una proposizione vera e propria; la riflessione deve separare ciò che è uno nell’assoluta identità ed esprimere la sintesi e l’antitesi separatamente in due proposizioni, in una l’identità, nell’altra la scissione (Entzweiung).11

Se applichiamo questa diagnosi alla filosofia kantiana, possiamo concludere che in essa l’Io penso, l’autocoscienza pura, rimane separata dal molteplice delle intuizioni e dall’esperienza in generale. Qualcuno potrebbe obbiettare che questa separazione non è interpretata correttamente, dato che l’Io penso è il principio della sintesi di ogni molteplice e perciò il principio della sintesi dell’esperienza (l’a priori e l’a posteriori sono separati, ma una condizione non può essere totalmente separata dal condizionato12). Questa sintesi insomma non può valere come sintesi assoluta, il paradigma dell’identità speculativa nel senso hegeliano, perché l’Io penso, malgrado sia il punto di concentrazione e dell’identità degli oggetti dell’esperienza, rimane a sua volta non determinato e non condizionato dalla stessa esperienza. In breve, l’Io penso rimane vuoto e uguale a se stesso (Io=Io), secondo il principio dell’identità formale e astratta. E proprio perché la rifles11 HW 2 JS, p. 37; PSC, p. 28. 12 In altri termini, neanche in Kant l’a priori è concettualmente sostenibile come assolutamente autonomo e indipendente. Se l’oggetto non fosse dato e la recettività del soggetto non fosse affetta, tutta la sua struttura dei concetti a priori sarebbe privata del fondamento empirico. D’altra parte, l’a priori è per definitionem indipendente dall’empirico, ma nonostante ciò, se fosse totalmente staccato dall’esperienza, senza qualsiasi relazione con l’esperienza possibile, perderebbe il suo carattere di condizione. La condizione a priori dell’esperienza non sarebbe più una condizione se fosse un’alterità radicale rispetto al condizionato. La realtà empirica delle forme a priori, di cui parla Kant, ha esattamente il significato della possibile relazione con il materiale empirico. La loro idealità trascendentale invece preclude la possibilità della loro origine nell’esperienza. Ciò che attacca Hegel, infatti, non è tanto la realtà empirica dell’a priori, quanto il secondo lato, l’idealità trascendentale delle forme che devono fungere da condizione senza a loro volta essere condizionate da ciò che condizionano.

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sione non è capace di cogliere l’identità assoluta, essa altrettanto non è in grado di cogliere la vera struttura dell’autocoscienza. Per cogliere se stesso come un’identità, l’Io deve veder se stesso come struttura intrinsecamente antinomica, ossia, per essere uguale a se stesso l’Io deve essere anche opposto a se stesso, ineguale a se stesso, cioè deve essere non-Io, questa volta non come qualcosa di esterno che gli viene imposto, contro cui urta, ma piuttosto come qualcosa che appartiene all’Io stesso, all’autocoscienza in quanto tale. Dunque, l’autocoscienza, intesa come identità assoluta, deve includere il principio della propria opposizione e perciò va trattata come una struttura triadica: 1. Identità con se stessa, 2. La propria differenza 3. L’identità dell’identità e della differenza. La contraddizione, come “la regola di ciò che è vero”13, si palesa così come principio o regola veritativa anche per l’autocoscienza stessa. Nella Differenz-Schrift questa logica della contraddizione, indispensabile per l’identità assoluta, è articolata in termini formali. Come punto di partenza si prende l’equazione A=A, in quanto principio di identità a cui si giunge astraendo da ogni differenza, da ogni ineguaglianza. Tale equazione esprime semplicemente la pura unità, che vale soltanto per l’intelletto e per la sua riflessione. La mossa peculiare di Hegel consiste in una sorta di decostruzione e di smascheramento di questo principio dell’identità, da cui si lascia emergere la sua propria contraddizione, cioè il principio di nonidentità. In altri termini, la riflessione che esprime questa identità semplice offusca la sua verità speculativa purificando l’identità, cioè riducendola soltanto a un’identità astratta dalla differenza. Questa conclusione “formale” corrisponde al giudizio generale sulla filosofia kantiana e fichtiana in quanto concretizzazioni teoriche di quel modo di pensare in cui la riflessione sopprime la propria verità speculativa. In altri termini, già l’identità pura, “A uguale A”, contiene in sé la differenza da cui si vuole astrarre; questa differenza è espressa nella posizione diversa di due A differenti sul lato sinistro e sul lato destro. Al momento in cui poniamo l’identità tra due A, abbiamo già presupposto la loro differenza, perché senz’essa non avrebbe senso paragonare i due membri dell’equazione. Per ottenere l’identità bisogna presupporre la differenza. Il punto decisivo sta esattamente nel porre ciò che è presupposto e solo contenuto, nell’esplicare il presupposto irriflesso che si vorrebbe sopprimere, e dunque porre l’opposto, ciò che non è uguale, come presupposto dell’uguaglianza. Questa verità però si può appurare soltanto alla luce del13 È la prima delle Habilitationsthesen di Hegel, che risalgono all’agosto 1801: “Contradictio est regula veri, non contradictio falsi” (HW 2 JS, p. 533).

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la facoltà della ragione, che invece vuole includere (rendere concreto) anche ciò da cui la riflessione, ponendo l’uguaglianza con se stessa, vuole astrarre. In altri termini, la ragione si presta a includere anche il principio della differenza, che Hegel formula come “A non= A” oppure “A=B”. Ma ciò che è interessante è che questa formulazione della differenza include già il principio dell’identità, espresso nel segno “=”, così come l’identità con se stessa (A=A) includeva la propria differenza. Ogni principio, sia quello dell’identità sia quello della differenza, contiene il proprio opposto. Contrapporre il principio della non-identità al principio dell’identità pura, alzandolo al livello del principio supremo, significherebbe di nuovo un atto di astrazione, questa volta astraendo dall’identità. E a tutto ciò si può obiettare quel che si è detto nel primo caso, in cui si è fatta un’astrazione dalla differenza e dall’inuguaglianza. Detto in altri termini, la contrapposizione dell’identità alla differenza, o viceversa, significa la contrapposizione al proprio presupposto, al proprio opposto che rimane implicito. È questo, appunto, ciò che costituisce la riflessione e le filosofie dell’intelletto che la applicano: esse separano ciò che nell’identità assoluta è uno, e come abbiamo visto nella citazione di sopra, separano l’identità e la differenza, ossia, la sintesi e l’antitesi in due proposizioni separate. Il gesto della ragione, che segue la propria vocazione speculativa, unisce i due principi separati (A=A e A non= A) mettendoli in un rapporto reciproco di identità. Ma questa identità di nuovo è pensabile soltanto come espressione di un’antinomia. Perciò Hegel è spinto a pensare anche il principio del fondamento nei termini di un’antinomia14. Se una cosa è fondamento dell’altra, questo vuol dire appunto “l’identità nella differenza”: il fondato e il fondante sono due cose differenti, ma nonostante questa differenza, o anzi, proprio perché c’è la differenza, c’è anche l’identità, intesa come rapporto reciproco tra due cose nel principio del fondamento. Se l’intelletto non riconosce questa identità, detta identità assoluta, allora esso non giunge alla ragione, scrive Hegel, e dunque anche il principio della differenza (A=B) per l’intelletto è una ripetizione dell’A, cioè un altro A al posto di B. Ma proprio qui bisogna vedere che anche nella ripetizione A diventa un non-A, cioè il proprio opposto. Dunque il principio dell’identità assoluta si mostra di nuovo come un tener conto dell’altro, da cui risulta un’indifferenza nel porre i due principi: “è indifferente porre A=B o A=A, sempre che A=B e A=A vengano presi 14 “A ha un fondamento significa: ad A spetta un essere che non è un essere di A, A è un esser-posto che non è l’essere posto di A; dunque A≠A, A=B” (HW 2 JS, pp. 38-39; PSC, p. 29).

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come rapporto di entrambi i principi”15. Vale a dire, dal punto di vista dell’identità in quanto rapporto reciproco, il quale sarebbe la vera espressione dell’identità assoluta, nel porre l’identità è posta già la differenza, e nel porre la differenza è già posta l’identità. In tal maniera il principio dell’identità speculativa viene contato come il terzo rispetto ai due principi separati; il terzo che contrassegna il rapportarsi reciprocamente dell’identità e della differenza. È un terzo relazionale, cioè allo stesso momento antinomico e identitetico – dunque, assoluto16. Con il dischiudersi di questa dimensione del terzo la riflessione, infatti, supera se stessa e passa al livello della speculazione e della filosofia “vera”17. Il passaggio al terzo, come condizione dell’inveramento della filosofia, è da spiegare anche attraverso il tema hegeliano del bisogno della filosofia, come una sorta di bisogno del terzo.18 La scissione (Entzweiung) è la fonte del bisogno della filosofia, e, come cultura di un’epoca, l’aspetto condizionato, dato della figura. Nella cultura ciò che è manifestazione dell’assoluto si è isolato dall’assoluto e si è posto come elemento autonomo.19

La scissione (Entzweiung), la separazione e la situazione di isolamento degli opposti l’uno rispetto all’altro, è vista non soltanto come una pre-condizione ontologica, ma anche come qualcosa di culturalmente condizionato. Sembra che Hegel, attraverso questa concezione ontologica, sviluppi una sorta di Kulturkritik riguardo al proprio contesto storico e alla situazione a lui contemporanea. La filosofia si articola così come una disciplina di maggior rilievo, capace di introdurre un nuovo orizzonte storico del pensare. All’interno della situazione dell’oblio dell’Assoluto, soltanto con la 15 HW 2 JS, p. 39; PSC, p. 29. 16 Che l’identità assoluta venga pensata in termini relazionali lo si desume anche dalle prime definizioni dell’identità e della differenza nel giovane Hegel. Così nel “frammento sistematico” del 1800 Hegel determinava la vita come “il legame del legame e del non-legame” (Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung). Nella traduzione italiana invece questa espressione viene tradotta con “l’unione dell’unione e della non-unione” (HW 1 FS p. 422; Pr, p. 30). 17 Sulla nascita dello “Standpunkt der Spekulation” e sul significato del concetto di riflessione nello Hegel jenese, nel quadro delle influenze schellinghiane, si veda K. Düsing, Spekulation und Reflexion. Zur Zusammenarbeit Schellings und Hegels in Jena, in “Hegel-Studien”, n. 5, 1969, pp. 95-128. 18 “C’è un tertium (Es gibt ein Drittes), dice invece la filosofia, ed esiste una filosofia proprio perché c’è un tertium” (HW 2 JS, p. 411; PSC, p. 232). 19 HW 2 JS, p. 20; PSC, p. 13.

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speculazione e con la scoperta del terzo momento, inteso come identità assoluta, e il rapportarsi reciproco, si può uscire da questo “stato naturale filosofico”20, per usare un’espressione schellinghiana. Quando la potenza dell’unificazione (die Macht der Vereinigung) scompare dalla vita degli uomini e le opposizioni (die Gegensätze) hanno perduto il loro rapporto vivente e la loro azione reciproca (Wechselwirkung) e guadagnano l’indipendenza, allora sorge il bisogno della filosofia. Come tale, questo bisogno è qualcosa di contingente, ma, sotto la scissione data, esso è il necessario tentativo di togliere l’opposizione (Entgegensetzung) della soggettività e dell’oggettività consolidatesi, di comprendere l’essere-divenuto del mondo intellettuale e reale come un divenire (Werden) e l’essere di questo mondo, in quanto prodotto, come un produrre (Produzieren). 21

L’intento comunque non è quello di sopprimere le opposizioni in quanto tali, ma di togliere le opposizioni diventate fisse, cioè di cambiare il carattere del rapporto tra le opposizioni. Bisogna prestare bene attenzione a quei passi di Hegel in cui si dice a chiare lettere che l’interesse non è di opporsi all’opposizione e alla limitazione, perché “la scissione necessaria è un fattore della vita”22. Dunque, il bersaglio critico della ragione non è l’opposizione stessa, bensì la pietrificazione e il fissarsi assoluto delle opposizioni. La ragione interviene così soprattutto sul modo di rapportarsi delle opposizioni e modifica lo spazio che c’è tra di esse. Negare il finito, la limitazione e la posizione dell’intelletto che favorisce il finito, non significa sopprimere il finito e annegarlo nell’assoluto infinito. Porre il finito in relazione con l’assoluto23 non vuol dire includere il finito in una totalità schiacciante, onniIl riferimento qui è a Scheling, che nell’Introduzione alle Idee per una filosofia della natura (1797) scrive che gli uomini prima vivevano nello stato di natura filosofico, cioè vivevano in uno stato della naturalezza irriflessa delle cose. Opporsi al mondo esterno è il primo passo verso la filosofia. Con questa separazione infatti nasce la speculazione e il bisogno della filosofia, la quale si prefigge lo scopo di un’azione reciproca tra l’uomo e il mondo, e dunque di superare l’abisso aperto tra di essi. Questo superamento contrassegna l’uscita definitiva dallo stato di natura filosofico. Cfr. F. W. J. Schelling, Werke 5, Ideen zu einer Philosophie der Natur (1797), hrsg. von M. Durner, Stuttgart, Frommann-Holzboog, 1994, pp. 70-71. 21 HW 2 JS, p. 22; PSC, p. 15. 22 HW 2 JS, p. 21; PSC, p. 14. 23 “La ragione, unificandoli entrambi [N.d.A unificando gli opposti], li annienta (vernichtet) entrambi, dacché essi sono solo in quanto non sono unificati. In questa unificazione sussistono ad un tempo entrambi; l’opposto infatti, e dunque il limitato (Beschränkte), è così riferito all’assoluto (aufs Absolute bezogen)” (HW 2 JS, p. 27; PSC, p. 19). 20

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possente e onnicomprensiva. L’interesse speculativo si può giudicare anche dal lato del finito, come impresa di una rivalutazione del finito in quanto tale, che non sarà “assolutizzato”. La posizione dell’intelletto e della riflessione, seguendo il ragionamento hegeliano, è falsa non perché favorisce il finito rispetto all’infinito; Hegel non interviene esaltando l’infinito al di sopra di ogni determinazione particolare. Anzi, si può dire che le filosofie del finito e della riflessione soggettiva debbano essere smontate proprio perché non riconoscono sufficientemente il finito nella sua finitudine. Infinitizzare il finito e assolutizzare ciò che è limitato e particolare, a cui ricorre l’intelletto diventato sicuro di sé, sono espressioni di una vanità24. In questo modo le cosiddette filosofie del finito si mostrano come posizioni “assolutistiche”, perché sono dei tentativi di guardare al finito come a qualcosa che si estende all’infinito, nonché come qualcosa di assolutamente opposto all’infinito. Parimenti, le filosofie del finito non sono estranee al concetto di totalità. L’obiezione hegeliana si rivolge al carattere di questa totalità che è divenuta “totalità delle limitazioni”. La posizione che Hegel assume non è quella di introdurre una totalità onnicomprensiva, ma di cambiare lo stesso carattere della totalità, mettendo in rapporto il finito con l’assoluto. Ma che cosa vuol dire – senza voler costruire formulazioni paradossali – mettere la totalità delle limitazioni in rapporto con l’assoluto? Sembra che l’unico modo per scogliere l’assolutizzazione della totalità delle limitazioni sia quello di ripristinare il rapporto con l’assoluto. “Mettere in rapporto con l’assoluto” vuol dire ripensare e riordinare il rapporto stesso che c’è tra le opposizioni divenute fisse in molti concetti (ad esem24

“Un discorso come questo: come posso io povero verme della terra esser in grado di conoscere il vero?, appartiene ormai al passato, e al suo posto sono subentrate la presunzione e la vanità, e ci si è immaginati di essere nel vero immediatamente […] allo stesso modo in cui è in grado di stare in piedi e di camminare” (HW 8 E I, p. 68, ESF I, p. 150, §19 A1). Da una parte, Kant riconosce la finitezza del soggetto umano capace di conoscere soltanto i fenomeni. D’altronde, però, proprio in ciò consiste la vanità della ragione che determina con la certezza dove sta il limite assoluto e naturale del conoscere. La conoscenza assoluta del limite, oltre il quale non si può andare, manifesta, infatti, dietro la modestia apparente, un voler essere sovrano entro il dominio delimitato, e dunque ciò che non si può dominare (conoscere) e che minaccia la propria sovranità diventa un assoluto al di là, lasciato nel campo dell’inconoscibile. Il riconoscimento del limite è dunque conseguenza del bisogno di fondare la conoscenza sul dominio del soggetto, come “autocrazia della ragione soggettiva” (HW 20 GP III, p. 384; LSF Vol. 3, Tomo 2, p. 339). Cfr. anche: “Io deve ‘accompagnare’; questa è un’esposizione barbarica” (HW 20 GP III, p. 343; LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 298). Si veda anche: S. Sedgwick, Hegel’s Critique of Kant. From Dichotomy to Identity, Oxford, Oxford University Press, 2012, p. 97.

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pio: ragione vs intelletto, libertà vs natura, spirito vs materia, ecc.). Potremmo dire che mettere in rapporto con l’assoluto non vuol dire altro che rivalutare il rapporto stesso come ciò che è assoluto. Bisogna ribadire questo carattere relazionale dell’assoluto, che emerge dalle pagine hegeliane: esso consiste nel rapporto vivente e nell’azione reciproca, in una Wechselwirkung tra soggetto e oggetto, che non sono uniti in un Terzo che sta sopra di loro, ma sono uniti attraverso il rapporto reciproco tra di loro. Più precisamente, questo terzo, inteso qui come identità assoluta del soggetto-oggetto, consiste nel rapporto che c’è tra di loro, nel modo in cui il soggetto si rapporta all’oggetto, e viceversa. La differenza tra essi non viene annientata, così come neanche la scissione non viene totalmente cancellata. Piuttosto essa viene de-assolutizzata, ossia la scissione assoluta viene abbassata a scissione relativa25. La domanda vera, però, è: come è possibile questo passaggio, cioè come è possibile ripensare la scissione tra il finito e l’infinito come una scissione relativa? È possibile soltanto perché il rapporto con l’assoluto non viene mai perso; esso potrebbe essere soltanto cancellato, ignorato o messo in oblio. Questo in altri termini vuol dire, come abbiamo già visto dall’analisi del principio dell’identità, che l’identità pura (A=A) contiene già il suo opposto, la differenza, seppure ci sia l’interesse ad annientare la differenza. E dall’altro lato, anche la differenza mantiene sempre il rapporto con l’identità, nonostante il tentativo di astrarla e preservarla come differenza al di sopra di ogni identità. Questo reciproco mantenere il rapporto con il proprio opposto è la prova hegeliana che l’assoluto c’è già, come luogo di provenienza di tutte le opposizioni e manifestazioni da esso scaturite. Inoltre, scrive Hegel, bisogna produrre l’assoluto. Ma che cosa vuol dire la produzione dell’assoluto e come si produce qualcosa che già c’è26? Ovvero: che cosa veramente fa la riflessione che si alza al livello della ragione? L’intervento della ragione per certi versi consiste nel cambiare il modo di trattare la scissione, affinché la scissione e la differenza assoluta (per l’intelletto) possano diventare scissione relativa (per la ragione). E qui non si tratta di due scissioni; lo spazio tra soggetto e oggetto rimane sempre aperto, non riducibile né all’uno né all’altro. Ma ciò che cambia è che nel25

“Nell’infinita attività del divenire e del produrre la ragione ha unificato ciò che era separato ed abbassato la scissione assoluta a scissione relativa, che è condizionata dall’originaria identità” (HW 2 JS, p. 22; PSC, p. 15). 26 La riflessione che fa Hegel è la seguente: “L’uno è l’assoluto stesso; è lo scopo cercato. L’assoluto c’è già, altrimenti come potrebbe essere cercato? La ragione lo produce solo liberando la coscienza dalle limitazioni; questo togliere le limitazioni è condizionato dalla presupposta illimitatezza” (HW 2 JS, p. 24; PSC, p. 17).

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la scissione relativa – che sarebbe forse meglio definire “scissione relazionale” –, l’assoluto si fa presente come il reciproco rapporto tra le opposizioni, tra i lati della scissione, come un rapporto vivo, originario, “identico nella differenza”, dunque: assoluto. Dal punto di vista della scissione, invece, “l’assoluto è la notte, e la luce è più giovane della notte; la loro distinzione, così come l’emergere della luce dalla notte, è un’assoluta differenza”27. Passare alla speculazione, cioè aprire l’orizzonte della terzietà, vuol dire cambiare la prospettiva, guardare la scissione dall’altro lato; però cambiare il punto di vista e il modo di trattare la scissione ontologica non va inteso come qualcosa di soggettivo, al pari del giudizio riflettente kantiano. Si tratta di un intervento prettamente ontologico e di un punto di vista “determinante”. È in questo senso che l’assoluto si produce; la sintesi assoluta tra soggetto e oggetto si stabilisce soltanto come autoriflessione del particolare e delle limitazioni che così comprendono il proprio rapporto con l’assoluto, che c’è già, vale a dire: attraverso il rapporto con il proprio opposto le limitazioni comprendono che la verità sta in questo assoluto relazionarsi con l’altro da sé. Dunque, quando si indica la produzione dell’assoluto e si suggerisce che l’assoluto “deve essere costruito per la coscienza”28, si tratta di un procedimento che coinvolge la riflessione perché essa si innalzi al livello della ragione. Da ciò si capisce il rapporto ambiguo che Hegel ha nei confronti della riflessione. All’inizio essa viene pensata come facoltà del finito che pietrifica le opposizioni e contrappone il finito all’infinito. Qui, va precisato, è in gioco soltanto un tipo di riflessione, vale a dire la riflessione raziocinante, che è isolata dalla ragione e sta sotto il dominio dell’intelletto. Se la riflessione è capace di “accogliere l’assoluto” e di trasformarsi nella ragione, questo vuol dire che essa già sta nel rapporto con l’assoluto, solo che questo rapporto rimane irriflesso. L’autocoscienza della riflessione, che esplicita così la sua dipendenza dall’assoluto, si manifesta appunto come sua costruzione29: la costruzione dell’assoluto per la coscienza come ricostruzione del suo già-presente nella coscienza. Questa impresa, però, richiede un auto-annientamento (Selbstvernichtung) della riflessione; essa per diventare ragione e per esistere nell’assoluto, “deve darsi la legge dell’autodistruzione (das Gesetz der Selbstzerstörung)”30. In altri termini, 27 HW 2 JS, pp. 24-25; PSC, p. 17. 28 HW 2 JS, p. 25; PSC, p. 18. 29 Sull’autocostruzione dell’assoluto riguardo a una scienza dell’indifferenza che mira a unire l’assoluto come oggettivo (natura) e l’assoluto come soggettivo (ragione), cfr. HW 2 JS, p. 111; PSC, p. 91. 30 HW 2 JS, p. 28; PSC, p. 20.

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la riflessione produce l’assoluto, nell’ordine della coscienza filosofica, non come un prodotto indipendente, ma come la propria autodistruzione; l’auto-annientarsi è il luogo dell’esser-già-presente dell’assoluto. Questo autoannientarsi è l’assoluto della riflessione, purché con ciò si dimostri la dipendenza della riflessione dall’assoluto31. La riflessione, elevata allo stadio della ragione32, scopre la dimensione dell’infinito in un atto dell’autocoscienza della propria finitezza. L’infinito è l’autocoscienza del finito, cioè il finito che riflette sulla propria finitezza non smette di essere finito, ma si colloca in una dimensione che oltrepassa la sua finitezza isolata, essendo posto in relazione con il proprio opposto. Dunque, l’assoluto emerge nell’atto della riflessione, come verità di questa stessa riflessione che ri-scopre la propria dipendenza dall’assoluto, la propria origine. Bisogna notare però che quest’origine non è niente che stia al di fuori di questa stessa auto-relazione della riflessione con se stessa. L’assoluto deve essere pensato inseparabilmente dal potere della riflessione di auto-distruggersi e di elevarsi al di sopra di se stessa, diventando qualcosa di più di ciò che è. In questa trattazione di lotta della ragione contro l’intelletto che si svolge sul terreno dell’intelletto stesso, cioè non contro la riflessione in quanto tale, ma contro la sua deviazione e il suo abbassamento, si può scorgere un approccio che Hegel applica anche nella trattazione della filosofia kantiana, nonché di quella di Fichte e di Jacobi. Alla riflessione non si oppone un’altra forza a essa esteriore, ma si scopre piuttosto la potenza dell’unificazione che scorre nella riflessione stessa, per liberarla dalle incrostazioni intellettive; così anche alla filosofia kantiana non si oppone un’ontologia di stampo pre-critico, ma all’interno di quella si ricava e si esplicita un’ontologia della ragione. Il compito filosofico è liberare la riflessione kantiana da se stessa per farne uscire i momenti intrinsecamente speculativi, cioè quell’identità tra soggetto e oggetto che Hegel rintraccia nella deduzione trascendentale. Il procedimento, dunque, parte da Kant stesso e, rimanendo nell’orizzonte da egli aperto, smaschera tutti quei momenti dell’intelletto, cioè i prodotti della forza della divisione che sfociano in una contrapposizione netta tra fenomeno e assoluto, tra il finito e l’infinito. Simile alla riflessione che in un atto di autodistruzione apre la strada per far rivelare l’assoluto, anche la logica del terzo opera secondo una dialetti31 Cfr. Vladimir Milisavljević, Identitet i Refleksija. Problem samosvesti u Hegelovoj filozofiji, Beograd, Zavod za udžbenike, 2006, p. 102. 32 Come dice Hegel: “Solo in quanto la riflessione è in rapporto all’assoluto, è ragione, e la sua azione è sapere” (HW 2 JS, p. 30; PSC, p. 21).

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ca autonegante e immanente: il terzo va scoperto in seno alla stessa dualità, cioè i due separati e fissati devono darsi anche loro la legge della autodistruzione per scoprire la loro relazionalità originaria, l’altro opposto presso se stesso. Il terzo risiede proprio in questa loro relazionalità originaria che ricostituisce speculativamente i due e la loro diffferenza, della differenza assoluta fa una differenza relativa, e dunque di un dualismo pietrificato fa una dualità relazionale e reciproca. 2. La speculatività dell’immaginazione e l’unità originaria dell’appercezione Se vogliamo entrare nel merito del principio speculativo della deduzione delle categorie, dobbiamo prendere in considerazione il saggio di Hegel del 1802, Fede e sapere, in cui egli si distacca dalle posizioni di Kant, Jacobi e Fichte. Qui per la prima volta la forza annientante dell’assoluto, rappresentata dalla ragione, viene applicata al campo dell’Analitica kantiana per togliere tutte le forme del finito, che nascondono e offuscano l’identità assoluta sfiorata nella stessa Analitica. Questo metodo porterà a un ripensamento dell’ambito della Dialettica alla quale non sarà più assegnato il carattere dell’impossibilità della conoscenza e il suo correlativo limitarsi alla totalità intellettiva delle determinazioni finite33. L’apertura verso la Dialettica a questa nuova luce, rivalutando la forza unificatrice della ragione, è condizionata da una rilettura dell’Analitica e della deduzione trascendentale delle categorie: Nel principio della deduzione delle categorie questa filosofia è autentico idealismo, ed è questo principio ciò che Fichte ha posto in evidenza nella sua forma più pura e rigorosa e che ha chiamato lo spirito della filosofia kantiana […] In tale deduzione delle forme dell’intelletto è espresso nel modo più esatto il principio della speculazione, l’identità del soggetto e dell’oggetto […] Il pensare puro di se stesso, l’identità del soggetto e dell’oggetto nella forma io = io è il principio del sistema fichtiano, e se ci si attiene immediatamente soltanto a questo principio – così come nella filosofia kantiana al prin-

33 Come scrive Leo Lugarini: “La prospettiva quindi si rovescia: la hegeliana forza nientificante della ragione è per esplicarsi sul terreno dell’Analitica; nel contempo si annuncia campo d’estrinsecazione della sua vis ricostruttiva il metafisico ambito della Dialettica, ed è pur sempre la ‘conoscenza dell’assoluto’ ciò che in tale ambito fa questione” (L. Lugarini, La “confutazione” hegeliana della filosofia critica, in V. Verra (a cura di), Hegel, interprete di Kant, Napoli, Prismi, 1981, p. 26).

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cipio trascendentale, che sta alla base della deduzione delle categorie – si ha, audacemente espresso, l’autentico principio della speculazione.34

In questa citazione tratta dalla Differenz-Schrift troviamo tutte le indicazioni dell’identità assoluta in Kant. Le indicazioni rimangono comunque riassuntive e vengono ulteriormente sviluppate soltanto in Fede e sapere. In questo scritto Hegel individua tre momenti che esprimono l’identità assoluta in Kant: il problema dei giudizi sintetici a priori, l’unità sintetica dell’appercezione e l’immaginazione. Questi tre momenti sono l’espressione della sintesi assoluta tra soggetto e oggetto e la prova delle vedute speculative che Kant stesso non era in grado di portare fino alle ultime conseguenze. Queste tesi richiedono una precisazione. Secondo Hegel già nella domanda “come sono possibili i giudizi sintetici a priori?” viene articolata l’identità soggettiva-oggettiva a priori, il che per Hegel significa l’identità assoluta tra il soggetto (il particolare) e il predicato (l’universale) in un giudizio sintetico. Il giudizio sintetico a priori rappresenta perciò l’identità degli opposti, l’unità di ciò che è eterogeneo. Essere in grado di esprimere questa identità già significa parlare con le parole della ragione, che difatti così è all’origine dell’intera costruzione a priori della sintesi nell’esperienza. Mentre il punto di partenza, espresso nella domanda inaugurale e programmatica su come sono possibili i giudizi sintetici a priori, ci avvicina all’identità assoluta (die absolute Subjekt-Objekt-Identität), la soluzione che Kant dà se ne allontana e l’identità in questione si realizza soltanto come un’identità relativa. Secondo Hegel, i giudizi sintetici a priori sono possibili attraverso “l’originaria identità assoluta dell’eterogeneo (ursprüngliche absolute Identität von Ungleichartigem)”35. L’identità assoluta originaria, dunque, è inseparabile dal presupposto che ci sia innanzitutto la scissione tra soggetto e oggetto, perché soltanto a partire da quella identità si distinguono e distanziano soggetto e oggetto; l’originarietà e la precedenza di questa identità viene pensata nella concezione dell’a priori, in quanto momento della sintesi che precede e rende possibile ogni sintesi fenomenica nell’ordine dell’esperienza. Perciò l’a priori per Hegel è sinonimo della ragione. Ma proprio qui si colloca la sua critica a Kant: la struttura aprioristica ha privato se stessa della propria natura razionale36. Hegel non rinuncia alla domanda “come sono 34 HW 2 JS, pp. 9-11; PSC, pp. 3-4. 35 HW 2 JS, p. 307; PSC, p. 141. 36 “Kant ha riconosciuto l’unico a priori, sia esso della sensibilità o dell’intelletto o di quel che si vuole, non come ragione, bensì solo nei concetti formali di universalità e necessità” (HW 2 JS, p. 309; PSC, p. 143).

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possibili i giudizi sintetici a priori?”, la ritiene piuttosto insufficiente. Perché la vera domanda che Kant non si è posto sarebbe: come è possibile la scissione tra soggetto e oggetto? Il che si può sviluppare in una serie di domande dello stesso tenore: come mai vi è divario tra spontaneità e recettività, tra fenomeno e noumeno, ecc.? Infatti, nel vedere l’a priori come espressione della ragione e come identità assoluta, da cui si separano sia il soggetto sia l’oggetto, Hegel intende rispondere proprio a tale quesito: come è possibile la scissione? La possibilità della scissione e la possibilità della sintesi a priori vanno indagate e trattate contemporaneamente. Una risposta alla possibilità dei giudizi sintetici a priori viene data nell’articolazione dell’appercezione trascendentale. Secondo Hegel che interpreta Kant essi sono possibili mediante l’originaria identità assoluta dell’eterogeneo (durch die ursprüngliche absolute Identität von Ungleichartigen); da questa identità, in quanto incondizionato, l’identità stessa si separa solo per il fatto che soggetto e predicato, particolare ed universale si manifestano divisi nella forma del giudizio.37

Prima di essere identificata con l’unità sintetica dell’appercezione, questa identità originaria assoluta viene spiegata anche in questo modo: La vera unità sintetica o identità razionale è soltanto quella che costituisce il rapporto del molteplice all’identità vuota, all’io; da questa unità sintetica come sintesi originaria si separano in primo luogo l’io, come soggetto pensante, e il molteplice come corpo e mondo…38

Da questo passo possiamo concludere che “la vera unità sintetica”, ossia l’“identità razionale” (die wahre synthetische Einheit oder vernünftige Identität), è l’origine della scissione tra Io e mondo, e in quanto tale l’origine del rapporto tra di loro. Non per caso Hegel qui la definisce nei termini di rapporto (Beziehung) tra l’eterogeneo e l’identico, cioè tra il molteplice e l’Io. Ciò che connette questi due opposti in modo originario, l’origine della loro provenienza, è lo stesso rapporto che c’è tra di essi. Ma nel dire che essi provengono dall’identità razionale intesa come rapporto, si è già affermato il fatto che il rapporto viene prima di ciò che è rapportato. Dunque, l’identità originaria assoluta non va pensata come Uno assoluto, l’origine chiusa in sé e statica che lascia emergere soggetto e oggetto. L’identità originaria assoluta non è nient’altro che il rapporto tra il 37 HW 2 JS, p. 307; PSC, pp. 141-142. 38 HW 2 JS, pp. 306-307; PSC, p. 141.

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soggetto e l’oggetto che li precede e al contempo li rende possibili. Pensare il rapporto originario tra di essi, nei termini di una sintesi, infatti, è il vero contributo kantiano. Kant è stato il primo a pensare la necessità del rapporto dei concetti puri, cioè dell’Io, agli oggetti dell’esperienza nei termini di una sintesi soggettiva di questi oggetti, cosicché questi ultimi sono oggetti soltanto perché sono per il soggetto. In questa scoperta copernicana di Kant però sta anche il seme della sua limitazione. Pensare il rapporto tra soggetto e oggetto come identità assoluta, come fa Hegel, vuol dire che non è soltanto l’oggetto per il soggetto, ma in qualche modo anche il soggetto è per l’oggetto. Così viene recuperata l’inseità (An-sichkeit) dell’oggetto stesso, senza perdere la relazionalità con il soggetto. In altri termini, l’identità assoluta toglie l’autonomia sia dell’oggetto sia del soggetto, e ciò non perché li fa annegare entrambi in una trascendenza superiore, ma perché a partire dal rapporto reciproco che c’è tra di essi si instaura anche l’assoluto come loro limitazione in qualche modo già intrinseca. Perciò l’identità assoluta va cercata non in qualcosa che sta sopra i due termini che si differenziano o si escludono, e che semplicemente stanno in relazione l’uno per l’altro, ma va cercata piuttosto in questo per che rimane originario, il che è un per soggettivo-oggettivo. Dunque, la sintesi, ossia l’identità assoluta tra il soggetto e l’oggetto come paradigma della ragione, non va pensata come un Terzo trascendente, come un’entità indipendente e superiore rispetto ai due relati contenuti in una tale realtà identitaria. È un terzo già incluso (tertium datur) che sta in mezzo, ma sta in mezzo soltanto perché sta all’origine dei due opposti in relazione, li precede appunto come rapporto tra di essi. La sintesi è dunque assoluta perché non viene dopo, o come scrive Hegel: “non è un aggregato di molteplicità raccogliticce e non è aggiunta unicamente dopo di esse e ad esse”39. Solo riflettendo su ciò che è originariamente sintetizzato, cioè analizzandolo, noi possiamo individuare gli opposti, l’Io e il mondo. In quale modo tutto ciò ha a che fare con l’appercezione trascendentale, come è intesa da Kant? Hegel riconosce esplicitamente a Kant il merito di aver pensato questa “identità sintetica assoluta”, l’Io vero. Come però abbiamo visto nella citazione sopra riportata, la vera identità razionale sarebbe quella che connette l’Io con il molteplice, per cui sembrerebbe che He39 HW 2 JS, p. 306; PSC, p. 141. In un altro passo si dice che “questa unità sintetica originaria […] deve essere concepita non come prodotto di opposti, bensì come vera e propria, necessaria, assoluta, originaria identità di opposti” (HW 2 JS, p. 305; PSC, p. 140).

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gel sostenga che l’Io deve connettere se stesso con il molteplice, e che questa sarebbe l’identità vera. Si tratta qui di una contraddizione logica, oppure Kant adopera due concetti differenti dell’Io? Infatti, Hegel distingue l’appercezione dall’Io, e le radici di questa distinzione si trovano nello stesso Kant: “dunque lo stesso Kant distingue l’astrazione dell’io, o dell’identità intellettuale, dal vero io come identità assoluta, originariamente sintetica, in quanto principio”40. È importante tener presente questa distinzione in vista di tutto ciò che finora si è detto, sia per il carattere dell’identità assoluta sia per la relazionalità del terzo. Innanzitutto, bisogna ribadire che questa distinzione non è un’invenzione interpretativa di Hegel. Kant stesso nel paragrafo 16 della sua Critica della ragion pura introduce tale distinzione dicendo che l’Io penso, come la rappresentazione che accompagna ogni rappresentazione, dipende da un atto sintetico più originario41. Hegel prende questo come un punto decisivo, scrivendo che non si può capire niente della deduzione trascendentale se non badiamo alla distinzione tra l’Io e l’appercezione. Sapendo già che la deduzione trascendentale è il posto dove bisogna cercare il principio speculativo, come enunciava lo scritto sulla differenza tra il sistema fichtiano e quello schellinghiano, allora la distinzione in questione ha sicuramente a che fare con lo sfondo speculativo del pensiero kantiano. Secondo Hegel, nella distinzione tra l’Io e l’appercezione, l’Io rappresenta il soggetto pensante, ciò che accompagna ogni rappresentazione, e ciò che a sua volta è anche una rappresentazione. Altra cosa è l’appercezione come atto sintetico, formulato più precisamente come unità sintetica originaria. Perciò l’Io per Hegel rappresenta un prodotto successivo rispetto all’identità assoluta, di modo che l’Io sarebbe soltanto l’identità intellettuale, un’astrazione, il principio dell’identità pensato come A=A. Solo l’appercezione può significare l’identità assoluta. E queste indicazioni di Hegel ci possono servire non soltanto per comprendere il ruolo che egli dà all’appercezione kantiana, ma anche per la concezione stessa dell’identità assoluta. Hegel non cambierà la sua valutazione critica dell’appercezione kantiana negli scritti successivi. Anche nel periodo della Scienza della logica rimarrà fedele alla distinzione tra l’Io penso (come una mera rappresentazione soggettiva) e l’appercezione (come principio attivo della sintesi, l’atto 40 HW 2 JS, p. 307; PSC, p. 141. 41 “L’unità sintetica del molteplice delle intuizioni – in quanto data a priori – è dunque il fondamento dell’identità della stessa appercezione, che precede a priori ogni mio determinato pensiero” (KrV, 110; CRP, p. 245; B134).

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oggettivante e originario del soggetto). Tornerà comunque a questi temi nella introduzione alla Dottrina del concetto dove dimostra come l’autocoscienza, cioè l’Io, condivida la stessa struttura del concetto. Questa sintesi originaria dell’appercezione è uno dei principi più profondi per lo sviluppo speculativo; essa racchiude l’inizio della vera comprensione della natura del concetto ed è perfettamente opposta a quella vuota identità o astratta universalità, che non è affatto in sé una sintesi.42

E anche: Nella sintesi a priori del concetto Kant possedeva un principio più alto, dove si poteva conoscere la dualità (Zweiheit) nell’unità, epperò ciò che occorre per la verità; ma la materia sensibile, il molteplice dell’intuizione faceva a lui troppa forza perché se ne potesse staccare e venire alla considerazione del concetto e delle categorie in sé e per sé e ad un filosofare speculativo.43

Dal primo brano si vede che Hegel distingueva una sintesi originaria, che aveva qualcosa di speculativo, da una sintesi formale che rappresenta una pretesa infelice di unire ciò che è eterogeneo e che non si può affatto unire. Kant ha scoperto dunque quel principio alto, che secondo l’impostazione del nostro lavoro, possiamo chiamare il principio del terzo, ma non si è mai liberato da quell’altra sintesi infelice ossia estrinseca. Ciò per cui l’appercezione kantiana, secondo Hegel, “racchiude l’inizio della vera comprensione della natura del concetto” è la distinzione tra l’unità oggettiva dall’unità soggettiva della coscienza che Kant fa nel paragrafo 17 dell’Analitica dei concetti. L’oggetto si può costituire soltanto se il molteplice, come materiale per un oggetto di conoscenza, viene anche portato all’unità della coscienza. In altre parole: l’oggetto si può costituire se viene determinato dalle categorie che originano tutte dall’unità originaria e sintetica dell’appercezione44. Il principio dell’oggettività risiede nell’unità sintetica dell’autocoscienza e solo in riferimento a essa una rappresentazio42 HW 6 L II, pp. 260-261; SL II, p. 665. 43 HW 6 L II, p. 267; SL II, p. 671. 44 Altrove Hegel rivolge a Kant la critica di non aver spiegato l’avanzamento genuinamente sintetico, ossia come il concetto produce se stesso e come le determinazioni del pensiero, le categorie, vengono dedotte dall’unità dell’autocoscienza. Kant ha espresso la profonda osservazione che l’origine della sintesi a priori e delle determinazioni del pensiero è l’unità della coscienza di sé, ma non ha messo in evidenza la vera deduzione di queste determinazioni da quell’unità. Cfr. HW 6 L II, p. 505; SL II, pp. 895-896.

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ne diventa oggetto. Con il principio dell’appercezione così inteso Kant si avvicina a ciò che Hegel definisce “derivazione del reale dal concetto”45 (Die Herleitung des Reallen), perché con il soggettivismo trascendentale almeno la forma della realtà viene fatta dipendere dall’autocoscienza e dalla sua struttura concettuale. Perciò la stessa idea della cosa in sé è qualcosa che urta contro il principio dell’appercezione, se questo va portato alle sue ultime conseguenze. Stare sulla posizione della sintesi originaria dell’autocoscienza significa già abbandonare quel significato dell’oggettività46 come qualcosa che “sta di contro al concetto”. Il problema comunque resta: a causa di una sorta di “terrore per l’oggetto”47, che Hegel attribuisce a Kant, l’autocoscienza e le determinazioni del pensiero in Kant rimangono puramente soggettive. Il soggetto pone l’oggetto, e questo suo esser-posto è appunto l’oggettività dell’oggetto. In ciò sono contenute le ragioni sia per l’apprezzamento di Kant sia per la sua critica. Hegel però non esita mai a ripetere più volte: Appartiene alle vedute più profonde e giuste che si trovino nella Critica della Ragione, che quell’unità, la quale costituisce l’essenza del concetto, sia stata conosciuta come l’unità originariamente sintetica dell’appercezione, come unità dell’Io penso, ossia della coscienza di sé.48

Nelle lezioni sulla storia della filosofia Hegel definisce l’appercezione in Kant come das Bestimmen überhaupt, il determinare in generale. L’appercezione è ciò che opera, l’attività per mezzo della quale qualcosa viene posto nella mia coscienza49. L’appercezione è dunque pensata come produzione del rapporto tra l’Io rappresentante e l’oggetto rappresentato. Hegel suggerisce che l’appercezione produce l’Io penso50, nonché il molteplice, 45 46 47 48 49

Cfr. HW 6 L II, p. 264; SL II, p. 668. Sui due significati dell’oggettività si veda HW 6 L II, pp. 407-408; SL II, p. 806. Cfr. HW 5 L I, p. 45; SL I, p. 32. HW 6 L II, p. 254; SL II, p. 659. “L’appercepire è piuttosto l’attività, per mezzo della quale qualcosa viene posto nella mia coscienza. Io sono del tutto l’universale, completamente senza determinazioni, astratto; nella misura in cui io trasferisco un contenuto empirico nell’Io, appercepisco, esso deve entrare in questo Semplice […] Io sono Io, questo Uno, e così il contenuto empirico viene trasferito nell’unità, e così esso diventa uno” (HW 20 GP III, pp. 343-344; traduzione nostra). Riferiamo alla “traduzione” italiana, anche se stranamente imprecisa: LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 298. 50 Anche quest’affermazione proviene da Kant. “Io la chiamo l’appercezione pura, per distinguerla da quella empirica, o anche l’appercezione originaria, poiché essa è quell’autocoscienza che, producendo la rappresentazione io penso – la quale deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una è identica in ogni coscienza –,

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giacché soltanto dall’appercezione, intesa come identità originaria, può scaturire la differenza e l’autonomia sia dell’Io penso sia del molteplice51. Queste riflessioni sono accostabili ai famosi passi di Kant in cui si parla della sorgente comune della sensibilità e dell’intelletto. Però, se torniamo al testo kantiano, possiamo vedere che l’appercezione per lui è ciò che dà l’unità oggettiva al molteplice accolto nell’esperienza. E non solo questo; anche l’unità dell’Io dipende da un atto sintetico più fondamentale. All’Io penso si attinge soltanto a partire da una riflessione di questa sintesi originaria operante52. Come si è visto nella prima parte di questo lavoro, dedicata a Kant, questa sintesi originaria già operante al livello della sensibilità si può interpretare alla luce dell’immaginazione. Se accettiamo il tentativo di distinguere la sintesi dall’unità, allora la prima attività si può assegnare all’immaginazione, mentre la seconda all’appercezione. L’appercezione, come unità sintetica originaria, dà l’unità al materiale sintetizzato dall’immaginazione nella sintesi dell’apprensione e in quella della riproduzione. Ma a questo punto l’immaginazione sarebbe un’attività più fondamentale? E non è che forse a essa spetta il carattere dell’identità assoluta? Infatti, nelle stesse pagine in cui Hegel interpreta l’unità trascendentale dell’appercezione in termini di identità assoluta e dell’origine della differenza tra l’Io penso e il molteplice, egli aggiunge anche un’interpretazione dell’immaginazione quasi negli stessi termini. È molto singolare e di particolare importanza prestare attenzione al fatto che Hegel parli dell’immaginon può essere accompagnata a sua volta da nessun’altra rappresentazione” (KrV, pp. 108-109; CRP, p. 243; B132). 51 In effetti queste considerazioni fanno assurgere l’appercezione trascendentale al di sopra del suo collocamento nella spontaneità o nella recettività. In questo modo la interpreta Sally Sedgwick nel suo libro su Hegel e Kant: l’appercezione originaria come “neither a faculty of spontaneity nor a faculty of receptivity, but somehow prior to and a condition of the possibility of both” (S. Sedgwick, Hegel’s Critique of Kant, cit., p. 106). 52 Henry Somers-Hal nel suo libro su Hegel e Deleuze solleva le domande riguardo alla posizione del soggetto kantiano. Egli giustamente sostiene che il soggetto in Kant è costretto a essere fondato attraverso il suo stesso atto di sintesi, ossia di unificazione del molteplice. Per questo il soggetto diventa cosciente di sé attraverso una sorta di ritorno riflessivo dall’oggetto costituito. Il soggetto rende possibile l’oggetto, ma anche l’oggetto rende possibile il soggetto. “As we have argued, Kant cannot know the self as substantive, since it is not given in intuition, being a bare unity. Therefore, it is necessary for the subject to ground itself through some other means. In this case, the manifold, which is a synthetic unity, gives us this grounding, since it appears as the result of an act of the subject” (H. Somers-Hall, Hegel, Deleuze and the Critique of Representation, Albany, State University of New York Press, 2012, pp. 21-22).

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nazione parallelamente e negli stessi termini dell’appercezione, assegnandole la stessa portata speculativa. Sia l’immaginazione che l’appercezione, per Hegel, sono tracce di quel terzo destinato a fungere da identità assoluta tra gli opposti, tra soggetto e oggetto. Riguardo all’immaginazione produttiva in Kant, Hegel scrive che essa è un’idea veramente speculativa “tanto nella forma dell’intuire sensibile quanto nella forma del concetto che comprende l’intuizione, ovvero dell’esperienza”53. Dunque, la speculatività dell’immaginazione sta nel suo unire le due forme, la forma della sensibilità e la forma del concetto, il che è esattamente il ruolo che le assegna Kant. Hegel definirà l’immaginazione produttiva anche come “un’unità cieca”, “unità immersa nella differenza”. A tal proposito, l’unità sintetica originaria dell’appercezione, in quanto unità degli opposti, viene spiegata come identità dell’identità immersa nella differenza (immaginazione) con la differenza posta come identità (intelletto). Spiegata così, l’appercezione funge da principio comune sia dell’immaginazione sia dell’intelletto, pensata come loro unità sintetica. Appare il fatto che qui la distinzione tra l’appercezione e l’immaginazione faccia sì che la prima occupi una posizione suprema, perché l’immaginazione è un’unità cieca, immersa nella differenza, cioè collocata nel campo del sensibile da cui non può uscire54, ma nel quale, grazie al principio dell’appercezione, che dirige la sua operazione sintetica, segnala già una possibilità (e anzi, la necessità) della sua unità con l’intelletto e con i suoi concetti puri. Da questa stessa possibilità, che è una possibilità necessaria per la costruzione dell’esperienza, Hegel trae delle conseguenze speculative: l’intuizione sensibile e il concetto sono originariamente identici. L’intuizione sensibile è pensata secondo il principio di differenza (A=B), mentre il concetto dell’intelletto rappresenta l’unità di questa differenza (a2 = (A=B)). In altri termini, il concetto dell’intelletto pone l’identità, che nella percezione è immersa nella differenza, a un livello superiore, come “potenza superiore” (a2), ma con ciò non si supera il principio di differenza, e così non si supera l’opposizione al molteplice sensibile. L’iden53 HW 2 JS, p. 306; PSC, p. 141. 54 Cfr. I. Görland, Die Kantkritik des jungen Hegel, Frankfurt a. M., Kolstermann, 1966, pp. 12-31. Anche l’immaginazione è bewußtlos perché nella sua identità tra l’Io e il molteplice la differenza non viene fuori, cioè nella sua sintesi del molteplice, secondo Kant, le manca l’unità dell’appercezione (Ivi, p. 24). Sarebbe più giusto dire, in termini hegeliani, che la differenza non viene ancora posta con l’immaginazione, proprio perché la sua sintesi ancora opera immediatamente (e pertanto senza coscienza, bewusstlos).

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tità concettuale è piuttosto un’identità esteriore rispetto al molteplice sensibile nell’intuizione, per cui questa sua identità rimane vuota. Hegel, in fondo, condivide la definizione dell’esperienza data da Kant, secondo la quale i concetti senza le intuizioni sono vuoti e le intuizioni senza concetti sono cieche. Kant aveva così articolato la loro identità, ma poiché quest’identità viene pensata come l’elevarsi unilaterale di un elemento dell’opposizione, cioè dell’intelletto, al di sopra dell’intera opposizione, la stessa identità rimane finita. Kant voleva risolvere l’opposizione assolutizzando un opposto come identità suprema, ma così non si risolve né l’opposizione né si stabilisce un’identità vera. Torniamo però alla questione dell’immaginazione: in altre pagine Hegel è più esplicito nell’accostare l’immaginazione a quello stesso ruolo attribuito in precedenza all’appercezione. Così scrive infatti: non si può comprendere nulla dell’intera deduzione trascendentale […] se non si riconosce questa immaginazione, non come medio (Mittelglied) introdotto unicamente tra un soggetto assolutamente esistente ed un mondo assolutamente esistente, bensì come ciò che è primo ed originario, dal quale procedono, separandosi tanto l’io soggettivo quanto il mondo oggettivo solo in vista di un fenomeno e di un prodotto necessariamente bipartiti, se insomma non si riconosce quella facoltà come il solo in sé. Questa immaginazione in quanto originaria identità bilaterale (die ursprüngliche zweiseitige Identität), che da un lato diviene soggetto in generale, ma dall’altro oggetto, ed è originariamente l’uno e l’altro, nient’altro è che la ragione stessa […] ma la ragione soltanto in quanto si manifesta nella sfera della coscienza empirica.55

Come abbiamo già visto, Hegel affermava che non si può comprendere niente della deduzione trascendentale kantiana se non si compie la debita separazione tra l’Io e l’appercezione. Ora vediamo che in ciò bisogna riconoscere anche l’immaginazione, non come mero termine medio (Mittelglied), ma come qualcosa di primo e originario. In questo brano ricco di allusioni e di significati possiamo individuare tre elementi pertinenti: 1) l’immaginazione come identità bilaterale originaria e come origine comune del soggetto e dell’oggetto, pensata dunque non come termine medio, ma come ciò che è il primo e l’originario; 2) l’immaginazione identificata con la ragione, e 3) l’immaginazione come ragione apparsa nella sfera della coscienza empirica, oppure immersa nella differenza, come usava dire Hegel.

55 HW 2 JS, pp. 307-308; PSC, pp. 142-143.

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Il carattere della bilateralità (Doppelseitigkeit) nell’identità sintetica veniva precedentemente attribuito all’appercezione56. L’appercezione ha due lati: il primo è l’Io, il concetto, la forma, e l’altro invece è il molteplice, il mondo, la materia. Questa bilateralità non va intesa nel senso che i due lati convivono l’uno accanto all’altro, come se essa fosse una sorta di composto. Pensare in questa maniera significherebbe già scindere ciò che è sinteticamente e originariamente unito, e applicare la riflessione raziocinante a qualcosa che merita l’attenzione della ragione. Sulla scia di ciò che è stato già affermato nelle pagine precedenti, la bilateralità va intesa come relazione, connessione (Beziehung) tra i due, perché solo così si riesce a pensare la loro unità originaria. Ciò che precede i lati opposti e, per di più, li rende possibili come opposti, è lo stesso rapporto bilaterale. In questo senso bisogna delucidare l’indicazione hegeliana che la forza dell’immaginazione non va intesa come termine medio che si interpone tra i due opposti (tra l’Io soggettivo e il mondo oggettivo), ma come qualcosa che è il primo e l’originario – e qui segue un’aggiunta importante –, come “il solo in sé”. In queste affermazioni si trovano contenuti i molti punti della differenza tra Hegel e Kant proprio rispetto al nostro tema centrale: il carattere della terzietà posta a superare le impostazioni dualistiche. Il terzo kantiano è pensato come termine medio, come ponte che deve collegare e rendere il passaggio tra due territori separati. Il terzo hegeliano è terzo soltanto in termini di posteriorità, dato che si tratta dell’originario e del primo, pensato come relazione già intrinseca ai relati. È la relazione che non soltanto unisce i due lati, ma li separa, e rende possibile la loro differenza, e che si considera come qualcosa di terzo rispetto ai due, rimanendo però immanente a questi due come loro origine, oppure come origine del loro rapporto e della loro differenza. Il rapporto bilaterale perciò non viene cancellato, ma soltanto riconfigurato dal punto di vista dell’identità bilaterale. Attraverso il punto di vista del terzo, la dualità diventerà la reciprocità originaria. Uno degli indubbi meriti da riconoscere a Kant è per Hegel la scoperta della triplicità nella sua filosofia. Kant ha concepito il pensiero come triplicità e con ciò ha espresso una tendenza speculativa. Dobbiamo quindi individuare il merito di Kant non già nel fatto che egli abbia posto le forme, espresse nelle categorie, nella facoltà conoscitiva umana come palo di confine di una finitezza assoluta, ma piuttosto perché ha posto nell’immaginazione trascendentale l’idea della verace apriorità, ha riposto nell’intelletto 56 “Questa unità originaria dell’appercezione si dice sintetica proprio a causa della sua bilateralità, poiché in essa l’opposto è assolutamente uno” (HW 2 JS, p. 306; PSC, p. 141).

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stesso l’inizio dell’idea della ragione ed ha concepito infine il pensare o la forma non soggettivamente, ma in sé, non come qualcosa informe, la vuota appercezione, bensì come intelletto, come forma verace, ossia come triplicità.57

A parte le congruenze con le tesi hegeliane sul rapporto ragione-intelletto, già analizzate, può sembrare che la critica hegeliana qui diverga dalle solite accuse a Kant di aver assolutizzato il soggetto e di aver soggettivizzato il pensiero. Come intendere altrimenti l’affermazione hegeliana che Kant alla fine ha concepito il pensare “non soggettivamente, ma in sé”? Secondo Hegel, soltanto nella triplicità si trova il germe dello speculativo (der Keim des Spekulativen)58. Anche nelle Lezioni sulla storia della filosofia Hegel fa cenno alla triplice divisione delle categorie, come una prova della speculatività del pensiero kantiano59. La terza categoria è sempre pensata come unità delle prime due. In ciò, secondo Hegel, è nascosta la forma assoluta, cioè il concetto. Kant però non dimostra lo sviluppo di questa terza categoria, e il procedimento del suo uscire dalle prime due. Il terzo così rimane esterno al primo e al secondo membro, e si palesa come un’unità imposta da fuori. Kant segue la forma della triplicità, ma la prende come un pattern logico-formale. Lo stesso vale non soltanto per il rapporto tra le categorie, ma anche per il rapporto tra le facoltà (sensibilità, intelletto, immaginazione), cioè tra i tre modi della sintesi che Kant mette a fuoco, e in linea di massima, lo stesso vale anche per l’intero sistema kantiano della critica della ragione (la ragione teorica, la ragione pratica, il Giudizio). Il terzo membro all’interno dello schema triplice è sempre una sorta di supplemento che deve unire i due membri precedenti, in virtù della loro insufficienza e incapacità di offrire un principio di identità. L’origine di questo terzo non viene così pensata in maniera dinamica, come rapportarsi tra i due membri e come loro trasfigurazione. L’immaginazione trascendentale in Kant interviene come una sorta di deus ex machina per mediare tra la sensibilità e l’intelletto, non mettendo tuttavia in questione la ragione del57 HW 2 JS, p. 316; PSC, p. 149. 58 Ibidem. 59 “È un grande istinto del concetto, quando Kant dice: la prima categoria è positiva, la seconda è il negativo della prima, la terza è ciò che è sintetico d’entrambe. La forma della triplicità, che è qui soltanto [corsivo nostro] uno schema, nasconde in sé la forma assoluta, il concetto. Kant non deduce queste categorie, le trova incomplete, però dice che altre sono derivate da esse” (HW 20 GP III, p. 345; traduzione nostra; cfr. LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 300). Si veda anche: “nach dem zwar geistlosen Schema der Triplizität …” (HW 20 GP III, p. 385) e anche “Il difetto della filosofia kantiana sta in ciò che i momenti della forma assoluta cadono uno fuori dell’altro” (HW 20 GP III, p. 386; LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 340).

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la loro separazione, in cui ogni lato vale come assoluto e autonomo. La bilateralità si è manifestata come insufficiente, il bisogno del terzo è espresso, ma il carattere di questo terzo, e di conseguenza della bilateralità, è tale che questo terzo nega se stesso, sparisce e si piega davanti alla forma duale che domina. Il punto, per Hegel, è che bisogna partire da questo terzo. Esso non va introdotto solo nel momento in cui emerge l’insufficienza della divisione dualistica, e quando ci imbattiamo nell’impossibilità di costituire il sistema dell’esperienza sui presupposti dell’eterogeneità. Questa stessa impossibilità va indagata e lo stesso bisogno del terzo va preso sul serio, cosicché in esso cominciano a stagliarsi non soltanto l’unità sintetica tra ciò che è opposto, ma anche l’origine della differenza tra gli opposti. E dunque, quando Hegel dice che Kant aveva posto l’idea della “verace apriorità” nella forma della facoltà dell’immaginazione, semplicemente va oltre la lettera del testo kantiano, come suggeriva il saggio sulla Differenza, per cogliere lo spirito del pensiero. E secondo questo spirito è assolutamente legittimo mettere sulla stessa linea l’idea della sintesi a priori (ossia l’idea dell’apriorità come sintesi), l’idea dell’appercezione trascendentale e dell’immaginazione, come tre espressioni della ragione speculativa. In tutti questi tre aspetti fondamentali del sistema trascendentale kantiano Hegel intravede “l’inizio della ragione”, il suo luogo di nascita. Ciò nonostante Kant rispetta “così poco il proprio pensiero da ritenere che forse in sé i suoi pensieri non siano così eterogenei, ma lo siano solo nel fenomeno”60. La ragione nel suo sistema ha soltanto una funzione regolativa, destinata a dare un’unità sistematica all’intelletto, e egli non si accorge che già la possibilità di avere l’intelletto come una facoltà unificante, e come una struttura aprioristica sintetica, deve la sua origine alla ragione. La ragione compare nella sensibilità (sotto la forma della sintesi dell’immaginazione produttiva) e nell’intelletto (sotto la forma dell’appercezione), ma quando si tratta di occuparsi della sola ragione in sé, essa non viene trattata in modo razionale-speculativo. Kant ammette la presenza della ragione nelle forme alienate, e però la ragione in quanto tale, in piena luce, non appare, ma viene derubricata a facoltà dell’illusione con un potere costitutivo soltanto nel campo pratico. Questo è il motivo più importante del distacco di Hegel da Kant.

60 HW 2 JS, p. 314; PSC, p. 147.

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3. Il verace medio Ciò che è razionale (vernünftig) appare nella forma del giudizio, cioè nella bilateralità. Secondo Hegel la forma del giudizio, in quanto forma della “bilateralità riflessa”, non può esprimere adeguatamente l’assoluto, cioè il soggetto-oggetto come identità assoluta, giacché quest’ultima trova la sua giusta forma soltanto nel sillogismo e non nel giudizio. Nel giudizio soggetto e predicato, ossia, secondo la teoria dell’esperienza, il molteplice particolare e il concetto universale, sono connessi, ma questa connessione (sintesi) non mostra la loro identità assoluta, cioè il loro rapporto reciproco. Il giudizio è “la manifestazione predominante della differenza”61, e perciò, anche se tende a connettere gli opposti, esso conferma di fatto l’opposizione tra soggetto e oggetto. Ciò che rappresenta l’identità assoluta nel giudizio è la copula (“è”), ma questo “è” in Kant è soltanto un alcunché di “non-cosciente”, privato di coscienza (ein Bewußtloses), che esprime il “non-essere conosciuto del razionale” (das Nichterkanntsein des Vernünftigen)62. Il giudizio, come manifestazione della differenza (Erscheinung der Differenz), fa apparire il soggetto e il predicato nella loro opposizione. Porre il soggetto (il reale, l’empirico) e il predicato (concetto, categoria) nella forma del giudizio, vuol dire sottrarre l’identità al suo essere-immersa (Versenktsein) nella differenza e far uscire la differenza come il particolare. Questo, in altri termini, vuol dire che la forma del giudizio non è la forma della sensibilità, dove l’identità è appunto immersa nella differenza, e non esiste nessuna opposizione tra soggetto e predicato, tra l’universale e il particolare. Il giudizio, in quanto differenziazione e separazione (Ur-teil), pone l’identità, cioè l’universale, come opposta alla differenza, cioè al particolare. L’identità speculativa tra l’universale e il particolare non viene posta nel giudizio, ma rimane ancora immersa nella differenza, e per questo Hegel sceglie come suo attributo l’aggettivo “non-cosciente”. In altri termini, il principio razionale assume la forma opposta, potremmo dire quella “irrazionale”, per cui la copula che deve esprimere questo principio razionale si dimostra come un elemento inadeguato a questo scopo. Come è noto, nel paragrafo 19 della Deduzione trascendentale nella Critica della ragion pura, la copula, l’“è”, sta a significare l’unità sintetica dell’appercezione. Ma se seguiamo il ragionamento hegeliano, anche l’immaginazione, in quanto espressione dell’identità originaria e razionale, è ciò che potrebbe essere 61 HW 2 JS, p. 307; PSC, p. 142. 62 Ibidem.

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rappresentato tramite la copula. Kant, tuttavia, riferisce la copula esclusivamente all’appercezione, perché sceglie come identità l’intelletto (e quindi, secondo Hegel, l’identità relativa), per cui anche l’immaginazione, in quanto “ragione immersa nella differenza”, diventa “fissata come l’intelletto”63. La critica di Hegel al significato della copula nel giudizio kantiano potrebbe tradursi nel suggerimento che Kant avrebbe dovuto riferire la copula all’immaginazione, riconosciuta a sua volta come ragione. Come spiega Hegel, l’immaginazione è la ragione che compare nella sfera della coscienza empirica, cioè nella sensibilità, ma Kant non la riconosce come tale. L’identità è immersa nell’intuizione sensibile, così come il razionale della copula viene immerso nel “non-cosciente”. Per Hegel l’immaginazione produttiva, al pari dell’appercezione trascendentale, ottiene lo status dell’identità assoluta, solo che l’immaginazione per Hegel rivela questo status nel campo della sensibilità, attraverso ciò che Kant definisce come sintesi figurata. Il rapporto tra immaginazione, appercezione e sensibilità viene affrontato da Hegel in un passo di Fede e sapere particolarmente interessante e parimenti oscuro: l’unità originariamente sintetica dell’appercezione appare per la prima volta nella deduzione delle categorie ed è anche riconosciuta come principio della sintesi figurata o delle forme dell’intuizione, e spazio e tempo stessi sono intesi come unità sintetiche, e l’immaginazione produttiva, spontaneità ed attività sintetica assoluta, è intesa come principio della sensibilità, precedentemente caratterizzata solo come recettività.64

Per analizzare meglio questo brano bisogna individuare tre piani: il primo, in cui l’unità sintetica originaria dell’appercezione concerne la sintesi figurata, oppure le forme dell’intuizione; il secondo, in cui le stesse forme dell’intuizione, cioè lo spazio e il tempo, vengono concepite come due unità sintetiche; e infine il terzo, in cui l’immaginazione, insieme con la spontaneità e con la cosiddetta attività sintetica assoluta, riguarda la sensibilità. Sembra che Hegel qui mescoli tutto per complicare ulteriormente il rapporto già complesso tra i tre piani della gnoseologia kantiana (sensibilità, intelletto, immaginazione). Il metodo utilizzato da Hegel sarebbe invece quello di cercare gli opposti esclusi. Ovvero, ogni facoltà, ogni aspetto autonomo del sistema dell’esperienza, deve riconoscere se stesso nel proprio opposto, e riconoscere l’opposto come la propria identità. In altri termini, l’appercezione viene connessa con il pro63 HW 2 JS, p. 309; PSC, p. 143. 64 HW 2 JS, pp. 304-305; PSC, pp. 139-140.

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prio opposto (sintesi figurata e forme dell’intuizione), così come l’immaginazione, cioè la “spontaneità e attività sintetica assoluta”, viene connessa con il proprio opposto, ovvero con la sensibilità, della quale Hegel appunto dice che prima era caratterizzata solo come “recettività”. Dunque, anche la sensibilità in questo “gioco” degli opposti per certi versi perde il proprio carattere esclusivamente recettivo, e dimostra che essere recettivo già include una qualche forma di spontaneità come proprio principio e fondamento. In questa maniera, Hegel supera la scissione tra spontaneità e recettività, dimostrando nel loro rapporto reciproco la loro identità originaria. Perché l’appercezione viene riconosciuta come “il principio della sintesi figurata o delle forme dell’intuizione”? Hegel qui è in realtà molto fedele al testo kantiano, nel quale (soprattutto nel paragrafo 24 della Critica della ragion pura) Kant definisce la sintesi in termini strettamente intellettuali, per cui anche la sintesi figurata, in quanto sintesi, deve riferirsi all’unità dell’appercezione. La sintesi figurata è quella che, definita come “la prima applicazione dell’intelletto agli oggetti dell’intuizione”65, viene associata all’immaginazione produttiva. La sintesi del molteplice nell’intuizione è guidata anche dalle categorie, cioè determinata dalla sintesi intellettuale, per cui la sintesi figurata ha come proprio principio l’appercezione. Ma nel riferimento di Hegel, la sintesi figurata viene associata alle forme dell’intuizione. Non si potrebbe pensare che Hegel, allora, voglia suggerire che le forme dell’intuizione, cioè lo spazio e il tempo, siano già una forma di sintesi figurata? Come si è visto, la sintesi figurata in Kant è esplicitamente identificata con l’immaginazione, e dire ora che le forme dell’intuizione in generale operano già una sorta di sintesi significherebbe introdurre l’immaginazione nel campo della sensibilità, non soltanto come “effetto dell’intelletto” sul materiale ricevuto attraverso le forme dell’intuizione sensibile, ma anche come struttura di queste stesse forme. L’immaginazione, dunque, struttura anche lo spazio e il tempo? Non per caso Hegel, subito dopo questo riconoscimento dell’appercezione come principio delle forme dell’intuizione, menziona lo spazio e il tempo e li definisce come “unità sintetiche”. L’unità e la sintesi sono gli attributi propri della logica trascendentale kantiana, e in particolare l’espressione “unità sintetica” è la formula con cui Kant descrive l’appercezione. Come bisogna capire ora questa determinazione delle forme dell’intuizione in termini piuttosto “intellettivi”? Non sta forse qui Hegel cercando di volgere Kant contro Kant stesso? 65 KrV, p. 120; CRP, p. 269; B152.

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Nella prima parte si è visto che Hegel afferma che l’appercezione è il principio delle forme dell’intuizione, però subito dopo egli si propone di definire cosa sono lo spazio e il tempo stessi. Dunque, Hegel sposta qui l’attenzione dal ruolo che lo spazio e il tempo, in quanto forme dell’intuizione, giocano nella sintesi del molteplice, alla determinazione dello spazio e del tempo in quanto tali. Il movimento è il seguente: da spazio e tempo come forme dell’intuizione a spazio e tempo come essi stessi intuizione, cioè oggetti di una rappresentazione. E, infatti, Kant stesso in una nota dell’Analitica trascendentale distingue tra intuizione formale e forma dell’intuizione66, il che servirà a Hegel per operare la differenza strutturale tra spazio e tempo, come unità sintetiche, cioè come oggetti, e spazio e tempo come mere forme opposte al concetto dell’intelletto. È indicativo che Hegel faccia un riferimento esplicito a queste pagine kantiane nella sezione di Fede e Sapere dedicata a Jacobi. Hegel critica Jacobi, dal momento che anche egli fa riferimento alla stessa distinzione kantiana tra semplice forma dell’intuizione, che non è un oggetto, e l’intuizione formale, che può diventare oggetto, perché Jacobi, secondo Hegel, non ha visto in ciò “uno dei punti più notevoli fra ciò che Kant dice della sensibilità e dell’apriorità”67. Sempre citando Kant, Hegel scrive: “lo spazio considerato come oggetto (termine sottolineato da Kant stesso) come occorre realmente fare in geometria, contiene più che la semplice forma dell’intuizione”68. Lo spazio, come intuizione formale, è dunque un possibile oggetto di una rappresentazione che contiene qualcosa di più rispetto allo spazio pensato come pura forma dell’intuizione. Questo “di più” è nient’altro che l’unità concettuale che ogni oggetto necessariamente comporta. Nel concepire spazio e tempo come due unità sintetiche, cioè come unità oggettuali di una rappresentazione intuitiva, Hegel per certi versi suggerisce la loro interpretazione speculativa, cioè il fatto che l’apparente con66 “Spazio e tempo, però, non sono rappresentati a priori semplicemente come forme dell’intuizione sensibile, ma come intuizioni essi stessi (intuizioni che contengono un molteplice), e dunque con la determinazione dell’unità di questo molteplice” (KrV pp. 124-125; CRP, p. 279; B160). In riferimento a questa frase segue la nota: “Lo spazio, rappresentato come oggetto (come in effetti si richiede in geometria), contiene più che la semplice forma dell’intuizione, contiene cioè la raccolta del molteplice che è dato secondo la forma della sensibilità, in una rappresentazione intuitiva, di modo che la forma dell’intuizione fornisce soltanto il molteplice, mentre l’intuizione formale fornisce l’unità della rappresentazione” (KrV p. 125; CRP, pp. 279-281; B161). 67 HW 2 JS, p. 361; PSC, p. 188. 68 HW 2 JS, p. 360; PSC, p. 188. Per la traduzione italiana dello stesso testo kantiano, qui riportato da Hegel, si veda la nota 66.

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traddizione della forma dell’intuizione, che non è oggetto, ma può diventarlo, nasconde il principio dell’unità interiore, l’idea che lo spazio e il tempo siano anche esse stesse intuizioni, cioè possano avere un significato “oggettuale”, e in quanto tali determinate dalla spontaneità dell’intelletto69. Questo tipo di determinazione viene sostenuta da Kant stesso, come mostra Hegel riferendosi al testo kantiano, quando scrive: “l’intelletto come sintesi trascendentale dell’immaginazione è esso stesso l’unità dello spazio e del tempo e rende in primo luogo possibile questa unità”70. Dunque, perché spazio e tempo siano unità sintetiche, è necessario l’intelletto e l’applicazione delle sue categorie, ciò che Kant definisce “sintesi figurata dell’immaginazione”. Questa visione delle forme dell’intuizione – la veduta che, nell’Analitica trascendentale, è possibile soltanto da un’angolazione articolata –, per cui esse si costituiscono come rappresentazione, oppure come intuizioni formali, e non soltanto come forme dell’intuizione, si può rintracciare anche nelle ultime pagine del capitolo sullo schematismo, laddove, in una sorta di genesi, il tempo si struttura secondo le categorie dell’intelletto71. In tutti questi aspetti il ruolo dell’immaginazione è fondamentale. Perciò non sorprende che Hegel, concludendo la frase in cui l’appercezione viene elevata a principio della sintesi figurata, e spazio e tempo sono considerati come unità sintetiche, aggiunge che “l’immaginazione produttiva, spontaneità ed attività sintetica assoluta è intesa come principio della sensibilità, precedentemente caratterizzata solo come recettività”72. La mera recettività non è sufficiente per la percezione, perché ci vuole sempre qualcosa di più, cioè l’intervento del69 L’idea che Hegel per l’unità sintetica di spazio e di tempo intende la loro rappresentazione oggettiva si trova anche in S. Sedgwick, Hegel’s Critique of Kant, cit. (si veda il capitolo IV). L’autrice è invece decisa nel rifiutare ogni tipo di interpretazione che mira alla riduzione delle forme della sensibilità alla spontaneità. Non ci sono ragioni per concludere che l’identità razionale della recettività e spontaneità significhi che spazio e tempo siano derivati dalle categorie dell’intelletto. 70 HW2 JS, p. 361; PSC, p. 188. Nella traduzione italiana (PSC, p. 188) questa frase è messa tra virgolette come se ci fosse una citazione accurata del testo kantiano, mentre invece si tratta della parafrasi interpretativa di Hegel che comunque si riferisce al paragrafo 24 della Critica della ragion pura dove Kant in realtà scrive che la sintesi dell’intelletto come “l’unità di quell’operazione di cui esso è cosciente“ determina intrinsecamente la sensibilità “sotto il nome di sintesi trascendentale della facoltà di immaginazione” (Cfr. KrV, p. 121; CRP, p. 271; B153). È la sintesi figurata, come effetto sintetico dell’intelletto sul senso interno, ciò che a questo senso interno e alle sue forme conferisce l’unità. 71 Si veda il capitolo I. 8 nella parte prima di questo libro, pp. 92-95. 72 HW 2 JS, p. 305; PSC, p. 140.

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le categorie e la sintesi figurata. Perciò, già al livello più elementare dell’esperienza, come quello della sintesi dell’apprensione, è in gioco l’atto sintetizzante della spontaneità. È qui che l’immaginazione, in quanto principio della sensibilità, trova di nuovo la sua debita funzione. Essa fa nient’altro che realizzare quel “di più” nella sensibilità per cui ciò che viene in essa dato è già sintetizzato dall’atto della spontaneità. Vale a dire che l’unità tra sensibilità e intelletto, tra recettività e spontaneità, non va cercata in un altro luogo fuori di esse. Quest’unità è già pensata nella stessa idea della recettività, che richiede qualcosa di più, appunto, un atto della spontaneità attraverso l’immaginazione. In altri termini, la sintesi dell’immaginazione nell’intuizione è già concettuale e presenta una sorta di unione tra gli opposti, cioè tra intuizione e concetto73. Per la stessa ragione anche lo spazio e il tempo possono diventare oggetti di una rappresentazione attraverso l’attività sintetica della spontaneità. In questa costellazione, l’immaginazione trascendentale non va vista come un mero termine medio (Mittelglied), l’anello mancante; e 73 Secondo Robert Pippin, che interpreta il famoso detto kantiano sulla interdipendenza tra concetti e intuizioni (le intuizioni senza concetti sono cieche) seguendo degli spunti dati da John McDowell, la divisione tra concetti e intuizioni non coincide pienamente con la divisione spontaneità-recettività. Perciò “our sensory contact with the world is through and through ‘already conceptual’, even if still basically receptive and even if not a product of fully spontaneous synthesis or judgment” (R. Pippin, The Persistence of Subjectivity, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, p. 192). In altri termini, il fatto che la nostra recettività non sia spontanea non vuol dire che essa non sia concettuale. Altrimenti si correrebbe il rischio di concepire la sensibilità come un modo di darsi della datità troppo immediato. Ovviamente, per “concettuale” Pippin intende una sorta di sintesi che precede l’unità sintetica dei concetti. Qui è soprattutto da domandarsi perché chiamarla “concettuale” e se la sintesi che non appartiene ai sensi, ma che è comunque presupposta nella sensibilità (di cui parla anche Kant stesso in una nota, cfr. KrV B160), non sia meglio definirla come una sintesi pre-concettuale, anche se non totalmente aconcettuale. Non è il termine “spontaneità” più generico rispetto a quello della concettualità, per cui la recettività potrebbe essere anche spontanea senza essere pienamente concettuale? Kant comunque pensa quella sintesi come effetto dell’intelletto, come sintesi figurata dell’immaginazione, il che complica ancora di più la difficoltà di concepire il suo vero carattere. Dire che la sintesi nella sensibilità è concettuale è infatti un passo verso Hegel (nonostante gli elementi offerti dal testo kantiano) e verso la strategia hegeliana di chiudere “the concept-intuition gap”. Così vede la cosa anche Sally Sedgwick quando dice che Pippin comprende la strategia hegeliana non soltanto come una nuova interpretazione della recettività (già contenente la spontaneità concettuale), ma anche come una nuova interpretazione della spontaneità (S. Sedgwick, Hegel’s Critique of Kant, cit., p. 127).

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infatti, per Hegel, posizionarla soltanto nel mezzo tra i due che media vuol dire fallire nel cogliere tutta la sua funzione. L’immaginazione kantiana è posta nel mezzo, o più precisamente, è frapposta tra la recettività e la spontaneità, tra il soggettivo e l’oggettivo, di modo che venga celata la sua originarietà. Secondo Hegel la posizione intermediaria dell’immaginazione è dovuta alla sua originarietà. L’immaginazione può essere il terzo soltanto in quanto è il vero e proprio primo, e dunque il verace medio. In quanto questo sapere formale lascia sussistere il contrasto nella sua intera assolutezza all’interno delle identità indigenti che esso costruisce ed in quanto gli manca il termine medio (Mittelglied), la ragione, poiché ciascuno dei termini, essendo nell’opposizione, deve essere un assoluto, allora questo medio, e l’annientamento dei due termini e della finitezza, è un assoluto al di là. Si riconosce che questo contrasto presuppone necessariamente un medio (Mitte) e che in esso il contrasto ed il suo contenuto non possono essere annientati; tuttavia, in una fede il cui contenuto è vuoto, è posto non l’effettivo verace annientamento, bensì solo l’ammissione che il finito dovrebbe essere tolto, non il verace medio (wahrhafte Mitte), bensì parimenti solo l’ammissione che una ragione dovrebbe esistere.74

L’“attività sintetica assoluta” dell’immaginazione, come la descrive Hegel, deve tale natura al fatto che essa è l’unità della spontaneità e della recettività sul terreno della sensibilità. Sull’altro lato, invece, resta l’appercezione, come identità, cioè quell’unità dell’autocoscienza che, nella prospettiva di Hegel, unisce per certi versi la spontaneità (l’Io penso) e la recettività (il molteplice), ma sul terreno dell’intelletto. La mancata identità razionale, cioè la mancanza dell’identità superiore tra spontaneità e recettività, si scorge nel fatto che Kant non ha pensato l’unità tra immaginazione e appercezione. Entrambe valgono come principi di identità, la prima come identità immersa nella differenza (immaginazione) e l’altra invece come identità che si oppone alla differenza (appercezione); nonostante ciò, l’identità dell’identità e della differenza, che in questo caso sarebbe l’identità tra appercezione e immaginazione, non viene espressa, ma soltanto sfiorata. E soltanto dal punto di vista di questa identità superiore e speculativa l’immaginazione non può valere come un termine medio inserito tra due realtà assolutizzate (io soggettivo e mondo oggettivo), ma piuttosto come qualcosa di primo e originario, oppure come “il verace medio”. Kant è riuscito a pensare l’immaginazione come un terzo, cioè come termine medio, ma in tal modo che questo termine medio era destinato a sparire occultando la sua originarietà assoluta. 74 HW 2 JS, p. 330; PSC, p. 161.

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Anziché il medio occultato e trascurato, la sua vera funzione sarebbe proprio di far dileguare i due termini che si relazionano (Io/intelletto e molteplicità/sensazione). Non per caso l’idea del “verace medio” viene associata nel testo hegeliano all’“effettivo e verace annientamento”75 (wirkliche und wahrhafte Vernichten). Il medio, cioè il luogo del terzo, è il luogo dell’annientamento della finitezza, cioè degli opposti finiti che vengono infinitizzati e assolutizzati in quanto membri dell’opposizione assoluta. Siccome l’annientamento in Hegel si svolge sempre come un’autonegazione – l’atto cruciale per la mediazione stessa – il verace medio non è nient’altro che una nuova riconfigurazione della bilateralità dove ogni lato, ogni termine di questo rapporto duale ha negato se stesso riconoscendosi nel proprio opposto. È su questo sfortunato destino del terzo intermedio, che viene necessariamente presupposto, ma quando viene posto deve sparire, che si gioca la differenza tra il sapere trascendentale e il sapere formale. Il sapere trascendentale, portato fino alle ultime conseguenze, deve chiamare in causa un medio, ma nel momento in cui il sapere trascendentale si trasforma in un sapere formale, come accade in Kant, questo medio si dimostra come non verace. Detto con le parole di Hegel più precisamente: la deduzione delle categorie dall’idea organica dell’immaginazione produttiva si è smarrita nella relazione meccanica di un’unità dell’autocoscienza, unità che è in contrasto con la molteplicità empirica, sia che la determini per sé, sia che su di essa rifletta.76

Il sapere trascendentale per la sua natura contiene un nocciolo speculativo, in quanto pensiero che cerca il punto d’identità tra soggetto e oggetto nei termini delle condizioni della possibilità del sapere dell’oggetto. La deduzione delle categorie in Kant svolge questo ruolo. Questa deduzione però, secondo Hegel, come si legge nel passo sopra riportato, parte dall’immaginazione, come una sorta di sorgente sintetica di tutte le categorie dedotte, per perdersi poi in un assoluto contrasto tra l’autocoscienza (il principio dell’identità) e il molteplice, in quanto principio della differenza unificata attraverso il principio dell’autocoscienza. Il fatto che Hegel definisca “meccanica” la relazione che caratterizza l’unità dell’autocoscienza, contrapponendola all’organicità dell’immaginazione, è da interpretare non soltanto come un’accusa nei confronti del rapporto esterno dell’autocoscienza con l’empirico, il quale viene privato di ogni forma (con le vene 75 Ibidem. 76 HW 2 JS, p. 328; PSC, p. 160.

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svuotate, come si esprime Hegel77), ma anche come la relazione “meccanica” dell’autocoscienza con se stessa, cioè come una sorta di auto-alienazione dell’autocoscienza. E per di più, l’autocoscienza alienata da se stessa è soltanto quell’autocoscienza che sta in contrasto con l’empirico, purificata da ogni relazione con il differente. Ma se l’unità dell’autocoscienza viene caratterizzata da una relazione meccanica, allora anche l’esperienza alla quale quest’autocoscienza conferisce l’unità deve essere altrettanto meccanica. E l’addizione dell’empirico all’autocoscienza – l’addizione che tra l’altro costituisce l’esperienza – viene vista come un incontro meccanico di due estranei. Hegel articola ciò nella formula dell’esperienza: A + B, dove A corrisponde all’unità oggettiva dell’autocoscienza e B all’empirico. Ma ciò che connette A con B è di nuovo A, cioè l’autocoscienza, per cui abbiamo: “A: A + B”. La vera domanda trascendentale riguarda il carattere di quel “più” (das Plus selbst), “+” tra A e B, cioè la connessione fra ciò che connette (jenes Verbindende) e il molteplice – la connessione che, secondo Hegel, in Kant appare come l’inconcepibile (das Unbegreifliche). Questo più (dies Plus) era stato riconosciuto razionalmente come immaginazione produttiva, ma poiché questa immaginazione produttiva è unicamente proprietà del soggetto, dell’uomo e del suo intelletto, essa stessa perde la propria centralità (ihre Mitte), per cui è solo ciò che è, e diventa un soggettivo.78

Qui di nuovo torniamo al tema della copula che, come abbiamo visto, viene descritta come incosciente e come un non-pensato. La differenza è che ora, in questa sede, questo più, la copula, viene riconosciuta esplicitamente come immaginazione. Si noti che qui Hegel non riprende il discorso kantiano, secondo il quale la copula si riferisce all’appercezione. Perché allora Hegel si spinge oltre e chiama in causa l’immaginazione in relazione con quel “più”, e cioè alla copula? Il principio dell’autocoscienza nella formula della costituzione dell’esperienza (A: A + B) viene raddoppiato: una volta A appare come l’unità oggettiva dell’autocoscienza da unire con il molteplice, dunque un membro della relazione (in A + B), e poi lo stesso A viene elevato a principio dell’addizione stessa, della sintesi tra A e B. In ogni caso A, eletto all’unità sintetica originaria dell’apper77 L’oggettività kantiana, essendo senza categorie e senza pensiero, ma che nonostante ciò deve esistere per il pensiero, è come il re di bronzo, dice Hegel, una statua ferma che l’autocoscienza riempie con le vene dell’oggettività (cfr. HW 2 JS, p. 312; PSC, p. 146). 78 HW 2 JS, p. 329; PSC, p. 160.

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cezione, rimane lo stesso e medesimo A, quello dell’identità formale dell’empirico da aggiungere a B. E qui di nuovo la critica di Hegel: Kant aveva ragione nel porre un’identità suprema che viene prima dell’A + B, come principio della loro sintesi nell’esperienza, ma il fatto che questo luogo del terzo venga occupato da un opposto (A), cioè da un membro dell’opposizione assoluta, è la prova che egli ha dequalificato lo stesso principio dell’identità che voleva esprimere. Il punto di Hegel è che la sintesi assoluta non si può risolvere con il raddoppiamento di un termine, cioè dell’autocoscienza, che così appare in due luoghi, prima come membro dell’opposizione e poi come principio dell’identità dei membri. In altri termini, il raddoppiamento dell’autocoscienza come appercezione e come Io penso – la differenza su cui Hegel insiste – esprime la necessità di istaurare un’identità suprema e originaria, che non sarebbe quella dell’identità formale dell’Io penso. Nonostante questa necessità di un’identità originaria e – secondo i termini hegeliani – razionale, Kant “ha reso di nuovo […] il vero e proprio a priori stesso una unità pura, cioè non originariamente sintetica”79. La verace apriorità, come medio verace, decade al rango di un concetto formale. Kant ha riconosciuto quel luogo del terzo, cioè il luogo dell’identità originaria assoluta, contenuta tra l’altro nell’idea stessa dell’apriorità, ma nel contempo ha posto in questo luogo di nuovo qualcosa di puramente soggettivo. Perciò la soluzione non sta nel raddoppiamento dell’autocoscienza in due forme, dove una forma (appercezione) fungerebbe da principio supremo dell’unità degli opposti. In Hegel si tratta piuttosto di introdurre un’altra concezione dell’autocoscienza, che non sarebbe opposta all’esperienza, cioè alla formula (A + B). “Un più dell’empirico” che si aggiunge all’autocoscienza deve essere a essa immanente, e in quanto tale non un’aggiunta, ma un momento dell’autocoscienza stessa. E perciò tutta la relazione non va vista come un’addizione esterna, ma come una sintesi immanente80, cioè originaria e assoluta. L’addizione esterna, in linea di massima, occulta lo stesso carattere della Verbindung su cui si basa l’esperienza, sostanzialmente in quanto connessione tra l’Io formale e il materiale sensibile dell’empirico. Con un tale approccio all’autocoscienza, la vera Verbindung, il vero mo79 HW 2 JS, p. 309; PSC, p. 143. 80 Il termine “sintesi immanente” compare soltanto una volta in tutti gli scritti jenesi (nel Differenz-Schrift, cfr. HW 2 JS, p. 41; PSC, p. 30), poi sarà ripreso nel primo libro della Scienza della Logica a proposito della categoria di divenire. Accanto a un altro termine affine, “la sintesi assoluta”, lo adoperiamo come abbastanza paradigmatico per la posizione hegeliana riguardo al suo concetto della sintesi.

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mento speculativo, cioè “il verace medio”, viene adombrato da una relazione meccanica e dall’addizione esterna dei momenti dell’autocoscienza. Nonostante ciò, la verità del sistema kantiano va rintracciata appunto in ciò che viene smarrito, occultato e offuscato dentro questo stesso sistema. E in fin dei conti, la ricerca della verità del sistema kantiano deve andare contro questo stesso sistema. Ed ecco perché l’interesse di Hegel si concentra intorno alla posizione di quel medio che viene espresso nel “più”. È il lato trascurato del sistema kantiano, che corrisponde alla facoltà cieca dell’immaginazione81. Questo lato viene trascurato e si presenta come non-pensato, ossia inconcepibile, come scrive Hegel, perché non è riconosciuto pienamente come ragione (essendo soltanto la ragione immersa nella coscienza empirica). In seguito a ciò anche la ragione stessa viene privata del carattere costitutivo e viene vista come un’unità vuota con un ruolo meramente regolativo. La ragione è stata innalzata solo perché l’idea speculativa, emersa nel modo più vivo nell’immaginazione e già depotenziata nell’intelletto, sprofondi completamente nell’identità formale.82

Il depotenziamento dell’immaginazione nell’intelletto, e lo svuotamento della ragione, sono conseguenze della formalizzazione del sapere trascendentale, il che è nient’altro che “la posizione di un’antitesi assoluta e di un dualismo”83. La critica di Hegel fa leva sul fatto che neanche l’antitesi assoluta è in grado di annientare totalmente la questione del medio, cioè della mediazione, e dunque del terzo. Solo così possiamo comprendere la sua affermazione che l’intelletto è e deve essere un’idea speculativa84, dato che in esso l’universale e il particolare sono assolutamente identici. Tuttavia, l’intelletto deve questo punto speculativo dell’identità assoluta all’immaginazione, in quanto idea della “verace apriorità”. A differenza della ragione che significa una purificazione totale dalla molteplicità, l’intelletto – nonostante la sua purezza – viene pensato come “il concatenamento del molteplice mediante l’unità dell’autocoscienza”85, dove il ruolo dell’imma81 “Nella filosofia kantiana si è potuto trascurare di più l’immaginazione produttiva, poiché la sua pura idea è in verità esposta in modo abbastanza confuso, come altre potenze, e quasi nella forma abituale della facoltà psicologica, ma a priori” (HW 2 JS, p. 308; PSC, p. 143). 82 HW 2 JS, p. 317; PSC, p. 150. 83 HW 2 JS, p. 315; PSC, p. 148. 84 HW 2 JS, p. 314; PSC, p. 148. 85 HW 2 JS, p. 317; PSC, p. 150.

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ginazione è decisivo, e perciò esprime l’idea della razionalità che in Kant viene sottratta alla ragione stessa. Ogni relazione, inclusa quella di opposizione, presuppone un medio, cioè un “+”. Se questo medio, però, non è riconosciuto come razionale (vernünftig), esso allora diventa un assoluto al di là, il quale poi diventa l’oggetto soltanto della fede, rimanendo sostanzialmente un che di “vuoto per la conoscenza”86. L’assenza di razionalità, l’inconcepibilità e l’incoscienza che caratterizzano questo termine medio, quando è pensato kantianamente, sono dovute al fatto della sua irriducibile trascendenza dal punto di vista dell’opposizione e dell’antitesi assoluta. In termini gnoseologici, ciò vuol dire che l’esperienza, caratterizzata dall’opposizione tra gli elementi dell’esperienza (in primis tra concetto e intuizione), viene staccata dall’assoluto, cioè dalla sua stessa origine ontologico-trascendentale. Gli stessi attributi, con cui Kant descrive l’immaginazione (una facoltà cieca, e poi un’arte nascosta, come si dice nel capitolo sullo schematismo), indicano una certa sospensione di razionalità. Riconoscere l’immaginazione come razionale, e il medio come ragione, significa porre il legame tra gli opposti all’inizio, all’origine degli opposti. Se ci è permesso usare la stessa formula fornita da Hegel, riformulandola, la vera formula speculativa, che esprime il verace medio, sarebbe: + : (A + B). Al posto originario dove prima stava A ora sta quel “più” della connessione, lo stesso rapporto connettivo tra i due che li precede e rende possibile la loro differenza, e dunque anche la loro opposizione. Non è lecito fissare un elemento opposto come identità dell’intera opposizione. Bisogna però riconoscere lo stesso rapporto sintetico originario come l’identità degli opposti. Anche questa riformulazione può però essere fuorviante, nella misura in cui indica un rapporto esteriore tra A e B, cioè tra l’Io e il mondo, soggetto e oggetto. Quel “più” ora non viene pensato come qualcosa al di fuori di A e B, ma come loro immanenza. O per meglio dire, sia nell’autocoscienza sia nell’empirico c’è un più che rimanda al suo opposto. Ogni elemento dell’opposizione è già un’unità con il suo opposto; è già un’identità bilaterale. E allora dove sta il terzo in questa relazione? Da nessuna parte, esso non ha nessun luogo autonomo che sarebbe esteriore ai relati. O meglio: se avesse un luogo il terzo starebbe all’interno di entrambi i membri della relazione. Il terzo è sempre nella relazione immanente del primo e del secondo che sono uniti con il suo lato opposto. In questo modo bisogna intendere hegelianamente anche l’identità originaria dell’intuizione e del concetto. Questo non vuol dire che ogni differen86 HW 2 JS, p. 317; PSC, p. 151.

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za tra intuizione e concetto si appiattisca, oppure che l’intuizione sia soltanto una modalità del concetto. Si può facilmente verificare quanto Hegel apprezzi la definizione kantiana dell’esperienza, secondo la quale l’intuizione senza concetto è cieca, mentre il concetto senza contenuto è vuoto87. Il carattere idealistico di questa affermazione si gioca su questa unità dell’intuizione e del concetto, che Hegel definirà l’unità finita perché ricade nell’assoluta finitezza e soggettività. Dunque, la definizione dell’esperienza kantiana, approvata da Hegel, esprime il correlazionalismo tra intuizione e concetto, dove l’uno non è sostenibile senza l’altro. Hegel, però, prende un’altra strada (quella dell’idealismo assoluto ovvero speculativo) quando si tratta di determinare il genere di questo correlazionalismo. L’intuizione senza concetto è cieca, ma il punto su cui insiste Hegel è che non esiste di fatto un’intuizione senza concetto. L’intuizione, come prodotto dell’attività sintetica, comporta già una componente concettuale necessaria per la sintesi. L’identità tra intuizione e concetto va indagata in questa direzione, per cui il concetto non si aggiunge all’intuizione come qualcosa di esterno, perché il contatto sensibile con le datità è già concettuale. Se torniamo alla formula hegeliana dell’esperienza (A più B) si potrebbe dire che B non esista mai fuori di questa formula, cioè che per avere B, dunque il molteplice, l’empirico, la datità percepita, ci vuole “un più” concettuale, cioè, ci vuole la relazione con l’autocoscienza, in cui le categorie dell’intelletto hanno la loro sede. B è dunque B soltanto come un “più di B”, già sintetizzato e determinato. Ma lo stesso ragionamento vale anche dall’altro lato, dal lato dei concetti, che senza intuizione sono vuoti. Il concetto non si riempie con il contenuto sensibile, con il materiale, ma è per certi versi già materiale. Perciò, anche la questione dell’applicazione, che in Kant è centrale, soprattutto con il discorso sullo schematismo, in Hegel ha tutto un altro spessore. In Kant questa problematica deriva dal presupposto dell’eterogeneità e dal fatto che il contenuto empirico è dato indipendentemente dalla forma concettuale. Ma già l’analisi della datità ci può aiutare a decostruire e indebolire questa indipendenza. Siccome anche la datità è un concetto relazionale, il dato deve essere dato per qualcuno, cosicché è sempre mediato dall’impalcatura soggettiva trascendentale. Hegel si propone di sviluppare un’altra concezione della concettualità, che non sarebbe soltanto una formalità a priori. Perciò anche l’autocoscienza va conce87 “La filosofia kantiana ha il merito di essere idealismo, in quanto dimostra che né il concetto per sé solo, né l’intuizione per sé sola sono qualcosa” (HW 2 JS, p. 303; PSC, p. 138).

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pita non soltanto come pura forma, bensì come ciò che è determinato, materiale, e così l’empirico, la materia, deve essere concepito come qualcosa in sé dotato di forma. Anche l’apprezzamento hegeliano dell’idea di un intelletto intuitivo, che Kant aveva espresso e tuttavia annientato, dimostra il bisogno di articolare meglio quel “verace medio” o “medio assoluto”88, inteso come apriorità a posteriori e come vero superamento del dualismo. La vera chiave di lettura sta nell’identificazione esplicita dell’intelletto intuitivo con l’immaginazione89. Nello stesso tempo Kant riconosce che noi tendiamo necessariamente verso quest’idea; e l’idea di questo archetipo intelletto intuitivo non è in fondo assolutamente altro che la stessa idea dell’immaginazione trascendentale precedentemente considerata; essa è infatti attività intuente, e ad un tempo la sua interiore unità altra non è che l’unità dell’intelletto e categoria solo in quanto si separa dall’estensione; l’immaginazione trascendentale è dunque l’intelletto intuitivo stesso.90

Se teniamo presente che l’immaginazione veniva già identificata con la ragione, allora questa ultima identificazione fa identificare anche l’intelletto intuitivo con la ragione, cosicché sulla stessa linea speculativa abbiamo: immaginazione – ragione – intelletto intuitivo – apriorità. L’idea di un intelletto intuitivo, per Hegel, non ha il significato di una nuova facoltà più potente, che ora viene attribuita anche ai soggetti umani, anziché essere riservata ipoteticamente soltanto a un essere divino91. Non si tratta di ciò. L’intelletto intuitivo rappresenta l’identità assoluta dell’universale e del 88 L’idea pura di un intelletto che è a posteriori, rappresenta per Hegel l’idea del medio assoluto (Idee der absoluten Mitte), cioè un intelletto intuitivo. Cfr. HW 2 JS, p. 316; PSC, p. 149. 89 Qui rimandiamo a K. Düsing, Ästhetische Einbildungskraft und intuitiver Verstand, in „Hegel Studien“, n. 21, 1986, pp. 87-128. 90 HW 2 JS, p. 325; PSC, p. 157. 91 Come scrive Valerio Verra: “In altri termini, l’identificazione hegeliana di immaginazione trascendentale ed intelletto intuitivo è comunque qualcosa di molto diverso e che va molto al di là di qualsiasi ricerca di un “organo” che consenta alla filosofia di sollevarsi con l’intuizione e l’immaginazione là dove invece l’intelletto freddo e mortificante le impedisce di giungere; qualcosa insomma che va molto al di là di una qualsiasi proposta o ricerca di un modello alternativo di comprensione della realtà e dell’assoluto rispetto a quello puramente intellettivo, discorsivo e analitico” (V. Verra, Immaginazione, trascendentale e intelletto intuitivo, in Id. (a cura di), Hegel interprete di Kant, Napoli, Prismi, 1981, pp. 88-89).

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particolare – un’identità in sé differenziata e bilaterale (zweiendig)92. È, dunque, un altro punto speculativo a cui Kant si era avvicinato e da cui, in seguito, ha indietreggiato. Per gli argomenti affini a questi concernenti l’intelletto intuitivo, anche la Critica del Giudizio – il terzo lato della filosofia kantiana – merita un’attenzione particolare. Infatti, per Hegel la terza Critica si avvicina ancor di più allo speculativo, perché essa esprime l’“esigenza del concreto”, nonché l’esigenza dell’immanenza, dove l’unità non è una trascendenza al di là, ma è presente qui, nel mondo fenomenico93. Sia l’idea del bello sia l’idea della finalità teleologica sono per certi versi realizzazione dell’idea razionale, purtuttavia private in Kant del significato costitutivo, private cioè del concetto. Per Hegel questa impostazione “a metà” è problematica, perché già la necessità di realizzarsi nel mondo sensibile, cioè l’idea che il soprasensibile (libertà) è presente nella natura (il sensibile), è una concretizzazione del concetto che non toglie niente al concetto e alla sua costitutività. Nel Giudizio riflettente Kant trova infatti il termine medio (Mittelglied) fra il concetto di natura ed il concetto di libertà, ossia fra la molteplicità oggettiva determinata mediante concetti, l’intelletto in generale, e l’astrazione pura dell’intelletto; medio che rappresenta la regione dell’identità di ciò che è soggetto e predicato nell’assoluto giudizio, al di sopra della cui sfera né la filosofia teoretica né quella pratica si erano innalzate. Ma questa identità, che sola è la vera ed unica ragione, non è secondo Kant per la ragione, bensì solo per il Giudizio riflettente.94

In un certo senso tutta la terza Critica per Hegel assume il significato dell’intelletto intuitivo che non è nient’altro che lo stesso Giudizio riflettente95. L’intelletto intuitivo per lui sta a significare “l’universale pensato al tempo stesso come concreto in lui stesso”96. Bisogna notare che il discorso sull’intelletto intuitivo non va limitato alla teoria delle facoltà della conoscenza. E infatti, per Hegel, non si tratta in primis di una facoltà, ma di un principio anti-dualistico che sta alla base sia dell’intelletto, cioè 92 HW 2 JS, p. 372; PSC, p. 197. 93 Cfr. HW 20 GP III, p. 372; LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 326. 94 HW 2 JS, p. 322; PSC, p. 154. 95 “Al Giudizio riflettente viene attribuito il principio di un intelletto intuitivo, cioè di un intelletto in cui il particolare, che per l’universale (l’identità assoluta) sarebbe contingente e non ne potrebbe essere dedotto, venga determinato mediante quest’universale stesso […] Soltanto in queste rappresentazioni la filosofia kantiana mostra di essere speculativa” (HW 8 E I, p. 139; ESF I, p. 218-219, §55). 96 HW 8 E I, p. 140; ESF I, p. 219, §55.

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dell’universale e del necessario, sia dell’intuizione, cioè del particolare e del contingente. In altri termini, l’idea dell’intelletto intuitivo prospetta una determinazione che non è quella di stampo deduttivo-applicativo. L’intelletto intuitivo non applica l’universale al particolare. Per questo Hegel presenta tutta la terza Critica kantiana come orizzonte dell’intelletto intuitivo. Nel bello e nell’organismo, l’universale determina il particolare secondo la forma della finalità interiore. Il particolare (un’opera d’arte o un organismo vivente) già nella sua esistenza è determinato secondo il concetto immanente, per cui esso è dotato di una finalità e posto in armonia con qualche dover essere (Sollen) superiore. Ma secondo Kant questo è soltanto il nostro modo di riflettere sulle cose. Noi guardiamo alla natura a guisa dell’intelletto intuitivo, per cui Hegel sarà spinto a tirare le somme e dire che in Kant l’intelletto intuitivo non ha ancora il significato della verità, cioè esso rimane una facoltà soggettiva e non un principio ontologico del concreto97. Dunque, se partiamo dai giudizi assai positivi di Hegel nei confronti della Critica del Giudizio, possiamo non soltanto mettere a fuoco meglio la sua critica a Kant, ma anche trovare una linea interpretativa per avvicinarci in un modo adeguato alle stesse idee hegeliane. Ciò che Hegel ravvisa nella terza Critica – la determinazione immanente del concetto – è esattamente quello che prenderà il nome di identità assoluta. Il discorso hegeliano sull’assoluto in questo senso continua la direzione della terza Critica kantiana98. Il principio della finalità interna in Kant, proprio per la sua fondazione esclusivamente soggettiva, non si libera fino in fondo della rappresentazione di una causa esterna, cioè di una trascendenza divina. La natura è in armonia con uno scopo, con la libertà, cioè con il bene. Ma se questo rimane soltanto una nostra rappresentazione e un modo di giudicare, cioè qualcosa di soggettivo, la realizzazione e il fondamento ontologico di questa finalità interna viene ceduta a una causa esterna. E dunque, la fi97 “Che questo intellectus archetypus sia però la vera idea dell’intelletto, a questo Kant non arriva […] Stranamente a) Kant ha quest’idea dell’intuitivo, ma non sa perché essa non possa avere alcuna verità – se non perché il nostro intelletto è costituito diversamente” (HW 20 GP III, p. 380; traduzione nostra; cfr. LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 336). 98 “Il principio della finalità interna, tenuto fermo e sviluppato nell’applicazione scientifica, avrebbe portato a un modo di considerare le cose del tutto diverso e più alto” (HW 8 E I, p. 142; ESF I, p. 221, §58). In altri termini, la teleologia kantiana fondata ontologicamente porta alle vedute speculative che Hegel cerca di articolare.

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nalità interna smette di essere immanente, incapace com’è di essere una mediazione in se stessa. Kant comunque si imbatte in un problema simile a quello emerso nella postulazione della legge morale: il bisogno di ricorrere all’esistenza divina99. Il sommo bene, la finalità, essendo qualcosa che non appartiene alla natura, anche se va realizzato nella natura, alla fine potrebbe essere realizzato “mediante un terzo termine (ein Drittes), la potenza che pone e realizza questo scopo finale, cioè Dio”100. Il ricorso a un terzo trascendente qui è esattamente l’espressione dell’impossibilità di risolvere il dualismo. Analogamente alla mossa fatta da Cartesio, che era spinto a presupporre un garante ontologico della verità, cioè Dio, anche Kant è costretto a reintrodurre una potenza che è buona per se stessa, cioè il fine in sé. Questo fine in sé appare come il terzo101, come la verità esteriore al mondo e all’idea soggettiva del bene. La ragione si propone allo stesso tempo di risolvere l’opposizione tra i due (in questo caso, tra il bene e il mondo), ma chiamando in causa il trascendente rimane invischiata in ciò da cui voleva uscire, imprigionata dentro l’opposizione ossificata. L’unico modo vero di uscirne è determinare il carattere speculativo e immanente del terzo termine. Kant ha pensato correttamente di proporre uno schema della triplicità, nonostante essa fosse priva dello spirito, perché essa corrisponde all’idea del pensare come “concetto assoluto” che ha “la realtà in sé”; ciò che comunque rimane come compito è infondere la vitalità in quello schema, distruggendolo come schema, e scoprendo invece la potenza unificatrice e immanente, già operante in diverse ripartizioni della filosofia kantiana, soprattutto nella sua estetica e teleologia, “il punto più interessante del sistema kantiano”102. Kant ha dunque tracciato il ritmo della conoscenza, del movimento scientifico, come uno schema generale, e ha posto ovunque tesi, antitesi, sintesi, i modi cioè dello spirito (die Weisen des Geistes), per mezzo dei quali esso è spirito, come cosciente di sé, che in tal modo si distingue. Il primo è l’essenza (das Wesen) […] Il secondo è l’essere per sé, la propria realtà effettiva (Wirklichkeit)

99 “Questo però è Dio, ed ecco la posizione che Dio ha nella filosofia kantiana: non si può dimostrare che Dio esiste, ma ce n’è esigenza” (HW 20 GP III, p. 382). 100 HW 8 E I, p. 142; ESF I, p. 221, §59. Cfr. anche “nur […] durch ein Drittes” (HW 20 GP III, p. 382). 101 Più precisamente, appare come il terzo, ma ontologicamente deve essere il Primo. “la loro verità […] appare come il terzo, ma a un tempo vien determinata come il primo” (HW 20 GP III, p. 383; LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 337). 102 HW 2 JS, p. 322; PSC, p. 154.

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[…] Il terzo è l’unità dei due […] In tal modo Kant ha indicato storicamente i momenti del tutto; ed è una buona introduzione alla filosofia.103

È interessante notare come qui tesi, antitesi, sintesi siano accennate riguardo a Kant, e dunque riguardo a un certo schematismo formale104. Il superamento di Kant presupporrebbe quindi anche il superamento di questa triplicità solo esteriormente dialettica. In altre parole, una volta aperte le porte ed entrati nella filosofia non possiamo accontentarci di stare in anticamera105. La Logica di Hegel costituisce appunto questo andare avanti nell’orizzonte aperto da Kant.

103 HW 20 GP III, pp. 385-386 (traduzione nostra). Cfr. LSF, Vol. 3, Tomo 2, p. 340. 104 Per quanto riguarda il formalismo, la sua contestazione in Hegel non va interpretata come ripudio di ogni forma. Anzi, il giudizio di Hegel segue una ragionevolezza storica e contestualizzante: “Ma per il progresso reale della filosofia era necessario che si attirasse l’interesse del pensiero alla considerazione del lato formale, alla considerazione dell’Io, della coscienza come tale, della relazione astratta, cioè, di un sapere soggettivo verso un oggetto, e che in questa guisa si aprisse la via alla conoscenza della forma infinita, ossia del concetto” (HW 5 L I, p. 61; SL I, p. 47). In virtù di ciò Hegel propone un’altra formalità, il formale concettuale e reale che “dev’essere quindi pensato come molto più ricco, in sé, di determinazioni e contenuto, e così anche come di efficacia infinitamente maggiore sul concreto, di quel che comunemente s’intende” (HW 6 L II, p. 267; SL II, p. 671) e dunque la forma che è “di natura intieramente diversa da come usualmente si piglia la forma logica. Essa è già per se stessa la verità” (HW 6 L II, p. 265; SL II, p. 669). Cfr. anche HW 8 E I, p. 307; ESF I, p. 378; § 160 A. 105 Come precisazione possiamo usare le parole di Gadamer: “Dopo che Kant ha raggiunto il punto di vista trascendentale ed ha insegnato a pensare il Logos dell’oggettività, cioè la sua costituzione categoriale, la logica non può più restare logica formale, che si limita ai meri rapporti formali del concetto, giudizio e sillogismo” (H. G. Gadamer, L’idea della logica hegeliana, in R. Dottori (a cura di), La dialettica di Hegel, Torino, Marietti, 1973, p. 103). La mossa hegeliana della radicalizzazione del trascendentale kantiano sta proprio nel tentativo di approfondire questo Logos dell’oggettività di modo che le sue determinazioni non sono più prescritte da qualche soggetto indipendente, ma per certi versi il logos stesso dà a se stesso le proprie determinazioni sia nel senso oggettivo che in quello soggettivo, nel senso del loro immanente e necessario sviluppo. E dunque scrive Gadamer nella chiusura dello stesso saggio: “Hegel ha perciò portato a compimento quella estensione della logica tradizionale ad una trascendentale ‘logica dell’oggettività’ che iniziò con la Dottrina della Scienza di Fichte” (Ivi, p. 126).

CAPITOLO II L’ORIZZONTE ONTO-LOGICO DEL TERZO

1. Il cominciamento: Il divenire come il primo Terzo del sistema della logica Il cominciamento hegeliano è definito in termini di immediatezza, semplicità e indeterminatezza. Iniziare dall’immediatezza stessa significa prendere avvio da qualcosa che non ha alcun presupposto, che è uguale a se stesso, puro, senza determinazioni (bestimmungslos) e vuoto. Questa semplice immediatezza sul piano ontologico è il puro essere inteso come essere in generale, una semplice relazione con sé che esclude ogni altro – l’essere e niente di più1. Questo puro essere è il mero e puro “c’è”, come mera immediatezza, come ciò che è più familiare a un pensiero ed è quasi sempre irriflesso2. La riflessione di questo “c’è” è ciò che il sapere sa di se stesso quando scompare ogni oggetto. Là dove il sapere come luogo di differenziazione è sparito, là trova posto soltanto ciò che è “il più puro”, “il più astratto” – l’essere stesso. Per questo è il sapere puro quello che permette a Hegel di arrivare all’essere puro3. Il sapere puro non può avere come contenuto nient’altro che l’essere, come ciò che è il più astratto e in quel senso il più universale. Col sapere assoluto4 la coscienza esperisce la 1 2

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Cfr. HW 5 L I, p. 68; SL I, p. 55; HW 5 L I, p. 72; SL I, p. 58. L’espressione coniata da S. Houlgate, per quanto sia inconsueta, è comunque assai precisa per descrivere il cominciamento: “the sheer isness of things”. Cfr. S. Houlgate, The Opening of Hegel’s Logic. From Being to Infinity, West Lafayette, Purdue Univ. Press, 2006, p. 264. “in quanto il puro essere è da considerare come quell’unità, nella quale il sapere, al culmine del suo unirsi coll’oggetto, è venuto a cadere, il sapere in questa unità e sparito, né ha lasciato più alcuna differenza da essa, né quindi determinazione alcuna per essa” (HW 5 L I, p. 72; SL I, p. 59). Bisogna comunque distinguere il sapere assoluto, il traguardo del cammino fenomenologico, dal sapere puro, come orizzonte logico. Il primo piuttosto prepara le condizioni storico-fenomenologiche per il secondo. In questo senso il sapere puro della logica è condizionato dalla figura fenomenologica del sapere assoluto (Cfr. L. Lugarini, Hegel. Dal mondo storico alla filosofia, Roma, Armando, 1973, pp.

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soppressione della differenza fenomenologica tra oggetto e soggetto, raggiungendo in un passo seguente un’altra differenza – la differenza ontologica dell’essere e dell’ente. Il sapere puro è il sapere sciolto e libero da ogni relazione con un qualche ente, e perciò privo di qualsiasi differenza. Però proprio questo suo carattere è capace di esprimere la differenza ontologica, che appunto compare nello spazio transitorio tra fenomenologia e logica5. Essere sciolto e libero da ogni relazione con un qualche ente è ciò che rende l’essere un’immediatezza semplice e indeterminata. Il cominciamento non è nient’altro che questo essere, puro o per meglio dire purificato perché liberato da ogni entità. Hegel sostiene d’altronde che non esiste alcuna cosa, nella natura e nello spirito, che non abbia tanto i caratteri della mediazione quanto quelli dell’immediatezza6. Allora come inquadrare questa tesi con il problema del cominciamento, che, in quanto tale, è assolutamente immediato7? Il comin-

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186-187). In altri termini, il sapere assoluto non significa immediatamente la pura speculazione. Con il sapere assoluto si introduce quella situazione in cui per la prima volta il sapere può fare una resa dei conti con se stesso e con la propria genesi, e abbracciare tutte le sue forme lasciate indietro, riconoscendole come proprie. Questo è l’Erinnerung costitutivo di tutto ciò che è esperito e vissuto. Perciò il sapere assoluto sta ancora nell’orizzonte della fenomenologia. Allora come si compie il passo dal sapere assoluto alla pura speculazione del sapere? Forse la risposta va cercata in quel paragrafo dell’Enciclopedia dove si parla della decisione di voler pensare in modo puro – “una decisione presa mediante la libertà che astrae da tutto e coglie la sua astrazione pura” (HW 8 E I, p. 168; ESF I, p. 245; §78, cfr. anche Ivi §17). Solo quando si conquistano le condizioni rese possibili dal sapere assoluto si può decidere di cominciare con il pensare puro logico. Dopo il ricordo introiettivo dello spirito bisogna fare un salto, non più Erinnerung ma una sorta di oblio, con il quale si realizza la “completa assenza di presupposti” (Ibidem) – è da qui che comincia la scienza della logica: soltanto con questo salto originario (Ur-sprung) e con la decisione che tutto ciò che viene conservato nel sapere assoluto riceve una configurazione logico-concettuale. La bibliografia sul tema dell’introduzione alla Logica e sullo statuto della Fenomenologia (come introduzione, propedeutica, oppure come parte integrante del sistema) è assai ampia. Qui teniamo presente soltanto alcuni titoli: H. F. Fulda, Das Problem einer Einleitung in Hegels Wissenschaft der Logik, Frankfurt a. M., Klostermann, 1975; T. Haering, Die Entstehungsgeschichte der Phänomenologie des Geistes in Verhandlungen des dritten Hegelkongresses, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1934, pp. 118-138; K. F. Bachmann, Über Hegels System und die Nothwendigkeit einer nochmaligen Umgestaltung der Philosophie, Leipzig, F. C. W. Vogel, 1833; O. Pöggeler, Zur Deutung der Phänomenologie des Geistes, in „Hegel Studien“, n. 1, 1961, pp. 118-138; Cfr. HW 5 L I, p. 66; SL I, p. 52. Occorre, però, tener presente anche questa frase di Hegel: “Cotesto puro essere è l’unità in cui ritorna il puro sapere, o, quando questo sapere si voglia tener distin-

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ciamento sarebbe quindi un’eccezione alla regola universale secondo la quale tutto è unità dell’immediato e mediazione? L’esigenza di un minimalismo ontologico e di una riduzione ontologica radicale conduce all’essere puro, indeterminato e vuoto; tuttavia l’essere puro, così definito, sfocia nel nulla, o, per meglio dire, l’essere privato di ogni determinazione non è nient’altro che il nulla8. Il nulla non può però fungere da altra categoria dell’inizio, perché quest’ultimo così non sarebbe più semplice, ma composto, non sarebbe più la pura identità di sé con sé, ma già una differenziazione in sé. Perciò per Hegel l’essere e il nulla sono una e la stessa cosa: ciò significa che alla categoria del nulla non si arriva dispiegando ulteriormente la categoria dell’essere, perché questo sarebbe contrario al carattere del cominciamento, che deve essere semplice, senza ulteriori dispiegamenti9. Questo ha, come sua conseguenza, anche il fatto che il concetto di unità sorge soltanto con l’analisi del cominciamento, dunque con la sua elaborazione e scomposizione: L’analisi del cominciamento ci darebbe quindi il concetto dell’unità dell’essere col non essere, – o in forma riflessa, il concetto dell’unità dell’essere differente e del non esser differente, – oppur quello dell’identità della identità colla non identità. Questo concetto si potrebbe riguardare come la prima e più pura (cioè più astratta) definizione dell’Assoluto.10

to, come forma, dalla sua unità, cotesto puro essere è il contenuto di esso. Questo è il lato per cui cotesto puro essere, cotesto assoluto-immediato, è insieme anche assolutamente Mediato” (HW 5 L I, p. 72; SL I, p. 58). 8 Questo passaggio dell’essere nel nulla può essere interpretato anche come fallimento della riflessione stessa, la quale tenta di determinare quel puro e mero “c’è” sforzandosi di dargli un predicato corretto che adempierebbe alla forma del giudizio, ma ottiene, alla fine, di poterlo solamente definire come indeterminato. L’unica cosa che si riesce a dire è, in questo caso: “l’essere è il nulla”. Questo è uno degli argomenti trattati nel saggio di W. Wieland, Bemerkungen zum Anfang von Hegels Logik, in R.-P. Horstmann (a cura di), Seminar: Dialektik in der Philosophie Hegels, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1978, pp. 194-212. Il problema nasce con il tentativo abortito di trattare l’essere come soggetto di un enunciato e il nulla come un predicato (Ivi, p. 195), per cui la seconda categoria, quella del nulla, segnala al primo colpo solo l’assenza della determinazione (Ivi, p. 201), piuttosto uno spazio vuoto (Leerstelle) e l’entrare in gioco della riflessione attraverso il suo scacco. 9 “Quello che costituisce il cominciamento, il cominciamento stesso, bisogna quindi prenderlo come tale che non si possa analizzare, bisogna prenderlo nella sua semplice, non riempita immediatezza, epperò come essere, come l’assolutamente vuoto” (HW 5 L I, p. 75; SL I, p. 61). 10 HW 5 L I, p. 74; SL I, p. 60.

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L’identità dell’essere e del nulla che costituisce il cominciamento è dunque originaria – è la definizione più astratta di ciò che è assoluto11. In essa troviamo anche il primo tentativo della differenziazione dell’essere da qualcos’altro, dal non essere. Siccome qui non vi è ancora una vera differenza, l’unità o l’identità sono ancora astratte, e solo “in forma riflessa”, dice Hegel, possiamo parlare in termini di differenza o di esser differente. Quando Hegel parla dell’unità, non nasconde le difficoltà che emergono dall’intento di esprimere le verità speculative più profonde. L’unità, quella “parola infelice”12 che potrebbe essere fuorviante, perché si manifesta come risultato di una comparazione, cioè di una riflessione estrinseca, presuppone indifferenza di due termini che poi si uniscono in una forma proposizionale, la quale non è nient’altro che una forma del giudizio: proprio questo è problematico. Il giudizio, infatti, non è, secondo Hegel, una forma atta a esprimere le verità speculative13, non è capace di esprimere l’inseparabilità dei due termini, e perciò l’identità tra soggetto e oggetto nel giudizio viene rappresentata piuttosto come loro unione e non come una identità originaria. Parole simili Hegel, in un altro luogo, dedica anche alla sintesi: Già l’espressione di sintesi conduce facilmente daccapo alla rappresentazione di un’unità estrinseca e di un semplice collegamento di tali, che sono in sé e per sé separati.14

Potrebbe sembrare strano che il filosofo dell’unità e della sintesi esprima diffidenza dei suoi concetti chiave. Piuttosto che lasciarsi prendere dall’impressione dell’inconsueto sarebbe più fruttuoso mettere in questione i giudizi preliminari e i luoghi comuni, di cui tra l’altro le interpretazioni della filosofia hegeliana non mancano, per capire meglio la natura dell’inizio hegeliano e il carattere della identità che ne sta all’origine. Se i concetti dell’unità, della sintesi o dell’identità non sono sufficienti per cogliere l’inseparabilità tra i due (essere e nulla) e il ruolo del terzo all’inizio della Logica, non è che ogni tentativo di spiegare il cominciamento sia destinato allo scacco? 11 Nella prima edizione della Dottrina dell’essere (1812) l’affermazione dell’essere come assoluto è ancor più esplicita: “Das Sein ist das Absolute; so wird vom Sein etwas ausgesagt das von ihm unterschieden ist […] Das Absolute wird von ihm unterschieden; indem aber gesagt wird, er sei das Absolute, so wird auch gesagt, sie seien nicht unterschieden. Es ist also nicht das reine Sein, sondern die Bewegung vorhanden, welche das Werden ist“ (L 1812, p. 52). 12 Cfr. HW 5 L I, p. 94; SL I, p. 81. 13 Cfr. HW 5 L I, p. 93; SL I, p. 80. 14 HW 6 L II, p. 261; SL II, p. 665.

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Malgrado l’essere e il nulla stiano nell’unità originaria indifferenziata, essi sono assolutamente diversi (absolut unterschieden15): e non solo, se l’essere e il nulla sono indeterminati, anche la loro differenza, che si basa sul passare dell’uno nell’altro, deve essere indeterminata. L’essere è così vuoto e indeterminato, non contiene nulla, non c’è nulla da pensare ed esso, come puro pensare, non è nient’altro che il nulla16. Il nulla, in totale assenza di contenuto, come puro e mero Non, è a sua volta totalmente indistinguibile dal puro essere. Il nulla però non è semplicemente nullo, perché nella sua semplice vacuità passa immediatamente all’essere, il suo altro immediato e immediatamente opposto. Questa transizione è dunque originaria e fa parte della logicità dell’essere e del nulla. La loro verità è pensata come questa transitività dell’immediato sparire dell’uno nell’altro, e viene espressa come il divenire: l’essere diviene e il nulla diviene17. È questo il modo di pensare allo stesso tempo la loro inseparabilità e la loro differenza, per cui l’uno è generato dall’altro, e siccome sia l’uno sia l’altro sono originari, allora anche il loro movimento, inteso come sparire, è originario. Non è possibile avere l’uno senza l’altro: finché c’è l’uno l’altro è ineliminabile, immediatamente generato. Ma neanche è possibile pensare l’uno accanto all’altro: il generare dell’uno è lo sparire dello altro. Nonostante ciò, proviamo a ripetere la domanda: in questa condizione di immediata inseparabilità, su cosa si basa la differenza tra l’essere e il nulla? Hegel scrive che la differenza tra l’essere e il nulla è soltanto immaginata, pensata ed esiste in qualcosa di terzo; questo terzo è l’opinare, più precisamente un’opinione soggettiva: S’intende, o si opina (Man meint), che l’essere sia anzi l’assoluto Altro che il nulla, e niente è più chiaro che la loro assoluta differenza […] La differenza non sta perciò in loro stessi, ma solo in un terzo, nell’intendere o nell’opinare (im Meinen). Ma l’intendere od opinare è una forma del soggettivo, e il soggettivo non si appartiene a quest’ordine d’esposizione.18 15 HW 5 L I, p. 83; SL I, p. 71. 16 Nella Dottrina del concetto Hegel definisce il semplice essere come indicibile: “L’essere è semplice come immediato; perciò non è se non un che d’opinato, né di esso si può dire che cos’è; quindi è immediatamente uno stesso col suo altro, il non essere” (HW 6 L II, p. 275; SL II, p. 680). 17 È l’inizio di ciò che S. Houlgate definisce come la “storia” logica dell’essere. Il divenire non è nient’altro che l’orizzonte dell’instabilità strutturale dell’essere che apre la sua “storia”, nonostante sia ancora a-temporale. Secondo questo autore, il divenire è il fondamento logico del tempo, lo precede logicamente e deve dunque ancora manifestarsi nella sua temporalità e dimostrarsi come temporale. S. Houlgate, The Opening of Hegel’s Logic. From Being to Infinity, cit., p. 266, p. 285. 18 HW 5 L I, p. 95; SL I, pp. 81-82.

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La differenza tra l’essere e il nulla dunque dipende dall’opinione, da una riflessione contingente, dalla doxa, potremmo dire. Questa differenza è ineffabile, perché non si tratta di una differenza concreta, determinata, tra questo e quello, bensì di una differenza tra l’essere e il nulla, i quali sono assolutamente vuoti e puri e la cui differenza tramonta immediatamente nel loro essere lo stesso. Si potrebbe anche meglio dire che la differenza stessa tra l’essere e il nulla è vuota. La differenza vuota può essere soltanto il risultato del pensare puro. Qui, però, bisogna prestare attenzione anche all’uso dei termini: Hegel non dice che la differenza tra l’essere e il nulla sta in un terzo che sarebbe il pensiero, ma chiama “terzo” proprio l’intendere e l’opinare. Se avesse detto che la differenza in questione compete al pensiero, ciò implicherebbe affermare anche che la differenza è già nell’essere e nel nulla e dunque non ci sarebbe bisogno di un che di terzo, estrinseco. Hegel invece sposta l’accento dal significato oggettivo della differenza a quello soggettivo, chiamando in causa il soggetto dell’opinare (meinen) e non del pensiero in quanto tale. La valenza soggettivistica, proprio quella che sembrava superata alla fine del pensiero fenomenologico, ora riappare, proprio nel punto in cui bisogna distinguere l’essere dal nulla. Dal momento che il cominciamento onto-logico è una categoria dinamica che soprattutto determina il movimento successivo delle determinazioni del pensiero, e dal momento che questo movimento, come ogni altro movimento, è una mediazione attraverso le differenze, si può concludere allora che questo movimento logico dipende dalla prima differenziazione tra l’essere e il nulla, senza comunque dimenticare che questi non si distinguono tra loro e in sé ma soltanto in un terzo, soprattutto in un terzo soggettivo. Non bisogna poi trascurare il fatto che, se la differenza tra l’essere e il nulla è una questione soggettiva che spetta all’intendere e all’opinare, sembra così instaurarsi una dipendenza illegittima del movimento oggettivo del pensiero dalla condizione puramente soggettiva. Questa dipendenza è illegittima soprattutto perché il discorso logico non deve essere soggettivo o ancora, come scrive Hegel nella citazione sopra riportata, “il soggettivo non appartiene a quest’ordine d’esposizione”: il discorso soggettivo deve coincidere con la struttura oggettiva del logos del mondo; al soggetto non rimane nulla da aggiungere, e basta solo lasciare che il contenuto puro cominci a svilupparsi, senza intervenire nel suo ritmo immanente19. 19 “Affinché ora, partendo da questa determinazione del sapere puro, il cominciamento resti immanente alla scienza di esso, non v’è da far altro che considerare, o, meglio, non v’è da far altro, scartando tutte quelle riflessioni od opinioni che si

L’orizzonte onto-logico del terzo 185

La differenza preliminare che emerge è perciò propria del modo di pensare fenomenologico, ovvero appartiene al sapere e all’atteggiamento propri della riflessione soggettiva che solo riflettendo sull’essere e sul nulla scorge la differenza tra di essi20. L’atteggiamento speculativo parte invece da un presupposto diverso rispetto a questa riflessione estrinseca: l’essere e il nulla non si differenziano, sono una e la stessa cosa. Se l’essere e il nulla fossero effettivamente distinti, bisognerebbe trovare un loro fondamento comune, la loro origine più universale, dato che la differenza tra i due c’è soltanto là dove esiste un loro fondamento che si differenzia21. Nel caso dell’essere e del nulla però questo non può esserci, perché la loro identità stessa è il fondamento del cominciamento, ma la differenza continua a sussistere, come una differenza riflessa e “opinata”22, ossia come differenza del sapere soggettivo. Sembra che l’intendere soggettivo, la riflessione nella sua formulazione filosofica, non riesca a reggere l’identità assoluta dell’essere e del nulla e che per questo si finisca sempre per ritornare alla loro differenziazione. Il punto cruciale della differenziazione tra l’essere e il nulla, però, riposa ancora sulla differenza del momento del sapere dal hanno, che accogliere, soltanto, ciò che ci sta dinanzi (was vorhanden ist)” (HW 5 L I, p. 68; SL I, p. 54). 20 Nel suo saggio sulla riflessione iniziale (die anfangende Reflexion), Andreas Arndt si interroga sulla possibilità di parlare di una riflessione estrinseca all’inizio della Logica. La proposta di Arndt è che l’inizio della Logica sia di fatto l’inizio di una riflessione sulla stessa riflessione attraverso la quale l’inizio viene mediato. Secondo l’autore la riflessione estrinseca, che ha come suo principio l’arbitrio e la contingenza (l’apice della soggettività formale e astratta), è condotta fino al limite estremo, forzata per giungere a riflettere sui propri presupposti irriflessi e immediati. La riflessione sulla riflessione è proprio questa riflessione iniziale, o meglio, iniziante, la quale porta in superficie l’essere puro, privo di coscienza, come proprio presupposto. Questo è anche il punto in cui la riflessione estrinseca coincide con la riflessione immanente. L’esperienza dei propri presupposti (l’essere immediatamente capovolto nel nulla) è ciò sulla cui base il soggetto della riflessione estrinseca viene inserito nell’andamento della cosa stessa. Cfr. A. Arndt, Die anfangende Reflexion. Anmerkungen zum Anfang der Wissenschaft der Logik, in A. Arndt, C. Iber (a cura di), Hegels Seinslogik. Interpretationen und Perspektiven, Berlin, Akademie Verlag, 2000, pp. 126-139. 21 “In ogni altro caso, quando c’è una distinzione, abbiamo sempre anche qualcosa di comune che comprende in sé i distinti. Se, per es., parliamo di due generi diversi, il genere è il loro elemento comune […] Nel caso dell’essere e del nulla la loro distinzione consiste nella sua mancanza di un punto di appoggio, e proprio perciò non è una distinzione, perché entrambe le determinazioni sono qui la medesima mancanza di un punto di appoggio” (HW 8 E I, p. 187; ESF I, p. 263; §87 A). 22 Cfr. HW 5 L I, p. 95; SL I, p. 81.

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momento della verità e sembra quindi che l’orizzonte ontologico non sia in fondo pienamente conquistato. Il pensiero indietreggia e per un attimo si torna al fenomenologico, cioè prima del raggiungimento di quel punto supremo della coscienza che si mostrava come una risoluzione finale dell’indipendenza dell’oggetto e della differenza tra verità e sapere. Solo in quest’ultima differenza di stampo fenomenologico la differenza tra l’essere e il nulla trova infatti il suo luogo. In altri termini: il momento della verità insegna che c’è un’inseparabilità dell’essere e del nulla, mentre il sapere riflette ancora la sua differenza23. Perché Hegel all’inizio della Logica, dove l’orizzonte esplicativo è purificato da ogni contenuto soggettivo, torna all’opinare? Non si tratterebbe qui di un “residuo fenomenologico” all’inizio della Logica? La differenza tra l’essere e il nulla sembra l’ultima differenza che il sapere fa dentro di sé e la prima differenza che deve giustificarsi anche nel percorso del concetto o della cosa stessa (Gang der Sache selbst)? Per questo motivo Hegel è indotto a fondare ontologicamente la differenza tra l’essere e il nulla. Hegel non può accontentarsi di una soluzione che si limita a ricorrere a ciò che è già superato e cioè a collocare la differenza soltanto nell’opinare, nella mera rappresentazione soggettiva. Dunque il terzo che prima era definito come l’opinare ora deve trovare anche il suo correlato ontologico. Ma l’intendere e opinare è una forma del soggettivo, e il soggettivo non si appartiene a quest’ordine d’esposizione. Se non che il terzo (das Dritte), in cui l’essere e il nulla hanno la loro sussistenza, si deve presentare anche qui (muß auch hier vorkommen); e si è presentato anche qui: è il divenire.24

Il divenire è ora quel terzo, la sola categoria nel quale e a partire dal quale si può fare una differenza tra l’essere e il nulla. Da una parte, tale differenza è ontologicamente giustificabile e fondabile soltanto a partire dal divenire, dall’altra parte però essa è la condizione affinché il divenire ci sia. Il divenire è il luogo ontologico-categoriale della differenza che supera l’opinare come suo luogo soggettivo: e il terzo dunque non è solo soggettivo, non è solo l’atto della differenziazione tra l’essere e il nulla nella riflessione. Perciò il rapporto costituente è bilaterale: la differenza tra l’essere e il nulla si costituisce nel divenire, ma anche il divenire si può costituire soltanto a partire dall’essere e dal nulla nella loro differenza. Il rapporto circolare e di mutua dipendenza tra essere, nulla e divenire getta le basi per la 23 Cfr. H. G. Gadamer, L’idea della logica hegeliana, in R. Dottori (a cura di), La dialettica di Hegel, cit., p. 112. 24 HW 5 L I, p. 95; SL I, p. 82.

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loro unità, non malgrado ma in virtù della loro differenza. Il divenire, in quanto passaggio dell’essere nel nulla e del nulla nell’essere, è la loro unità. L’unità originaria dell’essere e del nulla è confermata dall’osservazione hegeliana che l’essere non passa nel nulla, e viceversa, ma l’essere e il nulla sono già passati l’uno nell’altro25. Il passaggio dell’uno nell’altro di per sé è sempre accaduto. La verità di questo “già passato” è il divenire. L’essere dunque non è “sostenibile” come una categoria statica, essendo già contrassegnato dal suo passaggio nel nulla. Dunque, sia l’essere sia il nulla non possono essere soltanto gli elementi componenti della loro unità26, cioè del divenire, ma anch’essi si costituiscono come divenire, come sparizione nel proprio altro. Si è qui voluto mettere in risalto il fatto che l’essere e il nulla acquisiscono la loro sussistenza soltanto in un terzo, cioè nel divenire. In altri termini, l’essere e il nulla non sussistono per sé, ma soltanto nel divenire, o meglio, soltanto come divenire. Il loro immediato perdersi assume la forma di una trasformazione logica: tanto l’essere quanto il nulla si trasformano nel divenire. Per questa ragione nel divenire esiste la loro differenza che li costituisce, ma come abbiamo detto, lo stesso divenire sarebbe un concetto insensato senza la distinzione tra l’uno e l’altro. È nel divenire, che l’essere e il nulla sono come diversi: il divenire è solo in quanto essi son diversi. Un tal terzo (dies Dritte) è un altro (ein Anderes) che l’essere e il nulla. Dir che questi sussistono solo in un altro, è dire insieme che non sussistono per sé […] Vale a dire che il loro sussistere non è che il loro essere in uno. È appunto questo loro sussistere, che toglie insieme la loro differenza.27

E poi: L’unità, i cui momenti, l’essere e il nulla, sono come inseparabili, è in pari tempo distinta da quei momenti stessi, e costituisce così contro di essi un terzo (ein Drittes), che nella sua più particolar forma è il divenire.28

Secondo l’interpretazione di Gadamer, la categoria del divenire ha una struttura di passaggio da qualcosa a qualcos’altro. E dunque l’essere e il nulla sarebbero momenti di questa struttura o, più precisamente, la sua pos25 Cfr. HW 5 L I, p. 83; SL I, p. 71. 26 È la tesi di Gadamer: “Essere e nulla debbano allora essere trattati piuttosto come momenti analitici nel concetto del divenire” (H. G. Gadamer, L’idea della logica hegeliana, cit., p. 113). 27 HW 5 L I, p. 95; SL I, p. 82. 28 HW 5 L I, p. 97; SL I, p. 83.

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sibilità. Questo modo analitico di pensare dice che occorre che vi sia un punto di partenza e un punto di arrivo perché avvenga un qualche passaggio “da-a”29. Ma l’essere e il nulla non sono il punto di partenza di un movimento lineare, per cui non si tratta di fatti di un passaggio “da-a”. L’essere e il nulla sono piuttosto il loro continuo passare l’uno nell’altro, trasformazione in quanto la pura struttura del passare nell’altro. Pensare il divenire come passaggio “da-a” lascia troppa autonomia ai momenti del passaggio non accentuando ciò che è qui fondamentale: il loro Verschwundensein. È vero però che si tratta di una struttura differenziabile, dove i momenti analiticamente differenziati (essere e nulla) fungono da possibilità astratta del divenire, per cui Hegel, nell’ordine dell’esposizione, comincia dall’essere e dal nulla e non direttamente dal divenire. Se l’essere e il nulla sono veramente indistinti e inseparabili e la distinzione arriva soltanto in guisa di una riflessione o a partire da qualcosa di terzo – il divenire – si può quindi veramente parlare di un terzo e di una triade all’inizio della logica? Se è vero che la distinzione dell’essere e del nulla presuppone qualcosa di terzo e originario, è vero anche che questo terzo presuppone la distinzione in due, cioè presuppone sempre quella riflessione estrinseca che divide l’unità originaria e inscindibile. La stessa figura di terzo è un risultato della riflessione30, cioè l’originario diventa il terzo soltanto nella riflessione. Hegel non perde occasione per ribadire: Ora, dovunque e comunque si parli di essere o di nulla, vi dev’essere sempre questo terzo; perocché quelli non sussistono per sé, ma son soltanto nel divenire, in questo terzo.31

Il divenire è dunque la pietra di paragone e il luogo dove si costituisce la differenza tra l’essere e il nulla, ma allo stesso tempo, attraverso la ca29 Cfr. H. G. Gadamer, L’idea della logica hegeliana, cit., pp. 114-115. 30 Qui rimandiamo più avanti al capitolo “La riflessione e il terzo incluso nella contraddizione”. 31 HW 5 L I, p. 97; SL I, p. 83. Nella prima edizione della Seinslehre si nota questo brano: “es muß erst ein Drittes hinzukommen, welches den Übergang bewirkt. Durch die Einmischung der Bedingung werden also Sein und Nichts auseinander gerückt, und ein Drittes, das ausser ihnen fällt, für ihre Beziehung gefodert“ (L 1812, p. 55). Il terzo qui viene visto piuttosto come una condizione del passaggio. E sembra che la necessità del terzo non sia solo una necessità genealogica, bensì esteriore, riflessiva, come se l’essere non possa passare da se stesso nel nulla, e la condizione di questo passaggio deve essere qualcos’altro rispetto a Setzenden desselben – un terzo termine intromesso.

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tegoria del divenire, viene vanificata una loro eventuale autonomia e separazione, affermandone invece l’unità. Nel divenire l’essere e il nulla sono diversi e si differenziano soltanto come momenti della stessa unità, dell’unità del passaggio dell’uno nell’altro. Nel divenire l’essere e il nulla sono altrettanto uniti. Hegel a tal proposito afferma che il terzo di cui si discorre possiede varie figure empiriche32 che forniscono la prova contro l’illegittimo astrarre e il fissare i momenti del divenire, cioè dell’essere e del nulla. L’esistenza empirica chiamata in causa da Hegel sta a significare l’essere determinato che si palesa come unità degli inseparabili. A questo terzo nella figura empirica, cioè il terzo concretizzato e determinato come un ente (l’ente appunto come risultato del divenire), la riflessione che separa l’essere dal nulla non presta attenzione. La riflessione urta contro la verità del divenire perché separa l’inseparabile e rompe l’unità. La mossa di Hegel non si limita però a contrapporre la riflessione alla verità – per cui il discorso della verità deve escludere ogni forma della riflessione – perché così si ricadrebbe in una nuova separazione estrinseca (ora tra verità e riflessione). Il punto è dimostrare come la riflessione si rivolga contro di sé, come si pieghi in sé per “mostrare in lei stessa il suo altro”33. La riflessione, cioè, separa l’essere dal nulla, ma questa separazione si rivela contraddittoria, perché solo grazie alla separazione, ossia all’astrazione dell’essere da tutt’altro, l’essere si dimostra come identico al nulla. La separazione riflettente dell’essere dal nulla è dunque il primo passo per riconoscere la loro unità speculativa. Il punto della maggiore distanza è anche il punto del ribaltamento nell’unità tra i punti separati e distanti. La strada imboccata da Hegel non è quella di un semplice rifiuto della riflessione che scinde, ma piuttosto la sua radicalizzazione, perché in tal modo la riflessione deve giungere all’orizzonte speculativo come proprio orizzonte occultato. Si può dunque vedere come seguendo la contraddizione interna della riflessione si giunga infine allo speculativo e, contemporaneamente, al primo postulato dell’inizio della logica: l’identità assoluta dell’essere con il nulla. Questa acquisizione coincide con l’autosoppressione della riflessione stessa, che passa nello speculativo, cioè nel sapere puro. In questo modo la riflessione stessa viene coinvolta nella logica del-

32 “Ma questo terzo ha varie figure empiriche, che l’astrazione mette da parte o trascura, al fine di fissare ciascuno per sé quei suoi prodotti, l’essere e il nulla, e mostrarli come garantiti contro il passare” (HW 5 L I, p. 97; SL I, p. 83). 33 HW 5 L I, p. 97; SL I, p. 84.

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la transitività34. Essa viene però coinvolta in quanto si dà la legge della propria distruzione, come diceva il giovane Hegel. La riflessione deve esperire in sé il passare e per certi versi deve inverarsi appunto come questo passare nel proprio altro, cioè nella speculazione. Possiamo dunque notare che all’inizio della Logica – dove ci sembrava che Hegel, affermando che la differenza tra l’essere e il nulla è soltanto “opinata” e “riflessa”, tornasse indietro e per un attimo riprendesse la differenza fenomenologica tra la verità e il sapere – si stabilisce invece un’affinità tra la riflessione (il terzo soggettivo) e il divenire (il terzo oggettivo), a patto che quella prima si “ontologizzi”. La riflessione, come luogo della differenziazione e dell’opposizione dell’essere e del nulla, deve passare nel proprio altro, nella speculazione, deve diventare “il divenire” e ottenere così il proprio Grund ontologico. Lo Standpunkt del terzo, dunque, coinvolge sia la riflessione sia il divenire nella logica del passare nel proprio altro. Abbiamo i due giudizi, le due proposizioni del cominciamento puro: “l’essere e il nulla sono la stessa cosa” e “l’essere è il passare nel nulla e il nulla è il passare nell’essere”. A differenza del primo, quest’ultimo giudizio afferma il passaggio dell’uno nell’altro e riguarda perciò la genesi, il processo, è una certa, e molto rudimentale, differenziazione dell’uno dall’altro. La prima affermazione dell’unità immediata è anch’essa un’affermazione immediata che proviene dallo scacco della riflessione, nel determinare l’essere e il nulla. Per certi versi questa affermazione corrisponde all’incipit del paragrafo sull’essere, non a caso espresso come un anacoluto: “Essere, puro essere – senza nessun’altra determinazione”. Pertanto sarebbe meglio precisare e dire che mentre “l’essere e nulla sono la stessa cosa” è un’espressione35, “l’essere passa nel nulla, e viceversa” è una proposizione36 e, dunque, un giudizio che articola implicitamente il diveni34 Per Arndt l’immediatezza indeterminata del cominciamento logico conta come momento della riflessione. Il movimento dell’essere puro, come substrato privo di determinazioni (bestimmungslosen Substrat), è anche il presupposto fondamentale della riflessione stessa. La differenza tra l’andamento della cosa stessa (Gang der Sache selbst) e la riflessione estrinseca viene posta all’interno di un Reflexionsprozess, un processo della riflessione che non viene mai abbandonato. Anche la differenza della riflessione rispetto all’immediatezza indeterminata (Arndt lo definisce come “die Nichtbeziehung von Unmittelbarkeit und Reflexion”) è iscritta nella riflessione. Cfr. A. Arndt, Die anfangene Reflexion, cit., pp. 136-138. 35 “In effetti, una tale determinazione speculativa non si può esprimere correttamente nella forma di una tale proposizione; l’unità deve essere colta nella diversità che è, al tempo stesso, presente e posta” (HW 8 E I, p. 191; ESF I, p. 267, §88). 36 Nell’edizione del 1812 abbiamo anche un progressivo togliersi della forma della proposizione. La prima proposizione dice: l’essere è l’Assoluto. Siccome anche

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re, che esprime in fin dei conti la differenza tra l’essere e il nulla. La tensione presente tra questi due giudizi (“l’essere è uguale al nulla” e “l’essere passa nel nulla”) porta all’ulteriore determinazione dell’essere. La vera mossa sta in questa prima scintilla della determinatezza e pertanto si gunge alla domanda: come dall’indeterminatezza si arriva al determinato? O ancora, come dal punto in cui l’essere è identificato con il nulla si arriva alla visione non statica, in cui l’essere passa, o meglio, è già passato nel nulla? Come fondare l’ontologia della differenza tra l’essere e il nulla? La risposta di Hegel va forse colta nella seguente affermazione: “Poiché l’essere vien posto soltanto come immediato, il nulla vi prorompe (bricht hervor) solo immediatamente”37. Ciò vuol dire che il passaggio originario dell’essere e del nulla, l’uno nell’altro, non è ancora una relazione vera e propria. Il fatto che il nulla emerga immediatamente, o prorompa – come dichiara Hegel –, indica un rapporto senza rapporto, una relazione che non implica (ancora) la differenza determinata tra i termini del rapporto; si tratta piuttosto di una rottura, da cui nasce il rapporto e la differenza in quanto tale. Se comunque il puro essere, da cui sorge immediatamente il nulla, si può spiegare in termini di rapporto senza rapporto, allora non si ha forse a che fare con un’autorelazione? Hegel infatti definisce il puro essere come astratto rapporto a sé, come una semplice uguaglianza con se stesso che comporta un’indifferenza rispetto all’altro. Per essere più precisi, Hegel dirà che, in quanto indeterminato, l’essere è uguale soltanto a se stesso, ma è anche “non inuguale” (nicht ungleich)38 rispetto ad altro. La doppia negazione con cui Hegel esprime questo nuovo carattere strutturale dell’essere – “non inuguale”, anziché limitarsi a dire “uguale” all’altro – svela già un barlume di tensione, ma anche una via d’uscita dalla mera immedesimazione con sé. L’essere non è semplicemente uguale ad altro, ma piuttosto non inuguale, e questa non ineguaglianza, in virtù della sua forma negativa, deve tradursi nella l’Assoluto è l’essere, e la differenza tra di essi è persa, viene formulata la seconda proposizione che dice “l’essere è l’essere”. Togliendo la tautologia, che non dice nulla, cioè non aggiunge niente, si ha la terza proposizione, senza alcun predicato: “l’essere c’è”. Alla fine rimane soltanto un’esclamazione (Ausruf): “Reines Sein”, il puro e mero essere, un’espressione non proposizionale, priva di ogni predicato (“satzlos ohne Behauptung oder Prädikat”). Il continuo perdersi del predicato superfluo e inutile, la riduzione dell’eccesso proposizionale, ci porta alla pura affermazione che tutto il significato sta nel soggetto dell’enunciato, cioè nell’essere. È il momento in cui esso immediatamente trapassa nel nulla. Cfr. L 1812, p. 52. 37 HW 5 L I, p. 104; SL I, p. 90. 38 Cfr. HW 5 L I, p. 82; SL I, p. 70.

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differenza. Pertanto, l’essere non può rimanere lo stesso e stare presso di sé; già la sua struttura pura e astratta e la sua condizione di essere non disuguale di fronte ad altro rompono l’auto-uguaglianza e qualcos’altro (il nulla) così deve prorompere immediatamente dalla sua identità di sé con sé. L’essere viene irrimediabilmente aperto e ci si trova ormai fuori dall’essere puro e ciò grazie alla sua uguaglianza con il nulla e in virtù della sua stessa indifferenza che prima lo teneva soltanto in rapporto con se stesso, allo stato dell’essere compatto parmenideo39. Dall’uguaglianza con sé, attraverso la non ineguaglianza rispetto ad altro, si arriva all’uguaglianza tra l’essere e il nulla: il punto di questa uguaglianza è anche il punto della loro differenziazione e determinazione40. Si è scoperta un’alterità ancora indeterminata in seno all’essere stesso, per cui esso passa necessariamente nel suo opposto e cioè diventa il proprio opposto. Quest’alterità immanente, però, non ha diritto a un’alterità autonoma, determinata e separata dall’identità presso la quale sussiste. L’essere non è “né più né meno che nulla”41, ma il nulla stesso, una volta emerso, non è né più né meno che l’essere. “Il nulla è” diventa “il nulla è l’essere”. Il nulla che irrompe dall’essere rompe simultaneamente l’auto-identità del nulla con se stesso perché viene a stabilirsi l’identità immediata con l’essere. Il nulla non è ancora posto, nell’essere, benché l’essere sia essenzialmente il nulla, e viceversa. Non si può quindi ammettere che si applichino qui delle mediazioni più determinate, e che si prendano l’essere e il nulla in un qualche rapporto – quel passare (Übergehen) non è ancora un rapporto (kein Verthältnis).42

Se il passare dell’essere e del nulla l’uno nell’altro non è ancora un rapporto (Verhältnis), allora non può trattarsi, a rigore, neanche di un passaggio43. Hegel è, per questa ragione, spinto a dire che l’essere è già passato 39 Se lo stato dell’essere puro è, secondo Hegel, caratteristico della posizione parmenidea (Cfr. HW 5 L I, p. 98; SL I, pp. 84-85), il passaggio al nulla implica l’andare oltre Parmenide, verso Eraclito. Hegel suggerisce l’insostenibilità dell’ontologia parmenidea perché questa non riconosce lo sbocco interno all’essere puro, per cui esso immediatamente passa nel suo contrario, e in questo passare si muove. Si veda L. Lugarini, Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere, Milano, Guerini e associati, 1998, pp. 166-169. 40 “L’essere e il nulla son lo stesso. Appunto perché son lo stesso, non son più l’essere e il nulla, ed hanno una determinazione diversa” (HW 5 L I, p. 115; SL I, p. 102). 41 HW 5 L I, p. 83; SL I, p. 70. 42 HW 5 L I, p. 109; SL I, p. 95. 43 Come nota giustamente R. Morani, se l’immediata reciprocazione dell’essere e del nulla fosse un rapporto oppositivo e determinato, non varrebbe più il modello

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nel nulla e viceversa. “Esser già passato”44 significa arrendersi di fronte al fatto che l’occasione di cogliere la differenza effettiva tra l’essere e il nulla è già persa; è un “esser già perso”. Non possiamo testimoniare il passaggio dell’uno nell’altro. Dalla sola struttura dell’essere e del nulla concludiamo che il movimento è già accaduto e che esso si trova all’origine cui tuttavia non possiamo attingere. Il momento originario del passaggio è perso, però il passaggio in quanto tale si mantiene come fondamento di ogni determinazione. È attraverso lo Übergehen che si acquisisce la determinazione: il passare nel proprio altro, cioè il mostrarsi come l’altro da sé, è la forza determinante che rende possibile ogni determinazione. Questa possibilità, però, è a sua volta resa possibile da quell’impossibilità iniziale di attingere all’origine del passaggio dell’essere e del nulla l’uno nell’altro, per cui “il già accaduto” del passaggio è una (ri)costruzione del passato, qualcosa di già successo ma mai esperito, di accaduto ma subito represso: tutta questa ricostruzione del passato lascia il presente sempre aperto nella sua propulsione determinante. Il Nullpunkt della dialettica dell’essere è il momento impossibile (da cogliere), ma altrettanto necessario come origine della possibilità delle determinazioni dell’essere. Una proiezione di ciò che è impossibile e allo stesso momento necessario si palesa come atto costituente del cominciamento; il cominciamento come vuoto e immediato deve cioè costituirsi sulla base di un passaggio immediato, già accaduto e sempre perso. Si tratta del capovolgimento nel proprio altro, inteso come divenire l’altro da sé, per cui siamo già, sin dall’inizio, diventati l’altro da sé. Lo Übergehen sta all’origine perché l’origine stessa è un “essere già passato”, una perdita costituente e l’impossibilità possibilitante. Grazie a questo atto originario del passare accaduto diventa assai inopportuno parlare della sintesi. Abbiamo già visto come Hegel non sia affatto soddisfatto dall’uso della parola “unità” quando si tratta di descrivere il divenire e l’inseparabilità tra l’essere e il nulla, e che lo stesso vale anche del passare in altro (Übergehen in Anderes), proprio della logica dell’essere, ma quello riflessivo dell’apparire in altro (Scheinen in Anderes) che caratterizza la logica dell’essenza. L’unica forma del “rapporto” che permette la logica dell’essere è un immediato passare nell’altro. R. Morani, Del doppio inizio della logica hegeliana, in “Annuario filosofico”, n. 28, 2012, p. 368. Cfr. anche D. Henrich, Hegel im Kontext, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1988, pp.77-78 e pp. 81-82. 44 Qui forse possiamo domandarci: non è la logica dell’essenza (Wesen) un ulteriore determinarsi di questo “esser già passato” (gewesen)? Non è l’esito della logica dell’essere un’affermazione definitiva della nullità della transitività e del passare che, nonostante tutti i passaggi, non è riuscita a porre l’essere a fondamento, all’origine, di modo che tutto ciò che rimanga alla fine è la negatività del puro “esser già passato” dell’essere?

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per il concetto di sintesi. Ciò nonostante Hegel si concede, a questo punto e giusto in un paio di occasioni, l’uso del termine “sintesi immanente” (die immanente Synthesis): “Il divenire è questa sintesi immanente dell’essere e del nulla”45. La sintesi non va qui intesa kantianamente, si tratta piuttosto di sintesi nel senso di generazione. L’essere è generato dal e nel nulla e il nulla è già sin dall’inizio generato nell’essere. In questo senso, sia l’uno sia l’altro sono generati, cioè sintetizzati, nella loro differenza immanente. Hegel però non perde occasione per ribadire nuovamente: Ma siccome alla sintesi si annette soprattutto il senso di una raccolta estrinseca di tali che siano dati reciprocamente estrinseci, così a buon diritto il nome di sintesi o di unità sintetica fu messo fuori d’uso.46

L’essere e il nulla non sono dati estrinsecamente, per cui non c’è motivo di cercare un loro punto di sintesi altrove, fuori di essi. Essi non si congiungono come il soggetto e il predicato di un giudizio; piuttosto si potrebbe dire che l’essere e il nulla, nella loro unità, rappresentano la copula del giudizio prima di ogni giudizio. Essi stessi sono la congiunzione originaria. Il termine “sintesi immanente” mira appunto a esplicare questo punto. L’essere e il nulla necessitano un terzo e il divenire è il loro tertium datur, nel senso che esso è il modo in cui si danno tanto l’essere quanto il nulla. L’essere è già sintetico, e si dà come sintesi immanente, e altrettanto il nulla. La dialettica dell’essere e del nulla dimostra, sul piano dell’immediatezza, che ogni polo dell’opposizione è già costituito come proprio altro. In tal modo Hegel supera la semplice logica di complementarietà degli opposti47, per cui un opposto sarebbe la esclusione del suo altro, nel senso di essere definito come ciò che manca all’altro, ciò che l’altro non è e 45 HW 5 L I, p. 100; SL I, p. 87. 46 Ibidem. E anche: “La sintesi, che è qui in giuoco, non si deve intendere come un collegamento di determinazioni che sian già date estrinsecamente. Da un lato si tratta anzi della generazione di un secondo in aggiunta a un primo, cioè di un determinato in aggiunta a quell’indeterminato che si era preso come cominciamento; dall’altro lato poi si tratta della sintesi immanente, della sintesi a priori, ossia di quella che è in sé e per sé l’unità dei diversi” (HW 5 L I, p. 100; SL I, pp. 86-87). 47 Cfr. J. Lampert, Limit, Ground, Judgment... Syllogism: Hegel, Deleuze, Hegel, and Deleuze, in K. Houle, J. Vernon (a cura di), Hegel and Deleuze. Together Again for the First Time, Evanston, Northwestern Uni. Press, 2013, pp. 183- 203 (“Hegel’s dialectic is not about complementarities. For Hegel, contradiction arises not because there is something else on the other side ready to attack, but because each thing is already taking off in a different direction”, Ivi, p. 202).

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non può essere, e di modo che l’altro debba e possa “rimediare” alla propria mancanza soltanto unendosi con il suo opposto. Secondo tale logica si arriverebbe dunque a un’unità degli opposti soltanto sulla base del reciproco completamento e integrazione degli opposti complementari; il procedimento di Hegel è invece ben diverso. L’unità non è completamento o integrazione, ma ri-costituzione di ogni membro dell’opposizione, cioè di ogni polo estremo della relazione, come qualcosa che è già il suo opposto. Il momento dell’unità non sta a significare perciò un semplice ritorno a se stesso, ma piuttosto un’ulteriore affermazione della differenza, dell’alterità di sé presso di sé. Questa argomentazione è rilevante alla luce della terzietà. Il dualismo degli opposti viene sì eliminato (beseitigt) e dissolto (auflöst), ma ciò non avviene attraverso l’integrazione in qualche terzo trascendente e sovrastante che ingloba e domina i membri dell’opposizione. Il superamento dell’Entzweiung, della scissione, avviene attraverso una specifica sorta di Übergang, di reciproco passare di ogni estremo opposto nel suo opposto. La terzietà sta proprio in questo passaggio immanente del divenir-altro. Si potrebbe dire che il terzo, rispetto ai due separati, costituisce la loro dialettica interna, e che risolve sia la loro contrapposizione sia la loro immediata identità con se stessi. Dunque il momento sintetico, comunemente identificato come un terzo rispetto al primo tetico e il secondo antitetico, non è nient’altro che il passare dialettico48 del primo e del secondo l’uno nell’altro. Diventa da ciò chiaro che la cosiddetta sintesi – prendendo il suo concetto sempre con cautela come indicava Hegel – non è una sorta di tesi allargata che comprende in sé l’antitesi, bensì una trasmutazione nell’alterità, l’interiorizzazione della differenza49 dall’altro come ciò che è costitutivo per l’identità stessa. Anzi, si potrebbe dire che l’interiorizzazione della differenza dall’al48 “Noi chiamiamo invece dialettica il superior movimento razionale, dove tali, che sembrano assolutamente separati, passano l’un nell’altro per se stessi, mediante quello appunto ch’essi sono, e dove la supposizione del loro essere separati si toglie via. È appunto l’immanente natura dialettica dell’essere e del nulla, ch’essi mostrino la loro unità, il divenire, qual lor verità” (HW 5 L I, p. 111; SL I, p. 97-98). 49 Se ogni determinazione presa per sé è mancante rispetto all’altro, questa mancanza non si può redimere in un atto di compensazione e di ristabilire l’equilibrio esterno tra due entità mancanti. Sarebbe più giusto dire che secondo la logica hegeliana la mancanza (cioè la differenza dall’altro) non è completata o compensata, ma interiorizzata. Sulla questione della mancanza interiorizzata (der Mangel “verinnerlicht”) nella interpretazione post-strutturalista lacaniana, con i riferimenti alla dialettica hegeliana, rimandiamo a S. Žižek, Die Logik des Signifikanten. Das Reale der “Triade”, in Id., Der erhabenste aller Hysteriker. Psychoana-

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tro si pone a garanzia del fatto che l’altro non sarà abolito nella sua differenza, ma dovrà anch’esso differenziarsi. Ogni elemento si differenzia da sé diventando l’altro da sé. La categoria logica del divenire svolge esattamente questo compito e rappresenta perciò il vero e primo terzo della logica hegeliana50. Per dirla più precisamente: il terzo è allo stesso tempo il primo terzo e anche il terzo Prius (dopo l’essere e dopo il nulla). L’unità del divenire non può essere un’unità inglobante, il terzo non sopraffà l’essere e il nulla, eppure Hegel afferma che il divenire contiene l’essere e il nulla, ossia che l’essere e il nulla sono uniti nel divenire, ma soltanto come tolti (aufgehoben), come momenti di una tale unità. Come abbiamo visto, però, questi momenti sono costitutivi del divenire, perché “il divenire, come tale, non è che in forza della loro diversità”51. Diventare il momento dell’unità vuol dire essere mediato proprio attraverso quel processo del divenir l’altro. L’essere che passa nel nulla, e viceversa, ottiene così la prima determinazione, si costituisce attraverso la differenza con il proprio altro e l’unità che si stabilisce non è nient’altro che questo farsi identico. Quando si prendono secondo questa loro distinzione, ciascuno è in essa come unità coll’altro [corsivo nostro]. Il divenire contiene dunque l’essere e il nulla come due unità tali, che ciascuna è essa stessa unità dell’essere e del nulla; l’una è l’essere come immediato e come relazione al nulla; l’altra è il nulla come immediato e come relazione all’essere.52

Il divenire è dunque costituito da due unità. Questo paragrafo merita un’attenzione particolare, perché spiega in modo chiaro come l’unità non sia affatto un concetto mirato a (rac)chiudere le differenze dentro un’entità monistica. Il paradosso dell’espressione hegeliana sta nel tentativo di superare l’Entzweiung attraverso una sorta di Entzweiung della stessa unità delyse und die Philosophie des deutschen Idealismus, Wien-Berlin, Turia und Kant, 1992, pp. 88-89. 50 Dire che il divenire è il terzo non significa soltanto che al divenire si acceda dopo che l’essere e il nulla vengono presentati nella loro instabilità e impossibilità di stare da soli. D’altra parte, concepire il divenire come il terzo non toglie niente al suo status di prius. Anzi, il fatto che il divenire debba darsi come il terzo è una conseguenza della sua originarietà e, per di più, dell’impossibilità di avere qualcosa di originario direttamente all’inizio. La terzietà del divenire dunque non riguarda soltanto l’ordine dell’esposizione, ma ha anche un tenore ontologico nel senso che ontologicamente il prius è possibile soltanto come il terzo, oppure come il terzo Prius, come la conseguenza del reciproco implicarsi ed eliminarsi dell’essere e del nulla. 51 HW 5 L I, p. 113; SL I, p. 99. 52 HW 5 L I, p. 112; SL I, p. 98.

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gli opposti. Lo sdoppiamento dell’unità non mira in nessun modo al ristabilimento del dualismo – “nemico” assai tenacemente combattuto da Hegel. D’altronde, questa soluzione serve proprio a respingere e escludere l’imposizione dell’unità e così a uscire definitivamente dalla logica dell’identità coatta e dalla “violenza della sintesi”. Il disgiungere l’unità in due unità, contenutesi nel divenire, trasfigura lo stesso rapporto di differenza tra le due. Si tratta dunque dell’Aufhebung della stessa rottura, del superamento dell’Entzweiung, che viene ricostruita a un altro livello. Secondo Hegel, l’unità dei due separati è possibile soltanto attraverso lo sdoppiamento della stessa unità, attraverso la relazione con l’altro. Se si intendesse altrimenti questo punto, ne risulterebbe qualcosa che Hegel non intende affatto: l’unità sintetica come una sorta di fusione o di integrazione dei due opposti che si uniscono. La trasmutazione dei due, attraverso il passare dell’uno nell’altro, significa invece costruzione dell’unità presso se stesso. Ogni membro della relazione duale deve cioè costruirsi presso se stesso come un’unità con l’altro e, come dice Hegel, l’essere si è appunto mostrato come l’unità con il nulla e il nulla diventa così l’unità di se stesso e dell’essere. In questo modo, il dualismo viene eliminato, la dualità viene dileguata, e nonostante ciò riemerge ricostituita. Ogni membro della relazione si ricostituisce come unità negando se stesso, lasciando come risultato le due unità come una forma duale senza dualismo, dove il momento del terzo, cioè l’unità di se stesso e del proprio togliere, è coesistente alla forma duale. Da entrambe le parti, rileva Hegel, deve accadere un togliersi intrinseco e per mezzo di esso una ricostituzione dell’unità attraverso il divenire il proprio contrario53. Con il raddoppiamento del processo dell’auto-relazionarsi, a partire da cui si costruisce la doppia unità, riemerge anche la differenza (tra queste due unità), sebbene ora non si tratti più della differenza tra due separati da un abisso, bensì della differenza tra due unità con il proprio altro. Il divenire, svolgendo la funzione del terzo, è il momento della differenza tra le due unità. Siccome l’essere e il nulla, in quanto unità con il proprio opposto, trovano il loro posto soltanto nel terzo, nel divenire, questo divenire viene infine raffigurato come momento sintetico della differenza tra le due unità. Soltanto con questo momento sintetico la differenza è veramente riconosciuta. 53 “Non è che l’uno di essi tolga via, in maniera estrinseca, l’altro; ma ciascuno si toglie via in se stesso, ed è in se stesso il suo proprio contrario (das Gegenteil seiner)” (HW 5 L I, p. 112; SL I, p. 99). La logica è sempre quella dell’Aufhebung: “Qualcosa è tolto (aufgehoben) solo in quanto è entrato nella unità col suo opposto (mit seinem Entgegengesetzten)” (HW 5 L I, p. 114; SL I, p. 101).

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Il termine “unità”, come è solito dire Hegel, è una parola sfortunata, per cui spesso preferisce utilizzare il termine “inseparabilità” (Ungetrenntheit). Tutta la logica del cominciamento ruota intorno al nodo composto dai due termini – “inseparabilità” e “il passare”. Entrambi i termini mettono in evidenza il divenire e ne definiscono la terzietà. “Il divenire è inseparabilità dell’essere e del nulla”54 e ancora, “passare è lo stesso che divenire”55. L’inseparabilità rischia di essere vista come una fusione indifferenziata e statica dell’essere e del nulla, per cui il termine dinamico di Übergehen interviene per indicare come il divenire si costituisca non come passaggio dall’uno all’altro, ma per lo più come passare dell’uno nell’altro, e viceversa. Il passaggio diventa così qualcosa di più della mera transizione, diviene trasmutazione, il divenir altro. Il passare dell’uno nell’altro deve confermare tanto l’inseparabilità dell’uno dall’altro quanto la loro distinzione. Se invece il passaggio fosse concepito come passare dall’uno all’altro (anziché l’uno nell’altro), allora il divenire verrebbe immaginato come qualcosa che accade tra l’essere e il nulla (Übergehen als zwischen ihnen geschehend)56 e di conseguenza anche l’essere e il nulla verrebbero immaginati come “quieti uno fuori dell’altro”. Quest’immagine sarebbe però il risultato di una riflessione estrinseca, la quale non ha ancora incontrato la speculazione del concetto. Al posto di quella subentra il ragionamento secondo il quale l’inseparabilità immanente e la coappartenenza dell’essere e del nulla sono concepibili soltanto nella “sfrenata inquietudine”57 del divenire (haltunglose Unruhe). La logica hegeliana, a forza di propulsione determinante del concetto, prevede anche il dileguare del divenire. L’interna contraddizione, causata dallo sdoppiamento dell’unità indeterminata in due unità moventesi (l’essere è il divenire e diventa il nulla, e il nulla è il divenire e diventa l’essere), le quali costituiscono il divenire come una struttura duale, si manifesta ora come il nemico interno del divenire, come ciò che lo fa dileguare. Il divenire, infatti, non è niente senza l’essere e senza il nulla che passano contemporaneamente l’uno nell’altro. L’essere nasce quando il nulla perisce e viceversa, ma nel momento in cui l’essere e il nulla spariscono anche il divenire deve sparire. Hegel finisce, dunque, per definire il divenire come lo sparire dello sparire (Verschwinden des Verschwindens). Siccome i due 54 55 56 57

HW 5 L I, p. 111; SL I, p. 98. HW 5 L I, p. 97; SL I, p. 83. Ibidem. HW 5 L I, p. 113; SL I, p. 99.

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momenti costitutivi del divenire spariscono, il loro sparire è anche lo sparire del divenire. È la stessa struttura immediatamente negativa propria del divenire che lo fa sparire58. Il divenire si contraddice dunque in se stesso (widerspricht sich also in sich selbst), poiché unisce in sé quello che è contrapposto (entgegengesetzt) a se stesso; ma una tale unione si distrugge.59

L’unione che costituisce il divenire è dunque insostenibile, e si distrugge da se stessa, implode e precipita in qualcos’altro. Sparendo, tuttavia, il divenire non diventa il nulla, non si riduce a un suo momento superato, ma si determina ulteriormente. L’essere sparito (Verschwundensein) non è un mero puro Nichts, il momento costitutivo del divenire stesso, ma è un annullamento del divenire, dunque qualcosa che è già determinato. Non si ritorna al momento già tolto, ma si prosegue con il togliere del togliere. Il divenire “precipita in un risultato calmo”60 e diventa “un’unità quieta” ossia “una quieta semplicità”, vale a dire, l’essere determinato (Dasein). Il divenire finisce per implodere e conduce nuovamente all’essere, però determi58 Su questo importante aspetto insiste giustamente S. Houlgate. Nella sua critica ad alcune interpretazioni, tra le quali quella di Gadamer, che a suo dire non riescono a spiegare il passaggio dal divenire all’essere determinato – a meno che non assumano il fatto che il divenire debba avere una qualità e dunque un qualche risultato – Houlgate propone una derivazione immanente dell’essere determinato e il suo provenire logico dal divenire. L’essere determinato è risultato di un collasso immanente del divenire, la cui struttura logica si poggia sulla differenza assoluta tra l’essere e il nulla. Questa differenza però emerge nel momento in cui sparisce – proprio nel divenire. Il passare dell’essere nel nulla, e viceversa, fa emergere la differenza immediata tra di essi, allo stesso tempo essi si mostrano però come indistinguibili, senza alcuna differenza. La stessa struttura del divenire è dunque per certi versi autonegante, destinata a decostruirsi da sola, essendo lo sparire della differenza tra l’essere e il nulla, anche il divenire a sua volta per forza deve sparire (una volta sparita la differenza in questione). Il risultato calmo e determinato dell’esserci è nient’altro che l’essere-sparito del divenire (Verschwundensein). In esso l’essere e il nulla sono spariti come momenti del passaggio (una volta sparito il divenire), e ora coesistono inseparabilmente nella loro differenza. Per Houlgate questo è anche il momento in cui la purezza dell’essere e del nulla è definitivamente persa. Cfr. S. Houlgate, The Opening of Hegel’s Logic. From Being to Infinity, cit., pp. 288-291. 59 HW 5 L I, p. 113; SL I, p. 99. Sul divenire come contraddizione pura dell‘essere e del nulla (nicht die Synthese von Sein und Nichts, sondern ihr reiner Widerspruch), cfr. O. D. Brauer, Dialektik der Zeit, Stuttgart-Bad Cannstatt, FrommanHolzboog, 1982, p. 117. 60 HW 5 L I, p. 113; SL I, p. 99.

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nato. L’essere determinato è semplicemente l’essere lasciato in pace, collocato al suo posto, senza la necessità di passare immediatamente nel suo opposto perché questo ora co-esiste con lui. Il divenire è soltanto un momento transitorio, il terzo che deve sparire61 per dar luogo al concreto, cioè a un risultato determinato – l’esserci come unità determinata dell’essere e del nulla. Il sorgere di questa unità determinata non implica che la differenza tra essere e nulla sia totalmente cancellata e che si sia trovata un’unità “più unitaria”, atta a soddisfare la pretesa di un’identità indifferenziata. Con l’esserci, come una nuova forma dell’unità dell’essere e del nulla, anche la loro differenza viene determinata ulteriormente. Nel divenire, come primo luogo della loro differenza e della loro concretizzazione, questa differenza era ancora primordiale e veniva fatta dipendere da una struttura che non regge nemmeno se stessa ed è destinata a precipitare. Tuttavia la caduta nell’esserci non distrugge il valore differenziale che il divenire aveva portato in superficie, anzi, si può dire che questo valore differenziale, che si è esibito nel rapporto tra l’essere e il nulla, è il motore che conduce il divenire ad auto-togliersi, affinché si trovi un nuovo luogo per la determinazione della stessa differenza. L’esserci, dunque, essendo proprio la nuova unità tra l’essere e il nulla, è anche il luogo della loro differenza altrimenti determinata: anche la differenza nell’esserci diventa una differenza calma. Quando il divenire è tolto, l’esserci appare come primo62. Per certi versi si torna indietro, al primo momento semplice da cui si è partiti, ma non si tratta più dell’essere puro ormai tolto, bensì dell’essere determinato, e cioè di una nuova forma dell’essere63. L’essere è recuperato, ma unilate61 Non sarebbe inopportuno chiamare in causa la nozione di vanishing mediator (si veda la nota 33, p. 109): il divenire unifica attraverso il raddoppiamento, di modo che ogni suo momento, cioè l’essere e il nulla, si costituisca a sua volta come un divenire, come unità automoventesi con l’altro. Vale a dire, il divenire, pur unendo i suoi momenti, rimane ancora scisso in sé, ed è perciò portato a precipitare e sparire insieme con i suoi momenti, con le due unità di cui è costituito. Il Verschwundensein è il necessario passaggio intermedio, “il ruolo” che il divenire deve eseguire per portare l’essere all’essere determinato. 62 La mediazione (Vermittlung), cioè il divenire, è rimasta indietro, “si è tolta, epperò l’essere determinato (Dasein) appare quale un primo (als in Erstes), da cui si prendan le mosse” (HW 5 L I, p. 116; SL I, p. 103). 63 “L’esser determinato od esserci corrisponde all’essere della sfera precedente. Ciò nondimeno l’essere è l’indeterminato, cosicché in esso non si manifestano verune determinazioni; l’esserci, invece, è un essere determinato, un concreto, epperò in esso si mostrano subito parecchie determinazioni, diversi rapporti dei suo momenti” (HW 5 L I, p. 117; SL I, pp. 104-105).

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ralmente: “L’esser determinato è dapprima nella determinazione unilaterale dell’essere”64. L’altro momento, il nulla, deve invece ancora manifestare la sua forza nell’unità con l’essere “altrimenti determinata”. All’inizio della Logica, in fin dei conti, non si ha una triade ma una quadruplicità: l’essere – il nulla – il divenire – l’esserci. I primi due momenti si possono considerare ancora analitici: l’essere, cioè, è ancora puro, senza il nulla e il nulla sembra senza essere. L’intento di Hegel è quello di dimostrare sin dall’inizio l’insostenibilità di una posizione che tenga l’essere e il nulla disgiunti. Questa separazione in due momenti reciprocamente escludenti si può perciò concepire soltanto come un’operazione analitica posteriore oppure come una proiezione di ciò che sarebbe stato prima65. Gli ultimi due momenti (il divenire e l’esserci) sono invece i momenti sintetici, perché rappresentano due forme dell’unione dell’essere e del nulla. Nonostante ciò, anche prima di questa unione determinata, esisteva già un’unità puramente logica e formale dell’essere e del nulla la quale scaturisce già sempre immediatamente dalla mancanza delle determinazioni (Bestimmungslosigkeit), dal fallimento, cioè, della riflessione, la quale non riesce a determinare l’essere in quanto tale e giunge così necessariamente ad affermare che l’essere non è nient’altro che il nulla66. A questo punto, l’essere e il nulla sono sì inseparabili, ma soltanto in quanto sono assolutamente vuoti. Se teniamo conto di questa prima forma logica dell’unità, allora abbiamo una triade composta di tre diverse forme dell’unità tra l’essere e il nulla: identità immediata e indeterminata dell’essere e del nulla, divenire ed esserci. Quel primo momento dell’equiparazione puramente formale che abbiamo visto, presenta una difficoltà: esso contiene necessariamente in sé i due momenti dell’unità e presenta quindi una differenza, seppur solo accennata e rudimentale. In ogni caso, però, solo dal divenire ha veramente inizio il comin-

64 HW 5 L I, p. 116; SL I, p. 103. Come scrive A. F. Koch, quando regna il nulla nella sua unione con l’essere, questa unione è in sé contraddittoria e ciò risulta con la dissoluzione del divenire (A. F. Koch, Sein-Nichts-Werden, in A. Arndt, C. Iber (a cura di), Hegels Seinslogik. Interpretationen und Perspektiven, Berlin, Akademie Verlag, 2000, p. 149). Quando però l’essere prende il sopravvento si astrae dalla contraddizione e compare l’esserci (Ivi, p. 150). 65 Adottando l’espressione di Koch, diciamo che l’essere e il nulla sono uno stato di cose originario pre-proposizionale (ein vorpropositionaler Ursachverhalt). Cfr. A. F. Koch, Sein-Nichts-Werden, cit., p. 156. 66 Si rimanda al testo già citato di W. Wieland (p. 181).

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ciamento; il divenire è una sorta di secondo inizio.67 Nell’Enciclopedia, ad esempio, il divenire è definito come “prima verità dell’assoluto”, nonché come “prima determinazione concreta”, “il primo concetto” e “prima vera determinazione di pensiero”68. Il terzo è dunque inaugurato come prima verità e, come abbiamo visto, questa prima verità si struttura come un passaggio puro, come una tensione e una processualità originaria che, in relazione all’essere e al nulla, si determina come passaggio dell’uno nell’altro. Ora è chiaro perché proprio il divenire rappresenti la categoria centrale dell’apertura della Logica. Hegel dice anche che il cominciamento, in quanto tale, è il divenire69 intendendolo come (in)cominciare, iniziare, tendere nell’essere e nel nulla, in mezzo tra il “già iniziato” e l’“ancora da incominciare”. Ma se il cominciamento è essenzialmente un incominciare, allora non si può mai dire quando il cominciamento è cominciato, si può dire che è già cominciato. Analogamente all’impossibilità di fissare il momento del passare del essere nel nulla, ci troviamo nuovamente di fronte alla natura paradossale del cominciamento: è impossibile determinare l’inizio del cominciamento stesso. Non c’è il cominciamento del cominciamento. Ogni tentativo in questa direzione si rivela infelice, poiché si ha sempre a che fare con una proiezione post factum; e il massimo che si può arrivare a dire è che il cominciamento, in quanto tale, è sempre “già cominciato” e continua a cominciare. Ciò garantisce il movimento di ogni determinazione logica, cosicché potremmo dire che nel luogo del cominciamento si decide il destino 67 Per quanto riguarda l’idea del secondo inizio in Hegel si veda L 1812, p. 51, dove il nuovo inizio è soprattutto inquadrato dalla questione del movimento del puro essere e dell’intervento della riflessione esterna che compensa la mancanza di impulsi e immobilità dell’essere; poi anche nella seconda edizione (cfr. HW 5 L I, p. 98; SL I, p. 85) il tema del secondo, nuovo inizio ricompare, sempre connesso al passaggio dall’essere al nulla, cioè, in termini storici, da Parmenide a Eraclito. L’essere parmenideo non può essere il cominciamento assoluto, perché la sua staticità esige un nuovo cominciamento, che si effettua attraverso l’intervento di qualcosa di estraneo dal di fuori: “Il progresso, che cioè l’essere è lo stesso che il nulla, ha quindi l’aspetto di un secondo, assoluto cominciamento” (Ibidem). Cfr. anche L. Lugarini, Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere, cit., pp. 169173, poi si veda M. Riedel, Erster und anderer Anfang. Hegels Bestimmung des Ursprungs und Grundes der Griechischen Philosophie, in H.-Chr. Lucas, G. Planty-Bonjour (a cura di), Logik und Geschichte in Hegels System, Stuttgart, Fromman-Holzboog, 1989, pp. 173-197. Sulla costituzione duale dell’inizio in Hegel e la sua irriducibile bilateralità, ma non nel rapporto tra l’essere e il nulla, bensì nell’intreccio tra l’essere come puro (vacuum esse) e l’essere come concetto in sé, si veda già citato R. Morani, Del doppio inizio della logica hegeliana, cit. 68 HW 8 E I, p. 192; ESF I, p. 268; §88 A. 69 Cfr. HW 8 E I, pp. 190-191; ESF I, p. 266; §88.

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dell’intero avanzamento delle determinazioni logiche. Anziché sostenere che il cominciamento cessa nel momento in cui il movimento si attiva, sarebbe più corretto affermare che il cominciamento dura durante tutto l’itinerario logico del pensiero. È dunque importante concepire il cominciamento stesso come un movimento, come un incominciare incessante. A tal proposito, chiedersi come nasca il movimento dell’essere e del nulla70 si rivela inesatto, e forse anche insensato, perché l’essere sin dall’inizio viene definito in termini di movimento. Il movimento, come accadimento del cominciamento, è sempre originario. L’essere, dunque, non deve essere mosso da un intervento esterno, come da una sorta di primo motore; l’essere, al pari del nulla, è il momento di quel movimento originario determinato poi come divenire. Il cominciamento è processuale in quanto tale, perché l’essere è già passato nel nulla e il nulla è sempre con l’essere, coincide con l’essere. Nella logica del terzo sono inclusi tutti i momenti costitutivi dell’inizio hegeliano: inseparabilità dell’essere dal nulla e il loro passare l’uno nell’altro. 2. Dalla triplicità alla quadruplicità Nelle pagine conclusive della Logica, quando il percorso delle determinazioni ontologiche giunge al punto in cui bisogna esplicare l’idea assoluta – “l’unico oggetto e contenuto della filosofia”, “la verità di sé conscia, ed è tutta la verità”71 – Hegel torna all’inizio, cioè riprende la trattazione del cominciamento. Questa scelta conferma l’immagine della circolarità, associata comunemente con la filosofia hegeliana: l’inizio e la fine coincidono, l’uno cade nell’altro e l’altro ricade nel primo. Bisogna però vedere di che tipo di “coincidenza” si tratta e di che tipo di circolarità. Il cominciamento da cui si è partiti e da cui la scienza filosofica deve partire, riemerge alla fine. Ma questo non implica affatto che ciò che era all’inizio – l’essere indeterminato e vuoto – riappare sotto le stesse condizioni e nella stessa forma. Il cominciamento si ritrova alla fine, nel senso che trova se stesso come cominciamento di qualcosa, essendo determinato dalla relazione con ciò di cui è il cominciamento. Il cominciamento non si dà per 70 È la domanda che prima è stata posta da Schelling e poi da Trendelenburg. Cfr. F. Trendelenburg, Logische Untersuchungen, Hildesheim, Olms, 1964. Secondo quest’ultimo il divenire non può nascere dall’essere e dal nulla, perché una loro unione deve essere altrettanto statica quanto l’essere e il nulla stessi. 71 HW 6 L II, p. 549; SL II, p. 935.

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essere abbandonato, ma per essere ritrovato. L’idea del cominciamento come “incominciare” trova qui la sua piena attuazione: il cominciamento non si arresta nel momento in cui è posta la prima categoria concreta della logica – il divenire – giacché, cominciando, il cominciamento si mantiene in tutte le forme e in ogni grado di ulteriore determinazione logica. Il cominciamento, in quanto esso stesso il divenire, si determina ogni volta quando una determinazione nuova inizia a operare72. Alla fine, il cominciamento si struttura come assolutamente determinato e mediato: il cominciamento conosce se stesso e il proprio essere cominciamento, perché ha avuto l’esperienza di tutto ciò che è già cominciato e già trapassato. Soltanto da queste premesse è possibile inquadrare l’orizzonte al quale si affaccia l’idea assoluta hegeliana. Dunque, come è noto e come si può facilmente concludere, l’avanzamento della logica è anche un tornare indietro. Ciò che era in origine si ritrova anche alla fine, perché ogni passo avanti è un passo in più verso l’origine (la determinazione progressiva è la fondazione regressiva). Così avviene che ogni passo del progresso nel determinare ulteriormente, mentre si allontana dal cominciamento indeterminato, è anche un riavvicinamento ad esso, e che perciò quello che dapprima può sembrare diverso, il regressivo fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo ulteriormente, cadono l’un nell’altro e sono lo stesso.73

Questo brano si collega a un altro che possiamo leggere nelle prime pagine della Logica: Bisogna riconoscere che è questa una considerazione essenziale (che risulterà poi meglio dentro la logica stessa) – la considerazione cioè che l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamento, all’originario ed al vero, dal quale quello, con cui si era incominciato, dipende, ed è, infatti, prodotto […] Quest’Ultimo, il fondamento, è poi allora anche quello da cui sorge il Primo, quel Primo che dapprincipio si affacciava come immediato.74

72 “Ma anche il divenire in sé e per sé è ancora una determinazione estremamente povera e deve approfondirsi e riempirsi ulteriormente in sé. Un tale approfondimento del divenire in sé lo troviamo, per es., nella vita […] Troviamo il divenire in forma ancora più alta nello spirito. Lo spirito è anche un divenire, ma un divenire più intenso, più ricco di quello semplicemente logico” (HW 8 E I, p. 193; ESF I, p. 269; §88 A). 73 HW 6 L II, p. 570; SL II, p. 954. 74 HW 5 L I, p. 70; SL I, p. 56.

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Ciò che si affaccia alla fine – l’Ultimo – è dunque nient’altro che il Primo a cui si è giunti, dunque il Primo che è posto, mediato. Al termine della Logica ciò che prima veniva ritenuto trovato ora si rivela come prodotto: è il presupposto iniziale a essere posto75. L’idea assoluta è dunque il cominciamento in quanto “posto”: inveramento dell’essere in forma di concetto. È per questo che l’andare avanti non è soltanto un’estensione, ma piuttosto un’intensificazione, un arricchimento dell’immanenza76. L’idea assoluta è perciò l’essere arricchito, l’essere che ristabilisce “il semplice riferimento a sé”, e anche “un essere pieno”, “il concetto che si concepisce, l’essere come concreta e insieme assolutamente intensiva totalità”77. Il ritorno all’inizio assume anche il compito di esporre il metodo che dall’inizio porta alla fine, e che dalla fine di nuovo rimanda all’inizio, questa volta posto. Tale strategia è giustificata dallo stesso ragionamento hegeliano secondo il quale il metodo non è separato dal contenuto. Esso si può esporre soltanto insieme all’autoesposizione del contenuto, ossia all’autoesposizione del concetto. Così, tutte le definizioni che Hegel fornisce riguardo al metodo (“logicità in generale”, “il concetto che conosce se stesso, che ha per oggetto sé come l’assoluto”, “il movimento del concetto stesso”, “la forza assolutamente infinita”, “la suprema potenza, o meglio l’unica ed assoluta potenza della ragione […] il suo supremo ed unico istinto, di trovare cioè e conoscere per se stessa se stessa in ogni cosa”, “l’essere in sé e per sé determinato del concetto”78 ecc.) contrassegnano una specifica e speculativa identità di soggettivo e oggettivo, di metodo in quanto insieme “maniera del conoscere” e “sostanzialità delle cose”. Il metodo non è un terzo intermedio che si interpone tra il soggetto e l’oggetto, non è il modo in cui il soggetto approccia l’oggetto esterno. Esso, piuttosto, assume un significato dell’oggettivo, ma solo in quanto unito con il soggettivo: è l’anima, o la struttura viva e soggettiva, autocoscienziale del concetto stesso (“il proprio, soggettivo operare del concetto”79). Tutti i termini con cui Hegel cerca di descrivere il vero metodo (“istinto”, “potenza”, “forza”) mirano a individuare il fattore dinamico e (in) tensivo del movimento autocoscienziale del concetto. 75 76

77 78 79

“il cominciamento in quanto è un immediato, è un che di assunto, di trovato, di assertorio” (HW 6 L II, p. 553; SL II, p. 939). “Ogni nuovo grado dell’andar fuori di sé, cioè di ulterior determinazione, è anche un andare in sé, e la maggiore estensione è parimenti una più alta intensità. Il più ricco è quindi il più concreto e il più soggettivo, e quello che si ritira nella più semplice profondità è il più potente e invadente” (HW 6 L II, p. 570; SL II, pp. 953-954). HW 6 L II, p. 572; SL II, p. 956. HW 6 L II, pp. 550-552; SL II, pp. 937-939. HW 6 L II, p. 551; SL II, p. 938.

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Guardando anche dal lato soggettivo, il metodo, come maniera di conoscere, deve la sua struttura al contenuto che si intende conoscere. Perciò il metodo è anche il modo in cui il contenuto oggettivo, la cosa in sé, attraverso il conoscere, cioè attraverso il soggettivo, giunge alla sua verità, alla forma. Ciò che Hegel definisce il metodo assoluto dunque “non si conduce come riflessione estrinseca, ma prende il determinato dal suo oggetto stesso, poiché ne è appunto il principio immanente e l’anima”80. Questo metodo viene identificato da Hegel con l’antica disciplina della dialettica risalente a Platone. In essa, egli vede l’unione del metodo analitico e del metodo sintetico. La dialettica, il metodo assoluto, il concetto che si muove e giunge alla coscienza di se stesso nell’altro, è analitico in quanto porta alla conoscenza ciò che è immanente nelle cose e, dall’altro canto, è sintetico, giacché l’oggetto viene determinato come altro da sé. In altri termini, l’esposizione (analitica) della logicità dell’oggetto è anche la sua sintesi, la sua produzione determinante, svolta attraverso il diventare altro da sé. Hegel in queste pagine sembra prendere una posizione leggermente differente da quella data nell’Enciclopedia81, dove la dialettica fungeva da metodo critico negativo, a metà strada tra l’astrazione e la speculazione. Nella Logica, invece, sembra che Hegel sotto il nome di “dialettica” unisca sia l’aspetto negativo-critico che quello positivo-speculativo. Perciò si oppone apertamente a coloro che nella dialettica vedono soltanto una forza di negazione che dilegua ogni determinazione stabilita82. A questo punto Hegel arriva nuovamente al problema del terzo, ossia al medio che deve frapporsi tra il soggettivo e l’oggettivo, affinché questi entrino in contatto. Il metodo assoluto, in quanto essenzialmente dialettico, è quello che si basa sulla compenetrazione di soggetto e oggetto, in cui soggetto, metodo e oggetto sono posti “come l’unico identico concetto”83, e per cui non c’è alcuna necessità di proporre un che di distintamente terzo che funga da qualcosa che possa unire soggetto e oggetto. È la considerazione aconcettuale quella che introduce il terzo dall’esterno, in quanto opera ancora secondo la logica degli estremi. È soltanto per questa che è necessario un collegamento esteriore, attraverso il termine medio, per cui gli estremi entrano in relazione e addirittura si dimostrano dialettici. L’ogget80 HW 6 L II, pp. 556-557; SL II, p. 942. 81 “L’elemento logico (Das Logische) quanto alla forma ha tre lati: a) il lato astratto o intellettivo; β) il lato dialettico o negativamente razionale; γ) il lato speculativo o positivamente razionale” (HW 8 E I, p. 168; ESF I, p. 246; §79). 82 Cfr. HW 6 L II, p. 559; SL II, p. 944. Cfr. K. Düsing, Das Problem der Subjektivität in Hegels Logik, Bonn, Bouvier Verlag, 1976, p. 322. 83 HW 6 L II, p. 552; SL II, p. 938.

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to e il suo conoscere vengono resi fissi, fermi e a-dialettici, per cui per dialettizzarli risulta necessario un fattore esterno. Questa operazione di riflessione esteriore viene definita da Hegel come “estraneo e accidentale collegamento (die fremde und zufällige Verbindung) in un terzo e per opera di un terzo”84. Questo tipo di collegamento corrisponde alla sintesi, così come viene pensata nelle filosofie critiche della riflessione, soprattutto in Kant. Invece la sintesi, che il metodo assoluto abbraccia, “non è più quello che s’intende come sintesi nel conoscere finito”85. Si tratta piuttosto di una sintesi immanente, cioè la sintesi dell’oggetto con l’altro da sé, nel senso di una relazione interna all’oggetto. In Hegel il momento sintetico viene associato al processo di Anderswerden, e dunque alla determinazione attraverso l’altro da sé, per cui abbraccia sia il momento di differenza (alterità) sia un riferimento a se stesso. Per questo stesso motivo il metodo assoluto in Hegel non può disgiungere il momento sintetico da quello analitico – è la determinazione del concetto che fa parte dell’andamento risolvente della cosa stessa, e del passare immanente delle sue determinazioni l’una nell’altra. Il terzo estrinseco qui viene giustamente a mancare perché sostituito da una terzietà immanente, che si può concepire soltanto a partire dalla categoria del divenire, cioè come “il passare”. Così tutti i contrapposti (Gegensätze) che si ritengono fissi, come p.es il finito e l’infinito, l’individuo e l’universale, non si trovano già in contraddizione a cagione di un loro collegamento esteriore, ma anzi, secondo che fece vedere la considerazione della lor natura sono in sé e per se stessi il passare (Übergehen).86

Ciò che Hegel in Fede e Sapere definisce come assoluta antitesi del finito e dell’infinito viene qui contestato per via dell’ontologia del divenire. I contrapposti diventano il proprio opposto, e la loro sintesi viene strutturata piuttosto come Übergang dell’uno nell’altro, come tra l’altro abbiamo visto anche all’inizio della Logica. Perciò, tenere gli opposti separati nell’opposizione assoluta, senza mutuo contatto, l’uno accanto all’altro, come il risultato della considerazione aconcettuale, richiede un terzo esterno, altrettanto separato da loro. Solo grazie al concetto, cioè alla riflessione del loro concetto, che svela la dialettica sia nell’uno che nell’altro opposto, la terzietà si costituisce come questo interno passare nell’altro, dunque non come un elemento a parte, ma come la stessa struttura dinamica comune – il divenire. 84 HW 6 L II, p. 560; SL II, p. 945. 85 HW 6 L II, p. 557; SL II, p. 942. 86 HW 6 L II, p. 560; SL II, p. 945.

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Questo Übergehen dialettico, il mostrarsi l’altro da se stesso, come movimento di mediazione, si può articolare, schematizzando, come una struttura triadica, mostrando allo stesso tempo l’inadeguatezza dello schema numerico che si applica al processo dialettico per formalizzarlo sotto una numerazione dei suoi momenti intrinseci. Hegel di fatti prospetta una possibile quadruplicità, anziché triplicità che nelle interpretazioni manualistiche nonché dogmatiche di Hegel vale ormai come scansione irrimediabile del pensiero dialettico. La dialettica hegeliana indica invece ben altro. Come si evince dalla trattazione del cominciamento, il Primo da cui si comincia, e anzi da cui si deve cominciare, deve altrettanto presupporsi come l’universale, semplice e immediato. Nel corso dello sviluppo, questo Primo si mostra come un altro, dunque come determinato, particolare, e non più come presupposto, ma come posto. Ma prima di essere posto il cosiddetto Primo passa nel Secondo, cioè lo stesso Primo si altera e rompe con la propria semplice universalità. Questo primo passaggio e la prima uscita dall’immediato sono ancora segnati dal carattere dell’immediatezza, e dunque il passaggio stesso è un passare immediatamente all’altro da sé. Il risultato della dialettica fin qui deve essere un altro semplice, mediato e determinato, però senza una vera relazione (Verhältnis) con l’altro, cioè senza una vera relazione tra il primo e il secondo. Ed è questo carattere iniziale e rudimentale della determinazione che sarà espresso nel concetto del primo negativo: il fatto che il negativo sia per ora solo il primo anticipa che ci sarà un altro negativo. Il primo negativo è il negativo dell’immediato, è dunque il secondo termine in cui il primo è passato, ovvero tramontato (in dem Anderen untergegangen), come direbbe Hegel87. A ben vedere, questa dialettica corrisponde alla logica dell’essere in cui una categoria passa nell’altra e possiamo trovare l’esempio già all’inizio dove l’essere tramonta nel nulla. È la logica di questo tramontare, del passaggio immediato che ancora non fa costituire una relazione mediante tra i due elementi, per cui il negativo sorto è reso solo come primo negativo, il secondo termine nell’ordine dialettico. Anche nella prima mossa dialettica il primo, l’immediato è riferito ad un altro, ma il primo è contenuto nel secondo88, mantenuto, e dunque il suo riferimento all’altro conta qui come riferimento in-differente, nel senso che la differenza tra il primo e il secondo non viene posta come tale. Hegel però esprime il bisogno di pensare la differenza come un rapporto, cioè come negazione. Anzi, già il primo passaggio dal Primo immediato al Secondo, al suo negativo, contiene una negazione (altrimenti non si potrebbe 87 Cfr. HW 6 L II, p. 561; SL II, p. 946. 88 Ibidem.

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nemmeno parlare del negativo) e dunque contiene una differenza, ma questa viene oscurata, non viene posta come portatrice del movimento dialettico. Si tratta dunque di porre ciò che vi è racchiuso e implicito. E con questa esigenza nasce la seconda mossa nell’ordine dialettico, quella che porterà al terzo termine. Se la prima determinazione, in quanto semplice, rendeva l’immediato un mediato, il negativo dell’immediato e l’altro del primo, ora la seconda determinazione, definita negativa o mediata, interviene su questo carattere del mediato che diviene l’altro di un altro, e il negativo del positivo. Il rapporto può nascere soltanto là dove entrambi i membri sono definiti come un altro, che per certi versi si riconoscono come altro rispetto all’altro, per dirlo in termini fenomenologici. Il secondo negativo a cui si approda viene definito da questo rapporto che si può ulteriormente esplicare come differenza, opposizione o contraddizione, cioè come determinazioni della riflessione della Dottrina dell’essenza. L’ultima di queste, la contraddizione, è la suprema conseguenza dell’auto-porsi dialettico in cui l’altro di un altro racchiude in sé il suo proprio altro. Il rapporto si articola così come contraddizione, che non è il risultato di una certa modalità di conoscere le determinazioni delle cose, ma la loro natura più intrinseca89. Però proprio in virtù del riferimento a sé mantenuto nel rapporto con l’altro Hegel non si sofferma tanto sull’aspetto meramente relazionale del negativo che sempre rischia di ricadere in una “estrinsecità reciproca nello stare l’uno accanto all’altro e dopo l’altro”90: il secondo negativo, in quanto fattore della contraddizione, è già autoreferenziale, e pertanto il negativo del negativo. Solo a questo punto Hegel introduce un termine che non è né negazione né il negativo, bensì la negatività91. La negatività contiene “la relazione del negativo a se stesso”, e viene congiunta con altri concetti chiave come soggettività92 e anima. 89 “Il pensamento della contraddizione è il momento essenziale del concetto” (HW 6 L II, p. 563; SL II, p. 947). 90 Ibidem. 91 “La negatività qui considerata costituisce ora il punto in cui si ha la svolta del movimento del concetto. Essa è il semplice punto del riferimento negativo a sé, l’intima fonte di ogni attività, di ogni spontaneo movimento della vita e dello spirito, l’anima dialettica che ogni vero possiede in se stesso e per cui soltanto esso è un vero; però solo su questa soggettività riposa il togliere dell’opposizione fra concetto e realtà e quell’unità che è la verità” (HW 6 L II, p. 563; SL II, p. 948). Sul metodo dialettico come “logische Bestimmung der Subjektivität” cfr. K. Düsing, Das Problem der Subjektivität in Hegels Logik, cit., pp. 313-327. 92 È da notare e tenere presente tale abbinamento hegeliano tra soggettività e negatività. È proprio il secondo momento della differenza, della negazione e della rela-

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Questo secondo momento del negativo risulta in ogni caso sdoppiato. Sullo sfondo del doppio negativo Hegel distingue infatti una prima e una seconda negazione. La prima negazione è anch’essa immediata: si tratta del semplice sorgere dell’altro che nega il primo, ossia la negazione astratta che l’uno fa capovolgere nel suo altro. La seconda negazione si articola invece come negazione della prima e dunque già come una sorta di autonegazione. A proposito di quest’ultima Hegel sostiene che essa è “l’intimo, più oggettivo momento della vita e dello spirito, per cui viene ad essere un soggetto, una persona, un libero”93. Dunque, senza lo sdoppiamento dentro la relazione con l’altro, il passaggio dell’immediato nel mediato non potrebbe compiersi, per cui la negazione sarebbe soltanto un rapporto astratto, il passare nell’opposto immediato. Il primo momento della negazione viene ricollegato da Hegel al momento analitico, “in quanto l’immediato vi si riferisce immediatamente al suo altro e quindi passa (übergeht) o meglio è passato (übergegangen) in quello”94. Come si vede, qui di nuovo esce alla superficie la condizione dell’“esser già passato”, esattamente come all’inizio della Logica: l’immediato passare dell’essere nel nulla occupa soltanto la posizione “analitica” – è il momento dell’universalità e della comunicazione (Mitteilung). Ciò che segue, invece, è la loro relazione sintetica, e questo passo, secondo Hegel, è associato esattamente alla seconda negazione, “la relazione del negativo a se stesso” (Die Beziehung des Negativen auf sich selbst)95, che è la negatività assoluta. La prima negazione, in quanto “esser già passato”, non è ancora un movimento vero e proprio, e perciò è soltanto la prima premessa del sillogismo, come lo definisce Hegel; il momento analitico è anche, potremmo dire, una sorta di proiezione a posteriori che per certi versi astrae dal vero processo dialettico, presupponendo uno stato “già passato”. Se nella prima premessa, quella della negazione semplice, viene costituito il rapporto immediato con l’altro, ora nella seconda premessa, detta sintetica, questo stesso rapporto viene negato attraverso il riflessivo ritorno a se zione quello con cui si costituisce la soggettività. La determinazione dell’immediato si potrebbe forse inquadrare secondo l’idea hegeliana sulla sostanza che diventa soggetto. L’immediato diventa il soggetto quando viene posta la differenza che c’è in esso, dunque quando entra in relazione con l’altro da sé; cosicché l’immediato si determina attraverso questa relazione. È importante porre l’accento sul fatto che questa relazione con l’altro non si sviluppa dall’esterno, non viene imposta all’immediato: ma è l’immediato a doversi “alterare” da se stesso e porre quindi la differenza che già c’è in esso. 93 HW 6 L II, p. 563; SL II, p. 948. 94 Ibidem. 95 Ibidem.

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stessa della negazione. La relazione instaurata così è quella tra i due distinti, cioè tra i due negati come due membri ugualmente riconosciuti come altro, un distinto, quale risultato della negazione. In virtù di questa “uguaglianza” tra i due membri della relazione – la relazione del negativo a se stesso – si giunge all’assoluta mediazione, cioè alla negatività in quanto processo del togliere della contraddizione. Si avvia così “il ristabilimento della prima immediatezza, della semplice universalità”96 (Herstellung der ersten Unmittelbarkeit, der einfachen Allgemeinheit). Tutto ciò è il risultato della doppia negazione, che immediatamente passa nel positivo97, togliendo se stessa e la contraddizione intrinseca, affinché si ricostituisca l’immediato. La negatività, che va distinta dal semplice negativo nonché dalla negazione98, comprende quella duplicità e tende a superarla. Essa è però possibile solo in virtù dello sdoppiamento del negativo: il negativo del positivo e il negativo del negativo99. L’esito della negatività in effetti è la seconda immediatezza. Bisogna ribadire che il recupero dell’immediato si attua attraverso l’immediato passare (zusammengehen) dell’autonegazione nel positivo. Il cosiddetto secondo immediato non è nient’altro che l’inseparabilità della negatività assoluta dal proprio immediato risolversi nel positivo. Ed è proprio in questo momento del ribaltamento dialettico, che la tricotomia dialettica rivela infatti i quattro elementi costitutivi. Se riassumiamo tutto il processo vedremo che si compone infatti di quattro momenti e che il terzo è passato nel quarto. Il primo è l’immediato come tale, l’universale semplice, il concetto in sé; il secondo è il negativo formale, determinato dal rapporto immediato con il primo (l’altro del primo); il terzo momento è il secondo negativo, costituito dalla riflessione della negazione in stessa, che nega la prima negazione, e dunque nega l’immediato passare nell’altro, ponendo l’alterità in quanto tale in un rapporto di contraddizione (l’altro dell’altro). La negatività assoluta occupa esattamente questa posizione, la posizione del terzo. La contraddizione si toglie e, infine, il quarto momen96 HW 6 L II, p. 564; SL II, p. 949. 97 “Come contraddizione che si toglie, questa negatività è il ristabilimento della prima immediatezza […] perché immediatamente [corsivo nostro] l’altro dell’altro, il negativo del negativo, è il positivo, l’identico, l’universale” (HW 6 L II, p. 564; SL II, pp. 948-949). 98 Sulle diverse forme di negatività e sulla differenza tra la negatività, il negativo e la negazione rimandiamo all’articolo di Haris Ch. Papoulias, Forme di negatività nella Logica di Hegel, in “Annuario Filosofico”, 30, 2014, pp. 243-274. 99 Se seguiamo attentamente il corso del ragionamento hegeliano vedremo che il negativo viene infatti determinato attraverso una triplice relazione: il negativo dell’immediato, il negativo del positivo, il negativo del negativo. Solo l’ultimo può contare come negatività assoluta.

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to è l’unità della negazione con se stessa, il secondo immediato, come unità dell’immediato e della mediazione. In altri termini, la quadruplicità del movimento del concetto deve questa sua struttura allo sdoppiamento del momento di negazione che si suddivide in negazione formale e negatività assoluta. Se queste due sequenze della determinazione si uniscono in un unico momento della negazione, o della differenza, allora la quadruplicità diventa la triplicità (l’immediato – il mediato – il secondo immediato). “Questo secondo immediato è nell’intiero corso (se in generale si voglia contare) il terzo rispetto al primo immediato e al mediato”100. L’oscillazione hegeliana tra triplicità e quadruplicità si basa sul fatto che il secondo immediato possa essere preso in considerazione due volte, cioè esso è il terzo rispetto ai due nella mediazione, ma anche il terzo rispetto ai due nella negazione: il primo e il secondo negativo. Il primo negativo sulla scala intera però è già il secondo termine, altrimenti non sarebbe stato il negativo. Se questi due percorsi101 vengono tenuti presente insieme, allora l’ultimo termine si dimostra relativamente il terzo e di conseguenza passa come il quarto termine, dato che il mediato viene sdoppiato102, contato come dualità. In entrambi i casi, sia come terzo sia come quarto, il secondo immediato è “in generale l’unità del primo e del secondo momento, dell’immediato e del mediato”103, mentre il secondo termine di tutto il percorso, quello della negazione e della differenza che si sdoppia104, costituisce lo stesso movimento dialettico della mediazione, e occupa la posizione intermedia necessaria a dare luogo alla nuova immediatezza, sorta dal togliersi della mediazione. 100 HW 6 L II, p. 564; SL II, p. 949. 101 Il primo percorso: l’immediato – il mediato – il secondo immediato. Il secondo percorso: il negativo formale (il primo negativo) – la negatività assoluta – il secondo immediato. 102 Jan van der Meulen, analizzando in parallelo la tetrade iniziale (essere-nulla-divenireesserci) e il discorso sul metodo, argomenta a favore di uno sdoppiamento della sintesi stessa, e non, invece, del secondo momento. A suo dire, la frattura della sintesi è spesso trascurata dagli studiosi hegeliani, anche se costituisce una difesa di Hegel stesso contro l’irrigidimento del suo pensiero in un dogmatismo. La quadruplicità si può dunque costituire attraverso lo sdoppiamento sia del secondo sia del terzo momento. Nell’ultimo caso la sintesi è sdoppiata in una sintesi pura solamente transitoria e in sintesi intesa come risultato del movimento sulla falsariga del divenire e dell’esserci. Jan van der Meulen, Hegel. Il medio infranto, cit., p. 98. La nostra indagine invece è qui più vicina all’analisi di Brauer che parla appunto dello sdoppiamento del secondo momento della dialettica che va inteso non come un’antitesi, ma come un’antinomia. La terza fase della tetrade non corrisponde alla sintesi, bensì all’autodistruzione della contraddizione. Cfr. O. D. Brauer, Dialektik der Zeit, cit., pp. 105-120. 103 HW 6 L II, p. 564; SL II, p. 949. 104 “Il negativo, ossia la differenza, è contato in questo modo come una dualità” (Ibidem).

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Hegel allo stesso tempo riconosce esplicitamente il limite e l’inadeguatezza della formalizzazione numerica del processo dialettico concettuale. Perciò (“se si voglia contare”, come scrive Hegel) possiamo contare tre o quattro momenti costitutivi. Ma la stessa ambiguità e oscillazione tra il terzo e il quarto momento dimostrano che le determinazioni concettuali non possono essere messe sotto “la forma astratta stessa del numero”105. E per di più, se il terzo o il quarto valgono come unità, di modo che quest’unità occupi una certa posizione numerica nel processo, “è certamente soltanto il lato superficiale, esteriore, della guisa del conoscere”106. La forma della triplicità è dunque inadeguata, e corrisponde di più alla filosofia kantiana a cui Hegel più volte riconosce “un merito infinito” per aver attirato attenzione su questo aspetto107. Insistere sulla triplicità, come schema, è fuorviante e non corrisponde alla natura del concetto108. Il formalismo si è bensì impossessato anche della triplicità, attenendosi al suo vuoto schema; lo incolto disordine e la povertà del moderno filosofico cosiddetto costruire, che non consiste che nell’attaccar dappertutto senza concetto e determinazione immanente quello schema formale e nell’adoprarlo per un ordinamento esteriore, ha reso quella forma noiosa e di niun credito.109

Hegel per certi versi ripete nuovamente la sua critica a Kant, riconoscendogli un certo merito nell’aver scoperto il razionale, anche se ciò avviene in forma sbagliata. La scoperta della triplicità risulta dunque un passo importante verso la scoperta del razionale “anche se dapprima in 105 Ibidem. 106 Ibidem. 107 “L’indicazione del secondo momento concettuale, della determinatezza dell’universale come particolarizzazione, è la divisione secondo un qualche rispetto estrinseco […] La divisione pertanto è dapprima triplice; in quanto poi la particolarità si presenta come doppia, la divisione diventa però anche quadrupla. Nella sfera dello spirito domina la tricotomia, ed è merito di Kant aver richiamato l’attenzione su questo fatto” (HW 8 E I, p. 381; ESF I, pp. 450-451; § 230). E anche: “È un merito infinito della filosofia kantiana di aver richiamato l’attenzione su questo modo di procedere privo di critica, e di aver dato con ciò la spinta alla restaurazione della logica e della dialettica nel senso della considerazione delle determinazioni di pensiero in sé e per sé” (HW 6 L II, pp. 559-560; SL II, p. 945). 108 Jameson parla di una tentazione della tripartizione (“the tripartite temptation”), il che è soltanto una scomoda e problematica codificazione del ritmo dell’interiorizzazione ed esteriorizzazione, delle sistole e diastole della produzione della vita. Cfr. F. Jameson, Hegel Variations. On the Phenomenology of Spirit, London-New York, Verso, 2010, p. 19ss. 109 HW 6 L II, p. 565; SL II, p. 949.

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una figura non concettuale”110. Per di più, Hegel ha anticipato i suoi critici che rinfacciano proprio alla sua dialettica di essere una forma noiosa e di nessun credito. Non bisogna concludere che su questo punto Hegel contrapponga una triplicità soltanto schematica, quella kantiana, a una triplicità “vera”. Se esistesse qualcosa come una “vera triplicità” sarebbe proprio quella che si dissolve, si nega e si lascia interpretare come quadruplicità, mostrando la limitatezza di ogni schema numerico-formale. Ciò che manca alla triplicità astratta, ad esempio formalizzata come sillogismo, è proprio il momento della negatività, “il momento essenziale, dialettico”111. O meglio: le manca quello che si cerca di esplicare nella sequenza quadrupla, sdoppiando il negativo – la negatività assoluta, il proprio riferirsi negante a se stessa. Ciò che si oppone alla formalizzazione è esattamente questa negatività assoluta, che non riesce a localizzarsi come momento autonomo. In effetti essa in Hegel qualche volta coincide con il secondo negativo, ma allo stesso momento lo oltrepassa: come autonegazione essa è già l’unità e perciò già l’immediato passare nel positivo, l’Aufhebung della contraddizione. La posizione del terzo vero e proprio è occupata, dunque, dalla negatività assoluta, “il momento negativo dell’assoluta mediazione”112, che per questo suo carattere assoluto si toglie relazionandosi a se stesso. Essa ha carattere del “mediatore evanescente” (vanishing mediator) che emerge per sparire e per dare luogo al momento conclusivo: la verità in forma della nuova immediatezza. In altri termini, l’introduzione della doppia negazione, con la centralità della negatività assoluta, è il vero cardine di tutto il processo dialettico, per cui non sorprende che Hegel la descriva come il “punto di svolta”. È su questo momento più profondo della negatività che si gioca la comprensione dell’unità (il terzo/quarto) semplicemente come determinazione dell’identità oppure anche come determinazione della differenza. Il momento dell’unità e dell’identità, il secondo immediato, ossia il nostro terzo/quarto, è, dunque, il momento della differenza che si riferisce a sé: si tratta del Primo, arricchito dall’esperienza della differenza, attraverso la quale è giunto di nuovo a se stesso. Contro questa conclusione, sembrano urtare le parole stesse di Hegel secondo le quali “il terzo è l’immediato, ma per mezzo del togliere della mediazione, il semplice per mezzo del togliere della differenza, il positivo per mezzo del togliere del negativo”113. È vero che la 110 111 112 113

HW 6 L II, p. 565; SL II, p. 950. HW 6 L II, p. 565; SL II, p. 949. HW 6 L II, p. 563; SL II, p. 948. HW 6 L II, p. 565; SL II, p. 950.

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differenza viene tolta, ma solo la differenza che si è posta, e che usciva dalla propria immediata presenza nel primo negativo. La differenza, come abbiamo visto, prima era solo contenuta e racchiusa nella prima determinazione, e poi con la determinazione negativa viene posta in un rapporto tra il positivo e il negativo che compare come contraddizione. Potremmo dunque proporre la soluzione seguente: il ristabilimento del riferimento a sé nel secondo immediato non toglie la differenza in quanto tale, ma soltanto la differenza transitoria. In virtù dell’atto della negazione della negazione, la differenza viene negata, o per meglio dire, è essa stessa che si nega, così come prima si era posta. È la differenza, tornata a sé, che conduce al ristabilimento dell’identità. In altri termini, il togliere della differenza costituisce l’identità sulla base della differenza riarticolata come una differenza conscia di sé, e dunque negata in sé. Il problema che nasce è quello dell’autonomia del terzo termine. Abbiamo già visto che la negatività assoluta è difficilmente collocabile nell’ordine del metodo dialettico. Essa è posta in mezzo, per sparire e per cedere il passo, o meglio per passare essa stessa nel positivo. Tuttavia, anche il positivo, come risultato della dialettica, oppure come verità del primo immediato, non si può facilmente concepire come un elemento a parte, autonomo e indipendente, compiuto in se stesso e fermo. Hegel non esita a riconoscere tutta la problematicità di quelle definizioni del terzo che cercano di inquadrarlo dentro una determinazione fissa: Esso è tanto immediatezza quanto mediazione; – ma queste forme del giudizio: il terzo è immediatezza e mediazione, oppure: è la loro unità, non son buone ad afferrarlo, perché non è un terzo quieto, ma appunto come quest’unità è il movimento e l’attività che si mediano con se stessi.114

Il carattere di essere il movimento automediante e l’attività (die mit sich selbst vermittelnde Bewegung und Tätigkeit), un terzo inquieto, dimostra anche che in questo terzo la differenza non viene esorcizzata, viene soltanto tolta quella differenza che terrebbe il terzo nello stato quieto. II terzo si è costituito come il concreto, il soggetto, il singolo – ed è questo appunto il risultato di tutto il metodo dialettico. Il terzo è diventato il soggetto attraverso il movimento di automediazione e di autonegazione, per cui passa al quarto. La negatività è integrata nell’universale che all’inizio era semplice e indeterminato115. Il secondo immediato, dunque, è il primo immediato 114 Ibidem. 115 Come scrive Vittorio Hösle, l’ultimo momento non esorcizza la negatività, anzi: “Nonostante questa priorità della positività, occorre tuttavia ribadire che la de-

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strutturato come soggetto, come movimento, cosicché l’universalità del primo viene posta nel soggetto, venendo essa stessa soggettivata e singolarizzata116. In altri termini è il movimento dell’immediato all’interno dell’immediatezza stessa. Qualche pagina avanti Hegel ribadisce che “la verità non è che il venire a se stesso attraverso la negatività dell’immediatezza”117. Questa negatività dell’immediatezza (die Negativität der Unmittelbarkeit) è appunto il risultato della dialettica, dunque non una forza distruttiva, bensì una spinta sintetica che rende unito ciò che prima era separato e tenuto come astratto – l’universale e il negativo che così si fanno soggetto. Il carattere di questa negatività, il risultato della dialettica, sarà definito da Hegel, sempre nelle stesse pagine, anche come una in Einfachheit zusammengegangene Negativität118, la negatività che non è passata (übergangen) oppure tramontata (untergegangen), ma letteralmente andata insieme con la semplicità, in essa tolta e mantenuta119. È la negatività che è integrata nella semplicità e universalità perché si trova a confronto con la sua stessa opposizione contro l’universalità120. Il terzo, infine, unisce l’ambiguità del termine tedesco Schluss: esso significa sia il sillogismo sia la conclusione (Schlusssatz), sia il percorso sia il suo risultato. Il terzo è il medio che attraversa tutti i momenti del sillogismo, l’universale costituito come soggetto, dunque il processo della propria negatività. D’altronde, “il terzo è la conclusione (Schlusssatz), dove il concetto per mezzo della sua negatività è mediato con se stesso, e così è posto per sé come l’universale e identico dei suoi momenti”121.

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terminazione sintetica non è priva di ogni negatività, bensì l’ha integrata in sé come momento” (V. Hösle, Il sistema di Hegel, Napoli, La scuola di Pitagora, 2012 p. 285). “Come l’iniziale era l’universale, così il resultato è l’individuo, il concreto, il soggetto; ciò che quello era in sé, questo è ora anche per sé; l’universale è posto nel soggetto” (HW 6 L II, pp. 565-566; SL II, p. 950). HW 6 L II, p. 571; SL II, p. 955. HW 6 L II, p. 567; SL II, p. 951. Che il passivo tedesco zusammengegangen crei dei problemi per i traduttori si nota anche nella traduzione italiana della Scienza della logica dove Arturo Moni cerca di tradurlo perfino con i tre termini diversi che alterna a vicenda o mette insieme a seconda del contesto: “essere fuso”, “rientrato e fuso” e “ristretto e fuso”. Ciò che può giustificare questa scelta ambigua e titubante del traduttore è il fatto che il verbo zusammengehen, oltre a significare “andare insieme”, “allearsi”, significa anche “ritirarsi”, “ridursi”. Riteniamo invece assai curiosa e sintomatica la scelta di Hegel di usare questo termine per spiegare la ricostituzione della semplicità e del positivo. Cfr. HW 6 L II, p. 567; SL II, p. 951. HW 6 L II, p. 566; SL II, p. 950.

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L’impossibilità di ridurre tutto questo metodo dialettico a una linearità ternaria, divisa nettamente in tre fasi susseguentisi l’una dopo l’altra, genera un’oscillazione tra triplicità e quadruplicità. In altri termini, lo sviluppo dialettico è un movimento dell’immediato nell’immediatezza stessa, dunque: un’automediazione immanente che tuttavia non viene abbandonata per raggiungere una trascendenza prima nascosta che guidava tutta la progressione rettilinea “dietro le quinte” e che va soltanto esplicitata alla fine quando il circolo si chiude. Tutto il processo dialettico rimane dentro l’immanenza che si auto-trascende, cioè si auto-riflette, e giunge a se stessa nella propria unità con la mediazione. Perciò il risultato della logica, il terzo, è tanto immediatezza (Unmittelbarkeit) quanto mediazione (Vermittlung)122. L’organizzazione quadrupla non viene in luce solo nel discorso sul metodo e sull’idea assoluta, e non bisogna aspettare la fine della Logica per incontrarla (anche se solo alla fine essa viene esplicitamente trattata riguardo al metodo assoluto). Diverse figure della quadruplicità sono presenti lungo tutto l’itinerario delle determinazioni del pensiero; e già all’inizio le prime determinazioni logiche possono esplicarsi come una serie quaternaria: l’essere – il nulla – il divenire – l’esserci. Di primo acchito notiamo subito alcune analogie con la quadruplicità esplicata come metodo finale di tutta la dialettica. L’essere funge da primo immediato, il semplice riferimento a sé, che immediatamente passa nel nulla, nel primo negativo. D’altronde, sia la quadruplicità dell’inizio della Logica sia quella della chiusura terminano comunque con il concreto: l’esserci è una sorta di secondo immediato che ristabilisce il riferimento a sé – l’essere –, però mantenendo i caratteri del terzo sparito, del divenire. Ma davvero il nulla può identificarsi con il primo negativo e di seguito anche il divenire con la negatività assoluta? Hegel all’inizio della Logica evita questa terminologia, chiaramente, perché essa piuttosto compete alla logica dell’essenza. Il nulla non può costituirsi ancora come il negativo e l’essere neanche come il positivo. In effetti, sembra che la quadruplicità dell’inizio “ritardi” rispetto alla quadruplicità della fine: mentre alla fine la differenza viene prima con122 Una cosa simile Hegel dice anche all’inizio della Logica, quando cerca di stabilire il punto di partenza nell’essere immediato e indeterminato: “che non v’ha nulla, nulla né in cielo né nella natura né nello spirito né dovunque si voglia, che non contenga tanto l’immediatezza quanto la mediazione, cosicché queste due determinazioni si mostrano come inseparate e inseparabili, e quella opposizione come inesistente” (HW 5 L I, p. 66; SL I, p. 52). Il risultato dell’intero percorso logico, dunque, conferma che la separazione tra mediazione e immediatezza è illusoria e irreale, perché non c’è niente che non avrebbe i caratteri sia dell’una che dell’altra.

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Tertium Datur

tenuta e poi posta con la seconda determinazione, detta la determinazione negativa o mediata, e il terzo termine, cioè il secondo negativo è il togliere della contraddizione, all’inizio, invece, alla prima determinazione si giunge solo con il terzo termine, con il divenire. Inoltre, Hegel esplicitamente dichiara che l’altro del primo, dunque il secondo termine in cui il primo passa, non può essere il nulla, ma è già determinato come il mediato123. La determinazione, dunque, avviene già molto prima e la mediazione è già in atto, mentre con le prime categorie ontologiche – essere, nulla, divenire, esserci – l’orizzonte della mediazione non è ancora pienamente conquistato. Questo serve come prova che ogni forma ternaria o quaternaria non è uguale anche se ugualmente dialettica: i termini della relazione influiscono anche sulla relazione stessa, di modo che ogni successivo sviluppo dialettico porta con sé le modifiche nel carattere della stessa determinazione avvenuta. Perciò i diversi processi dialettici possiedono le diverse modalità di procedere secondo il contenuto che si genera124. E da questa breve analisi si rende evidente che, malgrado un ordine di determinazione abbia la forma quadrupla, ciò non significa che ogni quadruplicità è uguale all’altra, come forma vuota e schematica. L’inizio e la fine chiudono il circolo, ma proprio le quadruplicità che compaiono in apertura e in chiusura dimostrano che si tratta di una struttura ricorsiva particolare costituita dalle discontinuità e dalle retroazioni125. La logica hegeliana dunque prende la forma di un circolo, ma di un circolo non-lineare126, in cui la fine non è l’inizio portato alla perfezione, stato armonico e statico, ma l’inizio portato alla coscienza della propria dinamicità, all’immediata identità dell’autoriflessione. La struttura circolare 123 HW 6 L II, p. 561; SL II, p. 946. 124 E infatti tutta la logica hegeliana presenta i tre principali modi di procedere: il passare (logica dell’essere), il rispecchiarsi (logica dell’essenza), lo svilupparsi (logica del concetto). “La forma astratta del procedere è nell’essere un altro e un passare in un altro; nell’essenza è apparire nell’opposto; nel concetto è la distinzione del singolare dall’universalità, che si continua come tale nel distinto da essa, ed è come identità con esso” (HW 8 E I, p. 391; ESF I, p. 460; § 240). Cfr. anche HW 6 L II, p. 307; SL II, p. 711. 125 Sulla ricorsività dell’organizzazione della logica, sulle dinamiche retroattive e la logica dell’autoriferimento in Hegel si veda il saggio di Franco Chiereghin, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, Roma, Carocci, 2011. 126 A questo proposito ci pare opportuno rinviare al testo di Michael Kosok, The Dialectical Matrix or Hegel’s Absolute Idea as Pure Method, in D. Henrich (a cura di), Die Wissenschaft der Logik und die Logik der Reflexion, Bonn, Bouvier, 1978, pp. 115-137, in cui l’autore espone la sua interpretazione della dialettica hegeliana come una circolarità non lineare e dell’Assoluto come un impulso, una spinta spontanea.

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che si compie con il concetto deve “iscrivere” proprio questa circolarità autoriflessiva nell’immediatezza da cui si è cominciato. Questo non vuol dire che ottenendo una forma circolare l’immediatezza, cioè l’essere iniziale, si è compiuta trovando la sua identità perfetta nell’idea assoluta. L’idea assoluta è segno del fatto che l’essere si è trovato, o meglio, che si è prodotto trovando la propria condizione, la propria verità. L’essenziale per la scienza non è tanto che il cominciamento sia un puro immediato, quanto che l’intiera scienza è in se stessa una circolazione (ein Kreislauf), in cui il Primo (das Erste) diventa anche l’Ultimo (das Letzte), e l’Ultimo anche il Primo.127

Da ciò potremmo trarre la conclusione che anziché una circolarità lineare che si compie dopo tutta una progressione rettilinea, alla dialettica e al metodo assoluto hegeliano corrisponda più l’immagine del movimento di circolazione. Insomma, anziché con un circolo chiuso, avremmo a che fare con una circolazione aperta128. Il Primo che diventa Ultimo e l’Ultimo che diventa Primo è un processo che, invece di suggerire un’immagine della complementarietà in cui ciò che manca al primo (mediazione, differenza) viene recuperato nell’ultimo e viceversa, si configura piuttosto come un’affermazione del movimento che si automedia129. L’immagine schematica della complementarietà, che per certi versi può essere illustrata con la figura Yin-Yang, in cui un opposto si integra con l’altro in una perfetta armonia geometrica, è contraria alla dialettica hegeliana. Ciò che è l’ultimo non è nient’altro che il primo che è diventato cosciente di sé, concetto che riconosce se stesso nella realtà e la realtà che è diventata concetto. Si tratta della forma dell’immediatezza, che alla fine viene riacquisita; essa è il prodotto della riflessione in sé delle determinazioni dell’immediato, cioè della sua automediazione. Infatti essa non aggiunge nulla di nuovo alle determinazioni precedenti; non vi è nessun contenuto nuovo, soltanto un arrivare a sé, che comunque riarticola totalmente, e in maniera nuova, l’immediato130. Questo modello si appli127 HW 5 L I, p. 70; SL I, p. 57. 128 Cfr. R. Bodei, Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il mulino, 1975, p. 308. 129 Sull’idea assoluta come il determinarsi della relazione tra la mediazione assoluta (identità dell’identità) e l’immediatezza (non-identità) e sull’Umschlag (capovolgimento) della mediazione nell’immediatezza rimandiamo a W. Marx, Hegels Theorie logischer Vermittlung, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann, 1972, pp. 61-78. 130 L’idea assoluta è l’essere diventato il metodo e la forma assoluta il cui contenuto vero è tutto ciò già esibito e che ora viene soltanto concepito (begriffen). Cfr. “L’i-

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ca allo sviluppo di tutta la logica hegeliana: l’idea assoluta è quel risultato – il terzo/quarto –, l’immediato ristabilito nella forma di soggetto, ossia l’immediato che è diventato soggetto, il metodo. Se comprendiamo questa determinazione dell’assoluto in senso dialettico-metodico, e non contenutistico, allora è chiaro come il culmine della dialettica, il fondamento di tutto il processo, sia qualcosa di più, ma non un contenuto o un dato materiale nuovo, aggiunto, e neanche una premessa nuova131, ma l’atto stesso dell’autoriflessione. “Il più” che sorge nell’assoluto è l’assoluta automediazione e relazione a se stesso. Per questo Hegel dirà che l’immediatezza che fu un risultato è “soltanto forma”, ma la forma che ora si dà il contenuto, l’oggetto, attraverso la sua negatività immanente. Se torniamo alla suddivisione della dialettica hegeliana in tre o quattro punti vedremo che il terzo di essi (ossia il quarto) con cui si ristabilisce l’immediato, l’inizio, l’essere in quanto riferimento a sé, è un momento che difficilmente si può spiegare a livello di contenuto. Il passaggio al terzo non è un movimento da contenuto a contenuto. Per certi versi il terzo è riacquisito nella forma, nel senso che tutto il contenuto acquisito che il concetto porta con sé, viene riformulato in sé, riarticolato come proprio contenuto132. È un atto, possiamo dire, tautologico, con il quale il percorso della dea assoluta non è niente di nuovo …” (H. Marcuse, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, Firenze, La nuova Italia, 1969, p. 210). 131 Nei suoi appunti sulla Scienza della Logica Lenin, commentando queste pagine, dedica attenzione all’ambiguità del terzo termine mettendo bene in risalto la protesta di Hegel contro la riappropriazione formalistica della triplicità. Ma quando interpreta il terzo termine come una nuova premessa che a sua volta diviene la fonte di un’ulteriore sintesi e così via, egli non si avvede del fatto che la cosiddetta sintesi non è una determinazione contenutistica, ma la determinazione riflessiva del contenuto immediato (Cfr. V. I. Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 227). Con questo tipo di interpretazione si cade indirettamente nel fissare il terzo, come un elemento a parte (premessa, tesi ecc.) e il movimento che si ottiene in tal modo rischia di sfociare nella cattiva infinità (sintesi come nuova tesi che genera antitesi e così via). La circolarità del movimento dell’automediazione, dunque, non sta nel produrre le nuove premesse, ma nel determinare (riflettere) ciò che è immediato, presupposto. 132 Rendere la logica la scienza della forma assoluta è per certi versi la realizzazione finale dell’obiettivo di Hegel: “La logica, essendo la scienza della forma assoluta, questo formale, per essere vero, deve avere in lui stesso un contenuto che sia adeguato alla sua forma” (HW 6 L II, p. 267; SL II, p. 671). E anche: “Il contenuto non è in generale altro che coteste determinazioni della forma assoluta, – il contenuto posto da questa forma stessa e quindi anche commisurato a lei” (HW 6 L II, p. 265; SL II, p. 669). Si legge anche: “Certamente il concetto va considerato

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determinazione giunge alla riflessione di se stessa e acquisisce la positività e l’identità in quanto processo riflesso in sé. Ciò che si ha di più con il terzo momento è “il più” della relazione con se stesso, e il riconoscimento e la riarticolazione di ogni contenuto precedente come proprio. Il terzo si dimostra così come un elemento strutturalmente autorelazionale, sia questo autoriferimento positivo o negativo. 3. La riflessione e il terzo incluso nella contraddizione Se la logica dell’essere è caratterizzata da una successione (Nachfolge) delle determinazioni costituita attraverso il passare (Übergehen) immediato e irriflessivo nel proprio altro, la logica dell’essenza rivela un’altra organizzazione e un’altra dinamica del divenir-altro (Anderswerden). Con la logica dell’essenza, l’altro non emerge accanto al primo da cui è scaturito, ma ciascuno si relaziona all’altro come al proprio altro, e dunque si riflette nell’altro, ovvero, come dirà Hegel a proposito del positivo e del negativo, ciascuno è perfino il suo proprio porsi come l’altro. Nonostante ciò, l’alterità “essenziale” pur essendo relazionale pretende di avere un’esistenza autonoma: al pari dell’immagine speculare che è niente senza l’oggetto che vi si riflette, ma che comunque costituisce un ente relativamente autonomo, così anche le polarità “essenziali” si riportano l’una all’altra senza annullare però una sorta di distanza tra loro133. L’esposizione hegeliana dell’essenza è contrassegnata da una logica binaria e dalla serie delle dualità (positivo/negativo, uguale/ineguale, forma/materia, forma/essenza ecc.), le quali istituiscono una relazione che ancora deve divenire intrinseca: le dualità nell’essenza hanno ancora a che fare con un terzo estrinseco, ossia con una riflessione soggettiva. Il terzo è dunque l’elemento intorno al quale verte la questione della ontologizzazione della riflessione e il superamento della sua accezione soggettiva. Per questo, la domanda che ci si pone qui è se non sia necessario ricercare la figura del terzo proprio nella dottrina dell’essenza: non è proprio l’essenza il luogo di nascita del terzo, il suo luogo vero e proprio? L’analisi della figura del terzo nella “Dottrina dell’essenza” ci induce a considerare le ulteriori sfaccettature della dialettica hegeliana. Poiché si come forma, ma soltanto come forma infinita, creatrice, che racchiude in sé la ricchezza di ogni contenuto e, al tempo stesso, la licenzia da se stessa” (HW 8 E I, p. 307; ESF I, p. 378; § 160 A). 133 Cfr. F. Chiereghin, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, cit., p. 31.

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tratta di un argomento ampio, per motivi di spazio in questa sede ci limiteremo a esaminare le questioni seguenti: Perché Hegel ricorre spesso al terzo estrinseco nella trattazione dell’essenza? Perché, inoltre, la terzietà viene così associata a una posizione esteriore da superare? A proposito delle determinazioni della riflessione, il terzo emerge sempre come istanza della comparazione e della differenziazione, come ciò che Hegel chiama “riguardo indifferente, ossia la differenza estrinseca”134. Questo riguardo indifferente e a se stante è sempre un che di terzo, occupa cioè la posizione autonoma dalla quale i due momenti diversi si mettono a confronto. Ciò è chiaro già nelle pagine introduttive alla Wesenslehre in cui Hegel asserisce che la separazione tra un essenziale e un inessenziale in un esserci (Dasein) non tocca l’esserci stesso, ma una considerazione estrinseca, un terzo in cui cade tale separazione135. E questo carattere del terzo verrà messo in luce soprattutto nel discorso sull’eguaglianza e sull’ineguaglianza136: se qualcosa sia uguale o meno dipende da un riguardo indifferente; uguaglianza e ineguaglianza sono relazioni che cadono in un terzo. In altri termini, qualcosa è uguale o disuguale all’altro soltanto in presenza di qualcos’altro rispetto a ciò che si confronta o mette a paragone: occorre il riguardo di un terzo (Rücksicht eines Dritten), il riguardo indifferente che cade fuori dai due differenziati. Per questa ragione anche il principio della diversità, il quale dice che le cose sono diverse fra loro per l’ineguaglianza, esige la prova di un terzo estrinseco. Si è avuto modo di vedere, dunque, come in due luoghi significativi del testo della “Dottrina dell’essenza” la terzietà sia necessaria e venga introdotta dalla riflessione estrinseca: per mettere i due in relazione ci vuole “il riguardo di un terzo” esterno alla relazione e ai suoi membri. Come è già stato accennato, le prime determinazioni dell’essenza, in quanto l’essere tolto, cioè l’essenziale e l’inessenziale, sin dall’inizio richiedono un terzo: la separazione tra questi due richiede un terzo, ed è soltanto in questo terzo che accade la loro separazione. Dunque, la prima polarità, il primo dualismo della logica dell’essenza è dovuta a una posizione esterna rispetto ai due poli, cioè all’essenziale e all’inessenziale. Hegel per certi versi ribadisce, ora a un ulteriore livello delle determinazioni logiche, il bisogno del terzo elemento che inquadrava la differenza tra essere e nulla all’inizio della logica dell’essere: anche lì, all’esordio della Logica, la prima articolazione della differenza tra essere e nulla era legata a 134 HW 6 L II, p. 51; SL II, p. 469. 135 Cfr. HW 6 L II, p. 18; SL II, p. 438. 136 Cfr. HW 6 L II, pp. 50-55; SL II, pp. 467-472.

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un terzo – appunto il terzo dell’opinare, della riflessione. Solo nell’opinare esiste una differenza tra l’essere e il nulla. Questa soluzione non poteva soddisfare lo spirito speculativo di Hegel, per cui si è giunti al divenire, alla vera terzietà ontologica. Ora, però, sembra che la considerazione estrinseca entri di nuovo in gioco: essa non viene superata nell’introduzione all’essenza, ma si ripete lungo il suo percorso. L’eguaglianza e l’ineguaglianza – e qui ormai abbiamo a che fare con una polarità appartenente alla determinazione della diversità (Verschiedenheit) – costituiscono una differenza estrinseca e dunque richiedono di nuovo un terzo che cade al di fuori. Hegel in realtà delinea qui un tertium comparationis137, un punto di riferimento esterno e indifferente che mette in relazione ciò che è ancora senza relazione immanente con l’altro. “Ciascuno è riferito soltanto a sé” dice Hegel riguardo all’eguale e all’ineguale, anche se sia l’eguaglianza sia l’ineguaglianza sono le determinazioni relazionali (si può difatti parlare dell’eguaglianza e dell’ineguaglianza solo in riferimento a un altro uguale o inuguale). L’identità e la differenza sono qui poste estrinsecamente e dunque separate sia tra loro sia dal terzo che ora entra in gioco per mettere in relazione e comparare due determinazioni. Però il tertium comparationis, oltre a essere il fattore che separa i due, rappresenta al contempo la loro unità negativa: i due uguali o inuguali si riferiscono ugualmente a un tertium e solo in questo tertium esistono come uguali o inuguali. In altri termini, il luogo della loro separazione è in pari tempo il luogo dell’unità, che tuttavia sta al di fuori dei momenti comparati, il che è proprio l’aspetto che induce al superamento del rapporto di eguaglianza/ineguaglianza. L’uguale e l’inuguale hanno un terzo fuori di sé, e dunque un’altra alterità, qualcosa che è altro rispetto a entrambi. Per capire questa dinamica bisogna fare un passo indietro e vedere il modo in cui Hegel articola i momenti dell’identità e della differenza. Sul piano dell’intera organizzazione logica l’essenza è il termine medio (die Mitte), ossia l’intermedio (das Mittlere) 138, che si frappone tra l’essere e il concetto, e che effettua il passaggio dal primo al secondo139. L’essenza (Wesen) in quanto l’essere passato (gewesen), passato senza tempo (zeitlos), introduce il momento di riflessione che poi sarà integrato nello sviluppo del concetto. Il passaggio dell’essere nell’essenza accade nel momento in cui 137 Cfr. HW 8 E I, p. 240; ESF I, p. 314, §117. 138 Cfr. A. F. Koch, Die Mittelstellung des Wesens zwischen Sein und Begriff, in A. Arndt, G. Kruck (a cura di), Hegels “Lehre vom Wesen”, Berlin, De Gruyter, 2016, p. 13ss. 139 Cfr. HW 6 L II, p. 15-16; SL II, p. 435.

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l’essere, raggiunta l’assoluta indifferenza dell’essere, non ha niente fuori di sé in cui sarebbe sospinto a passare. Ciò che rimane alla fine dell’essere è soltanto il puro movimento del passare che non trova più nessuna determinazione, nessun essere-l’uno-accanto-all’altro (Nebeneinandersein): è l’essere svuotato da se stesso. L’unica mossa possibile è il ripiegamento, la flessione dell’essere su se stesso140. È per questo che la fine dell’essere è anche la fine del movimento che contrassegnava le dinamiche delle sue determinazioni, cioè il fine dello Übergehen, per cui il passare stesso passa nel riflettersi. È molto importante far notare che il passaggio dell’essere nell’essenza comporta anche una trasfigurazione strutturale, quella del movimento, e il passare non è più lo stesso: in altri termini, con la transizione dall’essere all’essenza, oltre all’essere anche il passare viene superato, e l’essenza “come un risultato di quel movimento”141 modifica anche il movimento stesso. Il movimento è ora quello del porre che è in pari tempo un riflettersi in sé, dunque un’interiorizzazione (Er-innerung) della determinazione. Anzi, ciò che vi è all’inizio dell’essenza è soltanto quel movimento residuo dell’essere passato e andato in sé: è il movimento del divenire che Hegel definisce come “il movimento dal nulla al nulla, e così il movimento di ritorno a se stesso”142. C’è subito da notare che il nulla occupa una posizione centrale nel determinarsi iniziale dell’essenza: l’essenza significa difatti l’elaborazione del momento del nulla che cambia e arricchisce il significato del nulla, perciò è il nulla dell’essenza che ora deve portare fuori le categorie della realtà annientate, o per meglio dire, deve far sorgere esattamente la categoria della realtà (Wirklichkeit) come culmine della logica dell’essenza143. Definita inizialmente nei termini di movimento dal nulla al nulla, l’essenza rimane impregnata del carattere negativo, cioè della negazione che non ha niente fuori di sé a negare, ma nega se stessa, si riferisce a sé. Per questo la nulli140 Sulla flessione come momento grammaticale della relazionalità e della modalizzazione (preposizioni) e sull’attività riflessiva che si esprime attraverso sostantivi e verbi, cfr. G. Chiurazzi, Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere, cit., pp. 87-93. Secondo Chiurazzi, la differenza tra Hegel e Heidegger si gioca su queste due forme ontologico-grammaticali, cioè sulla differenza tra una sostanzializzazione riflettente e una modalizzazione flettente. 141 HW 6 L II, p. 17; SL II, p. 437. 142 HW 6 L II, p. 24; SL II, p. 444. 143 Sull’essenza come Abgrund che viene a mostrarsi Urgrund, l’abissale fondamento positivo che dalla negazione fa sorgere un mondo (ex nihilo omne ens fit), cfr. L. Lugarini, Il nulla come prima questione della filosofia. Hegel e il nichilismo, in “Annuario Filosofico”, 15, 1999, p. 306, e anche D. Henrich, Hegels Logik der Reflexion. Neue Fassung, in Id. (a cura di), Die Wissenschaft der Logik und die Logik der Reflexion, Bonn, Bouvier, 1978, p. 273.

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tà dell’essere coincide con la riflessione: quest’ultima entra in scena là dove non è rimasto nulla dall’essere e c’è solo l’assoluta parvenza, la negatività assoluta, cioè la negazione che si nega. Di conseguenza, bisogna concludere che anche questo stesso movimento dell’essenza, cioè la riflessione, è solo una parvenza del movimento – il movimento che non raggiunge niente di diverso e non lascia niente dietro di sé. Hegel stabilisce una circolazione riflessiva i cui termini non sono distinguibili, perché sono ugualmente nulli: è il ritorno continuo dove non c’è punto di ritorno prima del ritorno stesso; anzi il momento del ritorno è al contempo il momento della sparizione del punto di ritorno. Per certi versi Hegel attraversa qui di nuovo le categorie dell’inizio e le fa interagire in un nuovo orizzonte144 dove non si impone più la categoria dell’essere, bensì quella del nulla: “presa dapprima come immediata, l’essenza è un esserci determinato (Dasein) cui ne sta di contro un altro”145; inoltre, dato che l’essere è tolto, l’essenza è “il movimento del divenire (Werden) e del passare, che rimane in se stesso”146, ma essa è anche “il nulla di un nulla”147. Sembra quasi che Hegel percorra il cominciamento all’inverso (dal Dasein verso il Werden) per poter arrivare poi all’identità, la prima determinazione della riflessione e, potremmo dire, al primo germe dell’essere in seno all’essenza che poi porterà l’essenza al Hervorgang der Sache in die Existenz (il sorgere della cosa nell’esistenza) e finalmente alla categoria della realtà effettiva (Wirklichkeit). Questo contromovimento che dal nulla fa nascere le categorie come esistenza e realtà effettiva riconfigura il nulla come fondamento originativo148: l’essenza non è nient’altro che questo contromovimento riflessivo della ricostituzione ontologica dell’essere dalla negatività, dal nihil. Come si è visto, Hegel per spiegare il passaggio dell’essere nell’essenza, e di conseguenza il passaggio del passare nella riflessione, si avvale della categoria del divenire. La riflessione per certi versi è il divenire del divenire, il ritorno del divenire a sé (e dunque non il suo passaggio all’esserci) in cui esso rimane uguale a se stesso. Ed è questa autoeguaglianza del movimento della riflessione con se stesso che permette a Hegel di 144 Cfr. HW 8 E I, p. 235; ESF I, p. 310, §114: “Nello sviluppo dell’essenza […] si ripresentano le stesse determinazioni che si sono trovate nello sviluppo dell’essere, ma in forma riflessa”. 145 HW 6 L II, p. 17; SL II, p. 437. 146 HW 6 L II, p. 24; SL II, p. 444. 147 Ibidem. 148 Sul contromovimento e sul fondamento originativo nell’essenza cfr. il testo precedentemente citato di L. Lugarini, p. 304.

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giungere all’identità, alla prima determinazione della riflessione. L’identità che sta a cuore a Hegel non è comunque un semplice autoriferimento astratto dalla differenza, dall’altro e dalla molteplicità: altrimenti non si tratterebbe di un movimento della riflessione. Hegel perciò tenta sempre di trovare il lato opposto in seno all’identità, cioè la differenza come costitutiva per l’identità. E la sua analisi del principio dell’identità dimostra proprio questo: quando si dice che A è A, questa tautologia già implica un’alterità, cioè la possibilità che al posto di A ci sia un non-A, cioè un B. La vera formulazione del principio dell’identità sarebbe “A è _” dove “_” sta per il luogo dell’altro. Il fatto che in questo luogo subentri di nuovo A per affermare il principio dell’identità non rinnega il luogo dell’altro e la possibilità di avere la relazione con qualcosa che non è A. Dunque, l’identità è il risultato di uno sparire della differenza e perfino la tautologia contiene la differenza per lo meno come luogo differente e come posizione dell’altro. La differenza nel movimento della riflessione che prende la forma dell’identità è soltanto uno Schein, la parvenza, ma comunque anche in quanto parvenza essa rimane costitutiva dell’identità stessa. D’altro canto, anche la differenza contiene costitutivamente l’identità. Anzi, i momenti della differenza, dice Hegel, sono sia la differenza che l’identità. Per arrivare a questa conclusione Hegel deve gettare la luce sulla differenza come una determinazione della riflessione: in altri termini, non si tratta di una differenza determinata, cioè di un’alterità rispetto a qualche determinazione che rimane fuori – la differenza non è l’altro di un altro e dunque non è riconducibile al concetto dell’alterità così come viene trattato nella logica dell’essere. La differenza della riflessione può essere soltanto una differenza assoluta, quindi, la differenza che si riferisce a sé, che non ha il suo differente fuori di sé. Ed è appunto questo autoriferimento della differenza assoluta ciò che ripristina il momento dell’identità in seno alla differenza. Esattamente questa tensione tra la differenza in sé e per sé e l’identità, cioè tra la differenza assoluta e il suo imprescindibile riferimento all’identità, costituisce il processo della differenza. E infatti va sempre notato che la differenza non è un momento autonomo e univoco nella logica hegeliana149, perché la differenza si declina come differenza assoluta, e in seguito come distinzione e opposizione: la differenza esiste come una di queste tre modalità e anche come in-

149 Cfr. appendice in S. Landucci, La contraddizione in Hegel, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 91ss.

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tero di tutte le tre modalità. Ossia: la differenza è “l’intiero e il suo momento”150. In tutto ciò si ravvisa palesemente la caratteristica peculiare della logica riflessiva dell’essenza: l’alterità non sta al di fuori, l’altro è sempre il proprio altro, che si ha in sé, ed è dunque riflesso151. Perciò, le determinazioni dell’essenza non sussistono mai senza il suo altro (l’identità mai senza la differenza, il positivo mai senza il negativo), a differenza della logica dell’essere contrassegnata da una certa progressione lineare lungo la quale l’alterità sorge sempre con il tramontare della determinazione precedente. Non sorprende quindi che il risultato della logica dell’essere è l’indifferenza, perché l’irrelazionalità indifferente era già intrinseca a tutte le categorie dell’essere, e in un certo senso tutto l’essere è attraversato dall’indifferenza. L’essenza per certi versi “eredita” questa indifferenza dall’essere sviluppando gli strumenti per combatterla, anche se in un modo ancora limitato; di conseguenza, al posto dell’irrelazionalità del Nebeneinandersein subentra una relazionalità in cui i membri della relazione sono in mutua dipendenza, anche se ciascuno pretende di avere una sussistenza autonoma (questa pretesa sarà risolta e assolta solo con la logica del concetto). Per questa ragione, non sorprende nemmeno che l’ultima determinazione dell’essenza sia proprio l’azione reciproca come verità della correlazione che pervade tutta la sfera dell’essenza. La mediazione infatti trova il suo vero luogo proprio nell’essenza. Torniamo alle determinazioni della riflessione: in effetti ciò che suggerisce Hegel è una compenetrazione tra l’identità e la differenza tale che ciascuna di queste è a un tempo se stessa e altro da sé, cioè ciascuna è un momento della relazione e l’intera relazione. In altri termini, ciascuna è definita attraverso un’autonegazione e un riferimento a sé, che tende a ottenere la sussistenza autonoma152. L’identità è così l’identità e la differenza, mentre la differenza è insieme la differenza e l’identità. Ciascuna è l’unità di se stessa e del suo altro, ossia ciascuna trova se stessa come membro del proprio insieme. Partendo da queste considerazioni Hegel è costretto a fare un passo ulteriore, a introdurre la categoria della diversità (Verschiedenheit), contrasse150 HW 6 L II, p. 47; SL II, p. 465. 151 Per ulteriori approfondimenti rimandiamo ad A. Bellan, La logica e il “suo” altro. Il problema dell’alterità nella Scienza della Logica di Hegel, Padova, Poligrafo, 2002, p. 80ss. 152 Cfr. C. Iber, Hegels Begriff der Reflexion als Kritik am traditionellen Wesens- und Reflexionsbegriff, in A. Arndt, G. Kruck (a cura di), Hegels “Lehre vom Wesen”, cit., pp. 21-34. Il significato logico di questa riflessione hegeliana è “la relazione dell’riferimento a sé e della negazione” (Ivi, p. 25), ed è ciò che costituisce la riflessione come “struttura logica oggettiva”.

228

Tertium Datur

gnata dall’indifferenza, e dunque dalla caduta nell’estrinsecità. È qui che riemerge la figura del terzo, in quanto figura della riflessione estrinseca. Potrebbe sorprendere il fatto che la riflessione alla fine decada da un’unità, ottenuta attraverso la complicazione dell’identità e della differenza, all’indifferenza (Gleichgültigkeit). L’indifferenza è comunque un esito della capacità intrinseca sia dell’identità che della differenza di essere la relazione intera, di includere il proprio altro, e dunque di costituire una determinazione totale indipendente. In poche parole, l’indifferenza della diversità nasce dal fatto che la differenza è anche l’identità, e dunque un riferimento a se stessa: è da questa autoreferenzialità della stessa differenza che si sviluppa la mutua indifferenza sottesa alla diversità. Quest’indifferenza, che va insieme con l’autoreferenzialità nella molteplicità delle cose, si ricava meglio dal principio monadologico leibniziano della discernibilità: ogni cosa è discernibile dall’altra, il che rende il mondo plurale e pieno delle diversità; tuttavia questa diversità si basa sul fatto che ogni cosa è altrettanto uguale a se stessa, rimane monadicamente chiusa in sé, e dunque senza vera relazione all’altro. Prendiamo ora in considerazione il passo successivo, ossia lo sviluppo della diversità nell’opposizione (Gegensatz): si tratta in effetti di un passaggio dall’indifferenza all’esclusione. Nel rapporto dell’eguaglianza e dell’ineguaglianza i membri di rapporto, essendo esterni l’uno rispetto all’altro, in realtà non sono ancora configurati come effettivamente differenti: la differenza è soltanto un aussereinanderfallende Unterschied, cioè la differenza che cade fuori dai membri della relazione. È null’altro che la posizione del riguardo di un terzo che separa, la quale implica un’unità nella separazione indifferente tra i lati distinti dell’eguaglianza e dell’ineguaglianza. L’eguaglianza riflessa in sé contiene il riferimento all’ineguaglianza, e viceversa, perciò si supera il rapporto di mera indifferenza estrinseca (difatti, ha senso paragonare due cose e renderle uguali solo se si presuppone la loro ineguaglianza). In effetti, Hegel trae il rapporto di opposizione dalla diversità perché quest’ultima già contiene l’opposizione (l’indifferenza è in sé già un’esclusione)153. L’eguaglianza e l’ineguaglianza, diventati rispettivamente il positivo e il negativo, sono le determinazioni di una stessa relazione scissa in due, nella quale i lati di questa relazione si escludono a vicenda. Il positivo e il negativo si co-implicano, l’uno non esiste senza l’altro, o, per dirla con Hegel, “ciascuno si riferisce a se stesso, solo in quanto si riferisce al suo altro”154. 153 Sulla problematica deduzione dell’opposizione dalla diversità cfr. S. Landucci, La contraddizione in Hegel, cit., pp. 95-96. Cfr. anche J. Hyppolite, Logic and Existence, trad. di L. Lawlor e A. Sen, Albany, State Univ. New York Press, 1997, p. 116ss. 154 HW 6 L II, p. 57; SL II, p. 474.

L’orizzonte onto-logico del terzo 229

Questo rapporto in cui l’altro non è più fuori di sé, ma è intrinseco, contenuto e riflesso, e allo stesso tempo tendente ad avere una sussistenza autonoma escludendo il proprio altro, è esattamente quell’opposizione dove ciascuno è mediante l’altro (ossia mediante il suo proprio non essere), ma anche “mediante il non essere del suo altro”155, ossia mediante la soppressione (il non essere) della propria alterità. È un rapporto di interdipendenza nella mutua esclusione e nel mutuo bisogno di indipendenza, che genera appunto il positivo e il negativo come opposti (entgegengesetzte). Ora, il modo in cui Hegel supera tale opposizione è indicativo anche per il ruolo che gioca il terzo nelle relazioni binarie. Facendo l’esempio di un cammino verso levante che dura un’ora e che poi va “compensato” con un’altra ora di cammino verso ponente, Hegel suggerisce che ciascuno di questi cammini non è positivo o negativo in sé, ma che solo un terzo riguardo sempre esterno (nur eine dritte, außer ihnen fallende Rücksicht) rende una direzione positiva e l’altra negativa. In altri termini, è assolutamente indifferente se qualcuno si incammina verso ponente o verso levante, ma se si vuole tornare al punto di partenza dopo un’ora di cammino verso levante il nostro ritorno sarà una determinazione negativa rispetto all’andata. Lo stesso vale anche per un debito, dice Hegel: si tratta sempre della stessa somma di denaro, e tuttavia ciò che la rende negativa o positiva è se questa medesima somma di denaro vale per il debitore (dunque il meno) o per il creditore (dunque il più). Ciò che rende una cosa il negativo o il positivo è la relazione e non una proprietà insita nella cosa stessa. Lo svolgimento che Hegel segue riguarda il carattere di questa relazionalità nel suo insieme, ossia il togliere della relazione estrinseca che si sviluppa nella relazione interna e immanente. Anche qui, dunque, vediamo che il dispiegamento delle determinazioni della riflessione non si è ancora liberato da quel terzo che dall’esterno mette in relazione i due, perché la loro relazionalità intrinseca non è stata ancora messa in atto. Il positivo e il negativo si escludono reciprocamente, ma sono ancora indifferenti l’uno rispetto all’altro. Ed è proprio ciò che coinvolge i lati di opposizione in contraddizione: il positivo e il negativo diventano due lati della stessa cosa che si contraddice in sé. Il risolversi della diversità nella opposizione, cioè il farsi della “ottusa differenza del diverso”156 la differenza essenziale, costituisce dunque il passaggio dallo stare-fuori-l’uno-dell’altro allo stare-l’uno-di-fronte-all’altro, cioè la transizione dalla coesistenza simultanea indifferente alla contrapposizione escludente simultanea. L’opposizione tra il positivo e il 155 HW 6 L II, p. 57; SL II, p. 475. 156 HW 6 L II, p. 78; SL II, p. 493.

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Tertium Datur

negativo sarà superata da Hegel rendendo superfluo proprio quel terzo riguardo che interveniva per generare una relazione. Il positivo è in sé anche un negativo e viceversa: per il fatto cioè che gli opposti sono definiti come il positivo e il negativo l’uno di fronte all’altro, di modo tale che l’uno sia posto solo mediante l’altro e che allo stesso tempo l’uno sia in quanto l’altro non è, dunque in quanto quest’ultimo è escluso. Entrambi i lati, cioè sia l’uno che l’altro, sono insieme negativi (l’uno che esclude altro) e positivi (l’uno che deve il suo essere all’altro). Il positivo è quindi la relazione interna al negativo, e vice versa. Questa internalizzazione del rapporto di opposizione è il passo necessario per la contraddizione. Hegel supera l’opposizione non annullandola, bensì potenziandola di modo che l’altro opposto sia una determinazione interna a ciascuno degli opposti. La differenza, scrive Hegel, è già la contraddizione in sé perché contiene già in sé il suo altro157, il suo non essere, dove il rapporto con il proprio altro fa parte dell’autoriferimento. La contraddizione, dunque, è il dispiegamento di questa relazione interna con il proprio altro. E infatti, mentre l’opposizione si presentava come un rapporto orizzontale tra due determinazioni, l’una positiva e l’altra negativa, che si fronteggiano, la contraddizione scinde ulteriormente in due ciascuno di questi opposti, rivelando una dimensione verticale che c’è in loro: ciascuno è dentro di sé sia il negativo che il positivo, dunque sia se stesso che il suo opposto. Ogni cosa o concetto, direbbe Hegel, è rotta/o in sé158, e dunque contraddittoria/o, determinata/o. La contraddizione in realtà funziona come determinazione attraverso l’opposizione159: ciascuno si determina trovando se stesso nell’altro opposto. 157 Cfr. HW 6 L II, p. 65; SL II, p. 482. 158 Cfr. HW 6 L II, p. 79; SL II, p. 494. 159 Vittorio Hösle sostiene che Hegel usa il termine “contraddizione” in duplice senso: a volte “contradditorio” è il sinonimo dell’unilaterale, dunque è una contraddizione della finitezza che essendo separata dal suo opposto va in rovina; e a volte, invece, Hegel usa il termine “contradditorio” come sinonimo del concreto, di ciò che ha incluso il suo opposto e che dunque non è più autocontraddittorio (cfr. V. Hösle, Il sistema di Hegel, cit., p. 251ss). Hegel, difatti, definisce il finito nei termini di contraddizione di se stesso: il finito è qualcosa che si contraddice, attraversato dal limite interno che lo sospinge oltre se stesso. La finitezza (die Endlichkeit), però, non coincide con il finito, ed è definita quasi in termini opposti: la finitezza è il fissarsi di qualcosa e l’irrigidimento che contrappone il finito all’infinito, e dunque non è un’autocontraddizione che porta oltre. Perciò nella finitezza la contraddizione è solo esplicita mentre nel finito accade (Cfr. HW 5 L I, pp. 140-141; SL I, p. 129-130; sulla differenza tra la finitezza e il finito in Hegel cfr. L. Illetterati, Tra la cosa e l’altro. Dialettica del limite e discorso dell’alterità in

L’orizzonte onto-logico del terzo 231

Essa è costituita attraverso “la riflessione determinante come esclusiva”160 (ausschliessende – escludente). Ma ciò che si esclude nella contraddizione non è più e semplicemente l’altro opposto, ma anche se stesso: si tratta di un’operazione di autoesclusione, di esclusione della propria indipendenza. Dunque, l’unità negativa che si raggiunge nella contraddizione è un potenziamento del rapporto escludente esibitosi con l’opposizione: l’esclusione si riflette, si rivolge contro ciò che prima era unilateralmente escludente, e così ciò che prima era considerato solo come opposto nella sua indipendenza passa nel suo opposto togliendo la propria indipendenza. “Ciascuno è assolutamente il passare o meglio il suo proprio trasportarsi nel suo opposto”161. Hegel, infatti, con la contraddizione compie il superamento del movimento del passare che pervadeva la logica dell’essere, introducendo un nuovo movimento che è conforme al movimento della riflessione, appunto il trasportare, o meglio: tradurre (übersetzen). Le determinazioni non passano (Übergehen) più nel loro altro successivo, ma si traducono (sich übersetzen), perché rapportandosi con l’altro mantengono il riferimento a sé, ossia, nell’esclusione di sé si riflettono in sé. E in effetti la contraddizione esibisce una sorta di traduzione determinante nel proprio altro: la determinazione162 esclude se stessa escludendo l’altro, e perciò “si determina come quell’identità stessa ch’esso esclude”163. Nell’ultima nota dedicata alla contraddizione Hegel fa un esempio che sembra assai indicativo:

160 161 162 163

Hegel, in A. Pirni (a cura di), Logiche dell’alterità, Pisa, ETS, 2009, p. 34). Dunque, la contraddizione nella determinazione del finito costituisce l’elemento movente del passare, l’inquietudine che porta oltre, che rimanda all’altro da sé; tuttavia, la stessa contraddizione si risolve soltanto nella logica dell’essenza. L’osservazione di Hösle potrebbe essere così completata: la contraddizione della finitezza non è quella del finito, e poi c’è la contraddizione che si risolve e alla quale possiamo aggiungere anche la contraddizione del discorso sul metodo alla fine della Logica, dove la contraddizione che si toglie diventa la negatività. Se la contraddizione non si limita a essere una categoria nella “Dottrina dell’essenza”, allora non è essa piuttosto una sorta di principio transcategoriale che anima tutte le categorie? È la domanda che pone Landucci in S. Landucci, La contraddizione in Hegel, cit., p. 79. La categoria “essenziale” della contraddizione sarebbe dunque solo la contraddizione posta, “contraddizione che nella sfera dell’essere è soltanto in sé” (Cfr. HW 8 E I, p. 235; ESF I, p. 310, §114). HW 6 L II, p. 65; SL II, p. 482. HW 6 L II, p. 67; SL II, p. 483. Sulla contraddizione come principio della determinazione della cosa cfr. L. Illetterati, La filosofia come esperienza del pensiero e scienza della libertà, Padova, Cleup, 2009, pp. 72-79. HW 6 L II, p. 67; SL II, p. 483.

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Tertium Datur

Il padre è l’altro del figlio, e il figlio l’altro del padre, e ciascuno è soltanto come questo altro dell’altro; e in pari tempo l’una determinazione è solo relativamente all’altra; il loro essere è un unico sussistere. Il padre è anche qualcosa per sé, fuori della relazione al figlio; così però non è padre, ma è un uomo in generale [...] Gli opposti in tanto contengono la contraddizione, in quanto sotto il medesimo riguardo si riferiscono l’uno all’altro negativamente ossia si tolgono reciprocamente e son fra loro indifferenti.164

La contraddizione, dunque, non sta nel rapporto tra le due determinazioni particolari, cioè tra il padre e il figlio nella loro coimplicazione assimetrica (il figlio è soltanto se c’è o c’era un padre, e viceversa), ma dentro ciascuna di queste determinazioni, ossia tra il livello universale e il livello particolare del concetto di entrambi gli opposti (“opposti” nel senso di una relazione assimetrica, escludente tra il padre e il figlio). Il primo livello, il livello dell’universale, è determinato come un puro rapporto a sé, come ciò che è fuori dalla relazione all’altro (außer der Beziehung), dunque l’essere-per-sé astratto. Il secondo livello, il livello del particolare, invece è contrassegnato dal rapporto con l’altro (essere l’altro dell’altro), ed è l’essere relazionale. La contraddizione sta dunque tra l’essere-per-sé e l’essere-perun-altro, oppure tra il padre come tale, che non è solo il padre ma l’uomo in generale, ossia una determinazione universale, e il padre come differenziato, determinato dal rapporto con l’altro (padre-figlio). In alti termini, la contraddizione è soltanto quella che nasce come “riflesso nella ineguaglianza con sé”165: l’universalità del concetto si riflette in sé e incontra la propria disuguaglianza con sé nel rapporto con l’altro (l’uomo in generale può essere determinato sia come padre sia come figlio, sia come maschio sia come femmina ecc.). Le determinazioni del padre e del figlio si co-implicano ed escludono a vicenda (il padre non può essere il figlio del proprio figlio, ma solo il figlio di un terzo soggetto, a differenza del rapporto di amicizia che è reciproco e simmetrico). Tuttavia ciò che li rende contraddittori è “il medesimo riguardo”, il fatto che sia l’uno che l’altro sono un “luogo in generale”166, che possiedono anche una definizione universale, un’inseità autoreferentesi che si determina nell’opposizione e senza questa non vi è, o è semplicemente il nulla167.

164 165 166 167

HW 6 L II, p. 77; SL II, pp. 492-493. HW 6 L II, p. 66; SL II, p. 482. HW 6 L II, p. 77; SL II, p. 493. Cfr. S. Žižek, Tarrying with the Negative. Kant, Hegel, and the Critique of Ideology, Durham, Duke University Press, 1993, pp. 130ss.

L’orizzonte onto-logico del terzo 233

Da questo esempio si evince che con la contraddizione non c’è più bisogno di ciò che Hegel chiama “il terzo riguardo”, e dunque di una posizione estrinseca che mette in relazione i due. L’universale che si esclude e trova se stesso nell’ordine delle particolarità tra le quali c’è un rapporto di opposizione ed esclusione, e senza cui però il concetto in questione non sarebbe stato determinato, costituisce esattamente il modello della contraddizione hegeliana che interiorizza il terzo: il terzo è esattamente lo stesso concetto168 che si presenta sia al livello universale che al livello particolare, ossia è lo stesso concetto che si determina, che si trasfigura dentro l’opposizione togliendo in questo modo sia il rapporto di opposizione sia la propria indipendenza. Per questo la contraddizione è sempre immanente, riguarda sempre le interne determinazioni contrapposte (entgegengesetzte Bestimmungen), e la cosa contradditoria è “il negativo di se stesso sotto un unico e medesimo riguardo”169. Questo “unico e medesimo riguardo” è esattamente il terzo incluso, la cosa stessa che si contraddice in sé e così si trasfigura, determina e concretizza170. Le determinazioni della riflessione, dall’identità fino alla contraddizione171, si lasciano leggere come una progressiva interiorizzazione del terzo, o, detto in altri termini, come l’esclusione riflettente del terzo estrinseco. Il risultato è il terzo come relazione interna e riflessa in un concetto. Questo è possibile soltanto perché le stesse determinazioni della riflessione sono relazioni, e non semplicemente i principi normativi stabiliti per organizzare la realtà caotica. Dire che le determinazioni della riflessione sono delle relazioni vuol dire che identità, differenza, diversità, opposizione e contraddi168 Discorrendo sul principio del terzo escluso (tertium non datur) secondo la quale qualcosa è o A o non-A Hegel conclude: “Il qualcosa stesso è dunque quel terzo, che dovrebb’essere escluso. In quanto le opposte determinazioni nel qualcosa sono tanto poste, quanto in questo porre son tolte, il terzo, che ha qui la forma di un morto qualcosa, è, considerato più profondamente, l’unità della riflessione, nella quale l’opposizione torna come nel suo fondamento” (HW 6 L II, p. 74; SL II, p. 490). 169 HW 6 L II, p. 76; SL II, p. 492. 170 Questo carattere immanente della contraddizione è proprio ciò che conduce certi autori a parlare della contraddizione oggettiva ossia della contraddizione realmente esistente, cfr. D. Losurdo, Le categorie della rivoluzione nella filosofia classica tedesca, in D. Losurdo (a cura di), Rivoluzione francese e filosofia classica tedesca, cit., pp. 343-358. Cfr. anche M. Wolff, Über Hegels Lehre vom Widerspruch, in D. Henrich (a cura di), Hegels Wissenschaft der Logik. Formation und Rekonstruktion, Stuttgart, Klett-Cotta, 1986, pp. 107-128. 171 Per una ricostruzione del percorso delle Reflexionsbestimmungen fino all’opposizione, cfr. F. Schick, Identität und Unterschied als Reflexionsbestimmungen des Wesens in Hegels“Lehre vom Wesen”, cit., pp. 61-80.

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Tertium Datur

zione sono determinati da una duplicità che immediatamente pone il problema del terzo. Prendiamo l’esempio dell’autocoscienza: anch’essa è una relazione e quindi profondamente la mediazione attraverso un terzo. Nella Fenomenologia dello spirito la dualità è ciò che caratterizza la coscienza, e l’autocoscienza mantiene questa dualità di modo che ne diventi cosciente: è la coscienza di sé attraverso la coscienza dell’altro e della differenza dall’altro. L’autocoscienza è dunque un modo in cui Hegel riconfigura la relazione e la differenza172: è la relazione che si riferisce a sé. E tutto lo sviluppo dell’autocoscienza è lo sviluppo di questa relazionalità e insita duplicità. Sia l’autocoscienza che le determinazioni della riflessione devono prima sviluppare una sorta di indipendenza nella relazione all’altro, un’indipendenza speculare per togliere poi questa indipendenza (Selbständigkeit) nell’atto di autonegazione mettendo in atto la propria natura speculativa. Dunque, il carattere comune dell’autocoscienza e delle determinazioni della riflessione sta nell’intreccio fondamentale tra il riferimento a sé, che tende a autonomizzarsi, e l’autonegazione. Tutta la dialettica dell’autocoscienza, come quella della riflessione, si svolge tra questi due termini: autonomia (Selbständigkeit) e (auto)negazione. Allora non è che forse bisogna leggere la fenomenologia hegeliana dell’autocoscienza alla luce delle determinazioni della riflessione? Nel prossimo capitolo esamineremo il capitolo sull’autocoscienza della Fenomenologia per vedere come con il differenziarsi dell’autocoscienza dalla vita (superata già nella figura del desiderio) di fatto essa si apra alla dimensione della terzietà a partire dalla quale sarà soltanto possibile introdurre l’orizzonte intersoggettivo. D’altronde, l’autocoscienza per Hegel condivide la stessa struttura del concetto e già nelle prime pagine della “Dottrina del concetto” Hegel definisce l’Io come “il puro concetto stesso che è giunto come concetto all’esserci”173. Se la logica della riflessione pone le basi per il concetto dell’autocoscienza, la logica del concetto soggettivo pone il concetto come soggetto stesso. Perciò la trattazione dell’autocoscienza non ci allontana dal percorso logico finora condotto, ma ci fa accostare al nucleo intimo del concetto, soprattutto nella sua forma sillogistica – forma che verte tutta intorno alla funzione centrale del termine medio. 172 Che Hegel parlando della differenza nella logica dell’essenza abbia in mente proprio la figura dell’autocoscienza lo sostiene anche Di Giovanni in G. Di Giovanni, Reflection and Contradiction. A Commentary on Some Passages of Hegel’s Science of Logic, in “Hegel-Studien”, no. 8, 1973, p. 138. 173 HW 6 L II, p. 253; SL II, p. 658. E anche: “il concetto, in quanto è arrivato ad un’esistenza tale, che è appunto tale, non è altro che l’Io, ossia la pura coscienza di sé (Ibidem).

CAPITOLO III LA LOGICA DELL’AUTOCOSCIENZA: L’ALTERITÀ E IL TERMINE MEDIO

1. La differenza e la struttura duplice dell’autocoscienza Anche nella figura fenomenologica dell’autocoscienza si ristabilisce il riferimento a sé: l’autocoscienza è la coscienza che sa se stessa nel suo rapporto con l’oggetto, con qualcos’altro di esterno da conoscere1. In questo “sapere se stessa” si instaura anche un nuovo concetto dell’oggetto. L’oggetto, come un altro esterno, sparisce e lascia spazio all’oggetto inteso ora come autocoscienza stessa. L’autocoscienza, come sapere di se stessa, è solo per se stessa, e tutto quello che essa sa di sé diventa il suo oggetto; e in questo modo il sapere corrisponde all’oggetto cosicché l’antitesi tra la verità (oggetto) e la certezza (sapere) viene levata (aufgehoben, tolta). L’autocoscienza significa dunque il levare (Aufhebung), il togliere della differenza e il ritorno dalla differenza (come l’oggetto altro da sé) all’identità con sé. Sembra che con l’autocoscienza il momento della differenza e dell’alterità venga cancellato. Perché ciò che è l’altro dall’autocoscienza non è nient’altro che l’in sé dell’autocoscienza che è per se stessa. Il nostro obiettivo in questo capitolo sarà, tra l’altro, dimostrare come l’autocoscienza non sia un semplice ritorno all’identità, ma sia anche una figura della differenza che ha una struttura duplice e perciò introduce l’orizzonte del terzo. È vero che l’autocoscienza significa il levare (Aufhebung) della differenza, ma bisognerebbe precisare: il levare di un certo tipo di differenza. E la differenza che si toglie è quella che corrisponde alla figura della coscienza oggettiva, per cui la differenza non si sa ancora come differenza, giacché viene percepita come l’essere-altro, come differenza esterna. L’autocoscienza sorge con la coscienza di questa differenza, “come d’una differenza nondimeno immediatamente levata”2. Hegel, perciò, non si limita a instaurare 1 2

“La coscienza di un altro, di un oggetto in generale, è di per sé anche necessariamente autocoscienza, essere riflesso entro di sé, coscienza di se stesso nel proprio essere-altro” (HW 3 PG, p. 135; Fen, p. 119). HW 3 PG, p. 134; Fen, p. 119.

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Tertium Datur

l’autocoscienza come identità con sé e come un semplice ritorno a sé che lascerebbe trionfalmente dietro le spalle ogni differenza. È vero che le definizioni dell’autocoscienza fornite da Hegel (“differenziare di ciò che è indifferenziato, ossia autocoscienza”3) si giocano su questo significato della differenza che dilegua, o del tentativo di differenziazione che quasi sembra vano, e fuori luogo. Bisogna, però, tener presente che l’autocoscienza, come ritorno a sé, introduce un nuovo piano della differenza, e che Hegel perciò non vuole fermarsi al momento dell’essere-per-sé. E a favore di questa impostazione va anche la frase seguente: “Ma l’autocoscienza è divenuta solo per sé, non ancora come unità con la coscienza in generale”4. Non basta che l’autocoscienza diventi un’identità con sé e per sé; essa deve manifestarsi come unità con la coscienza oggettiva, dunque deve essere articolata come differenza. In virtù di questa differenza, che si acquisisce con la figura dell’autocoscienza, si mette in atto tutto il suo sviluppo successivo. Su cosa si basa la differenziazione, ora, quando, come dice Hegel, “la verità è di casa”, cioè l’oggetto da cui si differenziava la coscienza, la verità, non si trova altrove, ma nel seno dell’autocoscienza stessa? La differenza che costituisce l’autocoscienza non è più quella tra la verità e la certezza, ma è – potremmo dire – la differenza da questa differenza. L’autocoscienza nasce dalla perdita dell’autonomia e dall’estraneità dell’in-sé; essa si differenzia da quelle forme di coscienza riconosciute soltanto come sapere di un che di altro. Su cosa si basa questo distinguersi dell’autocoscienza? Sul fatto che la coscienza ora ritiene nullo ciò che prima la costituiva. Essa priva se stessa di ciò che le apparteneva essenzialmente e con ciò ritorna dall’essere inteso come alterità. L’autocoscienza non è nient’altro che il ritorno dall’essere-altro.5 3

4 5

HW 3 PG, p. 134; Fen, p. 119. Riportiamo anche gli altri esempi: “Io mi differenzio da me stesso, e mentre lo faccio, è immediatamente per me che questo differenziato non è tale (Ibidem); “è il guardare dell’omonimo indifferenziato, che respinge se stesso, e si pone come interno differenziato, per il quale però si dà altrettanto immediatamente la non-differenziazione dei due termini: l’autocoscienza” (HW 3 PG, p. 135; Fen, p. 120); “Certo, in tutto ciò vi è anche un’alterità, cioè la coscienza stabilisce delle differenze; ma ciò che essa differenzia nel contempo, per lei, è un che di non differenziato” (HW 3 PG, p. 137; Fen, p. 121); “Infatti, l’in sé, ovvero il risultato universale della relazione dell’intelletto con l’interno delle cose, è il differenziare di ciò che non è differenziabile, ossia l’unità del differenziato” (HW 3 PG, p. 139; Fen, p. 123); “L’autocoscienza è, innanzitutto, semplice essere-per-sé, è uguale a se stessa, escludendo da sé tutto quel che è altro” (HW 3 PG, p. 147; Fen, p 130). HW 3 PG, p. 135; Fen, p. 119. Questa tesi è una pietra di paragone per tutte quelle posizioni che negano il modello riflessivo dell’autocoscienza. L’argomentazione sarebbe la seguente: l’auto-

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 237

In tutto ciò l’autocoscienza non è qualcosa di totalmente distinto rispetto alla coscienza, nel senso che la differenza dell’autocoscienza dalla coscienza oggettiva si basa sul ripiegamento e “ritorcimento” di quest’ultima su se stessa. L’autocoscienza non smette di essere la coscienza. Essa è questa stessa coscienza privata di un certo tipo di rapporto con l’oggetto, e dunque privata di un certo tipo di differenza, che prende il nome di autocoscienza. In termini più dinamici, si può dire che l’autocoscienza non è che questo stesso atto di autoprivazione da parte della coscienza stessa. Essa è il movimento del distaccarsi e del differenziarsi della coscienza oggettiva che in tal modo scopre l’autocoscienza come propria verità: “L’autocoscienza si presenta in tutto ciò come il movimento in cui questa antitesi (Gegensatz) viene levata, e in cui l’autocoscienza assiste al proprio divenire uguale a se stessa”6. Soltanto col ritorno dall’essere-altro (die Rückkehr aus dem Anderssein), e cioè con l’autocoscienza, anche la differenza da esso può confermarsi come differenza. Il punto hegeliano sta proprio in questa riaffermazione della differenza attraverso l’unità con sé. L’autocoscienza è il ritornare dall’esserealtro, con cui l’alterità di questo essere diventa un’alterità per l’autocoscien-

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coscienza non si può fondare attraverso la riflessione, cioè attraverso il ritorno da qualcos’altro, perché per questo ritorno occorre già un’auto-relazione, un autosentimento, dunque un’autocoscienza originaria. È la critica che, con debite distinzioni, condividono D. Henrich, M. Frank, E. Tugendhat, U. Pothast ecc. (cfr. D. Henrich, Selbstbewusstsein. Kritische Einleitung in eine Theorie, in R. Bubner, K. Cramer, R. Wiehl (a cura di), Hermeneutik und Dialektik, Tübingen, Mohr (Siebeck), pp. 257-284; Id., Selbstverhältnisse. Gedanken und Auslegungen zu den Grundlagen der klassischen deutschen Philosophie. Stuttgart, Reclam, 1982; M. Frank, Fragments of a History of the Theory of Self-Consciousness from Kant to Kierkegaard, in “Critical Horizons”, n. 5, 2004, pp. 53-136; Id., Selbstbewusstsein und Selbsterkenntnis. Essays zu analytischen Philosophie der Subjektivität, Stuttgart, Reclam, 1991). La costituzione dell’autocoscienza a partire dal rapporto con qualcos’altro (ad esempio, l’altra autocoscienza) per gli esponenti di questa interpretazione è un circolo vizioso, perché per giungere all’autocoscienza in maniera riflessiva bisogna già avere un criterio del proprio sé. L’unica via d’uscita è dunque concepire l’autocoscienza come un’identità immediata, preriflessiva. Dal punto di vista hegeliano si potrebbe obiettare che l’autocoscienza non è un semplice risultato del rapporto con l’altro, ma anche questo stesso rapporto, che include anche un’identità con sé, cioè un rapporto con sé. La critica di Henrich non risolve il problema, e soprattutto non si avvede dell’apporto costruttivo cioè speculativo della contraddizione nel modello riflessivo. Alla critica henrichiana si può rivolgere la stessa critica, solo in direzione opposta: se l’autocoscienza è l’identità preriflessiva, e in quanto tale il punto di partenza, come spiegare allora la possibilità di mediazione, della riflessione e del rapporto con l’altro? HW 3 PG, p. 139; Fen, p. 123. E anche: “In quanto autocoscienza, essa è movimento” (HW 3 PG, p. 137; Fen, p. 122).

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Tertium Datur

za. La coscienza oggettiva aveva come oggetto l’essere-altro, senza però prendere in considerazione l’alterità stessa dell’essere-altro. Soltanto con l’autocoscienza, cioè con l’identità della coscienza tornata a sé, anche l’alterità, la differenza in quanto tale, può entrare in scena a pieno titolo7. La coscienza, in quanto autocoscienza, ha ormai un oggetto duplice: l’uno, quello immediato, è l’oggetto della certezza sensibile e della percezione, che però è contrassegnato, per l’autocoscienza, dal carattere del negativo; il secondo oggetto, cioè se stessa, costituisce la vera essenza, e inizialmente si dà solo in antitesi al primo.8

L’autocoscienza – dice Hegel – ha una struttura duplice. Si può anche dire che l’autocoscienza è questa dualità riflessa in sé. Ed è appunto ciò che la differenzia dalla coscienza meramente oggettiva. L’autocoscienza diventa uguale a se stessa nella misura in cui mantiene il rapporto negativo rispetto all’oggetto, all’altro della coscienza, e dunque mantiene anche l’aspetto oggettivo necessario per rapportarsi negativamente (purché la negazione sia effettiva, determinata, cioè negazione di qualcosa). La differenza, ossia la duplicità, è costitutiva, ma questa differenza deve essere per l’autocoscienza; dunque è la differenza che va riportata nell’orizzonte dell’autocoscienza stessa per essere riconosciuta come differenza. Il momento della terzietà, cioè il riaffermarsi dell’identità, dell’autoriferimento e dell’autonomia, è strutturato quindi come la presa di coscienza della differenza, e perciò anche come il porre la differenza. Ora, ciò che è differente dall’autocoscienza è “ciò che l’autocoscienza differenzia da sé”9, il che comporta due conseguenze: la prima è che l’autocoscienza si costituisce come il soggetto della differenza, e la seconda è che, di conseguenza, ciò che è differente diventa immediatamente il differente nell’autocoscienza. È l’atto che si lascia definire in termini di interiorizzazione della differenza nel quadro dell’autocoscienza stessa. Con questo cambio di posizione dell’autocoscienza rispetto all’oggetto, anche l’oggetto non può essere come prima; esso è ciò che è differenziato dall’autocoscienza stessa, e dunque “in sé non ha meramente il modo della certezza sensibile e della percezione, ma anzi è un essere riflesso entro di sé”10. 7

A tal riguardo il passo seguente abbastanza esplicito: “nella misura in cui agli occhi dell’autocoscienza la differenza non ha anche la figura dell’essere, l’autocoscienza non è tale” (HW 3 PG, p. 138; Fen, p. 122). 8 HW 3 PG, p. 139; Fen, pp. 122-123. 9 HW 3 PG, p. 139; Fen, p. 123. 10 Ibidem.

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 239

Anzi, il sorgere della figura dell’autocoscienza ha proprio questo significato: l’aspetto dell’oggettività, l’essere-altro, è interiorizzato senza perdere la sua alterità, di modo che anche l’alterità, la differenza viene trasfigurata secondo la forma che le è propria, diventando differenza autocoscienziale. E perciò Hegel constaterà che con l’autocoscienza “si mantiene l’intera estensione del mondo sensibile”11. L’autocoscienza è il togliere (Aufhebung) della coscienza oggettiva con cui si instaura un altro rapporto con l’essere sensibile e con il mondo oggettivo. Con l’emergere della figura dell’autocoscienza muta il rapporto tra la coscienza (ormai diventata autocoscienza) con il mondo sensibile, ma cambiano anche i membri di questo rapporto, e ciò vuol dire che anche il mondo sensibile subisce i cambiamenti12. La negazione dell’oggetto influisce sull’oggetto stesso, di modo che questo ritorna dentro di sé, si piega verso di sé sotto la forma della riflessione in sé, appunto quella forma che caratterizza l’autocoscienza. Questa nuova forma dell’oggetto è la vita – il primo oggetto per l’autocoscienza13. L’autocoscienza, in quanto “quell’altra vita […] per la quale il genere (Gattung) è come tale, e che è genere per se stessa”14, è, potremmo dire, la vita per se stessa; è la vita soggettivizzata che instaura un rapporto con se stessa. E proprio in virtù di questo elemento – l’autoreferenzialità cosciente – l’autocoscienza infrange la propria circolarità vitale, e per certi versi esce fuori di sé. In forza della sua posizionalità eccentrica15, l’autocoscienza si configura come desiderio (Begierde) e dunque come un rapporto con l’altro: il desiderio è sempre un rapporto di negazione rispetto all’altro, cioè rispetto all’oggetto del desiderio. Per definizione esso è un abbandono della propria autosufficienza, la tensione e pretesa verso l’altro. Dunque l’autocoscienza, in quanto desiderio, è sempre l’unità con se stessa, ma è anche la spinta verso l’altro che ha una certa autonomia nell’essere; verso quest’alterità oggettiva ed effettiva è volta la negazione dell’autocoscienza. Ed è appunto il caso del desiderio (Begierde).

11 HW 3 PG, p. 138; Fen, p. 122. 12 “Quel primo oggetto, che per l’autocoscienza è il negativo, da parte sua, per noi o in sé, è tuttavia ritornato entro di sé, proprio come, d’altra parte, è ritornata entro di sé anche la coscienza” (HW 3 PG, p. 139; Fen, p. 123). 13 “L’autocoscienza è certa di se stessa soltanto levando questo altro, che le si presenta come vita autonoma: essa è desiderio” (HW 3 PG, p. 143; Fen, p. 126). 14 Ibidem. 15 Il termine è adoperato da Helmuth Plessner. Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, Torino, Bollati Boringheri, 2006.

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Tertium Datur

2. L’altro resistente: il fallimento della negazione nella figura del desiderio Abbiamo già detto che l’essere-altro, la differenza sono costitutivi per l’autocoscienza, eppure essa viene configurata come uguaglianza con se stessa e come identità di verità e certezza di sé. Questi due momenti (l’essere-altro e l’essere-per-sé, Anderssein e Fürsichsein) presi insieme costituiscono il concetto dell’autocoscienza. Ma proprio perché l’essere-altro è mantenuto, o come dice Hegel, “si mantiene l’intera estensione del mondo sensibile”, anche l’aspetto oggettivo deve presentarsi non più come oggetto di una rappresentazione della coscienza, bensì come una sussistenza autonoma che ha anche il carattere del negativo. Questo oggetto, ovvero il mondo sensibile mantenuto come oggetto dell’autocoscienza, è la vita. La figura dell’autocoscienza che ha la vita come il proprio oggetto è il desiderio. Il desiderio non si rapporta più con il proprio oggetto come si rapportava la coscienza oggettiva, cioè la vita non è mera rappresentazione; essa è il correlato oggettivo del desiderio che desidera negando, cioè andando per certi versi contro la vita. Avere la vita come proprio oggetto significa anche che l’autocoscienza comincia a vedersi come un vivente. Essa non può stare al di fuori delle determinazioni fisiche e biologiche. In tal senso l’autocoscienza fa parte della vita, ma d’altra parte è autonoma e superiore alla vita16. Da questa relazione tra la prima figura dell’autocoscienza (desiderio) e il suo oggetto corrispondente (vita) si articola proprio quella differenza, quell’essere-altro costitutivo per l’autocoscienza stessa. Il desiderio, come prima figura dell’autocoscienza, è sempre qualcosa di più rispetto alla vita. Esso è una rottura con la circolarità vitale, ma nonostante ciò si instaura una nuova circolarità, tra il desiderio e il suo oggetto. E in questo circolo il desiderio esperisce l’autonomia del proprio oggetto, l’indipendenza e l’impenetrabilità della vita, per cui il desiderio non è mai soddisfatto.

16 Per Axel Honneth questa è la prova che il soggetto non è più una categoria epistemica. Essendo un essere vivente esso è un’autocoscienza vitale che ha un rapporto attivo-pratico con il proprio ambiente, con un mondo pieno di vita. Cfr. A. Honneth, Von der Begierde zur Anerkennung. Hegels Begründung von Selbstbewußtsein, in K. Vieweg, W. Welsch (a cura di), Hegels Phänomenologie des Geistes. Ein kooperativer Kommentar zu einem Schlüsselwerk der Moderne, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 2008, pp. 192-193.

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 241

Con il proprio rapporto negativo, l’autocoscienza non ha dunque la facoltà di levare l’oggetto; anzi in questo modo non fa che produrlo nuovamente, così come riproduce il desiderio.17

La logica del desiderio è quella della riproduzione del proprio appetire, della propria insaziabilità. La resistenza dell’oggetto desiderato lascia il desiderio nello stato di perenne e cattiva tensione, e dunque, di costante ricerca della propria certezza. Facendo l’esperienza dell’indipendenza del proprio oggetto, l’autocoscienza infatti fa l’esperienza della propria dipendenza. La desiderata nullità dell’oggetto, dell’altro, trapassa nella nullità della stessa autocoscienza. Siccome il desiderio si configura come affermazione della propria certezza, attraverso la certezza della nullità dell’altro, l’esito negativo e insoddisfacente di questa operazione prende la forma della dipendenza e del fallimento dell’autocoscienza. Ciò che fallisce è infatti la sua ricerca dell’indipendenza e della certezza. Il desiderio vuole se stesso, vuole affermarsi e conservarsi attraverso la negazione del proprio oggetto. Ma trattando l’oggetto come nullo, esso giunge all’esperienza della propria nullità. Questo ribaltamento quasi ironico, comunque, sottrae la soddisfazione proprio quando questa si cerca disperatamente: quando si ostina a raggiungere la propria soddisfazione, essa rimane irraggiungibile, o soltanto limitatamente raggiungibile. La vita rimane indipendente e autonoma, e il desiderio ne fa l’esperienza18. La riproduzione del desiderio causata dall’insoddisfazione si dimostra inferiore rispetto alla riproduzione circolare della vita, nonostante il fatto che il desiderio sia sempre qualcosa di più rispetto alla vita. Il desiderio, dunque, non è ancora l’autocoscienza vera. Anche la sua negazione non è vera così come non è vera l’alterità a cui l’autocoscienza si rivolge. L’alterità che deve corrispondere all’autocoscienza deve essere autonoma, al pari della vita, ma deve anche essere autonegante, cioè l’oggetto deve essere dotato della capacità di negarsi19. Un tale oggetto può essere soltanto un’altra autocoscienza. “L’autocoscienza raggiunge il proprio 17 HW 3 PG, p. 143; Fen, p. 126. 18 L’oggetto singolo del desiderio sarà consumato, annientato, ma ciò che si mantiene è l’oggettività dell’oggetto del desiderio. Questa Gegenständlichkeit als solche non può sparire, per cui anche il desiderio si deve rigenerare in continuazione. Cfr. W. Marx, Das Selbstbewusstsein in Hegels Phänomenologie des Geistes, Frankfurt a. M., Klostermann, 1986, p. 47. 19 “In virtù dell’autonomia dell’oggetto, l’autocoscienza può conseguire l’appagamento (Befriedigung) soltanto nella misura in cui sia questo stesso oggetto a compiervi la negazione” (HW 3 PG, p. 144; Fen, p. 126).

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appagamento solamente in un’altra autocoscienza”20. Il passaggio dalla vita all’altra autocoscienza si compie sull’orizzonte dell’esser-altro, cioè dell’oggetto e del suo rapporto negante. L’essenza del desiderio, come scrive Hegel, era qualcos’altro rispetto all’autocoscienza21. Potremmo dire che il desiderio e il suo oggetto non si conoscono reciprocamente. Il desiderio non esiste per l’oggetto, cioè l’oggetto esiste a prescindere dal fatto che esso sia l’oggetto del desiderio o meno. L’indipendenza della vita è indifferente alla volontà dell’autocoscienza di essere indipendente. D’altra parte, anche il desiderio non conosce il proprio oggetto, e non sarebbe sbagliato dire che nonostante l’inclinazione verso l’altro, quest’altro, l’oggetto, non esiste per il desiderio. Il desiderio non lo riconosce, ma lo tratta come nullo, come strumento del proprio appagamento e della propria affermazione. Le differenze dell’oggetto, ossia la sua specifica singolarità, non importano al desiderio che vuole essere soltanto soddisfatto22. Questo scoglio si può superare soltanto se al posto dell’oggetto dell’autocoscienza viene un’altra autocoscienza. Ciò che segue all’appagamento del desiderio è la sua riflessione in sé, l’esperienza della propria dipendenza e della propria mancanza. Dal trattamento annientante del desiderio si giunge all’esperienza della propria nullità. Da questa certezza capovolta nell’incertezza e nel fallimento emerge infatti la verità dell’autocoscienza. Questa verità si articola come lo sdoppiamento, la duplicità dell’autocoscienza. La logica della riproduzione e della cattiva infinità, operante nel desiderio, è sostituita dalla logica dello sdoppiamento e della reciprocità. Il fatto che “si tratta di una autocoscienza per una autocoscienza”23 rivela che l’autocoscien20 HW 3 PG, p. 144; Fen, p. 127. Come spiega Werner Marx, questo non va inteso come se ci dovessero essere sempre e solo due autocoscienze. La possibilità dell’altro pone anche la possibilità della pluralità. In altri termini, c’è il rapporto tra le due persone, come nell’amore o nell’amicizia, ma l’autocoscienza si esprime e trova l’appagamento anche là dove ci sono più soggetti (famiglia, società, popolo, ecc.). Cfr. W. Marx, Das Selbstbewusstsein in Hegels Phänomenologie des Geistes, cit., p. 51. 21 Cfr. HW 3 PG, p. 143; Fen, p. 126. 22 Come illustra Gadamer riguardo alla poca rilevanza delle differenze che possono avere i diversi oggetti del desiderio: “Chi ha fame vuol qualcosa da mangiare, non importa cosa” (H. G. Gadamer, La dialettica dell’autocoscienza, in R. Dottori (a cura di), La dialettica di Hegel, cit., p. 79). Un esempio uguale troviamo anche in W. Marx, Das Selbstbewusstsein in Hegels Phänomenologie des Geistes, cit., p. 47. 23 HW 3 PG, p. 144; Fen, p. 127.

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 243

za esiste soltanto come riconosciuta da un’altra autocoscienza. Il movimento del riconoscimento è ora quello che definisce lo svolgimento delle figure dell’autocoscienza. L’autocoscienza è sdoppiata, e ogni mossa nell’una comporta la mossa dell’altra. Le due si riconoscono a vicenda in un rapporto speculare. E così si imbocca la strada di intersoggettività come momento costitutivo dell’autocoscienza. Ma ciò che bisogna ribadire subito è che l’intersoggettività non costituisce qui “una condizione esterna”, “circostanza”, bensì una condizione trascendentale ed immanente all’autocoscienza. L’autocoscienza ha in sé una struttura duplice, e perciò essa è sempre un rapporto con la propria alterità. Il momento dello sdoppiamento e del riconoscimento dell’altra autocoscienza si ripercuote sul significato dell’esteriorità, di modo che questa era già presupposta nella struttura interna dell’autocoscienza. La dialettica del riconoscimento24 che culmina nella fa24 Come riporta Italo Testa nel testo introduttivo del suo studio ricostruttivo sulla nozione di Anerkennung nell’itinerario jenese di Hegel (1801-06), a parte le lezioni di Alexander Kojève degli anni ’30, il tema del riconoscimento per lungo tempo non ha incontrato nessun interesse particolare da parte degli studiosi di Hegel. Il lavoro pionieristico a tal proposito è stato l’articolo di Ludwig Siep uscito in “Hegel Studien” (L. Siep, Der Kampf um Anerkennung. Zu Hegels Auseinandersetzung mit Hobbes in den Jenaer Schriften, in “Hegel-Studien”, 9, 1974, pp. 155207) a cui è seguito anche il libro dedicato interamente al riconoscimento e il suo significato pratico (L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, Freiburg, Alber Verlag, 1979, tr. it. di V. Santoro, Il riconoscimento come principio della filosofia pratica, Lecce, Pensa Multimedia, 2007). Con questo coincide anche la pubblicazione del volume delle Hegel-Studien dedicato alla filosofia jenese hegeliana contenente un articolo di Henry S. Harris (Cfr. H. S. Harris, The Concept of Recognition in Hegel’s Jena Manuscripts, in D. Henrich, K. Düsing (a cura di), Hegel in Jena, Bonn, Bouvier, 1980, pp. 228-247). Però, la vera crescita dell’interesse per il tema del riconoscimento avverrà soltanto negli anni Novanta, e qui soprattutto bisogna sottolineare il merito del libro di Axel Honneth (A. Honneth, Kampf um Anerkennung, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1992, tr. it. di C. Sandrelli, Lotta per il riconoscimento, Milano, il Saggiatore, 2002) che, formulando una lettura pratico-sociale dello Hegel jenese, ha aperto tutta una serie di tematizzazioni e di confronti con i problemi che segneranno anche il cosiddetto nuovo hegelismo americano e il suo approccio normativo (ad esempio, Terry Pinkard e Robert Pippin). Il lavoro che invece spicca tra tutti questi filoni del pensiero, dando al riconoscimento un significato più ampio dell’approccio pratico-sociale, è senz’altro lo studio di Paul Ricoeur (Cfr. P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, Paris, Stock, 2004, tr. it di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento, Milano, Cortina, 2005). Sulla scia dell’estensione ricoeuriana del concetto del riconoscimento anche il lavoro di Testa, già accennato, tenta di costruire una teoria generale del riconoscimento unendo i suoi aspetti epistemologici, ontologici, pratici e normativi. L’interpretazione di Testa è centrata sulla nozione di ricono-

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mosa figura del signore e del servo, è soltanto il porre di ciò che era già intrinseco all’autocoscienza, cioè la sua definizione in quanto rapporto con l’alterità. In Hegel la condizione dell’intersoggettività25 è sempre intrecciata con la condizione dell’intrasoggettività (la stessa struttura del prefisso “inter” è presupposta da un “intra”). 3. Sillogismo dello specchio: lo sdoppiamento dell’autocoscienza Lo sdoppiamento dell’autocoscienza, che introduce un rapporto speculare tra le due autocoscienze, è il primo passo verso la sua identità speculativa. L’interscambiabilità e la reciprocità che si esigono ora superano l’asimmetria del desiderio, dove l’autocoscienza negava l’oggetto, mentre l’oggetto rimaneva indifferente a questa negazione, e dunque rimaneva autonomo, sostanzialmente fuori portata del desiderio. Il rapporto del desiderio al suo oggetto, per il desiderio stesso, è ancora rapporto tra il soggetto e l’oggetto che non è ancora soggetto. Ora invece l’autocoscienza ha l’altro come oggetto, di modo che questo altro sia anche il soggetto, il quale per di più ha come proprio oggetto la prima autocoscienza. Ognuna è oggetto per l’altra e soggetto per se stessa. E dunque, ciò che l’una autocoscienza fa, può fare anche l’altra. O come dice Hegel, “ciascuna vede l’altra fare la stessa cosa che essa fa”26. Perciò essa nel rapporto con l’altra si rapporta anche con se stessa.

scimento naturale, che getta anche una nuova luce sulla concezione hegeliana dello spirito. Il riconoscimento non si esaurisce perciò nei rapporti intersoggettivi normativamente validati e linguisticamente articolati, ma c’è un piano riconoscitivo basato sull’interazione con l’ambiente e con gli altri che riguarda la prima natura, che è però sempre dialetticamente connessa con la seconda natura sociale (Cfr. I. Testa, La natura del riconoscimento. Riconoscimento naturale e ontologia sociale in Hegel, Milano – Udine, Mimesis, 2010). 25 Certi autori, come Georg Bertram, sulla scia di Terry Pinkard, parlano ad esempio delle strutture sociali della razionalità, che non si possono spiegare come un semplice rapporto intersoggetivo tra Io e Tu oppure tra Io e Noi. L’intersoggettività dunque non è né partecipazione alle prassi collettive né interazione tra gli individui. Essa nasce piuttosto dalla riflessione conflittuale sulle prassi interattive nel mondo condiviso. L’intersoggettività per certi versi ha come risultato un’autocomprensione della socialità e delle sue pratiche articolate riflessivamente G. W. Bertram, Hegel und die Frage der Intersubjektivität, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie“, 56, 2008, pp. 877-898. 26 HW 3 PG, p. 146; Fen, p. 129.

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 245

Hegel definisce questo momento dell’interscambiabilità e della reciprocità come “puro concetto del riconoscere”, inteso come una liberazione dell’alterità attraverso la liberazione dal proprio esser-altro. Ma in questo puro e astratto riconoscimento non si è ancora compiuta la liberazione, o meglio dire non si è ancora fatta l’esperienza “di ciò che lo spirito è” 27. Nel rapporto duplice e reciproco tra le due autocoscienze, come dice Hegel, “è già presente per noi il concetto dello spirito”28. Ma questo “per noi” indica la posizione dell’osservatore-filosofo, che già avendo presente lo sviluppo anticipa per certi versi l’esplicazione dell’immanenza dell’autocoscienza come spirito29. A questo punto si entra nella sillogistica dell’autocoscienza, nella quale, come cercheremo di spiegare, la liberazione dell’autocoscienza si compie tramite la liberazione del termine medio (die Mitte). “Il termine medio” – dice Hegel – “è l’autocoscienza, che si scompone negli estremi, e ciascun estremo (jedes Extrem) è questa interscambiabilità della propria determinatezza, nonché assoluto passaggio (absoluter Übergang) nell’estremo opposto (in das entgegengesetzte)”30. Il compimento della logicità immanente dell’autocoscienza parte dalla sua scomposizione nei termini del sillogismo, affinché essa, come vedremo in seguito, si possa ricomporre come una totalità, cioè come il medio vero (die Mitte). Nel rapporto reciproco tra le due autocoscienze ognuna prende l’altra come il termine medio per congiungersi con se stessa. Ognuna è riconosciuta perché riconosce (“I due estremi si riconoscono come riconoscentisi reciprocamente (gegenseitig sich anerkennend)”31). Così, ognuna diventa certa di sé soltanto tramite questa mediazione del reciproco riconoscimento, e non più nel tentativo di negare l’oggetto del proprio desiderio. “E ciascuno costituisce, ai propri occhi e a quelli dell’altro, 27 HW 3 PG, p. 145; Fen, p. 127. 28 Ibidem. 29 Per una ricostruzione della nozione di spirito in Hegel sin dai suoi scritti giovanili fino alle opere mature, e anche in vista di una prospettiva generale che voleva lasciare alle spalle il dualismo che dominava la cultura occidentale dell’epoca, si rimanda a M. Pagano, Lo spirito nel pensiero di Hegel, in M. Pagano (a cura di), Lo spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, Milano-Udine, Mimesis, 2011, pp. 345-371. Sul concetto dello spirito, in una prospettiva legata più all’Enciclopedia, cfr. A. Peperzak, Autoconoscenza dell’assoluto: Lineamenti della filosofia dello spirito hegeliano, Napoli, Bibliopolis, 1988, pp. 21-43. Si veda anche R. R. Williams, Hegel’s Concept of Geist, in P. G. Stillman (a cura di), Hegel’s Philosophy of Spirit, Albany, State University of New York, 1987, pp. 1–20. 30 HW 3 PG, p. 147; Fen, p. 129. 31 HW 3 PG, p. 147; Fen, p. 130.

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un’essenza immediata [corsivo nostro] che è per sé, e che nel contempo è per sé soltanto tramite questa mediazione”32. 1. IO



2. L’ALTRO DI UN ALTRO

L’ALTRO IO (il termine medio)



IO

L’ALTRO DI UN ALTRO

Se in primo luogo (la prima linea nello schema) il rapporto tra le due autocoscienze si sviluppa come una simmetria speculare, dove ciascuna si congiunge con se stessa attraverso l’altra (l’altro Io), ora vediamo che c’è un momento di rottura, cioè il rapporto simmetrico è molto di più di un’affermazione di identità. In questo sillogismo – che vogliamo definire “sillogismo dello specchio” – l’Io nella conclusione si sintetizza con se stesso passando attraverso il termine medio dell’altro: l’Io entra in rapporto con l’altro, poi si riconosce nell’altro, vede l’altro fare le stesse cose che egli fa, e alla fine si unisce con se stesso, mediato da questa esperienza con l’altro. Se, spiegato così, non rimane nient’altro che un rapporto bilaterale mimetico, in cui l’una autocoscienza fa qualcosa “solamente nella misura in cui l’altra fa lo stesso”33, dove sta allora la rottura? Sta nel fatto che l’altro non si può ridurre all’immagine del proprio Sé. Quando Hegel parla del doppio ritorno (eine doppelsinnige Rückkehr)34 egli intende liberazione dell’alterità nel ritorno di ciascuna autocoscienza a sé: l’autocoscienza torna a se stessa, “riottiene se stessa”, ma torna a se stessa come alterità, e dunque non più come prima35. Questo movimento passa attraverso un momento cruciale, quello del levare se stesso, e in ciò levare il proprio essere-altro, dunque, la propria immagine speculare. Ora, potremmo dire, il rapporto si articola come un infrangersi dello specchio, dove al posto della propria immagine riflessa sta l’alterità effettiva, o meglio: nasce l’alterità come sussistenza per sé. Dunque, nella conclusione 32 33 34 35

Ibidem. HW 3 PG, pp. 146-147; Fen, p. 129. Cfr. HW 3 PG, p. 146; Fen, pp. 128-129. “Per ciascun estremo, si dà il fatto di essere immediatamente un’altra coscienza, e di non esserlo” (HW 3 PG, p. 147; Fen, p. 129).

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 247

sillogistica non possiamo avere una semplice affermazione dell’identità, l’Io giunto a sé come Io=Io. La conclusione è piuttosto “Io è l’altro dell’altro.” La peculiarità della simmetria speculare di Hegel è che essa fa nascere l’alterità nel seno dell’Io stesso e l’Io nel seno dell’alterità. Il procedimento sillogistico si può formalizzare anche così: L’ALTRO è UN ALTRO IO (cioè un’alterità come me, il mio altro) IO è un ALTRO, e dunque: OGNUNO è L’ALTRO DI UN ALTRO (la conclusione infatti è raddoppiata, c’è doppia conclusione: Io è altro per un altro, e l’altro Io è l’altro per un altro)

La conclusione, dunque, in termini hegeliani, è la liberazione dell’alterità, cioè la costituzione di ciascuna autocoscienza come l’altro dell’altro e il suo riconoscimento in quanto alterità irriducibile al momento dell’identità astratta. Il risultato che si ottiene è lo sdoppiamento in due alterità, in due essenze immediate tra le quali si istituisce un rapporto di simmetria quasi speculare, il che Hegel spiega come “il fare sia dell’uno sia dell’altro”. Con l’aspetto del “fare” tuttavia si entra nella rete dei rapporti pratici che lungi da essere simmetrici sono piuttosto contrassegnati dalle disuguaglianze, dal conflitto e dalle lotte – dal rapporto di opposizione. Dapprima tale concetto [n.d.A concetto del riconoscere] presenterà il lato della disuguaglianza delle due autocoscienze, ossia il transitare del termine medio negli estremi (Heraustreten der Mitte in die Extreme); i quali, in quanto estremi, sono fra loro opposti (entgegengesetzt); l’uno è soltanto il termine riconosciuto, l’altro è soltanto il termine che riconosce.36

Questa nuova situazione, dove l’uno è soltanto riconosciuto, e l’altro è soltanto riconoscente, culmina nella dialettica del signore e del servo. E qui non vale più l’interscambiabilità del termine medio, dove l’una prende l’altra autocoscienza come termine medio per congiungersi con se stessa. In altri termini, come vedremo fra poco, l’una autocoscienza (signore) e l’altra (servo) prendono dei termini medi diversi per rapportarsi con l’altro.

36 HW 3 PG, p. 147; Fen, p. 130.

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4. La lotta mortale e la morte del termine medio L’autocoscienza si è costituita come unità dell’essere-per-sé e dell’essere-per-un altro (das Sein für ein Anderes), ma ora si tratta di togliere l’oggettività di questo essere-per-un altro. Sembra che l’autocoscienza, essendo costitutivamente per l’altra autocoscienza, non voglia essere l’oggetto dell’altra, e dunque debba rinunciare all’oggettività dell’essere-per-l’altra. La differenza dalla negazione dell’autocoscienza nel desiderio è palese: qui l’autocoscienza non tenta di negare un qualche oggetto del desiderio, in quanto altro esterno, per guadagnare la propria certezza. Mentre nel desiderio l’autocoscienza negava l’oggetto fuori di essa, qui bisogna negare il proprio modo oggettivo, cioè il proprio essere oggetto per l’altra autocoscienza. Dunque, ciò che ogni autocoscienza fa, l’una per l’altra, è compiere il movimento dell’astrazione assoluta. Le autocoscienze che non hanno ancora astratto da ogni essere immediato “non si sono ancora presentate (dargestellt) l’una all’altra come puro essere-per-sé, vale a dire, come autocoscienze”37. Ciò che accade a questo grado del dispiegamento della struttura spirituale dell’autocoscienza è in qualche modo la tensione tra l’essere-per-sé e l’essere-per-un altro, tra i due momenti costitutivi di ogni autocoscienza. Siccome ciascuna delle due appare all’altra come oggetto, allora ciascuna vuole ora liberarsi proprio da questo suo esser-oggetto agli occhi dell’altra. In altri termini, quel che è in gioco è il “rafforzamento” del primo momento costitutivo – l’essere-per-sé. L’autocoscienza cerca di dimostrarsi, di dare prova della propria indipendenza da ogni esistenza determinata in due direzioni: mettendo la propria vita a repentaglio e perseguendo la morte dell’altro. Le due autocoscienze così entrano in lotta e la simmetria semplice del puro riconoscimento reciproco sparisce. “Solo mediante la lotta si può conquistare la libertà”38. Il paradosso della lotta per la vita e per la morte sta proprio in ciò: l’autocoscienza deve contestare il proprio essere-oggetto-per-un-altro, ma lo deve fare appunto davanti all’altro. Si deve cioè dare prova all’altro, e non soltanto a se stessi, di essere qualcosa di più di un mero oggetto che all’altro appare immediatamente. Detto con le parole di Hegel, bisogna “mostrarsi come negazione pura del proprio modo oggettivo”39. L’autocoscienza dunque tenta di levare il fatto di essere altro per un altro, ma lo fa in 37 HW 3 PG, p. 148; Fen, p. 130. 38 HW 10 E III, p. 220; ESF III, p. 273, §431 A. 39 HW 3 PG, p. 148; Fen, pp. 130-131.

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presenza dell’altro, il quale a sua volta fa la stessa cosa, cioè deve inverarsi anch’esso attraverso la soppressione del proprio esser-altro per un altro. Questa dinamica, quasi teatrale, della mutua esibizione di sé produce il conflitto e uno scontro tra le due autocoscienze che lottano per la vita e per la morte. Lo spostamento di Hegel è dunque significativamente quello dalla simmetria al conflitto, o per meglio dire: egli rivela nell’equilibrio del reciproco riconoscimento una logica conflittuale. Ciò che Hegel mette in risalto in queste pagine è che l’autocoscienza si può costituire soltanto a partire dall’orizzonte irriducibile dell’altro, il quale proprio grazie a questa irriducibilità si capovolge in conflitto. L’autocoscienza non è il prodotto irenico di un accordo, ma il risultato dialettico di un conflitto40. Nel mettere la propria vita a repentaglio l’autocoscienza vuole dimostrare a se stessa (e all’altro) che la vita, dunque l’esser-oggetto, non ha più alcun significato e alcun valore per essa. Allo stesso tempo vuole dimostrare che anche l’altro, il che a questo punto ha lo stesso significato di un oggetto, non ha più valore di essa41. L’autocoscienza non può annientare l’altro, 40 Questi aspetti vengono messi a fuoco in maniera molto chiara da Emmanuel Renault che obiettava, a tutte le letture di Hegel centrate sulla nozione del riconoscimento, che il concetto di lotta non si può ridurre alla cosiddetta “lotta per il riconoscimento”, perché così si dà una prospettiva prettamente consensuale e riconciliatrice del soggetto, e dunque della società, che fallisce nel non vedere il nesso tra il riconoscimento e il dominio. Il riconoscimento è una condizione necessaria, ma non sufficiente della libertà. Inoltre, l’autore nota che Hegel ha preferito parlare di “lotte di riconoscimento” (in plurale) anziché “lotta per il riconoscimento”, termine del tutto assente nella Fenomenologia. Cfr. E. Renault, Riconoscimento, lotta, dominio. Il modello hegeliano, in “Postfilosofie”, anno 3, n. 4, 2007, pp. 29 -45. 41 Terry Pinkard interpreta questa negazione dell’altro come tentativo di imporre il proprio punto di vista soggettivo all’altro, che non si riconosce come agente capace di un punto di vista vero, cosicché la propria visione del mondo, in quanto unica ritenuta valida, si elegge a verità oggettiva, punto di vista impersonale (Cfr. T. Pinkard, Hegel’s Phenomenology. The Sociality of Reason, Cambridge, Cambridge Uni. Press, 1994, pp. 55-59). Questa impostazione di Pinkard che tratta tutto il percorso fenomenologico dell’autocoscienza alla luce di una teoria del sapere, anche se in una prospettiva pragmatica, sorvola sul fatto che nella lotta per la vita e per la morte si tratta piuttosto delle condizioni trascendentali dell’autocoscienza, della tensione tra i suoi momenti costitutivi e intrinseci (l’essere-per-sé e l’essereper-un altro) e non (in primo luogo) dei soggetti già costituiti come portatori di una certa visione del mondo. Perciò in questa lotta si tratta piuttosto di ciò che il soggetto è o vuole essere, e non tanto della visione del mondo che ha. La morte entra in gioco soltanto là dove si decide sull’essenza della stessa autocoscienza, per cui tutta la vicenda non si può ricondurre allo scontro tra due visioni del mondo escludentisi.

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causando la sua morte, come non può sacrificarsi raggiungendo la propria morte, perché così sparisce la condizione della propria autoaffermazione, sparisce cioè il proprio essere-per-sé che si vuole dimostrare. La morte in questa dialettica ha il significato del limite, cioè di un filo rosso che non si deve oltrepassare, ma lungo il quale bisogna camminare, perché il soggetto vuole dimostrarsi come indipendente da tutto, come pronto a rinunciare a ogni sostanzialità e a ogni essere. In questi momenti del massimo allontanamento dalla vita, il quale è tra l’altro cominciato già con il desiderio che alla fine si è dimostrato troppo simile ai processi vitali, Hegel utilizza il concetto della negazione assoluta per spiegare sia la massima libertà del soggetto sia il suo limite più assoluto – la morte. Questi due momenti sono connessi perché la soggettività libera, seppure in un senso limitato, si acquista soltanto affrontando la morte42. Sarebbe forse più corretto dire che l’autocoscienza, invece di tendere a morire, vuole proprio essere la morte. Se nel desiderio l’autocoscienza imita la vita, almeno nel tentativo di negare l’essere vivente individuale, ora l’autocoscienza, volendo essere al di sopra della vita, imita la morte, cioè assume lo stesso significato della negazione assoluta di ogni naturalità e essenzialità estranea. Sia con la morte dell’altro, il quale appunto è l’unica fonte del riconoscere, sia nella propria morte, si perderebbe la condizione di ogni riconoscimento, e dunque si perderebbe la condizione di essere soggetti. L’impresa iniziale viene così totalmente vanificata. Il modo di affermarsi del soggetto si rivela controproducente. Come scrive Hegel, dilegua il momento essenziale, cioè la stessa autocoscienza che si scompone negli estremi, e “il termine medio (die Mitte) ricade in un’unità morta, che si scompone in estremi morti, meramente essenti, non in opposizione”43. Invece di essere più della vita (o meglio: avversa ad essa), l’autocoscienza, l’altra vita realizzata, astraendo da qualsiasi implicazione vitale e determinazione naturale, cioè “realizzando” la morte, diventa per certi versi soltanto un organismo morto, diventa ciò che non voleva essere, una cosa-oggetto. La morte di un’autocoscienza in contesa è la negazione dell’autocoscienza in quanto tale, del suo principio. Per questo il decesso di un termine in contesa, cioè di un agente nella lotta mortale, implica la perdita del termine medio e anche la scomparsa dell’intera relazione. Il sillogismo esperisce la sparizione 42 “L’individuo che non ha osato rischiare la vita può bensì venire riconosciuto come persona; ma non ha raggiunto la verità di questo riconoscimento come autocoscienza autonoma” (HW 3 PG, p. 149; Fen, p. 131). 43 HW 3 PG, p. 150; Fen, p. 132.

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del termine medio e anche gli altri termini sono destinati a sparire, cioè a diventare meramente essenti, come dice Hegel. È la logica sillogistica, come paradigma della vita, che scompare qui. Non c’è il termine medio effettivo, non c’è la vita, non c’è opposizione, e di conseguenza neanche lo scambio reciproco. I termini del sillogismo, cioè gli agenti in lotta, “si lasciano liberi a vicenda con indifferenza (gleichgültig), come non fossero che cose-oggetto (als Dinge)”44. Non vi è ancora una vera mediazione, quella della parola, la mediazione simbolica45, perché all’altro non si parla e l’altro non si ascolta nemmeno. L’inferenza di Hegel è dunque lampante: tramite la lotta per la vita e per la morte (o meglio: tramite la lotta contro la vita e per la morte) l’autocoscienza intendeva elevare a verità la propria certezza, ma l’esito è assai diverso. Non si giunge soltanto all’impossibilità di verità (la quale si costituisce soltanto nella relazione con un altro, dotato della capacità di riconoscimento), ma anche si distrugge ciò che si aveva prima, cioè la certezza di se stesso. La morte è il nemico irriducibile che distrugge e dissolve implacabilmente ogni determinatezza, anche quella che l’autocoscienza si è guadagnata per sé. Il disprezzo della vita non è una soluzione, e dunque ogni soggetto deve essere lasciato in vita, perché soltanto dal soggetto essente, vivente, può pervenire il riconoscimento. Dunque i due esseri-per-sé entravano in lotta perché rifiutavano il proprio essere-per-un altro, il modo di essere oggetti per qualcuno. L’autocoscienza voleva semplicemente “levare il suo essere-fuori-di-sé (Außersichsein)”46. Il risultato di questa lotta è la vanità di questo tentativo e la vacuità in cui di conseguenza precipita l’astrazione dell’essere-per-sé. L’autocoscienza impara dunque a mantenere il momento dell’essere-perun altro e dell’essere oggettivo come essenziale per la propria sussistenza, per l’essere-per-sé. Nonostante ciò i momenti costitutivi (l’essere-per-sé e l’essere per un altro) non sono ancora uniti, il che dimostra lo sdoppiamento dell’autocoscienza in due soggetti separati dove l’uno è il signore e l’altro è il servo. La configurazione della dialettica del signore e del servo dipende proprio da ciò che si è conquistato nella lotta, cioè il posizionamento viene deciso a seconda della prontezza nello slegarsi dalla vita naturale. Il signore 44 Ibidem. 45 Sulla figura del signore e del servo come archetipo dell’ontologia del linguaggio si rimanda al saggio di L. Bagetto, La figura della parola, Torino, Trauben, 2000, pp. 32-36, pp. 120-122 e pp. 147-151. 46 HW 3 PG, p. 149; Fen, p. 131.

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sarà colui che si è dimostrato più deciso nell’affermazione del proprio essere per sé, e che si è elevato al di sopra della vita ritenendola come qualcosa di puramente negativo. Il servo è quello che si è rivelato asservito alla vita, non capace di elevarsi astraendone. L’essere autonomo è la sua catena, dice Hegel47. Il rapporto tra il signore e il servo viene così definito dal rapporto di ciascuno di loro con la vita, cioè con l’oggettività propria della autocoscienza. Prende qui forma una triangolazione, tale che il rapporto tra due soggetti è mediato anche dal loro rapporto con l’oggetto. L’autocoscienza dominante, dunque, stabilisce un certo rapporto con l’essere da cui prima aveva astratto. È nel carattere di questo rapporto che sta il suo futuro destino. Ciò che l’ha resa signore, nel dialettico rapportarsi con il servo, la renderà l’opposto di ciò che è diventata, cioè in uno svolgimento ulteriore l’autocoscienza signorile si rivelerà non autonoma. Riassumiamo brevemente tutta la dialettica. 5. I due sillogismi della signoria: dominio e godimento L’autocoscienza-signore si rapporta dunque a due momenti, alla cosaoggetto e al servo. In primo luogo, a entrambi essa si rapporta immediatamente, giacché ha in sé i momenti dell’oggettività e dell’alterità. In secondo luogo, essa ha bisogno di un termine medio, cioè di una mediazione per rapportarsi all’altro. E così alla cosa il signore si rapporta tramite il servo, mentre al servo si rapporta tramite la cosa. Il modo di rapportarsi del signore è dunque sdoppiato: Signore → oggetto → servo Signore → servo → oggetto In entrambi i casi si frappone un terzo che ha il ruolo di mediatore, di termine medio. Nel primo caso lo scopo primario del signore non è l’asservimento e il lavoro servile, bensì l’uso dell’oggetto. Siccome il servo è sempre legato all’oggetto (come a una sua catena, dice Hegel), il rapporto con l’oggetto porta il signore a rapportarsi necessariamente anche al servo, che non potendo staccarsi dall’oggetto per certi versi 47 “Esso è la sua catena, dalla quale non ha potuto fare astrazione durante la lotta, ed è per questo che egli si è dimostrato non-autonomo, e ha mostrato di avere la propria autonomia nella cosalità (Selbständigkeit in der Dingheit zu haben)” (HW 3 PG, p. 151; Fen, p. 133).

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appartiene all’orizzonte dell’oggettivo. Esso è “coscienza nella figura della cosalità”48, cioè l’essenza del servo non è ancora nel proprio essere-per-sé, perché il suo essere-per-sé è immerso nella cosalità, reificato. Perciò il signore si rapporta nei confronti del servo così come si rapporta all’oggetto, come a due cose non autonome. Per l’autocoscienza che domina, il servo non è autonomo, perché esso è innanzitutto incatenato alla vita, attaccato alla cosa, posto “in sintesi con un essere autonomo ovvero con la cosalità in generale”49. O detto più precisamente: il dominio del signore sul servo si instaura attraverso l’attaccamento del servo all’essere che ancora esercita il potere su di esso. Di nuovo il procedimento ha una forma sillogistica, la quale ha come conclusione la sottomissione del servo al signore50: Il sillogismo del  dominio

Il signore domina sopra la vita La vita domina sul servo Dunque, il signore domina sul servo (Il servo è sottomesso al signore)

Questo procedimento ci indica che il dominio e la sottomissione non vanno eseguiti in modo immediato, ma attraverso la premessa minore, cioè quella che stabilisce il rapporto tra il servo e la vita. La vita è il termine medio. E il rapporto che si ha con la vita definisce il carattere della conclusione, cioè del dominio. Il dominio non è un dato di fatto immediato, bensì il risultato di una mediazione, di una lotta e del rapporto che in questa lotta si ha con la propria soggettività. In altri termini, il dominio è un fatto sociale derivato e non è originario. D’altra parte, come indica la seconda relazionalità del signore, egli non si rapporta immediatamente all’oggetto, da cui già prima è riuscito a staccarsi. Il suo rapporto con l’oggetto è costituito tramite il suo dominio sul servo, cioè è mediato dal rapporto di sfruttamento nei confronti del servo51. 48 HW 3 PG, p. 150; Fen, p. 132. 49 Ibidem. 50 Va notato: Hegel stesso usa la figura dello Schluss (sillogismo/conclusione) per introdurre la dialettica del signore e servo (Cfr. HW 3 PG, p. 151; Fen, p. 133). 51 Nella interpretazione di Baudrillard, il signore stabilisce il suo potere attraverso il lasciar il servo in vita. “Colui che lavora resta colui che non è stato messo a morte” (J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. di G. Mancuso, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 56). La signoria si fonda così su una sospensione della morte affinché il servo possa lavorare per il signore. Il servo non ha diritto alla morte, la sua morte è confiscata dal signore, per poter effettuare il dono del lavoro al servo e instaurare la dominazione attraverso il lavoro dell’altro. Perciò nella

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La conclusione del sillogismo del dominio (“il signore sottomette il servo”) diventa ora la prima premessa nel sillogismo che riporterà il signore all’oggetto. Però ciò che bisogna elaborare in questo secondo sillogismo della signoria è il termine medio, ossia, il servo e il suo rapporto con l’oggetto. Hegel dice che nonostante la riduzione alla cosalità, il servo è comunque autocoscienza in generale, dunque contiene in sé il momento dell’essere per sé e dell’autonomia, soltanto che questi momenti non sono per il servo. Nonostante ciò, in quanto autocoscienza, il servo nega l’oggetto, ma questa negazione ha ora un altro carattere rispetto alla negazione che abbiamo incontrato nel desiderio. La negazione del servo cioè non è motivata da un desiderio di annientamento dell’altro (il che tra l’altro non è nemmeno possibile perché l’aspetto dell’autonomia dell’oggetto prende sempre il sopravvento). Il servo ora lavora sull’oggetto, lo forma e lo elabora. La negazione del servo non ha il significato di una mera nullificazione, bensì di una determinazione. Se lavorando il servo sviluppa il rapporto all’oggetto come a un essere autonomo, ora è il signore a occupare la dimensione della non-autonomia della cosa-oggetto. Il signore si rapporta all’oggetto come a un puro oggetto di godimento, che va negato per trovare appagamento. Dunque la logica del desiderio ritorna nella figura del signore realizzandosi a sua volta come godimento, cioè non come rapporto immediato all’oggetto, ma come rapporto mediato dal lavoro servile. Ciò che distingue il desiderio (Begierde) dal godimento (Genuß) è il fatto che il secondo è esplicitamente mediato da un rapporto intersoggettivo, e per di più da un rapporto di dominio. Tutto il sillogismo del godimento potrebbe essere riassunto così: Il sillogismo del godimento

Il signore domina sul servo. Il servo lavora l’oggetto. Dunque: il signore gode l’oggetto.

Nella conclusione del sillogismo il signore viene “sintetizzato” (schließt sich, dice Hegel) con l’oggetto nel suo aspetto non-autonomo, mentre tutta la parte autonoma viene lasciata al servo e al suo lavoro. Dunque, il sillogismo del godimento scinde lo stesso oggetto in due aspetti, uno dei quali si addice alla premessa minore (quella che definisce il lavoro del servo) mentre l’altro alla conclusione (che definisce il godimento). Per spingersi anche oltre, potremmo dire che proprio grazie a questa scissione in dimenprospettiva di Baudrillard la dialettica del signore e del servo si palesa come una dialettica della riproduzione del potere, basato sul lavoro come morte differita.

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sione autonoma e non-autonoma dell’oggetto, la conclusione sillogistica è affatto possibile. O in termini più concreti: il signore gode soltanto perché c’è un servo che lavora. Per ora, come vediamo, la scissione dell’oggetto in un aspetto autonomo e in uno non-autonomo (negato) viene accompagnata dalla scissione in servo che è negato (e altrettanto autonegante) e signore che è autonomo. Quale sarebbe ora il termine medio, il terzo che unirà l’autocoscienza nei suoi due aspetti (essere-per-sé autonomo e essere per un altro autonegante)? La posizione iniziale definita dai due sillogismi, quello del dominio e quello del godimento, è che il servo è l’oggetto della negazione del signore misconoscente nei suoi confronti. D’altronde il servo è il soggetto di una negazione formatrice e determinata nei confronti dell’oggetto di lavoro. Tuttavia, ora, attraverso la logica del riconoscimento, si arriva alla conclusione che l’autocoscienza servile realizza la negazione del signore, e in ciò l’autocoscienza si può capire come autonegante (la verità del servo sta nel signore, la sua essenza è l’essere per un altro, e dunque è costituita da questo altro, cioè dal signore). In altri termini, senza il servo che riconosce il signore come tale la negazione da parte del signore (e dunque il suo dominio) sarebbe ineffettiva52. Concedendo al signore di essere negato, il servo partecipa a questa negazione di se stesso, e dunque si autonega. In questo senso vanno comprese le riflessioni di Hegel a proposito del momento del riconoscere nel rapporto signore-servo. Ma qui si dà anche l’altro momento, in cui questo fare della seconda coscienza è il fare che è proprio della prima; e infatti, ciò che il servo fa è propriamente un fare del signore.53

52 Secondo Terry Pinkard la dominazione del signore è un fatto sociale, totalmente contingente, cioè senza alcun fondamento metafisico o epistemologico, basato soltanto sul riconoscimento unilaterale del servo che accetta il punto di vista del signore come il suo proprio. Se il suo asservimento non deriva da una differenza metafisica tra lui e il signore, ma è una contingenza sociale che sta nel fatto di aver accettato la dominazione, allora la dialettica e la trasformazione dell’autocoscienza sta tutta nel carattere del riconoscimento. Il punto di vista del signore smette di essere dominante quando il servo ritira per certi versi il proprio riconoscimento avvedendosi della sua contingenza congiunturale. Ciò che Pinkard chiama la necessità di un punto di vista comune e “oggettivo”, cioè l’orizzonte della socialità, sorge dalla presa di coscienza della contingenza storica di ogni negazione dell’altro. Cfr. T. Pinkard, Hegel’s Phenomenology. The Sociality of Reason, cit., pp. 60-63. 53 HW 3 PG, p. 152; Fen, p. 133.

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In questa “mimesis” del signore, tramite negazione, il servo nasce come soggetto. Cioè, egli fa esattamente quello che il signore fa nei suoi confronti: si autonega, prende se stesso come oggetto di negazione. Affinché possa essere oggetto dell’autocoscienza del signore, una cosa-oggetto deve essere negabile. Ciò che ora emerge in superficie è che l’oggetto del signore non è soltanto negabile, come una semplice cosa naturale, ma è anche dotato di negazione e di riflessione. O detto in altri termini, è dotato della capacità pratica del fare. Il fare del servo rimane ancora inessenziale, ossia, come dice Hegel, “non puro”. Come il servo torna al proprio essere-per-sé, cioè come lo restituisce? Senz’altro attraverso la riflessione, in quanto atto di negazione. La riflessione del servo rimbalza dall’essere-per-sé, che egli trova nel signore, per scoprirlo in sé. Egli lo scopre proprio attraverso “il fare del signore”, cioè attraverso la negazione che il signore esercita nei suoi confronti. In altri termini, il servo si riconosce nella negazione del signore. Ma ciò non vuol dire ancora che l’auto-riconoscimento nella negazione del signore porti il servo a negare direttamente il signore, e ancor meno al fatto che il signore cominci a riconoscere il servo. Abbiamo ancora, come indica Hegel, un riconoscimento unilaterale e disuguale, ossia, manca proprio l’altro lato, il compimento del riconoscimento in cui “ciò che il signore fa nei confronti dell’altro, lo fa anche nei confronti di se stesso, e ciò che il servo fa nei confronti di sé, lo fa anche nei confronti dell’altro”54. In altri termini, manca il momento della negazione assoluta, in cui il signore negherebbe se stesso (come nega anche il servo) e in cui il servo negherebbe il signore (come ha negato se stesso, il proprio essere per sé e la propria essenza). Ogni estremo nella relazione sarebbe, dunque, sia negato che negante. In un tipico rovesciamento hegeliano la falsità (sotto forma di “fantasia di onnipotenza”) portata alle ultime conseguenze conduce alla verità, e ciò che è immediatamente passa nel suo opposto55. Il signore ai suoi occhi diventa totalmente opposto a ciò che voleva essere. Si tratta perciò di una presa di coscienza del fatto che la verità è posta nell’altro. E dato che nel caso del signore l’altro è la coscienza inessenziale che egli non riconosce, la sua certezza di se stesso non può elevarsi a verità. E di conseguenza, la verità ritenuta dal signore, ai suoi occhi, si capovolge nell’opposto. Il carattere dell’altro viene a definire la sua autocoscienza, e cioè, il signore si pa54 HW 3 PG, p. 152; Fen, p. 134. 55 “là dove il signore si è realizzato in modo compiuto, esso è divenuto ai suoi occhi qualcosa di totalmente diverso da una coscienza autonoma.” (HW 3 PG, p. 152; Fen, p. 134).

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lesa come una coscienza non autonoma. Dunque la realizzazione della signoria sfocia nella sua autonegazione. È per certi versi la presa di coscienza del termine medio nel sillogismo del godimento. Ora il signore si rende conto che senza il servo non sarebbe stato né signore né avrebbe avuto accesso all’oggetto del godimento. È il servo che lo ha reso signore. In questo senso la verità della coscienza signorile è fuori di essa, nel fare non puro e inessenziale della coscienza servile. Anche dall’altro lato, la coscienza servile subisce dei cambiamenti radicali, passa nel suo opposto e si converte in vera autonomia. È la logica complessiva della signoria e della servitù, cioè il dominio e il godimento, che viene qui infranta. Il signore diventa il proprio opposto, cioè l’autocoscienza non autonoma, ma la stessa logica della sottomissione non si riproduce più (se il servo caso mai diventasse un nuovo signore, non si farebbe nessun passo avanti). Il motivo è che il servo con la propria emancipazione ha scoperto il suo vero padrone, cioè la morte – la morte definita come “la naturale negazione della coscienza stessa, la negazione priva dell’autonomia (die Negation ohne die Selbständigkeit)”56. 6. Sillogismo dell’emancipazione L’angoscia davanti alla vacuità della morte rivela al servo l’abisso della negazione e dell’essere-per-sé in lui stesso, nella sua più profonda interiorità57. Nel provare tutto ciò, la sua interiorità è stata dissolta; essa ha tremato profondamente entro di sé, e tutto ciò che in lei vi era di stabile è stato scosso. Tale puro movimento universale, l’assoluto divenir fluido (das absolute Flüssigwerden) di ogni sussistere, costituisce però l’essenza semplice dell’autocoscienza, la negatività assoluta, il puro essere-per-sé che perciò si trova in questa coscienza.58 56 HW 3 PG, p. 149; Fen, p. 131. Sulla morte come pura negatività si vedano le pagine di A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, a cura di G. F. Frigo, Milano, Adelphi, 1996, p. 680ss, p. 692. Secondo Kojève la morte e la libertà sono due manifestazioni della stessa cosa – della negatività. La morte è la manifestazione autentica della libertà (cfr. Ivi, p. 690). L’uomo è libero in quanto essere mortale. 57 Come nota Stephen Houlgate nei suoi commenti alla Fenomenologia, ciò che conta nella paura della morte non è tanto paura del niente, quanto paura di essere niente, di essere morto. Cfr. S. Houlgate, Hegel’s Phenomenology of Spirit. A Reader’s Guide, London, Bloomsbury, 2013, pp. 98-99. 58 HW 3 PG, p. 153; Fen, p. 134.

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Il momento principale è dunque l’esperienza della morte (o meglio: l’esperienza della paura della morte) come esperienza di sé stesso e della propria essenza. La negatività dunque non si manifesta più come una forza esterna. Ora, il puro Werden, come negazione di ogni esistenza, che Hegel descrive come Flüssigwerden, il divenir fluido, la furia del dileguare, è ciò che costituisce il fulcro dell’autocoscienza stessa. Essa non è nient’altro che questa forza di negazione, “universale dissoluzione”59. In altri termini, il soggetto si riconosce nella morte come prima il servo si riconosceva nella negazione del signore. Dal riconoscersi nella vacuità della negatività può risultare soltanto un rapporto astratto con se stessi. Per la vera emancipazione, dunque, non basta l’esperienza della morte, ma ci vuole l’esperienza del concreto, del determinato. Questa esperienza Hegel la trova nel lavoro, nel levare della determinatezza naturale dell’oggetto con il quale esso diventa appunto oggetto del lavoro, elaborato (ausgearbeitet). Se nell’angoscia davanti alla possibilità di essere morto, ridotto al nulla, il servo esperiva la propria negazione, la finitezza e la dipendenza dall’Altro radicale (morte), nel lavoro invece esperisce il proprio rapporto negante e determinante con l’oggetto. Ma soltanto nel lavoro questa negazione viene messa in atto, compiuta effettivamente, cosicché in virtù dei risultati del lavoro, dei suoi prodotti (e dunque oggetti) il soggetto può giungere a se stesso e rendere cosciente la propria attività negativa. Ossia, l’autocoscienza servile si riconosce nell’oggetto del lavoro come nell’oggetto del proprio lavoro – l’embodiment della propria libertà. Infatti, nel suo formare la cosa-oggetto (in dem Bilden des Dinges), la coscienza assiste al fatto che la sua negatività, il suo essere-per-sé, le diviene oggetto soltanto perché essa leva la forma essente opposta. Ma questo negativo oggettivo è appunto quell’essenza estranea di fronte a cui la coscienza del servo ha tremato.60

Tutta la speculatività della Bildung, cioè dell’attività formante, sta nella sua logica che è la stessa logica dell’Aufhebung. L’oggetto formato, elaborato, viene senz’altro negato, ma non totalmente annientato, bensì mantenuto. La materialità dell’oggetto continua a costituire la differenza oggettiva rispetto al soggetto; cioè l’oggetto gli rimane comunque autonomo61. L’embodiment formante dell’attività del soggetto sottrae all’oggetto la sua 59 HW 3 PG, p. 153; Fen, p. 135. 60 HW 3 PG, p. 154; Fen, pp. 135-136. 61 “l’oggetto ha autonomia rispetto a chi lo lavora” (HW 3 PG, p. 154; Fen, p. 135).

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immediatezza, lo “emancipa” dalla sua determinatezza naturale e dall’ottusità della vita sostanziale, gli dà un’alta forma, lo simbolizza (l’oggetto formato diventa un artefatto culturale) e “tramite tutto ciò, la coscienza che lavora (das arbeitende Bewußtsein) giunge dunque a intuire l’essere autonomo come se stessa (als seiner selbst)”62. Se il rapporto col signore costituiva l’essere-per-un altro del servo, attraverso il rapporto con la morte il servo acquista il momento dell’essere-persé insieme col momento dell’essere-in-sé che si costituisce attraverso il suo rapporto con l’oggetto di lavoro. Dunque possiamo illustrare in questo modo la posizione del servo: Signore Morte Oggetto Servo Con tutto ciò viene definitivamente abbandonata la logica speculare (che sin dall’inizio seguiva la costituzione intersoggettiva dell’autocoscienza: emersa nel puro concetto di riconoscimento, fungeva anche da sottofondo nella lotta per la vita e per la morte) per dar luogo all’elemento speculativo. La differenza tra lo speculare e lo speculativo sta proprio nella presenza del terzo termine che preclude la riduzione dell’alterità alla propria immagine, al mero proprio esser-altro, oppure a un che di appropriato. Anche nello speculare abbiamo una mediazione tramite un altro, ma soltanto con l’elemento speculativo (con il quale si inaugura l’elemento razionale-positivo) la mediazione passa attraverso l’oggetto, cioè attraverso un contenuto determinato. Lo speculativo, come spiega Hegel, “coglie l’unità delle determinazioni nella loro contrapposizione”63 e “contiene in sé come superate quelle opposizioni a cui si ferma l’intelletto (e quindi anche l’opposizione tra soggettivo e oggettivo) e proprio così mostra di essere concreto e come totalità”64. Con l’ingresso dell’elemento specula62 HW 3 PG, p. 154; Fen, p. 135. 63 HW 8 E I, p. 176; ESF I p. 253; §82. 64 HW 8 E I, p. 178; ESF I p. 255; §82A.

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tivo nella logica dell’autocoscienza, essa, dunque, comincia a costituirsi come totalità, e come unità concreta delle proprie determinazioni distinte, il che alla fine porterà anche al superamento dell’opposizione tra il signore e il servo. L’autocoscienza dunque non indietreggia dall’abisso che avvertiva nella paura della morte; esso piuttosto viene trasfigurato nel fondamento dell’agire pratico, della simbolizzazione del mondo esterno. Il soggetto in questo modo “elabora” anche la propria paura, recupera l’interiorità profondamente scossa, perché vi si accosta ora dall’esterno. Il lavoro, secondo la nota definizione hegeliana, è “desiderio tenuto a freno, dileguare trattenuto (gehemmte Begierde, aufgehaltenes Verschwinden)”65. È la Bildung della propria potenza dileguante, simbolizzazione dell’abisso dell’essere-per-sé ed elaborazione della negatività dell’autocoscienza, che non evapora nel desiderio ardente, e non si consuma “impigliata nella monotona, indefinitamente estendentesi alternanza di desiderio e di soddisfacimento di questo”66, ma piuttosto assume una forma, che è la forma dell’oggetto ossia della sussistenza dell’essente, l’inseità. Assistiamo qui dunque a una sorta di scambio reciproco delle forme. Nel dare la propria forma all’oggetto, la soggettività in contraccambio riceve anche una guisa esteriore, assume il significato dell’essere-in-sé. Questo termine medio negativo, cioè il fare che dà-forma, è nel contempo la singolarità o il puro essere-per-sé della coscienza, la quale ora, nel lavoro, esce fuori di sé e accede all’elemento del permanere.67

Nel sillogismo dell’emancipazione il termine medio è il lavoro, “il fare che dà forma” (das formierende Tun), dunque la negazione determinata. Ma proprio in virtù di questo termine medio e del suo carattere negativo gli estremi non sono più come due entità separate e non trapassabili, che stanno in lotta oppure sono sottomesse l’una all’altra. Dall’escludersi reciproco delle autocoscienze si passa allo stadio dove l’autocoscienza stessa, in65 HW 3 PG, p. 153; Fen, p. 135. Anche nell’Enciclopedia, Hegel spiega la differenza tra il desiderio e il lavoro in questo modo: “Il rapporto del desiderio all’oggetto è ancora interamente quello della distruzione egoistica, non quello del formare. Nella misura in cui l’autocoscienza si rapporta all’oggetto come attività formatrice, l’oggetto riceve soltanto la forma della soggettività, che in esso acquista una sussistenza, ma viene conservato quanto al contenuto” (HW 10 E III, p. 218; ESF III, p. 271; §428 A). 66 HW 10 E III, p. 218; ESF III, p. 271; §429 A. 67 HW 3 PG, p. 154; Fen, p.135.

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tesa ora come attività formatrice, viene determinata come universalità che unisce i termini separati (dunque supera l’esclusione tra signore e servo68). Il termine medio è pervenuto all’universalità che permette ai membri della relazione, cioè al mediante e al mediato, di scambiare i posti senza danneggiare la differenza tra di loro. Perciò, nella stessa citazione qui sopra, Hegel definirà il termine medio, cioè l’attività formante, come la singolarità, il puro essere-per-sé, dunque ciò che si è palesato come l’essenza più intima e interiore dell’autocoscienza. Questa esposizione ci segnala le somiglianze e le analogie con ciò che Hegel nella Logica elaborerà come sillogismo disgiuntivo. In questo, secondo le parole di Hegel, “il medio (die Mitte) è poi l’universalità riempita colla forma. Esso si è determinato come la totalità, come universalità oggettiva sviluppata”69. L’universalità della vita-oggettività che sin dall’inizio determinava l’autocoscienza attraverso varie sue figure, ora, a sua volta viene determinata, cioè (tras)formata secondo il senso proprio dell’autocoscienza. L’universalità riempita con la forma, allora, è l’oggetto emancipato, affrancato dalla sua naturalezza e diventato l’oggetto formato dal soggetto. D’altra parte, anche l’autocoscienza, nella figura del servo, viene determinata come l’universale, e non soltanto come la singolarità dipendente da un’altra singolarità. E infatti la libertà, in termini logico-speculativi, ha esattamente il significato dell’emancipazione dall’altra singolarità (quella del signore) attraverso la determinazione dell’universale, appunto attraverso il lavoro e l’oggettivazione della coscienza nel lavoro. Perciò sarà possibile che l’autocoscienza, finalmente, si sviluppi come totalità che comporta (e determina) come suoi momenti tutti gli aspetti entrati in gioco: l’essere-per-sé dell’autocoscienza, l’essere-in-sé come cosalità e l’essereper-un altro come intersoggettività. O, come dice Hegel, a proposito del sillogismo disgiuntivo: Il medio, che vi è posto come totalità del concetto, contiene cioè esso stesso i due estremi nella loro completa determinatezza. Nella differenza loro da questo medio gli estremi son soltanto come un esser posto cui non compete più di fronte al medio alcuna determinatezza propria.70

68 “In luogo della brutale distruzione dell’oggetto immediato, subentrano l’acquisizione, la conservazione e la formazione dell’oggetto, in quanto termine medio (das Vermittelnde) nel quale i due estremi dell’indipendenza e della dipendenza si congiungono” (HW 10 E III, p. 218; ESF III, p. 276; §434). 69 HW 6 L II, p. 398; L II, p. 797. 70 HW 6 L II, p. 399; L II, p. 798.

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L’autocoscienza, in altri termini, viene proposta come una totalità che contiene sia l’essere-per-sé dell’autocoscienza, la sua essenza interiore e pura, sia la sua differenza oggettiva, cioè l’essere-in-sé autonomo, la cosa, ma anche l’essere-per-un-altro. Questi momenti della totalità, questi estremi, non hanno nessuna determinazione al di fuori del principio dell’autocoscienza. Essi sono posti, dunque, riflessi proprio come momenti dell’autocoscienza, per cui non possono apparire l’uno all’altro come esterni. E proprio al pari del sillogismo disgiuntivo, dove il termine medio è tanto l’universale, quanto il particolare e la singolarità71, e dove il soggetto del sillogismo è presente in entrambe le premesse, nonché nella conclusione (determinato prima come genere universale, poi come il genere diviso nelle sue specie, particolarizzato, e infine come singolarità escludente72), l’autocoscienza è dunque il soggetto universale che attraversa, permea e costituisce tutte le premesse della libertà, dal desiderio fino al lavoro. Dunque, nella conclusione del sillogismo dell’emancipazione, sulla falsariga del sillogismo disgiuntivo che riesce a ricomporre l’universalità del concetto che venga completamente e intrinsecamente differenziato73, l’autocoscienza si configura come totalità, o più esattamente, come relazione tra 71 Cfr. Ibidem. E anche: “L’universale mediatore è posto anche come totalità delle sue particolarizzazioni e come un particolare singolo, come singolarità esclusiva – nel sillogismo disgiuntivo; – in modo che l’uno e medesimo universale è in queste determinazioni soltanto come nelle forme della distinzione” (HW 8 E I, p. 344; ESF I, pp. 414-415; §191). Sarebbe interessante indagare come questa unità negativa in cui l’universale è posto insieme come totalità e come il proprio particolare in effetti corrisponda alla logica della contraddizione, la quale nasce come “riflesso nella ineguaglianza con sé” (HW 6 L II, p. 66; SL II, pp. 482), cioè laddove l’universalità del concetto si riflette in sé e incontra la propria disuguaglianza con sé nel rapporto con sé, cioè con sé come il proprio particolare, il proprio altro. Cfr. p. 232ss. di questo studio. 72 Cfr. K. Düsing, Syllogistik und Dialektik in Hegels spekulativer Logik, in D. Henrich (a cura di), Hegels Wissenschaft der Logik. Formation und Rekonstruktion, cit., 1986, pp. 15-38. Sul tema del sillogismo in Hegel cfr. anche L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia, Milano, Guerini e associati, 2000, pp. 205-249. 73 Leo Lugarini conclude giustamente che Hegel recupera la diaresis platonica, ma con la logica del sillogismo, culminante nel sillogismo disgiuntivo, la supera come anche supera il vecchio problema platonico-aristotelico della definizione: non si tratta più della sussunzione di un particolare sotto l’universale, ma di determinare questo stesso universale che si determina disgiuntivamente, dunque come unità negativa, e che in seguito si singolarizza. Così si ottiene una singolarità concettuale, il frutto del mutuo implicarsi e mutuo escludersi dei termini del sillogismo (Cfr. L. Lugarini, Hegel dal mondo storico alla filosofia, cit., pp. 244-245). Dato che Hegel più volte sosteneva l’affinità tra l’Io e il concetto, qui si potrebbe dire che l’autocoscienza, attraverso la “realizzazione” della sua struttura sillogistica, si configu-

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ciascun momento (della relazione) che si è costituito come totalità, cioè come l’identità del sé e dell’altro da sé (ad esempio, il signore è l’identità del sé e del servo, il servo è l’identità del sé e dell’oggetto prodotto, ecc.). L’autocoscienza si costituisce come universalità concreta, sia attraverso il rapporto con un’altra autocoscienza sia attraverso il rapporto con l’oggetto del suo fare. Essa nella sua singolarità, e nel suo rapporto particolare con l’altro, sa se stessa come soggettiva, per cui è appunto universale – l’unità del soggettivo e dell’oggettivo. Sapersi nell’altro, dove l’altro può essere l’altra coscienza, ma anche l’alterità dell’oggetto esterno, è la conclusione del processo dell’autocoscienza che prepara la via per configurarsi come ragione74. In ultima istanza, ciò che ci suggerisce Hegel è che il lavoro, qua Bildung, è l’attività di un essere profondamente finito, dotato della possibilità della morte. Senza l’esperienza della finitudine radicale, il cui segno è la morte, il soggetto hegeliano potrebbe essere scorrettamente inteso come una forza che impone la propria forma al mondo naturale, determinandolo incessantemente, in una lotta contro gli ostacoli esterni infiniti e inesauribili, che però devono essere “appropriati”. Ciò che si lascia concludere dalla dialettica del signore e del servo è piuttosto il fatto che l’esterno che si plasma nell’attività non è una realtà infinita che urta contro il soggetto, ma è la stessa realtà del soggetto, in quanto soggetto finito. Per questo il servo che “lotta” nel plasmare la realtà ha soprattutto a che fare con se stesso. La finitudine e la limitazione della sua forza non provengono dall’esistenza di un’esteriorità infinita che ci limita, ma dal carattere del suo essere-per-sé75. Il perno della finitudine è dunque interiorizzato; il momento della morte ha proprio questo significato: è proprio la paura della morte, che ha funzione di staccare ulteriormente il soggetto dalla natura, e ciò soprattutto nell’attività lavorativa, cioè nella trasformazione del dato, della natura. Il lavoro dunque sarebbe l’ulteriore attuazione della libertà del soggetto, ma nel senso della sua indipendenza dal mondo delle cose nel loro stato “naturale”76. ra come concetto concreto e oggettivo, come il razionale – appunto i momenti che seguono alla dialettica dell’autocoscienza nell’iter fenomenologico. 74 “Il termine “ragione” ha qui soltanto il senso dell’unità in un primo tempo ancora astratta e formale dell’autocoscienza col proprio oggetto” (HW 10 E III, p. 228; ESF III, p. 280; §437 A). 75 Ciò si può esprimere come primato delle contraddizioni interne sugli ostacoli interni (nemico). Cfr. S. Žižek, Is it still possible to be Hegelian today?, in Id., Less than Nothing, London-New York, Verso, 2012, pp. 193-240. 76 Sarebbe opportuno indagare come questo sillogismo in cui il lavoro prende il posto del termine medio affinché l’autocoscienza si instauri come vero medio, si ri-

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Nel lavoro, mediato dalla paura davanti alla morte, il soggetto oggettivizza anche la propria finitudine. È la sua finitudine che gli si fa oggetto, e così non più oggetto del terrore e motivo della paura. E proprio perciò, piuttosto che un’appropriazione dell’esterno (di nuovo da intendere come un campo immenso terrificante) o come una conquista infinita contro la materia resistente, si può dire che in Hegel è in gioco prima un’autoalienazione e “proiezione” della propria finitudine all’esterno, e poi il riconoscimento dell’esterno come già identico con il soggetto, e dunque finito. In conclusione, possiamo tentare di formalizzare il sillogismo dell’emancipazione in due procedimenti paralleli: Il servo lavora (forma) l’oggetto.

Il signore gode l’oggetto.

L’oggetto lavorato ha la forma del soggetto.

L’oggetto ha la forma del soggetto che lavora (il servo).

Il servo è soggetto (si riconosce nell’oggetto).

Il signore riconosce la soggettività del servo.

Attraverso il termine medio del lavoro ogni termine del sillogismo (signore, servo, oggetto) assume un valore di soggettività e dunque ciascuno di essi si è emancipato. 7. La resurrezione dello sdoppiamento infelice e il ruolo mediatore del terzo La verità del lavoro, e quindi di tutta l’autocoscienza, viene riassunta in questo modo: per avere in generale un rapporto con la cosalità in termini di lavoro, la cosalità deve essere già strutturata come concetto. Il lavorare servile diventa il pensare libero77. Il termine medio del lavoro è diventato il allaccia a ciò che Hegel nella Logica chiamerà il sillogismo dell’agire (Schluss des Handelns). Esso si configura, secondo alcuni autori, come sillogismo totale, cioè il sillogismo dei sillogismi, perché ogni premessa di tale sillogismo è già in sé un sillogismo intero (cfr. M. Perović, Praktički silogizam kod Aristotela i Hegela, in “Arhe”, 2/2014, pp. 59-72). Nel sillogismo dell’agire hegeliano che realizza lo scopo il termine medio (die Mitte) esteriore è il mezzo (das Mittel), dunque l’oggetto, lo strumento di lavoro attraverso il quale il concetto, lo scopo, si traduce in oggettività. Cfr. HW 6 L II, p. 453; SL II, p. 848-49. 77 Stephen Houlgate mette in evidenza il movimento dalla coscienza servile al pensiero in questo modo: “To put the point very simply: whereas the slave sees itself

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concetto che appartiene sia all’essenza dell’autocoscienza sia all’essenza della cosa-oggetto. Però, questo “termine medio” diventato concetto è inizialmente ancora impigliato in un’unità immediata: l’essere-in-sé e l’essere-per-sé sono immediatamente uniti, perché non si tratta più né di una rappresentazione dell’oggetto che si ha di fronte né di un prodotto della mediazione lavorativa. La prima forma di un tale rapporto con la vita e con il mondo è la coscienza stoica, che “si ritrae dal movimento proprio dell’esistere – dall’agire e dal patire – per ritirarsi nell’essenzialità semplice del pensiero”78. Lo stoicismo continua nella conquista dell’indipendenza là dove il servo si è fermato. Esso cioè compie nel e col pensiero ciò che il servo non era in grado di fare: di “innalzare la formazione fino al pensare”79. È il passaggio dall’autonomia (Selbständigkeit) alla libertà (Freiheit) e un ulteriore passo dalla certezza di sé verso la verità. L’autocoscienza stoica si articola come un’indifferenza del pensare astratto a prescindere dalle implicazioni vitali nella molteplicità delle cose. Ritirandosi nella pura universalità del pensiero, lo stoico si relaziona alle cose soltanto in maniera tale di essere non affetto da esse. Ogni contenuto che la coscienza stoica incontra ha il valore soltanto in quanto è negativo rispetto alla pura forma del pensiero uguale a sé. La forma negativa, che prima nel lavoro servile era posta all’esterno, ora invece viene sottratta all’oggetto, riflessa entro di sé. Questa modalità dell’autocoscienza, puramente formale e astratta, passa necessariamente nello scetticismo. Se lo stoicismo è la forma della libertà dell’autocoscienza che nasce dall’autonomia del servo, lo scetticismo per certi versi recupera la posizione del signore. Lo scettico non nega l’oggetto-cosa – al pari dello stoico – in termini di indifferenza, cancellando il significato indipendente e il valore determinante del contenuto per la coscienza, la cui forma resta l’unico criterio di cosa è buono o vero80. Lo scettico si spinge di più nella negazioin the Other, thought sees its Self in the other” (S. Houlgate, Hegel’s Phenomenology of Spirit, cit., p. 104.). L’accento sul Sé dimostra un potenziamento del momento dell’autocoscienza, e dell’essere-per-sé che ora si riconosce pienamente nella cosa, e non soltanto nella sua forma. 78 HW 3 PG, p. 157; Fen, p. 139. 79 HW 3 PG, p. 158; Fen, p. 139. 80 L’emergere di una certa assiologia e dei concetti come “buono” e “vero” nella figura dello stoicismo è un segno dell’uscire dal modo rappresentativo/configurativo del rapportarsi all’oggetto. La concettualità che l’autocoscienza acquisisce ora procura al soggetto (stoico) anche i criteri-valori con cui si giudica l’oggetto. Cfr. Terry Pinkard, Hegel’s Phenomenology. The Sociality of Reason, cit.

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ne e invece nega l’esistenza indipendente dell’oggetto-cosa. In entrambi i casi la negazione si svolge sul piano del pensiero ritenutosi libero. La coscienza scettica, comunque, fa un passo di più, e come signore di se stesso nel pensiero, distrugge l’esistenza delle cose affermando la loro nullità al di fuori del pensiero. La conseguenza dello scetticismo è dunque la contraddizione interna, una coscienza scissa che si manifesta come oscillare da un estremo all’altro: per un attimo la coscienza scettica è “la certezza di se stessa immutabile e veritiera”, libera e uguale a se stessa, che sta sopra l’accidentalità e la contingenza dell’oggettività; in un altro momento, invece, essa riconosce che è priva di essenza, che è essa stessa accidentale. In altri termini, essa non può ritenersi essenziale e immutabile avendo come oggetto l’assoluto dileguare e l’inessenzialità assoluta. La maniera in cui essa tratta il proprio oggetto le torna come la sua propria verità81. Per tutto questo “inconsapevole vaneggiamento” e l’alternarsi tra l’immutabile e il mutabile la coscienza stessa si configura come “l’assoluta inquietudine dialettica”, “la vertigine di un disordine che si riproduce di continuo”82. La libertà che questa coscienza gode consiste nella costante fuga da un estremo all’altro, che Hegel paragona a una volatilità infantile83. Ciò che tiene insieme i due termini della contraddizione (l’immutabile e il contingente, l’essenziale e l’accidentale) è lo stesso movimento di andare qua e là, e dunque non c’è niente che li tenga insieme. Il termine medio qui, come nel caso della coscienza stoica, è assente; è dileguato nel movimento interno della coscienza stessa, altrettanto dileguante. Con il sorgere della coscienza che è in se stessa duplice e contraddittoria siamo passati a una nuova figura dell’autocoscienza, che riflette sul proprio stato contraddittorio e sulla scissione in sé. Proprio grazie a questa autoriflessione, cioè per il fatto di essere la coscienza della propria contraddizione, essa sa che questa contraddizione esiste in una coscienza. Ma questo sapere di essere un’unica coscienza, nonostante le contraddizioni in essa contenute, non le garantisce ancora l’unità. L’unità della coscienza contraddittoria attende ancora una messa a punto stabile in termini di ri81 “va enunciando la nullità del vedere, dell’udire, e via di seguito, eppure essa stessa vede, ode eccetera; va enunciando la nullità delle essenzialità etiche, me è essa stessa a farne le potenze del proprio agire” (HW 3 PG, p. 162; Fen, p. 143). 82 HW 3 PG, p. 161; Fen, p. 142. 83 “La sua chiacchiera di fatto è un litigio fra ragazzi ostinati, l’uno dei quali dice A quando l’altro dice B, per poi dire B quando l’altro dice A” (HW 3 PG, p. 162; Fen, p. 143). Le diatribe filosofiche al giorno d’oggi qualche volta assomigliano irresistibilmente a questa diagnosi di Hegel.

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conciliazione. E qui risiedono i motivi per cui questa nuova figura dell’autocoscienza prende l’attributo di essere “infelice”. Essa è infelice, perché sente il dolore della propria lacerazione: da una parte è consapevole della propria confusione e inconsistenza, ma dall’altra ha l’idea della propria unità, ancora però come un Sollen irraggiungibile. In questa maniera la coscienza infelice è scardinata dalla propria essenza, essa non si vede nel luogo che considera come sua dimora originaria. Ma a differenza del soggetto scettico, la coscienza infelice tende a superare la scissione, il che la rende proprio infelice. Ciò che importa qui è il risorgere della duplicazione (Verdoppelung) dell’autocoscienza come esito necessario dell’atteggiamento scettico. Come si era visto, la duplicazione prima coinvolgeva due soggetti indipendenti (come il signore e il servo), ora però la duplicazione è interiore alla stessa autocoscienza. In altri termini, ora anche l’alterità viene vista alla luce di una contraddizione interna e non più inquadrata da uno scontro esteriore o da una sottomissione. Le figure dello scetticismo e soprattutto della coscienza infelice sono importanti per il sorgere della contraddizione come aspetto fondamentale dell’autocoscienza. E dunque anche l’alterità viene a configurarsi dal punto di vista della contraddizione. E questo è il punto in cui l’autocoscienza comincia a percepirsi come spirito. Ma in che modo la logica della contraddizione84 comincia a strutturare la stessa autocoscienza? Prima era lecito parlare soltanto di una differenza tra due autocoscienze, oppure dell’opposizione (signore e servo), ma non della contraddizione. Per la contraddizione è necessario compiere il passo dell’interiorizzazione del momento dell’in-sé. La contraddizione interna dell’autocoscienza è dunque un effetto della sua libertà. Come sarà evidenziato nella Scienza della logica, la contraddizione è localizzata all’interno di un concetto e non tra i due concetti opposti85. La coscienza infelice è pensata in termini di tensione tra l’universale e il particolare, perché ora diventa possibile che l’universale si particolarizza e si manifesta nel singolare. Usando la terminologia della logica della contraddizione potremmo dire che è la riflessione esclusiva (ausschließende Reflexion) quella che costitu84 Che la contraddizione sia la struttura logica dell’infelicità, lo spiega anche Hyppolite: “La infelicità della coscienza è la contraddizione, anima della dialettica, e la contraddizione è propriamente l’infelicità della coscienza” (J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Firenze, La nuova Italia, 1972, p. 236). 85 Per approfondire questa analisi rimandiamo alle pagine dedicate alla contraddizione nel capitolo “La riflessione e il terzo incluso nella contraddizione”, pp. 229234.

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isce la coscienza infelice. L’essenziale e l’inessenziale si escludono reciprocamente, ma in questa negazione reciproca essi si pongono come riferimento a sé di modo che l’esclusione dell’altro è anche l’esclusione di se stesso da sé. “L’infelicità” è il risultato dell’esclusione della propria determinazione negativa, come un altro, che però non è l’altro esterno, bensì l’altro contenuto come propria determinazione, o perfino come propria essenza. In questo senso escludendo l’altro l’autocoscienza esclude anche la propria indipendenza. La duplicazione, dunque, emerge dalla liberazione dell’autocoscienza che giunge a un punto più universale, in cui le figure del signore e del servo cominciano a riconoscersi come due singolarità di una stessa essenza. Questa essenza a sua volta non è ancora riconosciuta come propria, cioè per la coscienza infelice (e in ciò consiste il suo dolore), ai suoi occhi l’essenza è considerata ancora come qualcosa di estraneo. E nei suoi confronti la stessa coscienza infelice si considera inessenziale. L’unità ancora non c’è, anche se abbiamo presenti tutte le premesse costitutive per il concetto dello spirito. Con la resurrezione dello sdoppiamento si pongono le basi anche dell’emergere dello spirito e della sua vita che nascerà come l’unità della coscienza scissa in sé. L’unità è però già implicita nello scindersi dell’autocoscienza in due; siccome si tratta di un’unica autocoscienza, pur essendo sdoppiata, l’unità è ancora immediata. La coscienza infelice è consapevole di questa unità, ma allo stesso tempo essa è anche la coscienza della propria contraddizione. Questi due lati rimangono non conciliati e tutta la dinamica infelice dell’autocoscienza sdoppiata si svolge come una lotta dentro di sé che cerca di riunire i due lati separati. Hegel arriva pertanto alla conclusione che la coscienza infelice “non è altro che il movimento contraddittorio nel quale nessuna delle due parti perviene alla quiete nel proprio contrario”86. La compenetrazione della singolarità e dell’immutabile è ciò che caratterizza il movimento contraddittorio della coscienza infelice. Senza entrare nel merito e nell’analisi dettagliata di ciascuno dei tentativi dell’unione della coscienza infelice con la sua essenza immutabile, va notato solo che sia la devozione (Andacht) che la gratitudine (Dank) sono i tentativi falliti del pensiero (Denken) di diventare concetto, cioè unità della singolarità con l’universale. Essi rimangono nient’altro che un tentativo, e la coscienza infelice in ogni modalità torna alla fine a sé come singolarità ancor più separata da quell’essenza, di modo che lo scarto tra la coscienza e il suo aldilà essenziale e immutabile rimane ulteriormente rafforzato. 86 HW 3 PG, p. 164; Fen, p. 145.

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Proprio a questo punto Hegel fa una svolta che fa emergere di nuovo il sillogismo e il termine medio al nocciolo dell’autocoscienza. Nelle figure precedenti, quelle dello stoico e dello scettico, la sillogistica sembrava sospesa, perché l’altro estremo, l’essere-in-sé, era ritenuto o insignificante (stoicismo) o inessenziale (scetticismo) e il termine medio non era necessario87. Ora, la coscienza infelice ha l’essenziale come l’altro estremo; arricchita attraverso le proprie sconfitte dalla consapevolezza che la sua attività è irriducibilmente legata alla coscienza singolare e inessenziale, essa non può diventare mai uno con la sua essenza solo in base alle sue sole forze. Donde si dimostra il bisogno di un mediatore: se la coscienza riconosce l’immutabile come la propria essenza, e tuttavia dopo tutti i tentativi rimane separata da esso, allora l’unica soluzione è un’altra coscienza che media88. Deve dunque esserci un terzo, un mediatore, che media due estremi, che finalmente pone termine all’infelicità. Hegel offre un passaggio schematico – nel senso kantiano – attraverso un terzo termine, affinché nella conclusione sillogistica la coscienza singolare si possa congiungere con l’essenza universale. Questo rapporto mediato è quindi un sillogismo (ein Schluß), in cui la singolarità, che inizialmente si fissa in quanto opposta all’in-sé, è congiunta in una conclusione sillogistica con quest’altro estremo soltanto attraverso un terzo termine (ein drittes).89

Per ottenere l’esito positivo (felice) della mediazione, cioè l’unità della coscienza, ci vuole un mediatore esterno, anch’esso una realtà effettiva e 87 Possiamo esprimere questo fatto in un altro modo: stoicismo e scetticismo sono le forme dell’autocoscienza intersoggettive nella misura minima, proprio per il fatto che il termine medio è assente. È quasi impossibile costruire una comunità sui fondamenti stoici o scettici. E la coscienza infelice sarà quella capace di dare un senso alla comunità (però infelice), perché ristabilisce la duplicità interna, la contraddizione, ma anche la mediazione. L’assenza del terzo nelle figure precedenti può essere interpretata anche come un rapporto a-temporale con il tempo, e come un ritenersi al di fuori del tempo e del mondo. Laddove manca il terzo, il termine medio e la vita sillogistica, là non ci sono fondamenti sufficienti per un rapporto intersoggettivo vero e neanche per un atteggiamento di mediazione con il mondo intorno. 88 Come osserva Jean Wahl: “Ora, la coscienza infelice è essenzialmente mediazione […] Poiché è mediazione, la coscienza, e particolarmente la coscienza infelice, è negazione. Essa è il passare da una idea a un’altra […] Possiamo dire che è l’elemento dialettico separato, nella misura in cui può esserlo, dall’elemento speculativo, o se si vuole, il dialettico negativo in quanto separato dal dialettico positivo” (J. Wahl, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Milano, I.L.I., 1971, pp. 121-122). 89 HW 3 PG, p. 174; Fen, p. 154.

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un’essenza consapevole. L’introduzione del termine “Drittes”, per la prima volta in tutto il testo della Fenomenologia, non per caso accade nelle pagine dedicate alla coscienza infelice, preparando il passaggio dall’autocoscienza alla ragione. Questo terzo è la conseguenza della contraddizione interna dell’autocoscienza e del suo rapporto negativo con l’essere-altro. D’altronde, lo stesso terzo termine possiede una funzione liberatrice, giacché grazie a esso la coscienza infelice finalmente si libera della propria singolarità in un atto di sacrificio. Il medio funziona sotto forma di consiglio, oppure, possiamo dire, come una sorta di interprete della volontà dell’immutabile. È la figura di Hermes, messaggero degli dei, ma potrebbe essere anche del prete nel Cristianesimo90. Agendo e facendo secondo i dettati del terzo-consigliere, le sue azioni perdono il significato del proprio fare. Tutta la responsabilità del proprio fare è trasferita sul terzo. In tal modo la coscienza rinuncia al proprio fare, al proprio volere, nonché al proprio godimento e alle proprietà acquisite nel lavoro. Essa sacrifica i frutti della propria oggettivazione per rinunciare al proprio Sé e per congiungersi in ultima istanza con l’immutabile. È il massimo grado dell’autoalienazione, in cui l’autocoscienza acquisisce il senso della realtà effettiva come proprio essere-per-sé. Dunque, il soggetto si riconcilia con l’oggetto in un atto di autoprivazione, in cui esso stesso si riduce a una cosa-oggetto. Qui siamo sul lato opposto rispetto al lavoro che “proiettava” il Sé sulla realtà effettiva. Ma la consapevolezza della libertà si compie solo a questo punto, dove il soggetto capisce che la realtà è la sua realtà soltanto quando è capace di ritirarsi da essa. Il ruolo del terzo è dunque quello di condurre il soggetto alla libertà nel proprio annientamento e alla riconciliazione con l’universale, al massimo grado della propria miseria e povertà91.

90 Terry Pinkard nota che nella nozione di coscienza infelice Hegel descrive sia Cristianesimo medievale sia il mondo ellenico pre-cristiano in cui gli dei hanno abbandonato il modo lasciando un vuoto. La coscienza infelice è il sentimento di nostalgia per le divinità perse. Cfr. T. Pinkard, Hegel’s Phenomenology. The Sociality of Reason, cit., p. 70. Per una ulteriore contestualizzazione storica della figura della coscienza infelice (nell’ebraismo, nel cristianesimo, nella soggettività del Medioevo, ma anche nella soggettività romantica di Schleiermacher), seguendo le tracce già negli studi di Berna e di Francoforte di Hegel, si veda anche J. Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit. 91 Non è proprio questo momento – il culmine dell’itinerario dell’autocoscienza –, che da una parte rimanda all’obbedienza e alla disciplina gesuita e dall’altra all’ascetismo luterano, il luogo di nascita della soggettività moderna, quella che porterà alla volontà generale di Rousseau e alla soggettività violenta della Rivoluzione francese?

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8. Considerazioni finali: l’anello mancante, termine medio, sillogismo Mettendo a confronto “Fenomenologia” che fa parte dello “Spirito soggettivo” nell’Enciclopedia del 1830 con la Fenomenologia dello spirito del 1807 si evince subito che la fenomenologia enciclopedica dell’autocoscienza segue la divisione di questa in tre momenti: il desiderio (singolarità), il riconoscimento (particolarità), l’autocoscienza universale; l’autocoscienza viene presentata come una triade. L’altro aspetto che balza agli occhi è che, malgrado l’esposizione dell’autocoscienza nell’Enciclopedia in linea di massima coincida con la sua dialettica nella Fenomenologia dello spirito, ciò che manca nell’Enciclopedia è sia il momento della coscienza infelice sia i suoi momenti anteriori (stoicismo, scetticismo), i quali insieme nella Fenomenologia del 1807 costituiscono una sezione intera intitolata “Libertà dell’autocoscienza”92. Questa mancanza non si può spiegare solo come concisione sistematica con cui Hegel cerca di esporre il suo sistema dello spirito soggettivo. Tenendo presente quindi la triade dell’autocoscienza esposta nell’Enciclopedia viene da chiedersi se questa triade non nasconda un altro termine nascosto, appunto il quarto incluso che dalla triade farebbe una tetrade. Possiamo presuppore che tra “L’autocoscienza del riconoscimento” e “L’autocoscienza universale” ci sia un anello mancante, il vero terzo elemento del processo? Il momento della coscienza infelice, ricordiamo, era il luogo dell’emergere della contraddizione, della lacerazione interna dell’autocoscienza nel suo rapporto dell’essenziale con l’inessenziale, entrambi i suoi momenti costitutivi. Sarebbe sbagliato, però, concludere che Hegel, saltando proprio la figura della coscienza infelice nell’Enciclopedia, tralasci la logica della contraddizione. Ciò che sorprende è che, a differenza della Fenomenologia, la contraddizione nell’esposizione enciclopedica dell’autocoscienza mostra il suo potere già dalle prime sue configurazioni, cioè già nel rapporto – appunto contraddittorio – dell’autocoscienza con la coscienza93. 92 Si può notare che il capitolo sull’autocoscienza insieme con il capitolo finale sul sapere assoluto sono gli unici che nella spartizione di tutti gli otto capitoli della Fenomenologia non sono organizzati come una tricotomia. Anzi, il capitolo sull’autocoscienza (segnato con la lettera B) è l’unico che è diviso in due sottocapitoli (A. Autonomia e non-autonomia dell’autocoscienza; B. Libertà dell’autocoscienza). D’altronde la sezione B, appunto la parte sullo stoicismo, scetticismo e coscienza infelice, è quasi doppiamente più estesa rispetto alla prima sezione del capitolo. 93 “Questa scissione (Zwiespalt) tra l’autocoscienza e la coscienza costituisce una contraddizione interna dell’autocoscienza con se stessa, poiché essa è al tempo stesso

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Tertium Datur

Anche nei gradi del desiderio e del riconoscimento la contraddizione sembra giocare un ruolo decisivo a tal punto che l’intero sviluppo dell’autocoscienza nell’Enciclopedia si può dispiegare come articolazione della contraddittorietà intrinseca dell’autocoscienza. In altri termini, ciò che prima veniva a galla soltanto con lo scetticismo e in più con la coscienza infelice ora pervade tutta la configurazione dell’autocoscienza94. L’autocoscienza universale – il terzo e l’ultimo grado – viene definita in termini intersoggettivi e di reciprocità95, e dunque costituisce i fenomeni come amore, amicizia, la sostanza dell’eticità – insomma, socialità. Perciò non possiamo concludere che la figura della coscienza infelice sia inclusa nell’autocoscienza universale perché quest’ultima rappresenta già un rapporto speculativo, e dunque l’oltrepassamento della contraddizione. La coscienza infelice dentro l’ambito delineato è semplicemente mancante. E in più, questa mancanza viene significativamente compensata con una presenza della forma della contraddizione lungo tutte le figure esposte dell’autocoscienza. In virtù di tutto questo possiamo chiedere: sarebbe accettabile includere l’anello mancante nella “Fenomenologia” del 1830 e creare una tetrade: desiderio-riconoscimento-infelicità-autocoscienza universale? D’altronde ci viene da chiedere se non abbiamo un problema simile anche nella triade delle determinazioni pure della riflessione, sempre secondo l’ordine dell’Enciclopedia (identità-distinzione-fondamento). Anche qui vediamo una modifica non di poco rilievo rispetto alla Scienza della Logica: il momento della contraddizione è sparito dalla triade, mentre il fondamento è incluso nelle determinazioni della riflessione e non costituisce il capitolo a parte. Anche qui dunque il vero terzo del processo – la contraddizione – è sparito dall’esposizione e affinché si possa costruire una triade c’è un passaggio “frettoloso” al fondamento, alla positività. Ma non è di nuovo qui in atto una quadruplicità come vera forma espositiva della speculazione? Questa quadruplicità si può ricostruire soltanto con la lettura sintonizzata della Feil grado che la precede, la coscienza, quindi l’opposto di se stessa” (HW 10 E III, p. 214; ESF III, p. 267; §425 A). E poi, un po’ più avanti: “La contraddizione […] ha la seguente forma: l’autocoscienza, il cui concetto consiste nel rapportarsi a se stesso, nell’essere Io=Io, al contrario si rapporta al tempo stesso ancora ad un altro immediato […] ad un oggetto esterno, ad un non io, ed è esterna a se stessa” (§426 A). 94 Cfr. HW 3 PG, p. 162; Fen, p. 143ss. Per la prima volta nel capitolo sull’autocoscienza Hegel parla della coscienza che si contraddice e della contraddizione interna, ed è appunto il passaggio dallo scetticismo alla coscienza infelice. 95 Dobbiamo mettere in risalto che nell’Enciclopedia l’esposizione dell’autocoscienza verte molto di più intorno al concetto del riconoscimento e alla lotta di riconoscimento rispetto alla Fenomenologia (tanto per dire che i termini “lotta per il riconoscimento” e “lotta di riconoscimento” non appaiono nella Fenomenologia).

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 273

nomenologia e Enciclopedia, come abbiamo tentato di fare con il capitolo sull’autocoscienza considerando “il caso” della coscienza infelice. Ad ogni modo qui sembrano tornare i ragionamenti “metodologici” dalla fine della Logica trattati nel capitolo II. 2, dove la struttura ternaria ossia quarternaria dipende dal ruolo del medio, del secondo negativo, cioè della contraddizione e della negatività assoluta. Anche la trattazione dell’autocoscienza ha dimostrato che la sua intrinseca dialettica e mediazione non regge facilmente la semplice formalizzazione in tre punti chiari e distinti senza residui. Ciò che vogliamo portare avanti insieme con queste considerazioni è l’ipotesi che lo sviluppo dell’autocoscienza nella Fenomenologia del 1807 in realtà mette in risalto le stesse determinazioni della riflessione che nella Dottrina dell’Essenza della Logica portano dall’identità alla contraddizione. L’autocoscienza cioè realizza la sua duplicità intrinseca come una rete di rapporti, prima come un rapporto di differenza per poter giungere alla propria contraddittorietà nel rapporto con l’essenziale. In altri termini, l’autocoscienza non si può basare sul rapporto di identità astratta (Io=Io) ed essa è sin dal inizio definita come una struttura differenziale; questa struttura poi si dipana come opposizione (lotta per il riconoscimento) e ulteriormente come contraddizione (coscienza infelice). Come indicava l’Enciclopedia, la contraddittorietà affiora già nel fatto che l’autocoscienza è un riferimento a sé e il riferimento all’altro, e dunque la contraddizione era collocata già all’inizio in virtù dell’emergere dell’autocoscienza dalla coscienza. Nonostante ciò questo solo afferma che la contraddittorietà è la forma logica della libertà dell’autocoscienza in quanto questa stessa contraddittorietà è capace di togliersi. La sillogistica dell’autocoscienza comunque ha dimostrato che è il sillogismo la vera figura dell’autocoscienza96. Ed è proprio questa sillogistica, cioè il dispiegamento del termine medio e della sua intrinseca mediazione, ciò che permette all’autocoscienza di passare alla ragione e di ottenere una forma speculativa. La logica del terzo fa parte dunque di questa sillogistica dove il medio diventa la totalità concreta, e dove cioè l’autocoscienza stessa diventa il proprio medio. 96 Per lo stesso motivo appare non convincente il tentativo di alcuni autori che leggono la Fenomenologia attraverso la dottrina del giudizio e cioè riconducono i momenti e le figure della Fenomenologia a determinate forme di giudizio (dal giudizio universale fino al giudizio disgiuntivo). Ad esempio, cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel, Trento, Verifiche, 1980, pp. 317ss. Se la dottrina del giudizio si possa applicare ad alcune figure della coscienza, è un’ipotesi difficilmente accettabile laddove Hegel esplicitamente chiama in causa la figura dello Schluss, i sillogismi.

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In conclusione e dopo aver visto come l’autocoscienza nel suo orizzonte intersoggettivo originario sia esplicabile attraverso la mediazione sillogistica, possiamo porre una domanda sulla stessa struttura del sillogismo, cioè se essa in qualche misura coincida con la prassi dell’intersoggettività97. Non è cioè la mediazione sillogistica per la sua propria struttura una mediazione intersoggettiva, di modo che la stessa logica sillogistica in quanto tale rappresenti la trasposizione del rapporto intersoggettivo sul piano logico? La risposta a questa domanda senz’altro aiuterebbe nel tentativo di unire l’aspetto logico e l’aspetto intersoggettivo del terzo. E per di più, ci potrebbe dare anche un ulteriore spunto per distinguere i caratteri della terzietà in Kant e in Hegel. Le linee interpretative che vedevano il sillogismo come “termine logico della struttura del riconoscimento” 98 sono già state rilevate nella bibliografia hegeliana con la particolare attenzione rivolta al sillogismo della necessità hegeliano (il sillogismo categorico, ipotetico e disgiuntivo). La circolarità e la totalità del sillogismo della necessità si interpreta, in questa prospettiva, come un contesto circolare e riconoscitivo, una struttura interattiva in cui i soggetti singoli si costituiscono come universali proprio attraverso le strutture riconoscitive e la prassi intersoggettiva. Messo in questa luce, il sillogismo sarebbe la schematizzazione logica della prassi intersoggettiva in cui il soggetto si riconosce proprio come soggetto pensante, come soggetto logico99. Ciò che si può obiettare a questa impostazione è che essa identifica il momento dell’intersoggettività con il momento del particolare nel sillogismo, che tra l’altro non è l’unico termine che media i due estremi nel sillogismo. Il compimento del sillogismo, che rappresenta in realtà la realizzazione del concetto, significa anche il costituirsi dell’universale come totalità nonché il costituirsi della singolarità come concreta, oggettiva. In altri termini questo vuol dire che l’orizzonte intersoggettivo non è l’unico che svolge il ruolo mediatore nella costituzione del soggetto. E dunque il sillogismo non si può ridurre alla relazione ricognitiva tra i particolari. O detto in altri termini, l’alterità non è soltanto l’alterità dell’altro soggetto, ma anche l’essere-altro dell’oggetto e l’alterarsi del soggetto stesso. 97 È merito del lavoro di Testa aver messo in risalto, soprattutto dedicandosi alla filosofia jenese di Hegel, la connessione tra il sillogismo e il riconoscimento intersoggettivo spirituale che sta nell’unità del riferimento a sé e riferimento all’altro, nell’unità di autoriferimento ed eteroriferimento. Cfr. I. Testa, La natura del riconoscimento, cit., p. 345ss. 98 Si rimanda qui a P. Redding, Hegel’s Hermeneutics, Ithaca, Cornell Univ. Press, 1996, pp. 144-165. 99 Ivi, p. 151.

La logica dell’autocoscienza: l’alterità e il termine medio 275

Una cosa però va messa a fuoco: il terzo come elemento costitutivo del sillogismo, formalizzato come terminus medius, è ciò che senz’altro apre l’orizzonte dell’intersoggettività e instaura la possibilità delle prassi riconoscitive, ma non solo questo: esso apre anche la possibilità dello stare nel mondo, di relazionarsi con l’essere-altro dell’oggetto e inoltre di trasfigurarsi come altro da sé.

PARTE TERZA: TERTIUM DATUR COME SFONDO ONTOLOGICO DI SINTESI E MEDIAZIONE

Nella sfera dello spirito domina la tricotomia, ed è merito di Kant aver richiamato l’attenzione su questo fatto. (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche)

Come abbiamo visto più volte nel percorso di questa nostra indagine, Hegel, occupandosi della filosofia kantiana e della sua eredità, torna spesso alla “riscoperta della triadicità”, con la quale Kant arrivò per istinto alla forma speculativa, senza darle però un contenuto appropriato, cioè parimenti speculativo. Anche Kant stesso riconosce che le sue divisioni triadiche non sono una semplice arbitrarietà metodologica, ma qualcosa che è “nella natura stessa della cosa”1. Se però la suddivisione risulta a priori e soprattutto compete alla natura della cosa, essa non può dunque essere considerata meramente soggettiva. Quando parla della natura della cosa Kant intende infatti la natura della sintesi della cosa, che infine si articola come una tricotomia (1. la condizione 2. un condizionato 3. l’unione della condizione col condizionato2). Hegel segue questa linea di riflessione kantiana, togliendole, però, l’accezione esclusivamente soggettivistica. Tutta la differenza tra la tricotomia kantiana e quella hegeliana si gioca sul significato della “natura della cosa”. Per Hegel essa non è soltanto la natura della sintesi, che è sempre la sintesi da parte di un qualche soggetto esterno, bensì il carattere analitico-sintetico della cosa stessa. È il carattere di automediazione della cosa attraverso la riflessione del soggetto. Queste premesse porteranno Hegel a un superamento della semplice triplicità schematica. La filosofia hegeliana, tutt’altro che un’applicazione ossessiva della triade – tesi-antitesi-sintesi (come spesso presentato nelle interpretazioni manualistiche) – è di fatti una distruzione di questo tipo di schema. Anche nella Prefazione al suo Sistema della scienza, cioè alla Fenomenologia (prevista come prima parte del sistema), Hegel torna sul tema della triadicità kantiana a cui sempre riconosce il suo meritato valore, obiettandole allo stesso tempo di essere “uno schema privo di vita” (Schema) e “un’autentica larva” (Schemen)3. La triplicità dunque non può essere soltanto uno 1 2 3

KU, p. 197; CG p. 40 (Introduzione, IX). Ibidem. HW 3 PG, p. 48; Fen, p. 35.

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Schemen della verità, la sua ombra, il fantasma o l’immagine sfumata, perché si deve “formare” secondo la concretezza del contenuto. In parole hegeliane: la triplicità deve essere “elevata al suo significato assoluto”4. È proprio qui che la distruzione dello schema triadico prende le mosse. Dal momento in cui la triplicità si eleva allo stato di espressione speculativa, nel senso assoluto, essa si auto-annienta come schema, si dissolve. Sembra che la vera logica ternaria respinga l’incasellamento in uno schema triplice. E come abbiamo visto nel capitolo dedicato alla Scienza della Logica, il compimento dell’idea assoluta porta a un’implosione della triplicità, che si lascia leggere anche come una quadruplicità, in virtù dello sdoppiamento del secondo momento, quello della negazione e della differenza. Inoltre, negli altri aspetti della sua filosofia, si può scorgere come Hegel opti spesso per una partizione tetradica5 o perfino quintupla6. D’altra 4 5

6

Ibidem. Già i primi tentativi di suddividere il suo sistema filosofico dimostrano che il giovane Hegel prevedeva una divisione in quattro parti. Ad esempio, nella Differenz-Schrift egli suddivide la filosofia in scienza dell’intelligenza e scienza della natura. Poi necessita di una terza parte – la scienza dell’indifferenza – che a sua volta sarebbe suddivisa in due parti: l’arte e la speculazione filosofica. Alla fine tutto il sistema diventa tetradico (cfr. HW 2 JS, pp. 107-111; Psc, pp. 88-91). Inoltre, anche gli altri abbozzi del periodo jenese affermano la tetradicità del sistema hegeliano. Sul tema si veda V. Hösle, Il sistema di Hegel, cit., p. 204ss., e anche H. Kimmerle, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens. Hegels “System der Philosophie” in den Jahren 1800-1804, Bonn, Bouvier, 1970. Il grande merito del lavoro di Hösle consiste nell’aver attirato l’attenzione sul fatto che le quadripartizioni del sistema, oppure di certi aspetti del sistema, non siano un’eccezione o una digressione del giovane Hegel, ma permangano pertinenti anche per lo Hegel maturo e tardo. Così, le tetracotomie si notano anche nella Scienza della logica (suddivisione del giudizio in quattro “specie”, in virtù dello sdoppiamento del secondo momento del giudizio nel giudizio della riflessione e nel giudizio della necessità), oppure la suddivisione dell’idea in quattro gradi: vita, l’idea teoretica, l’idea pratica e l’idea assoluta (di nuovo in virtù dello sdoppiamento, perché il secondo momento, l’idea del conoscere, si manifesta nella doppia figura del teoretico e del pratico). Se a queste tetracotomie, causate dallo sdoppiamento del secondo momento, quello della negazione, della differenza e della riflessione, aggiungiamo il discorso sul terzo e sul quarto della fine della Logica, allora ci può sembrare incoerente l’affermazione di Hegel che le tetracotomie spettano alla natura, mentre le tricotomie sono la forma dello spirito (cfr. la terza tesi di abilitazione di Hegel: “Quadratum est lex naturae, triangulum mentis”, HW 2 JS, p. 533. Si veda anche HW 8 E I, p. 382; ESF I, p. 451; §230 A, e poi HW 9 E II, p. 30; ESF II, p. 96; §248 A). E infatti, la filosofia della natura hegeliana è colma di diverse tetracotomie. Ogni struttura triadica, con l’inserimento dei termini medi, può facilmente essere esposta come una quintuplicità. S. Žižek nota che proprio la dialettica storica in-

Tertium Datur come sfondo ontologico di sintesi e mediazione 281

parte, alcune sue divisioni triadiche non escludono una certa dualità 7. Queste considerazioni, che potrebbero sembrare puramente secondarie o meno pertinenti, perché riguardano l’organizzazione esterna del sistema filosofico, sono invece esemplari e testimoniano la complessità dell’operazione hegeliana nel tentativo di superare il dualismo e le bipartizioni proponendo il momento dell’unità attraverso la mediazione. Nonostante ciò, le tripartizioni e il culminare del processo in un terzo risolutivo costituiscono la soluzione a cui Hegel per lo più ricorre quando si tratta delle divisioni generali o sistemiche che riguardano anche i momenti del metodo di esposizione del pensiero. Ad esempio, nella famosa tripartizione dell’elemento logico (das Logische) nella Logica dell’Enciclopedia si mettono in evidenza i suoi tre lati, come tre momenti “di ogni concetto e di ogni vero in generale”8 (il momento astratto-intellettivo, quello dialettico-negativo, e il terzo momento speculativo-positivo). Oppure, basti pensare alla conclusione dell’Enciclopedia, dove Hegel articola lo sviluppo della filosofia in tre sillogismi9.

7

8 9

dica una divisione in cinque parti (Cfr. S. Žižek, Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology, London-New York, Verso, 1999, p. 79ss). Così la triade della storia occidentale: l’eticità greca – il medioevo – la modernità si può ulteriormente sviluppare in una pentade, frapponendo gli stadi intermedi (il mondo romano tra l’eticità greca e il medioevo, e la prima modernità, che culmina con il terrore rivoluzionario, tra il medioevo e la modernità razionale). Tuttavia, seguendo i passi di Hegel della Filosofia del diritto, possiamo facilmente notare che i principi dei regni storico-mondiali sono quattro, per cui anche la Weltgeschichte è divisa in quattro regni (il regno orientale, il regno greco, il regno romano, il regno germanico). Cfr. HW 7 PR, p. 508ss; FD, p. 293ss; §352-360. Le proposte di quintuplicità si notano anche nella filosofia della natura di Hegel (Cfr. HW 9 E II, p. 30; ESF II, p. 96; §248 A). Ad esempio, la divisione della Scienza della Logica in Dottrina dell’essere, Dottrina dell’essenza e Dottrina del concetto non esclude, ma anzi rende possibile, la suddivisione generale in due parti: Logica oggettiva e Logica soggettiva. È da notare, poi, che nella Logica dell’Enciclopedia tale bipartizione sarà abbandonata e rimarrà soltanto la suddivisione in tre dottrine. HW 8 E I, p. 168; ESF I, p. 246; §79. Per un approfondimento del tema dei tre sillogismi, come tre modi di leggere l’Enciclopedia, cfr. T. F. Geraets, Lo spirito assoluto come apertura del sistema hegeliano, Napoli, Bibliopolis, 1984, pp. 71-94, e anche A. Peperzak, Autoconoscenza dell’assoluto: Lineamenti della filosofia dello spirito hegeliano, cit., pp. 158-189. Per Hösle invece si tratta di un problema sopravvalutato da molti studiosi, anche se egli argomenta a favore di un’interpretazione: i tre sillogismi come corrispondenti alla tricotomia della filosofia reale (filosofia della natura, filosofia dello spirito soggettivo, filosofia dello spirito assoluto), cfr. V. Hösle, Il sistema di Hegel, cit., p. 212ss.

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Hegel insomma non sostituisce la triadicità kantiana con un altro schema più adatto o verace; egli piuttosto cerca di far venire in luce la logica interna della triadicità che va contro ogni formalizzazione schematica. Dar vita alla triplicità, animarla, infonderle lo spirito si manifesta in fin dei conti come un atto annientante, o meglio, auto-distruggente, con cui la triplicità implode e si apre alle altre forme che però non sono schematiche, a priori, o imposte dall’esterno, ma vengono in luce, si espongono secondo la loro logica interna, secondo il movimento e l’automediazione del contenuto. Il discorso qui è analogo a quello sul metodo: il metodo è l’esibizione del contenuto, la determinazione interna al movimento dell’esperienza o del concetto. In questo senso il metodo – ma lo stesso vale anche per la triplicità – è la logica stessa della cosa-concetto, e dunque può essere considerato una forma soltanto come movimento del contenuto nel darsi la forma. 1. Oltre l’ombra della triplicità: mediazione come divenir-altro Il termine che soprattutto va indagato per avvicinarsi alla cosiddetta triplicità hegeliana, la quale, come appena si è visto, si autonega nel momento in cui smette di essere puramente schematica, è la mediazione. Il movimento della mediazione include necessariamente una logica ternaria. Come la definisce Hegel stesso: Infatti è un rapporto di mediazione appunto quello in cui gli elementi che si rapportano fra loro non sono un’unica e medesima cosa, bensì costituiscono l’uno per l’altro qualcosa di altro, e sono un’unità solamente in un terzo; mentre il rapporto immediato non significa di fatto altro che l’unità.10

La mediazione prima di tutto presuppone una dualità, cioè un’alterità e un rapporto tra due. Affinché tra essi possa esistere una mediazione, essi non possono essere identificabili l’uno con l’altro e nemmeno riconducibili l’uno all’altro. Non ha senso parlare della mediazione se il rapporto tra i due estremi si risolve in una loro identificazione. Sia l’uno sia l’altro sussistono dunque costitutivamente come alterità rispetto a un altro. Già qui possiamo scorgere la necessità di qualcosa che non è né l’uno né l’altro, ma deve comunque darsi, perché è intrinseco al rapporto dell’uno con l’altro. Se ogni membro della relazione bilaterale è un’alterità nei confronti del suo altro, questo significa che la sua alterità irriducibile e la sua non-identifica10 HW 3 PG, p. 482; Fen, p. 433.

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bilità con l’altro è una proprietà relazionale. Ed essendo una proprietà relazionale l’alterità dunque non può essere né trascendente né assoluta. Essa sì che è irriducibile, ma soltanto dentro una relazione, perché in fin dei conti soltanto a partire da una relazione con l’altro ha senso parlare dell’alterità11. Questa relazione è il luogo del terzo, che non è né il primo né il secondo, e non può esserci, perché se la relazione fosse costituita sulla base del dominio di un membro che si appropria dell’altro, allora non si tratterebbe di alcuna mediazione, ma di una subordinazione o di un assorbimento. Per evitare che l’uno si sovrapponga all’altro, Hegel dice che l’unità è possibile “solamente in un terzo” (nur in einem Dritten) e aggiunge che il rapporto immediato invece non è nient’altro che l’unità. Questa aggiunta potrebbe confondere e far pensare che l’introduzione del terzo elemento sancisca essenzialmente un ritorno alla semplice unità, la rivincita del rapporto immediato e della positività. Hegel piuttosto distingue i due concetti dell’unità: l’unità della mediazione non può essere l’unità del rapporto immediato. Anzi, l’assenza del terzo nel rapporto immediato è ciò che lascia i relati nella loro quieta indifferenza e perciò questo rapporto non è “nient’altro che l’unità” perché è solamente l’unità senza alterità. Non è forse il caso che Hegel prospetti l’unità in un terzo, in modo che questo terzo sia una trascendenza rispetto agli elementi in relazione? Questi elementi sarebbero, in questo caso, uniti come membri di un’entità superiore, al pari degli organi che stanno in una mutua relazione soltanto come membri dello stesso organismo. In virtù della mancata riflessione in sé dei membri dell’unità-organismo e della determinazione dell’altro questa soluzione non eliminerebbe il problema dell’unità immediata, che rimarrebbe comunque esterna (si può parlare della mediazione in un sistema organicistico se gli organi comunque nella loro interazione rimangono non modificati?). E infatti questa logica organicistica non è ciò che intende Hegel. L’unità in un terzo vuol dire più che altro il muoversi sia dell’uno sia dell’altro momento della relazione, o meglio, il muoversi della loro immediatezza. L’unità che così si ottiene, dunque, non è qualcosa che sopprime la differenza di ciò che è unito. Piuttosto si tratta dell’unità nella differenza, cioè l’unita di ogni membro della rela11

Sulla logica relazionale dell’alterità e di ogni nozione hegeliana, al confronto delle cosiddette Le discours de l’alterité, si veda L. Illetterati, Tra la cosa e l’altro. Dialettica del limite e discorso dell’alterità in Hegel, cit., pp. 19-24. Sul tema dell’alterità nella Scienza della logica, rimandiamo ad A. Bellan, La logica e il suo altro. Il problema dell’alterità nella Scienza della logica di Hegel, cit.

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zione con se stesso nel proprio differenziarsi. Il terzo di cui parla Hegel non esiste quindi come un’entità trascendente unificante, perché sembra piuttosto che ogni membro della relazione, a partire da questa relazione, si configuri come un terzo che unisce. Ciascun elemento, oltre a essere costituito come uno e come altro, viene costituito anche come terzo. In altri termini, ogni elemento non è soltanto l’altro di un altro che gli sta di fronte, ma anche l’altro rispetto a se stesso. In questa trasfigurazione del divenire-altro va cercato il significato del terzo12. 12 Questo modello della mediazione si può illustrare con un altro concetto che era centrale negli scritti giovanili di Hegel – il concetto dell’amore. Anche Gadamer nota che per il giovane Hegel l’amore era l’ultima verità dello spirito, per cui le sue speculazioni giovanili sull’amore già contenevano tutto Hegel, anche se ancora non sviluppato e concettualmente non elaborato (cfr. H. G. Gadamer, Hegel und der geschichtliche Geist, in “Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft / Journal of Institutional and Theoretical Economics”, Bd. 100, n. 1/2, 1940, pp. 3233). L’amore è il fenomeno che mette in luce in maniera radicale il problema della separazione e dell’unione, cioè della differenza e dell’identità, per cui Hegel stesso definirà l’amore come “miracolo che non siamo in grado di capire” (HW 1 FS, p. 244; ST, p. 557) – un’asserzione che non abbandonerà neanche negli scritti maturi (“l’amore è la contraddizione [corsivo nostro] più enorme, che l’intelletto non può risolvere”, HW 7 R, p. 308; FD, p. 349; §158 Z). Ciò che succede nell’amore non è tanto semplicemente la fusione dell’Io con un altro Io, cioè l’unità degli estremi, quanto proprio un’unificazione nella opposizione, nella separazione. Gli amanti non stanno presso se stessi, ma si dimenticano, escono fuori di sé e si dedicano all’altro amato. Nell’incontro d’amore tra l’Io e il Tu ogni membro della relazione amorosa è fuori di sé, presso l’altro, senza però perdere la propria autonomia. Anzi questa autonomia e particolarità del soggetto è una condizione affinché l’amore vi sia, perché ciò che si ama è proprio la particolarità del singolo individuo a cui si dedica il proprio essere. In ciò sta il paradosso dell’amore: il superamento dell’autosufficienza e dell’autonomia unilaterale del soggetto nell’amore nei confronti della singolarità dell’altro assume il significato dell’acquisto della propria libertà nell’altro. Nei Lineamenti di filosofia del diritto l’amicizia e l’amore sono i fenomeni della libertà concreta (Cfr. HW 7 PR, p. 57; FD, p. 306; §7 Z). Solo dimorando presso l’altro, nell’abbandono all’altro, si acquista la propria soggettività e la libertà: il sé si trova soltanto nell’altro. Questo rapporto per Hegel significa anche superamento di ogni dominio: nell’amore non ci sono né dominanti né dominati (HW 1 FS, p. 242; ST, p. 555). Essere uno con l’altro (nel senso di unito) per Hegel significa un rapporto di libertà e di uguaglianza. In altri termini, la logica dell’amore è quella dell’Aufhebung del soggetto, dato che si tratta dell’attività della mediazione con l’altro, che tuttavia non cancella le differenze, ma le vivifica, le rende sensate, dotate di un senso, articolate, proprie. Perciò la separazione necessariamente rimane anche nell’amore, anche se questa separazione viene trasfigurata in modo che le viene tolta estraneità. “Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato (nicht mehr als Getrenntes) bensì come unito; ed il vivente sente il vivente” (HW 1 FS, p. 246; STF, p. 559).

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Va notato anche che la citazione sopra riportata, che dà una definizione precisa della mediazione, compare in quella parte della Fenomenologia dove Hegel comincia a parlare del linguaggio come medio universale del riconoscimento reciproco13. Il discorso è il seguente: la coscienza morale che sa il suo dovere, indifferente però nei confronti della realtà effettiva, rimane ancora priva dell’esistenza. La sua autonomia si mantiene a scapito della propria effettualità. Soltanto quando questa coscienza viene posta nel medium universale dell’essere, cioè nell’orizzonte intersoggettivo dell’interazione con le altre coscienze, essa è pronta a realizzarsi e oggettivarsi. La coscienza, che riconosce il medium oggettivo e che richiede anche di essere riconosciuta, non è più la pura coscienza morale, bensì l’animo coscienzioso (Gewissen). Questa coscienza non è più muta ma parla, e si realizza nel medium del linguaggio. Il linguaggio è l’elemento e la condizione della sua oggettivazione14. Essa può essere riconosciuta dalle altre coscienze riconosciute soltanto se si dichiara, se si enuncia, se esprime con parole il proprio volere e la propria convinzione. Soltanto in quanto enunciata la coscienza esiste per le altre coscienze, cioè esiste come essere per altro. Anche la sua azione, ciò che essa fa, si può giudicare e riconoscere soltanto a partire dal linguaggio in cui essa si articola come universale e come formalmente uguale a tutti gli altri. Il Sé della coscienza morale entra così nella differenza, in altri termini, si media con le altre coscienze autonome da cui attende il riconoscimento. La mediazione qui è principalmente linguistica. Perciò Hegel afferma che il linguaggio è il medio15 (die 13 Per un’analisi di queste pagine, e sul linguaggio come dimensione essenziale per l’animo coscienzioso, rimandiamo a G. Garelli, Lo spirito in figura. Il tema dell’estetico nella “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 161ss. 14 “l’esistenza dello spirito consiste nel linguaggio. Il linguaggio è l’autocoscienza essente per altri, che si dà immediatamente come tale e che, in quanto è questa determinata autocoscienza, è universale. Il linguaggio è il Sé nell’atto di separarsi da se stesso, che diviene oggettivo in quanto puro “Io=Io”; esso si mantiene in questa oggettività come questo determinato Sé, proprio al modo in cui confluisce immediatamente negli altri ed è la loro autocoscienza. Il linguaggio recepisce se stesso proprio come viene recepito dagli altri, e quel recepire è appunto l’esistenza che è divenuta Sé […] Il linguaggio invece emerge solamente come termine medio (die Mitte) fra coscienze autonome e riconosciute, e il Sé esistente è immediatamente un essere-riconosciuto universale, molteplice e vario, e semplice in questa pluralità. Il contenuto del linguaggio dell’animo coscienzioso (Sprache des Gewissens) è il Sé che si sa come essenza” (HW 3 PG, pp. 478-479; Fen, pp. 430-431). 15 Per approfondire il tema del linguaggio e del linguaggio hegeliano in specifico cfr. A. Koyré, Nota sulla lingua e la terminologia hegeliane, in R. Salvadori (a cura di), Interpretazioni hegeliane, Firenze, La nuova Italia, 1980, pp. 29-53.

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Mitte) nel quale diventa possibile che il Sé dell’animo coscienzioso si costituisca come essente per altri, per certi versi come visibile nell’orizzonte intersoggettivo, e dunque come un Sé universale ed effettivo. Se torniamo ora a quanto detto riguardo al vero rapporto di mediazione dove l’unità si raggiunge in un terzo, vedremo che questa unità non va concepita secondo il modello organicistico, ma piuttosto come processo linguistico. Al pari del linguaggio che non è una trascendenza rispetto alle coscienze autonome e riconosciute, bensì il loro medio in movimento, così anche la terzietà va concepita come automediazione di ciascuna coscienza nella relazione con l’altro. In altri termini, il terzo non è un tertium quid essenzialistico, ma un modo di darsi delle coscienze in relazione, appunto un tertium datur come il terzo modo di darsi del Sé16. Se il primo modo di darsi del Sé era quello in cui esso rimane racchiuso presso di sé, muto e puramente interiore, lasciato a se stesso e alle proprie intenzioni, e se invece il secondo modo del suo darsi era il suo agire, il suo fare e avere a che fare con l’altro, allora il terzo modo, quello definito linguistico, costituisce il Sé come soggetto linguistico, attraverso l’enunciazione, l’esteriorizzazione linguistica con la quale la propria azione (il secondo momento) si riconosce come espressione della propria interiorità (il primo momento). Il Sé è posto nel linguaggio, perché esso stesso si trasfigura come linguaggio, si traduce in qualcosa di oggettivo17 che è riconosciuto come propria oggettività, cioè come oggettività soggettiva. Il soggetto-oggetto linguistico è quel terzo che, come vediamo, retroattivamente rende possibile sia il primo che il secondo modo di darsi del Sé. Cioè soltanto in quanto linguistico, dotato di capacità di mediazione, il Sé può costituirsi sia nella sua interiorità, come pura e muta intenzionalità, sia come essere per altro, il fare esteriore. Il linguaggio, come “l’autocoscienza essente per altri”, è il medio universale dell’essere dell’autocoscienza, e dunque non ha carattere di qualcosa di trascendente. È l’esteriorizzarsi del Sé grazie al quale ciò che è esteriore (l’altra autocoscienza) si può riconoscere altrettanto come un’essenza linguistica. La mediazione è dunque il processo che appartiene all’imma16 Il terzo pensato speculativamente non è affatto un quid che unisce i precedenti, un qualcosa, seppure venga concepito come qualcosa che diviene (cfr. A. Vera, Sulla dottrina del termine medio di Platone, Aristotele e Hegel, Firenze, Le lettere, 2011, p. 80): ed è appunto questo modo di interpretare la dialettica, il sillogismo e il termine medio che vorremmo sottoporre a una critica, perché il terzo non è ciò che diviene per riunire i due, bensì il divenire stesso che diviene, il divenire dei due nell’unità con l’altro da sé. 17 Cfr. HW 7 PR, p. 58; FD, p. 32; §8.

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nenza dell’immediato. È proprio questo immediato che si configura come un che di terzo, cioè come propria mediazione linguistica. Questo rapporto tra l’immediatezza e la mediazione Hegel indica esplicitamente in un brano in cui rinfaccia all’illuminismo la concezione nonimmanentistica della mediazione, perché l’illuminismo pensa cioè solamente alla mediazione che avviene tramite un terzo elemento estraneo (durch ein fremdes Drittes), e non a quella in cui l’immediato considera se stesso come quel terzo che costituisce la sua mediazione con l’altro, cioè con se stesso.18

Questo testo è così paradigmatico che si potrebbe considerare come la sintesi riassuntiva di tutta la concezione hegeliana del terzo, nonché della sua differenza da Kant, a cui appunto si addice una visione “illuministica” della mediazione attraverso il terzo estraneo. Tale visione non è nient’altro che la versione laica della coscienza credente, che opera secondo la logica di lacerazione presente, ad esempio, nella coscienza infelice, la quale cercava la mediazione con l’essenziale e con l’immutabile per mezzo di un terzo estraneo, della figura dell’“interprete privilegiato” o dell’autorità esterna. Questo ricorso al terzo esterno che ci deve aiutare a parlare la lingua estranea dell’essenziale è la conseguenza di un fraintendimento e di un misconoscimento. Ciò che è frainteso è il fatto che al di là vi sarebbe una vera lingua dell’essenziale. Ciò che non si riconosce è il fatto che la lingua che l’autocoscienza già parla è già “sufficientemente” essenziale per esprimere la verità, e che l’unico modo di farlo è di tenerla nel processo della costante traduzione con cui si approfondisce il proprio orizzonte di significati. Nel quadro di questa impostazione non c’è bisogno del terzo estraneo, perché il passaggio dell’uno nell’altro (in fin dei conti, della sostanza nel soggetto) è reso possibile dalla struttura stessa di ciò che passa, che si muove (lo spirito è il nome di questa struttura movente). Il divenire altro da sé, che si esibisce così, è l’automediazione dell’immediato; è ciò che costituisce l’immediatezza stessa che non ha più il perno della mediazione fuori di sé, ma che è essa stessa mediazione con l’altro e dunque con se stessa. Dato che abbiamo usato il modello linguistico per spiegare la mediazione hegeliana e il suo rapporto con l’immediato, possiamo avvalerci di un altro fenomeno linguistico e culturale – il processo traduttivo19. Per tradur18 HW 3 PG, p. 421; Fen p. 379. 19 I contributi che vanno in questa direzione per poter parlare di una logica della traduzione o della mediazione traduttiva in Hegel sono G. Garelli, Hegel e lo spirito della traduzione, in E. Antonelli, A. Martinengo (a cura di), Confini dell’estetica.

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re è necessario un terzo che media tra due lingue – il traduttore che sta in mezzo e per certi versi appartiene a tutte le due. Per effettuare la traduzione da una lingua all’altra però non ci vuole una terza lingua, un terzo estrinseco. È un processo immanente che conduce entrambi i membri del rapporto a una auto-trasfigurazione. Perciò la traduzione, intesa come mediazione, non può essere un’operazione secondaria successiva che mette in contatto due lingue già costituite: essa è il processo immanente a queste lingue che si trasfigurano attraverso il rapporto dell’una con l’altra. Allora si può parlare dell’automediazione della lingua stessa da cui si traduce, che si estrania da sé e trova se stessa nell’altra lingua, come anche il testo tradotto si trova nel proprio altro, nella propria traduzione, pur rimanendo in sostanza lo stesso testo. Questo esempio conta non solo come un’analogia affinché si possa spiegare il passaggio dell’uno nell’altro, l’automediazione dell’immediato, che si rivela un alterarsi, un divenir altro. Il movimento di questo divenire un altro da sé che si riconosce come divenire se stesso, come soggetto, è ciò che Hegel definisce lo spirito. E per questo l’esistenza (Dasein) dello spirito20 è linguistica; la sua natura non è nient’altro che mediazione21. Studi in onore di Roberto Salizzoni, Roma, Aracne, 2014, pp. 287-302 e A. Nuzzo, Translation, (Self-) Transformation, and the Power of the Middle, in “Philosophia”, 3, 2013, pp. 19-35. Nuzzo definisce la logica della traduzione come una logica dell’autotrasformazione immanente basata sul potere del medio e la traduzione come il medio che precede i termini di mediazione e anzi li rende possibili. 20 Cfr. HW 3 PG, p. 478; Fen, p. 430. E anche HW 3 PG, p. 521; Fen, p. 468. 21 Anche Gadamer sceglie la mediazione hegeliana come paradigma e come modello per la propria ermeneutica opposto all’altro modello ermeneutico, quello della ricostruzione dell’originario e della restituzione del passato che si trova in Schleiermacher (cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2004, pp. 351-361). Anzi il modello della mediazione ermeneutica nasce proprio dall’avvedersi dell’impossibilità del ritorno all’origine: il progetto della restaurazione è destinato allo scacco, perché il contesto ricostruito non può mai essere quello originario che è sempre perduto. I contenuti tramandati dal passato sono come frutti staccati dall’albero su cui erano cresciuti e dunque privati della vita che li alimentava (la metafora che Gadamer riprende dall’Estetica di Hegel). E perciò il modo giusto di rapportarsi con il passato e con i prodotti dello spirito umano, nella situazione della distanza temporale e del loro irrecuperabile sradicamento dal contesto originario, non è quello di ricostruire questo contesto e il presunto senso originario, ma di mediare l’estraneità dei contenuti con i contenuti della vita presente e della produzione attuale, e dunque di riprodurli nel nuovo contesto del senso. È vero che questo è il significato profondamente hegeliano della mediazione a cui Gadamer si riferisce, ma in lui la mediazione hegeliana non è pensata in termini radicali (e dunque non si tratta della mediazione hegeliana a pieno titolo): cioè Gadamer la comprende ancora come una sorta di integrazione, come se i frutti staccati dall’albero originario (per tornare alla

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La mediazione infatti non è altro che l’uguaglianza-a-se-stesso considerata nel suo muoversi, ovvero essa è la riflessione entro di sé, il momento dell’Io che è-per-sé, la negatività pura, cioè il semplice divenire. L’Io, o il divenire in generale, questo atto del mediare, in virtù della propria semplicità è appunto l’immediatezza in divenire e l’immediato stesso. 22

Anche qui vediamo che la concezione hegeliana della mediazione, a differenza di quella kantiana, implica un processo di trasformazione. Perciò Hegel la definisce in termini di divenire. È qui che l’esistenza del terzo esterno è resa superflua. Se la mediazione è un divenir-altro, allora l’alterità non è qualcosa di dato, ma di prodotto; l’alterità non è nient’altro che rendersi altro da sé, Anderswerden. Però, se si rimane soltanto a questo momento negativo, la mediazione sarebbe manchevole. Manca il momento positivo, proprio quello che costituisce la struttura ternaria della mediazione, per cui la trasmutazione in un altro si riconosce come trasmutazione di sé, e dunque come un processo. Senza questo terzo momento della mediazione, essa non sarebbe costituita come processo, e il divenir-altro sarebbe soltanto un divenuto-altro, l’immediatezza dell’altro senza automediazione23. Più volte durante questo lavoro abbiamo adoperato il termine “il mediatore evanescente” (vanishing mediator) in riferimento al terzo che sparisce, che si autonega per dar luogo a una acquisizione più concreta, più determinata e concettuale. È la logica del dileguare che alla fine si rivolge su di sé e contro se stessa. La prima formulazione di questa figura del pensiero nella Logica è il divenire, definito appunto come “sparire dello sparire”. Nella logica dell’essenza, o più precisamente nel passaggio dall’essenza al suddetta metafora) debbano ricomporsi e integrarsi in un nuovo albero, l’albero dello spirito assoluto. A nostro parere questo non è il senso della mediazione hegeliana: essa non è un’integrazione nel senso che le parti staccate si includono in una totalità. La differenza è sottile ma importante: la mediazione è la trasfigurazione in totalità di ogni parte attraverso il rapporto reciproco tra i particolari. Nei termini della nostra metafora: ogni frutto staccato non deve guardarsi né come pezzo che va restituito alla totalità originaria né come pezzo che va integrato in qualcos’altro, ma esso stesso deve riconfigurarsi e costituirsi come il tutto, nel senso dell’universalità concreta. La mediazione non è inclusione in un’entità superiore, ma la trasfigurazione del staccato nel suo rapporto reciproco con gli altri frutti staccati. 22 HW 3 PG, p. 25; Fen, p. 16. 23 Nella Logica Hegel rimprovera a quasi tutti gli idealismi (quello leibniziano, kantiano, fichtiano) di non aver mai superato l’immediatezza ossia di essere rimasti a una determinazione immediata. Questa “incapacità” dell’idealismo si lascia elucidare attraverso la mancata elaborazione del terzo ‒ appunto quell’elemento che ricostituisce l’immediatezza scoprendo in essa il potere di automediazione. Cfr. HW 6 L II, p. 20-21; SL II, p. 441.

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concetto, Hegel parla esplicitamente del “superamento della mediazione”: il concetto in cui l’essere e l’essenza tornano e trovano il proprio fondamento è appunto il superamento della mediazione e cioè “presupporre l’immediato”24 (Voraussetzen des Unmitellbaren). Cosa vuol dire esattamente questo “presuppore l’immediato” e in che senso esso si può ricondurre alle affermazioni della Fenomenologia già riportate in precedenza? Si tratta qui della circolarità propria del logos, cioè del fatto che il risultato retroagisce sul proprio “fondamento” di modo che ciò che all’inizio valeva come fondamento ora vale come presupposto costituito dal risultato, dal suo fondato. Dunque, il fondamento pone, fonda il fondato, ma alla fine anche il fondato costituisce il proprio fondamento come presupposto. Nei termini principali della Logica ciò vuol dire che il concetto si sviluppa dall’essere, come dal suo fondamento, ma il fatto di essere fondamento è il presupposto determinato dal concetto. In altri termini, l’essere è il fondamento in quanto si toglie come fondamento, in quanto non sta autonomamente all’inizio ma è l’effetto di una retroazione. In virtù di questa circolarità Hegel è costretto a operare con due concetti di fondamento: il fondamento è raddoppiato come principio della verità (il concetto) e come principio dello sviluppo (l’essere). Nei termini di mediazione questo vuol dire che la mediazione va tolta, superata, aufgehoben per poter costituire il fondamento. Il fondamento esiste soltanto nel processo del superamento: esso non è nient’altro che l’effetto retroattivo di un’operazione negativa. La mediazione per mezzo del fondamento si toglie via; non lascia però sotto a sé il fondamento, per modo che quello che da lui sorge sia un posto, il quale abbia la sua essenza altrove, cioè nel fondamento, ma questo fondamento (Grund) è, quale abisso (Abgrund), la mediazione sparita (verschwundene Vermittlung); e viceversa solo la mediazione sparita è insieme il fondamento, e solo per questa negazione essa è l’uguale a sé e l’immediato.25

Vediamo qui in atto il noto ritorno a sé hegeliano, identità con sé nell’altro, per cui il superamento della mediazione coincide con la liberazione, cioè con trovare se stesso nell’alterità posta e prodotta. In altri termini, la mediazione sparita si configura come automediazione secondo la quale l’alterità a cui la mediazione ci ha portato – il mediato, il fondato, il posto – non è più come tale, ma è anche la negazione che retroagisce su ciò da cui quest’alterità è sorta: l’alterità ripristina l’immediato appunto in que24 Cfr. HW 8 E I, p. 304-305; ESF I, p. 376; §159. 25 HW 6 L II, p. 128; SL II, p. 541.

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sto atto di autonegazione, di negazione di sé come un’alterità solamente posta. E di conseguenza ciò che sembrava il fondamento, il primo, appare come un abisso (Abgrund). Anche nella logica enciclopedica, cioè nelle note posizioni del pensiero rispetto all’oggettività, e più precisamente proprio in un paragrafo dedicato alla filosofia critica di Kant, destinata a rimanere idealismo soggettivo, Hegel giunge alle conclusioni simili che concernono il superamento della mediazione nella mediazione stessa. Quando il pensiero passa dall’essere immediato, dal mondo sensibile all’astrazione, all’universale, dunque quando si eleva e trascende il finito – il processo che corrisponde all’elevazione a Dio – esso non lascia intatto il proprio punto di partenza, il mondo empirico, ma retroagisce su esso, lo nega. Ma negando il proprio precedente si nega anche la mediazione che porta con sé la negazione e “l’elemento mediatore svanisce e, quindi, in questa mediazione è superata (aufgehoben) la mediazione stessa”26. Lo svanire del mediante (Vermittelnde) si intende, in questa prospettiva d’elevazione del pensiero all’universale, come lo sparire della negazione che il mondo rendeva nullo, lo riteneva non sostanziale, troppo basso. La vera elevazione dunque non si nutre della presunta nullità o meschinità del mondo, bensì riconosce il suo valore. Dunque, non è che lo svanire del mediante fa sparire anche il mondo nella sua finitezza (il che è il caso dell’acosmismo spinoziano). Anzi, esso fa consegnare il mondo a esso stesso, gli restituisce la realtà effettiva, e per di più gli fa scoprire il potere del negativo dentro il mondo stesso, cioè ricostituisce il mondo alla luce della sua costante trasfigurazione. Il punto di arrivo finale, vale a dire l’universale, Dio, il concetto, è il rivolgersi del mondo, del particolare, del finito contro se stesso; ed è la trasfigurazione di sé attraverso la riflessione di sé. L’elemento del mediatore evanescente in effetti dischiude l’orizzonte logico della trasformabilità e va elucidato in questa ottica – l’ottica della produzione nell’atto della propria sparizione. L’idea della mediazione che si nega, e la struttura triadica in cui il terzo deve sparire, rappresentano un ulteriore passo nella costituzione dinamica dell’universo logico. È anche la prova che l’organizzazione logica hegeliana non si può capire giustamente sulla falsariga di un organismo. Nell’organismo abbiamo uno sviluppo lineare in cui il particolare è sottomesso al genere, all’universale, ed è piuttosto il particolare che sparisce. In Hegel, invece, in virtù della capacità della mediazione di far sparire se stessa, lo sviluppo logico è fondamentalmente trasfigurativo su tutti i livelli. 26 Cfr. HW 8 E I, p. 132; ESF I, p. 211; §50.

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In Kant, però, la mediazione non implica alcuna autonegazione, e dunque alcuna trasformazione. La mediazione tra i concetti dell’intelletto e le intuizioni sensibili, attraverso lo schema, non influisce sul carattere dell’intelletto o della sensibilità. La mediazione qui è piuttosto un’applicazione che non cambia la natura né dell’intelletto né della sensibilità, bensì li lascia nella loro indifferenza e quiete. In seguito alla mediazione l’intelletto resta spontaneo così come la sensibilità resta recettiva. Anzi, si può dire che il ruolo del terzo stia proprio nell’impedire il divenir-altro dell’intelletto o della sensibilità. La loro pura autonomia va conservata e dunque non si prevede nessuna trasformazione o nessun passare nel proprio altro. L’applicazione attraverso il terzo termine (lo schema) deve rendere possibile il passaggio puro dall’uno all’altro senza che questo passaggio infici la natura degli elementi del passaggio. Sia in Hegel sia in Kant, dunque, c’è una certa necessità del terzo; per entrambi il terzo si deve dare. Nel caso di Kant lo abbiamo visto apertamente nel capitolo sullo schematismo (“Ora, è chiaro che si deve dare un terzo elemento...”27) e anche all’inizio della Logica nel caso di Hegel (“Ora, dovunque e comunque si parli di essere o di nulla, vi dev’essere sempre questo terzo”28). La funzione e il carattere di questo terzo sono però diversi. In Kant, lo schema, come prodotto di quella terza facoltà che si trova nell’immaginazione produttiva, deve mediare tra le due facoltà destinate a rimanere separate. Il terzo kantiano deve dunque mediare e rendere possibile il passaggio tra due domini e in quanto tale deve collocarsi in mezzo, come un anello di concatenamento che manca per completare l’edificio fondato sul binarismo dei domini. Il terzo è la conseguenza e allo stesso tempo il garante di questo binarismo. Esso deve rendere il passaggio dall’uno all’altro senza violare le linee di demarcazione che separano due campi sovrani (l’uno dell’intelletto e l’altro della sensibilità). Il terzo hegeliano invece è sin dall’inizio messo in scena come fattore costitutivo del passaggio, del movimento. La differenza sta però nel carattere di questo passaggio. Sarebbe più giusto dire che il terzo hegeliano, pensato attraverso la categoria del divenire, oltre a rendere possibile un passaggio dall’uno all’altro, è esso stesso il passaggio. Il divenire è un passaggio, il passare dell’essere nel nulla. La categoria del divenire cambia totalmente l’impostazione, in modo che il terzo non va più pensato fuori dagli elementi del passaggio, e neanche fuori dal passaggio stesso.

27 KrV, p 134; CRP, p. 301; B177. 28 HW 5 L I, p. 97; SL I, p. 83.

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A differenza di Hegel, in Kant lo schema, o anche l’immaginazione in generale, sono ciò che media, ma la mediazione rimane incompleta, cioè rimane sempre esterna sia al mediato che al mediante, sempre dipendente da un elemento ausiliare, il che è appunto il terzo che, come una sorta di deus ex machina, deve mettere in contatto ciò che in sé è privato della stessa capacità di mediazione. Per usare il gioco di parole hegeliano, cui abbiamo riferito all’inizio di questo sottocapitolo, lo schema kantiano è soltanto uno Schemen, un fantasma della mediazione, la sua immagine sfumata. Per questo in Kant c’è il passare (Übergehen) dall’uno all’altro, mentre in Hegel si tratta piuttosto del passare dell’uno nell’altro. In Kant la mediazione è pensata come comunicazione, in Hegel essa è piuttosto una trasformazione29. Se dunque la concezione kantiana della mediazione ricorre necessariamente a un terzo termine che deve mediare, mentre in Hegel la mediazione è una riflessione in sé che trasforma, soggettivizza il mediato e il mediante, rimane da chiedersi: perché la mediazione ha dunque una struttura triadica? Non sarebbe forse sufficiente concepire il passaggio dell’uno nell’altro come una relazione diadica senza parlare nei termini della terzietà? La struttura della mediazione come “l’immediatezza in divenire e l’immediato stesso”30 dimostra tuttavia una mancanza del tertium quid nel senso sostanzialistico. Se l’uno passa nell’altro e viceversa, allora non ha senso parlare di un che di terzo? C’è però un tertium datur che non è nient’altro che il modo di darsi dell’immediato. L’immediato può darsi come in-sé, come una datità, o sostanza; può anche essere posto come mediato, cioè come qualcosa che sta in relazione con l’altro, limitato e definito dalla presenza dell’altro. E infine, esso si può dare come automediazione attraverso l’altro, come essere uguale (dunque l’immediatezza) nella propria alterità (in divenire). Questa logica è triadica ma non arriva a identificare qualcosa di terzo. Allora non si potrebbe concludere che in Kant abbiamo una logica binaria che necessita di un terzo, mentre in Hegel abbiamo una logica dialetti29 È interessante volgere lo sguardo al modo in cui Hegel nella Logica tratta la comunicazione. Intesa come una forma di rapporto esteriore rispetto ai termini in comunicazione, qui può fare al caso nostro distinguere due modelli di pensiero. Ad esempio, la comunicazione spirituale è una figura del processo meccanico “dove una determinatezza o una persona si continua non turbata nell’altra e si universalizza senza nessun mutamento” (HW 6 L II, p. 416; SL II, p. 814). La comunicazione è dunque una continuità non trasfigurativa, un rapporto senza divenire-altro, senza Anderswerden. La sua “meccanicità” è effetto di questa mancanza della mediazione speculativa. Non è che allora lo schematismo kantiano e il suo ruolo comunicativo rientrino in questo rapporto meccanico? 30 Si veda la nota 22.

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ca ternaria senza il terzo in senso vero e proprio? E a tal proposito non si potrebbe dire che in Kant il terzo, nonostante sia un elemento non previsto dalla struttura eterogenea e binaria31 del soggetto, emerge sempre come fondamento, come qualcosa di costitutivo, di insopprimibile? E in Hegel, quasi al contrario, il terzo, come elemento soprattutto previsto dalla dialettica speculativa, sparisce sempre, ovvero, si configura come costitutivo in quanto, sparendo, lascia il posto alla trasformazione della relazione tra i due? Per indagare queste domande forse ci può aiutare l’altro concetto che durante questa nostra ricerca si è messo in rilievo – il concetto di sintesi. L’importanza epocale di Kant sta proprio nel “dar fiducia” al soggetto e portare il principio della sintesi sul terreno dell’Io penso. Quest’operazione va intesa come interiorizzazione del terzo: non più Dio come fondamento ontologico e garante della verità (tertium quid cartesiano che è altrettanto il vero Uno, per cui l’unità tra soggetto e oggetto in Cartesio non è ancora pensata nei termini della sintesi), bensì sintesi del soggetto trascendentale come funzione dell’unità. Il passaggio da Cartesio a Kant è il passaggio dal Terzo trascendente al terzo trascendentale32. 2. Sintesi immanente e giudizio analitico a posteriori La domanda “come sono possibili i giudizi sintetici a priori?” è tutta imperniata sull’esigenza del tertium. Dal momento che i due concetti non si implicano e non si co-appartengono, di modo che l’uno sia necessariamente derivato dall’altro, si dà la necessità del terzo, attraverso il quale soltanto una sintesi può accadere33. Lo spessore della questione supera l’orizzonte logico. In altri termini, la sintesi non riguarda soltanto il rapporto tra due concetti eterogenei, ma anche la costituzione della soggettività concepita come un’impalcatura eterogenea. E per di più, tutta l’ontologia kantiana 31 Come nota Claudio Cesa, in riferimento alla filosofia morale kantiana, ma il discorso è valido come un giudizio generale: “Kant, per la verità, era molto meno dualista, e dispregiatore del sensibile, di quanto tutta una tradizione abbia voluto far ritenere” (C. Cesa, Tra Moralität e Sittlichkeit, in V. Verra (a cura di), Hegel interprete di Kant, cit., p. 157) 32 Per Hegel questo passaggio è irreversibile e va portato a compimento: mettere radicalmente in questione l’egemonia del soggetto cartesiano e liberare Kant dai residui cartesiani. Sul “vestigial Cartesianism” in Kant e la risposta hegeliana alla luce di una lettura deleuziana cfr. S. Lumsden, Deleuze and Hegel on the Limits of Self-Determined Subjectivity, cit., p. 141. 33 Cfr. KrV, p. 144; CRP, p. 323; B194.

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dell’esperienza verte intorno alla ricerca perenne di un tertium che riconduce la separazione originaria (Ur-teil) all’unità sintetica originaria (copula). In altri termini la domanda “come sono possibili i giudizi sintetici a priori?” presuppone, in primis, che la sintesi non sia data, non sia data per scontatata, e la necessità della sintesi vada giustificata (quid iuris), e, in secundis, che ogni congiunzione contingente, quindi, la sintesi a posteriori, debba fondarsi sulla possibilità della necessità della sintesi a priori. Ma soprattutto ciò che presuppone l’idea della sintesi è che gli elementi che si danno e che vanno sintetizzati siano reciprocamente estrinseci, escludenti ed eterogenei. Il problema che preme a Kant si può riassumere così: in virtù dell’eterogeneità radicale si prefigge una sintesi, ma questa sintesi non si può fondare sulla stessa eterogeneità perché esige una giustificazione autonoma. In fin dei conti la sintesi in Kant è autofondante, si fonda su se stessa, e a causa di questa autofondazione della sintesi, il terzo in Kant rimane sempre qualcosa di estrinseco a ciò che va sintetizzato, cioè all’eterogeneità materiale dell’esperienza. Il problema della sintesi non riguarda soltanto la sintesi nella costituzione degli oggetti dell’esperienza, ma anche il tentativo della “sintesi” tra le diverse facoltà del soggetto (recettività e spontaneità). Questi due aspetti non sono totalmente separabili perché l’oggetto si costituisce soltanto in virtù del connubio e della cooperazione tra le facoltà del soggetto. È qui che entra in gioco il concetto di mediazione: “la sintesi” tra le facoltà si concepisce piuttosto secondo il modello della mediazione. L’immaginazione in Kant svolge proprio questo ruolo mediatore: mediare tra la facoltà della sensibilità e la facoltà dell’intelletto, dato che queste due sono private della capacità di comunicare tra di loro. Dunque, occorre una terza facoltà per metterle in contatto. In altri termini, la mediazione emerge in superficie come segno della mancata sintesi all’interno del soggetto (infatti non è possibile una sintesi vera e propria tra le due facoltà) e d’altronde essa è totalmente funzionale alla sintesi dell’oggetto, cioè alla costituzione dell’esperienza possibile. L’intreccio tra la mediazione e la sintesi in Kant, nella prima Critica, si risolve in maniera tale che la mediazione rimane comunque sottomessa alla sintesi34, cioè, la sintesi è quella operazione suprema che conduce tutta l’at34 Come prova possiamo addurre il fatto che il termine Vermittlung compare poche volte nella Critica della ragion pura, e rispetto all’onnipresenza del termine sintesi è quasi assente. Il concetto di mediazione compare sotto forma di aggettivo, ad esempio, la vermittelnde Vorstellung riguardo allo schema, cioè al terzo che

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tività del soggetto, e la mediazione interviene soltanto come rapporto tra le facoltà che devono mettere in atto la sintesi. Allora non è la mediazione quella che rende possibile la sintesi? La prima è sottomessa alla seconda, ma la seconda (la sintesi) senza mediazione sarebbe ineffettuabile. Non potrebbe essere il caso che il centrarsi sulla sintesi nasconda in realtà la primarietà della mediazione? E se consideriamo di nuovo il rapporto tra la prima e la terza Critica, non è proprio la prima il luogo della sintesi mentre la seconda sarebbe il terreno proprio della mediazione? La differenza tra la sintesi e la mediazione sarebbe così la differenza tra l’uso logico e l’uso estetico dell’immaginazione, oppure tra determinazione e riflessione? Tutte queste conclusioni, per quanto siano plausibili o meno, partono infatti da una mancata elaborazione del rapporto tra sintesi e mediazione in Kant stesso. La situazione assai curiosa e quasi intricata con i due termini viene confermata dal fatto (si veda la nota precedente) che nella prima Critica, dove è messa in scena la sintesi attraverso i concetti, la mediazione è introdotta in riferimento all’immaginazione e allo schematismo, mentre nella terza Critica, in cui si tratta del libero gioco dell’immaginazione e dell’intelletto, la mediazione è introdotta in riferimento ai concetti, cioè come “mediazione senza concetti”. Pare che la mediazione non abbia trovato il proprio luogo all’interno del sistema kantiano, per cui essa appare soltanto in riferimento a qualcos’altro, a un’altra facoltà (immaginazione) oppure a un’altra possibilità (possibilità dell’esperienza del bello e della comunicabilità), che si introduce quando i principi stabiliti a priori mostrano i loro limiti. Sembra che questo rapporto tra sintesi e mediazione rispecchi la separazione tra l’aspetto intra-soggettivo e quello inter-soggettivo dell’autocoscienza che in Kant si può rappresentare con due tipi di giudizi:

deve darsi, oppure come verbo, sempre nel contesto dello schematismo. Nella Critica del Giudizio, si nota, altrettanto interessante, l’apparizione del termine mediazione nella forma negativa, ad esempio, nei paragrafi 39, 40 e 41 della “Deduzione dei giudizi estetici puri”, riguardo al gusto che rende universalmente comunicabile il piacere senza mediazione di un concetto (ohne Vermittelung eines Begriffs). È chiaro che qui la mediazione dei concetti, nel senso preciso del termine, implica la sintesi. Da ciò si può concludere che la mediazione è più ampia della sintesi, cioè la sintesi è quella mediazione che include l’intervento dei concetti, mentre la mediazione senza i concetti sarebbe riflessione che si esibisce nei giudizi di gusto. Contro questa conclusione si rivolge lo stesso procedimento di Kant che porta avanti una deduzione dei giudizi di gusto proprio per il fatto che essi sono a suo modo sintetici. Ciò nonostante la scarsa attenzione di Kant nei confronti del termine Vermittlung in tutte le sue forme possibili balza agli occhi.

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giudizio di conoscenza: SèP

giudizio di gusto: S è bello



Io penso

sensus communis

Nel primo caso – il caso del giudizio di conoscenza – la funzione sintetico-copulativa, che rende possibile la connessione tra i due concetti, gli elementi dell’esperienza possibile, è assegnata all’unità sintetica dell’appercezione, e alla sua rappresentazione dell’Io penso35. L’Io penso dunque è il baricentro trascendentale di ogni sintesi, per cui la congiunzione di due termini nel giudizio accade soltanto perché entrambi i termini sono riferiti all’uno e unico Io che li congiunge. Nel secondo caso, quello del giudizio di gusto, la rappresentazione di un oggetto viene associata al piacere universalizzabile, come il bello, soltanto perché a suo fondamento sta una pretesa alla validità universale e all’accordo intersoggettivo. La copula del giudizio di conoscenza contiene un “müssen”, espresso nella definizione dell’Io penso che deve poter accompagnare ogni rappresentazione, cioè ogni sintesi tra le rappresentazioni. O per meglio dire: la sintesi tra le rappresentazioni in un giudizio è possibile soltanto perché c’è questa costante dell’Io penso che deve stare al riparo da ogni contenuto della coscienza. Nel giudizio di gusto la copula non contiene un “müssen”, bensì “un sollen”. Perciò il giudizio “x è bello” si traduce nel “x dovrebbe essere bello per tutti”. Il “sollen” (il dovere) coinvolge dunque la comunità intersoggettiva da cui si esige un consenso. La possibilità di comunicazione e la pretesa di validità intersoggettiva non sono la conseguenza del giudizio di gusto, ma piuttosto il suo fondamento espresso nel principio del senso comune. La peculiarità del senso comune sta nel fatto che esso svolge la sua funzione sintetico-copulativa, rendendo possibile l’esperienza del bello, proprio in quanto norma, o esigenza di un accordo. Malgrado gli spunti offerti dal testo kantiano, che indicano una possibile primarietà del senso comune e del principio della comunicabilità, che costituisce anche l’orizzonte della costituzione degli oggetti, cioè della sintesi dell’Io penso, il principio dell’Io penso e il principio del senso comune rimangono separati e autonomi. Per entrambi Kant richiede due deduzioni separate, perché egli non è in grado di pensare un’unità tra l’Io penso e sensus communis. Il primo è consegnato a un dominio (quello che riguarda la necessità e la natura), mentre il secondo è consegnato al territorio senza 35 Cfr. G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, cit., p. 56.

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dominio (al libero gioco). In altri termini, l’autocoscienza in Kant non è pensata come in se stessa intersoggettiva e il principio dell’intersoggettività non si può derivare dall’Io penso, ma richiede una fondazione diversa. Nei termini della nostra ricerca, il terzo viene diviso e per certi versi scisso in due suoi aspetti: il terzo intra-soggettivo e il terzo intersoggettivo. L’intervento di Hegel per certi versi è volto a unire questi due aspetti (l’uno intra-soggettivo e l’altro intersoggettivo) di modo che entrambi dileguino allentando le linee di demarcazione tra “fuori” e “dentro”, “intra-” e “inter-”. In altri termini, l’autocoscienza in Hegel è sin dall’inizio concepita come una struttura dell’alterità che pone le basi per un’esplicazione intersoggettiva. Il suo aprirsi alle determinazioni intersoggettive è originario e fa parte della definizione dell’autocoscienza stessa. L’autocoscienza dunque è già costituita come senso comune, ma non nel senso di una norma o l’ideale che la orienta. Possiamo dire che ciò che in Kant è il principio del senso comune in Hegel diventa lo spirito36 – “io che è noi e noi che è io”37. Abbiamo visto nei capitoli precedenti che Hegel non perde occasione per esprimere i suoi dubbi riguardo al termine sintesi, il quale implica sempre una relazione estrinseca e una separazione dei termini della relazione. L’unica modalità accettabile della sintesi per Hegel è la sintesi immanente – un’espressione che appare poco nel testo hegeliano, ma che è assai paradigmatica e che può servire da pietra di paragone nel ravvisare le differenze tra il modello kantiano e quello hegeliano. Nella Scienza della logica, Hegel, come esempio della sintesi immanente, riporta la categoria del divenire. È il divenire che “sintetizza” l’essere e il nulla. Ma è proprio qui che il termine “sintesi” incontra i propri limiti. Non si può parlare qui di vera sintesi e nemmeno di vera mediazione, dato che l’unità di essere e nulla nel divenire è pensata come immediato e istantaneo passare dell’uno nell’altro. Il divenire “sintetizza”, cioè unisce l’essere e il nulla, di modo che entrambi si costituiscono come divenire, cioè come passare nell’altro. 36 È interessante notare che Kant nella Critica del Giudizio definisce Geist (va tradotto però come spirito e non come animo o anima) in senso estetico (cfr. il capitolo di A. Bertinetto nel volume curato da M. Pagano, Lo spirito. Percorsi nella filosofia e nelle culture, cit. p. 328). Lo spirito è in questo contesto per Kant il talento di esibire e comunicare le idee estetiche. Se il campo dell’estetico e del teleologico è il vero luogo della terzietà kantiana, allora la sua caratterizzazione dello spirito, come unità della funzione poietica e comunicativa, va considerata come una sfaccettatura ulteriore sul profilo del tertium datur. 37 Per un commento a questa nota definizione hegeliana, riguardo alla questione del terzo soggetto, si veda. L. Cortella, Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, Padova, Poligrafo, 2002, p. 268.

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La sintesi immanente è pensata come passaggio trasfigurativo, come contemporaneo emergere e togliersi della differenza. La differenza dunque non è anteriore alla sintesi, ma per certi versi si articola soltanto a partire da quel terzo momento “sintetico” (la differenza tra l’essere e il nulla si articola soltanto nel divenire). D’altronde, passando l’uno nell’altro, la differenza tra di essi si toglie e lascia spazio all’uguaglianza. La sintesi immanente, concepita sul modello della categoria del divenire, è un “essere-già-sintetizzato”, dove questa operazione di sintesi è sempre in atto e si configura come trasfigurarsi nell’altro, sparire in quanto a sé stante e darsi come altro. Ciò che è originario è questo processo di sintesi nella sparizione i cui momenti valgono soltanto come analitici. Qui può essere d’aiuto richiamare alla memoria la divisione kantiana dei giudizi. Come ben sappiamo, Kant dedica massima attenzione ai giudizi sintetici, soprattutto quelli a priori, che sono fondativi di tutta l’esperienza, mentre ritiene i giudizi analitici soltanto esplicativi, tautologici. Perciò un giudizio analitico a posteriori per Kant è insensato e impossibile. In altri termini, non ha senso ricorrere all’esperienza per verificare che il triangolo ha tre lati; basta analizzare il concetto e fare un giudizio che, parlando a rigore, non è nemmeno un giudizio vero, ma una scomposizione del concetto. Se torniamo ora a Hegel, per il quale ogni giudizio è una differenziazione dei momenti del concetto38, vedremo che il giudizio analitico a posteriori non è mai trattato sotto questo nome, ma nonostante ciò nella sua logica giudicativa c’è qualcosa di hegeliano. Anzi, sembra che ciò che in Kant è impossibile e insensato in Hegel invece diventi fondativo. Non è l’incipit della Logica e l’inseparabilità dell’essere e del nulla nel divenire una chiara esibizione di un giudizio analitico a posteriori39? L’essere e il nulla per certi versi sono i momenti analitici della categoria del divenire, ma questi non si possono derivare a priori dal divenire (e infatti Hegel non comincia dalla categoria del divenire, ma proprio dall’essere e dal nulla). La direzione è dunque inversa, l’essere e il nulla si dimostreranno come momenti analitici retroattivamente, essi sono costitutivi del divenire soltanto a posteriori, dopo che sono immediatamente spariti l’uno nell’altro lasciando sulla scena soltanto questo sparire, e cioè il divenire. 38 Cfr. HW 8 E I, p. 316; ESF I, p. 387; §166. 39 Vincenzo Vitiello sostiene che: “Nella trattazione del giudizio Hegel riprende dunque il tema dell’Anfang, del cominciamento” (V. Vitiello, La riflessione tra cominciamento e giudizio, cit., p. 93). L’autore però lega il Daseinsurteil di Hegel all’immediatezza del sapere dell’ente nell’esperienza, e dunque non all’inizio della Logica.

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L’inizio della logica è quindi un chiaro esempio che nessuno degli elementi in gioco è veramente e completamente a priori. L’essere e il nulla sono soltanto nel divenire, ma il divenire è vuoto e impensabile senza la distinzione dell’essere e del nulla. L’aposteriorità qui assume il significato del passare originario e dunque dello sparire: il trapassare nel proprio opposto è il movimento più originario che non si costituisce però attraverso i momenti a priori che lo precedono, ma è esso stesso costitutivo dei propri momenti costituenti. Per la costituzione del divenire ci vuole il passaggio, il movimento originario che lo costituisce, dunque ci vuole un atto e il suo post factum. Ma è proprio qui, in questa retroazione che accade l’analitico, l’analysis, nel senso originario del risolversi negli elementi costitutivi. Come collegare queste affermazioni con il discorso sulla sintesi immanente? La sintesi immanente non è nient’altro che questo giudizio analitico a posteriori. “L’essere e il nulla sono il divenire” instaura così una relazione di identità tra i tre termini (l’essere, il nulla, il divenire) in cui ciascun termine è costituito come l’intero che contiene gli altri momenti (“L’essere è il nulla, e così anche esso è il divenire”, ecc.) Per questa formulazione vale ciò che Hegel dice a proposito del giudizio del concetto e del suo necessario passaggio nel sillogismo: In tal modo soggetto e predicato sono ciascuno l’intero giudizio […] Quello che in effetti è stato posto, è l’unità del soggetto e del predicato come il concetto stesso; è il riempimento del vuoto “è” della copula, ed in quanto i suoi momenti sono distinti al tempo stesso come soggetto e predicato, il concetto è posto come unità di entrambi, come la loro relazione mediatrice – il sillogismo.40

È chiaro che nelle categorie iniziali della Logica non si può parlare ancora né della mediazione né delle differenze effettive. Ciò nonostante anche qui, nell’immediatezza dell’essere, quando le determinazioni della riflessione non sono ancora operative, si è inverata tutta la logica speculativa del terzo. Secondo questa logica ogni membro della relazione è già un’unità con il suo opposto. L’essere che è passato nel nulla e che si costituisce come il divenire, si manifesta come interscambiabile con il divenire, e lo stesso vale per il nulla. La differenza tra i momenti dell’essere e del nulla è dunque una differenza posta dal concetto del divenire che unisce entrambi, di modo che ogni momento è già questa unità. Se si formula così un giudizio secondo il quale “il divenire è l’unità dell’essere e del nulla” ogni termine, ogni concetto di questo giudizio, è già l’intero giudizio, che include 40 HW 8 E I, p. 331; ESF I, pp. 401-402; §180.

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la relazione con gli altri termini. È l’unità del giudizio con il concetto del divenire. È la sintesi che coincide con l’analisi. Ciò che va notato è che anche la copula, “è”, in questo giudizio assume il significato del divenire, come l’essere passato nel nulla, e viceversa. Non esiste quindi alcun elemento del giudizio che non sia costituito come concetto, cioè come il divenire. E d’altra parte non esiste nessun concetto che non si possa dispiegare come giudizio. La copula non si cerca più al di fuori del soggetto e del predicato del giudizio (che sono il divenire e l’essere, o il nulla), ma per certi versi essa esprime la loro sintesi immanente; parimenti il predicato del giudizio è il momento intrinseco al soggetto. Il predicato connesso con il soggetto torna in seno al soggetto. Questo ritorno è reso possibile soltanto da una certa aposteriorità, che ha il carattere del divenire stesso, cioè del movimento sia del soggetto sia del predicato. Perciò in Hegel il giudizio del concetto passa nel sillogismo come nella sua verità: ogni giudizio presuppone una relazione mediatrice dispiegabile come sillogismo. Questa è in ultima istanza la conseguenza della natura della sintesi immanente e della sua tensione interna. In Kant questo passare riflessivo del giudizio nel sillogismo non è possibile, per gli stessi motivi per i quali un giudizio analitico a posteriori è insensato: l’operazione analitica è pensata come strettamente a priori ed esplicativa, mentre la sintesi in Kant rimane estrinseca, nonostante i tentativi di pensare una sintesi originaria nell’appercezione trascendentale e nell’immaginazione produttiva. 3. Il compimento della mediazione nel sillogismo Il giudizio analitico a posteriori può essere assunto come paradigma del pensiero hegeliano, purché esso sia capace di riconfigurarsi come sillogismo e esibirsi dunque come distruzione della forma giudicativa; dunque, purché non sia inteso kantianamente. Il superamento della funzione giudicante rivela come l’analitico non sia pensabile senza il sintetico (l’analitico come sintesi immanente dunque), e come l’aposteriorità abbia una struttura retroattiva e dunque costituisca ciò che era prima solo nel processo del proprio dispiegarsi: il terzo elemento, ciò che era la copula nel giudizio, nel sillogismo è il medio che attraversa tutti i momenti del processo, l’unità del divenire e del suo risultato; ed è un originario costituito retroattivamente attraverso la sua concretizzazione sillogistica. Il giudizio analitico a posteriori inverato come sillogismo dunque non è la mera esplicitazione di ciò che era già contenuto nel concetto, e così una riaffermazione

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dell’identità; anzi esso è il luogo della costituzione della differenza che si riferisce a sé, di una peculiare relazionalità produttiva di cui la Scienza della logica hegeliana è il rappresentante più elevato. La logica speculativa del terzo quindi trova la sua piena formulazione nel sillogismo. Il sillogismo unisce in sé l’aspetto della mediazione che espone le differenze dei momenti del concetto e l’aspetto della loro unità. In termini logici ciò significa che nel sillogismo il singolare si riferisce all’universale, al suo concetto, attraverso la mediazione di un particolare. Questo “processo circolare della mediazione (der Kreislauf der Vermittlung)”41 tra il singolare, il particolare e l’universale è il nucleo dialettico che anima tutto. Il sillogismo, come il razionale, come forma generale logica dello spirito, e “la definizione dell’assoluto”42, era al centro della ricerca hegeliana sin dai suoi scritti giovanili. Così nella Filosofia dello spirito del 1805-1806 leggiamo: Gli estremi sono, dunque, entrambi universali, e soltanto uno è l’universale; essi sono essenti, e altrettanto questo essere è non identico; l’essere dell’uno è l’interno, l’in sé dell’altro, ed essi son negativi. La loro unità è α) ancora un che di altro dai due estremi; giacché essi sono opposti; ma β) la loro opposizione è di natura tale che proprio in ciò in cui sono opposti l’uno all’altro, essi sono uguali l’uno all’altro; (e di nuovo, così che la loro opposizione è qualcosa di altro da essi, dalla loro identità con sé). Ma proprio nella loro unità e nella loro opposizione essi sono in relazione l’uno con l’altro, e, in quanto sia l’unità che l’opposizione sono un che di altro da essi stessi, l’una e l’altra sono il medio che li mette in relazione. È posto il loro sillogismo; in quanto sono opposti, essi sono in un terzo, e in quanto sono uguali, la loro opposizione, ciò che li dirime è parimenti un terzo.43

Il sillogismo dunque pone un che di terzo rispetto ai due estremi. Parimenti il sillogismo configura questi stessi estremi come il terzo. All’unità degli estremi si giunge non a scapito della loro opposizione, ma proprio in virtù di essa. L’unità nell’opposizione vuol dire dunque che ogni estremo, ogni termine dell’opposizione diventa l’unità con il proprio opposto44. Il luogo dell’unità sta dunque nell’opposto, cioè nella stessa relazione dell’opposizione. Il medio (die Mitte) che mette in relazione i due opposti è qualcos’altro rispetto ai due, ma questo “qualcos’altro” non 41 HW 8 E I, p. 332; ESF I, p. 403; §181. 42 HW 8 E I, p. 332; ESF I, p. 402; §181. Cfr. la seconda delle Habilitationsthesen di Hegel: “Syllogismus est principium Idealismi” (HW JS, p. 533). 43 JS, p. 199; FSJ, p. 83. 44 Cfr. HW 8 E I, pp. 391-92; ESF I, p. 461; §241.

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vuol dire al di fuori dei due: si tratta piuttosto di un’alterità in quanto esito qualitativo della trasfigurazione. I due opposti devono diventare questo “qualcos’altro”, cioè il proprio medio – il terzo. “Questo terzo però è di natura tale che è tutto ciò che essi [sono], è l’universalità, la negatività, e poiché vi sono più universali, il loro essere”45. Se il medio, cioè il terzo sta nella relazione tra gli estremi, e se questo terzo è “tutto ciò che essi sono”, “il loro essere”, allora ciò che costituisce la natura degli estremi è la relazione: l’essere è la relazione, è la mediazione riflettente, l’universalità concreta come negatività. “La relazione mediante l’opposizione è un altro, un terzo; ma ognuno è mediato con l’altro per mezzo del terzo”46. Il sillogismo come forma logica della mediazione è dunque più di una forma adatta a esplicare la relazione; esso è la natura stessa della relazione tra gli enti, il loro essere. Sinora abbiamo accennato due esempi illustrativi di questa mediazione hegeliana: il processo di traduzione, come una sorta di mediazione linguistica, e l’amore come una mediazione intersoggettiva. Entrambi sono il paradigma della mediazione e non della sintesi, intesa kantianamente, e perciò entrambi si prestano opportunamente a un’interpretazione hegeliana. In tutti e due i fenomeni il terzo non è un elemento esterno, a sé stante, bensì immanente, relazionale, costitutivo dei membri di relazione, il medium prodottosi in quanto producente e originante di un divenire trasfigurativo. Per tirare le somme torniamo per un attimo al fenomeno dell’amore, il tema così caro al giovane Hegel. L’amore, come vero terzo speculativo, trasfigura i due amanti che si generano, si producono nell’amore come vero medium del loro rapporto vivo. I membri della relazione amorosa si producono attraverso il terzo dell’amore, che è a sua volta anche prodotto, generato dai membri, cioè dagli amanti. L’amore è dunque la vita “prodotta”, vitalità creata nel fatto dell’essere-mortale47 – è la vita che non si rassegna davanti alla necessaria possibilità della morte48. La vita dello spirito nell’amore è dunque l’infinita automediazione, il potere del negativo che in tal modo rende vivo ciò che è mortale e finito, separato, lasciato sussistere in due senza relazione, perché 45 JS, p. 199; FSJ, pp. 83-84. 46 JS. p. 200; FSJ, p. 84. 47 “Che gli amanti abbiano autonomia (Selbständigkeit) e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire” (HW 1 FS, p. 246; ST, p. 559). 48 “Ma la vita dello spirito non è quella che ha soggezione al cospetto della morte e si conserva intatta dalla devastazione, bensì quella che sopporta (erträgt) la morte e che in essa si mantiene (sich erhält)” (HW 3 PG, p. 36; Fen, p. 24).

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la vera morte secondo Hegel sarebbe la rassegnazione davanti alla separazione, un rimanere presso l’opposizione fissa e finire immerso nel corso immediato, indisturbato e silenzioso della vita naturale49. Perciò si può a pieno diritto parlare della terzietà dell’amore, come Hegel stesso sostiene nella Filosofia dello spirito jenese. L’amore è il terzo grazie alla sua natura profondamente speculativa: “L’amore, soddisfatto, è l’unità degli estremi, che era prima l’impulso; questo amore soddisfatto, distinto dai caratteri, è il terzo, il generato”50. L’idea del terzo come il generato suggerisce una certa oggettività dell’amore, e infatti per Hegel non si tratta qui soltanto di una relazione, ossia di una negazione, ma di una relazione che ha un risultato. Per questo motivo soltanto l’amore soddisfatto, cioè reciproco, è il terzo: questo terzo è un altro dagli estremi, ovvero [in modo che] l’amore è l’essere-altro, immediata cosalità, in cui l’amore non si conosce immediatamente, bensì è per mezzo di un altro […] ovvero i due [estremi] conoscono il loro reciproco amore attraverso il reciproco servizio, lo conoscono mediato da un terzo, che è cosa; è il medio, e il medio dell’amore.51

E qui di nuovo si palesa la logica triadica (senza il terzo fisso e stabile) che abbiamo finora trattato: ogni elemento della relazione è il generato, mediato e mediante, e ciò è possibile soltanto in virtù della triadicità della relazione. Per la differenza e per la relazione non ci vogliono i due, 49 Cfr. la critica di Hösle (V. Hösle, Il sistema di Hegel, cit., p. 355) secondo cui il concetto dell’amore in Hegel è pensato sullo schema soggetto-oggetto e dunque non è riconosciuto come intersoggettivo. Questa argomentazione si allaccia a un’altra, secondo cui alla Logica hegeliana manca una teoria dell’intersoggettività. L’origine del fraintendimento di Hösle è da ricercarsi nella sua visione dell’oggetto contro la quale può essere argomentato che l’oggetto, nel senso originario di Gegenstand, può avere anche il significato di un altro soggetto, come ciò che sta davanti a un soggetto, l’oggetto come altro rispetto al soggetto. In questo senso la struttura concettuale della soggettività già include in sé una pluralità dei soggetti; la nostra ricerca sul terzo presentata in questo lavoro andava proprio in questa direzione. Per una discussione critica della posizione di Hösle si veda K. Brinkmann, Intersubjektivität und konkretes Allgemeines, in D. Koch (a cura di), Kategorie und Kategorialität. Historisch-systematische Untersuchungen zum Begriff der Kategorie im philosophischen Denken, Würzburg, Königshausen & Neumannn, 1990, pp. 131-167. Sulla Logica di Hegel come una teoria dell’intersoggettività si veda inoltre M. Theunissen, Sein und Schein, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1978. 50 JS, p. 211; FSJ, p. 95. 51 JS, p. 211; FSJ, p. 96.

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bensì i tre. La logica sillogistica è operante nell’amore, cosa che sostiene anche Hegel: “è il movimento del sillogismo per cui ogni estremo è riempito dall’io”52. Il divenire altro da sé, trasfigurarsi nel rapporto con l’altro, produrre un rapporto è il vero senso del terzo e dell’amore, in quanto unificazione nella separazione. L’unità si scinde in due, ma i due amandosi rimangono sempre i due, i soggetti finiti e l’amore è unica unificazione vera possibile. Il fatto che l’amore, come il fenomeno intersoggettivo della terzietà, abbia a che fare per il giovane Hegel con la nostra finitudine e con la possibilità di superare il rapporto morto, irrigidito tra due soggetti, ci porta a una linea di riflessione, che è lungo il percorso di questa ricerca solo sfiorata, ma in effetti merita un approfondimento attento. Si tratta del legame tra la figura del terzo e il tempo. È il terzo che apre la dimensione della temporalità? Come si è visto, l’appercezione kantiana deve rimanere fuori del tempo, ma dall’altro lato non può prescindere da un riferimento al tempo. Il riferimento al tempo nello schematismo è chiaro, ed esso funge da garante ulteriore della sintesi trascendentale. La sintesi e l’a priori sono definiti temporalmente, e non può essere altrimenti. Kant è stato il primo a imboccare questa via interpretativa, nonostante tutte le ambiguità: egli oscilla tra una prospettiva radicale del tempo e la sua riduzione alla mera forma della sensibilità. O, detto in altri termini, Kant ha aperto l’orizzonte del tempo come costitutivo per la sintesi (e dunque in riferimento alla questione della terzietà), ma nonostante ciò egli non pensa ancora l’autocoscienza come temporale, e per di più non pensa ancora il tempo come la storia53. Insomma, la sua trascendentalizzazione del tempo è il primo passo in questa direzione. Hegel compie un passo ulteriore e decisivo, quasi una rottura, eseguita sempre all’interno dell’orizzonte aperto da Kant stesso: non si tratta ora soltanto di delineare il concetto del concetto dal punto di vista del tempo, ma anche di far convergere il concetto e il tempo stesso. Di conseguenza l’Io non è più atemporale, e anzi, il tempo è il medesimo principio della pura autocoscienza54. Ma in che senso il terzo hegeliano ha a che fare con la temporalità? La domanda potrebbe sembrare superflua, dato che solo 52 JS, p. 210; FSJ, p. 94. 53 Cfr. M. Riedel, System und Geschichte, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1973. Della differenza tra tempo e storia, nel contesto della chiusura della Fenomenologia, e riguardo al tema della differenza ontologica, mi sono occupato in S. Hrnjez, Tempo e/è concetto. Storia degli effetti di una virgola, in “Trópos. Rivista di ermeneutica e critica filosofica”, 1 (IX), 2016, pp. 95-116. 54 Cfr. HW 9 E II, pp. 48-49; ESF II, pp. 112-113; §258. E anche HW 15 A III, p. 156; E, p. 1196.

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Tertium Datur

con il modello della mediazione si apre un’altra prospettiva del tempo, che si configura ora come tempo storico, che è il tempo effettivo (wirklich), riempito e qualitativo. E dunque il rapporto tra lo spirito, la storia e il tempo indica una via d’ingresso nel nocciolo della speculatività hegeliana55. Se seguiamo le indicazioni sul legame tra il terzo e il tempo, non è allora la categoria del divenire quella che approva questo legame? D’altronde, come il divenire, la categoria dell’orizzonte logico atemporale, può c’entrare col tempo? Non costituisce però il divenire la struttura logica del tempo, la temporalità in quanto radice del tempo apparente56? E poi: se Hegel stesso definisce il tempo come “il divenire intuito”57, allora perché il divenire stesso non può essere il tempo soltanto logicizzato, concettualizzato? E alla fine, se c’è una temporalità ontologica58 propria del terzo, non è che essa, come diceva Gadamer59 a proposito della riconciliazione, la nota Versöhnung hegeliana, contrassegna la vitalità dello spirito, il quale solo riconoscendosi nel proprio passato è in grado di essere libero per il futuro? È chiaro che questa serie di domande non può trovare una risposta esaustiva in queste pagine. Le abbiamo poste soltanto per delineare l’orizzonte della nostra ricerca che chiudendosi con le domande in realtà vuole aprirsi verso nuove dimensioni riguardo al problema del tertium datur, di sintesi e di mediazione.

55 Sul rapporto tra tempo, concetto e spirito, anche nella prospettiva della filosofia della religione, rinviamo a M. Pagano, Tempo ed eternità: Hegel e l’ermeneutica della religione, in M. Ruggenini, L. Perissinotto (a cura di), Tempo, evento e linguaggio, Roma, Carocci, 2002, pp. 181-197. Sul tempo e la storia come evento di trasformazione, si veda G. Frilli, Passato senza tempo. Tempo, storia e memoria nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel, Trento, Verifiche, 2015. Per un approfondimento del tema generale cfr. A. Koyré, Hegel a Jena, in R. Salvadori (a cura di), Interpretazioni hegeliane, cit., pp. 133-167. 56 L’autore che si interroga su questo e tratta il medio come fattore della temporalità è Jan Van Der Meulen: il terzo, la pura sintesi funge da radice del tempo, mentre il quarto momento si mostra come la spazialità (l’esser-ci). Anche se il suo studio, già citato durante questo lavoro, può destare varie obiezioni esso comunque costituisce un contributo fondamentale per la questione del termine medio e del suo rapporto con il tempo. Cfr. Jan van der Meulen, Hegel. Il medio infranto, cit., pp. 89-99. 57 HW 9 E II, p. 48; ESF II, pp. 112; §258. 58 Sulla logica hegeliana come ontologia della temporalità si veda L. Cortella, Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, cit., pp. 175-190. 59 H. G. Gadamer, Hegel und der geschichtliche Geist, cit., pp. 34-37.

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INDICE DEI NOMI

Antonelli, Emanuele, 287, 311 Aristotele, 14-16, 18, 80, 264, 286, 314-315 Arnaud, Eraldo, 313 Arndt, Andreas, 185, 190, 201, 223, 227, 308, 312, 314 Bachmann, Karl Friedrich, 180, 308 Badiou, Alain, 15, 109, 308 Bagetto, Luca, 251, 308 Barale, Massimo, 86, 308 Baudrillard, Jean, 253, 308 Beck, Lewis White, 91, 309 Bellan, Alessandro, 227, 283, 309 Bennett, Jonathan, 81, 309 Bertinetto, Alessandro, 298, 309 Bertram, Georg, 7, 106, 244, 309 Bodei, Remo, 125, 219, 308-309 Böhme, Gernot, 35, 309 Böhme, Hartmut, 35, 309 Brauer, Oscar Daniel, 199, 212, 309 Brianese, Giorgio, 17, 309 Brinkmann, Klaus,18, 304, 309 Bubner, Rüdiger, 237, 311 Butts, Robert E., 91, 309 Cacciari, Massimo, 23, 315 Caini, Mario, 93, 309 Candiotto, Maurizio, 60, 309 Cantillo, Giuseppe, 308 Cantone, Damiano,129, 309 Carboncini, Sonia, 311 Carchia, Gianni, 103, 114-115, 124, 131, 309

Cartesio (René Descartes), 17, 20, 25, 71-72, 177, 294, 309 Cassin, Barbara, 15, 308 Cassirer, Ernst, 21, 309 Cesa, Claudio, 294, 309 Chiereghin, Franco, 218, 221, 273, 309 Chiodi, Pietro, 37, 56, 73, 89, 307, 309, 311 Chipman, Lauchlan, 85, 88, 309 Chiurazzi, Gaetano, 7, 19, 21, 45, 65, 72, 224, 297, 310, 312 Cicatello, Angelo, 7-8, 49, 310 Codignola, Ernesto, 308 Cortella, Lucio, 298, 306, 310 Cramer, Konrad, 237, 311 Deleuze, Gilles, 16, 29, 34, 61, 85, 120, 122, 128-131, 155, 194, 294, 309310, 313, 315 Deligiorgi, Katerina, 26, 313 Democrito (Democritus), 15, 310, 313 Detel, Wolfgang, 79, 81, 83, 310 De Toni, Gian Antonio, 21, 309, 312 Di Giovanni, George, 234, 310 Dolar, Mladen, 15, 123, 310, 315 Dottori, Riccardo, 178, 186, 242, 310 Durner, Manfred, 143, 314 Düsing, Klaus, 53, 64, 142, 174, 206, 209, 243, 262, 310-311 Esposito, Costantino, 307 Feroldi, Luisella, 120, 310 Ferrarin, Alfredo, 85, 310

318

Tertium Datur

Fichte, Johann Gottlieb, 135, 138-139, 147-148, 178, 309 Findlay, John N., 45, 310 Fort, Jeff, 128, 313 Frank, Manfred, 237, 310 Frigo, Gian Franco, 257, 312 Frilli, Guido, 306, 310 Fulda, Hans Friedrich, 180, 310

Iber, Christian, 185, 201, 227, 308, 312 Illetterati, Luca, 230-231, 283, 312

Gadamer, Hans Georg, 178, 186-188, 199, 242, 284, 288, 306, 310-311 Garelli, Gianluca, 7-8, 21, 33, 285, 287, 308, 311 Gargiulo, Alfredo, 307 Gawlick, Günter, 53, 310 Geraets, Théodore F., 281, 311 Gibbons, Sarah L., 48, 81, 92, 311 Görland, Ingtraud, 156, 311 Guattari, Félix, 129, 310

Kangrga, Milan, 100, 312 Kant, Immanuel, 9, 15-25, 27, 29, 3162, 64-95, 97-111, 113, 115-117, 119-131, 135-139, 144, 147-170, 172-178, 196, 207, 213, 232, 237, 274, 277, 279, 287, 291-299, 301, 305, 307-315 Kimmerle, Heinz, 10, 280, 312 Kneller, Jane, 35, 312 Kobe, Zdravko, 123, 315 Koch, Antun Friedrich, 7, 201, 223, 304, 309, 312 Kojève, Alexandre, 243, 257, 312 Kosok, Michael, 218, 312 Koyré, Alexandre, 85, 306, 312-313 Kreimendahl, Lothar, 53, 310 Kruck, Günter, 223, 227, 312, 314

Haering, Theodor, 180, 311 Harris, Henry S., 243, 311 Hegel, Georg Friedrich Wilhelm, 1011, 15-21, 23-27, 35, 125, 133, 135-176, 178-186, 188-199, 201203, 205-236, 238-253, 255-272, 274, 277, 279-294, 298-306, 307315 Heidegger, Martin, 21, 31, 33-35, 42, 45, 54, 70, 73, 77, 84, 86, 99, 128, 224, 310-311 Henrich, Dieter, 34-35, 193, 218, 224, 233, 237, 243, 262, 310-312, 315 Höffe, Otfried, 78, 311 Hogemann, Friedrich, 10 Hohenneger, Hansmichael, 21, 311 Honneth, Axel, 240, 243, 311 Horkheimer, Max, 100, 311 Horstmann, Rolf-Peter, 10, 181, 315 Hösle, Vittorio, 216, 230-231, 280-281, 304, 312 Houle, Karen, 16, 194, 313 Houlgate, Stephen, 179, 183, 199, 257, 264-265, 312 Hrnjez, Saša, 19, 127, 305, 312 Hyppolite, Jean, 228, 267, 270, 312

Jaeschke Walter, 10 Jacobi, Friedrich Heinrich, 147, 148, 164 Jameson, Fredric, 109, 213, 312 Jørgensen, Dorthe, 19, 312

Lacan, Jacques, 15-16, 310, 313 Lampert, Jay, 194, 313 Landucci, Sergio, 226, 228, 231, 313 Lawlor, Leonard, 228, 312 Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 228, 289 Lenin, Vladimir Iljič, 220, 313 Losurdo, Domenico, 26, 233, 313 Lucas, Hans-Christian, 202, 314 Lugarini, Leo, 148, 179, 192, 202, 224225, 262, 313 Lumsden, Simon, 16, 294, 313 Makkreel, Rudolf A., 87, 91, 119, 127, 313 Mancuso, Girolamo, 253, 308 Marcuse, Herbert, 220, 313 Martinengo, Alberto, 287, 311 Marx, Werner, 219, 241-242, 313

Indice dei nomi 319

Masullo, Aldo, 315 Matson, Wallace I., 15, 313 Merker, Nicolao, 308 Messineo, Francesco, 308 Meulen, Jan Van der, 15, 212, 306, 315 Michel, Karl Markus, 10, 307 Milisavljević, Vladimir, 147, 313 Miller, Jacques-Alain, 16, 313 Mirri, Edoardo, 308 Moldenhauer, Eva, 10, 307 Moni, Arturo, 216, 308 Morani, Roberto, 192-193, 202, 313 Nancy, Jean-Luc, 128, 313 Negri, Enrico De, 308 Nuzzo, Angelica, 26, 288, 313 Occhetto, Franco, 315 Pagano, Maurizio, 7-8, 245, 298, 306, 309, 314 Palazzo, Sandro, 34, 310 Paltrinieri, Gian Luigi, 307 Papoulias, Haris, 211, 314 Pareyson, Luigi, 121, 314 Peperzak, Adriaan, 245, 281, 314 Perissinotto, Luigi, 306, 314 Perović, Milenko, 264, 314 Pinkard, Terry, 243-244, 249, 255, 265, 270, 314 Pippin, Robert, 77, 83, 166, 243, 314 Pirni, Alberto, 231, 312 Planty-Bonjour, Guy, 202, 314 Platone, 13-15, 206, 286, 315 Plessner, Helmuth, 239, 314 Pöggeler, Otto, 180, 314 Polidori, Fabio, 243, 314 Preve, Costanzo, 26, 314 Prichard, Harold Arthur, 81, 314 Rasini, Vallori, 314 Redding, Paul, 274, 314 Reina, Maria Elena, 311 Renault, Emmanuel, 249, 314 Ricoeur, Paul, 49, 243, 314 Riedel, Manfred, 202, 305, 314

Rousseau, Jean-Jacques, 270 Rubini, Paolo, 311 Ruggenini, Mario, 306, 314 Salvadori, Roberto, 285, 306, 312313 Sandrelli, Carlo, 243, 311 Sanna, Giovanni, 308 Santoro, Vito, 243, 314 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 135, 142-143, 203, 310, 314 Schick, Friedrike, 233, 314 Sedgwick, Sally, 144, 155, 165-166, 314 Sen, Amit, 228, 312 Siep, Ludwig, 243, 314 Simmel, Georg, 23, 315 Solomon, Robert C., 19, 315 Somers-Hall, Henry, 155, 315 Spinoza, Baruch, 291 Stelli, Giovanni, 312 Stern, Robert, 19, 315 Stillman, Peter G., 245, 315 Teeteto, 13 Testa, Italo, 243-244, 274, 315 Theunissen, Michael, 304, 315 Tinning, Soren, 19, 312 Todorović, Miloš, 40, 315 Totaro, Pina, 21, 311 Trede, Johann Heinrich, 10 Trendelenburg, Ernst, 203, 315 Vaccaro, Nicola, 308 Valente, Luisa, 21, 311 Vattimo, Gianni, 311 Vera, Augusto, 286, 315 Vernon, Jim, 16, 194, 313 Verra, Valerio, 125, 148, 174, 294, 308309, 313, 315 Vieweg, Klaus, 240, 311 Villani, Tiziana, 120, 310 Vitiello, Vincenzo, 25, 299, 315 Wahl, Jean, 269, 315 Walsh, W. H., 89, 315

Tertium Datur

320

Weber, Max, 109, 312 Welsch, Wolfgang, 240, 311 Wiehl, Reiner, 237, 311 Wieland, Wolfgang, 181, 201, 315 Williams, Robert R., 245, 315

Wolff, Michael, 233, 315 Žižek, Slavoj, 15, 109, 195, 232, 263, 280-281, 315 Župančić, Alenka, 123, 128, 315

INDICE DEI TERMINI

Abisso (Abgrund), 21, 57, 82, 97, 99, 111, 128, 143, 197, 224, 257, 260, 290-291 accidentalità (accidentale), 103, 207, 266 accordo, 63, 65, 90, 100, 104-108, 114123, 126, 129, 132, 249, 297 affezione (affetto), 32, 57, 72-74, 139, 265 autoaffezione, 120 affinità, 39, 47-48, 83, 111, 190, 262 alienazione (autoalienazione), 29, 169, 264, 270 alterità, 6, 19, 112, 139, 192, 195, 207, 211, 221, 223, 226-227, 229-231, 235-239, 241, 243-247, 249, 251253, 255, 257, 259, 261, 263, 265, 267, 269, 271, 273-275, 282-283, 289-291, 293, 298, 303, 309, 312 amore, 242, 272, 284, 303-305 analisi, 14, 26, 32, 40, 145, 173, 181, 212, 218, 222, 226, 267-268, 285, 301 analitico, 6, 67, 69, 174, 188, 206-207, 210, 279, 294, 299-301 Anderswerden, 207, 221, 289, 293 anima, 13, 14, 17, 36, 47, 54, 70, 88, 129, 205-206, 209, 231, 267, 298, 302 animo, 8, 36, 38, 43, 50-51, 82, 120125, 131, 285-286, 298 antinomia, 141, 212 antitesi, 139, 141, 171-172, 177-178, 195, 207, 212, 220, 235, 237-238, 279

aposteriorità, 136-137, 300-301 apparenza, 61, 89, 103, 115, 124, 131, 309 appercezione, 5-6, 18, 20, 34, 38, 4448, 50-56, 58-65, 67-68, 70-72, 76, 93, 137, 148-165, 167, 169-170, 297, 301, 305 apprensione (Apprehension), 38-44, 49-50, 53, 55, 76, 94, 126, 128, 130, 155, 166 apriorità, 136-137, 158, 160, 164, 170171, 174 armonia, 100, 103, 109, 121, 129-130, 132, 176, 219 arte, 88, 172, 176, 280 assoluto (Assoluto), 18-19, 36, 52, 136138, 142-148, 150-151, 160-161, 167-168, 172-177, 179-183, 190191, 202, 205-207, 214, 217, 219220, 245, 250, 257, 266, 271, 274, 280-281, 289, 302, 309, 311, 314 atto, 14, 21, 24, 35-36, 38, 41, 44, 49, 52-54, 57, 60, 65, 69, 71, 76, 79-80, 88, 93, 98, 104, 115, 126-127, 131, 141, 147, 152, 155, 166, 168, 186, 193, 195, 215, 218, 220, 229, 234, 236-238, 256, 258, 270, 272, 282, 285, 289-291, 296, 299-300 attività, 33-34, 36-39, 50-52, 54, 57, 60, 68, 73, 78, 91, 100, 136, 145, 154155, 162-163, 165-167, 173-174, 209, 215, 224, 258, 260-261, 263, 269, 284 Aufhebung, 197, 214, 235, 239, 258, 284

322

autocoscienza, 6, 17-20, 44-45, 50-51, 57-61, 63, 65, 72-73, 139-140, 146147, 153-154, 167-173, 234-253, 255-273, 275, 285-287, 296, 298, 305 automediazione, 215, 217, 219-220, 279, 282, 286-290, 293, 303 autonegazione (autonegante), 139, 148, 168, 199, 210-211, 214-215, 227, 234, 241, 255, 257, 291-292 autonomia, 38, 47, 51, 53, 55, 102, 104, 151, 155, 188-189, 215, 234, 236, 238-241, 252, 257-258, 265, 271, 284-285, 292, 303 autoreferenzialità (autoreferenziale), 110, 209, 228, 239 autoriflessione, 110, 124, 146, 219-220, 266 autosentimento, 120,122, 237 bellezza (bello), 106, 109, 112-114, 118-121, 123-125, 128, 131-132, 175-176, 296-297 Bestimmung (Bestimmungen), 93, 129, 202, 209, 233, 314 bilateralità, 158, 160-161, 168, 202 capacità, 32-33, 35, 43, 68, 74, 104, 108, 110, 121, 137, 228, 241, 251, 256, 286, 291, 293, 295 causalità (causale), 73, 99-100, 108, 131 coesistenza, 69, 78, 101, 126, 229 cominciamento, 6, 25, 179-182, 184185, 190, 193-194, 198, 202-205, 208, 219, 225, 299, 315 compimento, 6, 15, 19, 81, 135, 178, 245, 256, 274, 280, 294, 301 comunicabilità, 116, 118-119, 121-122, 296-297 consenso, 62-63, 106, 112-113, 116, 118-119, 297 contraddizione (contraddittorietà), 6, 26-27, 34, 47, 68-69, 140, 152, 188189, 198-199, 201, 207, 209, 211212, 214-215, 218, 221, 226, 228-

Tertium Datur

233, 237, 262-263, 266-273, 284, 313 copula, 5, 22, 63-65, 67-69, 161-162, 169, 194, 295, 297, 300-301 coscienza, 39-40, 43-46, 48-50, 58-63, 71-73, 130, 138, 145-147, 153-154, 156-157, 161-162, 171, 178-179, 185-186, 206, 219, 234-240, 246, 253, 255-261, 263-274, 285-287, 297, 315 coscienza infelice, 267-273, 287, 315 costituzione, 15, 19, 21, 31, 41, 48-49, 55-56, 60, 63-64, 71, 79, 94-95, 102104, 112, 116, 125, 169, 178, 195, 202, 237, 247, 259, 274, 291, 294295, 297, 300, 302 critica, 5, 9, 19-22, 24-25, 27, 31-36, 39, 42, 45, 47, 49, 51, 57-58, 60-65, 67, 71, 76-77, 81, 85, 87, 90, 97, 99-105, 107-111, 113, 115-131, 135136, 138, 148-149, 152-154, 159, 161-165, 170-171, 175-176, 199, 213, 237, 286, 291, 295-296, 298, 304-305, 307, 309-313 Dasein, 199-200, 222, 225, 288, 299 den, 15 desiderio, 6, 234, 239-242, 244-245, 248, 250, 260, 262, 271-272 dialettica (dialettico), 13, 20, 26, 79, 109, 125, 129, 178, 186, 193-195, 206-220, 222, 234, 242-243, 247, 249-253, 255, 263, 266-267, 269, 271, 273, 280-281, 286, 294, 302, 310 differenza, 6, 15, 17, 20, 23-25, 36, 45, 50, 54, 58, 62, 65, 77-79, 83-85, 9092, 98, 102, 105, 112, 117, 124, 137138, 140-142, 145-146, 148, 152, 155-158, 160-162, 164, 167-172, 179-180, 182-188, 190-197, 199201, 207-212, 214-215, 218-219, 222-224, 226-230, 232-240, 248, 255, 258-262, 267, 271, 273, 279280, 283-285, 287, 289, 292-293,

Indice dei termini 323

296, 299-300, 302, 304-305 dispiacere, 102, 106-108 disuguaglianza, 232, 247, 262 divenire, 6, 20, 24-25, 27, 143, 145, 170, 179, 183, 186-190, 193-204, 207, 212, 217-218, 221, 223-225, 237, 284, 286-289, 292-293, 298301, 303, 305-306 diversità, 119, 190, 196, 222-223, 227229, 233 dominio, 6, 52-53, 73, 97-99, 101-102, 104, 106, 110-111, 113, 130, 144, 146, 249, 252-253, 255, 257, 283284, 297-298 das Dritte (ein Drittes, dritte), 5, 18, 21, 23, 27, 69-70, 76-78, 89, 110-111, 142, 177, 180, 186-188, 222, 229, 269-270, 283, 287, 311 dualismo, 17, 20, 27, 32, 41, 148, 171, 174, 177, 195, 197, 222, 245, 281 dualità, 17-18, 20, 23, 25, 29, 32, 34, 41, 54, 71, 74, 148, 153, 158, 197, 212, 221, 234, 238, 281-282 duplicità, 211, 234, 238, 242, 269, 273 eautonomia, 102-103 effetto, 36, 38, 40, 51-52, 54, 56, 73, 91-92, 98-99, 103, 106-108, 112, 120-121, 125, 131, 163, 165-166, 267, 290, 293 effettualità (effettività), 91, 285 eguaglianza (uguaglianza), 140-141, 191-192, 211, 222-223, 228, 240, 284, 289, 299 Einbildungskraft, 48, 53, 64, 80, 126, 174, 310 elemento, 13-14, 16-17, 19, 39, 42, 46, 64, 78, 80, 86, 89, 107, 109, 136, 142, 157, 161, 172, 185, 196, 206207, 215, 220-222, 231, 239, 259260, 269, 271, 275, 281, 283-285, 287, 289, 291-294, 301, 303-304 emancipazione, 6, 131, 257-258, 260262, 264 empirismo, 27, 136 ente, 15, 31, 180, 189, 221, 299

entità, 18, 20, 151, 180, 195-196, 260, 283-284, 289 Entzweiung, 23, 25, 139, 142, 195-197 ermeneutica, 45, 288, 305-306, 312, 314 esistenza, 18, 39, 45, 71-73, 87, 94, 120, 176-177, 189, 221, 225, 234, 248, 258, 263, 266, 285, 288-289, 310 esperienza, 5, 16-19, 21, 23-24, 26, 3134, 38-40, 43-44, 46, 48-49, 52, 5556, 58, 60-77, 79, 81, 83, 85, 87, 8995, 97-98, 101, 103-106, 109-113, 116, 119-121, 123-125, 127-131, 136-137, 139, 149, 151, 155-157, 160-162, 166, 169-170, 172-173, 185, 204, 214, 231, 241-242, 245246, 258, 263, 282, 295-297, 299, 312 essenza, 14, 61, 128, 154, 177, 193, 209, 217-218, 221-225, 227, 231, 234, 238, 242, 246, 249, 253, 255258, 261-262, 265-270, 281, 285286, 289-290 esserci, 90, 185, 199-201, 212, 217218, 222, 225, 234, 269, 283 estetica, 23, 40, 93-94, 110, 112, 120122, 124, 127, 129-131, 137, 177, 287, 311, 314-315 eternità, 306, 314 eticità, 272, 281 fallimento, 6, 15, 124-125, 129-130, 132, 181, 201, 240-242 fenomeno, 22, 24, 32, 39, 41, 44, 48, 61, 72, 74, 77-80, 82-83, 89-90, 108112, 131-132, 147, 150, 157, 160, 284, 287, 303, 305 fenomenologia (Fenomenologia), 11, 18, 26, 180, 234, 249, 257, 267, 270273, 279, 285, 290, 305-306, 308, 310-312 finalità, 104-105, 107-110, 114-115, 122-123, 132, 175-177 finitezza, 138, 144, 147, 158, 167-168, 173, 230-231, 258, 291

324

finitudine, 144, 263-264, 305 formalità, 115, 173, 178 genesi, 95, 120, 122, 165, 180, 190 Giudizio, 9, 21, 24, 42, 57, 63, 90, 97, 100-111, 113, 115, 118-119, 122123, 125-126, 128, 136, 159, 175176, 296, 298, 307, 311 giudizio, 5-6, 25, 62-70, 76-81, 87, 101, 104, 112-118, 120-122, 124, 129, 140, 146, 149-150, 161-162, 175, 178, 181-182, 190, 194, 215, 273274, 280, 294, 297, 299-301, 310, 315 gnoseologia, 32, 162 godimento, 6, 120, 128, 252, 255, 257, 270 idealismo, 3, 7, 18-19, 25-27, 48, 7172, 74-75, 81, 87, 148, 173, 289, 291 identità, 6, 17-18, 23, 31, 35, 44-48, 50, 58-61, 119, 136-143, 145, 147-153, 155-159, 161-163, 165, 167-177, 181-182, 185, 189, 192, 195, 197, 200-201, 205, 214-215, 218-219, 221, 223, 225-228, 231, 233, 235238, 240, 244, 246-247, 263, 272273, 284, 290, 300, 302 immaginazione, 5-6, 18, 20, 24, 34-38, 41-56, 58-59, 62-64, 68, 70-71, 7677, 79-80, 83-84, 86, 88, 90-92, 95, 103, 106, 115, 120-132, 148-149, 155-163, 165-169, 171-172, 174, 292-293, 295-296, 301, 310 immagine, 8, 21, 35, 43, 46, 48, 78, 81, 83-89, 91, 131, 198, 203, 219, 221, 246, 259, 280, 293, 311 immanenza, 18-19, 125, 172, 175, 205, 217, 245 immediatezza, 179-181, 190, 194, 208, 211-212, 214-217, 219-220, 259, 283, 287, 289, 293, 299-300 impossibilità, 57, 125, 130, 148, 160, 177, 193, 196, 202, 217, 251, 288 indeterminatezza, 179, 191 indifferenza, 141, 146, 182, 191-192,

Tertium Datur

224, 227-228, 251, 265, 280, 283, 292 ineguaglianza (inuguaglianza), 140141, 191-192, 222-223, 228, 232, 262 inseità, 151, 232, 260 intelletto, 5, 18, 22-24, 32-34, 36-38, 44-45, 47-49, 51-60, 62, 64-68, 74, 77-80, 82-83, 86-93, 97-98, 101-108, 110-112, 115-116, 119, 121-125, 127, 131-132, 136-141, 143-149, 155-160, 162-169, 171, 173-176, 236, 259, 284, 292, 295296, 315 intersoggettività (intersoggettivo), Intersubjektivität, 5, 19, 62-63, 106, 111-119, 123, 234, 243-244, 259, 261, 269, 273-275, 285-286, 297298, 303-305, 309 intrasoggettività (intrasoggettivo), 5, 33, 35, 37, 39, 41, 43, 45, 47, 49, 51, 53, 55, 57, 59, 61, 63, 65, 67, 69, 71, 73, 75, 77, 79, 81, 83, 85, 87, 89, 91, 93, 95, 122, 244 intuizione, 24, 35-46, 48-49, 52-55, 5758, 60-62, 64, 74, 77, 79, 81-87, 90, 92-94, 109, 125-128, 130, 138-139, 152-153, 156-157, 162-166, 172174, 176, 292 Io penso, 5, 17, 34, 45, 55-57, 59, 6167, 71-72, 137, 139, 152, 154-155, 167, 170, 294, 297-298 legge, 16, 22, 36, 47, 53, 56, 68, 99, 102-103, 108, 112, 121-122, 125, 146, 148, 168, 177, 190, 221 legislazione, 97-98, 101-104, 108, 110 libertà, 21, 26, 32, 97-103, 107-110, 131-132, 145, 175-176, 180, 231, 248-250, 257-258, 261-263, 265267, 270, 273, 284, 312-313 limite, 124, 128, 144, 185, 213, 230, 250, 283, 312 lingua, 285,287-288,313 linguaggio, 16, 91, 251, 285-286, 306, 314

Indice dei termini 325

lotta, 6, 147, 248-253, 259-260, 263, 268, 272-273, 314 manifestazione, 61, 138, 142, 145, 161, 257 mediazione, 3, 6-7, 14, 19, 21, 24, 26-27, 80-81, 92, 168, 171, 177, 180-181, 184, 200, 208, 211-212, 214-215, 217-219, 227, 234, 237, 245-246, 251-253, 259, 265, 269, 273-274, 281-293, 295-303, 305306 medium, 92, 95, 110, 285, 303 metafisica, 9, 18, 27, 31, 34, 42, 49, 54, 62, 77, 84, 86, 255, 307, 310-311 metodo, 18, 48, 81, 84, 86, 89, 148, 162, 205-207, 209, 212, 215, 217, 219-220, 231, 281-282, 288, 308, 311 Mittelglied, 21, 24, 102, 111, 157, 166167, 175 modalità, 32, 55, 72-74, 111, 136, 173, 209, 218, 227, 265, 268, 298 modernità, 16, 25-26, 109, 281, 315 molteplicità (molteplice), 14, 16, 3741, 43-50, 52-55, 57-62, 64, 77, 80, 90, 103-104, 113, 126-128, 137-139, 150-158, 161, 163-164, 167-169, 171, 173, 175, 226, 228, 265, 285 morte, 6, 136, 248-251, 253, 257-260, 263-264, 303-304, 308 negatività, 15, 193, 209-212, 214-217, 220, 225, 231, 257-258, 260, 273, 289, 303, 314 negazione, 6, 15-16, 54, 124, 191, 206, 208-212, 214-215, 224-225, 227, 234, 238-241, 244, 248-250, 255258, 260, 266, 268-269, 280, 290291, 304 noumeno, 22, 32, 110-111, 132, 150 Objekt, 45, 91, 138, 149 oggetto, 16-20, 26-27, 31-32, 35, 3738, 40-46, 48-50, 60-66, 68, 71-72, 74-77, 80, 83, 85, 87, 89-91, 94, 98,

102-106, 108, 110-119, 121-125, 127, 136-139, 145-151, 153-157, 161, 164-165, 168, 172, 178-180, 182, 186, 203, 205-207, 220-221, 235-242, 244-245, 248-253, 255261, 263-266, 270, 272, 274-275, 286, 294-295, 297, 304 oggettività, 18, 20, 27, 31, 61, 63-64, 123-124, 136, 143, 153-154, 169, 178, 239, 241, 248, 252 ,261, 264, 266, 285-286, 291,304 ontologia, 15, 18, 27, 32, 147, 191-192, 207, 220, 244, 251, 274, 294, 306, 309, 313 particolarità, 213, 233, 271, 284 pensiero, 8, 13, 17-18, 21, 25, 27, 32, 45, 48, 55, 59, 64, 72, 75, 90, 95, 126, 128, 135-139, 152-154, 158160, 168-169, 178-179, 184, 186, 202-203, 208, 212-213, 217, 231, 243, 245, 264-266, 268, 281, 289, 291, 293, 301, 312, 314 percezione, 38-39, 42-44, 62-64, 73, 126, 128, 156, 165, 238 piacere, 102,106-108,110-116,118,120121,296-297 ponte, 21, 23, 45, 80, 97, 108, 110-111, 129, 132, 158, 315 positivo (positività), 15, 135, 159, 176, 206, 209, 211, 214-217, 221, 224, 227-230, 259, 269, 272, 281, 283, 289 possibilità, 7, 20, 22, 31-32, 34, 38, 40, 45-46, 49, 59-61, 64-66, 69-70, 7376, 78, 80, 87, 89-90, 94, 99, 101, 106, 110-111, 115-120, 122, 139, 150, 156, 160, 168, 185, 188, 193, 226, 237, 242, 258, 263, 275, 295297, 303, 305 potenza, 124, 128, 143, 147, 156, 177, 205, 260 predicato, 14, 64, 66-68, 70, 113, 127, 149-150, 161, 175, 181, 191, 194, 300-301 produzione, 35, 49, 56, 80, 83-86, 88,

326

90-91, 94-95, 105-106, 125, 128, 145-146, 154, 206, 213, 288, 291 quadruplicità (quadrupla), 6, 201, 203, 208, 212-214, 217-218, 272, 280 quintuplicità, 280-281 ragione, 21-23, 32-33, 45, 47, 54, 56, 63, 68, 85, 90, 98-102, 108-110, 115, 117, 121, 124-131, 136-138, 141, 143-151, 154, 157-160, 162, 166-167, 170-172, 174-175, 177, 187, 192, 205, 222, 227, 263, 270, 273, 311 rapporto, 14, 19-20, 22, 31-32, 34, 4042, 44-47, 50, 53, 58, 60, 63, 65, 68, 71-73, 76-77, 83, 85, 87-90, 93-94, 100, 103, 106, 108, 114-116, 120, 122, 137,141-147, 150-151, 154, 158-159, 161-163, 168, 172, 186, 191-193, 197, 200, 202, 208-211, 215, 223, 228-233, 235, 237-247, 252-253, 255, 258-260, 262-265, 269-274, 282-284, 286-289, 293294, 296, 303, 305-306, 310 rappresentazione, 22, 32, 35-37, 39-51, 54, 57-61, 63-68, 70-74, 78, 81-90, 94-95, 108, 114-116, 118, 121-127, 129, 137, 152, 154-155, 164-166, 175-176, 182, 186, 240, 265, 297, 310 razionalità (razionale), 100, 109-110, 129, 132, 138, 149-151, 160-162, 165, 167, 170, 172, 175, 195, 206, 213, 244, 259, 263, 281, 302 realtà, 17-19, 24, 35, 40, 45, 59, 62, 7273, 75-76, 80, 87, 90, 105, 110, 124, 136-137, 139, 151, 154, 163, 165, 167, 174, 177, 209, 219, 223-225, 228, 230, 233, 263, 269-270, 273274, 285, 291, 296, 306 recettività, 29, 32, 34-36, 40-41, 54, 56, 74, 92, 129, 139, 150, 155, 162-163, 165-167, 295 Reflexion, 142, 185, 190, 218, 224, 227, 267, 308, 310-312

Tertium Datur

relazione (relazionale), 20-21, 23-24, 40, 42, 45, 48-49, 58, 60, 62-65, 67-68, 71, 73-75, 94, 100, 105-108, 128, 139, 142-143, 145-148, 151, 158, 168-173, 178-180, 191, 195197, 202-203, 206-211, 218-223, 226-230, 232-234, 236-237, 240, 250-251, 256, 261-263, 274, 282284, 286, 293-294, 298, 300-304 relazionalità, 39, 42, 114, 148, 151-152, 224, 227, 229, 234, 253, 302 ricognizione, 38, 43-45, 49-51, 76, 80, 124, 126-127 riconoscimento, 26, 44, 49-50, 85, 135, 144, 163, 221, 243-245, 247-251, 255-256, 259, 264, 271-274, 285, 311, 314-315 riflessione, 6, 19, 21-22, 24-25, 27, 73, 75, 100-102, 104-106, 108, 110, 112-113, 119, 135, 137-142, 144147, 155, 158, 179, 181-182, 184186, 188-190, 198, 201-202, 206207, 209, 211, 219, 221-229, 231, 233-234, 237, 239, 242, 244, 256, 267, 272-273, 279-280, 283, 289, 291, 293, 296, 299-300, 305, 315 riproduzione, 18, 35, 38, 41-44, 49-50, 53, 56, 76, 126-127, 155, 241-242 ritenzione, 41-43 sapere, 16, 22, 27, 35, 48, 52, 61, 101, 105, 110, 117, 120, 128, 133, 137, 147-149, 162, 164, 167-168, 171, 178-180, 184-186, 189-190, 207, 235-236, 249, 266, 271, 299 scetticismo, 27, 118-120, 265-267, 269, 271-272 schema, 24, 53, 64, 78, 80, 82-92, 9495, 159, 177, 208, 213-214, 246, 279-280, 282, 292-293, 295, 304, 309-310 schematismo, 20, 41, 52, 60, 68, 70, 7783, 85-86, 88-93, 95, 127, 130, 165, 172-173, 178, 292-293, 296, 305 Schluss, 216, 253, 264, 269, 274 scienza, 11, 22, 62, 146, 180, 184,

Indice dei termini 327

203, 219-220, 231, 279-280, 308, 312 scissione, 23, 26, 54, 99, 139, 142-143, 145-146, 149-150, 163, 195, 255, 266-267, 271 sdoppiamento (sdoppiato), 6, 197-198, 210-212, 214, 242-244, 247, 251252, 264, 268, 280 Selbständigkeit, 234, 252, 257, 265, 303 Selbstbewusstsein, 237, 240-242, 310311, 313 Selbstvernichtung (Selbstzerstörung), 146 sensibilità, 18, 24, 32-36, 38, 40-41, 4849, 51-57, 77-78, 82, 85, 89, 93-94, 125, 137-138, 149, 155-156, 159167, 292, 295, 305, 310 senso interno, 40, 53, 62, 70-71, 82, 8687, 126, 128, 165 sensus communis, 5, 111, 120, 297 sentimento, 102, 106-108, 112-114, 116, 120-123, 125, 270 servo, 244, 247, 251-253, 255-261, 263-265, 267-268 signore (signoria), 6, 244, 247, 251253, 255-261, 263-268 sillogismo, 6, 161, 178, 210, 214, 216, 244-246, 250-253, 255, 257, 260264, 269, 271, 273-275, 281, 286, 300-303, 305 singolare (singolarità), 14, 23, 42, 85, 103, 113-115, 155, 218, 242, 260263, 267-271, 274, 284, 302 sintesi, 3, 5-7, 15, 17-18, 20-21, 24, 26-27, 31-61, 63-72, 75-78, 80, 82, 84-86, 88-89, 91-92, 94-95, 97, 104, 110-111, 125-130, 132, 139, 141, 146, 149-156, 159-166, 169-170, 173, 177-178, 182, 193-195, 197, 206-207, 212, 220, 253, 277, 279, 281, 283, 285, 287, 289, 291, 293301, 303, 305-306 sistema, 6, 34-35, 51, 56, 89, 97, 104105, 108, 110, 119-120, 135, 138139, 148, 152, 159-160, 162, 171,

177, 179-180, 216, 219, 230, 271, 279-281, 283, 296, 304, 309, 311312 soggettività, 15-20, 26, 32-34, 51, 56, 59-60, 71, 97, 111, 114, 128-129, 143, 173, 185, 209-210, 250, 253, 260, 264, 270, 274, 284, 294, 304, 309 soggetto, 14, 16-18, 20-21, 25, 27, 29, 31-35, 38-41, 44-46, 48-51, 54, 57, 60-61, 63-66, 68, 70-74, 76, 79, 82, 97-98, 100, 102, 105, 107-108, 110, 112-117, 121-124, 127-131, 136139, 144-157, 159, 161, 168-169, 172, 175, 178, 180-182, 184-185, 191, 194, 205-206, 210, 215-216, 220, 232, 234, 238, 240, 244, 249251, 255-256, 258, 260-265, 267, 270, 274, 279, 284, 286-288, 294296, 298, 300-301, 304 soprasensibilità (soprasensibile, sovrasensibile), 19, 21, 24, 71-72, 80, 87, 97-101, 107-110, 124, 129-132, 175 sorgente, 5, 22, 31-34, 37-38, 155, 168 sostanza, 19, 21, 71-72, 80, 87, 210, 272, 287-288, 293 spazio, 15, 21, 23-24, 34, 39-41, 49, 51, 57, 62-64, 69, 71-73, 84-87, 104, 126, 136, 143, 145, 162-166, 180181, 222, 235, 299 specchio, 6, 244, 246 speculare, 221, 234, 243-244, 246-247, 259 speculatività, 6, 148, 156, 159, 258, 306 speculazione, 6, 135-138, 142-143, 146, 148-149, 180, 190, 198, 206, 272, 280 spirito, 11, 18-19, 135-136, 145, 148, 160, 177, 180, 204, 209-210, 213, 217, 223, 234, 244-245, 267-268, 270-271, 277, 280-282, 284-285, 287-289, 298, 302-304, 306, 308312, 314 spontaneità, 5, 29, 32, 34, 42, 47, 51, 54-55, 57, 59, 77, 91, 129, 150, 155, 162-163, 165-167, 295

328

stoicismo, 265, 269, 271 storicità, 220, 313 Subjektivität, 23, 206, 209, 237, 310 sublime, 5, 123-125, 128-132 teleologia, 33, 110, 137, 176-177, 311 tempo (temporalità), 13, 15, 17, 24, 27, 31, 34, 38, 40-43, 49-50, 52, 57, 6164, 67-74, 76, 82, 85-88, 92-95, 105, 124, 126-131, 143, 162-166, 174175, 177, 183, 187-188, 190, 196, 199, 208, 213, 221, 223-224, 227, 229-230, 232, 243, 249, 263, 268269, 271-272, 279, 292, 300, 305306, 310-311 termine medio, 6, 14, 20-21, 33, 37, 46, 79-80, 101-102, 107, 111, 135, 157158, 166-167, 172, 175, 206, 223, 234-235, 245-247, 250-255, 257, 260-266, 269, 271, 273, 285-286, 306, 315 tertium, 5, 13-14, 18, 24, 27, 51, 133, 142, 151, 194, 223, 233, 286, 293295, 298, 306 Tertium datur, 18, 24, 27, 151, 194, 233, 286, 293, 298, 306 Tertium non datur, 14, 27, 233 terzietà, 15, 20, 95, 109, 111, 132, 146, 158, 195-196, 198, 207, 222-223, 234, 238, 274, 286, 293, 298, 304305 tetracotomia, 280 topografia, 21-22 topologia (topologico), 5, 22-23, 27, 29, 56, 119 totalità, 24, 94-95, 104, 125, 127, 130, 143-144, 148, 205, 245, 259-263, 273-274, 289 traduzione, 86-87, 126, 142, 154, 159, 164-165, 176, 178, 216, 231, 287288, 303, 311 trascendentale, 5, 16-19, 22, 26, 31-35, 37, 39-49, 51-87, 89, 91-95, 101102, 104-105, 110, 116, 119, 125, 127, 129-131, 135-136, 138-139, 147-152, 154-155, 157-166, 168-

Tertium Datur

169, 171-174, 178, 243, 294, 297, 301, 305, 309, 315 trascendentalismo, 18-19, 31, 73, 86, 136 trascendenza (trascendente), 16, 18-20, 125, 136, 151, 172, 175-177, 195, 217, 283-284, 286, 294 trasfigurazione, 21, 24-25, 159, 224, 284, 288-289, 291, 303 trasformazione, 26, 187-188, 255, 263, 289, 292-294, 306 trasmutazione, 195, 197-198, 289 triade (triadico), 17, 34, 140, 188, 195, 201, 208, 271-272, 279-281, 291, 293, 304 triadicità, 279, 282, 304 tricotomia, 211, 213, 271, 277, 279-281 tripartizione, 34, 37-38, 50, 76, 84, 213, 281 triplicità (triplice), 6, 27, 38, 58, 80, 105, 126-127, 158-159, 177-178, 203, 208, 211-214, 217, 220, 279280, 282 Übergang (übergehen), 5, 20, 97, 111, 131-132, 188, 192-193, 195, 198, 207-208, 221, 224, 231, 245, 293 unificazione, 23, 38-39, 41, 52-54, 57, 61, 63, 65, 95, 108, 128, 143, 147, 155, 284, 305 unione, 5, 31, 33, 106, 142, 166, 182, 199, 201, 203, 206, 268, 279, 284 unità, 5-6, 15, 18-20, 23-25, 32-41, 43-55, 57-65, 68, 70-71, 75-77, 7980, 86, 88-90, 93, 99-101, 103-104, 106-107, 110-111, 124, 126-127, 130, 132, 137, 140, 148-156, 158175, 178-183, 187-190, 193-201, 209, 212-215, 217, 223, 227-228, 231, 233, 236-237, 239, 248, 250, 259-260, 262-263, 265-269, 274, 281-284, 286, 294-295, 297-298, 300-302, 304-305 universalità, 67, 86, 89, 107, 111-116, 149, 153, 208, 210-211, 216, 218, 232, 261-263, 265, 289, 303

Indice dei termini 329

validità, 5, 49, 56-58, 61-63, 65, 75-77, 80-81, 89, 92, 111-113, 116, 118, 297 verità, 13, 16-17, 22-23, 25, 31, 49-50, 61, 65, 68-69, 91, 103, 115, 117, 124, 130-131, 140, 146-147, 153, 171, 176-178, 182-183, 186-187, 189-190, 195, 202-203, 206, 209, 214-216, 219, 227, 235-237, 240, 242, 249251, 255-257, 264-266, 280, 284, 287-288, 290, 294, 301, 309, 311 Vernunft, 9, 35, 53, 64, 79, 138, 150, 161, 172, 309-310

Verstand, 23, 32, 54, 105, 138, 174, 310 Vermittlung (vermittelnde), 48, 82, 89, 200, 215, 217, 219, 261, 290-291, 295-296, 302, 313 Wirklichkeit (wirklich), 73, 75, 91, 168, 177, 224-225, 306 Werden, 143, 182, 201, 225, 258, 312 Zeit, 93,199,212,309 Zeitbestimmung, 82, 87, 92-93, 128 Zweiheit, 153

FILOSOFIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher  301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte 302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità 303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere 304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia 305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica 306. Gabriella Pelloni, Genealogia della cultura. La costruzione poetica del sè nello Zarathustra di Nietzsche 307. Cosimo Quarta (a cura di), Per un manifesto della «Nuova Utopia» 308. Mario Augusto Maieron, Il matto dei tarocchi, Alice e il Piccolo Principe 309. Antonio De Luca, Annamaria Pezzella (a cura di), Con i tuoi occhi 310. Francesca Michelini, Jonathan Davies, Frontiere della biologia. prospettive filosofiche sulle scienze della vita 311. Andrea Velardi, La vita delle idee. Il problema dell’astrazione nella teoria della conoscenza 312. Annamaria Lossi, L’io postumo. Autobiografia e narrazione filosofica del sé in Friedrich Nietzsche 313. Didier Contadini (a cura di), Menzogna e politica 314. Antonio De Simone, Machiavelli. Il conflitto e il potere. La persistenza del classico 315. Andrea Amato, Il bambino che sono, l’uomo che divento. Genealogia dell’io e narrazione della sua trasmutazione 316. Alessandra Violi, Il corpo nell’immaginario letterario 317. Pietro Greco (a cura di), ArmonicaMente. Arte e scienza a confronto 318. Robert L. Trivers, L’evoluzione dell’altruismo reciproco 319. Matteo Pietropaoli, Ontologia fondamentale e metaontologia. Una interpretazione di Heidegger a partire dal Kantbuch 320. Damiano Bondi, La persona e l’Occidente. Filosofia, religione e politica in Denis de Rougemont 321. G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia (1801-1804) 322. Leonardo V. Distaso – Ruggero Taradel, Musica per l’abisso. La via di Terezín: un’indagine storica ed estetica 1933-1945 323. Raniero Fontana, Sulle labbra e nel cuore. Il buon uso delle parole nel Talmud e nellʼebraismo 324. Pilo Albertelli, Il problema morale nella filosofia di Platone 325. Gli Eleati, a cura di Pilo Albertelli, 2014, 326. Daniela De Leo (a cura di), Pensare il senso. Perchè la filosofia. Scritti in onore di Giovanni Invitto 327. Susan Petrilli, Riflessioni sulla teoria del linguaggio e dei segni 328. Antonio Romano, Seduzione dell’opera aperta. Una introduzione 329. Gian Andrea Franchi, Una disperata speranza. Un profilo biografico di Carlo Michelstaedter

330. Graziano Pettinari, La misura dell’umano. Ontoteologia e differenza in Jean-Luc Marion 331. Francesco Rizzo, Filosofia della grezza materia. Scritto di teoria del linguaggio, etica, estetica 332. Marino Centrone, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno, Silvia La Piana, Giacomo Pisani, Della Bellezza. La scena della scena 333. Giulio Goggi, Al cuore del destino. Scritti sul pensiero. Scritti sul pensiero di Emanuele Severino 334. Alfred Adler, Ernst Jahn, Religione e Psicologia Individuale, a cura di Egidio Ernesto Marasco, postfazione di Gian Giacomo Rovera 335. Laura Gherlone, Dopo la semiosfera. Con saggi inediti di Jurij M. Lotman 336. Marco de Paoli, La Tragica Armonia. Indagine filosofico-scientifica sulla genesi e l’evoluzione del vivente 337. Chiara Paladini, Sul concetto di relazione negli scritti latini di Meister Eckhart 338. Roberto Lasagna, Il mondo di Kubrick. Cinema, estetica, filosofia 339. Pietro Piro, I frutti non colti marciscono. Temi weberiani e altre inquietudini sociologiche 340. Domenico Felice, Montesquieu e i suoi lettori 341. Emanuele Quinz, Il cerchio invisibile. Ambienti, sistemi, dispositivi 342. Tiziana Pangrazi, Adorata Forma. Saggio sull’estetica di Ferruccio Busoni 343. Leonardo V. Distaso, Estetica e differenza in Wittgenstein. Studi per un’estetica wittgensteiniana 344. Pietro Barbetta, La follia rivisitata 345. F.W.J. Schelling, L’anima del mondo. Un’ipotesi di fisica superiore per la spiegazione dell’organismo universale, a cura di Alessandro Medri 346. Antonio De Simone, L’arte del conflitto. Politica e potere da Machiavelli a Canetti. Una storia filosofica 347. Emilano La Licata, Il terreno scabro. Wittgenstein su regole e forme di vita 348. Anna Valeria Borsari, Franco Farinelli, Eleonora Fiorani, Raffaele Milani, Gian Battista Vai, Naturale e/o artefatto 349. Pietro Abelardo, Etica, a cura di Mariateresa Fumagalli e Beonio Brocchieri 350. Susan Petrilli, Nella vita dei segni. Percorsi della semiotica 351. Lucia Vantini, L’ateismo mistico di Julia Kristeva, prefazione di Wanda Tommasi 352. Ragionamenti percettivi. Saggi in onore di Alberto Argenton, a cura di Carlo Maria Fossaluzza e Ian Verstegen 353. Stefano Rivara, Verità: Pluralismo e teoria funzionalista 354. Ivan Dimitrijević – Paulina Orłowska, Come la teoria finì per diventare realtà. Sulla politica come geometria della socializzazione 355. Julius Evola, Il rientro in Italia 1948-1951, a cura di Marco Iacona 356. Anna Rita Gabellone, Una società di pace. Il progetto politico-utopico di Sylvia Pankhurst 357. Petronio Petrone, Fior da fiore dai Carmina Burana. Morali e di protesta, d’amore e spirituali, di donne e d’osteria. 40 canti dei Clerici Vagantes medievali tradotti nella lingua del nostro tempo con testo latino a fronte 358. Enzo Cocco, Il giardino e l’isola. Due figure della felicità in Rousseau 359. Vergílio Ferreira, Lettera al Futuro, a cura di Marianna Scaramucci e Vincenzo Russo 360. Giorgia Carluccio (a cura di), Laicità dello stato. Ambiti tematici

361. Alfred Adler, Psicodinamica dell’eros. Motivazioni inconsce della rinuncia alla sessualità, a cura di Egidio Ernesto Marasco, postfazione Gian Giacomo Rovera, Edizione integrale 362. Beatrice Balsamo e Alberto Destro (a cura di), Della fiaba. Jacob e Wilhelm Grimm e il pensiero poetante per i 200 anni di Fiabe del focolare 363. Luciano Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx. Morte diavolo analità, 364 Paolo Vidali, Federico Neresini, Il valore dell’incertezza. Filosofia e sociologia dell’informazione 365. Marco Castagna, Il desiderio della lettura. Esercizi. Pratiche. Discorsi 366. Jan Spurk, E se le rane richiedessero un re? 367. Petre Solomon, Paul Celan. La dimensione romena, a cura di Giovanni Rotiroti, traduzione di Irma Carannante, postfazione di Mircea Ţuglea 368. Luisa Della Morte, Margherita Tosi, Nascere umani. Continuare Reich per i bambini del futuro 369. Riccardo Roni, La visione di Bergson. Tempo ed esperienza del limite 370. Emanuele Iula, Carlo Maria Martini. La Parola che rigenera il mondo 371. Cecilia Ricci, Leggere Babele: George Steiner e la “vera presenza” del senso 372. Giuseppe Schiavone (a cura di), L’utopia: alla ricerca del senso della storia 373. Matteo Canevari, Lo specchio infedele. Prospettive per il paradigma teatrale in antropologia 374. Franco Ricordi, L’essere per l’amore 375. Roland Barthes. Il discorso amoroso. Seminario all’Ecole pratique des hautes études 1974-1976 seguito da Frammenti di un discorso amoroso (inediti), Introduzione di Éric Marty, Presentazione e cura di Claude Coste, Introduzione all’edizione italiana, traduzione e cura di Augusto Ponzio 376. Giovanni Botta, La struttura dell’eterno. Le Mélodies di Gabriel Marcel, Prefazione di Pierangelo Sequeri. Contiene un CD con le trascrizioni e le registrazioni sonore delle Mélodies 377. Francesco Panaro, Contro la cultura. Esseri e universi ben invisibili 378. Riccardo Fedriga, La sesta prosa. Discussioni medievali su prescienza, libertà e contingenza 379. Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio, Con un’intervista a Judith Butler e saggi di Massimo Filippi, Richard Iveson, Marco Reggio, James Stanescu e Federico Zappino 380. Paolo Pecere, Dalla parte di Alice. La coscienza e l’immaginario 381. Nazzareno Mazzini, La nebbia non c’è più. Passeggiata lungo i film di Milano 382. Aldo Marroni (a cura di), Laure. La sovrana dell’erotismo 383. Voltaire, Premio della giustizia e dell’umanità, a cura di Domenico Felice. Traduzione di Stefania Stefani 384. S. Facioni, S. Labate, M. Vergani (a cura di), Levinas inedito. Studi critici 385. Luciano Ponzio, Roman Jakobson e i fondamenti della semiotica 386. Julia Ponzio, L’altro corpo del testo. Modello sintattico e interpretazione in Jacques Derrida 387. Romeo D’Emilio, Sub-limis e sub-limo. Al limite estremo: fra Goya e Malevič 388. Marco Piazza, L’antagonista necessario. La filosofia francese dell’abitudine da Montaigne a Deleuze 389. Gian Mario Anselmi, Riccardo Caporali, Carlo Galli (a cura di), Machiavelli Cinquecento. Mezzo millennio del Principe

390. Bethania Assy, Etica, responsabilità e giudizio in Hannah Arendt, Introduzione di Simona Forti, Traduzione e cura di Enrico Valtellina 391. M. Hess, L. Feuerbach, M. Stirner, K. Fischer, Szeliga, La questione Stirner, a cura di Marcello Montalto 392. Rosario Diana, La forma-reading. Un possibile veicolo per la disseminazione dei saperi filosofici. Resoconto ragionato, programma e strumenti di lavoro 393. Giovanni U. Cavallera, Dove Platone riceve il battesimo. La formazione come fondamento nell’Impero Romano d’Oriente 394. Luigi Fraschini, Individuo e mondo nel pensiero dell’antico Egitto. Percorsi antropologici ed epistemologici in una tradizione culturale «pre-greca», prefazione di Giulio Giorello 395. Fabio Farotti, Et in Arcadia ego. L’incantesimo del nichilismo in pittura, Prefazione di Emanuele Severino 396. Andrea dal Sasso, Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, prefazione di Emanuele Severino 397. Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità nella produzione occidentale 398. Marco de Paoli, Il soggetto eroico e il suo sguardo da lontano. Sul possesso e sull’oblio di sé 399. Günter Figal, Il manifestarsi dell’arte. Estetica come fenomenologia, edizione italiana a cura di Antonio Cimino, postfazione di Luca Crescenzi 400. Onorato Grassi e Massimo Marassi (a cura di), La filosofia italiana nel Novecento. Interpretazioni, bilanci, prospettive 401. Luca Casadio, L’arte della psicoterapia e la psicologia dell’arte. Per una psicologia narrativa 402. Sergio Sorrentino, Oltre la ragione strumentale 403. Thomas Percival, Etica medica. Ovvero un Codice di istituzioni e precetti adattati alla condotta professionale dei medici e dei chirurghi, a cura di Sara Patuzzo, traduzione italiana di Giada Goracci, con la collaborazione di Sebastiano Castellano 404. Pierpaolo Lauria, Leopardi Filosofo maledetto, prefazione di Alberto Folin 405. Virgilio Melchiorre (a cura di), Un amico fragile. Testimonianze e ricordi per Adriano Manesco, con la partecipazione di Sibilla Cuoghi, Anna Ferruta, Elio Franzini, Gabriele Scaramuzza 406. Mario Augusto Maieron e Giuseppe Armocida, Storia, cronaca e personaggi della psichiatria varesina 407. Georg Simmel, Cultura femminile 408. Francesco Allegri, Gli animali e l’etica 409. Gustav Gustavovič Špet, La forma interna della parola. Studi e variazioni su temi humboldtiani (1927), traduzione e cura di Michela Venditti 410. Maurizio Balistreri, La clonazione umana prima di Dolly. Una fantasia che diventa realtà? 411. Monique Jutrin, Lo zibaldone di Ulisse. Con Benjamin Fondane al di là della storia (1924-1944), traduzione e cura di Anna Carmen Sorrenti 412. Antonio De Simone, L’io reciproco. Lo sguardo di Simmel 413. Mattia Geretto, L’essere e le sue determinazioni. Sulla monadologia di Bernardino Varisco 414. Luigi Ferrari e Luca Vecchio (a cura di), La psicologia critica e i rapporti tra economia, storia e psicologia

415. Gabriele Giacomini, Psicodemocrazia. Quanto l’irrazionalità condiziona il discorso pubblico, prefazione di Angelo Panebianco 416. Sergio Solombrino, Intenzionalità ed esperienza nel Wittgenstein intermedio 417. Alice Gonzi, Monique Jutrin (a cura di), Benjamin Fondane: una voce singolare 418. Vinicio Busacchi, La via della creazione. di valore. Nuovi interventi buddisti 419. Rainer Matthias Holm-Hadulla, Passione. Il cammino di Goethe verso la creatività. Una psicobiografia, traduzione dal tedesco e cura di Antonio Staude 420. Enrico Valtellina, Tipi umani particolarmente strani. La sindrome di Asperger come oggetto culturale 421. Sarah Songhorian, Sentire e agire. L’etica della simpatia tra sentimentalismo e razionalismo. Prefazione di Massimo Reichlin 422. Giacomo Leopardi, “Lo stato libero e democratico”. La fondazione della politica nello Zibaldone, selezione dei testi, introduzione e commento a cura di Fabio Vander 423. Sergio Scalia, Quale futuro. Potenzialità e rischi delle nuove tecnologie 424. Felice Accame, Il dispositivo estetico e la funzione politica della gerarchia in cui è evoluto 425. A. Berriedale Keith, D.C.L., D.litt., Il sistema . Storia della filosofia 426. Paolo Calegari, La comprensione del sociale. Strategie cognitive e prospettiva sul futuro 427. Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità 428. David Baumgardt, Il problema della possibilità nella Critica della ragion pura, nella moderna fenomenologia e nella teoria dell’oggetto, edizione italiana a cura di Luigi Azzariti-Fumaroli 429. Giuseppe Polistena, Diacronia. Appunti per una ontologia del tempo 430. Giuseppe Zuccarino, Prospezioni. Foucault e Derrida 431. Silvia Casini, Il ritratto-scansione. Immaginare il cervello tra neuroscienza e arte 432. Simone Furlani, L’immagine e la scrittura. Le logiche del vedere tra segno e riflessione 433. Carmelo Alessio Meli, Kant e la Possibilità dell’Etica. Lettura critico-sistematica dei Primi Principi Metafisici della Dottrina della Virtù 434. Luca Marchetti (a cura di), L’estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe Di Giacomo 435. Teresa Tonchia (a cura di), Lo spettro della fine. Pensare l’Apocalisse tra filosofia e cinema 436. Jean Soldini, Alberto Giacometti. Lo spazio e la forza 437. Paolo Piccari (a cura di), Forme di realtà e modi del pensiero. Studi in onore di Mariano Bianca 438. Gianfranco Longo, Empireo. Dio, i cori angelici e il fondamento blu della creazione 439. Domenico Gallo, Il ribelle del pensiero. Albert Einstein e la nascita della fisica quantistica 440. Martino Feyles, Margini dell’estetica 441. Francesco Gregorio, Giuseppe D’Anna, Alessandra Anna Sanna (a cura di), Filosofia e pratiche dei saperi 442. Tiziana Pangrazi, Ritorno al cielo. L’estetica musicale in Italia dal Trecento al primo Novecento

443. Leo Frobenius, Paideuma. Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell’anima, traduzione e cura di Luciano Arcella 444. Tristana Dini, La materiale vita. Biopolitica, vita sacra, differenza sessuale 445. Roberto Bertoldo, La profondità della letteratura. Saggio di estetica estesiologica 446. Giorgio Tettamanti, L’eone della cosa. Saggio filosofico da Aristotele a Carl Schmitt 447. Markus Ophälders, Dialettica dell’ironia romantica 448. Luciano Ponzio, Icona e raffigurazione. Bachtin, Malevič, Chagall 449. Viola Carofalo, Dai più lontani margini. J.M. Coetzee e la scrittura dell’Altro 450. Elisa Cecconi, Ontogenesi molecolare e cellule staminali pluripotenti indotte. Indagini epistemologichce e implicazioni bioetiche 451. Marcello Ghilardi (a cura di), La filosofia e l’altrove, Festschrift per Giangiorgio Pasqualotto 452. Marco Gigante, Il dovere di non essere sé stessi. La filosofia dell’il y a nell’opera di Emmanuel Levinas 453. Enrico Arduin, Il sottosuolo del presente 454. Giuseppe Craparo (a cura di), Elogio dell’incertezza. Saggi psicoanalitici, prefazione di Franco De Masi 455. Giovanni Gurisatti, L’animale che dunque non sono. Filosofia pratica e pratica della filosofia come est-etica dell’esistenza 456. Ferruccio Rossi-Landi, Linguistica ed economia 457. Lucia Maria Grazia Parente (a cura di), La scuola di Madrid. Filosofia spagnola del XX secolo, prologo di Lane Kauffmann, epilogo di Javier San Martín 458. Emiliano Alessandroni, Potenza ed eclissi di un sistema. Hegel e i fondamenti della trasformazione, introduzione di Remo Bodei 459. Susanna Fresko e Chiara Mirabelli (a cura di), Qual è il tuo mito? Mappe per il mestiere di vivere 460. Volker Halbach, Manuale di logica, a cura di Carlo Nicolai 461. Giovanni Valente, Causalità relativistica. Problemi filosofici all’incontro di teoria dei quanti e relatività ristretta 462. Emilio Mazza, Gazze, whist e verità. David Hume e le immagini della filosofia 463. Simona Alagia, Jan Patočka: la responsabilità del pensiero in pratica 464. Danilo Soscia, Forma Sinarum. Personaggi cinesi nella letteratura italiana 465. Paolo Bartolini, La vocazione terapeutica della filosofia 466. Giuseppe Goisis, Dioniso e l’ebbrezza della modernità. Sei saggi su politica e società, prefazione di Luigi Perissinotto 467. Giuliana Mannu, Aldo Capitini filosofo dell’azione e della libertà. Con un carteggio inedito con Augusto Del Noce 468. Massimo Dell’Utri e Antonio Rainone (a cura di), I modi della razionalità 469. Maria Giuseppina Di Monte, Giuliana Pieri, Simona Storchi (a cura di), Visualizzare la guerra. L’iconografia del conflitto e l’Italia 470. Giuseppe Morello, La parola e il Leviatano. Segni, linguaggio e retorica nel pensiero politico di Hobbes 471. Fulvio Palmieri, Troppo umano. Sociologia della genetica 472. Marco Ferrari, Libertà va cercando. Percorsi di filosofia medievale 473. Calogero Caltagirone, Ri-pensare l’uomo “tra” empirico e trascendentale 474. Paolo Calandruccio, Alessio Tommasoli, Guido Traversa (a cura di), Storia della filosofia per consulenti filosofici

475. Claudio Corradetti, Kant e la costituzione cosmopolitica. Tre saggi 476. Francesco Cerrato, Stili di vita, Fonti, forme e governo nella filosofia spinoziana degli affetti 477. Paolo Nardon, Incarnare, impietrire. Antropologia della roccia 478. Vittorio d’Anna, Herbert Marcuse. Il positivo nella filosofia negativa 479. Mattia Luigi Pozzi, Cioran e l’Occidente 480. Fabrizio Grasso, Archeologia del concetto di politico in Carl Schmitt 481. Eugène Minkowski, Il problema del tempo vissuto. Con una “Lettera” di Ludwig Binswanger, a cura di Aurelio Molaro, presentazione di Lorenzo Calvi 482. Roberta Corvi, Ritorno al pragmatismo. L’alternativa Rorty - Putnam 483. Luca Vargiu, Figure e bilanci. Saggi sparsi di filosofia dell’arte 484. Maurizio Cosentino, La phronesis dei moderni 485. Nicoletta Cusano, Sintesi e separazione 486. Anna Sica, L’arte massima. Volume I. La rappresentativa nel novo stile: norme e pratica del metodo italiano di recitazione (1728-1860). Parte prima 487. Nino Salamone, La carne e il silicio. Umani e macchine nel ventunesimo secolo 488. Arthur Berriedale Keith, La karma mῑmāṁsā, a cura di Serena Rinaldi 489. Luigi Longhin, Maurizio Zani, La violenza: le sue componenti affettive e distruttive 490. Francesca Gruppi, Dialettica della caverna 491. Francesco Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città 492. Giuseppe Bonvegna, Un volto nuovo per l’uomo? Percorsi filosofici contemporanei tra pluralismo, relativismo e metafisica 493. Massimiliano Tomba, Attraverso la piccola porta, Quattro studi su Walter Benjamin 494. Guasti, Juan Andrés e la cultura del Settecento 495. Giulia Longo, «Ogni cosa ha il suo tempo», Il “nodo dialettico” kierkegaardiano tra ‘edificante’ e ‘ripresa’, Presentazione di Eugenio Mazzarella, con scritti inediti di Søren Kierkegaard 496. Giuseppe D’Alessandro, In viaggio con Kant 497. Matteo De Boni, Le ragioni dell’esistenza. Esistenzialismo e ragione in Luigi Stefanini 498. Wilhelm Schapp, Reti di storie. L’essere dell’uomo e della cosa, a cura di Daniele Nuccilli 499. Marta Gabriele, Drammaturgie del sacro. Immagini contemporanee a confronto 500. Pier Alberto Porceddu Cilone, La terra e il fuoco 501. Alessandra Gerolin, Uno strappo alla regola, In dialogo con Taylor, Williams e MacIntyre su beni e norme 502. Alba Rosa Gesualdo, I re del più o meno infinito spazio tempo 503. Giulia Gamba, Giuseppe Molinari, Matteo Settura, Massimo Coccorese (a cura di), Transizioni e cesure di una modernità incompiuta 504. Alfonso Lanzieri, Pensiero e realtà 505. Valentino Bellucci (a cura di), Uddhava-gītā. Il grande dialogo della liberazione 506. Emanuele Enrico Mariani, Come un sole al mattino. Etica, psicologia e trasfigurazione del sacro nel Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche, prefazione di Elke Angelika Wachendorff, postfazione di Giuseppe Aziz Spadaro 507. Jacques Ellul, Sistema, testimonianza, immagine, Saggi sulla tecnica, a cura di Cristina Coccimiglio

508. David Hume, Scritti sulla guerra (1745-1748), a cura di Spartaco Pupo 509. Luigina Mortari, La materia vivente e il pensare sensibile. Per una filosofia ecologica dell’educazione 510. Walter Benjamin, Il concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco 511. Natale Sansone, La ragione schiava delle passioni. Hume, Sade e un altro illuminista radicale 512. Guido Cusinato, Ferdinando Luigi Marcolungo e Alberto Romele (a cura di), Interpretazione e Trasformazione 513. Caterina Di Rienzo, Per una filosofia della danza. Danza, corpo, chair 514. Daniele Sgaravatti, Esperimenti mentali e metodo filosofico. Un saggio antieccezionalista 515. Daniela Andreatta, Vivere senza appello. La scommessa di Camus 516. Silvio Ceccato, La mente vista da un cibernetico 517. Paolo Calegari, In(equalities) 518. Cecilia Rofena, Allo scoperto.L’emozione del linguaggio 519. Claudia Caneva, Mahougnon Sinsin, Scaria Thuruthiyil, Filosofie in dialogo. Lexikon universale: India, Africa, Europa 520. Francesca Ferrara, Alle origini del sacro. L’esperienza religiosa in Rudolf Otto 521. Carmela Covino, La prima voce 523. Antonio De Simone, Dismisure. Abensour, Machiavelli e la contemporaneità 524. Mirko Integlia, Filosofie e narrazioni dell’assurdo 525. Riccardo Roni, Il flusso interculturale. Pragmatismo etico e peso della storia nella filosofia emergente 526. Francesco Roat, Religiosità in Nietzsche. Il vangelo di Zarathustra 527. Marco Francesconi e Daniela Scotto di Fasano (a cura di), Aree di confine. Cosa, Corpo, Parole tra Filosofia e Psicoanalisi 528. Stefano Versace, Leopardi e l’analogia. Una nuova lettura dello Zibaldone 529. Gloria Zanardo, Un’apertura di infinito nel finito 530. Adriana Romaldo (a cura di), A Maurizio Bettini. Pagine stravaganti per un filologo stravagante 531. Marco Ferrari (a cura di), Il problema della giustizia 532. Lucia Parente, Rosa Chacel lettrice di Ortega y Gasset 533. Marco Ferrari (a cura di), Logos e techne 534. Louis Bertrand Castel, L’uomo morale contro l’uomo fisico di Rousseau. Lettere filosofiche, dove si confuta il Deismo contemporaneo 535. Domenico Devoti, Gli psicologi di fronte a Dio. Volume I. Il contrastato percorso della psicologia della religione 536. Giulia Delogu, La poetica della virtù. Comunicazione e rappresentazione del potere in Italia tra Sette e Ottocento 537. Tonino Griffero, Atmosferologia 538. Paolo Bellini, Claudio Bonvecchio, Erasmo Silvio Storace, Città, utopia e mito. Studi di filosofia e teoria politica 539. Jean Wahl, Breve storia dell’«esistenzialismo» Seguita da Kafka e Kierkegaard, un commento 540. Luigi Vero Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva 541. Davide E. Daturi (a cura di), La filosofia messicana del novecento. Temi e problemi 542. Giangiacomo Vale, Una e diversa. L’Europa di Denis de Rougemont

543. Hagar Spano (a cura di), La ragione contro la paura. Religione e violenza, prefazione di Mauro Pesce 544. Gabriele Scaramuzza, Incontri. Per una filosofia della cultura 545. Marco Russo, Il mondo. Profilo di un’idea 546. Salvatore Prinzi, Scrivere le cose stesse. Merleau-Ponty, il letterario, il politico, prefazione di Renaud Barbaras 547 Ryōsuke Ōhashi, Kire. Il bello in Giappone, a cura di Alberto Giacomelli 548 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola Vol. 1 549 André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola Vol. 2 550 Federico Rampinini, Musica e utopia. Ernst Bloch e la filosofia della musica 551 Beatrice Magni (a cura di), Machiavelli. Sette saggi di teoria politica 552 Alessandro Novembre, Il giovane Schopenhauer. L’origine della metafisica della volontà 553 Antonio Banfi, L’uomo copernicano. Saggi di una filosofia critica, a cura di Concetto Solano 554 Roberta Ioli, Il felice inganno. Poesia, finzione e verità nel mondo antico

Finito di stampare nel mese di dicembre 2017 da Digital Team – Fano (PU)

SAŠA HRNJEZ TERTIUM DATUR

In che senso il progetto kantiano di una sintesi trascendentale ha a che fare con un’ontologia del tertium datur? D’altronde, non è proprio il sistema di Hegel l’esempio migliore di una tale ontologia? Ma soprattutto: la struttura del pensiero hegeliano segue davvero una triade ineluttabile? Questi quesiti sfociano nella domanda principale: come va inteso il terzo termine nel procedimento dialettico? Questo studio, ripercorrendo i concetti principali della filosofia kantiana e di quella hegeliana, tenta di rintracciare quel tertium che risponde all’esigenza di risolvere il problema della soggettività moderna inaugurato dal dualismo cartesiano. Individuando in Kant e Hegel i due paradigmi del pensiero moderno – uno basato sulla sintesi, l’altro sulla mediazione – si problematizza e concettualizza la figura del terzo, non solo come unità nella differenza, ma anche come luogo della costituzione della differenza: il terzo è un modo di darsi dei due e un modo di trasfigurarsi della dualità.

SAŠA HRNJEZ TERTIUM DATUR

SINTESI E MEDIAZIONE TRA CRITICISMO E IDEALISMO SPECULATIVO

Saša Hrnjez è dottore di ricerca in filosofia teoretica presso l’Università di Torino. Si è formato nelle università di Novi Sad, Torino e Berlino. È stato ricercatore post-doc presso l’Università di Heidelberg. Ha pubblicato vari testi in inglese, italiano, serbo e tedesco su temi attinenti alle sue linee di ricerca: filosofia classica tedesca, ermeneutica, teoria della traduzione, marxismo contemporaneo. È uno dei fondatori della rivista “Stvar/Thing – Journal for theoretical practices” nonché membro della redazione nella rivista “Trópos”.

28,00 euro

9 788857 545752

MIMESIS

ISBN 978-88-5754-575-2 Mimesis Edizioni Filosofie www.mimesisedizioni.it

MIMESIS / FILOSOFIE