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Italian Pages 319 [322] Year 2023
Daniela Bonanno
Nemesis Rappresentazioni e pratiche cultuali nella Grecia antica
Classical Studies Franz Steiner Verlag
Potsdamer Altertumsw issenschaftliche Beiträge
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Potsdamer Altertumswissenschaftliche Beiträge Herausgegeben von Elisabeth Begemann (Erfurt), Daniela Bonanno (Palermo), Filippo Carlà-Uhink (Potsdam) und Anna-Katharina Rieger (Graz) Band 85
Nemesis Rappresentazioni e pratiche cultuali nella Grecia antica Daniela Bonanno
Franz Steiner Verlag
Gedruckt mit freundlicher Unterstützung der Alexander von Humboldt-Stiftung
Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über dnb.d-nb.de abrufbar. Dieses Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist unzulässig und strafbar. © Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2023 Layout und Herstellung durch den Verlag Satz: DTP + TEXT Eva Burri, Stuttgart www.steiner-verlag.de Druck: Beltz Grafische Betriebe, Bad Langensalza Gedruckt auf säurefreiem, alterungsbeständigem Papier. Printed in Germany. ISBN 978-3-515-13492-7 (Print) ISBN 978-3-515-13495-8 (E-Book)
Premessa Questo volume rappresenta l’esito finale di un progetto che ha avuto inizio una decina di anni fa grazie a una fellowship che la Fondazione A. von Humboldt (Bonn) ha voluto accordarmi, finanziando lunghi e ripetuti soggiorni di studio in Germania, tra il 2012 e il 2018, e sostenendone generosamente anche le spese di pubblicazione. Desidero esprimere qui tutta la mia riconoscenza a Peter Funke e a Jörg Rüpke che hanno accettato con entusiasmo di ospitare il mio progetto, rispettivamente presso la Westfälische Wilhelms Universität Münster e presso il Max Weber Kolleg für kultur- und sozialwissenschaftliche Studien-Universität Erfurt, assicurandomi così eccellenti condizioni di lavoro e un ambiente di studio vivace e stimolante, e soprattutto mi hanno fatto dono, negli anni, della loro sincera amicizia e dei loro preziosi suggerimenti. Un affettuoso ringraziamento va anche a Nicole Belayche che, nel settembre 2014, mi ha accolto per un periodo di ricerca, finanziato ancora una volta dalla Fondazione A. v. Humboldt (Europa Forschungsaufenthalt) presso il Centre AnHiMA di Parigi e che ha sempre seguito con interesse e attenzione gli sviluppi di questa indagine, rileggendo con cura e attenzione anche il manoscritto finale. Questo libro non avrebbe visto certo la luce senza il costante e indefettibile incoraggiamento di Corinne Bonnet, che ha saputo essere per me instancabile interlocutrice e amica affezionata. L’opportunità che mi ha offerto di collaborare nell’ambito del progetto ERC Mapping Ancient Polytheism da lei diretto, invitandomi a trascorrere, nella primavera del 2022, un paio di mesi presso l’Université Toulouse Jean Jaurès, mi ha offerto un’occasione unica di verifica e di controllo dei risultati di questa indagine. Insieme a lei voglio ricordare anche coloro che mi hanno accompagnata e guidata nell’esplorazione di questa immensa galassia che è il politeismo antico: Pierre Bonnechère, Pierre Brulé, Gabriela Cursaru, Doralice Fabiano, Renaud Gagné, Stella Georgoudi, Massimo Giuseppetti, Adeline Grand-Clément, Sylvain Lebreton, Francesco Massa, Pascal Payen, Vinciane Pirenne-Delforge, Gabriella Pironti, Alessandro Saggioro, Natale Spineto. Le numerose iniziative scientifiche, che ci hanno visti spesso riuniti attorno a un tavolo, sono state per me fonte di ispirazione e di maturazione scientifica. Un senso di profonda gratitudine mi unisce anche ad Hans Beck e a Engelbert Winter per la disponibilità e l’attenzione con cui hanno favorito la prosecuzione delle mie ricerche presso l’Università di Münster, anche nel lungo e complicato periodo della pandemia.
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Premessa
Altre istituzioni hanno ospitato per brevi soggiorni le mie ricerche: la Berlin Brandenburgische Akademie der Wissenschaften e l’équipe guidata da Klaus Hallof. In particolare, un ringraziamento speciale desidero esprimere a Daniela Summa che è stata sempre prezioso punto di riferimento per le questioni epigrafiche e sollecita fonte di informazioni. La mia riconoscenza va anche a Gareth Williams grazie alla cui cortesia ho potuto svolgere nell’estate del 2015 un periodo di ricerca presso la Butler Library della Columbia University di New York. Infine, ma certo non ultima, mi piace ricordare in questa sede, anche l’Academia Belgica di Roma e il suo genius loci Franz Cumont, ai cui archivi ho avuto il privilegio di lavorare. A Pamela Anastasio, a Charles Bossu e a Walter Geerts va il merito di avere costruito intorno a me, in anni di incertezza sul mio futuro nella ricerca, un’atmosfera serena di studio e di crescita scientifica. Un caloroso ringraziamento va ora certamente ai miei colleghi dell’Università di Palermo con cui condivido interessi e progetti: a Nicola Cusumano per il sostegno che mi ha assicurato e l’acribia e la cura con cui ha letto, a più riprese, queste pagine; ad Alfredo Casamento per i preziosi suggerimenti, a Piera Anello e Lia Marino per il costante e affettuoso sostegno e ancora a Valeria Andò, Maurizio Bianco, Armando Bisanti, Luisa Brucale, Ignazio Buttitta, Andrea Cozzo, Franco Giorgianni, Sabrina Grimaudo, Carlo M. Lucarini e Daniela Motta, per il tempo che hanno dedicato a discutere con me diverse parti di questo lavoro. Grazie anche a Valeria Tardo e allo staff della Biblioteca di Antichistica per avermi generosamente aiutata nel reperimento di fonti bibliografiche. A coloro che mi hanno accompagnato in questo percorso e con cui ho spesso condiviso spazi e tempi di ricerca desidero dedicare un pensiero affettuoso per avere offerto con le loro osservazioni non solo spunti e supplementi di riflessione, ma anche suggerimenti e inviti a tornare sui miei passi, aggiustando il tiro. Tra loro certamente mi piace ricordare gli amici e colleghi incontrati nelle lunghe estati presso la biblioteca del Seminar für alte Geschichte di Münster: Ginevra Benedetti, Claudio Biagetti, Nunzia Ciano, Roberta Fabiani, Matthias e Anna-Sophie Haake, Giovanni Ingarao, Laura Mecella, Massimo Nafissi, Federico Procchi, Alessia Terrinoni e infine Annedore Wessels, nume tutelare dei miei soggiorni münsterani, che sarebbe stata felice di vedere queste pagine. Un pensiero affettuoso rivolgo anche a coloro con cui spesso ho condiviso il mio tempo a Erfurt: Elisabeth Begemann, Paola Giacosa von Wyss, Maria Dell’Isola, Valentino Gasparini, Kristine Iara. Grazie anche a Jean-Christophe Couvenhes, incontrato nel corso del mio soggiorno parigino, che ha avuto la cortesia di inviarmi il catalogo delle iscrizioni della sua tesi dottorale sulle guarnigioni attiche, permettendomi di guadagnare in breve tempo una visione di insieme sul tema. Ai colleghi del comitato editoriale dei Potsdamer altertumswissenschafliche Beiträge esprimo la mia riconoscenza per avere accolto il volume nella collana e a Katharina Stüdemann di Franz Steiner Verlag per averne con impegno e competenza seguito la preparazione editoriale.
Premessa
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Questo viaggio finisce esattamente dove è cominciato dieci anni fa, ma l’elenco delle persone che hanno contribuito ad arricchirlo sarebbe incompleto se non trovassi il modo di menzionare gli amici di una vita, quelli con cui spesso ho percorso paralleli sentieri di ricerca, confluiti poi in fecondi e stimolanti crocevia di confronto interdisciplinare: Lucia Corso, Simona Corso, Florian Mussgnug e Stefania Sola. L’ultimo e più dolce ringraziamento va ora alla mia famiglia: ai miei genitori che da sempre, con amore e pazienza, partecipano ai lenti avanzamenti delle mie ricerche, alleggerendomi spesso dagli impegni del quotidiano e alle mie nipoti che il mio quotidiano hanno riempito di senso. Un pensiero speciale è per Giorgia, giovane esploratrice del mondo antico, interessata al passato e affamata di futuro. A Viola e a Sveva, che con la loro gioiosa presenza e la loro incontenibile allegria hanno accompagnato la stesura di tante pagine, è dedicato questo volume. Münster, 31 agosto 2022
Avvertenza Questo libro è la tappa conclusiva di un progetto di ricerca di cui risultati parziali e lavori preparatori sono già stati pubblicati. Mi riferisco in particolare ai seguenti contributi indicati in bibliografia: Bonanno 2013, 2014, 2016, 2017, 2020. La loro integrazione e rielaborazione nell’ambito di questo volume è servita a giungere conclusioni sinora inedite. Le fonti antiche sono sempre accompagnate da una traduzione. Laddove non diversamente indicato, le traduzioni dei passi e delle iscrizioni sono mie. Per la grafia dei nomi greci si è solitamente scelto di usare la forma italianizzata per quelli di uso più frequente (per es. Afrodite, Era, Pericle etc.) e negli altri quella traslitterata, anche a prezzo di qualche difformità. Infine, poiché in questo libro si parla di potenze il cui nome coincide con termini ricorrenti nella lingua dei Greci, si è adottato il sistema di indicare in tondo e con iniziale maiuscola il teonimo, in corsivo e con iniziale minuscola i sostantivi (per es. Nemesis/nemesis; Aidos/aidos).
Indice Introduzione La Nemesis degli Antichi e dei Moderni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 1.. Perché Nemesis?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 2. «La più implacabile contro i tracotanti»: la figura di Nemesis nella Periegesi di Pausania. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 3.. Appunti per una storia degli studi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 3.1. Johann Gottfried Herder: «Die missbilligende Göttin des Uebermuths». . . . 22 3.2. Il problema delle origini: Georg Zoëga ed Ernst Christian Walz . . . . . . . . . . . 24 3.3. Édouard Tournier: «Loi de partage» e «jalousie des dieux». . . . . . . . . . . . . 26 3.4. Tra Artemide e Afrodite: «Der Grundzug in dem Wesen der Nemesis». . . . 28 3.5. Divinità ctonia, olimpica o “agraria”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 3.6. Nemesis nelle opere di consultazione (enciclopedie, dizionari e lessici) . . . . . . 32 3.7. Worshipping virtues: Nemesis come “personificazione”. . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 3.8. Impulsi, stati d’animo ed emozioni: la nemesis dei Greci da Eric R. Dodds alla History of Emotions. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 4.. Approccio e metodologia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 4.1. Politeismo e Snowball theory?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 4.2. Nemesis e la tensione irriducibile tra livello “locale” e “panellenico”. . . . . . . . . 48 5.. La documentazione e il percorso. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 50 Capitolo primo Adesione e devianza. Quando la nemesis è un’emozione umana. . . . . . . . . . . . . . 52 1.. Riflessioni preliminari a partire dall’universo omerico della nemesis. . . . . . . . . . 52 2.. La prima vittima della nemesis: Tersite, l’akritomythos. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53 3.. Giovani a confronto con la nemesis: Telemaco, Paride e Achille. . . . . . . . . . . . . . 55 3.1. Contromisure per prevenire la nemesis: la parola prudente e l’ospitalità corretta di Telemaco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56 3.2. L’“ignoranza” di Paride. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 59 3.3. Achille e gli effetti imprevedibili di una nemesis non condivisa. . . . . . . . . . . . . 60
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Indice
4.. Declinazioni della nemesis al femminile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 4.1. Velarsi e svelarsi: i rimedi di Elena. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65 4.2. Coprire, vedere ed essere visti: Penelope, Euriclea e Nausicaa. . . . . . . . . . . . . . 69 4.3. Dolersi oltre misura: il coro delle donne tebane e le giovani figlie di Edipo . . . 71 5.. Conseguenze della nemesis (ex) anthropon . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74 6.. Oltre la morte: l’autorità della nemesis dei defunti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 7.. Controllo sociale e strategie di prevenzione della nemesis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 Capitolo secondo Efficacia e inefficacia della nemesis divina nei poemi omerici . . . . . . . . . . . . . . . . 82 1.. Emotività divina nei poemi omerici: quali chiavi di lettura?. . . . . . . . . . . . . . . . . 82 2..La nemesis di Zeus Xeinios e la tutela dei supplici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83 3.. Riconoscere la time, onorare gli dèi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 84 4.. Minacciare la time, suscitare la nemesis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90 5.. Temere la nemesis, distinguersi dai mortali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 6.. Rappresentare il divino attraverso la nemesis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94 Capitolo terzo Costruire un profilo divino. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 1.. Nascere da Notte e vivere da mortali: Nemesis, la costruzione del kosmos e la vulnerabilità umana in Esiodo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 96 2.. Nemesis, Aidos e il corretto equilibrio di dike. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 3..Nemesis hyperdikos e nemesis dichoboulos: l’esistenza felice degli Iperborei e le sorti dei mortali in Pindaro. . . . . . . . . . . . . . 106 4..Nell’entourage di Zeus: Nemesis, Elena e il controllo della giustizia . . . . . . . . . . 111 Capitolo quarto Nemesis in azione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119 1..La nemesis degli dèi e l’etica della misura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119 2.. Il gioco delle parti: Creso, la moira e la «grande nemesis del dio» nelle Storie di Erodoto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122 3.. Ma il divino è tarachodes: la punizione ancestrale e la nemesis del dio. . . . . . . . . 131 4.. Giustizia del limite, giustizia profetica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Capitolo quinto Invocare Nemesis Formule e attributi onomastici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139 1.. La giustizia ha gli occhi scuri: celebrare Nemesis negli Inni. . . . . . . . . . . . . . . . . . 139 2.. Nemesis e Adrasteia: tra eponimia e eteronimia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143 3.. Uno sguardo sui mortali: Rhamnousia, Ourania, Oupis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 154
Indice
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Capitolo sesto Dall’onore al valore. Nemesis e la giustizia del merito in Aristotele. . . . . . . . . . 162 1.. L’orizzonte omerico della nemesis nella riflessione aristotelica . . . . . . . . . . . . . . . 162 2.. La nozione di merito e l’applicazione del dianemetikon dikaion. . . . . . . . . . . . . . . 166 Capitolo settimo Vivere all’ombra di Nemesis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169 1.. Il demo attico di Ramnunte: un quadro storico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 169 2..Quale aition per la statua di Nemesis a Ramnunte?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179 2.1. La collera di Nemesis e lo sbarco dei “barbari” a Maratona . . . . . . . . . . . . . . . 182 2.3.L’agalma e i suoi attributi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187 2.4. La base . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196 3.. Themis e Nemesis a Ramnunte: potenze antagoniste e complementari. . . . . . . 201 4..L’entourage di Nemesis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206 5.. Nemesis e la religione degli efebi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 211 6.. Dentro e fuori la fortezza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217 7.. Al servizio della dea: agenti di culto a Ramnunte. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221 7.1.Hieropoioi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221 7.2. Un sacerdozio al femminile per Nemesis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 229 8.. Il demo in festa: i Nemes(e)ia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237 8.1. Una festa in onore dei defunti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 238 8.2. La dea e il sovrano: Nemesis e i sacrifici in onore di Antigono Gonata . . . . . . 242 8.3. Finanziamento della festa e dress code. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 251 9.. La dea e i suoi generali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 253 10.. Nemesis e Livia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 Conclusioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 268 Elenco delle illustrazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 276 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277 Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 309 Indice delle fonti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 315
[…] in ancient pre-Christian Greece the religious and the political were fabrics of thought and behaviour woven from the same threads. Cartledge 1997, 6
Introduzione La Nemesis degli Antichi e dei Moderni 1. Perché Nemesis? Ho incontrato Nemesis per la prima volta all’epoca in cui, preparando la tesi di laurea, cercavo di venire a capo della querelle sullo status giuridico di Lemno rispetto ad Atene nel V sec. e di comprendere se, e a partire da quale momento, l’isola fosse divenuta sede di una cleruchia. Nell’ambito di quel dossier uno dei documenti senz’altro più frequentati dagli studiosi era una dedica incisa su un elmo corinzio che gli Ateniesi di Ramnunte, demo sulla costa nord-orientale dell’Attica, tornati da Lemno, avevano offerto alla dea. L’oggetto, ritrovato in una cisterna proprio di fronte al tempio di Nemesis, riporta queste poche parole: Ῥαμνόσιοι ℎοι ἐν Λέμνο̣[ι ἀ]νέ[θεσαν Νεμ]έσει. I Ramnusî quelli di Lemno dedicarono a Nemesis. I.Rhamnous 86 (= IG I3 522 bis)
L’iscrizione, in alfabeto attico arcaico, è stata inizialmente messa in relazione con altre due incise su una coppia di elmi corinzi, rinvenuti rispettivamente ad Olimpia e sull’acropoli di Atene, con un testo, sempre in alfabeto attico arcaico, ma leggermente diverso: Ἀ̣θεναῖοι [τ]ο῀̣ν ἐγ Λέμν̣[ο].1 Le dediche di questi elmi sono state collegate con la conquista dell’isola da parte di Milziade il Giovane, esponente di spicco di un’eminente famiglia ateniese e tiranno nel Chersoneso2 e quindi datate ai primi anni novanta del V secolo. Uno studio più recente, tuttavia, sostenuto da solide evidenze archeologiche, ha poi proposto di svincolare la dedica di Ramnunte dalle imprese di Milziade, collocandola in anni più recenti, tra il 475 e il 450 a. C.3 Confesso che inizialmente la mia attenzione, tutta volta a indagare la natura della relazione di dipendenza tra Atene e Lemno, si era limitata soltanto all’analisi della prima 1 Olimpia: IG I3 1466. Più frammentario il testo in IG I3 518. 2 Hdt. 4.137; 6.39–41; 140, 2. 3 Marchiandi 2008 (2010), 24–26.
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La Nemesis degli Antichi e dei Moderni
parte dell’iscrizione. Una decina di anni più tardi, tornando sullo stesso documento con uno sguardo più fresco e fattosi più sensibile al dato religioso, ho spostato il fuoco anche sulla seconda parte, interrogandomi sul culto di questa potenza divina che i Ramnusî di Lemno decisero di onorare con la dedica delle armi sottratte a un nemico non ben identificato.4 L’idea che in quegli anni avevo di Nemesis era un po’ quella condivisa, costruita su un amalgama indistinto di reminiscenze di storia della filosofia, storia dell’arte ed espressioni più o meno pertinenti di cultura pop. Redigerne un inventario sarebbe davvero un’impresa. Mi limiterò a fare solo qualche esempio recente: per esempio, l’ultimo romanzo dello scrittore statunitense Ph. Roth (2010), intitolato per l’appunto Nemesis, che narra la vicenda di un giovane brillante e promettente la cui vita appare fatalmente segnata dal temporaneo abdicare alle proprie responsabilità individuali; oppure ancora quello di I. Asimov (1989), in cui Nemesis è una stella la cui orbita minaccia il sistema solare. In generale, tuttavia, è sufficiente fare una ricerca su google per ottenere una messe di risultati, dai più attinenti ai più improbabili, in cui Nemesis dà il nome a orribili mostri da videogiochi o a energici gruppi Metal, o – in modo più intrigante – a imprese produttrici di bilance e persino, sorprendentemente, a un vino. Nell’immaginario collettivo, questa figura appare percepita quale espressione di una giustizia retributiva dal carattere vendicativo e violento. Si tratta forse di una delle figure più antiche e longeve della storia delle idee: tanto la nozione, quanto la divinità omonima hanno infatti attraversato i secoli, modificandosi nel significato o conservando solo alcuni dei tratti e delle caratteristiche con cui i Greci le descrivevano, riducendo, giocoforza, la nostra capacità di comprendere il ruolo che avevano all’interno del loro sistema culturale e religioso. È proprio la riconoscenza mostrata dagli abitanti di Ramnunte per la protezione accordata loro dalla divinità che mi ha spinta a verificare quanto dell’immagine scura e violenta di certe rappresentazioni moderne e contemporanee corrispondesse al profilo della dea attica e, in generale, all’idea che di essa avevano i Greci. Un primo sondaggio sulle testimonianze antiche relative a Nemesis ha poi portato con sé ben altri interrogativi di natura epistemologica e metodologica, mettendomi di fronte a un soggetto buono per pensare le logiche di funzionamento del politeismo greco all’interno di un orizzonte circoscritto qual è, nella fattispecie, proprio quello del demo di Ramnunte che fornisce un laboratorio privilegiato d’indagine, consentendo di guardare concretamente – riprendendo una fortunata formula di Robert Parker – la divinità in azione5 e di studiarne le relative modalità di rappresentazione.
4 Bonanno 2009. 5 Parker 2005, 406.
«La più implacabile contro i tracotanti»: la figura di Nemesis nella Periegesi di Pausania
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2. «La più implacabile contro i tracotanti»: la figura di Nemesis nella Periegesi di Pausania Le fonti antiche presentano una costante oscillazione tra la menzione di Nemesis come teonimo e nemesis come concetto astratto e pulsione emotiva. Proporne una prima veloce sintesi potrà aiutare a fissare meglio le coordinate entro cui si muoverà questo lavoro. Come tante ricerche sui diversi aspetti della religione greca, un punto di partenza è offerto dalla Periegesi di Pausania che, nel II sec. della nostra era, descrivendo i luoghi degni di essere visti e di restare nella memoria,6 fornisce al lettore moderno una serie di informazioni importanti sulle tradizioni e le forme devozionali dei Greci. Questo è tanto più vero nel caso di Nemesis, il cui nome ricorre, in un lungo e accurato resoconto, all’interno del primo libro dedicato all’Attica. Nel corso della sua visita al santuario di Ramnunte, Pausania descrive Nemesis come «la più implacabile contro gli uomini tracotanti».7 Nell’ira di questa divinità sarebbero infatti incorsi i “barbari” che sbarcarono a Maratona (490 a. C.), i quali si portarono dietro, nella spedizione, un blocco di marmo pario, con l’intenzione di farne un trofeo per celebrare la vittoria, convinti che avrebbero preso Atene senza difficoltà. Con questo marmo Fidia invece realizzò la statua del tempio di Ramnunte. L’esposizione prosegue con la descrizione dell’agalma della dea che portava sulla testa una corona decorata con cervi e piccole statue di Nike. Essa teneva nella mano sinistra un ramo di melo, mentre nella destra aveva una phiale su cui erano raffigurati degli Etiopi. Pausania afferma di non essere in grado di interpretare il significato di tale decorazione. Si limita a dire che non accetta la spiegazione di coloro che ritengono la presenza degli Etiopi da mettere in relazione con Oceano – presso cui vivrebbero – e che quest’ultimo è il padre di Nemesis. Questo passo chiave – su cui si tornerà a più riprese nel seguito di questa indagine – costituirà il perno attorno a cui ruoterà la fortuna della dea come divinità sanzionatrice della hybris. Il Periegeta colloca proprio a Ramnunte il cuore pulsante del culto antico di Nemesis, la cui statua poggiava su una base in cui si rappresentavano le vicende di Elena, dai Greci ritenuta figlia della dea e di Zeus.8 Nel libro VII menziona anche un altro santuario collocato, questa volta, a Smirne dove – precisa – le Nemesis sono due e sono ritenute figlie di Notte.9 La vicenda mitica della dea cui sembra alludere Pausania nel I libro è narrata nel fr. 10 West dei Canti Ciprii, poema epico datato alla fine del VII sec. a. C.10 Qui Nemesis, per sottrarsi alla violenza di Zeus invaghitosi di lei, si lancia in una fuga disperata per mare e per terra, dandosi a una sequenza repentina di
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Pirenne-Delforge 2008, 103–108. Paus. 1.33, 2. Paus. 1.33.7. Paus. 7.5, 1–3. Ath. 8.10, 334c–d [= Kypria Fr. 10 West].
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cambiamenti di forma. Costretta poi all’unione violenta con il padre degli dèi, dà alla luce la bella Elena. La divinità e la sua parentela con la principessa spartana, paradossalmente, non figurano nei versi di Omero, in cui di nemesis si parla solo come pulsione emotiva, attribuita in prevalenza ai mortali. Il termine risulta impiegato tanto nella forma sostantivale, quanto in quella verbale denominativa corrispondente alle voci nemessao e nemesizomai. Ad essi è affidata l’espressione della sanzione esterna e della disapprovazione sociale che gli eroi omerici si premurano di evitare. La nemesis rappresenta, così, il punto di vista dell’osservatore che biasima le azioni altrui e viene indicata dagli studiosi come la controparte dell’aidos, ovvero il disagio soggettivo del singolo individuo nei confronti dei suoi stessi comportamenti.11 Con questo significato, ricorre anche nei poemi di Esiodo, dove è all’opera un doppio registro, poiché nemesis vi compare tanto come emozione, espressa nella forma verbale nemessao, quanto come teonimo, cui il poeta attribuisce genealogie e fattezze divine. Nella Teogonia, essa è annoverata nella genia di Notte insieme ad un’altra schiera di oscure potenze; mentre nelle Opere e Giorni è evocata in coppia proprio con Aidos, come potenza che assicura equilibrio e la coesione alla generazione degli uomini di ferro, all’interno del cosiddetto “mito delle razze”.12 Diversi secoli più tardi, Aristotele appare, dal canto suo, più interessato a ragionare sull’emozione, identificata come la reazione dell’animo nobile che si indigna contro chi prospera al di là del merito, pur ammettendo l’esistenza di un culto destinato a una divinità chiamata Nemesis.13 La figura divina, del resto, offre ampia materia di ispirazione ai poeti: la raccolta degli Inni orfici ne fanno una potenza che tutto vede e tutto ascolta,14 mentre Mesomede, poeta di età adrianea, canta una Nemesis alata, dagli occhi scuri, figlia di Dike, pronta a colpire inesorabilmente l’insolenza dei mortali.15 Plinio, in un passo della sua Naturalis Historia, su cui si tornerà più avanti, guardava a Nemesis come a una sorte di Afrodite mancata.16 Emozione, concetto astratto, dea concupita da Zeus e madre di Elena, ora figlia di Notte, ora di Oceano o di Dike, onorata da sola o in coppia con la gemella: come trovare una logica per i diversi volti di questa potenza, il cui nome si incrocia con la fortuna del termine, e la cui funzione sanzionatrice sembra fare capolino, qua e là, nelle fonti senza tuttavia rappresentare una costante o una marca distintiva? Come spiegare il processo attraverso cui una nozione, che nella mente dei Greci raccontava un moto dell’animo, finisse poi per coincidere con il nome di una divinità, la cui vicenda mitica Sulle diverse espressioni umane e divine della nemesis nei poemi omerici e per altri riferimenti bibliografici, mi permetto di rinviare a Bonanno 2013; Bonanno 2014 e infra p. 52 e ss. 12 Cfr. infra p. 96 e ss. per l’analisi di Hes. Theog. 211–226 e Op. 180–201. 13 Arist. E.E. 3.1233b, 22–26; Rhet. 2.9, 1386b 13–14. Sul senso della nemesis nella riflessione aristotelica, mi sia consentito di rinviare a Bonanno 2017 e Bonanno/Corso 2018. 14 Hymn. Orph. 61. Cfr. infra p. 139 e ss. 15 Mesom. Hymn. 3. Cfr. infra p. 139 e ss. 16 Plin. Nat. hist. 36.17. Cfr. infra p. 182 e ss. 11
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è, per di più, all’origine della guerra di Troia, evento incipitario e fondativo della storia greca? E, più in generale ancora, come interpretare la natura del rapporto tra il concetto e il teonimo, tra l’emozione e la maniera in cui Greci percepivano e rappresentavano la potenza divina omonima? 3. Appunti per una storia degli studi Un approfondito status quaestionis, come base di partenza per una nuova indagine è, per opinione condivisa, base irrinunciabile per misurare la corrispondenza di un lavoro alle cosiddette “buone pratiche” della ricerca scientifica. In questo caso particolare storia culturale e storia degli studi sembrano sovrapporsi l’una all’altra: la figura di Nemesis, con i significati che veicolava, fu infatti, già a partire dall’età umanistica e rinascimentale, al centro dell’interesse e della riflessione di poeti, antiquari, filosofi e letterati, tanto che uno studio sulla ricezione del termine o sulla fortuna della divinità a partire dall’età medievale potrebbe perfettamente fare l’oggetto di un volume a parte. È importante ripercorrere, per grandi linee, e senza alcuna pretesa di esaustività, le tappe attraverso cui si costruì tale fortuna, a partire dal Medioevo alla fine del XIX secolo, per comprendere come la storia della ricezione della Nemesis degli Antichi finì per influenzare le indagini e le ricostruzioni degli studiosi moderni sullo stesso argomento. Nel Medioevo, la figura di Nemesis sembra essere stata piuttosto trascurata. Il concetto appare accostato a quello di Benignitas nell’opera di San Bonaventura di Bagnoregio17 (1217–21 ca – 1274), e inteso come quell’attitudine del Signore a non sedurre gli uomini con beni dei quali abuserebbero, per evitare che possano cedere all’arroganza.18 A partire dall’Umanesimo, tuttavia, gli intellettuali cominciano a manifestare un interesse spiccato per questa figura. Nel 1473, Nemesis appare come Rhamnusia nell’epicedio, in latino, per la morte della nobile fiorentina Albiera degli Albizi, composto da Angelo Poliziano (1454–1494), poeta ed esponente di spicco della corte di Lorenzo il Magnifico (vv. 89 e 127–136). In questi versi, dedicati alla giovane quindicenne, Poliziano racconta come la grazia e la bellezza della fanciulla suscitarono, in occasione dei festeggiamenti per Eleonora di Aragona, figlia del re di Napoli e futura duchessa di Ferrara e Modena, l’invidia di Nemesis che, ricorrendo alla collaborazione della dea Febbre, ne causò la drammatica e prematura morte, lasciando i parenti attoniti per il dolore. In questo componimento, ricco di riferimenti ai grandi della letteratura latina
17 Sulla scarsa fortuna della figura di Nemesis nel Medioevo, Greene 1963, 31. 18 Bonaventura, Collationes in Hexaëmeron sive Illuminationes Ecclesiae, 5. Si tratta di una raccolta di ventritrè conferenze tenute dall’Autore a Parigi, tra Pasqua e Pentecoste del 1273.
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come Ovidio e Stazio, Nemesis ha il volto torvo di una dea suscettibile, spietata e imprevedibile.19 Più rassicurante è invece il ritratto che Poliziano ne traccia in un componimento più tardo, il primo della raccolta Silvae, e intitolato Manto (1482) come omaggio a Virgilio. Si tratta di una praelectio, una lezione cioè destinata a studenti universitari, che prevedeva la laudatio del poeta e la cohortatio con l’incoraggiamento, rivolto agli studenti, a imitarlo.20 Nemesis vi appare qui quale monito ai giovani a non cedere alle lusinghe della hybris. Vi è descritta come una dea alata, avvolta in un mantello bianco splendente, con il freno e una patera nelle mani, che rendono evidente l’allusione all’iconografia della statua di Ramnunte descritta da Pausania. Generata da Notte, ebbe Oceano come padre. A lei è assegnato il compito di frenare le speranze smodate dei mortali e di soffocarne l’orgoglio, presiedendo alle loro alterne fortune. Lo sguardo di Nemesis si posò prima sulla Grecia, quando quest’ultima gonfia di orgoglio per la sconfitta inflitta ai Persiani portò in Oriente le sue insegne vittoriose; e poi, quando superba della sua poesia e della sua eloquenza, innalzò la testa fino a toccare il cielo, credendosi pari agli dèi. La dea allora la costrinse a sottomettersi al giogo dei Latini. Risuonando di echi evidenti agli esametri di Esiodo e agli epigrammi dell’Anthologia Palatina, i versi di Poliziano mettono soprattutto in primo piano la descrizione di Pausania di Nemesis, come divinità implacabile contro gli uomini tracotanti.21 La dea vendicatrice della hybris dei Persiani, si dimostra altrettanto spietata con i Greci, eccessivamente tronfi della loro arte e della loro cultura. Una delle prime raffigurazioni della dea in età moderna, la dobbiamo all’arte del tedesco Albrecht Dürer (1472–1528) in una splendida incisione prodotta tra il 1501 e il 1503. Qui Nemesis appare vicina all’iconografia di Fortuna, rappresentata com’è, alata in equilibrio precario su un globo, tenendo nella mano destra una coppa e nella sinistra, le briglie (Fig. 1).22 La dea viene poi progressivamente affiancata alla virtù cardinale della Temperantia. Si tratta di un processo che comincia, nell’Umanesimo, con lo sviluppo del genere letterario degli Emblemata, raccolte di immagini simboliche corredate da testi esplicativi, i cui contenuti erano tratti dalla tradizione greco-latina. Queste opere perseguivano due finalità opposte: da un lato, miravano a produrre immagini enigmatiche dal significato misterioso e, dall’altro, inseguivano lo scopo edificante e educativo di rendere accessibile tutto un repertorio di massime morali.23 La figura di Nemesis con i suoi 19 20 21 22 23
Sull’epicedio di Poliziano in onore di Albiera degli Albizi si veda l’analisi di Degl’Innocenti Pierini 2015 e, sulla rappresentazione di Nemesis e Febbre, Perosa 1946. Fantazzi 2004, XIII. Paus. 1.33, 2. Sulle fonti impiegate da Poliziano per la composizione di questi versi, si vedano le note di commento ai versi (Silva 1–25) dell’edizione delle Silvae di Bausi 1996, 7–8. Sui rapporti di quest’opera con le fonti classiche e con il componimento di Poliziano, cfr. il bel saggio di Panofsky 1962. Praz 1975 [1939], 169; Seznec 2008 [1940], 127–135; Ginzburg 2000, 110–111.
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Fig. 1 Albrecht Dürer, Nemesis o Grande Fortuna, Staatliche Kunsthalle Karlsruhe (1501–2). Wikimedia Commons.
attributi e il suo invito alla moderazione è una presenza costante all’interno di questi cataloghi. Basti pensare all’Emblematum Liber del giurista Andrea Alciato (1492–1550) dove essa ritorna a più riprese.24 La fortuna della dea, in questo ambito, è testimoniata 24 Nemesis è rappresentata nell’Emblema XIII a e b, corredata dall’espressione Nec verbo nec facto quenquam laedendum; in XLVI dove è affiancata da Spes, e n. XLVI in cui figura in compagnia di Spes, Amor e Bonus Eventus. Sugli Emblemata di Alciato, cfr. l’edizione a cura di Gabriele 2015.
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dall’opera enciclopedica di Cesare Ripa, pubblicata nel 1593 con il titolo Iconologia overo Descrittione dell’Immagini universali cavate dall’Antichità et da altri luoghi. Si trattava di un repertorio di “personificazioni”, concetti astratti, virtù e vizi che, come altri manuali dello stesso genere, avevano lo scopo di fornire a poeti e artisti uno strumento per comprendere le opere dell’Antichità e per dare loro anche delle fonti di ispirazione.25 È proprio in quest’opera che la figura di Nemesis conosce uno sviluppo ulteriore, trasformandosi in una vera e propria prefigurazione della Temperanza cristiana.26 3.1 Johann Gottfried Herder: «Die missbilligende Göttin des Uebermuths» Il percorso che conduce a una piena sovrapposizione tra Nemesis e la Temperanza giunge a maturazione nella riflessione di Johann Gottfried Herder (1744–1803).27 Il filosofo tedesco, infatti, esaminò il profilo della dea, all’interno della raccolta dei Zerstreute Blätter, in un saggio intitolato Nemesis. Ein lehrendes Sinnbild (Zweite Sammlung 1786). In queste pagine, Herder fa piazza pulita tanto della testimonianza della Teogonia esiodea28, che definiva la dea come sciagura per i mortali, superando anche quella di Aristotele, che aveva posto la nemesis al centro della sua riflessione sulla giustizia, individuandola quale “giusto mezzo” tra lo phthonos (invidia) e l’epichairekakia (il sentimento di chi gioisce delle disgrazie altrui). Finisce poi per respingere la rappresentazione della dea come Fortuna.29 Pur riconoscendo in Nemesis un duplice volto, il filosofo preferisce valorizzare l’aspetto benevolo della divinità, quello evidenziato nelle Opere e i Giorni di Esiodo,30 ma insiste soprattutto sulle testimonianze che mettono in rilievo l’attitudine della dea a sanzionare il superamento dei limiti. Giunge così a stigmatizzarla come «die missbilligende Göttin des Uebermuths» (la divinità che disapprova l’arroganza). L’interpretazione di Herder appare basata, da un lato, sulle fonti antiche e sulle descrizioni di forte impronta neoclassica di Johann Joachim Winckelmann (1717–1768) –
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Seznec 2008 [1940], 216. «Temperanza: Donna, vestita di Porpora, nella destra mano tenga un Ramo di Palma, e nella sinistra un Freno. […] Il Freno dichiara, che deve essere la Temperanza principalmente adoprata nel Gusto, e nel Tatto, l’uno de’ quali solo si partecipa per la bocca, & l’altro è steso per tutto il corpo. Gli antichi co’l freno dipingevano Nemesis, figliuola della Giustitia, la quale con severità castigava gli affetti intemperati de gli huomini […]» (p. 268). Nemesis è inserita nella sezione relativa alla temperanza anche nei Hieroglyphica di P. Valeriano 1556, 36.265 a. Su questi aspetti, vd. anche Bonanno 2021, 163–168. 27 Sulle fonti di Herder e i legami con la letteratura emblematica e in particolare con il Libro degli Emblemi di A. Alciato (1531 ed edizioni successive) e Le immagini dei dèi degli antichi di V. Cartari (1556 e edizioni successive), cfr. Cometa 2007. 28 Hes. Theog. 211–226. 29 Arist. E.N. 2.1108b 1–3. Per un’analisi del concetto di nemesis in Aristotele, cfr. infra p. 162 e ss. 30 Hes. Op. 180–201.
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con il quale tuttavia non si astiene dal polemizzare31 – e, dall’altro, sulle risemantizzazioni, in chiave cristiana, proposte dalla letteratura emblematica in cui Nemesis perde, a poco a poco, il carattere di divinità vendicatrice e si definisce maggiormente come figura legata alla temperanza, alla giustizia e alla speranza. Questa immagine, così opportunamente rielaborata, diventa espressione paradigmatica della saggezza e della grandezza del popolo greco, fornendo al filosofo il nucleo fondamentale della sua filosofia della storia. Connotata quale «filosofia della speranza»,32 la riflessione dell’intellettuale tedesco pone così la figura di Nemesis al centro di un progetto di rinnovamento culturale che investe l’umanità intera. Spogliandola dei i tratti che ne fanno un’entità cieca, arbitraria sanzionatrice dei mortali, Herder mette in rilievo invece quegli aspetti che nelle fonti più la avvicinano ad Afrodite, riproponendo un’immagine pacificata della divinità, che regge le fila della storia umana e ne governa il corso, sotto il segno della giustizia e della capacità retributiva cui essa presiede. Gli elementi che connettono Nemesis all’amministrazione della giustizia sono quindi particolarmente messi in rilievo. I primi versi dell’Inno terzo di Mesomede, in cui la dea è evocata come figlia di Dike, forniscono a Herder la base d’appoggio per separare Nemesis dall’oscura genia di Notte, cui l’aveva inchiodata Esiodo, e di restituirla definitivamente alla posterità quale prefigurazione classica della Temperantia cristiana. Negli Inni orfici, punto di arrivo della riflessione herderiana in questo testo, Nemesis vi appare ormai riconciliata con i mortali, depositaria dei loro giudizi e quindi capace di soccorrerli e stornare dalle loro menti i pensieri empi. Nella filosofia di Herder, tutta proiettata verso la futura palingenesi dell’umanità, la Nemesis degli antichi cede il passo ad Adrastea, epiteto ed eteronimo con cui i Greci solevano indicare la dea33, rappresentazione di una «Nemesis del Cristianesimo», colei che riporta equilibrio nel mondo morale e fisico dell’umanità, rendendola l’ago della bilancia; il «Giudice del mondo», onnipresente, «che tutto accoglie e risarcisce» (Die Adrastea des Christentums, S. W. 24.428).34 Questa visione di Nemesis, come forza indipendente che, in modo provvidenziale, tende a ristabilire un equilibrio alterato, sarà destinata ad avere larga eco, sia nella storia degli studi sulla divinità greca, sia anche nella cultura del tempo e nel significato corrente che i moderni attribuiscono al termine stesso.
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Herder accusa, a un certo punto, Winckelmann di avere mal compreso la figura di Nemesis interpretandola ora come Destino ora come una divinità della vendetta (cfr. Zerstreute Blätter, Zweite Sammlung 1786, 247). 32 Cometa 2007, 17–18. 33 Cfr. infra p. 143 e ss. 34 Su questa evoluzione del pensiero di Herder e sul ruolo di Nemesis-Adrastea nella riflessione filosofica dell’intellettuale tedesco, Cometa 2007, in part. pp. 41–44.
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3.2 Il problema delle origini: Georg Zoëga ed Ernst Christian Walz Per primo Georg Zoëga (1755–1809), archeologo ed egittologo danese e noto studioso di iconografia mitraica, che insieme a J. J. Winckelmann fu tra i primi fondatori dell’archeologia classica, intraprese un intenso corpo a corpo con il testo di Herder, di cui non condivideva la visione pacificatrice assegnata alla dea, che riteneva sostanzialmente vicina a Tyche e alle altre divinità preposte al destino e originaria dell’Africa. Il modo di procedere di Zoëga, come quello di tanti intellettuali del suo tempo, si basava sulla giustapposizione di fonti provenienti da contesti ed epoche profondamente diversi l’uno dall’altro. Per esempio, la testimonianza di Pausania relativa all’iconografia della Nemesis di Ramnunte, di cui il Periegeta sottolinea l’assenza di ali e la pertinenza di tale attributo ad ambiti in cui la dea è ritenuta preposta alle vicende d’amore, era messa in rapporto con la favola di Amore e Psyche o con le rappresentazioni delle gemme del Museo Mediceo (p. 45). A Herder egli contestava la spiegazione di Nemesis, come divinità della misura e della moderazione, considerata troppo riduttiva. Soprattutto, però, Zoëga rivendicava per la divinità greca un’“essenza” (Wesen) punitrice, che la rendeva – a dispetto di quanto sosteneva invece il filosofo tedesco – vicina ad Ate, intesa quale personificazione dell’errore, e rappresentata nei poemi omerici, come figura che perseguita i mortali35. Zoëga parla infatti di Nemesis come una «gemilderte Ate» e quando traccia un profilo della dea si esprime in questi termini: eine gerechte und strenge Göttin, von Natur nicht übelwollend, aber geneigter zu unterdrücken als zu begünstigen, daher heftig, niedlich und argwöhnisch, zu besäftigen durch Demuth in Thaten und Worten, nicht um Gnade zu empfangen, sondern um ihren Unwille zu vermeiden, folglich nicht liebenswürdig, höchstens wegen ihres strengen Characters ehrwürdig, und als Bestraferin des Stoltzes sehr verwandt und fast einerlei mit der Gottheit der Rache. Mit dieser Definition, glaube ich, kann man alle Stellen erklären, welche Nemesis nennen […]36.
Al di là di queste obiezioni, l’interpretazione di Herder fu largamente pervasiva tanto che la vediamo apparire, in modo più o meno apertamente dichiarato, nelle diverse analisi che, nel corso del XIX secolo, si concentrarono sulla figura di Nemesis. Friedrich Gottlieb Welcker (1784–1868), filologo tedesco, che di Zoëga curò la biografia e che per primo si cimentò in un’opera scientifica sulla religione greca, in tre volumi, intitolata Griechische Götterlehre (1857–1863), manifestò con chiarezza il suo debito e la sua ammirazione nei confronti della sensibilità con cui il filosofo aveva presentato la figura di Nemesis, rispetto alla quale si proponeva di aggiungere solo alcune osservazioni, basate su un approfondito esame delle testimonianze letterarie e iconografiche. Indagata,
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Zoëga 1817, 75. Ibid., 75.
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nel terzo volume della sua opera, all’interno di una trattazione più ampia incentrata su quelli che definisce «Dämonen im engeren Sinn, niedere oder Nebengötter»,37 la vicenda mitica di Nemesis, raccontata nei Canti ciprii, arricchisce, nella riflessione di Welcker, di una base morale la mitologia greca e le ragioni che condussero alla guerra di Troia e alla caduta della città. Valorizzando le testimonianze tratte dalla poesia greca epica e lirica, Welcker individuava inoltre lo stretto legame tra Nemesis e Dike, espressione della sostanziale tensione, manifestatasi nel mondo, verso una giustizia volta alla compensazione, all’equilibrio e all’armonia.38 Nel culto della dea a Ramnunte, vedeva una potenza vicina ad Artemide originariamente assimilabile a una sorta di “Naturgöttin”, alla cui tutela, gli abitanti del luogo finirono per ricondurre il successo contro i Persiani a Maratona. Proprio grazie all’episodio della dedica della statua con cui si celebrava la vittoria contro la hybris dei “barbari”, la figura di Nemesis assunse un’influenza e una risonanza sempre crescente nella religione e nella cultura antica, quale potenza direttamente connessa con l’osservazione dei limiti e come una delle più riuscite espressioni della morale delfica della misura e della moderazione. Il ritratto della dea mantenne negli studi un’oscillazione costante tra quello composto e garbato di divinità del “giusto mezzo”, ipostasi dell’idea di giustizia e di equilibrio dei Greci, da annoverare tra le tante felici espressioni del “miracolo greco”; e quello di demone oscuro, che tiene sotto scacco i mortali con la sua minaccia e la sua forza sanzionatrice. Sulla scia delle riflessioni di Herder, anche Ernst Christian Walz (1802–1857), professore di filologia classica a Tübingen sulla cattedra che poi sarebbe stata ricoperta da Erwin Rohde, e tra i primi collaboratori della Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft (1894–1980), nel suo De Nemesi Graecorum (1852), fornisce un quadro di Nemesis marcatamente orientato nel senso della Temperanza. Come Herder, lo studioso liquida i versi della Teogonia di Esiodo, in cui la dea è definita pema thnetoisi brotoisi, considerandoli un’interpolazione di matrice orfica.39 Stabilisce un rapporto diretto tra Nemesis e la religiosità delfica e inserisce la figura divina in una visione evoluzionistica della religione greca, in base alla quale, una volta abbandonato dai Greci il culto dei corpi celesti e della natura genitrice, essi immaginarono gli dèi simili agli uomini, ma superiori ad essi in quanto capaci di portare ordine e di moderare le vicende umane. Convinto assertore delle influenze orientali sulla religione greca, Nemesis è per Walz la stessa dea asiatica che governa tutta la natura, diventata nell’Atene classica una figura normativa, preposta all’ordine cosmico e, per questo motivo, onorata dagli Ateniesi, campioni di pietà religiosa, non nel tempio di Venus, o di Fortuna, ma insieme a Themis.40 37 Welcker 1857–1863 (III), 1. 38 Ibid., 30. 39 Hes. Theog. 223. 40 Walz 1852, 22.
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3.3 Édouard Tournier: «Loi de partage» e «jalousie des dieux» La prima monografia su Nemesis non proviene però dall’ambiente tedesco, ma da quello francese e la si deve all’ellenista Édouard Tournier, divenuto poi professore di filologia greca all’École Pratique des Hautes Études a Parigi. Nella sua tesi di dottorato, difesa nel 1863, intitolata Némésis et la jalousie des dieux, tratta l’idea di nemesis nel quadro di un intero volume dedicato all’“invidia degli dèi”. L’orizzonte di senso che guida questo studio è tipicamente cristiano e sullo sfondo si percepisce la visione herderiana di Nemesis quale espressione della Temperantia. Lo studio ha come obiettivo quello di spiegare la persistenza presso il popolo greco – che egli definisce «le plus intelligent des peuples»41 – di un errore in base al quale si attribuivano agli dèi sentimenti d’invidia nei confronti della fortuna e della prosperità dell’essere umano. Tale credenza, sostenuta da Erodoto e criticata da Aristotele, aveva consentito di spiegare l’esistenza del male nel mondo. Tournier si propone quindi di illustrare come questa credenza, trasferita dalla favola alla superstizione popolare, sia stata corretta dalla teologia e battuta dal trionfo della filosofia. Per questo motivo, articola il suo volume in tre parti corrispondenti ad altrettanti periodi della storia greca. Il primo periodo è quello mitologico, che prende in considerazione le fonti da Omero a Pindaro. In questa fase, l’idea di gelosia divina attende ancora di essere formalizzata e personificata e il senso della nemesis si offre come sentimento morale ed espressione dell’adesione dell’uomo a quella che Tournier definisce «loi de partage», cioè la legge che stabilisce la durata della vita umana e il libero arbitrio. In questa fase, la nemesis, prerogativa dell’azione personale del dio, non ha una forza punitrice; si presenta piuttosto come un’idea astratta e non come una vera acquisizione religiosa. L’età arcaica costituisce per Tournier il periodo teologico della Grecia, quello in cui l’attività religiosa si sposta dalla produzione delle favole all’elaborazione delle idee. È facile qui scorgere una concezione evoluzionistica che dal mythos conduce al logos. Rappresentanti di questa fase sono, secondo Tournier, poeti come Pindaro, in cui per la prima volta si trova la menzione dell’invidia divina.42 È questo un periodo di grandi mutamenti per i Greci che, nel corso delle guerre contro i Persiani, hanno visto vacillare un grande impero e cominciato a riflettere sulla precarietà delle vicende umane, come l’opera storiografica di Erodoto mostra. L’attribuzione della gelosia agli dèi però è un portato della concezione antropomorfica degli dèi, contro la quale si scagliò la polemica di Senofane.43 Tournier la giudica un’idea talmente rivoltante da non potere continuare ad esistere a lungo nelle menti dei Greci, senza un correttivo. Tale corretti-
41 Tournier 1863, VII. 42 Pind. Pyth. 10.30; Tournier 1863, 43; 47. 43 Xenoph. fr. 14–15 D.-K. Sulla critica all’antropomorfismo di Senofane e sulle modalità con cui venne sfruttata dall’apologetica cristiana, cfr. da ultimo Herrero de Jáuregui 2019, con ampia bibliografia di riferimento.
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vo è individuato dallo studioso proprio nella dea Nemesis. Egli dichiara il suo debito nei confronti di Herder, cui attribuisce il merito di avere mostrato il carattere morale del culto della divinità. In questo contesto, esamina le rappresentazioni di Nemesis nell’arte e nella letteratura e separa rigorosamente il culto di Ramnunte, da quello di Smirne. Per la prima, ritiene stretto il legame con Afrodite già sottolineato da Plinio44, e riconosce invece nelle Nemesis di Smirne gli attributi della gelosia divina. Assegna inoltre una precedenza al culto attico rispetto a quello asiatico. Per quanto riguarda le testimonianze letterarie, Tournier attribuisce grande rilievo alla riflessione erodotea, la cui opera, pur raccontando il trionfo della forza morale dei Greci sulla numerosità dei Persiani e dell’intelligenza sulla “barbarie”, vede in questi avvenimenti l’espressione di una vendetta divina che si abbatte in modo spaventoso sulla tracotanza degli aggressori. Erodoto fu quindi il primo a proporre una concezione, che sarebbe stata poi alla base del cristianesimo, che assegnava un ruolo alla “Provvidenza” nella storia, e alla sua capacità di conciliare la potenza divina con la libertà dell’uomo, individuando la corretta misura tra gli eccessi che portavano l’una a scontrarsi con l’altra. Come Herder e Walz, però, liquidava la testimonianza esiodea della Teogonia, come un’interpolazione successiva, riconducibile all’ambiente orfico. Secondo Tournier, infatti, la mitologia costruita intorno “alle idee” era da attribuirsi ai secoli successivi. In questo processo, l’opera di Esiodo se, grazie alla sua autorità era rimasta al riparo da espunzioni, fu però un «registro aperto» ad ogni sorta di interpolazione da parte di coloro che cercavano nell’universo divino del poeta legittimità per nuove divinità o allegorie.45 Il terzo periodo è quello in cui filosofi come Socrate, Platone e Aristotele si sforzano di trovare una risposta al problema dell’origine del male nel mondo che viene poi spiegato grazie al concetto di “Provvidenza”. È questo il momento in cui, sotto gli attacchi della filosofia, l’idea di Nemesis perde progressivamente d’importanza (senza tuttavia sparire del tutto) e in cui il concetto originario fu aggredito da tutta una serie di alterazioni, prima fra tutti quella orfica, espressione di una forma di devianza che rese il «genio greco» permeabile ai «dogmi oscuri» e ai «simboli mostruosi dell’Oriente».46 In conclusione, l’autore torna a sottolineare la differenza sostanziale tra l’idea di gelosia divina, incompatibile con la visione cristiana della religione, conseguenza dell’antropomorfismo, e quella di nemesis, il cui culto rappresentava appieno la morale e la religione greca. A completamento dello studio, singole appendici si concentrano su problemi specifici: il culto di Ramnunte, quello di Smirne, il ruolo di Nemesis nella divinazione e il legame della dea con le massime di tradizione delfica. Quello che emerge da questo studio è, in primo luogo, una considerazione della figura, come divinità che partecipa del “miracolo greco”, di cui se ne esalta la propensio44 Plin. Nat. hist. 36.17. 45 Tournier 1863, 93–94. 46 Ibid., 227.
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ne alla misura e al controllo degli eccessi. La rielaborazione in chiave cristiana dell’idea ritenuta alla base del culto, ne fa un’espressione ante litteram ora della Temperantia, ora della Provvidenza, inaugurando un processo di opacizzazione della figura di Nemesis all’interno della religione greca. 3.4 Tra Artemide e Afrodite: «Der Grundzug in dem Wesen der Nemesis» Non rinuncia a questa impostazione neanche la seconda monografia dedicata a Nemesis, pubblicata questa volta in Germania nel 1890 a Breslau. L’autore, Hermann Posnansky, nel volume dal titolo Nemesis und Adrasteia. Eine mythologisch-archäologische Abhandlung, si segnala però per un approccio, per certi versi, differente alla materia. Aperto alla considerazione delle influenze orientali sulla religione greca, egli separa la figura di Nemesis da quella di Adrastea – come già aveva fatto Welcker47 – e procede, nella prima parte, a un’analisi etimologica del nome, mettendolo in relazione con il termine nomos48. Nemesis sarebbe dunque l’espressione dello sdegno di fronte a infrazioni del nomos, inteso come insieme di leggi scritte o morali. Il nome dovrebbe essere riconducibile al concetto di “zuteilen” o “zurechnen”. Lo studioso mette insieme le testimonianze individuate nei poemi omerici, in cui ricorre l’espressione di una nemesis ex anthropon e ne individua la personificazione nella rappresentazione esiodea delle Opere e Giorni, all’interno del racconto delle razze. Qui sostiene Posnansky, Nemesis non è ancora una divinità vendicatrice: Nemesis ist hier noch nicht eine Strafgöttin; sie ist eine blosse Vertreterin des gerechten Unwillens der Menschen über die sittliche Verderbtheit, rein passiv, ohne in das Treiben der Menschen einzugreifen.49
Passa poi ad esaminare i frammenti dei Canti Ciprii e fornisce una lettura in chiave naturalistica della vicenda mitologica di Nemesis e della sua unione con Zeus, in base alla quale la trasformazione del padre degli dèi in cigno starebbe a simboleggiare la luce, le bianche nubi che coprono il cielo greco in primavera. La tradizione dell’unione tra Zeus e Nemesis, che diede luogo alla nascita di Elena e quindi alla guerra di Troia, sarebbe secondo lo studioso successiva a quella che faceva della fanciulla la figlia di Leda, e frutto della speculazione filosofica del poeta dei Canti ciprii. Quest’ultimo, incline ad attribuire, come mostrano altri frammenti,50 la responsabilità della guerra alla degenerazione umana, avrebbe sostituito Leda con Nemesis, senza rinunciare a quei tratti specifici che caratterizzavano la madre di Elena e ne facevano una figura legata 47 48 49 50
Welcker 1857–1863 (III), 35–40. Posnansky 1890, 1–6. Ibid., 4. Ibid., 8–9.
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alla sfera della luce, figlia di un Glauco e di una Leucippe, unitasi a un cigno, a sua volta simbolo della luce.51 Posnansky ritiene inoltre insostenibile la tesi dell’unità sostanziale di Nemesis e di Afrodite, frutto semmai della riflessione poetica dell’autore dei Canti Ciprii, da cui risulta che la seconda svolse il ruolo della prima, nella guerra di Troia, quale istanza sanzionatrice della corruzione umana.52 Tale tradizione venne poi recepita dallo scultore della statua di Ramnunte che plasmò la sua Nemesis sul modello di Afrodite. Sulla scia di quanto già aveva fatto Welcker, nella sua Griechische Götterlehre,53 lo studioso quindi si volge a esaminare le connessioni della divinità onorata a Ramnunte con Artemide e, sulla base dell’esame del santuario attico come luogo di culto, delle caratteristiche comuni alle due potenze, entrambe considerate sanzionatrici della hybris, degli epiteti e degli attributi assegnati, come quello dei cervi sulla corona, avanza l’ipotesi che la prima si appoggi alla seconda come potenza principale. Di Artemide svilupperebbe quella facoltà che in essa non costituisce la sua competenza principale, ovvero la funzione di punire gli hybristai.54 La prerogativa originaria di Nemesis, dunque, è quella di sanzionare la hybris da cui solo successivamente, si sarebbe sviluppata quella di tutrice della “giusta misura”. Queste due funzioni, che Posnansky reputa riunite fino all’inizio dell’età imperiale, costituiscono: «der Grundzug in dem Wesen der Nemesis».55 La riconversione della dea, come demone invidioso e umorale, dedito al sovvertimento dei rapporti felici, sarebbe stata un’evoluzione tarda, segno della decadenza dei tempi. Viceversa, l’avvicinamento di Nemesis a Tyche-Fortuna rappresentava l’esito di un processo, che lo studioso spiega introducendo la nozione di “sincretismo”, in base al quale, dopo l’età classica, molte figure divine, originariamente separate, cominciarono ad avvicinarsi l’una all’altra, per effetto «di un’inconsapevole tensione verso il monoteismo» (das unbewusste Streben nach Monotheismus)56 e della diffusa insoddisfazione dei devoti per le divinità esistenti e le figure mitologiche dell’Antichità. La seconda parte dello studio di Posnansky si concentra invece sulla figura di Adrastea, di cui si esamina l’origine del nome e il collegamento con le forze legate al destino, come per esempio Heimarmene. L’ultima parte, infine, prende in esame le diverse rappresentazioni iconografiche della divinità, nel mondo greco e romano, dall’Attica fino a Pompei. Benché fortemente caratterizzata da un approccio evoluzionistico e teleologico, che procede per associazioni di idee, il lavoro di Posnansky ebbe grande influenza sugli studi successivi relativi alla divinità e una posterità bibliografica di gran lunga superio-
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Ibid., 13–15. Ibid., 11. Welcker 1857–1863 (III), 30. Posnansky 1890, 23–26. Ibid., 24 n. 1 e 59. Posnansky 1890, 56.
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re a quella del suo autore. Le sue conclusioni, come anche l’approccio alla materia e l’organizzazione della documentazione, che prende le mosse dalla lettura etimologica del termine per passare poi all’analisi delle fonti, raggruppate per dossier e diacronicamente esaminate, hanno fornito non solo una delle possibili chiavi di lettura, ma la via privilegiata per giungere a quello che all’epoca era la principale preoccupazione degli studiosi di religione antica: la comprensione del Wesen, l’essenza vera del dio. 3.5 Divinità ctonia, olimpica o “agraria” A partire dagli studi di Karl Otfried Müller (1797–1840) e, come suggerisce Renate Schlesier,57 in sintonia con una certa tendenza dell’epoca alla sistematizzazione teologica e filosofica, si comincia a delineare nella storia degli studi il tentativo di suddividere in categorie l’universo divino dei Greci. Erwin Rohde (1845–1868)58 e Jane E. Harrison (1850–1928)59 furono i principali sostenitori di una separazione tra divinità olimpie e ctonie. Essi annoveravano nella prima classe potenze benevole, onorate con procedure sacrificali standard che avvenivano in pieno giorno, mentre nella seconda quelle che avevano un rapporto imprecisato con il sottosuolo e con la sfera della morte. Erano queste divinità oscure tendenzialmente malevole, la cui natura tenebrosa si rifletteva nel carattere peculiare dei sacrifici destinati ad esse, praticati nottetempo su un altare basso chiamato eschara, dove le vittime erano bruciate per intero, senza condivisione del pasto sacrificale. Altri parametri sono poi intervenuti nelle analisi finalizzate ad assegnare l’etichetta di “ctonio” o “olimpio” a questa o a quella divinità: per esempio, la collocazione all’interno di un bosco sacro60 oppure la posizione topografica o ancora la scelta del tempio, come tipologia architettonica per onorare una divinità “olimpica” o della tomba o della grotta, nel caso di divinità “ctonie”.61 La Nemesis di Ramnunte è stata più volte riconosciuta negli studi come divinità ctonia62, benché le fonti non la definiscano mai in questi termini e benché fosse onorata all’interno di un tempio. Per esempio, il teologo di origini tedesche Jean Coman, in un volume pubblicato dalla Facoltà di Teologia protestante dell’Università di Strasburgo nel 1931, esamina l’idea di Nemesis in Eschilo, individuando nella divinità un carattere ctonio che si trasforma, nel corso del tempo, in olimpio per ragioni mora-
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Schlesier 1994. Rohde 1970 [1890–1894], 208 e ss. Harrison 19102, 1–12. Il contesto scientifico che fece da sfondo alla costruzione delle categorie di ctonio e olimpico è ben illustrato da Konaris 2016, 245–253. Jost 1985, 288. Polinskaya 2014, 63 e 79–80 con una chiara discussione sulla validità del paradigma “Olimpio-Ctonio” e della dicotomia tra dèi Olimpi e Ctoni. Cfr. per esempio Coman 1931, 29–33.
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li.63 Lo studioso sembra partire da un’idea preconcetta di Nemesis per poi applicarla alla lettura delle tragedie eschilee. Dedica un’intera monografia alla nemesis in Eschilo, benché, in tutta l’opera del tragediografo, la dea sia evocata soltanto due volte: la prima come Adrastea (Prom. 936) e poi in TrGF 3 Fr. 266, sui cui versi si tornerà più avanti.64 Il primo capitolo del volume di Coman è incentrato sulle “origini” della divinità. In queste pagine, prendendo le mosse dai precedenti studi sull’argomento, lo studioso aderisce all’ipotesi formulata da Posnansky in merito alla prossimità della divinità ad Artemide. Illustra il carattere “ctonio” della divinità con il rinvio alla parentela con Notte, potenza generatrice di altre forze legate alla terra e al sottosuolo. L’identificazione con Artemis-Cibele e la condivisione dello stesso spazio sacro di Ramnunte con Themis, gli consente inoltre di annoverarla nella lunga lista delle divinità della vegetazione. A completare il carattere ctonio di Nemesis chiamava in causa il rapporto con la morte, espresso nella celebrazione dei Nemeseia,65 cui Coman, sulla scorta di Erwin Rohde e di Adrien Legrand, dava il senso di una festa apotropaica, celebrata con lo scopo di prevenire la collera dei parenti che non hanno ricevuto i riti funebri66. Nella ricostruzione dello studioso, Nemesis si trasforma poi in una divinità olimpica grazie alla natura morale assegnatale dall’unione con Zeus.67 Tale classificazione di Nemesis come divinità dal carattere vagamente ctonio e legato alla terra ha avuto discreta fortuna sino agli studi più recenti, tanto da passare, come vedremo, anche nelle presentazioni della dea all’interno di enciclopedie e dizionari68. L’ipotesi è stata, tuttavia, contestata da Emmanuel Laroche, in uno studio lessicale dedicato ai termini della radice nem-.69 Lo studioso mette in discussione il collegamento tra il nome di Nemesis e il significato “faccio pascolare” del verbo nemo, che ha fornito una prova a favore dell’interpretazione della divinità come entità collegata alla terra e alla vegetazione, come aveva proposto lo stesso Coman. Laroche puntualizza infatti che tale significato del verbo nemo è senza dubbio più recente di Nemesis e ritiene che la divinità non abbia mai avuto né un carattere vegetale né animale.70 Tuttavia, nel capitolo dedicato al culto della dea a Ramnunte, finisce con l’ammettere che il santuario fosse dedicato a una non meglio precisata divinità “ctonia”, e che in Attica essa aveva un aspetto infernale, attestato proprio nell’istituzione dei Nemeseia.71
63 Coman 1931, 10. 64 Basta leggere la recensione che sul volume scrisse Puech 1932 per comprendere le perplessità e i dubbi che esso sollevò tra gli studiosi. 65 Dem. 41.11. 66 Coman 1931, 32; Rohde 1970 [1890–1894], 238–239, n. 2; Legrand 1907a. Sui Nemeseia, feste in onore di Nemesis a Ramnunte. si tornerà più avanti (infra p. 237 e ss.). 67 Coman 1931, 39. 68 Cfr. infra p. 32. 69 Laroche 1949. 70 Ibid., 90. 71 Ibid., 105.
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Talora, la designazione di divinità “ctonia” è stata affiancata o sostituita con quella di divinità “agraria” che non aiuta a comprendere meglio questa figura divina. Nella ricostruzione dell’archeologo Vasileios Chr. Petrakos che ha condotto gli scavi nel demo di Ramnunte, Nemesis è infatti divinità degli agricoltori e dei pastori, e che si occupa di mantenere il corretto equilibrio nella distribuzione delle terre e delle acque.72 Per quanto non si possa che apprezzare il lavoro di questo studioso, che ha riportato alla luce una gran messe di materiali, consegnando il quadro di una realtà complessa e vitale come quella della comunità demotica di Ramnunte, la definizione di Nemesis come divinità “agraria” – o in generale legata al mondo vegetale – non sembra possa essere interamente condivisibile e tra l’altro non sufficientemente supportata dalla documentazione.73 Un riesame delle evidenze documentarie, potrà consentire senz’altro la restituzione di un quadro più articolato e composito. Lo stesso vale per il paradigma che classifica le divinità greche in “olimpie” e “ctonie” che, sebbene abbia avuto grande fortuna nella storia degli studi, e sia stato periodicamente messo in discussione, per essere poi riproposto con nuova forza e altri argomenti, non fornisce di fatto una griglia interpretativa davvero efficace.74 La dicotomia su cui si fonda appare, infatti, poco utile a definire il profilo di una divinità e il suo rapporto con il territorio. E a individuare le aspettative che in essa riponevano gli Antichi e il modo in cui facevano appello ad essa. Più proficuo sembra invece attenersi al dettato delle fonti, evitando di sovrapporre – facendo nuovamente appello a un’espressione di R. Parker – “etichette vaghe” alla polisemia dei termini greci e delle descrizioni che ricorrono della documentazione.75 3.6 Nemesis nelle opere di consultazione (enciclopedie, dizionari e lessici) Nel Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (1751–1780), curato da Denis Diderot e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert, la voce “Némésis” è del Cavaliere Louis de Jaucourt, nobile medico francese e fecondo collaboratore dell’Encyclopédie. A lui si devono la gran parte degli articoli pubblicati nel repertorio che, nell’intenzione dei due editori, doveva costituire un compendio pienamente accessibile del sapere sino ad allora prodotto dall’umanità, in cui trovava espressione un’ormai avvenuta secolariz72 73
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Petrakos 1999a, 188. Su Nemesis, quale divinità della vegetazione, cfr. Dietrich 1965, 161. Contra Stafford 2000, 86. Come osserva R. Parker, tale interpretazione deriva dalla necessità di comprendere il motivo per il quale questa divinità ricevesse tali onori – a quanto pare – solo in questa regione dell’Attica, ma l’idea che Nemesis fosse originariamente una divinità della natura non trova nessun sostegno nel suo stesso nome che difficilmente può essere dissociato da un orizzonte di tipo morale (Parker 2005, 406–407). Scullion 1994. Parker 2011, 286.
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zazione della conoscenza e una sua emancipazione dall’impronta teologica che aveva caratterizzato opere simili nel Medioevo. Pubblicata nel 1765, all’interno dell’XI tomo,76 le notizie sulla divinità greca Nemesis risentono molto della maniera con cui il suo redattore soleva trattare le fonti, ora trascrivendole parola per parola, ora con aggiunte personali, ora con gravi omissioni e con correzioni.77 Benché avesse studiato le lingue antiche e le letterature classiche, la sua presentazione si limita a un centone di notizie assemblate senza alcuna profondità storica. Le testimonianze di Esiodo e di Pausania sono riunite in un’unica notizia che fa di Nemesis la figlia di Oceano e di Notte e la presenta come divinità punitrice preposta alla vendetta dei crimini lasciati impuniti dalla giustizia umana e che sanziona l’arroganza, la presunzione e la perdita di sé nei momenti di prosperità («oubli de soimême dans la prospérité»). Particolare attenzione è assegnata agli attributi della dea: la ruota, le ali e la corona. Sullo sfondo si legge l’eco della descrizione della statua di Nemesis a Ramnunte riportata in Pausania. Jaucourt però al ramo di melo sostituisce una lancia e alla phiale una bottiglia («la bouteille qu’elle tient de l’autre main, est le miroir qu’elle présente sans cesse aux yeux de ceux qu’elle ménage»). Nessuna menzione vi ritroviamo delle statue di Nike sulla corona, ma grande attenzione è riservata ai cervi, presentati quali simbolo di longevità. Una vita lunga – spiega Jaucourt – ha maggiori possibilità di incorrere nei rivolgimenti della sorte; mentre il giovane che muore anzitempo è meno soggetto ai cambiamenti di fortuna. Nella testimonianza di Platone, infine, Jaucourt individua la spiegazione dell’origine della devozione per questa divinità nel paganesimo. Il filosofo infatti attribuisce alla dea una sensibilità particolare rispetto alle offese dei figli nei confronti dei loro padri,78 e ritiene che sia proprio il rimorso legato a tale crimine ad avere dato luogo alla nascita della divinità. Alla metà del ‘700, la voce dell’Encyclopédie su Nemesis rifletteva lo stato delle conoscenze dell’epoca sulla divinità, essenzialmente basate sulla raccolta delle fonti antiche e sui repertori di Emblemata dei secoli precedenti, cui la nascita della moderna archeologia solo in seguito avrebbe potuto fornire conferme o smentite. Su presupposti completamente diversi infatti è costruito il saggio contenuto nell’Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie (1884–1937), curato da Wilhelm H. Roscher. Le indicazioni dell’editore di raccogliere articoli rigorosamente fondati sulle fonti, accompagnate dalla descrizione e la riproduzione dei monumenti dell’arte figurativa,79 sono scrupolosamente seguiti da Otto Roßbach (1858–1931), autore della voce “Nemesis”. Pubblicato nel primo tomo del terzo volume, l’articolo dello studioso si giova grandemente delle nuove scoperte archeologiche. Sono rela-
76 Jaucourt 1751. 77 Sull’uso delle fonti da parte di Jaucourt, cfr. Doolittle 1950; Morris 1979, 38–59. 78 Plat. Leg. 4.717d 1–5. 79 Gli obiettivi e il piano dell’opera sono esplicitamente dichiarati da Roscher nella sua “Vorrede” al Lexikon, cfr. Roscher 1886, V–VIII.
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tivamente recenti, infatti, le esplorazioni della Società dei Dilettanti in Attica, ad opera degli inglesi William Gell e degli architetti John P. Gandy Deering e Francis Bedford. La visita al sito di Ramnunte nel 1813 consentì a un giovanissimo Gandy le prime rilevazioni e i primi disegni del tempio di Nemesis, poi pubblicati a Londra nel 1817 in The Unedited Antiquities of Attica.80 Gli scavi ripresero poi a partire nel 1890 a Ramnunte per opera di Valerios Stais, portando alla luce altro materiale. L’articolo di Roßbach è anche una summa della bibliografia fino ad allora esistente sull’argomento. Il saggio di Herder e la monografia di Posnansky vi sono largamente citati. Il lavoro inoltre presenta un accurato censimento delle fonti letterarie, archeologiche, numismatiche fino ad allora disponibili e uno studio approfondito dell’iconografia della statua di cui propone un’attenta ricostruzione. L’organizzazione della materia riflette un criterio rigorosamente diacronico e l’obiettivo di fondo è quello di pervenire, ancora una volta, attraverso la giustapposizione delle testimonianze alla descrizione del Wesen della divinità. Un approccio più divulgativo, in linea con gli obiettivi dell’opera per certi versi vicini a quelli della stessa Encyclopédie di Diderot e d’Alembert,81 ha l’articolo “Nemesis” del Dictionnaire des Antiquités grecques et romaines (DAGR 1877–1919) a cura di Charles Daremberg, Edmond Saglio ed Edmond Pottier, redatta da Adrien Legrand.82 Il saggio si caratterizza principalmente per un approccio diffusionista che assegna al santuario di Smirne la precedenza cronologica rispetto a quello di Ramnunte. Dalle sedi di Smirne e di Ramnunte il culto si sarebbe poi esteso a poche altre regioni del mondo greco, trattandosi di una figura che si è definita piuttosto tardi e spesso unicamente grazie all’apporto dei poeti che insistono in modo impreciso e confuso su una forma di giustizia immanente di cui la dea sarebbe stata solo successivamente l’espressione. Il tentativo di circoscrivere “l’essenza” (das Wesen) della divinità impegna più a fondo il redattore della voce “Nemesis” della Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft che compare nel XVII volume, nel 1935. Ad opera del filologo di Bonn, Hans Herter (1899–1984), il saggio presenta una sezione specificatamente dedicata all’argomento che discute la molteplicità degli ambiti nei quali si dispiega il potere della dea, dal rapporto con la sfera dei morti, al suo carattere ctonio, al suo ruolo di vendicatrice e di sanzionatrice della hybris e conseguentemente alla sua funzione di custode del “giusto mezzo”, per concludere poi con i rapporti con la magia e la sfera erotica. Fedele all’approccio positivista che caratterizza l’impianto della “Pauly-Wissowa”, l’articolo di Herter si segnala principalmente per la mole di dati raccolti sul tema, organizzati per sezioni e per la ricchezza dell’aggiornamento degli studi scientifici fino ad allora disponibili.
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Miles 1989, 139–140. La somiglianza tra le due opere è messa in evidenza da Dondin-Payre 2006. Legrand 1907b.
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Un analogo sforzo di catalogazione del materiale con un taglio specificamente iconografico, sulla scia dell’ormai superato Roscher, è quello proposto dal più recente saggio di Pavlina Karanastasi, Federico Rausa e Rainer Vollkommer all’interno del Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae, pubblicato all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.83 In questo saggio, la figura di Nemesis in Grecia e nel mondo greco è distinta da quella onorata a Roma e nelle province occidentali dell’Impero che fanno l’oggetto di una trattazione a parte. Un terzo capitolo è inoltre dedicato alle rappresentazioni della dea nella periferia orientale dell’Impero. All’interno della parte relativa al mondo greco, che è quella che ci interessa per gli obiettivi di questo volume, le rappresentazioni iconografiche della dea nei santuari di Ramnunte e di Smirne sono separate l’una dall’altra e contestualizzate storicamente. L’analisi della statua di Ramnunte assegna, come tutti gli studi precedenti, una centralità alla testimonianza di Pausania e al rapporto tra la dedica dell’opera e la vittoria degli Ateniesi a Maratona che è messa in relazione anche con la presenza della figura di Nemesis su un anforisco del Pittore di Heimarmene, conservato a Berlino.84 Sul vaso è riprodotta una scena parimenti tratta dai Canti Ciprii in cui si riproducono le nozze tra Paride ed Elena. Tutti questi elementi hanno indotto gli Autori della voce enciclopedica a dare per valida la contestualizzazione del culto di Ramnunte nella temperie storica delle guerre persiane, di cui proprio la guerra di Troia costituiva nell’immaginario greco «das mythische Spiegelbild».85 3.7 Worshipping virtues: Nemesis come “personificazione” La figura di Nemesis è stata investita di particolare attenzione, soprattutto nell’ambito degli studi sulle cosiddette “personificazioni”, definite negli studi moderni come rappresentazioni antropomorfe di oggetti inanimati o concetti astratti, cui è conferito uno statuto divino86. Il ruolo di queste figure nel sistema religioso dei Greci costituisce tuttora un problema difficile da circoscrivere, con cui diversi studiosi si sono misurati, interrogandosi sull’adeguatezza della denominazione, sulle eventuali alternative, sulle
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Karanastasi/Rausa/Vollkommer 1992. Pittore di Heimarmene, Staatliche Museen zu Berlin, Antikensammlung n. inv. 30036 (ca 430 a. C.). Su questo anforisco, cfr. ancora infra p. 106, n. 65. Karanastasi/Rausa/Vollkommer 1992, 756. A questi saggi, va aggiunto l’ultimo in ordine di tempo pubblicato nel 2015, alla voce “Nemesis” nell’The Encyclopedia of Ancient History da Wittenberg 2015, in cui si attribuisce genericamente alla divinità una natura «sincretistica», senza però illustrarne, come sarebbe auspicabile, le ragioni. Allo stesso studioso si deve uno studio monografico che indaga, sulla scia del precedente volume di Hornum 1993, il rapporto tra Nemesis e i ludi romani, prendendo le mosse dall’analisi delle rappresentazioni iconografiche della dea reperibili negli anfiteatri: Wittenberg 2014. Borg 2002, 49–50; Stafford 2000, 4; Stafford/Herrin 2005, XIX; Smith 2011, 2.
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figure da annoverare in questa “categoria”, e sul ruolo da assegnare ad esse nell’ambito dell’universo religioso dei Greci e delle trasformazioni cui andò incontro nel corso dei secoli. Già Hermann Usener (1834–1905) concluse il suo Götternamen (Bonn 1896) proprio con un capitolo dedicato agli Abstrakte Gottesbegriffe, inserendole nel quadro di una concezione evoluzionistica della religione greca, in base alla quale la divinizzazione dei fenomeni naturali diede luogo, innanzitutto, ai cosiddetti Augenblicksgötter, da cui in una fase successiva emersero prima i Sondergötter, “divinità speciali”, e poi le divinità personali, i cui epiteti saranno plasmati proprio a partire da tali astratti divinizzati.87 Diametralmente opposta è invece la ricostruzione di Ludwig Deubner (1877–1946) che riteneva invece “gli astratti divinizzati” figure divine nate, quasi per “scissiparità”, dagli dèi personali.88 Altri hanno messo in evidenza l’insufficienza del termine “personificazione” per definire gli astratti o gli esseri inanimati divinizzati. Thomas B. L. Webster, per esempio, ha limitato il campo d’indagine alle forme inanimate cui sono attribuiti aspetti e qualità che definiscono normalmente gli esseri umani: la fisicità e il movimento, la capacità di pensiero e di provare sentimento, il genere maschile o femminile.89 Lo studioso inoltre ha individuato, nell’attitudine a “personificare”, una componente fondamentale del modo di pensare greco in costante concorrenza con la tendenza a “schematizzare”, e ha proposto una scala decrescente in base alla quale, a seconda della forza dell’emozione che dà loro forma, possono essere suddivise in deifications, strong personifications, weak personifications e technical terms.90 Si tratta, secondo Webster, di uno status non acquisito per sempre, perché, a parte alcune eccezioni come Themis o Dike, alle personificazioni di concetti astratti viene attribuito uno statuto divino solo in momenti di grave crisi, come accade per esempio nel caso di Ate, la colpa, ricordata come «figlia di Zeus», nel discorso di Agamennone nell’Iliade.91 Più o meno sulla stessa linea si colloca anche Walter Pötscher,92 che ha distinto le personificazioni intese come categoria poetica, ovvero concetti o oggetti inanimati cui è riconosciuta una forma umana all’interno della narrazione, da quelli che definisce invece «Person-Bereich-Denken», interpretati come una categoria specifica della “religione pagana”, che consiste in una sovrapposizione tra la divinità e il suo campo d’azione, di cui quest’ultimo finisce per costituire il tratto caratterizzante la sua personalità. Pötscher propone a sua volta una classificazione delle cosiddette “personificazioni”, in base al grado di personalità che esse esprimono. Figure con una forte personalità sono considerate, per esempio, Gaia-gaia; Ouranos-ouranos; Okeanos-okeanos. Altre invece 87 88 89 90 91 92
Usener 1896, 364–375. Sull’approccio evoluzionista di H. Usener si vedano le osservazioni del tutto condivisibili di Miano 2018, 10. Deubner 1902–1909. Webster 1954, 10. Ibid., 13–14. Ibid., 13. Pötscher 1959; Pötscher 1972.
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come Nemesis sono state annoverate tra quelle “personificazioni”, come Eros e Nike, la cui personalità è considerata «più sbiadita» (blasser), rispetto a quelle del gruppo precedente. Per finire, una terza classe è formata da quelle figure, la cui personalità emerge solo occasionalmente.93 Nell’ambito di tali classificazioni, oscuri però restano i parametri di valutazione in base ai quali la personalità di una figura divina può essere più o meno marcata e quindi meritevole di essere inserita nel primo, nel secondo o nel terzo gruppo. Un criterio più volte invocato, già a partire da Martin P. Nilsson in poi,94 è l’esistenza di un culto; un parametro quest’ultimo che ha a lungo costituito una spia per l’individuazione di classi omogenee di “personificazioni”. Alla base del ragionamento dello studioso svedese sta però una concezione evoluzionistica secondo cui i culti destinati a “personificazioni”, che aumentano dal IV sec. in poi, sarebbero il portato dell’«erosione» (Aushöhlung) della fede tradizionale e della critica ai comportamenti delle divinità antropomorfe. Presenti in Omero come creazioni poetiche o, con funzione etica, nei poemi di Esiodo, le “personificazioni”, in età arcaica, figurano talora come una sorta di epiteto delle «grandi divinità» che, nel corso del tempo e per ragioni oscure, ha assunto un’identità autonoma. Il culto, ad esse riservato, diventa sul finire dell’età classica, secondo Nilsson, «ein Appell des Glaubens an die göttliche Kraft als solche».95 Sulla scia delle conclusioni di Nilsson, nel 1964, Friedrich W. Hamdorf presenta, in un’unica monografia, i culti delle “personificazioni” di età pre-ellenistica: una raccolta che, al di là degli obiettivi dichiarati, tuttavia non va oltre il mero catalogo, per di più costruito secondo un approccio fenomenologico, che pone la “personificazione” alla base della conoscenza umana.96 In tempi più recenti, altri studiosi invece si sono sforzati di esaminare queste figure, raggruppandole secondo una prospettiva che conferisse omogeneità a un corpus, consentendone un’analisi più organica. Harvey A. Shapiro, per esempio, ha enucleato quelle che popolano l’arte greca, costruendo un catalogo alfabetico che, anche in questo caso, però non si spinge oltre la pura compilazione.97 Emma Stafford, la cui monografia dà il titolo a questo paragrafo, ha preferito concentrare la sua attenzione su quegli astratti, virtù, stati d’animo e valori, il cui un culto è attestato nelle fonti.98 Amy C. Smith, infine, ha organizzato la propria riflessione intorno alla rappresentazione delle “personificazioni” nell’arte ateniese di età classica.99 All’interno di questi studi, Nemesis ha spesso occupato un posto di rilievo e in tanti hanno riconosciuto il suo carattere peculiare, o «borderline», come la definisce 93 Pötscher 1972, col. 661–662. 94 Nilsson 1952, 39. 95 Ibid., 40. 96 Hamdorf 1964. 97 Shapiro 1993. 98 Stafford 2000. 99 Smith 2011.
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Emma Stafford,100 per il suo essere a metà tra la divinità e la personificazione. Inoltre, è tra le poche a possedere un culto piuttosto longevo, e forse l’unica cui erano dedicati templi e santuari, che godevano di così ampia considerazione in tutto il mondo greco. Esaminarla però nell’ambito di una categoria così problematica come quella della “personificazione”, non necessariamente può contribuire a una più profonda comprensione di questa figura. Tra l’altro, il termine in sé ha una storia che lambisce il mondo antico soltanto in modo marginale. In sé, l’espressione personificatio101 ricorre a partire dal Medioevo e corrisponde al concetto attestato solo in età ellenistica προσωποποιία che si riferisce alla rappresentazione, sotto forma antropomorfa, di oggetti inanimati o concetti astratti cui è attribuita la parola e la capacità di agire. Il termine προσωποποιία viene impiegato, per la prima volta, in un trattato di retorica antica variamente datato dal III sec. a. C. al I d. C., attribuito a un certo Demetrio, talora erroneamente identificato con il politico e oratore ateniese Demetrio del Falero. In quest’opera, intitolata De elocutione, l’autore definisce la prosopopea uno schema dianoias, una figura di pensiero, atta a conferire allo stile una maggiore potenza espressiva (πρὸς δεινότητα).102 Per Quintiliano, invece, la prosopopea è una figura audacior che prevede l’introduzione nel discorso di personaggi fittizi e consente di variare e animare il discorso e che, anche secondo il parere di Cicerone, richiedeva «polmoni più forti» e quindi un retore particolarmente dotato.103 Stando a quanto riportato nei trattati di retorica, quel che si può dire della prosopopea è che essa è percepita come un artificio che garantisce al discorso una maggiore intensità ed efficacia espressiva e gli assicura in sostanza una dynamis particolare. E proprio di dynamis parla il filologo bizantino Giovanni Tzetzes commentando i versi delle Opere e Giorni di Esiodo: Ἰστέον, ὅτι πάντα οἱ Ἕλληνες, ἃ δύναμιν ἔχοντα ἑώρων, οὐκ ἄνευ ἐπιστασίας θεῶν τὴν δύναμιν αὐτῶν ἐνεργεῖν ἐνόμιζον. ἑνὶ δὲ ὀνόματι τό τε τὴν δύναμιν ἔχον καὶ τὸν ἐπιστατοῦντα τούτῳ θεὸν ὠνόμαζον· Occorre sapere che tutte le cose che i Greci vedono avere dynamis, essi ritengono che tale potere non agisca senza l’autorità degli dèi. Chiamano con lo stesso nome il potere e il dio che sovraintende ad esso. Tzetzes, Schol. Hes. Op. I 279–282
Benché tardo, il commento di Tzetzes ai versi esiodei fornisce una via d’accesso privilegiata alla fabbrica della costruzione del divino del mondo greco, evidenziando il pre100 Stafford 2000, 75. 101 Messerschmidt 2003, 1. 102 Demetr. Eloc. 265. 103 Quint. Inst. 9.2, 29; Cic. Or. 25.85.
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supposto fondamentale in base al quale i Greci accordavano una forma di devozione a determinati elementi. Tre operazioni Tzetzes individua nel processo di fabbricazione di questa categoria di divino: in primo luogo, la percezione e il riconoscimento di una dynamis; l’attribuzione di tale dynamis alla sfera del divino; e, infine, l’assegnazione di un nome che identifica il dio con il potere che esso controlla. Alla base vi è sempre e comunque il riconoscimento di una forza ed è in questi termini che tali figure vanno esaminate. E del resto già, negli anni sessanta del secolo scorso, Jean-Pierre Vernant aveva affermato in uno studio divenuto ormai un classico: «Les dieux helléniques sont des puissances, non des personnes».104 Con queste parole – come hanno sottolineato le curatrici di un volume recentemente pubblicato e dedicato all’efficacia euristica della nozione di “puissance divine”, anche in altri contesti religiosi105 – lo studioso si svincolava da una visione biblica, in cui il divino era interpretato quale «sujet agissant»,106 per promuovere una lettura sistemica dell’universo religioso dei Greci, nell’ambito del quale ogni potenza agisce in quanto elemento di una complessa rete relazionale che assicura unità e coerenza alla configurazione divina di riferimento. Gli dèi sono dunque potenze e non persone, diversamente da quanto sosteneva Walter Burkert ponendo l’accento sulla soggettività che ad essi è attribuita all’interno dei racconti mitici.107 Essi non agiscono in autonomia, ma come parti di un sistema fluido, capace di trasformarsi, di adattarsi, organizzarsi a seconda delle esigenze locali, delle contingenze storiche o in risposta a momenti di crisi. Se dunque è tale il ruolo delle divinità greche; se è alla potenza che esse esprimono all’interno del sistema, in relazione alle altre divinità, che occorre guardare, allora appare evidente che il termine “personificazione” non può essere quello più adeguato a definire entità, quali la stessa Nemesis.108 Come intendere, allora, questa operazione che consente di riconoscere e quindi di assegnare uno statuto divino a elementi naturali, idee, valori ed emozioni, nel rispetto delle concezioni religiose dei Greci? Ebbene, se alla base di questo processo sta la percezione di una dynamis, capace di incidere sulla vita dei mortali, l’attribuire ad esse uno statuto divino ed eventualmente un culto ne moltiplica la forza e la capacità d’azione. È un’operazione che potrebbe essere assimilata a quella che nel linguaggio matematico si definisce “elevazione a potenza”, laddove la base è rappresentata dal nome trasparente, sia che si tratti di un’emozione, di un’idea, di un concetto astratto o di un elemento naturale, mentre il grado dell’esponente è dato dall’incidenza e dalla forza che ad esso è riconosciuta nell’esistenza 104 Vernant 2001a [1965], 79. 105 Albert-Llorca/Belayche/Bonnet 2017, 5–6. 106 Ibid., 5–6. 107 Burkert 2011, 281: «Die griechischen Götter sind Personen und keine Abstraktionen, Ideen, Begriffe; théos kann Prädikat sein, ein Göttername in mythischer Erzählung ist Subjekt». 108 Già Polinskaya 2014, 81 ha sottolineato come le «astrazioni personificate» non rientrino tra le classificazioni «emiche» dei Greci.
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mortale e che può concretizzarsi in diverse forme: dall’evocazione del loro nome nelle preghiere, all’istituzione di culti e di aree sacre ad esse dedicate. Potenze riconosciute come tali possono quindi trovarsi a sistema con le altre divinità che regolano il kosmos o che sono onorate all’interno di un medesimo contesto. L’assegnazione di un volto, di un prosopon, di una persona – la personificazione quindi – è invece l’esito di un processo diverso che risponde alle esigenze di una rappresentazione iconografica, narrativa o retorica. Per queste ragioni, appare più fecondo l’approccio adottato diversi anni fa da Jean Rudhardt,109 nel suo volume dal titolo Themis et les Horai. Recherches sur les divinités grecques de la justice et de la paix. Evitando, per lo più, il ricorso alla nozione di “personificazione”, lo studioso si riferisce a tali figure indicandole come “divinità cosmiche”. Soprattutto egli pone tutta una serie di domande al dossier documentario che mirano alla comprensione del loro ruolo in quella fitta rete di relazioni che attraversa il sistema religioso dei Greci, e nella fattispecie: qual è la posizione che Themis e le figlie generate da Zeus occupano nella “società degli dèi”? Quale la relazione tra la nozione che esse incarnano e la loro funzione come personaggi mitici? Come si accorda il piano della razionalità con quello della riflessione mitica? Si tratta di due sviluppi separati o vi è una logica che li connette? Esiste infine una convergenza tra i messaggi che veicolano?110 Tutti questi sono interrogativi che, mutatis mutandis, possono rivelare un’efficacia euristica, se applicati anche al dossier di fonti relative a Nemesis, consentendoci di aggirare la più scomoda e decisamente più ambigua categoria di “personificazione” e spingendoci a concentrare l’attenzione sul piano della potenza divina e del ruolo che essa svolge nei diversi contesti in cui è inserita e invocata e sul rapporto che essa intrattiene con la nozione da cui trae il suo nome. A questo proposito senz’altro d’aiuto possono essere le analisi condotte più di recente da Anna Clark e da Daniele Miano in ambito romano. Entrambi gli studiosi hanno rinunciato all’utilizzo della categoria di “personificazione”, per ricorrere rispettivamente alle nozioni di Divine qualities e di Conceptual Divinities.111 A. Clark ha definito “divine” quelle qualità che hanno ricevuto un culto nell’antica Roma, in età repubblicana, riconoscendone il forte valore identitario e soprattutto rilevandone la pertinenza tanto con la sfera linguistica, quanto con quella religiosa; e quindi tanto con la “materialità” legata alla pratica di culto (templi, feste, sacerdoti), quanto con il livello cognitivo del lessico diffuso e impiegato in diversi contesti e all’interno di diversi gruppi sociali.112 Esse occupavano così uno spazio d’intersezione e di reciproca corrispondenza tra l’orizzonte concettuale e l’ambito fisico di organizzazione e diffusione del culto, tanto da annullare la distinzione tra il concetto d’uso corrente e la divinità oggetto di culto. 109 110 111 112
Rudhardt 1999. Rudhardt 1999, 14. Clark 2007 e Miano 2018 e 2019. Clark 2007, 16.
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Su quest’ultimo aspetto, più critico è D. Miano che ha invece cercato di esplorare il ruolo di Fortuna, alla luce dei più recenti studi sul politeismo antico, definendo “concettuali” quelle divinità il cui nome coincide, per l’appunto, con un concetto.113 Lo studioso recupera la nozione di “personificazione” limitandola però alla sfera della retorica e puntualizzando come invece possa esistere un discrimine, benché mobile e negoziabile tra concetto e divinità, anche in presenza di un culto. In particolare, sottolinea il processo di trasformazione cui possono andare incontro i concetti nel corso del tempo, ma anche la molteplicità di significati che possono veicolare, a seconda del loro impiego da parte di persone e gruppi diversi. È un approccio quest’ultimo che contribuisce allo studio del politeismo, nella misura in cui considera la storia delle idee come un elemento determinante nelle trasformazioni religiose e, nella fattispecie, nella relazione tra le diverse potenze divine, anche quando esse portano il nome di concetti astratti. 3.8 Impulsi, stati d’animo ed emozioni: la nemesis dei Greci da Eric R. Dodds alla History of Emotions Che il termine nemesis con i suoi derivati veicoli, in prima istanza, l’espressione di una pulsione emotiva è un dato di fatto. I poemi omerici presentano diverse occorrenze del sostantivo e delle voci verbali denominative ad esso collegate, come nemes(s)ao, nemesizomai, o dell’aggettivo verbale nemessetos, cui è affidata prevalentemente l’esternazione umana dell’indignazione e della riprovazione sociale.114 Più che agli agenti di giustizia, nemesis appartiene soprattuto alla sfera emotiva dei Greci e rappresenta per lo studioso moderno una preziosa chiave interpretativa per l’esplorazione degli standard sociali di comportamento; delle situazioni e degli atteggiamenti considerati riprovevoli e delle conseguenze derivanti da atti capaci di sollecitare una forma di censura pubblica. Eric R. Dodds (1893–1979), nella sua ormai classica indagine sull’importanza dei fattori irrazionali nell’esperienza religiosa dei Greci, ha fatto di nemesis uno degli elementi della sua interpretazione della società greca come caratterizzata da un lento e graduale passaggio da una forma di cultura, come quella omerica, segnata da una forte spinta al conformismo e dal rispetto degli standard sociali, in cui la conservazione della time, ovvero della propria parte di onore in seno al gruppo di riferimento, è il bene supremo (shame culture), a una società in cui la mancata osservazione dei limiti e delle obbligazioni imposte genera un profondo senso di colpa (guilt culture).115 La nemesis è quindi chiamata in causa all’interno di questa riflessione ora come espressione del113 Miano 2018, 8. 114 Cfr. infra cap. I–II. 115 Dodds 2005 [1951], 59–60 e 71–72.
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la disapprovazione pubblica, il cui timore garantisce aderenza a standard condivisi di comportamento; ora come agente di giustizia, ovvero come espressione moralizzata dell’“invidia” divina (phthonos) che colpisce l’uomo per il successo raggiunto.116 Per quanto sia stimolante la ricostruzione di Dodds, tuttavia tracce di un tale automatismo e di una «graduale e incompleta transizione»117 dalla civiltà della vergogna alla civiltà della colpa sono difficili da isolare nelle fonti. Già il filosofo Bernard Williams, allievo di Dodds a Oxford, nell’ambito delle stesse Sather Lectures dell’Università di Berkeley in cui il maestro aveva precedentemente presentato le conferenze confluite poi nel volume The Greeks and the Irrational, aveva messo in discussione i presupposti su cui si basava tale ricostruzione. Dodds, infatti, prendeva le mosse da due considerazioni di fondo: in primo luogo, sulla scia delle riflessioni dello studioso tedesco Bruno Snell, egli riteneva che l’eroe omerico fosse privo di una propria personalità e di una coscienza morale e, per questo, incapace di sviluppare una nozione di colpa e di responsabilità individuale. In secondo luogo, egli leggeva nell’attitudine dell’eroe omerico a spiegare tratti del proprio carattere in termini di conoscenza (attraverso il verbo oida) la convinzione che tutto quanto andasse al di là di tale conoscenza non fosse parte del carattere e fosse quindi spia di un intervento esterno.118 Diverso è invece il punto di vista di Williams che rifiuta l’idea in base alla quale i personaggi omerici non fossero agenti morali e ritiene assolutamente operativa, all’interno dei poemi omerici, la nozione di responsabilità.119 A proposito poi della transizione postulata da Dodds dalla società della vergogna a quella della colpa, Williams assegna invece maggiore rilevanza al sentimento della vergogna, precisando tuttavia che, nel mondo greco, essa comprendeva in qualche modo anche la colpa.120 La distinzione tra civiltà della vergogna e della colpa derivava a Dodds dalla lettura del saggio dell’antropologa americana Ruth Benedict (1887–1948), Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, che l’aveva applicata alla sua analisi della società nipponica quando, nel 1944, l’Office of War Information degli Stati Uniti le commissionò uno studio, con l’obiettivo di anticipare il comportamento dei Giapponesi. Il libro, pubblicato nel 1946, all’indomani di Hiroshima, presentava uno spaccato della società nipponica costruito – per stessa ammissione dell’autrice – su fonti di seconda mano e senza un’osservazione diretta, resa peraltro impossibile dal conflitto in corso. Sulla base quindi del contatto con Giapponesi, residenti in America e della lettura di libri, romanzi o visioni di film e sceneggiati prodotti in Giappone, la Benedict restituì il quadro di una società che, contrariamente al ritratto che ne tracciava la propaganda di guerra, appariva sensibile alla sanzione esterna e al senso della vergogna, e per questo distante dalla società
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Ibid., 70 n. 110 e 74. Ibid., 71. Ibid., 57–58. Williams 2007 [1993], 63–85. Ibid., 111.
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americana in cui la coscienza individuale si costruisce in relazione a modelli etici forti e su una sanzione di tipo interno, rappresentata dal senso di colpa, che il singolo può alleviare ricorrendo all’istituto della confessione.121 Ora, sembra evidente che l’unico tratto che il mondo greco condivideva con la società nipponica della metà del XX sec. era quello di offrire agli studiosi un accesso quanto meno limitato e superficiale alla conoscenza dei dispositivi che ne regolavano il funzionamento. E tuttavia, l’applicazione di questo modello alla Grecia arcaica e classica ebbe una discreta fortuna. Condivideva per esempio l’approccio evoluzionistico di Dodds un altro suo allievo, Arthur W. H. Adkins che, nell’altrettanto classico Merit and Responsibility. A Study in Greek Values (1960), pubblicato per la prima volta in traduzione italiana nel 1964, difendeva l’idea del progresso graduale da un contesto culturale, come quello omerico, caratterizzato, per lo più, da valori competitivi e da una persistente aspirazione alla time, a un orizzonte di valori collaborativi in cui si afferma una nozione di responsabilità personale che tuttavia è molto distante nei termini e nei contenuti da quella moderna. In Adkins il senso della nemesis, non troppo approfondito, appare poco significativo nell’ambito di un orizzonte di valori competitivi che sono essenzialmente finalizzati al raggiungimento del successo personale e della fama e ad evitare il disonore.122 Negli anni Novanta Douglas Cairns,123 in un ampio studio dedicato alla nozione di aidos, è tornato a mettere in discussione l’applicabilità dell’interpretazione di Dodds al mondo greco, osservando come i concetti di vergogna e di colpa possano essere per i Greci ora sovrapponibili ora alternativi l’uno all’altro, senza che vi sia una regola precisa. L’attenzione dello studioso invece si concentra sull’espressione emotiva dell’aidos di cui egli esplora la complessità di significati che raccoglie, sottolineando alla fine del suo percorso come il termine incroci tanto la salvaguardia della time individuale quanto il rispetto di quella altrui.124 Cairns individua con precisione la stretta relazione che intercorre tra l’aidos e la nemesis. Analizzandola in riferimento ai poemi omerici, egli evidenzia come un pieno controllo dell’aidos da parte dell’eroe omerico consenta a quest’ultimo di prevedere ed evitare l’insorgere della nemesis negli altri.125 Approfondite analisi sulle espressioni della nemesis sono state proposte, nel quadro dell’emotional turn126 che ha attraversato gli studi sull’antichità greca e latina, nell’ultimo trentennio.127 Sulla scia delle ricerche condotte sull’argomento nell’ambito delle
121 Benedict 2009 [1946], in part. p. 244–246. 122 Adkins 19872 [1960], 63–86. Williams 2007 [1993], 98, puntualizza, dal canto suo, come l’aidos e la nemesis siano valori «intersoggettivi» che possono tanto dividere quanto legare gli individui. 123 Cairns 1993. 124 Ibid., 432. 125 Ibid., 62 e ss. 126 Chaniotis 2012a, 12. 127 Cfr. per esempio, Cairns 1993; Cairns 2003; Braund/Most 2003; Konstan 2006; Borgeaud/Rendu Loisel 2009 e 2010; Bouvier 2011; Konstan 2011; Scheid-Tissinier 2012; Chaniotis 2012b; Chaniotis/ Ducrey 2013; Sanders 2014.
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scienze sociali, l’efficacia euristica dell’approccio alla sfera emotiva degli antichi è stata esplorata per verificare analogie e differenze, forme di identità, manifestazioni di devianza o alterità, sia all’interno dello stesso universo culturale sia nel confronto tra orizzonti culturali differenti.128 Le espressioni e le manifestazioni della nemesis sono state, a più riprese, rilette nell’ambito di questa nouvelle vague di studi sull’immaginario emotivo dei Greci e più volte ne è stata messa in evidenza la complementarità con l’aidos e il collegamento con il punto di vista dell’osservatore esterno che reagisce ad atti lesivi della time o comunque incompatibili con i parametri condivisi di comportamento.129 Altri hanno messo in evidenza la relazione del termine nemesis con le manifestazioni della rabbia.130 Non ancora esplorata, per quel che mi risulta, in relazione a nemesis, è la prospettiva che indaga i contesti e le ragioni che conducono all’insediamento di un culto riservato a un’emozione cui è assegnato uno spazio santuariale. La questione in sé pone diversi interrogativi: il culto dedicato ad uno stato emotivo è spia delle modalità in cui la comunità stessa lo percepisce, oppure è indizio della volontà e dell’opportunità di sollecitarlo presso i suoi membri, o è l’una e l’altro insieme?131 In relazione a queste domande, Nemesis è di certo un caso esemplare, che può fornire molto materiale di riflessione, trattandosi di una divinità, espressione di un’emozione, che ha ricevuto un culto importante, soprattutto in Attica e a Smirne. Un utile termine di confronto, in questo senso, può essere offerto dalla testimonianza di Plutarco sul culto di Phobos a Sparta: Ἔστι δὲ Λακεδαιμονίοις οὐ Φόβου μόνον, ἀλλὰ καὶ Θανάτου καὶ Γέλωτος καὶ τοιούτων ἄλλων παθημάτων ἱερά. τιμῶσι δὲ τὸν Φόβον οὐχ ὥσπερ οὓς ἀποτρέπονται δαίμονας ἡγούμενοι βλαβερόν, ἀλλὰ τὴν πολιτείαν μάλιστα συνέχεσθαι φόβῳ νομίζοντες. I Lacedemoni hanno non solo un santuario dedicato a Phobos, ma anche a Thanatos, a Gelos e ad altri pathemata di questo genere. Onorano infatti Phobos non come quelle potenze che si vogliono allontanare, poiché lo ritengono pericoloso, ma perché pensano che la politeia sia soprattutto tenuta insieme dalla paura. Plut. Cleom. 9.1
Sparta era dunque sede di diversi culti destinati ai pathemata. Il santuario di Phobos, tra l’altro, godeva di una particolare centralità, trovandosi in prossimità del syssition degli efori ed era forse incluso nell’ephoreion.132 Le fonti, infatti, testimoniano di onori
128 Chaniotis 2012a, 16–17. 129 Cfr. supra p. 43, n. 127. 130 Harris 2001, 53; Cairns 2003; Scheid-Tissinier 2012, 276–279. 131 Cfr. le questioni poste a questo proposito da Chaniotis 2012a, 18. 132 Sul culto dei pathemata a Sparta, Richer 1999 e 2012, 45–100. In particolare, sul culto di Phobos, Mactoux 1993.
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riservati, oltre che a Thanatos o a Gelos anche ad Aidos, a Hypnos, a Eros e Limos.133 Il passo di Plutarco, tuttavia, offre delle indicazioni interessanti rispetto alle possibili ragioni che potevano indurre determinate comunità a investire specifici pathemata di un culto divino. La prima ragione è apotropaica e risiede nella visione negativa attribuita al pathema in questione, sentito come un daimon di cui si vuole stornare l’influenza; la seconda è invece strettamente collegata all’utilità del pathema e agli effetti positivi che esso esercitava sulla comunità e nella fattispecie sulla stabilità della politeia. Tale era, per esempio, anche la forza di Eros, cui gli Spartani erano soliti dedicare sacrifici prima della battaglia, per cementare il senso di philia tra i soldati, dal quale dipendevano largamente la vittoria e la salvezza della città.134 Altrettanto positivamente erano percepiti gli effetti del riso sulla comunità, tanto che Licurgo decise di erigere una statua di Gelos per celebrare questa reazione umana, capace di alleggerire la fatica e la pesantezza della vita. Ai versi di Omero invece rinvia il culto dei due fratelli Hypnos e Thanatos,135 come dice espressamente Pausania, il cui ricordo connesso all’episodio di Sarpedonte, che i due messaggeri di Zeus s’incaricano di portare lontano dal campo di battaglia, perché possa ricevere gli onori funebri destinati agli eroi.136 La devozione riservata a Hypnos e Thanatos è dunque in stretta relazione con l’aspirazione a una morte gloriosa sul campo di battaglia, tema tipicamente spartano ripreso solo più tardi negli epitafi funerari ateniesi.137 Sempre alle vicende omeriche, è connesso il culto di Aidos, la cui statua, a trenta stadi da Sparta, fu eretta dal padre di Penelope, Icario, il giorno in cui la figlia decise di lasciare il padre per seguire Odisseo a Itaca. Di fronte a Icario che insisteva per fare trasferire Odisseo a Sparta, quest’ultimo rivolse alla donna un ultimatum, chiedendole di scegliere se tornare dal padre o partire con lui. Davanti a questa richiesta, la donna non rispose, ma semplicemente si velò il volto e in questo modo Icario capì che era suo desiderio seguire il marito e, in quel luogo, fece erigere la statua, che diventò così uno spazio sacro, significativamente posto al di fuori della città, atto a celebrare il perenne reiterarsi di stati d’animo che accompagnano il distacco della giovane sposa, nel momento in cui lascia la casa del padre. Una separazione che si realizza concretamente attraverso l’interruzione del contatto visivo con il padre e che avviene attraverso il gesto di coprirsi col velo. Alcuni dei pathemata cui gli Spartani riservarono una forma di devozione, sono tra l’altro evocati da Senofonte nella descrizione dell’educazione dei giovani spartiati.138 Ad assisterli nel loro percorso vi erano aidos e peitho, e limos che li spingeva a ruba133 Paus. 3.18, 1; Sos. FGrHist 595, F. 19 ap. Plut. Lyc. 24.4; Paus. 3.20, 10–11; Callisth. FGrHist 124, f. 13 ap. Ath. 10.75, 20; Polyaen. Strat. 2.15. 134 Sosicr. FHG IV p. 501 = FGrHist 461, f. 7 ap. Ath. 13.12, 20 (561 e–f) e Paus. 3.26, 5 (a Leuttra). 135 Cfr. Il. 14.231. 136 Paus. 3.18, 1. 137 Musti/Torelli 2008, 232 commento ad loc.; Loraux 1977. 138 Xen. Lac. 2.3 e 6.
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re il cibo. Un’elegia di Tirteo, inoltre, elencava le emozioni e le affezioni che i soldati spartani condividevano sul campo di battaglia o suscitavano negli altri: thanatos, aidos, phobos, eros e nemesis.139 Si delinea così un network di pathemata che assicurava forza e coesione alla comunità spartana cui anche i giovani dovevano essere educati. Sul modello spartano, le ragioni cui si riconduceva il culto dedicato a questi stati emotivi o fisici, lo spazio riservato ad essi all’interno del paesaggio religioso della città, la funzione politica e sociale che era ad essi riconosciuta, l’immagine della comunità che tale culto intendeva promuovere, tutti questi elementi possono costituire un’ulteriore guida per l’analisi del caso ateniese e aggiungere altre possibili coordinate di riferimento alla nostra griglia di lettura utili a comprendere la risonanza del culto di Nemesis nel contesto regionale dell’Attica e in quello locale di Ramnunte. Penetrare quindi il significato di nemesis come emozione, il suo ruolo sociale e le modalità con cui essa viene espressa e da quali gruppi; comprendere come cambia la percezione di questa emozione nel corso del tempo in che termini essa garantisce il controllo sociale sono tutte domande che possono consentire di avvicinarsi al senso e all’importanza della devozione che le era riservata in Attica. 4. Approccio e metodologia 4.1 Politeismo e Snowball theory? Nell’ambito di una riflessione critica sulla metodologia e gli strumenti utili all’analisi del politeismo greco, Robert Parker afferma: In the Greek conception, therefore, individual gods had a portfolio of exclusive functions. But the texts do not state or imply that the functions within such a portfolio have any organizing center; they are presented as series of separate competences. There is therefore no objection from texts to what one might call the snowball theory of the Greek gods, the idea that as a god rolls down through history it picks up new functions and powers that need not cohere with its original nature or with one another: rather like a multinational company that starts out selling records and ends up running an airline.140
Questa dichiarazione è il punto di partenza di una riflessione critica sull’efficacia dell’approccio strutturalista allo studio delle divinità greche. Sotto esame sono le conclusioni di Jean-Pierre Vernant e di Marcel Detienne e il loro modello “sperimentale” di analisi nel campo del politeismo.141 Pur riconoscendo la validità di alcuni assunti come, per esempio, la capacità di ogni divinità di agire in un’ampia varietà di ambiti, 139 Tyrt. Fr. 10 West, menzionata anche dall’oratore Licurgo nella Contro Leocr. 107. 140 Parker 2011, 86. 141 Detienne 1997 e Vernant 2007.
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Parker mette in discussione l’idea che le divinità abbiano «a central defining core» che si definisce attraverso una modalità d’azione specifica. Benché infatti la sfera d’azione di una divinità possa identificarsi grosso modo in quel che, nelle fonti antiche, è indicato con il termine time, un analogo corrispondente non sembra esistere in greco per la “modalità di azione” cui Vernant e Detienne, sulla scia dei lavori di Georges Dumézil,142 attribuivano grande rilevanza per lo studio del funzionamento del politeismo greco. Vero è però che la documentazione consente talora di circoscrivere peculiarità precise dell’agire divino, come accade per esempio per Afrodite, la cui azione è marcata da un potere conciliatorio che mira al mantenimento della coesione; oppure ancora nel caso di Atena, il cui procedere è contrassegnato dalla metis. Parker, dal canto suo, sottolinea la possibilità che i principi unificanti possano essere di varia natura e che non sempre sia possibile definirli con precisione. Tra l’altro – puntualizza – anche laddove si riuscisse a identificare a livello delle tradizioni narrative dei possibili indicatori utili a distinguere con precisione il modo di agire di una divinità da quello di un’altra, che certezza possiamo avere che tale conoscenza fosse sufficientemente diffusa e praticata a livello cultuale? L’approccio strutturalista, secondo Parker, presuppone che ogni uomo greco disponesse di un «database of theological knowledge»,143 cui faceva appello consapevolmente. Ma la critica maggiore che lo studioso di Oxford rivolge a tale approccio, sottolineata anche nei più recenti lavori sul politeismo greco,144 è che la ricerca del “principio unificante” in grado di definire univocamente l’azione di una divinità, finisce per concretizzarsi nel rifiuto di eccezioni, trasformazioni, mutamenti, sviluppi imprevisti e quindi in sostanza in un mancato riconoscimento del ruolo della storia.145 Ebbene, che nell’analisi di una figura divina debba rientrare una contestualizzazione nello spazio e nel tempo della documentazione che la riguarda sembra un truismo. Che inoltre il suo profilo sia soggetto a variazioni e mutamenti che procedono di pari passo, e talora sono determinate dal cambiamento delle aspettative delle comunità che si rivolgono ad essa, dalle trasformazioni religiose, sociali, e culturali del territorio in cui è onorata, sono considerazioni che non solo bisogna avere presente, ma che possono fare da apripista in questo tipo di analisi. Il ruolo riconosciuto a una divinità da un gruppo di individui e il modo in cui questi ultimi scelgono di onorarla e rappresentarla sono, in primo luogo, un fatto storico. La sua funzione all’interno di un sistema religioso va compresa e studiata in relazione al contesto immediato di riferimento.
142 Sull’influenza di G. Dumézil sui lavori di J.-P. Vernant, cfr. Pirenne-Delforge/Scheid 2017, 35. Riguardo al contributo di Dumézil allo studio del politeismo antico, si veda Detienne 1997, 59–61, con relativi riferimenti bibliografici. 143 Parker 2011, 94 e 107. 144 Versnel 2011, 26–36 e passim; Polinskaya 2014, 24. 145 Parker 2011, 89. Così anche Polinskaya 2014, 67.
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Da qui la scelta di delimitare il campo di questa ricerca, puntando la lente d’ingrandimento sul territorio dell’Attica e, in particolare, sul demo di Ramnunte; studiando la figura di Nemesis nell’interazione con il territorio, con i demoti e con il resto della popolazione dell’Attica, con le altre divinità onorate a livello locale e regionale, attraverso una longue durée che va dal VII sec. a. C. al II sec. d. C., nella convinzione che uno sguardo ravvicinato, attento al dato storico e ai mutamenti sociali, possa consentire di cogliere le riconfigurazioni cui solevano andare incontro i microsistemi politeistici, nel corso del tempo, e di individuare anche i meccanismi che li regolavano e che permettevano ai Greci di riconoscersi e di parlare lo stesso lessico religioso. L’approccio adottato si propone quindi di mettere alla prova il principio alla base della snowball theory, procedendo allo studio della documentazione relativa a Nemesis, per vedere come, nel corso del tempo, si modifichi la percezione delle sue funzioni, del suo profilo, del suo modo di agire sulla vita dei mortali, tentando di isolare le costanti, le variabili in gioco, gli elementi ricorrenti come gli aspetti obliterati. L’obiettivo è quello di condurre un’indagine che guardi al politeismo come oggetto storico.146 La storia che si tenterà di ricostruire non deve essere intesa in senso lineare, come una discesa libera dal passato più antico a quello più recente, ma come un processo complesso che si nutre di diversi apporti, che si costruisce su confronti e comparazioni; che tiene conto di interazioni e scambi con contesti di diversa natura e di diversa grandezza, ma soprattutto che guarda alle divinità greche non come entità che attraversano i secoli, accumulando prerogative, ma come potenze il cui profilo accentua specifici aspetti rispetto ad altri, reagendo alle trasformazioni del paesaggio religioso e delle configurazioni divine di cui sono parte. 4.2 Nemesis e la tensione irriducibile tra livello “locale” e “panellenico” Il tentativo di ricostruzione del profilo di una divinità, delle sue interazioni con altre potenze nell’ambito di un determinato contesto, delle relazioni che con essa stabiliscono gli uomini e delle funzioni sociali che essa svolge, si scontra subito con una sostanziale difficoltà: la tensione – talora irriducibile – tra l’immagine della stessa divinità quale emerge dalle rappresentazioni letterarie, spesso condivise a livello panellenico, e le forme in cui è onorata nello spazio locale. Diverse sono state le interpretazioni proposte di fronte a tali evidenti disallineamenti; diverse anche le soluzioni addotte: alcuni studiosi hanno individuato, nel livello cosiddetto “panellenico” e in quello locale, l’impiego di media e di linguaggi diversi.147 Altri hanno riconosciuto, al di là dei tratti di “incoerenza”, un principio unificante in grado di armonizzare, attraverso una sottile
146 Pirenne-Delforge 2018. 147 Cfr. a questo proposito le considerazioni di Mikalson 2005, 32–38.
Approccio e metodologia
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rete di rimandi e di prospettive incrociate, l’immagine tradizionale della divinità con le varianti locali, quasi che la prima venga a rispecchiarsi parzialmente nelle seconde, mentre queste ultime finiscono per completare l’immagine della prima, favorendone, a loro volta, la conoscenza.148 Christiane Sourvinou-Inwood in particolare ha tentato di spiegare storicamente le motivazioni e la natura di questo scarto. L’isolamento e la frammentazione delle comunità nel periodo del cosiddetto Medioevo ellenico sarebbero stati la causa dello sviluppo separato nelle diverse città della Grecia di differenti “pantheon”. Le singole divinità si sarebbero costruite, dall’VIII sec. in poi, attraverso il dialogo e l’interazione tra l’aspetto e le funzioni che i centri panellenici e la poesia assegnavano loro e quelli che ad esse si riconosceva a livello locale. La “personalità”149 della divinità sull’orizzonte locale doveva, secondo la Sourvinou-Inwood, essere studiata separatamente dalla sua immagine “panellenica” e poi messa in relazione con essa.150 Al di là dell’impiego fuorviante dei termini “persona” e “personalità”, riferiti a potenze divine, l’approccio della Sourvinou-Inwood sembra comunque difficilmente potersi applicare al caso di Nemesis, e forse non solo ad esso. Nel caso di Atene (come anche in generale per tutte le poleis greche) non è sempre possibile tracciare una linea di demarcazione netta tra fonti riconducibili al livello panellenico e tradizioni panelleniche recepite e valorizzate a livello locale. Le questioni che bisogna porsi sono piuttosto di altra natura. In primo luogo, si deve stabilire quanto sia utile, ai fini della comprensione dei meccanismi di funzionamento della religione greca, questa rigida dicotomia tra dimensione locale e panellenica.151 Si tratta davvero di compartimenti stagni o siamo di fronte a universi reciprocamente comunicanti? In secondo luogo, occorre chiedersi quali di questi contesti possano, a buon diritto, definirsi locali: lo spazio del demo rispetto al più ampio orizzonte poleico? Insieme a questi problemi, bisognerà interrogarsi sull’operatività della nozione di “panellenico” che rappresenta una categoria fluida e non sempre facile da circoscrivere. Una volta affrontate tali questioni, si potranno finalmente esplorare le modalità di articolazione di tali spazi a geometria variabile. 148 Sugli aspetti di «inconsistency» che caratterizzavano l’interazione dei Greci con le loro divinità, si veda Versnel 2011, 83–84 e per una sintesi delle diverse posizioni, cfr. Polinskaya 2014, 15–25. La questione è posta in altri termini da Pirenne-Delforge 2020, 187–204, che preferisce parlare di una tensione costante tra l’orizzonte locale e quello panellenico, o meglio, tra il “generale” e il “particolare”. 149 Sourvinou-Inwood 1991 [1978], 149–150. Sulla relazione tra orizzonte locale e orizzonte “panellenico” e sul ruolo della polis in queste dinamiche, si veda Ead. 1990. 150 Un metodo analogo sembra proporre Mikalson 2005, 37, a dispetto delle obiezioni mosse alla sua ricostruzione proprio da Chr. Sourvinou-Inwood: «[…] if we wish to understand the deities of practiced Greek religion, we must begin with the myths, rituals, and functions of the gods at individual sanctuaries […] and only then see what epic, panhellenic features these same gods exhibited». Per la ricostruzione del dibattito tra Chr. Sourvinou-Inwood e J. Mikalson rinvio a Versnel 2011, 517–525. 151 Si vedano a questo proposito le importanti riflessioni di Beck 2020, in part., 125–133.
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La Nemesis degli Antichi e dei Moderni
Il santuario di Ramnunte costituisce un laboratorio ideale per esaminare questo genere di dinamiche, poiché nel corso della sua storia esso raggiunse un carattere e una risonanza di livello transpoleico, con un rovesciamento di prospettiva tra orizzonte locale e sovraregionale che fa del culto tributato a Nemesis in Attica un caso meritevole di attenzione, proprio nel quadro di un’indagine che si propone di mostrare possibilità ed esiti imprevisti del politeismo antico. Dal campo di ricerca, individuato in questo volume, quindi resteranno fuori le altre attestazioni del culto di Nemesis nel resto del mondo greco, se non occasionalmente per singoli confronti puntuali. Lo stesso vale per il complesso dossier delle due Nemesis di Smirne che ha fatto l’oggetto di un’analisi a parte, cui mi permetto di rinviare.152 5. La documentazione e il percorso Esplorare la figura di Nemesis in Grecia, come si è visto anche dalla storia degli studi che si è cercato di ricostruire, è impresa piuttosto laboriosa. È un tema che richiede la messa in campo di competenze di varia natura, sollecitando una riflessione articolata su più piani: quello storico, quello storico-religioso, quello della storia locale, quello della storia delle emozioni, quello delle rappresentazioni dei Greci in relazione alla giustizia divina, quello della ricezione dell’antico. Sarà, di conseguenza, necessario misurarsi con diverse categorie di fonti, incrociando i dati e interrogandoli tramite approcci metodologici differenti. Considerato questo complesso ed eterogeneo quadro documentario, un’accurata selezione delle testimonianze da sottoporre ad analisi diventa presupposto imprescindibile per il raggiungimento degli obiettivi di questa ricerca. Prima di puntare lo sguardo su Ramnunte, punto d’arrivo del nostro percorso, sarà necessario tentare di penetrare il significato e l’uso del termine nemesis, per comprendere, attraverso l’esame delle fonti letterarie, la natura della relazione tra l’emozione, attribuita ora ai mortali ora agli immortali, e la divinità omonima. Il diverso impiego del sostantivo e dei termini derivati non sempre consente di operare una facile reductio ad unum che possa condurre ad isolare un’unica nozione coerente e circoscritta. Come spesso accade, il quadro è molto più complesso e veicola una molteplicità di contenuti, indizio di importanti trasformazioni sociali e culturali di cui occorre ricostruire le linee. Pertanto, sarà quanto mai opportuno contestualizzare storicamente le testimonianze per mostrare come eventuali slittamenti di senso o variazioni nella frequenza delle occorrenze possano svelare i contorni di una radicale rivoluzione valoriale che comportò un chiarirsi del significato e del campo di applicazione della nemesis.
152 Bonanno 2022.
La documentazione e il percorso
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Dai poemi omerici fino alla sistematizzazione aristotelica di IV secolo e talora ben oltre, si isoleranno dunque tutte le testimonianze utili alla costruzione di un dossier, finalizzato alla comprensione del background culturale dei demoti di Ramnunte che alla dea Nemesis dedicarono uno dei culti più longevi della storia della religione greca. Il percorso è articolato in tre parti: la prima (cap. I–II) esplora l’orizzonte umano della nemesis per passare poi a esaminare i contesti e gli effetti di una nemesis degli dèi tanto quando essa è espressione dell’emotività di un divino identificato con un teonimo, tanto quando invece è attribuita a un divino indistinto e non individualizzato. La seconda parte (cap. III–VI) è dedicata alla ricostruzione del profilo divino di Nemesis, dalle tradizioni sulla sua genealogia ai racconti mitici che ne raccontano le prerogative, fino alla rassegna delle diverse denominazioni con cui era invocata, per concludere con un esame del ruolo che l’emozione e la figura divina svolgono nella riflessione filosofica di Aristotele, in cui il piano delle rappresentazioni letterarie e quello della pratica religiosa si intersecano nell’elaborazione di un’originale teoria della giustizia. La terza e ultima parte (cap. VII), infine, si focalizza sulle pratiche cultuali che la documentazione proveniente dal demo attico di Ramnunte, consente di ricostruire e offre una mappatura delle diverse istanze cui una divinità come Nemesis era chiamata a rispondere. L’indagine porterà a restituire, per quanto possibile, la storia del termine per esplorarne i quadri di utilizzo e scoprire quanto essi abbiano contribuito a costruire, alimentare ed eventualmente modificare la rappresentazione della dea di Ramnunte e quanto, viceversa, il culto tributato a quest’ultima abbia, a sua volta, cooperato a modificare la storia e gli impieghi del termine, in una tensione reciproca, tra il livello panellenico e quello locale, o più precisamente tra il macrocosmo delle rappresentazioni letterarie greche e il microcosmo di questa piccola realtà demotica e del suo contesto territoriale.
Capitolo primo Adesione e devianza. Quando la nemesis è un’emozione umana
1. Riflessioni preliminari a partire dall’universo omerico della nemesis I poemi omerici offrono senz’altro un terreno d’analisi privilegiato per esplorare il senso e il significato dell’astratto nemesis, da cui prende il nome la divinità omonima. Con sessantasette occorrenze complessive, tra aggettivi e voci verbali riconducibili al termine, l’Iliade e l’Odissea forniscono una prima base di partenza per questa indagine, non in forza di un mero criterio cronologico, ma proprio per la frequenza con cui il sostantivo e i suoi derivati sono impiegati, rispetto a tutto il resto della letteratura greca, mettendo a disposizione dello studioso uno spettro di situazioni sufficientemente ampio e coerente, utile a esplorare in profondità le situazioni in cui la nemesis viene evocata, sollecitata o paventata. All’interno dei poemi omerici – è bene sottolinearlo subito – il sostantivo nemesis, così come le voci verbali denominative nemessao e nemesizomai e l’aggettivo nemessetos designano una reazione emotiva che può scatenarsi in una gamma estremamente variegata di circostanze, per lo più individuabili all’interno delle seguenti categorie di azioni: il mancato rispetto del codice eroico in guerra, l’inversione dei ruoli gerarchici, l’infrazione delle regole dell’ospitalità e delle norme di regolazione del gruppo. In generale, il ricorso a tali termini serve ad esprimere l’indignazione che esplode in risposta a un comportamento socialmente censurabile, manifestando pertanto il senso della disapprovazione pubblica e della sanzione sociale. Gli studiosi – come già accennato in precedenza1 – in maniera concorde, hanno letto tale emozione come la controparte dell’aidos, ovvero quel senso di riverenza, di pudore soggettivo che gli uomini provano nei confronti delle loro stesse azioni. Tanto l’aidos, espressione della vergogna individuale, quanto la nemesis, indignazione verso i comportamenti altrui attivano dei meccanismi inibitori e dei dispositivi di controllo sociale che orientano verso l’ade-
1 Cfr. supra p. 43.
La prima vittima della nemesis: Tersite, l’akritomythos
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sione a modelli di comportamento condivisi e cementano la coesione all’interno del gruppo.2 Nella stragrande maggioranza dei passi omerici, la nemesis è attribuita a esseri mortali. Tuttavia, uomini e donne, a seconda delle varie classi d’età, presentano rispetto ad essa differenti gradi di sensibilità e percepiscono, in modo altrettanto differente, le situazioni che possono suscitarla negli altri. Solo di rado essa viene raccontata come un’emozione divina e, ancor più raramente, essa ha come destinatari i mortali, che – come vedremo – non sembrano temerne gli effetti. Nelle pagine che seguono si esploreranno le situazioni in cui agisce la nemesis, assumendo come terreno di esplorazione, in prevalenza, i poemi omerici che forniranno, per così dire, una cornice guida. Quando opportuno, tuttavia, si opereranno sistematici confronti con il corpus tragico. Si traccerà quindi un profilo dei soggetti coinvolti, individuando eventuali differenze di genere nella percezione della nemesis; si esamineranno i parametri sociali che ne regolano le modalità di rappresentazione e le conseguenze che un mancato senso della nemesis può generare; si testeranno infine i meccanismi di funzionamento di realtà sociali, come quelle descritte non solo nei poemi omerici ma anche in altre opere, in cui emozioni quali la nemesis e l’aidos intervengono a regolare le modalità di azione e interazione nelle dinamiche di gruppo. Non sempre però, almeno per quel che riguarda il corpus tragico, sarà facile distinguere con chiarezza la menzione del teonimo da quella dell’emozione e per sciogliere eventuali riserve sarà indispensabile un’analisi capillare dei contesti di enunciazione. 2. La prima vittima della nemesis: Tersite, l’akritomythos Il primo moto di indignazione, che il mondo greco ci restituisce è registrato nell’Iliade, tramite il ricorso al verbo nemes(s)ao, ed è riferito all’attitudine degli Achei nei confronti di Tersite:3 di quest’ultimo essi non sopportavano il vociare confuso e ingiurioso con cui rivolgeva accuse ai re. Le conseguenze dell’avversione che scatena l’agire di quest’uomo, apostrofato come il più brutto giunto sotto la rocca di Ilio4, sono facilmente misurabili dalla maniera con cui egli viene estromesso dall’assemblea
2 Sull’aidos: Von Erffa 1937; Cairns 1993; Rudhardt 2001; sulla relazione di complementarità tra aidos e nemesis: Laroche 1949, 90–91; Robertson 1964, 3; North 1966, 6 (che le definisce efficacemente: «twin sanctions of the heroic age»); Long 1970; Turpin 1980; Scott 1980; Ricciardelli Apicella 1994 (con uno status quaestionis); Redfield 19942, 115–118; Lévy 1995, 193–208; Konstan 2006, 117; Williams 2007 [1993], 97–98; Scheid-Tissinier 2012, 276–279; Koch-Piettre 2014, 29 e 2016, 83–86 e più di recente Cozzo 2020, 27 che propone una lettura dell’aidos intesa come «riguardo attento a tener conto dell’opinione pubblica e l’indignazione pubblica stessa che sorgerebbe se l’aidos non venisse osservata». 3 Cfr. Hom. Il. 2.220–278. 4 Hom. Il. 2.216.
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Adesione e devianza
degli eroi da parte di Odisseo. In un momento fortemente drammatico della narrazione, in cui il Laerziade cerca di trattenere i compagni, pronti a salpare sulle navi, abbandonando l’assedio di Troia, Tersite prende la parola, rivolgendo accuse tanto ad Agamennone, accusato di essere avido delle ricchezze del bottino di guerra, tanto agli Achei, che incita violentemente a riprendere la via di casa. Il desiderio di immediata censura che il parlare di Tersite genera nei compagni e le modalità attraverso cui essa si concretizza, possono misurarsi proprio nella reazione di Odisseo. Il Laerziade interpreta il sentire collettivo, minacciando di cacciare il soldato, a suon di percosse, fuori dallo spazio dell’assemblea, luogo privilegiato della deliberazione, in cui le questioni di interesse comune, per essere discusse, vengono poste es meson, affinché abbiano piena pubblicità e consistenza. In questi termini Odisseo formula la sua intimidazione: Però ti dico e questo avrà compimento; se ancora a far l’idiota ti colgo, non resti più la testa di Odisseo sulle spalle, non più di Telemaco possa chiamarmi padre, s’io non ti acciuffo, ti spoglio delle tue vesti, mantello e tunica, che le vergogne ti coprono, e ti rimando piangente alle rapide navi fuori dall’assemblea, percosso da colpi infamanti. Hom. Il. 2.257–2645
La minaccia del Laerziade si trasforma solo parzialmente in azione, perché egli, impugnando lo scettro, simbolo della regalità e strumento della parola autorevole, percuote le spalle e il petto Tersite, costringendolo a tornare al suo posto, e riscuotendo così il plauso e la soddisfazione di tutti gli Achei presenti. La reazione di Odisseo dà il senso degli effetti che una nemesis condivisa può provocare: Tersite, capace di accendere un’indignazione profonda in tutti gli Achei (τῷ δ’ ἄρ’ Ἀχαιοὶ ἐκπάγλως κοτέοντο νεμέσσηθέν τ’ ἐνὶ θυμῷ),6 viene umiliato, battuto, ridotto in lacrime e minacciato, suscitando l’ilarità dei presenti.7 L’intervento determina l’immediata approvazione degli Achei e viene paradossalmente riconosciuto come quanto di più bello Odisseo abbia mai fatto, a dispetto dei suoi ben più gloriosi exploit in guerra.8 L’eroe trasforma in azione l’impulso dei compagni di mettere a tacere il soldato, definito ἀκριτόμυθος 5
Le traduzioni dei passi omerici impiegate in questo volume, benché talora leggermente modificate, sono di Calzecchi Onesti. 6 Hom. Il. 2.222–223. 7 «Disse così (scil. Odisseo), e con lo scettro il petto e le spalle percosse; quello si contorse, gli cadde una grossa lacrima, un gonfio sanguinolento si sollevò sul dorso sotto lo scettro d’oro; sedette e sbigottì dolorando, con aria stupida si rasciugò una grossa lacrima: gli altri scoppiarono a ridere di cuore di lui, benché afflitti …» (Hom. Il. 2.265–270). 8 Hom. Il. 2.272–274.
Giovani a confronto con la nemesis: Telemaco, Paride e Achille
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(«dal parlare confuso»), e di punire le sue accuse ingiuriose nei confronti dei re e di tutto l’esercito. Odisseo diventa così l’esecutore materiale di una sanzione sociale che stabilisce, sulla base del danno ricevuto e della posizione dell’individuo all’interno del gruppo, le sue norme di applicazione. La nemesis degli Achei nei confronti di Tersite trova il primo luogo di espressione proprio nello spazio aperto dell’assemblea dell’esercito in armi, ambito di messa in pratica di codici comportamentali, ai quali il soldato non riesce a conformarsi. Egli usurpa il centro di questo spazio per prendere la parola al posto dei basileis scettrati; rivolge accuse ad Agamennone e a tutti gli Achei, senza temerne la reazione. La conseguenza è un’immediata marginalizzazione e la minaccia di un’umiliazione ancora più bruciante: quella di essere messo a nudo, completamente esposto su quello stesso luogo pubblico che aveva inopportunamente violato e di essere quindi intimamente colpito nell’aidos, ed escluso con disonore dalla comunità degli Achei. La vicenda di Tersite il cui nome, dopo questo episodio, scompare dai versi di Omero, è però significativamente inserita all’inizio di un poema che celebra l’adesione a codici di comportamento volti a preservare l’integrità del gruppo, e serve a illustrare non tanto il modello dell’antieroe, ma più semplicemente quello del disadattato, incapace di rispettare tempi e modi di interazione con la comunità di appartenenza, indifferente ai rapporti di natura gerarchica, e incurante dell’effetto che le sue parole e azioni possono avere sugli astanti. L’umiliazione che Odisseo gli infligge davanti a tutti gli Achei serve da monito ai presenti: da lì in poi la nemesis altrui sarà una reazione che gli eroi omerici faranno di tutto per evitare, mettendo in atto tutta una serie di contromisure volte ad aggirarla. 3. Giovani a confronto con la nemesis: Telemaco, Paride e Achille Al vociare confuso e privo di discernimento di Tersite, nell’Iliade, motivo di indignazione per tutti gli Achei, fa da contrappunto l’atteggiamento composto di Telemaco, figlio di Odisseo, che mostra, nell’Odissea, un controllo consapevole della nemesis e delle occasioni in cui è opportuno manifestarla o sollecitarla negli altri. Al polo opposto, rispetto al giovane principe di Itaca, si collocano, da un lato, l’instabilità emotiva di Achille, continuamente preda delle proprie passioni, e dall’altro l’indifferenza del troiano Paride, che viceversa sembra proprio ignorare la nemesis. I comportamenti, messi in atto dai tre giovani eroi, rivelano tre diverse sensibilità rispetto alla maniera di percepire e di declinare la nemesis, i cui esiti andranno letti in relazione alla loro particolare vicenda personale e ai rispettivi contesti di appartenenza sociale. Tre attitudini differenti che orienteranno l’immagine di questi personaggi anche nelle successive riprese della loro vicenda mitica.
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Adesione e devianza
3.1 Contromisure per prevenire la nemesis: la parola prudente e l’ospitalità corretta di Telemaco Nel primo canto dell’Odissea, mentre assiste impotente allo scempio dei pretendenti che spadroneggiano in casa sua, vagheggiando il ritorno del padre, Telemaco si accorge dell’arrivo di uno straniero, rimasto in piedi alla sua porta.9 Si tratta in realtà di Atena che, sotto le mentite spoglie di Mentes, è giunta a Itaca, per incoraggiarlo a partire alla volta di Pilo e Sparta, in cerca di notizie sul padre. La nemesis scatta quasi automatica nel giovane, quando si rende conto che una grave violazione alle regole di ospitalità ha appena avuto luogo nella sua casa: l’ospite è rimasto fermo sulla soglia senza essere ricevuto. Sotto l’onda dell’emozione, Telemaco si affretta ad attivare tutta una serie di procedure di riparazione: si fa incontro alla dea e stabilisce con lei un contatto fisico, attraverso la stretta di mano, quale lasciapassare per l’ingresso in casa. Il mancato rispetto del codice di ospitalità era tra i fattori che maggiormente determinavano l’insorgere della nemesis tra i membri di un gruppo. Alcuni versi del XVII libro dell’Odissea ne spiegano le ragioni. Qui la violenza e le parole irrispettose di Antinoo, uno dei pretendenti, nei confronti del mendicante, dietro le cui spoglie si cela Odisseo, suscitano la nemesis acuta di tutti gli altri (οἱ δ’ ἄρα πάντες ὑπερφιάλως νεμέσησαν). I motivi che determinano il manifestarsi di questa disapprovazione corale sono attribuiti alla convinzione che dietro le sembianze dell’ospite maltrattato possa nascondersi una divinità in incognito, venuta a sovraintendere tanto alla hybris, quanto all’eunomia degli uomini.10 La nemesis con cui rispondono i pretendenti corrisponde a una vera e propria presa di distanza da parte del gruppo rispetto al comportamento del compagno. Questa reazione corale è probabilmente determinata dal timore che la punizione divina, evocata nei versi precedenti da Odisseo con un appello alle Erinni dei poveri,11 possa abbattersi, non solo su Antinoo, colpevole di aver maltrattato l’ospite, ma su tutti loro. Il disprezzo per le regole dell’ospitalità, da parte dei pretendenti, contrasta con il rispetto e il contegno che invece Telemaco mostra di avere.12 E poiché,
9 Hom. Od. 1.113–124. 10 Hom. Od. 17.481–487. 11 Hom. Od. 17.475. 12 Diversi sono i gradi di percezione della nemesis anche tra i pretendenti. Significativo è a questo proposito lo scambio di battute tra Leode e Antinoo nel canto XXI dell’Odissea. Il primo, sacerdote (θυοσκόος), è presentato come il solo a provare indignazione nei confronti dei pretendenti (Hom. Od. 21. 147: πᾶσιν δὲ νεμέσσα μνηστήρεσσιν). Egli, al momento della gara con l’arco, indetta da Penelope su suggerimento di Atena per scegliere chi avrebbe potuto prendere il posto di Odisseo accanto a lei, cede di fronte alla difficoltà della prova, dichiarando che l’arma sarebbe stata causa di rovina per i migliori. Le sue parole generano a sua volta lo sdegno di Antinoo (Hom. Od. 21. 169: νεμεσσῶμαι δέ τ’ ἀκούων) che lo rimprovera, perché ha preconizzato la rovina dei suoi compagni, soltanto perché non in grado di tendere l’arco. Nel canto XXII, l’uno e l’altro cadono comunque vittime della vendetta di Odisseo e a poco serve la supplica di Leode rivolta al Laerziade. A dispetto della disapprovazione con cui guardava alle malefatte dei pretendenti, tentando di porvi un
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in fin dei conti, l’Odissea è, per eccellenza, il poema in cui questo sistema di norme è continuamente messo alla prova e validato, non è un caso che le manifestazioni della nemesis si trovino spesso in connessione con violazioni, reali o eventuali, dei vincoli d’ospitalità, percepiti come veri e propri attentati al prestigio dell’oikos. Telemaco così cerca di mettere alla prova l’inclinazione alla nemesis del suo ospite, Mentes, chiedendogli se le sue confidenze sul modo di agire dei pretendenti, che gozzovigliano in casa sua senza limiti, possano irritarlo.13 A lui, di rimando, risponde subito Atena per bocca dell’ospite, dicendo che «si sdegnerebbe a vedere tanta vergogna, qualunque uomo savio, che entrasse (νεμεσσήσαιτό κεν ἀνὴρ / αἴσχεα πόλλ’ ὁρόων, ὅς τις πινυτός γε μετέλθοι)».14 Soltanto l’ospitalità misurata e corretta, che rispetta la libertà e l’autodeterminazione di coloro che vengono accolti, può trovare spazio di applicazione nel mondo omerico e soltanto in questa forma è esente da nemesis. È quanto testimoniano, tra l’altro, le parole rivolte da Menelao a Telemaco, quando quest’ultimo dichiara il suo desiderio di fare ritorno in patria. L’Atride ha infatti ben chiaro che il mancato equilibrio di sentimenti nell’accoglienza riservata a un ospite è uno degli elementi che possono scatenare l’esplodere di questa emozione.15 Ospite corretto sia quando accoglie, sia quando è accolto, campione di prudenza e autocontrollo,16 Telemaco ha un senso misurato della nemesis che lo preserva persino dall’esprimersi in modo avventato,17 Il giovane sa come prevenirla, come manifestarla e in quali casi è giusto suscitarla. È pronto ad accenderla nel suo popolo riunito in assemblea, con l’obiettivo di stimolarne la reazione di fronte agli abusi che, nella sua casa, stanno facendo i pretendenti.18 È, al tempo stesso, in grado di anticiparne le conseguenze, come mostrano le parole con cui rifiuta di rimandare la madre alla casa del padre Icario, perché sia poi costretta a prendere in sposa uno di loro: Antinoo, non posso mandarla via, se non vuole, colei che mi ha generato, nutrito: e il padre, chissà dove nel mondo,
argine, egli è considerato comunque responsabile da Odisseo, proprio in ragione della funzione sacerdotale che svolgeva a corte e che lo avrà portato a pregare che mai giungesse il momento del rientro in patria (cfr. Hom. Od. 22. 310–329). 13 Hom. Od. 1.158: Ξεῖνε φίλ᾿, ἦ καὶ μοι νεμεσήσεαι ὅττι κεν εἴπω; («Ospite mio, t’adirerai se ti dico una cosa?»). 14 Hom. Od. 1.228–229. 15 «Telemaco, certo non ti terrò qui a lungo a sospirare il ritorno; biasimerei (νεμεσσῶμαι) anzi un altro, il quale, ospitando, esagerasse in calore o esagerasse in freddezza: l’equilibrio val meglio» (Hom. Od. 15.67–71). 16 Su questo episodio e sulla capacità di autocontrollo di Telemaco, cfr. North 1966, 5. 17 Di fronte a Menelao, per esempio, Telemaco è frenato dal suo senso della nemesis, alimentato dal rispetto per le gerarchie lo frena dal prendere la parola, portandolo ad attendere pazientemente che sia l’eroe più anziano a dare avvio alla conversazione (Hom. Od. 4.156–160). 18 Hom. Od. 2.63–75. Alla nemesis che Telemaco si sforza di suscitare nel popolo, fa eco quella dell’anziano Mentore nei confronti dell’immobilismo degli Itacesi rispetto al comportamento scorretto dei pretendenti (Hom. Od. 2.239–241).
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vive o è morto. Danno sarebbe dover molto pagare a Icario, se di mia testa rimando la madre. E dal padre avrò mali e un daimon altri me ne darà, perché invocherà le odiose erinni la madre cacciata di casa: e biasimo anche dagli uomini (νέμεσις δέ μοι ἐξ ἀνθρώπων) avrei. No mai dirò questa parola! Ma se il vostro cuore sa provare vergogna (ὑμέτερος δ’ εἰ μὲν θυμὸς νεμεσίζεται αὐτῶν), uscite dalla mia casa, altri banchetti cercatevi, mangiando le vostre sostanze, casa per casa invitandovi. Hom. Od. 2.130–140
In questi versi, Telemaco afferma di temere tutta una serie di conseguenze che potrebbero venirgli dalla scelta di cacciare la madre di casa: danni di natura economica, dovuti a una prevedibile pretesa di risarcimento da parte del padre di Penelope, Icario; le maledizioni della madre che gli scatenerebbe contro le Erinni e, da ultimo, la «nemesis dagli uomini (νέμεσις ἐξ ἀνθρώπων)».19 Perdite economiche, punizioni divine e soprattutto sanzioni sociali colpirebbero quindi Telemaco, la cui persona ne uscirebbe danneggiata sia in termini di rapporti interni all’oikos, sia di riconoscibilità e prestigio sociale che verrebbe a perdere, a causa della disapprovazione del suo entourage. Un dato fondamentale emerge inoltre dalla lettura di questi versi: alla «nemesis degli uomini» è qui chiaramente assegnata un’efficacia sanzionatoria temibile almeno quanto le punizioni di carattere divino. E proprio a questa reazione emotiva, del resto, fa appello ancora pochi versi dopo il giovane (ὑμέτερος δ’ εἰ μὲν θυμὸς νεμεσίζεται αὐτῶν),20 affinché i pretendenti escano da casa sua e comincino, una volta per tutte, a consumare le loro sostanze, riattenendosi a un codice corretto di comportamento. Alla madre Penelope, che rimprovera l’aedo Femio intento a cantare le gesta tristi e gloriose degli eroi che andarono a combattere a Troia, il giovane ribatte che egli non merita indignazione (τούτω δ᾿οὐ νέμεσις) per le sue storie.21 Rivendicando per sé il potere (kratos) di stabilire i termini di quanto è lecito fare all’interno della sua casa, egli rimanda la madre nelle sue stanze e ai lavori femminili. Il mythos, invece, – precisa Telemaco – è affare per uomini, perché soltanto loro sanno comprenderne il valore e lodarlo;22 soltanto gli uomini quindi sono in grado di intendere la differenza tra il mythos dissennato di Tersite, che deve essere immediatamente soffocato, e quello dotato di autorità dell’aedo, il cui canto garantisce perennità alle gesta, per quanto dolorose, degli Achei, venuti a combattere sotto la rocca di Troia.
19 Cfr. su questo passo Giordano 1999, 7; 33. 20 Hom. Od. 2.138–139. 21 Hom. Od. 1.350. 22 Su questo episodio cfr. le riflessioni di Andò 2005, 7, 30–34.
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3.2 L’“ignoranza” di Paride Rispetto a questo modo di comportarsi da parte di Telemaco, Paride mostra, a sua volta, un’attitudine diametralmente opposta. Greco il primo, troiano l’altro; protetto da Atena l’uno, da Afrodite l’altro, tanto il giovane figlio di Odisseo quanto il rampollo di Priamo sono dei viaggiatori che solcano i mari. Paride, però, dalle sue peregrinazioni porta in patria, insieme ai pepli ricamati da donne sidonie, Elena, figlia di Zeus,23 premio non dovuto, di un’ospitalità tradita e andata a male. Telemaco, al contrario, torna a Itaca con le notizie della fama del padre, guadagnando semmai, come prova di un’ospitalità corretta ed equilibrata, un peplo confezionato dalle mani della stessa Elena, destinato un giorno alla sua sposa.24 Per l’uno, dunque, il bottino di viaggio è causa della distruzione futura dell’oikos, per l’altro è felice auspicio della sua ricomposizione e, persino, della sua crescita. A separarli è ancora la diversa considerazione e il diverso peso che i due attribuiscono all’opinione pubblica. È così che a Ettore che lo sollecita a tornare in battaglia, Paride, intento a lucidare le sue armi nel talamo, risponde: «non per l’ira né per il biasimo dei Troiani sono rimasto nel talamo, volevo lasciarmi andare al dolore (οὔ τοι ἐγὼ Τρώων τόσσον χόλῳ οὐδὲ νεμέσσι / ἥμην ἐν θαλάμῳ, ἔθελον δ᾿ἄχει προτραπέσται)».25 Se si attribuisce a Τρώων il valore di genitivo soggettivo,26 è possibile leggere nell’affermazione del giovane una certa insensibilità rispetto alle reazioni di ira (cholos) e di riprovazione pubblica (nemesis) che il suo permanere lontano dalla lotta, per motivi personali, potrebbe aver suscitato nei Troiani.27 Il mancato senso della nemesis che la moglie gli rinfaccia, pochi versi più avanti, sembrerebbe confermare questa lettura. Elena infatti, rivolgendosi ad Ettore, dichiara: «avrei voluto essere sposa d’un uomo più forte, che conoscesse la nemesis – ὃς ᾔδη νέμεσίν – e i molti affronti degli uomini».28 Paride, dunque, non conosce la nemesis e appare insensibile anche alle sue manifestazioni. Non è in grado né di provarla né di prevenire quella degli altri; manca di 23 Hom. Il. 6.289–293. Elena è chiaramente indicata come figlia di Zeus in Hom. Od. 23.218. 24 Hom. Od.15.125–128. 25 Hom. Il. 6.335–336. 26 Τρώων è interpretato come genitivo soggettivo anche da Ricciardelli Apicella 1994, 137. 27 L’interpretazione di questo passo, per il quale preferisco proporre una traduzione personale, non è chiara. La lettura comunemente accettata è quella in base alla quale Paride sostiene di non essere né adirato né indignato «nei confronti dei Troiani». Non si capisce, però, quali motivi avrebbe potuto avere il principe troiano per provare siffatti sentimenti verso i suoi compagni, quando invece sarebbe stato più comprensibile il contrario. W. Leaf propone una lettura diversa, analizzando i versi precedenti, in cui Ettore apostrofa il fratello, per sollecitarlo a tornare a combattere: «There is a possible alternative, to take χόλον as meaning ‘the anger of the Trojans against you’, such as is exemplified in Γ 56, 454, of which we should suppose Paris to be conscious. This suits the answer of Paris in 335 better, as νέμεσις is commonly used of the indignation shewn by others» (Leaf 2002, 282 v. 326). 28 Hom. Il. 6.350–351: ἔπειτ’ ὤφελλον ἀμείνονος εἶναι ἄκοιτις,/ ὃς ᾔδη νέμεσίν τε καὶ αἴσχεα πόλλ’ ἀνθρώπων.
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quella sensibilità sociale che consente all’individuo una chiara percezione degli umori collettivi e una sicura interazione con il gruppo di riferimento. Queste carenze comportamentali lo portano a fare scelte ambigue e controcorrente, come quella di rifugiarsi nel talamo – in uno spazio tipicamente privato e nascosto – per unirsi con Elena in pieno giorno, invece di combattere con gli altri compagni per la difesa di Troia, del cui assedio è responsabile29. 3.3 Achille e gli effetti imprevedibili di una nemesis non condivisa All’indifferenza di Paride rispetto al giudizio altrui fa si oppone la suscettibilità esasperata di Achille, le cui emozioni sono proprio all’origine dell’intreccio narrativo del poema. Il cholos che lo agita è la causa della sua assenza dai campi di battaglia,30 e per questa sua indole iraconda e selvaggia egli rischia anche di diventare oggetto della nemesis divina.31 È questa almeno la minaccia espressa da Apollo di fronte agli dèi riuniti in assemblea, che deriva da un moto di irritazione passeggera, suscitato dall’atteggiamento inappropriato e violento dell’eroe e dal suo accanimento contro il cadavere di Ettore. Patroclo, sottolineando il suo essere adoios e nemesetos, si trova addirittura a dover rifiutare le offerte ospitali di Nestore, per evitare che la condivisione di momenti di convivialità con gli Achei da parte sua, scateni la censura senza appello dell’amico che aveva deciso di interrompere ogni comunicazione con questi ultimi, dopo essere stato privato del premio a lui dovuto e avere coinvolto in questo contenzioso tutti i Mirmidoni.32 L’attitudine, che Patroclo riconosce in Achille, è condizionata da due fattori emotivi: da un lato, il disagio personale (aidos) che il Pelide avrebbe senz’altro provato nel sapere che il suo amico fraterno – quasi «un altro se stesso»33 – aveva accettato l’ospitalità di un gruppo, da cui egli si era volontariamente autoescluso; dall’altro, la nemesis, la disapprovazione nei confronti del comportamento di Patroclo che il giovane anche altrove fa di tutto per evitare. Nel XVI libro, infatti, l’eroe, dopo essere scoppiato in lacrime davanti ad Achille, si affretta a giustificarsi, e spiega le ragioni del suo dolore per prevenire l’indignazione dell’amico. Il dialogo tra i due, in quest’occasione, è indicativo sia dell’attitudine alla nemesis del Pelide, facile a scatenarsi di fronte a un comportamento che egli stigmatizza subito come infantile, e quindi poco eroico; sia della
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La scena dell’incontro tra Paride ed Elena richiama quella analoga dell’amplesso tra Zeus ed Era, che invece proteggono il loro incontro, all’interno di una nuvola densa, proprio per prevenire l’insorgere della medesima reazione in chi li vedesse (Hom. Il. 14.336). 30 Hom. Il. 1.283; 2.224; 4.513; 9.157; 261; 299; 520; 646; 678; 10.107; 14.14; 16. 206; 19.67. 31 Hom. Il. 23.53. Cfr. infra p. 86. 32 Hom. Il. 11.649. Secondo Ricciardelli Apicella 1994, 138–139, Patroclo rifiuta l’invito di Nestore per non ritardare il ritorno da Achille. 33 Monsacré 2003, 98.
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prontezza di Patroclo nell’anticiparne la reazione, che rivela una conoscenza intima del carattere di Achille.34 Questo essere schiavo delle emozioni da parte del Pelide unitamente al mancato controllo della nemesis, come dei rischi ad essa connessi, emergono anche nel celebre brano relativo all’ambasceria.35 In questa circostanza, Fenice, maestro di Achille, cerca di convincerlo a deporre la collera, e ad accettare i doni che gli vengono offerti, cedendo così alle preghiere, le litai. Le litai, strumento di riconciliazione tra chi ha commesso un torto e chi lo ha subito, favoriscono una ricomposizione sociale nell’ottica dell’interesse comune. Fenice termina il suo discorso ricordando al giovane il mito di Meleagro, eroe della caccia al cinghiale di Calidone, e simbolo di una collera implacabile che, incapace di piegarsi alle preghiere, rischia di portare alla rovina una comunità intera36. Definito un «doppio»37 di Achille, Meleagro è, a sua volta, anche l’immagine rovesciata di Paride. Anche lui resta chiuso nel talamo, rifugiandosi nel privato e sottraendosi alla battaglia38. Insensibile ai doni e alle promesse di riconoscimento dei compagni, decide di intervenire solo quando sente dalla sposa le notizie dell’assedio della città. Il suo pentimento tardivo non servirà a ricomporre la relazione con la comunità che, benché salva, lascerà l’eroe privo di gloria. Meleagro è un antimodello dal quale Achille deve guardarsi, acconsentendo alle richieste di riconciliazione degli Achei e accettando i doni, simbolo di una ritrovata reciprocità tra l’eroe e la sua comunità. In questo modo soltanto, potrà evitare che la sua collera eccessiva, insensibile alle proposte di riconciliazione, diventi, a sua volta – lo avverte Fenice – oggetto della nemesis altrui.39 È un destino questo al quale Achille non riuscirà a sottrarsi, neanche nelle riprese successive della sua vicenda mitica, come per esempio, la trilogia composta da Eschilo, in cui egli appare come un eroe profondamente marcato dai suoi limiti caratteriali. La prima tragedia, che apre il ciclo eschileo, intitolata Mirmidoni, è incentrata, per l’ap-
34 Hom. Il. 16.7–22, Achille a Patroclo: «Perché sei in pianto, Patroclo, come una bimba piccina (κούρη νηπίη) che dietro la madre correndo la forza a prenderla in braccio, le afferra la veste, la tira mentre cammina, la guarda piangendo per essere presa in braccio? Simile a questa, Patroclo, spandi tenere lacrime; forse annunci qualcosa ai Mirmidoni o a me? Forse udisti tu solo qualche messaggio da Ftia? Dicono che vive ancora Menezio, figlio di Attore, vive tra i Mirmidoni l’Eacide Peleo, i due che molto noi piangeremmo, se fossero morti. Oppure hai pietà degli Argivi, come son massacrati presso le concave navi per la loro arroganza?» … e Patroclo ad Achille: «non adirarti (μὴ νεμέσα), tanta pena ha raggiunto gli Achei». Cfr. sulle lacrime degli eroi omerici: Monsacré 2003; Föllinger 2009; Bouvier 2011. 35 Hom. Il. 9. 185–668. 36 Hom. Il. 9. 502–512. 37 Cusumano 2013a, 134. 38 Cairns 2003, 47. 39 Hom. Il. 9.524: «Non rendere vana la loro parola (scil. quella degli Argivi) né i passi: prima no, che non meritava rimprovero l’ira (πρὶν δ᾿οὔ τι νεμεσσητὸν κεχολῶσθαι)». La stessa espressione impiega Eurimaco, uno dei capi dei pretendenti al trono di Itaca in un estremo, quanto goffo, tentativo di mediazione per riconciliarsi con il reduce Odisseo ed evitarne la violenta vendetta (cfr. Hom. Od. 22.54–59).
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punto, sull’episodio omerico dell’ambasceria, in cui l’eroe, incurante del destino di distruzione, cui ha votato gli Achei ritirandosi dalla battaglia, rifiuta in modo categorico di riprendere le armi. I pochi frammenti rimasti consentono di restituire un’immagine del Pelide, arroccato nel suo silenzio e irremovibile nella sua indignazione, ormai in rotta con il suo gruppo di appartenenza, tanto che gli Achei pensano addirittura di punirlo con la lapidazione.40 Il conflitto che, nell’epopea omerica, lo vede radicalmente contrapposto ad Agamennone, si trasforma, nella prospettiva eschilea, in uno scontro tra l’individuo e il suo contesto sociale.41 Da eroe oltraggiato, Achille si fa, sulla scena ateniese, traditore del suo stesso gruppo, e corre così il rischio di essere condannato alla più infamante delle esecuzioni, quella che squalifica l’individuo e lo rende bersaglio di una giustizia sommaria e collettiva, privandolo di qualsiasi diritto, fosse anche quello di essere sottoposto a processo. Alla lapidazione, secondo l’Ettore omerico, avrebbe dovuto invece essere condannato Paride, se solo i Troiani avessero avuto un po’ di coraggio.42 L’uomo insensibile alla nemesis che, solo per godere dei piaceri di Afrodite, aveva trascinato la sua città in una guerra rovinosa, meritava di essere consegnato al ludibrio di una sanzione sociale, la cui violenza è, per definizione, imprevedibile e incontrollabile. La lapidazione è infatti lo strumento deputato all’esecuzione della sanzione pubblica; essa dà forma all’atto impulsivo e istintuale attraverso cui la comunità, al di fuori di qualsiasi quadro istituzionale e normativo, coralmente, punisce l’individuo che le ha arrecato un danno.43 È la disapprovazione sociale che prende forma e si concretizza in una punizione corporale non regolamentata né legittimata da un’autorità superiore.44 Sulla scena ateniese, in un periodo che gli studiosi datano, più o meno, alla primissima produzione eschilea, e quindi all’epoca immediatamente successiva alla battaglia di Maratona, l’eroe omerico viene rappresentato come un traditore qualsiasi.45 La trilogia eschilea prende poi una piega diversa, perché, nel secondo dramma, intitolato Nereidi, Achille riceve dal corteo delle figlie di Nereo la notizia della morte di Patroclo e decide di tornare a rivestire i panni del guerriero. Anche questa volta, viene riproposta la figura di un eroe interamente ripiegato su stesso e concentrato sulla vendetta da 40 TrGF Fr. 132c. 41 Michelakis 2007, 24. 42 Hom. Il. 3.56–57. 43 Cantarella 1996, 73–74 e Allen 2000, 142–145. 44 Un caso di lapidazione, diventato poi paradigmatico, è quello raccontato da Erodoto che ricorda il destino del bouleuta ateniese Licida, reo di essersi fatto portavoce in città delle istanze del persiano Mardonio e del suo messo Murichide, per convincere gli Ateniesi, a medizzare (Hdt. 9.5). La reazione popolare fu violentissima e Licida, sospettato di avere accettato denaro dai Persiani, fu circondato dagli altri consiglieri e dai suoi concittadini e quindi lapidato. Al lancio di pietre presero parte persino le donne degli Ateniesi che, spontaneamente, si recarono a casa dell’uomo e lapidarono anche la moglie e i figli. L’episodio ricorre anche nell’ambito dell’oratoria con leggere varianti, cfr. Lyc. Contra Leocr. 122; Dem. 18.122. 45 Michelakis 2007, 21 n. 1 e 25 n. 10. Si rinvia a questo studio per ampia bibliografia sull’Achilleis eschilea.
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attuare contro Ettore. Nel terzo dramma, infine, che riporta il doppio titolo di Φρύγες ἢ ῞Εκτορος λύτρα, il Pelide riceve la visita di Ermes, che gli comunica che dovrà restituire al re Priamo, il corpo del figlio. I pochi frammenti pervenuti consentono di ricostruire l’immagine di un sovrano che, carico di doni, quasi fosse un mercante, attraversa il campo nemico, per recuperare il corpo martoriato dell’eroe46 dalla tenda del suo carnefice. È ad Achille che probabilmente il messaggero divino di Zeus, Ermes,47 rivolge i seguenti versi: καὶ τοὺς θανόντας εἰ θέλεις εὐεργετεῖν εἴτ’ οὖν κακουργεῖν, ἀμφιδεξίως ἔχει· ………………… καὶ μήτε χαίρειν μήτε λυπεῖσθαι βροτούς. ἡμῶν γε μέντοι νέμεσις ἐσθ’ ὑπερτέρα, καὶ τοῦ θανόντος ἡ Δίκη πράσσει κότον che tu voglia fare del bene ai morti o del male, è indifferente, poiché i morti non gioiscono né sentono dolore. La nostra nemesis è di certo superiore e Dike compie la vendetta del morto. TrGF 3, Fr. 266
Tanto il contesto, quanto il testo e la sua traduzione presentano diverse insidie: innanzitutto, la prima questione riguarda il locutore, se si tratti cioè di Priamo, come è stato ritenuto,48 o del dio Ermes, come invece sembra più probabile e come comunemente ammesso;49 la seconda questione riguarda la lettura da dare al testo e se, nella fattispecie, nemesis e dike degli ultimi due versi debbano intendersi come sostantivi o come teonimi; l’ultima questione, connessa alla precedente, riguarda la traduzione del quarto verso, se cioè l’ἡμῶν incipitario sia da intendere come un genitivo soggettivo, o come secondo
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Il frammento TrGF Fr. 264, riferendosi ad Ettore, lo definisce morbido come una mora. Alcuni studiosi hanno interpretato il verso come un’allusione di Achille alle condizioni in cui aveva ridotto il corpo dell’eroe, tumefatto dai traumi subiti a seguito delle torture; altri invece hanno attribuito la frase al padre Priamo che ricorderebbe invece la gentilezza del figlio. Su questo dibattito, Sommerstein 2013, 247. Secondo la versione omerica, invece, è Teti che, su sollecitazione di Iris, messaggera della volontà di Zeus, si reca da Achille per comunicargli che è arrivato il momento di accettare il riscatto per il corpo di Ettore, mentre Ermes accompagna Priamo nell’accampamento per recuperare il cadavere del figlio. Sul ruolo di Ermes come nunzio inviato ad Achille nella tragedia eschilea, Sommerstein 2013, 246–247. Schadewaldt 1936, 66. Lloyd-Jones 1971a, 472, ad loc.; Sommerstein 2013, 246–247. Sull’attitudine di Achille nella Trilogia eschilea, cfr. Michelakis 2007, 22–57.
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termine di paragone in riferimento al comparativo ὑπέρτερα in fine di verso. A seconda che si propenda per l’una o per l’altra ipotesi, si aprono scenari completamente differenti. Se fosse Priamo a parlare e Nemesis venisse interpretata come teonimo, allora ci troveremmo di fronte a un monito del sovrano rivolto ad Achille, per avvertirlo che, prima o poi, si troverà a fare i conti con la divinità; se invece si legge nemesis come emozione, lo scenario sarebbe completamente diverso e il monito rivolto ad Achille sarebbe quello di un antagonista che avverte il suo interlocutore che qualunque sia il trattamento da lui riservato al cadavere di Ettore, egli dovrà comunque avere a che fare con l’indignazione degli dèi e con la giustizia che segue ogni omicidio. D’altra parte, nel momento in cui Priamo arriva alla tenda di Achille, il cadavere di Ettore è già stato straziato e reso irriconoscibile. Data la situazione, quindi, ben poco senso doveva avere da parte del sovrano troiano un avvertimento del genere. Più verosimile è che a parlare sia il divino Ermes, giunto a comunicare al Pelide che dovrà restituire il corpo di Ettore ai suoi perché possa ricevere gli onori funebri. In questo contesto, il monito potrebbe suonare in termini completamente differenti e voler comunicare all’eroe, per il tramite del messaggero di Zeus, la posizione dell’assemblea divina, riguardo agli atti da lui compiuti. Il riferimento potrebbe essere alla reazione indignata di Apollo, raccontata nel testo omerico, e alla nemesis che il dio sarebbe stato pronto a lasciare esplodere di fronte a tutto il consesso divino per lo strazio cui l’eroe stava sottoponendo il corpo di Ettore.50 Ermes avverte perciò il Pelide che può infierire quanto vuole sul cadavere del nemico, tanto i defunti non sentono nulla, ma la nemesis degli dèi è di certo più potente e a questa si accompagna la giustizia che riscatta il morto. Lo sdegno divino e la dike, una giustizia cui è riconosciuto il compito di far proprio il risentimento e la rabbia del defunto (kotos) e di trasformarlo in azione (prassein), sono i due argomenti che dovrebbero condurre Achille a più miti consigli, portandolo a restituire il cadavere. Diversamente da Omero, Eschilo presenta una nemesis divina cui è riconosciuta una forte carica sanzionatoria. L’orizzonte omerico, però, appare agire efficacemente sullo sfondo, demandando alla sfera divina l’espressione di quella censura sociale che era invece strumento punitivo nelle mani dei mortali. Tanto Paride quanto Achille rappresentano due diverse sensibilità rispetto alla nemesis e entrambi, per motivi diversi, si espongono a forme analoghe di disapprovazione pubblica. Nel loro comportamento deviante, che li condurrà quasi all’esclusione dal mondo degli eroi e alla marginalizzazione in uno spazio appartato, lontano dall’azione bellica, è iscritto l’infausto destino che porterà il primo ad assistere alla distruzione della sua città e il secondo alla perdita del suo compagno prediletto e infine alla morte. Al contrario, nella condotta equilibrata di Telemaco si legge l’agire corretto dell’individuo che si identifica nelle norme comunitarie, sa come rispettarle e come tutelarle quando rischiano di essere infrante.
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Cfr. Hom. Il. 24.53 e infra p. 86.
Declinazioni della nemesis al femminile
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4. Declinazioni della nemesis al femminile Lo scrupolo nell’evitare di suscitare quella reazione di biasimo e di indignazione che passa per i termini del campo semantico della nemesis, accomuna, nei poemi omerici, tanto gli uomini quanto le donne. Nell’Iliade e nell’Odissea, sono quattro le figure femminili il cui nome ricorre in tali situazioni: Elena, Penelope, Nausicaa e l’anziana nutrice di Odisseo, Euriclea. Si tratta di quattro donne, ciascuna in una fase diversa della vita, che ricoprono anche ruoli profondamente differenti all’interno della società e dell’epopea omerica. L’analisi dei loro comportamenti, in situazioni specifiche, consente di individuare in controluce i parametri sociali che definiscono la maniera tutta femminile di percepire tale emozione e di reagire ad essa. Si tratta di meccanismi che è possibile vedere in azione, non solo all’interno dell’universo omerico, ma anche all’interno del corpus tragico che permette, per di più, di isolare quei comportamenti femminili, capaci di suscitare la nemesis non solo negli uomini ma anche negli dèi. 4.1 Velarsi e svelarsi: i rimedi di Elena Secondo la tradizione conservata nei Canti ciprii,51 la giovane moglie di Menelao, condotta a Troia da Paride, passava per essere proprio la figlia della dea Nemesis. I poemi omerici non conservano tracce precise di questa tradizione, ma sottolineano la grazia e la bellezza sovraumane della fanciulla. È proprio l’aura divina che circonda la principessa spartana a costituire un argine all’insorgere della nemesis, nei confronti di quanti scelgono di combattere una guerra così sanguinosa per una donna e di soffrire a lungo per lei. Il contesto narrativo è quello in cui Paride manifesta il proposito di affrontare Menelao e di porre fine, con questo duello tra campioni, alla guerra tra Troiani e Achei. Il vincitore sarebbe stato così riconosciuto superiore e avrebbe ottenuto i beni e la donna. Elena, avvertita da Iris, che la raggiunge sotto le sembianze della cognata Laodice, accorre alle porte Scee, avvolta in veli bianchi (ἀργεννῇσι καλυψαμένη ὀθόνῃσιν),52 accompagnata da due ancelle. Al suo passaggio, gli anziani compagni di Priamo, non coinvolti nella guerra, commentano con queste parole: Non è vergogna (οὐ νέμεσις) che i Teucri e gli Achei schinieri robusti, per una donna simile (scil. Elena) soffrano a lungo dolori: terribilmente, a vederla, somiglia alle dee immortali!
Cfr. Ath. 8.10, 334c–d [= Kypria 10 West] e sulla violenza a Nemesis anche Apollod. Bibl. 3.10, 7. Per un’analisi approfondita di questa tradizione, cfr. infra p. 111–112. 52 Hom. Il. 3.141. 51
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Ma pur così, pur essendo sí bella, vada via sulle navi, non ce la lascino qui, danno per voi e pei figli dopo. Hom. Il. 3.156–160
L’uso della litote οὐ νέμεσις suggerisce che è proprio la somiglianza di Elena con le dee immortali a preservare, tanto i Troiani quanto gli Achei, dal rischio di essere oggetto di biasimo. Ben diversa sarebbe la loro posizione se causa di tali mali fosse semplicemente una donna che non ha alcuna relazione con la sfera sovraumana.53 In altri termini, dunque, nel mondo omerico, se poteva essere motivo d’indignazione che la comunità soffrisse per una donna mortale, non altrettanto avveniva per un essere la cui femminilità si presentava quale emanazione di un’entità divina. Pur non potendo essere, grazie al suo aspetto, causa scatenante della nemesis, tuttavia, Elena non è esente dal timore che i suoi atti e i suoi gesti possano generarla negli altri. La donna tenta di opporre questa sua preoccupazione alle insistenze della dea Afrodite, che la raggiunge, sotto le sembianze di una vecchia filatrice spartana, alle porte Scee, mentre era intenta a osservare il duello tra Paride e Menelao. Tiratala per il velo,54 la vecchia cerca di convincerla a ritirarsi nel talamo con il principe troiano tempestivamente sottratto dalla divinità alla furia bellica dell’Atride, ma Elena, riconosciutala, rifiuta istintivamente di obbedirle, per non incorrere nella reazione indignata delle Troiane: No, io non andrò là, sarebbe odioso (νεμεσσητὸν δέ κεν εἴη), per servire il suo letto! Dietro di me le Troiane tutte faranno biasimo (μωμήσονται): pene indicibili ho in cuore. Hom. Il. 3.410–412
La risposta violenta della dea a queste parole scioglie infine le resistenze della sua protetta che, «coprendosi con il velo bianco splendente (κατασχομένη ἑανῶ ἀργῆτι φαεινῷ)» si precipita, suo malgrado, nel talamo dove troverà Paride. Qui l’appello alla nemesis, accompagnato dal gesto istintivo di Elena di coprirsi per reagire all’ordine della divinità che la richiama proprio tirandola per il velo, si riempie di significato.55 Dagli studi di Lloyd Llewellyn-Jones56 sappiamo ormai che l’indumento ricopre, nel mondo greco, diverse funzioni. Ora puro ornamento; ora simbolo dell’aidos e dell’onorabilità della donna; ora strumento di seduzione o protezione dal potenziale di 53
Il passo omerico trova un’eco nel giudizio formulato dallo storico Erodoto (1.4), che definisce «da sciocchi» affannarsi per vendicare il rapimento di donne, cosa che fecero i Greci, per Elena, rendendosi «gravemente colpevoli» (trad. Antelami). 54 Hom. Il. 3. 385. Sulla relazione tra Elena e la nemesis nell’Iliade si vedano anche le riflessioni di Loraux 1989, 241–246. 55 Hom. Il. 3. 419. Sul rapporto tra le metafore connesse al gesto del velarsi e del coprirsi e la concettualizzazione delle emozioni cfr. Cairns 2012. 56 Llewellyn-Jones 2003; Cairns 2002.
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contaminazione che essa porta con sé, il velo, mezzo di comunicazione non verbale tra l’universo maschile e quello femminile, serve in questo episodio a porre l’accento sullo status regale di Elena e sul suo «sexual appeal».57 Le considerazioni di Lloyd Llewellyn-Jones sono state riprese criticamente da Florence Gherchanoc che ha esplorato gli aspetti lasciati irrisolti dall’analisi dello studioso come la funzione del velo quale dono nuziale e il momento del disvelamento (anakalypterion) della fanciulla nel rituale matrimoniale dei Greci.58 Gli Anakalypteria erano una cerimonia che aveva luogo, secondo alcune fonti, in pubblico, durante il pasto nuziale;59 secondo altre nell’intimità del talamo, davanti al futuro marito e a pochi altri testimoni.60 Nel corso di tale cerimonia, il sollevamento del velo della fanciulla, aprendo allo scambio di sguardi tra gli sposi, sanciva la loro unione e l’integrazione della donna nel nuovo oikos.61 Benché le testimonianze su questo rituale siano più tarde si può provare a leggere l’episodio di Elena, e la nemesis che teme di suscitare nelle altre Troiane, alla luce di queste considerazioni. Giunta a Troia, sulla nave di Paride, assiste, quale trofeo, al duello tra quest’ultimo e il suo legittimo marito verso cui, come le sue lacrime dimostrano, prova ancora una certa nostalgia. Come una fanciulla che si prepara al matrimonio, anche Elena si precipita velata (καλυψαμένη) alle porte Scee, sapendo che l’esito della battaglia determinerà per lei un cambiamento definitivo di oikos o una reintegrazione nell’oikos di legittima appartenenza.62 Un ritorno, evidentemente, non gradito ad Afrodite che, proprio attraverso il velo, fa passare la comunicazione con la sua protetta, imponendole un disvelamento forzato davanti a uno sposo che non è quello legittimo.63 Di fronte all’imperio divino, Elena deve rassegnarsi a incorrere nella nemesis delle Troiane che, dal duello, si aspettavano la fine della guerra, e a sopportarne il biasimo. Il timore di scorgere questo sentimento nelle altre donne la spinge a coprirsi e a sottrarsi alla vista altrui. Una volta nel talamo, volgendo indietro gli occhi (ὄσσε πάλιν κλίνασα), si sforza significativamente anche di sottrarsi a quella reciprocità di sguardi che, nella consuetudine, sanciva la regolarità di un’unione, dopo il disvelamento.64 I comportamenti messi in atto da Elena lasciano emergere una caratteristica precipua della nemesis, quale emozione che si teme di suscitare nel gruppo immediato di riferimento rispetto a infrazioni – reali o ritenute tali – di un codice di comportamento socialmente condiviso. Il gesto del velarsi, per poi essere svelata e ri-velata, serve ad
57 58 59 60 61 62 63
Llewellyn-Jones 2003, 124 e 129. Gherchanoc 2006; Gherchanoc 2012. Sugli Anakalypteria cfr. anche Ferrari 2003, 32–35. Ath. 14.644 d; Anecd. Bekk., 1.200, ll. 6–8 e 390, ll. 26–28. Cfr. Hsch. s. v. ἀνακαλυπτήριον; Luc. Her. 6. Harp. e Suda, s. v. ἀνακαλυπτήρια. Per un’indagine sulla relazione simbolica tra il pianto e il gesto del velarsi, cfr. Cairns 2009. In uno skyphos del pittore di Makron è rappresentata, tra l’altro, la scena del rapimento di Elena in cui Afrodite è raffigurata nell’atto di aggiustare il velo della fanciulla, quasi fosse una sposa: Boston, Museum of Fine Arts 13.186; ARV2 458, 1. 64 Hom. Il. 3.427.
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amplificare l’avvenuto superamento di un limite, quella frontiera che Elena, preoccupata per il giudizio altrui, non vorrebbe oltrepassare. La donna ricorre al velo, come barriera e accessorio di bellezza, per marcare il suo modo di presentarsi nel consesso sociale e la sua personale disposizione d’animo, che entrano, però, drammaticamente in conflitto con il ruolo che la divinità ha stabilito di assegnarle. Nel gioco dei rapporti di forza tra le due si assiste al confronto tra urgenze contrastanti: da un lato, quella espressa col suo corpo dalla donna, che si sforza di conformare sé stessa e il suo comportamento ai parametri sociali introiettati e si avvale, in extremis, del velo, per sottrarsi alla nemesis altrui; dall’altro, quella della divinità che persiste nel voler fare di Elena uno strumento di realizzazione della sua volontà e ipostasi della seducente grazia divina. Il conflitto interiore tra il rispetto del volere della divinità e l’aderenza alle norme sociali, condivise dal gruppo e avvertite come più stringenti, genera nella giovane figlia di Zeus un disagio, che la lascia infine sospesa, nell’indecisione, tra il rischio di incorrere nella collera divina e il timore di subire il biasimo delle Troiane. È questo un timore che trova conferma anche nel contesto dell’Oreste euripideo, in cui Elena, in visita ad Argo per visitare il sepolcro della sorella Clitemestra dichiara la sua vergogna a mostrarsi in pubblico.65 Al termine della tragedia, il suo destino viene commentato dal coro delle donne argive che la ritengono ormai morta. Per avere riempito la Grecia di lacrime e per avere seguito Paride che aveva portato i Greci a Troia – secondo la loro ricostruzione – Elena è stata effettivamente raggiunta dalla nemesis. Non si tratta però della reazione indignata di un gruppo di donne, ma della compiuta realizzazione di una giustizia divina (διὰ δίκας ἔβα θεῶν νέμεσις ἐς Ἑλέναν).66 In questi termini, sembrerebbe trovare espressione un disappunto corale così unanimemente condiviso da potere essere traslato dalla sfera umana alla sfera divina. In realtà, però, il destino di Elena è ben diverso: la donna è stata appena assunta sull’Olimpo dove, a fianco di Ebe e di Era, riceverà onori immortali e la prerogativa di vegliare sui naviganti.67 In una tragedia in cui la responsabilità degli eventi e dei crimini viene costantemente demandata alla divinità, Elena, come anche Oreste per il matricidio, sono incolpevoli. Come spiegherà Apollo, deus ex machina, venuto a sciogliere l’intrigo della tragedia, la bellezza della fanciulla e la sua vicenda altro non sono che strumento di un sovraordinato piano divino, per far combattere Greci e Troiani e alleggerire la terra dall’ignobile e smisurato peso dei mortali.68 Elena, quindi, non è stata colta dalla nemesis divina, ma di questa ne è semmai il mezzo attraverso cui gli immortali hanno riassegnato a sé stessi il controllo sulla terra.
65 Eur. Or. 98–125. 66 Eur. Or. 1369. 67 Eur. Or. 1682–1690. 68 Eur. Or. 1639–1641
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4.2 Coprire, vedere ed essere visti: Penelope, Euriclea e Nausicaa Come Elena anche Penelope mostra un’analoga cautela rispetto alle reazioni che i suoi comportamenti possono suscitare. Diversamente dalla prima, nel caso della regina di Itaca, il rischio di incorrere nella nemesis delle donne achee se dovesse unirsi a uno dei pretendenti prima di aver terminato il lenzuolo (pharos), destinato a coprire il corpo del suocero dopo la morte, gioca a suo vantaggio: “Giovani miei pretendenti, se è morto Odisseo luminoso, aspettate, benché impazienti delle mie nozze, che termini questo lenzuolo, e non mi si perdano al vento le fila: sudario di morte per Laerte divino, il giorno che Moira crudele di morte lungo strazio lo colga: che nessuna fra il popolo delle Achee mi rimproveri (νεμεσήσῃ), quando senza sudario giacesse chi tanto acquistò!” Disse così e persuaso fu il nostro cuore superbo. Hom. Od. 2.96–10369
Come per Elena, così per Penelope, seppure in circostanze diverse, è un velo a fungere da argine all’insorgere della nemesis, quando un’altra unione illegittima rischia di essere consumata, ancor prima che sia data per certa la morte di Odisseo e la donna possa essere giustamente ridata in sposa a un altro uomo. L’esigenza di porsi al riparo dalla reazione delle Achee, tramite la tessitura del pharos per il suocero, offre alla regina di Itaca un argomento plausibile che le consente di procrastinare l’unione con uno dei pretendenti, convincendoli ad attendere il completamento dell’opera. L’escamotage messo in atto dalla donna rivela, ancora una volta, la preoccupazione di sottrarsi alla nemesis delle altre donne: così come Elena teme la reazione del gruppo delle Troiane, fra cui è stata appena accolta, Penelope si preoccupa di quella delle Achee. La prima si copre con un velo per sottrarsi a una nemesis ormai inevitabile, conseguenza di un’unione illegittima; l’altra se ne serve come pretesto, per scongiurarla. Una volta ricomposta l’unione regolare con lo sposo legittimo, è però la nemesis dello sposo che Penelope si premura di prevenire.70 La donna, infatti, prega Odisseo di astenersene, quando pur trovandosi finalmente di fronte al marito, e avendo incontrato il suo sguardo (ἴδον), esita ad abbracciarlo (ὧδ᾿ ἀγάπησα), per paura di cadere in un nuovo inganno. Nella sua memoria è ancora presente il ricordo di Elena che mai – afferma – si sarebbe unita nel letto a uno straniero se avesse saputo che i Danai l’avreb-
69 Cfr. anche Hom. Od. 19.137–147 e 24.131–138. 70 Hom. Od. 23.213.
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bero riportata indietro, nell’oikos di legittima appartenenza, e precisa che fu un dio a portarla a compiere quest’azione sfrontata (ἔργον ἀεικές).71 Abile nel prevenire la nemesis delle sue compagne, Penelope si mostra eccessivamente sensibile e cauta anche in situazioni che non lo richiederebbero. Scoppia infatti in lacrime, udendo dalle sue stanze il canto di Femio sul ritorno degli Achei e si precipita nella sala per imporgli di celebrare altre imprese con la sua musica72. Questa reazione esagerata, che sfocia addirittura in pianto e pretende di ridurre al silenzio l’aedo, oscurando il kleos degli eroi che hanno distrutto Troia, provoca l’intervento tempestivo di Telemaco, che la mette a tacere, confinandola nelle sue stanze e ai lavori con telaio e fuso. È solo l’uso sapiente di questi strumenti, la cura nella tessitura del pharos all’interno di spazi di pertinenza femminile, che consentirà a Penelope di tenere lontano da sé la nemesis. Il confronto tra Penelope e Telemaco mostra come, nell’universo omerico, uomini e donne abbiano una diversa posizione rispetto ai comportamenti da considerare socialmente censurabili. Un’ulteriore conferma della distanza che li separa nella percezione di quanto è nemesseton, suscettibile cioè di generare la nemesis, emerge dal dialogo tra Odisseo e la sua anziana nutrice Euriclea, schiava acquistata da Laerte ancora nel fiore degli anni73. Dopo la strage dei pretendenti e l’uccisione delle ancelle colluse, la donna, alla richiesta dell’eroe di avere zolfo e fuoco per purificare la sala, prima di incontrare la moglie, aggiunge che porterà anche una tunica e un chitone. Nella prospettiva femminile, è opportuno, infatti, che il re si presenti ben coperto, con indumenti adatti all’occasione, per evitare che il suo essere vestito di stracci, in un momento così solenne, possa risultare, per l’appunto, nemesseton.74 L’incontro tra Penelope e Odisseo, d’altra parte, sancirà, con un nuovo scambio di sguardi, la ricomposizione dell’oikos sotto il segno della legittimità. Odisseo reagisce all’invito della nutrice, precisando invece quello che, dal punto di vista del sovrano e dell’uomo che riprende in mano il suo oikos, è il corretto ordine di priorità, e impone all’anziana donna di correre innanzitutto a procurare fuoco e zolfo per purificare la sala dal sangue appena versato. L’eroe sembra trascurare il rischio di nemesis, perché spinto dall’urgenza di compiere i riti di purificazione necessari, prima di trovarsi faccia a faccia con la moglie. Così si presenta a lei vestito di stracci. Penelope, dal canto suo, stenterà a riconoscerlo come suo sposo, a parlargli e a ristabilire con lui una reciprocità di sguardi preludio alla ricomposizione della coppia (οὐδ᾿ εἰς ὦπα ἰδέσθαι ἐναντίον),75 fino a quando, rivestito di abiti regali, non supererà la prova cui lei lo sottopone.76
71 Hom. Od. 23.217–221. 72 Hom. Od. 1. 350. 73 Hom. Od. 1.429–433. 74 Hom. Od. 23.107. 75 Hom. Od. 23.107. 76 Hom. Od. 23.93–204.
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L’ultima tra le donne omeriche a mostrare una certa sensibilità rispetto agli effetti della nemesis è la giovane Nausicaa. Protetta da Atena che le annuncia in sogno le prossime nozze, vero giro di boa per un passaggio definitivo all’età adulta, la fanciulla sembra rivelare una fine capacità di discernimento rispetto alle condizioni che la suscitano e alle misure per evitarla.77 Si mostra disponibile a guidare il supplice Odisseo personalmente attraverso i campi ma, una volta giunti all’ingresso della città, si limita a indicargli la strada, per evitare di essere vista in compagnia di uno straniero. L’accorgimento di Nausicaa è motivato dal timore delle chiacchiere maligne di chi, incontrandola, pensasse che abbia autonomamente trovato il suo sposo e, per di più, fuori dalla cerchia dei Feaci. Aggiunge, così, che lei stessa s’indignerebbe allo stesso modo con un’altra (καὶ δ᾿ἄλλῃ νεμεσῶ) che «contro il volere del padre suo e della madre si accompagnasse (μίσγηται)78 con uomini prima di giungere a pubbliche nozze».79 Nausicaa rifiuta, quindi, in modo opportuno di presentarsi nello spazio pubblico con un uomo con il quale non esiste un vincolo riconosciuto. Come Penelope e Elena, si preoccupa di evitare la nemesis altrui, ma diversamente dalle prime due si premura di mettere una distanza fisica tra sé stessa e lo straniero. Il suo comportamento accorto – forse troppo – le varrà le critiche del padre Alcinoo che, nel canto VII, riprenderà la figlia per non avere scortato personalmente lo straniero al suo cospetto.80 Nel sistema di valori di Nausicaa, quindi, il senso della nemesis entra addirittura in conflitto con il rispetto per l’inviolabilità del supplice: la giovane, pur accogliendo lo straniero, si sottrae alla responsabilità di assicurargli una protezione completa, lasciando che sia poi Atena ad assumersi l’onere di scortarlo, al sicuro avvolto in una nube, fino alla sala del trono.81 4.3 Dolersi oltre misura: il coro delle donne tebane e le giovani figlie di Edipo Il senso della nemesis, come emozione, o la divinità omonima sono evocati raramente nelle tragedie, e spesso in modo talmente ambiguo da rendere non sempre inequivocabile il riferimento all’una o all’altra. Da Eschilo ad Euripide quello che emerge è una costante oscillazione nell’attribuzione del termine nemesis, intesa come emozione, e
77 Hom. Od. 6.20–40. Come ha puntualizzato van Wees 1996, 12, nei poemi omerici, il momento nella crescita di un adolescente, sia esso donna o uomo, è quello in cui mostra le prime capacità d’iniziativa nell’ambito di questioni da adulti. Per Nausicaa questo momento coincide con il suo coinvolgimento nella preparazione delle nozze e nelle responsabilità domestiche. Tecnicamente quindi, secondo van Wees, la fanciulla cresce in una notte, proprio quando Atena le appare in sogno e le comunica che non sarà vergine a lungo. 78 Sul senso del termine μίσγηται all’interno di questo passo e sul valore della nemesis di Nausicaa, cfr. Cairns 1990. 79 Hom. Od. 6.285–288. 80 Hom. Od. 7.299–301. 81 Hom. Od. 7.15; 40–42; 140.
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accompagnata da un genitivo soggettivo, ora ai mortali ora agli immortali. In qualità di potenza divina, è specificamente invocata, in stretta connessione con Zeus, solo nelle Fenicie euripidee, in un passo su cui si tornerà più avanti. Non mancano tuttavia situazioni in cui la nemesis è espressione di una disapprovazione sociale che orienta il comportamento umano. Nei Sette a Tebe, per esempio, l’orizzonte tipicamente omerico della nemesis viene nuovamente riproposto. Il contesto è quello che precede l’attacco dei Sette, comandati da Polinice, contro Tebe. L’eroe marcia contro la sua stessa patria trovandosi in rotta con il fratello Eteocle, con il quale invece avrebbe dovuto alternarsi al governo, per aggirare la nefasta maledizione lanciata dal padre-fratello Edipo, secondo cui i due fratelli avrebbero finito la loro vita, versando l’uno il sangue dell’altro. Le donne, alla notizia dell’esercito che si avvicina alle mura, si lasciano andare a un lamento di terrore talmente accorato e disperante che Eteocle inizia a temere che possano seminare il panico in tutta la città, conducendola praticamente alla paralisi. Le Tebane si danno a invocazioni, preghiere e suppliche di ogni genere. Evocano, una per una, tutte le divinità di Tebe; ricordano i sacrifici e le offerte destinati agli immortali, come anche le cerimonie misteriche svolte in città, pregano gli dèi di non abbandonarla al destino di distruzione che sembra profilarsi con l’esercito argivo, alle porte, venuto a sostenere il giovane Polinice nella contesa per il trono. Il dolersi esasperato e le giaculatorie insistenti che fanno vacillare la fiducia dell’esercito impegnato a rispondere all’assedio, le urla di terrore che riempiono le strade, spingono Eteocle a prendere provvedimenti per ripristinare l’ordine pubblico. Il sovrano di Tebe, pertanto, rimprovera le donne e comanda loro di ritirarsi in casa in silenzio, con la minaccia, per tutti coloro che seminano il panico, in quel delicato frangente, di consegnarli al popolo per la lapidazione.82 La reazione delle Tebane ricorda l’affliggersi inopportuno di Penelope all’ascolto del canto delle gesta degli eroi partiti per Troia,83 mentre le misure intraprese da Eteocle trovano il loro pendant nella reazione di Telemaco che rispedisce la madre ai suoi compiti e ai suoi spazi. Il figlio di Edipo, di fronte alla minaccia incombente e a una situazione interna che rischia di fiaccare gli animi, ricorre anche alla minaccia dell’esecuzione per lapidazione: lo strumento più concreto della sanzione pubblica. Il coro delle Tebane dichiara subito di avere sentito gli ordini e compreso la minaccia, ma che null’altro hanno fatto le donne se non accorrere alle statue degli dèi per pregare. La replica di Eteocle è ferma e ribadisce la suddivisione dei ruoli: compito degli uomini è sacrificare agli dèi, interrogare gli oracoli e combattere per la città; compito delle donne è stare in casa in silenzio. Le donne insistono, rivendicano la necessità di rivolgersi agli dèi grazie ai quali hanno ricevuto (νεμόμεθα) una città indomita, ma soprattutto si
82 Aesch. Sept. 181–199. 83 Hom. Od. 1. 350.
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chiedono accorate perché le loro suppliche causino tale indignazione: τίς τάδε νέμεσις στυγεῖ; quale nemesis ha in odio queste suppliche?84 La risposta di Eteocle a questo punto si fa più precisa: {Ετ.} οὔτοι φθονῶ σοι δαιμόνων τιμᾶν γένος· ἀλλ’ ὡς πολίτας μὴ κακοσπλάγχνους τιθῇς, εὔκηλος ἴσθι μηδ’ ἄγαν ὑπερφοβοῦ. Non ti impedisco di onorare la stirpe degli dèi, ma non rendere i cittadini paurosi, stai calma senza paura eccessiva. Aesch. Sept. 235–239
La disapprovazione del giovane figlio di Edipo non è sollecitata dalle suppliche del coro di donne tebane, ma dal loro dolersi eccessivo e intempestivo, prima peraltro che la città sia caduta effettivamente nelle mani del nemico. Un timore incontrollato che rischia di destabilizzare i guerrieri e di far vacillare la fiducia stessa nel sovrano, rendendo la situazione della polis, sotto assedio, particolarmente rischiosa. Per questo motivo, Eteocle è pronto a dare seguito ai suoi avvertimenti, chiamando addirittura la cittadinanza intera alla lapidazione delle donne, se non accettano di ritirarsi in silenzio nelle loro case, mettendo fine ai loro lamenti. Il suo è un appello alla moderazione, all’etica del meden agan; una sollecitazione a invocare, certo, la protezione divina, ma con misura e fiducia nelle capacità difensive della polis. La nemesis che riduce al silenzio il coro delle donne è quella tipica di un’emotività eroica al maschile che avevamo già visto all’opera nel dialogo tra Telemaco e sua madre e che ora ritroviamo qui al servizio della resistenza da opporre all’assedio, per la quale la possibilità di un fallimento non è nemmeno lontanamente contemplata.85 Essa rappresenta la marca di due orizzonti di genere che si scontrano sul terreno della gestione della guerra, senza riuscire a venire a patti fra di loro. A un analogo confronto di genere, può ricondursi l’appello alla nemesis pronunciato da Teseo nell’Edipo a Colono. Il sovrano ateniese vi ricorre, al momento della morte di Edipo che, supplice nel demo attico, gli aveva strappato la promessa che non avrebbe mai rivelato a nessuno il luogo della sua sepoltura. Questo segreto, conservato per generazioni, avrebbe tenuto lontano i nemici da Atene e protetto la città. Edipo, pertanto, si avvia da solo verso il suo destino e accolto dalle divinità, esce di scena. Antigone e Ismene si disperano per la morte del padre e pregano Teseo di portarle sulla tomba
84 Aesch. Sept. 235. Il nesso tra la voce medio-passiva del verbo nemo e il sostantivo nemesis è stato messo in evidenza da Verrall 1887, 21, ad loc. Per un ventaglio di traduzioni proposte a questi versi: Ubaldi 1958, 53, ad loc. 85 Anche Coman 1931, 141 interpreta questi versi come un riferimento alla nemesis umana. Sul dialogo tra Telemaco e Penelope, cfr. supra p. 70.
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segreta del padre. Il loro lamento disperato viene arginato dalle parole del sovrano ateniese che spiega come gli dèi abbiano ormai accordato al padre il destino desiderato e che ogni ulteriore lamento non farebbe che suscitare la nemesis.86 Qui la prospettiva maschile dell’opportunità e della misura e quella del sovrano che deve assicurare protezione alla sua città si scontrano nuovamente con quella femminile del pothos, della nostalgia che le figlie sentono per il padre che è venuto a mancare.87 Teseo, vincolato da un giuramento, rifiuta di portare le principesse tebane sul sepolcro paterno, ma promette loro un sereno ritorno in patria. Antigone accetta e il coro chiude la tragedia, raccomandando alle due sorelle di non risvegliare il pianto, poiché tutto ormai è sancito: πάντως γὰρ ἔχει τάδε κῦρος (v. 1780). 5. Conseguenze della nemesis (ex) anthropon Dalle riflessioni sin qui condotte, appare evidente l’efficacia etica e normativa riconosciuta alla nemesis umana, le cui cause, gli esiti, i limiti e i campi di applicazione rientrano in un orizzonte socialmente condiviso che consente di rinegoziarne i termini sulla base delle circostanze e delle attenuanti invocate. Dai passi della tragedia appena esaminati, fa capolino qua e là anche una nemesis attribuita agli dèi, le cui motivazioni, però, sembrano interpretate sulla base di parametri comportamentali stabiliti dai mortali. Nei poemi omerici, invece, la nemesis degli uomini e la reazione divina formano talora un vero e proprio binomio, come emerge dalle imprecazioni che Odisseo lancia ai pretendenti prima di dare avvio alla strage: Ah cani, non pensavate che indietro a casa tornassi dalla terra dei Teucri, perciò mi mangiate la casa, delle mie schiave entrate per forza nel letto, e mentre son vivo mi corteggiate la sposa, senza temere gli dèi (οὔτε θεοὺς δείσαντες), che l’ampio cielo possiedono, né la nemesi, che in seguito potesse venire dagli uomini (οὔτε τιν’ ἀνθρώπων νέμεσιν κατόπισθεν ἔσεσθαι). Ora tutti ha raggiunto il termine di morte. Hom. Od. 22.35–41
Il timore nei confronti degli dèi è ammesso prioritariamente rispetto alla nemesis degli uomini, i cui effetti, prorogati (κατόπισθεν) ma inevitabili, sono resi evidenti proprio
86 Soph. Oed. Col. 1751–53. Secondo Jebb 1928, 269, ad loc. si tratta in questo caso di una nemesis divina da leggere come la risposta indignata degli dèi di fronte all’insoddisfazione per un beneficio ricevuto. 87 Soph. Oed. Col. 1697.
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dall’esito del massacro dei pretendenti che Odisseo porta felicemente a termine, seppur non senza il favore divino.88 In un contesto completamente diverso da quello dei poemi omerici, l’idea di una nemesis tardiva che si abbatte sugli uomini, è ripresa nel Corpus theognideum: una raccolta di elegie, comprendente in totale circa 1400 versi articolati in due libri di cui il primo è decisamente più corposo del secondo, costituito soltanto da circa 160 versi. Tutti gli aspetti importanti relativi all’interpretazione di questa silloge rappresentano altrettanti nodi problematici su cui gli studiosi si sono, fino ad oggi, molto interrogati: la cronologia e le modalità di costituzione, l’attribuzione e la datazione dei versi sono stati oggetto di un dibattito acceso che si è sviluppato nel corso di più di due secoli.89 È certo che la paternità di tutti i componimenti non sia da attribuire esclusivamente al poeta che la tradizione ricorda come Teognide di Megara.90 Quello che ci è giunto sotto il nome di Corpus theognideum altro non sarebbe quindi che un gruppo di testi aggregatisi attorno a un nucleo considerato dagli studiosi originale riconducibile al poeta di estrazione aristocratica che la tradizione ricorda con il nome di Teognide di Megara. A questo nucleo di base sarebbero poi state aggiunte, fino all’epoca ellenistica e anche successivamente fino al IX sec. d. C., ulteriori composizioni di anonimi poeti attivi in un arco cronologico abbastanza vasto che va dal VII al V sec.91 A dispetto però dei problemi esegetici che la silloge pone, quanto invece emerge con una certa coerenza è il quadro di una società aristocratica in crisi che vede vacillare la propria base di potere e di consenso, ma che lotta strenuamente per mantenere i propri privilegi di nascita. L’insicurezza legata alla percezione di profondi cambiamenti sociali in corso, il pessimismo, l’ostilità contro i ceti popolari permeano questi versi, dedicati a un ampio spettro tematico che contempla il ruolo dell’amicizia, la relazione tra divino e umano, la giustizia, l’alternarsi delle vicende umane etc. I suggerimenti e
88 Hom. Od. 22.205–301. 89 Per un approfondito status quaestionis cfr. Selle 2008, 4–16. 90 Gli studiosi tendono ad ascrivere alla sua mano solo un gruppo di versi spesso individuati sulla base del destinatario individuato nel giovane Cirno, figlio di Polipao, cui molti poemi della raccolta sono rivolti. Dubbio è inoltre l’arco cronologico in cui collocare la vicenda biografica di Teognide, che i riferimenti storici rintracciabili all’interno del corpus consentono di fissare tanto in pieno VI sec. (600–530 a. C.), quanto a cavallo tra VI e V sec. (545–470). Per di più, un certo disaccordo tra le fonti si registra anche in relazione alla sua provenienza da Megara Nisea, tanto che Platone (Leg. 1, 630) non esita ad attribuirgli invece la cittadinanza presso Megara Iblea in Sicilia. Gli studiosi sono tuttavia più inclini a collocare nel VI sec. il periodo di attività del poeta, mettendolo in relazione con gli avvenimenti che agitarono la Megara dell’Istmo dalla tirannide di Teagene fino al periodo immediatamente successivo segnato, dopo una fase di iniziale equilibrio, dall’instaurarsi di una “democrazia sfrenata” che mise a mal partito gli aristocratici megaresi (Cfr. Arist. Pol. 5.1330; Plut. Quaest. graec. 18. Su questi avvenimenti e sul coinvolgimento di Teognide, cfr. Legon 1981, 86–119). 91 Sui Theognidea esiste una bibliografia molto ampia. Mi limito a citare alcuni degli studi più recenti e a rinviare ad essi per la bibliografia di riferimento: Peretti 1953; Bowra 1960; West 1974; Selle 2008.
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le massime in essa contenuti erano rivolti a circoli di aristocratici e destinati alla performance in contesti simposiaci in cui alla parola poetica era affidato il compito ora di ricordare eventi e persone, ora di denunciare ingiustizie e distorsioni, ora quello di promuovere l’ordine e la pace sociale.92 Sullo sfondo si indovinano le linee principali di un pensiero che, accanto alla nemesis divina, sembra riproporre l’orizzonte omerico della nemesis anthropon. Il termine ricorre all’interno di distici poco commentati nelle edizioni di riferimento, le cui note in generale si limitano all’indicazione delle formule riprese da altri autori come Omero o Esiodo. Tuttavia, benché difficile – se non addirittura temerario – possa risultare ogni sforzo di contestualizzazione storica, questi versi meritano un’analisi all’interno della nostra riflessione. Quelli che prenderemo in esame sono distici che, per temi e motivi ricorrenti, sono facilmente riconducibili all’orizzonte concettuale della poesia di matrice teognidea, con la sua riflessione sulla giustizia, l’opposizione tra kakoi e agathoi e il tema della ritardata punizione divina. I versi 279–282 riconoscono al timore per la nemesis una funzione di regolazione sociale che induce ad astenersi da azioni scellerate: Εἰκὸς τὸν κακὸν ἄνδρα κακῶς τὰ δίκαια νομίζειν, μηδεμίαν κατόπισθ’ ἁζόμενον νέμεσιν· δειλῶι γάρ τ’ ἀπάλαμνα βροτῶι πάρα πόλλ’ ἀνελέσθαι πὰρ ποδός, ἡγεῖσθαί θ’ ὡς καλὰ πάντα τιθεῖ. È naturale che il malvagio abbia un’idea sbagliata di ciò che è giusto, non temendo alcuna nemesis futura: L’uomo meschino è capace d’intraprendere molte azioni scellerate lì per lì, eppure di continuare a credere che agisce per il meglio. Thgn. 279–282 (trad. Ferrari)
Questa coppia di distici è inserita all’interno di una serie riconosciuta quale rimaneggiamento del tema esiodeo del drammatico destino che attende gli uomini dell’età del ferro.93 Il tema di una nemesis che giunge successivamente a punire, è però già presente in Omero, proprio nel passo dell’Odissea appena esaminato.94 Nella prospettiva omerica, però, a dovere essere oggetto di riverenza e di timore è la nemesis anthropon, una nemesis umana che arriva, a distanza di tempo, a sanzionare gli atti scellerati. Non è chiaro cosa invece l’autore di questi versi abbia in mente: se cioè il suo orizzonte sia, come nei versi omerici ripresi quasi verbatim, quello della sanzione sociale che si esprime attraverso la nemesis anthropon. Certo è che anche qui il timore che esercita sugli 92 Su questo ruolo della parola poetica nei banchetti, Schmitt Pantel 2011, 32–38. 93 Nestle 1938, 121 che peraltro non vede ragioni per negare a Teognide la paternità dei distici 271–294. 94 Cfr. supra p. 74.
Oltre la morte: l’autorità della nemesis dei defunti
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uomini dabbene svolge una funzione deterrente che li mette al riparo dal compiere azioni turpi. Esso però non ha nessuna efficacia sui kakoi che, al contrario, persistono nella loro visione distorta del giusto. La loro indifferenza nei confronti di qualsiasi sanzione, sia essa divina o umana, trova la massima espressione in uno straordinario connubio di ignoranza e colpa.95 I kakoi del corpus theognideum assomigliano infatti al Paride omerico, incuranti della disapprovazione sociale e incapaci di distinguere i comportamenti corretti da quelli scorretti. 6. Oltre la morte: l’autorità della nemesis dei defunti La nemesis può essere presentata essa stessa quale forza dotata di agentività e quindi altrettanto demandata a sancire, ratificare e a fornire il suo sigillo di approvazione a un atto o a un comportamento. Tale appare nell’Elettra sofoclea, nel corso di un drammatico confronto tra la giovane figlia di Agamennone e la madre Clitemestra. Qui, come già altrove, due opposte prospettive femminili si fronteggiano: quella della figlia, indignata contro la madre uxoricida che l’ha privata del padre e ha esiliato il fratello Oreste deciso ormai a farsi giustizia; e quella della madre, che rivendica le sue ragioni nei confronti di un basileus insensibile che ha sacrificato la giovane figlia Ifigenia sull’altare della “ragion di stato”, e ora teme il ritorno del figlio in cerca di vendetta. In uno scambio dai toni accesi e rancorosi, le due donne commentano l’infausto destino di Oreste che, con un escamotage, è riuscito a farsi credere morto alla corte di Argo, rasserenando così Clitemestra e l’amante Egisto. Quest’ultimo ha preso il posto di Agamennone a fianco alla regina. Clitemestra, ascoltato il messaggio del tutore di Oreste, giunto sotto le mentite spoglie di uno straniero di passaggio, si rallegra e comincia a oltraggiare il morto davanti a Elettra che, a corte, non ha mai cessato di piangere lui e il padre e di accusare la madre per averlo ucciso: {ΗΛ.} Οἴμοι τάλαινα· νῦν γὰρ οἰμῶξαι πάρα, Ὀρέστα, τὴν σὴν ξυμφοράν, ὅθ’ ὧδ’ ἔχων πρὸς τῆσδ’ ὑβρίζῃ μητρός· ἆρ’ ἔχει καλῶς; {ΚΛ.} Οὔτοι σύ· κεῖνος δ’, ὡς ἔχει, καλῶς ἔχει. {ΗΛ.} Ἄκουε, Νέμεσι τοῦ θανόντος ἀρτίως. {ΚΛ.} Ἤκουσεν ὧν δεῖ κἀπεκύρωσεν καλῶς. {ΗΛ.} Ὕβριζε· νῦν γὰρ εὐτυχοῦσα τυγχάνεις. [El.] Ahimè misera: ora infatti è il momento di piangere la tua disgrazia, Oreste: anche così, sei oltraggiato dalla madre, è forse bello? [Cl.] Per te no, ma lui come sta, sta bene
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Carrière 1948, 41, n. 2.
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[Hl.] Ascolta, Nemesis di chi è morto da poco. [Cl] Ha ascoltato quanto doveva e ha ben deciso [El] Offendi pure, ora che la fortuna ti sorride Soph. El. 791–794
Benché seguita dal genitivo soggettivo, l’evocazione della nemesis sembrerebbe, a primo acchito, rinviare qui a una figura autonoma, investita di un’autonomia decisionale, specificamente sottolineata dal verbo ἐπικυρόω. Più verosimilmente essa invece rappresenta l’indignazione del defunto che prende corpo e assume una capacità sanzionatoria. Elettra la invoca quasi fosse un’entità divina e Clitemestra le attribuisce una medesima capacità di ascolto e di azione. Si potrebbe addirittura ipotizzare che non allo stesso defunto si riferiscano le due donne. La figlia infatti auspica chiaramente che il senso d’indignazione, attribuito al fratello, dato per morto e così oltraggiato dalle parole della madre, si manifesti e punisca finalmente la madre; Clitemestra, dal canto suo, potrebbe riferirsi alla nemesis della figlia Ifigenia uccisa per consentire una felice partenza alla flotta greca alla volta di Troia. Nell’uno e nell’altro caso siamo sempre di fronte a un’ennesima declinazione di una nemesis anthropon attribuita ad un defunto il cui oikos è stato profondamente destabilizzato.96 A tale reazione, cui si attribuisce persino un’efficacia postuma, viene comunque assegnato un potenziale punitivo particolarmente dirompente. Come tale deve intendersi la nemesis evocata da Egisto, quasi al termine del dramma, di fronte a quello che egli crede essere il cadavere di Oreste: {ΑΙ.} Ὦ Ζεῦ, δέδορκα φάσμ’ ἄνευ φθόνου μὲν οὐ πεπτωκός· εἰ δ’ ἔπεστι νέμεσις, οὐ λέγω. Χαλᾶτε πᾶν κάλυμμ’ ἀπ’ ὀφθαλμῶν, ὅπως τὸ συγγενές γε κἀπ’ ἐμοῦ θρήνων τύχῃ. [Eg.] O Zeus, il prodigio che vedo non è accaduto senza rancore (da parte tua): se però questo suscita indignazione, non lo dico Toglietegli quel velo dagli occhi, poiché è mio parente tocchi anche a me piangerlo Soph. El. 1466–69
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Contra Jebb 1924, 114–115 e 196, ad loci; e sulla sua scia Kells 1973, 152–153 e 226; Kamerbeek 1974, 111 e 189; Schmitz 2016, 147 e 231, le cui interpretazioni sono però spesso basate su ragionamenti circolari che partono da un’idea preconcetta di nemesis o della nemesis divina. Tracce di un sentimento di indignazione, di una nemesis dall’agire veloce (ὠκυτάτη) di cui sarebbero capaci i defunti di fronte a gesti o parole irrispettose, si trovano in un epigramma che accompagna un rilievo conservato al Museo del Pireo e datato al II–III sec. d. C.: IG II2 10385 (Kaibel EG 119 = Peek, Grabgedichte 291).
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Qui l’invocazione a Zeus serve ad Egisto ad avere conferma che la visione del cadavere di Oreste corrisponde esattamente al volere degli dèi, e di Zeus in particolare. È egli quindi a interpretare la morte del giovane come un segnale del favore di cui egli gode presso gli dèi. Si rende subito conto che la sua dichiarazione, di fronte al corpo del defunto, contrasta con il comportamento compassionevole che si dovrebbe avere di fronte a un cadavere, per di più appartenente alla sua stessa famiglia, e che le sue parole potrebbero sollecitare la nemesis dei presenti, se non del defunto stesso. Si trattiene quindi dall’affermare a gran voce che la morte di Oreste (che lui non sa essere pura finzione) è la piena realizzazione di una giustizia divina che ha appena dato ragione alle azioni di Clitemestra e alle sue. Si avvicina per rendere omaggio al morto per salutarlo, ignaro dell’amara sorpresa che lo attende e del destino che di lì a poco lo colpirà. Il rischio della nemesis viene quindi qui evocato in rapporto alla verbalizzazione di pensieri e opinioni fuori luogo, tanto più quando essi si attribuiscono una comprensione dell’agire divino più profonda di quanto concesso ai mortali. Il concetto della nemesis dei defunti è ripreso, a distanza di tempo, da Plutarco,97 che ricorda come essa finì per toccare all’egiziano Busiride che uccideva gli stranieri. Fu Eracle infatti che, dopo essere stato attaccato, lo assassinò con la clava. L’eroe diventa così l’esecutore materiale di una sanzione comminata da defunti che non possono più eseguirla. La manifestazione tardiva della nemesis richiede quindi che sul responsabile diretto dell’atto ricada una punizione che potranno essere anche altri a portare a segno, nel caso in cui, nel frattempo, la vittima dell’abuso abbia trovato la morte. 7. Controllo sociale e strategie di prevenzione della nemesis Tanto nell’universo maschile quanto in quello femminile, la nemesis è un’emozione che è opportuno saper prevenire, piuttosto che lasciare esplodere. Se le donne, pur di evitarla, ricorrono all’escamotage di coprirsi, appartarsi o sottrarsi alla vista, nell’uomo, al contrario, tale timore si concretizza in una piena adesione alle regole stabilite all’interno del gruppo. A scatenarla sono, per lo più, la vista di comportamenti scorretti, l’uso di parole inadeguate98 o, più in generale, atteggiamenti che minacciano la coesione e la sicurezza comunitarie. Il rischio di attirarla su di sé fa scattare di solito una forma di autocensura che fissa, volta per volta, quanto è socialmente accettabile e quanto non lo è, limitando al massimo, ed entro confini prestabiliti, impulsi individuali, atteggiamenti devianti o riducendo al silenzio chi pronuncia dichiarazioni fuori luogo. Nelle rare occasioni in cui il richiamo alla nemesis è sollecitato dall’esterno, come forma di esortazione all’azione, esso rappresenta una sorta di extrema ratio, in contesti già pro-
97 Plut. Par. min. 315b. 98 Cfr. a questo proposito, Lévy 1995, 195.
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fondamente perturbati o scompaginati.99 L’esplodere della nemesis espone il bersaglio allo sfogo della sanzione sociale i cui metodi di applicazione sono, per definizione, imprevedibili e incontrollabili, come si verifica con il soldato Tersite, escluso dalla sua comunità, o con le donne tebane, minacciate di essere condannate alla lapidazione. Ancor più incontrollabile e minacciosa, è la nemesis che i mortali attribuiscono ai defunti e che ritengono responsabile di rappresaglie verso coloro che sono ancora in vita. I poemi omerici mostrano con chiarezza come un senso adeguato della nemesis sia un valore utile all’amministrazione dell’oikos e alla tutela del suo prestigio e un prezioso supporto nella gestione dell’equilibrio tra pubblico e privato, celato e manifesto. La capacità di controllarne gli esiti è prerogativa che, tanto le donne quanto gli uomini, devono saper coltivare sia nelle relazioni all’interno di un medesimo gruppo, sia in quelle con gli stranieri sui cui rapporti si reggevano il funzionamento e la sopravvivenza stessa di quella realtà. Un misurato senso della nemesis spinge ad agire in conformità alle regole condivise, inibendo guizzi di personalismo, eventuali deragliamenti e sopprimendo opportunamente gli impulsi individuali. Il controllo di questa emozione si costruisce, nel corso del tempo, in un dialogo culturale tra la coscienza dell’individuo e l’orizzonte sociale di riferimento. L’interruzione di questo dialogo determina una sua errata percezione riguardo a sé stessi e agli altri; una sua gestione distorta finisce parimenti per marginalizzare, come accade talora alle donne o a quegli eroi che disconoscono la nemesis. È quel che si verifica nel caso di Paride, che opera una scelta controcorrente preferendo lo spazio appartato e protetto del talamo al campo di battaglia, o in quello di Achille la cui eccessiva sensibilità alla nemesis conduce all’autoesclusione dal gruppo. La manifestazione della nemesis, infatti, equivale in generale a una presa di distanza pubblicamente dichiarata. In questo senso forse si chiarisce il nesso etimologico, più volte indagato, tra il termine e il verbo nemo da cui esso deriva.100 L’origine dell’astratto nemesis dalla stessa radice nem- del verbo nemo è, infatti, unanimemente accolta dagli studiosi. Meno chiaro appare il rapporto etimologico tra quest’ultimo e la varietà di significati che il sostantivo verrà a ricoprire in tutto l’arco della storia greca, a partire dalla sua connotazione psicologica, fino all’affermarsi di una divinità con lo stesso nome. Ora, senza volere troppo entrare nei termini di questa querelle, dal punto di vista linguistico, si potrebbe provare a suggerire una pista.
99 Cfr. supra, per esempio, l’appello di Telemaco ai pretendenti (Hom. Od. 2.138–139) o quello di Glauco ai Troiani affinché proteggano il cadavere di Sarpedonte caduto sul campo di battaglia (Hom. Il. 16.541–547), oppure la minaccia con cui Eteocle apostrofa le donne tebane, p. 72 e ss. 100 La questione è stata affrontata da Laroche 1949, 93, che ha individuato nel nome astratto nemesis il significato originari dell’«action d’imputer à quelqu’un» e da Benveniste 1975, 79, che invece ha interpretato il termine, in diretta derivazione dal verbo nemo come «le fait d’attribuer par l’autorité légale». Νέμω indica, dunque, secondo Benveniste l’azione di «partager légalement; faire une attribution régulière, conforme au rang des personnes ou aux convenances de la situation».
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Il verbo nemo indica l’atto di distribuire, di assegnare in modo conforme all’uso in contesti pubblici o socialmente rilevanti;101 talora anche quello di leggere ad alta voce.102 Allo stesso modo, il senso del sostantivo astratto nemesis, con tutti i suoi risvolti psicologici, potrebbe essersi sviluppato dal significato originario di assegnazione dichiarata pubblicamente,103 laddove essa implichi il riconoscimento della posizione di ciascun membro in seno al gruppo: una forma di giudizio coralmente condiviso che fissa i termini dell’azione individuale entro margini ben precisi. Ogni dichiarazione pubblica se condivisa trasmette gli umori comunitari, ma se è disapprovata, nei modi o nei contenuti, finisce per isolare chi l’ha enunciata. Da qui il carattere complesso della nemesis che gli eroi omerici e tragici si sforzano di prevenire per proteggere la loro appartenenza al gruppo e che lasciano esplodere, a viso scoperto, quando non si riconoscono più in esso. Sia una scarsa sensibilità alla nemesis, sia una nemesis inopportuna, impediscono la corretta interazione tra l’individuo e il resto della comunità. La conseguenza di questo cortocircuito è la presa di distanza dal gruppo, l’autoesclusione e il ripiegamento nella sfera privata. Il senso veicolato dal sostantivo è infatti certamente quello intensivo di un processo di attribuzione regolare, dotato di un’autorità che deriva dalla consuetudine, ma anche volto a ristabilire un equilibrio. La comunità o l’individuo che sentono la nemesis reclamano una nuova distribuzione delle parti o dei ruoli, e non necessariamente agli altri, ma principalmente a sé stessi. Il gruppo che la lascia esplodere reagisce compatto a una grave infrazione, marginalizza, esclude, obbliga a tacere colui o colei che l’ha provocata, come accade alla Penelope omerica o alle donne tebane nei Sette a Tebe, costrette a soffocare il loro dolore nel silenzio. L’individuo, invece, che manifesta la propria indignazione solitaria non fa che isolarsi. È questo il motivo per cui, inibendo o riducendo al minimo ed entro confini accettabili gli exploits individuali, un efficace controllo della nemesis è garanzia per l’integrità e la sopravvivenza del gruppo e promessa di longevità per l’intera comunità. Non è forse un caso, come vedremo, che parte dell’addestramento militare degli efebi ateniesi104 avrà luogo, a partire dalla seconda metà del IV sec. a. C., proprio all’ombra del santuario di Nemesis a Ramnunte, in Attica.
101 Nei poemi omerici il verbo nemo ricorre per lo più al medio nel senso di “abitare”. È attestato solo 14 volte nel senso di “distribuire” (cfr. Laroche 1949, 7–12). In ciascuno di questi casi, indica, significativamente una ripartizione che ha luogo in un contesto pubblico e spesso ufficiale. Per le attestazioni di nemo nel senso di “distribuire” all’interno dei poemi omerici cfr.: Hom. Il. 3.274; 9.217; 24.626; Od. 6.188; 7.179; 8.470; 10.357; 13.50; 14.210, 449, 436; 15. 140; 20.253. 102 Svenbro 1995, in part. 5–6. 103 Devo ai suggerimenti di Andrea Cozzo l’elaborazione di queste riflessioni sull’uso del termine nemo in Omero e lo ringrazio per avere discusso con me molti dei passi qui analizzati. 104 Sulla Nemesis di Ramnunte cfr. infra cap. 7.
Capitolo secondo Efficacia e inefficacia della nemesis divina nei poemi omerici
1. Emotività divina nei poemi omerici: quali chiavi di lettura? La sollecitudine con cui gli eroi omerici si sforzano di evitare la nemesis (ex) anthropon ne conferma in maniera inequivocabile il carattere pericoloso e temibile. Un analogo scrupolo, invece, non sembra potersi riscontrare rispetto alla possibilità dell’insorgere della medesima emozione presso gli dèi, le cui conseguenze, almeno nei poemi omerici, preoccupano poco i mortali. Il diverso peso attribuito alla nemesis dei mortali e a quella degli immortali merita di essere indagato nell’ambito della più ampia questione relativa all’emotività divina.1 L’epica omerica ci ha consegnato lo specchio di un mondo sovraumano per lo più antropomorfo, costruito su una fitta rete di rapporti familiari e attraversato da tensioni emotive che, a corrente alternata, regolano i meccanismi di azione e reazione tra le divinità e tra mortali e immortali.2 L’intreccio narrativo presenta un ventaglio di situazioni straordinariamente ampio e strutturato. In tali situazioni gli dèi mettono in campo una palette altrettanto differenziata di emozioni che va dalla menis al cholos, dal kedos al phobos, dall’eleos alla philia. In questo spettro emotivo rientra anche la nemesis che viene sempre attribuita a divinità ben individuate da un teonimo e sollecitata da atti e comportamenti umani o divini riconoscibili con chiarezza. Lo stesso, viceversa,
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Il tema dell’emotività divina nelle religioni del Mediterraneo antico è stato esplorato nell’ambito di un dossier curato da Borgeaud/Rendu Loisel 2010, che raccoglieva una serie di articoli prevalentemente incentrati sulle espressioni della collera divina. Pietà e collera divina sono anche l’oggetto del volume edito da Kratz/Spieckermann 2008 con un contributo dedicato per l’appunto a tali manifestazioni nell’epica antica (Schenk 2008). La dinamica collera e ravvedimento divini nelle religioni antiche sono invece al centro una raccolta di saggi curata da Durand/Marti/Römer 2015, mentre uno studio sulle emozioni positive degli dèi nel mondo omerico e nelle testimonianze di età arcaica e sui loro significati, è stato di recente oggetto dell’indagine di Bertau-Courbières 2017. Sulla rappresentazione antropomorfa degli dèi di Omero, cfr. i contributi raccolti in Gagné/Herrero de Jáuregui 2019.
La nemesis di Zeus Xeinios e la tutela dei supplici
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non può dirsi per le testimonianze di epoca successiva, dove la nemesis non è prerogativa di specifiche figure divine, ma piuttosto espressione di un divino anonimo e indistinto, le cui modalità di intervento risultano difficilmente intellegibili e prevedibili e per questo – forse – più temibili.3 I conoscitori di Omero erano di certo abituati a pensare la collera di Zeus, la gelosia di Era o la furia di Ares. Quale senso, però, essi dessero a tali esplosioni emotive non è facile da stabilire: se le percepissero quali mere finzioni letterarie – o «fattori dinamici del racconto» come li definiscono G. Sissa e M. Detienne4 – o se vedessero in esse anche una chiave utile a meglio definire e rappresentare l’identità del dio, a raccontarne il profilo e il rapporto con i mortali. L’analisi delle testimonianze, qui di seguito raccolte, consente di definire efficacia, campi di applicazione e funzioni delle espressioni della nemesis all’interno del mondo divino raccontato nell’epopea omerica. 2. La nemesis di Zeus Xeinios e la tutela dei supplici Le occorrenze di una nemesis attribuita agli dèi omerici sono quindici in totale e presenti, quasi nella totalità, nei versi dell’Iliade. Un episodio del XIV libro dell’Odissea riferisce tuttavia la sola menzione di una divinità la cui nemesis i mortali mostrano chiaramente di temere. La divinità in questione è Zeus Xeinios, grazie alla cui protezione Odisseo, sotto le spoglie del mendicante, aveva trovato riparo, nel corso delle sue vicissitudini in Egitto. L’eroe, sfogandosi con il porcaio Eumeo, ricorda che, per sfuggire alla rappresaglia sorta a causa delle violenze perpetrate dai suoi compagni in quel luogo, si era tolto l’elmo e lo scudo, prostrandosi quale supplice davanti al re egizio. Il sovrano decise a quel punto di risparmiarlo dal linciaggio dei suoi sudditi perché, dicono i versi omerici, «temeva l’ira di Zeus Xeinios, che molto s’indigna per le azioni malvage (Διὸς δ᾿ωπίζετο μῆνιν / ξεινίου, ὅς τε μαλιστα νεμεσσᾶται κακὰ ἔργα)».5 La nemesis è qui capace di muovere la reazione di una divinità specificamente preposta alla protezione degli ospiti e, nella fattispecie dei supplici. L’attitudine riconosciuta a Zeus Xeinios consente di comprendere meglio il comportamento adottato da Telemaco nei confronti di Mentes o lo scrupolo dei pretendenti rispetto all’oltraggio perpetrato da Antinoo ai danni del mendicante, di cui si è discusso in precedenza.6
3 Cfr. infra p. 119 e ss. 4 Sissa/Detienne 2005 [1989], 31. Dello stesso avviso anche Schenk 2008. Secondo Pirenne-Delforge/Pironti 2016, 244–245, osservano che per quanto le emozioni divine popolino la letteratura greca, esse non servono certo solo per sostenere l’intreccio narrativo. 5 Hom. Od. 14.283–284. 6 Cfr. supra p. 56 e ss.
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Efficacia e inefficacia della nemesis divina nei poemi omerici
Che le violenze contro i supplici siano tra gli atti che tipicamente scatenano la nemesis divina è confermato anche da un passo del Filottete sofocleo, quando a Neottolemo figlio di Achille, incaricato da Odisseo di condurre con l’inganno l’eroe sulla nave dei Greci, per dare seguito alla profezia di Eleno e far sì che Troia potesse essere sconfitta, il coro suggerisce di dare ascolto alla supplica dell’invalido arciere. Filottete era stato abbandonato dai suoi compagni, in rotta verso Troia, sull’isola di Lemno, a causa di una piaga purulenta e maleodorante, conseguenza di una ferita dovuta al morso di un serpente, che lo aveva reso orribilmente claudicante. Imbattutosi in Neottolemo, l’eroe figlio di Peante lo supplica di portarlo via sulla sua nave, dopo avergli raccontato gli anni passati in solitudine, tra i tormenti e i dolori che la ferita gli causava. Per persuaderlo, egli fa leva sulla nemesis degli dèi (nemesis theon)7 in versi che riproducono così una concezione analoga a quella omerica, in cui la tutela del supplice è assicurata dal timore di una generica reazione divina.8 3. Riconoscere la time, onorare gli dèi A parte il caso di Zeus Xeinios, nell’Odissea non vi sono più altre menzioni di divinità segnate dalla nemesis. L’Iliade, al contrario, ci offre una quantità più consistente di materiale su cui lavorare, attribuendola a divinità quali Apollo, Poseidone ed Era. La loro reazione è sollecitata da circostanze particolari e in sostanza riconducibili alle rispettive scelte di campo nella guerra che vede fronteggiarsi Troiani e Achei. Nel poema, infatti, gli schieramenti divini sono dichiarati con chiarezza: Apollo, Afrodite e Ares, supportati da Artemide, Latona e lo Xanto9 proteggono i Teucri, mentre Era, Atena e Poseidone (e con loro Efesto e Ermes) cooperano per limitare i danni sui Danai. Su tutti regna il disegno generale di Zeus che, pur avendo stabilito l’esito del conflitto e decretato la distruzione di Troia, è vincolato da una promessa fatta a Teti, madre di Achille. Il dio lascia, quindi, per gran parte del poema, i Danai allo sbaraglio, sostenendo l’esercito dei Troiani, affinché evidenti appaiano agli Atridi le conseguenze dell’offesa arrecata alla time dell’eroe, cui Agamennone aveva sottratto Briseide, privandolo così del suo geras. La nemesis di Apollo e di Poseidone è sollecitata dai mortali in due situazioni, profondamente speculari, che ci dicono molto del modo in cui tali divinità erano percepi-
7 Soph. Phil. 518. 8 Come osserva Manuwald 2018, 184, ad loc., il nesso è reso evidente dall’appello a Zeus hikesios del verso 484. Nel dramma, tuttavia, l’espressione ricorre anche un’altra volta nella forma ἢ θεῶν βία καὶ νέμεσις, la nemesis e la violenza degli dèi (Soph. Phil. 602). In questo caso il riferimento è alla sanzione divina che colpisce un altro genere di crimine: quello, per l’appunto, di cui si sono resi responsabili i Greci, abbandonando Filottete ferito e malato sull’isola. 9 Hom. Il. 20.31–40.
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Riconoscere la time, onorare gli dèi
te. Nel IV libro dell’Iliade, Apollo osserva, dalla rocca di Troia, i campioni dei Troiani indietreggiare, incalzati dagli Achei: τόν ῥ’ Ὀδυσεὺς ἑτάροιο χολωσάμενος βάλε δουρὶ κόρσην· ἣ δ’ ἑτέροιο διὰ κροτάφοιο πέρησεν αἰχμὴ χαλκείη· τὸν δὲ σκότος ὄσσε κάλυψε, δούπησεν δὲ πεσών, ἀράβησε δὲ τεύχε’ ἐπ’ αὐτῷ. χώρησαν δ’ ὑπό τε πρόμαχοι καὶ φαίδιμος Ἕκτωρ· Ἀργεῖοι δὲ μέγα ἴαχον, ἐρύσαντο δὲ νεκρούς, ἴθυσαν δὲ πολὺ προτέρω· νεμέσησε δ’ Ἀπόλλων Περγάμου ἐκκατιδών, Τρώεσσι δὲ κέκλετ’ ἀΰσας· ὄρνυσθ’ ἱππόδαμοι Τρῶες μηδ’ εἴκετε χάρμης Ἀργείοις, ἐπεὶ οὔ σφι λίθος χρὼς οὐδὲ σίδηρος χαλκὸν ἀνασχέσθαι ταμεσίχροα βαλλομένοισιν· οὐ μὰν οὐδ’ Ἀχιλεὺς Θέτιδος πάϊς ἠϋκόμοιο μάρναται, ἀλλ’ ἐπὶ νηυσὶ χόλον θυμαλγέα πέσσει. Ὣς φάτ’ ἀπὸ πτόλιος δεινὸς θεός· Questo Odisseo, irato pel suo compagno, colpì di lancia alla tempia; da parte a parte passò la punta di bronzo; l’ombra gli coprì gli occhi, diede fragore cadendo, l’armi sopra tuonarono. Indietreggiarono i bravi, anche Ettore illustre; gli Argivi gridarono forte e trassero fuori i morti, e corsero molto avanti. Se ne sdegnò Apollo, che vide dall’alto di Pergamo, chiamò i Troiani gridando: “Su Troiani domatori di cavalli, non arretrate in battaglia Davanti agli Argivi, che non è pietra la loro pelle né acciaio da reggere al bronzo tagliente quando sono colpiti. E Achille, il figliuolo di Teti bella chioma, non combatte, ma presso le navi cova ira amara”. Disse così dalla rocca il dio tremendo. Hom. Il. 4.501–507
Apollo, signore di Troia, che aveva edificato insieme a Poseidone le mura della città quando entrambi si trovavano al servizio di Laomedonte padre di Priamo, osserva dall’alto la ritirata dei suoi favoriti. Indignato, reagisce, chiamando i Troiani a gran voce. Il dio figura, nei poemi omerici, quale protettore delle porte e delle cinte murarie10 e si caratterizza per la sua propensione al movimento e alla conquista degli spazi. Come
10 Hom. Il. 16.700.
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tale è anche capace di bloccare l’avanzata di Patroclo, impedendogli di scalare la rocca di Troia.11 Per dirla con M. Detienne, Apollo «est né impatient d’aller de l’avant».12 Non ama gli spazi vuoti e, in quanto conquistatore, non ammette evidentemente le ritirate. La sua nemesis è provocata dunque dalla vista del ripiegamento dei Troiani, suoi protetti che, spaventati, lasciano spazio libero al nemico, mettendo a rischio la città che egli stesso ha contribuito a costruire. Tra l’altro, il suolo di Troia gli è piuttosto caro, come testimonia la nemesis che egli evoca, di fronte agli dèi riuniti in assemblea, al vedere Achille trascinare il corpo di Ettore e infierire, in tal modo, sulla terra della piana dinanzi la città.13 Un ragionamento analogo consente di decifrare le ragioni che causano la nemesis di Poseidone contro gli Achei nel XIII libro. Questa volta sono i Troiani che avanzano verso le navi, in un movimento opposto e contrario a quello che aveva suscitato la reazione di Apollo, mettendo a rischio l’integrità della flotta greca. Ed è ora la voce divina di Poseidone, che incoraggia i Greci a non abbandonare le navi, a farsi sentire: ὢ πόποι ἦ μέγα θαῦμα τόδ’ ὀφθαλμοῖσιν ὁρῶμαι δεινόν, ὃ οὔ ποτ’ ἔγωγε τελευτήσεσθαι ἔφασκον, Τρῶας ἐφ’ ἡμετέρας ἰέναι νέας […] ἀλλ’ ἀκεώμεθα θᾶσσον· ἀκεσταί τοι φρένες ἐσθλῶν. ὑμεῖς δ’ οὐκ ἔτι καλὰ μεθίετε θούριδος ἀλκῆς πάντες ἄριστοι ἐόντες ἀνὰ στρατόν. οὐδ’ ἂν ἔγωγε ἀνδρὶ μαχεσσαίμην ὅς τις πολέμοιο μεθείη λυγρὸς ἐών· ὑμῖν δὲ νεμεσσῶμαι περὶ κῆρι. ὦ πέπονες τάχα δή τι κακὸν ποιήσετε μεῖζον τῇδε μεθημοσύνῃ· ἀλλ’ ἐν φρεσὶ θέσθε ἕκαστος αἰδῶ καὶ νέμεσιν· δὴ γὰρ μέγα νεῖκος ὄρωρεν. Ἕκτωρ δὴ παρὰ νηυσὶ βοὴν ἀγαθὸς πολεμίζει καρτερός, ἔρρηξεν δὲ πύλας καὶ μακρὸν ὀχῆα. Ohimè, gran prodigio è questo che vedo con gli occhi, orrendo che io non avrei mai creduto potesse compirsi, giungere i Teucri alle nostre navi[…] Non bellamente, no, lasciate la forza focosa voi, fortissimi tutti in battaglia: io non potrei pigliarmela con un uomo che trascura la lotta
11 Hom. Il. 16.702–711: è significativo che in questo passo del sedicesimo libro, la nemesis di Apollo che guarda alla ritirata dei suoi protetti si trasformi in vera e propria menis contro il greco Patroclo che tenta di scalare le mura di Troia. A definire ulteriormente Apollo come divinità che spinge al movimento, si trova nel XX libro, v. 79 l’epiteto λαοσσός, colui che guida/mette in moto l’esercito. 12 Detienne 1998, 235. 13 Hom. Il. 24.50–54.
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perché è un dappoco. Ma con voi sì, mi adiro di cuore. Amici, presto farete il male più grave col vostro abbandono: abbiate in cuore ciascuno la vergogna e l’onore, è nata grande battaglia. Presso le navi combatte Ettore forte nel grido, violento, ha sfondato la porta e il chiavistello lungo. Hom. Il. 13.95–124
Poseidone raccomanda ai Greci di custodire aidos e nemesis e di non sottrarsi alla battaglia che infuria presso le navi. Tra le emozioni della divinità e quelle dei mortali vi è una corrispondenza perfetta. La nemesis che spinge il dio a reagire è quella che egli stesso tenta di infondere nei Greci, perché non vengano meno al codice eroico ritirandosi dalla lotta, e non abbandonino quindi la protezione delle navi. Quest’ambito, come suggeriscono i versi dell’Inno omerico a Poseidone, dove è invocato come soter neon, è riconosciuto quale sua sfera di competenza.14 L’analisi parallela dei due passi, dunque, suggerisce che l’impulso alla ritirata dei Troiani e l’abbandono delle navi minacciate dalla furia dei compagni di Ettore da parte dei Greci sono percepiti, rispettivamente da Apollo e Poseidone, come una sorta di mancato riconoscimento dello spazio loro riservato. Questi comportamenti costituiscono la prova di una fiducia che viene meno da parte dei mortali che irrita le divinità e le spinge a intervenire per richiamare all’ordine i loro protetti. Le reazioni delle due divinità, benché espresse in circostanze simili, incidono, tuttavia, in modo diametralmente opposto sui rispettivi interlocutori: i Troiani non appaiono recepire l’appello del dio e restano quasi paralizzati, mentre i Greci serrano i ranghi e oppongono all’impeto dei nemici una resistenza tale da preservare le navi dalla distruzione, dando piena esecuzione al comando di Poseidone. In un caso, dunque, l’appello di un dio offeso cade nel vuoto, nell’altro spinge i mortali a adeguarsi al volere divino. Altrettanto inefficace, almeno in apparenza, ma di certo più marcata e spettacolare nelle sue manifestazioni è la nemesis di Era che emerge a tutto tondo, nei versi dell’Iliade, e si caratterizza per il suo carattere eccezionale. Nell’VIII libro, la nemesis della dea si configura come una risposta immediata alle parole di Ettore che, pronto alla battaglia, forte dell’appoggio divino, incita i suoi cavalli, impaziente di dare alle fiamme le navi degli Achei: Ὣς εἰπὼν ἵπποισιν ἐκέκλετο φώνησέν τε· – Ξάνθέ τε καὶ σὺ Πόδαργε καὶ Αἴθων Λάμπέ τε δῖε νῦν μοι τὴν κομιδὴν ἀποτίνετον, ἣν μάλα πολλὴν Ἀνδρομάχη θυγάτηρ μεγαλήτορος Ἠετίωνος ὑμῖν πὰρ προτέροισι μελίφρονα πυρὸν ἔθηκεν 14
Hymn. Poseid. 5.
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– οἶνόν τ’ ἐγκεράσασα πιεῖν, ὅτε θυμὸς ἀνώγοι, ἢ ἐμοί, ὅς πέρ οἱ θαλερὸς πόσις εὔχομαι εἶναι. ἀλλ’ ἐφομαρτεῖτον καὶ σπεύδετον ὄφρα λάβωμεν ἀσπίδα Νεστορέην, τῆς νῦν κλέος οὐρανὸν ἵκει πᾶσαν χρυσείην ἔμεναι, κανόνας τε καὶ αὐτήν, αὐτὰρ ἀπ’ ὤμοιιν Διομήδεος ἱπποδάμοιο δαιδάλεον θώρηκα, τὸν Ἥφαιστος κάμε τεύχων. εἰ τούτω κε λάβοιμεν, ἐελποίμην κεν Ἀχαιοὺς αὐτονυχὶ νηῶν ἐπιβησέμεν ὠκειάων. Ὣς ἔφατ’ εὐχόμενος, νεμέσησε δὲ πότνια Ἥρη, σείσατο δ’ εἰνὶ θρόνῳ, ἐλέλιξε δὲ μακρὸν Ὄλυμπον. Detto così, ai cavalli si rivolse e gridò: “Xanto, e tu Podargo, Etone e Lampo divino, pagate ora le cure che innumerevoli invero Andromaca, la figlia di Eezione magnanimo, prodiga a voi per primi, vi dà dolce frumento, vino mesce, da bere quando il cuore vi spinge, prima che a me; e mi glorio di essere il florido sposo! Presto, inseguite, affrettatevi, e fate che prendiamo lo scudo di Nestore, di cui va fama al cielo che sia d’oro massiccio nelle anse e nel giro, e dalle spalle di Diomede domatore di cavalli la sua bella corazza, ch’Efesto sudò a fabbricare. Se uccidessimo questi, allora potremmo sperare di gettare stanotte gli Achei sulle navi veloci” Disse gioioso così; si sdegnò Era augusta, s’agitò sul trono e fece tremare l’Olimpo. Hom. Il. 8.185–199
La nemesis di Era è talmente forte da scuotere il trono e l’Olimpo intero ed è la conseguenza di quanto Ettore dichiara εὐχόμενος.15 L’auspicio di Ettore è motivo d’irritazione per la dea anche per un altro motivo. Le parole dell’eroe troiano – non a caso evidentemente – sono rivolte proprio ai cavalli la cui relazione con la dea emerge chiaramente già nell’Iliade. È la sposa divina, infatti, a preparare i cavalli anche quando conduce l’auriga, con cui insieme ad Atena, si reca abitualmente tra i mortali, per intervenire nella lotta16. È sempre lei a dare la voce a Xanthos, il cavallo di Achille che
Sui differenti significati di euchomai, Aubriot Sévin 1992, 15–16 e 189. In particolare sull’uso di euchomai in Omero, Muellner 1976, e su questo passo specifico, pp. 29–31. 16 Hom. Il. 5.720–787 e 748.
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predice all’eroe il suo infausto destino.17 Il rapporto di Era con i cavalli è precisamente marca della sua regalità18 che si estrinseca nel ruolo di guida19 da lei assunto. Le parole di Ettore irritano quindi la dea perché, pronunciate a mo’ di sprone e di pungolo per i cavalli, finiscono per intervenire su una sfera che essa riconosce di sua pertinenza, costituendo quindi una minaccia alla sua time, e rischiando così di alterare l’equilibrio delle relazioni tra uomini e dèi. La reazione divina prende significativamente una forma concreta che coinvolge, non a caso, la sede legittima e il simbolo da cui emana la sua regalità. La nemesis della dea, che fa vacillare il trono e l’Olimpo, dà una prova tangibile che le parole di Ettore hanno oltrepassato il segno più di quanto può essere consentito a un mortale.20 Quello dell’eroe troiano, infatti, è una sorta di voto a rovescio che si giova della momentanea protezione di Zeus, ma che contrasta di fatto con il complessivo disegno divino21. L’esame dei passi appena presentati conferma dunque come la nemesis che gli dèi riservano ai mortali sia espressamente collegata alla percezione di un mancato riconoscimento del loro spazio di competenza: la nemesis segna l’agire divino di Zeus Xeinios, quando a essere violata è l’intoccabilità del supplice che rientra proprio nella sua sfera di protezione; allo stesso modo reagiscono Apollo, Poseidone e Era quando i mortali che si muovono nella loro sfera di competenza mostrano di riconoscerla o, peggio ancora, di usurparla. La nemesis degli dèi, nei poemi omerici, dunque non ha la funzione immediata di colpire i mortali, ma risponde a un’esigenza “teologica” – per così dire –, quella di sottolineare specifici aspetti del loro profilo divino, indicando agli uomini il modo migliore per rivolgersi ad essi, per onorarli, ma soprattutto per non offenderli.
17 Hom. Il. 5.720–787 e 748. 18 Sul rapporto tra Era e i cavalli nell’Iliade, cfr. anche 14.298–299 e 307. Tra l’altro, Era è venerata, nel mondo greco, con l’epiteto di Hippia insieme a Poseidone Hippios a Olimpia (Paus. 5.15, 5). A proposito del legame tra la potestà regale di Era e l’ambito equestre, cfr. Camassa 2000, 335 e n. 16; Camassa 2006; su Era Hippia, Yalouris 1950, 78–88 e sul culto della divinità in ambito coloniale, Zancani Montuoro 1961. Poseidone intrattiene con gli stessi animali una relazione che coinvolge gli uomini stessi nella funzione quasi di protos heuretes dell’arte ippica che essi assegnano al dio e nel compito a quest’ultimo riconosciuto di regolarne la componente “demoniaca”. Su questi aspetti cfr. Mylonopoulos 2003, 365–369 e sull’epiteto Hippios ibid., 381–382. In particolare su questo episodio e sul rapporto tra Era e il trono che la divinità scuote, Pirenne-Delforge/Pironti 2016, 48–49. 19 È venerata infatti con l’epiteto di Henioche (auriga), cfr. Paus. 9.39, 5. Bonnechere 2003, 308–309, interpreta però questo attributo in relazione alla competenza della divinità nella sfera matrimoniale. Il riferimento non sarebbe qui a suo avviso al carro, ma alle briglie che aggiogano i giovani al momento delle nozze. 20 In un passo del XX libro, la formula ritorna in termini analoghi in riferimento, questa volta, a Ade che salta sul trono, gridando per la paura che Poseidone scuotendo la terra dalle sue profondità possa svelare a mortali e immortali le dimore spaventose dei morti (Hom. Il. 20. 61–65). Su questo passo, si vedano anche le riflessioni di Pirenne-Delforge/Pironti 2016, 48–49. 21 Cfr. infra p. 91.
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4. Minacciare la time, suscitare la nemesis Rispetto a questi casi piuttosto isolati di nemesis divina rivolta contro i mortali, al contrario, nei poemi epici, sono ben più frequenti i casi in cui l’emozione è generata dal comportamento di altre divinità. L’analisi delle circostanze in cui essa si manifesta sembra svolgere una funzione leggermente differente rispetto agli episodi precedentemente analizzati. Le menzioni della nemesis rivolta verso altre divinità, infatti, disegna una mappa dei rapporti di forza e degli equilibri di potere in gioco all’interno del mondo divino rappresentato da Omero. Un esempio illuminante è il senso di indignazione che Poseidone manifesta nei confronti del fratello Zeus, motivato dal sostegno che egli accorda ai Troiani per adempiere alla promessa fatta a Teti. A più riprese, infatti, ricorre l’aspra nemesis di Poseidone nei confronti di Zeus per le vittorie dei Teucri sugli Achei22. La reazione del dio resta però senza seguito, frustrata dalla necessità di conformarsi alla volontà onnipotente del padre degli dèi che fa recapitare al fratello, attraverso Iris, l’ordine di ritirarsi subito dal campo di battaglia presso le navi e di tornare in mare o fra gli dèi (ἔρχεσθαι μετὰ φῦλα θεῶν ἢ εἰς ἅλα δῖαν).23 I rapporti di forza tra le due divinità si giocano qui, in modo chiaro e inequivocabile, intorno alla time di ciascuno di essi. Poseidone si proclama homotimos del padre degli dèi, in quanto figlio, di Crono, insieme ad Ade e Zeus. Ciascuno di essi ha infatti ricevuto in sorte un lotto: a Zeus il cielo, ad Ade l’ombra nebbiosa, mentre a Poseidone è stato assegnato il mare canuto. In base a questa suddivisione di sfere, l’Enosictono, in un primo momento, afferma la sua autonomia rispetto al pensiero di Zeus e gli intima di starsene nel suo terzo in pace, segno che anche la sua ingerenza, nel dirigere gli esiti della battaglia presso le navi, è intesa come una grave intromissione in quello che è il suo campo di azione.24 Quest’ultimo quindi inizialmente si oppone all’imperio di Zeus, ma poi viene condotto a più miti consigli dalle parole di Iris. Per quanto irato (νεμεσσηθεὶς), dice, si sottomette (hypoeixo)25 e si ritira in mare, costretto a lasciare
22 Hom. Il. 15.224–225. Cfr. anche Hom. Il. 13.16 e 353 (Διὶ δὲ κρατερῶς ἐνεμέσσα: «era irato aspramente con Zeus»). 23 Hom. Il. 15.174–177. 24 Hom. Il. 15.185–196 (ὢ πόποι ἦ ῥ’ ἀγαθός περ ἐὼν ὑπέροπλον ἔειπεν / εἴ μ’ ὁμότιμον ἐόντα βίῃ ἀέκοντα καθέξει./ τρεῖς γάρ τ’ ἐκ Κρόνου εἰμὲν ἀδελφεοὶ οὓς τέκετο Ῥέα/ Ζεὺς καὶ ἐγώ, τρίτατος δ’ Ἀΐδης ἐνέροισιν ἀνάσσων./ τριχθὰ δὲ πάντα δέδασται, ἕκαστος δ’ ἔμμορε τιμῆς·/ ἤτοι ἐγὼν ἔλαχον πολιὴν ἅλα ναιέμεν αἰεὶ/ παλλομένων, Ἀΐδης δ’ ἔλαχε ζόφον ἠερόεντα,/ Ζεὺς δ’ ἔλαχ’ οὐρανὸν εὐρὺν ἐν αἰθέρι καὶ νεφέλῃσι·/ γαῖα δ’ ἔτι ξυνὴ πάντων καὶ μακρὸς Ὄλυμπος. «Ah, ma per quanto forte, con arroganza ha parlato, se me, pari a lui in gloria, vuol sopraffare così … Tre sono i figli di Crono che Rea generò, Zeus, io, e terzo l’Ade signore degli inferi. E tutto in tre fu diviso, ciascuno ebbe una parte: quando tirammo le sorti, l’Ade ebbe l’ombra nebbiosa, e Zeus si prese il cielo fra le nuvole e l’etere; comune a tutti la terra e l’alto Olimpo rimane». Su questo passo, cfr. Pirenne-Delforge/Pironti 2016, 30–31 e n. 32. 25 Hom. Il. 15.211.
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campo libero all’avanzata di Apollo che, con l’accordo di Zeus, infonde coraggio a Ettore e ai Troiani nel contrattacco alle navi achee.26 La nemesis del dio, dunque, benché serva a denunciare una grave interferenza nel suo spazio di competenza, è destinata a restare senza esiti, in nome di un superiore e più articolato progetto divino. Un progetto divino al quale Era stessa finisce per piegarsi quando, dopo l’inganno amoroso da lei ordito, nel XIV libro dell’Iliade, per tenere lontano Zeus dal campo di battaglia e lasciare via libera alla furia di Poseidone, è duramente apostrofata dal suo sposo. La dea si giustifica, declina ogni responsabilità, e si affianca infine alla volontà di Zeus che la mette finalmente a parte dei suoi piani: Ettore perirà per mano di Achille, i Troiani saranno sconfitti, e i Greci espugneranno la rocca di Ilio.27 Da questo momento in poi, Era diventa araldo e tutore della volontà di Zeus presso gli altri dèi. Giunta sull’Olimpo, trovando gli immortali riuniti, riceve la coppa dalle mani di Themis che le corre incontro. A lei Era chiede di dare inizio al banchetto in cui annuncerà la volontà di Zeus, ma il comportamento inadeguato delle altre divinità riunite nella casa di Zeus la indispone fortemente: Dicendo così, la dea Era braccio bianco sedette: i numi erano sdegnati nella casa di Zeus; ella rise con le labbra, ma sopra dei sopraccigli neri la fronte non si allietò: parlò in mezzo a tutti indignata (ἐγέλασσε χείλεσιν, οὐδὲ μέτωπον ἐπ’ ὀφρύσι κυανέῃσιν ἰάνθη· πᾶσιν δὲ νεμεσσηθεῖσα μετηύδα·) […]. Hom. Il. 15.100–104
I versi omerici descrivono qui i tratti del volto di Era alterati da una nemesis che le corruga la fronte, conferendo al viso, benché forzatamente sorridente, un aspetto accigliato, skythropos verrebbe da dire, aggettivo con il quale Menandro designerà la dea Nemesis.28 Qui, la reazione divina è scatenata dalla leggerezza con cui gli altri dèi congiurano contro il volere di Zeus, incuranti del male che sta per arrivare a ciascuno di loro.29 La prima vittima designata è Ares, al quale viene annunciata la morte del figlio Ascalafo. La reazione del dio alle parole della madre è tanto subitanea quanto inopportuna. Egli cede all’istinto di precipitarsi a vendicare il figlio e prega preventivamente le altre divinità di astenersi dal provare nemesis nei suoi confronti. Il suo impeto viene però bloccato dall’intervento tempestivo di Atena che, per evitare l’ira di Zeus contro gli immortali tutti, gli consiglia di «tralasciare l’ira del figlio: – e continua – già guerriero migliore di lui per forza e per braccio venne ucciso e sarà ancora ucciso, è
26 Hom. Il. 15.218–235. 27 Hom. Il. 15.49–77. 28 Nemesi è definita tale in Men. Fr. 321, 1–2 Kock. Secondo Cairns 2003, 29, l’aggettivo (composto da σκυθρός + ὂψ) si riferisce «to facial expressions of anger». 29 Hom. Il. 15.109.
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difficile salvare di tutti gli uomini il sangue e la stirpe».30 L’azione decisa di Atena lascia supporre che, a dispetto della preghiera rivolta agli altri dèi, il correre in aiuto del figlio da parte di Ares sarebbe stato un comportamento censurabile, perché vendicare un mortale avrebbe comportato il venir meno di quello stato di grazia divina attribuito agli Olimpî. L’intervento di Ares a favore di Ascalafo, oltre ad andare contro al volere di Zeus, avrebbe infatti generato confusione e aperto una falla nei rapporti tra dèi e uomini, configurandosi come un’ingerenza nella sfera della moira che le divinità omeriche rifiutano sistematicamente di avallare.31 Sempre contro Ares, Era aveva precedentemente tentato, con successo, di sollecitare la nemesis di Zeus per il modo violento con cui era intervenuto, sul campo di battaglia, massacrando gli Achei. A lui, la dea chiede, nel V libro,32 per testarne la disposizione d’animo, se le azioni aggressive (kartera erga) di Ares non suscitassero la sua indignazione (ou nemesizei), ottenendo come risposta il consenso a scatenargli contro Atena. L’intervento della dea sul campo di battaglia si configura subito come profondamente diverso rispetto a quello dominato dalla furia (mania) di Ares, passando attraverso l’esortazione rivolta all’eroe e l’incoraggiamento a un uso consapevole delle armi.33 All’interno dello stesso libro, alcuni versi dopo, è Ares a chiedere a sua volta a Zeus se i kartera erga di Atena non lo irritino.34 In questa circostanza, l’impiego degli stessi versi, riferiti prima all’azione di Ares in guerra e poi a quella di Atena, consentono di ragionare sulla diversa influenza che gli dèi sono in grado di esercitare su Zeus. Se le parole della sua sposa rivelano un’immediata efficacia che si concretizza nell’invito ad arginare la forza furiosa di Ares attraverso l’intervento della figlia Atena, totalmente inefficace, anzi controproducente, risulta, soltanto pochi versi dopo, la medesima richiesta avanzata da Ares, che ferito dalla dea, si era rifugiato sull’Olimpo, lamentandosi con il padre per la creatura funesta che aveva generato. Le parole umilianti che Zeus gli rivolge servono a tracciare le linee di una precisa gerarchia di rapporti tra gli dèi,35 in cui la progenitura di Zeus è favorita rispetto a quella di Era, e il modo di agire in battaglia di Atena, caratterizzato da una sapienza strategica e tattica, viene preferita all’ardore violento e sanguinario di Ares. In definitiva, dunque, nelle relazioni tra gli immortali, l’insorgere della nemesis è determinato, ancora una volta, dal mancato riconoscimento delle reciproche timai. È lo strumento tramite il quale eventuali e altrimenti ingiustificate invasioni di campo nelle
30 Hom. Il. 15.138–141. 31 Su questo aspetto in particolare, cfr. le parole di Era a Zeus, quando il sovrano manifesta il suo desiderio di salvare la vita di Sarpedonte, nel momento in cui sta per essere ucciso da Patroclo (Hom. Il. 16.439–456). 32 Hom. Il. 5.757. 33 Hom. Il. 5.764–766. 34 Hom. Il. 5.872. 35 Hom. Il. 5.889–890. Ares è chiamato qui da Zeus ἀλλοπρόσαλλος (banderuola) e ἔχθιστος (odiosissimo). Quest’ultimo è uno degli epiteti che il dio condivide con i mortali: cfr. Bouvier 2021, 143–144, che osserva come Ares costituisca il trait d’union tra uomini e dèi nell’Iliade.
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sfere di azione di alcune divinità da parte di altre sono segnalate e riequilibrate. Serve, in ultima analisi, per definire limiti, competenze e ruoli gerarchici, assegnando a ciascuna potenza un posto all’interno dell’assemblea divina, i cui spazi d’azione possono essere però rinegoziati in nome di un disegno superiore come è quello stabilito da Zeus. La nemesis si configura dunque come la risposta attraverso la quale gli immortali esprimono la loro adesione, seppur riluttante, a un piano sovraordinato retto dalla moi ra e definiscono il loro grado di subordinazione rispetto a Zeus o alla coppia divina. 5. Temere la nemesis, distinguersi dai mortali Trattandosi di una reazione che segnala l’avvenuto superamento di un limite, talora tollerato e collegialmente rinegoziato in adesione a un’esigenza superiore, per gli dèi, come già per i mortali, la nemesis appare sostanziarsi del suo essere socialmente condivisa. Non solo gli uomini però, ma anche gli dèi si sforzano di prevenirla nelle altre potenze, o meglio, di non esporre sé stessi e le loro azioni alla nemesis altrui. Era, per esempio, rifiuta di unirsi a Zeus sulla cima dell’Ida, alla luce, temendo che qualcuno degli dèi vedendoli lo riferisca a tutti. Questa eventualità impedirebbe addirittura alla dea di tornare nella casa dello sposo, a causa dell’indignazione che la vista di tale incontro potrebbe provocare (νεμεσσητὸν δέ κεν εἴη).36 Il timore della dea è talmente comprensibile e condivisibile che lo stesso Zeus si premura di nascondere entrambi in una nube d’oro, affinché né uomo né dio e neppure il sole li possano vedere. Il senso di questo episodio si chiarisce meglio se letto in relazione con una situazione analoga, e per certi versi speculare, del III libro dell’Iliade, analizzato in precedenza. Qui è Afrodite che cerca di convincere Elena a unirsi con Paride. La donna rifiuta, in un primo momento, temendo di incorrere nella nemesis delle altre Troiane, ma è dalla dea condotta contro voglia nel talamo nuziale per l’incontro con un uomo che ignora la nemesis e che, sottrattosi alla battaglia, si unisce con la sua sposa in pieno giorno.37 Nell’immaginario greco, dunque, l’unione amorosa, tanto tra immortali quanto tra mortali, è un evento che è conveniente nascondere alla vista e non esporre al commento altrui, circoscrivendolo alla sfera del privato e a tempi e luoghi ben precisi, per evitare che esso generi sentimenti di disapprovazione nel gruppo di riferimento. Il rispetto pedissequo di questa regola è però significativamente assegnato agli dèi, cui le norme del vivere civile tra gli uomini dovrebbero conformarsi. L’indicazione di ciò che è nemesseton e di conseguenza dell’atteggiamento da adottare è affidata all’esempio divino,
36 Hom. Il. 14.330–340. Per un’analisi dettagliata della Dios apate, cfr. Pirenne-Delforge/Pironti 2016, 237–245 e Pironti 2016. 37 Hom. Il. 3.390–410 e 6.351. Sotto gli occhi del Sole, che prontamente lo denuncia a Efesto, ha luogo l’incontro amoroso tra l’adultera Afrodite e Ares, descritto in Hom. Od. 8.266–366. L’incontinenza amorosa della dea contrasta con gli scrupoli che invece si pone Era nel XIV libro dell’Iliade.
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Efficacia e inefficacia della nemesis divina nei poemi omerici
il cui comportamento serve a segnalare ai mortali il discrimine tra ciò che è corretto e ciò che non è corretto fare. L’evocazione della nemesis da parte di Era e le misure di riparazione adottate da Zeus hanno dunque una funzione didascalica nel chiarire ai mortali i termini di ciò che può provocarla e l’atteggiamento da adottare, per evitare non solo di alterare la gerarchia dei ruoli, ma di creare anche una confusione tra piani, spazi e tempi differenti del reale. Ugualmente gli dèi tendono a sottrarre alla vista dei mortali sentimenti troppo umani che finirebbero per intaccare il loro statuto divino. È quanto Ermes si affretta a fare quando accompagnando, nel XXIV libro dell’Iliade, Priamo al cospetto di Achille per il riscatto del corpo del figlio Ettore, si volatilizza per tornare sull’Olimpo, un attimo prima che il vecchio faccia il suo ingresso nella tenda dell’eroe. Le parole di Ermes, divinità vicina ai mortali e interfaccia attiva tra il mondo divino e quello umano, sono cariche di significato: “O vecchio, io che a te venni, son nume immortale, Ermete: il padre mi ti diede per guida. Ma ora bisogna che parta d’Achille non voglio apparire allo sguardo: sarebbe degno di biasimo che un dio immortale amasse così apertamente i mortali” ([…] νεμεσσητὸν δέ κεν εἴη ἀθάνατον θεὸν ὧδε βροτοὺς ἀγαπαζέμεν ἄντην). Hom. Il. 24.460–464
Come nell’episodio esaminato in precedenza, il timore di suscitare la nemesis spinge Ermes, che si qualifica davanti a Priamo quale theos ambrotos, a sottrarsi allo sguardo umano, per evitare che si palesi il suo affetto nei confronti dei mortali.38 Ancora una volta, l’evocazione di ciò che è nemesseton mira a evitare una confusione di piani, stabilendo delle linee precise, per l’azione divina nella relazione con i mortali, anche quando – paradossalmente, ma in modo significativo – è proprio la comunicazione con i mortali a rappresentare uno dei tratti costitutivi di una specifica figura divina, come nel caso di Ermes.39 6. Rappresentare il divino attraverso la nemesis L’esame delle testimonianze sulla nemesis degli dèi nel mondo omerico consente ora, in primo luogo, di confermare la tesi formulata all’inizio, che cioè il termine e le voci verbali da esso derivate non veicolino forme e modalità d’azione della giustizia divi-
38 39
Sulla funzione di Ermes in questo episodio, cfr. Pisano 2014, 82–84. Sulla stretta relazione tra Ermes e i mortali, cfr. Versnel 2011, 309–377.
Rappresentare il divino attraverso la nemesis
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na. Se infatti una relazione è possibile individuare tra la manifestazione di una nemesis (ex) anthropon e le sue conseguenze, leggibili sia negli sforzi che gli uomini fanno per prevenirla e per allontanarla da sé; sia concretamente nelle forme che assume quando non può più essere arginata, lo stesso non sembra potersi dire quando essa è riferita alle divinità. Un nesso consequenziale, tuttavia, può essere stabilito a monte, cioè tra la natura specifica dell’offesa arrecata al dio e la sua reazione indignata. Questa, se da un lato ne descrive gli spazi di competenza, evidenziando tratti specifici di una determinata figura divina, al fine di guidare i mortali nelle loro relazioni con gli immortali; dall’altro, serve a indicare ai primi il comportamento corretto da tenere in un contesto sociale in cui il rispetto dei ruoli, l’equilibrio tra “privato” e “pubblico”, tra “nascosto” e “manifesto” e infine le relazioni tra mortali e immortali devono essere assicurati. Emozione comune tanto agli uomini quanto agli dèi dunque, la nemesis, pur non avendo un immediato risvolto sanzionatorio, nondimeno esercita una funzione normativa individuabile nella forza inibitoria che il rischio di suscitarla negli altri determina. Essa mira, in prima battuta, alla conservazione e alla salvaguardia di un ordine, in casi in cui ruoli e piani gerarchici rischiano di confondersi. L’evocazione della nemesis, dunque, equivale alla denuncia di un equilibrio che sta per essere alterato e che necessita di un ridimensionamento e una rinegoziazione dei limiti e degli spazi dell’azione personale e individuale per essere ripristinato. La nemesis che una divinità manifesta nei confronti degli uomini corrisponde a una presa di distanza e isola l’uomo nel suo rapporto con il divino, fino a quando egli non trova un modo per riparare. La nemesis di Apollo verso i Troiani, li allontana dalla sua protezione e ne annuncia la loro prossima distruzione; quella di Poseidone che i Greci si sforzano di placare, al contrario, è riequilibrata dal loro comportamento che li rimette in gioco nel rapporto con il dio. Un discorso analogo, con le dovute differenze, può essere fatto per la nemesis degli dèi verso altri dèi la cui espressione, tuttavia, non potrà mai condurre all’isolamento di un dio dal consesso divino, e per questo viene regolarmente e tempestivamente ricomposta in extremis. In questo senso, la nemesis degli dèi rientra quindi tra le forme e le modalità cui i poemi omerici fanno ricorso per rappresentare il divino: nelle maniere in cui si esprime e nelle circostanze da cui è scatenata, essa serve a ribadire e a rendere ulteriormente leggibile la rete di relazioni che unisce o oppone una divinità all’altra, a manifestare una presa di posizione nei confronti dei comportamenti dei mortali, ma soprattutto interviene ad affermare la potenza della divinità, la capacità d’azione e il ruolo che le spetta o dovrebbe spettarle all’interno del consesso divino.
Capitolo terzo Costruire un profilo divino 1. Nascere da Notte e vivere da mortali: Nemesis, la costruzione del kosmos e la vulnerabilità umana in Esiodo A differenza dei poemi omerici, nelle opere di Esiodo, l’efficacia sanzionatoria della nemesis è una prerogativa, quasi esclusivamente attribuita al divino, e ha come bersaglio gli esseri umani. All’inizio della seconda parte delle Opere e Giorni, Esiodo, rivolgendo al fratello Perse il proprio invito all’operosità, lo avverte genericamente che «gli dèi e gli uomini si indignano contro chi vive ozioso» (τῷ δὲ θέοι νεμεσῶσι καὶ ἀνέρες ὅς κεν ἀεργός).1 Più avanti poi, illustrando le conseguenze che attendono chi varca le correnti dei fiumi perenni senza avere pregato o senza essersi lavato e purificato, Esiodo ammonisce: «gli dèi si sdegnano e gli preparano mali futuri» (τῷ δὲ θεοὶ νεμεσῶσι καὶ ἄλγεα δῶκαν ὀπίσσω).2 Lo sdegno della divinità – preciserà poco più avanti – colpisce anche colui che schernisce le cose invisibili, mentre offerte bruciano sull’altare.3 In questi casi presi in esame, la nemesis è una reazione divina a precisi comportamenti umani, cui fa seguito una punizione che appare quale diretta conseguenza dello scorretto superamento di un limite da parte di un mortale, nell’interazione con la sfera sovraumana. Le opere esiodee restituiscono, però, in altri due passi chiave, tratti ancora più definiti del carattere divino della nemesis. Nelle Opere e Giorni, all’interno della sezione dedicata al “racconto delle cinque età”,4 Nemesis viene rappresentata come una potenza con corpo e attributi immortali, mentre insieme ad Aidos si invola verso l’Olimpo,
1 Hes. Op. 303. Le traduzioni dei versi di Esiodo, seppure talora leggermente modificate, sono di Arrighetti (Teogonia) e di Magugliani (Le Opere e i Giorni). 2 Hes. Op. 741. 3 Hes. Op. 755–756. 4 Aderisco alla definizione che, del cosiddetto “mito delle razze” contenuto all’interno delle Opere e Giorni di Esiodo (vv. 106–201), ha dato Claude Calame. Lo studioso ha precisato che esso è designato all’interno dell’opera, come logos non come mythos, e ha sottolineato anche il riferimento a gene, da intendere quindi come famiglie, generazioni o età: Calame 2006, 85–86.
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abbandonando la terra, popolata dagli uomini dell’età del ferro. Nella Teogonia essa invece figura, come figlia di Notte, accompagnata da un corteo di altre oscure potenze.5 La composizione di questa oscura genia notturna è stata oggetto di ripetute analisi, per lo più improntate a un approccio strutturalista che le raggruppava, interpretandole ora a coppie, ora a terne di potenze.6 J.-P. Vernant, in un saggio molto importante, intitolato Corps obscur, corps éclatant,7 ha individuato in questo elenco la rappresentazione di quel lato oscuro e caotico che denuncia il carattere effimero del corpo umano rispetto a quello divino (per esempio, Thanatos; Hypnos; Geras), ma ha sorvolato sulla menzione di altre entità come Nemesis, Apate, Philotes che pure sono annoverate al termine dello stesso catalogo e su quelle forze, il cui potenziale punitivo è indirizzato tanto alle trasgressioni dei mortali quanto a quelle degli immortali, come le Moirai e le Kerai.8 Ora, volendo guardare all’insieme delle potenze che popolano questo oscuro corteo, facendo un passo in avanti rispetto alla tesi formulata da Vernant, si potrebbe provare a esaminare le potenze che lo compongono, cambiando prospettiva e ragionando sull’idea di Notte che siffatta prole finisce per veicolare. Come sottolineato recentemente da A. Chaniotis, le rappresentazioni della “notte” sono in sé il prodotto di una costruzione sociale, la cui percezione è condizionata da una vasta gamma di fattori che vanno dall’età al genere e ovviamente al contesto sociale e storico.9 Se, come osserva lo studioso, una storia della notte nel mondo greco non è ancora stata scritta, è altresì evidente che, nell’ambito di una siffatta riflessione, il passo della Teogonia esiodea dovrebbe costituire un punto di partenza privilegiato.10 Ebbene, Notte compare, già sin dall’inizio dell’opera, come figlia di Chaos, al pari di Erebo, designato quale spazio sotterraneo, immerso in un’oscurità perenne contrap-
5 Hes. Theog. 211–226. 6 Cfr. ad esempio Ramnoux 1986. 7 Vernant 1986. 8 Vernant 2001b [1965], 57–62 aveva analizzato la schiera di Notte anche in uno studio dedicato al “mito delle razze” esiodeo, stabilendo un legame tra l’irrompere di Apate, Philotes, Geras, Eris e la sua relativa genia (Algea; Ponos, Limos etc.) con le conseguenze derivate dall’arrivo di Pandora tra gli uomini. Ancora una volta, in questo lavoro, sembra tralasciato il ruolo di Nemesis e interpretato, in nota (p. 69 n. 3) in rapporto con il passo dei Kypria, riportato in Ateneo (Ath. 8.10, 334 c–d), in cui si narra dell’unione forzata da Zeus e Nemesis che dà luogo alla nascita di Elena. La donna condivide con Pandora le sembianze meravigliose dietro cui si cela però il dolos e l’apate. Dello stesso tema, Vernant 1989, 363–376 si era occupato anche all’interno di una voce enciclopedica del Dizionario delle mitologie e delle religioni, stabilendo questa volta un rapporto con il racconto relativo alla castrazione di Urano e alla nascita di Afrodite. Sulla genia di Notte, cfr. infine Pironti 2007, in part. p. 76–80, che, sulla scia di Vernant, individua nel catalogo esiodeo la menzione di quelle potenze preposte alla consunzione («épuisement») dell’esistenza umana (p. 80). 9 Chaniotis 2018, 1–2. 10 Sui significati culturali del tempo notturno nel mondo classico, si vedano recentemente i saggi raccolti in Ker/Wessels 2020, tra cui in particolare, per quanto riguarda la rappresentazione di Notte in Esiodo, Atkins 2020.
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posta a quella temporanea che caratterizza il tempo notturno.11 Dall’unione di Erebo e Notte nascono i luminosi Etere e Giorno, rispettivamente opposti, sull’asse spaziale e su quello temporale, ai due oscuri genitori.12 Questa discendenza, frutto di una procreazione che passa per la philotes, sembra volere essere da Esiodo programmaticamente distinta da quella che, concluso il racconto dell’evirazione di Urano da parte di Crono e della nascita di Afrodite e delle Erinni,13 ha luogo in un momento successivo. Notte dà infatti luce a una nuova schiera di figli nati da lei ὄυ τινι κοιμεθεῖσα θεῶν, senza cioè essersi unita a nessuno degli dèi.14 Si tratta di creature che prendono vita, separandosi da lei; forze nate al di fuori del contesto condiviso e promiscuo della philotes, garanzia del contatto, anzi dell’intreccio fisico tra due diverse entità divine. Notte, nella rappresentazione esiodea, viene ad essere il luogo da cui hanno origine forze molteplici e disparate, la cui parentela deve essere ricondotta al profilo di questo unico genitore. Essa è da Esiodo variamente tirata in ballo ora come colei che, portata da Urano, spinto dal desiderio amoroso nei confronti di Gaia, fa da cornice all’inganno di Crono e al tradimento della philotes;15 ora come lo spazio che protegge, con le sue tenebre, il luogo in cui sono confinati i Titani e, in generale, tutti coloro che sono esclusi da quella condizione di beatitudine olimpica che il nuovo kosmos voluto da Zeus ha costruito.16 Tutta l’opera esiodea, del resto, ruota attorno a una serie di variazioni sul tema del potenziale destabilizzante del chaos, di cui i Titani e le forze pre-olimpiche sono espressione. Nella loro contesa perenne contro l’autorità, tali potenze hanno finito per coinvolgere gli stessi mortali, causando la loro separazione dagli dèi. Fu infatti proprio il titano Prometeo che, con l’inganno delle parti, relegò i mortali a un cupo destino di caducità, peraltro amplificato dalla nascita di Pandora, ulteriore conseguenza della trappola in cui fini per trascinarli: il bel male (come è definita la creazione della prima donna) vota l’uomo a un’esistenza in cui ai beni sono irrimediabilmente mescolati i mali, ma il rifiuto di esso lo condanna a una triste e desolante vecchiaia.17 Notte viene quindi ad essere il luogo di incubazione e di confinamento di quelle forze capaci a vario titolo, di ostacolare l’avvio del processo teogonico e la costruzione del kosmos, e che sono anzi potenzialmente in grado di cooperare alla sua distruzione; forze che però finiscono per descrivere quei limiti più o meno ampi, più o meno negoziabili, all’interno dei quali dovrà muoversi l’esistenza di tutti quegli esseri, la cui vicenda ha posto ai margini della grazia, dello splendore e della luminosità che caratterizza gli Olimpî. Tra questi si collocano senz’altro i Titani, sprofondati nel Tartaro dopo la 11 Hes. Theog. 123–124. 12 Cfr. West 1966, 197. 13 Hes. Theog. 170–210. 14 Hes. Theog. 213. 15 Hes. Theog. 176 e 480. 16 Hes. Theog. 726–761; 810–871. 17 Hes. Op. 179 e Theog. 585.
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sconfitta da parte di Zeus, circondati da una notte infinita;18 i mortali che l’intervento del titano Prometeo ha definitivamente escluso dalla coabitazione con gli dèi; Tifeo, partorito da Gaia e Tartaro, ulteriore minaccia al regno di Zeus, anch’egli poi ricacciato nei recessi della terra. Notte è però anche la sede di quelle entità che cooperano al mantenimento del kosmos, come i Giganti posti a guardia del Tartaro per sorvegliare le forze in esso confinate o la stessa Stige, custode del grande giuramento degli dèi, la cui acqua rivela le divinità spergiure, prima condannandole, per un anno, a vivere in una sorta di coma, un torpore simile a quello della morte, deprivate dell’ambrosia e del nettare, alimenti essenziali alla loro condizione immortale; e successivamente escludendole, per altri nove, dal consesso divino.19 È così quindi che Esiodo rappresenta Notte, come lo spazio di gestazione di tutte quelle forze capaci di destabilizzare l’equilibrio del kosmos, ma anche di quelle preposte alla sua salvaguardia e alla regolarità del suo funzionamento, e soprattutto di quelle che definiscono i caratteri e i confini della vulnerabilità che è inerente al genere umano. Moros, Ker,20 Thanatos e Geras sono potenze create per marcare il tempo e le tappe della vita degli uomini; mentre Hypnos definisce la separazione tra le loro attività diurne e quelle notturne e offre ai mortali il necessario riposo dalle fatiche. La schiera dei sogni che, con le loro immagini ingannevoli, mettono gli uomini in comunicazione con altre dimensioni, come quella della morte o della previsione del futuro, aprendo loro uno sguardo seppure illusorio e fugace su una conoscenza che normalmente è ad essi preclusa.21 Creature della Notte sono ancora le Esperidi, entità collocate ai margini del mondo abitato che fissano il confine fisico all’interno del quale deve svolgersi la vita dei mortali22e forze normative come le Moirai e le Kerai che assegnano agli uomini al momento della loro nascita il bene e il male e si occupano di perseguire eventuali trasgressioni (paraibaseis), o meglio quelle forme di devianza rispetto a quanto è stabilito, sanzionando tanto le divinità quanto i mortali.23 All’interno di questo catalogo figurano anche quelle potenze che consentirono la costruzione del kosmos, come Apate: l’inganno prodotto della metis, che permise tanto a Crono quanto a Zeus di mettere fuori gioco gli ingombranti genitori per lasciare che
18 Hes. Theog. 715–728. 19 Hes. Theog. 726–735; 775–810; 820–870. 20 Rispettivamente «il destino di morte» e la «morte che uccide»: così Pironti 2007, 77. 21 Sul carattere ingannevole dei sogni, Ead. 2007, 77. 22 Secondo Matthey 2013, 143–144 lo spazio delle Esperidi in Esiodo sia ben lontano dall’essere quel luogo di amenità che diventerà nelle rappresentazioni successive, legato com’è all’orizzonte tenebroso di Notte. Però 2014 ha invece sottolineato come il giardino delle Esperidi, luogo di felicità utopica, sia destinato ad accogliere soltanto le divinità, marcando il limite tra lo spazio riservato agli immortali e quello riservato ai mortali. 23 Hes. Theog. 220. Sulle Moire, Pironti 2009.
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la progenie divina venisse finalmente alla luce.24 Sul fronte dei mortali l’apate è anche quell’elemento che aiuta superare un’impasse derivante dai propri limiti, in condizioni di conflitto e di tensione o competizione che escludono qualsiasi altra forma di dialogo o negoziazione. Notte è poi il luogo della philotes, la relazione fiduciosa, premessa necessaria all’unione intima, elemento essenziale per il buon funzionamento del processo teogonico e dell’avvicendarsi delle generazioni.25 È madre di Eris, potenza bifronte, che rappresenta tanto la competizione positiva che spinge il mortale, attraverso l’emulazione con l’altro, al superamento di sé stessi,26 ma al tempo stesso la discordia sociale, conseguenza del travalicamento illegittimo di un limite e della prevaricazione.27 Da Eris nascono tutta un’altra serie di potenze preposte alla costruzione della vulnerabilità sociale dell’individuo, che ne intaccano specificatamente il vigore fisico e ne minacciano l’esistenza sulla terra e la speranza in una forma di posterità al termine della vita. Appartengono alla genia di Eris la fatica (Ponos) che è imposta al mortale spinto a competere con il vicino per emularne la ricchezza;28 l’oblio (Lethe) cui egli è condannato dopo la morte; la fame (Limos) e i dolori (Algea) che affliggono il suo corpo mortale. Rientrano però in questa cerchia tutte le entità che esprimono le conseguenze derivanti dalla necessità di assicurarsi un controllo violento dei mezzi di sussistenza quali: mischie (Hysminai), battaglie (Machai), stragi (Phonoi) e omicidi (Androctasiai); o quegli strumenti di cui si serve l’Eris per sostanziarsi quali: le contese, le menzogne e i discorsi ambigui, così come le sue cause dirette, quali l’iniquità ovvero la scorretta distribuzione delle parti (Dysnomie), e indirette come l’obnubilamento e la vertigine che scatena la contesa non premeditata (Ate); e per finire il dispositivo atto a disinnescarla individuato nell’Horkos, il giuramento, la parola pronunciata con efficacia probatoria che sostituisce la verità, ponendo fine alla contesa, e maledice colui che volontariamente ha spergiurato. Oltre ad Eris e alle entità da lei generate popolano ancora l’oscuro corteo di potenze discendenti da Notte tutta una serie di affezioni che allontanano dallo stato di grazia divina: Momos, il biasimo, ma anche la macchia, il difetto che rende impuri (gli Etiopi, per esempio, che condividono la mensa con gli dèi, e partecipano in qualche modo della loro natura sono amymones «senza macchia»);29 Oizys, la fatica fisica cui sono condannati i mortali dell’età del ferro.30
24 Sul rapporto tra metis e apate: Detienne/Vernant 1974, 34–35; 63. 25 Sulla philotes, come spazio ambiguo dell’unione sessuale, continuamente minacciato dall’eris e dall’apate, cfr. Pironti 2007, 41–42. 26 Pironti 2007, 31. 27 Hes. Theog. 226–232. 28 Cfr. a tal proposito Hes. Op. 16–25. 29 Hom. Il. 1. 423. 30 Hes. Op. 177.
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Notte è per di più lo spazio di azione di Nemesis, stigmatizzata come pema thnetoisi brotoisi. Esiodo non dice di più a questo proposito, ma il suo inserimento all’interno di questo gruppo di potenze che diedero avvio al processo teogonico e consentirono la strutturazione dell’universo tra mortali e immortali, divinità pre-olimpiche e olimpiche, Tartaro e Olimpo, Notte e Giorno, permette quanto meno di dedurne un ruolo specifico nel mantenimento del kosmos divino. Il suo nome parlante, che rinvia all’atto del distribuire sulla base dell’uso e della convenienza, conduce poi a riflessioni ulteriori: l’inganno prometeico, con la sua scorretta distribuzione delle parti, ha stabilito per gli uomini un nomos, una consuetudine che li ha inchiodati a una vita di affanni, lontano dallo splendore divino, condannandoli al rispetto dei ruoli e delle gerarchie, insegnando loro le modalità di una corretta comunicazione con gli dei, ma soprattutto separando definitivamente mortali e immortali. Da questo catalogo emerge così l’immagine esiodea di Notte quale ambito privilegiato della fecondazione in vitro di tensioni contrastanti e strutturanti che attraversano l’universo e ne realizzano l’ordine, portandolo a compimento. Luogo dell’oscurità e delle forze del Chaos, spazio di fabbricazione della vulnerabilità umana, Notte è il punto di equilibrio di forze divisive e discordanti la cui sinergia, pur tra tante contraddizioni, consente sempre alle tenebre di trasformarsi in giorno. 2. Nemesis, Aidos e il corretto equilibrio di dike Se attraverso la genia di Notte Esiodo presenta, in qualche modo, il mito di fondazione della vulnerabilità umana, al contrario negli Erga, il “racconto delle cinque età” serve a mostrare la medesima origine da cui provengono mortali e immortali. L’inganno prometeico segna invece l’irrimediabile separazione tra la sfera umana da quella divina. Come è noto, l’occasione sottesa agli Erga, evocata a più riprese nei suoi versi, è la controversia giudiziaria che oppose Esiodo al fratello Perse per la divisione di un’eredità. Le frequenti allusioni lasciano intravvedere, in controluce, le disfunzioni di un apparato giuridico, i cui meccanismi procedurali appaiono al poeta estremamente fallaci e imprevedibili.31 Sullo sfondo ancora, percepibili anche a dispetto di tutte le cautele che la lettura del testo esiodeo necessita, le tracce di una profonda trasformazione sociale ed economica conseguenza di una parcellizzazione della “proprietà” fondiaria, dovuta alle norme che regolavano la successione ereditaria.32 Era una circostanza que31 32
Per un tentativo di ricostruzione del funzionamento del procedimento giudiziario all’interno delle opere esiodee, cfr. Ercolani 2014. É. Will 1957, 17. Contra Ernest Will 1965 che ha segnalato i limiti di questa interpretazione, sottolineando come essa si basasse sulla sovrapposizione all’opera esiodea di una realtà riconducibile all’età soloniana. La questione è stata poi variamente ripresa: cfr. Edwards 2004 che, dopo un’accurata analisi dello status quaestionis (1–19), precisa come, nella ricostruzione del contesto storico delle Opere e Giorni, grande attenzione sia stata rivolta all’emergere della polis e poca alle realtà
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sta che, come ha sottolineato Marcel Detienne sulla scia degli studi di Louis Gernet,33 aveva portato all’insorgere di nuove forme relazionali (anche all’interno della stessa famiglia), al lento indebolirsi di un potere sociale e al formarsi di nuove realtà istituzionali all’ombra delle poleis nascenti.34 Si legge in filigrana l’effetto di una crisi che sta attraversando il mondo greco e in cui un’equa e corretta distribuzione delle ricchezze comincia a diventare un tema sensibile. In questo contesto, il neikos che oppose Esiodo al fratello, altro non appare all’autore che l’ennesima prova di una giustizia deviata, inabile, di fatto, ad assolvere al suo compito. Due sono, sostanzialmente, i bersagli polemici del poema: da un lato Perse, campione di pigrizia e di inoperosità, che ha cercato di sottrarre al fratello più di quanto gli spettasse; dall’altro, i rappresentanti corrotti della giustizia locale, quei basileis dorophagoi di Tespie, di cui Esiodo racconta la propensione alla corruzione,35 In questa vicenda, lo sguardo lungimirante del poeta scorge, come vedremo, le spie di un processo di degenerazione che assume un significato cosmico e rischia di annientare il genere umano. Egli si propone dunque di regolare il neikos attraverso il ricorso alla parola poetica e ai «giudizi retti, che provenendo da Zeus, sono i migliori» (ἀλλ᾿αὖθι διακρινώμεθα νεῖκος/ ἰθείῃσι δίκῃς, αἵ τ᾿ἐκ Διός εἰσιν ἄρισται),36 dal momento che le disfunzioni della giustizia umana hanno alterato i termini di una corretta distribuzione tra la sua parte e quella spettante al fratello. Il riferimento alla giustizia amministrata dagli uomini, rappresentata dai basileis «divoratori di doni», apre una sequenza di tre racconti, tra cui quello delle cinque età funge da anello di raccordo tra il logos relativo alla fabbricazione di Pandora, sequel dell’inganno prometeico che Esiodo riprende dalla Teogonia, e l’apologo dello sparviero e dell’usignolo.37 L’arrivo di Pandora tra gli uomini è, a sua volta, la conseguenza nefasta di una scorretta distribuzione delle parti, del mancato riconoscimento da parte di Prometeo locali. È dell’opinione quindi che il poema esiodeo costituisca una testimonianza sulla vita di un villaggio come quello di Ascra che, lungi dall’essere legato alla città di Tespie, avrebbe avuto invece una sua organizzazione autonoma amministrata dalle gerarchie locali. Per una nuova analisi critica di questi aspetti e per una riflessione sulla natura del testo esiodeo come fonte storica, cfr. Millett 1984, 85–86 e più recentemente Zurbach 2017, 275–330. 33 Gernet 2001 [1917], 28–35. 34 Cfr. Detienne 1963, 16–17. 35 Hes. Op. 38–39. L’epiteto dorophagoi è stato talora interpretato in senso onorifico per alludere ai compensi che i giudici giustamente ricevevano per la loro attività: su questa lettura e i relativi riferimenti bibliografici, rinvio a West 1978, 151 che chiarisce bene, attraverso il confronto con altri passi omerici, come il contesto in cui Esiodo lo usa sia evidentemente dispregiativo. 36 Hes. Op. 35–36. 37 Claude Calame 2006 ha messo in evidenza come la prima parte del poema sia attraversata da tre «isotopie» che s’intrecciano l’una all’altra: il motivo «semantico» dell’equilibrio della dike; quello «tematico» della produzione del bios che assicura la realizzazione delle condizioni necessarie al mantenimento della giustizia e infine quello della parola poetica, la cui efficacia si rivela proprio nella sfera di dike. L’interfaccia espressiva in cui tali «isotopie» trovano le loro linee di sviluppo
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a dèi e uomini delle rispettive timai, che decreta la fine della loro felice convivenza e traccia una prima incolmabile separazione tra la sfera umana e sfera divina, tra la giustizia degli uomini e quella di Zeus. Concluso il logos relativo a Pandora, Esiodo richiama nuovamente l’attenzione di Perse, prima di passare al “racconto delle cinque età”. Questi versi sono stati oggetto di ripetute analisi che non riprenderò in questa sede.38 Mi interessa qui sottolineare la finalità dichiarata con cui si apre il racconto, quella cioè di convincere il fratello che «un’origine comune (ὁμόθεν) avevano gli uomini e gli dèi».39 Il logos che segue disegna, attraverso la successione delle generazioni, la costruzione di un universo gerarchico retto da Zeus, all’interno del quale trovano posto uomini, dèi, semidèi, daimones epichthonioi definiti guardiani di giustizia,40 e infine daimones hypochthonioi, in uno spazio verticalmente marcato dall’Olimpo e dall’Ade e orizzontalmente dalle «isole dei beati» ai «confini della terra».41 L’avvicendarsi delle generazioni dagli uomini dell’età dell’oro a quelli dell’età del ferro è la storia di un alternarsi di periodi di prossimità e di distanza dagli dèi.42 Esiodo dichiara con profondo rammarico di appartenere all’ultima generazione, quella del ferro, insieme a uomini, i quali mai cesseranno di consumarsi per la fatica, sia di giorno, sia di notte, e che dagli dèi riceveranno pensieri luttuosi.43 Tuttavia, aggiunge, «anche per essi i beni saranno mescolati ai mali».44 I versi che seguono, espressi ancora al tempo futuro, descrivono poi un’escalation di violenze che, come ha suggerito Claude Calame, ha i toni di una profezia45 dai risvolti apocalittici sulla sorte infausta che li attende. Zeus li distruggerà, quando da essi verranno figli con le tempie già bianche. L’alterarsi del ritmo naturale delle generazioni e la nascita di una prole già vecchia, che non ha quindi, nel momento stesso in cui viene alla luce, un futuro davanti a sé, energie o la speranza di una progenie che possa assicurare perennità alla stirpe, è il primo segnale della rovina ormai prossima. Dato avvio a questa inversione dei rapporti generazionali anche il padre e il figlio non si somiglieranno più, perché, secondo l’interpretazione degli scolii, più frequenti saranno gli adulteri46 e in generale il venir meno alla parola data.
è individuata dallo studioso nei tre racconti che aprono il poema: il logos sulla fabbricazione di Pandora, ripreso dalla Teogonia; il logos delle cinque età e l’apologo dell’usignolo e dello sparviero. 38 Mi limito a rinviare a J.-P. Vernant 2001b [1965], 15–90 e Calame 2006, per un sintetico status quaestionis. 39 Hes. Op. 108. Come ha sottolineato West 1978, 178, l’avverbio ὁμόθεν rinvia proprio a una relazione di sangue. 40 Hes. Op. 122. 41 Hes. Op. 168–170 e cfr. a questo proposito Calame 2006. 42 Cfr. Calame 2006, 138. 43 Hes. Op. 174–178. 44 Hes. Op. 179. 45 Calame 2006, 114–119. Cfr. anche Schol. Hes. Op. 180, da cui emerge chiaramente che una lettura in chiave profetica era già stata proposta dagli antichi. 46 Schol. Hes. Op. 182a.
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E lo stesso avverrà per i fratelli, i compagni e gli ospiti fra loro; i figli disprezzeranno i genitori anziani e rifiuteranno di accudirli. In questa situazione di totale scompaginamento dei vincoli familiari e sociali, «la giustizia risiederà nelle mani»;47 il giuramento verrà privato della sua efficacia e la competitività accompagnerà ogni agire umano.48 A quel punto, dice Esiodo, «dalla terra dalle ampie contrade, in bianchi veli nascondendo il bel corpo, e abbandonati i mortali, Aidos e Nemesis andranno verso l’Olimpo insieme alla stirpe degli Immortali. E gli affanni luttuosi resteranno agli uomini mortali, né vi sarà difesa contro il male».49 L’abbandono della terra e dei mortali da parte di Aidos e Nemesis, nello scenario profetizzato da Esiodo, non soltanto costituisce l’atto finale di un processo degenerativo che porterà alla distruzione della stirpe dell’età del ferro, ma decreta la separazione ormai definitiva tra mortali e immortali. Tuttavia, il tempo in cui vive Esiodo è quello in cui Aidos e Nemesis sono ancora operanti all’interno dell’agire sociale dell’uomo ed esercitano un controllo, garantendo il rispetto dei ruoli e il buon funzionamento delle relazioni di reciprocità, fondamento essenziale di una dike non deviata dall’uso della violenza. Sono proprio Aidos e Nemesis che, all’interno dell’universo esiodeo basato su un sistema rodato ed efficace di dono e contro-dono, presupposto necessario alla costruzione e al funzionamento dei legami sociali,50 assicurano il rispetto degli impegni, della parola data, del mutuo soccorso. Sono forze positive51 che sostengono, in generale, la messa in atto di tutti quei comportamenti capaci di favorire la coesione sociale all’interno di un contesto privo, al momento, di altri strumenti di garanzia, diversamente da quanto, invece, accadrà in seguito, quando l’uso della moneta (nomisma) e l’avvio dell’attività legislativa (nomoi), le cui nozioni rinviano, come nemesis, ad altrettante variazioni sul tema della corretta ed adeguata distribuzione delle risorse, assicureranno parametri di scambio validi e universalmente condivisi.52 Se dunque è impossibile un ritorno a condizioni precedenti, di maggiore prossimità con gli dèi, come nell’età dell’oro, prima dell’inganno prometeico, tuttavia la caduta libera verso la catastrofe può ancora essere arrestata, tutelando i vincoli sociali che garantiscono la conservazione di una dike fondata sull’impegno reciproco, sulla misura e l’autocontrollo,53 e mantenendo così Aidos e Nemesis sulla terra. Esiodo rivolge così 47 Hes. Op. 192. 48 Hes. Op. 174–194. 49 Hes. Op. 197–201. 50 Millett 1984, 99–100; Zurbach 2017, 311–313. 51 Conformemente all’uso esiodeo di reduplicare i concetti etici presentandone l’aspetto positivo e quello negativo, qui essa compare come forza favorevole ai mortali e non come il flagello della Teogonia. Cfr. Gagarin 1990; Arrighetti 1998, XXXIV–XXXV. 52 Sull’introduzione della moneta come strumento di giustizia sociale, volto ad assicurare la tenuta dei rapporti di reciprocità, come anche sull’attività dei legislatori che fornirono delle risposte ai problemi che segnavano l’epoca di Esiodo, cfr. le riflessioni di É. Will 1954, 223–224 e infra p. 167– 168. 53 North 1966, 9 sottolinea come l’opera esiodea, rappresentazione di una società contadina ormai
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i suoi ammonimenti tanto a Perse, quanto ai giudici che con il loro comportamento rischiano di condannare il genere umano. Esorta, quindi, il fratello a prestare ascolto alla dike e a non alimentare la hybris. Una giustizia ben amministrata assicura la prosperità della polis e la «pace nutrice di giovani».54 A questa condizione di giustizia e prosperità, Zeus contribuisce tenendo a distanza le guerre. Fame e sventura, inoltre, stanno lontane dagli uomini giusti che possono così godere delle feste e dei frutti che fornisce la terra, nella misura necessaria; le donne generano figli simili ai loro padri.55 La condizione di un mondo retto dalla dike ricorda, dunque, in qualche modo, quella degli uomini dell’età dell’oro.56 Tutto il contrario, invece, avviene per coloro che hanno nel cuore la hybris e le «opere ingiuste».57 Per essi giunge rapida la pena di Zeus che manda peste, fame e malanni. Le donne non generano più, le case vanno in rovina e le città vengono distrutte dalle guerre.58 Di diverso tenore sono gli ammonimenti rivolti ai giudici, destinatari, tra l’altro, dell’apologo dell’usignolo e dello sparviero.59 Agli sparvieri, controfigura dei basileis dorophagoi, Esiodo raccomanda di tenere presente che sul loro operato e sulle loro sentenze vigilano diversi sistemi di controllo: da un lato i daimones, quelle entità sovrannaturali vissute al tempo dell’età dell’oro, che Zeus pose poi a custodia degli umani e della giustizia;60 dall’altro, Dike gloriosa, figlia di Zeus (e Themis),61 che quando è offesa e maltrattata subito siede, come supplice, a fianco del padre, smascherando l’animo degli uomini ingiusti e le cattive intenzioni dei giudici, affinché il popolo paghi per la loro follia.62 La dike di cui parla Esiodo, che distingue gli uomini dalle bestie,63 è dunque una giustizia composita, il cui equilibrio è garantito dal concorrere di diversi fattori: da un lato, il comportamento degli uomini e il rispetto da parte loro dei vincoli sociali, dei ruoli e dei beni spettanti a ciascuno; dall’altro, la correttezza procedurale dell’amministrazione della giustizia, affidata ai giudici e, infine – ma certo non ultimo – il controllo divino che interviene ora a sanzionare positivamente un sistema giudiziario che funziona, assicurando prosperità e pace alle città ben amministrate; ora a punire con fame,
lontana da quella eroica dei poemi omerici, abbia elaborato un «nuovo standard» di virtù in cui valori come la misura, il ritegno e il self control risultavano profondamente potenziati. 54 Hes. Op. 228. 55 Hes. Op. 235. 56 Calame 2006, 125–126. 57 Hes. Op. 238. 58 Hes. Op. 238–247. 59 Hes. Op. 202–212. 60 Hes. Op. 251–252. 61 Nella Teogonia esiodea (vv. 901–906). Zeus sposa Themis in seconde nozze che generò le tre Ore, Eunomia, Dike ed Eirene e le Moire. 62 Hes. Op. 256–262. 63 Hes. Op. 274–285. Per un’analisi di questo passo e il suo rapporto con il tema dell’errore ancestrale, cfr. Gagné 2013, 159–177.
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carestie, e ogni genere di sciagure, quelle che il pensiero distorto dei giudici allontana dal cammino di giustizia. Il mondo retto da dike è un mondo in cui ciascuno ha un suo ruolo: il padre, il figlio, l’ospite, la donna, gli dèi. Aidos e Nemesis sono potenze che concorrono a questo buon equilibrio:64 Aidos fa in modo che ciascuno si attenga al proprio ruolo con le responsabilità che comporta, e lo rispetti; Nemesis addita coloro che escono dai margini assegnati a tale ruolo, sottraendosi ai propri obblighi.65 In un sistema così strutturato, la prosperità assicurata da dike garantisce che i figli assomiglino ai loro padri, nel senso che anche nel passaggio generazionale gli assetti proprietari e la distribuzione dei beni non vanno incontro a grandi mutamenti, cosa che consente ai figli di prendersi cura degli anziani e di garantirgli una vecchiaia decorosa e una morte degna.66 L’abbandono della terra da parte di Aidos e di Nemesis, che Esiodo prefigura al genere umano, e il loro involarsi in cielo, costituisce il segnale ultimo di una catastrofe annunciata.67 L’invettiva di Esiodo contro Perse e contro i basileis serve, in fin dei conti, a denunciare il rischio dell’approssimarsi di questo momento: entrambi, agli occhi del poeta, l’aergos Perse e i basileis «mangiatori di doni», sono colpevoli di essersi sottratti alle responsabilità o di avere abusato del loro ruolo. Alterato l’equilibrio di dike, infatti, gli uomini non sono più in grado né di autoregolarsi, né di controllare gli altri: perdono Aidos e Nemesis, vengono abbandonati cioè da quell’ultima pallida prova della comune origine che li lega agli dèi. 3. Nemesis hyperdikos e nemesis dichoboulos: l’esistenza felice degli Iperborei e le sorti dei mortali in Pindaro L’analisi dei passi esiodei in cui ricorre la menzione di Nemesis quale potenza divina ci ha consentito di tracciare un ritratto complesso e dinamico di questa figura. Evocata nella Teogonia, all’interno della genia di Notte, la dea è annoverata tra quelle forze partecipi della vulnerabilità dei mortali. Negli Erga, invece, figura quale entità la cui presenza tra gli uomini della stirpe di ferro costituisce, in coppia con Aidos, il baluardo estremo che li tutela dalla distruzione, conseguenza di un capovolgimento totale delle relazioni di reciprocità. Benché quindi designata, nella Teogonia, quale pema thnetoisi
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Per un’interpretazione di Aidos e Nemesis come «emissari» divini, cfr. Strauss Clay 2003, 93. Proprio nell’atto di compiere questo gesto Nemesis è raffigurata sull’anforisco del pittore di Heimarmene che si è già menzionato nel capitolo introduttivo (cfr. supra p. 35 e n. 84). Sul vaso la dea, individuata dall’iscrizione con il suo nome, indica a un’altra figura femminile, il cui nome non è chiaramente leggibile, una scena in cui si trova Peitho accanto ad Afrodite con in braccio una fanciulla da identificarsi forse con Elena, e Himeros adorante a fianco a un giovane che potrebbe essere Paride. Per uno studio delle scene rappresentate sull’anfora e delle iscrizioni che identificano i vari personaggi, cfr. Schwarzmaier 2012. 66 Hes. Op. 225–239. 67 Hes. Op. 197–201.
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brotoisi,68 Nemesis si presenta poi negli Erga come una entità che coopera alla tenuta della coesione sociale tra gli uomini e alla salvaguardia della stirpe dell’età del ferro. È questo un doppio registro che la rende una potenza normativa a tutto tondo: atta a regolare il buon funzionamento delle relazioni tra i mortali e perseguirne il mancato rispetto. Nella sua visione del processo di costruzione del kosmos in cui gli dèi, gli uomini, eroi, bestie, defunti hanno un loro posto e nell’individuazione delle forze necessarie al suo equilibrio, Esiodo riconosce un ruolo chiave a questa forza, nella quale efficacia prescrittiva e sanzionatoria si trovano elegantemente armonizzate. Ma se la stirpe degli uomini di ferro, generazione di cui fa parte lo stesso Esiodo, sarà fatalmente votata alla distruzione per volere di Zeus, quando Aidos e Nemesis lasceranno la terra, lo stesso sembra non potersi dire per altre stirpi di popoli fortunati, come gli Iperborei che conducono invece un’esistenza beata, protetti dal favore divino. Questi ultimi sono evocati da Pindaro nella Pitica X, la prima ode scritta dal poeta e dedicata a Ippoclea tessalo, giovane vincitore nel diaulo, ai giochi pitici del 498 a. C. L’epinicio fu commissionato dall’alevade Torace di Larissa e cantato, presumibilmente, a Pelinneo, città d’origine dell’atleta, sita lungo il corso del fiume Peneo in Tessaglia.69 L’ode si apre con la celebrazione della comune discendenza eraclide della Tessaglia e di Sparta, terre prospere e felici, associate nei versi pindarici per precise ragioni storico-politiche. Sono questi gli anni in cui le due potenze conducono una politica di intesa reciproca, volta a indebolire la forza ateniese e ad affermare l’influenza tessala all’interno dell’Anfizionia delfica.70 Dopo l’invocazione ad Apollo, Pindaro passa all’elogio del vincitore Ippoclea, il cui trionfo ricalca le orme del padre Fricia che aveva riportato due vittorie ai giochi olimpici e una ai giochi pitici.71 Tanto Ippoclea, quanto Fricia appaiono agli occhi di Pindaro una luminosa stirpe di uomini fortunati. Il poeta è tuttavia consapevole che il successo ai giochi panellenici, e le corone che cingono il capo dei vincitori, sono spia di un favore divino che è ben diverso da quello riservato a determinate categorie di uomini. Per quanto beata possa apparire la condizione del giovane Ippoclea, anche a quest’ultimo è infatti preclusa la thaumaste hodos che conduce alle feste degli Iperboreei. Inaccessibili per terra e per mare (ναυσὶ δ’ οὔτε πεζὸς ἰών), sono questi gli spazi prediletti da Apollo che lì gioisce dei loro festini e delle ecatombi di asini che questi uomini sono soliti offrire al dio.72 Ben poco si conosce di questo popolo, che Erodoto colloca significativamente all’estremo Nord dell’ecumene, ben oltre le regioni abitate dagli Sciti, dagli Issedoni, dagli uomini monophthalmoi e dai grifoni chrysophulakes.73 68 Hes. Theog. 223. 69 Sul contesto storico-culturale che fa da sfondo alla decima Pitica di Pindaro, si veda l’introduzione all’epinicio, contenuta nell’edizione Lorenzo Valla: Gentili 1995 (a cura di), 263–264. 70 Sordi 1958, 59–61. 71 Pind. Pyth. 10.19–24. 72 Pind. Pyth. 10.29. 73 Hdt. 4.27 e 32.
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Lo storico di Alicarnasso ne ricorda il carattere pacifico, le offerte, avvolte nella paglia, inviate a Delo, prima per il tramite di due fanciulle e poi dal momento che le giovani non fecero più ritorno, consegnandole, di popolo in popolo, da Nord verso Sud, da Dodona all’Eubea a Teno, fino a giungere a destinazione. Per il resto, Erodoto non nasconde il suo imbarazzo e il suo scetticismo sull’effettiva conoscibilità di queste popolazioni, ma anche sulla loro stessa esistenza. Rinuncia a parlare di Abari, di cui si racconta che fosse un iperboreo. Si limita a dire come portasse in giro la sua freccia e non si nutrisse di nulla. Postula dall’esistenza di Iperborei anche quella degli Ipernoti, aprendo, da questo punto in poi, tutta una polemica nei confronti di coloro che disegnano carte geografiche, rappresentando una terra perfettamente tonda, come se fosse disegnata da un compasso e un Oceano che corre intorno, senza però essere in grado di spiegarla. Popolo inconoscibile, le cui informazioni orali si perdono nelle pieghe del sentito dire e del passaparola, mentre quelle scritte restano frammentarie e di dubbia attribuzione, già ai tempi di Erodoto,74 gli Iperborei esprimono una marginalità estrema, ma fortunata che, nei lirici, si traduce in una massima prossimità al divino, espressa nella relazione privilegiata con il dio Delfi, centro religioso per eccellenza dell’orizzonte panellenico, ombelico del mondo conosciuto dai Greci.75 Alceo, in un inno, ricorda come Apollo, figlio di Zeus, inviato dal padre a Delfi affinché la sua voce profetica annunciasse ai Greci la dike e la themis, si fosse invece recato sul suo carro, guidato dai cigni, proprio presso gli Iperborei e tra questi uomini andasse proclamando, per un anno, le sue themistes.76 Gli abitanti della città, pertanto, ricorsero alla composizione di peana e all’allestimento di cori per richiamare indietro il dio. Presso costoro, ricorda inoltre Bacchilide nell’Epinicio terzo, Apollo trasportò l’anziano Creso, salvandolo da una morte sicura, quale ricompensa per la sua devozione.77 Felici, fortunati, dediti alle feste e alle danze, agli Iperborei è concordemente riservato nelle fonti uno spazio geografico inarrivabile per il comune mortale.78 Riuscire ad accedervi significa potere percorrere le vie del thauma, fruire di vettori di trasporto normalmente preclusi agli uomini: Apollo arriva presso gli Iperborei su un carro trainato da cigni; Perseo, partito per uccidere la gorgone Medusa, vi giunge grazie alla protezione di Atena; e Creso per volere del dio di Delfi. Inaccessibilità e prosperità sono quindi le cifre caratterizzanti questa sacra progenie che vive – a detta di Pindaro – al riparo dalle malattie e dalla vecchiaia, senza fatiche e battaglie, e dimora lontano da
Secondo Hdt. 4.32, avevano parlato degli Iperborei, Esiodo e Omero negli Epigoni – e aggiunge – «se fu veramente lui a comporre quest’opera». 75 Romm 1992, 65. 76 Alc. 307c Voigt. 77 Bacch. Ep. 3, 22–60. 78 Sulla costruzione e la rappresentazione degli spazi abitati dagli Iperborei, cfr. più di recente Gagné 2021. 74
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Nemesis «oltremodo giusta» (hyperdikos).79 Illuminati dalla saggezza apollinea e dalla parola profetica del dio, gli Iperborei sono una stirpe diversa dagli uomini dell’età del ferro che abbiamo vista descritta in Esiodo. Condannati alla vecchiaia e afflitti dalle fatiche e dagli affanni, per costoro la presenza di Aidos e Nemesis sulla terra è garanzia di sopravvivenza, nell’ambito di un’esistenza in cui i beni sono – tristemente – mescolati ai mali. Gli Iperborei non hanno bisogno fra loro di una Nemesis hyperdikos, che assicuri la buona tenuta delle relazioni sociali, proprio in virtù del favore di cui godono presso le divinità. La loro vita è esente dalle affezioni che colpiscono gli uomini dell’età del Ferro, quelli la cui vulnerabilità è rappresentata dalle potenze generate da Notte, nella Teogonia esiodea. La loro condizione fortunata, lontano dal contagio delle malattie (νόσοι δ’ οὔτε γῆρας οὐλόμενον) e senza fatiche e battaglie (πόνων δὲ καὶ μαχᾶν ἄτερ), si costruisce esattamente per contrasto rispetto a quella dell’essere umano, anche del più fortunato.80 E benché al giovane Ippoclea tessalo, al padre Fricia e al committente dell’ode, il tago di Tessaglia Torace, sia interdetta quella strada che conduce al mondo degli Iperborei, ovvero a quello stato di pienezza e beatitudine che è frutto della coabitazione con il divino e della condizione di privilegio che ne deriva, essi tuttavia appartengono a una stirpe senz’altro favorita dagli dèi, come testimonia la recente vittoria pitica e l’analoga appartenenza a un popolo del Nord che li avvicina ad essi. Per costoro che, seppur valenti, non possono partecipare, come gli Iperborei, della felice risata apollinea in risposta alle loro generose ecatombi di asini, Pindaro prega che non debbano incorrere nei rovesci invidiosi mandati dagli dèi (φθονεραῖς ἐκ θεῶν / μετατροπίαις), ma che il dio conceda loro un cuore privo di pene (θεὸς εἴη ἀπήμων / κέαρ).81 Il poeta sembra volere avvertire laudando e committente che i successi ottenuti e le lodi sono prova solo di un temporaneo favore divino, la cui durata per i mortali è imprevedibile e che è saggio non dare per scontati. Consustanziali invece alla condizione umana, anche per i più fortunati e virtuosi, sono i pemata, i rovesci della sorte, le battaglie, le malattie e Nemesis hyperdikos. L’uso del prefisso nell’epiteto assegnato a Nemesis tradisce la percezione di un eccesso, di un’entità che supera la stessa Dike nell’applicazione della giustizia: una Dike al quadrato che agisce tanto come deterrente, nel timore che scatena negli uomini, quanto come sanzione, negli effetti che determina; una Dike, la cui esecuzione sfugge al controllo stesso degli uomini e le cui conseguenze sono imprevedibili. Il tema dei pemata, che caratterizza la vita dei mortali a dispetto dei successi che essi riescono ad ottenere, torna anche nell’Olimpica VIII, datata al 460 a. C. per celebrare il giovane Alcimedonte della famiglia eginetica dei Blepsiadi che aveva ottenuto una vittoria olimpica per la lotta. Nell’ambito dello stesso epinicio vengono ricordati anche 79 Pind. Pyth. 10. 44. 80 Pind. Pyth. 10.42–44. 81 Pind. Pyth. 10.20–22.
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il trionfo alle Nemee del fratello di Alcimedonte, Timostene e dell’allenatore ateniese Melesia, la cui palestra otteneva così il trentesimo successo. L’ode si apre con un’ampia celebrazione di Olimpia, madre di tutti di agoni, che garantisce una gloria imperitura ai suoi vincitori, e prosegue con il ricordo di Alcimedonte e del fratello Timostene, come dell’isola che ha dato loro i natali. Egina è cantata quale città aperta all’accoglienza degli stranieri e guidata da gente dorica, il cui capostipite Eaco aveva collaborato alla costruzione delle mure di Troia insieme ad Apollo e Poseidone. La parte mitica dell’ode è incentrata proprio su questa impresa e sul teras che l’accompagna, quando di tre serpenti balzati sulla torre appena costruita, due cadendo morirono, mentre il terzo riuscì a penetrare entro la cinta dalla parte su cui aveva lavorato Eaco. Apollo interpretò così il presagio che Troia sarebbe caduta per mano dei discendenti dell’eroe, mentre Poseidone, fattolo salire sul suo carro, lo trasportò sull’Istmo di Corinto.82 Terminata la parte mitica, Pindaro torna all’attualità con l’elogio dell’allenatore ateniese Melesia, augurandosi che le sue parole non incorrano nello phthonos degli Egineti, allora in pessimi rapporti con Atene. Segue poi un nuovo elogio dei vincitori, di cui immagina che l’eco della loro fama possa raggiungere persino i parenti defunti. La preghiera finale, rivolta a Zeus, contiene l’auspicio che nuove vittorie possano aggiungersi al medagliere dei già fortunati Blepsiadi. unitamente a una speranza espressa in questi termini: εὔχομαι ἀμφὶ καλῶν μοίρᾳ νέμεσιν διχόβουλον μὴ θέμεν· ἀλλ’ ἀπήμαντον ἄγων βίοτον αὐτούς τ’ ἀέξοι καὶ πόλιν. Lo prego (Zeus): nella porzione dei beni non imponga una nemesis discorde ma recando una vita senza mali accresca essi e la loro città. Pind. Ol. 8.86–88
A distanza di circa quarant’anni, e pur nell’ambito della produzione letteraria di uno stesso autore, ancora una volta due registri della nemesis sono all’opera: da un lato, la divinità sanzionatrice che appartiene al novero dei pemata dei mortali e dall’altro, l’emozione strumento della volontà di Zeus che si ingenera di fronte ad un’assegnazione troppo generosa di beni. Se la moira kalon, ovvero l’attribuzione di fortune ai mortali, in momenti prestabiliti, è in qualche modo indipendente e autonoma rispetto al volere del padre degli dèi, tale non è la reazione di indignazione che tali successi possono sol-
82 Pind. Ol. 8.35–60.
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lecitare negli altri, divinità comprese. La preghiera che Pindaro rivolge a Zeus è quindi che sui successi, che la moira ha preordinato per i Blepsiadi, non pesi una nemesis dal giudizio incerto; che essi, quindi, non siano mira del risentimento dei concittadini i quali, in quanto mortali, non sono in grado di riconoscere nelle vittorie altrui i segni del favore divino. L’augurio è che a costoro questo non avvenga, ma che essi possano condurre una vita priva di pemata, accrescendo sé stessi, ma soprattutto la polis. 4. Nell’entourage di Zeus: Nemesis, Elena e il controllo della giustizia Nemesis, nel suo ruolo di potenza divina, è chiaramente individuata all’interno dell’entourage di Zeus, all’interno di un passo capitale dei Canti Ciprii, già ricordato nell’introduzione.83 Si tratta di un frammento riportato, all’interno dell’VIII libro dei Deipnosofisti di Ateneo, nell’ambito di una lunga digressione sulle diverse tipologie di pesci. I Kypria sono un poema epico dedicato alle vicende relative alla guerra di Troia dalle sue origini fino all’insorgere dell’ira di Achille con cui si apriva l’Iliade. La sua attribuzione appariva dibattuta già nell’antichità.84 I nomi evocati come autori erano solitamente quelli, non altrimenti noti, di un poeta cipriota di nome Stasino o Egesia (o ancora Egesino).85 Del poema, ben noto nel mondo antico, restano oggi circa cinquanta versi e un riassunto che consente di conoscerne la materia, redatto da Proclo, probabilmente il grammatico del II sec. d. C. I versi, tràditi da Ateneo, e gli altri frammenti dell’opera, consentono di ricostruire la figura di Nemesis come divinità e soprattutto il ruolo che gli antichi le riconoscevano nello scoppio della guerra di Troia. L’analisi dei versi permette di entrare direttamente in medias res e di ricostruire le modalità con cui i Greci rappresentavano il profilo della dea e la sua vicenda mitica: καὶ ὅτι ὁ τὰ Κύπρια ποιήσας ἔπη, εἴτε Κυπρίας τίς ἐστιν ἢ Στασῖνος ἢ ὅστις δή ποτε χαίρει ὀνομαζόμενος, τὴν Νέμεσιν ποιεῖ διωκομένην ὑπὸ Διὸς καὶ εἰς ἰχθὺν μεταμορφουμένην διὰ τούτων· τοὺς δὲ μέτα τριτάτην Ἑλένην τέκε, θαῦμα βροτοῖσι· τήν ποτε καλλίκομος Νέμεσις φιλότητι μιγεῖσα Ζηνὶ θεῶν βασιλῆι τέκεν κρατερῆς ὑπ᾽ ἀνάγκης. φεῦγε γὰρ οὐδ᾽ ἔθελεν μιχθήμεναι ἐν φιλότητι πατρὶ Διὶ Κρονίωνι· ἐτείρετο γὰρ φρένας αἰδοῖ καὶ νεμέσει: κατὰ γῆν δὲ καὶ ἀτρύγετον μέλαν ὕδωρ φεῦγε, Ζεὺς δ᾽ ἐδίωκε· λαβεῖν δ᾽ ἐλιλαίετο θυμῷ ἄλλοτε μὲν κατὰ κῦμα πολυφλοίσβοιο θαλάσσης
83 Cfr. supra p. 17–18. 84 Cfr. West 2003, 13–14. 85 Ibid., 10–11.
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ἰχθύι εἰδομένην, πόντον πολὺν ἐξορόθυνεν, ἄλλοτ᾽ ἀν᾽ Ὠκεανὸν ποταμὸν καὶ πείρατα γαίης, ἄλλοτ᾽ ἀν᾽ ἤπειρον πολυβώλακα· γίγνετο δ᾽ αἰεὶ θηρί᾽ ὅσ᾽ ἤπειρος αἰνὰ τρέφει, ὄφρα φύγοι νιν. (E so) anche che colui che ha scritto i Kypria, se sia uno di Cipro o Stasino o comunque gli piaccia essere chiamato, rappresenta Nemesis inseguita da Zeus che si trasforma in pesce in questi versi: Dopo questi (scil. i Dioscuri) per terza partorì Elena, meraviglia per i mortali La generò un giorno Nemesi dalle belle chiome, unita in amore a Zeus re degli dèi, la partorì per dura necessità. Fuggiva infatti e non voleva congiungersi in amore con il Cronide Zeus padre, consumava l’animo nell’aidos e nella nemesis. Per terra e nell’acqua nera, infeconda, fuggiva e Zeus la inseguiva; ardentemente bramava nel cuore di ghermire quella che prese ora le sembianze di un pesce per i flutti del mare risonante eccitava il vasto mare, ora sul fiume Oceano e ai limiti della terra, ora sul continente ricco di zolle. Si trasformava di volta in volta nell’aspetto di quante fiere terribili il continente nutre, pur di sfuggirgli. Ath. 8.10, 334b–d [= Kypria Fr. 10 West]
Il testo fornisce, già a una prima lettura, una serie di informazioni che consentono di raccontare il profilo della dea: il rapporto con Zeus; l’attitudine alla metamorfosi; la maternità e la nascita di Elena. Quella che per Esiodo era un pema per i mortali, nei Canti Ciprii partorisce un thauma. La sua seducente bellezza, veicolata dall’epiteto kallikomos, la rende oggetto del desiderio irrefrenabile del padre degli dèi. Zeus tenta di costringerla a un’unione violenta cui la dea si sforza disperatamente di sottrarsi, dandosi a una rocambolesca fuga, per mare e per terra, che la porta a cambiare forma, a seconda dei paesaggi che attraversa. Il suo ritratto è profondamente marcato dalle emozioni che suscita in lei il desiderio di Zeus: i versi descrivono uno stato d’animo consumato dall’aidos e dalla stessa nemesis.86 Le metamorfosi di Nemesis sono a loro volta manifestazioni fisiche di un disagio interiore, ed espressione di una violenza che trasfigura. Il doppio registro messo in evidenza nelle testimonianze esaminate nelle pagine precedenti è qui pienamente all’opera: la dea Nemesis è mossa sia dalla vergogna intima (aidos), dal contegno, determinati da quel senso di contaminazione e di violazione che l’abuso sessuale ingenera; sia dallo sdegno e dal disgusto (nemesis) che caratterizzano le vittime di uno stupro, costrette come sono, a un’unione indesiderata e illegittima. La capacità di esperire entrambe le emozioni da parte della divinità ne chiarisce la stretta interdipendenza: nei mortali, il senso dell’aidos è l’antidoto alla nemesis altrui e serve a prevenirla; negli dèi, invece, sanzione esterna e interna possono coesistere,
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Sulla coesistenza di questo binomio emotivo nella figura di Nemesis, cfr. Loraux 1989, 243.
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costituendo una miscela esplosiva capace di accendere la loro potenza, fornendo loro le risorse necessarie per reagire all’abuso. La nemesis e l’aidos insieme spingono alla fuga, marginalizzano, isolano dal consesso sociale e finiscono per alterare l’individuo. La trasformazione, tuttavia, non risparmia nemmeno l’aggressore, come emerge dalla versione che dello stesso episodio offre l’opera attribuita ad Apollodoro,87 che viene in qualche modo a integrare il racconto frammentario pervenutoci dai Kypria, e che leggiamo qui di seguito: λέγουσι δὲ ἔνιοι Νεμέσεως Ἑλένην εἶναι καὶ Διός. ταύτην γὰρ τὴν Διὸς φεύγουσαν συνουσίαν εἰς χῆνα τὴν μορφὴν μεταβαλεῖν, ὁμοιωθέντα δὲ καὶ Δία κύκνῳ συνελθεῖν· τὴν δὲ ᾠὸν ἐκ τῆς συνουσίας ἀποτεκεῖν, τοῦτο δὲ ἐν τοῖς ἄλσεσιν εὑρόντα τινὰ ποιμένα Λήδᾳ κομίσαντα δοῦναι, τὴν δὲ καταθεμένην εἰς λάρνακα φυλάσσειν, καὶ χρόνῳ καθήκοντι γεννηθεῖσαν Ἑλένην ὡς ἐξ αὑτῆς θυγατέρα τρέφειν. Alcuni dicono però che Elena era figlia di Zeus e di Nemesi. Nemesi, per sfuggire a Zeus si tramutò in oca, ma Zeus prese la forma di un cigno e si unì a lei. Dall’unione Nemesi partorì un uovo che un pastore trovò nei boschi e portò in dono a Leda. Leda lo custodì in un’urna e a tempo debito nacque Elena, che lei allevò come una figlia. Apollod. 3.10, 7 (trad. Ciani)
In questa testimonianza, come si vede, la vicenda si arricchisce di ulteriori dettagli: l’attenzione si sposta sull’espediente adottato da Zeus che, per neutralizzare la reazione della vittima trasformatasi in oca, prende la forma di un cigno e riesce ad unirsi finalmente all’oggetto del suo desiderio. La metamorfosi del dio è confermata anche da un passo dei Katasterismoi di Eratostene, su cui si tornerà in seguito, che riporta la sintesi del dramma del commediografo ateniese di età periclea, Cratino. Qui i cambiamenti di forma della dea costringono Zeus a prendere le sembianze di un cigno per riuscire a raggiungere Nemesis a Ramnunte, dove ha luogo la violenza e il concepimento di Elena, nata poi da un uovo. Dietro questa girandola di metamorfosi che sorprende e sfida vittima e aggressore a superarsi vicendevolmente s’indovina anche la percezione dell’irrevocabilità dell’abuso che dà il via a una spirale perversa di violenze, la cui espressione concreta è individuata proprio nel frutto di queste unioni moleste. Gli abusi di una divinità ai danni di un’altra si risolvono spesso in un confronto tra le due potenze che si esprime attraverso una gara all’ultimo cambiamento di forma: la vittima ricorre alla metamorfosi come espediente per sfuggire a un pericolo, mentre l’aggressore se ne serve per costringere la sua preda all’unione. È quanto accade anche nel caso di altre figure divine che intrattengono con Zeus una relazione privilegiata, costruendo una rete di rapporti di forza, i cui nodi meritano di essere esplorati ai fini dell’individuazione delle basi su cui per i Greci si costruiva l’ordine divino stabilito dal Cronide.
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Cfr. sull’unione tra Zeus e Nemesis nei Kypria e in Apollodoro, Luppe 1974 e 1975.
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A un’unione indesiderata con Zeus fu costretta anche la sua prima sposa Metis, la cui vicenda mitica presenta importanti analogie con quella di Nemesis. Secondo la Biblioteca di Ps. Apollodoro, Metis prestò il suo aiuto a Zeus, consegnandogli un pharmakon che inducesse il padre Crono a vomitare i figli e la pietra che aveva precedentemente ingerito. Minacciata poi dal desiderio violento di Zeus, Metis tentò di sottrarsi, ricorrendo a una sequenza di cambiamenti di forma, manifestazione concreta di quell’intelligenza ritorta che i Greci chiamavano, per l’appunto, con il termine metis.88 L’abilità a mutare aspetto che Nemesis condivide con Teti e Metis è prerogativa frequente nelle divinità che intrattengono con il mare o, in generale, con l’acqua una qualche relazione, sia essa di filiazione, appartenenza o contiguità. Teti, infatti, appartiene all’illustre schiera delle figlie di Nereo, mentre Metis è una delle Oceanine.89 Questa parentela con le potenze del mare è confermata anche nel caso di Nemesis. Pausania, infatti, ricorda che, nel contesto locale attico, essa è ricordata come figlia di Oceano e non di Notte, come invece riporta la Teogonia esiodea90. La natura marina di Nemesis è poi ribadita anche da un’altra tradizione, conservata in un frammento bacchilideo, che le attribuisce la maternità dei Telchini, entità dalla forma ibrida, metà volatili e metà pesci, nati dall’unione con Tartaro.91 Tutti questi elementi sembrano sottolineare la natura anfibia92 della dea, la cui capacità di spostamento per mare e per terra fino ai limiti del mondo abitato è efficacemente illustrate nei Kypria.93 Secondo P. M. C. Forbes Irving, Nemesis, insieme ad altre divinità del mare, come Proteo, Nereo, Metis, Teti etc., appartiene a una classe particolare di potenze individuate con l’espressione di shape-shifter,94 la cui abilità a cambiare continuamente aspetto e forma è un modo per reagire a una condizione di apparente debolezza.95 Anziani (come Proteo e Nereo) e donne (come Metis, Teti e Nemesis) sono tutti componenti essenziali per il buon funzionamento dell’ordine sociale: gli uni sono fondamentali per la loro esperienza e il loro bagaglio di conoscenze; le altre assicurano la continuità della specie. Tuttavia, tanto gli uni quanto le altre, possono costituire un pericolo per l’ordine sociale: gli anziani per il rifiuto che potrebbero opporre alla condivisione della loro
88 Apollod. Bibl. 1.6, 1 e 1. 20, 1. Sulla polimorfia di Metis e delle altre potenze legate all’acqua: Detienne/Vernant 1974, 109–112. 89 Hes. Theog. 240–244 e 358. 90 Paus. 1.33.3. 91 Bacch. Fr. 52 Maehler = Tzetzes, Theog. v. 80. 92 La capacità di trasformarsi in un pesce è abbastanza insolita per gli dèi. L’unico termine di paragone, a quanto mi risulta, è rappresentato da Teti che, nella forma di una seppia, fu catturata da Peleo: Schol. Lycophr. Alex. 175. 93 Sui Telchini, cfr. Brillante 1993 e Musti 1999. 94 Contra Buxton 2010, 84–85, che non vede ragioni per identificare queste divinità come appartenenti a una classe particolare. 95 Forbes Irving 2002, 171–175.
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saggezza e della loro conoscenza; le donne invece per la resistenza all’unione sessuale o a causa dei figli che potrebbero dare alla luce.96 Proteo, Nereo, Metis, Teti – tutte non a caso entità pre-olimpiche – sono figure al tempo stesso marginali e centrali nel kosmos stabilito da Zeus. La loro relazione con il mare è stata interpretata come espressione di una conoscenza profetica talora connessa all’amministrazione di una giustizia ordalica.97 Esse agiscono all’interno di un universo caotico e indifferenziato,98 precedente all’assegnazione, per sorteggio, dei diversi ambiti di competenza, in base alla quale al padre degli dèi spettò la sfera celeste, a Poseidone quella marina e a Ade quella sotterranea.99 La messa in sicurezza di questo sistema è poi affidata da Zeus ad altri importanti provvedimenti: l’intelligenza rappresentata da Metis assimilata dal padre degli dèi e guadagnata così all’ordine olimpico.100 Anche l’unione con Themis, da cui nascono le Horai (Dike, Eunomia e Eirene) e le Moirai, serve a Zeus per iscrivere il suo regno nel quadro della normatività.101 Infine, le nozze con Era, sposa e sorella, conferiscono al suo governo sul kosmos divino quel sigillo di legittimità, premessa necessaria alla sua perennità.102 La serie di metamorfosi con cui Nemesis risponde alla violenza di Zeus può essere letta come una prova della sua resistenza a partecipare al nuovo ordine, seppure con una differenza importante rispetto alle relazioni con Metis e Teti: i figli di queste ultime sono, secondo la profezia, una minaccia per il kosmos instaurato da Zeus; Elena, al contrario, in quanto figlia di Nemesis, è una pedina fondamentale nella realizzazione del suo piano strategico per i mortali. Il coinvolgimento di Teti e Nemesis nel progetto di Zeus deve collocarsi però in una fase successiva rispetto alla costituzione del kosmos e su un piano cronologico che supera i limiti stessi del processo teogonico illustrato da Esiodo, in un periodo in cui l’ordine divino olimpico è già consolidato e definitiva è la separazione tra mortali e immortali. È il momento in cui, in accordo con Themis, il padre degli dèi dà inizio alla guerra di Troia.103 È in questo quadro temporale in cui devono inserirsi tanto la violenza di Zeus a Nemesis quanto quella di Peleo a Teti.104
Ibid., 189–191. Detienne 1977, 17–33; cfr. più recentemente sul rapporto tra i vecchi del mare e il loro legame con l’amministrazione della giustizia: Cursaru 2019, 540–551. 98 Rudhardt 1971, 116. 99 Cfr. supra p. 98. 100 Detienne/Vernant 1974, 104–125. 101 Pironti 2009, 15. 102 Pirenne-Delforge/Pironti 2016, 29, 258. 103 Procl. Chrest. 80–85 = Kypr. Arg. 1.1–7 West; Schol. D Il. 1.5; Eur. Hel. 36–41; Eur. Or. 1639–42. Il ruolo di Themis è menzionato nei Kypria, mentre le altre fonti attribuiscono ora alla decisione di Zeus, ora a tutte le divinità la responsabilità di avere scatenato la guerra di Troia per alleggerire la terra, individuando in Elena lo strumento di attuazione di tale deliberazione divina. 104 Sulla figura di Teti, cfr. ancora Cursaru 2019, 525–529. 96 97
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Entrambe le unioni, esito di incontri eccezionali – l’una di una divinità con un’altra divinità, l’altra di un mortale con una divinità – daranno luogo a maternità straordinarie da cui scaturiranno altre forme di violenza. Apollodoro, relativamente alla nascita di Elena, aggiunge, nella sua versione, un particolare che amplifica l’esito mostruoso dell’amplesso tra Zeus e Nemesis, riferendo che da esso venne fuori un uovo deposto in un bosco da Nemesis, ritrovato da alcuni pastori e custodito poi da Leda. Da quest’uovo, spia concreta di una violenza bestiale e che bestializza persino gli dèi, come ormai sappiamo, sarebbe venuta alla luce Elena.105 Dalle nozze tra Peleo e Teti, invece, sarà generato Achille. Tanto l’uno quanto l’altra, saranno protagonisti e micce innescate di quell’archetipico teatro di violenze che sarà la guerra di Troia. Che i due eventi fossero connessi emerge anche da un altro frammento dei Canti Ciprii,106 introdotti da uno scolio all’Iliade in cui la thnetogamia, cui fu costretta Teti, e la nascita della bella figlia (di Zeus) sono chiaramente indicati quali cause scatenanti della guerra di Troia che portò Greci e “Barbari” a scontrarsi. Il poeta dei Kypria spiega che il conflitto fu generato dal sentimento di pietà provato da Zeus nel vedere la terra gravata dal peso delle molteplici stirpi di mortali che la attraversavano. Fu così che il suo pensiero complesso stabilì di ridurre questa pressione, mandando tanti eroi a morire sotto le mura di Troia. Dati tutti questi elementi, e alla luce anche delle riflessioni scaturite dall’analisi dei versi omerici ed esiodei, si chiarisce meglio il ruolo di Nemesis nell’entourage di Zeus. Nella Teogonia, la dea è una sorta di potenza oscura che, in quanto figlia di Notte, partecipa della costruzione della vulnerabilità umana e garantisce, con la sua presenza, l’equilibrio del kosmos.107 Nelle Opere e Giorni essa è coinvolta insieme ad Aidos nella profezia apocalittica che porterà alla distruzione della stirpe degli uomini dell’età del ferro da parte di Zeus, nel momento in cui tutta una serie di rivolgimenti sociali avranno avuto luogo.108 Infatti, è previsto che quando Aidos e Nemesis abbandoneranno la terra, per congiungersi agli altri dèi dell’Olimpo, il loro involarsi verso le dimore celesti segnerà la fine di questa generazione di mortali. Tuttavia, fino a quel momento esse garantiranno la coesione sociale e il funzionamento di dike. Nei Canti ciprii, invece, è una divinità che fugge inseguita da Zeus, che è capace di passare dal mare fino agli estremi limiti della terra. L’acqua nera infeconda e il fiume Oceano, evocati nel poema, sono una via di fuga naturale per lei che è sempre pronta a correre o a volare lontano.109 Acqua e terra, fino ai limiti estremi dell’oikoumene, 105 La nascita dall’uovo come sostituto del ventre materno suggerisce un’anomalia nel processo di generazione: così Fermi 2021, 8. Secondo Dasen 2005, 76, la nascita dall’uovo testimonia uno sconvolgimento dell’ordine biologico. 106 Kypr. Fr. 1 West = Schol. D Il. 1.5. 107 Cfr. supra p. 96 e ss. e Bonanno 2016. 108 Calame 2006. 109 Beaulieu 2016, 166 ha osservato come il tuffo in mare determini una separazione dal mondo cui si appartiene e inneschi una trasformazione radicale.
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rappresentano l’area che riesce a coprire con la sua azione.110 La nascita di Elena, unica donna mortale generata da Zeus nell’unione con un’altra divinità, può essere letta come una garanzia del fatto che Nemesis, attraverso la sua progenie, è destinata a restare tra gli uomini e a regolarne la presenza sulla terra, ammonendoli costantemente sulla catastrofe che li attende. La nascita di Elena e il successivo rapimento della fanciulla da parte di Paride, con lo scompaginamento dell’oikos di appartenenza e la guerra che ne scaturirà, sono spie dell’incepparsi del funzionamento delle relazioni di reciprocità, segnali di una degenerazione, che è facile leggere tra le righe della lista stilata da Esiodo nel “racconto delle cinque età”, sul destino degli uomini della stirpe del ferro.111 Il rapimento di Elena, l’affronto rivolto al sovrano Menelao cui la giovane donna, in quanto figlia di Zeus, era destinata, e l’adulterio che la vide complice di Paride implicano, come conseguenza, che proprio da lei possano nascere figli non più simili al padre, rendendo così manifesti gli effetti che le infrazioni alle norme sociali hanno per i mortali. Come spiega Esiodo, infatti, solo gli uomini che si attengono alla giustizia abitano città floride di giovani, rigogliose di beni, in cui la terra produce abbondantemente i suoi frutti e dove le donne partoriscono figli che somigliano ai loro padri. A costoro, precisa il poeta, Zeus non assegna mai la guerra dolorosa.112 La guerra è, dunque, una punizione divina che giunge a seguito di tutta una serie di infrazioni e scatena a sua volta una sequenza inarrestabile di calamità.113 Se solo Paride avesse minimamente avuto il senso della nemesis, o l’avesse riconosciuta nei lineamenti divini di Elena, la guerra di Troia, determinata dal consiglio congiunto di Zeus e Themis, non avrebbe avuto modo di scoppiare. Il ruolo di Nemesis, a fianco di Zeus, è evocato in un passo delle Fenicie euripidee, e precisamente nelle preghiere della giovane Antigone, che assiste impotente all’assedio della sua città. La vicenda, che riprende quella dei Sette a Tebe, è raccontata questa volta alla presenza di un gruppo di fanciulle di Tiro, lì giunte come tappa intermedia di un viaggio che le porterà ad offrirsi al dio Apollo a Delfi. Le donne rivendicano un legame ancestrale di parentela con Tebe che passava per l’antenato fenicio Cadmo, ritenuto fondatore della città. Sotto i loro occhi si consuma il dramma dei due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, fratelli che non si riconoscono più, che non hanno più un comune sentire e che non sono riusciti a rispettare la promessa reciproca di regnare uno alla volta. Sotto gli occhi delle donne venute da Tiro ha luogo un assedio che rischia di far scomparire la polis, verso cui riconoscono un vincolo così forte. Ognuna delle sette porte di Tebe è sotto attacco da parte degli eroi venuti da Argo, insieme a Polinice, per espugnarla. Alla vista di Capaneo, che, con lo sguardo va misurando le mura della cit-
110 A questo proposito, Ehrhardt 1997, 34. 111 Cfr. supra p. 103 e ss. 112 Hes. Op. 225–230. 113 Ibid., 235–247.
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tà,114 Antigone, salita sul punto più alto del palazzo per osservare l’avanzata dell’esercito argivo, esclama: {Αν.} ἰὼ, Νέμεσι καὶ Διὸς βαρύβρομοι βρονταὶ κεραύνιόν τε φῶς αἰθαλόεν, σύ τοι μεγαλαγορίαν ὑπεράνορα κοιμίζεις· Nemesi e tuoni altisonanti di Zeus luce fiammeggiante della folgore, tu che il discorso superbo e violento metti a tacere. Eur. Phoen. 182–185
Questa è la sola volta che, nelle tragedie, Nemesis appare, inequivocabilmente, come una divinità da invocare e non come una reazione divina o umana da cui guardarsi. Il suo nome è pronunciato insieme ai tuoni altisonanti di Zeus e alla folgore, strumenti della costruzione del kosmos divino, dispositivi di cui la divinità si serve per sanzionare coloro che si elevano al di sopra di quanto consentito.115 Ad essi è attribuita una funzione precisa: quella di tacitare il parlare violento e superbo. L’invocazione di Antigone nei versi euripidei fornisce un’ulteriore traccia per la ricostruzione del profilo divino di Nemesis che agisce di concerto con la giustizia divina di Zeus, colpendo l’arroganza verbale: quel parlare violento e insensato che un tempo mise a mal partito Tersite. È una prerogativa questa che anche nelle Leggi di Platone viene attribuita a Nemesis, non a caso designata come angelos di Dike, e specificamente preposta al controllo della parola.116 Sopraffatta dalla violenza di Zeus, Nemesis è infine integrata nel suo entourage, inglobata in un sistema sofisticato che prevede il coinvolgimento di diverse potenze pre-olimpiche e non, sotto la supervisione del padre degli dèi. La sua azione viene inquadrata così all’interno del cruscotto di controllo che garantisce il mantenimento del kosmos e del suo equilibrio. È in questo modo che il suo ritratto si precisa come quello di una divinità che interviene a livello delle disfunzioni sociali; intollerante verso gli abusi, la tracotanza e le violenze verbali e fisiche e che coopera al buon funzionamento della giustizia, annunciandone i termini. Se poi nel profilo di shape-shifter e nel rapporto con l’acqua che emerge dai versi dei Canti Ciprii debba leggersi il profilo di una potenza, non solo ausiliaria di Dike, ma preposta essa stessa a un’analoga forma di giustizia di tipo oracolare e profetico, è quanto cercheremo di verificare nelle prossime pagine.
114 Powell 1979 [1911], 155, ad loc., suggerisce un confronto con le operazioni di misurazione delle mura condotte dai Plateesi assediati durante la guerra del Peloponneso di cui parla Tucidide in 3.20. 115 Cfr. Hes. Theog. 853–856. 116 Plat. Leg. 717 c–d. Cfr. anche il ruolo di Nemesis in Call. Hymn. 6.56.
Capitolo quarto Nemesis in azione 1. La nemesis degli dèi e l’etica della misura Dalle fonti di età arcaica fino alle testimonianze di epoca più tarda, la documentazione restituisce una costante oscillazione tra l’uso del termine nemesis in quanto emozione e il riferimento alla divinità omonima. Come sottolineato più volte in precedenza, quella della nemesis è percepita ora come una pulsione umana che esprime una presa di distanza rispetto a specifici comportamenti ed è tanto più efficace e forte, quanto più è coralmente condivisa; ora quale attitudine attribuita a divinità ben individuate, con lo scopo di illustrare la rete di relazioni e di rapporti di forza che le definiscono. Talora però nelle fonti, quella della nemesis viene chiamata in causa come reazione funesta da parte di un divino non precisamente identificabile con una potenza specifica. L’analisi di queste testimonianze consente di circoscrivere le modalità di tale reazione divina e di riconoscere la tipologia di trasgressioni verso cui essa è diretta, ma soprattutto offre un contributo alla comprensione dell’articolazione dei diversi regimi di causalità divina. Si tratta per lo più di una nemesis a servizio dell’etica del meden agan; del limite da non valicare; del ritegno da avere tanto nelle dichiarazioni rese pubblicamente e nei termini impiegati, quanto nei comportamenti e nella considerazione di sé e della propria fortuna. Tale è per esempio in una sequenza di distici del corpus theognideum, che contiene tutta una serie di prescrizioni comportamentali, ispirate alla stessa massima delfica, identificata anche altrove all’interno della stessa opera quale strumento per il raggiungimento della virtù difficile da conquistare:1 Μηδὲν ἄγαν χαλεποῖσιν ἀσῶ φρένα μηδ’ ἀγαθοῖσιν χαῖρ’, ἐπεὶ ἔστ’ ἀνδρὸς πάντα φέρειν ἀγαθοῦ. Οὐδ’ ὀμόσαι χρὴ τοῦτο. – τί ‘Μήποτε πρᾶγμα τόδ’ ἔσται’. θεοὶ γάρ τοι νεμεσῶσ’, οἷσιν ἔπεστι τέλος·
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Thgn. vv. 335–336; 219–221; 401–406.
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† καιπρηξαι † μέντοι τι· καὶ ἐκ κακοῦ ἐσθλὸν ἔγεντο καὶ κακὸν ἐξ ἀγαθοῦ. καί τε πενιχρὸς ἀνήρ αἶψα μάλ’ ἐπλούτησε καὶ ὃς μάλα πολλὰ πέπαται ἐξαπίνης ἀπό τ(οι) οὖν ὤλεσε νυκτὶ μιῆι. καὶ σώφρων ἥμαρτε, καὶ ἄφρονι πολλάκι δόξα ἕσπετο, καὶ τιμῆς καὶ κακὸς ὢν ἔλαχεν. Non ti crucciare troppo di pene il cuore ma non gioire troppo dei successi, poiché l’uomo valente deve tutto sopportare. E non giurare dicendo: “Questo mai sarà”; Gli dèi da cui dipende l’esito di ogni evento, possono indignarsene. Eppure (…) da un male viene un bene e un male dal bene. Chi è povero arricchisce all’improvviso e chi molto possiede d’un tratto perde tutto in una notte sola. Un uomo avveduto fallisce e spesso buona fama a uno stolto arride, che si riceve onore in sorte pur essendo un miserabile Thgn. 657–666 (trad. Ferrari, modificata)
In questi versi il suggerimento è di mantenere un atteggiamento equilibrato rispetto alle vicende umane. Il passo conferma l’intima fiducia nella certezza di una punizione divina che, peraltro, attraversa tutto il corpus theognideum; un intervento divino che, presto o tardi, giunge a colpire ora i diretti responsabili di azioni ingiuste o nefande, ora le generazioni successive, malgrado il loro sforzo di agire correttamente.2 La nemesis appare individuata qui, in analogia con quanto accade nella riflessione esiodea, come reazione degli immortali rispetto a specifiche infrazioni quali, per esempio, il ricorso scorretto alla prassi del giuramento, oppure ancora come risposta al travalicamento dei limiti in sfere di competenza divina, come l’avvicendarsi imprevedibile delle sorti umane e la distribuzione aleatoria delle ricchezze. La notte evocata in questi versi sembra essere, anche in questo caso, il luogo d’azione della moira che sconvolge i destini umani e dell’apate che confonde i mortali. La silloge consente di fare cenno anche a quegli atti che, secondo l’anonimo poeta, dovrebbero essere esenti dalla nemesis da parte degli dèi. In una coppia di distici, improntati al rispetto per il divino, il poeta avverte: Κύρνε, θεοὺς αἰδοῦ καὶ δείδιθι· τοῦτο γὰρ ἄνδρα εἴργει μήθ’ ἕρδειν μήτε λέγειν ἀσεβῆ. δημοφάγον δὲ τύραννον ὅπως ἐθέλεις κατακλῖναι οὐ νέμεσις πρὸς θεῶν γίνεται οὐδεμία.
2
Cfr. 197–208; 731–752 con la lettura che ne propone Gagné 2013, 258–269.
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O Cirno, rispetta e temi gli dèi! Solo questo trattiene un uomo dal fare o dal dire empietà. Ma il tiranno divoratore del popolo, stendilo pure come vuoi nessuna nemesis giungerà dagli dèi. Thgn. 1179–1182 (trad. Ferrari, modificata)
Non è difficile indovinare qui la posizione personale di un poeta che polemizza contro il regime tirannico e considera l’omicidio del signore demophagos, – con evidente allusione ai basileis dorophagoi di Esiodo – un crimine esente dalla nemesis divina, interpretata piuttosto come la sanzione che colpisce l’uomo genericamente irriverente e empio nei confronti della divinità. In questo contesto, l’eliminazione fisica del tiranno, reo di consumare il popolo, non costituisce un delitto contro gli dèi, né un atto di empietà. Tali occorrenze danno della nemesis l’idea di una reazione che appartiene prevalentemente alla sfera degli immortali. La prospettiva, per un verso, si differenzia da quella omerica, nella misura in cui si riconosce al divino una forza sanzionatoria che pare non essere di esclusivo appannaggio della nemesis anthropon e tuttavia, per l’altro verso, che persiste nell’essere temuta, ventilata e agitata come eventualità, ma difficilmente presentata in azione. Una rappresentazione della nemesis in azione la troviamo in un frammento di dubbia attribuzione euripidea:3 Ὅταν ἴδῃς πρὸς ὕψος ἠρμένον τινά λαμπρῷ τε πλούτῳ καὶ γένει γαυρούμενον ὀφρύν τε μείζω τῆς τύχης ἐπηρκότα, τούτου ταχεῖαν νέμεσιν εὐθὺς προσδόκα. Quando vedi qualcuno elevarsi in alto Inorgogliendosi della fama, della ricchezza e della stirpe innalzare la fronte più della fortuna. Di questo aspetta subito la nemesis veloce. TrGF 5.2, 1113a = Stob. 3.22, 5
Questi versi sono riportati da Giovanni Stobeo all’interno di una rubrica intitolata Περὶ ὑπεροψίας (Sull’alterigia) che raccoglie diversi altri frammenti euripidei, ma anche passi tratti dalle tragedie di Sofocle, dalle commedie di Menandro, o dall’opera di Erodoto e di Senofonte, tutti incentrati sul rispetto della misura, sull’opportunità di non cedere troppo all’orgoglio e alla superbia e sull’intolleranza degli dèi rispetto a uomini eccessivamente fortunati.4 In questo contesto, il frammento palesa la fiducia 3 4
Dubbi su tale attribuzione sono venuti da Collard/Cropp 2008, 619: «Vocabulary, style and metre show Euripides not to be the author». Tra tutti mi limito qui a menzionare quello che chiude la rubrica: un passo tratto dal VII libro delle Storie di Erodoto di cui si discuterà più avanti: cfr. Stob. Anth. 3.22, 46 = Hdt.7.10 e infra p. 137.
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in una forza sovraumana che interviene in modo rapido e veloce (ταχεῖα νέμεσις) a compensare, e a riassegnare alla divinità quanto la superbia umana, alimentata da una fortuna contingente, ha creduto di potersi illegittimamente attribuire. L’aspirazione a una giustizia divina che giunge a sanzionare una ricchezza o una popolarità ingiustificate, a riequilibrare le sorti degli uomini, compensando la prosperità immeritata con improvvise cadute, tradisce le linee di un dibattito che doveva circolare nella Grecia di età arcaica, agitata dalla crisi, dallo spettro della schiavitù per debiti, da arbitrarie ridistribuzioni di terre o dal rischio di esilî forzati, e da una mobilità sociale che rischiava di scardinare vecchi privilegi. Era questo un dibattito che trovò in Apollo, il dio sapiente per eccellenza, il suo ispiratore5 e nel santuario di Delfi la sua officina. Al prestigio di questo luogo si riconduceva tradizionalmente l’azione politica di personaggi chiave della storia istituzionale greca di VI sec., come Solone, Periandro o Pittaco e in generale il gruppo dei sette saggi che dedicarono le loro massime al santuario.6 Fu Delfi il centro nevralgico di un’etica tipicamente greca della misura, esito felice di una tensione, non sempre risolta, tra le istanze di un’aristocrazia fondiaria minacciata dai rivolgimenti sociali e dalle insidie del commercio e le pressioni di ampi gruppi comunitari soffocati dai debiti che, nell’attività legislativa di VI sec., trovarono almeno le loro valvole di sfogo, se non vere e proprie occasioni di rivalsa. 2. Il gioco delle parti: Creso, la moira e la «grande nemesis del dio» nelle Storie di Erodoto La regia di Delfi si scorge in controluce anche in uno dei passi più importanti dell’opera erodotea in cui l’azione della nemesis ek theou compare quale vera e propria chiave di volta delle vicende che colpirono il sovrano lidio Creso dopo aver ricevuto la visita a corte da parte del legislatore ateniese Solone.7 L’episodio costituisce, per molti versi, la struttura portante delle Storie e merita di essere esaminato nel dettaglio, soprattutto perché esso è in grado di fornire una griglia interpretativa fondamentale per tracciare la differenza – seppure sfumata – che esiste tra l’azione della nemesis divina e altre forme di interventi sovraumani sulla vita degli uomini quali il castigo riservato all’errore
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North 1966, 4–5 sottolinea quanto sia precoce il collegamento tra Apollo e la saggezza: la prima testimonianza si ritrova già in Hom. Il. 21.462–464. La bibliografia sulla leggenda dei “Sette sapienti” è molto ampia. Mi limito quindi qui a citare alcuni degli studi più recenti: Zeller/Althoff 2006; García Gual 2009; Engels 2010. In particolare, però sul ruolo di Delfi come polo di attrazione e incubatore dei motivi sapienziali greci, cfr. Parke/ Wormell 1956, 386–387 e, più recentemente, Busine 2002, 37–38; sul rapporto tra le massime dei saggi e il dibattito sull’uso e la gestione delle ricchezze, Santoni 1983. Hdt. 1.30–46.
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ancestrale e quello che, più astrattamente, viene indicato come phthonos theon, che ricorre in diverse forme all’interno delle Storie.8 Il dialogo tra Creso e Solone è inserito all’interno del primo libro dell’opera erodotea, in un contesto programmaticamente finalizzato all’illustrazione delle cause che portarono all’esplosione del conflitto greco-persiano.9 La riflessione che si sviluppa a partire dal proemio fino all’epilogo della vicenda del sovrano lidio, salvato in extremis grazie all’intervento divino, mentre sta per essere bruciato su una pira dal re dei Persiani Ciro,10 è tutta una ricerca volta proprio a individuare il primo responsabile della guerra, ovvero colui che in origine arrecò un torto contro una delle due parti in causa, dando il via a una catena di rappresaglie e rivendicazioni, sfociate in quello scontro epocale contro i “barbari” cui i Greci non cesseranno mai di richiamarsi. Il termine aitios ritorna infatti a più riprese all’interno dell’opera, sottolineando in maniera inequivocabile, il suo ruolo all’interno della riflessione erodotea.11 Insieme alla ricerca delle cause, lo storico di Alicarnasso dichiara anche un altro obiettivo fondamentale della sua opera: quello di evitare che le imprese dei Greci e dei “barbari” stessi si perdano nella memoria, restando aklea, prive di gloria. Per questo motivo si propone di valutare gli effetti che il conflitto ebbe sul paesaggio politico internazionale, determinando, da un lato, il ridimensionamento di alcune realtà poleiche, profondamente trasformate dal conflitto e, dall’altro, l’imporsi di nuove realtà cittadine: «infatti – commenta Erodoto – quelle (scil. le città) che un tempo erano grandi, molte di loro sono diventate piccole e quelle che ai miei tempi erano grandi, prima erano piccole (Τὰ γὰρ τὸ πάλαι μεγάλα ἦν, τὰ πολλὰ αὐτῶν σμικρὰ γέγονε· τὰ δὲ
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Hdt. 3.40; 6.46; 8.109, 3. La nozione di phthonos theon ha sollecitato spesso l’interesse degli studiosi. In particolare, sul suo ricorrere in Erodoto e sul carattere phthoneron che lo storico attribuisce al divino, si tornerà infra p. 131 e ss. Sul tema si vedano: Dodds 2005 [1951], 74; Lloyd-Jones 1971b, 55–69; Immerwahr 1966, 313; Nicolai 1986, 40; Dickie 1987, 113–119; Roig Lanzillotta 2010; Versnel 2011, 181, n. 71; Eidinow 2016, 222–228. In generale, sul malocchio e l’invidia degli dèi nella letteratura greca, cfr. Rakoczy 1996, in part. 247–253 per un approfondito status quaestionis. Sulle diverse declinazioni dello phthonos come emozione umana: Sanders 2014. Hdt. 1. 30–33. Sul dialogo tra Solone e Creso, cfr. Law 1948; Long 1987, 61–73; Asheri/Lloyd/Corcella 2007, 100–104; Versnel 2011, 182–187; Brehm 2013, 82–87 e, più recentemente, i contributi raccolti in Moscati-Castelnuovo 2016 tra cui, in particolare, Porciani 2016 sulla struttura di questa sezione, e Gazzano 2016 sul rapporto tra Creso e i sette sapienti. Hdt. 1.86–87. Powell 1966 [1938], 9–11 nel suo Lexicon erodoteo annovera 51 occorrenze del termine aitie e 39 dell’aggettivo aitios. Immerwahr 2013 [1956], 160–161 individua nel termine un significato connesso a quello di “colpa” che attira sul responsabile il biasimo e censura e che si applica per lo più alla sfera «etica». In assenza di tali presupposti, Erodoto preferisce ricorrere al termine prophasis. Lo studioso, inoltre, puntualizza come l’aitie non sia altro che: «a partial factor within a larger framework of causes» (p. 190). Sul tema è tornato successivamente Bornitz 1968, 163 che, dopo avere esaminato le diverse occorrenze di aitie ha concluso anch’egli come il termine: «im Sinne einer Verfehlung, einer Schuld oder schuldigen Verpflichtung im menschlich-sozialen Bereich gebraucht wird».
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ἐπ’ ἐμέο ἦν μεγάλα, πρότερον ἦν σμικρά).12 Nella consapevolezza che «la felicità umana non si ferma mai in uno stesso luogo»,13 lo storico giudica meritevoli di essere ricordate, nella sua opera, tanto le une tanto le altre, sottraendo così all’oblio le storie di quei luoghi e delle comunità che li abitarono. Egli quindi liquida in modo abbastanza rapido le convinzioni dei dotti persiani, in base alle quali responsabili del conflitto furono i Fenici che, con il ratto delle donne di Argo e in particolare dell’aristocratica Io giovane figlia del re Inaco, diedero il via a una sequela di ritorsioni, degenerate dal “banale” rapimento di donne – atto certo riprovevole ma di poco conto, a suo dire14– prima, nella spedizione contro Troia volta a vendicare il ratto di Elena, di cui furono i Greci i responsabili, e poi, a distanza di secoli, nelle spedizioni dei Persiani contro la Grecia.15 Erodoto invece ha un nome preciso cui ricondurre l’intera catena di responsabilità: si tratta proprio di Creso, sovrano di Lidia che, per primo, sottomise con un tributo i Greci d’Asia.16 Inizia qui una lunga digressione sulla parabola del regno di Lidia, segnato sin dalle sue origini da un brusco cambio di dinastia che portò sul trono la stirpe dei Mermnadi cui apparteneva Creso, a detrimento della legittima dinastia degli Eraclidi.17 La vicenda che portò al potere l’antenato del sovrano di Lidia, Gige, è la storia di una regalità consumata dal narcisismo e dalla fragilità umana.18 Il sovrano eraclide sul trono di Lidia, Candaule, follemente innamorato della moglie e ritenendola di una bellezza straordinaria, non riuscì a trattenersi dall’esporne nudo il corpo e pertanto convinse il più fidato dei suoi lancieri, Gige, a introdursi, nonostante le sue resistenze, all’interno del talamo per verificare con i suoi occhi l’attendibilità di quanto sapeva solo per sentito dire. La guardia, seppur riluttante, obbedì al suo sovrano e accettò di osservare di nascosto la regina senza veli, ma al momento di uscire dal talamo di soppiatto venne sorpreso dalla donna. Violata nel suo pudore, la regina convocò Gige in disparte, costringendolo a scegliere tra la sua morte e quella del sovrano e a decidere se optare di prendere la basileia o perdere la vita: «affinché – aggiunse – in futuro non veda più ciò che non deve».19
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Hdt. 1.6. Le traduzioni dei passi del I libro di Erodoto, benché talora leggermente modificate, sono di Antelami. Hdt. 1.5,4. Hdt. 1.4, 1. Hdt. 1.5. Hdt. 1.6. Sulla responsabilità che Erodoto attribuisce a Creso nell’inizio del conflitto si veda il commento in Asheri/Lloyd/Corcella 2007, 73 ad loc., in cui si puntualizza come, benché certamente egli sia considerato il primo responsabile della guerra, questo non possa esaurire la questione della causalità nell’opera erodotea, che appare invece molto più complessa. Concorda su questo punto Ingarao 2020, 20 e n. 59 che osserva come Creso non venga mai definito esplicitamente aitios. Hdt. 1.7,1. Sulla vicenda di Gige e sulla funzione del racconto che lo vede protagonista nell’opera erodotea, si veda Lombardo 1988–1990; Schwabl 2004 e, più recentemente, Asheri/Lloyd/Corcella 2007, 81–85. Hdt. 1.11, 5.
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La dinastia eraclide sul trono di Lidia termina quindi così, sacrificata sull’altare delle passioni umane e trascinata in un disastro che travolgerà l’usurpatore Gige e la sua stirpe in una spirale perversa di trasgressioni, il cui tragico epilogo è rappresentato proprio dalla drammatica vicenda di Creso. Morto Candaule, l’intervento dell’oracolo di Delfi fornisce il necessario quadro di legittimità al trono, insieme ad una funesta profezia che getta un’ombra sinistra sulla dinastia dei Mermnadi, avvertendoli che gli Eraclidi avrebbero trovato la loro vendetta (tisis) sul quarto discendente di Gige. Terminato il racconto delle vicende di Gige e Candaule, Erodoto passa quindi a quelle degli altri discendenti fino a giungere a Creso, sul cui potere grava un responso oracolare nefasto, destinato ineluttabilmente a giungere a compimento.20 Incurante della pesante ipoteca che minacciava il suo regno e la sua vita – o forse del tutto ignaro – Creso sottomette i Greci d’Asia e tutti i territori al di qua del fiume Halys. Usurpando così spazi non suoi, egli incorre nello stesso delitto di cui si era reso responsabile il suo avo. Pianifica inoltre la costruzione di una flotta ma viene dissuaso da saggi consiglieri: Biante di Priene oppure, secondo un’altra tradizione, Pittaco di Mitilene.21 La sua corte diventa meta di sapienti provenienti da tutta la Grecia che la visitano per le ragioni più disparate. Una volta al culmine della ricchezza, Creso riceve la visita a Sardi dell’ateniese Solone, spinto a viaggiare dal desiderio di conoscenza, ma anche per sottrarsi al rischio di dovere cambiare le leggi che aveva dato agli Ateniesi e che questi ultimi si erano impegnati, con giuramenti solenni, a rispettare fino al suo ritorno. Per il legislatore, noto in tutta la Grecia per la sua saggezza, strenuo rappresentante di un’eunomia costruita sul sapiente equilibrio tra il rispetto di Dike e sul disprezzo per la philochrematia sconsiderata,22 Creso organizza una visita dei tesori per mostrargli le ricchezze (olbia) che vi erano depositate. Al termine della visita, il sovrano lidio chiede a Solone chi, sulla base delle sue esperienze raccolte in viaggio, possa essere considerato a suo avviso il più felice tra gli uomini (olbiotatos) – aggiunge Erodoto – sperando di essere lui. Quella di Creso è, come dimostreranno gli eventi, una speranza ingannevole; la prima di una serie di previsioni drammaticamente fallaci che lo trascineranno verso la distruzione del suo regno. La risposta di Solone lo spiazza: egli considera il più felice tra gli uomini, un altrimenti ignoto Tello di Atene, che in una polis socialmente compatta, non più lacerata dalla crisi sociale, aveva cresciuto figli belli e buoni, aveva mostrato coraggio militare nella guerra contro Eleusi e, per questo, sepolto a spese pubbliche, aveva terminato la sua vita nel modo più glorioso (lamprotatos). Nella prospettiva soloniana, la felicità assoluta di Tello è veicolata da una serie di fattori: una comunità prospera e coesa che riconosce il contributo del singolo al bene
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Hdt. 1.13, 2 e 1.91, 1–2. Hdt. 1.27, 2 e 1.28. Sui consigli di Biante nell’opera erodotea, cfr. Cusumano 1999. Sulle diverse figure di wise advisers in Erodoto e sulle varie forme di saggezza messe in campo, si veda l’articolo fondamentale di Lattimore 1939 e più recentemente Ingarao 2020, passim. Cfr. Sol. Frr. 4 e 4b; 4c; e 5 West.
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comune; una progenie bella e forte e una fine gloriosa e dignitosa. Non è difficile leggere in questo contesto un’eco lontana della rappresentazione, negli Erga esiodei, della città amministrata correttamente, in cui regna Eirene nutrice di giovani e dove le donne partoriscono figli simili ai genitori.23 Creso incassa la risposta e chiede a Solone, a questo punto, chi possa, a suo avviso, ottenere il secondo posto in questa gara. Ancora una volta la risposta del legislatore spiazza il sovrano: i più felici, dopo Tello, sono gli argivi Cleobi e Bitone le cui sostanze sufficienti e la cui forza fisica consentirono di vivere dignitosamente la loro esistenza e di terminarla in modo nobile, trascinando la madre su un carro fino al tempio per consentirle di prendere parte alle feste in onore di Era. Una volta giunta a destinazione, la donna ricevette le congratulazioni per avere partorito simili figli e pregò la dea di accordare ai due giovani la sorte migliore. I due quindi, dopo avere sacrificato e banchettato, si addormentarono all’interno del tempio e non si svegliarono più. Gli Argivi dedicarono due statue a Delfi, in memoria della loro aristia.24 A Cleobi e Bitone, pertanto, Solone assegna (eneme) il secondo posto dell’eudamonie, quali esempi brillanti di devozione filiale e di integrazione sociale. Celebrati dalla comunità di appartenenza, terminarono la loro vita all’interno di un santuario protetti dal favore divino, conseguendo anche il premio più alto per il loro valore: quello della commemorazione del loro valore sulla scena panellenica.25 La risposta e l’entusiasmo di Solone per i valori civici impersonati da Tello e Cleobi e Bitone non convincono tuttavia Creso che, incollerito, chiede spiegazioni al suo interlocutore sul perché la sua stessa eudaimonie non possa essere considerata alla pari di quella di semplici cittadini. Vi è, con tutta evidenza, una confusione di piani tra la felicità che Creso ritiene di potersi legittimamente attribuire, e che è costruita sulla ricchezza materiale e sui tributi sottratti alle città greche, e quella basata tanto sul prestigio civico di Tello, quanto sull’eudaimonie, tutelata dagli dèi, di Cleobi e Bitone.26 Solone non esita a spiegare meglio a Creso il suo punto di vista, che è quello di un saggio pienamente consapevole della vulnerabilità umana e della natura phthoneron e tarachodes del divino. Il legislatore ateniese lo avverte inoltre che tutto per l’uomo è symphore: termine che si riferisce all’insieme di circostanze e di contingenze che rendono ogni
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Hdt. 1.30. Cfr. Hes. Op. 225–235 e supra p. 117. Sulla figura e la fortuna di Tello, Immerwahr 1966, 156–157; Lloyd 1987; Krischer 1964 e 1993, 217–219; Crane 1996, 73; Asheri/Lloyd/Corcella 2007 Scardino 2011, 91. Hdt. 1.31. Sulla felicità di Cleobi e Bitone, la cui vicenda fu ripresa più volte nelle fonti antiche (Plut. Sol. 27.7; Cons. ad Apoll. 108 f; Cic. Tusc. 1.47, 113), si veda Lloyd 1987. La differenza di prospettiva che separa Creso da Solone nella concezione della felicità è stata ripetutamente sottolineata, cfr.: Chiasson 1986, 250; Krischer 1993, 220 e Crane 1996, 61, con una specifica analisi delle occorrenze del termine olbios nelle fonti di età arcaico-classica.
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giorno dell’esistenza umana diverso dall’altro.27 E conclude, precisando che è questo il motivo per cui un mortale può essere detto felice soltanto al termine della sua vita.28 La felicità umana, pertanto, nella concezione del Solone erodoteo, permette solo un bilancio a consuntivo. Il saggio ateniese ammette che Creso è di certo ricco (plousios) e sovrano di molti uomini ma, prima che egli sia giunto al termine della sua vita, neanche lui potrà essere in grado di dire se sia stato anche olbios o eutychees. Un uomo può essere ricco ma non fortunato (eutychees). La differenza tra queste due tipologie di individui è chiara nella prospettiva del Solone erodoteo: mentre l’uno è in grado di soddisfare meglio un suo desiderio (epithymia) e di fare fronte a un disastro (ate megale); l’altro, pur non potendo soddisfare un desiderio o affrontare una catastrofe, ha, dalla sua, la fortuna che tiene lontane da lui entrambe le eventualità.29 In compenso però non conosce disgrazie e malattie; ha una buona prole (eupais) ed è di bell’aspetto (eueides). Se per di più – aggiunge Solone – quest’uomo giungerà bene al termine della sua vita, allora potrà essere detto felice, ma prima di allora lo si potrà dire soltanto fortunato. All’uomo, del resto, non è dato avere tutto insieme, poiché nessuno è autarkees, proprio come non lo sono quelle terre che non possono disporre di ogni frutto, ma l’una manca dell’uno o dell’altro.30 Soltanto il termine della vita rivela la felicità umana, dal momento che il dio può mostrare agli uomini la prosperità, ma poi abbatterli sin dalle radici. Tanto Tello, quanto Cleobi e Bitone furono fortunati nel corso della loro esistenza e, avendola terminata degnamente, possono meritare il titolo di persone felici. 27
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Il concetto di symphore è stato variamente tradotto, ora come «circostanza» ora come «disastro» (Lloyd-Jones 1971b, 68), ora ancora come «chance» (Roig Lanzillotta 2010, 91). Sulle occorrenze del termine in Erodoto, Immerwahr 1966, 157, n. 24. Ingarao 2020, 126, considera invece che la symphore e “l’invidia degli dèi” non siano che «facce della stessa medaglia». Sul perché Solone ritenesse Tello più felice di Cleobi e Bitone, gli studiosi hanno proposto diverse spiegazioni: Chiasson 1986, 254, ha sostenuto che al primo andasse il premio poiché visse più a lungo. Più condivisibile, anche perché più coerente con il discorso soloniano e con la visione erodotea, l’interpretazione di Crane 1996, 73, che ha sottolineato come la maggiore felicità di Tello sia da attribuirsi al fatto che, oltre ad avere vissuto un’esistenza serena e dignitosa, ricevendo anche gli onori civici dopo la morte, egli poté contare anche su una progenie luminosa. Per un’analisi della differenza tra olbios e eutychees nelle riflessioni del Solone erodoteo, cfr. Chiasson 1986, 252. Per uno studio più generale sulle occorrenze dei termini relativi al campo semantico della felicità dall’VIII alla fine del V sec., cfr. Heer 1969, che, in relazione all’opera erodotea osserva come il termine eudaimon si riferisca primariamente al possesso di ricchezze (p. 69), mentre olbios indica, in prima battuta, colui che possiede dei beni, ma anche colui che gode di uno stato sociale elevato ed è protetto dalle avversità. Il dialogo tra Solone e Creso in Erodoto è, secondo lo studioso, tutto giocato sulla complessità di significati cui il termine allude (p. 71). Il senso di sicurezza e di protezione dalle avversità lo si ritrova anche nell’impiego della nozione di eutychia (p. 78). Hdt. 1.32, 8. Il riferimento all’autarchia, hapax nelle Storie erodotee, tradisce una prospettiva esiodea nel discorso soloniano e l’amara consapevolezza che pienamente autarchiche potevano essere solo le terre protette dal favore divino, come quelle in cui viveva la stirpe dell’età dell’oro (Hes. Op. 116–120) o quella delle isole dei Beati dove finirono per abitare gli eroi (Hes. Op. 171–173). Per gli uomini dell’età del ferro, l’aspirazione all’autarchia si riduce, molto più concretamente, alla possibilità di fare affidamento sulle proprie riserve senza dovere necessariamente ricorrere all’aiuto dei vicini. Su quest’ultimo aspetto, cfr. le riflessioni molto convincenti di Zurbach 2017, 310–311.
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L’argomentare serrato e rigoroso di Solone, tuttavia, non convince il sovrano lidio che, tutto concentrato sui suoi beni presenti, appare agli occhi del legislatore ateniese come un vero stolto. L’avvertimento soloniano relativo a un divino capace di rivoluzionare le esistenze e di abbattere i mortali sin dalle radici non tarda a mostrare la sua fondatezza nel destino nefasto che travolge Creso, dopo la partenza di Solone: Μετὰ δὲ Σόλωνα οἰχόμενον ἔλαβε ἐκ θεοῦ νέμεσις μεγάλη Κροῖσον, ὡς εἰκάσαι, ὅτι ἐνόμισε ἑωυτὸν εἶναι ἀνθρώπων ἁπάντων ὀλβιώτατον. Dopo la partenza di Solone, la grande nemesis da parte del dio colse Creso, come sembra, poiché aveva ritenuto sé stesso il più prospero di tutti gli uomini. Hdt. 1.34,1
Il termine nemesis è un hapax nelle Storie di Erodoto, ma l’analisi di questa occorrenza, per la densità concettuale del brano e la centralità dell’episodio31 in tutta l’architettura dell’opera erodotea, può suggerire una chiave interpretativa irrinunciabile per la comprensione del ruolo di questa potenza nel pensiero religioso dei Greci. Lo storico di Alicarnasso sostiene che la nemesis ek theou, grande ma anche violenta, colse Creso perché aveva ritenuto sé stesso il più felice degli uomini. L’inciso hos eikasai tradisce un intervento diretto dell’autore che dichiara così la propria interpretazione di quanto di lì a poco sarebbe successo al sovrano.32 È quindi una chiara presa di posizione erodotea quella di leggere gli avvenimenti che segnano la vita di Creso, dopo la partenza di Solone, come determinati dalla forza di una nemesis divina. Di tale potenza, lo storico si ritiene in grado di individuare i segnali, gli ambiti di azione e gli effetti che provoca. Quanto appare, in primo luogo, con tutta evidenza è che, nella concezione erodotea, nemesis rappresenta una precisa forma di intervento divino che ha i mortali come esclusivi destinatari. La sua azione è sollecitata da una responsabilità diretta dell’uomo che ne viene travolto (elabe). La molla che la innesca è costituita da un pensiero erroneo, una percezione sbagliata di sé che conduce l’uomo a ritenersi superiore rispetto a quanto gli dèi abbiano stabilito: infatti Creso è detto colpevole di essersi ritenuto (enomise) il più felice degli uomini. Il ricorrere di voci verbali e termini riconducibili alla radice nem- non è certo casuale: Solone assegna (eneme)33 il premio dell’uomo più felice, a ragion veduta, dopo avere giudicato a posteriori un intero percorso di vita e averne valutato tutti gli accidenti; Creso, dal canto suo, si 31 32 33
Shapiro 1996, 362, sottolinea il carattere «programmatico» del discorso di Solone e mostra come esso rifletta, in larga parte, la visione erodotea in merito ai rapporti tra divino e umano e ai meccanismi di funzionamento della causalità storica. Sul significato di eikazo, cfr. Flower 1991, 72, Munson 2004, 184 e Chiasson 2003, 8, che considerano come l’espressione introduca una speculazione o una deduzione di Erodoto. Per un’analisi dei contesti in cui ricorre il verbo eikazo nell’opera erodotea, Ingarao 2020, 38–39. Hdt. 1.32, 1.
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aggiudica (enomise) illegittimamente un primato che solo al termine della vita può essere assegnato, una volta che la moira avrà reso evidenti i suoi piani. Per di più, almeno secondo i parametri soloniani, il premio che il sovrano lidio si è assegnato è del tutto illegittimo: come emergerà da quanto Erodoto racconterà in seguito della sua vicenda, egli non solo non può dirsi olbios, ma non è nemmeno fortunato. Non è infatti alieno da disgrazie, non è eupais e, nel corso della sua esistenza, incorrerà in diversi rovesci. La prima delle disgrazie in cui incorre colpisce proprio la sua progenie: egli aveva infatti due figli di cui uno sordomuto; mentre l’altro, di nome Atys, era invece tra i migliori di quelli della sua età. Una visione avuta in sogno avverte Creso che il più valente dei suoi figli avrebbe trovato la morte colpito da una punta di lancia. Su questo punto, fondamentale per comprendere le modalità d’azione della nemesis divina, si tornerà nelle prossime pagine. Per ora è opportuno riflettere sui provvedimenti messi in atto per stornare la morte dal giovane: Creso si comporta proprio come tutte le persone ricche (plousioi), adottando contromisure per reagire a un grave disastro: fa sparire lance e giavellotti dalla circolazione e organizza subito le nozze, in maniera tale da tenere lontano il figlio dalla guerra. Solone però lo aveva avvertito che tutto per l’uomo è symphore e che nessun giorno, nel corso dell’esistenza umana, è uguale all’altro: a un certo momento, infatti, egli aveva ricevuto a corte, come supplice, un uomo frigio di nome Adrasto, desideroso di essere purificato a seguito di un omicidio non volontario. Creso provvede alla catarsi secondo i costumi locali e lo accoglie presso di sé. Sempre nello stesso periodo, una nuova circostanza richiede l’intervento del sovrano lidio: l’arrivo presso la popolazione dei Misi, da lui sottomessa, di un cinghiale che devastava le loro coltivazioni. Gli ambasciatori dei Misi chiedono allora aiuto al re, sollecitando l’organizzazione di una squadra di ragazzi, addestrati nell’attività tipicamente giovanile della caccia, tra cui anche il suo valoroso figlio. Il sovrano rifiuta categoricamente di impegnare il ragazzo in questa impresa e promette di inviare schiere di Lidi a cacciare la bestia. Il giovane, che aveva ascoltato la conversazione, comincia però a pregare il padre di dargli l’occasione di mostrare tutto il suo coraggio, oppure di spiegargli le ragioni di questo comportamento che finiva per squalificare la prole reale. Creso confessa a quel punto le sue preoccupazioni e la visione avuta in sogno, ma viene tranquillizzato dalle parole del giovane che ne offre una diversa interpretazione, rassicurandolo sul fatto che non è quella della caccia al cinghiale l’occasione indicata dagli dèi in cui egli avrebbe potuto trovare la morte, giacché le punte di ferro sono strumenti estranei a quel contesto. La logica stringente di Atys persuade Creso che acconsente finalmente all’impresa, assegnandogli come tutore però proprio il supplice Adrasto, d’origine frigia. Quest’ultimo, legato al padre da un vincolo di ospitalità e gratitudine, viene così incaricato di proteggere il giovane. Il divino però, come aveva dichiarato Solone, è tarachodes e tutto confonde; ed è così che, una volta giunta la squadra proprio sul monte Olimpo della Misia, i giavellotti
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iniziano a volteggiare per aria per colpire l’animale e proprio l’aichme lanciata da Adrasto nella mischia finisce per colpire Atys a morte. Il giovane figlio di Creso, promessa della continuità della stirpe mermnade sul trono di Lidia, perde la vita colpito a morte proprio da una lancia, mettendo fine a una dinastia cui aveva dato inizio – per un ironico scherzo della sorte – proprio il lanciere di professione Gige.34 Creso paga così, sulla pelle del figlio, l’attribuzione illegittima di un primato di felicità per il quale mancava – per così dire, per tara familiare – dei presupposti necessari. Sul re di Lidia e sulla sua progenie, infatti, gravava anche il peso dell’errore ancestrale compiuto da Gige con l’uccisione di Candaule e l’assunzione della basileia, sul cui termine l’oracolo pitico si era già pronunciato.35 La grande nemesis proveniente dal dio coglie Creso colpendolo dritto nei suoi affetti più prossimi, annientando la sua prole più valorosa e palesandogli la differenza tra la sua condizione e, da un lato, la felicità piena di Tello, padre eupais che termina la sua esistenza accompagnato dagli onori funebri della sua comunità di appartenenza e, dall’altro, quella di Cleobi e Bitone, a loro volta, exemplum di una prole fortunata, la cui devozione filiale gradita agli dèi guadagna una fama panellenica, proprio nello spazio di quel santuario che Creso avrebbe esageratamente popolato dei suoi anathemata. La nemesis raggiunge quindi il sovrano di Lidia katopisthen, giusto con gli stessi tempi di azione che Omero e Teognide assegnavano a tale forza. Essa si manifesta dunque nell’arco di vita di un’intera generazione, cogliendo il diretto responsabile della trasgressione e, di conseguenza, la sua cerchia di parenti più prossimi. Agisce, in maniera subitanea, quale moltiplicatore della sanzione prevista per il sovrano e che lo coglierà in ragione del crimine che il suo antenato Gige aveva compiuto. Si comprende bene a questo punto il senso profondo delle parole di Solone: di nessuno si può dire che sia stato felice, prima che abbia raggiunto il termine della sua vita, perché solo allora sarà chiaro quanto pianificato dalla moira, anche in ragione di un errore ancestrale. Tutti gli avvenimenti che segneranno la vicenda umana di Creso, dopo la partenza di Solone, sembrano da Erodoto costruiti con sapienza per mostrare al sovrano lidio 34 35
Hdt. 1.8; 36–43. L’episodio di Atys e Adrasto e della nemesis che colse Creso è stato spesso letto alla luce dell’analisi etimologica dei nomi due protagonisti: Atys viene ricollegato al termine ate ovvero alla sventura che attende il sovrano per il tramite del figlio; nel nome dello straniero Adrasto è stato riconosciuta un’allusione all’inevitabilità della sorte. Per questa interpretazione, cfr. Immerwahr 1966, 158 e n. 25 e Chiasson 2003, in part. p. 14 e n. 29, che esamina questo episodio nel quadro di una riflessione più ampia tesa a mostrare l’attitudine di Erodoto alla rielaborazione dei materiali della tradizione tragica. Dillery 2019 ha messo in relazione l’unica occorrenza del termine nemesis con l’ambiente frigio, adottando l’episodio di Atys e Adrasto come chiave interpretativa dell’opera erodotea, sulla base anche di confronti con l’Antico Testamento. Per quanto stimolante sia la valorizzazione del nesso semantico tra il nome di Adrasto e l’inevitabilità della nemesis divina, non mi pare renda conto della complessità del passo erodoteo e dei diversi piani che si intersecano. La questione dell’etimologia non del tutto trasparente di adrastos sarà ripresa più avanti. Cfr. infra p. 130.
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la validità dei suoi insegnamenti. La nemesis ek theou si carica quindi, ancora una volta, come già nel corpus theognideum, di una funzione didascalica e monitrice che ristabilisce gli equilibri riconsegnando l’uomo alla sua vulnerabilità e ribadendo che una condizione di piena e perpetua felicità appartiene solo agli dèi. 3. Ma il divino è tarachodes: la punizione ancestrale e la nemesis del dio Dopo due anni di lutto per la morte del figlio e la presa d’atto della crescita della potenza persiana, Creso comincia a interrogarsi sulla strategia da impiegare per arrestare l’espansionismo di Ciro il Grande. Decide così di affidarsi ai responsi oracolari, ma prima ne mette alla prova la veridicità, mandando messi nelle sedi opportune. Delfi risponde correttamente al test di attendibilità, con un esametro che, nei fatti, ne proclama l’onniscienza.36 Creso dispone allora per il dio sacrifici eccezionali e offerte, con un dispendio e un consumo di risorse tali da suggerire un’analogia con la pratica rituale del potlatch.37 Il sovrano lidio fa leva sulla sua ricchezza per conquistare il dio, quasi per sfidarlo a una gara di generosità, così come, poco prima, ne aveva messo alla prova l’affidabilità. Erodoto doveva avere ben presente davanti agli occhi l’opulenza di tali offerte e avere recuperato proprio a Delfi i racconti sulle vicende del sovrano di Lidia.38 Le domande che Creso rivolge all’oracolo pitico sulle azioni da intraprendere nei confronti dei Persiani sembrano ricevere risposte rassicuranti, ma il divino – come già detto – è tarachodes e tutti i responsi resi da Delfi, con quell’ampio margine di ambiguità tipica dell’obliquo Apollo, vengono dal sovrano sistematicamente fraintesi. Da quel momento in poi, ogni responso dato dal dio non farà – seppur con parole oscure e velati sottintesi – che preconizzare disastri e avvicinare Creso alla catastrofe che lo condurrà sulla pira allestita dai soldati di Ciro. Solo allora, quando il sovrano persiano avrà invocato gli dèi per sapere se qualcuno di loro volesse salvarlo, Creso ricorderà le parole di Solone, suscitando la curiosità del suo nemico. Alla domanda su chi fosse mai questo Solone, il sovrano risponde in tal modo: «uno che anche a prezzo di grandi ricchezze avrei voluto fare conoscere ai tiranni».39 Alle richieste di chiarimento di Ciro, grazie alla mediazione degli interpreti, Creso ribatte con la sintesi delle argomentazioni di Solone che, messo a confronto con tutte le sue ricchezze, lo aveva invitato a non dirsi felice (olbios), senza prima aver visto la fine d’ogni cosa. Ciro, più acuto del suo nemico, comincia allora a riflettere sul fatto che:
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Hdt. 1.46–47. Sulla pratica del potlatch e una sua possibile applicazione al mondo greco, Mauss 1921. Sui rapporti tra Creso e Delfi, Parke 1984 e Flower 1991 che però ritiene che non ci siano elementi per pensare che il racconto relativo ad Atys e Adrasto derivi da una fonte delfica (p. 72). Hdt. 1.86, 1.
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essendo egli stesso uomo, avrebbe dato vivo al fuoco un altro uomo, che nella fortuna non era stato inferiore a lui. Inoltre, temendo il castigo (tisis) e considerando che nulla è sicuro tra le cose umane, ordinò di spegnere immediatamente il fuoco. Hdt. 1.86, 6
Egli riconosce saggiamente che la condizione di Creso è analoga alla sua e che le parole di Solone rischiano di potersi adattare anche alla sua vicenda personale. Decide pertanto di mettere fine alla catena di trasgressioni e ordina ai suoi di spegnere la pira su cui ha posto Creso a bruciare. Ancora una volta però il divino mostra il suo essere tarachodes, perché a dispetto degli sforzi dei Persiani il fuoco continua a divampare, fino a quando il Lidio non invoca l’intervento di Apollo, ricordandogli gli onori e i benefici che gli aveva offerto. Effettivamente, in quello stesso istante una pioggia scrosciante spegne l’incendio e Creso viene così risparmiato. Accolto come saggio consigliere di Ciro, è da lui interrogato sui motivi che lo avevano persuaso a muovergli guerra. Creso si giustifica dicendo che egli non si sarebbe mai risolto a intraprendere una spedizione contro di lui, se non fosse stato incoraggiato dal dio di Delfi: il vero responsabile (aitios) – dichiara – è il dio dei Greci e continua: Nessuno infatti è così pazzo da preferire la guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in guerra i padri seppelliscono i figli. Ma forse è stato un dio a volere che accadesse così. Hdt. 1.87,4
Di fatto, Creso suo figlio lo aveva sepolto prima di iniziare la guerra, proprio per avere ignorato la capacità del divino di mutare il corso delle vicende umane o di adeguarne il procedere a quanto stabilito dalla moira. A lui, che chiede a Ciro di potere inviare a Delfi i suoi ceppi con la domanda sul perché l’oracolo lo avesse incitato a muovere guerra contro i Persiani e se fosse uso degli dèi greci essere così ingrati con i loro benefattori, la Pizia risponde, illustrando con precisione il piano divino. Creso è, da un lato, il discendente di un avo che ha usurpato una time che non gli spettava e per la cui colpa la moira aveva già stabilito che a pagare fosse proprio lui; dall’altro, ha sistematicamente frainteso i suggerimenti del dio tesi non a convincerlo, ma in realtà a dissuaderlo dall’intraprendere la guerra contro Ciro. E nonostante tutto questo il dio, riconoscendo i meriti del re, si era adoperato per differire la presa di Sardi alla generazione successiva, ma non poté opporsi alle moirai che acconsentirono solo a una dilazione di tre anni. Per di più, aggiunge la Pizia, Apollo lo aveva salvato, quando stava per essere arso vivo. Di fronte a spiegazioni così stringenti e irrefutabili che descrivono un piano divino complesso e inaccessibile alla ragione umana, Creso, spalle al muro, non può che ammettere che la vera colpa è sua e non del dio.40
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Hdt. 1.90–92. Sul rapporto tra Creso e l’oracolo di Delfi e sulla sua maniera di interagire con il dio, cfr. Klees 1965, 62–68; Visser 2000, 19–23; Kindt 2006.
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In realtà, sulla vicenda biografica di Creso si intersecano diversi piani di responsabilità: quando egli sale al trono, sul suo capo gravava già la colpa ancestrale dell’empietà compiuta da Gige, per la quale le moirai avevano già stabilito che sarebbe stato lui a pagare. La punizione ancestrale – si sa – attraversa diverse generazioni per raggiungere la vittima designata. Questo meccanismo Erodoto lo lascia intendere con estrema chiarezza nel VI libro, quando all’interno di un complesso intreccio narrativo, costruito su una serie di giuramenti pronunciati e drammaticamente disattesi, racconta la vicenda dello spartano Glauco, figlio di Epicide.41 Presso costui infatti, noto in tutta Sparta per il suo senso di giustizia, si recò un giorno un uomo di Mileto, intenzionato a lasciargli in deposito la metà dei suoi beni per metterli al sicuro, data la situazione di instabilità politica in cui versava la Ionia. A Glauco, il Milesio consegnò inoltre dei symbola, segni di riconoscimento, di cui un giorno egli avrebbe dovuto servirsi per riconoscere i legittimi eredi e restituire loro le ricchezze depositate. «Molto tempo dopo», i figli di quest’ultimo si recarono a Sparta per reclamare gli averi del padre, ma Glauco rispose loro che non riconosceva i symbola, né ricordava l’accaduto. Tuttavia – aggiunge – se avesse recuperato la memoria avrebbe restituito il deposito, secondo l’uso dei Greci. Li rimandò quindi afflitti in patria con la richiesta di ripresentarsi dopo quattro mesi. Nel frattempo, egli si recò a Delfi per chiedere alla Pizia se con un giuramento potesse impadronirsi del deposito. A lui la sacerdotessa rispose con questi versi: Glauco Epicidide, certo per il momento è più vantaggioso vincere con uno spergiuro e impadronirsi del denaro. Spergiura pure, poiché la morte attende anche l’uomo che s’attiene ai giuramenti. Ma del giuramento è un figlio anonimo, senza mani né piedi. Insegue però rapido finché non abbia ghermito e distrutto tutta la stirpe e tutta la casata. Invece la stirpe di un uomo che giuri il vero è più felice anche dopo (ἀνδρὸς δ’ εὐόρκου γενεὴ μετόπισθεν ἀμείνων). Hdt. 6.86 (γ), 2 (trad. Nenci)
Quando Glauco udì queste parole, si affrettò a chiedere perdono, ma la Pizia rispose che tentare il dio equivaleva comunque a commettere una colpa. Lo Spartano restituì quindi il denaro ai Milesi, e tuttavia la sua stirpe un tempo illustre, come si evince dal nome parlante del padre Epicide (il «brillante»), riconducibile all’omerico kydos, finì per scomparire completamente da Sparta, senza lasciare alcuna traccia nella memoria cittadina.42 La sola intenzione di spergiurare per appropriarsi della ricchezza altrui condanna l’intera stirpe di Glauco al completo anonimato, laddove invece – precisa
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Hdt. 6.86. Cfr. Cusumano 2013, 24–26. Cfr. per un’analisi approfondita dell’episodio di Glauco, cfr. Gagné 2013, 322–333 e con un’attenzione particolare al nesso tra giuramento, memoria e oblio, Cusumano 2013b, 21–53.
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il responso pitico, riprendendo verbatim un verso esiodeo43 – la stirpe di colui che rispetta il giuramento ha una «migliore sorte anche dopo (metopisthen)». La differenza tra il tempo dell’azione assegnato alla punizione ancestrale, prevista nel caso di una trasgressione (o nel caso di Glauco dell’intenzione di compiere una trasgressione) volta ad usurpare la time altrui e quello della nemesis ek theou sollecitata dall’illegittima attribuzione a sé stesso di una condizione di superiorità, peraltro costruita su una time usurpata, sta proprio nell’impiego, nell’un caso, di un metopisthen che indica un intervento sanzionatorio in verticale che colpisce attraverso le generazioni; e nell’altro, di katopisthen44 che marca un intervento che, seppur tardivamente, si palesa con chiarezza al diretto responsabile della colpa. Come in un gioco di scatole cinesi, l’intervento della nemesis ek theou si aggiunge ad un quadro in cui una punizione divina, derivata da un errore ancestrale, è già stata innescata: l’ignaro intervistatore di Solone non sa cosa la moira abbia stabilito per lui ma, come lo avverte il legislatore ateniese, questo si saprà solo quando sarà giunto al termine della sua esistenza. Egli non è nemmeno consapevole dello phthonos theon, quell’attitudine delle divinità greche che non consente agli uomini di essere pienamente felici e assegna quindi loro una condizione in cui – come aveva già compreso Esiodo – ai mali sono mescolati i beni.45 Sperare di vedersi assegnato il premio dell’uomo più felice del mondo, significa non conoscere il funzionamento delle norme che regolano il cosmo, essere incapaci di interagire con gli dèi dei Greci, ma soprattutto essere ignari dei limiti imposti dalla vulnerabilità umana.46 Ritornato sul tema della felicità, questa volta però nelle pagine della Ciropedia di Senofonte, Creso, narrando a Ciro del suo complesso rapporto con l’oracolo di Delfi, ricorda, in un passo che rievoca palesemente la ricostruzione erodotea della sua vicenda, come egli abbia a un certo punto chiesto al dio come essere felice per il resto della sua vita, ricevendo come risposta la sentenza: Σαυτὸν γιγνώσκων. Solo conoscendo sé
43 Hes. Op. 285. 44 Cfr. supra p. 74 e ss. 45 Hes. Op. 179. Per un’interpretazione dello phthonos theon e una storia degli studi su questo concetto che attraversa gran parte della letteratura greca, si leggano ora le riflessioni di Roig Lanzillotta 2010 che, a proposito del testo erodoteo e della phthoneria divina, si esprime in questi termini: «a term that should be translated rather as ‘avarice’ than ‘envy’. There is nothing that gods might envy in human ephemeral happiness. They simply keep for themselves, as divine privilege, the right to enjoy happiness without counterpoint […]. Only gods enjoy complete happiness and the sweetness of their existence marks out the misery of human life. Divine ‘avarice’ and not ‘envy’ explains the fact that while possessing complete bliss themselves, gods allot mortals a mixed condition […]» (p. 91). Andò 2021 individua nell’uso di phthonos nel senso di invidere latino, quindi con il significato di “impedire”, “negare”. 46 Come sottolinea Chiasson 1986, 258, il Creso erodoteo appare come «paradigm of human ignorance of the final outcome».
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stesso, infatti, e avendo consapevolezza dei limiti imposti agli umani, il sovrano avrebbe potuto infine dirsi felice.47 L’ironia erodotea vuole però che il “barbaro” Creso, dopo essere stato graziato da Apollo, e accolto alla corte dei Persiani da Ciro, ritorni nelle pagine delle Storie anche come consigliere del folle Cambise, rischiando ancora una volta la vita48. Lo storico di Alicarnasso, pur ricordando la condizione di prigioniero cui il re venne costretto dopo la presa di Sardi, non racconta come arrivò alla fine dei suoi giorni. Bacchilide nell’Epinicio terzo, dedicato a Ierone di Siracusa, offre una versione diversa della fine del sovrano lidio, salvato in extremis da Apollo e trasferito tra gli Iperborei, popolo fortunato e caro agli dèi del quale Pindaro sottolineava, come mostrato in precedenza, la vita felice lontano da Nemesis.49 Si tratta però, in questo caso, di tutt’altro contesto, ma soprattutto di un altro genere letterario con obiettivi e audience ben diversi. Certo è che, nella prospettiva del Solone erodoteo, per Creso, privo di una prole fortunata, ridotto allo stato di prigionia al servizio dei nuovi tiranni, la gara per la felicità fosse ormai giunta al capolinea, ma insensato era fin dall’inizio pensare di prendervi parte. 4. Giustizia del limite, giustizia profetica Benché isolata, la menzione della «grande nemesis del dio», che coglie il lidio Creso nelle Storie erodotee, permette di trarre alcune conclusioni importanti sulle modalità attraverso cui tale dispositivo sanzionatorio agisce. Intanto, chiara è la tipologia di crimini da cui esso è attivato: l’assegnazione immeritata di una time che confligge con quanto stabilito nei piani della moira. Tale indebita appropriazione sollecita il divino a un’azione distributiva che riequilibra le parti, alimentando così quel meccanismo di alternanza delle sorti che costituisce la tela di fondo della riflessione erodotea. Il programma storiografico, incentrato sulle vicende di città grandi e piccole e inspirato alla consapevolezza delle loro mutevoli sorti, la coscienza del fatto che la felicità non rimane mai nello stesso posto, sono entrambi elementi che cooperano a trasferire gli effetti della nemesis al livello delle realtà poleiche. Lo spiega bene Elio Aristide, quando nella meléte mitologica intitolata L’ambasceria ad Achille,50 per illustrare le prerogative di Nemesis e Dike che presiedono alle questioni umane e non permettono loro di «pensare al di là della loro natura (οὐκ ἐῶσαι μεῖζον τῆς φύσεως φρονεῖν)», ricorre a una ripresa 47 Xen. Cyr. 7.2, 20–21. 48 Hdt. 3.34–36. Un’analisi approfondita della relazione tra Creso e Cambise in termini di confronto generazionale è in Brehm 2013, 133–147. 49 Cfr. supra p. 107–108: Pind. Pyth. 10.27–50 e Bacch. Ep. 3, 22–60. Su questo episodio, e per un confronto tra la figura del Creso erodoteo e quello degli epinici di Pindaro e di Bacchilide, cfr. le analisi di Segal 1971; Long 1986, 106–125; Crane 1996 e Kurke 1999, 130–171. 50 Ael. Arist. Or. 16.38.
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quasi testuale del testo erodoteo, spiegando come facilmente le due divinità riducano facilmente i mortali da grandi che erano (ῥᾳδίως μικροὺς ἐκ μεγάλων ποιοῦσαι).51 L’azione della nemesis che origina dal divino si concretizza pertanto nella capacità di ridimensionare, di ricondurre le vicende dei mortali nei termini prestabiliti dalla moira, soprattutto quelle di coloro che, attraverso comportamenti e parole, hanno mostrato una considerazione di sé che travalica i confini della natura umana. L’intervento della nemesis prende quindi la forma di una giustizia che mira a limitare i mortali, riconsegnandoli alla loro vulnerabilità. Gli effetti sono resi evidenti al diretto responsabile della trasgressione e al gruppo sociale di riferimento nell’arco della durata della sua stessa esistenza. In questi termini, essa esprime una giustizia che consolida la relazione tra mortali e immortali, ma anche la coesione sociale tra gli uomini, poiché le conseguenze dell’azione della nemesis, pur essendo differite sul piano temporale, non attendono tre o quattro generazioni per palesarsi. La sua efficacia mostra a tutti coloro che assistono ad atti di usurpazione indiscriminata il corretto procedere del piano divino, eliminando, grazie alla fiducia in un intervento soprannaturale, quel senso di frustrazione che insorge nei mortali, impotenti di fronte all’insufficienza della giustizia umana. Tanto la reazione divina della nemesis quanto la divinità omonima partecipano quindi di un medesimo programma di giustizia che mira ad ammonire costantemente uomini e dèi sulla percezione dei propri limiti. Potenza enigmatica, a sua volta, quella della dea Nemesis, che con le sue metamorfosi, sfugge persino al padre degli dèi, presenta – per così dire nel suo DNA – una chiara affinità con l’elemento marino, suggerendo una relazione con una giustizia di tipo profetico che trova conferma proprio nella vicenda di Creso. Come racconta Erodoto, fu dopo la partenza di Solone che il sovrano lidio fu colto dalla grande nemesis del dio. Lo storico prosegue poi spiegando: «Subito, mentre dormiva, ebbe un sogno che gli annunciava la verità dei mali che stavano per colpirlo nel figlio (Αὐτίκα δέ οἱ εὕδοντι ἐπέστη ὄνειρος, ὅς οἱ τὴν ἀληθείην ἔφαινε τῶν μελλόντων γενέσθαι κακῶν κατὰ τὸν παῖδα)».52 L’avverbio αὐτίκα mette l’attivazione della nemesis in diretto rapporto con la visione avuta in sogno da Creso che gli rivela la verità sulla catastrofe che sta per colpirlo, prendendo come bersaglio il figlio. Quella della nemesis è dunque chiaramente espressione di una giustizia le cui modalità di attuazione si trasmettono tramite una rivelazione premonitrice, un’aletheia che, come spesso accade, – per dirla con Marcel Detienne – appare «foderata di apate».53 Come la divinità Nemesis ricorre all’apate per sottrarsi al controllo sovrano di Zeus
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Berardi 2019, 8 individua una relazione tra il ruolo di queste due figure e quello delle Litai nel discorso di Fenice ad Achille (Hom. Il. 9. 502–512). Sulle Litai, mi permetto di rinviare anche a Bonanno 2019, 75–78. Hdt. 1.34, 1. Detienne 1977, 52.
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con i suoi cambiamenti di forma; allo stesso modo, la sanzione che sta per colpire Creso si annuncia tramite il mezzo ambiguo e ingannevole della visione onirica, coinvolgendo poi anche il giovane Atys in una spirale fatale di interpretazioni fallaci. Con la morte del figlio, Creso verifica tristemente quanto Solone gli aveva annunciato sulla natura del divino: un divino «invidioso e perturbante» (phthoneron e tarachodes).54 Diversamente dalla nemesis che esprime una capacità di agire della divinità con conseguenze precise e si concretizza quindi nell’attuazione di una forma di giustizia sanzionatoria, lo phthonos appare invece piuttosto un modo di essere degli dèi, un’attitudine che lo storico riconosce loro.55 Una ricognizione sulle occorrenze del lessico del phthonos in Erodoto permetterà di cogliere bene il significato di questo carattere molesto del divino nei confronti dei mortali. Ebbene, nell’opera erodotea, oltre a phthonos, frequente è l’aggettivo aphthonos che indica il possesso in grandi quantità di qualcosa e si iscrive nel registro semantico dell’abbondanza.56 Phthonos, a sua volta, indica precisamente la mancanza di qualcosa che si tende a compensare. Tale reazione che Erodoto attribuisce agli dèi è lucidamente illustrata dal discorso che Artabano, zio paterno di Serse, nel settimo libro, rivolge al nipote in procinto di organizzare una spedizione contro la Grecia. Cercando di dissuaderlo dal marciare con il suo esercito contro l’Europa, il saggio consigliere spiega al nipote come gli dèi siano soliti colpire con i fulmini gli animali che si distinguono tra gli altri, o gli edifici e gli alberi che si elevano troppo verso le altezze celesti. In questo modo, lo phthonos divino può fare cadere nel panico un grande esercito, anche con un tuono, portandolo a una misera disfatta. E spiega, quindi: «poiché il dio non permette che altri, al di fuori di lui, nutrano pensieri di grandezza (Οὐ γὰρ ἐᾷ φρονέειν μέγα ὁ θεὸς ἄλλον ἢ ἑωυτόν)».57 È esattamente questo mega phroneein che rende il divino manchevole, che lo priva di quel qualcosa che è di suo esclusivo appannaggio e che non può appartenere a nessun altro essere o opera umana, se non a lui. Un mortale che sia titolare di una felicità e di una fortuna completa pari, o semplicemente paragonabile a quella divina, innesca subito la necessità di un riequilibrio delle sorti. Ebbene, la nemesis è precisamente lo strumento di cui il divino si serve per riattribuire a sé stesso, quanto pertiene esclusivamente alla sua sfera, soprattutto quando un flusso costante, e riconosciuto, di fortuna finisce per alimentare la protervia verbale dell’uomo e il suo mega phroneein. Lo chiarisce bene l’egiziano Amasi a Policrate di Samo, quando gli confessa di non apprezzare troppo i successi dell’amico, essendo ben consapevole del carattere phthoneron della divinità. Egli invece considera salutare, anzi quasi salvifico, per l’essere umano che «la
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Hdt. 1.32.1. Tale affermazione valse a Erodoto l’accusa di blasphemia da parte di Plutarco: De Herod. malign. 858a). Su questo aspetto del divino in Erodoto, si veda Asheri/Lloyd/Corcella 2007, 38–39. Hdt. 1.216, 3; 2.6, 2; 2.40, 3; 2.95,1; 2.121, 1, α; 3.66, 1; 4.194; 5.23, 2; 6.132; 7.83, 2; 7.190, 1; 9.51, 4. Hdt. 7.10, e in part. ε (trad. Nenci, leggermente modificata).
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vita trascorra tra alterne vicende» e che ai successi si alternino i fallimenti.58 La divinità quindi, per sua natura, non tollera che un essere umano goda di una fortuna totale, perché la felicità dei mortali la priva del riconoscimento di uno status di beatitudine e di una potenza che pertengono solo alla stirpe immortale.59 In questo senso, il divino è anche tarachodes, perché fa sì che la vita dei mortali non sia una lunga sequenza di successi fino alla morte, ma – per dirla con Esiodo – che i mali siano alternati ai beni. La serie inarrestabile di fortune che un essere umano può collezionare innesca invece un meccanismo di attesa da parte di tutti coloro che sanno che, prima o poi, lo phthonos degli dèi troverà modo di palesarsi in un intervento sanzionatorio, se non nel corso della loro esistenza, almeno in quello delle generazioni future. Phthonos e nemesis sono in definitiva complementari nella riflessione erodotea: l’uno descrive la natura del divino, l’altra è una delle forme in cui essa si traduce in azione.
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Hdt. 3.40, 2. Troviamo qui una ripresa quasi verbatim delle parole di Solone rivolte a Creso nel primo libro (Hdt. 1.32, 1): Asheri/Lloyd/Corcella 2007, 441. È lo stesso principio in base al quale, come spiega Temistocle agli Ateniesi, sconfitti i Persiani a Salamina, era opportuno lasciare il “Barbaro” alla sua fuga, per evitare di inseguire una sequenza continua di successi, che si sarebbero rivelati in seguito fatali: «[…] Non siamo certo noi che abbiamo compiuto questa impresa, ma gli dèi e gli eroi, i quali non vollero che un uomo solo, per di più empio e criminale, regnasse sull’Asia e sull’Europa (οἳ ἐφθόνησαν ἄνδρα ἕνα τῆς τε Ἀσίης καὶ τῆς Εὐρώπης βασιλεῦσαι, ἐόντα ἀνόσιόν τε καὶ ἀτάσθαλον)» Hdt. 8.109, 3 (trad. Masaracchia). Su questo passo, si vedano le considerazioni di Immerwahr 1966, 275 ed Eidinow 2016, 227–228 che interpreta lo phthonos divino in correlazione con la natura imprevedibile dei doni che gli dèi accordano ai mortali. Sullo phthonos divino in Erodoto, si veda la bibliografia citata supra a p. 123, n. 8.
Capitolo quinto Invocare Nemesis Formule e attributi onomastici
1. La giustizia ha gli occhi scuri: celebrare Nemesis negli Inni Nelle pagine precedenti, in diverse occasioni, il teonimo Nemesis è apparso in compagnia di altre espressioni o aggettivi che ne qualificano il modo di essere o di agire, disegnando la rete di potenze che compongono le possibili configurazioni in cui la divinità interviene. L’indagine sulle differenti maniere di denominarla, che ne accompagnano in un’unica formula evocativa il nome collegandolo a quello di altre potenze, permette di esplorare e di conoscere meglio le sfere d’azione e di competenza cui essa presiede, ed è tanto più importante, quanto certamente più complessa è la rete di significati, di sensi e di impieghi già insita in un teonimo parlante come quello di Nemesis. Per esempio, formule quali Nemesis hyperdikos o Dikes angelos1 segnalano già la stretta relazione tra due potenze normative, che differiscono però profondamente in merito alla rispettiva efficacia in ambito giudiziario: infatti, se l’una, Dike, dà luogo a una sanzione regolata e disciplinata dal diritto e dalle leggi; l’altra, anche quando traslata dalla sfera umana a quella sovraumana, serve a dare forma e concretezza a una censura sociale rivolta contro il singolo individuo o il gruppo, le cui conseguenze, nei tempi e nei modi di applicazione, possono essere imprevedibili. Le «sequenze onomastiche»,2 all’interno delle quali Nemesis figura come uno degli elementi, costituiscono un insieme tanto circoscritto, quanto articolato nella sua complessità. Alcune sono attestate solo a livello letterario, altre esclusivamente a livello epigrafico, altre ancora ricorrono in entrambe le tipologie di documenti, testimoniando un’immediata rispondenza tra
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Cfr. Pind. Pyth. 10. 44; Plat. Leg. 4.717d 3 e supra p. 106 e ss. e 118. Aderisco alla proposta dell’équipe del progetto Mapping Ancient Polytheism di sostituire al rigido binomio teonimo+epiclesi/epiteto le nozioni più fluide e inglobanti di “attributo onomastico” o di “sequenza onomastica” (Bonnet/Bianco et al. 2018). Per una messa a punto sul tema e sulle questioni connesse alle modalità di denominazione del divino nel mondo greco, Belayche/Brulé et al. 2005 e Parker 2018.
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la rappresentazione della divinità e le realtà cultuali. Lo studio della rete di “attributi onomastici” o degli eteronimi che la qualificano è essenziale per la ricostruzione delle sue prerogative, degli ambiti e delle modalità attraverso cui si dispiega la sua potenza. È sufficiente una rapida lettura dell’Inno a Nemesis, nella raccolta degli Inni orfici, o dell’inno composto dal poeta di età adrianea Mesomede, già menzionati all’inizio di questa indagine, per ottenere un’immagine a tutto tondo della divinità. Più o meno coevi,3 i due inni consegnano un ritratto di Nemesis largamente costruito sulla tradizione precedente. Se il primo, tuttavia, si concentra sulla descrizione delle prerogative della divinità di cui si mette in evidenza la potenza e l’onniscienza, il secondo insiste sulle sue modalità di azione e sul suo rapporto con Dike. Un confronto sinottico tra i due componimenti potrà meglio evidenziarne le differenze e i tratti di complementarità: Ὦ Νέμεσι, κλήιζω σε, θεά, βασίλεια μεγίστη, πανδερκής, ἐσορῶσα βίον θνητῶν πολυφύλων· ἀιδία, πολύσεμνε, μόνη χαίρουσα δικαίοις, ἀλλάσσουσα τροχὸν πολυποίκιλον, ἄστατον αἰεί, ἣν πάντες δεδίασι βροτοὶ ζυγὸν αὐχένι θέντες· σοὶ γὰρ ἀεὶ γνώμη πάντων μέλει, οὐδέ σε λήθει ψυχὴ ὑπερφρονέουσα ἀδιακρίτωι ὁρμῆι. πάντ’ ἐσορᾶις καὶ πάντ’ ἐπακούεις, {καὶ} πάντα βραβεύεις· ἐν σοὶ δ’ εἰσὶ δίκαι θνητῶν, πανυπέρτατε δαῖμον. ἐλθέ, μάκαιρ’, ἁγνή, μύσταις ἐπιτάρροθος αἰεί· δὸς δ’ ἀγαθὴν διάνοιαν ἔχειν, παύουσα πανεχθεῖς γνώμας οὐχ ὁσίας, πανυπέρφρονας, ἀλλοπροσάλλας.
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Νέμεσι πτερόεσσα βίου ῥοπά, κυανῶπι θεά, θύγατερ Δίκας, ἃ κοῦφα φρυάγματα θνατῶν ἐπέχεις ἀδάμαντι χαλινῷ, ἔχθουσα δ’ ὕβριν ὀλοὰν βροτῶν μέλανα φθόνον ἐκτὸς ἐλαύνεις. ὑπὸ σὸν τροχὸν ἄστατον ἀστιβῆ χαροπὰ μερόπων στρέφεται τύχα, λήθουσα δὲ πὰρ πόδα βαίνεις, γαυρούμενον αὐχένα κλίνεις. ὑπὸ πῆχυν ἀεὶ βίοτον μετρεῖς, νεύεις δ’ ὑπὸ κόλπον ὄφρυν ἀεί ζυγὸν μετὰ χεῖρα κρατοῦσα. ἵλαθι μάκαιρα δικασπόλε Νέμεσι πτερόεσσα βίου ῥοπά. Νέμεσιν θεὸν ᾄδομεν ἀφθίταν, Νίκην τανυσίπτερον ὀμβρίμαν νημερτέα καὶ πάρεδρον Δίκας, ἃ τὰν μεγαλανορίαν βροτῶν νεμεσῶσα φέρεις κατὰ ταρτάρου.
Kern 1910 ha proposto come datazione per gli Inni orfici il II sec. d. C. collocandone il contesto di produzione in Asia Minore e precisamente nella città di Pergamo. Per uno status quaestionis approfondito sulle diverse ipotesi relative al luogo d’origine della raccolta, cfr. l’introduzione all’edizione degli Inni orfici curata da Ricciardelli 2000, XXVIII–XXX.
La giustizia ha gli occhi scuri: celebrare Nemesis negli Inni
O Nemesi, ti celebro, dea, somma regina, tutto vedi, osservando la vita dei mortali dalle molte stirpi; eterna, augusta, che sola ti rallegri di ciò che è giusto, che fai cambiare la ruota molto varia, sempre in movimento, che temono tutti i mortali che mettono il giogo al collo: perché a te sempre sta a cuore il pensiero di tutti, né ti sfugge l’anima che si inorgoglisce con impulso indiscriminato di parole. Tutto vedi e tutto ascolti, tutto decidi; in te sono i giudizi dei mortali, demone supremo. Vieni, beata, pura agli iniziati sempre soccorritrice; concedi di avere buona capacità di riflettere, ponendo fine agli odiosi pensieri empi, arroganti e incostanti. H. O. 61 (trad. Ricciardelli modificata)
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Nemesi, dea alata, bilancia della vita dea dagli occhi scuri, figlia di Dike, che con il tuo freno indomabile trattieni la vana insolenza dei mortali, odiando la tracotanza distruttrice degli uomini cacci la nera invidia. Con la tua ruota instancabile, senza lasciare traccia, volgi la fortuna grigia degli uomini arrivi di nascosto e abbatti la testa che si insuperbisce: Sempre con il cubito misuri la vita, sempre chini la fronte verso il petto tenendo il giogo con la mano. Sii propizia beata dispensatrice di giustizia Nemesi alata, bilancia della vita Cantiamo Nemesis dea immortale Vittoria dalle larghe ali, potente, infallibile e paredra di Dike che quando ti sdegni della tracotanza dei mortali li precipiti nel Tartaro. Mesomede, Hymn. 3
Gli studiosi hanno concordemente attribuito la raccolta degli Inni orfici a un contesto di provenienza microasiatico. Fritz Graf, a sua volta, ha in modo convincente riconosciuto in questi testi una funzione liturgica atta a regolare lo svolgimento di un rituale notturno, celebrato presumibilmente da un’associazione dionisiaca.4 In questo ambito, Nemesis, come tutte le divinità della raccolta, è invocata attraverso una sequenza di attributi che ne descrivono, per accumulazione, le competenze, sostituendo in tal modo la parte narrativa che solitamente caratterizza questo genere di componimenti.5 La dea è genericamente apostrofata nell’incipit come βασίλεια μεγίστη.6 Segue poi la definizione delle sue prerogative giudiziarie, articolate per gradi: in prima battuta, la dea viene celebrata come πανδερκής («colei che vede tutto»), con una chia-
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Graf 2009. In generale, sulla struttura degli inni greci, Furley/Bremer 2001, 50–63. In questi termini è invocata in un’iscrizione di II sec. d. C. proveniente da Roma (IGUR I, 182, l. 1–2), in cui la divinità è celebrata come megale Nemesis, he basileusa tou kosm(ou), che governa sull’universo. Anche i nomi di altre divinità nella raccolta, come Artemide, Leto, Hipta, Hestia, etc. sono accompagnati dall’aggettivo megale o megiste.
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ra allusione al suo controllo del kosmos e, poco più avanti, in modo più specifico è definita dalla formula ἐσορῶσα βίον θνητῶν πολυφύλων, «colei che scruta la vita dei mortali dalle molte stirpi», alludendo così alla sua capacità di controllo costante sugli esseri umani. Il testo procede, tirando in ballo anche la dimensione uditiva, con la mezione della capacità di ascolto della divinità (ἐπακούεις).7 Nemesis condivide queste prerogative con altre divinità, celebrate nella raccolta, che devono la loro onniscienza proprio a tale attività di sorveglianza:8 il Sole, il Cielo, la Luna, l’occhio di Apollo e di Dike sono parimenti onniscienti. Ma se Nemesis osserva «da lontano», o, forse più correttamente «dall’esterno» (ἐσορῶσα) la vita dei mortali, Dike invece, nell’Inno 62, seduta vicino al trono di Zeus, «osserva dal cielo» la loro vita (οὐρανόθεν καθορῶσα βίον θνητῶν πολυφύλων).9 Il confronto tra questi versi permette di comprendere le diverse forme di giustizia cui le due divinità presiedono: da una parte, Dike, che deve alla sua posizione apicale, accanto al trono di Zeus, l’onniscienza e l’applicazione di una giustizia correttiva che agisce direttamente sul crimine e che si sforza di ristabilire per il tramite dell’isotes un equilibrio alterato; e, dall’altro, la giustizia preventiva rappresentata da Nemesis, alla quale non sfuggono i pensieri dei mortali e l’arroganza espressa dalle loro parole.10 Si tratta di una forma di giustizia che punisce le intenzioni e le dichiarazioni impulsive (v. 7 «perché a te sempre sta a cuore il pensiero di tutti, né ti sfugge l’anima che si inorgoglisce con impulso indiscriminato di parole»). Una giustizia che sanziona la parola, condanna l’arroganza e l’hyperphronein verbalizzato; una giustizia che trova il suo campo di applicazione nel rivolgimento delle sorti («tu che fai cambiare la ruota,11 molto varia, sempre in movimento; una giustizia che soffoca le parole e pone un limite a quanto si può dichiarare pubblicamente. Per questo, la preghiera finale (v. 10–12) che i mystai rivolgono a questa divinità è che essa doni loro l’intelligenza (dianoia) del bene. Diversamente dalla maggior parte delle altre divinità convocate all’interno della raccolta, per Nemesis non è prevista nessuna forma di fumigazione, come se il canto che le era destinato richiedesse all’iniziato un maggiore sforzo di concentrazione sui pensieri e sulle parole da pronunciare che l’aggiunta di una dimensione olfattiva avrebbe potuto compromettere.12 7 8 9 10 11 12
Sulla capacità di ascolto riconosciuta a Nemesis, cfr. infra p. 147. Cfr. a questo proposito le riflessioni di Vernant 2007 [1974], 108, su Helios. H. O. 62, 3. Le due figure divine risultano unite in un unico sintagma onomastico in una dedica a Zeus Hypsistos di una statua di Nemesis Dikaia da Thessaloniki, datata al II–III sec. d. C.: IG X 2,1 62, Perdrizet 1914, 89–91; Hornum 1993, n°110; Berti 2017, 298. Trochon è la lezione, proposta da Chuvin 2014. Sono otto le divinità per le quali, all’interno della raccolta degli Inni orfici, non è prevista alcuna fumigazione: Plutone; Persephone; i Cureti; Dioniso Bassareus Trieterikos; Lysios Lenaios; Afrodite; Nemesis e Nomos). Morand 2001, 111–115 ha tentato di proporre un’interpretazione per queste mancate offerte olfattive, concludendo però che non si può giungere ad una spiegazione onnicomprensiva. La studiosa ha tuttavia sottolineato che il legame di alcune divinità con gli inferi o il carattere oscuro di altre potrebbe avere una relazione con questa scelta rituale.
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Complementare, ma significativamente diverso, è il profilo che di Nemesis traccia il poeta Mesomede di Creta, la cui descrizione si concentra piuttosto sugli attributi che le sono assegnati, che sulle prerogative riconosciutele.13 La dea è qui una figura alata, rappresentata con il capo chino verso il petto, e con il cubito, il freno, la ruota, strumenti della misura e contrassegni della sua potenza divina.14 La relazione con Dike è affermata per linea genealogica: Nemesis è figlia e paredra di Dike. Tuttavia, la giustizia che essa amministra appare implacabile e precisa; è una giustizia dallo sguardo scuro e feroce che giunge furtivamente a punire la protervia e l’arroganza dei mortali, costringendoli ad abbassare il capo. A partire da questi versi, come poi anche nel passo della Periegesi di Pausania dedicato alla Nemesis di Ramnunte, alla dea appare assegnato, con chiarezza, il compito di sanzionare la hybris dei mortali, precipitandoli nel Tartaro. La tracotanza degli uomini sollecita nella divinità un’indignazione (νεμεσῶσα) che la spinge all’azione, spiegando così la coincidenza tra il teonimo e l’emozione. Come in un gioco di specchi, la potenza porta iscritta nel suo stesso nome la causa che la spinge all’azione e si mostra ai mortali con la fronte ripiegata sul petto, in modo che la sua stessa immagine possa servire da monito per gli uomini, spingendoli a vivere la loro esistenza entro limiti ben definiti. Nessun riferimento troviamo, nei versi di Mesomede, alla prerogativa di Nemesis di sanzionare le parole, le intenzioni o l’hyperphronein; tutt’altro, la hybris di cui parla Mesomede è concreta, così come implacabile e infallibile è la giustizia che essa amministra. È questa una differenza sostanziale che riflette forse un diverso orizzonte giuridico e culturale di riferimento che, per quanto coevo, stabiliva una distanza siderale tra i desiderata di una piccola comunità di iniziati di Asia Minore e la prospettiva di un poeta della corte imperiale, come Mesomede.15 2. Nemesis e Adrasteia: tra eponimia e eteronimia Tra le denominazioni assegnate a Nemesis, un ruolo di primo piano, nelle fonti antiche e nella storia degli studi, è senz’altro riconosciuto ad Adrasteia che ricorre ora come eteronimo di Nemesis, ora come eponimo, ora infine come teonimo indipendente. Le testimonianze letterarie recano le tracce di un dibattito16 che si sforzava di sciogliere il
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Sugli attributi assegnati a Nemesis nei versi di Mesomede, cfr. Berti 2017, 297–298. La rappresentazione di Nemesis alata con gli attributi della ruota e del cubito, raffigurata mentre preme un piede su un mortale, dovette avere particolare successo nella Grecia di età imperiale. Ritroviamo tale iconografia su un bassorilievo ritrovato al Pireo, oggi conservato al Museo del Louvre, accompagnato da un epigramma i cui versi fanno chiaramente eco agli Inni dedicati alla dea: IG II2 4792; Delamarre 1894, 266–270 e Perdrizet 1898, 600 e più recentemente Edwards 1990, 532–533 e Hornum 1993, n°89. Sulla ruota come attributo di Nemesis soprattutto in epoca romana, cfr. Hornum 1993, 323–325. Sul complesso rapporto tra gli Inni di Mesomede e le forme di rappresentazione del potere imperiale, si vedano le riflessioni di Whitmarsch 2004. Tracce di un analogo dibattito anche in Schol. Eur. Rhes. 342.
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problema della loro relazione reciproca. Un passo delle Res gestae di Ammiano Marcellino suggerisce tuttavia che, nel corso del IV sec. dell’era moderna, la controversia doveva essersi chiusa con la sovrapposizione definitiva e reciproca tra Nemesis e Adrasteia: Haec et huius modi quaedam innumerabilia ultrix facinorum impiorum bonorumque praemiatrix aliquotiens operatur Adrastia atque utinam semper quam vocabulo duplici etiam Nemesim appellamus: ius quoddam sublime numinis efficacis, humanarum mentium opinione lunari circulo superpositum, vel ut definiunt alii, substantialis tutela generali potentia partilibus praesidens fatis, quam theologi veteres fingentes Iustitiae filiam ex abdita quadam aeternitate tradunt omnia despectare terrena. Queste ed altre innumerevoli opere del genere compie alle volte (e magari le compisse sempre) Adrastia, che punisce gli atti empi e premia quelli buoni. Noi la chiamiamo con duplice nome anche Nemesis. Essa è una legge sublime della divinità onnipotente ed ha la sua sede, a quanto si ritiene al di sopra dell’orbita lunare. Altri invece la definiscono un’ipostasi che, dotata di potere universale, difende i destini dei singoli. I teologi antichi l’immaginarono figlia della Giustizia e narrano che dalle epoche più remote osserva dall’alto le vicende terrene. Amm. Rerum Gestarum Libri, 14.11, 25 (trad. Selem)
Il confronto con testimonianze di epoca precedente restituisce però un quadro ben più complesso, mostrando come le due potenze non siano state sempre considerate intercambiabili, ma che esse erano celebrate e invocate separatamente. Ricostruire la storia di questa trasformazione permette di mettere in evidenza i molteplici e talora imprevedibili esiti, cui le forme di denominazione del divino possono dare luogo e di esaminare i nessi tra le loro differenti declinazioni. Ad Atene, Adrasteia è invocata, in maniera indipendente da Nemesis, nel Prometeo incatenato attribuito a Eschilo e poi nel Reso pseudoeuripideo. Nella prima tragedia, il Coro, quasi impotente, tenta di ricondurre alla ragione il titano che, recalcitrante proprio rispetto al controllo assoluto di Zeus sul cosmo, preconizza la prossima fine del suo regno: {Χο.} πῶς οὐχὶ ταρβεῖς τοιάδ’ ἐκρίπτων ἔπη; {Πρ.} τί δ’ ἂν φοβοίμην ᾧ θανεῖν οὐ μόρσιμον; {Χο.} ἀλλ’ ἆθλον ἄν σοι τοῦδ’ ἔτ’ ἀλγίω πόροι. {Πρ.} ὁ δ’ οὖν ποείτω· πάντα προσδοκητά μοι. {Χο.} οἱ προσκυνοῦντες τὴν Ἀδράστειαν σοφοί. {Πρ.} σέβου, προσεύχου, θῶπτε τὸν κρατοῦντ’ ἀεί. ἐμοὶ δ’ ἔλασσον Ζηνὸς ἢ μηδὲν μέλει. δράτω, κρατείτω τόνδε τὸν βραχὺν χρόνον ὅπως θέλει· δαρὸν γὰρ οὐκ ἄρξει θεοῖς.
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Coro: Come puoi non tremare, mentre scagli parole del genere? Prometeo: Di che cosa dovrei avere paura, io che non ho destino di morte? Coro: Potrebbe infliggerti una prova più dolorosa. Prometeo: Lo faccia pure. Sono pronto a tutto. Coro: Sapienza è inchinarsi ad Adrasteia. Prometeo: Adora, supplica, lusinga sempre chi domina Per me, Zeus conta meno di niente. Agisca, eserciti pure come vuole il suo potere nel tempo breve: Non sarà ancora per molto il capo degli dèi. Aesch. Prom. 932–940 (trad. Tonelli)
L’eloquio arrogante di Prometeo sollecita il coro delle Oceanine a evocare il nome di Adrasteia. Già da questo scambio serrato emergono i tratti di una potenza preposta al controllo della parola e di fronte alla quale conviene piegarsi, proskynein. È una forza rappresentativa del dominio indiscusso e inevitabile di Zeus di cui viene indicata, nel Reso, come figlia e ancora una volta come una divinità che sanziona la parola arrogante.17 L’espressione eschilea προσκυνεῖν τὴν Ἀδράστειαν del v. 937 risulta poi spesso impiegata nelle fonti, come formula apotropaica, pronunciata per stornare la punizione divina da chi consapevolmente si lascia andare ad autoelogi e panegirici verbali, ricorrendo talora anche nella forma: προσκυνεῖν τὴν Νέμεσιν.18 A livello cultuale, il nome di Adrasteia ricorre in un’iscrizione attica della seconda metà del V sec., insieme ad altre divinità, dai cui santuari gli Ateniesi presero in prestito del denaro per finanziare le prime fasi della guerra del Peloponneso. Il suo nome è annoverato tra gli alloi theoi, insieme alla tracia Bendis, che era onorata presso il Pireo.19 Come le altre potenze ricordate in questo documento, anche Adrasteia doveva avere un luogo di culto, che ricadeva nell’amministrazione della città, distinto da quello dedicato alla Nemesis di Ramnunte, nella parte nordorientale dell’Attica. La menzione più celebre di Adrasteia si trova poi nel Fedro platonico all’interno di una lunga riflessione sulla natura immortale dell’anima. In questo contesto alla volontà della dea è attribuito il thesmos che regola la metempsicosi delle anime. Si tratta di un passo che ha fatto versare fiumi di inchiostro e che per i contenuti che veicola è stato – forse troppo rapidamente – aggiunto al novero delle testimonianze cosiddette 17 Eur. Rhes. 342 e 468. Per una riflessione su queste due occorrenze nel Reso pseudoeuripideo, mi permetto di rinviare a Bonanno 2020, § 7. Il collegamento tra Adrasteia e Zeus ricorre anche in altre varianti mitiche. In Callimaco (Hymn. 1.46), Adrasteia è la ninfa figlia del re cretese Melisseo, cui Rea affidò il compito di allevare Zeus per sottrarlo alla violenza di Crono. Apollonio Rodio invece (3.129– 141) la ricorda come colei che fece dono al fanciullo divino di un preziosissimo giocattolo: una palla metallica, ricoperta da una volta cerulea, capace di tracciare in aria una scia luminescente come una stella, quasi fosse una metafora del cosmo che il dio un giorno sarebbe stato chiamato a governare. 18 Alciphron, 4.6, 5. 19 Cfr. IG I3 369 e 383; Osborne/Rhodes, GHI 160 e Parker 1996, 170–175.
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“orfiche”.20 Un allargamento dell’analisi al contesto argomentativo in cui il brano risulta inserito potrà forse favorire il reperimento di una chiave di lettura differente. Ebbene, in un dialogo come il Fedro platonico, dedicato ai rischi e agli infingimenti della retorica, ma anche alla rivalutazione di essa come psychagogia, «l’arte – cioè – di condurre le anime», Adrasteia è evocata – forse non a caso – per la capacità che ha di determinare la permanenza delle anime nei corpi degli uomini, a seconda del grado di visione divina cui abbiano partecipato, prima di impiantarsi nei mortali. Per bocca di Socrate, Platone spiega che l’anima umana assomiglia a un carro alato, lanciato all’inseguimento del corteo divino. Questo carro, guidato da un auriga, è trascinato da una coppia di cavalli, di cui uno è di razza eccellente e l’altro, invece, di razza cattiva. Quest’ultimo trascina il carro verso il basso, allontanando così l’anima dalla visione divina, in una caduta vertiginosa che la porterà a perdere ali. Ebbene, l’anima che nel suo percorso sarà riuscita, nonostante le tensioni contrarie, a tenere il passo al seguito del corteo divino e a contemplare una parte consistente delle verità divine, si impianterà nel corpo di colui che è destinato ad essere filosofo e amante del bello; quelle che, invece, per accidenti vari, abbiano partecipato di una visione ridotta della verità e del bello divino si impianteranno in esseri via via più modesti dal re al legislatore, al politico, all’atleta, fino ad arrivare alle più basse categorie umane, rappresentate dal sofista e dall’adulatore del popolo, per finire con il tiranno.21 Nella prospettiva del Fedro, incentrata com’è sull’opposizione tra una retorica unicamente rivolta all’efficacia tecnica del discorso, senza alcun rapporto con la verità, e una retorica psicagogica, finalizzata alla guida delle anime, l’evocazione di una potenza come Adrasteia preposta al controllo delle parole, è assolutamente significativa. La sua azione si concretizza proprio nell’organizzazione di una gerarchia di anime, alla cui sommità è collocato il filosofo cui si attribuisce una memoria piena del bello e del vero divini e i cui discorsi non possono che conformarsi alla verità. Al gradino più basso, si trovano invece le anime del sofista o adulatore del popolo e del tiranno, figure caratterizzate, tra l’altro, per il loro uso deformato e distorto della parola.22 Si riconosce in questi termini ad Adrasteia la capacità di guardare nell’animo umano e di identificare la parte divina che essa contiene, ma soprattutto di comprendere fino a che punto le parole pronunciate corrispondono alle verità assimilate al seguito del corteo divino. 20 Plat. Phaedr. 248c-d = Fr. 20, 1 Bernabé. In Scarpi 2002, 447 il passo è inserito all’interno della rubrica “Escatologia e soteriologia” e l’Adrasteia del Fedro platonico è definita nel commento «il fondamento mitico della teoria della reincarnazione» (p. 668). 21 Plat. Phaedr. 248b–249c. 22 Platone definisce il sofista un «atleta dei discorsi», esperto dell’arte della contraddizione e lo descrive come un illusionista capace di ingannare i giovani con i suoi discorsi (Plat. Soph. 231 d-e; 234 c-e). Nel Gorgia invece la sofistica è considerata una forma di adulazione (Plat. Gorg. 463 b). Abile con la parola dovrà essere necessariamente anche il tiranno, incline com’è, nei suoi primi giorni di governo, a mostrarsi amabile e sorridente e facile alle promesse (Plat. Rep. 8.566d-e).
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Del resto, anche Socrate platonico dichiara nella Repubblica di inchinarsi ad Adrasteia (προσκυνῶ δὲ Ἀδράστειαν), considerando parimenti un crimine quello di uccidere un uomo e di ingannarlo su quanto è buono, bello e giusto.23 Si ritrovano, ancora una volta, nella riflessione platonica, le prerogative di una divinità che riconosce l’autenticità degli individui, che ascolta, classifica e soprattutto declassa. La menzione stessa del suo nome allinea automaticamente la realtà ai fatti, da cui ha origine la pulsione istintiva ad abbassarsi, a ridimensionarsi rispetto alle parole pronunciate. Questo controllo sull’arroganza espressa in forma verbale è per l’appunto il trait d’union tra Nemesis e Adrasteia. Per confermarlo è sufficiente fare riferimento, per esempio, ai versi precedentemente esaminati delle Fenicie euripidee, in cui Antigone invoca Nemesis e il tuono di Zeus per ridurre al silenzio la megalagoria, il discorso violento e superbo.24 In un’analoga prospettiva va interpretata la menzione di Nemesis, nelle Leggi di Platone,25 come colei che sovraintende alle parole alate e leggere, oppure ancora la nemesis divina che coglie Creso a causa del suo mega phronein. Non stupisce dunque che, a un certo punto, le due divinità possano essere state percepite come potenze assimilabili e addirittura sovrapponibili: l’una la cui sola evocazione induceva i mortali a inchinarsi per riequilibrare, con un mutato atteggiamento posturale, parole troppo arroganti; e l’altra tacitando concretamente la tracotanza degli uomini riportandoli ai loro limiti mortali. La più antica attestazione in cui Nemesis e Adrasteia si trovano l’una accanto all’altra – o meglio l’una come epiclesi dell’altra – si trova in un frammento di Antimaco di Colofone, poeta vissuto tra il V e il VI sec. a. C., citato per la prima volta da Strabone, ma che ci è noto anche per altre vie.26 Ἐκαλεῖτο δ’ ἡ χώρα αὕτη Ἀδράστεια καὶ Ἀδραστείας πεδίον, κατὰ ἔθος τι οὕτω λεγόντων τὸ αὐτὸ χωρίον διττῶς, ὡς καὶ Θήβην καὶ Θήβης πεδίον, καὶ Μυγδονίαν καὶ Μυγδονίας πεδίον. φησὶ δὲ Καλλισθένης ἀπὸ Ἀδράστου βασιλέως, ὃς πρῶτος Νεμέσεως ἱερὸν ἱδρύσατο, καλεῖσθαι Ἀδράστειαν. ἡ μὲν οὖν πόλις μεταξὺ Πριάπου καὶ Παρίου, ἔχουσα ὑποκείμενον πεδίον ὁμώνυμον, ἐν ᾧ καὶ μαντεῖον ἦν Ἀπόλλωνος Ἀκταίου καὶ Ἀρτέμιδος κατὰ τὴν * Πυκάτην· εἰς δὲ Πάριον μετηνέχθη πᾶσα ἡ κατασκευὴ καὶ λιθεία κατασπασθέντος τοῦ ἱεροῦ, καὶ ᾠκοδομήθη ἐν τῷ Παρίῳ βωμὸς, Ἑρμοκρέοντος ἔργον, πολλῆς μνήμης ἄξιον κατά τε
23 Plat. Rep. 5.451a. 24 Cfr. supra p. 118. 25 Cfr. Plat. Leg. 4.717d 1–5 e Hdt. 1.34.1. La competenza di Nemesis come colei che interviene sulle speranze verbalizzate è chiaramente espressa anche in un epigramma attribuito ad Antifilo di Bisanzio (I sec. a. C. – I sec. d. C.). Anth. graec. 7.630: Ἤδη που πάτρης πελάσας σχεδὸν “Αὔριον”, εἶπον,/ “ἡ μακρὴ κατ’ ἐμοῦ δυσπλοΐη κοπάσει.”/ οὔπω χεῖλος ἔμυσε, καὶ ἦν ἴσος Ἄϊδι πόντος,/ καί με κατέτρυχεν κεῖνο τὸ κοῦφον ἔπος./ πάντα λόγον πεφύλαξο τὸν αὔριον· οὐδὲ τὰ μικρὰ/ λήθει τὴν γλώσσης ἀντίπαλον Νέμεσιν. «Quando stavo quasi avvicinandomi alla patria, dissi: “domani, la grave tempesta su di me si placherà”. Non avevo ancora chiuso le labbra che il mare divenne come l’Ade e quella parola leggera mi mandò in rovina. Guardati da ogni parola domani. Neppure la più piccola sfugge a Nemesis rivale della nostra lingua». 26 Cfr. infra Harp. s. v. Adrasteia p. 149.
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μέγεθος καὶ κάλλος· τὸ δὲ μαντεῖον ἐξελείφθη, καθάπερ καὶ τὸ ἐν Ζελείᾳ. ἐνταῦθα μὲν οὖν οὐδὲν ἱερὸν Ἀδραστείας δείκνυται, οὐδὲ δὴ Νεμέσεως, περὶ δὲ Κύζικον ἔστιν Ἀδραστείας ἱερόν. Ἀντίμαχος δ’ οὕτω φησίν “ἔστι δέ τις Νέμεσις μεγάλη θεὸς, ἣ τάδε πάντα “πρὸς μακάρων ἔλαχεν· βωμὸν δέ οἱ εἵσατο πρῶτος “Ἄδρηστος, ποταμοῖο παρὰ ῥόον Αἰσήποιο, ἔνθα τετίμηταί τε καὶ Ἀδρήστεια καλεῖται.” Questa regione è chiamata indifferentemente Adrasteia e piana di Adrasteia, secondo l’uso di chiamare lo stesso luogo in due modi: come Tebe e la piana di Tebe, Migdonia e la piana Migdonia. Callistene afferma che Adrasteia prese nome dal re Adrasto, che per primo edificò un santuario di Nemesis. La città stessa di Adrasteia, tra Priapo e Pario, è situata nella piana omonima, in cui proprio di fronte Pactye si trovava un oracolo di Apollo Acteo e di Artemide*. Essendo stato distrutto completamente il santuario, tutto l’allestimento e le pietre furono trasportate a Pario per costruirvi un altare, opera di Ermocreonte, degno di restare a lungo nella memoria per la sua bellezza e le sue dimensioni. Quanto all’oracolo con il tempo è stato abbandonato come quello a Zeleia. Qui non vi è più nessun santuario né di Adrasteia né di Nemesis, invece, nei pressi di Cizico vi è un santuario di Adrasteia. Antimaco dice così: “Nemesis è una grande dea, che ha ricevuto tutti i suoi doni dagli immortali: Adrasto per primo gli dedicò un altare nei pressi del fiume Esepo, qui è onorata e invocata anche come Adrasteia”. Strab. 13.1, 13
La ricostruzione del geografo è problematica per tutta una serie di motivazioni: in primo luogo, una corruttela nel testo rende più incerta la ricostruzione del suo ragionamento ma soprattutto appare difficile individuare con precisione l’area della Troade in cui si sorgeva il santuario di Nemesis. Strabone sembra, in prima battuta, collocarlo, sulla base della citazione di Callistene, nella città di Adrasteia sita tra Priapo e Pario, e ne attribuisce l’iniziativa al re Adrasto che, per primo, elevò un hieron a Nemesis nella stessa regione in cui si trovava un manteion di Apollo Acteo e di Artemide. In un secondo momento, però, il geografo precisa che, distrutto il santuario, l’allestimento e le pietre furono trasportate a Pario, nella parte occidentale della Troade, dove venne costruito un altare degno di menzione, e aggiunge anche che nella regione non c’era più nessun santuario né di Adrasteia né di Nemesis, ma che uno hieron di Adrasteia si trovava nei pressi di Cizico, quindi proprio in prossimità dell’omonimo monte. In conclusione, Strabone riporta il frammento di Antimaco di Colofone, autore di una Tebaide e di altre opere, tra cui alcuni studi sui poemi omerici. In questi versi, si ricorda la dedica a Nemesis da parte di Adrasto, colui che per primo eresse, sulle correnti del fiume Esepo, nella parte orientale della Troade, un altare, e che la dea vi è onorata lì anche come Adrasteia.27
27
Antimach. fr. 131 Matthews. Un riferimento all’Adrasteia onorata in questa zona, troviamo anche in Callimaco: Hec. Fr. 299 Pfeiffer.
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Ora, l’analisi del passo di Strabone sembrerebbe suggerire una presa di posizione da parte dell’autore che, con la citazione del passo di Callistene prima e con quella di Antimaco poi, pare voler informare il lettore dell’esistenza di due, forse tre luoghi, in cui Nemesis era onorata nella regione come Adrasteia; uno spazio fluido che, forse, in ragione di un esasperato ricorso all’omonimia o ai rapporti di forza interni all’area in questione restava difficilmente identificabile. Inoltre, secondo Strabone e le sue fonti, Nemesis doveva il suo attributo onomastico all’eroe eponimo della regione. L’identità di questo sovrano Adrasto non è precisata, così come ignote sono le ragioni per le quali aveva deciso di fondare il culto. Il catalogo omerico delle navi, nel secondo libro dell’Iliade, ci fornisce qualche dettaglio utile a questo proposito, ricordando due comandanti troiani, provenienti proprio dalla regione Adrasteia, vicino al fiume Esepo:28 Adrasto e Anfio, figli del re Merope. Quest’ultimo, esperto nell’arte mantica, conoscendo il destino che attendeva i due giovani, non voleva lasciarli partire in guerra. La menzione del fiume Esepo, nel frammento di Antimaco, che rinvia direttamente al Catalogo delle navi, dovrebbe indurre a identificare tale Adrasto con l’eroe di cui parla Omero. Purtroppo, però, a complicare il quadro interviene la versione del lessicografo Arpocrazione (II sec. d. C.) che cita ancora una volta Antimaco, con l’aggiunta di un’ulteriore precisazione: Ἀδράστειαν: οἱ μὲν τὴν αὐτὴν λέγουσι τῇ Νεμέσει, λαβεῖν τε τοὔνομα ἀπὸ Ἀδράστου τοῦ Ταλαοῦ νεμεσηθέντος ἐφ’ οἷς τῶν Θηβαίων κατηλαζονεύσατο, ἔκ τινων μαντειῶν ἱδρυσαμένου ἱερὸν Νεμέσεως, ὃ προσαγορευθῆναι μετὰ ταῦτα Ἀδραστείας, ὡς Ἀντίμαχος ἐν τούτοις δηλοῖ· ἔστι δέ τις Νέμεσις μεγάλη θεὸς, ἣ τάδε πάντα πρὸς μακάρων ἔλαχεν. βωμὸν δέ οἱ εἵσατο πρῶτος Ἄδρηστος ποταμοῖο παρὰ ῥόον Αἰσήποιο, ἔνθα τετίμηταί τε καὶ Ἀδρήστεια καλεῖται. ἔνιοι μέντοι ὡς διαφέρουσαν συγκαταλέγουσιν αὐτὴν τῇ Νεμέσει, ὡς Μένανδρος καὶ Νικόστρατος. Adrasteia: alcuni dicono che è la stessa di Nemesis e che prende il nome da Adrasto figlio di Talao, che era stato fatto oggetto di nemesis, per essersi vantato contro i Tebani, poi, in seguito ad alcuni oracoli, costruì un santuario che poi fu detto di Adrasteia, come dice chiaramente Antimaco in questi versi: C’è una grande divinità Nemesis, che ha avuto in sorte tutti questi doni da parte degli immortali. Adrasto per primo innalzò un suo altare presso la corrente del fiume Esepo. Qui è onorata e invocata anche come Adrasteia. Comunque alcuni, come Menandro e Nicostrato, la catalogano come differente da Nemesis. Harp. s. v. Adrasteia
28 Hom. Il. 2.825–834.
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La voce del lessicografo attribuisce ad Antimaco il dato in base al quale Nemesis avrebbe preso la sua denominazione dall’Adrasto argivo, figlio di Talao, la cui vicenda eroica, brevemente menzionata con l’allusione alla sfortunata impresa dei Sette a Tebe, lo avrebbe indotto, sulla base di alcuni oracoli, a erigere un santuario in onore della dea. In realtà, un’analisi filologica più attenta, condotta da V. Matthews, ultimo editore di Antimaco,29 ha mostrato, in modo del tutto convincente, che il riferimento all’Adrasto argivo nella voce lessicografica altro non è che il frutto di una maldestra interpolazione. Egli, inoltre, ha puntualizzato che l’Adrasto cui si riferiscono i versi di Antimaco, collegato com’è alla riva del fiume Esepo, può benissimo essere sempre l’omerico figlio di Merope o, tutt’al più, il suo avo, padre di Euridice moglie di Ilo, di cui parla Apollodoro.30 Ma anche senza volere postulare l’interpolazione del testo di Arpocrazione, in cui il riferimento all’Adrasto argivo compare solo nell’epitome, è un dato di fatto che la relazione tra Nemesis e le tristi vicende del figlio di Talao, cominciano ad apparire nelle rielaborazioni dei grammatici e dei paremiografi di età adrianea, come Pausania attico, Elio Dionisio, Zenobio e Diogeniano, nonché nella paremiografia tarda di età bizantina.31 Era questo un fecondo fraintendimento cui si prestava l’etimologia stessa del nome Adrasto, capace di parlare molto chiaramente alle orecchie dei Greci. L’antroponimo coincide con l’aggettivo composto derivato dalla radice dras- del verbo διδράσκω, fuggire, preceduto da α privativo e seguito dal suffisso –tos, indicante la possibilità. L’aggettivo ricorre nella letteratura greca soltanto un paio di volte, e in particolare nel VI libro delle Storie di Erodoto,32 in riferimento all’incapacità attribuita dagli Sciti agli Ioni di fuggire, una volta ridotti in schiavitù. L’eroe argivo portava quindi iscritto nel suo nome l’idea di una fuga impossibile da realizzare. È stato già sottolineato come l’etimologia di questo nome non sia del tutto trasparente, significando tanto “l’essere incapace” o “non incline alla fuga” quanto “quanto qualcosa da cui non si può sfuggire”.33 A dispetto di queste incertezze, il contributo della riflessione filosofica, e stoica in particolare, che indicava Adrasteia come un’altra maniera di riferirsi a Zeus e di identificare in lui una forza cui non era possibile sfuggire (ἀποδιδράσκειν),34 avrà senz’altro portato prove a sostegno di una solida connessione tra il nome della divinità e le vicende del sovrano argivo che troviamo poi, a distanza di secoli, pienamente rielaborate e
29 Matthews 1996, 314–321. 30 Apoll. Bibl. 3.12,3. 31 Paus. Att. s. v. Adrasteia; Zen. I 30; Ael. Dion. s. v. Nemesis Adrasteia; Diogen. s. v. Adrasteia Nemesis; Suid. s. v. Adrasteia Nemesis. 32 Hdt. 4.142 e Dion. Chrys. Or. 37, 10. 33 Moreau 1988, 108–113 e van Bremen 2010, 450. 34 Cfr. Chrys. Fr. 528 von Arnim e Plut. De sera num. vindicta 564e in cui Adrasteia ricorre come la figlia di Zeus e di Ananke. Un’analoga visione è esposta anche nel trattato pseudo-aristotelico De mundo 7. 401b, 8–14.
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maturate in questo esercizio del retore Libanio, contemporaneo di Ammiano Marcellino e originario della stessa città di Antiochia:35 Περὶ Ἀδραστείας. Νενικηκότες οἱ Θηβαῖοι τοὺς Πολυνείκη καταγαγόντας οὐδὲ θάπτειν οὐδενὶ τοὺς πεσόντας ἐπέτρεπον. ἧκον οὖν αἱ τούτων γυναῖκες Ἀθήναζε καὶ ἱκετεύουσαι κινοῦσι μὲν ὑπὲρ τῶν νεκρῶν τὸν Θησέα, κρατηθέντων δὲ τῶν Θηβαίων καὶ καιομένων τῶν νεκρῶν Εὐάδνην τὴν Καπανέως γυναῖκα λόγος κοινωνῆσαι τῷ ἀνδρὶ τῆς πυρᾶς. τούτων οἱ παῖδες πατράσι τιμωροῦνται καὶ ἐπελθόντες αἱροῦσι Θήβας, ἡγεῖται δὲ ὁ παῖς Ἀδράστου καὶ ἀναιρεῖται μόνος. τοῦ δὲ ἄρα ὁ πατὴρ μόνος τῶν ἑπτὰ λοχαγῶν ἀπεσώθη. ἔδοξε δὴ τοῦ δαιμονίου νεμεσήσαντος τοῦτο τῇδε γενέσθαι. καὶ αὐτίκα οἱ Ἕλληνες ἱερῷ τιμῶσι τὴν Νέμεσιν προσειπόντες Ἀδράστειαν τὴν θεόν. Dopo avere vinto coloro che cercavano di portare al potere Polinice, i Tebani non consentivano a nessuno di seppellire i caduti. Allore le loro donne si recarono ad Atene e, supplicando Teseo, lo mossero a compassione per i defunti, ma quando i Tebani furono sconfitti e i loro cadaveri vennero bruciati, la storia vuole che Evadne, moglie di Capaneo condivise la pira funebre con il marito. I figli di questi uomini cercarono vendetta per i loro padri e, dopo averla attaccata, conquistarono Tebe. Li guidava il figlio di Adrasto e fu il solo ad essere ucciso. Mentre il padre di costui fu l’unico dei sette a salvarsi. Sembrò che un daimon indignatosi mutasse le cose in tal modo e subito i Greci onorarono con un santuario Nemesis, rivolgendosi alla dea come Adrasteia. Lib. Progymnasmata 2.10
Il triste destino dell’Adrasto argivo, unico superstite e responsabile di una disastrosa spedizione contro Tebe, si rifletteva nelle drammatiche conseguenze che portarono alla morte del suo giovane figlio Egialeo, il solo a trovare la morte nel gruppo degli Epigoni, partito alla volta di Tebe, per vendicare i padri.36 L’evento che trasformò l’iniziale vittoria dei Tebani sui Sette in una successiva sconfitta da parte dei rispettivi figli e il destino occorso ad Adrasto e a suo figlio, sembrò ai Greci opera dell’intervento di un «daimon indignato»: una Nemesis che colpisce il responsabile diretto dell’atto, eliminando la sua progenie, come già nel caso di Creso. È una Nemesis che trae il suo nome dalla particolare vicenda del celebre Adrasto della saga tebana, utile a illustrare le modalità di azione di una precisa potenza divina, rispondendo così agli interrogativi che i Greci si ponevano in merito al rapporto tra responsabilità umana e causalità divina.37 35
Tra l’altro, nella città di Antiochia, nel sobborgo di Daphne, secondo Giovanni Malala, all’interno dello stadio, vi era un santuario di Nemesis, fatto costruire da Diocleziano: Malal. Chron. 12.38 (236–237 Thurn). Sulle ragioni di questo gesto, Bru 2008, 299–300. 36 Apollod. Bibl. 3.7, 2–4. 37 A tal proposito è sufficiente fare riferimento ai temi affrontati nel De sera numinis vindicta di Plutarco. Sul contributo dell’opera di Plutarco all’organizzazione delle tradizioni greche relative al tema della giustizia divina, cfr. Gagné 2013, 33–44. Sulle modalità di attuazione fondamentalmente terrene di tale giustizia, si vedano invece le considerazioni di Fabiano 2019, 127–165.
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Se quindi ancora nel corso del V secolo Nemesis e Adrasteia sono evocate separatamente l’una dall’altra, come divinità indipendenti, già nel corso del IV secolo, i loro nomi cominciano a comparire affiancati nelle testimonianze letterarie ed epigrafiche, forse in ragione dei loro campi d’azione liminali e talora sovrapponibili o con lo scopo di amplificare la portata dell’invocazione, intercettando la potenza dell’una o dell’altra. Un paio di iscrizioni provenienti dall’isola di Cos consentono di ampliare la riflessione in merito: si tratta di due testi databili rispettivamente l’uno alla seconda metà del II sec. a. C. e l’altro alla prima metà del I sec. a. C.38 In entrambi i casi si menzionano sacrifici di un valore preciso che diverse tipologie di individui sono tenuti a dedicare: nel primo documento, si fa riferimento a individui designati dai trapezeitai (forse gestori di banche pubbliche), e a coloro che, in altro modo, sono preposti a una banca (forse banchieri privati o cambiavalute), ma anche a schiavi affrancati.39 Nel secondo, il sacrificio dei banchieri è preceduto da quello di impresari che hanno ottenuto in appalto un cantiere sacro o pubblico.40 La verifica del corretto compimento dell’offerta sacrificale da parte degli affrancati e degli impresari è affidata, nelle due iscrizioni, rispettivamente ai tesorieri e agli architetti che non possono procedere alla registrazione dell’atto prima di una dichiarazione pubblica da parte del sacerdote.41 La pena prevista per coloro che contravvengono alle prescrizioni è una sanzione salatissima da pagare ad Adrasteia e a Nemesis. Non è chiaro chi siano in questi casi i soggetti da multare, se gli individui tenuti a compiere il sacrificio o coloro che ne hanno registrato l’atto, prima di una corretta denuncia verbale da parte dell’autorità suprema. Nell’uno e nell’altro caso, le due divinità, menzionate insieme, sembrano chiamate a intervenire laddove vi sia il rischio dell’illegittima attribuzione di una time, sanzionando senz’appello un’inef38 Rispettivamente IG XII 4, 318 II e IG XII 4, 325. La menzione congiunta delle due divinità è attestata epigraficamente anche altrove ma purtroppo il contesto isolato e problematico di queste testimonianze e talora anche la difficoltà di reperire indicazioni di massima in merito alla loro datazione non consentono ulteriori approfondimenti. Cfr. Andro: Νέμεσις καὶ Ἀδράστεια (IG XII 5, 730); a Rodi: Ἀδραστείας καὶ Νεμέσιος (SEG 33.645); in Pisidia, presumibilmente come epiclesi: Νεμέσει Ἀδραστεία (TAM III 1, 912). 39 IG XII 4,1 318, ll. 2–3: [… τοὶ ἀπ]οδεικ[νύμενοι πάντες ὑπὸ τῶν τραπεζιτᾶν ἢ ἄλλως πω]ς καθίζοντες ἐ[πὶ τᾶν τραπεζᾶν …]. L’interpretazione di queste categorie di individui è stata piuttosto dibattuta: Bogaert 1968, 211 individua nei τραπεζεῖται dell’iscrizione dei «banquiers de l’Etat» e negli ἀποδεικνύμενοι dei clienti, beneficiari di prestiti. Ritiene poi che la formula ἢ ἄλλως πως καθίζοντες ἐπὶ τᾶν τραπεζᾶν alluda a dei banchieri privati. Secondo Sokolowski LSGC 160, la prima tipologia di individui si riferisce ai “gestori” di banche pubbliche, mentre i καθίζοντες sono da identificare con dei petits changeurs, dei cambiavalute. Traduzioni in inglese e in tedesco dell’iscrizione sono reperibili in Inscriptiones graecae. Digital Edition: http://pom.bbaw.de/ig/. 40 IG XII 4,1 325; LSGC 161, l. 7–9: θυόντωι δὲ καὶ τοὶ ἐργολαβεῦντες τὸ ἱερὸν ἢ δαμόσιον ἔργον καθ᾿ ἕκαστον ἐνια[υτὸν] ἅ[π]α[ξ]. In questa iscrizione alle ll. 14–19 ricorre la medesima formula di IG XII 4,1 318. Commento e traduzione in inglese e francese disponibili su CGRN 142. 41 IG XII 4,1 318, l. 5–8: καὶ τοὶ ταμίαι καὶ δέλτο[ν μὴ διδόντω τοῖς] [ποιεῦσιν τὰν ἀ]πελευθέρωσιν μηδὲ ποιεί[σθων πρότερον τὰν][ἀναγραφὰν τ]ᾶς ἀπολυτρώσιος αἴ κα μὴ ὁ ἱερ[εὺς αὐτοῖς ἐμ][φανίσηι τὰν θ]υσίαν ἐπιτετελέσθαι; IG XII 4,1 325 l. 12–15: τοὶ [ἀρχιτέκτ]ονες μὴ πρότερον αὐτοῖς τὰς ̣ [δέλτους δ] ιδόντωι, αἴ κα μὴ ὁ ἱρεὺς αὐτο[ῖ]ς [ἐμφαν]ίσῃ τὰν θυσίαν ἐπιτε[τ]ελέσθα[ι].
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ficace articolazione tra processo verbale e registrazione di atti pubblici, tra le parole e la realtà dei fatti.42 Non stupisce quindi, alla luce di queste considerazioni, come la prossimità tra Nemesis e Adrasteia possa essersi trasformata nel corso del tempo e a seconda dei contesti, in vera e propria sovrapposizione. L’una viene evocata insieme all’altra o diventa l’eteronimo dell’altra, inglobando nel riferimento all’Adrasto argivo il paradigma di una sanzione divina ineluttabile, in cui il significato etimologico si intreccia al racconto mitico per costruire un nesso didattico molto più trasparente di quanto la modesta storia dell’omerico figlio di Merope potesse suggerire. Le stesse pratiche rituali collegate alle due divinità, quella cioè di prosternarsi ad Adrasteia e quella cui alludono spesso le fonti iconografiche e letterarie in relazione al nome di Nemesis,43 ovvero il gesto di «sputare sul petto» (εἰς τὸν κόλπον πτύειν), cominciano ad essere attribuite tanto all’una quanto all’altra, finendo, in qualche modo, per chiarirsi a vicenda.44 Infatti, la stessa disponibilità dichiarata verbalmente ad inchinarsi e ad abbassarsi di fronte a una potenza percepita come ferma sanzionatrice di coloro che si elevano al di sopra di quanto consentito ai mortali sembra corrispondere, nelle finalità, al gesto che si compie invocando Nemesis. L’atto sembra coincidere con una forma aumentata di proskynesis, una deminutio capitis che comporta un’ulteriore pratica di degradazione al cospetto del divino, che consisteva per l’appunto nello sputarsi addosso, in segno di disprezzo verso sé stessi.45 Non è un caso che nel corpus 42
43 44 45
Diversa l’opinione di Paul 2013, 153–156 che ritiene che l’indicazione dei banchieri nel gruppo dei sacrificanti e l’ammontare eccessivamente elevato dell’ammenda da pagare alle divinità possa essere interpretato come un indizio di una competenza di Adrasteia e Nemesis nella sfera della retribuzione di tipo pecuniario. L’ipotesi è suggestiva ma non tiene conto del fatto che l’indicazione della sanzione è messa in relazione con eventuali trasgressioni da parte di affrancati e impresari e come conseguenza di una colpa precisa. Sherwin-White 1978, 325 ritiene invece che Adrasteia e Nemesis presiedessero a Cos le manomissioni degli schiavi, in ragione del loro rapporto con il destino umano. Hornum 1993, 15–19. Cfr. Men. Sam. 501–505; Alciphron 4.6, 5; Luc. Ap. 6.10. Il significato di tale rituale meriterebbe una riflessione più approfondita di quella che lo spazio di una nota può consentire. Tuttavia, il confronto con altre fonti può servire a decodificare meglio le ragioni di questa prassi. La funzione catartica dell’atto di sputare emerge da un passo delle Argonautiche di Apollonio Rodio 4.478, in cui Giasone, dopo l’uccisione a tradimento di Apsirto, lecca tre volte la spada sputando fuori dai denti tre volte la maledizione per espiare il crimine commesso: «[…] e per tre volte sputò il sangue, sputando la sozzura, come si conviene a chi deve espiare un’uccisione compiuta a tradimento ([…] τρὶς δ’ ἀπέλειξε φόνου, τρὶς δ’ ἐξ ἄγος ἔπτυσ’ ὀδόντων, ἣ θέμις αὐθέντῃσι δολοκτασίας ἱλάεσθαι). Lo sputo, invece, come gesto di ostilità lo ritroviamo nell’Antigone di Sofocle, quando Creonte suggerisce al figlio Emone di lasciare la giovane donna, sputandole addosso, «come una nemica (v. 653)», ma sarà poi proprio lui, davanti al cadavere di Antigone, morta per impiccagione, a sputare in faccia al padre e sguainare la spada, con l’intento di ucciderlo (v. 1232). Cfr. con un analogo significato anche Diog. Laert. 6.32 e Plut. Reg. et imper. apophth. 189a. Plinio (Nat. hist. 11.251) riporta invece un’altra pratica rituale connessa a Nemesis, quella di portare l’anulare sotto l’orecchio destro, sede della memoria, dopo averlo portato alla bocca, per nascondervi un pensiero di cui si chiede perdono agli dèi.
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paremiografico, l’espressione εἰς τὸν κόλπον πτύειν venga spiegata con la formula: οὐ μεγαλοῤῥημονεῖν, «non vantarsi».46 3. Uno sguardo sui mortali: Rhamnousia, Ourania, Oupis Se si esclude Adrasteia,47 il nome di Nemesis risulta poche volte accompagnato da altri attributi onomastici, in età classica ed ellenistica e, per lo più, all’interno di testimonianze letterarie. Solo in epoca imperiale, e forse per effetto della circolazione degli inni in suo onore, il teonimo è invece più spesso affiancato da aggettivi o espressioni che ne declinano le caratteristiche.48 Ad Atene e in Attica, per esempio, la dea è evocata in un paio di testimonianze epigrafiche pervenuteci, come Ourania o come Epekoos.49 Accanto a questi pochi documenti, degno di menzione è certamente un epicedio, composto, con ogni verosimiglianza50, dal medico e poeta Marcello di Side. Nel poema, dedicato alla memoria di Annia Regilla, moglie del retore Erode Attico, originario di Maratona ed esponente di spicco dell’entourage politico degli Antonini, Nemesis è denominata Rhamnousia Oupis. Per quanto esigue e poco omogenee siano queste testimonianze, esse costituiscono tuttavia un piccolo dossier utile a comprendere come la dea, che aveva in Attica il cuore del suo culto, fosse percepita in età imperiale. L’attributo ourania fornisce senz’altro un punto di partenza interessante, all’interno di questa riflessione, poiché esso ricorre quasi esclusivamente come qualificativo di Afrodite.51 In riferimento a Nemesis, lo ritroviamo in un’unica, ma significativa testimonianza epigrafica, databile forse al II sec. d. C., rinvenuta su un sedile del teatro di Dioniso ad Atene che porta la dicitura: ἱερέως Οὐρανίας Νεμέσεως.52 Benché breve, l’iscrizione veicola tuttavia alcune informazioni importanti: in primo luogo l’esistenza di un sacerdozio dedicato a questa Nemesis celeste e l’assegnazione a chi ricopriva questa carica della proedria in teatro.53 Più difficile è comprendere le ragioni di questo
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Greg. Paroem. s. v. eis ton kolpon ptyein. Nemesis e Adrasteia sono evocate come theai megistai ed epekooi in un papiro da Menfi in Egitto, datato alla fine del II sec. a. C. Cfr. Volkmann 1928, 300, n. 12 e Hornum 1993, n. 51. Per una rassegna degli attributi onomastici di Nemesis vd. Berti 2017, 299–302. IG II3 4,2 1417. Si tratta di un piccolo altare di età imperiale, rinvenuto, a quanto pare, al Ceramico, di cui poi si sono perse le tracce, e che riportava l’iscrizione: Νεμέσε[ι] θεᾷ ἐπηκ[ό]ωι εὐχὴν [ἀν] έθηκ[εν]. L’epiteto epekoos abbastanza frequente in età ellenistica e romana esprimeva il desiderio di una relazione più diretta con la divinità senza il ricorso a intermediari: cfr. a questo proposito con ampia bibliografia precedente, Stavrianopoulou 2016. Per un’analisi dei problemi connessi alla paternità dell’inno cfr. Arena/Cassia 2016, 213–216. Pirenne-Delforge 2005. IG II3 4,3 1889 (= IG II2 5070). Cfr. Maass 1972, 134.
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attributo assegnato alla dea e se essa sia da identificare con la stessa potenza onorata a Ramnunte o con un’altra, oggetto di culto ad Atene.54 L’aggettivo ouranios/ourania, affiancato a un teonimo, è già stato più volte oggetto di attenzione da parte degli studiosi che ne hanno messo prevalentemente in evidenza il carattere «polisemico»:55 esso rinvia tanto alla discendenza da Urano, tanto allo spazio celeste di precisa pertinenza divina. L’attributo sottolinea inoltre una posizione apicale occupata dalla divinità che può perfettamente accordarsi con lo specifico esercizio del controllo e della tutela della giustizia.56 Nel caso di Afrodite, le fonti testimoniano una precisa competenza nell’ambito dei riti nuziali che le deriva dal racconto eziologico esiodeo, in cui la sua nascita è messa in relazione con l’unione primordiale tra Gaia e Urano e con la successiva evirazione di quest’ultimo.57 Purtroppo, i dati che abbiamo a disposizione non consentono di ricostruire con precisione il profilo di questa Nemesis Ourania, il cui sacerdote poteva contare sul privilegio della proedria in teatro. Si può provare però ad avanzare provvisoriamente qualche ipotesi. In primo luogo, occorre precisare che Ourania ricorre nelle fonti anche come teonimo. È questo il nome di una figlia di Oceano e di una delle Muse, generate da Zeus e Mnemosyne, a sua volta anch’essa un’oceanina.58 In entrambi i casi, emerge il nesso genetico con Oceano, il primo ad essere creato nell’incontro fisico tra Gaia e Urano.59 Una figlia o comunque una discendente di Oceano poteva dunque essere denominata Ourania. L’attributo pertanto può perfettamente celare un’eco della tradizione attica, riportata da Pausania, che assegnava ad Oceano la paternità della Nemesis di Ramnunte.60 A queste osservazioni deve aggiungersi anche il fatto che un’Afrodite Ourania era onorata nell’agora, nei pressi dell’Hephaisteion, con chiare competenze relative all’ambito della procreazione, derivanti dalla prerogativa riconosciuta alla dea di riuscire a unire sfere distanti come il cielo e la terra (per l’appunto, Urano e Gaia), il sesso maschile e quello femminile.61 Si tratta di caratteristiche che tale divinità sembra in qualche modo condividere con la Nemesis di Ramnunte, e nella fattispecie con il ruolo riconosciuto a questa potenza nella protezione dell’oikos legittimo e, come vedremo, della costruzione dei futuri cittadini ateniesi. Più di questo, lo stato attuale della documentazione non consente di dire, né tantomeno si può giungere ad affermare che
54 Secondo Stafford 2000, 93–94 si tratterebbe di una divinità distinta da quella di Ramnunte. 55 Bonnet/Bianco et al. 2018, 578. 56 Alla funzione di tutela e protezione della città appare collegata la menzione di Era Ourania, invocata, insieme ad altre divinità, a Cos, I.Cos Segre EV 6, 127 e 199. Su Era come tramite per ottenere una legittima integrazione nel circolo degli dèi Olimpî, cfr. Pirenne-Delforge/Pironti 2016, 271–272. 57 Hes. Theog. 176–200. Sul nesso tra questa denominazione e il racconto esiodeo, cfr. Pironti 2021. 58 Hes. Theog. 78; 350. 59 Hes. Theog. 134. 60 Paus. 1.33, 3. 61 Paus. 1.14.7. Vedi discussione in Pirenne-Delforge 1994, 19–21 ed Ead. 2005, 280.
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la Nemesis Ourania fosse una variante ateniese di quella di Ramnunte.62 Quanto possiamo limitarci ad affermare è solo che tale denominazione può comprendersi alla luce del contesto attico che riconosceva alla dea una prestigiosa ascendenza preolimpica, affrancandola dalla parentela con la progenie caotica e minacciosa di Notte. Il privilegio accordato a tale tradizione deve ritenersi sottinteso anche nel ricorso, in contesti diversi da quello attico, all’epiteto Rhamnusia. È principalmente all’interno del mondo romano che Nemesis venne celebrata con esplicito riferimento al santuario attico. Già in età repubblicana, Catullo, che aveva viaggiato a lungo al seguito del governatore della Bitinia Gaio Memmio, e che probabilmente aveva imparato a conoscere i tratti del culto greco di Nemesis, la ricorda nei suoi carmi come rhamnusia virgo, con un richiamo evidente all’Inno ad Artemide di Callimaco, in cui con lo stesso aggettivo il poeta si riferisce alla figlia Elena.63 Come rhamnusia, inoltre, Nemesis è menzionata tanto da Ovidio, quanto successivamente da Stazio. Entrambi i poeti pongono l’accento sull’aspetto vendicativo e sanzionatorio della divinità.64 Tale capacità sanzionatoria è parimenti rappresentata anche nell’epicedio in onore di Annia Regilla, conservato su due stele rinvenute a Roma, nel parco della Caffarella, in quella che, un tempo, era la tenuta del funzionario imperiale Erode Attico e della moglie. Qui, in un’area santuariale denominata Triopio, con chiaro richiamo al santuario di Demetra a Cnido, conosciuto all’epoca dell’attività svolta come corrector delle città libere d’Asia, l’Ateniese fece costruire un vero memoriale in onore della defunta moglie di cui, molto probabilmente, aveva causato la morte.65 Il poema in esametri consta di due parti, conservate su due differenti stele. La prima (Stele a) reca un panegirico delle virtù della donna, della sua ascendenza e il ricordo del profondo lutto che toccò al marito per la sua perdita, tanto che lo stesso Zeus insieme all’imperatore si mossero a pietà di fronte a tanta disperazione. La seconda parte (Stele b), invece, invita la dea Atena e la Rhamnousia Oupis a onorare della loro presenza anche l’area sacra del Triopio romano, e a voler vigilare sull’inviolabilità del luogo, allargando così il loro raggio d’azione dalle contrade dell’Attica fino alle porte di Roma. Il riferimento a Nemesis è chiaro, non solo per il tramite di Ramnunte, specificamente menzionata, ma grazie alla ripresa del teonimo della divinità qualche verso più avanti (v. 93).
Kajava 2000, 47–48, partendo dalla considerazione che la datazione di IG II2 5070 può spingersi fino all’età severiana, suggerisce che il sacerdozio maschile della Nemesis Ourania menzionata nei sedili del teatro di Dioniso possa riferirsi a una versione o a una delle versioni della Nemesis ateniese, il cui culto sarebbe stato, a quell’epoca, introdotto, modificato o rilanciato. 63 Call. Hymn. 3.232 cum schol. e Catull. 64, 395; 66, 71; 68, 77. Sul ruolo di Nemesis nei carmi di Catullo, cfr. Skinner 1984. Cazzadori 2015, 137–141 ha tentato di rintracciare nei versi di Callimaco, e in particolare nei frammenti pervenutici dalla Chioma di Berenice, tradotta dallo stesso Catullo, tracce della competizione tra Lagidi e Antigonidi in Grecia, nel periodo successivo alla guerra cremonidea. 64 Ov. Met. 3.403–406; 14.693–694; Trist. 5.8, 3–12; Stat. Silv. 2.6, 73–78. 65 Per una rapida sintesi della vicenda Pomeroy 2007, 119–129. 62
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Il testo della stele B, sapientemente intessuto di riferimenti alla tradizione mitica, merita di essere letto per intero, poiché sembra rivelare – senz’altro, grazie a un’efficace cooperazione tra poeta e committente – tratti fondamentali del profilo attico di Nemesis e della sua intepretatio romana: Stele B 60 πότνι’ Ἀθηνάων ἐπιήρανε Τριτογένεια ἥ τ’ ἐπὶ ἔργα βροτῶν ὁρά̣αις Ῥαμνούσιας Οὖπι γείτονες ἀγχίθυροι Ῥώμης ἑκατοντοπύλοιο, πείονα δὴ καὶ τόνδε, θεά, τιμήσατε χῶρον, δῆμον Δηῳοῖο φιλόξεινον Τριόπαο. 65 τόφρα κε καὶ Τριόπειαι ἐν ἀθανάτοις ἀλέγησθον̣. ὡς ὅτε καὶ Ῥαμνοῦντα καὶ εὐρυχόρους ἐς Ἀθήνας ἤλθετε δώματα πατρὸς ἐριγδούποιο λιποῦσαι. ὣς τήνδε ῥώεσθε πολυστάφυλον κατ’ ἀλωὴν λήιά τε σταχύων καὶ δένδρεα βοτρυόεντα 70 λειμώνων τε κόμας ἁπαλοτρεφέων ἐφέπουσαι. ὔμμι γὰρ Ἡρῴδης ἱερὴν ἀνὰ γαῖαν ἕηκε τὴν ὅσσην περὶ τεῖχος ἐύτροχον ἐστεφάνωται, ἀνδράσιν ὀψιγόνοισιν ἀκινήτην καὶ ἄσυλον ἔμμεναι. ἣ δ’ ἐπί οἱ ἐξ ἀθανάτοιο καρήνου 75 σμερδαλέον σίσασα λόφον κατένευσεν Ἀθήνη. μή τωι νηποινὸν βῶλον μίαν ἢ ἕνα λᾶαν ὀχλίσσαι, ἐπεὶ οὐ μοιρέων ἀτρεῖς ἀνάγκαι, ὅς κε θεῶν ἑδέσσιν ἀλιτροσύνην ἀναθήῃ. κλῦτε περικτίονες καὶ γείτονες ἀγροιῶται. 80 ἱερὸς οὗτος ὁ χῶρος, ἀκίνητοι δὲ θέαιναι καὶ πολυτίμητοι καὶ ὑποσχεῖν οὖας ἕτοιμαι· μηδέ τις ἡμερίδων ὄρχους ἢ ἐ’ ἄλσεα δενδρέων ἢ ποίην χιλῶι εὐαλδέι χλῶρα θέουσαν δμωὴν κυανέου Ἄιδος ρήξιε [πήξειε] μάκελλαν 85 σῆμα νέον τεύχων ἠὲ πρότερον κεραίζων. οὐ θέμις ἀμφὶ νέκυσσι βαλεῖν ἱρόχθονα βῶλ, πλὴν ὅ κεν αἵματος ἦισι καὶ ἐκ γένος ἑσσαμένο. κείνοις δ’ οὐκ ἀθέμιστον, ἐπεὶ τιμάορος ἑστώρ. καὶ γὰρ Ἀθηναίη περ Ἐριχθόνιον βασιλῆα 90 νηῶι ἐνκατέθηκε συνέστιον ἔμμεναι ἱρῶν. εἰ δέ τωι ἄκλυτα ταῦτα καὶ οὐκ ἐπιπείσεται αὐτοῖ, ἀλλ’ ἀποτιμήσι, μή οἱ νήτιτα γένηται. ἀλλά μιν ἀπρόφατος Νέμεσις καὶ ῥόμβος ἀλάστω τίσονται, στυγερὴν δὲ κυλινδήσει κακότητα̣·
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οὐδὲ γὰρ ἴφθιμον Τριόπεω μένος Αἰολίδαο ὤναθ’, ὅτε νειὸν Δημήτερος ἐξαλάπαξεν. τῶι ἤτοι ποινὴν καὶ ἐπωνυμίην ἀλέ̣ασθα χώρου, μή τοι ἕπηται ἔπι Τρόπειος Ἐρινύς.
Signora di Atene, protettrice Tritogeneia e Rhamnousia Oupis che guardi sulle opere dei mortali, (voi che siete) presso l’ingresso di Roma dalle cento porte, onorate dunque anche questa feconda regione, o dee luogo ospitale del Triopio sacro a Deò. Affinché siate venerate anche come Triopie fra gli immortali, come quando giungeste a Ramnunte e ad Atene dalle larghe contrade, una volta lasciate le dimore del padre tonante. Così accorrete a questa vigna dai molti grappoli, essendo passate tra le messi ricche di grano, gli alberi pesanti di grappoli e le chiome dei prati fiorenti. Per voi, infatti, Erode consentì che quanta terra sacra potesse essere racchiusa entro un muro circolare, tanta fosse intoccabile per gli uomini delle prossime generazioni e inviolabile. A costui Atena scuotendo dal suo capo immortale, il cimiero terribile fece cenno di acconsentire. Nessuno sposti impunemente una sola zolla di terra, né una sola pietra, poiché è senza scampo la forza delle Moire per colui che commette sacrilegio nelle sedi delle dee. Ascoltate uomini del circondario e agricoltori vicini. Questo luogo è sacro, irremovibili le dee molto onorate e disposte a prestare ascolto. E nessuno nei filari di uva o nei boschi di alberi o nell’erba verdeggiante di rigoglioso foraggio affondi la zappa ancella dell’oscuro Ade, né per costruire una nuova tomba o distruggere una precedente. Non è lecito gettare sui defunti una zolla di terra sacra, eccetto per coloro che siano consanguinei o discendano dalla stessa stirpe; per quelli non è illecito, in quanto tutelati dal fondatore. Infatti, anche Atena dispose che proprio Erittonio nel tempio avesse parte ai sacrifici. Se poi qualcuno lascerà inascoltati questi precetti e non obbedirà ad essi, ma li disprezzerà, quest’ultimo non rimanga impunito. Ma Nemesis indicibile, ruota vendicatrice, lo puniranno, facendolo precipitare in una miseria terribile: Né infatti la forza coraggiosa di Triopa Eolide
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giovò, quando distrusse il maggese di Demetra. Fuggi quindi il castigo e non pronunciare il nome del luogo, perché non ti insegua l’Erinni del Triopio. IGUR III 1155
L’iscrizione, già oggetto di numerosi e dettagliati commenti ai quali si rinvia,66 si presta a essere esaminata a partire da diverse prospettive, prima fra tutte quella relativa alle modalità di costruzione di uno spazio sacro e di fabbricazione del divino. L’aspetto che emerge, con tutta evidenza, è la sinergia tra Atena e Nemesis che Erode Attico, forse in ragione della sua personale competenza religiosa, si sforza di replicare nel Triopio della Caffarella. Come un tempo, lasciate le dimore del padre Zeus, le due divinità onorarono della loro presenza Atene e Ramnunte, così sono esse chiamate a fare anche a Roma, dove prenderanno anche il nome di Triopie. Ad assicurare il favore divino all’iniziativa dell’Ateniese, è proprio la sua divinità poliade che, con un chiaro riferimento ai poemi omerici,67 è rappresentata mentre con il capo accorda il suo consenso alla costruzione dell’area sacra. A Nemesis, invece, è assegnato il compito di custodire l’inviolabilità del luogo e di punire coloro che ne alterano l’equilibrio sacro. Nemesis è identificata nell’incipit di questa parte del poema, come Rhamnousia Oupis. Il significato di tale denominazione è illustrato da quanto precede l’invocazione alla dea, nel primo emistichio del verso: ἥ τ’ ἐπὶ ἔργα βροτῶν ὁρά̣αις ovvero colei che sorveglia le opere dei mortali. In effetti, in questi termini la voce Oupis è spiegata nell’Etymologicum Magnum: : Ἐπίθετον Ἀρτέμιδος· ἢ παρὰ τὸ ὀπίζεσθαι τὰς τικτούσας αὐτήν· ἢ παρὰ τὴν θρέψασαν αὐτὴν Οὖπιν· ἢ διὰ τὰς ὑπερβορέας κόρας, Οὖπιν, Ἑκαέργην, Λοξὼ, ἃς ἐτίμησεν Ἀπόλλων καὶ Ἄρτεμις. Καὶ ἀπὸ μὲν τῆς Οὔπιδος, ἡ Ἄρτεμις οὖπις· λοξίας δὲ, καὶ ἑκάεργος, ἀπὸ τῶν ἄλλων [ὁ Ἀπόλλων]. Epiteto di Artemide: o per il fatto che si prende cura delle partorienti; o per la Oupis che la allevò; oppure per le fanciulle degli Iperborei, Oupis, Ecaerge e Lossia che Artemide e Apollo coprirono di onori. E da Oupis, Artemide è detta Oupis, Lossia ed Ecaergos è detto Apollo dalle altre. Etym. Magn. s. v. Oupis
La voce lessicografica fornisce diverse spiegazioni per l’epiteto Oupis di Artemide: la prima, in particolare, illustrata tramite il ricorso al verbo ὀπίζομαι “occuparsi, avere cura”, connette l’appellativo alla sfera di competenza della divinità ovvero quella di 66 67
Ameling 1983, II, n° 146, 153–159; Davies/Pomeroy 2012; Arena/Cassia 2016, 205–226 con traduzione in italiano del testo. Evidente l’allusione all’episodio della supplica di Teano nell’Iliade quando Atena con un cenno del capo rifiuta il suo appoggio ai Troiani (Hom. Il. 6.311).
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protettrice delle partorienti. Certo, non si può fare a meno di notare che la scelta di questo epiteto assegnato alla Rhamnousia poteva avere un risvolto ironico imprevisto, se si considera che, secondo la tradizione, la moglie di Erode Attico alla quale erano dedicati l’epicedio e l’area sacra della Caffarella aveva trovato la morte proprio per un parto prematuro, causato dalle percosse ricevute, quando era incinta, da parte di un liberto per ordine del marito.68 Ovviamente, un’intenzione del genere non poteva essere più lontana dalla mente del poeta, e di certo da quella del suo committente, ma è vero che l’attributo Oupis ha generato negli studi la diffusa convinzione che Nemesis fosse – per così dire – una sorta di alter ego di Artemide o addirittura che fosse un suo soprannome.69 Gli epiteti però non sono semplici etichette che si aggiungono alle divinità per segnalarne la somiglianza con altre meglio conosciute, il cui culto magari è diffuso in modo più capillare, oppure per indicarne una specifica variante locale. La formula teonimo + attributo onomastico racconta una storia, una rete di rapporti che cambia al solo mutare di uno degli elementi in gioco, e che va letta e compresa in relazione alla particolare vicenda mitica della divinità in questione, al contesto locale e cultuale e alle sue relative trasformazioni. La figura di Nemesis è qui invece chiamata in causa in relazione alla sua capacità di vedere, di esercitare un controllo sull’agire umano e, come emerge dagli ultimi versi del poema, di sanzionare le trasgressioni alle regole prestabilite. La sua prerogativa di regolare l’alternanza delle sorti prende la forma concreta di un attributo che la identifica come ῥόμβος ἀλάστω (v. 93), una sorta di trottola demoniaca, che trasforma il già destabilizzante volgersi della fortuna in una spirale vertiginosa e assordante, che trascina l’uomo verso la perdita di sé.70 Il Triopio voluto da Erode, il cui stesso nome rappresenta un presidio e una tutela tridimensionali sul territorio, sulle strutture che vi sono state create e sul paesaggio, è dunque un luogo immutabile e inviolabile, edificato grazie al favore di Atena. Qui una Nemesis venuta da lontano, e indicibile (ἀπρόφατος), garantisce il rispetto delle norme e l’inviolabilità dello spazio sacro. La potenza di questa figura, che a Ramnunte era affiancata da Themis,71 viene armonicamente innestata sul suolo romano, dove, in forza
68 Philostr. 2.1. 555. 69 Welcker 1857–1863 (II), 394–395; Posnansky 1890, 23–26; Farnell 1896 (II), II 487. 70 Il rhombos è annoverato tra i giocattoli (athyrmata) con cui i Titani distrassero Dioniso prima dello sparagmos. La lista, in cui figurano anche altri oggetti, è riportata in un frammento di Orfeo, citato da Clemente Alessandrino nel Protrettico (2.17, 2–18,1), dove egli li definisce «vani symbola di iniziazione». Un’analisi di questi oggetti è stata proposta da Levaniouk 2007 che ne ha messo in rilievo la relazione con il suono acuto e l’effetto rotante che producono, interpretandoli come symbola iniziatici che evocano la mania dionisiaca. L’alastor è invece ricordato nelle fonti come un’entita sovrannaturale che perseguita colui che si è macchiato di omicidio rendendo indimenticabile il crimine e colui che lo ha commesso (Plut. De defect. orac. 418c 1; Quaest. graec. 297a 6. Sull’alastor, rinvio a Parker 1983, 106–109; Johnston 1999, 129–160. 71 Cfr. infra p. 201 e ss.
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delle sue capacità di controllo e di ascolto (v. 81), è in modo inequivocabile accolta come garante e tutrice di quanto è lecito fare e di quanto non lo è (v. 86: οὐ θέμις …). Si vede dunque come gli attributi onomastici adottati per Nemesis servano, presto o tardi, a disegnare la sua rete di competenze, sottolineandone la capacità di ascolto e di controllo sulla parola (epekoos) e sulle azioni umane, grazie a uno sguardo lungo e penetrante (oupis) che dall’alto (ourania) favorisce l’esercizio di una giustizia (hyperdikos), che giunge immancabilmente (adrasteia) a rovesciare le sorti dei mortali (rhombos alastor).
Capitolo sesto Dall’onore al valore. Nemesis e la giustizia del merito in Aristotele
1. L’orizzonte omerico della nemesis nella riflessione aristotelica L’emozione della nemesis, distinta con chiarezza dal teonimo, riveste un ruolo centrale all’interno della teoria della giustizia di Aristotele, la cui analisi, se contestualizzata nel quadro del suo pensiero politico, può favorire una migliore comprensione dei significati che i Greci attribuivano al termine e delle prerogative che riconoscevano alla divinità. Nell’Etica Eudemia, Aristotele colloca in un passato lontano la definizione di tale emozione, affermando che nemesis consisteva, per gli antichi (ὃ ἐκάλουν οἱ ἀρχαῖοι τὴν νέμεσιν), nell’afflizione per le sventure e le fortune immeritate (παρὰ τὴν ἀξίαν) e nella capacità di gioire dei successi meritati (ἐπὶ ταῖς ἀξίαις). All’imperfetto con cui si rinvia alla riflessione antica, fa da contrappunto quanto segue, con il ritorno all’attualità del presente: «[…] si ritiene che Nemesis sia una divinità ([…] θεὸν οἴονται εἶναι τὴν νέμεσιν)».1 La menzione di nemesis come πάθος torna poi in altre opere del corpus aristotelico ma, nel passo appena riportato, l’utilizzo di due differenti tempi verbali suggerisce la convinzione da parte del filosofo che all’identificazione dell’emozione da parte degli antichi occorra assegnare un carattere di precedenza2 rispetto al culto della divinità. A questo aspetto però egli però non dedica che un paio di accenni cursori,3 ritenendo in sostanza utile soltanto la prima per il suo ragionamento. Il perno su cui è incentrata la sua nozione di nemesis attribuita agli Antichi, come emerge dalla lettura del passo appena proposto, è la relazione con il merito che ne fa
1 Arist. E.E. 3.1233b, 22–26. 2 Konstan 2006, 127–128 segnala molto opportunamente il recupero di questa emozione «old-fashioned» dal passato. 3 Ancora nel II libro della Retorica, in un passo su cui si tornerà in maniera estensiva nel corpo del testo, Aristotele dichiara genericamente che di solito la capacità di provare la nemesis (to nemesan) si attribuisce agli dèi (Rhet. 2.9, 1386b, 13–14).
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un pathos articolato e complesso, costituito tanto della capacità di gioire delle fortune meritate degli altri (ἐπὶ ταῖς ἀξίαις), quanto di soffrire di fronte ai successi immeritati. La gioia (χαίρειν) e il dolore (λυπεῖσθαι) per Aristotele possono quindi coesistere in una unica pulsione emotiva generata dal mutamento immeritato della sorte di un individuo sia in positivo sia in negativo. Nell’Etica Nicomachea, però il pensiero aristotelico si discosta da questa visione, presentando in modo più articolato la nemesis come una “medietà” tra lo phthonos, l’invidia cioé, e l’epichairekakia, ovvero quella forma di malevolenza che porta l’uomo a gioire delle disgrazie altrui.4 Nel secondo libro della Retorica, infine, all’interno di un’analisi sistematica e puntuale sulle pulsioni che il buon oratore deve essere in grado di sollecitare nell’uditorio, il senso della nemesis figura quale snodo fondamentale all’interno di una rete costruita su quattordici pathe, ordinati secondo reciproche relazioni di complementarità, analogia e opposizione. In questo catalogo, nemesis è menzionata, per la prima volta, nella rubrica dedicata alla vergogna (αἰσχύνη), intesa come forma di sofferenza individuale che si ingenera rispetto ad azioni colpevoli riferite al passato, al presente e al futuro e capaci di arrecare disonore.5 Dopo avere esaminato la disposizione d’animo che sollecita la vergogna, Aristotele passa a indicarne le cause e puntualizza, citando un proverbio: «la vergogna risiede negli occhi».6 Egli individua così in quanto accade alla luce del sole, quelle situazioni che la scatenano. Riconosce poi nelle persone intransigenti, quelle rispetto alle quali ci si vergogna di più, perché – aggiunge – «si ritiene che un uomo non si indigni (οὐ νεμεσᾶν) con gli altri per le azioni che egli stesso compie, e di conseguenza, è chiaro che è per le azioni che non compie che si indigna (νεμεσᾷ)».7 Egli ripropone così il tradizionale binomio omerico vergogna/indignazione,8 riconoscendo nella complementarità dei due pathe un legame che passa attraverso il vedere e l’essere visti. Sostituisce però al concetto di aidos,9 il termine aischyne. Successivamente procede con l’analisi della charis, per passare poi alla compassione, approdando finalmente alla trattazione, e questa volta in extenso, dell’indignazione: to nemesan. Secondo la consueta logica oppositiva su cui si articola la presentazione delle diverse pulsioni emotive all’interno dell’opera, Aristotele la distingue dalla compas-
4 Arist. E.N. 2.1108b 1–3: νέμεσις δὲ μεσότης φθόνου καὶ ἐπιχαιρεκακίας. «L’indignazione poi è una medietà tra invidia e malevolenza». Le traduzioni dei passi tratti dall’Etica Nicomachea e dall’Etica Eudemia, con qualche leggera modifica, sono a cura di Fermani. 5 Arist. Rhet. 2.6 1383b 10–15. La traduzione dei passi della Retorica di Aristotele, benché talora leggermente modificate, sono a cura di Dorati. 6 Ibid., 1384a 33–34. 7 Ibid., 1384b 4–5. 8 Ibid., 1384b 1–4. 9 Il senso dell’aidos ha comunque un posto nella riflessione etica di Aristotele come espressione di un pudore legato alla saggezza (EE 3.7, 1234 a 32).
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sione (ἔλεος): se la capacità di provare pietà (to eleein) esprime quindi il dolore per le sventure immeritate,10 a sua volta, l’indignazione (to nemesan) è circoscritta al dolore per le fortune immeritate. Entrambe, ancora una volta, ruotano intorno alla nozione di merito ed entrambe sono attribuite ad un animo nobile. Aristotele passa poi a distinguere la nemesis da un’altra manifestazione emotiva ad essa connessa, individuata nello φθόνος: un difetto tipico di un’indole malvagia che si sostanzia dell’invidia nei confronti delle fortune di persone di «simile e di pari condizione» (isos kai homoios), con chiaro riferimento allo status sociale. Tanto la compassione, quanto l’indignazione e l’invidia sono caratterizzate dal fatto di interessarsi a persone vicine. Come per ogni emozione, anche per l’indignazione Aristotele procede indicando le tipologie di individui e la disposizione d’animo che la sollecitano. Il nemesan non ha mai come bersaglio un uomo che acquista virtù, giustizia e coraggio, essendo questi ultimi beni «che si possiedono per natura».11 Essa si concentra piuttosto su quelli di cui sono degni gli uomini nobili come ploutos e dynamis, ricchezza e potere. Dal momento che i beni che si possiedono da lungo tempo assomigliano a quelli che si possiedono per natura, l’indignazione sarà diretta piuttosto verso coloro che hanno acquisito ricchezze e cariche pubbliche da tempi più recenti.12 Aristotele si fa così palesemente promotore di una polemica sociale diretta verso i «nuovi ricchi» (οἱ νεόπλουτοι) e coloro che da poco sono stati investiti di cariche pubbliche, «poiché essi infastidiscono di più di coloro che sono ricchi e che governano da lunga data».13 Il motivo di fondo è che questi ultimi, diversamente dagli altri, sembrano possedere quel che spetta loro in base al merito. La nemesis appare dunque nella riflessione aristotelica un’emozione «top-down»,14 espressa cioè da un individuo in base a una supposta superiorità morale o sociale nei confronti di un altro individuo considerato inferiore. Il filosofo lo sostiene con forza, fornendo al lettore anche un parametro in più per la determinazione di tale condizione di superiorità e, nella fattispecie, quando fa esplicito riferimento alla proporzione e alla convenienza che dovrebbero accompagnare la distribuzione dei beni:
10 Arist. Rhet. 2.9, 1386b 16–20: δόξειε δ’ ἂν καὶ ὁ φθόνος τῷ ἐλεεῖν τὸν αὐτὸν ἀντικεῖσθαι τρόπον, ὡς σύνεγγυς ὢν καὶ ταὐτὸν τῷ νεμεσᾶν, ἔστι δ’ἕτερον· λύπη μὲν γὰρ ταραχώδης καὶ ὁ φθόνος ἐστὶν καὶ ἐπὶ εὐπραγίᾳ, ἀλλ’ οὐ τοῦ ἀναξίου ἀλλὰ τοῦ ἴσου καὶ ὁμοίου. «Anche l’invidia potrebbe sembrare nello stesso modo, contrapposta alla compassione – in quanto prossima o identica all’indignazione – ma è in realtà differente; anche l’invidia è una forma di sofferenza che sconvolge l’animo ed è diretta contro la felicità, ma non quella della persona che non la merita, bensì quella di una simile e di pari condizione». 11 Arist. Rhet. 2.9, 1387a 14. 12 Arist. Rhet. 2.9, 1387a 15–16. 13 Ibid., 1387a 8–23. 14 Konstan 2006, 125.
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E dal momento che ogni bene non spetta al primo che capita, ma si trovano in questo una certa proporzione e una certa convenienza (ἀναλογία καί τι ἁρμόττον) – armi belle per esempio non sono adatte all’uomo giusto, ma a quello coraggioso, matrimoni illustri non ai nuovi arricchiti, ma ai nobili – il fatto che una persona, pur essendo di valore, non ottenga ciò che le si addice può provocare l’indignazione (νεμεσητόν); e anche quando l’inferiore si oppone al superiore, soprattutto riguardo a quel che hanno in comune. Per questo si è detto: “Ma evitava la lotta con Aiace Telamonio; perché Zeus si sarebbe sdegnato con lui, se avesse combattuto con un uomo più forte (οἱ νεμέσασχ’, ὅτ’ ἀμείνονι φωτὶ μάχοιτο)” Altrimenti, nel caso in cui l’inferiore si opponga al superiore su qualunque fronte, come ad esempio, se un musicista si oppone a un uomo giusto, in quanto la giustizia è superiore alla musica. Arist. Rhet. 2.9, 1387a 26–34
Stando al passo appena citato, non tutti i beni sono adeguati a individui di valore, ma è opportuno che essi siano in relazione a un determinato tipo di virtù. Aristotele introduce così una nozione di merito, relativa non solo al bene, ma all’individuo e alla virtù di cui è portatore. Per sostenere il suo ragionamento riporta proprio due versi dell’Iliade (il secondo non compare però in nessuno dei manoscritti giunti fino a noi), in cui l’eroe cretese Idomeneo si astiene dal confronto in armi con Aiace per evitare la nemesis di Zeus che si sarebbe indignato a vederlo combattere contro uno più forte. Il timore dell’indignazione divina interviene, in questo caso, come misura preventiva a risolvere una situazione di conflitto, in un contesto altamente competitivo. Alla nemesis viene dunque attribuita una sorta di funzione arbitrale e normativa che denuncia la rottura di un equilibrio tra chi è ritenuto inferiore e chi invece si considera superiore.15 La menzione dei versi omerici inoltre rivela con chiarezza qual è il passato cui fa riferimento il filosofo, quando attribuisce agli antichi l’identificazione della nemesis quale pulsione emotiva. Come sostiene David Konstan, la distinzione tra phthonos e nemesis, proposta da Aristotele, non ha riscontri nella produzione letteraria di età arcaica.16 Phthonos, quasi assente in Omero e anche in Esiodo,17 ricorre invece nella poesia lirica
15 Alla nemesis e all’aidos è stata riconosciuta la capacità di iscrivere gli individui su un orizzonte cooperativo, in contrasto con quanto sosteneva Adkins 19872[1960], convinto che, all’interno della società omerica, interpretata, sulla scia di Dodds 2005 [1951], quale “civiltà della vergogna”, gli eroi fossero più portati al raggiungimento del successo, a scapito degli altri: per una critica sistematica alle posizioni di Adkins sull’etica omerica, cfr. Long 1970. 16 Konstan 2006, 123–124. 17 In Omero ed Esiodo è presente la forma verbale phthoneo e, per lo più con il significato di negare o impedire (Il. 4.55; Od. 1.346; 6. 68; 11.381; 17.400; 18.16; 19.348; Hes. Op. 26). Una volta sola ricorre nell’Odissea, la forma epiphthoneo: 11.149.
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e nelle orazioni, assumendo in età classica una connotazione negativa.18 In Erodoto, come si è già visto, è un’attitudine propriamente divina che segnala un’interruzione nelle corrette relazioni tra mortali e immortali e, diversamente da quanto sostenuto da Aristotele, insorge spesso nell’ambito di rapporti di tipo verticale tra il mondo degli uomini e quello degli dèi. Al contrario, il ricorso al sostantivo nemesis e ai verbi ad esso associati, al di fuori del corpus aristotelico, è estremamente raro e per lo più attestato su fonti di provenienza ateniese:19 l’uso che il filosofo ne fa sembra potersi riferire all’orizzonte omerico. Aristotele sembra recuperare la nemesis quale emozione, fondamentalmente pertinente a un contesto eroico e aristocratico.20 Egli la rifunzionalizza però, nel quadro più ampio di una riflessione sulla giustizia incentrata, non più su una time in astratto connessa al valore individuale, ma su un merito individuato nel concreto di specifiche contingenze e situazioni. 2. La nozione di merito e l’applicazione del dianemetikon dikaion Nel V libro dell’Etica nicomachea, la nozione di merito è chiamata in causa all’interno dell’analisi della dikaiosyne, la virtù della giustizia: «quello stato abituale cioè da cui si è resi in grado di compiere azioni giuste».21 Aristotele distingue tra la giustizia che rappresenta la virtù nella sua interezza e le sue forme particolari. La prima consiste «nella distribuzione di onori, di ricchezze e di qualsiasi altra cosa possa essere distribuita tra i membri della comunità politica»:22 una giustizia, quindi, di carattere distributivo che regola i rapporti tra il cittadino e la polis (διανεμητικὸν δίκαιον).23 Il secondo tipo di giustizia particolare è invece quello che «apporta correzioni» a livello dei rapporti privati, volontari e involontari, cioè la giustizia correttiva (διορθωτικὸν δίκαιον).24
Sull’uso strumentale dello phthonos nell’oratoria attica, cfr. Sanders 2012, 374–379; Sanders 2014, 79–99. 19 Al di là dei poemi omerici e di quelli esiodei, il sostantivo nemesis, talora con riferimento alla dea omonima, e le voci verbali denominative ricorrono, come si è visto, con scarsa frequenza in epoca arcaica e classica per essere poi ripresi successivamente: lo abbiamo ritrovato per esempio nel corpus theognideum (1.280; 660; 1182); in Pindaro (Ol. 8.86; Pyth. 10.44; Isth. 1.3); come hapax in Erodoto (1.34); e, come si è già visto, nove volte nel corpus tragico (Aesch. Sept. 235; TrGF 3, Fr. 266; Soph. Phil. 518; 602; 1193; El. 1467; Eur. Or. 1362; Phoen. 182; TrGF 5.2, 1113a). Nell’oratoria l’uso del termine e delle voci verbali derivate è abbastanza sporadico (cfr. Dem. 20.161; 45.71, 2; Aesch. Ep. 10.8, 8; In Ctesiph. 66, 3), mentre ricorre con maggiore frequenza nei dialoghi platonici (Crat. 401a 5; Theaet. 175e 2; Symp. 195a 6; Euth. 282b 4; Min. 319a 3; Leg. 684e 4; 717d 3 [con riferimento alla divinità]; 853d 1; 876d 1; 927c 1; 943e 2). 20 Secondo Konstan 2006, 127–128, il recupero e la valorizzazione del to nemesan da parte di Aristotele va letto in diretta connessione con l’importanza assunta dal culto della dea Nemesis a Ramnunte. 21 Arist. E.N. 5.1, 1129a 7–8. 22 Ibid., 1130b 30–33. 23 Ibid., 1131b 27. 24 Ibid., 1131b 25–27. 18
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Nel primo caso, che è quello che nell’ambito di questo studio interessa maggiormente, il giusto è frutto di una proporzione di tipo geometrico che stabilisce un’uguaglianza tra gli individui, in relazione alle cose: a individui uguali andranno beni uguali; a individui disuguali, beni disuguali. Il mancato rispetto di tale proporzione e quindi del rapporto tra i diversi individui dà luogo a scontri e rivendicazioni. «Il concetto – precisa Aristotele – risulta chiaro anche dal principio della distribuzione secondo il merito (κατ᾽ἀξίαν)».25 Nell’ambito delle distribuzioni, infatti, è opinione comune che si debba procedere secondo il merito, ma quest’ultimo non è inteso da tutti allo stesso modo. Per i democratici, infatti, il merito consiste nella libertà; per gli oligarchici nella nobiltà di nascita e nella ricchezza; per gli aristocratici nella virtù.26 Aristotele ammette così un concetto fluido e cangiante di merito relativo al contesto e alla comunità politica che ne stabilisce i parametri e, come abbiamo visto poco fa nella Retorica, alla virtù specifica di cui tale merito è espressione. È vero però che se più immediata è la comprensione di cosa sia il merito nelle comunità oligarchiche e in quelle aristocratiche, in cui la nobiltà di stirpe o il riconoscimento di una virtù specifica possono giustificare l’attribuzione di una carica, meno evidente è l’individuazione di esso all’interno di contesti democratici, dove l’eleutheria consente solo una non perspicua differenza tra liberi e non liberi, e mette tutti i cittadini sostanzialmente sullo stesso piano. Se tutti, quindi, sono uguali come può esservi una distinzione in base al merito? Aristotele, infatti, non esita a precisare, nella Politica, che la giustizia democratica consiste nell’avere un’uguaglianza basata sul numero e non sul merito.27 Al termine della presentazione di questi due tipi particolari di giustizia, aggiunge una riflessione sul dikaion reciproco che regola la correttezza degli scambi, assicurando così compattezza alla polis.28 Obiettivo di questo genere di giustizia è di assicurare che, nel processo di contraccambio, nessuna delle parti in causa abbia a subire alcun danno, facendo ricorso a un dispositivo che consenta di misurare valori differenti. Per questo, spiega Aristotele, si è fatto ricorso alla moneta (nomisma), lo strumento privilegiato che, in forza di una legge (nomos), assicura la comparabilità di beni e/o servizi e garantisce la correttezza dello scambio. Nel primo libro della Politica,29 inoltre, Aristotele insiste sugli altri vantaggi della moneta: questo strumento, adottato per agevolare gli scambi e la circolazione, ha il pregio di essere maneggevole e affidabile proprio grazie allo stampo (semeion), che ne indica con precisione il valore. La riflessione aristotelica, quindi, interviene a illustrare con chiarezza il nucleo che sta alla base di termini come nomos e nomisma da un lato, e dianemetikon dikaion e nemesis, dall’altro, incentrati tutti intorno alla nozione di valore o di merito, quale princi-
25 Ibid., 1131a 10–24. 26 Ibid., 1131a 20–30. 27 Arist. Pol. 6.2, 1317b 1–5. 28 Arist. E.N. 5.8, 1132b 29. 29 Arist. Pol. 1.9, 1257a 30-b 15.
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pio fondante di una distribuzione che mantenga la coesione comunitaria, eviti conflitti e rivendicazioni e garantisca la pace sociale. Se il nomos è l’atto giuridico che attribuisce valore, il nomisma ne è l’esito, nella misura in cui rappresenta uno strumento di valutazione (esattamente un meson, come lo definisce Aristotele30) a disposizione del dianemetikon dikaion,31 di una giustizia distributiva cioè che, se non rispettata, necessita l’innescarsi della nemesis. Coerentemente con il suffisso –sis del termine e con l’analisi fornitaci da Aristotele, la nemesis si rivela essere allora un processo emotivo, frutto di una complessa valutazione da parte di chi si trova in una posizione di superiorità; un’emozione che sollecita a una distribuzione più efficace di quei beni, come per l’appunto ploutos e dynamis, su cui soprattutto si basavano le distinzioni sociali. Ecco che, benché recuperata dal mondo omerico e rifunzionalizzata su un orizzonte poleico, l’emozione della nemesis, che i Greci dell’età di Aristotele solevano venerare come una divinità, si presenta con un profilo diverso, ancora più complesso, che ha a monte, più che la semplice constatazione di una time non rispettata, l’atto di assegnare un valore (nomizein). La time, prima prestigioso contrassegno del talento militare e della nobiltà di nascita, diventa per lo più corollario e misthos della giustizia.32 Nell’ambito della democrazia ateniese, in quanto tale, dove tutti erano liberi e uguali, in teoria per Aristotele non c’era spazio per una distinzione basata sul merito. Come interpretare questo apparente paradosso? Come spiegare che proprio nell’ambito della comunità presso la quale Nemesis aveva il suo centro di culto più importante, scarsa rilevanza poteva essere attribuita al merito? La prima risposta – forse banale – che viene di dare a questo interrogativo, è che altro è il merito religioso, basato com’è nel mondo antico sulla riverenza nei confronti degli dèi e sull’adesione corretta alle prassi rituali; altro ancora invece sono i meriti riconosciuti nella sfera politica e giuridica che, di certo, le diverse poleis e i diversi ordinamenti costituzionali concepivano in modo differente, come sostiene Aristotele. Resta ad ogni modo la questione di fondo che è giunto ora il momento di affrontare nel dettaglio: cosa significava per gli Ateniesi onorare Nemesis o – per dirlo nella lingua dei Greci – nomizein ten Nemesin33 30 Arist. E.N. 5.1133a 20. 31 Sul rapporto tra i termini derivanti dalla radice nem- e sul rapporto con la giustizia di tipo distributivo, cfr. Laroche 1949 e Will 1954, 28. 32 Cfr. Arist. EN 5.9 1134b 5–8. 33 Questa espressione non esiste come tale nelle fonti. Pausania, tuttavia, in riferimento alla pratica cultuale degli Smirnei che onoravano due Nemesis invece di una, fa ricorso ad essa in maniera analoga: δύο Νεμέςεις νομίζουσιν ἀντὶ μιᾶς (Paus. 7.53.3). L’espressione nomizein tous theous è stata oggetto di una recente analisi da parte di Pirenne-Delforge 2020, 161–186, che, prendendo le mosse da un celebre passo erodoteo (Hdt. 1.131), ha spiegato come il verbo nomizein seguito dal complemento oggetto, in generale, alluda all’operazione di annoverare qualcosa nel registro del nomos, della tradizione o, nel caso di comportamenti individuali, della consuetudine. Pertanto, la formula nomizein tous theous indica l’iscrizione degli dèi in tale registro che implica il fatto di riconoscerli come tali, rendendoli destinatari di una serie di atti concreti che ne costruiscono la pratica cultuale.
Capitolo settimo Vivere all’ombra di Nemesis 1. Il demo attico di Ramnunte: un quadro storico Situato nell’attuale località di Oviocastro, a circa cinquanta chilometri da Atene, sulla costa nordorientale dell’Attica, prospiciente l’Eubea, Ramnunte, era un demo della tribù Eantide1 che viveva, proprio in ragione della sua posizione geografica, isolata anche rispetto ai grandi assi viari, una condizione di grande marginalità, ma al tempo stesso di straordinaria rilevanza strategica (Fig. 2-3). Faceva parte dei cosiddetti «dèmes-cité», come li definisce P. Ismard, circoscrizioni ad alta densità di popolazione sin dall’epoca arcaica, con un abitato centrale di tipo urbano. I suoi demoti erano rappresentati nella boule ateniese da otto buleuti.2 Tracciarne un rapido excursus storico è funzionale a contestualizzare l’importanza del culto di Nemesis, tanto a livello locale, quanto a livello regionale e a ricostruire la base sociale e politica di coloro che frequentavano il santuario. Se per l’età arcaica è facile supporre che gli onori riservati a Nemesis si iscrivessero su un orizzonte locale, più difficile è ritenerlo per le epoche successive, quando l’interesse nei confronti di questa figura divina sembra crescere con il passare del tempo e assumere una rilevanza molto più ampia.3 Parallelamente anche la realtà demografica del demo di Ramnunte si fa, in stretta connessione con vicende storiche che investirono la Grecia delle poleis, via via più complessa, portando, a partire dalla metà del IV fino alla fine del III sec., all’avvicendarsi frenetico di diversi gruppi sociali che trasformarono questo demo della periferia dell’Attica in un microcosmo composito, attraversato da una eccezionale varietà di bisogni religiosi e di istanze politiche.4 Nelle fonti letterarie la prima menzione di 1 2 3 4
Dopo la riforma clistenica Ramnunte formava con Maratona, Oinoe e Tricorinto un’unica trittia all’interno della tribù Eantide: Traill 1975, 53, Table IX e Siewert 1982, 76. Ismard 2010, 90; Siewert 1982, 101–102. Sulla complessità delle dinamiche che intervengono nei processi di fondazione e di trasformazione dei santuari e sui diversi attori coinvolti, cfr., con una rassegna molto pertinente di casi studio, Polignac 2017. Uno studio interessante di un altro demo attico come “microcosmo” e come terreno privilegiato per esplorare le attività quotidiane degli Ateniesi è stato condotto da Ackermann 2018 su Aixone.
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Fig. 2 Mappa dei demi dell’Attica, Wikimedia Commons.
Ramnunte ricorre piuttosto tardi, ma una ricerca più attenta ai dettagli può aiutare a restituire il ruolo che questo villaggio della paralia ateniese, collocato nei pressi di una frontiera perennemente contesa tra Attica e Beozia, può avere svolto.5 Il territorio di Ramnunte deve essere stato precocemente coinvolto nelle vicende connesse alla difesa dell’Attica. Benché non menzionato in modo specifico nelle fonti, è difficile immaginare che esso non fosse stato coinvolto nelle vicende militari del 506 a. C. quando, come racconta Erodoto nel V libro delle Storie,6 gli Ateniesi furono minacciati nel loro territorio da una manovra a tenaglia, condotta dai Beoti e Calcidesi che, di concerto con il re spartano Cleomene, erano pronti ad invadere l’Attica. Mentre i primi attaccavano, prendendo di mira i territori presso il confine nordoccidentale, Oinoe e Isie, i Calcidesi – afferma lo storico in maniera piuttosto generica – «dall’altra parte assalivano le regioni dell’Attica» (ἐπὶ τὰ ἕτερα ἐσίνοντο ἐπιόντες χώρους τῆς Ἀττικῆς).7 Gli Ateniesi decisero però, in quell’occasione, di affrontare, in prima battuta, l’esercito peloponnesiaco, attestatosi ad Eleusi e di rimandare a un momento successivo la resa dei conti con Calcidesi e Beoti. Per fortuna, il potenziale aggressivo dei Peloponnesiaci si esaurì rapidamente a seguito di un ripensamento dei Corinzi e dell’altro re spartano 5 6 7
Cfr. Bearzot 1987. Una rassegna delle diverse testimonianze su Ramnunte si trova ora in Petrakos 2020 (VI), 250–267. Hdt. 5.74–77. Hdt. 5.74, 2. Su questo passo, cfr. le riflessioni di Bearzot 1987, 82.
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Fig. 3 Pianta del sito di Ramnunte (da Petrakos 1999a, 16, Eik. 7-leggermente modificata).
Demarato che seguiva la spedizione, ma questo episodio fu sentito – come precisa Erodoto – come una vera e propria invasione dell’Attica; la quarta volta, a suo dire, che i Dori andavano contro Atene.8
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Hdt. 5.76. Erodoto precisa che la prima aveva avuto luogo al tempo della fondazione di Megara, sotto il re ateniese Codro; la seconda e la terza all’epoca della cacciata dei Pisistratidi; la quarta quando Cleomene alla testa dei Peloponnesiaci attaccò Eleusi.
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In questo delicato frangente, in cui gli Ateniesi erano impegnati a proteggere il fronte occidentale dall’imminente attacco dell’esercito peloponnesiaco, è facile immaginare che, sul versante orientale, i territori devastati dalle razzie dei Calcidesi fossero proprio quelli della fascia costiera: Oropo e Ramnunte, in prima istanza. Scampato il pericolo, la reazione degli Ateniesi non si fece attendere, perché, come racconta sempre Erodoto, essi, spinti dalla voglia di vendicarsi, si volsero subito contro i Calcidesi. I Beoti allora corsero in loro soccorso sull’Euripo, inducendo gli Ateniesi a cambiare strategia e ad affrontarli per primi. Una volta riportata una significativa vittoria sui Beoti e catturati diversi prigionieri, gli Ateniesi conclusero in modo altrettanto efficace la partita con i Calcidesi, sconfiggendoli e occupando le terre degli aristocratici Ippoboti con quattromila cleruchi. È questa una pagina particolarmente gloriosa della storia ateniese che Erodoto commenta con entusiasmo, sottolineando la crescita della potenza della città, una volta archiviata l’esperienza della tirannide. L’episodio testimonia inoltre la capacità di reazione della polis di fronte al pericolo, amplificata da una pronunciata proiezione verso l’esterno che si concretizza nell’occupazione di nuovi spazi in territori contigui da punto di vista geografico, come quelli collocati in Eubea, e così vicini da rappresentarne idealmente una sorta di prolungamento. Purtroppo, non abbiamo modo di sapere quali demi fossero coinvolti nella composizione del contingente di cleruchi inviato dagli Ateniesi per occupare le terre dei Calcidesi Ippoboti, ma si può forse ipotizzare che la prossimità geografica abbia suggerito di delocalizzare al di là dell’Euripo gruppi di politai, residenti nella zona costiera, tra cui proprio alcuni dei demoti di Ramnunte, consentendo loro un agevole andirivieni tra il demo di provenienza e i territori occupati. Quel che sappiamo di certo è che questa prima esperienza cleruchica si esaurì davanti la minaccia persiana alla vigilia della battaglia di Maratona, quando gli Eretriesi – come racconta sempre Erodoto9 – trovandosi in difficoltà, a causa dell’approssimarsi dell’esercito persiano, chiesero soccorso agli Ateniesi. Questi ultimi non rifiutarono, ma mandarono loro in aiuto i cleruchi che si trovavano già sul posto. Gli Eretriesi, nella speranza di riuscire a trovare riparo oppure di trovare un accordo con i Persiani, dissero agli Ateniesi che sopraggiungevano in aiuto di tornare a casa loro, se non volevano essere rovinati. Essi, allora, passati ad Oropo, si misero in salvo, mentre Eretria fu assediata dai Persiani. La velocità con cui i quattromila cleruchi sgomberarono, potrebbe ancora una volta indicare che fra essi ci fossero un gran numero di residenti dei territori prossimi alla costa. Il demo di Ramnunte dovette poi essere drammaticamente interessato anche dalla spedizione di Serse contro la Grecia quando, mentre l’esercito di terra del Gran Re devastava l’Attica e dava Atene alle fiamme, la flotta salpava dall’Eubea, saccheggiando i territori della paralia.10
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Hdt. 6.100–101. Diod. 9.14, 5.
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La fine delle guerre persiane favorì la ripresa su nuove basi dell’espansionismo ateniese, la cui forza era assicurata dalla nuova posizione assunta dalla polis attica nella difesa delle libertà dei Greci. L’attenzione degli Ateniesi si volse, come era naturale, verso quelle aree che erano state tradizionalmente nella loro sfera di interesse, sin dall’epoca dei tiranni. Il controllo che, nel corso del V sec., gli Ateniesi riuscirono – nonostante alcuni episodi di insofferenza da parte degli alleati – a costruire nella zona dell’Egeo settentrionale fu talmente solido e organizzato che, nonostante la disfatta subita nel corso della guerra del Peloponneso, alcuni territori come quelli di Lemno, Imbro e Sciro, continuarono a essere percepiti di pertinenza ateniese, fino ad essere riconosciuti come un possesso della città nelle clausole della pace di Antalcida.11 Nell’occupazione di Lemno dell’inizio del V sec. sappiamo che vennero coinvolti anche i Ramnusî, come testimonia la dedica dell’elmo rinvenuto nella cisterna del santuario di Nemesis, di cui si è parlato proprio nelle prime pagine di questo volume.12 La natura della dedica fa pensare a un’occupazione militare del territorio di Lemno in cui gli Ateniesi di Ramnunte parteciparono in maniera attiva, lasciandone poi memoria nell’area sacra dedicata alla divinità più importante del demo, destinata ad essere accolta qualche anno più tardi, in una nuova struttura templare che, collocata al culmine di una via sacra, dominava dall’alto tutto il demo, godendo di una posizione di massima visibilità su tutta la regione. L’inizio della guerra del Peloponneso, a seguito della quale si innescò un processo di progressiva trasformazione nelle modalità di gestione e di difesa del territorio attico, dovette accrescere l’importanza strategica di Ramnunte. La scelta periclea di lasciare alle devastazioni dell’esercito peloponnesiaco l’Attica, concentrando la popolazione all’interno delle mura con le conseguenze economiche e di ordine pubblico che ne derivarono,13 determinarono, negli anni che seguirono, un profondo ripensamento delle modalità di protezione della chora ateniese. In particolare, l’occupazione del demo di Decelea da parte degli Spartani, nella seconda parte della guerra del Peloponneso, rappresentò una vera e propria spina nel fianco per gli Ateniesi che furono costretti a fare i conti con una presenza sempre più stabile del nemico all’interno del loro territorio e con le difficoltà economiche che scaturivano da un approvvigionamento di derrate alimentari da effettuare esclusivamente via mare. In quel periodo infatti può datarsi l’inizio della progettazione di un sistema difensivo più complesso atto ad assicurare la difesa dei confini dell’Attica e la possibilità di accogliere, in caso di pericolo, all’interno delle aree fortificate i gruppi di contadini dispersi nelle campagne.14 11 Xen. Hell. 5.1, 32. Cfr. sullo statuto di queste isole nel IV sec.: Graham 1964, 187; Stroud 1971, 166– 173; Cargill 1995, 12–15; Salomon 1997, 66–72. 12 I.Rhamnous 86 (= IG I3 522 bis). Sulla datazione dell’iscrizione e sulla natura giuridica dell’isola di Lemno rispetto ad Atene, cfr. recentemente, Marchiandi 2008 (2010), 24–26; Culasso Gastaldi 2009. 13 Thuc. 2.14–22. 14 Ober 1985, 193.
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Dopo la disfatta in Sicilia e l’occupazione di Decelea, gli Ateniesi giudicarono quindi opportuno fortificare il Sunio, per assicurare il transito delle navi che portavano il grano, e successivamente anche Torico, sulla costa sud-orientale dell’Attica.15 In questo torno di tempo, è possibile inserire anche la fortificazione di Ramnunte. Nella costruzione della fortezza, che si estendeva a circa 500 metri di distanza dal santuario di Nemesis, su una collina incorniciata da due valli e a strapiombo sul mare, possono isolarsi due fasi: la prima, conclusasi, con ogni probabilità, intorno alla fine del V secolo, più o meno negli stessi anni dell’occupazione di Decelea, si era concretizzata nella realizzazione di una cittadella, attorno alla quale poi, nel corso del IV sec., si sviluppò una più ampia cinta muraria, destinata a rispondere alle mutate esigenze difensive dell’Attica.16 Nel periodo della III guerra sacra (356–346 a. C.), il circuito difensivo dell’Attica doveva essere già ormai perfettamente rodato, se Demostene, nella sua orazione Sulla corona,17 poteva ricordare il decreto che ingiungeva agli Ateniesi, minacciati dal pericolo del passaggio alle Termopili di Filippo II, il coprifuoco e l’obbligo di passare la notte in città insieme a quello di trasferire tutti i beni mobili nel raggio di 120 stadi ad Atene o al Pireo, mentre a coloro che si trovavano al di fuori di questo circuito si raccomandava di recarsi all’interno delle fortezze di Eleusi, File, Ramnunte e del Sunio.18 Del resto, come sottolinea J. Ober, nel IV secolo le drammatiche esperienze vissute durante la guerra del Peloponneso avevano sensibilizzato gli Ateniesi sul tema della protezione dei confini, ma soprattutto sulla necessità di proteggere le campagne dalle devastazioni nemiche, a maggior ragione dopo la perdita dell’impero.19 Nell’oratoria attica, il ricordo della battaglia di Maratona e del coraggio con cui gli Ateniesi avevano respinto l’invasione persiana viene evocato a più riprese, lasciando trasparire una crescente nostalgia verso la figura del cittadino soldato e verso gli ideali di ordine e di disciplina che esso incarnava.20 Non è un caso che, all’indomani del disastro di Cheronea (338 a. C.) in un clima di rinnovamento morale, tale ideale ritornasse
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Thuc. 8.4, 1; Xen. Hell. 1.2, 1. La datazione delle diverse fasi di costruzione della fortezza è molto dibattuta: cfr. Pouilloux Rhamnonte, 23–66; Ober 1985, 135–137; Petrakos 1997a, 607–611; Petrakos 1999a, 78–80. Di recente pubblicazione è un ultimo volume, sempre di Petrakos 2020 (III), che raccoglie gli ultimi dati archeologici relativi alla fortezza. Dem. 18.38. Munn 1993, 192 individua nella costruzione del cosiddetto “Dema wall” (tra il M. Parnete e il M. Egialeo) che colloca già all’epoca della “guerra beotica” (378–375 a. C.) un momento cruciale di organizzazione degli standards di difesa dell’Attica. Una rassegna dei demi fortificati dell’Attica con relative fonti può trovarsi in Munn 1993, 1–15. Ober 1985, 60–61. Cfr. Isocr. Pace, 8.38 e 76; Lys. Ep. 2.23. Cfr. Isoc. Paneg. 91; Panath. 195; Lys. Ep. 20–26; Lyc. Leoc. 109; Plat. Menex. 240–241 Arist. Rhet. 2. 22.1396a, 13. Cfr. a questo proposito, Bettalli 2019 e, in particolare, sull’epitafio attribuito a Lisia, Loraux 1973.
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in voga, corroborato dalla riforma dell’efebia, portata avanti dall’amministrazione di Licurgo (336–335 a. C.).21 Il demo di Ramnunte e le strutture di cui esso ormai disponeva furono coinvolte appieno in questo progetto di riorganizzazione sociale e politica che aveva i giovani ateniesi come primi destinatari, diventando una delle sedi dove essi svolgevano parte del loro addestramento. Come è ovvio, la compagine demografica del territorio cambiò volto, trovandosi ad accogliere, in maniera regolare, nuovi contingenti di giovani, appena ammessi al servizio militare insieme al personale scelto per addestrarli. Il materiale epigrafico, raccolto sul territorio, reca memorie significative della presenza degli efebi delle diverse tribù dell’Attica a Ramnunte e della loro devozione a Nemesis. In particolare, come è stato ipotizzato sulla base della testimonianza fornita dall’Athenaion Politeia,22 i giovani ateniesi trascorrevano nelle fortezze di confine il secondo anno del loro addestramento militare, partecipando alle competizioni organizzate all’interno delle feste locali.23 Sul finire del IV secolo, Ramnunte era dunque diventato uno dei presidi più all’avanguardia della difesa dell’Attica. Alla morte di Alessandro, quando gli Ateniesi, ritenendosi ormai liberi dal giogo macedone, si lanciarono nell’avventura della guerra lamiaca (322 a. C.), quella di Ramnunte fu la prima fortezza che il generale macedone Micione, salpato da Calcide,24 attaccò, per riprendere in mano la situazione e recuperare terreno contro i ribelli. Dovette però scontrarsi con l’ateniese Focione, trovando poi la morte.25 Purtroppo, la politica di rilancio della potenza ateniese, promossa da Licurgo26 che, oltre alla riorganizzazione dell’efebia, prevedeva anche una massiccia opera di riarmamento oplitico e navale, non fu sufficiente in questa occasione a reggere l’impatto della controffensiva macedone che sconfisse le navi ateniesi ad Amorgo, vanificando così l’impegno profuso nel riallestimento della flotta (322 a. C.).27 L’azione diplomatica portata avanti dalla fazione filomacedone, rappresentata da Focione, Demade e Demetrio Falereo, determinò l’instaurarsi ad Atene di un controllo macedone ancora più soffocante che in precedenza: Antipatro, posto da Alessandro al governo Macedonia con il titolo di “stratego di Europa”,28 impose agli Ateniesi la sostituzione del loro regime democratico con un’oligarchia censitaria, la consegna dei prigionieri antimacedoni, tra cui lo stesso Demostene che si diede la morte.29 Questo rinnovato Sul funzionamento dell’efebia dopo la riforma proposta da Epicrate: [Arist.] Ath. Pol. 42. Sulle questioni relative alla datazione di questo istituto, cfr. Pélékidis 1962 e più recentemente Chankowski 2010, 139–142. 22 [Arist.] Ath. Pol. 42 e Sekunda 1992, 336. 23 I.Rhamnous 98; 102; 104; 105; 106. Su queste iscrizioni, la cui connessione con il culto di Nemesis merita di essere esaminata a fondo, si tornerà più avanti. 24 Plut. Phoc. 25. 25 Sulla figura di Focione e sul suo ruolo nella guerra lamiaca, si veda Bearzot 1985, 119–126 e 165–169. 26 Paus. 1.29, 16. 27 Diod. 18.15 Sulle ragioni profonde di questa sconfitta, cfr. Green 2017, 1–2. 28 Diod. 18.12. 29 Diod. 18.18, 4–6; Paus. 7.10, 4–5. 21
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slancio indipendentista costò così alla città la perdita dell’autonomia con l’instaurazione, decisa successivamente da Cassandro, del regime autoritario di Demetrio Falereo che si protrasse, fino a quando Antigono Monoftalmo, accordate, con il “manifesto di Tiro” (315–314 a. C.), per tutti i Greci la libertà, l’immunità dai presidi e l’autonomia, per mano del figlio Demetrio detto il “Poliorcete” non espugnò Atene nel 307 a. C., restituendo la democrazia.30 La città passa così sotto il controllo degli Antigonidi i quali, una volta restaurata la democrazia, ricevono dagli Ateniesi onori straordinari. Questi ultimi, oltre a proclamarli theoi soteres, arrivano persino a modificare l’ordinamento clistenico con l’aggiunta, alle tradizionali dieci di due tribù, a loro intitolate: l’Antigonide e la Demetriade.31 La battaglia di Ipso (301 a. C.), contro la coalizione formata da Lisimaco, Seleuco e Cassandro, con la morte di Antigono Monoftalmo avrebbe cambiato nuovamente le carte in tavola, provocando un indebolimento della posizione politica del figlio Demetrio. Cassandro che, stando a quanto racconta Pausania, «nutriva nei confronti degli Ateniesi un odio terribile»,32 convinse un certo Lacare a farsi tiranno. Demetrio dovette quindi affrettarsi a rientrare in Grecia, per riprendere in mano la situazione. Dopo un primo scontro con gli Ateniesi, decise di ripiegare sul Peloponneso e di assediare Messene. Colpito dal proiettile di una catapulta, fu costretto ad attendere di essere guarito prima di riprovare a ridurre l’Attica sotto il suo controllo. Anche in questa occasione, la controffensiva macedone fece leva prioritariamente sull’occupazione di Ramnunte ed Eleusi, per passare poi alle devastazioni dell’intera regione. Lacare fu costretto alla fuga e gli Ateniesi finirono per riconciliarsi con Demetrio, che vi reinstaurò la democrazia (297 a. C.).33 Morto Demetrio diversi anni dopo, la successione passò, dopo alterne vicende, al figlio Antigono Gonata che, per assicurarsi il controllo sulla Macedonia, dovette sconfiggere i Galati a Lisimachia (277 a. C.). La Grecia delle poleis continuò a lungo, con la sua instabilità, a minacciare la solidità del trono macedone, tanto che, nel 268–67 a. C., una coalizione, supportata dal Lagide Tolemeo II Filadelfo e composta dagli Ateniesi (incoraggiati dal politico Cremonide), dagli Spartani guidati dal re Areo I insieme ad altri alleati del Peloponneso, dichiararono guerra ad Antigono Gonata, innescando una reazione che portò a un rinvigorirsi della pressione macedone sulla Grecia almeno fino alla morte del suo successore Demetrio II nel 228 a. C.
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Diod. 19.61, 3. Sugli onori eccezionali riconosciuti dagli Ateniesi a Demetrio Poliorcete e al padre Antigono Monoftalmo, cfr. il resoconto e il commento di Plutarco che li giudicava eccessivi (Plut. Demetr. 10–14). La devozione degli Ateniesi nei confronti dei due Antigonidi si dissolse nell’esatto momento in cui Demetrio fu sconfitto nel 301 a. C. dalla coalizione formata dagli diadochi a Ipso, dove il padre trovò la morte: Plut. Demetr. 10 e 30, 6. Sulle questioni in gioco nella battaglia di Ipso, cfr. Billows 1997, 175–185. 32 Paus. 1.25, 7 (trad. Musti). 33 Plut. Demetr. 33, 3–5. Su questi avvenimenti si veda la ricostruzione di Habicht 2006 [1995], 101– 102.
Il demo attico di Ramnunte: un quadro storico
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Nel periodo tra l’inizio della cosiddetta guerra cremonidea (267 a. C.)34 e la seconda guerra macedonica (200 a. C.), la vita del demo di Ramnunte si intreccia, a filo doppio, con quella dei membri della guarnigione. La fortezza si popola di diverse figure: accanto ai demoti vi si trovavano, da un lato, Ateniesi soldati di professione, comandati da strateghi a servizio dei sovrani macedoni; dall’altro, i cosiddetti paroikoi, gruppo attestato solo in tre decreti attici e che, presumibilmente, rappresentava una comunità di stranieri residenti, retaggio della politica antigonide sul territorio e che gli Ateniesi finirono per impiegare all’interno della guarnigione.35 Nel corso del IV e del III sec. va disegnandosi all’interno di questo territorio circoscritto un universo complesso e variegato capace di esprimere altrettanto diversificate istanze religiose. Accanto alla devozione nei confronti di Nemesis, talora affiancata da Themis, manifestata non solo dai demoti e dagli Ateniesi residenti a Ramnunte, ma anche dai soldati della guarnigione, si evidenzia la pratica di altri culti locali, come quello di Dioniso. Per un certo periodo – e in ragione della particolare congiuntura storica legata alla parentesi di controllo antigonide sul territorio – ai sacrifici in onore di Nemesis si aggiunsero quelli per Antigono Gonata, divenuto titolare ad Atene delle isotheoi timai.36 Successivamente al consesso divino onorato a Ramnunte si aggiunsero i culti per Zeus Soter e Atena Soteira, divenuti molto popolari tra i soldati di stanza nella guarnigione e quello per Afrodite Hegemone.37 Le conseguenze della guerra lamiaca e, in particolare, la perdita di Oropo da parte degli Ateniesi, che fecero definitivamente di Ramnunte l’ultima frontiera dell’Attica, determinarono la progressiva sostituzione dell’eroe locale Aristomaco con quello del guaritore Anfiarao.38 L’avvicinamento all’Egitto di Tolemeo II, all’epoca dello scoppio della guerra cremonidea, inoltre, favorì l’insediarsi all’interno del demo di un’associazione di Serapiasti.39 Nel quadro di un’assidua frequentazione della guarnigione da parte di soldati stranieri, va interpretata anche la devozione nei confronti di Agdistis, collegata al culto della Madre Frigia, e attestata in Attica già a partire dalla metà del IV sec.40 Nel corso del II sec. a. C. la vita all’interno della fortezza si spegne progressivamente, restituendo solo qualche pallida traccia dell’attività militare all’interno della fortezza. Nel I sec. d. C., una volta entrata la Grecia nell’orbita romana, si registra una
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Sulla denominazione di questo conflitto e sui problemi connessi, cfr. Prandi 1989. I.Rhamnous 41 e 43. Sulla condizione dei paroikoi cfr. Moretti ISE 33 e per un approfondito status quaestionis, e Couvenhes 2007. 36 I.Rhamnous 7 e infra p. 242 e ss. 37 Cfr. infra p. 215 e Petrakos 1997a, 624 e Oetjen 2014, 32–33. 38 Cfr. Diod. 18. 56, 6 e Oetjen 2014, 37. 39 Cfr. I.Rhamnous 59 e Arnaoutoglou 2007 che però inserisce il documento nel periodo successivo al 229 a. C., dopo la liberazione ateniese dai Macedoni. 40 Parker 1996, 198 n. 165. Sul culto della Madre degli dèi, presente ad Atene, forse già dalla prima metà del V sec. si veda Borgeaud 1996, 31–55.
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rinnovata attenzione nei confronti del santuario di Nemesis a Ramnunte che fu forse coinvolto in un piano di ristrutturazione promosso da Claudio in Attica.41 In questo contesto forse va inserita l’iscrizione, che fa la sua comparsa sull’epistilio del tempio, in onore di Livia, moglie di Augusto e madre di Claudio, datata con ogni probabilità al 45 d. C., cui il santuario sembrerebbe così essere stato dedicato42, con un’associazione tra il culto imperiale della donna e la divinità originariamente onorata nello stesso luogo.43 La dea di Ramnunte, Nemesis, continuò tuttavia a catalizzare l’attenzione dei funzionari dell’impero, tanto che, più di un secolo dopo, Erode Attico, originario della vicina Maratona e, come si è già visto, fervido promotore del culto della Ramnusia, al di fuori dell’Attica, chiese e ottenne dalla boule e dall’Areopago, la possibilità di dedicare una statua a Ramnunte, in onore del suo trophimos Polideuce44. Alla sua iniziativa si deve probabilmente anche un inno a Nemesis, iscritto sulla colonna destra di una stele ritrovata a Ramnunte, il cui testo, molto frammentario, datato tra il I e il II sec. d. C. rievoca l’arroganza dei Persiani, alludendo al supporto dato dalla dea.45 Successivamente la vita del demo e del santuario e della fortezza andarono verso un inesorabile esaurimento e il sito venne abbandonato. Sul cominciare dell’età bizantina, gli Oropi giunti per mare approdarono a Ramnunte e ne saccheggiarono il santuario, trasportando le stele che ne popolavano il recinto nel loro territorio, dove poi furono trovate durante gli scavi.46 Termina così la storia straordinariamente longeva di un luogo di culto, ma non certo quella della potenza che lo abitava, già da tempo dotata di vita propria, onorata com’era in diverse parti dell’impero, ma già quasi immemore di questo ancoraggio al territorio dell’Attica. Un pallido ricordo di questo legame con Atene continua a essere evocato, di tanto in tanto, nell’attributo “Rhamnusia” ormai prevalentemente svuotato di senso.47 La complessa storia di questo piccolo villaggio ai confini dell’Attica, votato alla difesa della regione, e quella dei gruppi che lo popolarono avranno contribuito a modificare e a plasmare, secondo le loro aspettative ed esigenze, il profilo della divinità che l’abitava, ad attribuirle altre competenze rispetto a quelle che la tradizione letteraria già le riconosceva, a fabbricarle una tradizione intorno che rappresentasse le attese diversificate di coloro che si affidavano alla sua potenza. Individuare, raccontare e contestualizzare storicamente queste tradizioni significa potere comprendere la figura di
Stafford 2013, 215, sulla base di un’ipotesi di integrazione di I.Rhamnous 157. Sui lavori di ristrutturazione sul tempio di Nemesis, Miles 1989, 236–237. 42 IG II2 3242 = I.Rhamnous 156. 43 Stafford 2013. Sulle ragioni profonde di questa operazione si tornerà in seguito, infra p. 259. 44 I.Rhamnous 159 e Ameling II, 169, n°173. Sulla relazione tra Erode Attico e Nemesis, si veda anche supra p. 156 e ss. 45 IG II3 4,3 1782, l. 11: ᾽Αχαιμενιδᾶν μεγαλαύχων. 46 Petrakos 1997a, 628. 47 Cfr. supra p. 156. 41
Quale aition per la statua di Nemesis a Ramnunte?
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Nemesis nel suo rapporto con il territorio, da un lato, e con quello regionale e “panellenico” dall’altro, nelle sue trasformazioni e in quelle dei diversi attori coinvolti nel culto. 2. Quale aition per la statua di Nemesis a Ramnunte? La presenza del culto di Nemesis a Ramnunte può datarsi già a partire dall’epoca arcaica. Secondo la ricostruzione proposta dall’archeologo V. Ch. Petrakos che ha condotto gli scavi sul sito dal 1975 fino al 2000, raccogliendone i materiali archeologici ed epigrafici, furono quattro le strutture templari che si avvicendarono sulla stessa area: una prima cella arcaica, risalente ai primi decenni del VI sec., sostituita poi da un tempio in tufo alla fine del VI, che fu molto probabilmente distrutto dai Persiani e non più ricostruito. Un terzo tempio della dea, detto tempio poligonale o piccolo tempio (o tempio di Themis) fu edificato e usato come luogo di culto fino a quando non fu sostituito dal Nemesion, ma anche successivamente servì forse come tesoro, perché al suo interno furono ritrovati rilievi, dediche e iscrizioni (Fig. 4).48 I documenti epigrafici inoltre confermano un culto dedicato alla dea e un’attività del santuario ad essa dedicato, negli anni tra la fine del VI sec. e gli inizi del V.49
Fig. 4 Pianta del sito del santuario di Nemesis a Ramnunte da Petrakos 1999a, 191, Eik. 105.
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Petrakos 1999a, 192–195. I. Rhamnous 75; 86; 181. Come ha osservato Petrakos 1999a, 188, l’area santuariale era frequentata già dall’epoca micenea, mentre l’attività cultuale sul sito può datarsi all’inizio del VI sec. a. C.
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Vivere all’ombra di Nemesis
Alla metà del V sec., inoltre, il santuario di Nemesis fungeva da vero e proprio istituto di credito, come testimoniano i rendiconti registrati su una stele che danno conto delle risorse finanziarie della dea e dei prestiti che erano erogati a suo nome in lotti di somme fisse di 200 o 300 dracme.50 Probabilmente agli anni tra il 430 e il 420 a. C., dopo l’inizio della guerra del Peloponneso e la peste che colpì l’Attica, quando gli Ateniesi lanciarono un massiccio programma di ristrutturazione edilizia che compensasse i danni causati dalle invasioni periodiche degli Spartani e assicurasse al territorio una rinnovata e più efficace protezione divina, può datarsi secondo il parere degli archeologi la costruzione dell’ultimo tempio di Nemesis a Ramnunte. L’edificio in stile dorico, costruito con materiali di diversa qualità, esastilo in antis, dovette costare circa 30 talenti: troppo anche per le considerevoli risorse della divinità e rimase incompleto.51 Benché quindi quello di Nemesis non fosse annoverato tra i templi degli altri dèi,52 registrati nell’iscrizione prima menzionata, su cui Atene poteva esercitare un controllo di tipo finanziario, si deve ritenere che un sostegno da parte dell’amministrazione centrale53 dovesse pure provenire e che il culto della dea di Ramnunte avesse ormai un carattere di interesse non strettamente locale. Non a caso, la tradizione principale che circolava in merito alla potenza di Nemesis connetteva il suo culto proprio a uno degli eventi capitali della memoria ateniese, quale spia del prestigio di cui la dea deve avere goduto a livello regionale. Di tale tradizione ci conserva memoria il resoconto contenuto nella Periegesi di Pausania, la cui testimonianza, sintetizzata all’inizio del volume, necessita ora di essere ripresa ed esaminata nel dettaglio e nelle diverse sequenze: Μαραθῶνος δὲ σταδίους μάλιστα ἑξήκοντα ἀπέχει Ῥαμνοῦς τὴν παρὰ θάλασσαν ἰοῦσιν ἐς Ὠρωπόν. καὶ αἱ μὲν οἰκήσεις ἐπὶ θαλάσσῃ τοῖς ἀνθρώποις εἰσί, μικρὸν δὲ ἀπὸ θαλάσσης ἄνω Νεμέσεώς ἐστιν ἱερόν, ἣ θεῶν μάλιστα ἀνθρώποις ὑβρισταῖς ἐστιν ἀπαραίτητος. δοκεῖ δὲ καὶ τοῖς ἀποβᾶσιν ἐς Μαραθῶνα τῶν βαρβάρων ἀπαντῆσαι μήνιμα ἐκ τῆς θεοῦ ταύτης· καταφρονήσαντες γὰρ σφισιν ἐμποδὼν εἶναι τὰς Ἀθήνας ἑλεῖν, λίθον Πάριον [ὃν] ὡς ἐπ’ ἐξειργασμένοις ἦγον ἐς τροπαίου ποίησιν. τοῦτον Φειδίας τὸν λίθον εἰργάσατο ἄγαλμα μὲν εἶναι Νεμέσεως, τῇ κεφαλῇ δὲ ἔπεστι τῆς θεοῦ στέφανος ἐλάφους ἔχων καὶ Νίκης ἀγάλματα οὐ μεγάλα· ταῖς δὲ χερσὶν ἔχει τῇ μὲν κλάδον μηλέας, τῇ δεξιᾷ δὲ φιάλην, Αἰθίοπες δὲ ἐπὶ τῇ φιάλῃ πεποίηνται. συμβαλέσθαι δὲ τὸ ἐς τοὺς Αἰθίοπας οὔτε αὐτὸς εἶχον οὔτε ἀπεδεχόμην τῶν συνιέναι πειθομένων, οἳ πεποιῆσθαι σφᾶς ἐπὶ τῇ φιάλῃ φασὶ διὰ ποταμὸν Ὠκεανόν· οἰκεῖν γὰρ Αἰθίοπας ἐπ’ αὐτῷ, Νεμέσει δὲ εἶναι πατέρα Ὠκεανόν.
I.Rhamnous 182 = IG I3 248. Su questo documento, cfr. nel dettaglio infra p. 225 e ss. Un’indagine approfondita e dettagliata sul tempio di Nemesis a Ramunte, sui materiali, le fasi e i costi di costruzione, sulle analogie con altri edifici religiosi dell’Attica, con ampia discussione della storia degli studi, si trova in Miles 1989. Per ulteriori aggiornamenti e messe a punto, cfr. Petrakos 1999a, 187–249. 52 Cfr. IG I3 369 e supra p. 145. 53 Miles 1989, 234–235; Ackermann 2016, 236. 50 51
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Da Maratona Ramnunte dista circa sessanta stadi, sulla strada costiera che conduce a Oropo. Le case della gente sono sul mare, mentre in alto, a poca distanza dal mare, sorge il santuario di Nemesis, che fra le dee è quella più inflessibile contro gli uomini arroganti. Sembra che la collera di questa divinità si oppose ai barbari che sbarcarono a Maratona; infatti avendo ritenuto con leggerezza che non avrebbero incontrato ostacoli alla conquista di Atene, si portavano dietro un blocco di marmo pario per ricavarne un trofeo come se avessero già compiuto l’impresa. Proprio da questo blocco Fidia ricavò una statua di Nemesis; sulla testa della dea poggia una corona decorata con cervi e con piccole statue di Nike; nella mano sinistra, Nemesis ha un ramo di melo, nella destra una phiale; sulla phiale sono rappresentati degli Etiopi. Non ho potuto indovinare il perché della raffigurazione degli Etiopi, né accetto la spiegazione di coloro che presumono di intendersene e che dicono che gli Etiopi vi sono rappresentati per via del fiume Oceano; gli Etiopi infatti abiterebbero sull’Oceano, Oceano è il padre di Nemesis. Paus. 1.33, 2–3 (trad. Musti modificata)
Nella prima parte della sua descrizione, Pausania fornisce importanti informazioni sul profilo della divinità, sull’aition che stava all’origine della dedica della statua di culto, sul suo artista e sull’aspetto iconografico che quest’ultimo volle conferirle, e infine sulla genealogia della dea. Tuttavia, a dispetto dei dettagli che contiene, il passo resta problematico per diverse ragioni: in primo luogo perché, oltre alla tradizione registrata dal Periegeta che collegava la dedica della statua di Nemesis alla vittoria degli Ateniesi a Maratona, nell’Antichità circolava anche un’altra versione su cui si tornerà più avanti, tràdita nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio che assegnava al monumento una vicenda del tutto differente, in cui né la motivazione della dedica, né il nome dell’artista coincidono con la ricostruzione di Pausania; inoltre, a rendere il quadro ancora più complesso, si aggiunge l’evidente difficoltà relativa all’interpretazione degli attributi iconografici dell’agalma di Nemesis, il cui significato, un tempo trasparente, doveva essersi perso già al momento della visita del Periegeta, dando luogo a veri e propri conflitti esegetici, di cui la sua descrizione reca ancora evidente traccia. Risolvere questi nodi è però di importanza cruciale per arrivare a comprendere il profilo complesso della divinità onorata a Ramnunte e definire in che termini la percezione che di questa figura si aveva a livello locale si articolava con l’immagine veicolata nelle fonti letterarie esaminate nelle pagine precedenti e soprattutto quale fosse il ruolo della divinità nello spazio demotico e in quello poleico. Per provare a sciogliere la rete di incertezze che il passo di Pausania pone e le eventuali contraddizioni, è opportuno procedere per gradi, iniziando da un tentativo di contestualizzazione storica della dedica della statua e cercando di restituire profondità storiografica alla testimonianza del Periegeta.
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2.1 La collera di Nemesis e lo sbarco dei “barbari” a Maratona Sebbene la dedica della statua di culto e della sua base possa non essere avvenuta contestualmente ai lavori di costruzione del tempio, gli archeologi ormai concordano sul fatto che anch’essa vada datata al periodo tra il 430 e il 420 a. C.,54 e quindi a distanza di almeno sessanta anni dai fatti che essa pretendeva di celebrare e in un contesto storico completamente mutato. Il riferimento alle guerre persiane e alla lotta contro i barbari risulta sospetto anche per altri motivi: in primo luogo, perché tale tradizione sembra emergere piuttosto tardivamente e non se ne trova traccia nelle fonti, se non a partire da un epigramma attribuito al poeta Parmenione (I sec. a. C.), confluito nell’antologia curata da Filippo di Tessalonica, nel I sec. d. C. In questi versi, il blocco di marmo pario, nella qualità di io-narrante, racconta della sua opportuna metamorfosi da trofeo destinato, nelle speranze dei Medi, a celebrare il successo militare sugli Ateniesi, in una statua di Nemesis giustamente eretta a futura memoria sulle coste di Ramnunte: Μήδοις ἐλπισθεῖσα τροπαιοφόρος λίθος εἶναι ἠλλάχθην μορφὴν καίριον εἰς Νέμεσιν ἔνδικος ἱδρυνθεῖσα θεὰ Ῥαμνοῦντος ἐπ’ ὄχθαις, νίκης καὶ σοφίης Ἀτθίδι μαρτύριον. Quale pietra destinata nelle speranze dei Medi a portare il trofeo cambiata opportunamente la forma in Nemesis, giustamente quale divinità di Ramnunte mi elevo sulle sponde testimonianza della vittoria e della saggezza attica. Parmen. Anth. graec. 16.22255
Prima del I sec. a. C., stando allo stato attuale della documentazione, nelle fonti non vi è alcuna traccia della connessione tra la dedica della statua e la vittoria degli Ateniesi a Maratona. La tradizione sembra essere stata confezionata ad hoc a livello demotico, per amplificare il prestigio del santuario e Pausania la recepisce in pieno: i suoi dubbi sulle spiegazioni raccolte localmente si volgono semmai all’eventuale interpretazione iconografica degli attributi della statua. Un altro elemento che sembrerebbe confermare la propensione dei Ramnusî ad alimentare il mito intorno al culto della divinità è la querelle relativa alla paternità dell’opera. Plinio il Vecchio, infatti, riporta una tradizione completamente diversa da quella di Pausania, narrando del contrasto che oppose due allievi di Fidia: Agoracrito di Paro e l’Ateniese Alcamene, di cui, ancora ai suoi tempi, molte opere erano visibili nei templi di Atene, tra cui la celeberrima Afrodite en kepois. Ebbene, Plinio riferisce che i due 54 55
Miles 1989, 227; Lapatin 1992, 108, n. 2; Petrakos 1999a, 223. Il motivo della metamorfosi della pietra ritorna anche in altri epigrammi dell’Anthologia graeca: 16.221, attribuito a Teeteto scolastico grammatico di età bizantina, e 263 anonimo.
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scultori rivaleggiarono l’uno con l’altro in occasione di un concorso per la fabbricazione di una Venus, dal quale Alcamene uscì vincitore, «non per la bravura» – precisa il testo – ma per il voto dei concittadini che lo favorirono a discapito del peregrinus Agoracrito: Per questo motivo – conclude Plinio – si racconta che Agoracrito vendette la sua statua perché non restasse ad Atene e che la chiamò Nemesis. Questa statua che venne posta nel demo di Ramnunte in Attica, Varrone la preferì a tutte. Plin. Nat. hist. 36.17
Benché inconciliabili in apparenza, le testimonianze di Plinio e di Pausania presentano alcuni elementi di convergenza, percepibili sotto traccia, che meritano di essere valorizzati. Entrambe le versioni, infatti, alludono in modo curioso a una sorta di metamorfosi che segna la storia della statua. Nella Periegesi, un blocco di marmo pario, che avrebbe dovuto fornire il materiale per la costruzione di un trofeo persiano per la vittoria su Atene, cambia forma e funzione e finisce, al contrario, per celebrare un trionfo ateniese. In termini di metamorfosi, peraltro, come si è appena visto, gli Antichi stessi raccontavano la vicenda della statua. Plinio, invece, riferisce di una metamorfosi meno radicale, se vogliamo, ma più significativa dal punto di vista religioso. Scolpita in origine come Afrodite, la statua cambia identità, viene venduta come Nemesis e portata a Ramnunte. Il cambiamento riguarda quindi il nome, la sede, la funzione stessa della statua, oltre che evidentemente la potenza divina che quest’ultima era chiamata a rappresentare. Entrambe le tradizioni, che circolavano sull’agalma di Ramnunte, alludono proprio a una competenza precisa della divinità – emersa con chiarezza nelle pagine precedenti dall’esame dei versi dei Canti ciprii – che è quella di mutare aspetto e luogo, se non addirittura nome, lasciando di stucco l’antagonista, disattendendo aspettative ingiustificate di successo e restituendo – come teorizzato dalla riflessione aristotelica – un equilibrio in quei casi di merito non riconosciuto. Se dunque tanto il racconto di Plinio, quanto la tradizione recepita da Pausania, non consentono di trarre conclusioni precise e definitive in merito all’occasione che determinò la dedica della statua, esse senz’altro forniscono materiale di riflessione sul profilo divino della potenza che era onorata a Ramnunte: una divinità che interviene di fronte a una presunzione ingiustificata di successo e di vittoria o a un merito ingiustamente attribuito. Entrambi i passi, però, sono testimonianze lontane rispetto ai fatti in questione, tanto più che sulla ricostruzione che presentano può aver pesato il filtro multifocale della rappresentazione “panellenica” della divinità e della sua ricezione in ambito romano. Per chiarire al meglio quindi qual era il ruolo di Nemesis e la sua competenza a livello demotico e regionale in età classica occorre, ora, decostruire la testimonianza di Pausania, collocare nel tempo la tradizione che collegava la dedica della statua e l’interpretazione della sua iconografia al successo ateniese a Maratona e ragionare, infine, sul
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significato degli attributi dell’agalma di Nemesis e sulle immagini scolpite sulla base, che lo stesso Pausania descrive. L’obiettivo è quello di individuare invece le istanze che entrarono in gioco, nel momento in cui venne dedicato alla divinità un nuovo tempio e una statua di culto, cercando di definire quale fosse, secondo i suoi devoti, il ruolo che la potenza occupava all’interno della società degli dèi e quali quindi fossero quindi le attese di coloro che decisero di tributarle un culto. L’analisi degli attributi iconografici dell’agalma sarà affrontata nel dettaglio nelle prossime pagine. Al momento, occorre affrontare la questione del rapporto tra il potere sanzionatorio attribuito a Nemesis, la tutela accordata dalla divinità agli Ateniesi, e la disfatta dei Persiani a Maratona. Tale relazione, che di rado è stata messa in dubbio, influenzando a lungo la comprensione del profilo divino della Ramnusia, merita ora di essere sottoposta a verifica.56 Ebbene, come già sottolineato a più riprese, il culto di Nemesis a Ramnunte assunse un’importanza più definita, nella metà del V sec. a. C., anche se tracce chiare della devozione in suo onore possono trovarsi già alla fine del VI sec. a. C. Gli archeologi individuano nella costruzione del grande tempio e nella dedica della statua un momento di grande prestigio del santuario da datarsi negli anni tra il 430 e il 420.57 Se tale ricostruzione è corretta, allora la storia del blocco di marmo pario portato dai Persiani con l’intenzione di farne un trofeo, poi trasformato dagli Ateniesi nella statua di Nemesis, appare quanto meno sospetta. È infatti agli ultimi anni della Pentecontetia, o ai primi anni della guerra del Peloponneso, che occorre guardare per individuare il contesto che può avere favorito la crescita di prestigio del culto ramnusio. La validità di tale ipotesi è sostenuta dall’argomento della commedia di Cratino, conservato nei Katasterismoi di Eratostene, di cui si è già parlato.58 Il dramma intitolato per l’appunto 56
I primi a mettere in dubbio tale relazione sono stati Knittlmayer 1999, 2–4; Jung 2006, 192 e Haake 2011. Il nesso tra la vittoria degli Ateniesi a Maratona e il ruolo che essi riconoscevano all’intervento di Nemesis è stato invece considerato valido da Shapiro Lapatin 1992, 107 e 118; Karanastasi 1994, 125; Petrakos 1999a, 263; Palagia 2000, 62. 57 Lapatin 1992, 108. Dinsmoor 1961, 179 data l’inizio della costruzione del tempio di Nemesis a Ramnunte nel 432 a. C.; Miles 1989, 233, all’ultimo trentennio del V sec.; Petrakos 1999a 223 antedata agli anni ’50 del V sec. l’inizio della costruzione del tempio, ma colloca la realizzazione della statua e della base al periodo tra il 430 e il 420 a. C. Parker 2005, 58–59 osserva che nel terzo quarto del V sec. alcuni siti dell’Attica vengono dotati di strutture santuariali così prestigiose da rendere impensabile che esse potessero servire solo per rispondere alle istanze religiose dei residenti dei demi. Questo accade per i culti di Poseidone al Sunio, di Nemesis in Attica, di Atena Pallenis a Pallene e forse di Demetra al Torico. Se nel caso di Poseidone al Sunio appare chiaro dalle fonti quanto esso il dio fosse presente nell’immaginario di tutti gli Ateniesi, più complicato è comprendere quale fosse la posizione degli altri santuari. In relazione a Ramnunte la situazione è ancora più complessa, perché è certo che il messaggio sotteso alla monumentalizzazione di questa area sacra ai confini dell’Attica non poteva avere come destinatari i soli demoti; d’altro canto, non si comprende il motivo per cui solo ad essi era riservata la facoltà di amministrare le finanze della dea. Inoltre, la partecipazione alla festa in suo onore, i Nemesia, vide solo all’epoca della riforma licurghea dell’efebia il coinvolgimento di non residenti del demo. Su queste questioni si tornerà più avanti (cfr. infra p. 240). 58 Eratosth. Cat. 25.
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Nemesis, da un lato conferma la versione di Pausania, per quel che riguarda l’unione con Zeus; dall’altro, colloca proprio a Ramnunte l’atto finale di questa unione forzata cui la dea fu costretta. Il passo narra come Zeus innamoratosi di Nemesis prese la forma di un cigno per unirsi a lei. La dea allora si diede a tutta una serie di cambiamenti di forma per proteggere la sua verginità (ἐπεὶ αὐτὴ πᾶσαν ἤμειβε μορφήν, ἵνα τὴν παρθενίαν φυλάξῃ), ma il Cronide, presa la forma di un uccello volò fino a Ramnunte e lì si unì con la forza a Nemesis che generò un uovo da cui poi nacque Elena ([…] καταπτῆναι εἰς Ῥαμνοῦντα τῆς Ἀττικῆς, κἀκεῖ τὴν Νέμεσιν φθεῖραι· τὴν δὲ τεκεῖν ᾠόν, ἐξ οὗ ἐκκολαφθῆναι καὶ γενέσθαι τὴν Ἑλένην, ὥς φησι Κρατῖνος ὁ ποιητής). Nell’argomento di questa commedia, e nei pochi frammenti superstiti, in cui la presenza di Leda conferma l’intreccio mitico su cui essa era costruita, gli studiosi hanno intravisto gli elementi di una satira politica diretta contro Pericle, alla vigilia o forse poco dopo la prima invasione dell’Attica da parte spartana, all’inizio della guerra del Peloponneso.59 La relazione tra la vicenda biografica dell’Alcmeonide e l’azione di Nemesis doveva circolare in qualche modo ad Atene, se come osserva Plutarco, i suoi concittadini finirono per accordargli una deroga all’applicazione della legge sulla cittadinanza da lui voluta, e che perscriveva che fosse ateniese solo chi fosse nato da entrambi i genitori ateniesi, permettendogli di iscrivere il figlio avuto da Aspasia, Pericle il giovane, nel registro della fratria. Dopo la perdita di entrambi i figli legittimi, gli Ateniesi si convinsero, infatti, che la sfortuna di Pericle fosse opera della nemesi e che quindi egli meritasse di essere trattato con umanità.60 Inoltre, la menzione da parte di Pausania di personaggi riconducibili all’entourage di Pericle, come Fidia, sembra suggerire che fosse proprio l’età periclea ad avere fornito terreno fecondo alla promozione del culto divino dedicato a Nemesis. Se le cose stanno così, difficilmente allora la vittoria celebrata dalla statua poteva essere quella di Maratona. La generazione di Pericle, infatti, era certamente più interessata a celebrare altri successi contro i Persiani, e nella fattispecie la vittoria di Salamina del 480 a. C. Tra questi due exploit militari vi erano alcune importanti differenze: a Maratona aveva avuto luogo uno scontro campale combattuto, secondo parte della tradizione, dai soli Ateniesi61, appartenenti alla classe fondiaria composta da coloro che potevano accedere al rango oplitico e brillantemente guidati da Milziade, padre di Cimone, antagonista politico di Pericle.62 La vittoria di Salamina invece, benché conseguita da Atene quale membro di una coalizione ellenica a guida spartana, era stata uno dei primi più entu59 Cfr. l’attenta analisi di Bakola 2010, 220–224. 60 Plut. Per. 37, 2–5. 61 Il coraggio solitario mostrato dagli Ateniesi a Maratona rispetto alla partecipazione alla battaglia navale di Salamina è messo in evidenza anche nel discorso riportato da Thuc. 1.73, 4. In quell’occasione, gli Ateniesi, in realtà, furono sostenuti dai Plateesi; sul ruolo di quest’ultimi, cfr. infra p. 220, n. 219. 62 L’antagonismo tra Pericle e Cimone emerge con chiarezza da Plut. Per. 7.4; 9.2; 10. 1–4. Loraux 1973, 25 ha ben sottolineato le energie spese da Cimone per oscurare la vittoria di Salamina a vantaggio del trionfo di Maratona.
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siasmanti successi ottenuti grazie alla collaborazione dei teti, imbarcati sulle triremi, che assunsero un ruolo cruciale nella democrazia navale ateniese. Dalla generazione periclea, ma anche da quella successiva, almeno fino a quando la proiezione ateniese sul mare non mostrò tutti i suoi limiti e le sue debolezze, progressivamente scardinata dalla pressione dell’impegno bellico e delle periodiche invasioni dell’Attica, la vittoria di Salamina fu considerata uno dei successi più significativi conseguiti dalla polis sul mare. In seguito, però, dopo la spedizione in Sicilia e sul finire della guerra del Peloponneso, quando i vantaggi economici derivanti dalla gestione dell’impero si esaurirono e Atene dovette contare solo sulle sue forze interne, il tema della difesa del territorio tornò in voga e con esso probabilmente anche il mito dei campioni che sconfissero i barbari a Maratona, proteggendo l’Attica da invasioni esterne.63 La perdita dell’impero e la necessità, avvertita in modo sempre più stringente, di difendere il territorio, come dimostra il sistema di fortificazioni dell’Attica, devono avere favorito questo revival del mito di Maratona che trovò poi piena realizzazione nell’etica oplitica impersonata dagli efebi dopo la riforma di Epicrate (335–334 a. C.). Deve essere stata questa atmosfera di incertezza dovuta al crescente indebolimento di Atene e, in generale, alla crisi della Grecia delle poleis a fornire un terreno di proliferazione di racconti atti alla ripresa e alla promozione di un passato glorioso, nel tentativo di promuovere un rinnovamento morale capace di coinvolgere le nuove generazioni. In questo contesto, Nemesis può in effetti avere assunto il ruolo di una potenza capace di sanzionare la hybris di chi, senza tenere in considerazione il carattere imprevedibile del divino, fa eccessivo affidamento sulla propria superiorità, proprio come un tempo fecero i Persiani a Maratona. Tuttavia, è opportuno sottolineare che altre ipotesi di contestualizzazione storica per la tradizione che collega il santuario di Ramnunte a Maratona, sono state avanzate. M. Jung ha proposto che essa possa essere stata elaborata proprio negli ultimi decenni del IV sec. a. C., quando Ramnunte diventa un importante elemento del sistema difensivo attico e, in particolare, dopo la riforma dell’efebia.64 Gli efebi, che popolarono a lungo la fortezza di Ramnunte, erano particolarmente sensibili all’exploit dei guerrieri di Maratona, come è dimostrato dal culto eroico che era loro dedicato.65 A queste considerazioni si sono aggiunte quelle di M. Haake che ha osservato come tale tradizione
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Sul mito di Maratona e sulla memoria che su questo evento circolavano, cfr. Loraux 1981, 157–173; Gehrke 2007, 100–102 e, più recentemente, Proietti 2021 sulla costruzione «stratigrafica» (p. 1) di queste memorie prima di Erodoto. Cfr. Jung 2006, 191–201, di cui però non condivido l’interpretazione, troppo semplicistica, dell’iconografia della statua annoverata nella tradizione raffigurativa relativa ad Afrodite o Artemide (p. 197), né la visione di Nemesis in età arcaica come divinità collegata alla sfera privata e al culto dei morti (p. 200). Paus. 1.32, 4. Jung 2006; Proietti 2012, 104, n. 25 e 2021, 83–84 che mostra come in alcune iscrizioni di II sec. a. C. gli efebi tributassero onori ai caduti di Maratona, dedicando loro anche dei sacrifici o partecipando a competizioni sportive.
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possa essere stata valorizzata in coincidenza con l’emergere di un’altra minaccia barbara, rappresentata dai Celti, la cui aggressione nei confronti del mondo greco è stata paragonata a quella dei Persiani nel V sec.66 I Celti infatti furono sconfitti da Antigono Gonata nella battaglia di Lisimachia nel 278/7 a. C.67 Alcuni anni dopo, i Ramnusî istituirono un sacrificio in suo onore, come re e salvatore degli Ateniesi, nell’ambito dei Nemesia di Ramnunte.68 La questione del rapporto tra Ramnunte e il mito di Maratona così come l’integrazione del culto di Antigono Gonata nelle celebrazioni in onore di Nemesis verrà ripresa nelle prossime pagine, nel tentativo di identificare con precisione la cornice storica che favorì l’attribuzione della disfatta dei Persiani in Attica alla collera della dea. Per il momento, è sufficiente limitarsi a segnalare come tale tradizione non possa essere nata nel V sec. contestualmente alla dedica della statua e alla costruzione del nuovo tempio. 2.3 L’agalma e i suoi attributi Se, sulla base dei ragionamenti sviluppati in precedenza, occorre considerare come costruita a posteriori la tradizione che collegava il trionfo ateniese di Maratona all’intervento divino di Nemesis, allora l’unica via per collocare su un orizzonte cronologico plausibile la decisione che portò a valorizzare nel V sec., sul territorio attico, il culto della dea è riflettere sugli attributi iconografici del monumento e sul messaggio che i personaggi rappresentati sulla base erano chiamati a veicolare. A dispetto dei tentennamenti e delle precomprensioni di Pausania, la sua testimonianza deve costituire il punto di partenza per una riflessione sulla questione. Il resoconto sulla sua visita al santuario, avvenuta 600 anni dopo le guerre persiane, e l’identificazione dell’aition che portò alla dedica della statua con il riconoscimento di Nemesis quale divinità implacabile verso i tracotanti, si concentra sulla descrizione dell’agalma e sull’interpretazione dei suoi attributi. In particolare, la phiale con gli Etiopi, sulla mano destra, conduce Pausania a riferire sulla genealogia attica della divinità che egli peraltro torna a confermare nel VII libro.69 Infine, egli enumera i personaggi che popolavano la base della statua. Dai dettagli riportati dal Periegeta e dal confronto con le frammentarie tracce archeologiche emerse dalle attività di scavo sul sito di Ramnunte, occorre dunque prendere le mosse per tentare di ricostruire il messaggio sotteso alla rappresentazione iconografica della dea, alla collocazione del suo mito in territorio attico e alle competenze che ad essa si intendevano riconoscere. 66 67 68 69
Cfr. Pol. 2.35, 7 e Haake 2011, 117 con ampia bibliografia. Iust. 25.1.1–2. I.Rhamnous 7. Sulle relazioni tra Antigono Gonata e la Nemesis di Ramnunte, cfr. infra p. 242 e ss. Paus. 7.5, 1–3.
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Pausania procede dall’alto verso il basso nella descrizione del simulacro che, compresa la base, doveva elevarsi ad un’altezza di ca 4.50 m. dal suolo (Fig. 5).70 Il primo attributo che egli isola è la corona sulla testa della dea di cui illustra la complessa decorazione: una corona composta da cervi e agalmata di Nike non grandi (τῇ κεφαλῇ δὲ ἔπεστι τῆς θεοῦ στέφανος ἐλάφους ἔχων καὶ Νίκης ἀγάλματα οὐ μεγάλα). Questo rapido cenno pone già diversi interrogativi tanto sulla conformazione della corona, quanto soprattutto sul suo significato. Non è chiaro se i cervi e gli agalmata di Nike fossero rappresentati a tutto tondo sulla corona o se fossero semplicemente a rilievo; quanti fossero e se fossero disposti simmetricamente ai lati della testa per serie omogenee o in sequenza alternata.71 Il dato archeologico aiuta ben poco, perché il frammento di una statua colossale, conservato al British Museum di Londra, identificato con la testa della famosa statua di Agoracrito, consente solo di individuare le tracce di una corona metallica che l’adornava.72 Il fatto che il Periegeta precisi che gli agalmata non erano di grandi dimensioni indica che essi, tuttavia, erano ben visibili sulla corona e quindi forse rappresentati a tutto tondo. Quale fosse però il rapporto di queste statuette di Nike con i cervi e di entrambi gli attributi con la divinità non è facile comprenderlo dalle parole di Pausania. Del resto, è possibile che, al momento della sua visita, il proposito originario dello scultore e della sua committenza si fosse perso, anche in concomitanza con l’elaborazione della tradizione che collegava l’aition della dedica della statua alla vittoria ateniese di Maratona. D’altra parte, come ha spiegato bene G. Pucci, una rappresentazione iconografica è il risultato dell’intersezione tra due diverse pratiche sociali, quella della produzione e quella della la ricezione.73 Se il momento della produzione può essere isolato, con precisione, sulla linea del tempo e contestualizzato storicamente, più complesso è invece identificare l’insieme dei suoi significati, che possono essere molteplici già al momento della creazione del monumento, tanto più in un contesto politeista in cui il divino è plurale per definizione. La fase della ricezione di tali significati, che possono a loro volta contemplare diversi livelli di lettura e comprensione, è poi naturalmente soggetta a trasformazioni e riaggiustamenti che aggiungono ulteriori elementi di complessità, opacizzando e rendendo spesso inintellegibili i propositi originari dell’artista o della sua committenza. Ciò è vero, a maggior ragione, nel caso di Ramnunte, dove i cambiamenti nel tessuto sociale che si verificarono, su questo territorio devono avere 70
Si stima che l’altezza della statua fosse di 3,50 m. due volte più del normale, mentre la base era di 0,50 m. Sulle misure della statua e della base, cfr. Despinis 1971, 62; Petrakos 1981, 229–232; Petrakos 1999a, 250; 252–255. Sulle dimensioni della statua, cfr. anche Zen. 5.82, s. v. Rhamnousia Nemesis. 71 Uno status quaestionis delle diverse posizioni è in Despinis 1971, 63–64. Secondo Roßbach 1897– 1902, 149 le figure sulla corona erano rappresentate a tutto tondo e vi erano quattro cervi e tre Nikai alate alternate, di cui una campeggiava al centro della corona. 72 Picard 1939 II, 2, 537. 73 Pucci 2014. Cfr. anche le riflessioni di Marcadé 1985 sulla polivalenza delle immagini nella scultura antica.
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Fig. 5 Ricostruzione della statua di Nemesis a Ramnunte (da Erhardt 1997, 31, Abb. 1).
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inciso sulla percezione della divinità e di conseguenza anche sulla comprensione della sua rappresentazione iconografica.74 La lettura dei significati che questo monumento vuole trasmettere è oggettivamente un rebus che resiste ai più acuti sforzi esegetici, lasciando sempre fuori qualche elemento. Tuttavia, a dispetto di queste difficolte oggettive e della naturale cautela che ogni tentativo di interpretazione impone, non ci si può esimere dal provare ad avviare un’analisi che, tassello dopo tassello, conduca a una proposta di lettura. Si seguirà quindi lo sguardo di Pausania, procedendo dall’alto verso il basso e, nella fattispecie, dalla corona che circondava la testa dell’agalma per giungere giù fino alla base. Ebbene, nel mondo antico, la corona, oltre a essere marca distintiva di uno status, implica, in qualche modo, il realizzarsi di un destino o di un compito, il raggiungimento di un fine.75 La corona sulla testa di una divinità dovrebbe ben indicare quindi ciò cui la divinità tende e la ragione per la quale è onorata dagli uomini. Nel caso di Nemesis però la presenza di cervi e piccole statue di Nike suona un po’ come un ossimoro. Se gli agalmata di Nike sembrano volere annunciare una serie di trionfi che la divinità dovrebbe propiziare,76 viceversa il cervo rappresenta, nell’immaginario greco, la preda per eccellenza, l’animale veloce, facile alla fuga, pavido, frugale, incline ad accontentarsi di quanto dispone, e la cui vita, particolarmente longeva, è marcata da periodici cicli di rinnovamento.77 Alla forza e alla potenza che le Nikai evocano fa quindi da contrappunto l’estrema fragilità del cervo e gli alti e i bassi cui la sua lunga esistenza deve far fronte. Entrambe le figure sembrano avere in comune però la rapidità di movimento nell’attraversamento degli spazi: Nike nel raggiungere e incoronare colui che trionfa e i cervi nel darsi alla fuga. Questa presenza ripetuta di cervi e di statue di Nike – agalmata su un agalma – per quanto a prima vista enigmatica per l’osservatore moderno, appare a un esame più attento ben rappresentare l’ambito su cui la potenza della dea si dispiega: quell’alternarsi delle sorti che rende ora tracotanti nella celebrazione dei trionfi ora fragili e pronti alla ritirata.78
74 Cfr. supra p. 175 e ss. 75 Onians 2011 [1951], 453–453 e sull’uso della corona presso i Greci, Blech 1982. 76 Gulaki 1981, 138 puntualizza come la rappresentazione di Nike, nella sua qualità di potenza portatrice di forza e dispensatrice di vittoria, possa ricorrere sostanzialmente al fianco di qualunque altra divinità. Nel IV sec., almeno, la funzione di Nike è quella di introdurre gli attributi della divinità che presiede il santuario. Che questa fosse la funzione anche delle Nikai, rappresentate sulla corona della Nemesis di Ramnunte, è difficile sostenerlo con decisione, poiché non possediamo testimonianze che consentano di affermare che i cervi siano un attributo di Nemesis. Non resta quindi che riconoscere alla divinità, sulla base della decorazione della corona, un generico rapporto con la vittoria. 77 Arist. Hist. an. 9.5, 611 a-b; Plin. Nat. hist. 8.49–51; Artemid. Oneir. 2.12, 156–160; Ael. Hist. an. 6.11. In particolare, sul cervo nell’antichità, cfr. Lewis/Llewellyn-Jones 2018, 296–309. 78 Sugli attributi della corona di Nemesis e in particolare sui i diversi significati cui essi possono rinviare, cfr. le ipotesi suggerite da Ehrhardt 1997, 33.
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Si tratta di un monito la cui eco può riconoscersi anche negli altri attributi assegnati alla statua che Pausania menziona, nel prosieguo della sua descrizione, precisando che Nemesis teneva in una mano un ramo di melo e sulla destra una phiale sulla quale erano rappresentati degli Etiopi (ταῖς δὲ χερσὶν ἔχει τῇ μὲν κλάδον μηλέας, τῇ δεξιᾷ δὲ φιάλην, Αἰθίοπες δὲ ἐπὶ τῇ φιάλῃ πεποίηνται). A proposito degli Etiopi egli apre una lunga digressione, prendendo le distanze rispetto a quella che era evidentemente la versione locale e puntualizza, come visto parzialmente nelle pagine precedenti: συμβαλέσθαι δὲ τὸ ἐς τοὺς Αἰθίοπας οὔτε αὐτὸς εἶχον οὔτε ἀπεδεχόμην τῶν συνιέναι πειθομένων, οἳ πεποιῆσθαι σφᾶς ἐπὶ τῇ φιάλῃ φασὶ διὰ ποταμὸν Ὠκεανόν· οἰκεῖν γὰρ Αἰθίοπας ἐπ’ αὐτῷ, Νεμέσει δὲ εἶναι πατέρα Ὠκεανόν. Ὠκεανῷ γὰρ οὐ ποταμῷ, θαλάσσῃ δὲ ἐσχάτῃ τῆς ὑπὸ ἀνθρώπων πλεομένης προσοικοῦσιν Ἴβηρες καὶ Κελτοί, καὶ νῆσον Ὠκεανὸς ἔχει τὴν Βρεττανῶν· Non ho potuto indovinare il perché della raffigurazione degli Etiopi, né accetto la spiegazione di coloro che presumono di intendersene e che dicono che gli Etiopi vi sono rappresentati per via del fiume Oceano; gli Etiopi infatti abiterebbero sull’Oceano e Oceano è il padre di Nemesi. Oceano però non è un fiume, ma la parte estrema del mare navigato dagli uomini sulle cui rive vivono gli Iberi e i Celti, e in esso si trova l’isola dei Britanni. Paus. 1.33, 3–4 (trad. Musti)
Il Periegeta prende le mosse dalla descrizione della phiale, che Nemesis porta sulla mano destra, per contestare quella che sembra essere, a tutti gli effetti, la versione locale. Egli mette in discussione la relazione, basata su una presunta prossimità geografica degli Etiopi con Oceano e la qualificazione di quest’ultimo in quanto fiume, ma non ha difficoltà ad ammettere la parentela con la dea. Diversi sono gli argomenti che Pausania getta sul tappeto per sostenere la sua argomentazione. In primo luogo, alla luce delle conoscenze geografiche del suo tempo, sottolinea che Oceano non è un fiume, ma la porzione di mare, navigata dagli uomini, collocata ai più estremi confini dell’ecumene, laddove abitano popolazioni tradizionalmente considerate lontane come gli Iberi e i Celti e dove si collocano territori di recente entrati nel raggio di attenzione dell’Impero romano, come l’isola dei Britanni.79 E aggiunge anche ulteriori riflessioni sugli Etiopi, precisando che né quelli che vivono presso il Mar Rosso, gli Ittiofagi, tra cui i «più giusti» sono quelli della città di Meroe che mostrano la tavola del sole;80 né i Mauri, che si collocano ancora di più ai confini della terra, abitano nei pressi di un fiume chiamato Oceano. La sua conclusione è pertanto che, venuto meno il dato della prossimità geografica degli Etiopi al fiume Oceano, sostanzialmente ingiustificata sia, ai suoi occhi, la loro presenza sulla phiale di Nemesis.
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Cfr. Zecchini 1987. Paus. 1.33, 4.
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È tuttavia evidente che, con il riferimento a «coloro che presumono di intendersene», egli stia esponendo la versione delle guide locali che interpretavano la decorazione con gli Etiopi, come un’allusione, costruita per metonimia, al fiume Oceano, forse al fine di sottolineare la specificità della tradizione attica che assegnava a quest’ultimo la paternità della dea. Contestando quindi solo la relazione di prossimità tra gli Etiopi e Oceano, ma non mettendo in discussione il rapporto di filiazione che la dea aveva con quest’ultimo, è chiaro che a Pausania viene a mancare una chiave esegetica di fondamentale importanza. Stretto fra due necessità, parimenti vincolanti, quella di non abiurare alle ormai consolidate acquisizioni in campo geografico e quella di decodificare il significato iconografico degli attributi della statua, egli tenta di fare fronte a entrambe le esigenze, recuperando – ma neanche in modo troppo convinto – con l’allusione al primato nel campo della giustizia degli Etiopi di Meroe, il potenziale sanzionatorio con cui egli presenta il profilo di Nemesis e suggerendo così un’interpretazione che ha avuto larga fortuna negli studi.81 Il risultato è insoddisfacente ai fini di una più profonda comprensione del culto ramnusio e il Periegeta stesso rinuncia a proporre una soluzione, archiviando maldestramente la questione e passando, in modo brusco, a sottolineare l’assenza di ali sul simulacro ramnusio, caratteristica che esso ha in comune con tutte le statue arcaiche di Nemesis. La presenza delle ali, nelle rappresentazioni iconografiche di Nemesis, è una trovata recente – spiega Pausania – che si collega al desiderio che la divinità si manifesti nelle faccende d’amore (οἱ δὲ ὕστερον – ἐπιφαίνεσθαι γὰρ τὴν θεὸν μάλιστα ἐπὶ τῷ ἐρᾶν ἐθέλουσιν – ἐπὶ τούτῳ Νεμέσει πτερὰ ὥσπερ Ἔρωτι ποιοῦσι).82 Il Periegeta con queste parole ci offre una chiave fondamentale per la comprensione del funzionamento del politeismo greco, in base al quale la scelta di un preciso attributo iconografico poteva sollecitare l’intervento di una potenza divina in uno specifico campo d’azione. Una volta conclusa la descrizione della statua e dei suoi attributi, l’attenzione si sposta sui rilievi collocati sulla sua base, la cui descrizione prende le mosse, ancora una volta, da una doverosa precisazione in merito all’entourage di Nemesis: νῦν δὲ ἤδη δίειμι ὁπόσα ἐπὶ τῷ βάθρῳ τοῦ ἀγάλματός ἐστιν εἰργασμένα, τοσόνδε ἐς τὸ σαφὲς προδηλώσας. Ἑλένῃ Νέμεσιν μητέρα εἶναι λέγουσιν Ἕλληνες, Λήδαν δὲ μαστὸν ἐπισχεῖν αὐτῇ καὶ θρέψαι· πατέρα δὲ καὶ οὗτοι καὶ πάντες κατὰ ταὐτὰ Ἑλένης Δία καὶ οὐ Τυνδάρεων.
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Cfr. Picard 1958, che considera la presenza degli Etiopi sulla phiale di Nemesis come un’allusione alla fallimentare spedizione in Egitto, perché fosse da monito agli Ateniesi per il futuro; Fisher 1992, 503 n. 47, che reputa credibile il nesso tra la guerra di Troia e la sconfitta dei Persiani cui l’iconografia della statua sembra alludere, ma ammette che la storia del blocco di marmo possa essere un’invenzione successiva e Stafford 2000, 86, che suggerisce invece una lettura politica per la rappresentazione degli Etiopi sulla phiale, ritenendo che possa veicolare un riferimento alla capacità del potere degli Ateniesi di raggiungere le più remote genti barbare. Paus. 1.33, 7.
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Ora prenderò in esame i rilievi sulla base della statua, avendo premesso per chiarezza quanto segue. I Greci dicono che Nemesi è la madre di Elena, ma che questa è stata allattata e allevata da Leda; quanto al padre, questi e tutti concordemente ritengono che sia Zeus e non Tindareo. Paus. 1.33, 7 (trad. Musti)
Pausania chiarisce che, nel contesto ramnusio, la tradizione recepita era quella che costruiva una linea di discendenza diretta che da Oceano giungeva fino a Elena, passando per l’unione tra Zeus e Nemesis. Queste poche righe sono di importanza cruciale perché testimoniano che la versione del mito, accolta e celebrata in Attica, era quella riportata nei Canti ciprii, che faceva di Elena la figlia dell’incontro violento tra Zeus e Nemesis e di quest’ultima una divinità dell’apate, incline alla metamorfosi e capace di dispiegare la sua potenza, per terra e per mare, fino alle più remote contrade del mondo abitato. Ma c’è di più, poiché, come già mostrato, proprio a Ramnunte aveva avuto luogo l’unione forzata cui Zeus costringe Nemesis,83 il territorio viene così ad essere lo spazio di incubazione destinato a portare alla luce Elena, colei che avrebbe trascinato i Greci a combattere sotto le mura di Troia, attuando così il progetto di Zeus, concepito con l’accordo di Themis. Ramnunte è quindi la sede del concepimento dell’unica figlia mortale di Zeus e residenza privilegiata di Nemesis che la abita proprio insieme a Themis.84 Lo spettro di Troia, immagine archetipica della guerra, comincia ora ad aleggiare tutto intorno al simulacro di Nemesis, diventando un’ombra sempre più pesante che finisce per modificare, nel corso del tempo, la comprensione e la ricezione della statua di Ramnunte, appiattendone il significato sulla simmetria “guerra di Troia – guerre persiane” e sul sempreverde motivo del conflitto tra Greci e “barbari”. Troia è tuttavia il punto fermo che occorre tenere presente per proseguire in questo esercizio di decodifica del messaggio che la sottile grammatica degli attributi iconografici della statua mira a trasmettere per costruire attraverso di essi – come, per l’appunto, insegna Pausania – il campo d’azione nel quale scultore e committenza intendevano sollecitare l’epifania di Nemesis. La ricostruzione del monumento, noto tra l’altro anche da copie di epoca romana,85 permette di ragionare anche sui gesti della statua: come accade per altri simulacri divini, la mano destra con la phiale è allungata in direzione dell’osservatore. La phiale è usata solitamente per le libagioni all’inizio del rituale sacrificale, e come tale il suo impiego determina l’avvio della comunicazione tra umano e divino.86 In questo caso
83 Cfr. supra p. 111 e ss. 84 Cfr. infra p. 201 e ss.. 85 Per un catalogo delle diverse copie esistenti, Despinis 1971, 28–44. 86 Sull’importanza della phiale nell’ambito della comunicazione tra divino e umano e, in particolare, come attributo di una statua di culto, cfr. Simon 1998, 135–136. Più in generale sulla funzione della phiale, cfr. Veyne 1990; Patton 2009, 129–133; e più recentemente Collard 2016, 98–110.
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specifico, la scelta degli Etiopi come elemento decorativo costituisce, a dispetto delle perplessità di Pausania, proprio un rinvio immediato alla discendenza di Nemesis da Oceano, la cui identificazione come fiume che scorre ai confini del mondo abitato, nel V secolo, non doveva generare ancora troppo imbarazzo. Oceano è, d’altra parte, l’acqua primordiale da cui tutti i fiumi nascono; acqua vivifica per eccellenza, che arricchisce con le sue proprietà persino l’ambrosia, cibo degli dèi.87 Presso le sue correnti, ultimi fra gli uomini, secondo la geografia omerica, dimoravano gli Etiopi, stirpe fortunata di mortali nota per la prossimità con gli dèi che usavano soggiornare spesso presso di loro.88 Collocato al limite estremo della terra presso il fiume Oceano da cui sorgeva e in cui tramontava il sole, la rappresentazione di questo popolo sulla phiale favoriva un’associazione mentale diretta e immediata con Nemesis e con il suo stesso genitore: l’una preposta al controllo e alla tenuta dell’equilibrio sociale fra gli uomini; l’altro chiamato ad assicurare, con il suo flusso circolare e ininterrotto intorno all’ecumene, l’equilibrio cosmico isolando lo spazio abitato dai mortali da quello sotterraneo del Tartaro e quello celeste dall’Olimpo.89 Sulla base di queste considerazioni, si fa più agevole l’interpretazione dell’attributo sulla mano sinistra della statua: un ramo di melo tenuto verso il basso, stando alla ricostruzione della statua, quasi sottratto alla portata dell’osservatore e inaccessibile. L’attributo è stato in realtà variamente spiegato: negli studi più datati è messo in relazione con il culto di Afrodite di cui la statua di Ramnunte – secondo la testimonianza di Plinio – avrebbe dovuto essere originariamente una rappresentazione. Una lettura questa che è stata avvalorata anche dalla testimonianza di Fozio,90 in cui si afferma che la statua della Nemesis di Ramnunte è stata costruita ἐν Ἀφροδίτης σχήματι· διὸ καὶ κλάδον εἶχε μηλέας («con l’aspetto di Afrodite: per questo tiene il ramo di melo»). Altri invece vi hanno visto un’allusione al giardino delle Esperidi, sulla base dell’analogia con un rilievo attico di V sec. a. C.,91 che rappresenta Eracle in compagnia di due figure, una delle quali è raffigurata con un frutto, forse nell’atto di consegnarlo all’eroe.92 Secondo la tradizione, il giardino delle Esperidi era collocato al di là dell’Oceano,
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Sulle proprietà di Oceano e delle sue acque: Rudhardt 1971. Cfr. Hom. Il. 1.422–425 e Hom. Od. 1. 22–25. In quest’ultimo passo i versi omerici postulano una terra degli Etiopi divisa in due parti, l’una a Oriente e l’altra ad Occidente: a questo proposito, cfr. Ballabriga 1986, 108–109 e Romm 1992, 49–50. L’idea della prossimità geografica tra le terre degli Etiopi e le acque Oceano, lì dove il Sole termina il suo corso, compare anche in Aesch. Fr. 323 Mette (= Strab. 1.2, 27) e in Aesch. Prom. 808–809. Sui tratti caratteristici degli Etiopi e sulla loro relazione con i peirata e con gli altri popoli, quali gli Iperborei, collocati ai limiti estremi della terra, si veda MacLachlan 1992. Infine, sulle marche corporali tipiche dei popoli, come gli Etiopi, cui si attribuiva un’accentuata prossimità al divino: Peigney 2003. 89 Cfr. Hes. Theog. 721–728 con il commento di Ballabriga 1986, 257–258 a questi versi. 90 Phot. s. v. Rhamnοusia Nemesis. 91 Despinis 1971, 64. 92 Si tratta di un rilievo attribuito alle decorazioni dell’altare dei dodici dèi, sull’agora di Atene, le cui scene sono state ricostruite sulla base di confronti con rappresentazioni coeve o copie di età
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in uno spazio riservato ai soli immortali,93 in cui Eracle grazie alla sua discendenza e al suo valore riesce a penetrare.94 L’accesso al giardino delle Esperidi avvicina l’eroe a un’immortalità95 che gli era stata a lungo negata e i pomi sono, per l’appunto, un symbolon, per una delle tante prove superate grazie alle quali egli otterrà, in definitiva, un salvacondotto per il regno dell’Olimpo.96 La scelta di tale attributo nella mano sinistra di Nemesis si rivela essere certamente una rinnovata allusione alla parentela della dea con Oceano che, messa in relazione con la presenza degli Etiopi sulla mano destra, illustra97 attraverso il linguaggio iconografico i confini entro cui si dispiega la sua potenza, delimitata, all’esterno, proprio da quella del padre.98 La posizione dell’arto sinistro rivolto verso il basso, quasi a sottrarre l’oggetto alla visione dell’osservatore, suggerisce di leggere il ramo di melo – anche qui per metonimia – come un’allusione al giardino delle Esperidi, quale spazio precluso ai mortali ai quali essi non sono in condizione di potere aspirare.99
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romana. Sulla descrizione, il significato di questo rilievo e sul suo ruolo nel progetto iconografico dell’altare: Thompson 1952, 69, che considera questo altare coincidente con quello di Eleos, e Harrison 1964, 77–79. Cfr. sul carattere eminentemente divino di questo spazio, precluso ai mortali, e sull’interdizione per i mortali di potere gioire dei suoi frutti: Eur. Hipp. 742–751 e Apollod. Bibl. 2.5, 11; Aristocrat. FGrHist 591 F 1 e Hsch. s. v. Ἑσπερίδων μῆλα. Sulle ambiguità delle fonti relativamente alla collocazione geografica del giardino delle Esperidi, cfr. discussione in Ballabriga 1986, 81–84. Eracle riuscì a raccogliere i pomi uccidendo il serpente che li custodiva: cfr. Eur. Her. 394–406. Così anche Diod. 4.26 che riporta anche una tradizione differente, in base alla quale il riferimento sarebbe non ai pomi ma alle «greggi d’oro», animali di eccezionale bellezza custodite nel giardino delle Esperidi e il drakon in questione non sarebbe altro che il guardiano posto a tutela di questo spazio. Secondo Diod. 4.26 quella dei pomi delle Esperidi fu l’ultima fatica di Eracle terminata la quale lo attendeva l’immortalità, come aveva profetizzato l’oracolo di Apollo. In Apollod. Bibl. 2.5, 11, l’impresa è invece la penultima compiuta dall’eroe che conquista i pomi grazie alla collaborazione di Atlante, e ottiene l’immortalità solo dopo diverse altre vicende (cfr. ibid., 2.7, 7). Cfr. Eur. Her. 394–406. Sulla funzione simbolica dei pomi delle Esperidi, Harrison 1964, 79; Però 2014. Jourdain-Annequin 1989, 539 e, con qualche cautela, Matthey 2013. Un frammento di Mimnermo (Fr. 12 West = 5 Gentili/Prato) mette in relazione efficacemente la regione delle Esperidi con quella degli Etiopi, collegate l’una all’altra dal corso del sole. Cfr. a questo proposito Simon 1960, 18, n. 106 e, in modo molto convincente, Ehrhardt 1997, 34, che afferma: «Hirsche und Niken an der Krone des Kultbilds verbildlichen Qualitaten von Nemesis’ Wirkung, die mit Aithiopen verzierte Phiale und der Apfelbaumzweig die raumliche Ausdehnung dieser Wirkung, den umfassenden Macht- und Geltungsbereich der Gottin. Keines dieser Motive ist fur sich allein genommen ein charakteristisches Kennzeichen. Ihre Kombination am Kultbild der Nemesis von Rhamnus ist singulär». Dietrich 2018, 114 e 136–137, ha invece puntualizzato come, a partire dalla metà del V sec. a. C., spesso nelle statue, la mano destra, quella attiva, della statua si liberi dell’attributo principale della divinità che passa sulla sinistra. Nella fattispecie, in relazione alla statua di Ramnunte, osserva come la destra con la phiale svolga una funzione allocutiva nei confronti dell’osservatore, avviando con esso una comunicazione rituale. Il ramo di melo avrebbe potuto anche rievocare la vicenda che aveva portato allo scoppio della guerra di Troia, a causa della collera di Eris, la celebre esclusa dal matrimonio di Peleo e Teti. L’aneddoto (Apollod. Ep. 3, 2), in cui si racconta che la dea fece rotolare una mela d’oro tra le divinità invitate, suscitando la celebre competizione per la bellezza tra Era, Atena e Afrodite da cui poi ebbe origine la guerra di Troia, compare però solo tardivamente e non abbiamo tracce di una sua diffu-
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2.4 La base Dal braccio sinistro rivolto verso il basso, lo sguardo dell’osservatore punta naturalmente verso la base, seguendo i nessi di una sintassi rigorosa, che è lo stesso testo di Pausania a indicare. In questa scena, descritta sommariamente dal Periegeta, si percepisce l’eco della guerra di Troia, ma è un’eco lontana, rifratta per effetto di molteplici elementi di distorsione. Il tema è introdotto dalla menzione del concepimento di Elena da parte di Zeus e Nemesis, del ruolo di Leda nell’educazione della fanciulla e dalla considerazione che Fidia, essendo certamente a conoscenza di queste tradizioni, aveva scelto di rappresentare sui rilievi che decoravano il piedistallo: ταῦτα ἀκηκοὼς πεποίηκεν Ἑλένην ὑπὸ Λήδας ἀγομένην παρὰ τὴν Νέμεσιν, πεποίηκε δὲ Τυνδάρεών τε καὶ τοὺς παῖδας καὶ ἄνδρα σὺν ἵππῳ παρεστηκότα Ἱππέα ὄνομα· ἔστι δὲ Ἀγαμέμνων καὶ Μενέλαος καὶ Πύρρος ὁ Ἀχιλλέως, πρῶτος οὗτος Ἑρμιόνην τὴν Ἑλένης γυναῖκα λαβών· Ὀρέστης δὲ διὰ τὸ ἐς τὴν μητέρα τόλμημα παρείθη, παραμεινάσης τε ἐς ἅπαν Ἑρμιόνης αὐτῷ καὶ τεκούσης παῖδα. ἑξῆς δὲ ἐπὶ τῷ βάθρῳ καὶ Ἔποχος καλούμενος καὶ νεανίας ἐστὶν ἕτερος· ἐς τούτους ἄλλο μὲν ἤκουσα οὐδέν, ἀδελφοὺς δὲ εἶναι σφᾶς Οἰνόης, ἀφ’ ἧς ἐστι τὸ ὄνομα τῷ δήμῳ. Essendo al corrente di queste tradizioni, Fidia ha rappresentato Elena mentre Leda la conduce da Nemesi, e ha rappresentato Tindareo, i figli e un uomo di nome Hippeus, che sta al loro fianco con un cavallo; ci sono Agamennone, Menelao e Pirro, il figlio di Achille, primo marito di Ermione, figlia di Elena; Oreste non è rappresentato a causa del matricidio, ma Ermione rimase al suo fianco e gli diede un figlio. Sulla base c’è anche un certo Epoco, e un altro giovinetto (neanias); su di loro non ho inteso nulla se non che erano fratelli di Enoe, da cui prende nome il demo. Paus. 1.33, 8 (trad. Musti)
Gli studiosi si sono molto interrogati sul significato di questa scena, ponendo diversi quesiti al testo di Pausania e incrociando la sua descrizione con i frammenti che sono stati recuperati nel corso di diverse campagne di scavo nel demo di Ramnunte100. Dalle testimonianze archeologiche sappiamo che il rilievo, realizzato su due blocchi di marmo pentelico, occupava solo tre lati della base, lasciando libero quello posteriore. La fascia decorata poggiava su un plinto, anch’esso in marmo pentelico, sormontato da una cornice in marmo nero di Eleusi (Fig. 6).101 Sulla base dei frammenti reperiti, è stato possibile individuare quattordici figure, un numero che confligge con i dodici personaggi menzionati in maniera esplicita da sione in età arcaico-classica, quindi, questa pista non sembra essere percorribile. Sulla simbologia dei pomi cfr. l’ampia raccolta di testimonianze in Forster 1899 e Littlewood 1968. 100 Petrakos 1981, 227–228. 101 Ibid.
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Fig. 6 Ricostruzione della base della statua di Nemesis (da Petrakos 1986, 106 pl. 112:3).
Pausania.102 Non è chiaro se la statua e il suo piedistallo fossero da attribuire al medesimo scultore, né se fossero stati realizzati contemporaneamente, tuttavia sembra che tanto il tempio, quanto la collocazione in esso della statua e della base possano datarsi agli anni tra il 430 e il 420.103 La difficoltà maggiore tuttavia risiede nella comprensione dell’immagine con l’individuazione dei personaggi che la compongono e del momento della vicenda mitica in cui lo scultore intendesse collocare l’episodio della presentazione da parte di Leda di Elena alla madre Nemesis. Diverse sono state le ipotesi avanzate: vi è chi ha collocato l’evento all’epoca del fidanzamento della fanciulla con Menelao;104 chi ha preferito quello del ritorno nell’oikos originario, dopo la fine della guerra di Troia;105 chi invece vi ha letto un riferimento al momento della divinizzazione di Elena, riconoscendolo come quello in cui la donna si sarebbe ritrovata al cospetto alla madre, accompagnata da altri eroi ormai morti e già chiamati nei campi elisî, dopo 102 Petrakos 1999a, 259. La ricostruzione della scena raffigurata sulla base della statua di Nemesis è materia piuttosto controversa. Gli studiosi hanno cercato di trovare una soluzione alle diverse aporie e difficoltà poste dal testo di Pausania. Uno status quaestionis relativo alle primissime proposte di identificazione dei personaggi raffigurati può trovarsi in Petrakos 1981, 239 e Id. 1999a, 259–266, cui rimando per le indicazioni bibliografiche. Lo studioso, sulla base dei frammenti reperiti nelle diverse campagne di scavo e dell’analisi della struttura stessa della base, conta 14 figure in luogo delle 12 menzionate da Pausania. Tra questi, ha ipotizzato anche la presenza di Teseo (p. 263). Lapatin 1992, prendendo le mosse dalla ricostruzione di un rilievo neo-attico da Roma, conservato a Stoccolma, vi riconosce un’ulteriore figura femminile rispetto a quelle nominate da Pausania, che ritiene possa essere identificata con Clitemestra (9). Suggerisce (p. 114) inoltre la presenza di Zeus (4) e di Tindareo (11) agli angoli della base (4). Secondo Karanastasi 1994, 121–131, invece la quarta donna (9) rappresentata sulla statua andrebbe identificata con Themis, anch’essa onorata a Ramnunte (p. 127). 103 Petrakos 1981, 242 e Knittlmayer 1999, 2. 104 Schefold 1981, 244. 105 Simon 1960, 19–20. Per una sintesi delle diverse proposte avanzate, vd. Lapatin 1992, 117–110.
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avere realizzato il piano predisposto per lei dagli dèi dell’Olimpo.106 Rispetto a queste piste, occorre inoltre puntualizzare che in questa area, al confine settentrionale dell’Attica, la saga di Elena si collegava alle imprese di Teseo, l’eroe ateniese che dando prova di grande prepotenza aveva rapito la principessa spartana ancora fanciulla. Così facendo aveva causato la prima invasione dell’Attica da parte dei Tindaridi, fratelli di Elena. Questi ultimi, giunti con un grande esercito, ricevettero l’aiuto del re eponimo di Decelea, il quale temendo le conseguenze di questa aggressione e biasimando il comportamento di Teseo, li condusse ad Afidna dove riuscirono a ritrovare la sorella.107 Come gesto di rappresaglia, i Tindaridi avrebbero rapito, a loro volta, la madre di Teseo, Etra, il cui destino sarebbe stato poi quello di seguire come ancella Elena a Troia.108 Se si esclude però la presenza dei Tindaridi sul monumento, nessun altro dettaglio consente di mettere la scena raffigurata sulla base di Nemesis in relazione con questo episodio. Occorre, pertanto, seguire altre piste per proporre un’interpretazione plausibile: in primo luogo, è opportuno sottolineare che il cuore della scena, il punto focale verso cui Pausania attira l’attenzione dell’osservatore e verso cui lo sguardo doveva essere naturalmente portato, è il riconoscimento di Elena da parte di Nemesis, alla presenza di Leda e di tutta la sua famiglia allargata; e, in secondo luogo, che a tale incontro viene assegnato un sapore tipicamente locale,109 sottolineato dalla presenza fra gli astanti di eroi attici, per lo più anonimi, come i fratelli di Oinoe, che dava il nome a uno dei demi dell’Attica, e ancora l’Epoco, di cui Pausania non sa dire altro che il nome, insieme ad altre figure non altrimenti identificabili come il giovinetto e l’uomo con il cavallo. Un’altra spia su cui riflettere è anche l’assenza, sottolineata da Pausania, di Oreste escluso programmaticamente dalla rappresentazione del consesso familiare a causa del matricidio di cui si era macchiato. Diverso invece sembra il caso di Ermione, di cui la ripetuta menzione del nome insieme alla precisazione sul destino di Oreste e alla raffigurazione di Neottolemo-Pirro può invece suggerirne la presenza sulla base, omessa solo per distrazione dal Periegeta.110 Comprendere il principio che ha guidato l’assemblaggio del gruppo di eroi che popolano il rilievo non è semplice. Certo è che la precisazione sull’assenza di Oreste sembra essere un indizio di quello che doveva essere l’orizzonte di attesa dell’osservatore che, guardando la sequenza di personaggi rappresentati sul rilievo, avrebbe potuto interrogarsi sulle ragioni della scelta iconografica operata dallo scultore. La scena sembra, in generale, costruita sulla sovrapposizione di diversi piani temporali: colpisce 106 Delivorrias 1984. 107 Hdt. 9.73; Plut. Thes. 31. Sulle tradizioni ateniesi relative al rapimento di Elena, rinvio a Biraschi 1989, 43–85 con ampia discussione delle fonti. 108 Hom. Il. 3.144. 109 Petrakos 1999a, 263 parla, a questo proposito, di «τοπικιστικὸ πνεῦμα». 110 Sulla presenza di Ermione concorda anche Palagia 2000, 64 che però la identifica nella figura femminile che maneggia il velo (6). Sulle ipotesi di identificazione delle diverse figure rappresentate al centro della base, cfr. infra p. 199, n. 113.
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infatti la rappresentazione simultanea di tre generazioni: quella dei genitori mortali di Elena, Tindaro e Leda, e di quelli divini con Nemesis e forse anche Zeus, se si accorda fiducia all’ipotesi di K. D. Shapiro Lapatin.111 Oltre a questa, presente era tanto la generazione coeva alla donna, con il cognato Agamennone, il marito Menelao e i figli di Tindaro; tanto quella successiva, con lo sposo della figlia e la figlia stessa, benché Pausania tralasci di inserirla con chiarezza nella sua lista. Quel che è evidente è che all’efficacia del messaggio da trasmettere viene sacrificata la logica narrativa, inficiata da palesi anacronismi quali la raffigurazione sul medesimo piano temporale di personaggi come Agamennone il cui assassinio fu, secondo la tradizione mitica, la causa che armò la mano del figlio Oreste contro la madre Clitemestra. D’altra parte, se Agamennone vivo era presente sul rilievo, allora non c’era ragione di escludere Oreste, poiché a quel tempo non aveva ancora commesso il matricidio, finalizzato a vendicare l’omicidio del padre. La sua estromissione dalla scena può essere spiegata in due modi: o ipotizzando che lo scultore abbia voluto rappresentare un momento ben preciso sulla linea del tempo, prima della guerra di Troia, escludendo Oreste a causa del crimine che sarebbe stato destinato a compiere; oppure, che egli abbia preferito riprodurre una scena “senza tempo”, in cui ben presente era agli osservatori il destino individuale di ciascun personaggio, ma in cui comunque non poteva trovare posto il matricida Oreste.112 Quello che è chiaro è che ad essere illustrato è l’oikos di provenienza di Elena, la famiglia allargata dei suoi consanguinei e affini, che assistono tutti, a dispetto degli scarti generazionali, al disvelamento della donna di fronte alla madre. In effetti, la figura che è stata identificata con Elena (6) appare nell’atto di maneggiare un velo,113 compiendo un gesto che solitamente rinvia alla celebrazione del vincolo matrimoniale, quando la nymphe si svela davanti allo sposo,114 ma che in questo caso – in assenza di figure maschili plausibili, almeno stando alla ricostruzione dei personaggi proposta dagli archeologi – potrebbe essere interpretato tanto come un impulso a coprirsi per sottrarsi alla nemesis altrui, come accade alla Elena dei poemi omerici,115 quanto il gesto di scoprirsi per farsi riconoscere dalla madre. Nell’ambiguità di questo gesto si coglie il destino singolare di Elena, al tempo stesso agente di Neme-
111 Lapatin 1992, 115. 112 Il potenziale di contaminazione, che il delitto compiuto da Oreste portava con sé, era considerato nell’Atene del V sec. condizione particolarmente destrutturante per la compagine sociale e politica e necessitava una marginalizzazione totale del responsabile. Si vedano a questo proposito le riflessioni di Giordano 2017. 113 La figura 6 che maneggia il velo è stata variamente identificata: Petrakos 1986, 95, ritiene che si tratti di Leda, seguita da Elena (7) e poi da Nemesis (8) e Oinoe (9); Lapatin 1992, 111 vi riconosce Elena (6), affiancata da Leda (7), Nemesis (8) e Clitemestra (9). Karanastasi 1994, 127, ipotizza la seguente sequenza: Leda (6); Elena (7); Nemesis (8); Themis (9). Secondo Palagia 2000, 64, la figura (6) sarebbe invece Ermione, affiancata da Elena (7); Nemesis (8) e Leda (9). 114 Cfr. Gherchanoc 2006 e supra p. 67. 115 Cfr. supra p. 65 e ss.
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sis e potenziale bersaglio della nemesis.116 Al suo fianco, può riconoscersi la figura di Leda (7) che la introduce al cospetto di Nemesis (7), a sua volta affiancata da un altro personaggio femminile, nel quale può riconoscersi Ermione (8). La sua presenza può comprendersi bene anche nel contesto di un progetto iconografico in cui passato e presente si chiariscono vicendevolmente, in una catena che lega indissolubilmente il destino dei genitori a quello dei figli.117 In quanto figlia di Zeus e di Nemesis, Elena è una mera esecutrice del piano divino del Cronide che ha stabilito di alleggerire la terra troppo gravata dal peso dei mortali:118 un provvedimento che testimonia un’interruzione del corretto funzionamento dei rapporti tra mortali e immortali. In quanto bersaglio della nemesis essa però incarna gli effetti devastanti che un venir meno alle regole sociali può generare. Nell’uno e nell’altro caso l’esito è la guerra, una guerra sanguinosa che incide sull’esistenza umana e alimenta a sua volta il senso della nemesis nei confronti di chi di tale guerra è ritenuto responsabile. Vecchie e nuove generazioni ne portano il segno; vecchie e nuove generazioni prendono simultaneamente consapevolezza dell’efficacia di una potenza, il cui raggio d’azione raggiunge i mortali nell’arco temporale della loro esistenza sulla terra, restituendo così la certezza della pena e non solo la vaga speranza in una compensazione di cui i posteri potranno prendere atto, con il trascorrere di diverse generazioni. Poiché Elena è pur sempre una pedina di un piano divino sovraordinato, per lei nessuna pena è prevista, salvo l’imbarazzo di sostenere lo sguardo del suo gruppo sociale di riferimento e quello di trovarsi di fronte alle conseguenze che il suo ambiguo status di mortale figlia di cotanti genitori divini ha causato alla sua cerchia di parenti più prossima. La figura di Nemesis sul rilievo serve allora a spiegare il retroscena della vicenda mitica di Elena, il senso di un progetto divino ma anche le sue conseguenze sotto lo sguardo di quegli spettatori esterni, rappresentati dagli eroi locali e da anonimi giovani che, con la loro presenza, offrono all’incontro della figlia con la madre una cornice di realizzazione, testimoniando una piena comprensione del ruolo di Nemesis nell’esistenza umana. Sotto gli occhi di questi anonimi spettatori raffigurati sulla scena, ma anche degli osservatori e dei visitatori del santuario stava soprattutto il dolore causato dalla guerra, ma anche il biasimo che insegue chi di essa è responsabile.119 Un tema questo, certo, di sicuro impatto, negli anni tra il 430 e il 420, quando la statua fu commissionata e realizzata. Diversi sono stati i tentativi di leggere nella scelta del soggetto rappresentato sulla 116 È sufficiente a questo proposito fare riferimento al discorso fra gli anziani troiani all’interno dell’Iliade esaminato nel primo capitolo di questo volume, cfr. supra p. 65. 117 Agli angoli della base possono effettivamente riconoscersi, come già suggerito da altri studiosi (cfr. supra n.), il padre divino Zeus (4) e il padre mortale di Elena, Tindaro (11) che assistono alla scena. Sulle diverse ipotesi di identificazione degli altri personaggi sul rilievo, rinvio a Petrakos 1999a, 262, e a Kosmopoulou 2002, 132–133 per una sintesi delle proposte più recenti. 118 Cfr. infra p. 203. 119 Sul rapporto tra il riferimento alla rappresentazione della vicenda di Troia, nel V sec., e i dolori causati dalla guerra, si veda: Knittlmeyer 1999, 10–11.
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base, che colloca l’intera famiglia regale spartana in un’ambientazione tipicamente attica, riferimenti più o meno precisi all’attualità. Vi è chi vi ha visto un’allusione a una possibile riconciliazione con Sparta, negli anni dello scoppio della guerra del Peloponneso o della pace di Nicia, e chi invece un’allusione alla ripresa dell’aggressività spartana.120 Certo, l’eventuale presenza dei Tindaridi, se confermata, potrebbe costituire un riferimento alle ripetute invasioni dell’Attica negli anni della guerra del Peloponneso, ma è difficile, e forse neanche troppo produttivo, trovare una chiave di lettura univoca. La pista più sicura e più prudente è quella di cercare nell’iconografia della statua e della base una rappresentazione della divinità con cui si voleva interagire. Collocata all’interno di un tempio ai confini dell’Attica, la cui struttura restò tuttavia incompleta, la statua mostra, da un lato, i limiti entro cui deve svolgersi l’agire umano; dall’altro, lo spazio in cui si dispiegava l’orizzonte di efficacia della potenza che tali limiti marcava, in un intersecarsi consapevole tra i piani dell’azione divina di Nemesis e il registro della nemesis umana. A dispetto degli agalmata di Nike da cui è coronata la stessa statua di Ramnunte, gli exploit umani e i trionfi di guerra sono illusori e aleatori, perché la sorte è mutevole. Gli abitanti dell’Attica, che nel primo decennio della guerra del Peloponneso avevano assistito alle devastazioni del loro territorio, ne erano consapevoli. Nemesis di certo si ergeva alle frontiere dell’Attica quale monito per i Ramnusî, per gli Ateniesi e per tutti gli attori coinvolti nel conflitto, ricordando, tramite la vicenda della spartana Elena, i dolori e il biasimo che insegue i responsabili di una guerra, anche quando quest’ultima appare ineluttabile. 3. Themis e Nemesis a Ramnunte: potenze antagoniste e complementari La mole di materiali e di documenti epigrafici restituita dagli scavi nel demo di Ramnunte consente di fare di questo territorio un laboratorio piuttosto fecondo per studiare le logiche e i meccanismi di funzionamento del politeismo greco, all’interno di una piccola comunità. In questo villaggio, ai confini estremi dell’Attica, è possibile assistere infatti a una graduale trasformazione e rimodulazione del consesso divino cui i demoti e i residenti temporanei rivolsero la loro attenzione. Il modificarsi della composizione demografica del territorio, soprattutto nei secoli tra il IV e il II, anche in relazione alle mutate esigenze di difesa dell’Attica o alla funzione che quest’area venne ad assumere sotto i sovrani macedoni, determinò lo sviluppo di nuovi culti, dando luogo a successive riconfigurazioni del pantheon locale.121 Ricostruire le linee di tali trasformazioni significa comprendere come si modifica il ruolo e il profilo della divinità in relazione alla 120 Per una sintesi delle varie posizioni con riferimenti bibliografici, rinvio a Kosmopoulou 2002, 130– 133, che riesamina l’intera questione e propone saggiamente che le diverse interpretazioni fornite dagli studiosi non si escludono vicendevolmente (p. 134). 121 Baumer 2010 ha osservato come il paesaggio religioso dell’Attica avesse subito trasformazioni so-
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comunità che la onora e al mutarsi del paesaggio religioso in cui è inserita, ma significa soprattutto guardare il politeismo al microscopio, interpretarne le variazioni, le fasi di continuità e gli agenti di cambiamento. Nel caso di Ramnunte, il nucleo principale da cui prendere le mosse è senz’altro il binomio Themis-Nemesis che attraversa la storia religiosa del demo, a partire forse già dall’età arcaica fino alla fine del II sec. a. C. Nelle iscrizioni,122 che riportano la menzione congiunta delle due divinità, il nome di Nemesis segue sempre quello di Themis, quasi si riconoscesse a quest’ultima un carattere di maggiore arcaicità che si concretizzava in una priorità cultuale all’interno dell’area santuariale.123 D’altro canto però, almeno nella documentazione che ci è pervenuta, Themis non è mai menzionata da sola, eccetto che sull’iscrizione che riporta la dedica di un trono a quest’ultima, ma di cui possediamo l’elemento gemello con la stessa dedica a Nemesis.124 L’associazione tra Themis e Nemesis, pur costituendo una peculiarità tipica del demo di Ramnunte, è abbastanza comprensibile, anche a un’analisi sommaria. In entrambi i casi si tratta di potenze normative cui è riconosciuta una competenza nella sfera della giustizia, ma anche in quella del mantenimento dell’ordine. Al di là, però, delle analogie superficiali, mettere a confronto il profilo delle due divinità, la loro genealogia e vicenda mitica consentirà di leggere con maggiore profondità la valenza di tale binomio divino per i frequentatori del santuario di Ramnunte e, di conseguenza, di meglio comprendere l’articolazione tra la rappresentazione panellenica di Nemesis e il suo culto a livello locale e regionale. Nella tradizione mitica Themis è figlia di Urano e Gaia;125 a lei è riconosciuta una competenza oracolare, ereditata proprio dai genitori. È su loro suggerimento infatti che Zeus, dopo avere preso in moglie Metis, destinata a dare alla luce una prole assai saggia, la inghiotte, mentre era sul punto di partorire Atena «dotata di forza uguale a quella del padre e di saggio consiglio».126 Il Cronide genera poi dalla sua testa una divinità, che porta nel suo patrimonio genetico i tratti della metis materna, ormai però addomesticata e guadagnata all’ordine divino voluto da Zeus. Themis, a sua volta, interviene nella contesa tra il Cronide e Poseidone per avvertirli del rischio di una loro eventuale unione con Teti da cui sarebbe nato un figlio più forte del padre: questa volta stanziali già a partire dal VI sec. a seguito della riforma democratica voluta da Clistene e, senza entrare nel dettaglio, considera che in tale processo il demo di Ramnunte fu pienamente coinvolto. 122 I.Rhamnous 32; 75; 120; 121; 122; 133; 151. La prima menzione di Themis è individuata da V. Ch. Petrakos in I.Rhamnous 75 (= IG I3 1018 quinquies), un perirrhanterion datato alla metà del VI sec. a. C. Più cauta Berti 2001, 293, che considera troppo frammentario il documento, perché possa essere con certezza ascritto all’epoca arcaica e ritiene che la comparsa del culto della dea a Ramnunte possa datarsi solo a partire dal IV sec. Sulle iscrizioni che contengono la menzione di Themis si veda anche infra p. 229. 123 È questa la posizione di Wilhelm 1940, 205. 124 Sulla dedica di questo trono, cfr. infra p. 232. 125 Hes. Theog. 132–138. 126 Hes. Theog. 886–900.
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la minaccia viene aggirata costringendo la dea alle nozze con il mortale Peleo.127 Ed è sempre Themis che al titano Prometeo, suo figlio, vaticina il futuro128 e, come ormai è stato puntualizzato più volte, innesca con il suo consiglio, l’avvio della guerra di Troia, finalizzata, secondo il progetto divino, ad alleggerire Gaia, troppo gravata dal peso degli umani.129 È ancora con Themis poi che si unisce Zeus, dopo l’unione con Metis. Da questa unione nascono le Horai, Eunomia, Dike ed Eirene, potenze capaci di assicurare prosperità alle comunità, in quanto preposte al loro buon funzionamento e al rispetto e all’applicazione delle norme giuridiche. Oltre alle Horai, da questa unione nascono anche le Moirai, divinità del limite, che segnano le tappe della vita dei mortali dalla nascita alla morte. Riunendo in sé le prerogative distributrici del padre Zeus e le istanze regolatrici della madre Themis, le Horai e le Moirai – come è spiegato con chiarezza da G. Pironti – «veillent à ce qu’advienne tout ce qui a été établi et à ce que tout advienne au moment établi».130 Sul piano politico, la forza regolatrice di Themis emerge dalla competenza che le è attribuita nella convocazione e nello scioglimento delle assemblee dei mortali e degli immortali e, quindi, nel ruolo riconosciutole nell’identificazione dello spazio temporale destinato alla deliberazione.131 Nemesis, dal canto suo, stando alla tradizione attica, che le assegnava Oceano come padre, è di una generazione successiva a quella di Themis. La prima differenza tra le due potenze sta dunque proprio in questo scarto generazionale e nell’appartenenza della dea di Ramnunte a una diversa linea genealogica che, derivando da Oceano, la avvicina a Metis, prima compagna di Zeus. Con Metis, così come con la stessa Teti che appartiene alla stessa linea genealogica, in quanto figlia di Nereo, Nemesis condivide una capacità metamorfica che le rende agevole sfuggire e sottrarsi al controllo del sovrano divino e, in virtù di tali capacità, costituisce anch’essa un pericolo per l’ordine costituito. Nulla ci dicono le fonti sul passato di Nemesis prima di questo incontro con Zeus, a esclusione della testimonianza esiodea che le assegna una discendenza da Notte. Tanto Notte quanto Oceano, tuttavia, rappresentano potenze del limite: l’una assicura la tenuta del cosmo, l’altro ha il compito di delimitare l’ecumene. Figura di contenimento e di moderazione, Oceano infatti popola con la sua prole straordinaria, in modo capillare, tutto l’universo abitato dagli uomini. Le Oceanine rappresentano spesso istanze di regolazione morale, basti pensare a Stige, il gran giuramento degli dèi, o a Peitho, la persuasione, ma soprattutto, ad esse è demandato il compito di allevare i giovani (αἳ κατὰ γαῖαν ἄνδρας κουρίζουσι).132 Ha senso quindi 127 Apollod. Bibl. 13.5. 128 Aesch. Prom. 210–211. 129 Cfr. Procl. Chrest. 80 = Kypr. Arg. 1, 1–7 West e Schol. Il. D 1.5. Cfr. supra p. 116. 130 Pironti 2009, 16. 131 Cfr. Hom. Il. 20.4–6 e Od. 2.68–9. Su Themis e il suo entourage si vedano in particolare: Rudhardt 1999 e Pironti 2009 e, più generale, Corsano 1988; Stafford 2000, 45–74; Smith 2011, 46–49. 132 Hes. Theog. 346–347.
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che proprio Ramnunte dove, secondo la tradizione attica, aveva sede il culto di questa “Oceanina”, facesse da teatro alle attività degli efebi ateniesi. Dal padre che, come emerge dalla descrizione omerica dello scudo di Achille, circonda il mondo con la sua grande forza e il suo fluire ininterrotto,133 Nemesis eredita proprio questa funzione di equilibrio e di contenimento che però si realizza nell’ambito dello spazio abitato dagli uomini. Come le altre Oceanine, Nemesis ha il suo campo d’azione sulla terra; è capace di percorrerla in lungo e in largo e di attraversarla fino ai suoi più estremi confini, cambiando forma a seconda dei paesaggi naturali che si trova ad attraversare. Eredita, inoltre, da Oceano quel neikos che caratterizza i rapporti coniugali del padre con Tethys. L’Iliade ci racconta dello stato di tensione perenne che segna la relazione della coppia Oceano-Tethys, cui proprio Era, ultima sposa di Zeus, tenta di porre rimedio.134 Da Oceano, infine, Nemesis eredita la partecipazione riluttante all’ordine stabilito da Zeus che rispetta, pur restandone orgogliosamente ai margini.135 Quel che distingue, in sostanza, Themis da Nemesis è proprio questa relazione problematica con il Cronide. Se infatti Zeus e Themis, come si evince proprio dal passo dall’argumentum dei Kypria riportato nella Crestomazia di Proclo (Ζεὺς βουλεύεται μετὰ τῆς Θέμιδος περὶ τοῦ Τρωϊκοῦ πολέμου),136 agiscono di concerto l’uno con l’altro; viceversa, Metis e Nemesis, che appartengono alla linea genealogica di Oceano, rappresentano elementi potenzialmente destabilizzanti per il nuovo ordine. La prima viene ingurgitata e assimilata nel corpo stesso del dio, diventando strumento e attributo della sua sovranità, dà alla luce una figlia immortale che è espressione regolata di una metis, disciplinata all’interno del kosmos divino. La seconda invece è addomesticata nel quadro di un’unione forzata, ottenuta a fatica dopo un lungo inseguimento che è prova della resistenza della dea al volere di Zeus e della sua resilienza. L’aidos e la nemesis che abbiamo visto essere il motore della sua fuga le conferiscono una capacità di adattamento a spazi e ambienti profondamente diversi fra loro che la divinità riesce a guadagnare e ad attraversare, grazie alla sua abilità metamorfica. Da quest’unione molesta e non voluta, da questa philotes imposta – κρατερῆς ὑπ᾽ ἀνάγκης, come dice il testo dei Kypria – nasce un’altra figlia, Elena – mortale questa volta – che dal padre divino eredita lo statuto regale, espressione della sovranità di Zeus sulla terra e dei rischi che la minacciano.137 Dalla madre Elena eredita invece un senso tardivo dell’aidos che emerge, come si è visto nei passi di Omero esaminati,138 solo quando è già partita per Troia ed è divenuta oggetto di una nemesis, non più interiorizzata come quella divina, ma che invece è
133 Hom. Il. 18.606. 134 Hom. Il. 14.201–207. 135 Hom. Il. 20.4–7. 136 Procl. Chrest. 1.84–85. 137 Cfr. supra p. 111–112. 138 Cfr. supra p. 65 e ss.
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l’esito della reazione umana ai suoi comportamenti. La vicenda di Elena ha un valore profondamente didascalico e mira a mostrare le minacce che gravano su una regalità cui sfugge il controllo dell’aidos e della nemesis; una regalità che non conosce – o che impara a sue spese – le regole minime dell’interazione sociale, esponendosi a bruschi cambi di sorte. La violenza su Nemesis – narrata nei Canti ciprii – si colloca quindi sullo stesso piano dell’intervento di Eris alle nozze di Peleo e Teti e della scelta sconsiderata di Paride che, assegnando il premio della mela ad Afrodite, iscrive nel suo destino l’incontro con Elena. Afrodite, Nemesis, Eris, Elena e Paride sono dunque tutti strumenti della Dios boule, realizzata in accordo con Themis e sfociata nel primo conflitto che la storia ricordi, di cui ciascuno dei soggetti coinvolti è parimenti responsabile. È in questo senso che deve essere interpretato il binomio Themis-Nemesis a Ramnunte: nel recinto a loro dedicato, nell’iconografia della statua di Nemesis, e nella vicenda mitica, che colloca proprio in questo territorio il concepimento di Elena, si legge il riferimento esplicito alle cause che condussero allo scoppio della guerra di Troia. È uno spazio divino attraversato da tensioni contrastanti quello celebrato a Ramnunte: Themis figura qui, al fianco di Nemesis, non tanto e non solo perché l’una rappresenta un ordine che la seconda è chiamata a ristabilire, laddove necessario,139 ma perché il culto congiunto delle due divinità celebra la partecipazione di entrambe alla Dios boule. Zeus non è associato al culto. Forse era solo una comparsa tra i personaggi raffigurati sul rilievo alla base della statua di Nemesis, ma la sua presenza agisce sullo sfondo di una trama narrativa di cui Themis e Nemesis costituiscono due poli opposti ma complementari. L’una scandisce il corretto avvicendarsi delle tappe dell’esistenza umana, stabilendone i limiti temporali e assicurando ordine, tempestività e adeguatezza ai processi di funzionamento del kosmos e delle società umane;140 l’altra resiste a questo ordine, innestando, in tale regolarità, dei rivolgimenti che cambiano il corso della vita dei mortali, invertendone le sorti. Un capovolgimento quello rappresentato da Nemesis che è l’effetto di un’azione durativa – bene espressa, del resto, dal suffisso -sis – di un processo distributivo, in perenne stato di adeguamento alle regole e ai contesti sociali, che differisce profondamente dal concetto di moira, per due ordini di motivi: in primo luogo, perché la distribuzione attuata da quest’ultima ha un aspetto puntuale che si colloca al momento della nascita e tiene conto anche delle azioni degli antenati, come mostra la vicenda di Creso; e, in secondo luogo, perché essa riferisce la prospettiva del destinatario cioè di colui che riceve la parte stabilita dalla divinità. Il potere riconosciuto a Nemesis è invece più fluido e agisce, per lo più, come deterrente, scoraggiando i mortali dal contrastare il piano divino frutto della cooperazione fra Zeus e Themis e realizzato tramite l’attività delle Moirai. È un potere che ha una controparte nel funzionamento stesso della società civile, nella misura in cui reagisce al
139 Così Pironti 2009, 18 n. 25. 140 Cfr. ibid., 16.
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mancato rispetto delle gerarchie o dei ruoli stabiliti all’interno di singoli contesti. Etimologicamente legata all’uso e alla consuetudine, tanto l’azione Nemesis come divinità, quanto la nemesis come reazione umana attivano processi estremamente duttili che si costruiscono su parametri sociali condivisi e che pertanto possono variare a seconda del tempo e delle circostanze, traendo, peraltro, in inganno coloro che non hanno la sensibilità di cogliere le diverse trasformazioni. Si capisce bene ora il comportamento di Zeus che ricorre alla metamorfosi per adattarsi alle trasformazioni dettate dai parametri della nemesis. Tali parametri possono fare cadere in fallo i mortali, ma non Zeus, divinità della metis, per eccellenza, che gli strumenti dell’apate ha introiettato e fatto suoi. 4. L’entourage di Nemesis Come sottolineato a più riprese, due circostanze segnano, in modo decisivo, la storia e l’organizzazione del demo attico di Ramnunte: il fatto di essere stato terreno di addestramento per classi di giovani efebi e l’aver costituito uno dei più solidi avamposti della difesa dell’Attica, anche in quanto sede di una guarnigione militare che presidiò la regione per più di due secoli. Queste due congiunture, che certamente spiegano la forte vocazione militare assunta dal territorio nel corso del tempo, avranno influito sulla percezione e la promozione di un culto come quello di Nemesis che, pur avendo, in epoca arcaica, un carattere essenzialmente locale, limitato, per lo più, alla popolazione residente nell’area, vide crescere intorno a sé una memoria mitica e una storia tale da potere rispondere alle istanze dei diversi gruppi che si trovarono a risiedervi. Un piccolo dossier di iscrizioni, relative a un arco temporale abbastanza ampio che va dalla seconda metà del VI sec. a. C. fino al I sec. a. C., permette tanto di esplorare la natura del legame che unisce Themis e Nemesis a Ramnunte, quanto di osservare le dinamiche di riconfigurazione delle potenze divine di quest’area. L’esame di queste testimonianze può aiutare a comprendere come il paesaggio cultuale del demo di Ramnunte riuscì a fornire uno spazio adeguato alla formazione dei giovani cittadini ateniesi e come esso si prestò ad accoglierli. Un tentativo di ricostruzione del complesso divino onorato a Ramnunte non può che prendere come punto di partenza il temenos di Nemesis e gli oggetti reperiti al suo interno. In primo luogo, occorre precisare che la tipologia di queste offerte dedicate alla dea non consente di giungere a conclusioni in merito alle sue presupposte prerogative sanzionatorie.141 Inoltre, l’organizzazione e le condizioni di accesso alla struttura 141 Come sottolinea Knittlmayer 1999, 5–7, il perrirhanterion con dedica a Themis e Nemesis, così come la ruota di bronzo e l’elmo di bronzo dedicati Nemesis e datati al VI sec., o inizio V, hanno termini di confronto in altri santuari (I.Rhamnous 75; 76; 86). Anche la ruota, in particolare, che figura tra gli attributi della dea, nelle rappresentazioni romane, non costituisce un elemento
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dell’area santuariale non lasciano dubbi su una sua piena fruibilità da parte di coloro che frequentavano il santuario.142 Una tavola di marmo collocata di fronte alla statua di culto, nella cella, lascia ritenere che lì potessero essere depositati degli oggetti.143 Il recinto di Nemesis, infatti, era accessibile e correntemente usato come luogo di esposizione delle memorie del demo.144 A Est, molto vicino al tempio, sono state individuate le fondamenta di un altare, i cui frammenti rimasti però non consentono di indovinarne la forma. Una stoà improvvisata di 34 m., nella parte settentrionale dell’area sacra, costruita prima del grande tempio, con delle colonne di legno, serviva da struttura ricettiva di fortuna per gli avventori.145 Davanti ad essa, un piccolo portico sostenuto da due colonne proteggeva una fontana alimentata da una cisterna sotterranea, per la raccolta dell’acqua piovana che cadeva sugli edifici circostanti.146 Il culto congiunto di Themis e Nemesis e il loro legame con le attività svolte dagli efebi nel territorio emerge da alcuni dati della documentazione archeologica ed epigrafica: le due potenze sono state individuate su un rilievo, molto frammentario, datato alla seconda metà del IVsec. a. C., ritrovato all’interno del temenos e oggi conservato al British Museum di Londra.147 Qui appaiono raffigurate accanto a una Nike alata che incorona un personaggio con una fiaccola, accompagnato da un altro personaggio, anch’esso con in mano una fiaccola seguito da una schiera di efebi. La scena sembra
significativo, giacché simili offerte votive le troviamo anche altrove: per esempio a Camiro, dove una ruota di bronzo (LSAG2, 349, n°13) è stata dedicata da un fabbro alla divinità quale forma di riconoscenza per i frutti della sua attività professionale: Patera 2012, 32–33. Sul materiale reperito all’interno del Nemesion si veda da ultimo il catalogo di Petrakos 2020 (IV). 142 Knittlmayer 1999, 7 ha, a questo proposito, sottolineato il confronto con il culto di Ananke, definita nell’Alcesti euripideo come una divinità che non ha altari, né statua; una divinità cui non ci si può avvicinare e che non presta ascolto ai sacrifici (Eur. Alc. 965–975). Ananke e Bia avevano un santuario sull’Acrocorinto, in cui non si usava entrare (Paus. 2.4, 6). 143 Sulle tavole all’interno dei santuari e sul loro utilizzo, cfr. Patera 2012, 128–127. 144 Cfr. infra p. 253 e ss. 145 Petrakos 1999a, 218–129. 146 Ibid., 205–206. 147 British Museum 1953.5–30.1+Rhamnous 530. V. Ch. Petrakos (I.Rhamnous 106), come già proposto da Ashmole 1962, ritiene invece che sul rilievo siano rappresentate Demetra e Core. Lo studioso ricostruisce sull’architrave del rilievo l’iscrizione con la dedica di un ginnasiarca alle due divinità eleusine, ma nel frammento del British Museum solo due lettere sono visibili. La presenza delle due dee sul territorio, tuttavia, appare piuttosto dubbia ed evanescente: una loro rappresentazione è stata ritenuta plausibile su un rilievo conservato nella Gliptoteca di Monaco (n. inv. 197) da Palagia/Lewis 1994, 341. Nello stesso rilievo, altri però vi hanno riconosciuto sempre Themis e Nemesis (Güntner 1994, 80–81 e Comella 2002, 76). Una dedica a Demetra e Core è riportata su un’iscrizione rinvenuta sulla parte esterna del muro della fortezza (I.Rhamnous 145), a nord della porta orientale, da parte di un tale Euxitheos figlio di Philoxenidos, proveniente da Cefisia, eletto, per la seconda volta, stratego della paralia tra il 187 e il 183 a. C. Trattandosi di un ateniese non originario del demo, funzionario della fortezza, si può ritenere che egli avesse voluto importare nel territorio in cui prestava servizio una sua personale devozione religiosa nei confronti delle dee eleusine. In merito alla presenza di Demetra a Ramnunte, Petrakos 1999a, 320–321 ipotizza anche che a Ramnunte ci fosse un Thesmophorion.
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riprodurre la celebrazione di una vittoria, in occasione di una gara con le fiaccole da parte di un gruppo di giovani.148 La statua di un fanciullo pubblicata da V. Stais,149 cui pertiene una base con un’iscrizione, è stata ritrovata nel cosiddetto tempio poligonale (o piccolo tempio), a fianco del grande tempio di Nemesis che, dopo la costruzione di quest’ultimo, venne usato come tesoro. Il testo riporta la seguente dedica: 1 Λυσικλείδης ἀνέθηκ εν Ἐπανδρίδο ὑὸς ἀπ{ο} ἀρχὴν τόνδε θει τῆι δε ἣ τόδ’ χει τέμενος Lisiclide figlio di Epandrido dedicò come aparche alla dea che tiene questo recinto. I.Rhamnous 88
L’iscrizione e la statua hanno sollevato diverse questioni: in primo luogo, in merito alla divinità destinataria dell’aparche, se si trattasse di Nemesis o di Themis; e, in secondo luogo, riguardo all’identità del giovinetto rappresentato da questo agalma, riconducibile all’officina di Agoracrito,150 È stato ritenuto che potesse trattarsi di Neanias, l’eroe locale che Pausania menziona genericamente come un giovane, insieme ad Epoco, nella sua descrizione della base della statua di Nemesis, indicandoli entrambi come fratelli di Oinoe, eponima del demo attico.151 Altri invece vi hanno visto la rappresentazione di un efebo; altri ancora quella di Eretteo designato, nella tradizione trasmessa dalla Suda, come il figlio di Nemesis.152 Quest’ultimo, tra l’altro, era legato a quell’area in modo particolare: Strabone, per esempio, racconta che sua figlia sposò Xuto, fondatore della Te148 Palagia/Lewis 1989 hanno messo questo documento in relazione con un altro di fine V sec., in cui sono raffigurati due uomini con un oggetto in mano simile ad una fiaccola, affiancati da tre fanciulli nudi (Rhamnous 231/ex Atene, NM 2332), e con l’erma di un efebo (Atene, Museo Nazionale, n. inv. 313), la cui base riporta la prima iscrizione efebica ritrovata nel demo di Ramnunte (I.Rhamnous 98), concludendo che in entrambi casi si commemorava la vittoria ad una corsa con le fiaccole, prova alla quale i giovani impegnati nel servizio dell’efebia erano chiamati a partecipare. Su questa statua e sull’iscrizione, si tornerà anche più avanti, cfr. infra p. 240. 149 Stais 1891, col. 56. 150 Sulle difficoltà che pone la dedica di questa statua e per uno status quaestionis, Pouilloux, Rhamnonte, 150–151, n. 36 e le riflessioni di Knittlmayer 1999, 7 che puntualizza come la definizione della statua quale aparche non costituisca in sé indizio di una tipologia di offerta specifica destinata alla dea. 151 Cfr. supra p. 196. 152 Suda s. v.: αὕτη πρῶτον ἀφίδρυτο ἐν Ἀφροδίτης σχήματι· διὸ καὶ κλάδον εἶχε μηλέας. ἱδρύσατο δὲ αὐτὴν Ἐρεχθεύς, μητέρα ἑαυτοῦ οὖσαν, ὀνομαζομένην δὲ Νέμεσιν καὶ βασιλεύσασαν ἐν τῷ τόπῳ. «Nemesis di Ramnunte: fu fatta prima sul modello di Afrodite: perciò ha due rami di melo. Eretteo la fece costruire, essendo sua madre, ed essendo chiamata Nemesis che regnava su quel luogo».
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trapoli di Maratona.153 Euripide, nel suo Ione,154 ricorda l’eroe come il sovrano impegnato nella difesa dell’Attica contro gli abitanti di Eleusi, che trovò la morte sull’Acropoli di Atene, interrato da un colpo di tridente da Poseidone. Della tradizione che gli assegnava Nemesis come madre, ad eccezione della testimonianza dei lessicografi, non si trovano altre tracce nelle fonti. Essa deve, pertanto, essere nata in epoca più tarda forse sulla scia di quella che faceva della dea una potenza impegnata nella difesa dei confini della regione e che, di conseguenza, le attribuiva una discendenza investita del medesimo ruolo. Ora, benché sia difficile trovare una pista che consenta di identificare il personaggio rappresentato nella statua, appare significativo che si tratti di un giovane efebo. L’offerta quindi doveva essere, in qualche modo, percepita come adeguata alle competenze che si riconoscevano alla divinità onorata all’interno del temenos. Se si prova infatti a ricomporre, dalle poche tracce rimaste, la configurazione divina onorata a Ramnunte e nello spazio santuariale riservato a Nemesis, emergono altri dati interessanti. Il demo, che apparteneva nel sistema clistenico alla stessa trittia di quelli costieri compresi nell’associazione cultuale della Tetrapoli di Maratona, doveva condividere con essi una memoria locale comune che affondava le radici nel passato ancestrale dell’Attica, quello lontanissimo in cui l’intera regione era stata terreno di contese divine, come quella tra Poseidone e Atena, risoltasi a favore di quest’ultima.155 Era una memoria che faceva leva sul ricorrere nella medesima regione di culti reduplicati, come nel caso di Aristomaco, eroe guaritore attico con prerogative divinatorie, cui doveva essere affidato il mantenimento in salute del corpo e il cui nome parlante evocava grandi exploit militari, che certamente sarebbero stati di esempio e di auspicio per gli efebi ateniesi.156 L’eroe era onorato tanto a Maratona, dove è stata ritrovata la sua tomba presso il santuario di Dioniso, quanto a Ramnunte, in una struttura identificata a sud-ovest, rispetto alla porta sud della fortezza.157 Qui venne, nel corso nel IV sec., affiancato, e successivamente sostituito, da un altro eroe guaritore, altrettanto valoroso, che rispondeva al nome di Anfiarao, il 153 Strab. 8.7, 1. Sulla Tetrapoli di Maratona, che annoverava oltre a quest’ultimo i demi di Oinoe, Tricorinto e Probalinto: Philoch. FGrHist 328, F 73–77 e Parker 1996, 111 e 131–132. Per un approfondimendo sul sistema cultuale della Tetrapoli, Ismard 2010, 239–249 e 2015. 154 Il nome di Eretteo è stato a lungo usato nelle fonti, in alternativa a quello di Erittonio, il fanciullo nato dal suolo dell’Attica, fecondato dal seme del dio Efesto quando tentava di unirsi ad Atena, contro la sua volontà. Omero ricorda infatti gli Ateniesi come popolo di Eretteo, uomo nato dalla terra, nutrito da Atena al quale i giovani della città dedicavano offerte al volgere di ogni anno (Hom. Il. 2.546–551). Euripide (Ion. 260–270) distingue con chiarezza i due personaggi, facendo di Eretteo il figlio di Erittonio nato dalla terra. 155 Apollod. Bibl. 3.14, 1. Davies 1996, 643, osserva come la Tetrapoli di Maratona, avendo la prerogativa di inviare autonomamente, per tutto il periodo classico, le proprie delegazioni a Delfi e a Delo, costituisse una forte comunità locale con un elevato livello di coesione. Sulla stretta relazione tra Ramnunte e la Tetrapoli di Maratona, Ismard 2010, 99 e 239. 156 L’ipotesi è stata proposta da Verbanck-Piérard 2000, 299 e accolta da Sineux 2007, 111. Su Aristomaco: Schol. Dem. 19.474 e Anecd. Bekk. s. v. ῞Ηρως ἰατρός. 157 Petrakos 1999a, 307–317 e I. Rhamnous 168–178; Pomp. Mela 2.46; Sol. 7.24. Per una presentazione dell’Amphiaraion, Gorrini 2015, 45–43.
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cui culto era celebrato anche nella vicina Oropo.158 Egualmente condivisa doveva essere, con i demi del vicinato, la devozione nei confronti di Eracle, presente a Ramnunte su un rilievo della metà del V sec. ritrovato nei pressi del santuario di Nemesis, in cui l’eroe è raffigurato con la cornucopia, il kantharos e la leonte.159 Nella vicina Maratona, vi era un Herakleion, i cui giochi avevano un’importanza tanto a livello locale che regionale.160 Lo stesso valeva per Neanias, che era venerato tanto a Maratona, quanto nel demo di Torico.161 A questo consesso occorre aggiungere anche Ermes, almeno così sembra di potere dedurre dalle erme ritrovate nel santuario di Nemesis e talora anche dalla presenza di dediche riconducibili alla presenza degli efebi.162 La configurazione divina celebrata a Ramnunte appare accogliere divinità che popolavano spesso i ginnasi greci,163 dandoci un’idea precisa del contesto religioso in cui si inseriva la pratica del culto Nemesis, il cui ruolo nell’educazione dei giovani è confermato anche altrove nel mondo greco.164 Il demo attico potrà aver svolto, per certi versi, la funzione di battistrada nel porre la formazione delle giovani generazioni sotto la protezione di questa potenza.165 È proprio a Ramnunte quindi che deve individuarsi 158 Per una discussione sulla data dell’introduzione del culto di Anfiarao a Ramnunte e sulla sua relazione con il controllo attico di Oropo, Sineux 2007, 109–115 e Gorrini 2015, 48. 159 Atene, Museo Nazionale, n. inv. 151. Su questo rilievo, cfr. Tagalidou 1993, 236–238 (Taf. 17) con discussione relativa alla datazione al V sec. a. C., e Comella 2002, 39. 160 Ismard 2010, 548–550. Sul culto di Eracle a Maratona, cfr. Suda e Harp. s. v. Herakleia e anche Hdt. 6.108 e 116; [Arist.] Ath. Pol. 54.7; Paus. 1.15, 3. Per una mappatura del culto di Eracle in Attica, Gorrini 2015, 181–218. In riferimento al rilievo di Ramnunte: Petrakos 1999a, 279, Eik. 189. 161 Aristomaco, Neanias e Kourotrophos figurano nel calendario sacrificale della Tetrapoli di Maratona: IG II2 1358. Cfr. su questo documento l’analisi capillare di Lambert 2000. In merito alla devozione tributata in Attica a Kourotrophos e alle competenze riconosciute a questa potenza divina nell’ambito della cura dei fanciulli, cfr. le riflessioni e il dossier raccolto da Pirenne-Delforge 2004. La presenza di Neanias al Torico è attestata in SEG 33.147, 26–27. Sul culto di Neanias a Ramnunte, cfr. Petrakos 1999a, 326–327. Sul rapporto tra questa figura e le attività cultuali di giovani e efebi, per lo più concentrate nel mese di Panepsione, cfr. Parker 2005, 208–209. 162 Diverse sono le attestazioni della presenza di Ermes a Ramnunte: nel distretto sud-orientale della fortezza, V. Chr. Petrakos ha identificato un naiskos destinato al dio. Un altare, forse dedicato al dio è stato identificato nel teatro. Sulla strada settentrionale, vicino all’analemma orientale del santuario di Nemesis sono state trovate stele ermaiche e busti. Inoltre, una dedica di età arcaica su una stele lo ricorda come protettore degli animali (I.Rhamnous 74). Una base ortogonale destinata ad accogliere una statua del dio riporta la dedica, datata al 331 a. C. del didaskalos degli efebi Theophanes figlio di Hierophontes Ramnusio (I.Rhamnous 100). Per l’analisi di tale documentazione collegata alla presenza di Ermes, si veda Petrakos 1999a, 95; 108–110; 283–286; e, in generale, sul culto del dio a Ramnunte, p. 323. Sui culti che gravitavano intorno ai ginnasi, si veda Aneziri/Damaskos 2007. 163 La presenza di un ginnasio a Ramnunte è data da Petrakos 1999a, 88, per scontata, sulla base delle iscrizioni che testimoniano attività legate all’addestramento dei giovani. L’area è stata da lui identificata in uno spazio all’interno della fortezza, collocato dietro il teatro, privo però di strutture ricettive, portici o luoghi destinati al culto. 164 Milet I 9, 364. Una Nemesis alata della fine del I sec. d. C. è stata trovata nel ginnasio di Salamina di Cipro (LIMC s. v. Nemesis, 747, n°145): su questa statua, cfr. Stafford 2005, 205–206. 165 Il peso della nemesis sull’educazione dei giovani è del resto ben illustrata in un passo della vita plutarchea di Lucio Emilio Paolo (Plut. Aem. 27, 2–6). Qui il console romano, dopo la vittoria sul sovrano macedone Perseo a Pidna nel 168 a. C., di fronte allo spettacolo indecoroso di un succes-
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quella cellula primordiale da cui poi si svilupperanno, quasi naturalmente, altre prerogative che faranno di Nemesis una divinità che agisce nella sfera dei giochi e delle competizioni atletiche e che vedrà la devozione nei suoi confronti replicarsi a partire da queste contrade dell’Attica fino agli anfiteatri di età romana.166 5. Nemesis e la religione degli efebi Al di là degli indizi, già isolati nel paragrafo precedente, è opportuno precisare che quella del culto di Ramnunte e del legame di Nemesis con la gioventù attica è una storia ancora tutta da ricostruire; una storia che affonda le radici nel contesto culturale e politico di Atene e in un panorama composito, in cui le istanze della devozione locale si innestano nel tessuto distrettuale riconducibile alla Tetrapoli di Maratona, per incrociare poi quelle dell’ancora più variegato e complesso universo regionale. Passi importanti in questa direzione sono già stati fatti, soprattutto nel postulare il coinvolgimento degli efebi ateniesi nella celebrazione dei Nemesia, feste in onore della dea.167 Quello che però in questa fase è importante stabilire è in che modo una figura come Nemesis potesse efficacemente inserirsi in un orizzonte di senso adeguato a rispondere ai bisogni formativi di nuove classi di cittadini. Ebbene, non stupisce certo che la dea venerata in Attica come figlia di Oceano, proprio come tutte le altre Oceanine, avesse in carico la cura dei giovani.168 Anche a prescindere dal dato genealogico, però, non è difficile identificare nell’iconografia della statua e nella vicenda mitica che le si attribuiva tutto un sistema di significati edificanti, funzionali alla costruzione del futuro cittadino ateniese e dell’oplita. Come avrebbe potuto, del resto, il giovane ateniese non riverire una potenza, i cui stessi attributi nella mano destra e sinistra illustravano l’ampiezza del suo raggio d’azione? Come non leggere nei piccoli agalmata di Nike che adornavano la sua corona una promessa di sore di Alessandro che si getta ai suoi piedi deplorando la sorte avversa, tenne un lungo discorso ai più giovani del suo entourage: insistendo sull’inevitabile avvicendarsi delle sorti nella vita umana, li spingeva a placare l’arroganza tipica del vincitore e a prevedere la nemesis di un daimon capace di volgere in disgrazia un successo conseguito. 166 Cfr. Hornum 1993; Fortea Lopez 1994; Bru 2008; Wittenberg 2014; Diosono 2019. In particolare Wittenberg 2014, 59–62, puntualizza efficacemente, al termine del suo lavoro, come il culto di Nemesis, di cui ha isolato ventuno testimonianze negli anfiteatri romani, abbia una duplice valenza: da un lato, quella microstorica, nella misura in cui la dea era percepita come potenza ministra di giustizia e correttezza, nel contesto altamente competitivo dei giochi; dall’altro, quella macrostorica, poiché essa figurava come portatrice di vittoria e garante dell’ordine pubblico, in una logica di tutela e protezione della sicurezza e dei confini dell’impero. 167 L’ipotesi della partecipazione ai Nemesia da parte degli efebi è stata recentemente sostenuta, con elementi solidi, da Friend 2019, 98–110 e Henderson 2020, 157–156, in particolare a partire dall’analisi di I.Rhamnous 98 (= SEG 31.162; IG II/III3 4, 1 336), datata al 333/2 a. C. Su questa iscrizione e sulla partecipazione degli efebi ai Nemesia si tornerà più avanti: cfr. infra p. 241–242. 168 Cfr. supra p. 203.
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vittoria? E come restare sordi al monito veicolato sulla scena raffigurata alla base, che narrava la parabola di una vita vissuta sotto il segno di Nemesis? Lo sguardo del visitatore del tempo doveva focalizzarsi subito dalla scena centrale in cui Elena si presenta a Nemesis, intenta a maneggiare il suo velo, con quel gesto carico di ambiguità che, se da un lato, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, ricalca lo schema iconografico tipico dello hieros gamos tra Zeus e Era, e quindi di una sposa di fronte al suo sposo, in occasione delle nozze;169 dall’altro però, richiama i versi dell’Iliade in cui Elena, colma di vergogna, si copre con un velo per sottrarsi allo sguardo di censura delle altre donne.170 Da qui, lo sguardo poteva allargarsi alla rappresentazione degli astanti, che, oltre alla cerchia familiare di provenienza di Elena, estesa alle nuove generazioni, comprendeva anche altre due figure di giovinetti locali, Epoco e un altro neanias, la cui presenza serviva a sottolineare il valore altamente didascalico di cui era investita la vicenda della bella figlia di Nemesis e Zeus. Come un’onda, lo spazio di azione di Nemesis si dilata sulla scena, dall’evocazione della guerra di Troia alle sue conseguenze sulle nuove generazioni lontane nel tempo e nello spazio; dal macrocosmo al microcosmo; dal centro alla periferia. L’assemblea degli dèi e degli eroi che la circonda, nel circoscritto e limitato territorio di Ramnunte, si fa a poco a poco più leggibile e sembra predisporsi lentamente ad accogliere i giovani ateniesi. Del servizio dell’efebia si ipotizza una prima fase i cui contorni, piuttosto confusi e sfumati, sono stati reperiti a partire da scarsi indizi in fonti, per lo più letterarie, che proiettano l’inizio, nel primo ventennio del IV sec., di una forma di addestramento militare cui si aderiva su base volontaria la cui introduzione va compresa nell’ambito di un complesso processo storico che coinvolgeva altre procedure, come l’iscrizione dei nuovi cittadini alle liste dei demoti e il reclutamento dei nuovi opliti.171 La seconda fase, decisamente più documentata, si collega all’iniziativa di un tale Epicrate172 e al patrocinio di Licurgo, la cui attività politica ad Atene segna profondamente gli anni successivi alla battaglia di Cheronea fino alla guerra lamiaca (338–322 a. C.). L’efebia fu organizzata ex novo, forse anche in conseguenza del recupero, per intercessione di Alessandro, del territorio di Oropo da parte degli Ateniesi, recentemente datato al 335/334 a. C.173 Il nuovo percorso – obbligatorio – era articolato in due anni ed era finanziato a livello centrale. Le magistrature incaricate di occuparsi della formazione degli efebi erano designate su base filetica e il loro servizio ha lasciato
169 Cfr. per immagini analoghe: Lawton 1995, 51 e n°5, 24, 96 e LIMC 4.2, 207–208. 170 Cfr. supra p. 199. 171 Per uno status quaestionis delle fonti relative all’efebia, cfr. Chankowski 2014 e, in part. p. 59, in merito alle procedure di coscrizione degli opliti ad Atene tra V e IV sec. riesaminata, sulla scia della ricostruzione proposta da Christ 2001. 172 Harp. s. v. Ἐπικράτης = Lyc. Fr. 5.3 Conomis. 173 È questa l’ipotesi di Knoepfler 2001, 381–382.
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diverse tracce nella documentazione epigrafica.174 L’efebia ateniese, così organizzata, durò poco più di un decennio, quando a causa dei rivolgimenti politici derivati dalla sconfitta di Atene alla guerra lamiaca, fu, come sembra di potere dedurre dalla quasi totale assenza di documentazione, messa da parte o fortemente ridimensionata.175 Nel 307 a. C., dopo la restaurazione della democrazia ad Atene da parte degli Antigonidi, si inaugura una nuova fase di questa istituzione che prosegue, seppur con qualche interruzione e in modalità che nel corso del tempo andarono gradamente trasformandosi negli obiettivi e forse anche nella durata, fino all’età augustea.176 Il quadro organizzativo dell’efebia di età licurghea ci viene restituito nello scritto aristotelico Athenaion Politeia, in cui si spiega come, nel corso del primo anno, gli efebi, le cui classi di reclutamento prendevano ciascuna il nome di un eroe eponimo, venissero portati in visita nei santuari, per riunirsi poi in guarnigione a Munichia e ad Acte. Nel secondo anno, dopo aver mostrato in assemblea i progressi fatti nel corso del loro addestramento, ricevevano lo scudo e la lancia dalla città, presidiavano la regione e alloggiavano nelle guarnigioni. Dalle testimonianze epigrafiche sappiamo con certezza che il demo di Ramnunte rientrava, almeno nella fase licurghea, nel circuito delle fortezze in cui i giovani svolgevano parte del loro servizio.177 È stato stimato, che almeno un’ottantina fossero di volta in volta gli efebi di stanza a Ramnunte.178 È verosimile quindi che le divinità che si celebravano sul territorio finirono, in qualche modo, per popolare la cerchia divina di riferimento dei giovani ateniesi. Tale configurazione contemplava, certo, in gran parte le divinità che marcavano con loro presenza la geografia dei luoghi frequentati dagli efebi o, in qualche modo, da essi considerati significativi: tra queste,
174 [Arist.] Ath. Pol. 42.2. Il primo studio di insieme sull’efebia attica, dalle origini fino al 31 a. C., si deve a Pélékidis 1962, seguito da una prima raccolta di iscrizioni efebiche raccolta da Reinmuth 1971. Da allora, molti nuovi documenti si sono aggiunti e nuova luce sulla storia di Atene in età ellenistica è stata portata sulla scia dei lavori di C. Habicht (in part. Habicht 2006 [1995]). L’ultimo decennio ha visto una stagione incredibilmente feconda di studi su questa istituzione, tra cui si annoverano la monografia di Perrin-Saminadayar 2008 sull’efebia ateniese negli anni tra il 229 e l’88 a. C.; quella di Chankowski 2010 sull’efebia ellenistica nelle poleis greche dell’Egeo e dell’Asia Minore e i recentissimi volumi di Friend 2019 e Henderson 2020. A quest’ultimo si rimanda per un rapido excursus sulla storia degli studi (p. XII–XVI) e per una chiara e approfondita messa a punto sulle fonti e sul tema. 175 L’ipotesi che il servizio dell’efebia possa essere stato ripristinato nel decennio tra il 318 e il 307 è stata vagliata ed esclusa con ottime motivazioni da Henderson 2020, 177–185. Sulle diverse fasi dell’efebia ateniese, si veda anche Burckhardt 2007, 193 che ne individua quattro fasi: una prelicurghea, una licurghea, una ellenistica dal 322 all’età augustea e una di età imperiale. 176 Un approfondito excursus sui vari cambiamenti e le interruzioni dell’istituzione dell’efebia ad Atene in età post-licurghea è in Henderson 2020. 177 Per le testimonianze epigrafiche relative al servizio efebico reperite nel demo di Ramnunte, si veda: I.Rhamnous 98–105 e 132; SEG 44.177; 46.237 (inedite). 178 Petrakos 1997a, 613.
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Artemide Munichia al Pireo, Demetra e Core ad Eleusi, Artemide e Pan a File, Ares e Atena Areia ad Acarne.179 A Ramnunte, dovevano avere un posto nella religione degli efebi tanto Nemesis, quanto Themis, il cui compito era proprio quello di vegliare che trovasse tempestiva realizzazione quanto stabilito dalla moira. D’altra parte, l’accesso stesso dei giovani alle diverse classi di addestramento era subordinato a un complesso processo di accertamento dei prerequisiti di età e condizione libera. Come ci racconta infatti Aristotele,180 l’iscrizione alle liste del demo, prevista per i giovani dell’età di diciotto anni, era l’esito di una doppia dokimasia da parte dei demoti prima e dei buleuti dopo. Il giovane, che secondo i demoti non aveva ancora raggiunto l’età stabilita dalla legge per intraprendere il cammino dell’efebia, veniva semplicemente rinviato eis paidas; ma l’iscrizione anzitempo di un cittadino che, alla verifica del Consiglio, risultasse non essere ancora maturo, era imputata alla responsabilità dei demoti che venivano multati. Mancando un registro dell’anagrafe ad Atene, forse l’unico modo per essere assistiti in questa verifica era quello di affidarsi proprio a Themis, potenza chiamata ad assicurare l’ordine naturale del cosmo, il corretto avvicendarsi degli eventi e il loro realizzarsi al momento opportuno. La sua presenza nel temenos di Nemesis a Ramnunte si inserisce armonicamente nel quadro di un paesaggio che si predispone a favorire la formazione e l’addestramento dei giovani ateniesi. È stato, infatti, segnalato che delle dodici offerte di efebi, che non portano il nome della divinità, nove sono state reperite all’interno del santuario di Nemesis e tre all’interno della fortezza,181 il cui panorama religioso era abitato anche da altre divinità. Vi troviamo infatti, in primo luogo, il santuario di Dioniso, onorato come Leneo,182 il cui spazio sacro, probabilmente ricavato all’interno del teatro, che fungeva anche come agora, finirà per servire, insieme al temenos di Nemesis, a partire dal III sec., come luogo di esposizione delle memorie locali, soprattutto nei casi di decreti che deliberavano onori e privilegi accordati, volta per volta, agli ufficiali della guarnigione.183 Sempre all’interno della fortezza, non distante dalla cella dell’anonimo
179 Friend 2019, 159–160. Sul culto di Artemide Munichia al Pireo, Palaiokrassa 1989; 1991; sul culto di Demetra e Core ad Eleusi e Pan a File, Pouilloux, Rhamnonte, 110, n. 1, seguito da Reinmuth 1971, 35. Il culto di Ares e Atena Areia doveva essere celebrato ad Acarne, dove un decreto relativo all’erezione di un altare in onore delle due divinità è stato ritrovato nello stesso contesto archeologico da cui, presumibilmente, proviene anche la stele che contiene il giuramento degli efebi e il giuramento di Platea: Kellogg 2013, 272 ipotizza che il demo di Acarne, e quindi il santuario di Ares e Atena Areia, rientrasse nel circuito delle visite degli efebi, nel corso del loro primo anno di servizio, ma che vi passassero anche nel secondo anno. Le attività cultuali, in cui vennero coinvolti gli efebi, si fecero più complesse e articolate nelle fasi successive di questa istituzione: cfr., a questo proposito, infra p. 218, n. 204. 180 [Arist.] Ath. Pol. 42.1. 181 Petrakos 1997a, 626. 182 I.Rhamnous 136. Sul culto di Dioniso Leneo nei demi dell’Attica, cfr. Kolb 1981, che sottolinea il rapporto che a Ramnunte il dio aveva con l’eroe archegeta, 66–72. 183 I.Rhamnous 15 e 59.
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eroe archegeta,184 vi era il santuario di Afrodite detta Hegemone.185 Due figure queste, entrambe accomunate dal ruolo di guida espresso nelle loro denominazioni. L’attributo archegeta, infatti, racchiude in sé tanto l’idea di inizio, di origine, e di governo (arche), quanto quella di guida (agein), designando non solo genericamente il fondatore, ma il capostipite a cui una comunità fa risalire il suo nome, la sua identità e i principi organizzativi e normativi che la regolano.186 La denominazione di Hegemone, con cui Afrodite era onorata all’interno del demo, ricorre anche sull’agora di Atene, all’interno del santuario del Demos e delle Cariti, su un altare eretto nel 229 a. C., in occasione della liberazione della città dal dominio macedone,187 in cui compare la dedica da parte della boule: Ἀφροδίτει Ἡγεμόνει τοῦ δήμου καὶ Χάρισιν.188 Ad Afrodite, qui chiaramente evocata come «colei che conduce il demos», è riconosciuta un’attitudine leaderistica, già presente nella memoria ateniese dell’impresa di Teseo, giovane efebo partito alla volta di Creta, al quale l’oracolo di Delfi aveva raccomandato di prendere proprio la divinità come guida (kathegemon).189 La relazione di tale attributo onomastico con l’universo dell’educazione dei giovani, e con la preparazione alla futura vita di soldati e di cittadini, è inoltre confermata dalla menzione di una potenza denominata proprio Hegemone, tra quelle invocate nel giuramento degli efebi, il cui testo è riportato sulla celebre stele di Acarne situato a una decina di chilometri a nord di Atene. L’iscrizione, pubblicata da Louis Robert per la prima volta nel 1938, è stata datata su base paleografica alla seconda metà del IV sec. e riporta, oltre al testo del giuramento degli efebi anche quello del giuramento di Platea.190 Di entrambi i testi troviamo diversi echi e versioni nelle fonti letterarie.191 La stele, oggi conservata all’École française d’Athènes, è sormontata da un piccolo frontone, decorato con elementi del corredo oplitico (lo scudo, gambali, elmo, corazza). Pur riportando, come incipit, la tradizionale formula di invocazione agli dèi tipica dei decreti la stele di Acarne è in realtà la dedica di un sacerdote di Ares e Atena Areia: un tale Dione, non altrimenti noto. Quel che accomuna i due testi è la celebrazione dei
184 I.Rhamnous 77; 79; 80; 81. 185 Petrakos 1999a, 117–119 e 132–133. 186 Sul termine archegetes, cfr. Malkin 1987, 241–250; Casevitz 1985, 245–246; Biagetti 2020 e 2022. Stando al resoconto dell’Athenaion Politeia, Clistene scelse proprio di denominare i demi dai loro fondatori (apo ton ktisantanton), poiché all’epoca, molti villaggi dell’Attica erano ancora privi di nome. Per denominare le tribù scelse invece cento eroi archegetai da cui la Pizia estrasse dieci nomi ([Arist.] Ath. Pol. 21.5). 187 IG II3 1 1137. 188 IG II3 4,1 8. 189 Plut. Thes. 18, 3. Su Teseo, come archetipo dell’efebo, Burckhardt 2008, 202. 190 Robert 1938, 316; genericamente alla metà del IV sec. Rhodes/Osborne, GHI n. 88. 191 Per il giuramento degli efebi: Plut. Alc. 15, 7–8, con una sintesi della parte finale e Stob. Anthol. 4.1, 48; Poll. 8.05 s. v. περίπολοι. Per il giuramento di Platea, Diod. 11, 29 II–III. Su entrambi i giuramenti e le divergenze tra la versione epigrafica e quelle letterarie, una discussione aggiornata con rinvio ad ampia bibliografia può trovarsi sempre in Rhodes/Osborne, GHI n. 88.
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valori oplitici e l’incitamento alla difesa del territorio e alla resistenza al nemico. Nel giuramento che i giovani ateniesi prestavano – forse, all’inizio del loro addestramento, nel santuario di Aglauro alle pendici orientali dell’Acropoli di Atene192 – si legge la promessa solenne di non abbandonare le file e di rispettare coloro che esercitano il comando saggiamente, ma soprattutto di non rendere la patria più piccola, ma sempre più grande e più forte.193 Sono chiamati a testimoni di questa promessa una cerchia di potenze sovrannaturali eccezionalmente ampia, tra cui, si trovano in prima linea potenze legate alla storia e alla protezione del territorio attico. La prima è Aglauro che un ramo della tradizione ricordava come figlia di Eretteo, sovrano di Atene, e che sacrificò sé stessa per liberare la patria dal pericolo della guerra.194 A Eretteo, tra l’altro, come abbiamo già visto, una fonte lessicografica attribuiva Nemesis come madre.195 La seconda è Estia, l’unica divinità femminile ad avere un posto nel Pritaneo, lì dove aveva luogo, almeno in epoca più tarda, la cerimonia di ingresso degli efebi.196 A seguire, nel testo del giuramento, si trovano evocate le potenze preposte alla conduzione della guerra come Enyò, Enyalio, Ares e Atena Areia e, per finire, Zeus. La lista prosegue con le entità collegate alla crescita e alla prosperità individuale e collettiva, che Pausania identifica parzialmente con quelle che gli Ateniesi denominano Cariti: Thallo «colei che fa fiorire», Auxo «colei che fa crescere», Hegemone «colei che conduce».197 La menzione di Eracle, eroe tipicamente considerato espressione di forza fisica e di coraggio, si trova al termine di questa schiera di potenze. Il giuramento si chiude infine con l’appello ai confini della patria, chiamati in causa insieme ad altri elementi del paesaggio fisico dell’Attica e della sua vegetazione: il grano, l’orzo, le viti, gli ulivi e i fichi.198 Pur non essendo invocata tra i testimoni del giuramento efebico, Nemesis e il paesaggio di Ramnunte potrebbe inserirsi facilmente nei valori e nelle caratteristiche che queste forze esprimono e contengono, nell’incitamento rivolto agli efebi al coraggio, al rispetto della propria posizione all’interno dello schieramento, nella deferenza nei 192 Plut. Alc. 15, 7. Secondo Filocoro, gli efebi giuravano nel santuario di Aglauro, quando stavano per partire in guerra (Phil. FGrHist 328 F 105). Non c’è accordo tra gli studiosi sul momento in cui gli efebi prestavano il loro giuramento: alcuni hanno ipotizzato che ciò avvenisse nel corso del primo anno e altri all’inizio del secondo. L’ipotesi più verosimile è che il giuramento avvenisse proprio all’inizio del primo anno in concomitanza con l’iscrizione nel lexiarchichon grammateion, come sostiene Henderson 2020, 144–147, cui rinvio per una sintesi delle diverse posizioni. 193 Rhodes/Osborne, GHI n° 88, ll. 6–10. 194 Phil. FGrHist 328 F 105 = Schol. Dem. 19.303, che però riporta la grafia Agraulos. Secondo un’altra tradizione, Aglauro, Erse e Pandroso erano figlie di Cecrope e tutte si gettarono dall’Acropoli, impazzite, dopo avere aperto la cista che Atena aveva consegnato loro e che custodiva Erittonio: Paus. 1.18.2. Aglauro è specificamente definita da Merkelbach 1972, 279: «die Sondergöttin der Epheben». 195 Phot. s. v. Rhamnοusia Nemesis. 196 IG II2 482; IG II/III2 1043 + add. p. 671 e SEG 38.119. Per questa interpretazione: Henderson 2020, 148. 197 Paus. 9. 35, 2. 198 Rhodes/Osborne, GHI n° 88, ll. 19–20.
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confronti delle gerarchie militari, che esercitino il loro comando con saggezza.199 Inoltre, nell’impegno a proteggere la patria e a renderla sempre più grande non può non leggersi una comunione di intenti con l’azione di una divinità cui ormai doveva essere attribuito un ruolo decisivo nella difesa dei confini. C’è di più: il ricorrere tra le divinità invocate dagli efebi di una figura denominata Hegemone può – anche senza volere ipotizzare una possibile identificazione – essere messo in relazione con la presenza del culto di Afrodite Hegemone proprio in un territorio, come quello di Ramnunte, che sarà destinato ad essere teatro delle attività di formazione dei giovani ateniesi. La funzione attribuita ad Afrodite, tradizionalmente riconoscibile nel ruolo assegnatole di una potenza che partecipa alla maturazione sessuale del giovane, si carica qui di prerogative più direttamente ricondubili alla sfera politica, sociale ma soprattutto militare. La denominazione Hegemone rinvia, infatti, in modo inequivocabile, alla sfera del comando militare suggerendone – come propone G. Pironti200 – un rapporto con l’organizzazione in ranghi, con l’addestramento dei giovani soldati e – si potrebbe aggiungere – con quell’intreccio di corpi che proprio Afrodite governa e che assicura solidità e tenuta alla falange oplitica. Lo spazio dedicato a questa Afrodite Hegemone a Ramnunte, all’interno della fortezza, e nelle immediate vicinanze del sacello dell’eroe archegeta, cui doveva ricondursi l’origine della stirpe di demoti fino alle nuove generazioni, sembra quindi ancora una volta confermare il ruolo assunto da questa comunità nella formazione dei giovani ateniesi e nella difesa dell’Attica, in una linea in cui addestramento e servizio militare finiscono per succedersi senza soluzione di continuità. 6. Dentro e fuori la fortezza La presenza nella fortezza da parte di guarnigioni di soldati, talora anche di origine straniera, contribuì a sua volta a cambiare il volto demografico del demo di Ramnunte e con esso anche la compagine di devoti dei culti praticati sul territorio. Afrodite Hegemone, per esempio, la troviamo anch’essa al centro delle attenzioni di uno stratega della paralia in un decreto degli Ateniesi di stanza ad Afidna, datato al 222–221 a. C.201 In questa iscrizione, Nicomaco, del demo di Peana, viene onorato con una corona d’oro, per tutta una serie di servigi resi alle comunità in cui erano insediati i phrouria; per avervi assicurato la giustizia e, in particolare, per avere celebrato a sue spese i sacrifici per Themis e Nemesis e per tutte le divinità per cui era costume sacrificare. Tra le benemerenze di Nicomaco vi era anche quella di avere rivolto una dedica e di avere celebrato a Ramnunte, gli exite-
199 Ibid., l. 12. 200 Pironti 2007, 203. 201 I.Rhamnous 32.
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teria in onore di Afrodite Hegemone.202 Con questa espressione si designavano i sacrifici rivolti a una divinità, al completamento del periodo in carica di una magistratura. Anche gli efebi che concludevano il loro percorso di addestramento, stando a un decreto del 79–78 a. C., celebravano simili cerimonie sacrificali sull’acropoli in onore di Atena Polias, Kourotrophos e Pandroso.203 Egualmente frequenti erano gli eisiteteria, sacrifici celebrati all’ingresso in carica dei magistrati o, nel caso degli efebi, all’inizio del loro addestramento.204 Le fonti non contengono alcun dettaglio sullo svolgimento di queste pratiche rituali, ad eccezione del fatto che esse marcavano l’inizio o la fine di una magistratura importante per la comunità, e che come tali avevano quali destinatarie delle potenze percepite in relazione con l’ufficio da svolgere o appena svolto. Nella fattispecie, il contesto in cui gli exiteteria sono menzionati nell’iscrizione; il duplice luogo di esposizione del decreto, nel santuario della dea a Ramnunte e anche ad Afidna; la pluralità dei soggetti coinvolti nella deliberazione degli onori tributati allo stratega Nicomaco che, oltre agli Ateniesi schierati nel phrourion di Afidna, contemplava la boule e il demos ateniese, i Ramnusî e i soldati di stanza nella fortezza, conferisce a questo culto una dimensione che travalica ormai i confini locali, stringendo, in un’unica rete di significati e funzioni, l’Hegemone potenza invocata dagli efebi, l’Afrodite Hegemone dell’agora ateniese e quella della fortezza di Ramnunte. Si vede quindi come, con lo svilupparsi delle attività all’interno della fortezza, il consesso divino di Ramnunte vada plasticamente trasformandosi.205 I cambiamenti più significativi si verificano nel corso del III secolo: negli anni in cui Atene era sotto il controllo macedone, i Ramnusî stabiliscono infatti di dedicare ad Antigono Gonata, che era già stato proclamato soter dagli Ateniesi e investito delle isotheai timai, un sacrificio nell’ambito delle gare ginniche organizzate in occasione delle Grandi Nemesie.206 Difficile identificare il momento esatto in cui avvenne questa investitura, e su questo si tornerà più avanti in un’analisi più approfondita della documentazione, ma quello che 202 Sugli exiteteria o exiteria (senza dissimilazione), l’unica testimonianza pervenutaci dalle fonti letterarie è Hsch. s. v. ἐξιτήρια. Il termine tuttavia è attestato epigraficamente, come il corrispondente eisiteteria che indicava i sacrifici dedicati a una specifica potenza prima dell’inizio di una magistratura. Per un’analisi delle diverse attestazioni, Bevilacqua 1996. 203 IG II2 1039, ll. 57–58. Questa configurazione divina si ritrova, anche in età classica, nel calendario del demo di Erchia ( Jameson 1965, 156–158), se è corretta la lettura proposta, e nella prima iscrizione del genos dei Salaminî datata al 363 a. C. (Lambert 1997, 85–88, n. 1). Su questo dossier, cfr. le riflessioni di Pirenne-Delforge 2004, con ampia bibliografia precedente. 204 Indicazioni importanti delle attività religiose in cui erano coinvolti gli efebi, con la menzione di diverse strutture santuariali, li troviamo nelle seguenti iscrizioni, che però risalgono alla seconda metà del II sec. a. C. e in cui non compare alcun riferimento a Ramnunte: IG II2 1006; 1008; 1009; 1011; 1028. Si tratta, in questo caso di un contesto completamente diverso rispetto a quello di età licurghea in cui Ramnunte giocava probabilmente un ruolo importante. Su questi documenti, si veda Perrin-Saminadayar 2008, 206–242 con preziose traduzioni dei testi. 205 La devozione nei confronti di Afrodite Hegemone è considerata non anteriore al IV–III sec.: Bevilacqua 1996, 65. 206 I.Rhamnous 7.
Dentro e fuori la fortezza
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ora importa sottolineare è che i Ramnusî decidono di associare al culto della loro divinità tutelare quello di un sovrano, in ragione della protezione e dell’euergesia accordata a tutto il popolo ateniese. Ai culti locali destinati a Themis e a Nemesis, si affiancano, nel corso del tempo, quelli destinati a Zeus Soter e Atena Soteira.207 Il primo, in particolare, era piuttosto diffuso in Attica.208 L’autore dell’Athenaion Politeia209 ricorda che, tra i tanti compiti dell’arconte, vi era quello di organizzare la processione in onore del dio. Il racconto di Senofonte, nell’Anabasi, mette in evidenza la devozione delle truppe e dei loro comandanti che a questa divinità affidavano le loro aspettative di vittoria e di salvezza.210 Zeus Soter e Atena Soteira erano inoltre venerati sull’acropoli di Atene.211 Il loro culto, introdotto certamente dopo le guerre persiane con l’obiettivo di celebrare il recupero della libertà a seguito di una grave minaccia straniera, a partire dal IV sec., è chiamato in causa di fronte a pericoli imminenti per la salute individuale e collettiva.212 Dopo la liberazione ateniese dal dominio macedone nel 229 a. C., esso va diffondendosi all’interno delle guarnigioni, assumendo una connotazione sempre più marcatamente militare. Anche gli efebi furono poi, a loro volta, coinvolti nei Diisoteria, feste attiche in onore di Zeus Soter, e partecipavano, in questa circostanza, a una corsa nel porto di Munichia.213 In un decreto datato al 225 a. C.,214 su proposta dei Ramnusî e degli altri cittadini residenti a Ramnunte, il trierarca Menandro del vicino demo di Eitea viene onorato con un elogio pubblico e con una corona d’oro perché, oltre a essersi occupato in modo onorevole delle navi, aveva offerto una fornitura di olio a sue spese ai neaniskoi perché potessero prendersi cura del loro corpo. Egli aveva inoltre offerto sacrifici a Zeus Soter e Atena Soteira, per la salute e la salvezza e la concordia di coloro che erano imbarcati sulle sue navi e, all’inizio dell’incarico, aveva, insieme allo stratega e agli hieropoioi designati insieme a lui, dedicato sacrifici a Nemesis, procurando vittime e vino. Il decreto mostra come al culto locale della Nemesis ramnusia sia associato quello rappresentativo della comunità di soldati di presidio nella fortezza, le cui attività assicuravano ormai la difesa di tutta l’Attica. Sullo sfondo, nelle benemerenze dei generali, si legge, ancora una volta, la vocazione del territorio che è quella di fornire un contesto adatto alla preparazione fisica e atletica dei giovani e che sollecita quindi il munifico Menan207 I.Rhamnous 31; 151. 208 Sul database del progetto MAP sono presenti 57 attestazioni di Zeus Soter in Attica. 209 [Arist.] Ath. Pol. 56.5. 210 Xen. An. 1.8, 16; 3.8, 9. 211 Lycurg. Leocr. 17. 212 Sull’importanza ideologica di Zeus Soter/Eleutherios in Attica, come culto legato alla celebrazione delle glorie del passato e alla trasmissione dei valori tradizionali dell’identità ateniese, si veda Rosivach 1987. Sulla diffusione del culto in Attica, Mikalson 1998, 110–113 e, più approfonditamente, Lebreton 2013, 190–236 che ne analizza la documentazione dall’età arcaica all’epoca romana. Sul culto di questa divinità presso i militari, Launey 1950, 914–919. 213 IG I2 1006, ll. 28–30 e 78 e Parker 2005, 466–467. 214 I.Rhamnous 31. Traduzione in italiano e commento anche in Moretti ISE 29.
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dro a provvedere ai bisogni dei neaniskoi, gruppo di giovani soldati, impegnati forse in compiti di polizia.215 Che la devozione nei confronti di Zeus Soter e Atena Soteira fosse tipicamente legata alle attività della guarnigione emerge anche da altri documenti epigrafici più tardi. Tra la fine del II e l’inizio del I sec. a. C. lo stratega della paralia Fanocrito, proveniente dal Sunio, dedica una base con tre fori per l’alloggiamento di lampade a un quartetto di divinità menzionate in quest’ordine: Themis, Nemesis, Zeus Soter e Atena Soteira. Qui il culto delle due divinità Soteres è chiaramente associato a quello delle due divinità del demo, quasi fossero ormai un tutt’uno.216 Si assiste così, sul territorio di Ramnunte, nel corso del tempo, alla trasformazione graduale di un orizzonte divino, alla quale cooperarono tanto i demoti, quanto i residenti temporanei del territorio, innescando un lento processo di metamorfosi che se, da un lato, allargò la platea dei devoti delle divinità demotiche ad altre categorie sociali, prima quella degli efebi e, nel corso del tempo, quella dei militari della guarnigione; dall’altro, favorì il modificarsi del profilo di queste stesse divinità, investite com’erano di nuove istanze e di nuove aspettative e affiancate, nel culto da altre entità divine, tutte chiamate in causa nella difesa e nella protezione del territorio. Il caso di Ramnunte mostra così concretamente quanto possa essere plastico e fluido l’universo divino locale, la cui configurazione segue l’avvicendarsi dei cambiamenti storici sul territorio. Nella fattispecie, a Ramnunte la forte e prolungata presenza di attività marcatamente militari, volte all’addestramento dei giovani e alla difesa del territorio, deve infatti aver contribuito a modificare, nel tempo, lo spazio di azione di Nemesis, accompagnandosi alla fabbricazione di nuove memorie, riplasmate sul motivo della difesa dell’Attica contro un tracotante nemico esterno.217 Il ricordo della gloriosa vittoria presso la vicinissima Maratona, e dei suoi valorosi protagonisti, onorati come eroi dagli efebi ateniesi, era a portata di mano.218 È difficile dire quando effettivamente si produsse questa reinterpretazione, ma il IV secolo potrebbe avere fornito un contesto adatto all’elaborazione di tale tradizione. Sono gli anni in cui oratori come Lisia, Isocrate, Demostene e Licurgo magnificano le glorie dei soldati ateniesi di Maratona, soli ad avere contrastato l’aggressione persiana.219 Sono gli anni in cui documenti come il già citato giuramento degli efebi o il
215 Sul ruolo militare svolto dai neaniskoi nei contesti civici di epoca ellenistica, cfr. Launey 1950, 859– 865; Sacco 1979, 43–44, che attribuisce al termine il significato di reclute, sulla base della lettura di Polibio, e nel caso specifico dell’iscrizione di Ramnunte giovani militari che praticavano l’esercizio fisico per diletto. Più recentemente sullo stesso tema è tornata Riet van Bremen 2013. 216 I.Rhamnous 151. 217 Si tratta di una memoria che perdurò a lungo e venne continuamente ripresa, come testimoniato dall’inno a Nemesis, attribuito all’iniziativa di Erode Attico, di cui si è parlato, in precedenza. 218 Cfr. supra p. 215, n. 191. 219 Lys. Ep. 21–26; Isocr. Paneg. 86; Lyc. Leocr. 108. Il tema della solitudine degli Ateniesi, unici fra i Greci a fronteggiare i Persiani, ricorre frequentemente (cfr. anche Plat. Menex. 240c). La presenza
Al servizio della dea: agenti di culto a Ramnunte
221
giuramento di Platea rilanciano, nella nuova forma scritta e nell’esposizione pubblica, i valori oplitici di solidarietà e coesione, di rispetto delle gerarchie, e il tema della difesa dei confini della patria dalle invasioni esterne. Sono testi che, come mostra una lettura della Contro Leocrate di Licurgo, che proprio sul rinvio ad essi vede costruita la sua efficacia persuasiva,220 assumono una fortissima valenza pedagogica, utile a plasmare la disciplina del futuro cittadino. Il santuario di Nemesis a Ramnunte e lo spazio che il demo forniva alle attività di difesa del territorio dovettero entrare quasi naturalmente in questo programma educativo, favorendo l’identificazione tra la dea del limite e quella che è capace di mettere a tacere la hybris dei nemici, trasformando, nel vorticoso rovesciarsi delle sorti, le loro attese di vittoria in una dolorosa sconfitta. 7. Al servizio della dea: agenti di culto a Ramnunte La documentazione epigrafica reperita a Ramnunte, per quanto frammentaria, permette di tracciare anche un quadro delle attività cultuali che si svolgevano in onore di Nemesis, e di individuarne gli agenti coinvolti. Le testimonianze in nostro possesso riferiscono l’azione di due categorie principali di specialisti del culto attivi all’interno del demo: gli hieropoioi e le sacerdotesse. La ricostruzione del ruolo e delle funzioni ad essi attribuiti da parte dei Ramnusii potrà fornirci altre informazioni preziose sull’amministrazione del culto di Nemesis, sul prestigio di cui esso godeva, sul rapporto tra la divinità e le altre potenze demotiche. Si inizierà ad esaminare le testimonianze relative agli hieropoioi, per poi passare a ricostruire il dossier delle cariche sacerdotali, preposte al culto della dea, cercando infine di indagare sulle loro interazioni e sui loro rapporti reciproci. 7.1 Hieropoioi La carica di hieropoios è attestata tanto in Attica, quanto in altre aree del mondo greco.221 Il termine allude nel concreto a colui che è incaricato di compiere i riti sacri. Chi ricopriva tale ruolo era chiamato a integrare l’attività rituale dei sacerdoti, svolgendo mansioni di tipo amministrativo.222 La Costituzione degli Ateniesi annovera questa categoria di fundei Plateesi sul campo di Maratona viene rapidamente obliterata e ricordata solo da un’orazione pseudo-demostenica, Contro Neera (Dem. 59.94). Sul mito di Maratona, cfr. Loraux 1973 e 1981, 157–173; Nouhaud 1997, 1226–1231 e, più recentemente, i contributi raccolti in Carey/Edwards 2013 in occasione dell’anniversario dei 2500 anni dalla battaglia. 220 Lyc. Leocr. 75–82. 221 Per un elenco delle attestazioni, cfr. ThesCRA, V, III B,1, 2005, 36–40. 222 Rhodes 1972, 127–134.
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zionari tra quelle che ad Atene venivano elette per sorteggio dal popolo.223 Si trattava di un collegio di dieci membri addetto allo svolgimento di sacrifici cosiddetti espiatori (τὰ ἐκθύματα), ovvero quelli che si occupano di offrire le vittime indicate dagli indovini e che con essi eventualmente sacrificavano, nel caso ci fosse necessità di ottenere qualche presagio favorevole. L’opera menziona poi anche un altro collegio di hieropoioi, costituito anch’esso da dieci membri sorteggiati ogni anno e preposti allo svolgimento di alcuni sacrifici e all’organizzazione delle feste penteteriche, eccetto le Panatenee. A Ramnunte, l’attività degli hieropoioi è testimoniata da alcune di iscrizioni che coprono un arco temporale abbastanza ampio, compreso tra la fine del VI sec. a. C. e la fine del III sec. Difficile dire se quelli di cui ricorre menzione in questa documentazione e quelli testimoniati in altri demi dell’Attica,224 rientrassero all’interno delle due tipologie descritte dall’Athenaion Politeia e quindi coincidessero con i funzionari eletti da tutta la compagine civica ateniese; o se invece, come sembra più probabile, ogni demo singolarmente sorteggiasse, o eleggesse,225 un collegio a parte destinato ad occuparsi delle attività sacre di sua pertinenza e interesse. Le iscrizioni rinvenute a Ramnunte forniscono dettagli importanti sulle competenze di questi magistrati e sui servigi che essi assicuravano al demo e alla sua divinità. La prima testimonianza in ordine di tempo è una laminetta plumbea,226 proveniente dal santuario di Nemesis e datata tra la fine del VI sec. e l’inizio del V, iscritta su entrambi i lati e forata in tre punti, che riporta sulla faccia A la formula Ἐπιστατõν, mentre sulla faccia B si susseguono due lotti di denaro. Il primo è contrassegnato dai nomi di quattro individui, designati quali hieropoioi, al dativo, e indicati quali destinatari di somme che rientrano nella categoria di demosion.227 Il secondo lotto invece contiene altri tre nomi, di cui gli ultimi due coincidenti con gli ultimi due del lotto precedente, riportati al genitivo e preceduti dalla proposizione para. Si riproduce qui di seguito il testo della lamina nell’edizione di V. Chr. Petrakos con traduzione per facilitarne la lettura:
223 [Arist.] Ath. Pol. 54. 6. L’attività degli hieropoioi è menzionata anche nella Politica di Aristotele (6.8, 1322b 20–25) tra le cariche di natura religiosa che egli distingue da quelle politiche. Un decreto datato al 341/0 (IG II2 1749, ll. 80–84) attesta che a quell’epoca gli hieropoioi erano indicati dalla boule. 224 Figurano per esempio ad Eleusi con il compito di svolgere i sacrifici (IG I2 5 l. 2). Sugli hieropoioi di Eleusi, cfr. Cavanaugh 1996, 1–17, in relazione al rapporto con il collegio degli epistatai, e Papazarkadas 2011, 30. Agli hieropoioi di Eleusi i demarchi consegnavano le aparchai destinate alle divinità eleusine perché fossero registrate (IG I3 78a, l. 9–10). Hieropoioi sono inoltre attestati in altri demi come Aixon (IG II2 1196, l. 5; IG II2 1199, ll. 1–13); Paiania (IG I3 250, ll. 9–11); Skambonidai (IG I3 244, C, ll. 3–4). Su queste testimonianze Whitehead 1986, 136; 142–143. Sugli hieropoioi ad Atene, Garland 1984, 117–118 e su quelli del demo di Aixone, Ackermann 2018, 297–298. 225 A Ramnunte in particolare sembra venissero eletti, mentre a Aixone erano sorteggiati. Cfr. I.Rhamnous 31, ll.17–18: […] τῶν ἱεροποιῶν τῶν αἱρεθέντων […] e su Aixone, Ackermann 2018, 297. 226 I.Rhamnous 181 = SEG 38.13; IG I3 247bis e Petrakos 1984 [1988], 166, 188, 192–195 n. 35 (con foto). 227 Cfr. infra p. 224.
Al servizio della dea: agenti di culto a Ramnunte
A:
Ἐπιστατõν
B: Τὸ χρε̃μα ἀνέλοται τὀς hιεροποιὸς τὸ ἐν τõι μολυβδίοι
223
Degli epistatai Il denaro messo da parte per gli hieropoioi quello nella lamina
hιγραμμένο iscritta Νεοκλέει ⋮ Η𐅄Δ𐅂𐅂 a Neocle: 162 dr. Πυθοδόροι ⋮ Η𐅄Δ𐅂 a Pitodoro: 161 dr. Τεισαμεν[ο]ῖ ⋮ Η a Tisameno: 100 Στράτον ⋮ Η𐅄𐅂𐅂 a Stratone: 152 [δε]μόσιον∶ hέχ[οσι] [παρ]ὰ Δίονος ⋮ Η [– –] [παρ]ὰ Στράτονο[ς – –] [πα]ρ̣ὰ Τεισαμεν̣[ο͂ – –] vacat
hanno il demosion da Dione 100 [+_ _] da Stratone [+_ _] da Tisameno [+_ _] I.Rhamnous 181
Il carattere frammentario e lacunoso di questo documento ha sollecitato l’attenzione di diversi studiosi, soprattutto di coloro che si sono occupati delle relazioni tra l’amministrazione centrale di Atene e i diversi demi e della gestione finanziaria e dell’economia dei santuari dell’Attica.228 L’iscrizione in questione riporta il rendiconto relativo alle somme trasferite dagli epistatai agli hieropoioi per l’adempimento delle loro funzioni, che potevano essere quelle connesse all’organizzazione dei rituali sacrificali o alle celebrazioni in onore della dea o ancora a eventuali lavori di riparazione della struttura santuariale.229 Entrambe le magistrature si occupavano della gestione finanziaria dei santuari, sebbene non sia semplice identificare i rispettivi compiti. Un confronto con la documentazione proveniente da Eleusi può risultare istruttivo, poiché da essa emerge il quadro di una magistratura collegiale la cui composizione andò incontro a diverse trasformazioni nel corso del tempo, ma che sostanzialmente era chiamata a sovraintendere, come suggerisce il nome stesso,230 alle ricchezze delle dee eleusine, alle entrate e alle uscite e a operazioni di recupero crediti.231 Una funzione analoga doveva svolgere il collegio degli epistatai a Ramnunte, per il quale la differenza di competenze con quello degli hieropoioi appare più definita, almeno nel periodo 228 Cfr. per esempio Faraguna 2006, 57; Blok 2010, 77–79; Papazarkadas 2011, 143 n. 207. Ackermann 2016, 236–237 individua negli hieropoioi di Ramnunte degli intermediari che in rappresentanza dei demoti gestivano il tesoro della dea. Il fatto che ad essi fosse demandata l’amministrazione finanziaria del santuario dimostra, secondo la studiosa, che il culto non era sotto il controllo centrale di Atene. 229 Blok 2010, 79. 230 Cfr. IG I3 32, ll. 11–12: ἐπισ[τε͂]ναι [τ]οῖς χρέμασι τοῖς τοῖν θ[ε]οῖν. 231 Cavanaugh 1996, 16–17.
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relativo all’iscrizione in questione. Gli hieropoioi sembrano infatti assegnatari di budget di denaro pubblico: demosion.232 Questo termine è probabilmente da intendersi in relazione alle finanze locali del demo, il cui santuario, come si deduce dall’entità delle somme e dei flussi di cassa doveva avere una contabilità piuttosto complessa e varia.233 Il secondo lotto, in cui i tre nomi con le relative somme, sono preceduti dalla preposizione para, potrebbe indicare delle somme oggetto di una paradosis, ovvero quella procedura, attestata nel mondo greco, che regolava la trasmissione di fondi, oggetti o documenti, a fine mandato, dai magistrati o collegi in carica ai successori.234 Come sottolinea P. Fröhlich, non si trattava, però, di un mero trasferimento di denaro o di oggetti, ma di un vero e proprio passaggio di responsabilità.235 Nella fattispecie, dunque, il documento in questione potrebbe voler registrare l’assegnazione di fondi agli hieropoioi in carica e la contabilizzazione delle somme derivanti dall’esercizio precedente che, per esempio, Stratone e Tisameno erano chiamati a gestire, insieme a Neocle e Pitodoro, mentre Dione aveva terminato il suo incarico.236 Infatti, quello che emerge dalla lettura del documento è che, in primo luogo, quella di hieropoios a Ramnunte – come altrove – era una carica collegiale, ma che poteva anche essere reiterata. L’indicazione di somme diverse dovrebbe indurre a pensare che vi fosse una gerarchia al suo interno cui era assegnato un budget definito, a seconda delle mansioni da svolgere. Il fatto però che le somme riconosciute ai primi due indi-
232 Il termine [δε]μόσιον alla l. 10 potrebbe essere letto o come un genitivo plurale, per il quale però, come è stato osservato, mancano termini di comparazione, o come un aggettivo al caso accusativo che sottointende il sostantivo χρε̃μα, con riferimento quindi alla natura pubblica del denaro: cfr. a questo proposito, il commento di V. Petrakos a I.Rhamnous 181 e Blok 2010, 78. In generale, però, la formula to demosion poteva genericamente rinviare ad una sorta di tesoro pubblico, la cui esistenza è attestata ad Atene a partire dall’inizio del V secolo e la cui amministrazione rientrava nella sfera di pertinenza dei kolakretai. Si trattava di un fondo alimentato da entrate di vario genere, come per esempio i proventi derivanti da tasse o imposte pagate dai cleruchi ateniesi o dagli aderenti alla Lega delio-attica, o ancora dagli Ateniesi residenti e che venivano investite in spese di interesse pubblico come per esempio l’erezione di statue di culto o il pagamento del Pritaneo o ancora i premi destinati ai vincitori olimpici o il compenso per ufficiali di culto: per un’analisi dettagliata sulle funzioni e le trasformazioni nell’impiego del fondo pubblico nel corso del V sec., cfr. Samons II 2000, 54–70. Papazarkadas 2011, 143 n. 207, osserva che quest’uso del termine [δε]μόσιον, riferito alle finanze del demo, sarebbe senza precedenti e vi intravede una forma di interazione tra l’amministrazione locale di Ramnunte e quella centrale di Atene, che lo stato attuale della documentazione non ci consente di comprendere. 233 Cfr. Faraguna 2008, 47. 234 Davies 1994, 207; Blok 2010, 79; Fröhlich 2011, 228. 235 Fröhlich 2011, 228. 236 Secondo Blok 2010, 79, n. 51, l’ordine cronologico è espresso sulla laminetta nella successione dei nomi dall’alto verso il basso: il denaro, quindi, era assegnato in prima battuta ai quattro hieropoioi. Successivamente gli altri due, più Dione, che forse era ancora in carica, avevano restituito il residuo, mentre agli due non era rimasto nulla. Un’ipotesi che J. Blok ritiene verosimile anche sulla base della considerazione avanzata da Petrakos in I.Rhamnous 181, che i fori sulla parte superiore della laminetta, quasi in corrispondenza dei primi due nomi, fossero stati fatti deliberatamente, per segnalare un controllo già effettuato sulla resa dei conti.
Al servizio della dea: agenti di culto a Ramnunte
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vidui siano più o meno equivalenti, rispetto a quelle inferiori riconosciute a Stratone e Tisameno potrebbe suggerire che essi potessero contare su un residuo, trasferito al successivo esercizio finanziario da quello precedente. Come che sia, quello che ora importa sottolineare è che il demo di Ramnunte si pose precocemente il problema dell’amministrazione finanziaria di un santuario, la cui attività cultuale e rituale fu anche affiancata e sostenuta da quella bancaria e creditizia237. Lo stesso collegio degli hieropoioi lo troviamo, infatti, anche in una stele di marmo della metà del V sec. che annota l’ammontare dei prestiti erogati dal Nemesion, con l’indicazione del flusso di cassa che ne derivava annualmente. L’iscrizione, già menzionata in precedenza238, di cui si riporta il testo qui di seguito nell’edizione di V. Ch. Petrakos, nomina l’attività degli hieropoioi all’ultimo anno di una lista di rendiconti finanziari, registrati nell’arco di un quinquennio, secondo un sistema di datazione variabile che individua come eponimo ora il demarco ora l’arconte: 1
ἐπ’ Αὐτοκλείδο δεμαρχο͂ντος ∶ το͂ τε͂ς Νεμέσεος ἀργυρίο ∶ κ-
Sotto la demarchia di Autocleide: del denaro di Nemesis
5
εφάλαιον ∶ το͂ παρὰ τοῖσι τὰς διακοσίας δραχμὰς ὀφέλοσι ΜΜΜ𐅆 ∶ ΧΧ ∶ το͂ δὲ ἄ-
la somma relativa a coloro che devono duecento dracme: 37.000 dracme;
237 Uno studio sulle modalità di gestione delle casse dei santuari è stato proposto da Chankowski 2005, 81, che ha osservato come l’obiettivo principale degli amministratori delle finanze divine fosse quello di assicurare il regolare svolgimento delle attività religiose quali feste e rituali sacrificale, senza essere costretti a ricorrere ad altre forme di finanziamento. Il caso di Ramnunte appare peculiare, perché il santuario rientrava tra i pochi, circa una ventina nel mondo greco, che erogavano prestiti. Cfr. per una mappatura di questi istituti di credito sacri, nel mondo greco, Bogaert 1968, 288–297 e, in Attica, Chankowski 2005, 92 (Annexe 2). Quest’ultima individua nei demi attici dei veri e propri «laboratoires d’expériences financières» (p. 77), puntualizzando come presso queste comunità si andassero sperimentando tecniche finanziarie che conobbero successiva diffusione anche altrove. A Ramnunte la pratica del prestito sembra essere stata adottata precocemente rispetto ad altri demi dell’Attica, in cui risultano attestati: cfr. a Eleusi, un inventario dei beni del santuario di Demetra e Core, con un riferimento a un prestito erogato alla città di Atene (IG I3 386–387, ll. 173–183, 408–7 a. C.); a Plotheia, un decreto che stabilisce la destinazione delle entrate derivanti dagli affitti e dai tassi di interesse sui prestiti al finanziamento di attività cultuali e rituali in cui il demo era coinvolto (IG I3 258, 425–413 a. C.); a Mirrinunte, un regolamento relativo al prestito di denaro sacro, che risultano vincolati a un’ipoteca sulle ricchezze fondiarie (IG II2 1183, post 340 a. C.). 238 Cfr. supra p. 223.
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Vivere all’ombra di Nemesis
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λλο ἀργυρίο ∶ το͂ τε͂ς Νεμέσεος ∶ κεφάλαι{∶}ον ∶ Μ ΧΧ𐅅ΗΗΔΔ𐅃𐅂𐅂𐅂 𐅂ΙΙΙ
dell’altro denaro di Nemesis la somma 12.729 dr. e 3 ob.
15
ἐπὶ Μνησιπτολέμο ἄρχοντος κεφάλαιον παντὸς το͂ ἱερο͂ ἀργυρίο ⋮ 𐅇ΧΗ ΗΗ𐅄ΔΔΔΔ𐅃𐅂𐅂ΙΙΙΙΙ
Sotto l’arcontato di Mnesiptolemos, la somma di tutto il denaro sacro: 51.397 dr. e 5 ob.
20
ἐπὶ Ναυσιμένος ἄρχοντος κεφάλαιον το͂ ἱερο͂ ἀργυρίο το͂ παρὰ τοῖς τὰς διακοσίας ἔχοσι ̣ ⋮ ΜΜΜ𐅆ΧΧ το͂ δ’ ἄλλο ⋮ ΜΧ𐅅ΗΗΔΔ𐅂𐅂𐅂
Sotto l’arcontato di Nausimeno la somma del denaro sacro relativo a coloro che devono duecento dracme: 37.000, del resto 11.723 dr. e 2 ob.
25
ΙΙ ἐπ’ Εὐαινέτο ἄρχοντος κεφάλαιον τριακοσιοδράχμων
Sotto l’arcontato di Euaineto la somma dei (lotti) di 300 dr.
30
ΜΧΧΧ𐅅 παντὸς δὲ 𐅇𐅆𐅅ΗΗΔ𐅂𐅂Ι ἐπὶ Δημοφάνος δημάρχο παρὰ ἱεροποιοῖς κεφάλαιον ∶ 𐅆ΗΗ𐅃𐅂ΙΙΙΙ
13.500 e di tutto 55.712 dr. e 1 ob. Sotto la demarchia di Demofane, la somma presso gli hieropoioi: 5.206 dr e 4 ob.
35
τριακοσιοδράχμων ΜΧΧΧΧΗΗΗΗ ∶ διακοσιοδράχμων ∶ ΜΜΜ𐅆ΧΧ παντός ∶ 𐅇𐅆Χ𐅅Η𐅃𐅂ΙΙΙΙ
dei (lotti) da 300 dracme: 14.400; dei (lotti) da 200: 37.000; di tutto: 56.606 dr. e 4 ob. I.Rhamnous 182 (IG I3 248)
Il documento, oggetto di un dibattito acceso tra gli studiosi,239 consente di mettere in evidenza due dati importanti: in primo luogo, l’ammontare del tesoro della dea, ca-
239 Il documento è stato coinvolto nella lunga querelle sull’economia antica tra primitivisti e modernisti e ha sollecitato diverse interpretazioni sulla natura della ricchezza santuariale e sul suo carattere locale o regionale, e ancora, sulla liquidità di cui essa era costituita o, più in generale, sulla disponibilità economica del demo di Ramnunte. Oggetto di discussione è stata inoltre la tipologia da riconoscere in queste somme di denaro, se interpretarle come contributi amichevoli, erogati
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pace di oscillare nell’arco di un quinquennio tra i 7 e i 9 talenti e, in secondo luogo, la notevole esposizione al rischio del santuario. Le somme date in prestito, infatti, ammontavano a una cifra che si aggirava tra il 70 % e il 95 %, rispetto a quella mantenuta in deposito,240 e venivano cedute ad un tasso medio di interesse piuttosto basso e conveniente, che è stato stimato del 2,5 %, dando luogo, nell’arco del quinquennio, a un tasso composto del 7 %241. Il denaro, indicato con chiarezza come appartenente a Nemesis (το͂ τε͂ς Νεμέσεος ἀργυρίο) e contrassegnato dall’aggettivo hieron, è soggetto ad un incremento costante nel corso degli anni. Dall’analisi dei movimenti dei capitali ascritti alla dea emerge il successo di un’attività creditizia che annoverava un totale di 230 creditori (185 per i prestiti da 200 dracme e 45 per prestiti da 300). Agli hieropoioi era affidata la gestione del denaro rimasto in cassa che, benché venga esplicitamente riferito ad essi solo per il quinto anno, con ogni verosimiglianza doveva essere sempre stato di loro competenza: un capitale che, pur avendo conosciuto nell’arco del quinquennio un consistente decremento, dalle 12.729 dr. in deposito del primo anno alle 5279 dr del quinto anno, era sensibilmente cresciuto anche rispetto a quello che essi amministravano all’inizio del V sec., secondo quanto emerge da I.Rhamnous 181.242 La questione che adesso ci si potrebbe porre è quella dell’individuazione degli asset finanziari che costituivano la ricchezza della dea. Un’indicazione in questo senso ci viene da un’iscrizione più tarda, datata alla seconda metà del IV sec., che menziona l’affitto di due temene appartenenti a una dea, verosimilmente Nemesis, concessi da parte dei demoti di Ramnunte. Si tratta di una stele con frontone in marmo bianco, inizialmente ritenuta proveniente dal Sunio (IG I2 2493), poiché registrata al Museo Epigrafico di Atene tra quelle che V. Stais aveva reperito nel corso dei suoi scavi condotti tanto a Sounion quanto a Ramnunte, alla fine del XIX sec.243 Il ritrovamento da
240 241 242 243
senza interessi (sulla base di Dem. 27.11), a testimonianza dei rapporti di philia all’interno del demo o, viceversa, come prestiti capaci di generare interessi: Meiggs/Lewis, GHI 53, pur sottolineando l’assenza di sistematicità nelle registrazioni, concordano con l’ipotesi che le cifre indicate possano costituire somme date in prestito; contra Finley 1953, 285 n. 43 che considera invece poco credibili le somme indicate in rapporto all’eventuale numero di debitori e rifiuta l’ipotesi che possa trattarsi di prestiti; Wilhelm 1940, 208, dal canto suo, aveva invece evidenziato la crescita di liquidità conosciuta dal santuario, nell’arco dei cinque anni, spia del sicuro prestigio di cui godeva la dea; mentre Pouilloux, Rhamnonte, 149, seguito da Whitehead 1986, 160, ha suggerito l’ipotesi che più lotti potessero essere assegnati allo stesso debitore; Millett 1991, 176, ha difeso l’idea che tali cifre potessero essere erogate a titolo di eranoi; Bogaert 1968, 94, ha sottolineato come il prestito a terzi fu uno strumento che consentì ai santuari dei demi di far fruttare il proprio patrimonio. Faraguna 2008, 46 ha escluso l’idea che i prestiti fossero erogati a titolo di eranos. La prassi di concedere singole tranches di prestiti, si riscontra anche a Delo nel 374/73: a questo proposito, cfr. Chankowski 2005, 78 e 2008, 137–138; 360–361. Faraguna 2008, 45–47. Blok 2010, 71, che, tra l’altro, osserva che il tasso d’interesse a Delo era del 10 %. Cfr. anche Davies 2001, 118–119. Cfr. Bogaert 1968, 93. I.Rhamnous 180 (= IG II2 2493 e 2494).
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parte di V. Chr. Petrakos, negli anni Ottanta del secolo scorso, all’interno del santuario di Nemesis di altri due frammenti di un’altra copia dell’iscrizione, ha consentito poi a M. H. Jameson di studiarne il testo, composto da tre ampi frammenti, di cui il primo, – e meglio conservato – di ca. 40 righe, restituisce le linee di un’attività redditizia che ruotava intorno ai terreni di proprietà della dea.244 Questi ultimi sono individuati con precisione in una località, presumibilmente sita all’interno del territorio di Ramnunte, indicata con la formula ἐν Ἓρμηι (l. 2 e l. 4). I terreni venivano dati in locazione, per un periodo di dieci anni, da corporazioni di demoti, definiti con un’espressione di difficile interpretazione come «appartenenti al meros di Archippo e di Stesio». Al locatario di un temenos il cui nome, Ierocle, figura alla l. 4 venivano dati, nell’iscrizione, indicazioni sulla coltivazione delle terre. Un secondo temenos, comprensivo di giardino kepos, dato in affitto sempre dai demoti del meros di Archippo e di Stesia, è menzionato nella parte conclusiva dell’epigrafe (l. 36).245 Di seguito ai contratti di locazione si ritrovano delle righe piuttosto frammentarie (ll. 82–88), che sono state lette nella forma di un calendario sacrificale di cui dovevano essere responsabili forse degli hieromnamones (l. 82). Le divinità nominate sono Apollo Lykeios, Zeus Herkeios, i cui culti non sono attestati a Ramnunte, e una terza potenza di cui è leggibile solo la seconda parte del nome [---] μιδι da integrare con Artemide o, più verosimilmente, con Themis che invece era onorata nello stesso recinto di Nemesis (l. 82–88). L’ipotesi avanzata dagli studiosi è pertanto che i proventi degli affitti servissero a finanziare i sacrifici in onore delle altre divinità, oggetto di devozione all’interno del demo, e che questi fondi fossero amministrati dagli hieromnamones, funzionari attestati altrove ma non a Ramnunte, la cui competenza doveva rientrare nella gestione delle proprietà immobiliari degli dèi.246 Come che sia, appare evidente che Nemesis disponeva di un patrimonio non indifferente costituito di un portfolio diversificato di attività finanziarie e immobiliari che i demoti di Ramnunte di sforzavano di valorizzare, rendendo fiorente e virtuosa l’economia di un santuario che, a sua volta, finanziava anche l’attività rituale rivolta ad altre divinità, e costituendo così un vero e proprio volano di economia religiosa. Per l’esercizio di queste funzioni, le fonti epigrafiche indicano concordemente il collegio degli hieropoioi a cui si doveva non solo la concreta gestione finanziaria delle somme in deposito, ma anche l’impiego di tali somme nell’amministrazione dello spazio del recinto di Nemesis. In concomitanza con l’incremento delle attività che scandivano la vita della guarnigione a Ramnunte, la funzione degli hieropoioi si precisa ancor meglio e si arricchisce di altri dettagli. Essi infatti, da un lato, figurano nella documentazione come coloro che erano deputati a dare corpo e visibilità agli onori attribuiti dai demoti agli ufficiali 244 Jameson 1982. 245 Sul significato del termine meros, cfr. le ipotesi avanzate da Jameson 1982, 72. 246 Papazarkadas 2011, 143.
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della fortezza, e venivano pertanto indicati come responsabili sia del coinvolgimento di questi ultimi nelle attività sacrificali del santuario, sia dell’iscrizione sulle stele dei decreti con cui il demo li celebrava e della loro collocazione all’interno dello spazio sacro riservato a Nemesis;247 dall’altro, eletti al pari di uno stratega, erano chiamati ad affiancarlo nei sacrifici rivolti alla dea.248 Amministratori delle finanze e dello spazio santuariale, questi funzionari rivestivano un ruolo di mediazione tra la dea e le più alte cariche politiche e militari del demo, provvedendo ad affiancarle e a coadiuvarle nei riti sacri e a iscrivere i loro nomi e le loro benemerenze nel paesaggio sacro che era sotto la tutela di Nemesis. Come sottolinea D. Smith in uno studio dedicato agli hieropoioi di Cos:249 The main difference between the office of the priest and the hieropoioi seems to be the close connection of the priest with a god. The priest is always singular even when his god is not mentioned, and the name of his god can usually be surmised from context. The dedication of the priest to the god also explains the limitations on his behavior, regulations on wearing apparel, and his share in the god’s revenue. Although the hieropoioi were sometimes servants of a particular god […], they were not necessarily the representatives of the god. Where the unit is known for the appointment of hieropoioi, it was governmental rather than divine.
Effettivamente anche a Ramnunte gli hieropoioi sembrano legati, in modo esclusivo, a Nemesis, ma la loro relazione con la dea sembra volta più ad assicurare la corretta amministrazione finanziaria e organizzativa del santuario, anche nell’ambito dell’esecuzione dei rituali, che a sovraintendere un’efficace comunicazione con il divino: a svolgere questa funzione erano invece chiamate, come vedremo delle figure femminili.250 7.2 Un sacerdozio al femminile per Nemesis Il punto di partenza per un’indagine sulle figure sacerdotali preposte al culto di Nemesis a Ramnunte è senz’altro rappresentato da una dedica iscritta sulla base di una statua di Themis (Fig. 7), ritrovata all’interno del piccolo tempio a fianco del Nemeseion nel 1890, in cui si legge:251 247 In I.Rhamnous 54 ll. 8–10 è riportato il testo di un decreto, datato al periodo tra la seconda metà del IV sec. e la prima del III a. C., in cui si riportano gli onori tributati per la sua dikaiosyne, ad un anonimo ufficiale della fortezza e nel quale si indicano gli hieropoioi incaricati «a chiamarlo ai sacrifici che compiono insieme per Nemesis e a trascrivere il decreto su una stele». 248 I.Rhamnous 15 ll. 8–9 e 31, ll. 16–18. 249 Smith 1973, 45. 250 Per un confronto con l’attività degli hieropoioi a Delo con ampia documentazione sulle loro attività, si veda Chankowski 2020. 251 IG II3 4,1 513 (IG II2 3109 e IG II 5, 1233; SEG 40. 178; I.Rhamnous 120).
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Fig. 7 Statua di Themis (fine IV sec.). National Archaeological Museum, Athens. Inv. Nr. NAM Γ 231 © Hellenic Ministry of Culture and Sports / Hellenic Organization of Cultural Resources Development. 1 Μεγακλῆς Μεγακ[λέους Ῥαμ]νούσ[ι]ος ἀνέθηκεν Θέμιδι στεφαν̣ωθεὶς ὑπὸ τῶν δημοτῶν δικαι οσύνης ἕνεκα ἐ[πὶ ἱ]ερείας Καλλιστοῦς καὶ νικήσας παισὶ καὶ ἀνδράσι γυμνασιαρχῶν καὶ καὶ Φειδοστράτης Νεμέσει ἱερέας κωμωιδοῖς χορηγῶν. Χαιρέστρατος Χαιρεδήμου 5 Ῥαμνούσιος ἐπόησε
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L’iscrizione pone diversi problemi di lettura e di interpretazione, che sono stati affrontati da A. Wilhelm, di cui si è adottata, per ora, in via provvisoria l’edizione,252 rinviando a un momento successivo una proposta di traduzione. Al di là delle questioni ermeneutiche, che vedremo fra poco, il dato che emerge subito, anche a un rapido esame del testo, è la stretta associazione tra il culto di Themis e quello di Nemesis. Wilhelm riteneva che ciascuna divinità avesse una sua sacerdotessa, ma il culto di Themis, il cui nome precede anche in altre iscrizioni provenienti da Ramnunte quello di Nemesis, godesse di una sorta priorità.253 Un altro dato che è possibile dedurre da un’analisi superficiale del testo è che il sacerdozio delle due dee doveva essere eponimo se esso, come sembra, forniva un elemento di datazione per la dedica e per l’attività del ginnasiarca. Il Megacle in questione era senz’altro un personaggio di rilievo, appartenente a una famiglia della buona società di Ramnunte: fu premiato per la sua dikaiosyne254 al pari di tanti strateghi e funzionari che svolsero la loro attività all’interno del demo, ma ricoprì anche la carica di ginnasiarco, guidando alla vittoria le squadre appartenenti a due classi d’età (quella dei paides e quella degli andres) e la carica di corego alle commedie. Le due classi di età indicate coincidono con quelle previste negli agoni panellenici, e sono attestate ad Atene anche in altre competizioni.255 La ginnasiarchia, come la coregia, erano in età classica cariche liturgiche, abbastanza onerose da sostenere, di cui potevano farsi carico esponenti della classe media agiata, in cerca di onori,256 come provano i casi di Nicia e di Alcibiade.257 Inizialmente nominato su base filetica, il ginnasiarco finanziava soprattutto l’allestimento delle corse con le fiaccole.258 La carica divenne poi verso la fine del IV sec. una vera e propria magistratura cui era affidato un budget dedicato di spesa.259 Difficile è ricostruire, nella fattispecie,
252 Wilhelm 1940: lo studioso collegava ἐ[πὶ ἱ]ερείας Καλλιστοῦς a καὶ Φειδοστράτης Νεμέσει ἱερέας del rigo successivo e riteneva che le parole καὶ νικήσας παισὶ καὶ ἀνδράσι γυμνασιαρχῶν καὶ dovessero seguire καὶ Φειδοστράτης Νεμέσει ἱερέας. Ringrazio M. Nafissi, R. Fabiani e D. Summa che hanno discusso con me a lungo questa iscrizione. 253 Contra Petrakos 1997b, 409–410. 254 Sui concetti di valore impiegati nei decreti onorifici attici in epoca classica, cfr. Veligianni Terzi 1997. 255 Paus. 5.8.9; 10.7.5; Arist. Pol. 8. 1339a, 1–5; Golden 2004, 104–140; Habicht 1994, 87; Christesen 2007, 16–17; con particolare riferimento ad Atene, Chankowski 2010, 90–99. 256 Cfr. la presentazione di tali servizi liturgici fornita da Ps.Xen. Ath. Pol. 1.13. Per un’analisi ragionata degli oneri che ciascun tipo di liturgia comportava, con rinvio ad altra bibliografia, cfr. Marchiandi 2011, 122–123. Sulla ginnasiarchia ateniese come liturgia, Schuler, 2007, 166 257 Plut. Nic. 3.2 e Compar. Nic. et Crass. 34.4 e And. 1.132.8. 258 Xen. Por. 4.51; Dem. 39. 7; L. Patm. 141, 17 (Dem. 57.43); L. Seguer. s. v. Γυμνασίαρχοι. Stando a Ath. Pol. 57.5, l’arconte basileus era preposto all’organizzazione di tutte le corse con le fiaccole. Cfr. Wilson 2000, 35. 259 Per un esame della ginnasiarchia nell’Atene di età classica ed ellenistica, cfr. Culasso Gastaldi 2009: in particolare, sul merismos di spesa assegnato al ginnasiarca in epoca ellenistica, in funzione della sua arche di magistrato, con documentazione a supporto, p. 119 e sul dibattito relativo alla trasformazione della ginnasiarchia in una magistratura, p. 120–122.
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l’occasione precisa che determinò la dedica di Megacle. Secondo E. Culasso Gastaldi, l’iscrizione, databile alla fine del IV sec., o al più tardi all’inizio del III, testimonia un caso particolare di ginnasiarchia che si realizzava al livello del demo e che sostanzialmente manteneva ancora un carattere liturgico.260 Al di là delle questioni legate ai compiti del ginnasiarca, quello che ora ci interessa è procedere all’esame della dedica che, con l’indicazione dei nomi delle due sacerdotesse cui era affidato il culto, consente di avanzare qualche riflessione sulla natura di tale carica sacerdotale, sulla centralità del culto delle due dee e, infine, sulla provenienza sociale dei suoi agenti e sui compiti che ad esse si attribuivano. Per procedere in tale direzione è opportuno muovere ora da una lettura più profonda del testo, dei problemi che esso pone e che giustamente sono stati al centro di una complessa querelle tra gli studiosi. Nel suo lavoro, Wilhelm aveva messo in relazione questa dedica con quella di due troni di marmo, ritrovati nel corso degli scavi inglesi da parte dell’architetto John Peter Gandy Deering per la Society of Dilettanti nel 1813, all’ingresso del piccolo tempio. In entrambi, sulla parte inferiore si trova la dedica di un certo Sostrato, una volta a Themis, e l’altra a Nemesis.261 Scrittura e fattura stessa dei due sedili lasciano ritenere che essi siano più o meno contemporanei e consentono una datazione alla seconda metà del IV secolo. Sulla parte superiore dello schienale dei due troni era riportato il nome di due sacerdotesse eponime, annotato da J. P. Gandy Deering nei suoi diari di scavo.262 Sul trono dedicato a Nemesis figurava il nome della sacerdotessa Callisto, mentre su quello dedicato a Themis il nome letto dall’architetto inglese era ΦΕΙΛΟΣΤΡΑΤΟΣ, poi erroneamente riprodotto, nella pubblicazione degli scavi: ΦΙΛΟΣΤΡ …263 La distrazione dell’architetto, a quanto pare non troppo versato nella conoscenza del greco antico,264 ha scatenato tutta una serie di fraintendimenti, anche perché dopo gli scavi inglesi gli schienali dei troni andarono distrutti, rendendo impossibile l’autopsia delle iscrizioni. Le interpretazioni successive si basarono infatti per lo più sui disegni di Gandy Deering e dei suoi collaboratori. Alcuni frammenti delle due dediche furono recuperati in seguito nel corso degli scavi condotti da V. Chr. Petrakos che, molto opportunamente, ha ripreso il dossier del sacerdozio di Nemesis a Ramnunte, facendo piazza pulita dei malintesi emersi nella storia degli studi di questi documenti. In particolare, nel frammento 618 attribuito alla parte superiore di uno dei troni in questione, si leggono con chiarezza le lettere ΦΕΙΛΟΣ. Petrakos quindi ipotizza l’imperizia del lapicida nell’aver mancato di incidere la barra orizzontale del Δ e quindi, come del resto aveva 260 Una ginnasiarchia, prestata a livello locale all’interno del demo, è testimoniata da Is. 2.42. Culasso Gastaldi 2009, 131. Marcadé 1953, n. 12 datava, sulla base di altri confronti, l’iscrizione all’inizio del III sec. a. C. In generale, sull’organizzazione interna dei demi, cfr. Jones 1987, 61–65. 261 I.Rhamnous 121–122 (= IG II3 4,2 1419). Sulla funzione di questi troni all’interno del recinto della dea, cfr. Connelly 2007, 202–203. 262 Petrakos 1997b, 407. 263 Society of Dilettanti 1817, Chap. VII, Pl. 5. 264 Petrakos 1997b, 406.
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già sospettato lo stesso Wilhelm, ritiene che il rigo vada integrato così: [ἐπὶ ἱερείας] Φειοστ̣[ράτης].265 I nomi delle sacerdotesse riportati sui due troni risultano quindi essere gli stessi che ritroviamo nell’iscrizione di Megacle,266 contrariamente a quanto sosteneva Wilhelm che, pur ammettendo la somiglianza, riteneva che la dedica dei troni fosse più recente e che dovesse attribuirsi semmai a personaggi con lo stesso nome, magari appartenenti alla stessa famiglia. Lo studioso austriaco inoltre considerava le dediche dei troni a Themis e Nemesis, con l’indicazione del nome delle sacerdotesse, come una prova a favore dell’esistenza di un doppio sacerdozio: l’uno preposto al culto di Themis e l’altro a quello di Nemesis. V. Chr. Petrakos, in maniera più prudente, osservava invece la necessità di evitare la confusione tra l’indicazione della divinità cui la dedica dei troni era destinata e quella del nome della sacerdotessa eponima sotto cui era avvenuta l’offerta. Proponeva quindi che Sostrato avesse dedicato un trono a Themis sotto il sacerdozio di Pheidostrate e un altro a Nemesis sotto quello di Callisto. Perveniva inoltre alla conclusione che una soltanto fosse la carica sacerdotale attiva all’interno del santuario, e che fosse quella di Nemesis, l’unica del resto menzionata in maniera inequivocabile nella documentazione epigrafica rinvenuta a Ramnunte e che ad essa era affidata la cura di entrambe le divinità. L’archeologo rileggeva pertanto il testo della dedica di Megacle sul piedistallo della statua di Themis proponendo l’espunzione del καὶ del terzo rigo che precede il nome della sacerdotessa Pheidostrate, considerando tutte le lettere incise dopo Καλλιστοῦς un’aggiunta posteriore, dovuta al desiderio da parte di Megacle di lasciare memoria, sull’opera da lui commissionata, delle sue successive benemerenze.267 A suo avviso tanto Callisto quanto Pheidostrate sarebbero state entrambe sacerdotesse di Nemesis, seppure in tempi successivi. E in effetti, il passaggio repentino tra la formula ufficiale ἐ[πὶ ἱ]ερείας Καλλιστοῦς della l. 2 e il genitivo assoluto Φειδοστράτης Νεμέσει ἱερέας della l. 3 sembrano suggerire due momenti cronologici differenti della carriera di Megacle, ma non necessariamente distanti: quello in cui la corona venne annunciata, e quello in cui entrambe le vittorie vennero conseguite, o soltanto una delle due. Resta inoltre difficile da stabilire quali fossero gli agoni in cui Megacle riportò tali memorabili vittorie, ma è ragionevole ritenere che la prima parte dell’iscrizione riguardasse gli eventi realizzati sotto il segno di Nemesis e quindi nel corso dei Neme-
265 I.Rhamnous 122 e Wilhelm 1940, 206. 266 Petrakos 1997b. 267 Lambert 2010, 168, n. 148 concorda con la lettura di V. Ch. Petrakos ma ipotizza che il nome della seconda sacerdotessa fu aggiunto successivamente, quando il dedicante riportò la vittoria in qualità di corego. Palagia 1994, 118, parla di un ripensamento, un “afterthought” che avrebbe portato all’aggiunta di καὶ Φειδοστράτης Νεμέσει ἱερέας e di κωμωιδοῖς χορηγῶν alla l. 4, quando la statua era già in situ; Csapo/Wilson 2020, 241, attribuiscono le difficoltà di lettura del documento a «a poorly drafted layout for the inscription».
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sia e il secondo in un’altra festa, forse le Dionisie che sappiamo venivano celebrate a Ramnunte.268 Si può quindi ipotizzare lo scenario seguente: il dedicante deve essere stato onorato dal suo demo con una corona sotto il sacerdozio di Callisto, per la dikaiosyne mostrata nel corso della sua carica di ginnasiarco, a seguito della quale aveva vinto, forse alle Nemesie, con la classe degli uomini e quella dei fanciulli,269 mentre era sacerdotessa di Nemesis Pheidostrate. La seconda vittoria conseguita, come corego alle commedie, potrebbe invece essere stata aggiunta al monumento poco dopo. Si può quindi, a questo punto, proporre una traduzione come quella che segue: Megacle figlio di Megacle Ramnusio dedicò a Themis, dopo avere ricevuto la corona dai demoti per la sua giustizia sotto il sacerdozio di Callisto e avendo riportato la vittoria in qualità di ginnasiarca con i fanciulli e con gli adulti, essendo sacerdotessa per Nemesis Pheidostrate e (avendo vinto) in qualità di corego per le commedie. Chairestrato figlio di Chairedemo Ramnusio la fece
Da questa lettura ne consegue che il sacerdozio di Nemesis era una carica annuale eponima sotto il cui nome venivano registrate atti cultuali destinati anche a Themis. Le due potenze, spesso percepite dai Ramnusî come una sorta di binomio, per le ragioni che abbiamo già esplorato,270 condividevano lo stesso spazio sacro e potevano pertanto essere onorate insieme. Una pratica cultuale questa che forse attraversava tutta la storia del santuario di Ramnunte. Già in epoca arcaica un tale Philodoros, se è corretta la datazione del documento e l’integrazione del nome, dedicava a Themis e Nemesis un perirrhanterion, in marmo pario.271 Si tratta di un recipiente destinato alla raccolta dell’acqua lustrale che, secondo le fonti antiche,272 serviva ad assicurare la condizione di purezza necessaria per accedere al recinto degli dèi.273 Oltre ai troni di Sostrato, la cui dedica dichiara
268 Jones 2004, 135 data l’iscrizione all’inizio del III sec. e ritiene che gli agoni in questione siano quelli organizzati nell’ambito delle Dionisie rurali. Csapo/Wilson 2020, 542, che sono tornati recentemente sulla questione, ritengono invece che si tratti delle Dionisie locali, così come locale doveva essere la vittoria, nell’esercizio della ginnasiarchia: forse le grandi Nemesie. 269 Le medesime classi d’età le troviamo in altre feste attiche sul finire del V sec. a. C. nei Thargelia, le Dionysia, i Promethia e gli Hephaistia: cfr. IG II2 1138–39. 270 Cfr. supra p. 201 e ss. 271 Cfr. supra p. 202 n. 122. 272 Per esempio Hipp. Morb. sacr. 1. 148. Sulla funzione dei perirrhanteria, cfr. Pimpl 1997, in particolare p. 5–6, per un’analisi delle fonti antiche. 273 Su questa dedica, cfr. I.Rhamnous 75 e Pimpl 1997, 96, che contesta in maniera non troppo convincente la lettura di Themis, e Berti 2001, 93. Un altro perirrhanterion, se è corretta l’integrazione proposta dall’editore (I.Rhamnous 125), risulta essere dedicato a Nemesis nel IV sec., suggerendo l’esistenza di pratiche di purificazione cui si sottoponevano i devoti prima dell’ingresso nel santuario.
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l’intento di evocare la presenza delle due divinità e il loro radicamento all’interno del santuario,274 tra le altre dediche a Themis e Nemesis si annovera anche la statua della sacerdotessa Aristonoe. L’iscrizione alla base, datata al III sec. a. C., riporta l’omaggio alla madre da parte di Hierokles, figlio di Hieropoios, Ramnusio in questi termini: 1 Θέμιδι καὶ Νεμέσει Ἱεροκλῆς Ἱεροποίου Ῥαμνούσιος ἀνέθηκε τὴν μητέρα Ἀριστονόην Νικοκράτου Ῥαμνουσίου ἱέρειαν 5 Νεμέσεως
A Themis e Nemesis Hierocles, figlio di Hieropoios Ramnusio dedicò la (statua della) madre Aristonoe figlia di Nicocrate Ramnusio, sacerdotessa di Nemesis. I.Rhamnous 133
La sacerdotessa, la cui statua, conservata al Museo Archeologico di Atene (Fig. 8)275, rappresenta una donna vestita con chitone e himation, con il corpo quasi interamente coperto. Tiene con la mano destra, conservata ma non più attaccata al corpo, una phiale, alla maniera di Nemesis. La dedica rivolta alle due divinità unitamente alla designazione di Aristonoe come hiereia Nemeseos, sembra costituire una conferma ulteriore del fatto che, sebbene il sacerdozio come, del resto, lo spazio santuariale fossero intitolati alla sola Nemesis, Themis rientrava per i devoti nello stesso orizzonte di senso. Hierokles, pertanto, avrà inteso offrire alle due divinità un’immagine della madre, in memoria dell’impegno profuso, nel corso del suo ufficio sacerdotale. Sacerdotesse di Nemesis, Pheidostrate e Aristonoe sono nomi che ricorrono anche altrove nel paesaggio epigrafico del demo di Ramnunte. Callisto potrebbe essere identificata con la figlia di Mnestides, menzionata nel sema di uno dei periboli funerari che a Ramnunte costeggiavano la via sacra che conduceva al santuario di Nemesis.276 La famiglia, forse imparentata con quella dello stratega ateniese Ificrate, figlio di Timoteo, faceva senz’altro parte della buona società ramnusia.277 Una Pheidostrate si ritrova registrata, come figlia di Eukolos Pitheus, all’interno del peribolo cosiddetto di Diogeiton, era forse sposata con un tale Andropheles. Il nipote di quest’ultimo, Nicostrato, è noto quale proponente di tre decreti, fra cui uno in onore dell’ipparco della paralia Epicare,
274 275 276 277
Cfr. le riflessioni di Vollmer 2014, 29–30 sul rapporto tra il trono vuoto e la presenza divina. Petrakos 1999a, 288–289. Sulla prassi funeraria della costruzione dei periboli in riferimento all’Attica, cfr. Marchiandi 2011. L’ipotesi è suggerita in modo prudente da Marchiandi 2011, Rhamn. 8, 467(catalogo).
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Fig. 8 Statua della sacerdotessa Aristonoe con base iscritta (III sec. a. C.). National Archaeological Museum, Athens. Inv. Nr. NAM Γ 232 © Hellenic Ministry of Culture and Sports / Hellenic Organization of Cultural Resources Development.
che tra le varie benemerenze riconosciutegli dai Ramnusî, aveva quella di avere allestito il suo quartier generale proprio nel Nemesion, perché fosse tenuto in onore.278 Anche il nome dell’ultima sacerdotessa Aristonoe è conosciuto per altre vie a Ramnunte; anzi, in questo caso, l’identificazione si fonda su una base più solida dal punto di vista prosopografico. La troviamo infatti con il figlio Hierokles e il marito Hieropoios tra i defunti sepolti nel peribolo appartenente al capostipite Hierokles figlio di Hieron ramnusio. Qui,
278 Marchiandi 2011, Rhamn. 11 (catalogo) e I.Rhamnous 3.
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Aristonoe compare anche come figlia di un rappresentante eminente della comunità ramnusia: Nikokrates figlio di Xenokrates e fratello di Phanokrates, proprietario di un altro peribolo poco lontano. Il marito Hieropoios, dal canto suo, compare come proponente di un decreto in onore dello stratega della paralia Kallippos figlio di Theodotos di Melite che ricevette una corona d’oro per la giustizia e la magnanimità con cui aveva trattato i Ramnusî e per la cura con cui aveva gestito la guarnigione. Per tali benemerenze, Hieropoios aveva anche proposto che gli hieropoioi provvedessero a far trascrivere il decreto su una stele da erigere proprio nel santuario di Nemesis.279 Al termine di questa rassegna di dati, può ora trarsi qualche conclusione sul sacerdozio di Nemesis; una carica di cui erano investite donne appartenenti a famiglie eminenti della comunità ramnusia che, tra i loro uffici, gestivano oltre alla relazione con la divinità principale del santuario, anche quella con Themis, onorata all’interno della stessa struttura. La sacerdotessa, che aveva funzione eponima, restava in carica un anno, ma doveva rivestire a Ramnunte compiti per lo più legati alla prassi rituale, volti ad assicurare l’efficacia della relazione con il divino. La gestione finanziaria del santuario, così come l’organizzazione degli spazi e l’allocazione delle risorse, restavano invece nelle competenze degli hieropoioi.280 8. Il demo in festa: i Nemes(e)ia281 Come quellο di altri demi dell’Attica, anche il calendario di Ramnunte doveva essere scandito da eventi festivi di cui è possibile isolare tracce, benché labili, nelle fonti letterarie ed epigrafiche. Tra questi l’appuntamento più importante erano senz’altro le feste intitolate a Nemesis. Purtroppo la documentazione su queste celebrazioni è confusa e contraddittoria, ma i pochi elementi disponibili consentono di restituirne un quadro plausibile benché sfumato. Nelle prossime pagine quindi si riesamineranno i dati a disposizione e le difficoltà di lettura che essi pongono per giungere a una migliore comprensione delle caratteristiche di questa festa e delle trasformazioni cui andò incontro nel corso del tempo.
279 I.Rhamnous 151, l. 16. 280 Non era inusuale, tuttavia, che anche le donne in Attica si trovassero, nell’esercizio del sacerdozio, a gestire delle somme di denaro, come ha mostrato Augier 2015. 281 Le feste sono indicate, nelle fonti, tanto nella forma Nemeseia, quanto in quella Nemesia.
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8.1 Una festa in onore dei defunti? Nei lessici, le Nemesie sono definite una πανήγυρις. Tale termine il cui significato etimologico rinvia a un assembramento di individui, indica, nelle fonti letterarie, una celebrazione festiva con carattere di periodicità.282 Per Louis Robert, evocava la parte commerciale della festa.283 Poteva quindi alludere alle attività che avevano luogo nell’agora o negli spazi vicini al santuario284 e, più in generale, a quelle celebrazioni che prevedevano l’allestimento di fiere e mercati e che quindi costituivano un considerevole indotto economico per la comunità. Christian Habicht invece osservava che, in tal modo, erano definite solitamente le feste che celebravano personaggi importanti che davano il nome all’evento, per esempio i Lisandreia, gli Alexandreia, i Demetreia.285 La designazione delle Nemesie come panegyris, benché registrata solo da fonti tarde, potrebbe comunque permettere di ritenere che esse, nel corso del tempo, superarono i ristretti confini del demo o del distretto territoriale, per assumere più ampia risonanza. La testimonianza più antica che possediamo su questa festa, la troviamo nell’orazione di Demostene Contro Spudia, incentrata su una controversia giudiziaria, sorta tra i due generi del defunto Polieucte, ateniese del demo di Teithras, per questioni legate a una successione ereditaria e per la mancata restituzione di alcuni debiti. Spudia viene chiamato in giudizio dal cognato che, avendo sposato la figlia maggiore dell’anziano Polieucte, rivendica il riconoscimento di una parte della dote non ricevuta dal suocero al momento delle nozze. Questi inoltre pretende da Spudia la restituzione di alcune somme di denaro e di oggetti sottratti nel tempo al patrimonio destinato ad andare in successione. Infine rinfaccia all’accusato il mancato contributo al pagamento di una mina d’argento versata dalla moglie per il padre in occasione dei Nemesia.286 Da questo rapido cenno, alle feste in onore di Nemesis, tanto i commentatori antichi quanto gli studiosi moderni hanno dedotto che si trattasse di una celebrazione di rituali in onore dei defunti, cui si riteneva la dea fosse preposta.287
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De Ligt 1993, 35–39 con raccolta delle fonti. Robert 1966, 24. Horster 2020, 132. Habicht 2017 [1956], 106 con indicazione delle relative fonti. Dem. 41.11: τὸ δὲ τελευταῖον εἰσενεγκούσης τῆς ἐμῆς γυναικὸς εἰς τὰ Νεμέσεια τῷ πατρὶ μνᾶν ἀργυρίου καὶ προαναλωσάσης οὐδὲ ταύτης ἀξιοῖ συμβαλέσθαι τὸ μέρος, ἀλλὰ τὰ μὲν ἔχει προλαβών, τῶν δὲ τὰ μέρη κομίζεται. «E per finire, sebbene mia moglie avesse versato una mina d’argento al padre alle Nemesie, sborsandola in anticipo, quest’ultimo non reputa di dovere contribuire con la sua parte di questa, ma possiede degli averi avendoli presi in anticipo, per il resto amministra la sua parte, e apertamente non paga i suoi debiti». 287 Harp. s. v. Νεμέσεια: Δημοσθένης ἐν τῷ κατὰ Σπουδίου. μήποτε ἑορτή τις ἦν Νεμέσεως, καθ’ ἣν τοῖς κατοιχομένοις ἐπετέλουν τὰ νομιζόμενα. Anecd. Bekk. s. v. Νεμέσια: πανήγυρίς τις ἐπὶ τοῖς νεκροῖς ἀγομένη, ἐπεὶ ἡ Νέμεσις ἐπὶ τῶν ἀποθανόντων τέτακται. Lo stesso L. Gernet (ed.), 1957, 63, ad loc., nella sua edizione dell’orazione per la CUF, traduce direttamente il termine con “fête des morts”, ma nella nota di commento ammette che si tratta di feste non altrimenti note, forse dedicate alla
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In realtà, l’accusa mossa dal genero di Spudia è troppo generica. Cursoria è anche la menzione stessa di queste feste nel passo demostenico per poterne trarre delle conclusioni. Inoltre, il contesto argomentativo in cui essa ricorre appare piuttosto problematico. Se da un lato infatti, si sarebbe tentati di aderire alla proposta di R. Parker, che considera il riferimento ai Nemesia il risultato di una corruttela precoce del testo dell’orazione e suggerisce quindi che debba leggersi Genesia;288 dall’altro, è difficile astenersi dal tentativo di percorrere altre piste. Certo, l’evocazione dei Genesia potrebbe comprendersi bene nel quadro della vicenda presentata dall’orazione demostenica.289 Si trattava infatti effettivamente di celebrazioni annuali finalizzate a rigenerare il legame tra i defunti genitori e i figli, tra le generazioni passate e quelle presenti.290 In realtà, però, nulla ci dice che l’offerta della figlia di Polieucte fosse finalizzata alla commemorazione del padre defunto e, per la verità, non si capisce nemmeno in base a quale principio Spudia, in qualità di genero, dovesse essere chiamato a contribuire alla spesa, sostenuta dalla cognata. Se il mancato contributo era veramente destinato al ricordo di Polieucte, bisogna allora ipotizzare che Spudia fosse stato adottato dall’anziano, perché ne ereditasse il patrimonio e quindi dovesse condividere con la figlia più anziana l’onere della spesa. La mina d’argento poteva però essere stata versata per tutta una serie di altre ragioni: per esempio, a seguito di un voto fatto dall’anziano per il versamento di una decima o per la restituzione di un debito.291 Sappiamo, del resto, che il santuario di Nemesis fungeva da istituto di credito ed erogava piccoli prestiti, probabilmente ad individui privati, stretti da necessità improvvise, come quella in cui poteva essersi trovato lo stesso Polieucte, incapace di provvedere interamente alla dote per la figlia.292 La festa in onore di Nemesis poteva essere una buona occasione per restituire alla dea quanto da lei accordato in prestito. Purtroppo non è possibile saperne di più e tutti gli scenari proposti, allo stato attuale, sono destinati a rimanere puramente ipotetici. Significativo resta, tuttavia, il fatto che l’offerta della figlia di Polieucte fosse fatta a nome del padre e in occasione della
Nemesis dei morti e che i lessicografi la menzionano proprio a partire da questo passo. Cfr. a questo proposito: Deubner 1956, 230; Georgoudi 1988, 76. 288 Parker 1996, 246, n. 101. L’ipotesi è ripresa anche in Id. 2005, 476, in cui si propone che tali celebrazioni private siano da distinguere da quella che aveva luogo nel demo attestata per via epigrafica. 289 Sui Genesia si veda prioritariamente la testimonianza erodotea: Hdt. 4.26. 290 Cfr. Georgoudi 1988 che propone una convincente analisi dei Genesia con il relativo dossier di fonti. 291 Offerte in denaro da parte di individui ai santuari non erano inusuali, talora anche a titolo di aparchè o di decima sui proventi dell’attività professionale e della propria ricchezza personale o per fruire di alcuni servizi offerti dal santuario: a questo proposita si veda ThesCRA I, 314–315 e Jim 2014, 251–272. 292 Prestiti a piccole tranches erano abbastanza frequenti, come dimostrano i crediti lasciati in eredità dal padre di Demostene, pacchetti di 200 e 300 dracme per un totale di un talento (Dem. 27. 11). Secondo Chankowski 2011, 157, l’erogazione di piccoli prestiti da parte dei santuari rispondeva alle esigenze di una clientela regionale, che i consueti circuiti bancari non riuscivano a soddisfare.
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festa in onore di una divinità, la cui azione si manifesta nell’ambito della sfera familiare, costituendo un monito per le generazioni più giovani.293 A questo proposito, qualche elemento di riflessione in più lo offre la dedica di una base firmata da Prassitele, rinvenuta sull’agora di Atene, che riporta sul lato sinistro la dedica a Demetra e Core di una donna di nome Kleiokrateia, figlia di Polieucte, moglie di Spudia.294 Il lato destro che il primo editore dell’iscrizione aveva ritenuto fosse stato lasciato in bianco proprio a causa della controversia tra i due generi, testimoniata dall’orazione demostenica, è stato poi ricostruito grazie a rinvenimenti successivi che hanno portato alla luce altri frammenti dell’iscrizione, su cui – sulla base delle integrazioni proposte – dovrebbe leggersi il nome di Spudia del demo di Afidna.295 Ora, il demo di Tethrias di cui era originario Polieucte e quello di Afidna non distavano troppo da quello di Ramnunte. Si può allora ipotizzare che, all’epoca di Demostene, le feste in onore di Nemesis avessero raggiunto una certa notorietà, se non a livello regionale, quanto meno su media scala e che esse fossero frequentate anche da ateniesi provenienti dai demi poco lontano.296 Negli anni successivi alla riforma dell’efebia, i Nemesia guadagnarono poi tutt’altro prestigio e risonanza, destinati com’erano a costituire uno dei momenti di formazione e di esposizione della futura classe dirigente ateniese. Essi prevedevano degli agoni ginnici,297 tra cui, con ogni verosimiglianza, anche delle corse con le fiaccole.298 In questa direzione sembra portare, del resto, un’iscrizione incisa su una base cilindrica ritrovata da V. Stais, al tempo dei primi scavi sull’intero sito di Ramnunte,299 sulla strada tra il santuario e la fortezza, vicino al muro di contenimento orientale del santuario. Insieme a questa base sono state rinvenute quattro erme di giovinetti, vestiti con chitone e clamide e due teste di fanciulli, appartenenti forse ad analoghe dediche di efebi, che popolavano lo spazio sacro del santuario di Nemesis. L’iscrizione incisa sulla base riporta la dedica del sofronista e dei ginnasiarchi degli efebi della tribù Eretteide, vincitori alla gara con le fiaccole, seguita dai nomi di quarantotto lampadephoroi, datata al 333/332 a. C. Secondo Stais la base iscritta era destinata a sostenere l’effigie, della tipologia delle cosiddette hip herms, di un giovinetto, vestito con un corto chitone e una clamide, ritrovato nello stesso contesto.300 Il personaggio è stato variamente interpretato ora come un Ermes, ora come un efebo, ora come l’allegoria della tribù Eretteide, ora infi-
293 Cfr. supra p. 211 e ss. 294 Shear 1937, 339–342; SEG 17.83. 295 Meritt 1957, 200–203, n. 50. 296 Per esempio, secondo la testimonianza di Platone (Rep. 5.475 d), vi erano coloro che accorrevano alle diverse feste dionisiache sia in città, sia in campagna. 297 I.Rhamnous 7, l. 9. 298 Cfr. supra p. 207. 299 Una storia delle indagini condotte sul sito di Ramnunte, sin dalle primissime ricognizioni dei viaggiatori moderni, si trova in Pouilloux, Rhamnonte, 7–8 e 11–13 e Petrakos 1999a, 1–5. 300 Petrakos 1999a, 283–286.
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ne come la rappresentazione di Munichio eroe eponimo della classe efebica dell’anno in questione.301 Pur non menzionando né i Nemesia né Nemesis la dedica sembra potersi mettere in relazione con queste celebrazioni.302 Un rilievo reperito a Ramnunte, come abbiamo già visto, pare proprio rappresentare le due divinità del demo, Themis e Nemesis, insieme a un gruppo di lampadephoroi.303 Inoltre, un’iscrizione di cui V. Chr. Petrakos aveva dato notizia nel 2000, recentemente pubblicata nella nuova raccolta di iscrizioni di Ramnunte, menziona per la prima volta la celebrazione a Ramnunte di una p annychis,304 una festa che prevedeva celebrazioni della durata un’intera notte e in cui, quindi, una corsa con le fiaccole, sul modello di quella che apriva le feste panatenaiche, poteva essere plausibile.305 Le Lampadedromie erano competizioni, solitamente a staffetta, che vedevano affrontarsi squadre composte da atleti delle singole tribù. Esse richiedevano un notevole sforzo fisico da parte dei corridori, cui era richiesta non solo prestanza e velocità nella corsa, ma anche destrezza nel mantenere accesa la fiaccola, destinata a portare il fuoco fino all’altare della divinità.306 Essendo questo il traguardo che gli atleti erano chiamati a raggiungere, la gara aveva una forte valenza rituale. Pausania lo spiega con chiarezza quando dice che gli Ateniesi correvano dall’altare di Prometeo all’Accademia verso la città e che conseguiva la vittoria il primo che arrivava al traguardo con la fiaccola accesa.307 La gara poteva terminare quindi senza alcun vincitore, se nessuno dei corridori raggiungeva la meta, riuscendo a mantenere vivo il fuoco destinato agli dei. A Ramnunte forse la competizione coinvolgeva i diversi contingenti di efebi che, dopo
301 Per una sintesi delle diverse posizioni cfr. il commento a IG II3 4,1 336. 302 Così Friend 2015, 99 e 2019, 122 e Henderson 2020, 157–158. 303 Palagia/Lewis 1989, 340–343. Secondo Petrakos 1999a, 287–288 si tratterebbe invece di Demetra e Core. 304 SEG 48.125; I.Rhamnous Suppl. 420. Esichio definisce la παννυχίς un’ἑορτὴ νυκτερινή, sottolineandone l’aspetto religioso. Plutarco (Quaest. rom. 277 f.) invece impiega il termine, semplicemente, per riferirsi, a ritrovi notturni in cui si scherzava e si ballava. Sulle pannychides attestate in Attica si veda Parker 2005, 166. 305 Cfr. Eur. Herakl. 777–783. Per la discussione sul dossier documentario relativo alla corsa con le fiaccole, durante la veglia che apriva le feste panatenaiche, rinvio a Marchiandi 2003, 58 con ampia bibliografia. 306 Aristoph. Ran. 129–131 e 1087–1098; Ve. 1204 Paus. 1.30; Schol. Dem. 57.141. Secondo alcune fonti, la corsa collegava idealmente due altari, quello da cui veniva preso il fuoco che illuminava le fiaccole dei corridori e quello della divinità celebrata per poterne eseguire i riti sacrificali: cfr. Chaniotis 2018, 28 con dossier documentario. Quale fosse il circuito previsto per queste gare all’interno dei Nemesia non è possibile dirlo. Le caratteristiche di questa gara in Attica e in Grecia in età ellenistica sono esaminate da Chankowski 2018. 307 Sulla funzione religiosa del fuoco nella gara con le fiaccole, Henderson 2020, 161. Corse con le fiaccole erano previste all’interno del programma di diverse feste: ad Atene, secondo le fonti, gare del genere erano previste all’interno delle Panatenee, dei Prometheia e degli Hephaistia e le feste in onore di Pan: Polemon, FHG III 117, fr. 6; Schol. Dem. 57.141; Schol. Plat. Phaidr. 231 e (= Hermeias 37.19–24); Harp. s. v. Λαμπάς; Suid. s. v. Λαμπάδος; Phot. s. v. Λαμπάδος.
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la riforma di Epicrate, nel loro secondo anno di formazione si ritrovavano di stanza all’interno della guarnigione che aveva sede nella fortezza. La gara doveva fare, in qualche modo parte, del programma delle celebrazioni annuali delle Nemesie, che dovettero subire però una profonda riorganizzazione con l’arrivo degli efebi a Ramnunte e un conseguente incremento dei partecipanti. La dedica del sofronista e dei ginnasiarchi della tribù Eretteide, poco prima menzionata, riporta il nome di quarantotto Lampadephoroi, un numero che porta a ipotizzare che la corsa coinvolgesse in proporzione una quantità analoga di atleti per le altre tribù.308 La cifra complessiva di partecipanti, abbastanza elevata, dà la misura della rivoluzione che la riforma dell’efebia deve avere portato in Attica, tanto in termini di distribuzione demografica, quanto in termini di prestigio e di importanza che certi territori vennero ad assumere rispetto ad altri. 8.2 La dea e il sovrano: Nemesis e i sacrifici in onore di Antigono Gonata Che le feste in onore di Nemesis comprendessero all’interno del loro programma degli agoni ginnici è confermato anche da un decreto, cui si è fatto già cenno, in onore di Antigono Gonata, che le colloca nel mese di Ecatombeone, il primo dell’anno attico, a cavallo tra luglio e agosto. Il testo, riportato su due frammenti di una stele, sormontata da una cornice, ritrovati presso la porta Est della fortezza, stabilisce il coinvolgimento della persona del sovrano macedone nelle celebrazioni dedicate alla dea. Il decreto pone problemi di varia natura che hanno sollecitato un’ampia discussione tra gli studiosi in relazione alla cronologia, all’occasione e alle motivazioni che portarono i Ramnusî a deliberare un tale riconoscimento a un mortale. Il documento permette, tuttavia, di trarre informazioni preziose sull’articolazione della festa in età ellenistica, sulla sua durata e sulla sua importanza per il demo di Ramnunte. Conviene, pertanto, leggerlo per intero: [Ἐ]λπίνικος Μνησίππου Ῥαμνούσιος εἶπεν· ἐπειδὴ ὁ βασιλεὺς Ἀντίγονο ς καὶ σωτὴρ τοῦ δήμου, διατελεῖ εὐ̣ερ̣4 ετῶν τὸν δῆμον τὸν Ἀθηναίων κ[α] ὶ διὰ ταῦτα αὐτὸν ὁ δῆμος ἐτίμησεν {τι} τιμαῖς ἰσοθέοις, τύχει ἀγαθεῖ, δεδόχθαι [Ῥ]αμνουσίοις θύειν αὐτῶι τεῖ ἐνάτει ἐπὶ 8 δ̣έκα τοῦ Ἑκατονβαιῶνος, τῶν μεγάλ ων Νεμεσίων τῶι γυμνικῶι ἀγῶνι καὶ στεφανηφορεῖν, πόρον δὲ ὑπάρχ[ε] [ιν] τοῖς δημόταις εἰς τὴν θυσίαν τ[ὸ γε]-
308 IG II/III3 4, 1, 336 (I.Rhamnous 98). Una stima provvisoria della numerosità dei contingenti efebici nel IV sec. si trova in Gallo 1980, 405.
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[νό]μενον αὐτοῖς ἀγοραστικόν· τ[ῆς θυ]σίας ἐπιμελῖσθαι τὸν δήμ[αρχον κ][αὶ τὸ]ν ταμίαν τὸν ἀεὶ καθι[στάμε][νον· ἀ]ναγράψαι δὲ τόδε [τὸ ψήφισμα] [ἐν στήλει λιθ]ίνει καὶ στ̣[ῆσαι παρὰ] [τὸν βωμὸν τοῦ] σιλέ[ως Ἀντιγόνου] [– – – – – –]ΕΙΛΙΗ[– – – – – – – – – – – – – –] [– – – – – –]ΛΙ.ΙΑΡ[– – – – – – – – – – – – –] [– – – – – –] Σ̣ΙΣ ̣ ΙΣ[– – – – – – – – – – – – –]
Elpinico, figlio di Mnesippo Ramnusio, disse: poiché Antigono, re e salvatore del popolo, è sempre stato benefattore del popolo ateniese, per questo il popolo ateniese gli ha conferito onori pari a quelli riservati agli dei, alla buona sorte: i Ramnusî decretano che si faccia un sacrificio in suo onore il giorno 19 del mese di Ecatombeone, nell’ambito delle gare ginniche delle grandi Nemesie e si porti la corona; che per il sacrificio siano a disposizione dei demoti le entrate derivate dall’agorastico; che si occupino del sacrificio il demarco e il tesoriere che sempre presiede; che il presente decreto sia trascritto su una stele di pietra e posto presso l’altare del re Antigono309… il resto è illegibile I.Rhamnous 7 (= SEG 41. 75; 42.115)
La stele, pubblicata per la prima volta da V. Chr. Petrakos nel 1992310 e datata a un momento imprecisato tra la fine della guerra cremonidea (262 a. C.) e la morte del sovrano macedone (240/239 a. C.), è intervenuta a modificare radicalmente un quadro ampiamente condiviso, consolidatosi sin dalle prime indagini di sintesi sulla storia ellenistica e sui suoi protagonisti, a partire da W. S. Ferguson (1911) e da W. W. Tarn (1913). Nella fattispecie, i due studiosi, sulla base dei dati allora a disposizione, avevano categoricamente escluso che Antigono Gonata, sovrano filosofo, avesse mai accettato di farsi insignire degli onori riservati solitamente dai Greci alle divinità.311 Il ritrovamento del documento ha rilanciato la questione, provando non solo che Antigono era stato associato al culto della divinità tutelare del demo, ma che questa delibera risultava dal recepimento a livello locale di una risoluzione già adottata dal governo centrale della polis. Atene aderisce così a una prassi consueta, nel mondo ellenistico, che è quella di onorare il basileus con un culto civico, associando le celebrazioni in suo nome all’in-
309 Sull’integrazione alle ll. 16–17, cfr. infra p. 249–250. 310 Petrakos 1989 [1992], 31–34, n. 15, ritiene possibile anche l’ipotesi che l’iscrizione possa riferirsi ad Antigono Dosone. 311 Una sintesi delle posizioni degli studiosi sull’atteggiamento di Antigono Gonata verso il riconoscimento delle timai divine si trova in Habicht 1996, 131. Sull’attitudine alla filosofia del Macedone, si veda Tarn 1913, 4 e Sartori 1963, 137 e, più recentemente, Gabbert 1997, 4–7; Waterfield 2021, 29–30.
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terno di feste locali.312 La formulazione del decreto permette infatti di individuare le diverse tappe del processo deliberativo e di identificare una chiara gerarchia delle fonti legislative che ne hanno determinato l’emanazione. L’integrazione di sacrifici in onore del sovrano all’interno dei megala Nemesia di Ramnunte appare come conseguenza del riconoscimento precedente delle isotheoi timai da parte dell’intero popolo ateniese.313 Le ragioni, l’occasione e le modalità che portarono a tributare al sovrano tali onori, tuttavia, non devono essere considerate sovrapponibili e contestuali. Gli Ateniesi riconoscono ad Antigono di avere agito in qualità di soter della comunità e di averle accordato costanti benefici; i Ramnusî, riconoscendosi, a loro volta, nell’azione evergetica del sovrano, agiscono di conseguenza, modificando e implementando il programma delle feste in onore di Nemesis. Gli studiosi si sono a lungo interrogati sull’occasione che deve avere determinato l’emanazione del decreto. Hanno pertanto tentato di restituire maggiore chiarezza alla natura delle relazioni tra Atene ed Antigono. Tre sono state finora le soluzioni proposte: la prima in ordine di tempo, è quella di Ph. Gauthier, seguito da Ch. Habicht, che ha collocato l’emanazione del decreto al 255 a. C., anno in cui pare che Antigono avesse riconosciuto agli Ateniesi una certa qual forma di libertà,314 ritirando la guarnigione insediata sulla collina del Museo a seguito della guerra cremonidea;315 la seconda ipotesi è 312 È diventata ormai classica la suddivisione tra culti civici e culti dinastici in età ellenistica, che troviamo già abbozzata in Habicht 19702 e compiutamente formalizzata da Walbank 1987, 365–366 e Chaniotis 2003a, 436–437. Tale classificazione, che costituisce piuttosto uno strumento comodo di analisi che ovviamente non esaurisce tutta la gamma delle diverse possibilità di attribuzione di un culto a un sovrano, è stata poi variamente ripresa e applicata, seppur con modifiche e precisazioni in merito a casi specifici. Si vedano a questo proposito i contributi di Virgilio 20032, 87; con particolare riferimento alla Macedonia, Mari 2008, 223; e con utili puntualizzazioni rispetto a tale classificazione, Coppola 2016 e Muccioli 2019, 188–189. 313 Sul concetto di isotheoi timai, si leggano le considerazioni di Habicht 1970 [1956], 196, e di Chaniotis 2003a, 433 che, in particolare, sottolinea come l’attribuzione di tali onori a sovrani viventi sia senz’altro un riconoscimento per la protezione e i benefici accordati a una comunità, ma sottointenda la consapevolezza di una sostanziale differenza rispetto agli dèi tradizionali. Sempre Chaniotis 2007, 157, a proposito di un’iscrizione, datata al 203 a. C. ca. (SEG 41.1003) che ricorda il conferimento di una serie di onori destinati ad Antioco III e alla moglie Laodice da parte degli abitanti di Teo, osserva come l’istituzione di atti rituali volti a celebrare dei sovrani trovi il suo fondamento nella convinzione che la protezione accordata da figure mortali a una comunità in difficoltà, priva della necessaria tutela divina, meriti le stesse timai solitamente riconosciute agli dèi. Diversa è l’opinione di Buraselis 2004, 128, che invece, prendendo le mosse dall’uso in alcune testimonianze del verbo isotheoumai, mostra come esso sia assimilabile nel significato a apotheoumai. Si esprime quindi in questi termini in relazione ai destinatari di tali straordinari onori: «Sie gehörten zwar nicht den alten, traditionellen Göttern an, sie waren in dieser Hinsicht ein eindeutiger Zusatz des Pantheons, wurden aber bestimmt auch als Götter empfunden und als solche eben durch die Verleihung der isotheoi timai im kollektiven Bewusstsein konstituiert». 314 Gauthier BE 1994, n. 299; Habicht 1996. Sulla concessione della libertà agli Ateniesi, Eus. Chron. 2.120 (Schöne 1866), in cui l’evento è datato al 256/55 nella versione armena e al 255/4 in quella greca. Sulla questione si veda anche la discussione in Habicht 2006 [1995], 171–172. 315 Sulla cosiddetta “guerra cremonidea”, cfr. innanzitutto il decreto di Cremonide che stabilì l’adesione degli Ateniesi alla coalizione antimacedone costituita dagli Spartani di Areo e gli alleati, tutti
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quella avanzata da J. Kralli che ha letto il conferimento delle timai divine al macedone nel quadro della rivolta organizzata dal nipote ribelle di Antigono, Alessandro figlio di Cratero, i cui movimenti presso Calcide in Eubea minacciavano la tranquillità della comunità ramnusia;316 la terza infine è quella proposta da M. Haake, che ha il pregio di avere cercato una possibile relazione tra la potenza espressa da Nemesis e il sovrano macedone, individuandola nell’analogia tra l’azione salvifica, svolta dalla divinità all’epoca dell’assedio persiano a Maratona e la decisa reazione di Antigono alla nuova minaccia barbara, rappresentata dai Celti, in occasione della battaglia di Lisimachia (277 a. C.).317 Tutte queste soluzioni, per quanto valide, ragionevoli e storicamente fondate, hanno però – mi sembra – il limite di non tenere nell’opportuna considerazione l’interazione, appena sottolineata, dei due livelli individuati. Occorre pertanto rintracciare, sul filo della relazione tra Atene e gli Antigonidi, le ragioni che possono aver condotto a tali decisioni. Ora, è vero che l’atteggiamento di Atene nei confronti dei predecessori del Gonata era stato piuttosto ondivago, per non dire schizofrenico. Nel 307 a. C. infatti la polis attica aveva accolto in maniera entusiastica il padre, Demetrio Poliorcete, che, sbarcato al Pireo, veniva a liberarla dall’odioso dominio del Falereo, imposto da Cassandro. Questo intervento poneva fine a un regime censitario durato un decennio, e stabiliva il ripristino della democrazia. Il popolo ateniese – come già sottolineato – in quella occasione superò sé stesso con la concessione di onori. Stando a Plutarco, Atene accordò infatti al Poliorcete e al padre Antigono Monoftalmo il titolo di theoi soteres.318 Le loro statue furono erette accanto a quelle dei tirannicidi sull’agora. Fu istituito un sacerdozio eponimo che giunse a sostituire persino il nome dell’arconte nei decreti e aggiunse due nuove tribù alle dieci già esistenti, con il nome di Antigonide e Demetriade. In conseguenza di questa decisione la boule passò da 500 a 600 membri. Le immagini dei due sovrani furono persino ricamate sul peplo destinato ad Atena tra quelle degli altri dèi. Nel 304 poi, un altare venne eretto nel luogo in cui l’Antigonide era sceso la prima volta dal carro e il luogo venne consacrato a Demetrio Kataibates.319 Plutarco stigmatizza come esagerati e fuori misura gli onori tributati al padre, cui fu persino concesso di coabitare con Atena nell’opistodomo del Partenone,320 e al nonno coordinati da Tolemeo II Filadelfo: IG II3 1, 912 (= IG II2 686 + 687 e Staatsverträge III, n. 476). Sulla denominazione del conflitto, Prandi 1989; sulla figura di Cremonide, Sartori 1963; sugli orientamenti storiografici relativi al conflitto, Primo 2008 (2010). 316 Kralli 2003. 317 Haake 2011. Recentemente anche D. Knoepfler 2019, 142–143, ha ripreso la questione, considerando valida l’ipotesi di J. Kralli. All’ipotesi di C. Habicht, si è allineato Cazzadori 2015, 116, mentre Oetjen 2014, 120, mette l’attribuzione delle timai divine ad Antigono Gonata in relazione con minaccia che, nell’anno 256/255, sarebbe stata rappresentata da una possibile aggressione ad Atene da parte di Tolemeo II Filadelfo, e che l’intervento del sovrano sarebbe riuscito ad allontanare, guadagnadosi la stessa riconoscenza che, circa mezzo secolo prima, gli Ateniesi avevano riservato per suo padre e suo nonno. 318 Plut. Demetr. 10.4. 319 Plut. Demetr. 10–12. 320 Plut. Demetr. 23.4.
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del Gonata e non manca di annotare l’avversa reazione divina, palesatasi con tutta una serie di prodigi.321 Il riconoscimento dei due Antigonidi come dèi salvatori dovette portare con sé una rivoluzione non da poco, poiché nella pratica si concretizzava in una nuova organizzazione del tempo politico e religioso, posto ormai sotto il segno delle due nuove potenze.322 Nella loro qualità di eponimi delle neofondate tribù, essi diventarono destinatari di celebrazioni annuali.323 La straordinaria devozione degli Ateniesi nei confronti dei due sovrani si dissolse rapidamente, però, a seguito della débâcle di Ipso del 301 a. C. Nel corso di questa battaglia, il Monoftalmo trovò la morte, e Demetrio dovette cedere alla coalizione composta da Seleuco e Antioco che si spartirono il suo regno, come fosse – osserva Plutarco – «la carcassa di un animale».324 Il Macedone provò a fare appello alla lealtà degli Ateniesi, ma gli ambasciatori gli si fecero incontro sulla strada del ritorno, comunicandogli che non avrebbero accolto alcun re.325 Decretarono inoltre la morte per chiunque avesse proposto la pace o la riconciliazione con Demetrio.326 Degradato da divinità a sovrano, quest’ultimo fu costretto ad abbandonare l’idea di trovare rifugio Atene dove, qualche anno dopo, si insediò la tirannide di Lacare.327 Successivamente fece diversi tentativi per riprendere il controllo Atene, occupando e devastando le regioni di Eleusi e di Ramnunte.328 Quando la città capitolò nel 295 a. C., egli entrò in città convocando il popolo in Assemblea. Si rivolse ai suoi devoti di un tempo con calma e moderazione riconciliandosi con gli Ateniesi e ristabilendo le magistrature. Nel 295/4 a. C. vennero celebrate, quindi, per la prima volta ad Atene le Demetrie, con cui vennero ridenominate le Dionisie e anche il mese Munichione fu cambiato in Demetrione.329 Secondo Duride di Samo, nel corso di queste feste, Demetrio veniva
321 Plut. Demetr. 12.5–5. 322 Cfr. Plut. Demetr. 13.1; 26.2; IG II2 644. Sulla modalità attraverso le quali il dominio di Demetrio su Atene si concretizzò nell’uso del calendario politico e religioso come strumento di potere, cfr. Thonemann 2005. 323 Diod. 20.46.2 e Habicht 2017 [1956], 32. Secondo un’iscrizione di fine IV sec., inoltre (SEG 25.149) una statua di Demetrio era stata collocata nell’agora di Atene, vicino alla rappresentazione di Demokratia, quasi a volere sottolineare il contributo del sovrano al ripristino della costituzione democratica: così Paul 2016, 71. 324 Plut. Demetr. 30.1. 325 Plut. Demetr. 30.3. Su questi aspetti, Thonemann 2005, 79. 326 Plut. Demetr. 34.1. 327 Sui rapporti tra Demetrio e Atene e sul suo ruolo nell’abbattimento della tirannide di Lacare: Paus. 1.25, 6–8. 328 Plut. Demetr. 33.5. 329 Plut. Demetr. 12. Il biografo colloca, in modo poco verosimile, nell’anno della liberazione tutti gli onori assegnati ai Macedoni, mentre è più sensato separare il riconoscimento a Demetrio in quanto Soter dal culto destinatogli in quanto Katabaites nel 304 (Plut. Demetr. 10), quando il Macedone rientrò in città sollecitato dagli Ateniesi, per contrastare una nuova invasione di Cassandro: cfr. Habicht 2017, 35. Sull’attributo Kataibates anche Plut. De Alex. Magni fort. aut virt. 338a e Clem. Alex. Protr. 4.54.6.
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addirittura rappresentato sul proscenio a cavalcioni sull’ecumene.330 La festa, stando alla ricostruzione di Thonemann, aveva l’obiettivo di rievocare il momento dell’arrivo di Demetrio ad Atene nel 296/5, avvenuto proprio nel corso dei festeggiamenti delle Grandi Dionisie, in cui si commemorava l’arrivo del dio e la sua accoglienza nel pantheon civico; una circostanza fortunata che si inseriva nel quadro di un ben congegnato programma finalizzato ad associare il sovrano macedone al dio.331 La celebrazione di Demetrio, in queste feste, non sopravvisse alla rivolta di Atene del 288 a. C., a seguito della quale l’Antigonide si risolse a lasciare la Grecia per affrontare Lisimaco in Asia.332 Da lì in poi tutta una serie di rovesci attendevano il sovrano che morì infine prigioniero di Seleuco nel Chersoneso. Al figlio Antigono Gonata non restò che farsi incontro alle spoglie del padre per celebrare mestamente i suoi funerali a Corinto e poi seppellirlo a Demetriade, città che portava il suo nome. Le uniche basi su cui poteva fare affidamento erano Demetriade, Corinto e il Pireo che gli Ateniesi tuttavia tentarono di riprendere.333 Plutarco commenta la vita del Macedone come un costante alternarsi di ascese e ricadute che dovette restare nella memoria dei suoi successori, tanto che nessuno osò mai indossare la clamide con la rappresentazione del cosmo e dei fenomeni celesti che si ricamava per lui e che rimase incompiuta, a causa della metabole della sorte del sovrano.334 Alla morte del padre, Antigono Gonata riuscì a consolidare il suo controllo sulla Macedonia, solo dopo la vittoria epocale ottenuta a Lisimachia contro i Celti nel 277 a. C. e nel 276 a. C. prese il titolo di re.335 Con Atene il conto restava ancora aperto, tanto più che la città si preparava all’ennesimo voltafaccia, approvando il decreto di Cremonide, in cui si alludeva al suo potere politico come un pericolo per le leggi e le costituzioni patrie.336 Contro tale minaccia era necessario che tutte le città greche si unissero, come all’epoca delle guerre persiane, questa volta sotto la guida di un garante d’eccezione, rappresentato dal sovrano dell’Egitto, Tolemeo II Filadelfo, cui probabilmente deve ascriversi l’iniziativa della cosiddetta guerra cremonidea. Il territorio di Ramnunte fu coinvolto direttamente nelle operazioni militari. Il decreto dei Ramnusî in onore dell’ufficiale ateniese Epicare di Icario, ricordato già nelle pagine precedenti,337 conserva memoria dei drammatici eventi di quegli anni, in cui la comunità del demo fu messa a dura prova.338 Al termine del conflitto, Atene entrò sotto
330 FGrHist 76 F14. 331 Thonemann 2005, 82–86. 332 Plut. Demetr. 46. 333 Plut. Demetr. 52.5; Polyaen. 5. 17.1; Paus. 1.29.10 e Habicht 2006 [1995], 143–144. 334 Plut. Demetr. 41.6 e 45 e Comp. Demetr. Ant. 88.1. 335 Diog. Laert. Vitae, 2.141; Iust. 25.1.2–7. Sul contesto della battaglia di Lisimachia e sulle parti coinvolte si veda la ricostruzione di Gabbert 1996, 27. 336 IG II3 1, 912, ll. 15–16. 337 Cfr. supra p. 235. 338 I.Rhamnous 3.
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il dominio antigonide che vi esercitò un controllo di cui non è sempre facile definire le condizioni e le successive evoluzioni. Dalle fonti sappiamo che il sovrano installò una guarnigione sulla collina del Museo.339 La Cronaca di Eusebio registra una distensione nei rapporti tra la città e il sovrano, annotando per l’anno 256/255 a. C. che il re: «restituì agli Ateniesi la libertà».340 In che termini dovesse intendersi tale eleutheria è difficile da comprendere con chiarezza, ma si può ritenere che nella città fu ripristinata la costituzione.341 Atene rimase, tuttavia, fino al 229 a. C. nell’orbita macedone, ma forse la presenza politica e militare del sovrano sul territorio attico si andò facendo, con il passare degli anni, più tollerabile. I Macedoni, stando agli esiti delle ricerche più recenti,342 occuparono fino al 229 a. C. il Pireo, il Sunio, Munichia e Salamina, sotto il loro presidio già dal tempo di Demetrio, mentre Ramnunte dovette ritornare, dopo il 255 a. C., nella disponibilità della città.343 A partire da questa data, c’erano senz’altro i presupposti per un gesto di distensione nei confronti di Antigono e, in effetti, la prima parte del decreto di Elpinico, che riporta il contesto della deliberazione ateniese, testimonia una fase di ritrovata armonia tra Atene e gli Antigonidi. Così come era già avvenuto in precedenza per il padre e per il nonno, il Gonata viene proclamato soter e insignito per i suoi costanti benefici delle isotheai timai. Il verbo “diatelein” (l. 3) sembra suggerire la memoria di una prolungata azione evergetica che deve essere cominciata tempo addietro, ma soprattutto che non deve essersi limitata a un singolo episodio. Del resto, la fazione filomacedone interna alla polis attica cominciò precocemente a tentare di ripristinare una relazione efficace con il sovrano. È del 258 a. C., o tutt’al più del 254 a. C., secondo la datazione proposta da D. Knoepfler, un decreto in onore di Erakleitos di Atmone, ufficiale legato alla corte di Antigono, che aveva finanziato la ristrutturazione dello stadio panatenaico e fatto erigere presso il santuario di Atena Nike sull’acropoli due stele commemorative delle imprese del re contro i “barbari”: hyper tes ton Hellenon soterias.344 Il riferimento è alla vittoria di Antigono a Lisimachia sui Celti del 277 a. C., contro i quali anche il popolo ateniese aveva dato un significativo contributo. In occasione dell’aggressione dei Celti di Brenno a Delfi, Pausania infatti ricorda bene che gli Ateniesi combatterono dalla stessa parte dei Macedoni inviati da Antigono.345 L’iniziativa di Erakleitos testimonia, a pochi anni di distanza dalla conclusione della guerra cremonidea, un chiaro sforzo di riscrittura della memoria ateniese con l’obiettivo di riconoscere a colui che prima era stato stigmatizzato come una mi339 Apollod. BNJ 244 F 44 (= FGrHist 244 F 44); Paus. 3.6.6. 340 Cfr. supra p. 244, n. 314. 341 Così la intende Habicht 1995, 155 e ss. 342 Paus. 2.8.6; Plut. Arat. 34.6; Habicht 2003, 52–53 e Oetjen 2014, 49 con rassegna delle diverse posizioni assunte dagli studiosi. 343 Oetjen 2014, 48 e ss. 344 IG II3 1, 4, 1034, l. 5; Knoepfler 2019, 115–133. 345 Paus. 10.20.5 e 21.4–5.
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naccia all’eleutheria delle poleis greche, il merito di avere allontanato dai Greci il rischio ben più grave e reale di un’invasione dei Celti. Il titolo di soter assegnato ad Antigono, come anche gli onori divini che ne seguirono, a mio avviso, non possono che comprendersi in questo contesto. Del resto, come è stato più volte sottolineato, l’attributo soter viene attribuito quale riconoscimento di successi militari ottenuti in difesa di un territorio. In relazione al periodo in questione, Federicomaria Muccioli osservava: Indubbiamente, lo slogan della salvezza dei Greci (σωτηρία τῶν Ἕλλήνων) è un Leitmotiv che trova grande diffusione, dopo la minaccia portata a Delfi e nel mondo greco. È un concetto che si ritrova nelle iscrizioni e che, ovviamente, ritorna in modo eclatante con l’istituzione dei Soteria a Delfi. L’unica autentica, vera salvezza, in quel periodo, era quella dal pericolo gallico, sia in Grecia sia in Asia Minore, e la vittoria sui Celti è un motivo spesso agitato nella propaganda (a cominciare dagli Etoli e da Antigono Gonatas), che si riflette a livello archeologico (nella statuaria e nei monumenti eretti a ricordo delle imprese contro i Celti).346
Sulla base di queste riflessioni si può quindi ipotizzare che Atene, o comunque la fazione filomacedone presente in città, abbia voluto riattivare la memoria delle imprese del sovrano contro i “barbari”, nel tentativo di riannodare, tramite l’attribuzione di questi onori, una relazione di fiducia che, dopo i numerosi voltafaccia degli Ateniesi, era necessariamente venuta meno. La questione però che continua a restare aperta è perché sia proprio Ramnunte a reagire, deliberando una modifica al programma dei Nemesia e forse anche la loro riorganizzazione in megala Nemesia per contemplare la celebrazione di sacrifici in onore del sovrano, investito a livello centrale delle isotheai timai. Qual era il processo che aveva condotto a tale decisione? Si trattava di una procedura, per così dire, top down, per cui l’amministrazione centrale decretava onori che poi i demi eventualmente si riservavano di declinare a loro modo? Oppure deve immaginarsi piuttosto una modalità bottom up, in base alla quale erano i demoti originariamente a farsi latori della proposta in consiglio che andasse nella direzione di un riconoscimento al sovrano per i benefici e la soteria assicurata all’intera regione con le sue imprese militari, in un’area molto importante per la difesa dell’intero territorio dell’Attica?347 C’era – come sembra – un legame di causa-effetto tra quanto si stabiliva a livello centrale e le singole decisioni prese a livello periferico? Purtroppo, non è facile dare una risposta definitiva, tanto più che un’attenta lettura dell’iscrizione dovrebbe indurre a ritenere che un culto di Antigono sul territorio di Ramnunte precedesse la sua celebrazione all’interno dei Nemesia, se è corretta l’integrazione alle ll. 16–17 della formula στ̣[ῆσαι παρὰ τὸν βωμὸν
346 Muccioli 2013, 162–163. 347 Secondo Peruch/Caneva 2021, si tratta di un caso di locale “implementazione” di un culto civico.
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τοῦ] σιλέ[ως Ἀντιγόνου] che indicava il luogo in cui doveva essere eretta la stele con la trascrizione del decreto.348 Diverso sarebbe il caso se si accettasse l’ipotesi di D. Knoepfler che propone di integrare con στ̣[ῆσαι παρὰ τὴν εικόνα] τοῦ σιλέ[ως Ἀντιγόνου], ritenendo che una statua potesse essere stata dedicata ad Antigono negli anni successivi alla capitolazione della fortezza al termine della guerra cremonidea, quando quest’ultima venne posta sotto il comando di un ufficiale del re.349 Ad ogni modo, quello che appare certo è che la dea e il sovrano venivano a condividere, a seguito di questa delibera, lo stesso tempo festivo, ma non lo stesso spazio sacro, perché i sacrifici, con ogni verosimiglianza, avevano luogo nei pressi dell’altare o della statua del sovrano, vicino a cui doveva essere eretta la stele, ritrovata nei pressi della porta Est della fortezza, in prossimità dell’agora.350 Resta da sottolineare ancora il paradosso che governa l’attribuzione di riti sacrificali al Gonata e quindi la sua consacrazione come mortale isotheos proprio nell’ambito della festa destinata a una divinità che, tradizionalmente, ammonisce coloro che si ergono al di sopra dei limiti dell’umano. Un onore straordinario di certo gradito al sovrano macedone che con quel territorio aveva un conto in sospeso dai tempi di suo padre prima e della guerra cremonidea poi.351 Antigono si ritrova così affiancato a una divinità che, già un secolo e mezzo prima – come si raccontava – aveva protetto gli Ateniesi da un’aggressione esterna. Il gesto, di natura spontanea,352 sembra mirare a costruire una nuova armonia con il sovrano macedone, forse solo strumentale, come dimostrano le numerose giravolte di Atene nel corso del cinquantennio precedente, culminate poi nelle misure volte alla cancellazione delle memorie cittadine legate al nome e alla parentesi antigonide nel 200 a. C.353 Ad ogni modo, il decreto e le misure adottate testimoniano un rinnovato accordo tra la città e il sovrano; un accordo che, in modo significativo, è posto sotto il segno di Nemesis. Difficile è infatti decodificare il messaggio che Atene e Ramnunte intendevano veicolare: intanto è evidente che si tratta di un’operazione di segno opposto rispetto a quella messa in atto al tempo di Demetrio, in cui furono le feste tradizionali in onore di Dioniso a cambiare denominazione, prendendo il nome di Demetrie,
348 La proposta di integrazione, avanzata da Ph. Gauthier (BE 1994, n°299) nella notizia della prima edizione dell’iscrizione pubblicata in V. Ch. Petrakos 1989 [1993], è stata poi accettata dallo stesso in I.Rhamnous 7. 349 Knoepfler 2019, 140. 350 Petrakos 2020 (III), 205, ha reperito nell’area del teatro i resti della struttura di un altare da identificare probabilmente con quello in onore del sovrano di cui parla la stele. 351 Cfr. supra p. 246 e ss. 352 Sulla natura spontanea dell’attribuzione degli onori divini ad Antigono si legga la posizione di Landucci Gattinoni 2016, che sottolinea come il re non avesse sollecitato l’istituzione di un culto in suo onore, ma che la decisione fu presa dalla comunità locale con l’obiettivo di assicurarsi la benevolenza del sovrano e la sua protezione. 353 Liv. 31.44. Cfr. Knoepfler 2019 sull’argomento.
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quasi che fosse il dio ad essere associato al sovrano e non viceversa.354 Differente è il trattamento riservato ad Antigono e l’organizzazione dei riti in suo onore programmati all’interno dei Nemesia. Alla base occorre leggere senz’altro un gesto di distensione rivolto a un sovrano che la storiografia di corte tendeva a mostrare come un personaggio equilibrato, intimamente consapevole del carattere mutevole della sorte, come mostra l’episodio plutarcheo del pianto commosso di fronte alla fine ingloriosa del suo nemico Pirro e l’abilità che egli ebbe nell’evitare che le colpe del padre ricadessero su di lui.355 Tale riconoscimento era decisamente un invito a governare nel rispetto dei limiti, mantenendo un atteggiamento improntato alla misura e alla moderazione. Al tempo stesso, il provvedimento si configurava anche come un ammonimento agli Ateniesi stessi affinché, pur nell’attribuzione di onori divini a un mortale, si astenessero dall’offendere gli dèi, alterandone la centralità nelle celebrazioni ad essi dedicate, così com’era capitato loro precedentemente di fare con Demetrio.356 Il sodalizio tra il sovrano e la dea, la cui memoria viene riattivata e celebrata periodicamente, proclamava, in fin dei conti, l’aspirazione a un nuovo ordine. Di tale sodalizio, Ramnunte era, per ragioni strategiche e religiose, il centro nevralgico. 8.3 Finanziamento della festa e dress code Oltre all’istituzione di un sacrificio in onore del sovrano il 19 di Ecatombeone,357 il decreto precisava anche le modalità di finanziamento così come il relativo capitolo di spesa, e forniva indicazioni sugli accessori da indossare in occasione dell’evento. 354 Secondo le integrazioni proposte a IG II2 649 l. 42 (SEG 45.101) il nome delle feste sarebbe stato piuttosto Dionysia en astei kai Demetreia. Buraselis 2012, 248–249, che ha esaminato le modalità di associazione tra feste in onore di divinità tradizionali e “appendici” festive in onore dei sovrani ellenistici, ha ritenuto che Plutarco (Demetr. 12) fosse in errore o che avesse mal compreso la sua fonte. Ammettendo che siano corrette le considerazioni di K. Buraselis, tuttavia il coinvolgimento di Antigono Gonata nei Nemesia resta comunque di natura diversa, poiché il sacrificio in suo nome non presuppone un cambiamento di denominazione o, eventualmente, il prolungamento della festa tradizionale in un’appendice dedicata al sovrano, ma una vera e propria associazione tra la dea e il basileus. In un articolo precedente, lo studioso sottolinea come tale sforzo di integrazione rispondesse a una logica ben precisa che era quella di mantenere le proprie tradizioni religiose senza stravolgerle e armonizzandole con la nuova realtà rappresentata dal culto dei sovrani: Buraselis 2008. 355 Plut. Pyrrh. 34.7 e De sera num. vind. 562 f. Sul ritratto di Antigono, quale emerge dalla riflessione di Plutarco, largamente basata sull’opera di Ieronimo di Cardia, storico della corte di Antigono, si veda Cioccolo 1990 che ricostruisce i diversi filoni di “propaganda” favorevole e avversa al sovrano. Su Ieronimo di Cardia e la sua opera, cfr. Hornblower 1981. 356 Sulle aberrazioni e le distorsioni nel rapporto con il divino che gli onori attribuiti dagli Ateniesi a Demetrio Poliorcete introdussero, si veda Kuhn 2006. 357 Paschidis 2008, 183, dà per scontato che il giorno coincida con la data di nascita del sovrano, ma non porta documentazione a supporto. Vero è però che termini di confronto in questo senso probabilmente non mancarono: alcuni casi si trovano raccolti in Habicht 2017 [1956], passim.
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A farsi carico del sacrificio in onore del re erano i demoti: il decreto prescriveva infatti che essi impiegassero le entrate derivate dell’agorastikon che derivava loro (genomenon). Difficile stabilire di che cosa si trattasse nel concreto. V. Chr. Petrakos, nel suo commento all’iscrizione, dà per scontato che fosse un’imposta derivante dalle vendite del mercato.358 E più o meno su questa ipotesi si sono orientati anche altri studiosi.359 Solo W. Bubelis ha invece, sulla base del confronto con un’altra iscrizione proveniente da Eleusi360 e dell’analisi di altre testimonianze361, avanzato l’ipotesi che l’agorastikon fosse una sorta di contrassegno (token), sul modello di quelli ritrovati nell’agora di Atene, che rappresentavano la prova di un “abbonamento” sottoscritto dai demoti, per finanziare il sacrificio e assicurarsi la partecipazione alla festa.362 La proposta è senz’altro interessante, tuttavia non si può fare a meno di sottolineare l’analogia con altri termini su cui possediamo una documentazione più ampia, come il theorikon363 o il misthos ekklesiastikos, o come il choregikon e il prytanikon attestati per esempio a Delo, il cui significato appare rinviare all’esistenza di fondi costituiti da eventuali eccedenze, per affrontare spese precise.364 Nel caso specifico, si può forse pensare a una cassa che doveva servire a sovvenzionare attività generiche di manutenzione di uno spazio o occasionali distribuzioni di merci. Oppure, per offrire un’ulteriore chiave interpretativa, si può anche ipotizzare che, proprio a Ramnunte, dove il teatro era uno spazio «multifunzionale», destinato sia ad agora sia a luogo per le riunioni assembleari,365 l’agorastikon designasse un fondo creato per la partecipazione alle rappresentazioni teatrali o volto a sostenere i demoti attivamente impegnati nella vita politica del demo, ma che essi stessi decretano, a un certo punto, di riservare al finanziamento del sacrificio in onore del sovrano. Oltre all’individuazione del capitolo di spesa con cui finanziare la celebrazione del sacrificio del re, i Ramnusî stabilirono che esso dovesse avere luogo in concomitanza con l’agone ginnico e che i convenuti rispettassero un preciso dress code, indossando una corona, come spesso avveniva nelle occasioni di festa. Il testo del decreto non consente di trarre conclusioni in merito alla durata della festa, ma il fatto che si precisi che la thysia dovesse aver luogo in momento stabilito, in concomitanza con l’agone ginnico, può indurre a ritenere che diverse fossero le fasi della festa, forse articolata in più
358 I.Rhamnous 7. Concorda Oetjen 2014, 31: «Es handelt sich wahrscheinlich um eine Steuer, die auf Geschäfte auf dem Markte des Demos erhoben wurde». Sulle tasse imposte a livello dei demi: Whitehead 1986, 150–152. 359 Anche secondo Migeotte 2014, 264 e 516 si tratta di tasse sul commercio delle agorai locali. 360 IG II2 1245. 361 Arist. Oec. 1346 a; Plat. Soph. 223 c 10. 362 Bubelis 2013. Contra Feyel BE 2014, n°167 che ritiene invece che il finanziamento della festa dovesse contare su entrate sicure e perenni. Così anche Knoepfler 2019, 140, n. 87. 363 Sul theorikon si vedano le osservazioni di Mossé 2007. 364 Sulla composizione e l’uso di tali fondi a Delo, si veda Chankowski 2020, 113–117. 365 Csapo/Wilson 2020, 236 e 240 e Petrakos 2020a, 197–199.
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giorni. Sacrifici dovevano essere inoltre previsti in onore di entrambe le dee del santuario: tanto Nemesis quanto Themis, come si può dedurre dal successivo decreto in onore di Dicearco di Tria, datato al 235/34. In questa iscrizione, la comunità ramnusia esprime la sua riconoscenza all’onorando perché, in un momento di grave incertezza dovuta a una guerra (probabilmente il conflitto demetriaco), aveva finanziato a sue spese le thysiai dei Nemesia e del re e aveva fatto in modo che i demoti potessero sacrificare normalmente alle dee.366 A voler mettere insieme i dettagli che abbiamo raccolto, pur nella consapevolezza che possano riferirsi a diverse fasi cronologiche e riflettere innovazioni successive nel tempo,367 si può ritenere che la celebrazione prevedesse almeno una thysia in onore delle due dee e un agone ginnico, magari la stessa lampadedromia cui partecipavano gli efebi, e forse una pannychis, se si legge nella recente iscrizione pubblicata da V. Chr. Petrakos un’allusione alla festa in onore di Nemesis.368 Dopo la guerra cremonidea, il programma fu integrato con un rito sacrificale celebrato nei pressi dell’agora in onore del re, al quale si partecipava indossando delle corone. Difficile è pronunciarsi in merito alla periodicità della festa e spiegare la menzione, nel decreto di Elpinico, di megala Nemesia che farebbe pensare a un ciclo festivo più ampio, sul modello delle feste panatenaiche, ma le informazioni a nostra disposizione sono troppo limitate per potere trarre delle conclusioni.369 Quanto di certo si può affermare è che, per il tramite di questo decreto, il sovrano veniva a condividere parte del tempo sacro destinato alla dea in una festa la cui celebrazione finiva per coinvolgere i diversi gruppi che componevano la complessa e articolata comunità di residenti a Ramnunte, connettendo anche spazi diversi del suo territorio, da un lato quello sacro in cui risiedeva la divinità principale del demo; dall’altro, quello destinato all’interazione tra demoti e occupanti della fortezza. L’inserimento di Antigono tra le potenze onorate sul territorio inoltre integrava una configurazione divina, già orientata, in modo efficace, verso le istanze della soteria e della difesa contro il nemico esterno. 9. La dea e i suoi generali Come già sottolineato a più riprese, la vocazione militare del territorio di Ramnunte può leggersi con facilità, anche in relazione al ruolo assegnato al santuario di Nemesis nel sostenere le imprese dei demoti all’estero e, in un momento successivo, anche di coloro che si spendevano per la difesa del suo territorio. Sin dall’inizio dell’età classica 366 I.Rhamnous 17, ll. 27–30. 367 Come puntualizza Chaniotis 2011, 41: «Festivals are institutions and as such are subject to change». 368 Cfr. supra p. 241. 369 Sulla difficoltà di pronunciarsi in merito alla periodicità dei megala Nemesia, si veda Friend 2015, 103.
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lo spazio dedicato alla dea rappresentò il luogo privilegiato in cui la comunità custodiva ed esponeva le proprie memorie.370 In momenti di particolare crisi, come accadde nel caso della guerra cremonidea, questo stesso spazio sacro si caricò di altre funzioni, caratterizzandosi sempre di più come centro nevralgico della resistenza al nemico esterno. La documentazione epigrafica, reperita sul sito di Ramnunte, consente di ricostruire le storie di personaggi, di funzionari ateniesi e macedoni; tutti attori di un complesso scenario in cui le aspettative della comunità locale, con precise necessità quotidiane e istanze religiose, si incrociavano con le linee della politica internazionale ateniese e della sua interazione con il dominio macedone. Un decreto, ritrovato nel recinto di Nemesis, proposto dal ramnusio Nicostrato371 in onore dell’ateniese Epicare di Icario, già ricordato,372 reca traccia di tale funzione assunta dal santuario, ricordando le operazioni militari che ebbero luogo nel territorio, proprio in occasione della guerra cremonidea, e che misero a dura prova i demoti. Eletto prima ipparco e poi stratego della paralia, Epicare annoverava, tra le sue benemerenze, una serie di misure che assicurarono una difesa e una protezione a tutto campo del demo di Ramnunte: dalla costruzione di strutture di sorveglianza e di ricezione, in caso di pericolo, all’approvvigionamento alimentare per cittadini e soldati residenti nel territorio, fino alla negoziazione di riscatti adeguati per i prigionieri di guerra. Epicare fissò inoltre una punizione per chi esponeva a ulteriori pericoli la comunità introducendo nella regione dei pirati, e installò dei ripari destinati ai soldati dell’alleato Tolemeo, comandati da Patroclo, approntati con l’obiettivo di evitare che i demoti avessero troppo a risentire delle conseguenze del conflitto, trovandosi costretti a ospitarli presso le loro abitazioni. Le scelte di Epicare furono adottate quindi nel pieno rispetto del benessere e della tranquillità della comunità che popolava il demo e della difesa e della valorizzazione che il territorio stesso poteva offrire. Il testo del decreto annota anche la presenza di kryptioi, probabilmente delle vedette373 collocate sui posti di guardia che, coordinate dal generale ateniese, proteggevano i demoti, mentre andavano a raccogliere cereali e frutta nei campi. La menzione di questi kryptioi ha suscitato un grande dibattito tra gli studiosi che si sono interrogati sul rapporto tra questo corpo di militari e l’istituzione spartana della krypteia.374 Di recente sull’argomento è tornato Denis Knoepfler mostrando, grazie all’ausilio di nuove testimonianze, che a Ramnunte, come in altri luoghi della Grecia, dovevano esistere dei corpi d’élite, preposti a compiti speciali.375 370 Cfr. supra p. 214. 371 I.Rhamnous 3. 372 Cfr. supra p. 235. 373 Così Couvenhes 2011, 301: «le décret en l’honneur d’Épicharès indique que le kryptioi étaient des “guetteurs”». 374 Knoepfler 1993; Couvenhes 2011. 375 Knoepfler 2020.
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Non stupisce quindi che, in un momento di particolare crisi, il demo di Ramnunte, in cui si erano addestrate alcune generazioni di efebi, potesse disporre dell’ausilio di contingenti speciali, che erano composti – come è stato sostenuto – da cittadini ateniesi e stranieri e senza dubbio da neoi.376 Ciò che interessa però in questo contesto è però un’altra scelta operata dal generale ateniese, quella cioè di allestire lo strategion, il quartier generale sede delle riunioni tra gli strateghi, proprio nel santuario di Nemesis «affinché – precisa il testo del decreto – esso fosse tenuto in onore e con rispetto e devozione per [i demoti] (ὅπως ε̣ἶ ̣ ἐν τιμεῖ καὶ ἔχει καλῶς καὶ εὐσεβῶς τοῖς [δημόταις])».377 Non è chiaro se qui ci si riferisca alla protezione che Epicare, con questa misura, assicurava al santuario o – come è più verosimile – che fosse lo stesso strategion378 a guadagnare la legittimità e onore proprio dal fatto di trovarsi all’interno del recinto sacro e quindi posto sotto la tutela della dea. Come che sia, la decisione di Epicare rispondeva senz’altro a un’esigenza di natura militare. Del resto, come ha osservato bene V. Chr. Petrakos, installare il quartier generale nel recinto di Nemesis consentiva al comandante di tenere sotto controllo l’intera piana. Al di là di queste comprensibili motivazioni, un aspetto è importante sottolineare e cioè che, nel primo anno della guerra cremonidea, il santuario della dea di Ramnunte si confermò essere il baluardo della difesa dell’Attica e che, in quell’occasione, alla tutela di Nemesis fossero concretamente affidate le deliberazioni adottate in ambito bellico. Lo spazio santuariale veniva a essere così l’estremo avamposto della resistenza di Ateniesi e Greci, impegnati – questa volta – contro l’oppressione macedone, mentre alla dea veniva assegnato il ruolo di garante del piano di difesa approntato da Epicare. Chiusa tristemente la parentesi irredentista della guerra cremonidea, gli Ateniesi e soprattutto i Ramnusî dovettero venire a patti con Antigono e, come si è visto, addirittura celebrarlo nel quadro delle feste in onore della stessa divinità, cui si erano affidati per contrastarlo. Il santuario tuttavia non cessò neanche in questo periodo di essere il luogo in cui i generali ateniesi, ormai guadagnati alla causa macedone, venivano ricordati per il loro impegno nella difesa della regione. Tra questi vi era, per esempio, lo stratega della chora e della paralia Thoukritos di Mirrinunte che, nel 253/2, venne onorato dai suoi soldati per la cura con cui si era occupato della guarnigione e per la benevolenza mostrata nei confronti del demo.379 L’ufficiale aveva provveduto a sue spese all’approvvigionamento di grano per i soldati, aveva dedicato un sinedrio nei pressi
376 Couvenhes 2011, 302. 377 I.Rhamnous 3, ll. 15–17. 378 Uno strategion si trovava ad Atene, nella parte sudoccidentale dell’agora, vicino al Kolonos Agoraios. Le fonti su questo edificio si trovano in Wycherley 1957, 175–177. V. Chr. Petrakos 1999a, 300 ha ritenuto di potere identificare lo strategion di Epicare nel complesso venuto alla luce a Est del Nemesion. 379 I.Rhamnous 9.
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dello strategion all’interno della fortezza,380 e allestito un posto di guardia (un pylorion). Per tutti questi meriti, si guadagnò il grande privilegio di vedere la sua immagine effigiata in un pinax da collocare nel Nemesion, confermando così la stretta relazione tra la protezione accordata dalla dea e l’azione militare sul territorio. Durante il periodo di dominio macedone, gli strateghi di stanza a Ramnunte non mancarono di mostrare tale sollecitudine nei confronti della comunità che ospitava la guarnigione, dando prova di grande generosità e munificenza nei confronti dei demoti e dei culti che essi praticavano. Tanto più che favorire le celebrazioni nei confronti della dea di Ramnunte significava ormai garantire quelle in onore del sovrano. Lo sapeva bene Dicearco, figlio di Apollonio di Tria, la cui famiglia aveva una lunga tradizione di collaborazione con i Macedoni.381 Preposto, come già il padre prima di lui, dal re Antigono al comando della fortezza di Ramnunte, e poi da Demetrio II a quello della cittadella di Eretria, si era guadagnato una corona d’oro e la riconoscenza dei Ramnusî e degli Ateniesi schierati all’interno del demo per la disciplina con cui aveva svolto il suo compito, per il modo in cui aveva amministrato le guarnigioni, anche in precedenza a Panatto, e per l’impegno profuso nella difesa dell’Attica. I Ramnusî inoltre gli riconoscevano il merito di avere riattivato i sacrifici per le feste di Nemesis e quelli in onore del re, provvedendo a sue spese al pagamento delle vittime. L’interruzione dei sacrifici fu dovuta forse allo scoppio della cosiddetta “guerra demetriaca” (238–229 a. C.), un nuovo conflitto per la liberazione dai Macedoni, sorto per iniziativa degli Etoli e degli Achei,382 che questa volta, però, vedeva gli Ateniesi allineati alla causa del re. Per la sua munificenza, Dicearco ottenne che il decreto che ne celebrava i servigi fosse trascritto su due stele di pietra: «affinché – si precisa – resti a memoria per coloro che vogliono onorare la comunità dei Ramnusî e i residenti della fortezza che una stele sia posta nel santuario di Dioniso e l’altra in quello di Nemesis».383 La formulazione del decreto consente di definire la funzione che doveva avere la duplice esposizione della stele, in due luoghi diversi del demo, e di individuarne i destinatari: entrambe le copie, l’una all’interno della fortezza, dove si trovava il santuario di Dioniso,384 e l’altra nel Nemesion servivano da monito a coloro che, esterni al corpo civico del demo, intendevano instaurare una relazione positiva con la comunità dei Ramnusî e con coloro che agivano e operavano all’interno della fortezza.385 L’obiettivo era evidentemente
380 Petrakos 1999a, 113–117. 381 Cfr. I.Rhamnous 17. Cfr. su questo decreto Pouilloux, Rhamnonte, 129, n. 15 e Choix 19; Moretti ISE 25. 382 Plut. Arat. 24.4; 33. 6; 14.1–4; Oetjen 2014, 17 con riferimenti bibliografici precedenti. 383 I.Rhamnous 17, ll. 38–41: ἵνα εἶ ὑπόμνημα τοῖς βουλομένοις εὐεργετεῖν τὸ κοινὸν Ῥαμνουσίων καὶ τῶν οἰκούντων τὸ φρούριον καὶ στῆσαι τὴν μὲν ἐν τῶι τεμένει τοῦ Διονύσου, τὴν δ’ ἐν τῶι Νεμεσίωι. 384 Petrakos 1997a, 607. 385 In I.Rhamnous 58 (III sec. a. C.) a un anonimo benefattore, oltre alla corona d’oro, viene riconosciuta la proedria negli agoni di Ramnunte e due stele da erigere una nel santuario di Nemesis e l’altra in quella di Dioniso. In I.Rhamnous 13 (di difficile datazione), lo straniero Dionisio di Clazomene, probabilmente un mercenario, per la benevolenza nei confronti del demo ateniese a Ram-
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quello di dare la maggiore visibilità possibile ai benefici accordati alla comunità, anche al fine di sollecitare una gara di generosità tra gli strateghi e i soldati che, in futuro, sarebbero stati chiamati in servizio presso la guarnigione.386 Analoga attenzione nei confronti del Nemesion mostrò anche Filocede, stratego della paralia, che fu anche collaboratore a Eretria di Dicearco.387 Un gruppo di soldati, forse dei mercenari di cui non è possibile specificare la provenienza, manifestarono la loro riconoscenza allo stratega per la magnanimità mostrata nei confronti dei soldati e per avere portato le armi nel Nemesion ed avere atteso lì insieme a loro.388 Difficile è comprendere la natura del gesto compiuto da Filocede: J. Pouilloux ipotizza che si tratti della dedica di armi alla dea;389 stando invece all’integrazione proposta da V. Chr. Petrakos alle ll. 8–10 dell’iscrizione, Filocede portò le armi nel Nemesion in un momento di grave difficoltà, forse legato alle stesse operazioni della guerra demetriaca. Il gesto va interpretato, più che come una dedica, come una scelta strategica, sulla scia di quella operata a suo tempo da Epicare, che al nobile proposito di difendere il santuario affiancava l’esigenza di controllare tutta la regione.390 Nel 229 a. C., morto Demetrio II, Arato di Sicione persuase il comandante della guarnigione del Pireo, Diogene, a evacuare i presidi macedoni in Attica, consentendo agli Ateniesi di riprendere il pieno controllo del loro territorio.391 Dopo la liberazione, nelle iscrizioni di Ramnunte scompare la menzione dei sacrifici in onore del sovrano. Atene, ormai affrancata dal controllo macedone, rilancia le sue attività navali, com’è segnalato dalle operazioni del trierarca Menandro, onorato alla metà degli anni venti del III sec., in un decreto, dai Ramnusî, dai politai e dagli Ateniesi del suo equipaggio.392 L’iscrizione menziona una cura onorevole dell’equipaggio da parte dell’ufficiale, tra cui, come si è visto, anche l’acquisto di olio per i neaniskoi, affinché potessero così diventare più forti. A questo servigio, si aggiungeva l’offerta di sacrifici in onore di Zeus Soter e Atena Soteira destinati a propiziare la concordia e la salute dell’equipaggio, perché i suoi uomini potessero essere meglio utili al popolo.393 Una volta giunto a
nunte e nei confronti del demos e per la cura della guarnigione si vide assegnare, insieme ai suoi soldati, una corona di fiori, e l’attribuzione di tali onori fu registrata su una stele eretta nel santuario di Nemesis. In I.Rhamnous 57 (ca 200 a. C.), un altro straniero Sopolis, xenagos, ottenne, ancora una volta insieme ai suoi soldati, che la memoria della loro benevolenza e della loro disciplina fosse custodita su un decreto trascritto su una stele da erigere nel santuario della dea. 386 Cfr. per esempio le integrazioni proposte a I.Rhamnous 18, ll. 10–12 e I.Rhamnous 50 ll. 25–26 relativamente ai benefici attesi dagli strateghi eletti successivamente. 387 I.Rhamnous 17, ll. 21–22. 388 I.Rhamnous 18. 389 Pouilloux, Rhamnonte, 132–133, n. 16. 390 I.Rhamnous 18, ll. 8–10: [τοὺς στρατιώτας· ἐκόμισε δὲ τὰ] ὅπλα εἰς τὸ Νεμέσιον [πολέμου ὄντος καὶ αὐτόθι δι]έτριψε μετὰ τῶν στρατ[ι][ωτῶν. 391 Plut. Arat. 34; Paus. 2.8.6. Habicht 1982, 79–83 e 1997, 173. 392 I.Rhamnous 31. 393 Sul ruolo di queste divinità a Ramnunte, cfr. anche supra p. 220.
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Ramnunte, il navarco partecipa inoltre insieme allo stratega e agli hieropoioi ai sacrifici in onore di Nemesis.394 Più o meno nello stesso periodo, gli Ateniesi di stanza ad Afidna onorano lo stratego della paralia Nicomaco, per avere gestito con cura i phrouria, aver provveduto al demo e alla sicurezza della regione e finanziato i riti sacrificali per Themis e Nemesis e tutte le altre divinità per cui era costume sacrificare e per avere celebrato a sue spese gli exiteteria in onore di Afrodite Hegemone, di cui si è già parlato.395 La delibera, espressione della volontà della comunità dei Ramnusî, e di quella di Afidna, di onorare un ufficiale valoroso, impegnato nella difesa dei confini dell’Attica, fu trascritta in duplice copia su due stele, erette, questa volta, l’una ad Afidna e l’altra a Ramnunte nel santuario di Afrodite Hegemone.396 Questi due decreti segnalano l’attenzione riservata alle divinità che popolavano il demo di Ramnunte. Nemesis, il cui culto non è più legato a filo doppio a quello del sovrano, si ritrova nuovamente preceduta da Themis. Gli ufficiali che giungono in servizio sul territorio continuano a riservare la medesima reverenza nei confronti della dea. Laddove necessario, finanziano sacrifici in onore suo e di Themis e delle altre divinità locali. Per quegli aspetti, connessi all’esercizio delle loro funzioni, si volgono ad altre divinità: Zeus Soter e Atena Soteira sotto la cui tutela ponevano la concordia e la salute dei loro uomini e Afrodite Hegemone cui, come osservato in precedenza, riconoscevano un ruolo nel felice svolgimento della loro carica magistratuale. Questo piccolo dossier epigrafico relativo all’attività dei generali della guarnigione a Ramnunte, e alle modalità con cui interagirono con il culto locale di Nemesis, costituisce un terreno di studio interessante per esplorare lo spazio riservato dalla religione antica all’agire individuale. La prospettiva è quella adottata dal progetto europeo coordinato da J. Rüpke, Lived Ancient Religion, presso il Max Weber Kolleg di Erfurt.397 Se è vero, infatti, come mostrato dai risultati del gruppo di ricerca tedesco, che la religione rappresenta uno strumento per rafforzare la capacità di azione dell’individuo, amplificandone la competenza e l’attitudine alla risoluzione dei problemi, tanto nelle questioni ordinarie del quotidiano, quanto in momenti di maggior crisi, allora le scelte dei generali di Ramnunte, in materia religiosa, possono fornire in questo senso elementi importanti di riflessione. L’uso cui essi destinavano gli spazi religiosi del demo, l’investimento economico personale a sostegno dei culti della comunità, il ritorno d’immagine che queste misure assicuravano loro, le trasformazioni che tali iniziative 394 Su questo decreto si veda anche il commento di Pouilloux 1956, 64–69 e, con traduzione italiana, Moretti, ISE 29. 395 Cfr. supra sugli exiteteria p. 218. 396 I.Rhamnous 32. 397 Numerosi e diversi per ampiezza di interessi e ambiti esaminati sono i lavori prodotti da questo gruppo di ricerca. Mi limito in questa sede a citare il contributo con la presentazione delle linee generali del progetto in Rüpke 2011; l’illustrazione dell’approccio che lo sostiene in Rüpke 2017 e il volume di sintesi, recentemente pubblicato anche in lingua italiana, Rüpke 2018.
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apportarono alla vita religiosa del demo, tanto nella percezione delle potenze divine, quanto nella comunicazione con esse e su esse, sono tutti elementi che possono essere valorizzati nell’ambito di un approccio che guardi alla religione come un sistema complesso fatto di interazione e delicata mediazione tra istanze individuali e istanze collettive, tra conservazione, tutela delle tradizioni e spinta al cambiamento. 10. Nemesis e Livia Gli ultimi secoli dell’età ellenistica non dovettero essere particolarmente luminosi per Ramnunte. Il territorio e il santuario furono probabilmente coinvolti nelle devastazioni operate delle truppe di Filippo V di Macedonia nel 200 a. C., all’epoca della seconda guerra macedonica.398 Successivamente, quando la difesa dell’Attica passò alla competenza romana, il ruolo delle fortezze si esaurì gradatamente.399 Ramnunte continuò comunque ad accogliere, nel corso del II sec. a. C. e fino all’inizio del I sec., un presidio composto da gruppi di cittadini e soldati, cui si aggiungevano talora anche dei mercenari. Il ritrovamento di alcune basi votive, dedicate per lo più a Zeus Soter e Atena Soteira, affiancati in un paio di casi anche da Themis e Nemesis,400 testimonia la partecipazione di soldati di diversa provenienza alle lampadadromie che si svolgevano ad Atene, in occasione dei Diogeneia o dei Ptolemaia.401 Nella prima fase della dominazione romana, la guarnigione che risiedeva nel demo aveva il compito di proteggere il territorio dalle incursioni dei pirati.402 In seguito, però, la regione smise di essere presidiata da ufficiali ma continuò ad essere abitata da gruppi di mercenari, come sembra potersi dedurre dalla controversia, testimoniata in un’iscrizione datata alla prima o alla seconda metà del I sec. a. C., in cui un tale Zenone di Antiochia, sacerdote della dea Agdistis a Ramnunte, essendo ostacolato nell’esercizio del suo ministero, fece appello alla boule ateniese, perché intervenisse.403 Il culto di Nemesis continuò ad essere praticato dai demoti, ricevendo sempre più sporadicamente la devozione dei residenti della fortezza. L’esaurirsi progressivo del numero delle iscrizioni suggerisce un graduale infiacchirsi della vita del demo e un suo lento spopolamento.404 L’età imperiale regalò tuttavia a Ramnunte e al santuario di Nemesis una fase di rinnovato prestigio, segnalata da una breve dedica iscritta, sul blocco
398 399 400 401 402 403
Liv. 31.23–26; Ferguson 1911, 272–277; Thompson 1981, 352–354; Miles 1989, 235–236. Oetjen 2014, 144. I.Rhamnous 150–151. Petrakos 1997a, 624 e I.Rhamnous 144; 146; 148–152. Su queste feste, cfr. Habicht 2006, 456, n. 22. Petrakos 1997a, 624. I.Rhamnous 179. Su quest’iscrizione, cfr. anche Roussel 1930; Pouilloux, Rhamnonte, 139–141, n. 24; Robert BE 1966, n. 167; Baslez 1996, 45. Sulla datazione dell’iscrizione, Follet 2000. 404 Petrakos 1997a, 627.
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centrale dell’architrave che separava le due colonne in antis della facciata orientale del tempio, il cui testo, discretamente visibile, recitava (Fig. 9):405
Fig. 9 Disegno dell’iscrizione IG II2 3242 sull’epistilio orientale del tempio di Nemesis a Ramnunte – 45/46 d. C. (da Petrakos 1999b, 124). ὁ δῆμος θεᾶι Λειβία, στρατηγοῦντος 3 ἐ[πὶ] τοὺς ὁπλε[ί]τας τοῦ καὶ ἱερέως θεᾶς Ῥώ̣[μη]ς κ[α]ὶ Σεβασ[τ]οῦ Καίσαρος Δη̣μ ο̣ στράτου [τοῦ Διονυ]σίου Παλληνέως, ἄρχον[τ]ος δὲ 6 [Ἀντιπάτρο]υ τοῦ Ἀνπάτρου Φλυέω[ς ν]εωτέρου
Il demo alla dea Livia, quando era stratego degli opliti e sacerdote della dea Roma e di Cesare Augusto Demostrato, figlio di Dionisio del demo di Pallene ed era arconte Antipatro il giovane, figlio di Antipatro del demo di Flia. I.Rhamnous 156 (IG II2 3242)
L’iscrizione fu pubblicata per la prima volta nel 1924 da A. Orlandos406 il quale, avendo tralasciato il frammento su cui si trovava il nome di Livia, sposa dell’imperatore Augusto, considerandolo illegibile, ne diede una datazione, su base paleografica, al IV–III sec. a. C. Successivamente, O. Brooner, rimettendo insieme i diversi frammenti reperiti in loco, riuscì a leggere l’altra metà della lastra, notando il nome di Livia. Integrò così, alla l. 6, il nome di Aiolon, figlio di Antipatro arconte nel 45/6 d. C., giungendo a datare la dedica all’epoca di Galba (68 d. C.).407 Infine J. H. Oliver, seguito da W. B. Dinsmoor, suggerì l’integrazione del nome Antipatro, distinto dall’omonimo padre e propose di datare l’iscrizione al 45 d. C., tre anni dopo la divinizzazione di Livia da parte di Clau-
405 Cfr. Fig. 4, p. 179. Pianta del tempio di Nemesis. La misura dell’altezza delle lettere era di 5 cm. 406 Orlandos 1924, 318–319. 407 Brooner 1932, 397–400.
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dio, un momento a partire dal quale l’imperatrice poteva essere ufficialmente denominata θεὰ Λειβία.408 Il testo dell’iscrizione, di cui si è riportata l’edizione di V. Chr. Petrakos completa dell’integrazione del nome di Antipatro alla l.6, è problematico anche sotto altri aspetti, al di là di quello relativo alla datazione. La prima questione che esso pone riguarda naturalmente la logica che presiede al gesto, di per sé singolare, di collocare una dedica a una mortale, una sovrana, proprio sull’architrave di un tempio che ospitava una divinità tradizionale del demo; mentre la seconda riguarda, più nello specifico, i soggetti cui tale iniziativa deve ricondursi e il contesto in cui essa si colloca. La dedica ha suscitato l’interesse di molti studiosi che, anche recentemente, si sono sforzati di interpretarne il significato e le ragioni, ma la chiave di lettura adottata sinora è stata quella romanocentrica secondo cui Ramnunte, assunta ormai come luogo simbolo della difesa contro aggressioni esterne, avrebbe rappresentato il contesto ideale in cui onorare Livia, suggerendo l’identificazione di quest’ultima con Nemesis, divinità sanzionatrice della hybris dei “barbari” persiani. Tale associazione – nella ricostruzione proposta – avrebbe quindi costituito un efficace pendant con la figura di Augusto celebrato come vendicatore dei Parti e, in quest’ottica, assimilato a Marte Ultore.409 La tradizione relativa alle guerre persiane e al sostegno fornito dalla dea di Ramnunte alla difesa contro l’aggressione “barbara” a Maratona avrebbero dunque favorito l’identificazione di Livia con Nemesis da parte dell’entourage imperiale, da un lato, e dell’élite locale, dall’altro.410 Ebbene, che la tradizione che collegava la Nemesis di Ramnunte alla vittoria ateniese contro i Persiani possa avere giocato un ruolo nell’iniziativa e possa avere veicolato un messaggio gradito al potere centrale di Roma, è senz’altro verosimile e costituisce, senza dubbio, una delle possibili istanze che l’avevano determinata. Certamente, l’associazione tra Livia e Nemesis, entrambe sentite come figure inclini alla reazione e alla difesa contro le aggressioni esterne, rappresenta un primo immediato livello interpre-
408 Oliver 1950, 85 n. 18 e Dinsmoor 1961, 186–194. Condividono questa datazione anche Kajava 2000, 60–61 e Stafford 2013, 207–209; contra invece Lozano 2004 che reputa infondato il terminus post quem del 42 d. C. e propone di datare la dedica all’età augustea, identificando lo stratega degli opliti Demostrato di Pallene in un ufficiale in servizio ad Eleusi nello stesso periodo. 409 Secondo Kajava 2000, la volontà di onorare Livia a Ramnunte era da attribuire ai Romani per motivazioni ideologiche. Il gesto rappresentava una sorta di variazione sul tema della retribuzione divina cui i Parti erano destinati. Lozano 2002, 52, sottolinea l’interesse del potere imperiale di Roma per il tema della vittoria contro i Persiani. Scettico invece sull’identificazione ateniese di Augusto come Marte Ultore è Steuernagel 2009, 293–294, che rilegge la ricollocazione in questo periodo del tempio di Ares sull’agora di Atene, non come una diretta volontà di celebrare il sovrano e la dinastia giulio-claudia, ma nell’ottica delle scelte politiche di una comunità come quella ateniese che, in un contesto internazionale ormai dominato da Roma, tornava ad assegnare a una delle sue istituzioni più prestigiose come l’Areopago, un ruolo di primo piano, nella convinzione che la componente oligarchica della città avrebbe più efficacemente dialogato con il potere centrale. 410 Lozano 2004, 180.
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tativo, ma non è forse l’unico. Un’analisi più fine dell’iscrizione, della sua collocazione nello spazio del santuario, delle modalità attraverso cui l’orizzonte demotico e ateniese si sovrappongono vicendevolmente, può forse suggerire altre piste esegetiche e mostrare il carattere polisemico della dedica. Il primo aspetto da considerare è quello che pertiene al messaggio elementare da attribuire alla collocazione di una dedica a una nuova divinità nella posizione apicale di un edificio sacro da secoli abitato da un’altra potenza. Era di certo una prassi collaudata in Grecia che il culto del sovrano o dell’imperatore potesse essere associato, in varie forme, a quello di una divinità tradizionale, nell’ambito degli stessi spazi o strutture sacre,411 ma porre il nome di un’altra figura proprio sull’architrave del tempio sembrerebbe avere, almeno a una prima lettura, tutto il sapore di un’espropriazione; una sorta di “sfratto” della divinità che vi abitava, liquidata dalla necessità di onorare nuovi dèi.412 Ovviamente, non è questo il caso, perché come si può dedurre dalla successiva visita di Pausania nel demo di Ramnunte, Nemesis continuava ad essere onorata nel santuario e il suo agalma ben visibile all’interno della cella. Il Periegeta non fa nessuna menzione di Livia, poco interessato com’è del resto, fatte salve specifiche eccezioni,413 alle espressioni del culto imperiale e talora forse persino polemico nei confronti di tali forme di devozione.414 Tale posizione non deve stupire, se si considera quanto l’attenzione di Pausania si volgesse piuttosto verso i culti destinati agli dèi tradizionali, tracce ineludibili di una religione che traeva dal suo carattere di arcaicità, radicata nel passato lontanissimo dei Greci, la marca più alta della sua venerabilità.415 Pertanto, il suo silenzio sulla presenza di Livia a Ramnunte non deve indurre a facili conclusioni; al contrario, può essere considerata un’omissione volontaria che si giustifica alla luce dei riferimenti limitati e cursori di Pausania agli onori dedicati agli imperatori romani nei santuari gre411 Questa casistica, a partire dall’età ellenistica, con analisi su diversi contesti geografici è esaminata nel fondamentale articolo di Nock 1930. Con preciso riferimento all’integrazione del culto e degli onori riservati agli imperatori romani negli spazi sacri degli dèi tradizionali in Grecia: Kantiréa 2007; Camia 2009 e 2016. Un’esplorazione delle diverse modalità di coabitazione religiosa, a partire dall’indagine lessicale, è ora nella tesi di dottorato, di prossima pubblicazione, di Pañeda-Murcia 2021. 412 Un caso del genere potrebbe essere quello segnalato da Pausania nel Metroon di Olimpia (Paus. 5.20.9) che, pur mantenendo la denominazione originaria, non ospitava al suo interno un simulacro della Madre degli dèi, ma una serie di statue di imperatori romani. 413 Una certa attenzione dedica il Periegeta al culto di Antinoo, giovane favorito dell’Imperatore Adriano al quale riconosceva un prestigio particolare. Le motivazioni di tale interesse per il culto di Antinoo vanno ricercate però più nella sfera religiosa che nella stima personale che il Periegeta nutriva nei confronti del sovrano romano, come spiega Pirenne-Delforge 2008, 155. D’altra parte, gli onori attribuiti al giovane non furono mai frutto di una deliberazione ufficiale, ma furono piuttosto una scelta autonoma delle singole comunità greche le cui ragioni devono individuarsi in un’articolazione complessa di fattori: a questo proposito si veda Belayche 2019. Sull’attitudine di Pausania rispetto al culto degli imperatori romani e sulle espressioni di devozione rivolte ad alcuni di essi, cfr. Jacquemin 1996. 414 Paus. 8.2.5. Su questo passo si vedano le considerazioni di Wojan 2008 e Pirenne-Delforge 2008, 153–154. 415 Jacquemin 1996, 30.
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ci416 e, nel caso specifico, dell’assenza di menzioni di Augusto e di monumenti dedicati nel primo libro della Periegesi sull’Attica.417 Sia come sia, il tempio di Nemesis, portando sulla sua sommità il nome di Livia per volere del popolo ateniese, sembrava accogliere in seno allo spazio sacro la moglie di Augusto, ma senza con ciò obliterare la divinità che lo abitava in precedenza.418 Semplicemente lo spazio destinato al culto di Nemesis veniva ora condiviso con Livia, testimoniando della volontà di accostare le due figure e di rendere omaggio alla sposa di Augusto. E. Stafford, in un bel saggio dedicato a questa iscrizione, definisce questo processo una «full syncretisation»419 di Nemesis con Livia. Non spiega, però, in che termini si possa parlare di “sincretismo”. Per la verità, tale nozione, che spesso, negli studi moderni fa riferimento a una sovrapposizione tra entità divine e a una loro eventuale fusione, non sembra utile a rendere conto delle intenzioni che portarono alla collocazione della dedica a Livia sull’architrave orientale del tempio di Ramnunte.420 Più verosimilmente, qui come altrove, ci si trova di fronte a un tentativo di far coabitare due figure investite di una potenza sovraumana: l’una appartenente alla sfera della religione tradizionale, alla storia locale del demo e l’altra, venuta da un nuovo mondo, cui si riconosce un analogo statuto divino. La volontà di onorarle in un unico spazio sacro innesca un andirivieni reciproco dell’una all’altra, innestando, in un contesto cultuale dedicato a una divinità tradizionale, gli onori e la memoria di una sovrana ormai elevata a potenza. L’operazione è, in questo caso, di segno diverso rispetto a quella che aveva portato Antigono Gonata, quando era ancora in vita, a condividere la festa destinato alla dea. In questa circostanza, invece, non è in gioco il tempo religioso, come in precedenza nel caso di Antigono, ma lo spazio stesso abitato dalla dea che viene ad accogliere un’altra figura sulla base del riconoscimento di analoghe prerogative. Ma cosa poteva legittimamente suggerire a Ateniesi e Ramnusî l’associazione tra Nemesis e Livia? Per rispondere alla questione, o quanto meno per proporre qualche pista interpretativa, è opportuno, in primo luogo, ragionare sulla maniera con cui la potente moglie di Augusto venne celebrata in Attica e, in seconda battuta, indagare sulla ricezione della figura di Nemesis a Roma, al fine di comprendere quali leve la popolazione locale intendeva muovere, ponendo il santuario della dea sotto il nome della thea Livia. Ebbene, Livia, già prima della morte di Augusto, condivideva con il marito gran parte degli onori a lui dedicati. Scomparso il principe, giocò un ruolo di primaria im416 Il dossier delle menzioni delle statue di imperatori romani all’interno dei santuari greci è raccolto da Pirenne-Delforge 2008, 149–151. 417 Jacquemin 1996, 31–33. 418 Contrariamente a quanto ritiene Kantiréa 2007, 116 che, in questo caso specifico, parla di una “riconsacrazione” del tempio di Nemesis. 419 Stafford 2013, 233. 420 Sull’inadeguatezza della nozione di “sincretismo” e la sua insufficienza come strumento interpretativo delle forme di contatto e coabitazione tra culti diversi nell’antichità si veda Bonnet 2022.
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portanza nella celebrazione stessa del culto imperiale, come sacerdotessa del sovrano divinizzato, per essere poi lei stessa divinizzata, tredici anni dopo la morte, per volere di Claudio.421 In Grecia e nelle aree orientali dell’impero, i cui abitanti erano, già da tempo, abituati a rivolgere onori ai sovrani ellenistici insieme alle loro consorti, ben prima della loro morte, Livia dovette già essere chiamata dea.422 Ad Atene, per esempio, condivideva un sacerdozio insieme a Ioulia e, come sembra, anche un santuario con la dea Estia.423 In una dedica privata sembra onorata come Euergetis.424 Addirittura ad Atene ricevette l’attributo onomastico di Pronoia, che aveva in comune sempre con Atena e anche come Artemis Boulaia.425 Nel resto del mondo greco e microasiatico, veniva frequemente identificata con Demetra e con Era.426 In Egitto, il nome di Livia veniva persino evocato all’interno del giuramento matrimoniale, a testimonianza del ruolo di tutrice delle unioni nuziali che le si riconosceva.427 Come avveniva nell’orizzonte del mito tra Zeus e la sua consorte, nella persona di Livia il potere sovrano e l’autorità imperiale di Augusto trovavano continuità e ambiti di realizzazione. Non a caso, l’anniversario delle loro nozze divenne, a un certo momento, una festa pubblica a Roma, un’iniziativa che sottolineava la solidità di un vincolo matrimoniale reso da Augusto, prima della sua morte, ancora più efficace, quando, forse ai fini della successione, adottò Livia, per disposizione testamentaria, e la accolse, all’interno della gens Iulia, in modo che potesse legittimamente chiamarsi Augusta.428 A rendere Livia degna di essere onorata come una divinità concorrevano ormai diversi fattori: in primo luogo, l’essere la potente consorte dell’imperatore con cui condivideva privilegi e oneri di un potere costruito con l’obiettivo di assicurare pace e stabilità al mondo intero. Proprio in ragione del suo legame con Augusto, era percepita quale protettrice dei legami matrimoniali e del focolare domestico, come l’accostamento a figure come Estia suggerisce. Inoltre, era stata nominata come ministra del culto imperiale.429 Tutti questi riconoscimenti erano il risultato di quell’intesa stra-
421 Svet. Claud. 11; Sen. Apocol. 9.5; Dio Cass. 60.5. Sul ruolo concreto assunto da Livia, nella sua qualità di Augusta, cfr. Cenerini 2009. 422 Chaniotis 2003b ha dimostrato come presso alcune comunità greche, soprattutto nei primi anni del principato, si ricorresse abitualmente a titoli non ufficiali e non autorizzati da Roma come epiteti cultuali volti a onorare membri della famiglia imperiale. 423 IG II3 4,3 1997; Graindor 1927, 153–155; Grether 1946, 230. 424 IG II2 3241 e Hahn 1994, 52–53. 425 SEG 22. 152 e Graindor 1927, 155–157 e 1931, 113; Oliver 1965; Kajava 2000, 40; Stafford 2013, 221. 426 Cfr. per es. I.Pergamon 385 e CIG 2815. Per un catalogo delle testimonianze relativo agli onori attribuiti a Livia nel mondo greco, cfr. Hahn 1994, 34–105 e Grether 1946. Sulle denominazioni e le epiclesi attribuite a Livia in Asia Minore, si veda Frija 2012, 137–139. 427 Grether 1946, 242 e Hahn 1994, 54. 428 Tac. Ann. 1.8.1. 429 Vell. Pat. 2.75.3; Ov. Ep. ex Ponto, 4.9. vv. 105–108; Dio. Cass. 56.46.1.
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ordinaria che la donna poteva vantare con il suo sposo, arbitro ormai dei destini del mondo, e dimostrano il peso che era in grado di esercitare sulla gestione del potere. Una testimonianza del prestigio di cui godeva Livia presso Augusto è fornita dalle belle pagine di Cassio Dione430 in cui, al marito tormentato da tante preoccupazioni per le congiure che si agitavano intorno a lui e indeciso sulle misure da prendere, suggerisce di seguire la via della clemenza piuttosto che quella della violenza e dell’esasperazione del conflitto. In un dialogo, probabilmente fittizio,431 nel corso del quale la donna dichiara, senza tema di smentita, quanta parte avesse nel potere del principe, emerge la percezione piena del suo ruolo di regnante e la rappresentazione di una gestione condivisa e coesa delle scelte di governo all’interno della coppia imperiale.432 Era questa un’idea di sovranità che, nel mondo antico, trovava il suo corrispettivo al livello della sfera sovraumana nella figura di Zeus e nella sua unione con Era. Il suolo dell’Attica si prestava poco in questo caso, poiché i suoi santuari raccontavano storie di unioni divine ben diverse. A Ramnunte, per l’appunto, il padre degli dèi era riuscito ad avere ragione su una potenza sfuggente e destabilizzante, come Nemesis, una divinità incline alla sanzione di atti di mancata clemenza contro i nemici.433 E d’altra parte è sufficiente esaminare la ricezione della figura di Nemesis nel mondo romano, per comprendere come non fosse la tradizione del sostegno accordato dalla dea agli Ateniesi in occasione della battaglia di Maratona a essere stata valorizzata a Roma. Plinio mostra di non conoscerla e favorisce un’altra narrazione, conosciuta forse attraverso Varrone. Anche Catullo, riferendosi, nei suoi carmi alla Rhamnusia Nemesis, predilige la vicenda mitica raccontata nei Canti Ciprii in cui si narra l’unione violenta con Zeus. Che poi sia proprio la Nemesis greca – quella ramnusia nella fattispecie – ad avere sollecitato l’interesse dei Romani emerge anche dalla considerazione di Plinio che afferma che alla dea è dedicato un simulacro sul Campidoglio, «pur non avendo trovato un nome latino».434 Ma se il suo nome, benché degno di riverenza religiosa, restava intraducibile per i Romani, alle loro orecchie, tuttavia, la vicenda della dea e della sua unione con il padre degli dèi tornava piuttosto familiare. Livia trova posto a Ramnunte, nel santuario di una divinità che era stata oggetto del desiderio amoroso del padre degli dei, con ogni verosimiglianza, proprio in ragione del suo ruolo di consorte di Augusto, rappresentante tra gli uomini del potere sovrano. La menzione del sacerdozio della dea Roma e di Augusto nell’iscrizione inserisce
430 Dio. Cass. 55. 14–21. Una versione più breve dello stesso episodio, si trova nel De Clementia di Seneca (1.9.3). 431 Sul ruolo di Livia come consigliera di Augusto e sulle sue capacità di mediazione quali emergono da questo dialogo, narrato da Cassio Dione, nel quadro della congiura di Cornelio Cinna, Purcell 1986, 92–93 e Barrett 2002, 130–133. 432 Cfr. in part. Dio Cass. 55.16.2. 433 A questo proposito, si rinvia a Bonanno 2010, 84–86. 434 Plin. Nat. hist. 11.251.3–4; 28.22.5–6.
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la dedica in un contesto di promozione dell’ideologia imperiale.435 Come Nemesis, nel remoto tempo del mito, aveva concretizzato la Dios boule che avrebbe portato allo scoppio della guerra di Troia,436 allo stesso modo, gli Ateniesi e i demoti di Ramnunte onoravano in Livia la consorte di un sovrano potente ai cui processi decisionali era sovente chiamata a partecipare. È possibile anche leggere in questo gesto l’esigenza di ristabilire una relazione efficace con il potere imperiale, soprattutto dopo che l’élite ateniese – o almeno parte di essa – aveva preso decisioni non proprio felici al momento di operare una scelta di campo nella crisi tra Ottaviano e Antonio.437 In alcune occasioni, Augusto adottò misure piuttosto severe nei confronti di Atene, per esempio togliendole, nel 21 a. C., le tributarie Egina e Eretria, città quest’ultima prospiciente la costa dell’Attica su cui si affaccia anche Ramnunte.438 In quest’occasione ebbe luogo il prodigio che gli Ateniesi ritenevano determinato da tali avvenimenti, quando l’agalma di Atena si volse verso Occidente grondando sangue. L’operazione effettuata a Ramnunte può forse quindi essere interpretata nell’ambito di questo quadro documentario: qui un altro agalma divino accoglieva nella propria sede il ricordo del nome della consorte di Augusto, confermandone lo status divino. Era questo gesto da intendere come una rinnovata intesa con la famiglia imperiale, nella convinzione che l’onore volto a celebrare la potenza divina di Livia potesse rinsaldare ulteriormente la relazione con Roma e la dinastia giulio-claudia. Sullo sfondo restavano leggibili, tra l’altro, echi di quella memoria che faceva di Ramnunte il luogo dell’unione violenta tra Zeus e Nemesis da cui era nata Elena, considerata la responsabile della spedizione contro Troia e della sua distruzione. La sua triste vicenda era ancora visibile agli avventori del santuario di Nemesis, rappresentata alla base della sua statua, dove, al cospetto di tre generazioni di eroi greci dal padre Tindaro al genero Neottolemo-Pirro, figlio di Achille, circondata dalle donne del suo oikos, la donna viene condotta di fronte a Nemesis, prendendo coscienza del suo essere uno strumento della volontà divina. E in questi termini la descrive, del resto, anche Virgilio, in un passo memorabile del secondo libro dell’Eneide, in cui raccontando l’ultima drammatica notte di Troia, quando Enea assiste impotente all’empio massacro di Priamo e dei suoi figli proprio da parte di Neottolemo e vede improvvisamente aggirarsi, tra gli bagliori delle fiamme che avvolgono la città, la figura di Elena sui gradini del tempio di Vesta.439 In un moto di collera vorrebbe scagliarsi contro di lei e punirla, considerando che, a dispetto di tanto dolore, il destino della donna sarà invece quello 435 Sul culto congiunto della dea Roma e Augusto ad Atene, cfr. Mellor 1975, 101–105. 436 Cfr. supra p. 205. 437 Sui rapporti tra Antonio e gli Ateniesi, cfr. Plut. Ant. 23.1; 33, 7; 57, 1. 438 Dio Cass. 54.7.3. Sui legami tra Antonio e Atene e sulle tensioni tra la polis attica ed Ottaviano prima e dopo la battaglia di Azio, si veda la ricostruzione proposta in Lozano 2002, 15–21, con ampia bibliografia precedente. 439 Verg. Aen. 2. 486–620.
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di fare ritorno a Sparta o a Micene, accolta dai suoi consanguinei. A trattenere la sua furia è l’intervento della madre Venere che spiega a Enea che non è Elena la responsabile della caduta di Troia, né Paride, ma è Giove a infondere forza e potenza ai Danai e tutto quello che resta da fare è fuggire. Inutile è infatti resistere al piano divino in cui è già stabilito che dalla distruzione di Troia sarebbe nata la grandezza di Roma. Tanto Nemesis quanto Elena non sono quindi altro che coprotagoniste di un articolato progetto divino che porterà dalla fine di Troia alla nascita di Roma. Tutte queste memorie attraversavano le vie di Ramnunte, avvolgendo il santuario di Nemesis in una ricca e intricata tela di significati che, se non consente di definire, in maniera univoca, le ragioni e le diverse istanze che portarono il nome della moglie di Augusto a campeggiare sull’architrave orientale del tempio, di certo, ancora una volta, restituisce una lezione sul carattere imprevedibile e cangiante della sorte e sul ruolo critico e delicato che gli antichi riconoscevano al femminile nell’esercizio del potere assoluto. Giunto circa un secolo dopo in questi luoghi, Pausania in fin dei conti non farà che raccontare proprio queste storie. Di Livia e di un eventuale culto in suo onore non registra alcuna traccia, concentrato com’è sull’evocazione di un’epoca ormai lontana, quella aurorale della nascita dell’impero di Atene, quando – si raccontava – i suoi abitanti da queste remote contrade dell’Attica respinsero, favoriti dal sostegno divino, un’aggressione nemica che minacciava di cambiare il corso della loro storia. Ma i tempi ormai erano cambiati e per quella figura, preposta al rispetto del limite e all’alternarsi delle sorti, che aveva a lungo abitato Ramnunte cominciava un fortunato Nachleben che dura fino a oggi.
Conclusioni Il 13 marzo del 2020, allo scoppio della pandemia da Coronavirus, l’opinionista americano, premio Pulitzer, Bret Stephens intitolava così un suo articolo sul New York Times: Trump Meets Nemesis Punisher of Hybris.1 Apriva il suo testo spiegando come il concetto moderno di nemesi, troppo spesso abusato e banalmente applicato a una forza considerata nefasta, ma in fin dei conti possibile da contrastare, teneva in scarso riguardo la complessità della figura antica della dea, rappresentata dai Greci quale agente implacabile di giustizia in grado di sanzionare l’arroganza e la malvagità degli umani. Il giornalista ammetteva, d’altra parte, che l’idea di una punizione divina, se certo risultava inapplicabile a questioni di salute pubblica, di sicuro mostrava una sua efficacia sul piano politico, nella misura in cui si rivelava essere uno strumento per smascherare gli inganni del potere, inchiodando un leader alle sue responsabilità, alla mendacia delle sue dichiarazioni e alla fallacia dei suoi disegni di governo. Al di là dell’evidente scopo pamphlettistico dell’articolo e della critica rivolta al cuore dell’amministrazione americana, l’editorialista coglieva alcuni tratti importanti della figura di Nemesis: di certo, la relazione che gli Antichi stessi riuscivano a individuare tra gli interventi della dea e il ripristino della realtà dei fatti, come anche l’attitudine a sanzionare le forme di arroganza verbalmente espressa. Soprattutto, però, ne metteva in evidenza il potere di innescare bruschi sovvertimenti della sorte, cogliendo in fallo l’uomo troppo sicuro di sé. La bella immagine della Nemesis di Dürer in bilico su una sfera, riprodotta a corredo di queste riflessioni, serviva a mostrare, in maniera icastica, gli effetti dell’incedere barcollante della divinità sul volgere delle vicende umane.2 Se le poche righe dell’articolo di Stephens trovano senz’altro riscontri nelle rappresentazioni antiche della divinità, esse ovviamente non esauriscono un quadro che – come si è cercato di mostrare – appare ben più complesso. Ripercorrere le tappe del percorso tracciato sin qui potrà servire ora a dare conto degli esiti raggiunti e a rispondere con chiarezza a interrogativi formulati, ma rimasti ancora aperti.
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Ringrazio F. Massa per avermi segnalato questo articolo, reperibile alla pagina: https://www. nytimes.com/2020/03/13/opinion/trump-coronavirus-emergency.html. Fig. 1, p. 21.
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I poemi omerici hanno offerto una base di partenza indispensabile per questa ricerca che ha preso avvio proprio dall’esplorazione delle situazioni che, nelle relazioni tra mortali, scatenano l’insorgere della nemesis come emozione, delle conseguenze che scatena nell’individuo e nel gruppo di riferimento, dell’opportunità o meno di manifestarla e degli strumenti per governarla. Ampio spazio quindi è stato dedicato alla nemesis (ex) anthropon, in tutte le sue varie declinazioni: da quelle che consentono di mettere in evidenza specifiche differenze di genere, agli escamotage che adottano i singoli individui per prevenirla o, quando non è più possibile, per sottrarsi alla vista altrui; a quella che è opportuno ispirare nei giovani o che è attribuita ai defunti, fino all’individuazione del suo agire posticipato, ma rapido e dirompente, quando essa è condivisa in maniera corale. Altrettanto sondato è stato poi l’orizzonte dell’emotività divina. Anche su questo aspetto, i poemi omerici hanno fornito ampio materiale di riflessione, mostrando come la nemesis manifestata dagli dèi non veicoli modalità ed esiti di una qualche forma di giustizia divina, ma funzioni quale dispositivo in grado di illustrare le timai riconosciute alle singole potenze e la rete delle relazioni che le lega o le oppone l’una all’altra. Non è un caso che, in questo contesto, tale emozione sia attribuita a figure specifiche, ben identificate tanto all’interno dell’intreccio narrativo, quanto nell’ambito della nomenclatura dei rapporti di forza che assicurano la stabilità all’universo divino dell’epopea omerica. Il mondo omerico restituisce così al lettore una percezione composita della nemesis, illustrandone il potenziale di utilità e di rischio che essa porta con sé. Un senso opportuno e misurato della nemesis per i mortali, infatti, è prezioso per l’integrità del gruppo, nella misura in cui il timore di sollecitarla negli altri spinge l’individuo a fare appello alle proprie riserve di aidos, attenendosi a un codice comportamentale condiviso. Come tale, quindi, la nemesis è un’emozione che soprattutto i giovani devono imparare a governare: la diversa sensibilità di Telemaco, Achille e Paride per la nemesis ha conseguenze infatti pesanti per tutto il gruppo sociale di riferimento. D’altro canto, la violenza con cui esplode, quando è condivisa, di fronte a una time non rispettata o a parole mal poste, ne mostra invece gli effetti rovinosi e la forza che le consente di ristabilire un ordine che è stato minacciato. Tanto nel suo aspetto positivo, quanto in quello negativo; tanto sul fronte umano, quanto su quello divino essa è tuttavia riconosciuta come un’emozione funzionale al mantenimento della coesione sociale e all’affidabilità delle relazioni di reciprocità. In una fase storica in cui non esistono dispositivi giuridici atti a garantire il rispetto degli impegni presi e non ancora a punto sono quegli strumenti che assicurano l’equità degli scambi, un adeguato senso della nemesis se, da un lato, fissa un limite all’agire umano, dall’altro è essenziale per la sopravvivenza stessa dei mortali sulla terra. Non è un caso che, nella prospettiva esiodea, la figura di Nemesis sia inserita tra quelle forze che definiscono la vulnerabilità umana rispetto all’esistenza divina e rappresentano l’ultimo baluardo di difesa dal chaos e dalla catastrofe assoluta.
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Ricostruire il processo attraverso cui tale pulsione emotiva possa essere diventata oggetto di culto non è facile, ma forse possono essere di aiuto le considerazioni formulate da J.-P. Vernant, a proposito della figura di Mnemosyne. Lo studioso ne spiegava la presenza, nel pensiero religioso dei Greci, in questi termini, che preferisco citare, questa volta, nella versione originale: Les Grecs rangent au nombre de leurs dieux des passions et des sentiments, Erôs, Aidôs, Phobos, des attitudes mentales, Pistis, des qualitès intellectuelles, Mètis, des fautes ou des égarements de l’ésprit, Atè, Lussa. Bien des phénomènes d’ordre, à nos yeux, psychologique peuvent ainsi faire l’objet d’un culte. Dans le cadre d’une pensée religieuse, ils apparaissent sous forme de puissances sacrées, dépassant l’homme et le débordant alors même qu’il en éprouve au-dedans de lui la présence.3
A partire da tali riflessioni, si può analogamente ritenere che proprio la capacità dell’uomo di percepire dentro di sé quella dynamis – per dirla con le parole di Giovanni Tzetzes4– esercitata dalla nemesis, quella spinta individuale al ripristino di un equilibrio turbato da specifici comportamenti umani, abbia portato i Greci a riconoscere alla figura divina omonima un culto proprio, attribuendole una genealogia e uno specifico campo d’azione. Dalla rilettura delle diverse tradizioni sulla sua discendenza, ora da Notte, ora da Oceano, figure, a loro volta percepite dai Greci come forze di contenimento, viene fuori il ritratto di una potenza del limite, necessaria alla buona tenuta del cosmo. La vicenda mitica che ne narra la fuga disperata da Zeus che la trascina, in una vertiginosa sequenza di cambiamenti di forma, fino ai confini dell’ecumene; l’unione violenta con il padre degli dèi cui è obbligata e dalla quale nasce Elena, danno l’idea di una potenza il cui controllo è indispensabile all’esercizio stesso della sovranità, ma i cui esiti hanno conseguenze sulla vita dei mortali. L’agire di Nemesis, procrastinato nel tempo, si manifesta in maniera subitanea e repentina, sorprendendo mortali e immortali con quell’attitudine all’apate di cui proprio la straordinaria abilità metamorfica è tratto caratterizzante. Il suo intervento si concretizza apertamente, rendendo evidenti a tutti il carattere illusorio delle ambizioni di potere dei mortali e del vano eloquio che li accompagna, così come, in ultima istanza, la fragilità dell’essere umano rispetto ai piani prestabiliti dalla moira. La vicenda di Creso, raccontata da Erodoto, è risultata esemplare, a questo proposito, nella misura in cui illustra, in maniera chiara e tangibile, le condizioni che determinano l’innescarsi della nemesis divina, i segnali che ne preannunciano il sopraggiungere, gli effetti che essa genera e soprattutto quanto la separa da altre forme di manifestazione del divino, quali per esempio lo phthonos theon. Gli attributi onomastici con cui essa viene invocata nelle fonti letterarie ed epigrafiche ne tradiscono una progressiva accentuazione delle prerogative di controllo
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Vernant 1965 [1959], 80–81. Cfr. il passo supra p. 38.
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e di sorveglianza e ne indicano la rapidità e la forza di esecuzione di una giustizia che si segnala, sempre di più, per il carattere eccezionale e inesorabile, come mostra la graduale sovrapposizione ad Adrasteia. Sono queste caratteristiche che distinguono questa figura da altre cui pure è stata avvicinata o assimilata, come per esempio la stessa Tyche, caratterizzata da una casualità dell’agire che invece non appartiene a Nemesis. Diversamente dalla fortuna cieca che abbatte o solleva in maniera caotica e scriteriata, Nemesis invece ha una vista e un udito acutissimi e la sua azione si inserisce in un orizzonte di attesa che i mortali sono, in qualche modo, capaci di riconoscere. L’emozione e la figura divina trovano un posto nell’ambito della riflessione filosofica di Aristotele che recupera l’orizzonte omerico della nemesis per farne il perno della sua teoria della giustizia. Il filosofo infatti riconduce al dianemetikon dikaion la disciplina che regola i rapporti tra gli individui e la polis, individuando nel merito il parametro di riferimento fondamentale per procedere alla distribuzione di cariche e di risorse tra i cittadini. Nell’ambito di tale teoria della giustizia, la nemesis è certamente un’emozione positiva – tipica, però, di coloro che si trovano una posizione di superiorità – che gli oratori devono sapere sollecitare nei giudici, perché emettano le proprie sentenze, soppesando attentamente meriti e demeriti. Tale concezione di una giustizia basata sul merito può leggersi anche nella realtà cultuale del demo di Ramnunte. L’analisi dell’agalma di Nemesis nel santuario attico racconta il profilo di una potenza che mette in guardia dal superamento dei limiti, indicando con i suoi attributi iconografici gli spazi concessi ai mortali. L’evocazione della vicenda di Elena, sulla scena rappresentata alla base della statua, espone al devoto le modalità d’intervento della divinità, la cui efficacia giunge a segno nell’arco di un’intera esperienza di vita e al cospetto di tre generazioni di parenti. La presenza sul rilievo di personaggi riconducibili all’orizzonte locale serve a radicare l’episodio e l’azione della divinità nel contesto ramnusio. La tradizione omerica di una nemesis che agisce quale forma di sanzione sociale, quella esiodea che individua nella figura divina l’espressione di un limite esterno imposto alla vita mortale, e quella dei Canti ciprii che ne fa la riottosa madre di Elena, costretta a cedere al desiderio di Zeus, sono parimenti presenti e visibili, sotto traccia, nelle scelte artistiche operate dallo scultore. Le tradizioni che circolavano intorno alla Nemesis di Ramnunte raccontano, tanto nella versione di Plinio, quanto in quella di Pausania, la storia di una statua plasmata a seguito di vicende di meriti troppo precocemente assegnati o colpevolmente negati. E, in particolare, la memoria, riportata nella Periegesi, costruita tardivamente ed elaborata con ogni probabilità in rapporto ad aumentate esigenze di difesa e salvaguardia del territorio dell’Attica, attribuisce a Nemesis un ruolo decisivo nella resistenza ai Persiani, aggiungendo un ulteriore livello di complessità a questa figura, che si carica così prerogative soteriche e di protezione della comunità. L’abilità metamorfica attribuita alla dea, nella vicenda mitica narrata dai versi dei Canti Ciprii, drammaticamente insufficiente a contrastare l’imperio divino di Zeus, dispiega invece tutta la sua potenza contro i “barbari” hybristai e volge le loro illusorie prospettive di vittoria in un successo
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per Atene. Il carattere straordinario di questo trionfo si concretizza, in maniera tangibile, proprio con la fabbricazione dell’agalma della dea, la cui immagine emerge da un blocco informe di marmo pario, destinato nelle intenzioni dei Persiani a fornire la materia per un trofeo da erigere sulle rovine di Atene. Il sovvertimento della sorte determinato dall’intervento di Nemesis e la giustizia cui essa presiede non sembrano essere stati percepiti dai demoti di Ramnunte, nelle diverse fasi della storia, come una forza cieca e arbitraria da allontanare, ma come una potenza dal carattere doppiamente soterico: capace di presiedere alla buona tenuta delle relazioni sociali all’interno e di porre un freno alla hybris del nemico all’esterno. L’agire della dea trova la sua ragione d’essere in istanze ampiamente condivise di regolazione sociale. L’emozione che la abita e la rappresenta fornisce una risposta, infatti, alle attese di rivalsa del genere umano, di fronte a trasgressioni evidenti o – per dirla con Aristotele – a fortune immeritate. Nemesis funge così da figura di raccordo tra il sentire umano, con le sue esigenze di equità e giustizia sociale, e l’imperscrutabilità del piano divino. Il suo manifestarsi non è quello tardivo e deludente di una sanzione che arriva a segno a distanza di diverse generazioni, ma preciso e riconoscibile raggiunge l’individuo, incurante dei limiti imposti ai mortali. Tale lettura spiega bene perché nello spazio sacro di Ramnunte la dea sia onorata insieme a Themis. Con essa infatti condivide, pur nella complementarità delle rispettive sfere di competenza, analoghe prerogative di regolazione e controllo sociale e politico. Nessuna evidenza emerge dalla documentazione esaminata riguardo a un’eventuale cautela e timore dei devoti nell’interazione con la dea. Al contrario, a Nemesis è riservata tutta la riverenza dei demoti di Ramnunte come divinità tutelare. Il prestigio raggiunto da questo santuario, nel corso dei secoli, e le storie che intorno ad esso si elaborarono, finirono per amplificare anche la fama del territorio che ne ospitava il culto. Santuario essenzialmente locale in epoca arcaica, quello di Ramnunte si afferma come il cuore pulsante e la sede di riferimento del culto riservato alla dea. Già a partire dalla fine del VI sec., la struttura era in grado di mobilizzare consistenti risorse finanziarie, specchio di un’economia sempre più fiorente e delle attività redditizie di élites facoltose, il cui patrimonio avrebbe lasciato tracce evidenti nei ricchi periboloi funerari costruiti sulla via sacra. Un’amministrazione laboriosa e complessa ne assicurava il funzionamento come istituto di credito. Il governo centrale di Atene non tardò a identificare nel santuario un asset finanziario e ideologico importante, tanto da favorire la costruzione di un nuovo tempio dedicato alla dea, ricorrendo all’impiego di rinomate maestranze, riconducibili all’entourage pericleo. La dedica della statua, il programma iconografico che essa veicolava con l’evocazione del dramma della guerra di Troia, mostrano la piena iscrizione di questa figura divina nell’orizzonte di senso della città e l’inserimento del culto in suo onore nel paesaggio religioso dell’Attica. Nel corso del IV sec., l’accresciuto ruolo militare di Ramnunte e della sua fortezza, come avamposto di difesa dell’Attica, contribuisce ulteriormente a ampliare e a diversificare, dal punto di vista sociale, la schiera di devoti della divinità. L’istituzione dell’efebia porta
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al cospetto della dea, una dopo l’altra, classi di futuri cittadini ateniesi, che potevano ritrovare nella sua figura, nel carattere esemplare della sua vicenda mitica, nelle festività in suo onore, un’eco vigorosa e feconda dei principi cui si ispirava il loro percorso educativo, magistralmente declinati nel testo del giuramento che essi erano chiamati a pronunciare. Oltre agli efebi, anche i generali, che si avvicendarono a presidio della fortezza, riservarono a Nemesis la loro devozione e assicurarono, spesso facendo ricorso al proprio patrimonio personale, i riti in suo onore, fruirono di quello spazio sacro e lo popolarono con la memoria delle proprie benemerenze. Contingenze storiche e modifiche del corpo demografico di Ramnunte determinarono una trasformazione della compagine divina che vi era celebrata e del suo paesaggio religioso: il culto di Anfiarao sostituì quello dell’eroe locale Aristomaco, a seguito della perdita, da parte dell’Attica, del territorio di Oropo5; l’avvicendarsi dei generali a comando della guarnigione fece crescere nella fortezza la devozione nei confronti di Zeus Soter e Atena Soteira, che poi vennero affiancati a Themis e a Nemesis. Il dominio macedone e l’influenza di Roma non mancarono di lasciare altro segni nello spazio e nel tempo sacro di Ramnunte. In epoca ellenistica, l’istituzione di un sacrificio in onore di Antigono Gonata rivoluziona il programma dei Nemesia. Nelle modalità paradossali che abbiamo illustrato, il sovrano finisce così per condividere con la dea analoghe prerogative soteriche e di protezione del territorio. In età imperiale, l’epistilio orientale del tempio di Nemesis vede comparire una dedica alla thea Livia, moglie di Augusto. L’iniziativa sembra volta ad accogliere a fianco alla dea la sovrana quale controfigura di una potenza che, in quanto madre di Elena, appare fatalmente legata alla nascita di Roma. Il prestigio della dea di Ramnunte aveva superato ormai i ristretti confini dell’Attica per giungere nel cuore di Roma, dove, come osservava Plinio, il suo nome, senza intermediazioni in lingua latina, svettava ormai sulla cima del Campidoglio.6 Quali conclusioni trarre da queste rapide considerazioni finali e dal percorso condotto sin qui? E quale contributo riconoscere a questa indagine per lo studio del politeismo greco? Di certo, quel che è venuto fuori – che in sé non è una novità – è che il profilo di Nemesis, esattamente come quello delle altre potenze greche, non è monolitico, poiché – per dirla con L. Gernet – ogni divinità è un «sistema di nozioni» che occorre esaminare con la mente sgombra da pregiudizi.7 Tradizioni letterarie e iconografiche, immaginario mitico, storia delle idee, riflessione filosofica e pratiche rituali cooperano a più livelli a questa fabbrica del divino, incrociando la devozione degli uomini e la loro attitudine a plasmare e riorganizzare spazi e tempi destinati al culto.
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Sul ruolo svolto dall’Amphiaraion di Oropo come spazio di frontiera tra Attica e Beozia, la cui storia è stata segnata da aspirazione alla coabitazione religiosa tra comunità di confine e conflitti poleici, si veda Polignac 2011. 6 Cfr. supra p. 265. 7 Gernet/Boulanger 1932, 265–266.
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Già nell’antichità la figura di Nemesis è andata incontro a diverse riconfigurazioni, non tanto – o non solo – secondo il modello della snowball theory evocato all’inizio di questa indagine,8 e quindi in base a un progressivo accumularsi delle prerogative assegnatele con il trascorrere del tempo, ma più sensatamente, per effetto di complesse dinamiche storiche, determinate da continui adattamenti dell’attitudine dei devoti e delle loro istanze religiose e sociali. In un universo come quello religioso dei Greci, privo di assunti dogmatici, agentività umana e divina finiscono per articolarsi a vicenda, portando a continue rinegoziazioni e riscritture della tradizione intorno a specifiche potenze divine. La visione che si ha di una divinità, il prestigio che le si riconosce per la capacità che ha di rispondere alle attese dei mortali si danno quale funzione diretta dei mutamenti del paesaggio religioso e sociale in cui è inserita: in questo spazio fluido e cangiante è naturale che alcuni aspetti della divinità passino in primo piano rispetto ad altri e che i suoi stessi attributi vengano investiti di significati diversi. Il profilo di una potenza non può essere compreso, volta per volta, che in rapporto alle altre figure che si trovano a insistere sullo stesso spazio sacro. All’ingresso di nuovi attori nella danza, al manifestarsi di nuove istanze religiose o politiche, anche la relazione tra le diverse potenze si trasforma plasticamente. Questo processo segue, senz’altro, le linee di una grammatica condivisa che trova nella forza del nomos i suoi principi cardine, senza escludere tuttavia ripensamenti o repentini passi indietro. Memorie del passato, episodi di invenzione della tradizione, scelte emergenziali – individuali o collettive – e, nel caso del culto di Nemesis, rivoluzioni valoriali partecipano a vario titolo a tali dinamiche, anche se non sempre la documentazione in nostro possesso consente di individuare con precisione i singoli apporti, gli aspetti di continuità o le eventuali cesure. I differenti contesti in cui Nemesis si trova ad essere onorata, a livello demotico, distrettuale, poleico, regionale, sovraregionale non costituiscono, come già osservato nelle prime pagine, compartimenti stagni separati, ma vasi comunicanti in cui forme di devozione locale reintepretano tradizioni mitiche e rappresentazioni note a livello panellenico restituendo, poi, sull’orizzonte internazionale, l’immagine di una divinità che è il frutto di un bricolage di sapere condiviso e memorie territoriali, in un processo di contaminazione reciproca. Se il politeismo è un oggetto di studio da esaminare storicamente, al tempo stesso, però, lo studio delle dinamiche che coinvolgono le configurazioni divine su un determinato territorio costituisce, a sua volta, una via d’accesso privilegiata alla comprensione di particolari contingenze storiche. L’indagine sulla figura di Nemesis, sull’emozione che essa governa, sulle pratiche cultuali che le erano riservate in Attica, ha richiesto, necessariamente, una serie di approcci diversi e la messa a punto di strategie interpretative adeguate ai diversi piani dell’esperienza greca esaminati. Il ritratto che ne viene fuori è certo quello composito
8 Cfr. supra p. 46 e ss.
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di una forza che, abitata dall’indignazione, presiede all’avvicendarsi delle sorti umane e al rispetto di un limite, ma in un modo che ben poco o nulla ha a che fare con le forme della provvidenza o della temperanza cristiane, semplicemente perché il sistema di nozioni che risponde a tale potenza è tutto interno all’orizzonte culturale dei Greci e alla maniera in cui essi concepivano il processo di creazione del cosmo, le relazioni tra i mortali e l’incidenza del divino sull’esistenza umana. Molto resta ancora da esplorare e di certo altri risultati potrebbero aggiungersi a quelli già raggiunti, se solo si indagassero, nel dettaglio, i singoli microcontesti in cui la dea era onorata e ai quali si è potuto fare cenno in questa sede, soltanto in maniera rapsodica. Soprattutto resta da comprendere come l’agire riconosciuto a questa divinità, il suo sovraintendere all’alternarsi delle fortune umane, abbia poi fornito agli storici antichi – e non solo ad essi – un efficace dispositivo storiografico per spiegare il succedersi degli eventi, e ancora come essi rappresentassero il rapporto tra il piano delle pulsioni umane e l’attesa e la riconoscibilità di un intervento divino e, in definitiva, quale relazione stabilissero tra scrittura storica e ordine del cosmo. Questioni troppo ampie e forse ancora troppo vagamente formulate perché possano trovare una risposta nello spazio di poche pagine. Nel rispetto del limite che è caro a Nemesis, allora, e anche per evitare di incorrere nella nemesis di chi queste pagine si troverà a leggere, sarà meglio terminare qua.
Elenco delle illustrazioni Fig. 1 Fig. 2 Fig. 3 Fig. 4 Fig. 5 Fig. 6 Fig. 7 Fig. 8 Fig. 9
Albrecht Dürer, Nemesis o Grande Fortuna, Staatliche Kunsthalle Karlsruhe (1501–2). Wikimedia Commons. Mappa dei demi dell’Attica, Wikimedia Commons: https://it.wikipedia.org/wiki/ Demo_(antica_Grecia)#/media/File:Greece_(ancient)_Attica_Demos_II-it.svg Pianta del sito di Ramnunte (da Petrakos 1999a, 16, Eik. 7-leggermente modificata). Pianta del sito del santuario di Nemesis a Ramnunte da Petrakos 1999a, 191, Eik. 105. Ricostruzione della statua di Nemesis a Ramnunte (da Erhardt 1997, 31, Abb. 1). Ricostruzione della base della statua di Nemesis (da Petrakos 1986, 106 pl. 112:3). Statua di Themis (fine IV sec.). National Archaeological Museum, Athens. Inv. Nr. NAM Γ 231 © Hellenic Ministry of Culture and Sports / Hellenic Organization of Cultural Resources Development. Statua della sacerdotessa Aristonoe con base iscritta (III sec. a. C.). National Archaeological Museum, Athens. Inv. Nr. NAM Γ 232 © Hellenic Ministry of Culture and Sports / Hellenic Organization of Cultural Resources Development. Disegno dell’iscrizione IG II2 3242 sull’epistilio orientale del tempio di Nemesis a Ramnunte – 45/46 d. C. (da Petrakos 1999b, 124).
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Indice dei nomi L’indice dei nomi è selettivo. In esso compaiono personaggi antichi, eroi e potenze divine, esclusi quelli di uso più frequente come Nemesis, Themis e Zeus, di cui però sono stati registrati eventuali attributi onomastici. I nomi di autori moderni sono presenti se chiamati in causa, nell’ambito di una riflessione critica nel corpo del testo. I numeri tra parentesi si riferiscono alle note a piè pagina.
1. Personaggi antichi, eroi e potenze divine Abari 108 Achille 55; 59–61; 63–65; 80; 84–88; 91; 94; 111; 116; 135–136; 196; 204; 266; 269 Ade 89 (20); 90; 115; 158 Adrasto (sovrano della Troade) 148–149 Adrasto argivo 149–153 Adrasto frigio 129–131 Afrodite 18; 23; 27–29; 47; 59; 62; 66–67; 84; 93; 97–98; 106 (65); 142 (12); 183; 186 (64); 194–195; 205; 208 (152); 217–218 en kepois 182 Hegemone 177; 215; 217–218; 258 Ourania 154–155 Agamennone 36; 54–55; 62; 77; 84; 196; 199 Agdistis 177; 259 Aglauro/Agraulo 216; Agoracrito di Paro 182–183; 188; 208 Aiace Telamonio 165 Aidos 18; 45; 96–109; 116; 270 Aiolon (figlio di Antipatro) 260 Albiera degli Albizi 19; 20 (19) Alcamene 182–183 Alcibiade 231 Alcimedonte (egineta) 109
Alcinoo 71 Alessandro (figlio di Cratero) 245 Alessandro Magno 175; 210 (165); 212 Amasi d’Egitto 137 Ananke 150 (34); 207 (142) Anfiarao 177; 209–210; 273 Annia Regilla 154–156 Antalcida 173 Antigone 73–74; 117–118; 147; 153 (45) Antigono Dosone 243 (310) Antigono Gonata 176–177; 187; 218; 242– 253; 255–256; 263; 273 Antigono Monoftalmo 176; 245; Antinoo (eroe omerico) 56–57; 83; Antinoo 262 (413) Antioco 246 Antioco III 244 (313) Antipatro (macedone) 175 Antipatro di Flia 260 Antonio 266 Apollo 60; 64; 68; 84–91; 95; 107–108; 110; 117; 122; 131–132; 135; 142; 159; 195 (95) Aktaios 148 Lykeios 228
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Indice dei nomi
Arato di Sicione 257 Archegeta eroe 214 (182); 215; 217 Areo I 176 Ares 83–84; 91–93; 214–216; 261 (409) Aristomaco 177; 209–210 (161); 273 Aristonoe (sacerdotessa) 235–237 Artabano 137 Artemide 25; 28–31; 84; 141 (6); 148; 156; 160; 186 (64); 228 Boulaia 264 Cibele 31 Ecaergos 159 Loxias 159 Munichia 214 Oupis 159 Ascalafo 91–92 Aspasia 185 Ate 24; 36; 100 Atena 47; 56; 57; 59; 71; 84; 88; 91–92; 108; 156–160; 202; 209; 245; 248; 264; 266 Areia 214–216; 218 Pallenis 184; 195 (99) Polias 218 Soteira 177; 219–220; 257–259; 273 Atys 129–131; 137 Auxo 216 Bendis 146 Bia 207 (142) Biante di Priene 125 Brenno 248 Briseide 84 Busiride 79 Cadmo 117 Callisto (sacerdotessa) 232–235 Candaule 124–125 Capaneo 117; 151 Cariti 215–216 Cassandro 176; 245–246 Cecrope 216 (194) Chairestrato (scultore) 234 Chaos 97; 101 Cimone 185 Cirno (figlio di Polipao) 75 (90) Ciro persiano 123; 131–132; 134–135 Claudio (imperatore romano) 178; 261; 264 Cleobi e Bitone 126–127; 130
Cleomene (re di Sparta) 170 Clitemestra 68; 77–79; 197 (102); 199 Core 207 (147); 214; 225 (237); 240–241 Cremonide 176; 245 (315); 247 Creonte 153 (45) Creso 108; 122–138; 147; 151; 205; 270 Crono 90; 98–99; 114; 145 (17) Demade 175 Demarato (re di Sparta) 171 Demetra 156; 159; 184 (57); 207 (147); 214; 225 (237); 240–241; 264 Demetrio del Falero 38; 175–176 Demetrio II 176; 256–257 Demetrio Poliorcete 176; 245–251 Kataibates 245–246 Demos 215 Demostrato di Pallene (figlio di Dionisio) 260–261 Dicearco di Tria 253; 256–257 Dike 18; 23; 25; 36; 63; 105; 109; 115; 118; 125; 139–143; 203 Diomede 88 Dionisio di Clazomene 256 (385) Dioniso 142 (12); 154; 156 (62); 160; 177; 209; 214; 250; 256 Dioscuri vd. Tindaridi Eaco 110 Ebe 68 Edipo 71–73; 117 Efesto 84; 88; 93 (37); 209 (154) Egialeo (figlio di Adrasto) 151 Egisto 77–79 Eirene 105; 115; 126; 203 Elena 17–19; 28; 35; 59–69; 65–69; 71; 93; 97; 106; 111–118; 124; 156; 185; 193; 196–201; 204–205; 212; 266–267; 270–271; 273 Eleno 84 Eleonora di Aragona 19 Eleos 195 (92) Elettra 77–78 Elpinico (ramnusio) 242–243; 248; 253 Emone 153 (45) Enea 266–267 Enoe/Oinoe 196; 198–199; 208 Epicare (ipparco) 235–236; 247; 254–255; 257 Epicrate 175; 186; 212; 242 Epoco 196; 198; 208; 212
Personaggi antichi, eroi e potenze divine
Era 60 (29); 68; 83–84; 87–94; 115; 126; 150; 155 (56); 195 (99); 204; 212; 264–265 Henioche 89 (18) Hippia 89 (18) Eracle 79; 194–195; 210; 216 Erakleitos di Atmone 248 Erebo 97–98 Eretteo/Erittonio 158; 208–209; 216 Erinni 56–58; 98; 159 Eris 97 (8); 100; 195 (99); 205 Ermes 63–64; 84; 94; 210; 240 Ermione 196; 198–200 Erode Attico 154–160; 178; 220 (217) Eros 37; 45; 270 Esperidi 99; 194–195 Estia 216; 264 Eteocle 72–73; 80; 117 Etiopi 17; 100; 181; 187; 191–195 Etra 198 Ettore 59–60; 63–64; 85–89; 91; 94 Eumeo 83 Eunomia 105 (61); 115; 203 Euriclea 65; 69–70 Euridice (figlia di Adrasto) 150 Evadne 151 Fanocrito (stratego) 220 Febbre (dea) 19–20 Femio 58; 70 Fenice 61; 136 (51) Fidia 17; 181–182; 185; 196 Filippo II 174 Filocede (stratego) 257 Filottete 84 Focione 175 Fortuna vd. Tyche Gaia 36; 98–99; 155; 202–203 Gelos 44–45 Giasone 153 (141) Giganti 99 Gige 124–125; 130; 133 Giove vd. Zeus Glauco (figlio di Epicide) 133–134 Glauco (licio) 80 (99); Glauco (padre di Leda) 29 Hegemone 215–217 Heimarmene 29; 35; 106 (65) Heimarmene (pittore di) 35; 106 (65)
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Helios/Sole 93 (37); 142 (8); 194 (88) Hierokles (figlio di Hieron ramnusio) 236 Hierokles (figlio Hieropoios, ramnusio) 235–236 Hippeus 196 Horai 40; 105 (61); 115; 203; Horkos 100 Hypnos 45; 97; 99 Icario 45; 57–58 Idomeneo 165 Ierone di Siracusa 135 Ifigenia 77–78 Iperborei 106–109; 135; 159; 194 (88) Ipernoti 108 Ippoclea tessalo 109 Iris 63 (47); 65; 90 Ismene 73 Kallippos (stratego) 237 Kerai 97; 99; Kleiokrateia (figlia di Polieucte) 240 Kourotrophos 210 (161); 218 Lacare 176; 246 Laerte 69–70 Laodice (figlia di Priamo) 65 Laodice (moglie di Antioco III) 244 (313) Laomedonte 85 Latona 84 Leda 28; 113; 116; 185; 193; 196–200 Leode (eroe omerico) 56 (12) Leucippe 29 Licida 62 (44) Licurgo ateniese 46 (139); 175; 212; 220–221 Licurgo spartano 45 Limos 45; 97 (8); 100 Livia 178; 259–267 Euergetis 264 Pronoia 264 Madre Frigia 177 Makron (pittore di) 67 (63) Marcello di Side 154 Mardonio 62 Marte Ultore 261 Medusa 108 Megacle (ramnusio) 231–234 Meleagro 61 Melisseo 145 (17) Memmio Gaio (politico romano) 156
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Indice dei nomi
Menandro (trierarca) 219 Menelao 57; 65–66; 117; 196–197; 199 Menezio 61 (34) Mentes 56–57; 83 Mentore 57 (18) Merope 149–150; 153 Metis 114–115; 202–204; 270 Micione 175 Milziade il Giovane 15; 185 Moira/e 69; 97; 99 (23); 105; 115; 158; 203; 205 Momos 100 Munichio 242 Murichide 62 Nausicaa 65; 69; 71 Neanias 208; 210 Nemesis Adrasteia vd. Adrasteia Dikaia 142 (12) Dikes angelos 118; 139 Epekoos 154 Hyperdikos 106–11; 139 Rhamousia/Rhamnusia 156; 178; 188 (60); 265 Rhamnusia Oupis 154–161 Ourania 154–161 Neottolemo–Pirro 84; 198; 266 Nereo 62; 114–115; 203 Nestore 60; 88; Nicia 201; 231 Nicomaco (stratego) 217–218; 258 Nike 17; 33; 37; 181; 188; 190; 201; 207; 211; 248 Nikokrates (ramnusio) 237 Notte 17–18; 20; 23; 31; 33; 96–101; 106; 109; 114; 116; 156; 203; 270 Oceano 17–18; 20; 33; 36; 108; 112; 114; 116; 155; 181; 191–195; 203–204; 211; 270 Odisseo 45; 54–59; 61; 65; 69–71; 74–75; 83–85 Oizys 100 Okeanos vd. Oceano Ore vd. Horai Ottaviano (Gaio Giulio Cesare, Augusto) 264–266 Ouranos vd. Urano Pan 214; 241 (307) Pandora 97–98; 102–103
Pandroso 216 (194); 218 Paride 35; 55; 59–68; 77; 80; 93; 106 (65); 117; 205; 267; 269 Patroclo (eroe) 60–62; 86; 92 (31) Patroclo (navarco) 254 Peitho 106 (65); 203 Peleo 61 (34); 114 (92); 115–116; 195; 203; 205 Penelope 45; 56 (12); 58; 65; 69–73; 81 Periandro 122 Pericle il giovane 185 Pericle 113; 173; 185–186; 272 Perse 96; 101–106 Perseo (eroe) 108 Perseo (macedone) 210 (165) Pheidostrate (sacerdotessa) 233–235 Philodoros (dedicante) 234 Philotes 97 Phobos 44; 270 Pittaco 122; 125 Policrate di Samo 137 Polideuce 178 Polieucte 238–240 Polinice 72; 117; 151 Poseidone 84–91; 95; 110; 115; 184; 202; 209 Hippios 89 (18) Priamo 59; 63–65; 85; 94; 266 Prometeo 98–99; 101–102 144–145; 203; 241 Proteo 114–115 Rea 90 (24); 145 (17) Sarpedonte 45; 80 (99); 92 (31) Seleuco 176; 246–247 Serse 137; 172 Solone 122–138 Sopolis (xenagos) 257 (385) Sostrato (ramnusio) 232–234 Spudia 238–240 Tartaro 98–99; 101; 114 Teagene di Megara 75 (90) Telchini 114 Telemaco 54–64; 70; 72–73; 80; 83; 269 Tello di Atene 125–127; 130 Tersite 53–55; 58; 80; 118 Teseo 73–74; 151; 197–198; 215 Tethys 204 Teti 63 (47); 84–86; 90; 114–116; 195; 202–205 Thallo 216
Autori moderni
Thanatos 44–45; 97; 99 Theophanes (figlio di Hierophontes, ramnusio) 210 (162) Tifeo/Tifone 99 Tindareo 193; 196–201; 266 Tindaridi 112; 198; 201 Titani 98–99; 160 (70); 203 Tolemeo II Filadelfo 176–177; 245 (316); 247; 254 Torace tessalo 107; 109 Tyche/Fortuna 20–22; 24–25; 29; 41; 271
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Urano 36; 97–98; 155; 202 Venere/Venus 25; 183; 267 Vesta 266 Xanto 84 Zenone di Antiochia (sacerdote) 259 Zeus/Giove Eleutherios 219 (212) Herkeios 228 Soter 177; 219–220; 257–259; 273 Xeinios 83–84; 89
B. Autori moderni Adkins, A. W. H. 43 Alciato, A. 21–22 Asimov, I. 16 Bedford, F. 34 Benedict, R. 42–43 Bonaventura di Bagnoregio San 19 Brooner, O. 260 Bubelis, W. 252 Burkert, W. 39 Cartari, V. 22 (27) Cairns, D. 43–44 Chaniotis, A. 97 Clark, A. 40 Coman, J. 30–31; 73 (85) Daremberg, Ch. / Saglio, Ed. / Pottier, Ed. 34 Detienne, M. 46–47; 86; 100 (24); 102; 115 (97; 100); 136 Deubner, L. 36 Diderot, D. / Le Rond d’Alembert, J.–B. 32; 34 Dinsmoor, W. B. 260 Dodds, E. R. 41–43 Dürer, A. 20; 268 Ferguson, W. S. 243; 259 Gandy Deering, J.P. 34; 232 Gauthier, Ph. 244 Gell, W. 34 Haake, M. 186; 245 Habicht, C. 238; 244–251 Hamdorf, F. W. 37
Herder, J. G. 22–25; 27; 34 Herter, H. 34 Jaucourt, L. de 32–33 Jung, M. 186 Konstan, D. 165 Laroche, E. 31 Legrand, A. 31; 34 Miano, D. 36 (87); 40–41 Muccioli 249 Müller K. O. 30 Nilsson, M. P. 37 Ober, J. 174 Oliver, J. H. 260 Parker, R. 16; 32; 46–47; 239; 274 Petrakos V. Chr. 32; 179; 222; 224–225; 228; 232–233; 241–243; 252–253; 255–257; 261 Poliziano, A. 19–20 Posnansky, H. 28–31; 34 Pötscher, W. 36–37 Ripa, C. 22 Rohde, E. 25; 30–31 Roscher W. 33; 35 Roth, Ph. 16 Rudhardt, J. 40 Rüpke, J. 258 Shapiro, H. A. 37 Smith, A. C. 37 Smith D. 249 Snell, B. 42 Sourvinou–Inwood, Chr. 49 Stafford, E. 37–38; 263
314 Stephens, B. 268 Tarn, W. W. 243 Tournier, Éd. 26–27 Usener, H. 36 Valeriano, P. 22 (26) Vernant, J.–P. 39; 46–47; 97; 270
Indice dei nomi
Walz, E. C. 24–25; 27 Welcker, F. G. 24–25; 28–29 Wilhelm, A. 231–233 Williams, B. 42–43 Winckelmann, J. J. 22–24 Zoëga, G. 24
Indice delle fonti In questo indice sono riportate le fonti antiche citate testualmente, parafrasate o oggetto di analisi specifica. Fonti letterarie Aelius Aristides Or. 16.38: 136 (50) Aeschylus Prom. 808–809: 194 (88) 932–940: 145 936: 31; 145 937: 145 Sept. 235: 73 (84); 166 (19) 235–239: 73 TrGF 3 Fr. 132c: 62 (40) Fr. 264: 63 (46) Fr. 266: 31; 166 (19) Alciphron 4.6, 5: 145 (18); 153 (44) Ammianus Marcellinus Rerum Gestarum Libri, 14.11, 25: 151 Anthologia graeca 7.630: 147 (25) 16.222: 182
Aristoteles Ath. Pol. 42: 175 (21; 22); 213 (174); 214 (180) 54: 210 (160); 222 (223) E.E. 3.1233b: 18 (13), 162 (1) E.N. 2.1108b: 22 (30); 163 (4) 5.1, 1130a 166 (22) 1131a–b: 166 (23; 24); 167 (25; 26) 1133a: 168 (30) 1134: 168 (32); Pol. 1.9, 1257a–b: 167 (29) 6.2, 1317b: 167 (27); Rhet. 2.6 1383b: 163 (5) 1384a–b: 163 (6; 7; 8) 2.9, 1386b: 18 (13); 162 (3), 164 (10) 1387a: 164 (11; 12; 13); 165 Athenaeus 8.10, 334: 17 (10); 65 (51); 97 (8); 112 Bacchylides Ep. 3. 22–60: 135 (49); 108; 135
Apollodorus Bibl. 3.10, 7: 65 (51); 113
Callimachus Hymn. 1.46: 145 (17) 3. 232: 156 (63) 6. 56: 118 (116)
Apollonius Rhodius Arg. 4.478: 153 (478)
Cicero Or. 25.85: 38 (103)
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Indice delle fonti
Clemens Alexandrinus Protr. 2.17–18: 160 (70) Demetrius Eloc. 265: 38 (102) Demosthenes 18.38: 174 (17) 27.11: 227–228 (239); 239 (292) 41.11: 31 (65); 238 (286) 59. 94: 221 (219) Eratosthenes Cat. 25: 113; 184–185 Etymologicum Magnum s. v. Oupis: 159 Euripides Or. 1369: 68 (66) Phoen. 182–185: 118 TrGF 5.2 Fr. 1113a: 121 Gregorius Paroemiographus s. v. eis ton kolpon ptyein: 164 (46) Hymni Orphici 61: 18 (61); 140-142 62: 142 Harpocratio s. v. Adrasteia: 147 (26); 149 s. v. Nemeseia: 238 (287) Herodotus 1.4: 66 (53); 124 (14) 1.5: 124 (13; 15) 1.6: 124 (12; 16) 1.7,1: 124 (17) 1.8: 130 (34) 1.11, 5: 124 (19) 1.30: 122 (7); 125–126 1.30–46: 122 e ss. 1.32: 122 (7); 126–127 (30); 128 (33); 137 (54); 138 (58) 1.34,1: 128; 135 (48); 136 (52) 147 (25)
1.36–43: 1.86: 123 (10); 131–132 1.87: 123 (10); 132 1.90–92: 132 (40) 1.131: 168 (33) 3.40, 2: 138 (58) 4.32: 107 (73); 108 (74) 4.142: 150 (32) 5.74: 170 (6; 7) 5.7: 171 (8) 6.86 (γ), 2: 133 (41) 6.100–101: 172 (9) 7.10: 121 (4); 137 (57) 8.109, 3: 138 (59) Hesiodus Op. 16–25: 100 (28) 35–36: 102 (36) 38–39: 102 (35) 108: 103 (39) 122: 103 (40) 168–170: 103 (41) 174–178: 103 (43) 177: 100 (30) 179: 134 (45); 103 (44) 180–201: 18 (12); 22 (30); 101 e ss. 174–194: 104 (98) 192: 104 (47) 197–201: 104 (49); 106 (67) 202–211: 105 (59) 225–230: 117 (112) 228: 105 (54) 235: 105 (55); 126 (23) 238: 105 (57; 58) 256–262: 105 (62) 285: 134 (43) 303: 96 (3) 741: 96 (2) 755–756: 96 (3) Theog. 123–124: 98 (11) 211–226: 18 (12); 22 (28); 96 e ss. 170–210: 98 (13) 176: 98 (15) 179: 103 (44) 213: 98 (14) 223: 25 (39); 107 (68)
Fonti letterarie
226–232: 100 (27) 346–347: 203 (132) 480: 98 (15) 585: 98 (17) 886–900: 202 (126)
Homerus Il. 1.423: 100 (29) 2.216: 53 (4) 2.220–278: 53–55 2.222–223: 54 (6) 2.257–264: 54 2.265–270: 54 (7) 2.272–274: 54 (8) 2.546–551: 209 (154) 3.141: 65 (52) 3.156–160: 65–66 3.390–410: 93 (37) 3.410–412: 66 3.419: 66 (55) 3.427: 67 (64) 4.501–507: 85 5.757: 92 (32) 5.764–766: 92 (33) 5.872: 92 (34) 5.889–890: 92 (35) 6.335–336: 59 (25; 26) 6.350–351: 59 (28) 8.185–199: 88 9.524: 61 (39) 13.16: 90 (22) 13.95–124: 87 13.353: 90 (22) 14.231: 45 (135) 14.330–340: 93 (36) 15.100–104: 91 15.138–141: 92 (30) 15.174–177: 90 (23) 15. 185–196: 90 (24) 15.211: 90 (25) 15.218–235: 91 (26) 15.224–225: 90 (22) 16.7–22: 61 (34) 16.702–711: 86 (11) 20.79: 86 (11) 24.50–54: 86 (13) 24.460–464: 94
317
Od. 1.113–124: 56 (9) 1.158: 57 (13) 1.228–229: 57 (14) 1.350: 58 (21); 70 (72); 72 (83) 1.429–433: 70 (73) 2.96–103: 69 2.130–140: 57–58 2.138–139: 58 (20) 6.20–40: 71 (77) 6.285–288: 71 (79) 7.299–301: 71 (80) 8.266–366: 93 (37) 14.283–284: 83 (5) 15.67–71: 57(15) 15.125: 59 (24) 17.481–487: 56 (10) 21.147: 56 (12) 21. 169: 56 (12) 22.35–41: 74 23.107: 70 (75) 23.213: 69 (70) 23.217–221: 59 (23); 70 (71) 24.53: 64 (50). Hymn. Poseid. 5: 87 (14) Kypria (West) Arg. 1.1–7: 115 (103) Fr. 1: 116 (106) Fr. 10: 17 (10); 112 Libanius Progymnasmata 2.10: 151 Menander (Kock) Fr. 321, 1–2: 91 (28) Mesomedes Hymn. 3: 18 (15); 23; 140 e ss. Pausanias 1.25: 176 (32); 246 (327) 1.33: 17 (7; 8); 20 (21); 114 (90); 155 (60); 180–181; 191; 192–193; 196 3.18, 1: 45 (133; 136) 7.5.3: 17 (9); 168 (33) 8.2, 5: 262 (414) 9.35, 2: 216 (197)
318
Indice delle fonti
Philocorus FGrHist 328 F 105: 216 (192; 194) Pindarus Ol. 8.: 109 e ss. Pyth. 10: 26 (42); 106 e ss.; 135 (49); 139 (1) Plato Gorg. 463 b: 146 (22); Leg. 4.717c–d: 118 (116); 139 (1); Phaedr. 248 c–d: 145–146; Soph. 231 d–e: 146 (22); Rep. 8.566 d–e: 146 (22) Plinius Nat. hist. 11.251.3–4: 153 (45); 265 (434) 28.22.5–6: 265 (434) 36.17: 18 (16); 27 (44); 182–183 Plutarchus Aem. 27, 2–6: 210 (165); Cleom. 9.1: 44 Proclus Chrest. 1.80–85: 204 (136); 115 (103) Scholia Dem. 19.303: 216 (194) 19. 474: 209 (156) Scholia Hes. Op. 180: 103 (45) Op. 182a: 103 (46) Scholia Hom. Il. D 1.5: 115 (103); 116 (106); 203 (129)
Sophocles Ant. 653: 153 (45) 1232: 153 (45) El. 791–794: 77–78 1466–69: 78; Oed. Col. 1697: 74 (87) 1751–53: 74 (86); 1780: 74 Phil. 518: 84 (7) 602: 84 (8); 166 (19) Stobaeus, Joannes 3.22, 5: 121 Strabo 1.2, 27: 194 (88) 13.1, 13: 147–148 Suda s. v. Rhamnousia Nemesis: 208 (152) Theognis 279–282: 76 657–666: 119–120 1179–1182: 120–121 Tyrtaeus (West) Fr. 10: 46 (139) Tzetzes, Joannes Schol. Hes. Op. I 279–282: 38 Vergilius Aen. 2. 486–620: 266 (439)
Scholia Lycophr. Alex. 175: 114 (92)
Fonti epigrafiche CGRN 142 152 (40) I. Rhamnous 3 236 (278); 247 (338); 254 – 255
7 177 (36); 187 (68); 218 (206); 240 (297); 242 e ss.; 250 (348); 252 (358) 9 255 (379) 13 256 (385) 15 214 (183); 229 (248)
Fonti epigrafiche
17 253 (366); 256–257 18 257 31 219 (207); 219 (214); 222 (225); 229 (248); 257 (392) 32 202 (122); 217 (201); 258 (396) 41 177 (35) 43 177 (35) 54 229 (247) 57 257 (385) 58 256 (385) 59 177 (39); 214 (183) 74 210 (162) 75 179 (49); 202 (122); 206 (141); 234 (273) 86 15; 173 (12); 179 (49) 88 208 98 175 (23); 208 (148); 211 (167); 213 (177); 242 (308) 100 210 (162) 106 207 (147) 120 202 (122); 229 e ss. 121 202 (122); 232 e ss. 122 232 e ss. 125 234 (273) 133 202 (122); 235 136 214 (182) 145 207 (147) 151 202 (122); 219 (207); 220 (216); 237 (279); 259 (400) 156 178 (42); 259 e ss. 157 178 (41) 159 178 (44) 179 259 (403) 180 227 (243) 181 179 (49); 222 e ss. 182 180 (50); 224 e ss. I. Rhamnous Suppl. 420 241 (304) IG I3 32 223 (230) I3 247 bis 222 (226) I3 248 180 (50); 226 e ss. I3 522 bis 15; 173 (12)
I3 1018 quinquies 202 (122) II2 2493 227 II2 2494 227 II2 3241 264 (424) II2 3242 178 (42); 259 e ss. II2 5070 154 (52); 156 (62) II3 4,1 8 215 (188) II3 4,1 336 211 (167); 241 (301); 242 (308) II3 4,1 513 229-235 II3 4,2 1419 232 (261) II3 4,3 1782 178 (45) II3 4,3 1889 154 (52); 156 (62) II3 4,3 1997 264 (423) X 2, 1 62 142 (10) XII 4,1 318 152 (39; 41) XII 4,1 325 152 (40) IGUR I 182 141 (6) III 1155 156 e ss. ISE 29 219 (214) LSGC 160 152 (39) 161 152 (40) Rhodes / Osborne, GHI 88 191 (215) SEG 17.83 240 (294) 22.152 264 (425) 25.149 246 (322) 31.162 211 (167) 33.645 152 (38) 38.13 222 (225) 40.178 229 (251) 41.75 242 e ss. 41.1003 244 (313) 42.115 242 e ss. 45.101 251 (354) 48.125 241 (304)
319
La nemesis, espressione presso i Greci della censura sociale, e Nemesis potenza divina omonima, il cui santuario di maggior prestigio è collocato a Ramnunte in Attica, sono esplorate in questo volume in cui storia delle emozioni, storia culturale, sociale e religiosa si intersecano. Prendendo le mosse dalla ricezione della figura divina, l’analisi si concentra sulle forme della nemesis attribuite a mortali e immortali, per passare poi a ricostruire il profilo della divinità, quale emerge dalle tradizioni sulla sua genealogia, dalla sua vicenda mitica e dagli attributi onomastici con
ISBN 978-3-515-13492-7
9 783515 134927
cui i Greci la invocavano. Infine, la ricerca si focalizza sulle pratiche cultuali e punta lo sguardo sul contesto documentario di Ramnunte che consente di ricostruire il paesaggio religioso in cui Nemesis era inserita. Indagando la relazione tra una pulsione emotiva e il teonimo corrispondente, il volume affronta la complessa questione dei culti riservati a concetti astratti, virtù o moti dell’animo, per esplorarne le dinamiche di funzionamento da una prospettiva storica, sul filo della tensione tra rappresentazioni note a livello “panellenico” e prassi religiose locali.
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