Marco. Vangelo di una notte vangelo per la vita. Commentario Marco 1,1-6,13 [1] 9788810206591

"Comprendiamo a che cosa serviva questo testo nella comunità o nelle comunità che l'hanno visto nascere? Possi

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Italian Pages 352/343 [343] Year 2011

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Marco. Vangelo di una notte vangelo per la vita. Commentario Marco 1,1-6,13 [1]
 9788810206591

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BENOIT

STANDAERT

a�co Vangelo di uno notte vangelo per lo vito

Commentario Mc 1,1-6,13

l

Titolo originale: Évangile selon Mare. Commentaire, Première partie, Mare 1,1 à 6,13 Traduzione dal francese: Romeo Fabbri

L'edizione francese è pubblicata da J. Gabalda et C•, Éditeurs, Pendé (France)

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

c

2011 Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna www.dehoniane.it

EDB®

ISBN 978-88-10-20659-1 Stampa:

ltaliatipolitografia, Ferrara 2011

PREFAZIONE

Questo commentario è nato i l giorno i n cui il p . Pierre Benoit, op, m i trasse in disparte, trent'anni fa, e mi propose di scrivere un nuovo commentario sul Vangelo di Marco, dopo quello del p. Lagrange, rinnovando così la raccolta dei commentari nella collana degli Studi biblici. Per oltre dieci anni ho scritto ogni mattina alcune note sotto il testo greco di Marco. Poi, quindici anni dopo, ho potuto ottenere dal mio padre abate, dom René Fobe, un anno libero da ogni altro impegno, permet­ tendomi così di riprendere quelle note e realizzare quella generosa offerta dell'allo­ ra direttore degli Studi biblici. Il suo successore, p. Francolino Gonçalves, op, mi ha sempre sostenuto in questo progetto ed è grazie ai suoi incoraggiamenti e preziosi consigli che il volume vede finalmente la luce.1

L'unità di composizione

Il Vangelo di Marco incuriosisce. Questo racconto più antico su Gesù che ci ha conservato la tradizione stupisce per la sua densità, sorprende per la sua conci­ sione - dove sono i discorsi del profeta di Nazaret? -, affascina per l'intensità della sua scrittura. Questi sedici capitoli, che una lettura integrale a voce alta percorre in meno di due ore, ci introducono in una storia fortemente drammatizzata. La sto­ ria è raccontata a persone che ne conoscono l'esito, ma gli avvenimenti dell'origi­ ne si fanno vivere loro come se la cosa li riguardasse direttàmente. Con le persone coinvolte nella storia raccontata, esse si rifanno le stesse domande lancinanti: «Chi è quest'uomo? Che cos'è questo insegnamento dispensato con tanta autorità? Da dove gli viene questa sapienza nelle sue parole e questa potenza nelle sue azi�ni?». La domanda più intrigante che sottende questo racconto non è più tanto quel­ la delle sue fonti e neppure quella della sua provenienza, del suo autore o della sua datazione. E non è neppure quella di sapere se tutto ciò che viene riferito sia il film

1 La mia gratitudine va anche, in particolare, a quattro penone che mi hanno aiutato a finalizzare l'intero progetto: M. Ewout François, per la parte tecnica della preparazione del manoscritto; il p. Luc Lefief, pb, la sig.ra Hugonne De Man e soprattutto suor Marie-Pasca! delle clarisse di Paray-le-Monial, per la sua tessitura. La loro pazienza e la loro dedizione mi hanno offerto un sostegno incomparabile nel corso degli ultimi mesi. Prefazi

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strettamente fedele di ciò che è avvenuto allora. Su questo genere di domande ol­ tre un secolo di critica dotta ci ha condotto a un certo consenso, con margini entro i quali si pensa di poter collocare l'autore, i suoi eventuali destinatari, il suo valore storico. Questo accordo - sempre relativo - non è mai disgiunto dall'accettazione dei limiti propri di ogni conoscenza storica: non si saprà mai tutto con tutta la pre­ cisione desiderata; resteranno sempre dei brancolamenti, fino alla parusia. Saper scendere a patti con questi margini di incertezza e anche di ignoranza fa parte di una certa maturità nella vita e nella fede. Mi sembra che la grande domanda oggi si trovi altrove. Comprendiamo a che cosa serviva questo testo nella o nelle comunità che l'hanno visto nascere? Possia­ mo determinare il modo in cui questo testo giocava esattamente e funzionava nei ri­ guardi dei primi ascoltatori? L'analisi della composizione, fatta trent'anni fa,2 mi ha convinto che il testo regge al tempo stesso come discorso e come dramma. Ha tutti gli elementi dell'uno e dell'altro, cosa piuttosto conforme a certe pratiche letterarie dell'epoca, dove i generi si mescolavano: storia, dramma e discorso si compenetra­ vano sempre più. E una conseguenza di questa compenetrazione è la grande coe­ sione di un testo a tutti i livelli. Perciò, se sul piano letterario il testo contiene tutti i segni distintivi che ne fan­ no un discorso convenzionale e un'azione drammatica unificata, allora si impone almeno una conclusione: Marco, nel suo progetto iniziale, richiede di essere procla­ mato in una sola volta. Come non si immagina un discorso di Cicerone o un'opera drammatica di Seneca letti in due o tre sere diverse ma tutti d'un fiato, così dob­ biamo concludere che la lettura del Vangelo di Marco richiedeva originariamente un'unica circostanza nella quale poter ascoltare l'insieme del testo in una sola volta.

La circostanza: una doppia ipotesi di lavoro

Acquisito questo dato, ora bisogna riflettere sulla circostanza adeguata a una tale lettura. Tanti dettagli del testo si chiariscono a partire dal contesto per il quale è stato concepito all'inizio. Se si suppone che il testo venga letto di notte, in occa­ sione di una veglia, ogni suo riferimento alla notte avrà immediatamente un effetto speculare per coloro che lo ascoltano. Se il testo è letto nella notte fra il sabato sera e la domenica mattina, l'effetto sull'uditorio sarà doppio ogni volta che nel racconto si evocherà quella notte. È, in realtà, ciò che avviene fin dal primo capitolo, in oc­ casione della prima domenica raccontata, in Mc 1,32 («Venuta la sera [del sabato], dopo il tramonto del sole»; v. 35: «Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si recò in un luogo deserto, e là pregava . . . >>), e ciò che avverrà all'altro capo del racconto, in occasione dell'inizio dell'ultima sequenza, in Mc 16,1-2, dove tutto accade «di buon mattino>>, «il primo giorno della settimana». Inoltre, se la ve­ glia supposta non è semplicemente quella che conduce a una qualsiasi domenica mattina, bensì quella che conduce alla veglia unica della notte pasquale, allora gli effetti speculari sui destinatari saranno ulteriormente rafforzati dal fatto che ogni

2 B. STANDAERT,

L'Évangile seion Mare. Composition et genre littéraire, Nijmegen 1978; Zevenker­

ken 21984 (citato in seguito come Composition). 6

Prefazione

allusione alla tematica pasquale nel testo avrà un impatto diretto sull'assemblea ri­ unita per celebrare e ricordare la Pasqua del Signore. A questo si aggiunge un riferimento supplementare: tradizionalmente la notte pasquale era anche una notte di battesimo, non solo presso i primi cristiani, ma già in modo particolare nella tradizione ebraica a Gerusalemme, come attesta una cele­ bre discussione nella �ishna sul battesimo occasionale dei proseliti, per permettere loro di partecipare al banchetto pasquale. Ecco quindi l'ipotesi di lavoro: Marco è un testo letto integralmente, in una sola volta, in occasione di una veglia notturna. Questa veglia ha luogo nella notte fra il sabato e la domenica. Il contesto verosimile è piuttosto una festa che una sem­ plice domenica dell'anno. E la festa ebraica che i primi cristiani hanno certamente celebrato ogni anno è proprio la festa pasquale. Quella notte, nella tradizione, si vegliava perlomeno fino a mezzanotte. Si era elaborato tutto un rito familiare, con un grande racconto drammatizzato, per commemorare le pasque o «passaggi sal­ vifici» del Signore. Un antichissimo poema parla di quattro notti in un'unica notte: la notte dell'Esodo, ma anche la prima notte della creazione e quella dell'alleanza con Abramo, e infine la notte escatologica: la grande notte della fine dei tempi. Il Signore è passato, WSignore passerà, sì, chissà, passerà ancora questa stessa notte? Si veglia, si attende il precursore di Elia e, verso mezzanotte, si spera che venga lui, il Messia (cf. Ml 3,1 .23). Secondo noi, Marco sarebbe l'equivalente cristiano di un tale gioco dramma­ tico, nel quale si ricorda il passato come se si fosse presenti e nel quale si attende il compimento delle promesse messianiche nel corso di questa notte di veglia. In que­ sto caso Marco sarebbe una variante della tradizionale haggadah pasquale ebraica. Haggadah significa «racconto». Marco racconta. Ricorda il passato e orienta il let­ tore/uditore verso un'unica grande attesa: il ritorno del Figlio dell'uomo in gloria sulle nubi. Tutti i futuri assoluti nel testo indicano questo avvenimento (cf. 8,38 ; 13,26-27; 1 4,62; cf. anche il «Voi lo vedrete» in 16,7). Perciò in questa notte non si attende più l'eventuale venuta del Messia, ma il suo possibile ritorno. Ci sono un pa­ rallelismo nell'attesa e una correzione riguardo all'esatto contenuto della speranza. Inoltre, l'ipotesi risulta precisata dalla pratica, anch'essa tradizionale nell'am­ biente ebraico, del battesimo. Concretamente, la proclamazione del testo sarebbe il punto d'arrivo di tutto un percorso di iniziazione. Dopo la lettura, ci si recava al fiume o al mare per battezzare i catecumeni e poi ci si ritrovava tutti insieme per il banchet­ to eucaristico, celebrato il mattino presto. In precedenza, i nuovi aderenti avevano ri­ cevuto una catechesi biblica su Gesù, indicato come il profeta escatologico, il Messia, . il Figlio di Dio, l'ultimo inviato da Dio nella storia. Dopo aver ascoltato con tutta la comunità gli avvenimenti fondatori, i nuovi aderenti sono incorporati in essa sia attra­ verso il rito battesimale sia attraverso il rito del banchetto eucaristico. Il doppio gesto era considerato una morte e sepoltura con Cristo per risorgere ed essere glorificati con lui, comunicando insieme alla sua vita donata per la moltitudine.

Il commentario: come leggere bene un testo antico

Il testo è sempre e solo una corda. Bisogna tendere esattamente la corda sull'arpa per poter udire tutta la musica. Marco, con i suoi enigmi risuonati sull'arPrefazi

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pa pasquale e battesimale al tempo stesso, potrà svelare tutto il suo segreto ?

È ciò che speriamo. Questo commentario si basa sulla tesi sostenuta trent'anni fa a Nime­ ga. Ora le conclusioni vengono poste all'inizio, come una chiave musicale in testa a un pentagramma. Rileggiamo tutto Marco prestando attenzione alla sua compo­ sizione, retorica e drammatica al tempo stesso, e verificando, dove viene indicato, l'ipotesi pasquale e battesimale. Questo può certamente ridare vita al testo antico e qua e là molto oscuro. Indirettamente, questo potrà chiarire anche il nostro modo di celebrare la Pasqua di Cristo e di battezzare i catecumeni, ma anche rinnovare la lettura stessa del racconto, come un dramma che ci riguarda in sommo grado. Oggi si registra un significativo spostamento dell'interesse degli esegeti verso il lettore di Marco. A volte questo va di pari passo con una totale mancanza di inte­ resse per il significato del testo colto nel suo contesto originario. Non si tratta forse di una trappola culturale, di tipo narcisistico? Il paradosso non consiste piuttosto nel fatto che l'ascesi dell'ascolto del testo nella sua differenza originale mi aiuterà più di qualsiasi altra cosa nel mio sforzo di appropriazione personale? Più introdu­ co della distanza alla partenza, meglio potrò cogliere il modo in cui riproporre oggi questo testo ricevuto dalla tradizione. Oggi può esservi una certa stanchezza nella ricerca storica che mira a rico­ struire il passato tale e quale, a mostrare «le cose così come devono essere avve­ nute», ma il progetto di Marco, colto nella sua ricchezza liturgica e simbolica, può permetterei, chissà, di ritrovare un rapporto con l'origine diverso da quello che si o�tiene mediante lo sforzo di una fedele ricostruzione del passato. Il suo testo vuole metterei in condizione di assumere pienamente il passato, non attraverso la sem­ plice ripresentazione, ma attraverso una sorprendente partecipazione impegnata. Possa questo commentario aprire tina strada per apprezzare meglio tutta l'origina­ lità del suo lavoro.

In breve

Marco, originario di Gerusalemme, già compagno di Barnaba e di Paolo, scri­ ve a Roma, dopo la catastrofe che ha distrutto la Città santa e profanato il Tempio. È un sopravvissuto che trasmette le tradizioni più antiche su Gesù. Non è personal­ mente un testimone oculare di ciò che racconta, ma è stato in contatto con testimo­ ni oculari di cui riferisce le parole. Simon Pietro è uno dei testimoni chiave del suo racconto. Scrive prima di tutti gli altri: Matteo e Luca, e anche Giovanni, conoscono il suo testo. Marco si serve certamente di fonti, orali e probabilmente anche scritte, ma tutti gli sforzi fatti da quasi due secoli per ricostruirle si sono dimostrati piutto­ sto vani. Il suo testo fino a 16,8 è assai ben conservato e quindi affidabile; oggi non pone grossi problemi di critica testuale. Ciò che segue questo v. 8, ed è attestato solo da certi manoscritti, non è di sua mano. Il suo racconto fortemente dramma­ tizzato deve essere letto d'un fiato: il contesto più indicato è quello di una festa, e la festa del calendario ebraico che vi corrisponde meglio è certamente quella del­ la Pasqua. Perciò l'ipotesi che guiderà la lettura è questa: Marco era letto durante la notte pasquale cristiana, nella notte dal sabato alla domenica. I suoi destinatari erano una comunità mista, a maggioranza pagano-cristiana. Per certi nuovi mem­ bri della comunità questa notte era il punto d'arrivo della loro iniziazione: erano 8

Prefazione

battezzati dopo la lettura integrale del racconto evangelico e partecipavano per la prima volta al banchetto eucaristico. Il testo, molto denso, presuppone tutta una ca­ techesi biblica che permetta di identificare Gesù. Di fatto egli sarà presentato come profeta, l'ultimo dei profeti, il nuovo Mosè, il Cristo o Messia, Figlio dell'uomo e Figlio unico di Dio.

%fazione

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INTRODUZIONE. ALCUNI PRESUPPOSTI PER LA LETTURA

Ogni commentatore suppone che siano chiarite alcune questioni così sempli­ ci e basilari come quelle del suo autore, della datazione, del luogo e dei probabili destinatari del testo, ecc. Riguardo al Vangelo di Marco, tutti continuano ancora a interrogarsi sul suo genere letterario e sulla sua composizione, nonché sulla sua relazione con gli altri testi analoghi, anch'essi chiamati ((vangeli»: quelli di Matteo e di Luca, e anche di Giovanni o di Tommaso. Che dire, d'altra parte, delle fonti di cui si serve? E che pensare oggi della qualità del testo conservato? Prima di passa­ re alla lettura diretta del testo, aggiungeremo ancora un'ultima domanda: qual è la catechesi biblica preparatoria supposta dall'evangelista?

Datazione·

Mentre i commentari di Matteo e di Luca riconoscono unanimemente a questi due testi una data posteriore all'anno 70, l'anno della conquista della città di Geru­ salemme da parte dell'esercito romano, della riduzione in cenere del Tempio, della conduzione a Roma del candelabro d'oro e del velo del santuario per il trionfo del generale Tito, non c'è accordo sulla datazione, prima o dopo quell'avvenimento, del Vangelo di Marco. Molti commentari propongono, senza sbilanciarsi, ((fra il 65 e il 75>>. Ci si basa in genere su Mt 22,7 () e su Le 21 ,20.24 («Quando ve­ drete Gerusalemme circondata da eserciti [ . . . ] Gerusalemme sarà calpestata dai pagani. . .>>) per datare questi due sinottici. Anche in Marco si parla indubbiamen­ te di una città e di un tempio distrutti («Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta», 13,2) e del luogo santo profanato (13,14; cf. 15,38: «> (Kattt MiipKov), distinguendolo da quello «di Matteo», ecc. Questi titoli risalirebbero tutt'al più alla fine del II secolo. All'inizio del II secolo un certo Papia, vescovo di Gerapoli (in Asia Minore, morto verso il 125), ha redatto cinque libri per sostenere la fondatezza degli scritti evangelici (Aoytwv KUpLaKwv È�Ey�crE Lç). Egli ricorre a varie tradizioni orali, che preferisce di gran lunga a tutto ciò che è scritto, per sostenere le sue affermazioni. Eusebio, che ha conosciuto tutto il suo testo, ci dice di sfuggita che non è un genio. Papia persegue uno scopo apologetico: ciò che conta è assicurare la verità storica dei vangeli.' Ora fra le cose difficili che si devono spiegare e giustificare vi sono le nume­ rose differenze verbali fra quelli che noi chiamiamo i tre sinottici (Matteo, Marco e Luca). Papia conosce già un «Marco>> e lo distingue da un , e la sua spiega­ zione è molto semplice: le differenze nelle espressioni dipendono dalla traduzione di ciò che in origine era trasmesso in aramaico {'EppaLÙL ùLaÀ.ÉKt4J). «Ognuno ha tradotto come poteva>>. Riguardo alla differenza nell 'ordine (tliçLç) del riferimento degli episodi, Papia ha un'altra spiegazione, ancora una volta molto semplice. Ri­ guardo a questo punto egli si basa su una tradizione orale che deve al presbitero Giovanni:

1 J. KORZINGER, > nasconde anche altre ricchezze. Nella letteratura antica che ci è pervenuta ricorre raramente: lo si incontra una sola volta in greco, in Luciano (Il sec. d.C.), e due volte giustamente in autori satirici romani: in Giovenale, di poco posteriore a Marco, t\ in Lucilio (II sec. a.C.). Presso i latini Syrophoenix indica un tipo poco raccomandabile, residente nei quartieri malfamati di Roma, trafficante maledetto, associato alle prostitute. Anche in Luciano, unico caso in tutta la letteratura greca che ci è pervenuta, il termine è spregiativo. Un'ese­ geta di Lovanio, Alice Dermience, ha scoperto queste tre occorrenze e ha creduto di poterne dedurre che Marco si è servito del termine per accentuare ulteriormente il carattere impuro della donna in questione: per i lettori romani il termine «siro­ fenicia>> qualificherebbe la donna come prostituta.20 Se il vangelo è stato effettiva­ mente scritto a Roma, questa osservazione è importante. Ed è ancor più importante il fatto che in Siria non si usi mai il termine composto . In Siria si di­ stinguevano tre gruppi: fenici, coelosyrii e syrii; il termine in questione è stato usa­ to solo al di fuori della Siria.21 Questo costituisce un argomento negativo riguardo all'ipotesi siriana o anche galilea e un argomento incontestabilmente a favore della tradizione che colloca a Roma la redazione del secondo vangelo. Come secondo tipo di argomento, c'è la questione delle persecuzioni, ricordate varie volte nel nostro vangelo. Su questo punto seguiamo l'argomentazione di Bas van Iersel.22 In realtà, Marco sottolinea che la vita cristiana va di pari passo con va­ rie prove: chi sceglie di diventare cristiano deve prepararsi a «persecuzioni>>. Il testo parla di «tribolazioni o persecuzioni a causa della Parola>> e si tratta di tener duro, di non «Soccombere>> (Mc 4,17). Anche se si riceve «già ora, in questo tempo, cento voi-

19 Essa non è ebrea né di lingua né di cultura né di provenienza né soprattutto di nascita ('t� yÉVEL ). Cf. G. THEISSEN, Urchrist/iche Wundergeschichten, Gòttingen 1974, 130; PESCH, 388.

20 A. DERMIENCE,

«Tradition et rédaction dans la péricope de la Syrophénicienne: Mare 7,24-30», 15-29 (21-23). 21 Cf. F.M. ABEL, Géographie de la Palestine, 2: Géographie politique, Paris 31967, 136, citato da A. DERMIENCE, La péricope de la Syrophénicienne. Contribution à l'exégèse de Mc 7,24-30 (diss. lic. ) Lou­ vain 1976, 54, n. l; cf. T.A. BuRKILL, in ZNW 57(1966), 23-37 (35). 22 VAN IERSEL, Marcus uitgelegd aan andere lezers, 42-44. ·

in RTL 81(1977),

,

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Introduzione. Alcuni presupposti per la lettura

te tanto», lo si riceverà «insieme a persecuzioni>>, dice Gesil a Pietro e ai discepoli in 10,30 (senza parallelo in Matteo e Luca). Infine, nel grande discorso sugli avvenimen­ ti futuri, a un dato momento la prospettiva si apre su azioni precise e molto dolorose: «Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe e comparirete davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro>> ( 13,9; cf. anche il segui­ to, vv. 10-13 e 8,34-9, 1). Questo linguaggio indica un vissuto non solo futuro, ma già sperimentato dalla comunità dei destinatari. Bas van Iersel ha dimostrato che queste «persecuzioni>> non devono essere confuse con i pogrom o i linciaggi menzionati varie volte dallo storico Giuseppe Flavio. Si tratta di processi formali davanti a tribunali sia giudaici che romani. Ora, prima di Domiziano (93-96) non viene attestato nulla del genere contro il movimento cristiano, tranne a Roma, al tempo di Nerone, nell'anno 64. Coloro i quali ritengono che il Vangelo di Marco sia stato scritto da cristiani che vivevano in Galilea, ad Antiochia o nel sud della Siria, dove non è attestato propria­ mente parlando alcun ricordo di , devono rendere conto di questi pas­ si di Marco, tutti relativi a una situazione indiscutibilmente vissuta dai destinatari. A Roma invece si possono comprendere senza difficoltà. Concludiamo con un terzo tipo di argomento, derivante dai dati offerti dall'ar­ cheologia. La principale fonte di informazioni sulle comunità ebraiche a Roma sono le iscrizioni. Dal loro studio23 risulta che la presenza degli ebrei a Roma non era molto antica: non risale probabilmente oltre il I secolo a.C. Il 76 per cento delle iscrizioni conservate è scritto in greco, il 23 per cento in latino, l'l per cento in altre lingue (ebraico, aramaico, greco con caratteri latini, ecc.). Dal punto di vista sociale, gli ebrei a Roma appartenevano a tutti gli strati della società, ma un'alta percentuale era economicamente povera e priva di educazione letteraria. D'altro canto, l'elle­ nizzazione a Roma, pur essendosi sviluppata in modo sistematico in certi circoli dotti a partire dall'inizio del II secolo a.C., ha raggiunto gli ambienti popolari solo a partire dall'inizio dell'impero. Il greco era la lingua che al tempo di Marco tutti gli stranieri parlavano e comprendevano, e che anche gli ambienti popolari romani conoscevano, ma senza padroneggiarla veramente. «>, 55 ritiene poco probabile che i vangeli siano stati formalmente «pubblicati», nonostante ciò che afferma EusEBIO, Hist. ecci. III, 24,5-8. Nel caso di Marco la cosa ci sembra effettivamente esclusa. 29 «I primi manoscritti furono il prodotto non del mercato librario, ma di comunità i cui membri comprendevano mercanti e funzionari minori molto abituati a scrivere». «Non sono opera di scribi let­ terari professionisti. . . >>. . . Egli uscirà vittorioso da un combattimento di quaranta giorni nel deserto con le forze del male e Satana in persona. Questo preludio conciso, molto ricco, contiene tutte le chiavi necessarie per comprendere il seguito. Il dramma può cominciare. L'autore con le sue informa­ zioni ha creato una tensione che alimenterà la lettura drammatica fino al momento atteso del pieno riconoscimento. Infatti fin da questo pulito di partenza il suo desti­ natario conosce tante cose che le persone nel racconto non hanno appreso e scopri­ ranno, volenti o nolenti, solo progressivamente. Prima parte: la narrstlo, 1 ,14-6,1 3

I primi sei capitoli ci presentano Gesù: le sue azioni e le sue parole. Gesù sor­ prende, impressiona, incuriosisce. Chi è? Da dove gli viene quell'autorità sui demo­ ni? Che cos 'è quella sapienza nelle sue parole? Questa prima parte si limita a esporre. È comparabile alla narratio convenzio­ nale di un discorso. Si tratta di raccontare i fatti, presentare un dossier e indiretta­ mente preparare l'argomentazione. La questione dell'identità di Gesù è ricorrente e costituisce uno dei semi che preparano la parte argomentativa che segue. Al tem­ po stesso, Marco si preoccupa di introdurre fin dall'inizio alcuni discepoli che ven­ gono progressivamente integrati nell'azione del protagonista: essi formano la sua Introduzione. Alcuni presupposti per la lettura

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compagnia immediata e saranno inviati, a loro volta, per una missione strettamente analoga alla sua (cf. l,l6-20; 3,13-19 e 6,6-13). Su questo punto essi hanno indubbia­ mente una funzione esemplare per il destinatario. L'analisi di questi capitoli mostrerà l'unità organica della loro composizione e il loro modo progressivo di incamminare il lettore/ascoltatore verso la parte cen­ trale. Notiamo che Giovanni Battista viene arrestato nel momento in cui comincia questa grande sezione (1,14a) e che si ritorna su questo arresto e questa uccisione nel momento in cui inizia la nuova parte (6,14s). I discepoli se ne vanno a «procla­ mare che la gente si converta» in 6,12-13, riprendendo così alla lettera le espressioni usate per descrivere la prima proclamazione di Gesù in 1,14-15. L'importante di­ scorso in parabole si situa quasi al centro di questa prima parte (c. 4). Lì si trova in modo conciso e in forma velata, come un enigma, il senso di tutto il racconto. Seconda parte: l'argomentazione, 6,1 4-1 0,52

Dopo l'esposizione preparatoria, viene la parte détta comunemente dai retori antichi argumentatio. Anche qui, Marco segue la disposizione convenzionale. Co­ mincia con una nuova intestazione (6,14-16) dove viene posta la domanda decisiva: chi è dunque questo Gesù? Così la triplice opinione riferita introduce la tesi o pro­ positio che governa tutta la prima parte dell'argomentazione. Si tratterà di conosce­ re e di riconoscere la vera identità di Gesù (6,30--8,21). Segue una digressione nella quale l'evangelista racconta la fine tragica del precursore Giovanni. Anche questo corrisponde a una convenzione retorica antica: alla cerniera fra due parti può esse­ re buona cosa introdurre un digressus, una digressione. Ma questa non è una totale deviazione dall'argomento: indirettamente l'evangelista annuncia l'altra parte della sua argomentazione, perché anche Gesù dovrà soffrire e subire una morte violenta (cf. 9,1 1-13; 8,31; 9,31; 10,33-34.45). Il corpo di questa grande parte argomentativa è articolato in tre sezioni. In una prima sezione, detta comunemente «la sezione dei pani», si tratta di co­ noscere l'identità di Gesù (6,30--8,21). Lungo questi capitoli, dove comunque Gesù continua a rivelarsi attraverso i suoi gesti (come la doppia moltiplicazione dei pani o il suo camminare sulle acque) e attraverso il suo insegnamento (in particolare, sul puro e sull'impuro), il narratore sottolinea la persistenza dell'incomprensione di fronte al mistero della persona di Gesù. La lunga apostrofe finale, che ricapitola tutta la sezione, è rivolta in modo fortemente patetico ai discepoli e resta senza ri­ sposta: «Non capite ancora e non comprendete?» (cf. 8,17-21). Perciò questa prima sezione è tutta orientata verso la successiva, dove potrà finalmente giungere a compimento il lungo sforzo sostenuto fin dall'inizio di .vo­ ler «comprendere>> chi è Gesù. Nei venticinque versetti che seguono (8,27-9,13), Marco collega le due grandi sezioni della sua argomentazione. Tutto inizia con una ripresa della domanda di fondo posta dallo stesso protagonista ai suoi compagni più diretti: «La gente, chi dice che io sia?>> (8,27). Era il /eitmotiv di tutta la sezio­ ne dei pani, annunciato fin dall'inizio della parte (cf. 6,14-16). Si riascolteranno le tre opinioni, alle quali si aggiungerà la giusta risposta nella confessione concisa ma esatta di Pietro: «Tu sei il CristO>> (8,29; cf. 1,1!). Per la prima volta dall'inizio del racconto qualcuno riconosce e confessa la vera identità di Gesù come «Cristo». Per un momento la tensione drammatica si allenta: c'è, finalmente, riconoscimento. Anche se il lettore/ascoltatore sa tutto fin dal prologo (1,1-13), le persone coinvol­ te nella storia sono avanzate a tentoni per otto capitoli prima di essere in grado di 30

Introduzione. Alcuni presupposti per la lettura

riconoscere chi è Gesù. Dal punto di vista della composizione drammatica, questa sezione centrale costituisce il perno di tutto il racconto. Essa contiene quello che i trattati antichi sul dramma chiamavano «riconoscimento>> (&vayvWp LaLç), non solo con la confessione di Pietro, ma anche con la rivelazione su un alto monte sei gior­ ni dopo, quando la voce dal cielo, come nel prologo, designerà Gesù >. Nel mo­ mento in cui, con Pietro, si crede di aver finalmente compreso chi è Gesù, quest'ul­ timo si premura di rivelarci la sua sorte paradossale, fatta di sofferenze, di rifiuto e di morte, prima di risorgere dopo tre giorni. . . Dal punto di vista drammatico, notia­ mo che il riconoscimento è arricchito con un'intrigante peripezia. Questa nuova prospettiva sulla sorte sofferente era stata annunciata anche all'inizio della parte, in 6,17-29, attraverso il racconto della passione del precur­ sore. Del resto, Gesù vi ritorna esplicitamente alla fine di questa sezione, in 9,1 1 13. Questa prospettiva governerà ormai tutto i l seguito del racconto evangelico. Così, in questa semplice unità di cinque versetti (Mc 8,27-31), Marco riesce ad annodare tutta l'azione del suo vangelo: la confessione di Pietro è il punto d'ar­ rivo della prima metà del vangelo (Mc 1-8), mentre l'annuncio della passione, morte e risurrezione costituisce l'intestazione e il programma della seconda metà (Mc 8-1 6). La terza sezione dell'argomentazione (9,30-10,45) traccia il cammino di co­ loro che decidono di seguire Gesù. Contiene una serie di piccole catechesi prati­ che sullo stile di vita cristiano (su precedenze, famiglia, coppia, bambini, ricchezze, esercizio dell'autorità, ecc.). Ciascuna di queste catechesi si collega direttamente alla strada che percorrerà fino in fondo lo stesso Figlio dell'uomo (8,31, ripreso in 9,31; 10,33-34.45). Ormai la condotta cristiana ha come norma non più una legge, reinterpretata dagli scribi, ma la vita di Gesù stesso, il suo destino esemplare ricapi­ tolato una prima volta in 8,31. Perciò il contenuto di tutta l'argomentazione riguarda il discepolo a due livelli essenziali: quello della conoscenza e quello della condotta adeguata. In un primo tempo, bisogna discernere chi è Gesù; poi, si deve seguirlo, fino in fondo. La grande solenne apostrofe di Gesù, rivolta non solo ai discepoli ma a tutta la folla, convo­ cata alla stesso tempo (8,34a), è collocata proprio al centro della sezione centrale, quindi al centro dell'intera composizione del vangelo. Si tratta di tre proposizioni fondamentali, ciascuna delle quali poeticamente ripetuta (8,34 e 35; 36 e 37; 38 e 9,1). Esse riassumono in un modo sommamente eloquente il progetto di Marco: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua . . . >> (8,34b). Alla fine della parte, Marco racconterà la storia del cieco di Ge­ rico, Bartimeo (10,46-52). Questo personaggio riassume più di qualunque altro nel racconto precedente sia la piena comprensione di chi è Gesù, sia il giusto atteggia­ mento «seguendolo lungo la strada>>, che conduce alla risoluzione del dramma a Gerusalemme. -

Introduzione. Alcuni presupposti per la lettura

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Terza parte: la soluzione, 1 1 ,1 -1 5,47

Dal punto di vista della composizione, quest'ultima parte, situata tutta a Ge­ rusalemme e nei suoi immediati dintorni, racconta lo sbocco tragico della storia. Tutto avviene nel quadro di una settimana, l'ultima della vita di Gesù. Si avverte una certa precipitazione, soprattutto a partire dal momento in cui inizia il racconto della passione (14,1s). Si riconoscono facilmente tre sezioni, ciascuna organicamen­ te ben unificata in base a schemi stabili che saranno evidenziati nell'analisi. Al cen­ tro di questa parte risplende un grande discorso: un'ultima volta, come del resto in certi drammi, a mo' di addio, il protagonista prevede l'avvenire e specialmente ciò che riguarda la comunità cristiana dopo la sua partenza. - Capitoli 11 e 12: le controversie nel recinto del Tempio. - Capitolo 13: il discorso sulla fine, con la venuta del Figlio dell'uomo. - Capitoli 14 e 15: il racconto della passione. L'epi logo: 1 6,1 -8

Il vangelo termina come un dramma antico: interviene un messaggero, come un inviato dal cielo o un deus ex machina, e comunica alle donne ciò che sfugge a qualsiasi rappresentazione: « È risorto !». Il messaggio le riempie di spavento e il racconto si chiude su questo grande senso di paura. Questo è uno dei fini perseguiti esplicitamente anche dalla drammaturgia antica. In Marco, l'inizio e la fine hanno indubbiamente subito l'influenza delle convenzioni drammatiche dell'epoca. Il suo racconto è anzitutto un'azione (in greco drama, opii�J.«) da vivere, un intrigo e una passione da subire, con totale simpatia.38 Questo aspetto serve il progetto iniziatico, evidenziato sopra per l'insieme del testo. Inoltre, nell'abbigliamento del . Attraverso il raccon­ to trasmette il suo messaggio. La celebre formula di Martin Dibelius, secondo cui Marco è il vangelo delle «epifanie segrete>>, esprime perfettamente questo aspetto

47 Qui si può ricordare J. Dupont e ·il suo giudizio conclusivo sulla questione delle fonti nel libro degli Atti. Secondo il grande specialista degli Atti, Luca in un primo tempo ha preso delle note, poi le ha rielaborate nella redazione finale. Perciò ricostruire le sue fonti è estremamente difficile, se non im­ possibile. '" C. FOCANT, L'Évangile selon Mare (Commentaire biblique: NT 2), Paris 2004, 38. 36

Introduzione. Alcuni presupposti per la lettura

della sua comunicazione: l'evangelista suggerisce continuamente una profondità e rivela così un mistero che ci sarà progressivamente dato di penetrare. Da quasi due secoli, la storia dell'esegesi di Marco ha conosciuto un movimen­ to pendolare fra due tendenze a prima vista opposte: a) Marco sarebbe puramente e semplicemente il fedele narratore popolare, che racconta ciò che è avvenuto stori­ camente; b) Marco sarebbe anzitutto un teologo che redige il suo vangelo attorno a una costruzione originale, quella del «Segreto messianico». In realtà, fra questi due estremi noi crediamo che Marco persegua un progetto letterario suì generis: vuo­ le iniziare e, per farlo, racconta delle storie del passato, colte e come schizzate dal vivo, ma qua e là drammatizza il suo racconto per impressionare, sedurre o scuotere il suo destinatario, affinché anch'egli attraversi tutte le porte che hanno attraversa­ to Pietro e i suoi prima di riuscire ad aderire pienamente a Gesù. Ora la struttura drammatica di un racconto funziona solo in presenza di una vera tensione fra ciò che il lettore/ascoltatore già sa e ciò che i personaggi nella storia raccontata sembrano ancora ignorare.49 Fin dall'inizio Marco informa i suoi destinatari su tutto ciò che sono supposti sapere per ben comprendere il seguito. Questo prologo (1 ,1-13) è un magnifico compendio di un'intera catechesi biblica, mirante a designare colui che viene annunciato fin dalle prime parole del libro: «Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (1,1). Il prologo, da solo, cita esplicitamente due volte tre passi delle Scritture (ai vv. 2-3 e al v. 1 1 ), ma allude inoltre ad almeno altre cin­ que o sei pagine celebri che si riferiscono specialmente al ciclo di Mosè e a quello di Elia. Se di fatto Marco è destinato alla proclamazione nella notte pasquale, la notte in cui, a tavola, si riserva un posto a Elia che potrebbe venire come precursore del Messia atteso, e anche la notte in cui si ricorda l'uscita dall'Egitto e la traversata del Mar Rosso sotto la guida di Mosè, allora i suoi riferimenti non solo sono ovvi, ma acquistano anche un significato più pieno. Comunque la ricchezza di questi riferimenti e di queste allusioni è tale che è praticamente impossibile coglierne, a un primo ascolto, tutta la forza e la pertinen­ za. Questo ci induce a concludere che il testo di Marco presuppone una cateche­ si biblica. Marco si rivolge a persone che sono state preliminarmente formate alla comprensione delle Scritture. Il suo racconto, letto integralmente e di seguito nella notte, è il punto di arrivo e il coronamento di questa intensa preparazione. Purtroppo questa catechesi biblica preparatoria non ci viene offerta come tale da nessuna parte. Ma si può tentare di ricostruirla a partire dalle citazioni e allu­ sioni reperibili nel testo. Si scoprirà che esse hanno una sorprendente coerenza e coincidono, su certi punti, con schemi catechetici presenti in altri testi del Nuovo Testamento, come ad esempio la Lettera agli Ebrei. Questa ricostruzione dovrebbe servire a comprendere bene altri passi al di fuori del prologo di Marco. In realtà, si può riconoscere senza difficoltà come una scala di scoperte sempre più profon­ de di chi è Gesù, dove a ogni gradino due o tre citazioni bibliche accompagnano e sostengono l'identificazione. Così c'è un percorso lineare che va da Gesù ricono-

49 a. H. LAUSBERG, Handbuch der literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung der Literaturwissen­ schaft, Miinchen 21973, I, 585-586, che ha ben analizzato ciò che deriva da questa tensione nell'informa­ zione (lnformationsspanne) con la progressione drammatica verso un riconoscimento o anagnorisis sem­

pre più completo. Egli nota fra l'altro: , ecc. Essi completano l'immagine, ma nulla permette di supporre che appartenessero in modo integrato a quello che si presenta come un primo sistema catechetico unificato attorno a «Gesù, profeta escatologico».50 l. Nel gradino più basso della scala Marco presenta Gesù come profeta. Lo stesso Gesù, proprio alla fine della narratio, si designerà come «profeta>>, quando si scontrerà con l'incredulità nel suo villaggio natale (Mc 6,4: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua>>). Profeta, egli «Vede squarciarsi i cieli» (1,10). È un veggente, e lo Spirito scende su di lui «come una colomba>>, il che si spiega al meglio proprio in relazione ai profeti. Il commenta­ rio illustrerà questo legame fra la voce della colomba e la voce dei profeti, secondo la letteratura intertestamentaria. Quindi lo Spirito che Gesù riceve al battesimo è lo spirito di profezia (1,10). Viene per ultimo, nella grande stirpe dei profeti, la cui storia è sinteticamente descritta nella parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-10). Interrogato immediatamente prima sulla natura della sua autorità, Gesù rinvia al suo precursore, Giovanni. «Tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un pro­ feta» (11,30-31). La tradizione ebraica, già a quel tempo, distingueva due forme di autorità: quella degli scribi e quella dei profeti. Uno scriba deve la sua autorità a un maestro che è stato discepolo di un maestro, in una catena risalente fino a Esdra e, oltre lui, fino a Mosè. Ma al Sinai Mosè riceve la sua autorità come profeta di­ rettamente da Dio. Quando Marco, in 1 ,22 e 27, afferma che l'autorità di Gesù im­ pressiona e non è «come quella degli scribi», allinea Gesù a Mosè e la sua autorità a quella dei profeti. Giovanni e Gesù sono profeti: come tali, essi ricevono la loro autorità direttamente «dal cielo» e non «dagli uomini», come ad esempio gli scribi. Ecco il gradino più basso della scala. Già un tale riconoscimento non è banale in sé e per l'epoca è decisamente rivoluzionario: nella tradizione ebraica intertestamen­ taria si ripeteva che «da Aggeo, Zaccaria e Malachia>>, cioè da tre, quattro secoli, «non si erano più visti profeti» e che «i cieli erano chiusi, poiché lo Spirito si era ri­ tirato nella sua dimora celeste>>.51

2. Giovanni e Gesù sono entrambi profeti, ma Marco li distingue fin dall'inizio, indicando che l'uno, Giovanni, è «Elia» - l'Elia atteso secondo Malachia (3,1 .23) ­ mentre l'altro, Gesù, è l'ultimo dei profeti, il profeta escatologico, quello che Mosè ha annunciato in Dt 18,15.18, e che sarà «come Mosè» «tratto dai suoi fratelli e dalla

"" La cristologia di Marco è stata oggetto di molti studi. Ad esempio, R. ScHNACKENBi:JRG, Lll chri­ stologie du Nouveau Testament (Mysterium salutis (trad. fr.) 1 0) , Cerf, Paris 1974, 75-93 (su Marco); J. KtNGSBURY, The Christology of Mark 's Gospel, Philadelphia 1 983 ; J. GNILKA, Theologie des Neuen Te­ staments, Herder, Freiburg ecc. 1994, 151-173 (su Marco); M. TRIMAILLE, La christologie de saint Mare (Jésus et Jésus Christ 82), Desclée, Paris 2001 (con bibliografia); R. VIGNOLO, «< titoli cristologici nel Vangelo di Marco», in Credere oggi 22(2002)131·132, 67-88 (con un buono status quaestionis). La parti­ colarità della nostra ricerca è di ricostruire, al di là del testo ricewto, una riflessione cristologica coeren­ te, basandosi continuamente sulle Scritture (Torah, Profeti e Scritti). 51 Cf. P. ScH AE FER, Die Vorstellung vom heiligen Geist in der rabbinischen Literatur, Mtinchen 1972. Cf. il nostro L 'espace Jésus, 122-125.

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Introduzione. Alcuni presupposti per la letture

sua famiglia» (cf. Mc 6,4, citato sopra, con quella sorprendente insistenza sul pro­ feta e sulla sua parentela). È lui che bisogna ascoltare, dice Mosè in Dt 18,15, e la voce dal cielo in 9,7 riprenderà questo comando: «Ascoltatelo». Marco moltiplicherà i tratti che avvicinano Giovanni a Elia e Gesù a Mosè. Lo stesso aspetto di Giovanni, descritto in 1 ,6, richiama l'episodio dell'identificazione di Elia in 2Re 1 ,8 dove il re Acazia, interrogando i messaggeri su colui che hanno incontrato, conclude a partire da un identico aspetto (> è essenziale agli occhi di Marco. Solo quando Gesù è spirato sulla croce, un essere umano ha il diritto di, e riesce a, dire pienamente ciò che solo la voce celeste, per due volte, e Gesù stesso, una volta sotto il velo del linguaggio parabolico, hanno potuto lasciar intendere: «Quest'uomo è veramente Figlio di Dio>> (15,39, messo in bocca al centurione, senza alcuna ironia). Molto vicina a questa prospettiva, si può collocare qui un'altra citazione dello stesso Isaia, fatta anch'essa nel prologo. La voce che risuona dal cielo sopra Gesù battezzato lo designa mediante una triplice citazione (1,11): la prima deriva dal Sal 2, come abbiamo visto («Tu sei il mio figlio»). La seconda si ricollega a !sac­ co, quando si dice: «il mio figlio amato». La terza aggiunge queste parole: «in te ho posto il mio compiacimento>>, e qui molti esegeti vedono una ripresa dell'apertura del primo canto del Servo in Is 42,1. Lì Dio designa il suo servo, gli trasmette il suo Spirito e gli assicura la vittoria finale: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio elet­ to di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. [ . . . ] Proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamen­ to>> (Is 42,1-4). In Isaia, nell'insieme dei quattro canti (Is 42; 49; 50 e 52-53), questo servo ha almeno tre caratteristiche: ricorda Mosè nei suoi insuccessi con il popolo,56 cono­ scerà sofferenze e contraddizioni, vincerà perché il Signore è con lui. Per Marco il

56 Vari esegeti del Deutero-Isaia hanno notato questo accostamento ed esso si trova anche nella tradizione rabbinica, come risulta, sia pure piuttosto eccezionalmente, da questo passo del Talmud ba­ bilonese, attribuito a rabbi Sinùai: «ls 53,12: "Perché si è consegnato lui stesso alla morte": [Mosè ) si è esposto alla morte, perché ha detto: "Ora perdona il loro peccato! Altrimenti, cancellami da/ libro che tu hai scritto" (Es 32,32). "Ed è stato annoverato fra i malfattori": Infatti [Mosè ) era fra coloro che erano condannati a morte nel deserto. "Perché ha portato i peccati di molti uomini": egli ha espiato il peccato del vitello d'oro. "E ha interceduto per i colpevoli": ha pregato perché i colpevoli di Israele si pentano. Infatti l'intercessione non può essere che la preghiera (cf. Ger 7,16)» (bSota 17a).

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destino di «Gesù Figlio di Dio» collima con quello di questa figura del servo isaiano. Gesù è pienamente «Figlio di Dio» solo accettando questo destino. 4. È qui che si possono far intervenire quelle frasi piuttosto sorprendenti nelte quali Gesù, in Marco, parla di se stesso alla terza persona, ricorrendo all'espressio­ ne > (oE"ì., collocato enfaticamente in testa: > (8,38); > (14,62). Notiamo anzitutto il contrasto con quel > ricorda innegabilmente una delle visioni del libro di Daniele: > che . Si vede il parallelismo ma non si può negare la differenza. In Marco si rivela pienamente accettan­ do di andare fino alla morte sulla croce; è qual­ cosa di piuttosto complesso. Ciò dipende molto probabilmente dal fatto che Mar­ co si trova davanti a varie tradizioni, alcune più antiche di altre. Può anche darsi - come ha affermato con forza Norman Perrin - che Marco, in certe occorrenze, voglia correggere con questa espressione un riconoscimento messianico non abba­ stanza paradossale. Così nel passaggio, effettivamente sconcertante, fra la confes­ sione di Pietro (>, sulle labbra di Gesù, ma si tratta di una correzione delle prospettive, come con Pietro in 8,29 e 8,31? Qui Gesù risponde alla domanda del sommo sacerdote dicendo: . Ratifica quindi ciò che è stato appena detto. Poi aggiunge, rincarando per così dire la dose: > in Marco serva sistematicamente a cor­ reggere una comprensione incompleta, perché non abbastanza paradossale, di chi è Gesù. Marco pensa in paradossi e procede in modo dialettico per contrasto o per iperboli. In 8,31 è evidente il contrasto correttore; in 14,62 colpisce il rincaro della dose.59 A livello della catechesi preparatoria, c'è in Marco qualche indizio di un'arti­ colazione precisa, tematizzata come tale, fra il titolo «Figlio di Dio>> e l'espressione «Figlio dell'uomo>>? L'attrazione polare delle due designazioni affascina la nostra attenzione di lettori. La nostra inclinazione teologica, formata da secoli di discus­ sioni dogmatiche e già impregnata dalle forti affermazioni del quarto vangelo, vor­ rebbe vedervi, chissà, già l'abbozzo di una riflessione sulle «due nature>> - divina e umana? In Marco le due espressioni sono lì, a volte anche molto vicine l'una all'al­ tra, come nel capitolo 13 (26 e 32) e nel capitolo 14 (61 e 62), e una volta, come ab­ biamo appena segnalato, c'è in una frase come una contaminazione dell'una sull'al­ tra («il Figlio dell'uomo . . verrà nella gloria del Padre suo>>, 8,38). Evidentemente, Marco non le contrappone mai e neppure le accosta per abbozzare un gioco antite­ tico: lascia che ciascuna dica ciò che ha da dire. «Figlio di Dio» è il mistero supremo che il lettore e ogni credente dovrà scoprire sempre più; «Figlio dell'uomo» è la for­ mula scelta da Gesù stesso per qualificarsi - espressione di umiltà certamente, e og­ gettivazione un po' enigmatica, del soggetto che si denomina così alla terza perso­ na. In quest'ultimo caso, Marco vi scopre anche una profondità, un mistero con un destino paradossale, inoltre predetto nelle Scritture, e quindi ben più della semplice ammissione di essere un uomo come gli altri uomini. Invece di orientare la nostra attesa verso una lettura polare delle due espressioni, i testi ci invitano a riconoscere una sorprendente convergenza e complementarità nell'uso delle due espressioni: Gesù è l'uno - «Figlio di Dio>> - designato dalla voce del cielo e che accetta di quali­ ficarsi in questo modo secondo 9,7 (come in 12,6 o in 13,32; cf. 14,62). E Gesù è l'al­ tro - «Figlio dell'uomo>> - che si qualifica così fin dal capitolo 2 (10.28) e, a partire da 8,3 1 , intende trasmettere ai suoi discepoli «Un insegnamento>> in profondità, sot­ tolineando l'intera sorte - voluta da Dio e inscritta nelle Scritture - di questo figlio d'uomo. Ogni espressione contiene un paradosso: il Figlìo di Dio rivelerà tutta la sua identità solo al di là della sua sofferenza (Getsemani, gridando «Abba !>>) e della sua morte sulla croce (la confessione del centurione); il Figlio deli 'uomo è destinato a risorgere e a ritornare in gloria (8,31 .38; 13,26; ecc.). Almeno in un caso i due paradossi si articolano l'uno sull'altro: al capitolo 9, subito dopo l'episodio della trasfigurazione, dove la voce dalla nube ha designato Gesù come «Figlio mio». Subito dopo, scendendo dal monte, Gesù proibisce ai di.

58 Dal punto di vista drammatico, questa frase ha un doppio effetto: per il lettore-destinatario del vangelo essa illustra la fede luminosa dello stesso Gesù alla quale egli aderisce pienamente, ma per l'as­ semblea riunita queste parole causeranno immancabilmente la sua condanna a morte. Come spesso ne­ gli atti dei martiri, è l'ambiguità di qualche parola pronunciata nel corso del processo ad aprire la porta alla violenza per colpire l'innocente. Ciò che agli orecchi degli uni è la testimonianza più pura della sua innocenza e della sua fede, diventa agli orecchi degli altri una bestemmi insopportabile e la prova stessa della colpevolezza dell'accusato. 59 Un analogo rincaro della dose si trova nel passo in cui si discute la questione del Messia «figlio di Davide>>, in 12,35s. Con una doppia domanda, Gesù sposta l'affermazione iniziale e orienta verso la signoria del Messia, riconosciuta dallo stesso Davide e basata su un oracolo di Dio.

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scepoli di parlare per il momento di ciò che hanno visto. Bisogna che prima il Figlio vada fino in fondo e passi attraverso la croce. È il primo paradosso. Potranno par­ lame solo «dopo che il Figlio dell'uomo sarà risorto dai morti» (9,9). Ecco l'altro paradosso. Qui i due paradossi sono come incastrati l'uno nell'altro e i discepoli, a questo punto del racconto, non comprendono, non possono comprendere né l'uno né l'altro. Terranno per loro la cosa, pur interrogandosi sul suo significato (9,10) . . . S i lascia al lettore meditare su ciò che è stato appena detto, alla luce d i tutta l a ri­ velazione. Quindi Marco fa convergere le due espressioni «Figlio di Dio» e «Figlio dell'uo­ mo» non per antitesi, ma attraverso la loro comune dimensione paradossale. Questa convergenza non viene mai cercata come tale, ma non per questo è meno innegabile prendendo il testo nella sua unità. La catechesi inculcava ai neofiti il paradosso. Que­ sto bastava a ottenere una comprensione unificata del mistero di Gesù. 5. Resta la designazione di Gesù come Cristo, Messia, Unto di Dio. Per Marco questo non costituisce un gradino particolare nella scala: essendo l'ultimo dei pro­ feti, Gesù è il Messia. Viene dopo Elia, che doveva venire per primo, e quindi è il Messia. È l'altro Mosè, quello della fine, e quindi è la figura messianica attesa. In­ terpellato come «figlio di Davide», porta quindi il nome stesso del Messia. Il fatto che Gesù sia il Messia, l'Unto di Dio, è anche in qualche modo scontato e costitui­ sce un presupposto della lettura. È l'affermazione primordiale del racconto (1,1), quella dalla quale si parte. Ma al tempo stesso - ed è forse questa la grande sorpresa - è ciò a cui bisogna giungete. Il testo di Marco afferma fin dall'inizio che Gesù è il Cristo e ricorda, sen­ za enfasi, al destinatario ciò che egli già sa. Ma l'evangelista redige il suo racconto con una continua suspense: tutte le persone coinvolte nella storia narrata sembra­ no ignorare questa grande identificazione. Bisogna aspettare otto capitoli - cioè la metà del libro - prima che irrompa finalmente nel racconto l'identificazione fonda­ mentale: in 8,29, Pietro afferma in modo chiaro e diretto: «Tu sei il Crist0>>.60 Marco crea così per ogni lettore/uditore un percorso: si tratta di sapere (1,1), poi di verificare, mediante l'assimilazione degli episodi successivi e dei piccoli di­ scorsi e delle parole d'autorità, che Gesù è realmente colui che compie le attese messianiche. Egli è il Messia per la «sapienza» delle sue parole e per la «potenza» delle sue azioni (cf. 6,2). Ma c'è di più: come per l'identificazione di Gesù come Mar­ co si è preoccupato, come abbiamo visto, di precisare la portata di una tale confes­ sione ( 1 1 ,10, ripreso e aggiustato in 12,35-37, dove si ritrova del resto sulle labbra di Gesù il termine «Cristo>>), così per la conoscenza di Gesù come Cristo, l'evange­ lista vuole evitare ogni fraintendimento: appena Pietro ha pronunciato il termine «Cristo», Gesù, secondo Marco, «cominciò a insegnare». Questo insegnamento è complementare e fondamentale perché si basa sulle Scritture. Per la prima volta, e in modo formale, Gesù apre la finestra sul suo destino di sofferenza, rifiuto e morte

"' Mentre fra 1,1 e 8,29 il termine «Cristo» non ricorre mai per intrattenere la suspense, in seguito ricorre ancora cinque volte, senza che occorrano molte discussioni, perché ll emerge in modo naturale. Così in 9,41 si parla senza commenti del bicchiere d'acqua che vi viene dato «perché siete di Cristo»: tutti comprendono. Cf. anche Mc 12,35; 13,21; 14,61; 1 5,32. 48

Introduzione. Alcuni presupposti per la lettura

prima di accedere alla risurrezione dopo tre giorni. Tutto questo viene sostenuto da un «bisogna>> che, come abbiamo visto, collega tutto ciò che segue alle Scritture. Sia la sua sofferenza, il suo rifiuto e la sua morte sia la sua risurrezione «dopo tre giorni», sono basati sulle Scritture (cf. Paolo che, citando ai corinzi una tradizione molto antica, indica due volte la conformità fra ciò che è accaduto e le Scritture: «A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo Le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo Le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici», 1Cor 15,3-5). Per Marco, Gesù è indubbiamente il Messia, ma l'evangelista si preoccupa che il suo lettore/destinatario ne colga tutta la densità paradossale nella quale la croce è il passaggio obbligato per accedere alla gloria. Questo vale in modo esemplare per Gesù, ma vale anche per ogni discepolo che si metta alla sua sequela (cf. 8,34-9,1 , dove i due termini chiave «croce» e «gloria» sono all'inizio e alla fine del percorso del discepolo). Nella scena ai piedi della croce, dove da ogni parte ci si fa beffe di colui che «ha salvato altri e non può salvare se stesso»; Marco mette in bocca agli schernitori - qui i capi dei sacerdoti e gli scribi - questa espressione: «> ( CLXXIX). Que­ sto si percepisce fin nel modo di innestare sul testo di Marco interi versetti, prove­ nienti dai due grandi fratelli Matteo e Luca. Non si concorda sul numero esatto dei versetti da dare a Marco (circa 660), perché, oltre che degli ultimi dodici (16,9-20, cf. più avanti), bisogna tener conto di alcuni versetti fluttuanti al capitolo 9 (vv. 44 e 46), al capitolo 11 (v. 26) e al capitolo 15 (v. 28), presenti nella Volgata e considerati aggiunti a partire da un parallelo in Matteo o in Luca. Del resto, gli. specialisti sono giunti alla conclusione che, come una delle con-. seguenze della pace costantiniana, nel IV secolo si è cercato di creare in certi centri, come Alessandria o Cesarea, un testo unificato in grado di servire da modello per ogni ulteriore copia. Questo può aver comportato degli effetti di armonizzazione rispetto a certe differenze lessicali esistenti fra il Vangelo di Marco e gli altri. Per Marco disponiamo di un buon numero di onciali, fra cui due del IV secolo: il Vaticanus (B) e il Sinaiticus (M). Oggi tutti concordano sulla precedenza del Vati­ canus per i vangeli.64 Diversamente da Matteo, Luca o Giovanni, restano solo alcuni frammenti di Marco conservati su papiri: è importante soprattutto il papiro 45, sco­ perto nel l931 e ancora sconosciuto al p. Lagrange. È molto antico (prima metà del III secolo), ma contiene solo alcuni frammenti, del resto spesso molto lacunosi: 4,36-

62 Sono immensamente riconoscente al prof. Joi!l Delobel per il suo aiuto riguardo a questa que­ stione. "' H. GREEVEN - E. GOTING (edd.), Textkritik des Markusevangeliums (Theologische Forschung und Wissenschaft 1 1 ) Miinster 2005, 4. 64 Kun Aland, nella sua introduzione all'edizione critica, è tassativo: >, di cui parla il v. 4, riprende l'idea centrale di Ml 3,24, in relazione con la venuta di Elia. Infatti, «egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri>>. Una cu­ riosa conversione a ben guardare: non si chiede anzitutto che i figli, la giovane ge­ nerazione, i discepoli, ascoltino i loro maestri o i loro padri, ma il contrario ! L'e­ lemento messianico entra nella storia quando si rispetta questo paradosso. Alcuni versetti dopo, Giovanni farà lo strano elogio di un discepolo che egli considera talmente grande da non ritenersi neppure degno di esserne lo schiavo. Giovanni è proprio questo Elia della fine che introduce uno più grande, il nuovo Mosè, «il SIGNORE>> in persona, come lo comprende Malachia (3,1-2) e come lo precisa an­ cora la citazione di Isaia («preparate la via del SIGNORE»). Segnaliamo ancora che il termine «Via>> (òooc; ) ritorna due volte nella citazione ed è ripreso una terza volta con il sinonimo «sentieri>> (1 ,2-3). L'appello essenziale della grande citazione è quello di mettersi in cammino per prendere «la strada>> di un altro, «la tua via», la strada «del SIGNORE», i suoi «sentieri». Essendo le prime parole del testo rivolte ai lettori/uditori, non si può non esserne colpiti, soprattutto se si pensa che poi uno dei temi essenziali del libro sarà quello del di Gesù, «sulla sua via>> (cf. l'inclusione - «in cammino» - che unisce le pa­ gine che vanno da 8,27 a 10,52: Èv rfl ò&Q). ."

3 P. LENHARDT - A.-C. AVRIL, La lecture juive de l'Écriture, Lyon 1982, 23-34. Strettamente par­ lando, i due testi hanno in comune solo il termine «Via», ma Marco li allinea maggiormente modificando un po' il verbo in Malachia: «sgomberare» diventa «preparare». Il prologo: Marco 1, 1 - 13

59

Risalendo il testo, si vede che l'avvenimento storico unico, raccontato così semplicemente (v. 4), acquista sempre più contenuto e forza teologica grazie al gio­ co di amalgama delle citazioni. Si è autorizzati a proseguire su questa linea: molti hanno intravisto una terza citazione incorporata in questi due versetti di Mc 1 ,2-3. Al di là di MI 3,1, qui si sente risuonare anche Es 23,20: «Ecco che io invio il mio angelo/messaggero davanti alla tua faccia». La frase è analoga a quella di Malachia, salvo un dettaglio: in Esodo «la mia faccia>> è «la tua faccia>>. Dal contesto di Es 23 si . evince che si è nel deserto (come in Is 40,3! ) e si sta proseguendo l'esodo verso la terra promessa. Dio prende la parola e si rivolge a Mosè. Gli promette di accompa­ gnarlo e di inviargli il suo angelo davanti a lui. Questa terza citazione integrata in questo passo ci insegna almeno due cose: Marco inizia il suo racconto ricordando l'Esodo. E se l'angelo/messaggero è Gio­ vanni Battista, identificato con l'Elia che deve venire secondo MI 3, colui che egli precede e annuncia è un altro «Mosè». Così sono specificate sia l'identità di ciascu­ no sia le loro rispettive relazioni. Marco racconta (v. 4), ma colloca in testa al suo racconto una triplice citazio­ ne delle Scritture. Essa evoca al tempo stes.so il primo esodo con Mosè (Es 23)! il ritorno dall'esilio (Is 40) e l'esodo escatologico (Ml 3) - cioè tutta la storia della sal­ vezza, dall'inizio alla fine. Questo modo di scrivere, che non si accontenta di far pre­ cedere l'avvenimento raccontato da una parola di Dio ma ne esprime tutto il signifi­ .cato, può essere detto apocalittico. Lo scrittore apocalittico, attraverso la ricchezza delle sue associazioni, permette di leggere, comprendere, cogliere il significato di un avvenimento secondo il pensiero di Dio al quale ha accesso. Vedremo che non è l'unico caso in cui l'evangelista mostra questo modo apocalittico di pensare. In testa a questa citazione, Marco scrive: «Inizio della buona novella di Gesù Cristo». · Certi manoscritti hanno inoltre «Figlio di Dio». La grande domanda, sul piano della critica testuale, è sapere ciò che c'era all'inizio. Se il testo in origine re­ cava dopo «Gesù Cristo>>: , perché aver cancellato queste due parole, queste quattro lettere dato che spesso si scrive > dopo >. Deve essersi riconosciuto nel ruolo di presentatore che introduce sulla scena «il più forte>> e subito si eclissa. Nella comunità doveva esservi certamente un insegnamento sui «battesimi>> al plurale, come ci ricorda un passo ricapitolativo degli insegnamenti di base, nella Lettera agli Ebrei (6,2: «l'istruzione sui battesimi>>). Si deve pensare a una piccola tipologia dei battesimi, nella quale si distingue il battesimo secondo i farisei, quel­ lo secondo i discepoli di Giovanni e quello secondo i discepoli di Gesù, come può esservi stata una tipologia della pratica del digiuno in base ai vari gruppi di appar­ tenenza (cf. 2,17; cf. anche Mc 7,3-4, dove si trova un vocabolario analogo per par­ lare di riti di abluzioni presso i giudei in genere)? Si parlava di battesimo d'acqua, di battesimo di fuoco, di battesimo di spirito, addirittura di battesimo di sangue? L'acqua rappresenta la realtà elementare e ciò che appartiene alla prima creazione; il sangue è l'uomo e la sua volontà, un'acqua qualificata ma ancora appartenente essenzialmente alla prima creazione; lo spirito è ciò che viene da altrove, dall'alto, non più dalla terra e neppure dalla carne e dal sangue, ma da Dio. Nel deserto, i monaci si ripetevano, come un mantra del cuore, l'eco del loro battesimo: «Dona il tuo sangue e ricevi lo Spirito>> (ooc; a.lj.l!X Ka.l Àa.J3È tÒ rrvEiìiJ.(X).U Nel suo prologo, Marco non si sofferma sul rito ma sul suo significato. Comun­ que per lui entrambi i battesimi - d'acqua e di spirito - hanno valore e sono decisivi per il nostro tempo, ma si contrappongono anche per la loro qualità. Sull'esempio di Gesù, il cristiano di Marco sarà battezzato con acqua, ma dovrà inoltre ricevere un battesimo detto «di Spirito Santo», anche questo sull'esempio di Gesù. Il fat­ to che i primi cristiani abbiano conservato nonostante tutto il gesto battesimale di Giovanni con acqua, dimostra la grande autorità di cui godeva presso i primi disce­ poli di Gesù la figura di Giovanni: tutti continuavano a riconoscergli il suo ruolo insostituibile nella storia della salvezza. L'acqua, nella tradizione ebraica, simboleggia la Torah. Evitiamo, con la grande tradizione, di disprezzare il battesimo d'acqua: esso ci ricolloca nell'asse della Vita. Anche Gesù si è lasciato battezzare nell'acqua. Forse si può affermare che vi sono solo tre modi di collocarsi nella vita: senza la Torah, abbandonati alle forze della na­ tura, agli impulsi primari, al di sotto dell'ordine che ci separa dagli animali. Con la Torah, battezzati nell'acqua, non senza una tensione rispetto a coloro che offrono un culto agli idoli e alle forze della natura. Al di là della Torah, immersi in e ispirati, go­ vernati dai comandi dello Spirito. I profeti hanno intravisto e annunciato questo avve-

10 Questo slittamento che interviene nel quarto vangelo fra la figura di Giovanni il precursore e il discepolo amato è stato studiato in modo approfondito da R. VIGNOLO, «Il doppio letterario tra Giovan­ ni Battista e discepolo amato: un approccio narrativo al quarto vangelo>>, in Annali di scienze religiose

9(2004), 137-159. 11

Apoftegma dell'abba Longino (serie alfabetica, n. 5). Il prologo: Marco 1, 1-13

nire. Gli scritti del NT attestano questa sconvolgente rivoluzione. Non senza la Torah ma già con qualcosa di più della Torah: lo Spirito di colui che è stato unto dall'alto. Nel testo di Marco, questa qualità che differenzia le due realtà è una questio­ ne di «forza». Giovanni dice che colui che viene dietro di lui è «più forte». Questo linguaggio di potenza è originale e lascia intravedere la sfida: il vangelo è l'annuncio di una vittoria nella quale il più forte trionferà in un campo di forze contrarie. Fra le cose antinomiche, è già risuonato due volte il termine «peccati» (1 ,4.5). Proprio grazie alla sua santità, lo Spirito Santo è il contrario del peccato. Vedremo che per Marco chi riceve lo Spirito riceve il perdono, e chi rifiuta lo Spirito Santo chiude le porte al perdono dei peccati (cf. 3,22-29). Questo ci pone tutti davanti a un aspetto del racconto che non potrà fasciarci indifferenti: il racconto si annuncia come una battaglia nella quale uno «più forte» entra in scena e si misura con forze contrarie. Bisognerà quindi discernere bene e interpretare correttamente ciò che avviene. Bi­ sognerà anche e soprattutto, prima o poi, scegliere, schierarsi, cosa che il greco ren­ de con il verbo povEi.v (cf. Mc 8,33). 12 Il battesimo di Spirito Santo avverrà in futuro. «Egli vi battezzerà». Questa promessa riguarda alla lettera tutte le persone che si sono recate al Giordano. Cu­ riosamente questa parola, proclamata al futuro, non si realizzerà nel corso del rac­ conto, e neppure dopo il battesimo di Gesù da parte di Giovanni (Mc 1 ,9). Nessuno protesta, nessuno si mostra deluso: quando Gesù entra in scena, non si parla più delle molte persone alle quali si era rivolto Giovanni. Comunque questi due versetti di Giovanni, rivolti a un «VOi» aperto, interpellano. Si è autorizzati a leggerli come ciò che l'evangelista vuole dire, proprio per bocca del prologos, ai suoi destinatari: c'è un battesimo di conversione e d'acqua, ma preparatevi, perché «Vi» sarà confe­ rito un altro battesimo, fatto di Spirito Santo. L'interpellanza che così si può sco­ prire in questi due versetti collima con quella che si sente risuonare nella citazione di Isaia, posta in testa al racconto: «Preparate la via del Signore, rendete dritti i suoi sentieri» (v. 3). La citazione conferma che il prologo di Marco vuole mobilitare un uditorio che oltrepassa le persone introdotte in questo primo quadro. È una parola di sempre e per sempre che risuona nuovamente nel nostro tempo, ai nostri giorni (cf. v. 9!). Perché continuare a sottrarci a essa?

Secondo quadro: 1 ,9-1 1 , i l battesimo di Gesù nel le acque del Giordano

1 ,9: Ka.Ì. EyÉvero €v EKdva.Lç ta.1ç �f.LÉpa.Lç �À.9Ev 1110oflç ètnò Na.(a.pÈt tf)c; ra.ÀLÀ.a.La.ç Ka.Ì. El3a.1TtL09t'} E Lç tÒV 1opoavrw lJ'ITÒ 1w&.vvou. 1,9: «E accadde che in quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni».

'2 Cf. W.C.

VAN UNNIK, «Vertaling versus woordenboek bij Mc 8,33 - Matthaeus 16,23,., in Van

taal tol taal, FS W. Grossouw, hrsg. B . M F VAN IERSEL, 51-61. Il prologo: Marco 1, 1 - 13

.

.

67

v. 9. Il racconto presenta una sorta di nuoVo inizio. Marco cura la modalità d'ingresso sulla scena del protagonista atteso. Giovanni aveva detto: «Viene il più forte di me . . . >> ed ecco che egli entra effettivamente in scena. La formulazione «e accadde>>, seguita da «in quei Jliorni>> e poi da «Venne», ricorre come tale nella Bib­ bia greca una sola volta. M.-E. Boismard13 è stato il primo a notarlo e da allora le concordanze elettroniche Io hanno confermato. La stessa formulazione ricorre in Es 2,1 1 LXX. Quando Marco vuole introdurre Gesù, immerge la sua penna nell'in­ chiostro della Settanta e usa le stesse parole che allora, «in quei giorni», cioè quelli dell'origine della storia della salvezza del popolo, hanno introdotto il primo salva­ tore, cioè Mosè.14 «Diventato grande>>, Mosè viene e va a «visitare i suoi fratelli». Ed è subito testimone dei «lavori forzati ai quali erano sottoposti>>. Questa corrispondenza conferma l'identificazione di Gesù con la figura di Mosè, già espressa al v. 2, mediante l'intervento sulla citazione di Malachia, ricon­ vertita nella formulazione di Es 23,20, dove Dio parla a Mosè. Stupiamoci: Mosè - entra nella storia per visitare i «SUOi fratelli» che sono sfruttati e oppressi. Viene per sottrarli finalmente alla loro sorte, liberarli dalla loro schiavi­ tù e introdurli al servizio del Dio vivente. E Gesù? Egli viene e scende nelle acque del Giordano in mezzo alla folla di coloro che «confessano i loro peccati>> (v. 5). Marco suggerisce un'infinità di cose, stabilendo attraverso questa tecnica ben nota dell'allusione (chiamata remez dai maestri del midrash) questo parallelismo con il Mosè di Es 2,1 1. Un detto rabbinico ricorda che «l'ultimo salvatore sarà come il primo»,i5 e molti passi nella tradizione rabbinica prevedono che Mosè ritornerà ed eserciterà la sua autorità alla fine dei tempi come all'inizio. Due esempi: «Come Mosè entrava e usciva in testa al popolo in questo mondo, così entrerà in testa al popolo nel mondo futuro». E «come Mosè fu lo strumento di Dio per chiamare il popolo alla libertà nella notte di Pasqua, così il Messia chiamerà il popolo alla liber­ tà nella notte di Pasqua>>.16 «Gesù>>. Ecco il suo nome, pronunciato già una prima volta in 1,1. È il termine più frequente di tutto il testo di Marco, ma curiosamente può mancare per lunghe sezioni per poi riaffiorare con oltre dieci occorrenze in un capitolo (cf. c. 7: O vol­ te e c. 8: l volta, o c. 10: 18 volte e c. 14: 11 volte)P «Gesù di Nazaret». È possibi­ le una doppia lettura: «Venne da Nazaret» o «venne Gesù di Nazaret>>. Nel primo caso, indubbiamente il più probabile, tanto più che è l'unico riferimento a questo villaggio in Marco, Nazaret è il luogo da cui Gesù parte nell'azione qui riferita. Il racconto descrive, riferisce, nient'altro. Nel secondo caso, Nazaret qualificherebbe Gesù, precisando chi è con l'indicazione di tutto il suo nome. Ormai Gesù sarà co-

13 M.-É . BmsMAIID, Synopse des qUiltre évangiles en français , Paris 1972, Il, 79-80.

14 FocANT, 72 nota che l'espressione «in quei giorni•• nei profeti (Ger 3,16.18; 31,33; 33,15-16; Gl 3,1; Zc 8,23) (Mc 10,47 ) . I nomi propri strappano il tessuto del testo e si riferiscono a ciò che è al di fuori di esso: la storia, la geografia, l'altro che il testo non riesce mai a recuperare pienamente. Gesù, come nome proprio, rinvia alla sua etimologia: è ciò che dice il suo nome, «salvatore>>, o anche «Yah salva>>, il SIGNORE, il tetragramma, salva. Il suo nome rinvia piuttosto spontaneamente al successore di Mosè, Giosuè (in gre­ co ò 'IT]croiìç), che attraversò per primo con il popolo il Giordano per prendere possesso della terra promessa. Siamo al Giordano e Giovanni convoca il popolo in quel luogo, storicamente pieno di ricordi: siamo sul confine e all'ingresso del­ la terra benedetta da Dio. Se Mosè ha annunciato un successore «come lui>> in Dt 18,15, il primo al quale si è pensato, nella stessa Bibbia, non è forse Giosuè, il figlio di Nun (cf. Gs 1,1-5 ) ?19 Ma la traduzione successiva ha letto questo testo del Deu­ teronomio vedendovi in definitiva un riferimento al Messia. Gesù porta il nome del primo successore ed entra in scena come un nuovo Mosè, l'ultimo dei profeti, colui che Mosè annunciò in Dt 18,15 e che bisogna ascoltare, come ricorderà la voce dal cielo al centro del vangelo: «Ascoltatelo!>> (Mc 9,7 ) . Quante convergenze dunque, le une più delle altre presenti alla mente di coloro che hanno ricevuto la catechesi preparatoria, prima di entrare in quella celebrazione nella quale si proclama il testo integralmente.20 Gesù e Giosuè, figlio di Nun

È difficile sapere in che misura la tipologia di Gesù, altro Giosuè, molto sviluppata già da

Giustino (metà del II sec.), giochi un ruolo significativo nella presentazione cristologica di Marco. Il primo (cf. Dt 18,15.18), che viene dopo di lui e riceve il suo spirito, è già nella Bibbia (cf. Dt 34,9; Nm 27,18 ) Giosuè, e questo viene confer­ mato dalla tradizione rabbinica (cf. P. SCHAEFER, Die Vorstellung vom heiligen Geist in der rabbinischen Literatur, Miinchen 1972, 26, 44 e 46). La tipologia Gesù/Giosuè deve essersi imposta piuttosto in fretta nella mente dei cristiani abituati alla Settanta, a causa dell'omonimia ('ll)Ooiìç). Sulla storia della tipologia Giosuè-Gesù (Giordano-battesimo, terra promessa e regno di Dio) nei primi secoli, cf. F.-J. DoLGER, «Der Durchzug durch den Jordan als Sinnbild der Christlichen Taufe>>, in Antike und Christentum, 1930, Il, 70-79; P. LUNDBERG , La typologie baptismale dans l'ancienne Église, Uppsala 1942, 146-166; J. DANIÉWU, Sa­ cramentum futuri, Paris 1950, 203-258; A. JAUBERT, nella sua introduzione a Origene, in Homélies sur Josué (SC 71 ) Paris 1960, 16-62 (37-44). Notiamo ancora in Giustino e nello Pseudo-Bamaba il parallelismo fra «Giosuè» vincitore degli «amaleciti», rappre­ sentanti delle forze del male, e «Gesù>>, indicato non più come «figlio di Nun>>, ma come «Figlio di Dio>>, vincitore di Satana, che incarna tutte le forze del male. ,

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zaraios.

Nazaret non ritornerà mai più in Marco. Anche gli altri evangelisti conoscono l'aggettivo Na­

19 Cf. sotto il riquadro «Gesù e Giosuè, figlio di Nun». 20 Cf. sopra «La catechesi biblica preparatoria»: Gesù profeta

·

Il prologo: Marco 1, 1 - 1 3

escatologico e nuovo Mosè, pp. 36ss. 69

Fra i testi anteriori a Origene di cui tener conto a questo riguardo, vi sono: - la Lettera agli Ebrei 3,7-4,14 (cf. 4,8.14) ; - la Lettera di (Pseudo-)Bamaba 12,2.8-10 (cf. 6,12-19) ; - Giustino, Dialogo con Trifone 49: . Qui Giustino combina Nm 27,18 e Dt 34,9 con Nm 11,27 (si pen" sa anche a Dt 18,15.18) ; 75,1-2 (con un'esegesi del passo di Es 23,20, citato in Mc 1 ,2 e applicato a Giosuè-Gesù); 86,5; 89-90; 106,3; 1 1 1-1 16; 132; - Ireneo, Dimostrazione apostolica 27; 29; 46. Vedremo più avanti che anche l'espressione «pescatori di uomini>> (1 ,17), come Luca l'ha trasposta in Le 5,10 servendosi del verbo CwypELV (), deve essere messa in relazione con il ciclo di Giosuè.

Ma «Gesù>> è anche semplicemente , e il suo nome nel corso dei se­ coli sarà amato per se stesso, nella sua unicità insostituibile, come attestano i molti innamorati del nome, dall'evangelista Luca, e poi Origene, fino al celebre anonimo pellegrino russo del XIX secolo, i cui racconti sono tradotti in tutte le lingue, passando per tutti i praticanti della preghiera di Gesù in oriente ma anche in occidente (così s. Anselmo, s. Bernardo, s. Francesco d'Assisi, che «Sembrava leccarsi le labbra tanto lo sentiva dolce>> ogni volta che pronunciava il nome, o s. Bernardino da Siena).21 «Da Nazaret>>. Il nome del luogo, al di fuori dei vangeli, è sconosciuto. Non compare mai nel Primo Testamento e neppure nel Talmud o nei midrashim, e persi­ no in Giuseppe Flavio, che tuttavia avrebbe potuto facilmente menzionarlo (essen­ do a pochi chilometri dalla nuova città di Sefforis e non lontano da Yotapata dove Giuseppe si era asserragliato momentaneamente per resistere alle truppe romane all'inizio della guerra ebraica).22 Come dire che non viene da nessuna parte o che ha un'origine insignificante. Natanaele, nel quarto vangelo, rende molto bene que­ sta valutazione: (Gv 1 ,45.46). Mistero delle origini, ripercosso in ogni vangelo in modo diverso. Così in Giovanni: ; >, ottiene questa risposta: «Sei forse anche tu galileo? [e implicitamente così poco istruito!). Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!» (Gv 7,41 -42 e 51 -52). Evidentemente anche quest'ultima caratteristica non è vera, se si pensa ad esempio a Giona di Amittai, originario di Gat-Chefer in Zabulon (2Re 14,25 e Gs 19,13), un profeta con il quale, del resto, Gesù si identificherà. Resta la domanda di fondo: come è possibile che il Messia venga da una regio­ ne così marginale e così segnata dall'influenza dei pagani come la Galilea? Matteo, secondo la sua abitudine, scava nel nome «Galilea» con il metodo mi­ drashico. Quando Gesù lascia la regione del Giordano e si dirige verso la Galilea, l'evangelista inserisce la profezia di Is 8,23-9,1 (cf. Mt 4,12-16). «Galilea» evoca

lo studio di J.M. VAN CANGH, «La Galilée dans I'Évangile de Mare: un lieu théologique?», in Si veda in Paul Temant una buona presentazione dello status qUilestionis, che sfuma anche la rilettura dei passi delle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio (dove i confini della Galile> (Sap 1 0,14) - che, solidale con tutti coloro che sono s�ati sommersi e han­ no confessato i loro peccati (v. 5), egli diventa il loro salvatore. Egli regola così una prima volta il conto con questa realtà del peccato; nel suo ultimo battesimo, quello che egli annuncia in 10,38s e teme ancora (cf. Le 12,50) , regolerà definitivamente i conti con essa. Ogni lettore, quello che è stato battezzato e quello che si prepara al battesimo, scopre qui che quello da dove è passato o dovrà passare è già stato pie­ namente assunto da colui nel cui nome viene conferito il battesimo. «Nel Giordano>>, dç, un tantino più forte di Év (cf. v. 5), esprime il movimento, già presente nel verbo «Venne da (&n6) Nazaret>> per andare «Verso>> ed «essere bat­ tezzato nel Giordano>>. A quel tempo la differenza fra Év ed Elç si era fortemente ridotta fino a scomparire. Ci si ricorda di quell'altro «battezzato nel Giordano>>, anch'egli venuto dal nord, cioè Naaman il Siro (2Re 5). A lui il profeta - nel ciclo di Elia e di Eliseo (cf. Giovanni il precursore) - chiede di andare a battezzarsi fino a sette volte nel Gior­ dano. Così potrà guarire dalla lebbra, malattia considerata grave come la morte (cf. il peccato). Il comandante dell'esercito del re di Aram è indignato. Che umiliazio­ ne ! Il gesto è troppo banale, il fiume è un fiume qualsiasi - che c'è di più e di meglio 74

Il prologo: Marco 1, 1-13

dei «fiumi di Damasco, l' Abana e il Parpar»! «Si voltò e se ne partl adirato», dice il narratore. Sono i servi a farlo ragionare e ad aiutarlo a riconciliarsi con ciò che è umile: «Se il profeta ti avesse ordinato qualcosa di difficile, non l'avresti forse fat­ to?». «Allora scese e si immerse (€13a1Tt(oato) sette volte nel Giordano, secondo la parola di Eliseo: la sua carne ridivenne sana come la carne di un bambino» (2Re 5,10-14). Con il Giordano (nome formato dalla radice yarad, ,.,., che significa «scen­ dere»), si tratta di scendere, umilmente, in basso. Non c'è sul pianeta nessun fiume che scenda più in basso del Giordano - fino a quasi cinquecento metri sotto il livel­ lo del mare . . . Gesù, come primo gesto della sua vita pubblica, ha scelto di scende­ re nell'acqua che per sua natura è «umile e casta>> (Francesco d'Assisi), e accetta di andare sempre verso ciò che è più basso e, per di più, nelle acque del fiume che scende più in basso sulla terra. «Da Giovanni>>. Marco afferma esplicitamente che è Giovanni a conferire il battesimo a Gesù. Di questo non vi sarà più traccia in Luca e in Giovanni. Matteo avverte la difficoltà: come è possibile che il più grande sia battezzato dal più pic­ colo? Giovanni in un primo tempo si oppone: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me ! >> (3,14). Questo offre a Matteo l'occasione per collocare qui la prima parola di Gesù nel suo vangelo: (3,15). Così l'evangelista apre per la pri­ ma volta la prospettiva sulla vf)ç in 13,36 e Èl;a1TLva in 9,8. KaÌ. elleùc; è certamente un tratto personale, quasi un tic dell'autore. Del resto ne ha altri, come il fatto di collegare due quadri con KaL . . nahv, «e . . . di nuovo». Questo tratto dominante è particolarmente pronunciato nel primo capitolo, a volte come una mania: cf. le tre occorrenze in tre versetti (28.29.30) o ancora in 42 e 43. La Volgata non ha neppure tradotto l'occorrenza di l ,23 dopo 1,21 . A un livello più profondo, vi si può leggere un tratto del carattere dell'auto­ re: da una parte, alcuni studiosi di caratteriologia vi hanno visto un collerico (cioè la combinazione fra primario, attivo ed emotivo).32 Egli si tradisce dal suo modo di

"' Lagrange ne conta 42 e in nota segnala che J. Weiss ne conta 48! Il primo riconosce che «alcuni casi sono dubbi» (LAGRANGE, LXVIII). 31 Nella Settanta si trovano le due espressioni, ma nei testi greci non tradotti da un originale ebrai­ co l unica occorrenza è Ka.Ì. �uefwç (12 volte sulle 14 occorrenze in tutta la Bibbia greca: KaÌ. �ùeuç si incontra solo sei volte, di cui tre nella Genesi: 15,4; 24,45; 38,29 e due volte in Ez 23,40 e 46,9). Questa differenza è già un indizio che l'espressione preferita da Marco non era quella che preferivano gli scrit· tori greci. 32 a. il profondo studio del caratteriologo olandese A. CHoxus, De vier evangelisten a/s menselijke typen, Haarlem s.d., 28-40. L'esegeta F. HoFMANS ha ripreso e sviluppato questa analisi in lnleiding tot de lezing van het evangelie, Antwerpen l %3, II, 134-1 42. Ricordiamo ancora l'ultima opera di A. DORER, Les quatre apotres (1526) , nella quale egli studia ognuno dei personaggi in base al suo temperamento o «umore»: Giovanni è il sanguigno, l'apostolo Pietro il ftemmatico, Marco il collerico e l'apostolo Paolo il '

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Il prologo: Marco 1, 1 - 13

raccontare. Ma, d'altra parte, vi si può riconoscere anche un tratto che ha a che fare con ciò che viene raccontato: il carattere sconvolgente dell'evento Gesù. In Dio l'a­ zione segue immediatamente la parola e la vita vince sulla morte: là dove si presen­ ta Gesù, avviene qualcosa di irresistibile e di incontrollabile. Lui stesso è sostenuto e spinto, persino «inseguito» dalla forza chiamata Spirito (cf. 1,12), e questo provo­ ca cambiamenti spesso bruschi, quasi sconvolgenti nella loro rapidità (1 ,21.23.29). Il protagonista è sostenuto e abitato da una forza che Marco non può fare a meno di esprimere mediante questi rapidi concatenamenti. Probabilmente il Ka.Ì. EùeÙç tÒ 'ITVEUIJ.a. del v. 12 contiene la chiave di tutto: lì, la forma e il fondo si incontrano in una forma inattesa e rivelatrice al tempo stesso. Quando si rappresenta sulla scena il Vangelo di Marco, come avviene abbastanza spesso dal 1979, tutti sono colpiti dall'incalzare dell'azione, dalla valanga di episodi di trasformazione che si susse­ guono fin dai primi minuti di ascolto! >, Marco dice che «Si strappano>>, irrimediabilmente. Ciò che si apre, potrebbe richiudersi; ciò che è strappato, lo è in modo irrimediabile. All'altro capo del racconto, si parla del «velo del Tempio che si strappa>> e il testo insiste: «in due, da cima a fondo>> (Mc 15,38). Quindi irrimediabilmente e secondo un movimento, anche in questo caso, verticale, il che suggerisce sempre una dimensione religiosa. Una sola volta in tutta la Bibbia ricorre l'espressione «Strappare i cieli>>: in Is 63,19. Ricordiamone il contesto. Si tratta di una grande preghiera esodica nella qua­ le si esprime l'attesa della comunità postesilica (63,7--64,11): . . . Fu per loro Salvatore in tutte le loro tribolazioni. Non fu né un inviato né un angelo ma la sua Faccia che li salvò. Nel suo amore e nella sua compassione lui stesso li riscattò, se li caricò sulle spalle e li portò tutti i giorni del passato. Ma essi si ribellarono, contristarono il suo Spirito santo. Allora essi divennero il loro nemico, lui stesso fece loro guerra. Si ricordarono dei giorni antichi, di Mosè suo servo: Dov'è colui che ritirò dal mare il pastore del suo gregge? Dov'è colui che mise in lui il suo Spirito santo, che fece agire alla destra di Mosè il suo braccio glorioso, che divise le acque davanti a loro per farsi una fama eterna, che li fece camminare in fondo all'abisso facilmente come un cavallo nel deserto? [ . . . ] Lo Spirito del SIGNORE li guidava al riposo. Così tu hai condotto il tuo popolo . . . Guarda dal cielo e vede dalla tua dimora santa e magnifica. Dove sono dunque la tua gelosia e la tua potenza, il fremito delle sue viscere? Ah! non rendere insensibile la tua pietà, perché tu sei nostro Padre. Poiché Abramo non ci riconosce e Israele non si ricorda più di noi. Sei tu SIGNORE che sei nostro Padre, nostro Redentore, Tale è il tuo nome da sempre. [ . . . ] Ritorna a causa dei tuoi servi e delle tribù della tua eredità [ . . . ].

34 La sura 84 del Corano, parlando del giudizio escatologico, echeggia molte espressioni bibliche vicine al nostro testo: l. «Quando il cielo si squarcerà .. . 3. «Quando la terra sarà spianata . » (cf. Is 40,3 e Mc 1,2-3). 6. «Allora tu, essere umano, che desideravi vedere il tuo Signore, lo vedrai». ..

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Il prologo: Marco 1, 1-13

Ah! Se tu strappassi i cieli e se tu scendessi . . . Nessun orecchio ha sentito, nessun occhio ha visto, un Dio, fuori di te, agire così a favore di chi si affida a te.

Molte espressioni di questa celebre pagina risuonano tali e quali nei versetti di Marco relativi al battesimo di Gesù (cf. i corsivi). Così Marco conferma che al momento del battesimo si realizza la speranza espressa nel libro del profeta. I cie­ li si strappano e lo Spirito Santo discende sul nuovo pastore, l'altro Mosè, quello della fine. Il dono dello Spirito era atteso per i tempi messianici. Era associato con il ri­ torno di un'era dei profeti. In certe tradizioni si affermava che, con la morte dell'ul­ timo profeta, Malachia, era cessato l'invio dello Spirito al popolo di Israele; lo Spi­ rito si era ritirato nel santuario celeste e il cielo era chiuso.35 Marco capovolge cia­ scuno di questi tratti: i cieli sono strappati, lo Spirito è nella storia e vi sono nuova­ mente dei profeti nella persona di Giovanni e di Gesù, l'Elia atteso è apparso e il nuovo Mosè è sulla scena. Ricordiamo ancora che «il profeta come Mosè», annun­ ciato in Dt 18,15.18 e considerato in molte tradizioni dell'ebraismo contemporaneo come figura messianica, tornerà, secondo il Targum Pseudo-Gionata, «nello Spirito santo».36 Notiamo ancora che anche l'autore della Lettera agli Ebrei conosce questo passo di Is 63,11-12 e applica a Gesù ciò che lì si dice di Mosè: Il Dio della pace che ha fatto risalire dai moni mediante il sangue di un'alleanza eterna il grande pastore delle pecore, il nostro Signore Gesù, vi renda atti a tutto ciò che è bene per fare la sua volontà (13,20-21).

Qui la «risalita dalle acque» di Is 63,12 viene intesa come uscita dalla morte da parte del «grande pastore» che ormai ci precede nella vita. Questa interpretazione illumina indirettamente il racconto di Marco: si dovrebbe comprendere il battesi­ mo come il compendio anticipato di tutto il cammino di sofferenza e di gloria che Gesù dovrà percorrere. Indirettamente, il discepolo scopre ciò che implicherà il proprio battesimo sulla scia di quello di Gesù. Questo corrisponde bene alla fun­ zione di prologo esposta sopra e alla dimensione iniziatica ipotizzata per il testo nel suo complesso. Che cosa significa infine la comparazione dello Spirito con una colomba (KetL tÒ 1TVEU� wc; 1TEpLCJtEpocv Ket-caJ3et1vov E Le; etÒtov ) ? L'immagine dell'uccello vi ene a fornire un supporto visivo alla discesa dello Spirito, che altrimenti sarebbe appena raccontabile. In greco, il termine «spirito>> (1TVEU�) non ha la forza percepibile del termine ruah in ebraico. Occorreva un supporto e l'uccello lo ha offerto. Ma perché la scelta del narratore è caduta, fra tutti gli uccelli, proprio sulla fragile colomba? Se all'epoca di Gesù essa era un esempio di semplicità (cf. Mt

" «Quando Aggeo, Zaccaria e Malachia, gli ultimi profeti, morirono, lo Spirito Santo si allontanò da Israele» ( TosSot 13,2). Cf. sulla questione SCHAEFER, Die Vorstellung. 21-22 e 143-146. Sull'espressio­ ne «i cieli chiusi», cf. A. PAUL, lntertestament. Paris 1975, 49-50. Si veda su questo punto il nostro studio «Jésus et l'Esprit», in L 'espace Jésus, 120-133. -" «Il Signore tuo Dio susciterà per te fra i tuoi fratelli un profeta nello Spirito santo come me, che voi ascolterete . . . »; «Un profeta simile a te nel quale c 'è lo Spirito santo>> (commentato da SCHAEFER, Die Vorstellung, 26). Il prologo: Marco 1, 1 - 13

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10,16), oggi il suo significato nella nostra pericope è oggetto di discussioni tanto

complicate quanto interminabiliP7 Si è pensato allo Spirito che «Si librava» all 'inizio della: prima creazione: questo grande vento ha un po' il movimento di un immenso uccello, ma si pensa più a un'aquila o a un avvoltoio che a una colomba, soprattut­ to a causa del verbo raro merahèfet (Gen 1,2 nEln,o), che si incontra solo un'altra volta, in Dt 32,11 («come un avvoltoio che si libra sopra i suoi pìccoli>> ). Si potreb­ be pensare alla colomba al di sopra delle acque del diluvio; ma essa non verso Noè; compie semplicemente un volo di andata e ritorno per confermare che le acque sono scese abbastanza da poter tornare sulla terraferma (Gen 8,6-12). In entrambi i casi, se Marco vi alludeva, bisognerebbe concludere che anche qui ci troviamo a un nuovo inizio, a un rinnovamento di tutto il creato. Ma il contesto, come lo abbiamo analizzato finora, è dominato da una problematica un po' diversa, anzitutto identitaria: ora questa mira alla designazione di Gesù come profeta. Così, fra tutte le soluzioni proposte, ve n'è una che ci sembra volersi im­ porre con più forza: quella che rispetta maggiormente il contesto creato da Marco. Nelle Antichità bibliche dello Pseudo-Filone (testo considerato precedente alla distruzione del secondo Tempio e quindi al 70) si parla ripetutamente di «Colombe». Un passo è particolarmente caratteristico: quello in cui Dio spiega in modo compara­ to i cinque animali che Abramo aveva preso, per ordine di Dio, per concludere l'al­ leanza (Gen 15,6-7; questa pagina veniva ricordata nella notte pasquale, secondo il Poema delle Quattro notti, nel Targurn di Es 12,42, citato nell'introduzione). Dio dice: «lo ti paragonerò alla colomba perché tu hai preso per me la città che i tuoi figli co­ struiranno in mia presenza; io paragonerò alla tortora i profeti che nasceranno da te; paragonerò al montone i saggi che nasceranno da te; paragonerò al vitello la moltitu­ dine dei popoli che moltiplicheranno la tua stirpe; paragonerò la capra alle donne di cui aprirò l'utero e che partoriranno. Gli stessi profeti e questa notte saranno una testi­ monianza fra noi che io non verrò meno alle mie parole» (23,7). Ogni identificazione comparata si basa su una serie di convenzioni già più o meno tradizionali. I commen­ tatori C. Perrot e P.-M. Bogaert, nelle edizioni delle Sources chrétiennes, spiegano le due comparazioni della colomba e della tortora in questo modo: ,

Il simbolismo della colomba che rappresenta Israele è ben noto; cf. 21,6; 39,5; cf. Os 7,11 e 4Esd 5,16. Qui, Abramo, roccia e radice di tutto il popolo, viene paragonato alla colomba di Israele. [ . ] La tortora rappresenta i profeti, e certamente più particolar­ mente Mosè, «il primo di tutti i profeti>> (35,6); in CantR 2,12 e PesiqtahRabb 15,73b Mosè è paragonato anche alla tortora e più ancora in TargCant 2,12 la tortora è identi­ ficata con lo Spirito Santo, fonte della profezia.38 .

.

E i commentatori aggiungono: Come è noto, la presenza di una colomba al battesimo di Gesù continua a essere un enigma per gli esegeti. A partire da questa indicazione delle Antichità bibliche, si po-

37 Per orientarsi cf. F. LI!NTZEN-DEIS, Die Taufe nach den Synoptikem, Frankfurt 1970, 170-183 e 265-270; L.E. KECK, «The Spirit and the Dove», in NTS 17(1970-71), 41-67; A. TosAm, «Il battesimo di Gesù e alcuni passi trascurati dello Pseudo-Filone», in Biblica 56(1975), 405-409. Un po' a corto di solu­ zioni, CUVILLIER, ad loc scrive: «Più furba del serpente, [la colomba) ha sfidato tutte le ipotesi e chiama gli esegeti a molta umiltà» (28). FocANT, ad loc., è piuttosto certo che solo l'evocazione dello Spirito che «Si libra» sulle acque delle origini (Gen 1,2) conferisca un senso al passo. " PSEUDO-FIWNE, Les antiquités bibliques (SC 230), Paris 1976, Il, 146-147. ..

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Il prologo: Marco 1, 1 - 13

trebbe comprendere il testo evangelico come il racconto di intronizzazione o di ricono­ scimento profetico di Gesù all'inizio del suo ministero.

Alla luce di questo commento e di tutta la documentazione che offre, la spie­ gazione più semplice della comparazione dello Spirito alla colomba nella pericope del battesimo in Marco ci sembra quella che considera questo elemento come una qualificazione supplementare di Gesù in quanto profeta, che riceve «lo Spirito dei profeti>>, e più particolarmente lo Spirito di «Mosè, il primo di tutti i profeti>>. «Vide lo Spirito scendere su di lui>>, più letteralmente «in lui>> (E Ì.ç aùtov). Questo piccolo dettaglio, subito corretto dagli altri tre («SU di lui>>, ElT' aùt6v), non è privo di importanza. Nella rappresentazione delle cose a quel tempo, come abbia­ mo visto sopra, si affermava che lo Spirito si era ritirato nel santuario celeste. Non c'è più lo Spirito operante e neppure presente in mezzo al popolo. L'espressione «Spirito Santo», rarissima nella Bibbia ebraica (al massimo tre volte, di cui due in Is 63), è più complessa di un semplice sostantivo seguito da un aggettivo, come in italiano. Ruah ha-qodesh significa: lo Spirito del santuario. Certi farisei e la mag­ gior parte degli esseni erano convinti che il Tempio a Gerusalemme, profanato sot­ to Pompeo, non fosse mai stato riconsacrato secondo le regole, e i grandi sforzi di Erode il Grande per arricchirlo e renderlo addirittura splendido non cambiavano la situazione: il Tempio non conteneva la Shekhinah ( «I'Inabitazione>>) con al suo centro la Ruah ha-qodesh, «lo Spirito del santuario>>. Raccontando che Gesù vide i cieli strapparsi e lo Spirito discendere su di lui, «in lui», Marco ci rende testimoni di un evento inaudito: ormai il Luogo dove abita la Presenza, la Shekhinah, con in essa la Ruah ha-qodesh, è la persona di Gesù. Ormai il cielo è strappato e l'accesso al cielo è donato nella persona di Gesù (cf. Gv 1,5 1 : «Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell'uomo>>). Questo ordine di pensiero è presente un po' ovunque nel Nuovo Testamen­ to, in Paolo, in Giovanni, nella Prima lettera di Pietro, nel discorso di Stefano (At 7), nella Lettera agli Ebrei e nell'Apocalisse. C'è ormai un solo tempio: quello che noi siamo «in CristO>>. «In noi abita lo Spirito Santo>>. «Egli parlava del tempio del suo corpo>>. Il perdono dei peccati non viene più concesso attraverso dei sacrifici a Gerusalemme ma nella persona di Gesù morto e risorto «per i nostri peccati>>. Sia­ mo personalmente convinti che tutte queste idee, sparse un po' ovunque in tutto il Nuovo Testamento, non risalgano solo all'avvenimento della Pasqua, ma che Gesù durante la sua vita irradiasse tutto questo e ne parlasse ai suoi, in seguito all'avve­ nimento del battesimo.39 Marco non vi ritornerà spesso, ma vi ritorna comunque due volte in modo molto esplicito: quando gli scribi dicono che Gesù è posseduto dal principe dei de­ moni, la reazione è perentoria: essi che è in lui e si escludono di colpo da ogni perdono dei peccati. Ogni peccato può essere perdonato, tranne quello (Mc 3,29-30). E quando i discepoli saranno tradotti da­ vanti ai tribunali, non dovranno preoccuparsi di ciò che devono dire: «Non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo>> (13,1 1). In Gesù e in coloro che avranno ricevuto il

"" a. il capitolo dedicato a «.lésus et l'Esprit» nel nostro L'espace Jésus, 120-133 (e n. 24 per la bibliografia). Fra gli studi che evidenziano ciò che si pensava all'epoca in ambiente giudaico, cf. soprat­ tutto quelli di SCHAEFER, Die Vorstellung e J.D.G. DuNN, Jesus and the Spirit, Philadelphia-London 1975. Il prologo: Marco 1, 1 - 13

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battesimo «nello Spirito Santo» (1,8), c'è una potenza più forte del peccato e più forte di ogni resistenza contraria, da qualsiasi parte essa venga. Resta da esaminare la parola pronunciata dalla voce dal cielo: «E una voce venne dai cieli: Tu sei il figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento». «Una voce venne dai cieli». In greco, si può notare una leggera enfasi sul ter­ mine wvti a causa dell 'ordine delle parole: KCÙ cjlwv� ÈyÉvHo. Dopo il momento visivo viene il momento uditivo: nell'esperienza mistica l'ordine dei sensi si inverte. Mentre nell'esperienza comune le cose diventano più evidenti quando si può, ol­ tre che udirle, anche vederle, nell'esperienza mistica si nota il contrario. Qui, come nell'episodio della trasfigurazione al capitolo 9, l'esperienza raggiunge il suo acme quando risuona la voce. Quest'ultima è stata spesso comparata a ciò che nella let­ teratura rabbinica si chiama la bath qol o «figlia della voce». Nei racconti dei rabbi questa voce viene introdotta come un momento interpretativo di ciò che è appena accaduto, spesso per decidere, come in occasione di un 'interminabile discussione o di un giudizio incerto. Qui il parallelismo è evidente, ma la voce fa ben più che interpretare o decidere: essa interpella direttamente il protagonista, lo indica, gli rivela la sua relazione e tutto il suo destino. Al tempo stesso si rivela come la voce del Padre dei cieli, di colui che interviene nella storia e la dirige. La voce si qualifica indirettamente: «Tu sei il figlio mio» implica: «lo sono tuo padre» - colui che parla dice di essere il Padre. La voce si rivolge solo a Gesù (diver­ samente da Matteo o dalla trasfigurazione in Marco: «Questi è il mio figlio»). Parola che rivela a Gesù chi egli sia, e nella misura in cui si può sentirvi risuonare l'oracolo del Sal 2 (v. 7) essa è parola di investitura davidica, messianica. Infatti, tutto questo salmo, posto come epigrafe al Salterio, è stato sempre letto come messianico, già a causa del v. 2: «< principi cospirano contro il SIGNORE e contro il suo Unto, il suo Messia». Quindi Gesù apprende, e noi con lui, di essere il Figlio, il Messia, il che viene a confermare l'apertura del nostro testo (1,1: «Gesù CristO>>). Questa prima designazione viene qualificata con due tratti supplementari: «il figlio mio, l'amato» e «in te ho posto il mio compiacimento>>. Il primo deve essere messo in relazione con la figura di !sacco che in Gen 22 è detto per tre volte .41 Ricordiamo che in uno dei Targum di Gen 22 Isacco, sulla catasta di legna, vede i cieli aperti e gli angeli del cielo. Poi «una voce

40 In Paolo si trova l'idea che Dio stesso, nel suo amore, «non ha risparmiato» Gesù, «il suo pro­ prio figliO>> (Rm 8,32). Anche qui è evidente l'allusione al sacrificio sul monte Moria di Gen 22. 41 Cf., oltre allo studio di LE DÉAUT, La nuit pasca/e, 133-208 e J. BoWKER, The Targums and Rabbinic Literature, Cambridge 1969, 224-234, anche G. RouiLLER, «Le sacrifice d'lsaac, Gen 22,1-19,

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Il prologo: Marco 1, 1-13

discende dai cieli e dice: "Venite, vedete due persone uniche nel mio universo. Uno sacrifica e l'altro è sacrificato: colui che sacrifica non esita e colui che è sacrificato tende la gola">>.42 Anche nel Targum Neofiti di Es 12,42, nel famoso Poema delle Quattro notti, citato nell'introduzione, si allude all' Aqeda o legatura di Isacco: «E !sacco aveva 37 anni quando venne offerto sull'altare. I cieli si abbassarono e sce­ sero>> e «Isacco ne vide le perfezioni e i suoi occhi si oscurarono a causa delle loro perfezioni. Ed egli la chiamò Seconda Notte>> (Targum Neofiti 12,42). R. Le Déaut osserva: «Il legame fra Pasqua e Aqeda è molto antico e si trova già implicito in Giubilei 17-18>>Y Anche il riferimento a Isacco nel nostro testo viene indirettamen­ te a rinforzare l'ipotesi secondo cui il testo di Marco era concepito per essere letto nella notte pasquale, notte nella quale ci si ricordava più specificamente anche di Isacco al monte Moria di Gen 22. Riguardo all'espressione «in te ho posto il mio compiacimento», notiamo an­ zitutto che sul piano grammaticale si tratta di una seconda proposizione. Al di là della designazione di figlio, figlio amato, Isacco di Dio che non sarà risparmiato, Gesù ode come un nuovo atto dichiarativo da parte di Dio: «In te ho posto il mio compiacimento». Qui, l'allusione va ricercata nel libro di Isaia. Questo fa sì che i tre riferimenti provengano dalle tre parti della Bibbia: la Torah con Gen 22, i Profeti con Isaia e gli Agiografi con il Sal 2. Si percepisce, come in Mc 1,2-3, il lavoro di un ambiente che ha scrutato le Scritture ed elaborato delle vere collane di riferimenti convergenti (cf. la Lettera agli Ebrei o la Prima lettera di Pietro 1,10-12).44 Il testo di Isaia si trova al capitolo 42: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio Spirito su di lui» (v. 1). Nell'esege­ si contemporanea questo passo è chiamato primo canto del Servo sofferente. Nel libro di Isaia questa pagina viene accostata ad altri tre «canti», detti «del Servo», dove si tratta ogni volta di un destino che è segnato da contraddizioni ma sfocia in una vittoria (Is 49,1s; 50,4s; 52,13-53,12). Un ultimo canto in Is 61 riprende l'apertu­ ra appena citata e precisa: «Lo Spirito del S IGNORE è su di me, il SIGNORE mi ha unto [la TOB traduce: "ha fatto di me un messia"]; mi ha inviato a portare la buona no­ vella ai poveri (LXX: EooyyEA.Laacrecn mwxo'ì.ç)» (61 ,1). Il contesto così evocato dal passo citato comporta vari elementi già incontrati: il dono dello Spirito, la vocazio­ ne profetica del Servo, la sua condizione di sofferenza per la redenzione della mol­ titudine e la sua vittoria finale. Quest'ultimo elemento è costante, ma a volte un po' offuscato, fin nello stesso titolo dato dall'esegesi a questi canti: si pone l'accento so­ prattutto sulla sofferenza. Tuttavia, fin dal primo canto si parla di «portare il diritto alle nazioni», inflessibilmente, quali che siano le resistenze o l'opposizione (42,2-5). L'interesse di queste associazioni aumenta nella misura in cui ci si rende con­ to di quanto all'epoca queste pagine di Isaia fossero piene di risonanze sia mosai­ che che messianiche. Già al tempo della loro composizione, questi canti furono

première lecture», in Exegesis. Problèmes de méthode et exercices de lecture (Genèse 22 et Luc 15), Neu­ chàtel-Paris 1975, 26-35. 42 Targum du Pentateuque, 1: Genèse, trad. R. LE DÉAUT - J. RoBERT (SC 245) Paris 1978, 218. '3 R. LE DÉAuT, in Targum du Pentateuque, 2: Exode et Lévitique (SC 256), Paris 1979, 97, n. 43, con riferimento a Io., La nuitpascale, 200. " Su questa tecnica rabbinica dell'associazione in collana (hariza) di passi tratti dalle tre parti delle Scritture, cf. LENHARDT - AvRIL, La /ecture juive de /' Écriture, 25-30. In Le 24, è lo stesso Risorto a iniziare anzitutto i discepoli di Emmaus e poi gli altri discepoli a questa pratica (v. 27 e v. 44 - «in Mosè, i Profeti e i Salmi»). Il prologo: Marco 1, 1 - 13

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redatti in dipendenza da tradizioni di Mosè nel Pentateuco;45 e la loro interpreta­ zione al tempo di Marco li accostava ancor più alla figura di Mosè.46 Si vedeva un parallelismo fra le sofferenze di Mosè per il suo popolo e quelle del Servo per la moltitudineY Marco ritornerà ripetutamente sulla sorte di Gesù paragonata con quella di questo servo che è rifiutato dai suoi e «dona la sua vita in riscatto per la moltitudine».48 La vicinanza fra l'espressione «figlio amato>> e quella del servo «nel quale ho posto il mio compiacimento>> risulta ancor più significativa per il fatto che, secondo certe tradizioni del giudaismo dell'epoca, !sacco, mediante la sua disposi­ zione volontaria al sacrificio, salva tutta la sua discendenza.49 Gesù, nuovo Isacco e nuovo Mosè, è chiamato a realizzare la salvezza per la moltitudine attraverso un destino di sofferenza e di oblazione volontaria. Ecco ciò che mostra l'accostamento delle tre allusioni. Sotto certi aspetti, ciò che dice la voce dal cielo è il programma di tutta una vita, vocazione e destino. La triade corri­ sponde alle tre tappe che dovrà percorrere Gesù: la parola del Sal 2 lo investe con autorità e comincerà effettivamente con una dimostrazione di opere sorprendenti, cacciando i demoni e guarendo i malati. Il nome di «figlio amato>>, con l'associazio­ ne a Isacco, e un !sacco che non sarà risparmiato, esprime chiaramente il destino di sofferenza e di morte che Gesù dovrà assumere, destino riferito nella seconda metà del racconto evangelico. Infine, l'ultima allusione, formulata come una nuova pro­ posizione indipendente («in te ho posto il mio compiacimento>>), assicura a Gesù che, al di là della prova che implicherà il suo rifiuto e la sua morte, Dio si dichiara fin d'ora garante della vittoria finale, come ha già detto in Isaia. Quest'ultima paro­ la annuncia la risurrezione con un nuovo atto da parte di Dio. Tutto questo appartiene alla rivelazione: si impara, si riceve conoscenza su co­ noscenza, si viene informati o confermati in ciò che già si sa, ma anche in ordine a un percorso coerente: si scopre al tempo stesso l'aspetto compromettente, la faccia esigente che richiede un impegno totale e incondizionato da parte di chi accoglie queste parole della rivelazione divina. Così vuole Marco, fin dal suo prologo. Egli fa sempre ben più che informare o enunciare un contenuto già più o meno esposto in· quella che noi abbiamo presentato come «la catechesi preparatoria>>. Il suo testo è attraversato da un dinamismo che cancella la distanza con il semplice spettatore più o meno indifferente e coinvolge personalmente chiunque accetti di ascoltarlo. Il suo racconto non è un quadro che si contempla, bensì un dramma al quale' si è invitati a partecipare.

713;

45 Cf. BLOCH, «Ouelques aspects de la figure de Molse», 153-156; A. FEUILLET, art. «lsale,., in DBS,

D ÉAUT, La nuit pasca/e, 122. Cf. J. JEREMIAS, art. «MWOOTJç», in TWNT IV, 867-868: BLocn, «Ouelques aspects de la figure de Morse>>, 153-161 . 47 Oltre ai riferimenti agli studi nelle due note precedenti, segnaliamo ancora D. DAUBE, The New Testament and Rabbinic Judaism, London 1956, 1 1-12 e J. BowMAN, The Gospel ofMark. The New Chri­ stian Jewish Passover Haggadah, Leiden 1965, 65-74. " 2,20 (cf. 53.8): 3,6; 8,29-3 1; 9,1 1-13 (v. 12 e Is 53,3); 9,31 ; 10,33-34: 10,45; 12,1 -11; 14,21 .24.41 . 49 Cf. G. VERME S, Scripture and Traditions in Judaism, Leiden 1961, 206-211; LE D ÉA UT, La nuit pasca/e. 198-200: E. BEST, The Temptation and the Passion: The Marcan Soteriology, Cambridge 1965. 167-177; R.A. R os EN BERG, «Jesus, Isaac and "the Suffering Servant">>, in JBL 84(1965), 381-388; R.J. DALY, «The Soteriological Significance of the Sacrifice of Isaac», in CBQ 39(1977), 45-75. Oggi l'impor­ tanza del motivo dell'Aqeda di !sacco nel giudaismo contemporaneo di Marco rende molto probabile agli occhi della critica l'allusione a Gen 22 in Mc 1,11 e 9,7. nonché in 12,6. Per 9,7 cf. H. RIESENFELD, Jésus transfiguré. L'arrière-plan du récit évangélique de la transfiguration de Notre-Seigneur, Copenhague LE

46

1947, 86-96.

84

Il prologo: Marco 1, 1 - 13

Terzo quadro: 1 ,1 2-1 3, Gesù nel deserto

1 ,12-13: Kat EÙ9ùç -rò 1TIIfUIJil' aù-ròv ÈK�aUEL Elç t�v ÉpTJI..LO V, 1�at �v Èv -rfl Èp�iJ4J -rEOOEpaKOVtll �iJfpaç 1THpll(OiJEVOç lJ'ITÒ tOU �atavii, KllL �V iJHcl tWV 9Tjp LWV, KllL OL ayyEÀOL ÙLTJKOVOUV aÙ-rQ. 1,12-13: «E subito lo Spirito lo caccia verso il deserto. Ed egli abitava nel deserto per quaranta giorni, messo alla prova dal Satana, ed era in compagnia delle bestie selvatiche" e gli angeli lo servivano». vv.

12-13. «E subito»

(KaÌ. Eùeuç, cf. v. 10).

L'immediatezza sorprende. Brusca

sterzata, che fa certamente parte del ritmo narrativo di Marco (cf. v.

10).

Contrasto

vibrante rispetto a ciò che precede, ma l'uno deve avere comunque un qualche le­ game con l'altro. Il lettore si interroga: come mai? Perché dopo quell'esperienza di

pienezza, questa cacciata brusca e improvvisa «Verso il deserto»? Si tratterà di com­

prendere, da una parte, come >. C'è negli Atti un caso curioso per la sua strana analogia: lo Spirito, Il chiama­ to «l'Angelo del Signore>> (ma più avanti nel racconto «lo Spirito del Signore>>), dà quest'ordine a Filippo, uno dei primi diaconi: «Alzati e va' verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta» (A t 8,26). Enigma di questa destinazione che sfocerà in un incontro sommamente fruttuoso. Un altro passo induce a pensare: in Ap 12, quando il Bambino, nato dalla Donna vestita di sole, è rapito verso Dio e verso il suo trono, «la Donna fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta gior­ ni>> (12,6). Un po' più avanti, la Donna «riceve le due ali della grande aquila per vo­ lare nel deserto verso il proprio rifugio, dove deve essere nutrita per un tempo, due 86

Il prologo: Marco 1, 1-13

tempi e la metà di un tempo, lontano dal Serpente» (12,14). Qui il deserto, come del resto in vari salmi, è più un luogo di rifugio contro il male che un luogo sovraespo­ sto alle potenze del male. Resta il mistero di questo luogo in cui conduce lo Spirito. La grande memoria biblica, che è anche quella che nutre l'evangelista e i suoi primi lettori/uditori, ascoltando questa successione: battesimo, deserto, poi vita pubblica nella quale viene proclamata la venuta del Regno, ha dovuto certamente vedere in primo luogo la successione: Egitto, esodo, passaggio delle acque al Mare dei Giunchi, soggiorno nel deserto, poi ingresso nella terra promessa sotto la guida di Giosuè. La struttura di Mc 1 ,1-15 riprodurrebbe allora la struttura del grande ci­ clo di Mosè, dall'Esodo al libro del Deuteronomio. Da ciò che si è appena detto si può dedurre, in negativo, che non è indicato andare ne� deserto senza una qualche spinta da parte dello Spirito. Senza che pri­ ma, in qualche modo, il cielo si sia aperto un po', non tentiamo la rischiosa avven­ tura della totale nudità e del vuoto assoluto. Potrebbe essere pericoloso. Catherine Doherty de Hueck mette in guardia anche coloro che, per imitare altri, vanno a ri­ tirarsi da soli in quella capanna/eremo che è chiamata in Russia pustinia, un termi­ ne che significa anch'esso «deserto>>. Se non c'è stata una chiamata, un'ingiunzione dello Spirito, è meglio aspettare prima di partire e voltare drasticamente le spalle alla società e a ogni ordine sociale, culturale o religioso. Più grande sarà lo strappo nel cielo, più terribile può essere l'appello a partire per il deserto. I maestri buddisti dicono la stessa cosa. A un momento di illuminazione succe­ de un momento di ritiro verso un deserto più interiore. E la vita è un avanzamento di illuminazione in illuminazione, andando anche di deserto in deserto o, tradotto in linguaggio occidentale, di ritiro in ritiro. L'ultimo ritiro è la morte. Al di là della morte, ci si può attendere un'esperienza di luce ancor più pervasiva che potrà sot­ trarci a tutti gli ordini per non vedere più che l'Uno, «tutto in tutti>>. Quest'ultimo ritiro sarà anche la negazione di tutti gli altri ritiri. Al di fuori del suo regno, non c'è più nulla; non c'� neppure più la possibilità di esserne espulsi o di andarsene. In Giappone si racconta la storia di un maestro che aveva trasmesso la grande luce a uno dei suoi discepoli. Quest'ultimo, riconosciuto e rassicurato dal suo maestro, de­ cise di lasciare tutto. Si recò in città e andò a vivere in mezzo ai barboni, diventando completamente irriconoscibile, introvabile. Dopo l'illuminazione viene il deserto. All'avvicinarsi della morte del maestro, tutti nel monastero cominciarono a inquie­ tarsi: chi sarà il successore? Ma il maestro rassicurò tutti: «lo l'ho già designato da molti anni. È il Tal dei tali». Ma dove trovarlo? È in città, in mezzo ai barboni, sotto i ponti. Come distinguerlo? Ha una debolezza, fin dall'infanzia: gli piacciono i coco­ meri ! Alla fine, si decise di riunire tutti i barboni della città. Si collocarono davanti a loro molti cocomeri. «Venite ! Prendete! Ma senza mani! >>. Tutti coloro che vole­ vano avvicinarsi ebbero un fremito e fecero un passo indietro. Poi un barbone si av­ vicinò e disse: «Benissimo. Datemi. Senza mani! >>. Subito il vero successore fu indi­ viduato. È colui che ha attraversato la prova. La prova del coltello, della parola che improvvisamente taglia, tronca, può «Castrare>>. L'uomo veramente libero ha ol­ trepassato la paura della castrazione. Replica liberamente: «Datemi, senza mani». Riflettendo bene, la sua replica non è neppure offensiva. Nell'ordine del dono, il passaggio non avviene forse anche senza le mani? Nell'ordine del dono, non vi sono più minacce, ma solo una perfetta reciprocità, . L'ordine di «prende­ re» o di «donare>> «ma senza mani>> è diventato la rete attraverso la quale il maestro nascosto si è rivelato e ha potuto essere ripescato per diventare il successore del suo maestro. Egli ha rivelato la sua grande libertà ed è stato preso, come impigliato Il prologo: Marco 1, 1 - 13

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nella rete, per diventare il nuovo maestro del monastero. Ma ogni maestro, degno di questo nome, non è catturabile come tale: egli passa e si mostra anzitutto come liberatore. Libera gli altri attirandoli a sé. Il maesto evangelico dirà alcuni versetti dopo: «Vi farò diventare pescatori di uomini» (Mc 1 ,17). E questa sola parola compie già ciò che dice: i primi quattro chiamati non sono forse subito i primi pesci nella rete di colui che è per eccellenza «pescatore di uomini» (Mc 1,17)? «Ed egli era/abitava nel deserto per quaranta giorni, messo alla prova dal Sa­ tana». La frase può essere letta in due modi: sia come una sola proposizione, peri­ frastica (�v TTHpa.çoiJ.EVoç: «egli era messo alla prova»), sia come un verbo princi­ pale («egli era», «egli abitava nel deserto»), seguito da un participio, «messo alla prova». Marco predilige la formulazione perifrastica, ma qui sembra preferibile at­ tribuire al verbo «essere» tutto il suo peso: «egli era e abitava nel deserto per qua­ ranta giorni». Mediante due espressioni il narratore precisa lo spazio e il tempo: «nel deserto» e «quaranta giorni». Alcuni manoscritti (L 33 M fl3 579) aggiungono «e quaranta notti». Si tratta indubbiamente di un'aggiunta derivante dal parallelo di Mt 4,2. Lì, la menzione delle «quaranta notti>> è in funzione del digiuno, con un possibile richiamo al digiuno di Elia, quando, dopo essere stato nutrito dall'angelo, «camminò, sostenuto da quel cibo, per quaranta giorni e quaranta notti>> ( 1 Re 19,8). I quaranta giorni costituiscono la durata più lunga che il racconto di Marco abbrac­ cia con un colpo solo lungo tutto i suoi sedici capitoli. Il racconto di Marco e il tempo Le annotazioni cronologiche sono, come del resto nella maggior parte dei racconti, assai precise e molteplici all'inizio e alla fine di un racconto. A volte possono riaffiorare bru­ scamente nel bel mezzo del racconto. Per il resto, rimangono in genere piuttosto vaghe («una volta», «un giorno», «di nuovo . . . », «giunsero allora degli scribi da Gerusalem­ me» . . . ). In Marco, da 1 ,21 a 39, si potrà seguire Gesù nelle sue attività distribuite su ven­ tiquattro ore, in quattro quadri che si susseguono. Qualcosa di analogo si verifica nella ' parte finale di Marco, alla morte, nel racconto della passione (15,25.33.42). A partire da 1 1 ,1 si può persino ricostruire un'intera settimana fino a 16,1 (cf. 11,11 .12.1 9-20; 14,1.12.1 7.41; 1 5,1 ). Al di fuori di questo inizio e della parte finale, le annotazioni cronologiche sono rare. Da 1,40 a 3,6 gli episodi si susseguono in modo piuttosto incerto. Poiché tutto comincia nella sinagoga un giorno di sabato (1 ,22) e si conclude nuovamente nella sinagoga un giorno di sabato (3,1 -6), si può immaginare che il narratore abbia disposto anche questi primi tre capitoli in base alla struttura di una settimana (da sabato a sabato). Da 3,20 a 35 gli episodi sembrano susseguirsi di­ rettamente come in 1 ,21 -39 e lo stesso da 4,35 a 5,43. Una tale successione diretta de­ gli avvenimenti è supposta anche nella sezione dei pani (6,30-8,26); nella sezione del cammino (9,1 4-10,52) le cose sono legate meno chiaramente. Invece un'annotazione cronologica molto chiara compare in 9,2 (), cioè proprio al centro del vangelo, il che conferisce nuovamente alla sezione centrale di 8,27-9,13 la corni­ ce di un'intera settimana. Vi sarebbero quindi tre settimane nettamente delimitate in Marco (quella dell'inizio, fino a 3,6; quella al centro, da 8,27 a 9,13, e quella della fine, l'ultima settimana di Gesù a Gerusalemme, da 11,1 a 16,8), mentre due volte, alle due estremità del racconto, si trova una giornata piena con i quattro momenti del giorno chiaramente segnalati (l ,21-39 e 15, 1-42). Le annotazioni cronologiche ci permettono di apprezzare il flusso del racconto, il suo ritmo effettivo. Più il tempo viene segnalato in modo esplicito e dettagliato, più il nar­ ratore ci tiene a comunicare in modo lento e cosciente con i suoi destinatari. Nel nostro racconto, questo è evidente non solo all'inizio e alla fine, ma anche al centro. Perciò l'an-

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Il prologo: Marco 1, 1 - 13

notazione di 9,2 è preziosa: essa suggerisce che qui, fra 8,27 e 9,13, l'autore dice qualcosa che gli sta a cuore e vuole mettere in risalto. Fra tutte le annotazioni cronologiche quella in Mc 1,12 è certamente una delle più signi­ ficative, a causa della sua lunghezza eccezionale e del suo vuoto: «Egli era nel deserto per quaranta giorni, messo alla prova dal Satana».

Marco riesce a darci in due versetti e in meno di trenta parole un racconto completo, con apertura, transizione e risoluzioneY Le istanze riunite e la stessa cornice, nel tempo come nello spazio, sono quasi astratte: si è «nel deserto», «per quaranta giorni», c'è che spinge e addirittura caccia Gesù, e di fronte a quest'ultimo c'è «il Satana», con o senza maiuscola, colui che , tenta, cerca di tendere trappole e far cadere e soccombere colui che ha davanti. In che cosa? Questo non viene precisato in Marco. Un tale «Satana>> compare anco­ ra nelle prime pagine della Bibbia (Geo 3) e nell'apertura o nel prologo del libro di Giobbe. Ogni volta, egli illustra il suo nome: satanas, colui che tende tranelli e cerca di mettere alla prova. La tradizione ebraica lo mette facilmente in scena nei suoi midrashim. Così, quando Abramo in Geo 22 parte con il figlio per compiere il sacrificio chiesto da Dio, Satana interviene e getta un fiume davanti al patriarca. Satana è colui che erige degli ostacoli e si colloca fra me e lo scopo che Dio mi ha prefissato. Vuole distogliermi dalla volontà dell'Uno. In Mc 8,33 Pietro viene trat­ tato da «Satana>> da parte di Gesù, proprio perché si pone fra Gesù e lo scopo che quest'ultimo persegue. Gesù gli dice: «Dietro a me l>>, e non fra me e il mio scopo. Nella letteratura apocalittica, specialmente in certi testi di Qumran, Satana compa­ re non solo nei prologhi della storia ma anche alla fine, al momento escatologico. AHora bisognerà aspettarsi, dice in particolare la Regola della guerra, una battaglia fra i figli della luce e i figli delle tenebre, e persino una battaglia fra i due , fra il Satana e l'Unto di Dio. Marco non ci dice altro in questo passo: la prova ha avuto luogo. È durata qua­ ranta giorni. In Marco la prova non interviene alla fine del periodo indicato come in Matteo e Luca, ma attraversa tutta la durata dei quaranta giorni. Sul piano bibli­ co, questi quaranta giorni ricordano molte pagine impressionanti, a partire da Noè nell 'arca, con un resto di umanità e un resto del mondo animale per ricominciare su una nuova base la storia di Dio con l'uomo, essendo il patriarca Noè come un nuo­ vo Adamo. C'è anche Mosè che, per due volte, si è ritirato sul monte per quaran­ ta giorni e, al termine di ogni periodo, si assiste a un rinnovamento radicale. Elia, in crisi, parte e cerca di raggiungere il luogo e la stessa grotta in cui Dio parlò con Mosè. Anche l'ultima tappa del percorso attraverso il deserto fino al monte Oreb richiede a Elia . Là, ristabilirà il contatto con il SIGNORE che gli propone un nuovo avvenire e una rilettura del tutto nuova della storia: anche purificato dalle successive spade di Khazael, di leu e di Eliseo, il resto dei fedeli conterà ancora 7000 membri, mentre Elia riteneva di essere l'unico rima­ sto assolutamente fedele. Notiamo ancora che il profeta Ezechiele resterà , compiendo così simbolicamente ciò che il popolo deve vivere in

53 Cf. più avanti il fuoritesto «D racconto elementare,., pp. 5s. Il prologo: Marco 1, 1 - 13

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altrettanti anni: «E tu porterai il peccato della casa di Giuda, per quaranta giorni. Ne ho fissato la durata di un giorno per un anno» (Ez 4,6).54 Il soggiorno di Gesù nel deserto per quaranta giorni non può non indurre a pensare anche al popolo nel deserto, per quarant'anni - «Un giorno per un anno», secondo la chiave del libro di Ezechiele.

Le versioni lunghe di Matteo e di Luca lo

hanno compreso in questo modo: Gesù attraversa le prove del popolo e reagisce al Tentatore appoggiandosi in particolare su ciò che il libro del Deuteronomio dichia­ ra in nome di Dio all'epoca dell'attraversamento del deserto. Allineando così questi quattro o cinque paralleli biblici55 si scopre la forza pu­ rificatrice ed espiatrice di questo periodo di prova. In ciascun caso sono associate una morte certa e una vita nuova. Da ciascuno di questi periodi ricordati escono un uomo nuovo, un nuovo avvenire, un popolo nuovo, una nuova umanità. E nel caso di Gesù? Qui Marco

è molto sobrio, e noi vedremo che lo è sempre

nel suo modo di sottolineare la conclusione di un episodio, la risoluzione di un'azione drammatica. «Ed era in compagnia delle bestie selvatiche e gli angeli lo servivano».

Le due realtà devono essere

lette insieme. Nell'antropologia bibl ica, la bestia selva­

tica e l'angelo si rinviano a vicenda in modo complementare, a volte in pura antitesi. Daniele, l'uomo di Dio; è seduto in mezzo ai leoni mentre un angelo viene a nutrirlo. Tobia parte, assistito da un angelo e accompagnato da un cane. Durante il viaggio, l'angelo aiuterà il giovane Tobia a dominare il pesce che per poco non lo inghiottiva. Da questo animale, per un momento pericoloso, egli trarrà grazie all'angelo il neces­ sario sia per combattere il demonio mortifero presente nella sua futura sposa sia per guarire la malattia degli occhi di suo padre. L'arcangelo Michele trafigge il drago. Le due realtà riunite in

1,13 vogliono indicare il ristabilimento

dell'armonia fra

l'alto e il basso, fra l'infraumano e il sovrumano: l'uomo pacificato ritrova la sua po­ sizione originaria fra l'angelo e la bestia. 56 Notiamo che il testo comincia dal basso, dalla bestia, poi parla degli angeli; un bel movimento verticale dal basso in alto. Il primo compito dell'uomo è quello di dominare la bestia. Procedere in senso inverso è esporsi all'illusione. Qui l'uomo non è minacciato dalla bestia selvatica e non è nep­ pure dominato dall'angelo.

È pienamente il Figlio di Dio,

il nuovo Adamo. Anche la

Lettera agli Ebrei conosce, sul piano catechetico, questa riflessione cristologica che presenta Gesù come il Figlio

di Dio,

superiore agli angeli (Eb

1,4-14; e 2,5-10, dove si

commenta il Sal 8, con Adamo interpretato come figura messianica).57 A proposito di questo passo di Marco, Jean Daniélou nota: «Anche se in que­ sto testo le allusioni all'Esodo sono più numerose delle allusioni al paradiso terre­ stre, vi si mescolano, come nei profeti, e conferiscono al nuovo Esodo un carattere

54 Tutto il testo mostra che la vita del profeta, coricato prima sul fianco sinistro per Israele e poi sul fianco destro per Giuda, espia anzitutto per 190 giorni (così la LXX) i peccati della casa di Israele, poi per 40 giorni quelli di Giuda. La cosa straordinaria è che nel suo corpo il profeta, diventato totalmente segno, espia per tutto il popolo nelle sue due parti, Israele e Giuda, chiamati entrambi a formare ormai un'unica realtà (Ez 37.15-22). 55 Si può ricordare anche la predicazione di Giona a Ninive: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta!» (Go 3,4). Viene offerta un'ultima proroga, un tempo per potersi pentire. Altrimenti, sarà la fine. 56 Il pensiero di Pasca! sull'angelo e la bestia rispecchia la stessa antropologia: «L'uomo non è né angelo né bestia e sventura vuole che chi fa l'angelo fa la bestia>> 57 Nella Prima lettera di Giovanni lo stesso titolo «Figlio di Dio>> è associato alla vittoria sull' «Ope­ ra del diavolo»: «Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché da principio il diavolo è peccatore. Per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo» (l Gv 3,8). Marco, Ebrei e lGv trasmettono, su questo punto, uno stesso insegnamento riguardo al Figlio di Dio. .

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Il prologo: Marco 1, 1 - 13

più fortemente escatologico. [ . . . ) D'altra parte, Gesù servito dagli angeli ricorda se non il racconto della Genesi, almeno quelli dei midrashim ebraici>>. 58 E in realtà l'idea di una fine dei tempi, quando si realizzerà un ritorno allo stato originario nel paradiso terrestre, è una costante nella letteratura intertestamentaria, ad esempio sia nella Vita greca di Adamo ed Eva, sia nei Testamenti dei XII patriarchi.59 L'idea risale già al libro di Osea (2,16-20) e si ritrova in Ezechiele, che parlava di «un'alle­ anza di pace» rinnovata nella quale tutto il creato, comprese le bestie selvatiche, era sottomesso all'uomo e nel quale si «abiterà in sicurezza nel deserto>> (34,25; 36,35s; d. Sal 91,11-12 che introduce anche angeli e bestie, al servizio dell'uomo che Dio protegge e che non ha più nulla da temere). La prima letteratura monastica conti­ nuerà queste riflessioni: i monaci nel deserto trovano compagnia nelle bestie selva­ tiche, come ad esempio i leoni e i serpenti, e le ammansiscono. Davanti all'uomo umile gli animali respirano il profumo del paradiso terrestre e i monaci raccontano l'episodio in cui un serpente, liberato da una paglia nell'occhio dalla preghiera del monaco Macario, va a ringraziare il monaco baciandogli il piede !60 Il «servizio» degli angeli è stato interpretato in molti modi: essi gli offrono cibo (come la suocera di Simone, che appena guarita si mette a «servire», in 1,31), lo assistono nella lotta contro le potenze del male, lo onorano semplicemente, rico­ noscendo in lui il loro signore. L'uomo pienamente realizzato non è dominato dalle presenze angeliche; al contrario, pieno di Spirito, risplende e vede gli angeli fare e a volte anticipare ciò che egli si propone di intraprendere: il bene si realizza a volte a sua insaputa e al di là di ogni intenzione esplicita. Una volta, in seguito, in Marco Gesù stesso ritornerà su questo episodio nel deserto e indirettamente noi veniamo a conoscere tutto il significato che bisogna attribuirgli secondo il nostro evangelista. In Mc 3,27 leggiamo: «Nessuno può en­ trare nella casa del Forte per rapire i suoi beni, se anzitutto non ha legato il Forte. E allora saccheggerà la sua casa>>. II contesto è quello di una discussione sugli esor­ cismi praticati da Gesù. In linguaggio parabolico Gesù spiega che se ora saccheggia i beni della casa dell'uomo è perché anzitutto lo ha legato nella sua casa. Questo atto della legatura dell'uomo forte nella sua casa viene presentato come compiuto in precedenza («anzitutto>>). Nel racconto c'è solo questo soggiorno prolungato nel deserto nel quale Gesù incontra Satana in persona: Mc 1,12. Perciò per Marco nei giorni trascorsi nel deserto Gesù ha . I numerosi esorcismi ne sono la successiva illustrazione e il frutto. Gesù è in grado di cacciare i demoni perché ha anzitutto legato il principe dei demoni nel suo luogo, cioè nel deserto. Indiretta-

!l! J. DANIÉLOU, Sacramentum futuri, Paris 1950, 9, dove l'autore cita in nota G. GoPPELT, Typo:r, 118 e la Vita di Adamo ed Eva (48,4). ,. Te:rtNeph 8,4: «Se dunque voi lavorate a fare il bene, gli uomini e gli angeli vi benediranno, Dio sarà onorato grazie a voi fra le nazioni, il Diavolo fuggirà lontano da voi, le bestie selvatiche vi temeran­ no, il Signore vi amerà e gli angeli si affezioneranno a voi»; Testlssachar 7,7; ecc. Vita greca di Adamo ed Eva, 10,3; 1 1 ,1-3; 24,4, sulla relazione inversa: «E gli animali che tu dominavi si agiteranno e si solleve­ ranno contro di te, perché tu non hai osservato il mio comandamento». "' Sentences coptes, par E. AMÉLINEAU, 1894, 4. Questo racconto sembra ricordare l'oracolo nel quale si annuncia che il piede della donna «Schiaccerà» la testa del serpente, indicando che questo du­ rerà solo un tempo limitato. lsacco il Siro (VIII sec.) dice che un «cuore misericordioso prega [ . . . ) per i demoni e i nemici della verità, e, a imitazione di Dio, prega anche per i serpenti» (Disc. l, 81). Per una riflessione più sintetica sui temi del paradiso terrestre, di Adamo, degli angeli e delle bestie nei Padri monastici cf. A. SroLZ, Théologie de la mystique, Chevetogne 21947. Il prologo: Marco 1, 1 - 1 3

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mente, questo passo del capitolo 3 conferma l'interpretazione data agli ultimi due elementi dell'episodio nel deserto. Così termina questo terzo e ultimo quadro del prologo: Gesù è presente, vitto­ rioso, avendo ristabilito l'armonia perduta fin dal primo figlio di Dio, Adamo. L' «ini­ zio della buona novella», prima parola del libro, è alla fine la vittoria riportata nell'ul­ timo versetto del prologo. Ora, pieno di Spirito, vittorioso sul male, Gesù può farsi avanti e comunicare la salvezza di Dio, annunciata dal profeta Isaia (1,1.2-3). L'inte­ stazione del libro, arricchita della citazione elaborata, trova nell'ultimo elemento del prologo tutto il suo significato e la sua attualizzazione. Il lettore/destinatario conosce ormai tutto ciò che occorre per comprendere il seguito dell'azione.

Gesù e il digiuno Gesù ha digiunato. È poco probabile che questo digiuno prolungato, qui così succinta­ mente ricordato da Marco, sia una mera invenzione, per ottenere un effetto simbolico, ad esempio fra Gesù e Mosè o fra Gesù e il popolo nel deserto. Gesù ha digiunato e ha parlato del digiuno in contrasto con la festa: «Quando lo Sposo è presente, come posso­ no digiunare gli amici dello Sposo?» (Mc 2,19). Ha anche insegnato a digiunare in modo autentico, non in modo esteriore per essere visti dagli altri (cf. Mt 6,16-1 7). Egli sa che il digiuno ha delle conseguenze fisiche: il corpo elimina le tossine e questo si avverte. Per nascondere il proprio digiuno raccomanda, non senza un pizzico di umorismo: «Profu­ mati la testa!». Per lui la festa e il digiuno sono gli unici due modi di mangiare: non c'è altra scelta, «to feast or to fast», come diceva il vescovo americano mons. Fulton Sheen. C'è l'arte di vivere dei poveri e Gesù, evidentemente, l'ha praticata tale e quale. I . Inoltre, una delle parole del Battista resta totalmen­ te incompiuta; non solo alla fine del prologo, ma anche al termine dell'intero rac­ conto evangelico: «Egli vi battezzerà di Spirito Santo». Secondo l'ipotesi battesima­ le, è proprio dopo la proclamazione del racconto evangelico che si passerà all'atto rituale nel quale i neofiti saranno battezzati. Lo stesso battesimo di Gesù e ciò che segue, con la discesa dello Spirito, la voce dal cielo con la sua parola programmati­ ca e la lotta ingaggiata con le potenze del male, sono della massima importanza per tutti coloro che si preparano a ricevere a loro volta questo misterioso «battesimo» che egli conferirà, secondo Giovanni, «nello Spirito Santo». Quanto al contesto pasquale, questi tredici versetti evocano fin dall'inizio Mosè e l'Esodo (cf. Es 23,20), ma anche Elia, colui che deve venire come precursore e che era (ed è ancora) atteso nella notte pasquale: gli viene sempre riservata una sedia e proprio per lui la porta è lasciata socchiusa. Questa notte nella quale la tradizione li­ turgica del tempo ama ricapitolare tutte le notti, quella dell'inizio come quella della fine, costituisce un contesto appropriato per l'insieme delle allusioni che abbiamo in­ dividuato nel testo: allusione al nuovo Esodo, sotto la guida del nuovo Mosè, il pro­ feta escatologico, all'Isacco di Dio, figlio amato che non sarà risparmiato. Gli ultimi elementi ricordano anche il ciclo di Adamo e ci mostrano Gesù, Uomo nuovo che ha riconciliato l'essere umano sia con le bestie selvatiche sia con gli angeli. Quella che nell'introduzione abbiamo presentato come «la catechesi prepa­ ratoria», non solo permette di situare meglio ogni elemento riunito dall 'evangeli­ sta, ma mostra anche che il racconto si presenta, a livello del sapere, come il punto d'arrivo e il frutto maturo di tutto un cammino di comprensione delle Scritture già percorso. Ma c'è di più: il destinatario del testo, ascoltando ora il racconto fonda­ tore, si trova davanti a un'azione che è in svolgimento. Ascoltando attentamente, scopre di essere invitato anche lui a mettersi in cammino e a entrare in un processo che trasforma. Sarà sempre più difficile per lui restare indifferente davanti a ciò che ascolta e vede, e alla fine impossibile restare a lungo «fuori dall'acqua>>. Il testo in­ vita, al di là del sapere, all'agire: «Preparate la via del Signore>>. Resta un ultimo stupore prima di continuare la lettura: tutto comincia nella Scrittura. Ora nelle Scritture citate la prima parola è dialogica: un «iO>> parla a un «tU». «Ecco che io mando il mio angelo/messaggero davanti a te>>. Questo «iO>> e questo «tU» si possono comprendere correttamente solo leggendoli in Dio. Ora, nell'episodio centrale, il secondo, si trova nuovamente un identico dialogo: «Tu sei il figlio mio, l'amato; in te ho posto il mio compiacimento>>. Il teologo Marco ci fa assistere a questo dialogo iniziale, che è la vera origine, la fonte e l'inizio di ogni buona novella riguardo a Gesù. Uno sguardo sull'icona delle icone, la Trini­ tà di Roublev, ci rivela che queste due parole dialogate vanno come a collocarsi e inscriversi nel gioco relazionale delle tre figure. Sappiamo che colui che è a sini­ stra, all'estremità della tavola, rappresenta il Padre. Il suo sguardo è potente e fissa Il prologo: Marco 1, 1-13

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dritto davanti a sé colui che è alla nostra destra nella scena e che corrisponde alla persona dello Spirito. Il Padre «manda>> lo Spirito. Ora lo Spirito, con tutto il suo atteggiamento, forma - da dietro - la libertà e l'abbandono del Figlio, la figura al centro, dandogli un volto e dei lineamenti ben distinti. «Ecco, dice il Padre, che io mando il mio angelo - lo Spirito - davanti alla tua faccia a te», mio Figlio. «Tu sei mio Figlio, dice ancora il Padre, il mio amato, il mio Isacco: io ti presento, al centro della tavola, come al cuore della storia, il calice e nel calice l 'Agnello. Accetta di essere questo agnello immolato. In te ho posto il mio compiacimento, che è il mio Spirito d'amore, lui che ti permette di andare fino in fondo nell'abbandono e ti as­ sicura la vittoria della risurrezione>>. L'origine, la Fonte passa in queste parole, e si sente il tracciato di ogni destino, si ritrova ricapitolata tutta la famosa «Storia della salvezza», riunita nel calice in mezzo alla tavola fra le tre persone divine con il loro dialogo d'amore. L'icona riassume il prologo e il prologo illumina con la parola di Dio ciascuno degli elementi riuniti dall'iconografo. «Inizio della buona novella di Gesù Cristo, il Figlio di Dio>>.

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Il prologo: Marco 1, 1 - 13

LA NARRATIO

MARCO 1 , 1 4-6, 1 3

Marco compone bene; conosce le regole di composizione degli antichi. Ha distribuito i primi dieci capitoli del suo vangelo secondo un piano classico: cinque capitoli di narratio, nei quali compone il «dossier Gesù», e poi circa cinque capitoli di argumentatio, debitamente preparata già nella prima parte. Analizziamo il modo in cui ha organizzato la sua narratio. Tutti hanno notato che l'evangelista ha integrato nella sua composizione interi blocchi: ad esempio, le cinque controversie (da 2,1 a 3,6) o le cinque parabole del ca­ pitolo 4. Anche la giornata inaugurale con i suoi quattro momenti costituisce un bloc­ co unitario (1,21-39). Si noteranno anche senza difficoltà alcune traiettorie che attra­ versano l'insieme, come nel caso dei discepoli: la chiamata dei primi quattro (1,16-20) è seguita e ampliata dalla chiamata dei Dodici, corredata di un ampio programma al capitolo 3 ( vv. 12-19) e poi, al capitolo 6, dall'invio dei Dodici (6,6b-13). Così si chiude un ciclo: essi diventano ciò che era stato loro promesso, «pescatori di uomini» (1,17). Alcuni richiami scandiscono tutta la parte, specialmente la domanda ricorren­ te, posta anzitutto dalla gente nella sinagoga di Cafarnao, dopo il primo atto pubbli­ co: (1 ,27). Ritroviamo lo stesso stupore, espresso questa volta dagli stessi discepoli dopo la tempesta sedata, un po' dopo il centro della parte: (4,41) . E alla fine della parte, a Nazaret, nella sinagoga, la domanda ritorna: «Da dove gli vengono queste cose? E che cos'è questa sapienza che gli è stata data e questi grandi atti di potenza che avvengono per le sue mani? Non è costui il fale­ gname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non sono fra noi?>> (6,2-3). Qui l'interrogazione presenta la sua formula­ zione più ampia: risuonano almeno cinque domande. Indirettamente, esse offrono una ricapitolazione di tutto ciò che ci ha presentato il : parole di «sa­ pienza>>, nei suoi discorsi, e azioni prodigiose, nei suoi . La narratio è questo: atti e parole che accendono i riflettori sulla persona di Gesù e preparano così l'argumentatio che sarà dedicata, in un primo tempo, proprio all'identità di Gesù. Notiamo che gli atti (cc. 1-2 e 5) inquadrano i discorsi (da 3,22 a 4,34), collo­ cati al centro, secondo una disposizione concentrica. Analisi più approfondite permettono di scoprire anche una gradazione nella di­ sposizione: così il grande discorso in parabole del capitolo 4 è preparato da un discor­ so più breve, dove si dice che anche lì Gesù parla (3,22-30, v. 23); e que­ sto discorso è anticipato in 2,1 9-22 nella risposta di Gesù sulla questione del digiuno: lì egli racconta tre brevi parabole. Perciò dal capitolo 2 al capitolo 4 vi sono tre volte La narratio: Marco 1, 14-6, 13

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delle parabole, e più si procede nel racconto più l'esposizione diventa ampia e inclu­

4 costituisce il punto culminante delle parti oratorie narratio e il suo vero centro. Su questo punto, esso costituisce l'esatto pendant

siva.• Così il discorso del capitolo della

del capitolo 13, nell'ultima parte del racconto evangelico (Mc 1 1-16). Altro esempio di costruzione graduale. Nel capitolo

l vediamo Gesù cacciare uno

spirito immondo nella sinagoga, poi guarire la suocera di Pietro e la sera di quello stesso giorno cacciare molti demoni e guarire molti malati. A partire dal capitolo 2 Gesù viene contestato e si trova coinvolto in cinque controversie consecutive, con due guarigioni ma senza esorcismi. Nel capitolo 3 si assiste a una durissima controversia sulla cacciata

dei demoni da parte di Gesù. Si noti la disposizione: A. esorcismi - B. controversie - C.

(= A + B) una grande controversia sugli esorcismi praticati da Gesù. Notiamo facilmente un altro effetto del modo

di

tegralmente il Vangelo di Marco a voce alta: l'inizio

disporre le cose leggendo in­

è sorprendentemente

intenso

e conciso, con un effetto di innegabile precipitazione. Prendendo solo i primi tre capitoli (= 120 vv.; si possono contare 6 vv. per minuto di lettura), in poco più di un quarto d'ora si percorrono venti piccoli quadri consecutivi. A partire dal capitolo 4 e per tutto il capitolo

5,

Marco amplia notevolmente i suoi racconti, il che rallenta

il ritmo e crea un momento di distensione per gli ascoltatori. Notiamo quindi che sia i racconti che i discorsi diventano più lunghi man mano che il testo avanza. Questa doppia progressione nella lunghezza delle sequenze nar­ rative e oratorie può essere attribuita al ritmo stesso della comunicazione. Quest'ulti­ ma sposa piuttosto spontaneamente le capacità di attenzione dell'uditorio, e si sapeva per esperienza che la qualità dell'ascolto era diversa nel primo quarto d'ora e dopo una mezz'ora di esposizione.2 La gradazione così osservata unifica a suo modo la nar­

ratio imponendole

un andamento uguale e progressivamente sempre più ampio.

Vi sono, infine, i numerosi elementi che fanno inclusione fra l'inizio e la fine dell'insieme o fra le estremità di una sezione nell'insieme. Così Mc 1 ,21 comincia in una sinagoga e, all'altro capo della sezione, in 3,1-6, si è di nuovo in una sina­ goga. Si sono esattamente 10 unità fra queste due estremità (da 1 ,21 a 3,6). Allo stesso modo, in 3,20, Marco nota che non potevano neppure «mangiare dei pani

(ljlocyE'iv)», tanto la folla premeva da ogni parte. In 5,43, all'altro capo della sezione. (ljlocyE'iv)». Fra le due estremità si conta­ no sette episodi e cinque parabole, in tutto 12 unità. Tutta la narratio da 1,14 a 6,13 conta 28 unità, due volte 14 o, se si preferisce, quattro volte 7: esattamente un mese lunare. Questo per quanto riguarda le due grandi sezioni all'interno della narratio. Considerando ora l'insieme della narratio, si osserva che essa comincia con il ri­ Marco nota: «Disse di darle da mangiare

cordare che «Giovanni è stato consegnato» (1 ,14). All'altro capo, il racconto ritorna su questo punto e racconta la fine del Battista, come ciò che è avvenuto nel frattempo. All 'inizio della

narratio Gesù, che veniva da Nazaret in Galilea ( 1 ,9), ritorna in Galilea

(1,14) e si dirige non verso la sua città natale, ma verso il lago (1 ,16), ed entra in Cafar-

1 Si troverà un'analoga progressione ai capitoli 1 1-13: il grande discorso del capitolo 13 è prepara· to dalla controversia centrale nel Tempio ( 1 1,27-12,12, con la lunga parabola di 12,1-1 1 ) e quest'ultima è anticipata dalle parole che Gesù pronuncia la vigilia nello stesso luogo, in 1 1,17. Perciò tre unità che si concatenano sul piano tematico e si ampliano man mano che il ra�onto avanza. ' Cf. QUINTILIANO, lnsr. arar. 4,2,119; cf. anche M. JoussE, «Etudes de psychologie linguistique. Le style ora! rythmique et mnémotechnique chez les verbo-moteurs», in Archives de philos. 2(1925), 1-24�

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La narratio: Marco 1, 14-6, 13

nao (1,21). Giustamente solo alla fine della na"atio Gesà ritorna a Nazaret (6,1). Cosi si chiude un percorso di andata e ritorno, e questo coincide con tutta la lunghezza della narratio. Del resto, non si parla mai di Nazaret in questi primi sei capitolP All'inizio della narratio Gesù proclama la buona novella del regno di Dio che viene e invita alla conversione: «Convertitevi» (1,15, fJ.E"taVOE'in). Poi chiama i pri­ mi quattro discepoli, ai quali promette: «Farò di voi dei pescatori di uomini» (l ,17). Alla fine della narratio i discepoli sono inviati a due a due (6,7). Essi continuano or­ mai l'attività di Gesù che «caccia i demoni» e «guarisce i malati» (6,7.13; cf. 1,34.39; 3,10-1 1; ecc.) e fanno come lui, (1,29); per la seconda Gesù caccia fuori tutti e lascia entrare con lui solo i genitori e i tre discepoli della prima ora, indicati per nome: «Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo>> (5,37.40). Sono gli unici due miracoli ai quali presenziano questi disce­ poli e vengono indicati per nome. Nelle due guarigioni, il gesto compiuto da Gesù è lo stesso: egli «prende la mano>> e «fa alzare>> l'ammalata (1 ,31 e 5,41, dal verbo ÈyE(pnv). Sono gli unici due passi della narratio in cui una guarigione viene descrit­ ta con quelle espressioni e con quei testimoni. Questo gioco di corrispondenze fra il primo e il quinto capitolo conferma la disposizione di tutta la parte, in cui le estre­ mità così curate si richiamano reciprocamente e unificano così tutta la parte. Uno

' Sia Matteo che Luca fanno passare Gesù da Nazaret prima di recarsi a Cafamao (Mt 4,12-13 e

Le 4,14-15), per cui non seguono Marco su questo punto. La prima sezione deU'argumentatio in Marco

contiene un altro esempio di uno stesso percorso topografico. In 6,45 Gesù ordina ai suoi di attraversare il lago e di «precederlo verso Betsaida>>. Il testo dice che «compiuta la traversata, toccarono terra a Gen­ nesaret» (6,53)! Quindi destinazione mancata! Bisognerà aspettare ancora due capitoli prima di giungere di fatto a Betsaida (8,22) e questo coinciderà anche con la fine della sezione. La narratio; Marco 1, 14-6, 13

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degli effetti secondari di queste inclusioni è quello di rafforzare tutto ciò che c'è al centro, conferendo all'insieme una composizione chiaramente concentrica. Il piano che emerge da tutte queste osservazioni è piuttosto semplice: tre ditti­ ci (I, Il, III) su Gesù e i suoi discepoli inquadrano due grandi sezioni (A, B). I: primo dittico 1,14-15 1,16-20

apertura della predicazione di Gesù chiamata dei primi quattro discepoli

Sezione A. 1,21-3,6: dieci piccoli quadri II: secondo dittico 3,7-12 sommario sull'attività di Gesù 3,13-19 chiamata e istituzione dei Dodici Sezione B. 3,20-5,43: dodici piccoli quadri III: terzo dittico 6,1-6a 6,6b- 1 3

predicazione di Gesù nella sua città natale invio dei Dodici in missione.

I tre dittici sono chiaramente allineati l'uno sull'altro: si vedono l'inizio, il cen­ tro e la fine di uno stesso movimento che riguarda sia Gesù sia l'inserimento pro­ gressivo dei discepoli nella sua predicazione. Il verbo «proclamare» (KTlpoooELv), che in un primo tempo caratterizza l'azione di Gesù (1,14), diventa il verbo che i di­ scepoli sono chiamati a mettere in pratica (cf. 3,14 e 6,12). Questo anello ben chiuso in 6,13 non deve eclissare il peso che bisogna accordare al dittico centrale (II). Con la generalità della sua presentazione, esso costituisce un vero culmine della narra­ fio: lo sguardo panoramico (3,7-8) è di gran lunga il più ampio di tutto il vangelo, ancora più ampio di quello del prologo, in occasione della predicazione di Giovan­ ni (1 ,5-6). Il sommario sull'attività di Gesù (vv. 9-12) e la presentazione esemplare della chiamata dei Dodici (vv. 13-19) conferiscono a tutto questo passo un rilievo eccezionale che spicca su tutte le altre sequenze dei primi sei capitoli. Quanto alle due sezioni A e B, il commentario mostrerà che ciascuna ha la sua propria disposizione organica, con inclusioni che abbiamo già segnalato e modelli originali per privilegiare in ogni sezione un centro. Mediante la diversa lunghezza fra le due sezioni, Marco ha realizzato in tutta questa parte una disposizione che deve assicurare l'effetto di una progressione. I grandi racconti del capitolo 5 sono assolutamente sintomatici su questo punto e lì Marco mette in pratica una delle cose elementari insegnate a scuola dai retori: come ampliare un episodio. I latini parlavano di ornare, i greci usavano il termine oyKoç.4 La comparazione dei due racconti paralleli dell'espulsione di un demonio impuro in Mc 1,23-28 e 5,1-20 è esemplare al riguardo. 5

4 Cf. LAUSBERG, Handbuch, 815 § 1245 e 769-770 § 1244.

5 Al contrario, anche il modo in cui Matteo riduce un racconto di venti versetti (Mc 5,1·20) a una storia che ne conta solo sette (Mt 8,28-34) è frutto di un buon tirocinio scolastico.

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La narratio: Marco 1, 14-6, 1 3

PRIMO DITTICO MC 1 , 1 4· 1 5. 1 6-20

1,14-15: Kal IJE'tft t"Ò 1T!lpaoo9ftv« L t"ÒV 'Iwavvrw �À9Ev ò 'IT]OOUç Elç t"�V rahÀ«LilV KT]puoowv -rò EÙ!lyyÉÀLOV -rou 9Eou 15A.Éywv on llETTÀ�pWt"«L ò K«LpÒç K«L �YY LKEV � jhoLÀE L« tou 9EOu· IJEt«vOE'in K«L 1TLOt"EDEtE È=v n\) EÙayyEÀL>; 10,9. 1 1 ; Mt 10,7). Tutta l'attività di Gesù si riassume in questa sola espressione: KT]puauwv cÒ

EùayyÉÀLOV tOU �OU.

Egli si sposta e diventa annuncio, proclamazione della buona novella. Questa sorprendente riduzione corrisponde bene alla visione di Marco: Gesù è Vangelo, fin dall'inizio (1,1). Ciò non significa che egli sia solo messaggio verbale. Tutta la sua persona proclama il vangelo. Il primo capitolo chiarirà subito questo punto. Co­ munque l'accento posto sulla proclamazione, sull'annuncio, come comunicazione, è notevole. Fin dai primi versetti: «voce di colui che grida . . . ». Il seminatore semina (4,14). Ciò che importa nel testo e attraverso la sua mediazione è l'arri­ vo, l'irruzione della parola di Dio nel tessuto della storia. Questo conferisce al rac­ conto un carattere eminentemente missionario. Perciò Marco non redige anzitutto un resoconto di ciò che è avvenuto un tempo, anche se di fatto ha raccolto e riunito racconti e parole, aneddoti e immagini paraboliche, provenienti da un passato in Giudea e in Galilea. Egli proclama attraverso avvenimenti passati l'irruzione sem104

La narratio: Marco 1, 14-6, 73

pre attuale di Dio e del suo regno, e quando racconta il passato wole interpellare i presenti. KTJpUOOWV 1:Ò EÙUyyÉÀLOV ('tfJç f3acrlÀELa.ç) 'tOU 0EOU, «proclamando la buona novella di Dio». Alcuni manoscritti, come anche la versione latina del­ la Volgata, hanno introdotto «il regno» fra «buona novella>> e «Dio>>. Qui può aver giocato il parallelo di Matteo (4,23). Ma anche il fatto che la formulazione in Marco ha qualcosa di strano: qui «Dio>> non può essere un genitivo di oggetto, come lo è «Gesù CristO>> in 1,1. Qui Dio deve essere il Soggetto di questa buona novella. C'è quindi una certa tensione paradossale nell'espressione: colui che annuncia e che è il soggetto della frase annuncia un Soggetto più grande che determina ciò che vuoi� dire. L'aggiunta () cerca di eliminare la tensione, come del resto ave­ va fatto già l'evangelista Matteo. Ma questa tensione è istruttiva: la proclamazione non riguarda una cosa, e neppure un contenuto ben circoscritto, ma un avvenimen­ to operato da Dio. Ci troviamo davanti a un linguaggio teologicamente molto cari­ co, che verrà esplicitato nel versetto seguente. Questa espressione riassume tutto il prologo: Dio ha strappato i cieli ed è entrato in questo mondo, in questo eone, e in modo definitivo, escatologico (vv. 10-11). Ecco ciò che proclama Gesù, con la pre­ cisazione che si tratta di una vittoria: ormai le potenze del male sono vinte (v. 13). Questo linguaggio di una buona novella vittoriosa si ricollega a Isaia, specialmente a questo passo spesso citato in tutto il Nuovo Testamento, e quindi ben noto ai ca­ techisti e agli evangelizzatori delle prime generazioni: Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che porta buone notizie che annuncia la pace, che porta la felicità, che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Il tuo Dio regna!» (52,7).

[ . . . ) e tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio (v. 10).

Si può facilmente comprendere come molti esegeti abbiano considerato que­ sto v. 14 e quello che segue come facenti parte del prologo di Marco. Non si può negare che l'espressione «buona novella>> in 1 ,14 faccia eco al versetto di apertura (1,1), e che si veda quindi delinearsi un'inclusione fra 1,1 e 1,14. In realtà 1,14-15, pur basandosi sul contenuto del prologo e riprendendo l'espressione chiave di aper­ tura, mira a introdurre in forma sintetica tutta l'attività successiva di Gesù. Si tratta di una nuova intestazione. Ma come spesso accade negli scritti antichi, le riparten­ ze sono delle cerniere, dato che non si amavano esposizioni slegate o disarticolate.3 Perciò il commentatore moderno potrà sempre esitare e trovare delle buone ragio­ ni per collegare questo o quel passo chiave a ciò che precede, come a ciò che segue. Riconosciamo perlomeno la forza di questa comunicazione e rendiamoci conto che si tratta delle prime parole di Gesù nel Vangelo di Marco. «Dicendo: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla buona novella"» (ÀÉywv on IkrrJ.� . pW'tiX.l ò Ka.lpÒç KIX.L �YYlKEV � f3acrLÀELa. 1:ou 9Eou· f.LHIX.VOE'ì.'T:E Ka.L mcrn&n �v 1:. Egli non conosce la formu­ la, cara a Matteo, del «regno dei cieli>> (33 volte). «> non vuole solo dire che sta per venire, ma anche che si è avvicinato, che è presente. È entrato nella storia. Ciò che l'insieme dei passi che ne parlano permette di dire è che questo re­ gno ha a che vedere con lo Spirito Santo. Uno dei detti di Gesù più chiari in questo senso è il testo di Mt 12,28: «Se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio>>. Nella trasmissione del Padre nostro Secondo la versione lucana, c'è una variante significativa: invece di «venga il tuo regno» c'è «il tuo Santo Spirito venga sù di noi e ci purifichi» (Le 11,2). Nella tradizione che risale a Gesti, parlare del Regno è parlare in modo cifrato di Dio stesso. In essa il Regno viene percepito come una realtà escatologica nella quale sono all'opera Dio e il suo Spirito. In tutta la sua attività Gesù rende presente questo regno: chiede che lo si riconosca. Questo suppone esattamente due cose, formulate all'imperati. vo: la conversione e la fede nell'evento vittorioso che è il 'Vangelo, la buona novella. Questa conversione (IJ.HUVOLtt} riprende la tematica della predicazione di Giovanni Battista (1,4). Essa si ricollega alla profezia di Malachia (cf. 3,23, con la teshuvah o «conversione» che Elia deve ottenere sia dai padri che dai figli), ma in un modo più generale rispetto a quello che proclamano tutti i profeti. L'appello risuona come un 106

La narratio: Marco .1, 14--6, � 3

ritornello da un profeta all'altro: «Convertitevi, volgetevi verso di me e io mi vol­ gerò verso di voi». Celebre è l'insistente appello del profeta Ezechiele, alla fine del · grande capitolo 18 sulla responsabilità di ciascuno: Convertitevi e distoglietevi da tutti i vostri peccati, non vi sia per voi più occasione di male. Sbaràzzatevi di tutti i peccati che avete commesso contro di me e formatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo. Perché volete morire, casa di Israele? Io non godo della morte di chicchessia, oracolo del Signore YHWH. Convertitevi e vivete (Ez 18,30b-32). Lì la conversione appare come un cambiamento di modo di-vivere, come una scelta nella quale ci si apre a uno spirito nuovo, si opta per la vita e contro la morte, secondo Dio e con Dio. «E credete alla buona novella». Si discute sul verbo 1TLO"tE'Ue"tE' seguito dalla preposizione E:v piuttosto che ELç con l'accusativo. In realtà, la formulazione è asso­ lutamente regolare: quando si tratta di credere in una persona, il verbo è costruito con ELç e l'accusativo. Ma quando si tratta di un oggetto, come «il vangelo» o «i co­ mandamenti», si usa o il dativo o l'Ev più dativo (così in Ef 1,13, dove a precedere E:v !\i KaÌ. lTLOtEooavtEç è lo stesso termine EÙayyÉÀLov). Alcuni si chiedono che cosa venga prima: la conversione o la fede? Ci si con­ verte solo in seguito a un annuncio che proclama il terribile e il sublime al tempo stesso, nella venuta di questo regno di Dio. Perciò l'ascolto precede la conversione. Ma il «Credete» vuoi dire anche impegnarsi, sentirsi già interpellati e coinvolti da questa notizia così vicina. Si può vedere nei due verbi un percorso coerente: con­ vertendosi, ci si distoglie da una condotta ambigua o francamente cattiva e ci si vol­ ge verso il bene; credendo, ci si impegna con fiducia in ciò che ci viene annunciato e proposto. La disposizione di Marco ha il vantaggio di concludere la formula con la parola decisiva che è anche quella dell'inizio: I'EÙayyÉÀLOV («buona novella>>). Così Marco ha creato una proposizione forte, con quattro membri, con una potente densità poetica, perché ogni membro è duplicato e c'è una corrispondenza fra i due verbi all'indicativo e i due verbi all'imperativo. Gli esegeti si sono chiesti se Gesù abbia potuto dire questo alla lettera. Lagran­ ge pone la domanda e ricorda che Wellhausen ha indubbiamente ragione quando scrive che Gesù non ha ripetuto instancabilmente una stessa formula stereotipata percorrendo tutta la Galilea. «Insegnava in base alle circostanze>>. E fa altresì osser­ vare: >. Altro elemento di questo racconto di vocazione è l'autorità sovrana di Gesù. Marco è riuscito a renderla con mezzi molto spogli, ma con una forza tanto più ammirevole. Gli esegeti e gli storici che hanno cercato di farsi un'immagine la più fedele possibile del Gesù storico, considerano questo passo uno dei più sicuri e dei più impressionanti: Gesù ha parlato e agito con un'autorità sovrana.7 Questo breve episodio così succintamente raccontato è indubbiamente il frutto più puro di una testimonianza colta sul vivo e che deve risalire a uno dei quattro discepoli coinvolti. E perché no proprio a Simon Pietro, qui il primo chiamato,8 ancora con il suo nome semplice e senza altri attributi o qualificativi? Infine, ciò che colpisce, in un secondo tempo, è la totale mancanza di una qual­ siasi considerazione psicologica: nessuno esita, nessuno invoca una scusa, non ci si congeda neppure dal padre che tuttavia è lì, nella barca. Qualcuno è passato, ha vi­ sto, ha chiamato e tutti e quattro, senza poter dire chi sia stato più veloce dell'altro, lo hanno seguito.

6 Un altro testo dell'inizio del II secolo, intitolato Il Vangelo di verità, procede esattamente allo stesso modo: nella prima frase si trova un annuncio del tema (con il termine «vangelo>>), poi, dopo un primo paragrafo, risuona una nuova dichiarazione solenne della questione da trattare, la propositio for­ male (16,31-17,4). Cf. il nostro studio in NTS 22(1975-76), 252-255. Altri esempi: LUCIANO DI SAMOSATA, Peregrinus 1-2; GIOVANNI CASSIANO, Co/latio X, 1-2. E. KAsEMANN, citato da J. DuPONT, Jésus au.x origines de la christologie (BETL XL), Leuven 1975, 351-353. ' Il quarto vangelo si discosta più di una volta in �ateria di cronologia e di precedenze. Cosi in Giovanni il primo chiamato è Andrea e suo fratello Simon Pietro arriva solo al terzo posto . . . Si può in­ dovinare chi è venuto a inserirsi fra i due fratelli: il discepolo anonimo, che riceverà in seguito la desi­ gnazione di «discepolo amato». 7

Primo dittico: Mc 1, 14- 15. 16-20

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A partire dalla grande memoria biblica, questo racconto ricorda molti altri racconti di vocazione, specialmente dei profeti. L'uno o l'altro è come strappato alla sua occupazione (si pensi a Davide che sta pascolando il gregge della famiglia, o ad Amos: «Ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro. Il SIGNORE mi pre­ se, mentre seguivo il gregge . . . », 7,14-15). II caso più eclatante e più vicino al nostro doppio racconto proviene dal ciclo di Elia e di Eliseo, un ciclo già incontrato sopra, in relazione con il Precursore. Lo stile di questi tre antichi racconti non è molto di­ verso da quello adottato qui da Marco. «Egli [cioè Elia] partì di lì e trovò Eliseo, figlio di Safat, mentre arava con do­ dici paia di buoi, essendo lui stesso al dodicesimo paio». Apprendiamo qual è il suo nome, di chi è figlio (come nel caso dei figli di Zebedeo), il suo mestiere e la sua oc­ cupazione in quel momento: per poter arare con dodici paia di buoi, bisogna disporre di mezzi. Zebedeo aveva alcuni salariati accanto a lui nella barca . . . Indirettamente si apprende riguardo al primo come agli altri due qualcosa del loro rispettivo rango, del resto non necessariamente lo stesso. «Elia passò vicino a lui e gli gettò addosso il suo mantello». Nessuna parola, semplicemente un gesto, con un oggetto molto personale. «Eliseo lasciò i suoi buoi e corse dietro a Elia ( 6n(ow ), e disse: "Lasci ami abbracciare mio padre [il testo della Settanta non menziona, come l'ebraico, 'e mia madre'] poi ti seguirò (ocKoÀ.oue�ow òn(ow oou)">>. Qui c'è comunque un momento di conside­ razione riguardo alla famiglia che si lascia. Eliseo preparerà di corsa un vero ban­ chetto, brucerà il legno dell'aratro e sacrificherà sulla legna i suoi buoi, «e ne diede alla sua gente che ne mangiò>>. «Poi si alzò e seguì Elia per serviriO>> (KIÙ ocvÉO'tTJ K«t Énop�:ue.., 6n(ow Hhou Ka.t ÉÀE Lwupyn a.ù-rti)) (l Re 19,19-21). Valeva la pena rileggere questo passo nella versione greca, perché non solo si trovano delle corrispondenze di forma fra un racconto e l'altro, ma anche perché il vocabolario, e più ancora forse lo stile spoglio, para tattico, pieno di effetti, presen­ tano sorprendenti analogie con il testo di Marco. Che cosa ci dice Marco, tenendo conto di questi parallelismi? Ci dice che Gesù si comporta come un profeta e assume «figli di profeti>>, discepoli che condurranno una vita analoga alla sua e di natura profetica. Ad esempio questa mancanza del sa­ lario è un tratto che scaturisce dalla finale dei due racconti e segnerà il movimento di Gesù, conferendogli innegabilmente un andamento chiaramente profetico. Esaminiamo ancor più da vicino alcuni dettagli.

1,1 6-18: Ka.t 111Ipaywv 1Ta.pà 't�V 9fiÀ.IIOOIIV 'ti'Jç riiÀL À.II Laç dOE:v 1:(�vll Kat 'AvùpÉIIv -ròv ocòE.ìujlÒv I:(!iwvoç tXIlÉv-rt=ç 'tfx ÙLK'tua �KOÀOUSTJOIIV aÙ-rci). 1,16-18: «E passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Si· mone, mentre gettavano le loro reti in mare (erano infatti pescatori). E Gesù disse loro: "Venite dietro a me! e io farò sì che diventiate dei pescatori di uomini". E su· bito, lasciando le loro reti, lo seguirono».

Gesù «passa», «Vicino», «lungo>>, Kat nap&ywv napa. L'espressione ha indub­ biamente qualcosa di banale. Ritornerà più di una volta sotto la penna di Marco, come in 2,14 (chiamata di Levi), con lo stesso verbo o con dei sinonimi in greco (na.pÉpXO!lii L , ÒLÉPXO!la.L, 1T1Ip1I110pt=U0!11I L , ecc.). Passa e non fa che passare, come certi poeti hanno ripetuto in questo o quel canto liturgico (ad es. Huub Oosterhuis, 110

La narratio: Marco 1 , 14-6, 1 3

Gij zijt voorbijgegaan). «Dio passa», e la gloria «passa» o ancora «Si passa» (E. Lévinas). In questo semplice verbo di cui Marco si serve qui c'è qualcosa che espri­ me l'inafferrabile ed è tipico dell'uomo spirituale e di Dio stesso. Gesù, nella sua conversazione notturna con Nicodemo, evoca questo aspetto nel quale nessuno può afferrare il soggetto in questione: «Il vento soffia dove vuole, tu ne senti la voce, ma non sai né da dove viene né dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8). Il testo di Marco può essere letto in tutta la sua letteralità, come un ricor­ do esatto di quella che è stata la storia, ma lascia intravedere al tempo stesso una sorprendente e abissale profondità, come si vedrà nella notte dopo la prima mol­ tiplicazione, dove si dice che «egli voleva oltrepassar/i», passare e andare oltre . . . (Mc 6,47-52). S i sente una libertà spirituale che rivela qualcosa della libertà stessa di Dio. L'uomo di Dio «passa», pura sorpresa, inimitabile, imprevedibile, non pro­ grammabile, con una semplicità che sconcerta e rivela una creatività inesauribile. Non si può che seguirlo, mai precederlo.9 Lungo il . Si tratta del lago detto di Tiberiade o di Genne­ saret. Marco lo chiama ogni volta «mare». Luca ne parla poco e preferisce il termi­ ne «lago» (H!-LVTJ), che è in realtà più corretto. Alcuni hanno concluso che il nostro evangelista non conosceva i luoghi, per cui non poteva essere il «Giovanni, detto Marco>> del libro degli Atti (12,12). Ma anche Matteo parla di (4,14.18; cf. anche 1Tapa9aÀaaoi.a per qualificare Cafarnao, il lungolago, in 4,13). Il quarto evangelista non parla diversamente in Gv 6,1 e 21,1, precisando, meglio di quanto facciano i sinottici, che si tratta del . Anche nella Settanta il ter­ mine 9aÀaaaa può indicare un lago come quello di Tiberiade (Nm 34,11). Perciò è sbagliato trarre grandi conclusioni da questa leggera diversità di linguaggio.10 E non bisogna neppure attribuire qui, sul piano semantico, a questi due termini «mare» e >, intendendo il loro giacchio, perché erano pescatori. Marco rac­ conta a effetto: quest'ultimo elemento, collocato enfaticamente alla fine, e detto di fatto come fra parentesi, sottolinea il mestiere dei primi discepoli. Ora proprio questo mestiere sarà preso sul serio da Gesù, ma per trasformarlo completamente. dEUtE òn[aw IJ.OU, «Venite dietro a me ! >>. Espressione semplice, forte, mol­ to diretta. Al 10,21 si trova, al singolare, una formulazione analoga: Ka.Ì. &=upo Ò:KOÀoOOE L IJOL («poi vieni, seguimi!»; cf. anche 6,31 e 12,7). «Dietro a me>> è la po­ sizione del discepolo, come abbiamo visto in 1,6. Questo ricorda il linguaggio dell'i­ niziazione e della prima formazione, nella quale il candidato è invitato a cammi­ nare dietro al maestro. Lo ritroveremo al centro del vangelo, nel passo dell'invito più solenne e più ampio, rivolto a tutti senza distinzione (8,34: «Chiamando la folla insieme ai suoi discepoli, disse . . . : "Se qualcuno vuoi venire dietro a me" . . , ecC.>>). «E io farò SÌ>> (Ka.Ì. '!TOL�aw). Atto personale di creazione, di nomina, nel qua­ le si conferisce all'altro un'identità e una funzione nuove (cf. 3,14-15, due volte lo stesso verbo «fare», '!TOLE1v). Si sente risuonare qualcosa che ricorda l'atto median­ te il quale è stato «stabilito» Geremia: «lo ti ho stabilito (tÉ9 HKa aE) profeta delle nazioni>> (Ger 1 ,5). «Pescatori di uomini» (Ò:ÀLE1c; &.vepwnwv). Linguaggio immaginoso che tra­ sforma la loro prima professione conferendole una funzione del tutto nuova, in relazione non più con dei pesci, bensì con gli uomini del loro tempo. Come com­ prendere qui l'atto stesso del «pescare>>? I commentatori hanno cercato in tutte le direzioni. La memoria biblica affiora piuttosto spontaneamente. Davide, Amos o lo stesso Mosè sono stati tolti dalla loro prima occupazione, che era quella di pa­ scere le pecore, per diventare «pastori>> del popolo di Dio. Così i nostri pescatori. Ma «pascere>> è vegliare, nutrire. trovare pascoli e corsi d'acqua, proteggere le pe­ core dal lupo e dai ladri (cf. Ez 34 e Gv 10). Come comprendere il verbo «pescare»? Estrarre dall'acqua? È una cosa buona per il pesce? A meno che l'acqua e il mare siano intesi non nel senso dello spazio vitale del pesce, bensì nel senso dell'area pe­ ricolosa dalla quale gli uomini/pesci devono essere estratti, salvati? Alcuni hanno pensato alla pesca escatologica: estrarre dall'acqua e salvare in vista della fine im­ minente. La Bibbia non parla molto spesso della pesca: Ger 16,16 offre una qualche attrattiva a causa del termine dell' «invio>> che vi si trova associato, ma tutto il con­ testo collima difficilmente con il pensiero di Gesù in questo momento, e neppure, a nostro avviso, con quello di Marco: .

Ecco, io invierò numerosi pescatori oracolo del Signore - che li pescheranno; poi in­ vierò numerosi cacciatori che daranno loro la caccia su ogni monte e colle, fin nelle fes-

11 In Gv 4,19 la samaritana, dopo aver scoperto quanto Gesi:l la conosca, esclama: «Signore, vedo che tu sei un profeta . . . ». E pii:l avanti ella dirà in città: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fa tto . Non sarà il Messia?». Un profeta «vede» e scruta i cuori, e anche tutta la vita passata di una persona.

112

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

sure delle rocce. Poiché i miei occhi scrutano tutte le loro vie: esse non mi sfuggono e la loro iniquità non resta nascosta ai miei occhi (Ger 16,16-17).

Altri testi, citati occasionalmente e per lo più in una prospettiva escatologi­ ca, sono Am 4,2; Ab 1 ,14-17 («tu tratti gli esseri umani come i pesci del mare>>) o Ez 29,4 (contro il faraone, «grande coccodrillo», tirato fuori dall'acqua); 47,10, dove dei pescatori tendono le loro reti sulle sponde del Mar Morto risanato e rina­ to . . . Nessuno di questi riferimenti ci sembra anche solo debolmente illuminante per comprendere la portata delle parole di Gesù ai quattro pescatori galilei.12 L'evangelista Luca ha cambiato il termine «pescatori», che deve aver giudi­ cato povero nella sua prima semantica: al capitolo 5 del suo vangelo, Gesù dice ai pescatori, e specialmente a Simon Pietro: «Rassicurati, ormai sono degli uomini che tu prenderai>> (Le 5,10), più esattamente, che tu «prenderai viventi» ((wypwv). L'immagine è un po' cambiata: si tratta di «Catturare vivi», e quindi di preservare dalla morte, coloro che sono considerati in pericolo di morte. Il termine in sé ha ri­ sonanze bibliche molto più interessanti: Nm 31,15.18, ma soprattutto Gs 2,13 (Raab e i suoi, da >. «Siste­ mare» evita di dover scegliere. Il problema è sapere se si tratta della fase finale oppure iniziale dell'attività. L'effetto non è del tutto lo stesso, sul piano narrativo. Gesù passa. Sceglie i primi mentre stanno gettando le reti. Va un po' più avanti, ne vede altri e li prende prima che abbiano potuto gettare le loro reti. Se Marco vuo­ le dire questo, la cosa conferisce ancor più autorità al Maestro. Altrimenti, la nar­ razione si chiude senza alcuna grande sorpresa: prende i primi nel bel mezzo della loro attività di pescatori e i secondi alla fine, nel momento in cui hanno terminato il lavoro e stanno per andarsene. «Andarono dietro a lui>> (a1TfjÀ9ov lm(aw o:urofl ): formula analoga e tuttavia di­ versa da quella usata sopra per Simone e Andrea («essi lo seguirono>>, �KoÀoue'lloo:v o:ùr4ì ). Lo scrittore Marco ha più talento di quello che alcuni vogliono attribuirgli: qui si vede che sa variare con gusto le sue formule semplici. Ciò che colpisce riguardo a queste due chiamate è anzitutto il luogo in cui Marco ha pensato bene di collocarle: subito dopo la grande proclamazione solen­ ne del Regno fatta da Gesù. Ciò è ben lungi dall'essere evidente. Le cose non sono andate certamente in questo modo. Già al tempo in cui Gesù lavorava a fianco del Battista si era formato attorno a lui un primo gruppo di discepoli, volendo credere alla testimonianza del quarto vangelo (Gv 1,35-51; cf. 4,1: «faceva più discepoli . . . di Giovanni>>, prima di «ritornare in Galilea»). Perciò è piuttosto evidente che qui abbiamo a che fare con una costruzione: Marco vuole collocare questo doppio episodio della chiamata dei primi quattro discepoli subito dopo la solenne apertura della vita pubblica di Gesù e aggancia­ to alla stessa. Gesù proclama la vicinanza del Regno e chiama i primi discepoli. Il lettore/destinatario è sollecitato a registrare questi due dati essenziali giustapposti. L'appello alla conversione e a credere alla buona novella dopo l'annuncio della ve­ nuta della pienezza del tempo, perché il Regno si è fatto vicino, non può !asciarlo indifferente, ma la chiamata a lasciare tutto per seguir! o deve interpellarlo in egual misura. Notiamo che qui questi primi discepoli si comportano in modo esemplare, ineccepibile. Fanno esattamente ciò che Gesù in seguito esigerà da chiunque voglia seguirlo (cf. 8,34 e 10,28-31 ). Teniamo presente che ogni volta che i suoi primi di­ scepoli saranno menzionati in gruppo, Marco ha cura di mostrare qualcosa di fon­ damentale. È degno di nota il fatto che proprio prima di giungere a Gerusalemme, alla fine del capitolo 10, riaffiorano i nomi di Pietro e poi dei due figli di Zebedeo, costituendo una bella inclusione con l'apertura al capitolo l (cf. Mc 10,28.35). 1 14

La narratio: Marco 1, 1 �. 13

È chiaro che, sul piano letterario, Marco ha costruito qui questo dittico e per­ segue un'intenzione evidente nei riguardi del suo lettore, dato lo stesso genere let­ terario del suo racconto, ma si può prolungare la riflessione su questa relazione che qui egli ci propone. Gesù va a predicare e costituisce un gruppo di discepoli, di collaboratori diretti della sua missione: le due cose sembrano andare senz'altro di pari passo. La missione è portatrice di vita e di collaborazione. Là dove avanza la grande Via, nascono dei circoli di persone, si comunica e diffonde un'attrazione, si stabiliscono nuovi legami e anche -strappi rispetto a vecchi legami o preceden­ ti comunità di vita (cf. i figli di Zebedeo, che lasciano il padre e abbandonano per ciò stesso la piccola impresa di pesca). Là dove compare un maestro, appaiono dei discepoli; là dove si presenta un padre, affluiscono dei figli. Legge segreta di ogni grande vita? Elia credeva di essere solo, ma Dio all'Oreb gli ha aperto gli occhi e finalmente andrà a ungere il suo successore, e quando muore passa attraverso la fraternità dei fratelli profeti che in una cinquantina lo seguono con gli occhi men­ tre attraversa il Giordano . . . Sergio di Radonez, nel XIV secolo, ha cominciato da solo, accompagnato per poco tempo solamente dal fratello che poi lo ha abbando­ nato nella foresta a 70 km da Mosca. Attorno a lui si sono raccolti alcuni fratelli, che a loro volta si sono sparsi per tutta la Russia del tempo costituendo un grande movimento cristiano e nazionalista al tempo stesso. Alla sua morte nel l381 c'era­ no centinaia di piccoli monasteri fondati a partire da Zagorsk fin nelle regioni più lontane del nord-est. Sergio non ha scritto nulla, ma «ha battezzato tutta la Russia nel mistero della santa Trinità», diceva il suo successore, l'abate Nicon, a Zagorsk, il luogo in cui tut­ to era cominciato. Stupiamoci e meravigliamoci per le rinascite dello stesso genere in ogni epoca e anche sotto i nostri occhi! Sappiamo discernere e servire ciò che te­ stimonia profeticamente la grande Via in mezzo a noi ! Così si presenta il primo dittico, creato da Marco, con un abbozzo ampio e generale della predicazione di Gesù in Galilea e il ritratto schizzato dal vivo della condizione dei primi discepoli, con una promessa come chiave: diventeranno «pe­ scatori di uomini>>. I due dittici successivi riprenderanno questa doppia immagine della partenza e la svilupperanno (3,7-19 e 6,1-13). Ma prima di giungere al secondo dittico, consideriamo la sezione intermedia da 1,21 a 3,6 e vediamo come l'evange­ lista Marco l'ha disposta e sistemata.

Primo dittico: Mc

1, 14- 15. 1 6-20

115

LA PRIMA GRANDE SEZIONE DELLA NARRATIO: MARCO 1 ,2 1 -3,6

Composizione

Dieci piccole unità si susseguono a ritmo sostenuto fra 1 ,21 e 3,6 (in tutto 59 versetti, equivalenti a circa dieci minuti di lettura ad alta voce). Marco comincia con un primo gruppo di episodi, avvenuti insieme in una giornata inaugurale, con la chiara indicazione dei quattro momenti del giorno· e della notte, il che permette di avere una visione concreta della vita di Gesù nelle ventiquattro ore. Poi inseri­ sce un episodio piuttosto notevole: la guarigione di un lebbroso. Questo episodio si distacca un po' dal resto, costituisce come un momento di pausa e prepara al tem­ po stesso la serie delle cinque controversie che seguono. Si tratta di un racconto di transizione: Marco ne ha redatti diversi al punto di congiunzione fra due unità più grandi. Si possono rilevare almeno sette casi.1 Le cinque controversie che seguono costituiscono un blocco molto compatto e ben centrato attorno alla controversia centrale, quella che tratta del digiuno. I cinque episodi si susseguono e si addossano l'uno all'altro per il loro genere, a volte per il tema («peccato/peccatori», «mangia­ re», «digiunare», > (vv. 14-15), «il lago di Galilea>> (vv. 1 6-20), «Ca­ farnao», «la sinagoga» (vv. 21-28) e ora la semplice casa di uno dei primi discepoli e di suo fratello, con all'interno la camera dove la febbre costringe a letto la suo­ cera di Simone (vv. 29-31). Il narratore Marco sa giocare con le angolazioni della sua telecamera narrativa: a volte si serve di un obiettivo grandangolo, a volte di un teleobiettivo molto preciso e mirato. I versetti che seguono offrono un'immagine molto intima. 1 ,29-31 . Guarigione della suocera di Slmone

1,29-31: Kat EÙ6Ùç ÈK ti\ç ouvaywy'fìç ÈI;E:\.66vm;; �:\.6ov etç tf)v oLK[av :ELIJWVoç Kat 'AvùpÉou IJEtèt 'laKw�ou KaÌ. 'Iwavvou. 301) ù(: 1TEV6Epèt :E(!Jwvoç Ktx'tÉKH'to lTUpÉooouoa, KaÌ. Eùeùç :\.Éyouo LV aùte\) lTEpÌ. aùtfìç. 31KaÌ. 1Tpom::\.6wv �yE LpEv aùt�V Kpa't�oaç 'tfìç XHPOç" KaÌ. aljlfìKEV aÙ't�V 6 lTUpEtOç, KaÌ. ÙLTJKOVH aùtoi.ç. 1,29-31: «E subito, uscendo dalla sinagoga, essi andarono nella casa di Simone e Andrea, con Giacomo e Giovanni. Ora la suocera di Simone era a letto con la feb· bre e subito essi gli parlano di lei. Avvicinandosi, egli la fece alzare prendendola per la mano. E la febbre la lasciò ed ella li serviva».

13 Cf. P. EvooKIMOv, Gogol et Dostoevskij, Paris 1961, 247, il quale spiega, a partire da note perso­ nali di Dostoevskij, il contesto vissuto di questo romanzo pervaso da una visione profetica. " Cf. ad esempio A. GRON, Der Umgang mit dem Bosen. Der Diimonenkampf im alten Monchtum, Milnsterschwarzach 1980. E. DREWER MA NN nel suo commentario di Marco (ed. WALTER, 1989, 1, 180-202 e 360-366) reinterpreta i racconti demonologici di Marco a partire da categorie psicologiche personali sull'angoscia e da categorie psicanalitiche del super-lo. Del resto, rinvia continuamente alla sua opera in tre parti sulle strutture del male. L'autore non cerca di comprendere, né di far comprendere Marco o Gesù, ma espone, a partire dal testo di Marco, una propria teoria sull'angoscia. Inoltre, lì viene comple­ tamente annullata la dimensione culturale dell'universo studiato.

128

La narratio: Marco 1, 14-{5, 13

v. 29. Il movimento è naturale: si esce dal luogo di preghiera per rientrare a casa. Indirettamente, si apprende che Gesù si è stabilito da Pietro. Ormai il suo quartier generale è a Cafarnao, presso Simone, il discepolo della prima ora. I ma­ noscritti esitano: i verbi sono a volte al plurale (per lo più), a volte al singolare (B in particolare e D). Come «essi penetrano» insieme, al plurale, al v. 21, così è logico che qui «essi>> escano insieme. Ma i nomi dei quattro discepoli che il narratore ci tie­ ne a menzionare ingombrano un po' la scena, perché allora, chi sono questi «essi», se vanno «con Giacomo e Andrea», dopo «Simone e Andrea»? Con buona logica si comprende che qualcuno ha voluto migliorare il testo, mettendo qui il verbo al singolare. Tuttavia al versetto seguente si ritroverà il plurale, che in questo caso si può tradurre bene anche con un impersonale «gli si parla di lei» (BJ). Comunque Marco ci tiene a segnalare i nomi dei primi quattro discepoli. Essi formano ormai la compagnia di Gesù e uno degli elementi strutturanti del discepolo in Marco è pro­ prio semplicemente quello di «essere con lui>> (3,14: «li chiamò per essere con lui»), condividere tutto il suo tempo, vederlo all'opera, essere testimoni delle sue parole e delle sue azioni. Un giorno, mandati a loro volta (3,14-15 e 6,6-7), diranno e faranno le stesse cose. In questa prima frase Marco ci tiene a visualizzare questa presenza dei quattro. Luca e Matteo, che riprendono questo racconto in un contesto diverso, eliminano i nomi degli altri tre discepoli (cf. Le 4,38; Mt 8,14). Andrea, unito al nome di Simone, potrebbe avere qualcosa di artificiale (Mat­ teo e Luca lo hanno tolto), perché secondo il quarto vangelo Pietro e Andrea sono di Betsaida (Gv 1,44), e con ogni probabilità Simone è andato ad abitare in casa di sua moglie, a Cafarnao. Propriamente parlando, la casa sarebbe della famiglia della moglie piuttosto che di «Simone e di Andrea». Ma i quattro sono presenti e li ritroveremo regolarmente come testimoni privilegiati di certi grandi momenti dell'attività di Gesù. Nella narratio essi compaiono qui e all'altra estremità, sempre nell'intimità della camera della figlia malata del capo della sinagoga Giairo (5,37). Lì, solo Andrea mancherà all'appello. Su questo punto la comparazione sinottica è rivelatrice: in Matteo, anche nel secondo episodio sono scomparsi i nomi dei tre discepoli. Per Marco c'è corrispondenza fra il capitolo l (esorcismo seguito da una guarigione nell'intimità) e il capitolo 5 (esorcismo e guarigione nell'intimità), all 'in­ temo di una grande unità coerente, la narratio. Matteo e Luca riproducono gli stessi episodi, ma, avendo cambiato la prospettiva generale del loro libro rispetto a quel­ la di Marco, modificano a piacimento certi tratti che hanno perso la loro pertinen­ za nel loro nuovo progetto letterario. Così non si vede più come si corrispondono i racconti in Le 4,3 1s e 8,26s e quelli in Mt 8,14s e 9,18s rispetto alla sorprendente corrispondenza fra Mc 1,2ls e Mc 5,1. v . 30. Quindi Pietro era sposato prima di incontrare Gesù. All'epoca ci si spo­ sava attorno ai vent'anni negli ambienti religiosi (come risulta dalla prescrizione della Mishna, verso il 200 d.C.). In seguito, la moglie lo accompagnerà in occasione dei suoi viaggi apostolici: i corinzi lo sapevano e forse li hanno anche visti passa­ re fra loro (cf. l Cor 9,5 e lo studio di M. Hengel sull'apostolo Pietro).15 Clemente di Alessandria sa persino che la moglie di Pietro è morta martire (Strom. 7,11 ,63). «Essi gli parlano di lei», al presente storico, tempo di ciò che avviene in primo piano, con un incremento di vivacità nella narrazione. Gli viene immediatamente

15 M. HENGEL, Der unterschiitzte Petrus. Zwei Studien, Tlibingen 22007, 106s su Pietro a Corinto. La prima grande sezione della narratio: Marco 1,21--3,6

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segnalata ogni forma di sofferenza: questo movimento è costante in Marco, special­ mente con il verbo «portare» (!f!ÉpE Lv): gli vengono «portati» un cieco, un sordomu­ to, un paralitico, dei malati, degli indemoniati (cf. 1,32; 2,3; 7,32; 8,22). Una volta ordina: «Portatemelo!» (9,19; cf. 9,17 e 20). Lo stesso verbo servirà un'altra volta a dire ciò che si fa a Gesù: Ko:Ì. !f!Épooo LV o:ùròv È1TÌ. TÒV fo).yo9av r61rov («essi lo portarono al luogo detto Golgota>>, 15,22). Segnaliamo anche il movimento altret­ tanto naturale che consiste nel raccomandargli qualcuno: 1To:po:Ko:ÀE1v 'L va . . (1,40: 5,10.12.17.18.23; 6,56; 7,32; 8,22), o «domandare>> (Èpwr&.w, 7,26; o:LrÉw). v. 31 . «Avvicinandosi>>, questo verbo così frequente in Matteo (5 1 volte), ri­ corre solo quattro volte in Marco e questa è l'unica volta in cui il soggetto è Gesù. Se si avvicina, è in risposta alla loro richiesta (così Lagrange): sul piano narrativo, questo dettaglio è indispensabile. I gesti sono semplici e non si dice una sola paro­ la. I verbi scelti sono potenti: «avvicinarsi», non solo toccare, ma «prendere per la mano>> e «far alzare>> con, in greco, una connotazione che evoca il risveglio della ri­ surrezione (�yE LpEv).16 L'eco di altri racconti di guarigione, come quello di Elia o di Eliseo (1Re 17,23; 2Re 4,36), si sente più in Luca (cf. Le 7,15) che in Marco. L'atto decisivo, raccontato alla fine, è quello di «prendere la mano>>: egli osa toccarla, la prende per la mano e la fa alzare. La febbre, come un'intrusa, fugge via. La guari­ gione avviene, come spesso in Marco, in due tempi: da una parte, la febbre se ne va. e dall'altra la suocera, una volta fatta alzare, si mette a servire, il che significa che dà da mangiare a tutte le persone riunite. Del resto, non un pasto qualsiasi, dicono alcuni, ma il pasto festivo del sabato. La sua mano, presa, si mette a servire. Il rac­ conto somiglia a quei mosaici di Ravenna: tutto è espresso in un gesto o, come in certi capitelli romani, una mano, ingrandita, racconta tutta la storia. Sul piano stilistico e grammaticale, notiamo ancora la qualità della scrittura di Marco; egli varia i tempi a piacimento: presente storico («essi gli parlano di lei>>); imperfetto di un inizio: «ella si mette a servirli» (oL1)KOVE L); imperfetto (Ko:tÉKE Lto. «era coricata>>); aoristo per i verbi principali e i due participi in concomitanza (1TpOOEÀ9wv, Kpo:r�ao:ç). H.B. Swete cita qui l'espressione di s. Girolamo: . L'immagine ecclesia­ le di questo luogo intimo, nel quale una malata amata e guarita ritrova il suo posto nella famiglia e si mette a servire Gesù e i suoi primi quattro compagni, è indimen­ ticabile. Marco non inventa: sobrio e vero, ricrea con affetto ciò che ha sentito rac­ contare un giorno con commozione da Pietro, ancora visibilmente segnato dall'in­ tensità dell'avvenimento. .

1 ,32-34. Guarigioni ed esorcismi dopo il tramonto del sole

1 ,32-34: 'OtJr(aç oÈ YEVOilÉV1)ç, OtE EOU ò �Àloç, E!f!Epov 1TpÒç aÙ'!ÒV 1TUvtaç '!OÙç Ko:Kwç EXOVto:ç KaÌ. roùç oaLilOVL(OilÉvouç· 33KaÌ. �v OÀ1'J � 1TOÀlç ÉmaUV1'JYilÉ V1'J 1TpÒç t�V eupo:v. �aì. È9EpU1TEOOEV 1TOÀÀOÙç KO:KWç EXOVto:ç 1TOLK LÀO:Lç VO> (26). L'attrazione è spontanea: la realtà messianica, appena si mani­ festa, attira da ogni parte. Irresistibilmente la buona novella si diffonde e subito attira le persone, come conferma tutta la storia, in ogni generazione, da Cafarnao a Calcutta. Kat É9Epli1TEU>, ecc.). Ci si può chiedere come Gesù abbia personalmente compreso, e cercato di far comprendere, la sua attività taumaturgica. J. Dupont era convinto che Gesù interpretasse le sue guarigioni a partire da Is 61, con l'espressione «la buona novella è annunciata ai poveri>>.19 La Bibbia, e specialmente la letteratura profeti­ ca, vede una dimensione divina in ogni irradiazione guaritrice sotto il sole. L'ultima -

=

=

18

Cf. le opere di G. VERMÈS, specialmente il suo Jésus le juìf, Paris 1978, 90s. " Cf. J. DuPONT, Les béatitudes ( Études bibliques), Paris 1969, II, 91-142.

132

La narratio: Marco 1, 14-6, 1 �

pagina dell'ultimo dei profeti parla del «sole di giustizia» che si leverà «Su voi che temete il mio Nome», «e nelle sue ali la guarigione» (MI 3,20). Quando Dio viene, quando il Regno si avvicina, quando il Messia è presente, ciò che è contuso è guari­ to, ciò che è ferito e lacerato è curato e risanato (cf. Is 57,14-19: «Sì, io ti guarirò»). Inversamente, ogni volta che compaiono guarigione, consolazione e risanamento, si manifesta qualcosa di messianico, «Elia viene», e nella sua scia si vede il Messia atteso. La prima chiesa secondo Marco, al termine di questa giornata inaugurale, è piuttosto impressionante: essa si forma a partire da un Maestro, accompagnato da quattro discepoli: dove egli va, va anche il suo discepolo; dove essi sono si forma la chiesa. Ed essi sono là dove si soffre: vanno verso la sofferenza della gente e la sof­ ferenza della gente va verso di loro. Irresistibilmente. Ecco come il regno di Dio si manifesta in primo luogo e ogni volta. 1 ,35-39. La prima notte e il primo mattino. «Andiamo altrove»

Quarto e ultimo quadro della giornata inaugurale, con una bella corona mu­ sicale al v. 39. 1 ,35: Kal npwt evvuxa Hav ùvaa'tÒ: on ITavuç çTJ"tOUOLV OE. 1,36-37: «Essi lo ricercarono, Simone e i suoi compagni. Lo trovano e gli dicono: "Tutti ti cercano!"». vv. 36-37. Simone entra in azione, accompagnato dagli altri tre, come si può dedurre da ciò che è detto. Lo trovano per dirgli - curiosamente - non «finalmente ti abbiamo trovato», ma «tutti ti cercano». Questa scena è degna di nota da diver­ si punti di vista. Marco non l'ha inventata, anche se, riferendola, si preoccuperà di darle un senso, in profondità. Resta questo quadro, colto dal vivo: questo Simone piuttosto allarmato che riunisce i suoi e si mette alla ricerca, anzi all'inseguimento (Ka:-ra:oLWKE Lv) del Maestro, partito senza dir nulla. L'unica parola che riesce a dire risuona come un grido di desiderio insoddisfatto, a nome di tutta una collettività: «Tutti ti cercano». Cercare Gesù è un tema piuttosto frequente nel Vangelo di Marco. Lo si cer­ ca perché lo si ama e si crede in lui, come certamente qui e in 5,23 (Giairo, il quale

134

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

chiede che passi a vedere sua figlia malata) o in 16,5 (le donne il mattino di Pasqua si sentono dire: «Voi cercate Gesù . . . »). Ma nella maggior parte dei casi questa ri­ cerca è caratterizzata dalla strana volontà di prenderlo o riprenderlo, di fermarlo nel suo cammino e confiscarlo, o persino di mettere le mani su di lui, con l'espressa volontà, a partire dal capitolo 1 1 , di eliminarlo (cf. 3,21.32: la famiglia, ; 8,1 1.12: i farisei, > nelle quali i discepoli saranno «percossi con le verghe>> sono il luogo degli altri, e non sono un luogo comune fra cristiani e giudei nel quale si prega ancora insieme. Storicamen­ te, dopo il 70 i cristiani di Marco a Roma hanno indubbiamente i loro luoghi di ra­ duno distinti dalle sinagoghe dei giudei. Ma che qui Marco voglia segnalare al suo destinatario, con questo solo possessivo, la distanza non mi sembra imporsi né sul piano narrativo, né su quello della retorica e della comunicazione con il lettore (di­ versamente Focant [ad 1 ,23) clie cita a sostegno Morna Hooker, ma ricorda anche J. Marcus che pensa il contrario). L'attività di Gesù è doppia: «proclamare>> e «scacciare i demoni>>. Questa bi­ polarità riassume bene tutta la giornata inaugurale e l'insieme dei 25 versetti prece­ denti. La (1,14), e quest'ulti­ ma è vittoria, specialmente sulle potenze del male, e quindi sui demoni. Il secondo punto è solo la spiegazione concreta del primo e «la guarigione dei malati» è inclusa nella vittoria sui demoni.

1 ,40-45.

RACCONTO DI TRANSIZIONE: LA GUARIGIONE DI UN LEBBROSO

Kal fPXE"ta L («e viene . . . »). Senza preambolo, senza offrire il minimo inqua­ dramento né temporale né spaziale, il narratore ci sorprende con questo presente storico che esprime tutta la vivacità dell'avvenimento, raccontato in primo piano. Assistiamo a una nuova guarigione, una fra molte altre - si ricordi la scena vicino alla porta, la prima sera a Cafarnao (1 ,32) - ma una guarigione cui viene dato un rilievo del tutto partìcolare: purificare un lebbroso non è cosa da poco. Il racconto è collocato a cavallo fra due blocchi unificati. Si è appena chiusa la giornata inaugurale di Gesù a Cafarnao e, a partire da 2,1 , ci si troverà coinvolti in cinque successive controversie. Anche questo secondo blocco è ben collegato in un tutto organico, come confermerà l'analisi.22 Per rabboccare, da buon architet­ to, questi due blocchi, Marco ha inserito una pausa, un intermezzo, un racconto di transizione. Lo farà regolarmente lungo tutto il suo racconto: fra due grandi unità, egli inserisce un episodio che opera la transizione, ricordando per alcune caratte­ ristiche la problematica sviluppata in ciò che precede e annunciando con qualche caratteristica aggiunta la nuova sezione che segue. Questo procedimento non è as­ solutamente originale, come illustrerà il seguente excursus sui racconti di transizio­ ne. in Marco. l racconti di transizione in Marco. Un procedimento narrativo

Comporre per gli antichi consisteva essenzialmente nel ricondurre all'unità. Tutto può servire per questa unificazione di un testo: omogeneità di stile, unità d'a-

22

Cf. la presentazione generale della Mrratio, pp. 97ss e il capitolo dedicato a 2,1-3,6, pp. 145ss.

La prima grande sezione della narratio: Marco 1,21-3,6

137

zfone, disposizione logica degli argomenti, ordine cronologico regolare degli avve­ nimenti, ecc. Luciano di Samosata (Il sec. d. è.) ha redatto un piccolo trattato, inti­ tolato Come bisogna scrivere la storia, nel quale presenta con uno stile molto vivace ciò che si faceva, e si doveva fare, da sempre quando si scrivevano racconti storici. Un paragrafo, in particolare, considera la questione della composizione. La narrazione deve brillare per la sua chiarezza, una chiarezza che è, come ho detto, un effetto dell'espressione della concatenazione dei fatti. Lo storico darà cosl a tutti i suoi racconti una forma compiuta e perfetta; dopo aver concluso un primo punto, ne introdurrà un secondo, legato e unito al primo come con una catena; non vi sarà inter­ ruzione fra loro e non si vedranno vari racconti giustapposti; il primo sarà sempre non solo vicino, ma legato e mescolato al secondo per le loro estremità.23

L'autore sottolinea la particolare difficoltà dell'unificazione di un racconto; il pericolo di avere «Vari racconti giustapposti» deriva dalla natura stessa del rac­ conto: ogni narrazione include una successione temporale di azione.24 Per unire in una sequenza questi frammenti di testo contenenti l'una o l'altra azione, Luciano propone di «legare e mescolare» i passi «per le loro estremità». Questa soluzio­ ne è principalmente di ordine retorico e tocca solo superficialmente la dimensione drammatica o propriamente narrativa del problema. Il suo tempo era dominato, in tutti i suoi generi, dalla retorica.25 L'autore del secondo vangelo si preoccupa dell'unificazione del suo racconto anche dal punto di vista retorico. Si noterà a più riprese che un'espressione, posta in testa a un'unità, ricompare all'altra estremità o, collocata alla fine, viene ripresa all'inizio della nuova sezione, proprio per unire i vari passi «per le loro estremità>>. Fra i procedimenti di cui egli si serve a tale scopo c'è il racconto di transizione: si tratta ogni volta di un breve racconto che si distingue dal suo contesto immedia­ to, introdotto come una pausa rispetto a ciò che precede, ma che prepara al tempo stesso la nuova sezione che segue. Questi racconti si stagliano sempre sul loro con­ testo immediato, ma permettono al lettore/destinatario di entrare in quella che si presenta come una nuova problematica nella sequenza che comincia. Questo dop­ pio aspetto li avvicina a quella che i retori chiamavano «digressione>>.26 Commen­ tando Mc 6,17-29, vedremo più da vicino quella che è formalmente una «digressio­ ne>> in una composizione oratoria classica. Al di fgori di questo esempio classico, si possono elencare almeno otto casi evidenti di piccoli racconti di transizione, collo­ cati fra due parti più grandi, nel racconto evangelico di Marco. Fra i più impressio-

2' LUCIANO DI SAMOSATA, Come bisogna scrivere la storia 55. Anche CICERONE afferma che lo sto­ riografo deve avere uno stile «legato e unito>> (De oratore 2,15,62-64). QuJNTIUANO sottolinea. a sua vol­ ta. questo aspetto servendosi di una comparazione: il discorso della storia è comparabile a «uomini che, tenendosi per mano per consolidare il loro passo, sostengono e sono sostenuti al tempo stesso» (Inst. orat. 9,4,129). 24 Cf. E. MELETINSKI, «L'étude structurale et typologique du conte>>, in V. PROPP, Morphologie du conte, Paris 1970, 201-254 e R. BARTHES, «lntroduction à l'analyse structurale des récits>>, in Poétique du récit, Paris 1977, 7-57. 25 Cf. Composition, 376-385 e 386-391 sulla «supremazia della retorica» e «la tentazione dramma­ tica» nelle relazioni fra i tre grandi generi - racconto, discorso e dramma - nella letteratura contempo­ ranea di Marco. 26 Cf. QuJNTIUANO, Inst. orat. 4,3 (i nomi variano: digressio, digressus, egressio, egressus, excessus, excursus, 1!a.pÉK�aLç, 1\LÉ/;olioç) e il commentario di J. CoUSIN, Études sur Quintilien, Paris 1935, I, 245. La pratica risalirebbe al retore Corace di Siracusa (V sec. a.C.).

138

La narratio: Marco 1,14-6, 13

nanti c'è Mc 8,22-26, dove la guarigione del cieco di Betsaida instrada sia il lettore/ destinatario che i discepoli nel racconto, essi che hanno «il cuore indurito e hanno occhi e non vedono» (cf. tutta la tirata in 8,17-21), verso il momento decisivo della confessione di Pietro (8,29). Fin dalla fine del primo capitolo, abbiamo un bell'e­ sempio di un tale racconto con la purificazione del lebbroso (1 ,40-45).

1 ,40-45. La g uarigione di un lebbroso

1 ,40: Kaì. �PXE't'aL 1TpÒI; aÙ't'Òv M1TpÒI; 1TapaKa.À.Wv aÙ't'Òv KaÌ. yovmrc:'t'wv KaÌ. 'J.lywv aÙ't'C\) O't'L 'Eàv 9ÉÀ1J>. La «SUa» mano «lo» tocca, e lo stesso pronome dice entrambe le cose. La mano interviene spesso nei racconti di guarigione (già in 1 ,31; cf. 5,41; 7,32; 8,23.25; 9,27; 6,2 ) . Ma toccare un lebbroso è rischiare la contaminazione, è rischiare la morte. Il lebbroso era detto «Un morto vivo>>. Miriam, la sorella di Mosè, per aver sparlato del fratel­ lo, nel libro dei Numeri, è diventata immediatamente lebbrosa: «come uguale alla morte» (Nm 12,12 LXX: WOEL 'Loov eavat>, mentre «vengono da ogni parte>>, ricorda l'ultima pericope della sezione precedente: Gesù era andato e Simone, andato a cercarlo, lo trova e gli dice: (vv. 35-38). Questo modo di ritornare sulla con­ clusione della situazione precedente fa dell'episodio del lebbroso una sorta di pa­ rentesi narrativa, una vera digressione. Al tempo stesso, il ritiro qui descritto (1,45) prepara più direttamente che in · 1 ,35 uno stesso ritiro forzato di Gesù che avverrà all'altro capo della sezione seguente, in 3,7-8, dopo la decisione presa dagli avversari di «farlo morire>> (3,6). In 1,35 Gesù anda­ va liberamente verso un luogo deserto; in 1,45 e in 3,7 vi è in qualche modo costretto. D'altro canto, l'ultimo elemento, la venuta della gente da ogni parte per Gesù annun­ cia direttamente l'assembramento descritto in apertura della pericope seguente (2,1-2). Notiamo infine la curiosa ripetizione del termine 1:Òv Aéryov alla fine di questo racconto (1,45) e all'inizio della nuova sezione (2,2). Il termine si incontra solo molto raramente nelle parti narrative di Marco,32 per cui è ancora più sorprendente trovare qui due oc­ correnze così vicine. Sul piano semantico, l'uso non è strettamente lo stesso,33 ma, giu­ stamente, non bisogna vedere qui uno di quei casi in cui, attraverso la ripetizione di uno stesso termine, l'autore evita, come diceva Luciano di Samosata, ? Marco fa quello che si raccomandava al suo tempo: «legare e mescolare i passi vicini per le loro estremità>> (Luciano di Samosata, citato sopra).34 Per concludere, la posizione intermedia e come isolata fra due sezioni, l.a par­ ticolarità drammatica del racconto e il suo modo specifico di partecipare �ttraverso numerosi elementi di ogni genere al contesto, sia precedente che successivo, fanno dell'episodio del lebbroso purificato la transizione letteraria fra le due unità più grandi di Mc 1,21-39 e Mc 2,1-3,6.35

n

Oltre a Mc 1,45 e 2,2 vi sono altri sei casi: 4,33 (ÈÀllÀ.EL tòv J..6yov 2,2); 5,36 (11cr.puKooo� tòv UuJ..u ); 9,10; 10,22; 14,39. 13 Sono soprattutto gli esegeti anglosassoni a essersi occupati di questo problema. a. G.D. KIL­ PATRJCK, «Mark 1,45 and the Meaning of Logos», in JTS 40(1939), 389-390; Io., «Mark 1,45••, in JTS 42( 1 941), 67·68; T. NJCKLJN, in Exp T 5 1 (1939-40), 252; J.K. ELLIOTT, >, presso Dio, e per giunta, da lui. Questa prima parola non può, anzitutto, non sorprendere: ci si aspetterebbe un gesto e una parola per rimettere in piedi il paralitico e guarirlo. Invece Gesù parla di . Stava proclamando la Parola (2,2): e questa riguarda la buona novella di Gesù (cf. 1,14-15 ) , che è vittoria sulle potenze del male e sul peccato (cf. '

1 54

L a narratio: Marco 1 , 14-6, 13

1,4) . Non dovremmo quindi essere troppo sorpresi: il vangelo ha come unico scopo quello di trasmettere insieme allo Spirito Santo il perdono di Dio. Nella misura in cui questa parola ricorda quella rivolta da Natan a Davide (cf. 2Sam 12,13; Sal 32,5), essa è anzitutto una forza profetica: Gesù rilegge da profe­ ta la realtà così come Dio la considera. Egli rivela all'interessato, e indirettamente a tutti, il perdono concesso da Dio. Gesù conosce abbastanza il cuore dell'uomo e quello di Dio per potersi pronunciare in questo modo. In realtà l'evento Gesù, ripercosso in tutto il Nuovo Testamento, stupisce per la continua concentrazione su quest'unica espressione «il perdono dei peccati». Quasi tutti i ventisette scritti della biblioteca neotestamentaria recano nella loro prima pa­ gina la menzione del perdono dei peccati. R.E. Brown (The Birth ofthe Messiah, 373) nota che essa non si trova come tale nell'Antico Testamento. Ancora recentemente un maestro ebreo diceva: «Nella tradizione non si dice che quando verrà il Messia perdonerà i peccati>>. Stupiamoci. La tradizione cristiana rileggerà i profeti e rileverà più di ogni altra cosa questo aspetto del perdono, qualificando così la venuta di Dio e del suo Messia nella storia. Fra i testi più spesso citati c'è Ger 31,31-34 - la citazione più lunga dell'Antico Testamento nel Nuovo, ripresa interamente e più di una volta nella Lettera agli Ebrei (8,8-13; 9,28 e 10,2-18). Si confronti ancora Is 53,12, dove il servo «porta il peccato delle moltitudini», e 55,4-7, dove la promessa di un testimone e capo, inviato per i popoli, sfocia in «il nostro Dio che largamente perdona>>; e il lun­ go affresco storico di Ez 16, che termina con quest'unica promessa finale: . . . quando ti avrò perdonato tutto ciò che hai fatto, oracolo del SIGNORE>> (Ez 16,62). Marco scrive in modo sicuro sul piano teologico e al tempo stesso provocato­ rio per la sensibilità del campo avverso. Ci ricorda il cuore del messaggio di Gesù, ma aggiunge subito, sul piano narrativo, la resistenza che questo messaggio ha in­ contrato. Ogni lettore si vede, a sua volta, posto di fronte a entrambi gli aspetti dell'annuncio evangelico di Gesù. Si tratterà di scegliere e soprattutto di «non ver­ gognarsi di lui e del suo vangelo>> (cf. 8,35.38). 2,6-7: �aocv O€ n� twv ypoc��octÉwv ÈKEL Koc9��EVOL KOCL liLocÀoyL(O�VOL Èv toc'Lç Kocp6(ocLç ocutwv. 1'f( olìtoç outwç ÀOCÀEL ; �ÀOCTj�E'ì.' t(ç OUVOCtOCL oclj>LÉVOCL Ò:�pt(ocç EL �� Etç o 9EOç. 2,6-7: «Ora, c'erano là seduti alcuni scribi che pensavano nei loro cuori: "Perché co­ stui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?"». vv. 6-7: «Ora, c'erano là seduti alcuni scribi». Notiamo la doppia costruzione perifrastica ('IÌ>, 2,8 [2 vol­ te]; 8,16s; 9,33; 1 1 ,31); anche «il cuore>> ritorna varie volte (2,8; 3,5; 6,52; 7,6.19.21; 8,17; 1 1 ,23; 12,30.33). Senza alcuna preparazione, ecco comparire un nuovo attore: è la prima messa in scena dell'opposizione, preparata, è vero, dall'espressione un po' curiosa della pericope precedente: «in testimonianza per loro» (1,44). Questo plurale deve essere distinto dal sacerdote, al singolare, al quale era inviato il lebbroso. Qui si tratta di «alcuni scribi». Il loro nome «scriba>> è intervenuto già una volta nel primo capito­ lo, come punto di comparazione: l'autorità di Gesù impressiona le persone presen­ ti nella sinagoga perché non è come «quella degli scribi>> (1 ,22; cf. v. 27). Lo scriba (ypoc��ocm)ç, 21 volte in Mc, 62 nel NT) rappresenta un'autorità potente, di solito

Cinque controversie. Marco 2, 1-3,6

155

menzionata nelle questioni propriamente teologiche, come in questo caso. Nel suo commentario, Jean Radermakers ha persino proposto di chiamarli semplicemente , Marco preciserà che l'interlocutore è «fariseo», interessato alle questioni relative alla condotta (la halakhah ). Di professione, gli scribi sono insegnanti, giu­ risti, esperti della Torah, ma normalmente esercitano anche un lavoro manuale per sopperire alle necessità della famiglia. Un certo schematismo nella presentazione dello scriba è già percepibile in Marco e si accentuerà in Matteo e Luca, dove di­ venterà semplicemente l'«Oppositore» per eccellenza, associato, addirittura identi­ ficato, con il fariseo. Notiamo che in Marco il fariseo non compare più nel racconto della passione (scompare già nell'episodio di Mc 12,13-17). L'introduzione dell'opposizione in questo punto ha qualcosa di forzato: I'ÉKEL («là>>) tradisce per un istante la sorpresa del narratore verso il suo destinatario. Ha come dimenticato di segnalare questi intrusi nella messa in scena iniziale ! Luca, come ci si poteva aspettare, non manca di introdurli, da buon narratore, fin dall'a­ pertura (Le 5,17). Matteo segue Marco e si accontenta di inserire uno dei suoi nu­ merosi «ed ecco>> (Kcr:ì. lùou ) per introdurli. «Alcuni»: presentazione vaga. Essi rappresentano una categoria più che un gruppo formato. «Seduti>> (Ka9�1J.EVOL ) : la loro posizione seduta colpisce un po'. Non è la posizione di colui che insegna (4,1; 13,3)? Marco si serve di questo verbo con una certa facilità: «essere seduto>> equivale in molti casi a «essere presente>>, come per il gruppo dei discepoli in 3,32.34 o Levi in 2,14. «Seduti, e quindi in un posto d'onore>> (La grange) è forse già dire troppo. In buona posizione, certamente, corrispondente al loro rango sociale, cosi come senza dubbio lo percepisce il narratore. . Gli oppositori si espri­ mono, ma «nei loro cuori>>. Colpo di scena del narratore, che riesce a dire ciò che nes­ suno ha potuto vedere o sentire. Indirettamente egli non può fare a meno di rivelare il suo proprio cuore: pensa per gli altri e qui esprime quello che è a suo avviso il capo d'accusa principale di questi altri contro Gesù. Come spesso accade in questi casi, si imparano più cose sul narratore che su quegli scribi. Sia il verbo ùux.ÀoyCCo�!U sia il sostantivo ùLaÀoyLcrJ.u)ç (cf. 7,21) sono abbastanza neutri, ma in Marco assumono nor­ malmente una colorazione molto negativa: si tratta di riflessioni critiche. T( oirmç ou-rwç ÀaÀE'L ; j3J..acrcl>TJtJ.EL. Alcuni manoscritti, fra cui B e e, hanno qui on , che è preferito da Taylor. In entrambi i casi si tratta di una domanda diret­ ta: perché? Come mai? Ou-roç o\hwç: anafora con una sfumatura di disprezzo nel primo termine (cf. 6,2-3). Marco ama questo tipo di anafore e di allitterazioni nel­ le domande di meraviglia: II69Ev 'tOU't4l 'tttU'tiX (6,2); -rC Écrnv mu-ro . . . (1 ,27); -rt -raum . . . (2,8). Oì.l'twç ricorre dieci volte in Marco (cf. 2,12 e 4,40). AocMi riprende il verbo del v. 2, per cui l'osservazione degli scribi riguarda più la predicazione ge­ nerale di Gesù che ciò che ha appena detto. Gesù proclama la vicinanza del regno di Dio e verifica questo avvenimento nell'incontro immediato con i quattro uomini venuti a portare il loro compagno paralizzato. La scelta del verbo da parte del nar­ ratore rinforza il legame evidenziato sopra fra il v. 2 (l'annuncio della Parola) e il v. 5 (il perdono dei peccati). A stupire e scandalizzare è il fatto che la vicinanza di Dio come re debba essere compresa come una realtà presente qui e ora, senza altra mediazione che la parola di colui che la enuncia e la fede di chi ci crede. Una tale immediatezza nella prossimità è scandalosa e si grida alla bestemmia. BJ..amjlT]�EL («egli bestemmia>>). I due verbi (À«ÀEL , j3J..acrcl>TJtJ.EL ) si susseguono, senza alcuna congiunzione. Stile duro, ricco di effetti. Secondo Wellhausen, qui si 158

La narratio: Marco 1, 14'-6, 13

è tradotto male a partire dall'aramaico e il secondo verbo doveva essere reso con un participio . . . Luca addolcisce la frase, scrivendo: ÀttÀE1 �ÀttcnpTJf.L[ttç. Matteo con­ densa tutto in un tratto: oùtoç �Àtto!f>TJiJ.E1. «Propriamente parlando, la bestemmia era un parola oltraggiosa rivolta a Dio, una maledizione o un insulto (2Re 1 9,22) che doveva essere punito con la morte (Lv 24,15s; 1 Re 21,13). Uno sconfinamento nei diritti di Dio equivale a negarli» (Lagrange). Per la bestemmia era prevista la lapidazione (cf. Lv 24,10.23; 1Re 21, 1 3; Gv 1 0,33; At 7,58). Questa critica, che è già un giudizio di condanna, anticipa stranamente il giu­ dizio che il sommo sacerdote pronuncerà a Gerusalemme, quando tutto il sinedrio si riunirà: TJKOlJOtttE tfìç �Àtto!f>TJf.L[ttç (, Mc 14,64). Fin dalla prima controversia formale nel Vangelo di Marco risuona la parola del­ la fine. Non solo ha bestemmiato, ma continua a bestemmiare (verbo al presente). Quest'uomo è bestemmia. Il Gesù di Marco replicherà quaranta versetti dopo, con tutta la chiarezza ri­ chiesta, servendosi dello stesso verbo («bestemmiare>>, cf. 3,28-30), con un'identica posta in gioco, il perdono. Qui e in 3,22-30 ci troviamo quindi davanti a un campo semantico centrale nella catechesi di Marco. Fin dalla prima controversia la discus­ sione tocca direttamente il livello al quale si deciderà, alla fine, la condanna a mor­ te del protagonista. Questo ricorda ciò che avviene nei Dialoghi di Platone, dove, indipendentemente dalla rispettiva cronologia (il Critone è stato scritto prima o dopo l'Apo logia ?), risuona in ogni discussione l'accusa ultima e le ragioni decisive che determineranno il processo e la morte di Socrate. Qui avviene lo stesso. Indi­ pendentemente dal fatto che Mc 2,1-3,6 abbia potuto avere o meno un'esistenza in­ dipendente prima di essere inserito in tutto il racconto evangelico, la vera posta in gioco e l'esito finale sono identici, da 2,5-6 a 14,64. EL f.l� EÌ.ç 6 6Eoç («se non Dio solo»; cf. Mc 10,18: «Uno solo è buono>>). Se­ condo E.F.F. Bishop,4 Marco avrebbe aggiunto 6 6Eoç a quella che in origine era una semplice designazione di Dio come l'Uno, l'Unico. Luca scrive: d f.l� iJ.Ovoç o 6Eoç - «Se non Dio solo>> (5,21). Nella tradizione neoplatonica, come nelle successi­ ve correnti ebraiche, nulla è «uno» come Dio. Con l'unità si confessa l'unicità, l'an­ teriorità e la trascendenza del vero Dio, che è incomparabile, indivisibile, stretta­ mente assoluta. I mistici distingueranno questa unità da tutte le altre forme e figure di unità: quantitativa, matematica, astratta, ecc. Si confronti, ad esempio, il primo portico dei Doveri del cuore di Bahya lbn PeqOda (XI sec.), consacrato all'Unità di Dio.5 A livello degli scritti del Nuovo Testamento, ogni volta che si parla dell'«u­ no» si può già a buon diritto chiedersi se lì non si rinvii al divino, come qualità o come soggetto (cf. Le 10,42; Eb 2,1 1 ; Gal 3,16.20.28; Ef 2,14-18; 5,31-32; ecc.). «Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?». La domanda è retorica, l'af­ fermazione non stupisce: Dio è Colui che perdona, si tratta di uno dei suoi attributi essenziali fin dalla sua rivelazione a Mosè: Es 34,6-7 (cf. Mi 7,18-20; Is 43,25; 44,22; 55,7; Sal l30,4). Ma l'idea che sottende il passo è che Gesù si arroga il diritto di per­ donare i peccati. Il succitato parallelismo con il profeta Natan mostra assai bene che questo non è necessariamente implicato nelle parole di Gesù. La formulazione del­ Ia domanda degli scribi è fortemente colorata da una comprensione propriamente

4 In ET 49, 363-366. ' Devoirs du ctEur, trad. par A. CHOURAQUI, Desclée de Brouwer, Paris 1946. Cinque controversie. Marco 2, 1-3,6

1 57

cristiana della realtà del perdono. In Luca, in 7,47-49, a tavola in casa di Simone il fariseo, si trova qualcosa di assolutamente analogo: la parola detta da Gesù alla donna («i tuoi peccati sono perdonati») viene subito interpretata dai commensali come un potere di perdonare: «Chi è costui che perdona anche i peccati?». La per­ cezione è chiaramente cristiana. Nell'ambiente giudaico rabbinico il discorso sul perdono si è organizzato at­ torno a due poli. Da una parte, si afferma: «Dio perdona sempre», basta conver­ tirsi a lui di tutto cuore. Ma quanto a mio fratello, lui può non volermi perdonare, neppure nel giorno del perdono, il Kippur. Allora spetta a me insistere e cercare di ottenere a ogni costo questo perdono fraterno. Perciò il perdono si gioca più nella relazione fra fratelli che nella relazione con Dio ! Matteo esplicita ulteriormente il pensiero di Marco, quando conclude il rac­ conto con queste parole: «Le folle . . . resero gloria a Dio che ha dato un tale potere agli uomin i» (9,8). Per Matteo, i grandi attributi di Dio - il perdono, la misericordia, fare pace - sono ormai qualità vissute nella comunità, «sulla terra come in cielo». La domanda resta: gli attributi divini possono permeare la storia e fermen­ tarla? «Dio è in cielo e tu sei in terra», ricorda il saggio Qoelet (5,1; cf. Sal 1 15,16). Non si corre il rischio di una terribile confusione, persino di una desacralizzazione senza riserve? A partire dall'evento Gesù la tradizione cristiana ha scoperto non solo la possibilità di un'imitazione di Dio (cf. Ef 5,1), ma anche di una 9Éwc nç o di­ vinizzazione dell'esistenza umana (cf., in particolare, già Ireneo di Lione [200 ca.], e soprattutto Massimo il Confessore [VII sec.] e, sulla sua scia, tutto l'oriente gre­ co bizantino). Vicinanza, reciprocità, partecipazione e santificazione avvengono, ma non a qualsiasi prezzo. Lo scambio avviene ma la fede richiesta, l'accoglienza fondamentale richiesta è fatta di povertà, di vuoto o di kenosi, di umiltà e di svuo­ tamento di sé. Nella recente tradizione filosofica meritano di essere ascoltate almeno due voci: quella di Jean Nabert e quella di Jacques Derrida. Il primo, alla ricerca dei momenti (>. C'è nell'ambiente cristiano un reale rischio di banalizzare tutto il linguaggio del perdo­ no, e anche della sua pratica più corretta. Il filosofo ci risveglia e la sua riflessione

NABERT, L e désir de Dieu, Paris 1966, 12ls, 210s, 225s. 7 J. DERRJDA, Séminaire, Galilée, Paris 2008, l, 94.

6 a. ].

1 58

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

esigente permette, chissà, di ritrovare qualcosa della forza originaria e provocatoria del primo linguaggio dei vangeli sulle labbra di Gesù, come qui in Mc 2,5-7. 2,8-11: Kal Eòaùc; E1TLyvoùc; o 1T]oouc; t4) 1TVEUIJ.Il'tL autou on outwc; ÙLaÀoy((ovtaL EV Èauto1c; ÀÉyH auto1ç, T( taf>ta ÙLaÀoy((Eo9E EV tale; Kapù(a.Lc; UIJ.WV; 9t( EO'tLV EUK01TWtEpov, EL1TE1v tto:. Il to:f>to: ha quasi valore avverbiale e viene percepito come nega­ tivo da Matteo, che scrive semplicemente 1TOVT]pa («cattivi>>, riferito ai «pensieri>>; cf. Le 5,22 D: 1TOVT]pa). EUKaTioç (cf. 10,25, contrapposto a ùuoKoÀoç, 10,23.24), «ciò che è facile>>, da fare senza fatica. 1TEpL1TO:tE1v («camminare>>, >, ai quali Gesù ritiene di essere inviato come «medico>> (2,17). Notiamo tuttavia che qui il salto dallo spirituale al corporale giunge come una prova che deve autenticare la missione di colui che parla. La sua parola è vera o vana? Opera o meno ciò che dice? Il doppio El-rrEI. v («dire>>) nella domanda ne sottolinea tutta la posta in gioco. La libertà d'azione nell'ordine spirituale come in quello fisico è caratteristica del divino. . Per Dio tutto è uno ed è tutt'uno: sia lo spirituale che il materiale. L'elemento messianico, se è realmente entrato nella storia, tocca tutta la realtà, compreso il corpo. Tocca il peccato come la radice dei mali e la malattia come un'espressione del male. Accogliere nella fede il messianico (cf. 1 ,15) è esse­ re perdonato e sapere di esserlo; è vivere fin nel proprio corpo la vicinanza di Dio che regna perdonando ogni colpa e guarendo ogni malattia (cf. il parallelismo e lo stesso ordine di successione nel Sal 103,3: ). Enunciando il perdono prima della guarigione, Marco e la sua tradizione disinnescano la critica che fa di Gesù un mago o un semplice tauma­ turgo. Questa critica ritornerà sulle labbra degli oppositori, come vedremo al capi­ tolo 3 (vv. 21-22). Fin dalla prima discussione siamo quindi immersi nel cuore di tutte le discus­ sioni (come la prima parabola del grande discorso al capitolo 4 contiene la chiave che spiega tutte le parabole, 4,13). Il vero livello è quello al quale si riconosce o si rifiuta la pienezza messianica avvenuta nell'evento Gesù. Questa questione era pal­ pitante quando Gesù era ancora in vita, e non è ancora del tutto scomparsa quando Marco redige il suo vangelo. Él;oua (a, cf. 1 ,22. > e vuole che i suoi destinatari «sappiano». Gesù ha guarito dei malati, Gesù è stato percepito come colui che offre il perdono di Dio. La messa in scena drammatizzata di que­ sta prima discussione con gli scribi, innestata su una guarigione, deve da una parte correggere l'immagine di un Gesù semplicemente taumaturgo e, dall'altra, stabilire chiaramente la sua piena messianicità. L'espressione >). Con enfasi, Marco indica ancora una vol­ ta il cambiamento di interlocutore. L'asindeto «alzati ! prendi ! >> rinforza il tono dell'ordine dato. «Va' a casa l>> (cf. 8,26 e il commento; anche 5,19 [npòç toùç oouç, «dai tuoi»] e 8,3) I tre verbi rovesciano completamente la situazione di par­ tenza: «alzati>>, lui che era steso; «prendi la tua barella», lui che era portato sulla barella da quattro persone; e «Va' a casa», lui che non riusciva nemmeno a entrare in questa casa! .

2,12: KCÙ �yÉp9T) KCÙ Eùeùç lipcxc; tòv Kp&j3anov É/;flJ..9Ev ÉI.11Tpoo9Ev 1TCivtwv, C:SotE Éç(otcxo9cxL mivtcxç Kcxl ùol;a(E Lv tòv 9Eòv À.Éyovtcxç on Outwç où&ÉnotE E'(oo!J.EV. 2,12: «Egli si alzò e subito, prendendo la sua bareUa, uscì davanti a tutti, oosicché tutti erano stupiti e glorificavano Dio, dicendo: "Non abbiamo mai visto nuDa di simile"». v. 12. L'ordine viene eseguito alla lettera, il che illustra indirettamente la pie­ na autorità di chi lo ha formulato: «alzati>> - ; ; «Va'>> - «USCÌ>>. C:Son, «cosicché», cf. 1,27. Effetto conclusivo appropriato a un racconto di mi­ racolo. Mentre in questa storia il racconto di guarigione e la controversia sono inca­ strati, tutto termina come si deve in un racconto miracoloso: reazione stupita della folla, senza una sola parola sugli scribi. Invece nel racconto di 3,1 -6, che pure com­ bina insieme i due generi di guarigione e di controversia, tutto termina come una pura controversia - gli oppositori decidono di far morire Gesù - e non si parla più della reazione delle persone presenti nella sinagoga. L'artista Marco sceglie e maneggia i suoi effetti a piacere. E!J.Tipoo9Ev, «davanti a tutti» (cf. 9,2). &oça(E Lv, caso unico in Marco (molto fre­ quente in Le-A t e Gv). É/;Lotcxo9cxL , verbo molto forte, esprimente la paura fino a es­ sere fuori di sé (cf. 5,42 e 6,51; cf. anche 3,21: ; cf. 2,25), terza volta che ricorre l'outwç nella stessa pericope. Nei due casi precedenti c'era una sfumatura di svalutazione. Qui il termine rende - piuttosto vagamente ­ lo stupore o la costernazione. Il catechista Matteo preciserà che la folla si meravi­ glia per il «potere dato agli uomini>>. Luca parla di «cose sorprendenti (rrapnòol;a) viste oggi». Marco è meno preciso: la folla «glorifica Dio>>, ma si rende ben conto di tutto ciò che vede? La grande costernazione non garantisce che si sia tutto ben compreso (cf. i discepoli costernati senza comprendere in 6,5 1-52). Comunque que­ sta conclusione, con la lode di Dio, conferisce all'episodio un accordo finale netta­ mente positivo, al contrario della conclusione della quinta e ultima controversia in 3,6, dove si decide di «farlo morire» (espressione finale). Il cammino della storia fra 2,12 e 3,6 - come fra 1,1 e 16,8 - è tragico. Fin dall'inizio del grande racconto, non risparmia il suo destinatario ma lo prepara ad affrontare il peggio.

2,1 3-1 7. La chiamata di Levi e la comunione a tavola con i peccatori

In questi cinque versetti passiamo attraverso un triplice quadro: una prima sce­ na colloca nuovamente Gesù all'esterno, in riva al mare, mentre si rivolge alle folle e svolge la sua attività principale in Marco: insegnare. Il quadro è ampio, come un sommario. Su questo sfondo si staglia un secondo quadro: la chiamata del pubblicano Levi, figlio di Alfeo. Un terzo quadro ci introduce in una nuova controversia, ancora con gli scribi, e tutto termina con una parola di autorità da parte di Gesù. L'apice di questo triplice quadro deve essere certamente cercato nella controversia, ma i primi due quadri - l'insegnamento di Gesù, dispensato alla folla in riva al mare, e la chiama­ ta di Levi - proseguono lo sforzo di presentare un'immagine completa di chi sia Gesù. Si può quindi distinguere una doppia preoccupazione nel narratore. 2,13-14: KaÌ. È�i')19Ev TTaÀLV TTUpà t�V eliÀaaaav· KaÌ. miç O OXÀOç �PXEtO TTpÒc;

aùt6v, KaÌ. MUia.crKEV ocùtouç. 1"Kaì. TTapnywv ELÙEV AE=uÌ.v tòv tofl ' Alcfiatou Ka9�1J.EVOV ETTÌ. tÒ tEÀWVLOV, KaÌ. 1Éyn aùt�, 'AKOÀ01J9H IJ.OL. KaÌ. à.vacrtàç �Koloue�crEv aùt�. 2,13-14: «E uscì di nuovo in riva al mare e tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. Passando, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco deUa dogana e gli disse: "Seguimi". E alzandosi lo seguì».

KaL.. TTnÀLv («e di nuovo»; cf. 2,1). Gesù «esce>> «di nuovo» come in 1,35 o 1,45, ritorna al lago come in 1,16. Il racconto procede, ma si collega al tempo stesso a cose già viste e già ascoltate, il che rafforza l'immagine creata di un Gesù itinerante e pre­ dicante. I verbi sono all'imperfetto: il quadro evoca un'immagine generale, un'occu­ pazione abituale del protagonista. L'insegnamento viene riaffermato con semplicità e forza (cf. 1,22; 2,1-2) ma anche senza precisarne maggiormente il contenuto. Si viene necessariamente rinviati alle due proposizioni-programmi dell'intestazione di tutta 1 62

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

la narratio (1 ,14-15): si tratta del «Regno» e della «buona novella di Dio». Nella sua semplicità questo piccolo v. 13 ridice tutto. Né Matteo né Luca hanno ritenuto neces­ sario fare lo stesso. Questo quadro generale conserva senza dubbio un tratto molto realistico del Gesù storico, indotto a preferire la riva del lago alle sinagoghe come luogo adatto per la proclamazione della buona novella (cf. 1 ,39). «Passando, vide . . . » (cf. 1 ,16.19). Stesso verbo («passando») usato per la chia­ mata di Simone e Andrea, poi di nuovo questo sguardo sottolineato dal narratore, che ci obbliga ad adottare il punto di vista del protagonista. Sguardo di autorità so­ vrana, basata su una parola imperativa senza alcun fronzolo: «Seguimi!». E l'uomo subito lo segue (oltre a 1,18, cf. un racconto assolutamente analogo in Gv 1,43, que­ sta volta con Filippo, che è di Betsaida, il villaggio vicino a Cafamao ). Il candidato in questione è un certo «Levi, il figlio di Alfeo>>. Si è conservato il suo nome e quello di suo padre: egli è conosciuto dalla comunità che trasmette questo racconto esemplare. Marco precisa che era «seduto al banco della dogana>>. Indirettamente, apprendiamo quale fosse la sua occupazione: doganiere, pubblicano, uomo al servizio delle auto­ rità romane ed erodiane. Gli storici ricordano che un tale posto di dogana si trovava fra Cafamao e Betsaida. Infatti, lì si toccavano tre regioni: la Galilea, la Decapoli e la regione di Erode Filippo. Il ricordo riferito da Marco e situato in riva al lago è quindi assai verosimile. Né Matteo né Luca hanno conservato questo quadro del lago. Il nome del pubblicano è stato cambiato dal redattore del Vangelo di Matteo, mentre Luca non ricorda più il nome del padre. A sorprendere è certamente il fatto che questo Levi non compaia più in seguito, neppure quando Gesù (trenta versetti dopo in Marco) chiama a sé «quelli che voleva>> e ne «Costitul Dodici>> (3,13-14). In questo elenco di Marco c'è comunque un «figlio di Alfeo>>, ma non si chiama più Levi bensl «Giacomo>>! Il primo vangelo, quello che noi chiamiamo «di Matteo>>, ha alli­ neato la chiamata di Levi alla chiamata dei Dodici, dando al «Levi>> di Marco il nome di «Matteo>> e precisando nella lista dei Dodici che Matteo è «il pubblicano>> del capi­ tolo precedente (Mt 10,3: «Tommaso e Matteo il pubblicano>>; cf. Mt 9,9). Per farlo, poiché raggruppa chiaramente i discepoli a due a due, ha dovuto invertire l'ordine recepito da Marco e collocare Tommaso davanti a Matteo. Luca, che ha già un , nient'altro. Va da sé che questo modo di raccontare interpella: Gesù esercita in modo regale la sua autorità su al­ cuni. La comunità che ascolta questo racconto delle origini e specialmente i futu­ ri discepoli, i nuovi aderenti al movimento non possono non sentirsi interpellati e coinvolti. Incontrare il vangelo è incontrare qualcuno. E questo qualcuno può chia­ marti a sé, separarti dalla folla e spingere tutto il tuo essere a seguirlo. Man mano che il racconto procede, questo aspetto della condizione del discepolo si rafforza: si confronti la chiamata dei Dodici in 3,14-19, e al centro di tutta la composizione Cinque controversie. Marco 2, 1-3,6

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evangelica la cosa sarà ripetuta con tutta la necessaria chiarezza (8,34-35). In segui­ to il tema della sequela Christi dominerà i capitoli da 8,34 a 10,52. 2,15: Ka:ì. y(ll€'t'llL

1Cil't'IXKE'Lo 9a: L llÙ'rÒv Èv tli otdq; a:ùtou, Ka:Ì. 1roUoì. tEÀwmL Ka:Ì. Ò:!J.IXp'tWÀ.OÌ. OUVO:VÉKE LVtO t4) 'll]OOU KIXÌ. 't'OLç 1J.IX9T]tiXLc; a.ÙtOU �OO:V yàp 1TOÀ.ÀOÌ. Kaì. �Koloueouv a.ùt4). '

2,15: «Mentre è a taTola nefla sua casa, molti pubblicani e peccatori si troTavano a tnola con Gesù e i suoi discepoli: infatti, ce n'erano molti che lo seguivano».

Ka:ì. y ( VEta: L . . . Si ritorna al presente storico: si è di nuovo in primo piano. Questa volta la scena si svolge a tavola: egli «è a tavola nella sua casa». Chi è costui? E di quale casa si tratta? Di lui, Levi o di lui, Gesù? In Marco non è affatto chiaro. Luca ha inteso o perlomeno lascia intendere che «Levi organizza un banchetto per GesÙ>> (5,29) per cui si è tavola in casa del pubblicano. Ma altrove in Luca si con­ stata che Gesù riceve dei peccatori anche in casa sua (cf. Le 15,2, con la critica dei farisei che passano davanti alla casa di Gesù: «Accoglie i peccatori»!). Si può quindi legittimamente pensare che il pasto si faccia «in casa», nello stesso luogo dell'episo­ dio precedente (2,1-12). Perciò Levi ha seguito Gesù fino a casa sua. È chiaro che qui Marco unisce bene o male due episodi distinti: la chiamata di Levi e la controversia sul fatto che Gesù accetti la comunione a tavola con dei peccatori. Tutta la frase, a partire da KIXL . . . 1TOÀ.ÀO L . . . fino al termine del versetto tenta di giustificare questo collegamento un po' artificiale. Il yap («infatti») tra­ disce proprio questa volontà di giustificare l'accostamento dei due episodi. Pic­ cole frasi del genere abbandonano il livello propriamente narrativo e cercano di ragionare e di fornire una spiegazione al destinatario. R. Pesch ha pensato che la piccola frase fosse stata aggiunta solo in vista della chiamata dei Dodici al capi­ tolo 3 (vv. 13- 1 4), per preparare e spiegare che Gesù ha potuto sceglierne dodici a partire da un gruppo più ampio di discepoli («infatti, erano numerosi quelli che lo seguivano»). Forse la cosa non è del tutto tirata per i capelli, ma bisogna cer­ care la spiegazione più pertinente di questa escrescenza sul piano narrativo nel contesto immediato. Già il yap, all'inizio della frase, colpisce: «Un giorno in cui Gesù era a tavola in casa - ora bisogna sapere che erano numerosi, i pubblicani e i peccatori, a tavola con lui e i suoi discepoli , perché erano numerosi quelli che lo seguivano». Il discepolo «Gesù e i suoi discepoli» (2,15). Prima occorrenza del termine «discepolo» in Marco (43 volte). Il termine non compare come tale nella Settanta. I profeti hanno dei servi, non dei discepoli. In ambiente greco, i filosofi hanno dei discepoli (Socrate fa eccezione, cf. Apol. 33A). I rabbi hanno dei discepoli (talmidim), secondo un sistema di scuola che ha subì to l'influenza della paideia greca (cf. S. LIEBERMAN, Greek in Jewish Palestine e M. HENGEL, Judentum und Hellenismus). In Marco, Gesù è circondato da sette cerchi di­ stinti: la folla, i discepoli, gli apostoli, i Dodici, i primi quattro chiamati (cf. 1,16-20.29; 3,16-18; 1 3,3), i tre testimoni privilegiati (5,37; 9,2; 14,33), infine Pietro, come il testimo­ ne più vicino che spesso si fa portavoce di tutti gli altri. L'appartenenza comincia con il separarsi dalla folla. L'importanza del vocabolario della scuola in Marco (insegnare: OLOOOKHV, maestro: OLOOOK«Àoç, insegnamento: OLOOXt\, discepolo: 1J49Tjtftç, in tutto ol-

La narratio: Marco 1, 14-{5, 13

tre 75 occorrenze) dice qualcosa della relazione che l'evangelista vuole stabilire fra il suo protagonista e i destinatari del testo.9 Il contesto iniziatico proposto per l'insieme del racconto evangelico ne risulta indirettamente confermato.

Notiamo che il tempo dei verbi è all'imperfetto. Marcò non descrive tanto la scena del momento ma evoca piuttosto un quadro abituale, e riprendendo il verbo «seguire» e il termine «pubblicano>> collega il nuovo episodio a ciò che ha raccon­ tato prima. L'ultima parola «lo seguivano>> forma quindi un'inclusione con l'ultima parola del v. 14. à:vo:KE'ia9aL («essere a tavola>>, adagiato e appoggiato sul gomito sinistro) . Marco ha un vocabolario molto vario per dire che si è a tavola: cf. anche à:vo:KÀ LVE: LV, à:vo:1rl. mE L v, auvo:vo:KE'i.o6o:L (2,15; 6,22.26.39.40; 8,6; 14,18 [16,14]). È l'unico a ser­ virsi dell'ultimo verbo (qui e in 6,22; cf. Gv 12,2 à:vo:KE'io6o:L auv). Si potrebbe ag­ giungere tutto il vocabolario del «mangiare» (Èo6 LOU)) e del «pane>> (aptoç) che ri­ tornerà specialmente nei capitoli 6-8 con frequenza molto alta: si tocca qui un tema centrale del Vangelo di Marco (in tutto, con i sinonimi, circa 70 casi classificati). Se di fatto il testo deve condurre il lettore pienamente iniziato a una tavola di comu­ nione con Cristo Gesù, la continua ricorrenza di questo tema del pasto e della tavo­ la si spiega in modo straordinario. Anche il fatto che il tema emerga a. partire dalla seconda controversia non è certamente casuale.

2,16: KO:Ì. ot YPO:IlJ.l.lltEi.ç tWV o:pLOO:LU)V t06vtEç on Èo6l.EL !!Età tWV cXJ.l.llptU)ÀWV Ko:Ì. tEÀU)VWV fÀEyov toi.ç J.146T)to:i.ç o:utou, "On llEtà twv tEÀU)VWv Ko:Ì. cXIlO:PtU)ÀWV Éa6l.E L ; 2,16: «Allora gli scnbi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: "Che cosa? Egli mangia con i pubblicani e i peccatori"?"», v. 16. Ed ecco la critica. Viene messa in bocca agli «scribi del partito dei fari­ sei». Con ogni probabilità questi ultimi sono più a loro agio nella casa di Gesù (cf. 2,6) che in quella di un pubblicano. Si tratta nuovamente di «scribi>> (come in 2,6), ma si precisa che appartengono al partito «dei farisei>>. Il loro nome compare per la prima volta. Ritornerà ancora dieci, dodici volte in Marco (2,18.24; 3,6; 7,1.3.5; 8,1 1. 15; 9,11 [?]; 1 0,2 [?]; 12,13). Dal punto di vista delle frequenze, abbiamo anzi­ tutto «gli scribi>> (21 volte), poi «i capi dei sacerdoti>> (14 volte), poi «i farisei>> (10112 volte) e, infine, «gli anziani>> (5 volte). Si sono proposte varie etimologie per spiega­ re il termine «farisei>>, in particolare i «separati>>, perushim (coloro che «si tengono a distanza>> da tutto ciò che è impuro, o che sono percepiti come tali); o gli «inter­ preti>> che commentano (pesher) all'infinito. Il termine è stato applicato loro dal di fuori. Fra di loro si chiamavano «gli amici>> o associati (haberim) e (hakha­ mim ). Poiché qui si tratta di una questione di ordine pratico - con chi Gesù accette-

• La tesi di dottorato di C. FocANT, Les disciples dans le second évangile. Tradition et rédaction, Louvain 1974 sottolinea che il termine viene usato da Marco con una frequenza proporzionalmente maggiore di tutti, quando si considerino gli altri vangeli e la tradizione ulteriore. Quest'ultima non ricor­ rerà più a questo termine per indicare coloro che si richiamano a Gesù. Cinque controversie. Marco 2, 7-3,6

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rà la comunione a tavola? - si precisa che sono «farisei», ma, siccome la questione riguarda dei «peccatori», la controversia coinvolge più specificamente gli «scribh>, cioè i teologi dell'ambiente dei farisei (cf. 2,6). «vedendo/o mangiare con i peccatori e i pubblicani». n punto di vista al quale ora ci invita il narratore è quello degli oppositori. Si procede quindi a una rilettura di ciò che egli ha appena riferito. L'ordine delle parole è invertito: in 15a c'erano anzitutto i pub­ blicani, il che si spiega bene in collegamento con il contesto precedente, cioè la chiama­ ta di Levi il pubblicano; qui vengono in testa i peccatori, perché è soprattutto su questo punto che verterà la critica, dato che il pubblicano è solo un caso particolare. «Dicevano ai suoi discepoli». La critica degli scribi non si rivolge direttamente a Gesù ma solo ai discepoli. Il grande scontro è rinviato a un momento successivo nella sezione. Il loro rimprovero riguarda Gesù, ma avrebbe potuto riguardare an­ che gli stessi discepoli. L'accento in Marco è anzitutto cristologico. In Luca (5,30) l'accento si è spostato («perché mangiate e bevete con dei peccatori?»): lì, la preoc­ cupazione è anzitutto ecclesiologica. La frase è introdotta da un Eì qciv all'imperfetto che stupisce un po'. «Essi di­ cevano», cioè «cominciarono a dire>> (incoativo) e non smettevano mai di dire, «dis­ sero in modo insistente>>, come una critica ripetuta (così Taylor). L'inizio della frase che pronunciano è riferito in modo molto vario nei mano­ scritti: "On , OLUtL, tL, tL on . . . In Matteo e in Luca le cose si chiariscono subito: oux t L, «Perché?>>. Il senso non cambia: «Che c'è per mangiare ("e bere", dicono alcuni) con i pubblicani e i peccatori?>>. Qui l'ordine delle parole è nuovamente in­ vertito (ma D riproduce lo stesso ordine del versetto precedente !). Ciò è dovuto semplicemente al gusto di variare per evitare la monotonia o è un altro modo per mettere in risalto la nozione di «peccatori>>, questa volta nella finale, e così acco­ stare (in greco) il verbo «mangiare>> al termine scandaloso: «(con dei) peccatori>> (à!J.aptwÀ.wv Èo9(H )? Comunque, ripetendo per ben tre volte la stessa formula, an­ che variandola un po', Marco ottiene un effetto di martellamento che impressiona: come si fa dunque a mangiare così con degli impuri? ..

2,17: KUL Ò:KOOO!Xç ò 'ITJOOUç À.ÉyH aùtol.ç on Où XPE LUV EXOOOLV ot toxoovnç

i.atpou ò:U' ot K«KWç ÉxovtEç- oÙK �À.9ov mÀ.ÉoaL OLKa(ouç ò:Uà à!J.aptwÀ.ouç.

2,17: «Gesù, che aveva sentito, dice loro: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori"».

Gesù reagisce. Poiché la parola non era rivolta a lui, il narratore deve preci­ sare: «avendo sentito» (mì. Ò:Koooaç). «Dice loro», al presente storico, e quindi in modo vivo, in primo piano. La parola è doppia e ogni metà ha un'identica struttura antitetica: «non . . . ma». Una tale antitesi ritorna una decina di volte nelle parole di Gesù trasmesse da Marco (2,22; 3,2.29; 4,17.22; 5,39; 7,19; 9,37; 10,8). Nella prima metà si tratta di un'immagine, di una comparazione, di una piccola parabola in po­ tenza. Nella seconda si trova l'applicazione adattata al contesto. I malati sono de­ scritti come in 1 ,32: «coloro che vanno male>> (ot K«KWç ÉxovtEç). Al centro della prima proposizione si trova la parola principale: il «medico>> (i.atp6ç, cf. 5,26; per i.oxu Hv, qui, «coloro che sono vigorosi, capaci»; cf. anche 5,4; 9,18; 14,37). (Èyw yap E LIJ.L KUp Loç ò LWIJ.Evoç oE). Il medico pasquale che guarisce è ormai in mezzo a noi. Il racconto termina lì. Nessuna reazione. La parola finale può risuonare in uno spazio aperto: Gesù è venuto, medico, ospitante che invita alla sua tavola gli uni e gli altri, come un gesto di Dio. Il suo senso della festa traspare già un po' in questo racconto così brevemente abbozzato. Qui si incontra uno dei tratti più caratteri­ stici del suo comportamento, che ha affascinato gli uni e scandalizzato molti altri: egli vuole la festa, ama mangiare e bere e non fa distinzioni fra le persone. Il Dio e Padre al quale si appella agisce allo stesso modo, lui che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti>> (Mt 5,45). Lui stesso ha preso coscienza della sua ombra e ripercuoterà la critica nella famosa parabola dei bambini che giocano sulla piazza del mercato. Lui stesso si è presentato come colui che «suona il flauto», ma «nessuno vuole ballare>>. E lui stesso l'applica: «È venuto il figlio dell'uomo che mangia e beve e voi dite: "Ecco un mangione e un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori">> ! Esattamente la stessa critica della nostra pericope. Nella storia della spiritualità, questa parola sorprendente che mantiene i «giu­ sti>> come in disparte e privilegia i , agirà sulle coscienze in profondità. Come la lama di un aratro, rivolterà la vita interiore per mostrare l'atteggiamen­ to veramente liberatorio di colui che si dona a Dio a partire dalle sue debolezze e dalla sua incapacità di salvarsi da solo. Nella nostra generazione, dom André Louf, che ha rimuginato su questo tema e commentato instancabilmente sempre da capo questa chiave evangelica, descrive alla fine di uno dei suoi libri il monaco Girolamo, il celebre traduttore della Bibbia, abbandonato a se stesso nel deserto, in Siria . . . Ecco che una sera Cristo lo interpella: . E Girolamo scruta la propria coscienza ed esamina la condotta della sua vita, estremamente povera, nuda e spoglia praticamente di tutto. Tutte le sue enumerazioni di ciò che ha lasciato per Cristo non sembrano soddisfare Colui che in modo lacerante ripete: . Le ultime parole sono apposte e sembrano aggiunte, ma non mancano in nessun manoscritto. Non è quindi necessario eliminarle. E il risultato, nota Mar­ co, è catastrofico: «e lo strappo [letteralmente lo "scisma", ox(of.!a, in greco il termi­ ne ha anche quel significato] diventa ancora più grande». Che cosa significa? Né Marco né a fortiori Gesù suggeriscono qui la minima interpretazione o attualizzazione: l'immagine deve essere quindi di per sé eloquen­ te. Solo il termine oxioj.UX offre una pista, perché significa «Strappo», ma in senso sociologico anche «scisma>>, cioè divisione di un gruppo rispetto a un altro (cf. Gv 9,16; 10,19; 1Cor 1 ,10; ecc.). Se la novità ha a che vedere con la venuta dello Spo­ so e l'irruzione della realtà messianica, allora il testo suggerisce che essa non sarà conciliabile con le forme o condotte vecchie, quelle raccomandate dal giudaismo contemporaneo, recanti ad esempio il marchio fariseo o anche l'impronta del movi­ mento del Battista. Ogni sforzo per cercare di «cucire>> il nuovo sul «Vecchio» non potrà che produrre uno «strappo>>, che diventerà sempre maggiore. Lo scisma fra le" tradizioni o scuole, fra «i discepoli>> (v. 18) degli uni e degli altri, diventa inevitabile. v. 22. Segue un'ultima immagine, sviluppata con la stessa logica: chi fa un'o­ perazione del genere? Nessuno! «Nessuno getta [pUUE L , verbo forte ma anche un po' banale; si può tradurre con «Versare>>] vino nuovo in otri vecchi». Qui VEOç si­ gnifica nuovo nel senso di recente, giovane. Il sinonimo Ka Lvoc; si riferisce a ciò che è nuovo in senso qualitativo, fresco, rinnovante (cf. al versetto precedente). 'AoKoc;. «Otre>>, fatto di pelle (meskos), il che spiega che possa scoppiare a causa della fer­ mentazione di un vino giovane. Tuttavia, a livello di immagine, i buoni intenditori dicono che un otre più vecchio e già ben rivestito danneggia meno il vino e ne con­ serva quindi meglio il gusto. «Altrimenti il vino farà scoppiare [P11YVUVIXL, cf. 9,18, far strappare] gli otri, e il vino si perde e gli otri>>. Qui Marco ha stile: il doppio Ka( e lo zeugma mediante il quale un solo verbo, posto in mezzo, regge i due soggetti (il vino, gli otri) descri­ vono la catastrofe totale della fine. L'uno e l'alt�o, il contenuto e il contenente, il nuovo e il vecchio, si vedono «perduti>> (um)Umm ) Questo verbo (cf. Mc 1,24; 3 ,6: 4,38; 8,35; 9,22.41; 1 1 ,18; 12,9) ritornerà in finale (3,6; 1 1 1 8 ) e risuonerà ancora nel­ la parabola dei vignaioli omidici: al di là dell'immagine, si dice che sia Gesù sia i vi­ gnaioli saranno perduti . . . Ma un ultimo tratto, senza un verbo, viene a raddrizzare la prospettiva finale: «ma vino nuovo in otri nuovi>>. Quest'ultimo tratto manca nel manoscritto D. Streeter (31 1 ) ha esaminato ac­ curatamente il manoscritto: si tratterebbe di un'omissione accidentale, un caso di «Salto da un termine a un altro identico>>. Taylor, che lo riferisce, continua comun­ que a pensare che la frase sia un'aggiunta non testuale, bensì redazionale. Ma il parallelo con Luca e Matteo costituisce un possibile indizio del fatto che entrambi. leggendo Marco, avevano davanti agli occhi quest'ultimo tratto. Lo hanno comple­ tato, ciascuno a suo modo (Mt 9,17; Le 5,38). A livello di Marco e della logica delle immagini successive, quest'ultimo tratto ci sembra essenziale: «Vino nuovo in otri nuovi» viene a concludere non solo l'ultima parabola, ma le ultime due, costruite in .

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La narratio: Marco 1, 14-6, 7 3

parallelo. Al di là dello strappo che non fa che aggravarsi e della perdita del vino e degli otri, Marco pone un principio che durerà nel tempo. Non si può più coniugare il nuovo con il vecchio. Affinché la novità non si perda, bisogna creare forme nuove. Nella trasposizione interpretativa, dato che anche qui né Marco né Gesù ci suggeriscono un qualche significato, bisogna ritornare alla domanda iniziale: qual è la halakha cristiana? Marco risponde: cercando non solo di cucire il nuovo su un vestito logoro, ma anche di versare vino nuovo in otri vecchi, non si otterrà nulla. Si andrà di catastrofe in catastrofe. «E il vino si perde e gli otri» significa: si perderan­ no Gesù e la sua buona novella, ma anche il giudaismo con le sue vecchie strutture, come il Tempio, andrà completamente in rovina (cf. 12,9; 15,37-39!). Allora > (Es 34,21 ). Ora 39 attività erano vietate il giorno di sabato e fra di esse ricorre, al terzo posto, «fare il raccolto» (mShabbat VII, 2; in jShabbat 2,9c si afferma che «cogliere» equivale a «raccogliere>>). v . 24. Compaiono i farisei (cf. 2,6. 16). Sono al loro posto, perché si tratta di una questione pratica di halakha. EÀEyov ocim{ì: si rivolgono a Gesù, e questo per la prima volta. La tensione sale. Il verbo è all'imperfetto. Alcuni si stupiscono, come Taylor, e lo leggono come un aoristo, basandosi su Matteo e Luca. In realtà, in que­ sta pericope lo stesso verbo ritornerà tre volte: EÀEyov ocim� . . . KaÌ. ÀÉyn aùniiç . . . KaÌ. EÀEyEv aù1:oi.ç. I l presente, i n mezzo, traduce la risposta d i Gesù in primo piano, ragionando ad hominem. L'imperfetto che segue esprime la sua presa di posizione più generale e più fondamentale. Anche l'imperfetto usato per i suoi interlocutori deve essere inteso come una critica di fondo, che viene formulata con insistenza e si prolunga nel tempo. Marco sa bene come giocare con le sfumature della lingua greca. Se ne troverà conferma nel modo sorprendente in cui distribuisce le cinque 6 parabole al capitolo 4. 1 «Vedi». Essi sono sorpresi nell'atto di commettere un delitto e l'opposizione attira l'attenzione del maestro. Lane (1 15) scrive che per gli scribi il maestro era ri­ tenuto responsabìle della condotta dei suoi discepoli. Essi pongono la domanda su ciò che è permesso o vietato, «forse con l'intenzione di soddisfare la richiesta legale di un avvertimento prima di poter perseguire qualcuno per violazione del sabato>>.17 v v . 25-26. Gesù risponde. Più esattamente, come risposta pone un'altra do­ manda, ironica, poiché chiede se abbiano mai letto ciò che fede Davide. Certo che lo hanno letto e che conoscono il passo in questione, in 1Sam 21 . Gesù replicherà ancora altre volte ai suoi oppositori citando le Scritture (cf. 12,10.26). Era un'usan­ za diffusa nelle discussioni rabbiniche (Fiebig, Der Erziihlungsstil der Evangelien, 107-1 12, citato da Taylor). Che Davide «fosse nel bisogno e abbia avuto fame>> è una ridondanza (nuovo esempio di «duality in Mark»), aggiunta dal narratore ri­ spetto al testo di 1Sam. «Lui e quelli con lui>> («lui e i suoi compagni>>) ricorda come espressione 1,36 («Simone e quelli con lui») e concorda solo molto parzialmen­ te con la storia di Davide, che è solo, e il sacerdote se ne stupisce esplicitamente (21,2). I suoi uomini sono altrove e Davide ha dato loro appuntamento (v. 3). Il tratto sarà ripreso proprio alla fine della replica di Gesù: >, che vengono sostituiti ogni settimana, pani del sabato (cf. Lv 24,5-9: > da parte di Gesù nella sua replica). Tutto questo mostra un Gesù molto libero nel suo modo di leggere le Scritture, di vedere il mondo e di com­ prendere se stesso. L'associazione spontanea con la figura di Davide lascia intrave­ dere qualcosa sulla meditazione di Gesù al riguardo. Davide era braccato quando avvenne questo episodio, ma ha osato reclamare per sé e per i suoi questo pane vietato. Gesù - ugualmente braccato? - vi attinge l'ispirazione per rimettere al loro posto i suoi interlocutori e discolpare i suoi discepoli. Nulla nel contesto immedia­ to spinge a credere che Gesù citi questo esempio perché si presenta come Messia, con la coscienza di essere «il figlio di Davide>>. Ma come Davide e i suoi compagni, Gesù e i suoi discepoli sono in missione, spinti da un'urgenza: la venuta del Regno, una realtà che comporta dei diritti e delle libertà. Gesù non si preoccupa troppo di sapere se sia stato compreso o meno: la domanda è retorica. Davide non ha forse fatto così? Ora la domanda implicita - «E io con i miei discepoli non posso fare al­ trettanto? - non viene neppure più posta. • . .

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2,27-28: Ka.Ì. EÀEYE'V a.Ù'toic;, Tò O!XJ3I3cx't0V OLlX 'tÒV av9pwnov ÈyÉVE'tO Ka.Ì. oùx o &vepwnoc; OLlX 'tÒ aa��awv· 28Wa'tE KUp Loc; Èanv o utòc; 'tOU &vepwnou Kll.Ì. 'tOU

aa.��chou.

Cinque controversie. Marco 2, 1-3,6

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2,27-28: «E diceva loro: "D sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il saba­ to; perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato"». vv. 27-28. K!Ù EÀEyEv atl'ro'ic; («e diceva loro»). Gesù riprende la parola, non più sotto forma di domanda ma enunciando un doppio principio che deve rispon­ dere alla domanda della halakha e chiudere la discussione. L'imperfetto si addice bene a questo tipo di enunciato. La prima parola pone l'uno di fronte all'altro l'uo­ mo e il sabato. Qui l'uomo non è l'individuo, bensì la condizione umana o Adamo come suo rappresentante, e si viene rinviati al racconto della creazione. Il oui signi­ fica > ripresenta l'uomo/Adamo del versetto preceden­ te, l'espressione «anche del sabato» riprende alla lettera la questione del sabato. Se il v. 27 rinviava alla Genesi, la creazione dell'uomo di fronte al settimo giorno, il v. 28, con questo «Figlio dell'uomo>> che è «signore>>, è rivolto verso l'altro capo della rivelazione, con un richiamo innegabile della visione di Dn 7, come del resto in Mc 2,10. Nel libro di Daniele questo >. I com­ mentatori pensano a una forma di paralisi, forse un caso di poliomielite?23 Girola­ mo, nel suo commentario su Matteo (12,13), cita al riguardo il vangelo che usavano i nazareniani e gli ebioniti. L'uomo in questione sarebbe stato un muratore e si sa­ rebbe rivolto a Gesù con queste parole: «Ero muratore e mi guadagnavo da man­ giare con le mie mani. Ti prego, Gesù, guariscimi, perché io non debba mendicare con vergogna il mio nutrimento>>. Lagrange nota che la sua mano «Si è inaridita»,

22 Luca precisa che si tratta di un altro sabato, per cui deve introdurre da capo gli oppositori: «Un altro sabato egli entrò nella sinagoga [ . ) gli scribi e i farisei lo spiavano» (6,6.7). 23 Taylor cita un parallelo nel Journal di John Banks (1637-1710), dove l'autore racconta, a nome di Micklem, come George Fox guarì con la preghiera una mano e un braccio paralizzati. .

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La narratio: Marco 1, 14-6, 13

per cui non era tale dalla nascita, e nota anche che questo aspetto si perde quando si legge Matteo e Luca (çflpttv). «E [essi] lo spiavano». «Essi», cioè gli altri, in realtà gli stessi, i farisei di 2,24. IlttptttT]pÉw, unico caso in Marco (cf. Le 6,7; 14,1; 20,20; At 9,24; Gal 4,10), può si­ gnificare semplicemente «osservare» un comandamento ma anche, come qui: «OS­ servare, tenere d'occhio, spiare»; 9Epa.1TEVE W, curare o guarire (cf. 1,34). «Per accu­ sarlo». Il grande fine è già tematizzato: Ka.tT}yopEI.v (cf. 15,3s, «accusare» davanti a Piiato). Attraverso questo verbo che esprime l'intenzione degli altri, il narratore evoca già in parte, per il suo destinatario, l'esito finale. L'opposizione si aspettava che egli compisse un'altra infrazione, per poterlo accusare. Lo si spia per vedere se sarà recidivo. Gioca ancora pienamente l'episodio precedente. Con questi due ver­ setti, il triangolo drammatico è tracciato: l'opposizione

Gesù

l'uomo dalla mano paralizzata Il luogo: la sinagoga; il tempo: il sabato. Con mezzi molto semplici, Marco sa come provocare una bella tensione drammatica (cf. 15,1-5). 3,3-4: Kttì. ÀÉyEL t� &vepw1T� t� t�v çTJpiÌv XE'iptt €xovn, "EyE LpE Elc; 1:ò �Éoov. 4Ka.Ì. ÀÉyEL a.UtOI.ç, "EçEOtLV T:OLç Ollj3pa.O�V àya.9Òv 1TOLfloa.L � KClK01TOLTJOClL, tjtux�v owoa.L � U1TOKT:ELVa.L; oi. OÈ: ÈOLW1TWV. 3, 3-4: «Egli dice all'uomo che aveva la mano paralizzata: "Alzati, n, in mezzo!". E dice loro: "È lecito in giorno di sabato fare del bene piuttosto che fare del male,

salvare una vita piuttosto che ucciderla?". Ma essi tacevano».

vv. 3-4. Gesù prende la parola tre volte e ogni volta è introdotto da un verbo al presente storico: KetÌ. ÀÉyE L . . . Ka.Ì. ÀÉyE L . . . ÀÉyE L. Ogni volta la parola è rivolta in primo piano, in modo diretto, a portata immediata. Il protagonista si rivolge alternativamente ai due poli che sono davanti a lui, in tensione: è evidente che, se prende posizione per l'uno, può aspettarsi di cadere sotto il verdetto dell'al­ tro. Egli si rivolge anzitutto all'uomo con la mano malata: "EyE LpE ELç tÒ �Éoov. Non lo guarisce ancora, ma lo invita ad alzarsi (cf. 2,9, il che rafforza il legame fra questa guarigione e quella di 2,1-12) e a collocarsi «in mezZO>> (E tc; �Éoov, 14,60 [il sommo sacerdote ! ] ; È v �Éo�, 6,47; 9,36; &vèt �Éoov, 7,31). Movimento vertica­ le e movimento orizzontale, verso il centro. Il gesto ha chiaramente qualcosa di provocatorio, tipico di Marco. Matteo, il flemmatico, rinuncerà a questo genere di messa in scena. Gesù dirige l'operazione, prende l'iniziativa, senza lasciarsi interrogare né dal malato né dagli oppositori. Una grande differenza rispetto ai quattro episodi pre­ cedenti, nei quali ogni volta egli reagiva o rispondeva alle domande. In un secondo tempo, si rivolge «a loro», al plurale. Dov'è la folla? Dove sono i discepoli? Il rac­ conto è stringato e presenta solo i tre poli del dramma.

Cinque controversie. Marco 2, 1-3,6

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"E�Eonv to'ì.c; o&J3j3aoLv . «È lecito in giorno di sabato ». La domanda tocca direttamente la loro preoccupazione e anche quella dell'episodio precedente. Una questione di scuola, in apparenza: che cosa si può fare e che cosa è vietato fare? Egli li interroga come un discepolo che si rivolge a un maestro o a un collegio di persone competenti. È innegabile una certa ironia nella formulazione. Poi vengono le gran­ di contrapposizioni: ayoc601TO Lf]OOCL � KOCK01TOLf]oocL, tjlux�v OWOOCL � a1TOK't'ELVOCL. La prima antitesi, «fare del bene» piuttosto che «fare del male», ricorre anche altrove nel Nuovo Testamento: oltre al parallelo di Le 9,6, cf. 1 Pt 3,17 e 3Gv 1 1 . Il verbo ayoc601TOLT)OOCL ricorre ancora più spesso e si incontra in Le 6,33.35 e 1Pt 2,15.20; 3,6 (è formato a partire dal suo contrario e, in greco classico, si preferisce l'espressione EÙ 1TOLE'iv). 1jmx�. «anima», «vita», prima occorrenza in Marco (cf. 8,35.36.37; 10,45; 12,30; 14,34). oq)(E Lv, «Salvare» (14 volte in Marco ) , salvare qualcuno da un male, da una malattia, o salvarsi davanti al giudice (13,13.20). In Mc (16,16] l'uso è già più tecnico: «Chi crede ed è battezzato sarà salvato». La questione posta non oppone un fare a un non fare, come ci si potrebbe aspettare, ma due azioni opposte: fare del bene l fare del male, riprese in un'antite­ si ancora più forte: salvare una vita l uccidere qualcuno. Si resta comunque un po' sorpresi già da questa seconda alternativa: non si tratta tanto di salvare una vita, o di ucciderla, ma di guarire un uomo con la mano inaridita. Ma nel contesto questo atto di guarire è considerato dall'opposizione talmente minaccioso per il regime esistente da meritare come risposta la morte. Spingendo l'alternativa fino a questo punto, Gesù smaschera la loro intenzione ultima ed esplicita lui stesso in anticipo ciò che essi tramano: «uccidere una vita». Chi pone la questione in questo modo abbandona il livello della discussione: che cosa è permesso fare in giorno di sabato? Pone una questione etica, nella quale fare del bene si contrappone a fare del male, salvare una vita a sopprimerla. Sul pia­ no etico non c'è alcuna possibilità di discutere, dato che la risposta è più che eviden­ te, sia in giorno di sabato sia in qualsiasi altro giorno della settimana.24 È qui che si può intravedere una punta più profonda: con la venuta della realtà messianica certe alternative sono eliminate, o anche: tutte le alternative semplicemente halachiche sono ripensate a un livello percepito come più basilare, quello dell'etica. In ogni momento ogni atto è santo o empio, ogni decisione diventa una questione di vita o di morte. Davanti all'urgenza o all'imminenza del Regno, ogni·giorno è sabato e ogni sabato è aperto sul grande Ora della vicinanza di Dio: il regno di Dio è come un unico Giorno. Ecco il giorno della salvezza. Ecco l'anno di grazia, anno giubilare che riscatta tutti gli anni precedenti. La realtà messianica con la sua urgenza divina sposta il livello delle questioni. Oi. liÈ Èou.l1rwv ( «ma essi tacevano» ) . Essi si chiudono in un prolungato silen­ zio (all'imperfetto) . Per il verbo OLW1Tiiv, «tacere», cf. 4,39; 9,34; 10,48; 14,61. Al ver­ setto seguente questo silenzio viene interpretato dal narratore, a partire dal punto di vista del protagonista, come «durezza di cuore>>. Parlare sarebbe stato una forma di consenso e di abbandono della presa di posizione iniziale: «lo spiavano>>. Parlare avrebbe potuto comportare una domanda sul significato di questo spostamento del ..

. . .

24 Che si potesse agire per salvare una vita anche in giorno di sabato era un insegnamento rico­ nosciuto negli ambienti dei farisei. Ricordiamo la Mishna: «Se c'è il dubbio che una vita sia in pericolo. questo ha la priorità sul sabato» (m Yoma VIII, 6; cf. anche Mekhilta, Shabbata l, ed. LAUTERBACH, III. 198-205).

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rituale verso l'etico e l'accettazione di muoversi in questa direzione. Tacere signifi­ ca rifiutare di entrare in questa prospettiva. Non è non dire nulla: qui tacere è tene­ re ancora un discorso, che comparirà altrove, appena saranno usciti dalla sinagoga (3,6) . Lì essi parlano, e anzi complottano! 3,5-6: Ka.L nEp�PlEIJni!J.Evoç a.ùroùc; IJ.Et' Òpyfìç, ouUunoUIJ.EVoç hl rfl nwpwoEL rfJc; Ka.po(a.c; a.ùrwv ÀÉyE L r>, caso unico nei vangeli. Verbo concreto: Gesù si serve ed essi si preoc­ cupano che la barca sia ben attraccata né troppo lontano né troppo vicino alla riva. Tale dettaglio, annotato in questo modo, non può essere stato inventato: Marco trasmette ciò che ha udito e il ricordo così preciso non si cancellerà più dalle nostre memorie. «A causa della folla>> (ùLIÌ ròv oxlov, cf. 2,4!), e il narratore spiega: «perché non lo schiaccino>>. La folla preme, opprime, rischia di schiacciare. Non è una cosa molto positiva. D'altra parte, il versetto seguente spiega (yap) perché: le persone cercano di toccarlo per essere guarite da lui (cf. 6,56). Questo movimento di una grande folla che preme ritorna anche in 5,24; cf. anche 2,1-4 e 3,20.2 Indirettamente la folla rivela l'enorme successo di Gesù, ma né lui né chiunque altro nel vangelo può fidarsi di essa e del suo entusiasmo. Il ruolo della folla nel racconto della passio­ ne (15,6s; cf. già il commento di 11,10) ne sarà un'eloquente illustrazione. Nel Van­ gelo di Giovanni troviamo la stessa presa di distanza da ciò che la gente pensa o an­ che crede. Al riguardo il linguaggio in Gv 2,23-25 è particolarmente duro: la gente crede in lui, ma «lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti, e non ave­ va bisogno di essere informato su alcuno; infatti conosceva ciò che c'è nell'uomo>>.

2 Sulla folla e sul suo ruolo ambivalente cf. sopra, p. 151. 194

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

È certo -che Gesù non si è lasciato prendere dall'entusiasmo popolare. «Una delle grandezze di Gesù nella sua vita pubblica è che non ha seguito i suoi succes­ si» (Marcel Légaut, in occasione di un insegnamento orale). Sembra storicamente fondata la critica presa di distanza di Gesù dalla folla, testimoniata dai vangeli, in particolare da quelli di Marco e di Giovanni. Essa può risalire allo stesso Gesù, che ha condiviso con i suoi discepoli la sua valutazione quando si è ritirato con alcuni di loro nella montagna del nord dopo la moltiplicazione dei pani ((cf. Gv 6,14-15; Mc 7,24-25). I discepoli se ne sono ricordati quando sono stati severamente redarguiti da Gesù per aver condiviso le stesse aspettative messianiche della folla. 3,10-12: TTOÀÀ.oÙc; yètp È!k:paTTEUOEV, WO'tE ÈTTL1TL7T1HV a:ùtQ 'Lva a:ÙtOU aljlwvta:L OOOL ELXOV !l(ian ya:c;. 11Ka:Ì. tèt TTVE�Iltll tèt OO>, dicono Matteo e Luca. Il «molti>> non implica che ad alcuni Gesù avrebbe ri­ fiutato la guarigione. Perciò Matteo e Luca non esagerano, ma dicono la stessa cosa in modo più completo. La guarigione avviene attraverso il contatto: questo verrà descritto in modo più incisivo e paradossale al tempo stesso nel caso dell'emorrois­ sa, in 5,27s. Marco ritornerà nuovamente su queste guarigioni delle folle in 6,54-56. Si può notare una gradualità: 1 ,32-34 (limitato alla gente di Cafarnao); 3,10-12 (un affresco generale e schematico); 6,54-56 (fornisce maggiori dettagli). ÈTTLTTL TTtE LV («cadere sopra, gettarsi sopra>>), caso unico in Marco. Nel verset­ to successivo si avrà il verbo TTpOOTTL TTtELV («cadere davanti», , cf. 5,33; 7,25). In entrambi i casi Marco visualizza l'emanazione dalla persona di Gesù di un'autorità che attira e sottomette chi si avvicina a lui. Ma:o't(ç significa (62). (cf. 1 ,23), la cui vera controparte è Io Spirito Santo.3 . Tutti i verbi sono all'imperfetto. Il quadro è un abbozzo generale: Gesù esercita la stessa auto­ rità sia sulla malattia sia sugli spiriti impuri. Gli spiriti dicono: «Tu sei il Figlio di

3

Cf. il riquadro «Marco e i demoni,., ad 1,27, pp. 126ss.

Secondo dittico. Gesù e l'istituzione dei Dodici. Marco 3, 7-12. 13- 19

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Dio!». Sorprendente confessione, più esplicita e più essenziale che in 1,34 o anche in 1 ,24 (cf. 5,7). Essi conoscono e riconoscono l'identità di Gesù più di chiunque al­ tro. Ma Gesù impone loro il silenzio: TioUà. ETIÉnj..La aù·ro"iç (qui 1TOÀ.À.a è avverbio, cf. 1 ,45) (va 1-1� aù-ròv lj>avEpÒv 1TOL�awmv. Letteralmente: «che essi non lo ren­ dano manifesto». lj>avE pov , cf. 4,22 e 6,14; per l'avverbio lj>aVEpwç, 1,45; per il verbo lj>avt:pow, cf. 4,22; [16,12.14]. Alcuni vedono in avEpÒv 1TOLE"iv un latinismo: mani­ festari? Matteo non ha esitato a riprenderlo tale e quale (cf. Mt 12,16). L'autorità di Gesù sugli spiriti consiste nell'imporre loro il silenzio. La proibi­ zione di parlare ritorna più volte in Marco: cf. già 1 ,34 e 1,43-45; e anche 5,43; 7,36; 8,26.30; 9,9. Invece in 5,19-20 l'indemoniato guarito viene mandato nella Decapoli a diffondere la notizia di ciò che Gesù gli ha fatto! In 3,22 vedremo che questi esor­ cismi disturbano: non sono opera di un indemoniato posseduto da un demonio più forte? La testimonianza degli spiriti non viene accolta in modo chiaro e univoco, e giustamente. Ma nella struttura drammatica del vangelo queste confessioni degli indemoniati sono al servizio della tensione fra ciò che sanno i destinatari, grazie al prologo, e ciò che sanno le persone nel racconto. Indirettamente, esse confermano la scena del battesimo e del soggiorno di Gesù nel deserto (1 ,9-13): là, con la forza dello Spirito Santo, egli ha vinto Satana. D'altra parte, esse alimentano la suspense. Il destinatario si interroga: quando le persone nel racconto comprenderanno che Gesù è veramente il Figlio di Dio (1,1.11; 1 5,39)? Matteo cita Is 42,1-4 per spiegare questa strana strategia di Gesù di non lasciar parlare i demoni: « . . . egli annuncerà la vera fede alle nazioni. Non litigherà né gri­ derà e nessuno udrà la sua voce sulle grandi strade. La canna incrinata, non la spez­ zerà e lo stoppino fumante non lo spegnerà, finché non abbia condotto la vera fede al trionfo: nel suo Nome le nazioni metteranno la loro speranza» (M t 12,18b-21 ). La citazione spiega due cose: da una parte, il silenzio che è di rigore, il fatto di non alza­ re la voce, ma dall'altra, anche il fatto che egli annuncia la vera fede e che quest'ulti­ ma trionferà irresistibilmente! In altri termini: la realtà messianica non può restare nascosta, ma, altresì: la realtà messianica non può essere divulgata con tamburi e trombe. L'autentico messianismo è basato su questo paradosso. La faccia nascosta è essenziale per Gesù, come quando parla di >, a volte anche «citare in giudizio>>, cf. 3,23; 6,7; 7,14; 8,1 .34; 10,42; 12,43; 15,44). «Quelli che voleva>> (9ÉÀELv, cf. già 1 ,40.41; verbo molto frequente: 25 volte). «Ed essi andarono da lui>> (stesso verbo che in 1 ,20). Liberamente Gesù li sceglie, libe­ ramente vanno da lui, subito. In questa scelta e nella semplicità e immediatezza della risposta (cf. 1 ,17s; 2,13) si avverte nuovamente la singolare autorità di colui che prende l'iniziativa. Il fatto di chiamare chi vuole evoca il modo di fare di Dio nell'Antico Testamento, sia che si tratti di re sia che si tratti di profeti (Davide: «Dio non guarda alle apparenze>>, 1Sam 16,1-13; Amos: «lo ero pastore [ . . . ] egli mi ha preso da dietro al gregge>>, 7,14-15). «E egli (li) fece Dodici>> (Ka:Ì. ÈnOLTJOEV owÙEKa:). Questo verbo 1TOLELV all'atti­ vo: «fare, instaurare, installare, istituire, costituire>>, ricorda anzitutto 1 ,17: «Venite dietro a me e io farò (not�ow) sì che diventiate pescatori di uomini>>. Questo verbo ricorda anche il modo di agire di Dio con i suoi profeti. Cosl si può segnalare, con Taylor, il caso dei sacerdoti (3Re 12,31 ; 2Cr 2,18) e di Mosè e Aronne nel discorso di Samuele: «Il Signore è testimone che ha fatto Mosè e Aronne . >> (1Re 1 2,6 LXX). Altrove nel Nuovo Testamento: At 2,36; Eb 3,2. Ma il parallelo più forte deve es. .

Secondo dittico. Gesù e l'istituzione dei Dodici. Marco 3, 7-12. 13- 19

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sere certamente cercato, con S. Légasse, in Es 18,25, dove Mosè anzitutto «sceglie» uomini capaci e poi «ne fa» dei capi del popolo: capi di migliaia, capi di centinaia: capi di cinquantine e capi di decine (Ka.Ì. E1TÉÀE.�Ev Mwooflç &vopa.c; ouva.toùc; a1TÒ 1Tavtòc; lopaT)A Ka.Ì. EnOLT)OEV a.ùtoùc; h' aùtwv XLÀ.Lapxouc; KtA.). Il nuovo Mosè agisce allo stesso modo, in un progetto che, a causa del numero «dodici», riguarda tutto il popolo. I Dodici ritorneranno ancora nove volte in Marco (4,10; 6,7; 9,35; 10,32 [cf. «gli altri dieci>> in 1 0,4 1 ); 1 1 ,11; 14,10.17.20.43). Matteo parla dei «dodici apostoli•• in 10,2 e dei «dodici discepoli>> in 10,1 ; 1 1,1; 20,17; 26,20 (cf. 10,5; 26,14.47). In Luca si trovano sette attestazioni, quattro in Giovanni, una negli Atti, una in Paolo (l Cor 15,5) e una nell'Apocalisse (Ap 21 , 1 4) La loro presenza è preponderante in Marco. L'interesse nei loro riguardi sembra diminuire con il passare del tempo. '(va. waLV f.LEt' aùtou, «perché siano con lui». Ecco un primo scopo per farne i Dodici: «per essere con lui». Nel contesto dei racconti di vocazione, si afferma più spesso il contrario: il chiamato apprende che ormai Dio sarà con lui, per cui non deve avere alcun timore. «>. Il verbo principale (EnOLTJOEv) ' esprime l'atto divino; l''(va woLV f.LE' aùtou suppone la libertà della loro scelta. Essi sono destinati alla libertà. Gesù con loro, loro con Gesù: nell'insieme del Vangelo di Marco questo «es­ sere con» viene particolarmente sottolineato, nei due sensi. Il discepolo è caratte­ rizzato dal fatto di «essere con Gesù>>, come nel caso di Pietro: «Anche tu eri con il Nazareno Gesù» (Kaì. où f.LEtà tou Na.(apT)vou �crea. tou 'IT)oou, cf. 14,67). Inver­ samente, al termine della trasfigurazione essi non videro più che Gesù solo con loro: OÙKÉtL ouoÉva ELÒOV àUà tÒV 'IT)OOUV f.LOVOV f.LE8' ÉaU'tWV (9,8). I riferimenti sono numerosissimi negli ultimi momenti in cui essi sono con Gesù, nella prima metà del racconto della passione (14,7-67).4 Dato il rilievo che presenta questo e questa vicinanza lo rende responsabile: potrebbe diventare, come uno di loro, uno che tradisce e consegna il suo maestro. Quest'ultimo colpo di penna di Marco, al termine di questa lista quasi solenne, pro­ voca e comunica un brivido. Quindi non basta essere chiamato . . . Veniamo rinviati a 3,6, il punto finale della sezione precedente, dove si decideva di far morire Gesù, e quella fine rinviava all'apertura in 1,14, dove risuona lo stesso verbo usato qui: «dopo che Giovanni fu consegnato» (rrapaoo8fJVaL, ;rapÉòwKE:v). La ;rapa&xnç o l'atto di essere consegnato è al centro della storia tragica di questo figlio d'uomo. Così pensa Marco, e lo stesso protagonista presenterà e spiegherà questa prospetti­ va ai suoi più stretti collaboratori: «> e «per andare a proclamare>> il vangelo della vittoria sulle potenze del male - è un momento fonda­ tore eccezionale. Mediante l'inquadramento e il posto che gli riserva al centro della narratio, dopo aver delineato l'immenso campo di irraggiamento di Gesù durante la sua vita terrena (3,8-9), Marco conferisce un particolare risalto a questo gesto dell'i­ stituzione dei Dodici. Il lettore/destinatario scopre i fondamenti della sua identità:

204

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

se si impegna a seguire questo Figlio d'uomo, sarà per vivere una stessa vicinanza, da una parte, e per trasmettere uno stesso vangelo a tutto il mondo, dall'altra. I paradossi non mancano nell'evocazione di questo momento così decisivo. Gesù sceglie liberamente «quelli che vuole» ed essi vanno da lui senza alcuna resi­ stenza. Grande e sorprendente autorità, grande e sorprendente libertà di acconsen­ tire. Si è destinati sia alla vicinanza intima, in disparte da tutti, sia all'invio sovrae­ sposto a tutti senza distinzione. Due facce di un'unica medaglia: niente invio senza ritiro e senza esperienza dell'intimità, ma anche niente ritiro se non per rendere la missione ancora più libera e forte. Poi, nell 'ultimo tratto, il tragico che permane. Lo stesso Gesù, nella sua sovrana autorità, può essere contrastato, tradito, consegnato da uno dei suoi. Totale è la vulnerabilità che rimane anche in colui nel quale si ri­ conosce un ascendente così forte. Che cosa diventerò al seguito di un tale maestro: roccia? Figlio del tuono? Gemello, dono di Dio o traditore che lo consegna? Giovanni Cassiano (V sec.) dedica un'intera conferenza alle tre rinunce fon­ damentali per ogni vocazione. Nella sua esposizione egli presenta una vera tipolo­ gia delle vocazioni: si può essere chiamati da Dio stesso o da un intermediario uma­ no, persino per caso e contro ogni aspettativa. La cosa importante non è l'occasione o la circostanza della chiamata, ma la fine. Ed egli cita Giuda, che è stato scelto dal Signore in persona per far parte dei Dodici: esiste forse una forma più alta di chia­ mata? Quando si ascolta questa lista dei Dodici, si .è ogni volta sorpresi di sapere tanto di alcuni e così poco o praticamente nulla di altri. Nel vangelo vi sono belle storie senza nome proprio, ma vi sono anche nomi propri senza la minima storia; vi sono, infine, dei nomi con delle belle storie e qualche nome con delle storie stupe­ facenti o spaventose . . . L a vocazione più sublime non h a alcuna utilità per il codardo e la meno nobile non è un ostacolo per il coraggioso. [ . . . ) Che cosa è servito a Giuda aver abbracciato volontariamente la dignità sublime dell'a­ postolato - alla quale è stato chiamato con una vocazione uguale a quella di Pietro e degli altri apostoli - dal momento che, conferendo a inizi così illustri una fine misera­ bile, si abbandona alla passione del denaro e giunge fino a tradire il suo Maestro con il più crudele dei parricidi? Considerate, d'altra parte, il beato Paolo. Colpito da improv­ visa cecità, viene attratto come suo malgrado nella via della salvezza. Dove è lo svan­ taggio, dal momento che da allora segue il Signore con tale fervore e, rispondendo alla prima costrizione con il dono libero e pieno di sé, corona con una fine incomparabile una vita illustrata da così grandi virtù? Quindi tutto dipende dalla fine.10

È meglio guardare alla fine di una cosa piuttosto che al suo inizio, diceva il saggio Qoelet. Marco, nel suo realismo, ci pone fin dall'inizio del racconto davanti a tutti gli esiti, compresi quelli che spaventano.

10 GIOVANNI CASSIANO, Conferenze III, V: SC 42,144� Secondo dittico. Gesù e l'isfftuzione dei Dodici. Marco 3, 7-12. 13- 19

205

LA SECONDA GRAN DE SEZIONE DELLA NARRATIO: MARCO 3,20-5 ,43

In 3,20 comincia una nuova sezione. Ora Marco tende un arco che inglobe­ rà esattamente cento versetti e dodici unità narrative, quando si distinguono nel grande discorso parabolico che occupa il centro della composizione cinque parabo­ le. Altrimenti si arriva a otto unità (3,20-21.22-30.31-35; 4,1 -34; 4,35-41; 5,1-20.2134.35-43). L'inquadramento della sezione è assicurato dal doppio dittico su Gesù e sui Dodici (cf. 3,7-19 e 6,1-13). Notiamo che all'inizio della sezione si incontrano i familiari di Gesù (che si recano da lui, da Nazaret a Cafarnao) e saranno poi spon­ taneamente ricordati quando egli ritornerà da loro a Nazaret, all'inizio del capitolo 6 (v. 3). Tutto comincia con un tale affollamento, tanto che non si riesce «neppure a mangiare>> (3,20: f.L� OUVaa9aL lllJ't:OÙç f.LT]O(: ap"COV ljlayE'iV), e tutto termina COn un ordine di Gesù di «darle da mangiare» (5,43: EL1TEV ùo9fìvaL aÙtiJ ljlayE'iv). Una bella inclusione contrastata, tipica di Marco e senza parallelo negli altri due sinottici (cf. Mt 9,26 e Le 8,56). L'insieme è disposto in modo concentrico attorno al grande discorso parabo­ lico. L'incastro è piuttosto convenzionale e tuttavia originale. Marco si serve di un modello di composizione che userà non meno di sette volte in tutto il suo vangelo. Il modello ricorre in ciascuna delle tre grandi parti di Marco. Qui lo incontriamo per la prima volta. Esso opererà doppiamente, perché ciò che struttura tutta la se­ zione struttura anche il discorso parabolico, collocato al centro della sezione. Come le matriosche si inseriscono l'una nell'altra, cosi il capitolo delle cinque parabole si inserisce nella grande unità di Mc 3,20-5,43, riproducendo la stessa forma compo­ sitiva di ciò che lo ingloba. Ritroveremo un analogo incastro di due unità nella se­ conda metà del racconto della passione. Vale la pena osservare un momento con un colpo d'occhio queste sette unità in Marco.' Un modello particolare di composizione concentrica

La composizione si sviluppa iniziando con un'inclusione che inquadra una pri­ ma unità, dando così luogo alla figura ABA'. Segue il centro e il culmine di tutto lo sviluppo, indicato con la lettera C. Infine, un quarto elemento (D) deve costituire il pendant dei primi tre (ABA'). Questo dà luogo per l'insieme alla figura seguente:

1 Cf. Composition, 174-262 e, più recentemente, >, espressione biblica ben nota a partire da Gen 3,19 (cpaylJ -ròv ap-rov oou). La negazione in greco è doppia (1-1�· · · 1-LTJOÉ tratto stilistico amato da Marco). L'entusiasmo della folla continua e il narratore sembra suggerire che la cosa sta diventando davvero fastidiosa. Si è già incontrata, e si incontrerà ancora, una scena del genere (cf. la stessa situazione all'inizio della sezione dei pani in 6,31: K!Ù o'ÙOÈ cpayE'iv EÙKaLpouv; si noti anche qui la duplicazione: Ka( e (oò-]OÉ). Ecco un primo quadro che offre ben poco di nuovo, ma situa bene il protagonista nella sua attività e nel suo essere abituali. Ed ecco allora il secondo quadro. Fin dall'inizio del versetto successivo ci si trova altrove, non più accanto a Gesù ma presso coloro che vengono presentati qui come ot nap' aù-rou, «quelli dalla parte di lui». Che cosa intende dire Marco con queste parole che usa solo qui? Secondo i dizionari, si possono indicare tre signi­ ficati: si tratta dei «suoi vicini»? O di rappresentanti, «di inviati da lui»? O ancora «di parenti», membri della sua famiglia? Nel nostro caso sembra appropriata solo la terza soluzione. Il seguito (cf. 3,31) non lascerà più alcun dubbio: sono giunti sua madre e i suoi fratelli, e lo reclamano. Kat aKOlJoavnç, «avendo sentito». Con questo verbo Marco ci costringe a uscire un momento dal primo quadro in cui si trova Gesù e a renderei conto dell'eco che la sua predicazione e il suo comporta�ento hanno potuto avere su altri, all'e­ sterno. In 6,14 otterrà lo stesso effetto con questo stesso verbo: si abbandonerà la scena per spostarsi nell'ambiente vicino a Erode. Sono momenti cerniera nella sua composizione. Questo conferma l'idea che in 3,20 comincia una nuova unità, esat­ tamente come in 6,14. È�fJÀ.90V KpU'tTJOUL UUtOV, «UScivano per mettere la mano SU di lui». Il verbo KpatfJoaL («arrestare, impadronirsi di») è molto forte: lo ritroveremo in 6,17 (a pro­ posito di Giovanni Battista); 12,12; 14,1.44.46.49.51, ogni volta per esprimere un arresto. I due verbi insieme ci conducono al clima incontrato alla fine di 3,6, dove i farisei «escono» per tenere consiglio «per farlo morire». Evidentemente ciò che i familiari hanno sentito non li rallegra affatto. �À.Eyov yÒ:p O'tL È�ÉO'tT). Qui il lettore ha due possibilità. Il plurale piò esse­ re tradotto con «essi dicevano infatti» ma anche con «si diceva infatti». In 6,14-16 compare una struttura piuttosto analoga ed esistono entrambe le possibilità: Kat �KouoEv . . . , cpavEpÒv yàp ÈyÉvno -rò OVOj.Lil aù-rou, Kat �À.Eyov «egli sentì . . . , infatti il suo nome era diventato famoso, e si diceva . . . ». aKouoaç OÈ ò 'Hp�OT)ç �À.EyEv, «e avendo sentito . . . Erode diceva». Nel primo caso la formulazione impersonale, nel secondo si tratta di Erode che esprime la propria opinione. Quale scelta fare qui, in 3,21 ? I due verbi sono all'imperfetto: «essi escono per arrestarlo» e «essi dicevano» o «si diceva». Sono inoltre legati da un yap esplicativo che giustifica la loro iniziativa decisa e senza ap­ pello. Sul piano della lettura sembra più logico e più naturale conservare lo stesso soggetto sia per il comportamento («uscire per mettere la mano su») sia per ciò che si dice e deve giustificare questo comportamento. Sarebbero quindi i membri della • • •

La seconda grande sezione della narratio: Marco 3,2()-5,43

21 1

famiglia che qui si esprimono, concludendo da tutte le voci che hanno sentito: «È fuori di sé». La loro opinione e quella degli scribi, al versetto successivo, introdotte da un analogo EAE YOV, si seguono e rafforzano a vicenda. Indipendentemente dalla possibilità scelta, agli occhi di Marco è piuttosto chiaro che la famiglia ritiene che occorra fermarlo perché è diventato pazzo. �É01:T]. Abbiamo già incontrato il verbo (cf. 2,12). Si tratta di un eccesso, di una perdita della ragione: «è fuori di sé», non si possiede più, è pazzo. Né Matteo né Luca hanno conservato tutto questo paragrafo, specialmente quest'ultimo tratto. Il fatto che Marco lo riferisca significa che lo ha sentito: siamo davanti a qualcosa che la comunità cristiana non ha potuto inventare di sana pianta. L'immagine impressiona: Gesù consi­ derato dalla sua famiglia come uno «fuori di sé», uno che bisogna calmare e ricondurre alla ragione, a Nazaret. Essi «escono>> e vanno a Cafamao per mettere la mano su di lui. Anche nel caso di Giovanni Battista si è affermato che fosse pazzo o «inde­ moniato>> (cf. Le 7,33). Anche nel quarto vangelo si sente dire a proposito di Gesù: « È posseduto da un demonio; delira. Perché stare ad ascoltarlo?>> (�o: q.Lovwv EXE L Ko:Ì. llO:LVE:'tO:L, Gv 10,20; cf. 7,20; 8,48.52). Negli Atti il governatore romano Fe­ sta, ascoltando Paolo parlare e difendersi, esclamerà: «Sei pazzo, Paolo ! >> (26,24: Mo:(vu, IlttùÀE). E lo stesso Paolo dichiarerà ai suoi corinzi: «Se infatti siamo stati fuori di noi, è per Dio; se siamo ragionevoli, è per voi>> (E'C'tE yocp l:l;fa'tTJilEV, 9E�· EL 'tE awcj>povoflf.J.EV, Ùf.L�V, 2Cor 5,13). L'uomo di Dio è considerato pazzo, a volte suo malgrado, ma spesso anche a ra­ gion veduta, lucidamente. Questo tipo di critica, nella quale si dichiara pazzo il profeta, esisteva già al tempo di Osea: «Ecco venire i giorni della visita! [ . . . ] Israele esclama: "Il profeta è pazzo, l'ispirato delira!" (Os 9,7). «Abbiamo considerato una pazzia (f.L> (Zc 13,2-5 LXX).

L'enigma si ripete, di generazione in generazione. Chi è pazzo? Colui che giu dica l'altro in questo modo è già giudicato. L'umorismo ebraico si spingerà fino a immaginare una storia nella quale tutti sono pazzi, ma non lo sanno. Allora due illuminati decidono, poco prima che la follia diventi .generale, di imprimer­ si reciprocamente un segno sulla fronte, dicendo: .4 La società russa si spingerà fino a fare del pazzo un'istituzione: il

• Così si sviluppa una delle parabole indimenticabili di rabbi Nachman di Bratislava. Attigendo stesso umorismo, il cineasta ebreo Roumain Radu Mihaileanu, in Train de vie (1998), lascia il

a questo

212

La narratio: Marco 1, 14-45, 13

pazzo dello zar che ha il diritto di dire qualsiasi cosa. Nel suo romanzo L 'Idiota, Dostoevskij riprende questa vecchia tradizione dei «pazzi di Dio» e ne presenta nell'Idiota una figura secolarizzata. Lo chiama «principe Mishkin» (il nome evo­ ca già di per sé il povero [cf. il termine meschino, che deriva dall'arabo e significa «povero», persona considerata una nullità] e l'idiota, in russo yourodivyé).5 Ora questo principe è nientemeno che una vera icona di Cristo, che percorre il mondo contemporaneo. Per Marco, chi cammina al seguito di Gesù si espone a essere maltrattato e perseguitato dalla famiglia, dai teologi e dalle persone dell'ambiente in cui vive. Ma l'uomo spirituale non può essere veramente fermato: chi giudica lo spirituale è giu­ dicato, mentre l'uomo spirituale sfugge a questi giudizi. Egli rinvia i giudici ai loro giudizi. Propriamente parlando, non si può scomunicarlo: chi crede di poterlo fare e lo scomunica, in realtà si autoesclude da ciò che l'altro gli dice e gli dona, cioè lo Spirito e il perdono.

Tuttavia questi due versetti, nella loro semplicità quasi banale, preparano in modo molto chiaro le grandi domande che costituiranno l'oggetto centrale dell'ar­ gomentazione: chi è dunque costui? La stessa forma del v. 21 anticipa la forma che si ritroverà alla cerniera e in testa alla parte centrale del vangelo, cioè 6,14-16. Allo stesso tempo, questi due versetti preparano il seguito immediato: la riflessione dei teologi venuti da Gerusalemme (v. 22) e il confronto diretto fra Gesù e i membri della sua famiglia (vv. 31-35) .

._,

l fratelli e le sorelle di Gesù in

Marco

Che pensare in definitiva dei , significa che essi lo sono veramente, nel senso originario del termine. Se non lo fossero veramente e pienamente, Gesù non avrebbe potuto mettere in discussione questo legame così come fa. Questo resta probabilmente l'argomento più forte per riconoscere questi fratelli come veri fratelli di Gesù. Nell'antichità cristiana si sono fatte tre ipotesi: la prima, rappresentata da un certo Bivi­ dio, afferma che i suoi fratelli sono suoi veri fratelli, senz'altro. La seconda racconta che Giuseppe aveva figli da un precedente matrimonio e che i fratelli di Gesù sono in real­ tà suoi fratellastri. L'apocrifo detto Protoevangelo di s. Giacomo ( Vita di Maria, nella versione latina), redatto verso la fine del II secolo, ha costruito questa ipotesi, adottata anche dal vescovo Epifanio (IV sec.) e da molti altri sulla sua scia. Una terza strada è percorsa da Girolamo, che sviluppa una nuova teoria e parte lancia in resta contro la posizione di Elvidio. Egli afferma che in ebraico il termine «fratello>> si applica anche ai «cugini>>, ed è così c�e bisogna considerare i «fratelli di Gesù»: sono i figli di Maria, la

pazzo del villaggio decidere per una comunità ebraica, di fronte alla minaccia nazista, di andare volon­ tariamente in prigionia prendendo il treno . . . 5 Cf. l. GoKA'iNOFF, Les fols en Christ, DDB, Paris 1983, che n e ricostruisce tutta la preistoria, a partire dai Padri del deserto, e termina con la presentazione di Serafino di Sarov e del ruolo dei youro­ divyé nella storia russa, fino ai nostri giorni. La seconda grande sezione della narratio: Marco 3,20-5, 43

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moglie di Clopa, la sorella della Vergine. Cosi sotto la croce c'erano solo tre donne: Ma­ ria di Clopa che è la sorella della madre di Gesù, e che è la madre di «Giacomo figlio di Alfeo>>, è chiamata anche «la madre di Giacomo il Minore e di Ioses» (Mc 15,40.47; 16,1; Gv 19,25). «Alfeo>> e «Clopa» sono quindi la stessa persona (cf. supra, ad 3,18). Altri hanno confutato ogni punto di questa costruzione di Girolamo: perché ridurre a tre le quattro donne nominate sotto la croce in Gv 19? Il greco, oltre al termine ). E poi questa identificazione fra Clopa e Alfeo o Giacomo di Alfeo e Giacomo il Minore appare artificiosa: se un'antica tradizione, ancora vicina ai fatti, li distingueva per nome, non si può di colpo tre-quattro secoli dopo identificare una Maria con l'altra e un Giacomo con l'altro. La questione soggiacente è, ovviamente, che nel IV secolo la posta in gioco era la difesa della verginità di Maria. Nel I secolo, ad esempio a livello di Marco, la questione non si poneva. Oggi il problema e le soluzioni proposte non sono veramente cambiati dal IV secolo. Per coloro che riescono a trasferirsi nella mentalità del l secolo, non esiste un vero problema: i «fratelli e le sorelle» sono veri fratelli e sorelle di Gesù. Oggi fa parte della maturità della fede coniugare vari radicamenti cultuali ed essere al tempo stesso eredi di una lunga storia con fasi culturali a volte totalmente estranee le une alle altre. Non sempre è possibile armonizzare tutto a ogni costo. Così la capacità di reggere umil­ mente vari modelli inconciliabili in una stessa visione del mondo è più un segno di salute che di debolezza.

In 3,21 i parenti lasciano N azaret («essi escono>>) e, in attesa che arrivino, Marco racconta la discussione fra Gesù e gli scribi venuti dalla capitale. Questo determina un episodio raccontato in due tempi (3,21 e 3,31-35, A e A') e queste due unità distinte inquadrano un passo che si rivelerà il vero centro delle tre unità ABA'.

B. 3,22-30. Lo scontro con gli scribi venuti da Gerusalemme

È con grande intensità che Marco riferisce questa discussione teologica, terri­ bile ed essenziale al tempo stesso, fra Gesù e gli scribi. Quasi ogni enunciato viene ripetuto due volte. Questo martellamento ha un'innegabile forza poetica. Gli scribi vengono da Gerusalemme. Finora il nome di Gerusalemme è stato fatto due vol­ te: nel prologo, in occasione della predicazione del Battista (1,5 ) , e nell'evocazione della folla proveniente anche dalla Giudea e da Gerusalemme (3,8). Vengono dal centro, ed è lì che si deciderà la sorte di Gesù: lo scontro ambientato qui in Galilea anticipa quello che avverrà nella capitale. Si intuisce che sarà grave. La discussione riguarda gli esorcismi di Gesù. In un certo modo si vedono convergere qui le due parti della prima sezione: una prima parte esponeva l'attività taumaturgica ed esorcistica di Gesù, e una seconda lo metteva in scena nelle cinque controversie. Qui si ha la combinazione delle due: una controversia sulla sua attivi­ tà di esorcista. La progressione è piuttosto evidente: A + B -+ C. La discussione si svolge sotto forma di confutazione di un'opinione espressa dagli scribi e il narratore precisa che egli parla «in parabole». Questo ricorda il pri­ mo breve discorso parabolico tenuto nel capitolo precedente, al centro delle cin214

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

que controversie (2,19-22). Questo prepara anche il discorso parabolico principale al capitolo seguente. Si può notare la successione e, considerando la lunghezza, la progressione: 2,19-22 (tre piccole parabole unificate); 3,22-29 (tre parabole e tre riflessioni conclusive); 4,1-34 (cinque parabole, con commenti). Questo cammino progressivo corrisponde a tutta la disposizione della narratio, come abbiamo mo­ strato sopra. Più si avanza, più discorsi e racconti si ampliano.6

3,22: KttÌ. ot yptt�a"CELç ot ànò 'IEpOOOÀ.UIJ.U>V Ktt"tapcXV"CEç EÀ.Eyov on BEEÀ.(E�OÙÀ. E)(H KaÌ. on ÉV t4) ap)(OV"CL "CWV OIXLIJ.OVLWV ÉKpcXÀ.À.H "Cà OaLIJ.OVLa. 3,22: «E gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: "Egli è posseduto da Beelzebul", e ancora: "È per mezzo del capo dei demoni che scaccia i demoni"», v. 22. L'opinione degli scribi di Gerusalemme. Abbiamo appena ascoltato l'o­ pinione dei membri della famiglia, introdotta da un V Eyov yap. Qui ascoltiamo l'o­ pinione degli scribi, introdotta anch'essa da EÀ.fyov. Altre opinioni, introdotte dalla stessa formula, risuoneranno in 6,14-15 (cf. 8,28, À.ÉyoV"tEç). Gli scribi, che non avevamo più incontrato come tali da 2,16, anche in quel caso a Cafamao, questa volta «scendono da Gerusalemme». Questo li qualifica come inviati da un'autorità superiore. Non sono forse i delegati dell'autorità supre­ ma che risiede a Gerusalemme? Essi vanno in giro e diffondono la loro valutazione dei fatti: una prima volta dicendo: on BEEÀ.(E�OÙÀ. E)(H, una seconda volta preci­ sando tutta la portata della loro opinione: Kaì. on Év •4> èip)(OV"CL "CWV OIXLIJ.OVLWV ..

ÉKpcXUu "Cà OaLIJ.OVLa.

Il primo enunciato dice letteralmente: «egli ha Beelzebul», il che significa: è posseduto da questo Beelzebul. Al v. 30 si dirà lo stesso: «egli ha uno spirito impu­ ro», è posseduto da un demonio. Il nome «Beelzebul» non è attestato da nessuna parte nella tradizione ebraica. Lo conosciamo solo da questo passo dei vangeli e nei paralleli in Matteo e Luca (Mt 10,25; 12,24.27; Le 11 ,15.18-19). Inoltre, è piuttosto mal trasmesso dai manoscritti, dove si trova Beezebul, Beelzeboul e Beelzeboub.7 Marco, nella seconda proposizione, non ce lo traduce ma ci fa comunque compren­ dere che bisogna considerarlo «il principe dei demoni». Uno dei significati possibi­ li sarebbe quello di «padrone (baal) della casa», e la parabola al v. 27 sull'«uomo nella sua casa» potrebbe alludervi. Non è escluso che anche Matteo in 10,25 abbia conservato un'eco di questo significato: >.

KIXL E:L o �atav&ç &v€atT] Èljl' È:au-còv KIXÌ. È!J.E:p (aST], où ouvataL atf)vo:L à.Uoc -rÉÀ.oç EXH. Ci si può ancora chiedere se la scelta dei due verbi (atftvo:L, ato:Sf)vo:L e &v€atTJ) non giochi ironicamente con il nome di Satana/ao:to:viiç, decostruendo per ciò stesso l'accusa di fondo. Satana, letteralmente rovesciato in &v€a'tT], non ha più di che reg­ gere.U Allo stesso modo, l "f XE L alla fine rovescia a sua volta la prima accusa nella quale si diceva BE:E:À.çf�OlJÀ. EXEL. Così si trovano ridotti a nulla sia Satana sia tutta l'artiglieria degli oppositori: tÉÀ.oç EXH significa che la fine li tiene in pugno e che sono finiti (tÉÀ.oç compreso come fine e anche morte; cf. Mc 14, 41 con à.1r€XE L e Le 22,37).

3,27: &U' où ouvato:L oùcSEì.ç E Lç t�v oLKLav toiì Laxupofl ELOEÀ.8wv toc at> (ouvaf.1Hç in greco). Marco si muove in questo linguaggio, tipicamente semitico, che può be­ nissimo risalire a Pietro e allo stesso Gesù. Quest'ultimo dava importanza a que­ sti gesti di potenza, segni di un Regno che si è veramente avvicinato, segni di uno Spirito Santo che è all'opera nella storia (cf. Mt 11 ,20-24; 12,29). Marco è riuscito a conservare e a trasmettere fedelmente questo aspetto della vita del Gesù storico. 3,28-30: 'Af.t�v ÀÉyw Ùf.t'iv on TTuvta ò:ct>E&lloEtaL to'Lc; uto'Lc; twv &vepwTTwv tà ttfjllpt�lltll KllÌ. ai �Àilocf>Tjf.lLilL OOil Èàv �Àilocf>TJf.l�OCiJOLV' 29oç o' av pÀ.Ilocf>TJf.l�OU ELç tÒ lTVEUf.lll tÒ ayLOV, OUK EXH &ct>Eow E Lç tÒV atwva, &:Uà Évoxoç ÈOtLV alwv[ou ttf.tapt�f.tatoç. 30on ÉÀ.Eyov, ITVEiif,tll Ò:Ku8aptov EXH.

1 2 Cf. qui un'allusione a I s 49,24-26 («Si può forse strappare l a preda a l forte?»; cf. W . GRUNDMANN, in TWNT III, 404s, citato da

Gnilka e Lane) ed è sempre possibile associarvi, sul piano dell'immagine, PsSal 5,3 («Non ci si può impadronire del bottino di un forte>>, che si ispira certamente a Is 49,24), ma, a livello di Marco, l'evangelista non intende qui citare il testo di Isaia né mostrare indirettamente con una tale allusione che Gesù è al tempo stesso >; qui è giusto, da ogni punto di vista, il contrario). Notiamo la ricorrenza di tre nozioni chiave: Spirito Santo (contro «spirito impuro>>), perdono e bestemmia (cf.

13 K. BERGER, Die Amen-Wone Jesu. Eine Untersuchung z;um Problem der Legitimation in apoka­ lyptischer Rede (BZNW 39), 1970, 4-28.

220

La narrati : Marco 1, 14-6, 13

2,7, «Costui bestemmia», mentre parla di «perdono», seguito da una domanda ana­ loga: -r(ç ouva-r«L Ei. 1-L� · . che equivale a ou Mv«-r«L ouoE (ç). .

La logica rigorosa e semplice che sottende il passo è che a chi rifiuta di ricono­ scere la presenza dello Spirito Santo in Gesù sarà negato l'accesso al perdono. Lo Spi­ rito Santo è la fonte del perdono. Chi si chiude allo Spirito si chiude al perdono. Qui Gesù avverte e rivela al tempo stesso. Mette in guardia i suoi oppositori: essi corrono un grave rischio chiudendosi alla fede che scopre in Gesù la presenza dello Spirito. Egli rivela che il perdono di Dio è presente, offerto a tutti: nessuna colpa, bestemmia o trasgressione è esclusa dal perdono che Dio viene a donare. Ma a chi consciamen­ te rifiuta il perdono, il perdono sarà rifiutato; egli sarà preso sul serio, per sempre.14 È importante ricordare che il contenuto essenziale del messaggio è doppio: Dio perdona sempre, per Dio non esiste nulla di imperdonabile. Ma Dio rispette­ rà la libertà di chi si chiude al perdono: chi si esclude consciamente, sarà di conse­ guenza escluso, per rispetto della sua libertà. È il rischio che Dio ha corso creando l'uomo a sua immagine. Questo rischio resta, anzitutto per Dio. Il testo tocca solo in modo molto marginale la questione di ciò che è >, ma se ne trova certamente la traccia nell'e­ spressione, unica in lui, al plurale, ai quali tutto sarà perdonato. Conserva invece il secondo membro e la sua applicazione non è sostanzialmente diversa: chi non discerne e non riconosce in Gesù la presenza dello Spirito, si chiu­ de al perdono e quindi a tutto ciò che, con lo Spirito, è entrato nella storia come salvezza e redenzione. Marco ha conosciuto letteralmente il testo di Q? A partire dallo studio di que­ sto unico caso, ci sembra molto difficile provarlo. Non si può negare che la distanza è notevole fra le due versioni e le trasformazioni piuttosto rilevanti, quando si con­ siderano le due unità di Le 11,14-23 e 12,8-12 e si vede come si trovano amalgamate in Mc 3,22-30. Ci sembra quindi più prudente attenerci all'ipotesi corrente secondo cui Marco ha conosciuto delle tradizioni analoghe a quelle contenute in Q, ma le ha conosciute in un modo del tutto indipendente.

A'. 3,31 -35. l veri parenti di Gesù

3,31-32: Kat EPXE'!aL � IJ�'!TJP aÙ'!Oiì Kal ot àoEÀol aÙ'!ofl Kal E�w a'!�KOvtEc; Ò:nÉa'!ELÀaV 1TpÒç aÙ'!ÒV K!lÀOUV'!Eç aÙ'!OV. 3�aL ÈKa&r]'!o 1TEpL aÙ'!ÒV OXÀOç, K!lL 1Éyouow aÙ'!c\), 'Iooù � IJ�'!TJP aou Kal ot ò:&lol. aou Kal al à&lal. aou El;w (Tl'!OOOLV aE. 3,31-32: «Sua madre e i suoi fratelli arrivano e, stando fuori, lo l�ero cltiamare. C'era una foUa seduta attorno a lui e gli dicono: "Ecco che tua madre, i tuoi fratelli e le tue soreUe sono

là fuori clte ti cercano"».

La famiglia che si era messa in viaggio in 3,21 arriva, con la madre alla testa. È l'unica volta che la madre di Gesù compare in tutto il Vangelo di Marco. In 6,3 gli abitanti di Nazaret parleranno di lei e si ricorderà anche il suo nome («non è il figlio di Maria?»). Si può supporre che facesse parte dei parenti in 3,21 . Giuseppe non viene più ricordato: normalmente lo si interpreta nel senso che Giuseppe è già morto e quindi Maria è vedova. Nella disposizione del racconto di Marco, l'arrivo della famiglia riprende il filo lasciato in 3,21 . Vengono per fermarlo, per (Kpatf]aaL) e ricondurlo alla ragione. Marco realizza così una com224

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

posizione «a sandwich», come hanno scritto alcuni. Questo modello ritorna piut­ tosto regolarmente nel suo racconto evangelico: fra gli esempi più evidenti si può citare l'episodio della guarigione della figlia di Giairo, al capitolo 5, o la storia del fico maledetto e trovato seccato fino alla radice l'indomani, al capitolo 11. Anche il triplice rinnegamento di Pietro viene raccontato in due tempi (c. 1 4). Gli altri due evangelisti Matteo e Luca non hanno seguito Marco su questo punto. I loro racconti sono decisamente meno drammatici e i loro modelli di composizione più retorici e catechetici. Il quarto vangelo, piuttosto sensibile all'aspetto drammatico, riprende la disposizione di Marco per il rinnegamento di Pietro nel racconto della passione. Così fa emergere ancor meglio il contrasto fra Gesù che dice: «Ho sempre parlato apertamente davanti a tutti» e il discepolo che, anche se nascosto sullo sfondo, non riesce neppure a dichiararsi in favore di colui che è il suo maestro. - In 3,20-21 si leggeva: Kaì. EP:XE:"t«L E:Ì.ç olKov·

Ka:Ì. ouvÉp)(EtO:L mihv [Ò] OJ(ÀOt; , K«Ì. ÙKouoavtE:c; ot tra:p' aòtou E:éfì.ì..6ov . . . - In 3,31 si legge: Kaì. EQ:XH«L 'Ì) ��"lP aòtou K«Ì. oL li&:Mf>oì. aò"tou KO:Ì. E/;W Ot�KOV'!E:t;.

Con questo doppio Ka:ì. Ep:XHO:L ci si può aspettare un incontro che rischia di sfociare in un vero scontro. Si trattiene il respiro, tanto più che entra in scena la stessa madre di Gesù. Ella è stata certamente coinvolta per conferire maggior peso alla delegazione venuta da Nazaret e si è lasciata convincere. Forse hanno pensato: non ha sempre avuto un certo ascendente su di lui? E chissà, forse anche lei ritene­ va che il suo figlio si stesse spingendo troppo oltre, scandalizzando i devoti, i farisei, tutti comunque pieni di zelo per la buona causa? Maria non dice nulla, e non dirà più nulla né qui né altrove nel seguito dei quattro vangeli. Tuttavia la sua presenza in questa scena è una parola silenziosa nella quale accetta di schierarsi dalla parte della famiglia che si preoccupa. La sorpresa narrativa è che Marco riuscirà a evitare uno scontro frontale con la famiglia. Essi dicono che è «fuori di sé» (EI;ÉotT)) e quando arrivano, restano >, dice Gesù e il suo sguardo ne indica altri. Ormai egli vive di un'altra parentela e si appella a essa. Quella che immediatamente prima era posta come domanda (v. 33) e poteva già sbalordire, ottiene in questa parola accompagnata dallo sguardo una risposta altrettanto sbalorditiva. Se in un primo tempo era mes­ sa in discussione l'evidenza naturale, spontanea, ora essa viene neutralizzata per costringere tutti ad aprirsi a un'altra evidenza, nella quale si rivela un'altra realtà familiare. v. 35. Resta l'ultima parola, che fonda e spiega gesto e sguardo: «Chiunque fa la volontà di Dio è per me un fratello, una sorella e una madre>> (òç &v TIOLll01J tò 9Éì..T]j.J.a tOU 6EOU, outoç a&=Mjloç j.I.OU KIÙ a&=J..cl>� KaÌ. 1J.1ltTJp Éot(v). In greco la fra­ se presenta una forma un po' ricercata, strettamente analoga all'apertura dell'ulti­ ma parola rivolta agli scribi in 3,29: oç o' &v PA.aoci>TJIJ.ll01J. Una tale apertura con &v e il verbo al congiuntivo conferisce a tutto ciò che segue il carattere di una sentenza a portata generale, ad andamento sapienziale. Marco lo farà ogni volta che vuole conferire alla parola di Gesù una portata fondamentale, come una massima di vita {cf. ad esempio 8,37; 9,37 [2 volte]; 10,11.43.44). Ciò che segue è quindi molto im­ portante: chiunque lo legga non può non sentirsi interpellato. «Fare la volontà di Dio>>, ecco il nuovo criterio della parentela di Gesù. La for­ mula riassume la vita secondo Mosè e il Deuteronomio, secondo Davide, Michea, il Sal l19, ma di conseguenza anche secondo Gesù. Questo tema comparirà come un leitmotiv soprattutto nel Vangelo di Matteo e in quello di Giovanni. «Fare la volon­ tà di colui che mi ha mandato>>, ecco il suo cibo, il riassunto della sua missione (Gv 4,39; 6,38.39; ecc.). Il favore divino si posa come l'occhio interiore o come un sole sempre splendente sulla vita di Gesù. Avere l'occhio a questo regno, che si tratta di cercare prima di qualsiasi altra cosa, e meravigliarsi dell'opera di Dio sia nelle cose più piccole come in quelle immense, come la pioggia generosa per i buoni e per i cattivi, e persino nei rischi della predicazione con i suoi fallimenti, ecco ciò che ap­ partiene a questo atteggiamento di base nel quale si vive sintonizzati sulla volontà di Dio. « . . . è per me un fratello, una sorella e una madre». Enigma di quest'ultima espressione, la cui pregnanza poetica non sfuggirà a nessuno, e neppure la sottile inversione, quando colei che era stata collocata ogni volta in testa qui arriva miste­ riosamente alla fine. Mentre, ponendo la domanda: «Chi è mia madre . . . ?», Gesù sembrava sottrarsi a ogni definizione facile ed evidente e a non lasciarsi determi­ nare più da nulla, ecco che qui egli stesso reintroduce le stesse definizioni «i miei fratelli, le mie sorelle, mia madre>>. È cambiato solo il criterio di parentela. Ma chiunque accetti questo nuovo criterio o già viva in base a esso, anche se è membro della famiglia più diretta, entra nello spazio così aperto. Mentre al v. 33 sembrava rifiutata ogni reciprocità, qui, in quest'ultimo tratto, ricompare una vera recipro­ cità. Bisogna passare per una porta stretta, fatta di dura negatività, prima di poter accedere allo spazio sconvolgente di una reciprocità che si gioca ormai unicamente in Dio. Il celebre logion sul figlio in Mt 1 1 ,27 (cf. Le 10,22) presenta pressappoco la stessa economia paradossale: dopo aver affermato con forza fino a tre volte che egli è il Figlio e che nessuno ha accesso a questa reciprocità unica che egli ha con La seconda grande sezione della narratio: Marco 3,2(}-5,43

227

il Padre, ecco che nell'ultimo tratto si apre una porta: . . . e colui al quale il Figlio vuole rivelarlo».17 Al termine di questo doppio incontro con la famiglia e con gli scribi di Geru­ salemme, il lettore/destinatario è come scosso: Gesù si rivela attraverso coloro che non credono in lui. Questa opposizione. era annunciata già nella sezione precedente (cf. 3,6), ma qui esplode con tutta la sua forza. Le ultime parole nelle due contro­ versie principali contengono un messaggio che rinvia oltre la situazione concreta e interpella ogni essere umano (cf. 3,28-29.34-35). Si intravede già che conoscere Gesù e restargli accanto vanno di pari passo, ma anche che questa compagnia è un'amicizia esigente. Gesù e la famiglia I rapporti fra Gesù e i suoi, a leggere il capitolo 3 di Marco, non sono molto cordiali. Essi affermano che è fuori di sé e vogliono prenderlo, riportarlo a Nazaret; egli non va neppure a incontrarli quando giungono da lui ed essi, non riuscendo a entrare a causa della folla, restano fuori e lo fanno chiamare. Nel quarto vangelo leggiamo: «Persino i suoi fratelli non credevano in lui» (7,5). Altri ricordi indipendenti confermano la stessa immagine. Gesù deve aver sorpreso il suo ambiente familiare ben prima di iniziare la sua vita pub­ blica. Conosciamo l'incidente capitatogli a dodici anni, quando rimane a ·Gerusalemme nel Tempio e i suoi parenti lo ritrovano solo dopo tre giorni (cf. Le 2,48-50). L'evangeli­ sta nota che, dopo averlo ritrovato, non compresero nulla riguardo al suo comportamen­ to. Lui stesso faceva riferimento a un Altro, chiamato lì «mio padre>>. Il suo primo atto, segno della maggiore età, è quello di una fuga e di un rinvio a un Altro. Gesù non si è sposato. Questo è del tutto insolito nel modo di vivere ebraico. Deve aver preso questa decisione personale molto prima del suo incontro con Giovanni Battista. Non sembra ispirata dalla paura o da un gusto spiccato per l'ascesi e la rinuncia. Al con­ trario del Battista, Gesù non è un monaco e l'immagine che la gente si fa di lui è quella di un buontempone, «che mangia e beve ed è amico dei pubblicani e delle prostitute» (Le 7,34). Durante la sua vita pubblica, si nota solo una sua parola riguardo al suo celibato: «Vi sono eunuchi che sono nati cosi dal grembo della madre e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli» (Mt 19,12). Questa parola somiglia a una massima sapienziale, nella quale si fanno diverse ipotesi in una formula tripartita, con la terza che costituisce la punta enigmatica dell'insieme.18 Indirettamente qui Gesù spiega la sua scelta di vita, motivata da questa realtà cosi essenziale ai suoi occhi: il Regno imminente. Poiché il matrimonio rabbinico viene proposto ufficialmente all'età di ventun anni, Gesù deve aver scelto questa forma di vita almeno dieci anni prima del suo incontro con Giovanni al Giordano. A quel tem­ po pensava già al «regno di Dio»? Sembra molto probabile. Questo stato di vita deve averlo isolato all'interno della sua famiglia ed emarginato dalla vita sociale a Nazaret. Ciò deve avere irritato più di una persona: perché non sposarsi, non assumersi le sue re­ sponsabilità, non trasmettere la vita ricevuta? Non è forse questo il primo dovere di un uomo secondo la Torah («Siate fecondi e moltiplicatevi», Gen 1 ,28)? L'ambiente familiare di Gesù ha reagito con grande stupore al momento della sua com­ parsa in pubblico. Chiaramente, non è così che lo si era conosciuto durante tutti quegli anni nei quali era vissuto fra i suoi fratelli. Perciò Gesù ha saputo nascondere questa fac­ cia segreta della sua vita con Dio.

17 Per un commento più dettagliato su questa parola di Gesù, si veda il nostro studio L'espaa 133-145. " Cf. anche: > (4,9) e «se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti»

2 Matteo ha ripreso questo elemento, ma è più coerente sul piano narrativo: infatti, al centro del capitolo 13 Gesù si ritira «in casa» per istruire maggiormente i suoi discepoli: «Allora, lasciando le folle. si ritirò in casa; e i suoi discepoli, avvicinandosi, gli domandarono: "Spiegaci [ .. .]''. In risposta egli disse loro ... (Mt 13,36-37). »

232

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

(4,23). Nel primo caso, la frase arriva subito dopo che Gesù ha raccontato la prima pa­ rabola. Essa è come staccata dal racconto in quanto tale da una piccola introduzione (KaÌ. EÀEYEV, «e diceva») e tuttavia fa corpo con ciò che precede e addirittura inclusio­ ne con l'apertura.3 Infatti, prima di cominciare a raccontare la prima parabola, Gesù piazza un imperativo: «Ascoltate!» (àKOUEtE). Si percepisce facilmente l'inclusione: ascolti quindi e intenda chi ha orecchi per ascoltare! L'altra formula quasi identica si trova alla fine della seconda parabola, anch'essa un tantino separata da quest'ultima, poiché si tratta di un'esortazione senza legame diretto con la storia raccontata. Essa corrisponde formalmente con l'esortazione che si trova in testa della terza parabola: «Fate attenzione a come ascoltate !» (�ÀÉTIEtE tl. à.KOUE'tE, v. 24). Si ritrova lo stesso verbo tXKODE LV, «intendere/ascoltare». Tutto ciò non sembra disposto a caso. Consideriamo un ultimo elemento formale, già segnalato di sfuggita, che do­ vrà permetterei di conferire al tutto una struttura che integra l'insieme di queste successive osservazioni. Si tratta di tre formule di introduzione, apparentemente banali: KIÙ ÈÀ.EyEv o:ùtol.ç (vv. 1 1 .21.24; cf. 4,2); KIIÌ. EÀfYEV (vv. 9.26.30) e KO:Ì. ÀÉyEL aùtol.ç (v. 13). Notiamo anzitutto la differenza dei tempi: solo un passo è introdotto da un presente (al v. 13, per l'unità che va da 13 a 20, e contiene la spiegazione della prima parabola). Questo presente storico si addice bene al genere di passo: si tratta di mostrare, in primo piano rispetto al destinatario, l'applicazione della parabola nella realtà concreta dell'esistenza. L'imperfetto ìnvece si addice bene all'espres­ sione di una verità generale.4 Alcuni hanno visto in questi versetti, che interpella­ no di fatto più direttamente il lettore/destinatario, il vero centro del capitolo. Ma così facendo, dimenticano tutto ciò che rientra nell'arte di scrivere e di comporre degli antichi. Consideriamo ancora un istante le altre formule di introduzione con le loro leggere differenze. Si tratta di valutarie secondo un criterio retorico noto all'epo­ ca. Infatti, secondo la sensibilità retorica antica, più sillabe conta una piccola frase del genere più bisogna accordarle importanza.5 Ciò significa che le parti del discor­ so, introdotte dalla formula KIIÌ. ÉÀEyEv aùtol.ç (vv. 11.21.24), vanno considerate i centri di gravità del discorso, mentre le proposizioni introdotte da KaÌ. EÀEYEV e KaÌ. ÀÉyH aùto'iç sono da collocare a un gradino inferiore. La ricchezza delle espressioni all'inizio (v. 2: KaÌ. ÈÀ.EyEv aùtol.ç Èv tfl oLÙ«XU aùtou) e alla fine del capitolo (vv. 33-34: KaÌ. tOLatmnç napa�oÀa'iç rroUa'iç HaÀE L aùto'iç tÒv Àoyov . . . ) obbedisce allo stesso principio retorico e sottolinea la prevalenza di questi momenti di intro­ duzione e di conclusione. I passi introdotti dalla stessa formula sono da considerare più o meno equivalenti fra loro. Questo permette di scoprire nel capitolo un ordine gerarchico: i passi di primaria importanza sono i vv. 1 1-12 e 21-25; il resto è in qual­ che modo subordinato a essi e quindi i vv. 13-20, benché siano orientati verso l'udi­ torio ed evochino la sua situazione, non sono il vero centro attorno al quale Marco ha disposto il suo discorso.

' In Marco si trovano anche altri esempi di una conclusione del genere, che è un po' distaccata dal resto e fa inclusione. Cf. 3,30 rispetto a 3,22-29 e 9,1 rispetto a 8,34-38; comparare anche 12,27b e 12,24, o anche 13,37 rispetto a tutto ciò che precede. In Mc 7,14-17 si trova un esempio analogo: la parabola, raccontata davanti a tutti come una veri­ tà generale, è introdotta da �MYEV airtoi.ç (all'imperfetto), ma la spiegazione data ai discepoli una volta rientrati in casa è introdotta dal presente storico: Knt ÀÉyn auTOi.ç. 5 Cf. DIONIGI DI ALICARNASSO, De composìtione verborum, passim; CICERONE, Orator. 174-231 (199-201); QUJNTILIANO, Jnst. or. 9,4. •

Il discorso parabolico: Marco 4, 1-34

233

Prima di affrontare il testo a livello del suo contenuto, ricordiamo lo schema di composizione concentrica esposto sopra, e vediamo come di fatto si realizza nell'or­ ganizzazione interna del discorso in parabole.6 Più sopra abbiamo presentato lo schema in questo modo: A B A' C D Nel nostro capitolo l'inclusione A e A' è formata dalla prima parabola (vv. 3-9), da una parte, e dalla sua spiegazione (vv. 13-20), dall'altra. Il momento B, in­ trodotto dalla più lunga delle formule {Ka:Ì. €À.EyEv a:irto'Lç, «e egli diceva loro»), si trova ai vv. 10-12 e il vero centro è costituito dalle due parabole che seguono, am­ bientate all'interno della casa: vv. 21-23 e 24-25, entrambe introdotte dalla lunga formula Ka:Ì. EJ.. EyEv a:ùro'Lç, la stessa che introduce i vv. 1 1 e 12. Siamo nel vero cen­ tro della composizione (l'elemento C). Infine, l'elemento D è composto dalle ulti­ me due parabole sul seme che spunta da solo e sul granello di senape. Una stessa formula, più corta, introduce ciascuna di esse (Ka:Ì. V..EyEv). Entrambe hanno a che fare con il Regno, come dicono esplicitamente le due introduzioni (vv. 26 e 30; cf. v. 1 1 ! ) e tutte e due sono ambientate, come la prima parabola, all'esterno, trattandosi in entrambi i casi di semina. Perciò D e ABA' si corrispondono su molti punti e cir­ condano il centro formato dalle parabole della lampada e della misura. Schematicamente, il capitolo è articolato in questo modo: Introduzione

4, 1 -2

[in pubblico]

Primo momento

A vv. 3-9 B vv. 10-12 A' vv. 13-20

all'esterno v. 9 KIÙ EÀEYEV [a partel KIXL Ueyev aùrolc; all'esterno KIÙ A.Éyu aùrolc;

Secondo momento e centro

c vv. 21 -23

all'interno KIÙ eÀEyev aÙ'rolc; all'interno KIÙ eÀ.Eyev aùtolc;

D vv. 26-29 vv. 30-32

all'esterno Kal EÀ.Eyc::v all'esterno K«t EÀEYEV

vv. 24-25

Terzo momento Conclusione

4,33-347

(in pubblico/a partel

Tutta questa analisi si è come volutamente limitata agli aspetti formali dell'or­ ganizzazione del capitolo, senza mai far intervenire la tematica o i contenuti delle cinque parabole, La forma, ascoltata con attenzione, offre già un inizio di messag­ gio. Vediamo ora più da vicino l'organizzazione dei temi e la problematica che Marco vuole affrontare in questo discorso. Ciò che è al centro dovrebbe svelarci il segreto.

6 a. supra, pp. 20&.

7 L'analisi letteraria del capitolo delle parabole è generalmente combinata con la critica delle fonti e quella della storia della tradizione. Fra gli studi che hanno contribuito a una critica propriamente let­ teraria del capitolo. distinguendola un po' da una critica della storia della tradizione, segnaliamo: G.H. BooBYER, «The Redaction of Mark 4,1 -34», in NTS 8(1961-62), 59-70; J. DuPONT, . Tutta la spiegazione della parabola in 4,1320 è direttamente esortativa: descrive i vari stadi di un ascolto completo e i suoi risultati. Ma dall'altra parte si tratta di cose , di abbondanza comunicata gratuitamente, di luce sparsa senza ragione e senza misura. Qui viene sottolineata tutta la dimensione della rivelazione: la luce penetra nella casa e illumina tutti colo­ ro che sono in essa, il seme una volta seminato fa il suo lavoro. Infatti la terra porta frutto da se stessa, indipendentemente dall'agricoltore che può dormire o vegliare a piacimento. La crescita è donata, e paradossalmente il più piccolo può diventare il più grande e unire la terra al cielo. Il cuore del messaggio è che la comunicazione divina che si realizza con la venuta di Gesù dipende interamente dal nostro ascolto, ma che d'altra parte essa è donata gratuitamente e farà la sua strada, trasformando la realtà indipendentemente da ogni sforzo umano. Tutto dipende da voi e tutto vi viene donato gratuitamente. Ecco il paradosso. E il capitolo procede, sottolineando a volte un aspetto e a volte l'altro. Se è evidente che la spiegazione della parabola del seminatore sottolinea l'a­ spetto responsabile del nostro ascolto (A), è altrettanto evidente che le ultime due parabole, sul seme che spunta da solo e sul granello di senape che per quanto pic­ colo all'inizio supererà tutte le piante dell'orto, pongono' l'accento sulla gratuità del dono, al di là di qualsiasi sforzo umano (B). Al centro del capitolo, la parabola della lampada e quella della misura dicono la stessa cosa in ordine invertito: la lampada viene e illumina, comunica la sua luce a tutti, immancabilmente e irresistibilmente (cf. B). L'immagine della misura ci rinvia alla nostra capacità di accoglienza e alla nostra responsabilità di ascolto. In testa a questa parabola si trova l'esortazione: «Fate attenzione al modo in cui ascoltate» (cf. A). Alla fine della parabola della lampada c'è questa massima: «Se uno ha orecchi per ascoltare, ascolti!>> e, volen­ do dargli un senso rispetto a ciò che precede, bisogna vedervi un appello a mera­ vigliarsi davanti al dono. Come mostrerà il commento, la grande parabola in testa a tutto è ambivalente: in essa c'è al tempo stesso la dimensione del dono gratuito (il seminatore semina in modo sovrabbondante, senza preoccuparsi della qualità dell'accoglienza) e la dimensione della responsabilità (la produzione dipende dalla ricettività incontrata). Lo stesso vale per la massima: «Chi ha orecchi per ascoltare,

egli lo ha pubblicato in «Redaction and Theology in Mc., IV» (cf. L'Évangile selon Mare. Tradition et rédaction, par M. SABBE, Leuven 1974, 269-307 [303] Marcus imerpretator, 121): A Introduzione (vv. 1-2) B a Seminatore (vv. 3-9) b Chiusura (vv. 10-12) a' Spiegazione ( vv. 13-20) C a Lampada ( vv. 21-22) b Esortazione ad ascoltare (vv. 23-24a) a' Misura (vv. 24b-25) B' a Seme che cresce di nascosto (vv. 26-29) a' GraneUo di senape (vv. 30-32) A' Conclusione (vv. 33-34). Notiamo non solo le corrispondenze con il nostro schema, ma anche la sottile introduzione dell'e­ lemento (b) al centro di C: l'esortazione ad ascoltare, distribuita su due versetti: 23 e 24a. =

Il discorso parabolico: Marco 4, 1 -34

235

ascolti !>>:

vi si può leggere

fatto che tutto è grazia.

un'esortazione all'ascolto e un invito a meravigliarsi del

Se si percorre il capitolo esaminando la ricorrenza dei due temi (A e B), si

vede prendere forma questo schema: 1 21-22. 23 B

10-12 B

24a 24b-25 j A

-----

3-9 A

B

A'

B'

Cosl s i vede delinearsi u n chiasmo fr a l e due parabole del centro, all'interno

della casa (B e A), e le tre parabole della semina, all'esterno (A, A' e B, B'). Invece, ciò che è incluso fra la prima parabola e la sua spiegazione, cioè i vv. 10-12, mette

l'accento sul dono della rivelazione (B): «A voi

è dato il mistero del Regno>> (v.

1 1 ).

Segnaliamo, per concludere questa analisi tematica e là sua corrispondenza

con l'analisi formale, che si verifica un chiasmo analogo frale due formule colloca­

te al centro del capitolo e quelle che inquadrano la prima parabola, quella fonda­

mentale:

X Y

v. 3a v. 9

'AI> (v. 34a), il che ritorna sul tema sviluppato e

commentato in 1 1 -12, dove il mistero è dato agli uni e giunge «in parabole>> agli altri

(ÈKELVOLç ùÈ to'iç Èçw È v 1rapa�oÀa'iç tà mivta y[vEtaL ). Invece il Ka9wç �Mvavto IÌKOUE LV («nella misura in cui erano disposti ad ascoltare>>) sottolinea la responsa­ bilità di coloro che accolgono la Parola. All'inizio del capitolo

(vv.

1-2) Gesù, nella

barca, espone il suo insegnamento alle folle, ma alla fine del capitolo (v. 34) il nar­

ratore introduce una distinzione fra ciò che egli dice «in pubblico>> e ciò che dice «a parte», ai soli discepoli. Questa distinzione era già comparsa all'interno del discor­ so, al v. 10 («quando poi fu in disparte>>,

Katà fLOvac;).

Da tutta questa analisi si possono ritenere almeno due cose: Marco è un arti­

sta, che ha imparato a disporre in modo sia organico che armonioso i materiali tro­ vati nella tradizione; Marco

è

anche un pensatore, che spinge il suo destinatario a

riflettere e a im boccare la via paradossale, l'unica che permetta di accedere al gran­

de mistero che è il Regno proclamato da Gesù. Il commento versetto per versetto mostrerà con la lente di ingrandimento le qualità stilistiche dell'evangelista e non

potrà che confermare la forza del pensiero del teologo.

236

·La narratio; Marco 1, 14--tJ, 13

4, 1 -9. La parabola del seminato re

4,1-2: Kal TTIIÀ. LV ilpl;a-m ÙLOUOKE LV 1Tapà t'Ì)v 9aÀaaaav· Kal ouvayE'CaL 1TpÒç aùtòv OXAOç 1TAE1otoç, WOtE aÙtÒV E lc; 1TAOLOV ÈI!J34vta Ka9ilo9aL ÈV tfl eaA&.oou. Kal Tiiiç 6 oxAoç 1TpÒç t'Ì)v MÀaaaav ÈTIL tfìç yfìç �aav. ztÀa1ç TIOÀ.M KaÌ. ÉÀ.fYEV aùto1ç Èv tfl cSLùaXfl aùtou. 4,1-2: «Si mise di nuovo a insegnare sulla riva del mare e una folla numerosa si rac­ coglie attorno a lui, cosicché sale in una barca e si mette a sedere, nel mare; e tutta la folla era a terra, vicino al mare. Insegnava loro molte cose in parabole e diceva loro nel suo insegnamento».

vv. l-2. La messa in scena è accurata, ma al tempo stesso, fin dall'apertura con il Kal 1r&.hv («e di nuovo»), il quadro è noto. Marco dispone nel corso della sua narratio di tre o quattro scene modello che alterna: «in casa», «in disparte, nella montagna» o «lungo il mare», e anche «alla sinagoga>>. Ritornando al mare, si ri­ torna alla scena descritta in 3,7-10, con il grande assembramento di persone venute da tutta la regione circostante in senso lato. Si ritrova la folla (ox}..oç 1TÀ.E1otoç) e lo stesso mezzo per sfuggire alla sua pressione: l'uso della barca dei pescatori (cf. 3,9), che attraverso questo servizio diventano sempre più «pescatori di uomini>> (1 ,17). Qui il narratore sottolinea che Gesù «Sale in una barca>> e «Si mette a sedere>>. La posizione seduta è quella del maestro che insegna (cf. Pr 8,2; 9,14); il discepolo ascolta in piedi. La scena con «tutta la folla a terra, vicino al mare>> impressiona. Si sente lo sciabordi9 irregolare dell'acqua contro la barca e contro la riva. Regna un odore di pesce e di corde bagnate. Marco ci trasmette un'immagine che ha recepito: essa non scomparirà più dalla nostra memoria. Il primo verbo, indicativo di tutto ciò che seguirà, è quello relativo all'insegna­ re (ùLOUOKHv). «E di nuovo si mise (ilpl;avto) a insegnare lungo il mare>>. Marco usa ben 26 volte questa costruzione di ilpl;a(v)to con l'infinito. Matteo ne conserverà solo sei. Luca ne riprenderà solo due, ma d'altra parte se ne serve personalmente volentieri (23 o 25 volte). Secondo alcuni si tratta probabilmente di una formula­ zione semitica (Taylor, 63s). Essa permette a Marco di rivestire ciò che vuole dire, conferendogli ampiezza (i retori parlavano della necessità di abbellire il linguaggio, ornare in latino, di conferirgli dell'oyKoç , in greco). Qui e nel versetto seguente viene sottolineato il tema dell'«insegnamento» (cf. 1,21-22). Poiché Gesù parlerà piuttosto a lungo, si invitano il lettore/destinatario e soprattutto gli iniziandi a essere doppiamente attenti. Il v. 2 torna sulle prime pa­ role del v. l, come se tutto il resto fosse solo una parentesi. «E9'fl llÙ'to'ì.ç. 4,10-11: «Quando poi fu in disparte, quelli deUa sua cerchia con i Dodici lo inter­ rogavano riguardo alle parabole. Ed egli diceva loro: "A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono fuori tutto avviene in parabole, affinché per quanto guardino non vedano, per quanto ascoltino non comprendano, per paura che si convertano e sia loro perdonato"».

Curiosamente il narratore ci conduce come in disparte (Ka'!Ù IJ.OVac;, unico caso in Marco; espressione classica e nota ai Settanta; cf. anche Le 9,18; sinonimo di Ka't' l.o (av , che si incontra molto più spesso in Marco [7 volte]; cf. già in 4,34). Il luogo è diverso e le persone riunite non sono più le stesse: si tratta di «quelli della sua cerchia con i Dodici» (ot m=pt aÙTÒv aùv "to'ì.c; OWÙEKa). Il gruppo è più nume­ roso dei Dodici chiamati in 3,13-19 e, a causa della presenza dei Dodici, è più qua­ lificato rispetto a quello incontrato nella scena precedente, in occasione della visita dei parenti alla casa (3,34, dove ugualmente il narratore parla di «coloro che sono seduti in cerchio attorno a lui»). Anche qui, come nella scena alla fine del capitolo 3, si distingue fra quelli di fuori (•o'ì.c; E�W) e il gruppo riunito attorno a Gesù. Emerge una struttura di demarcazione quasi ufficiale: c'è Gesù, con i Dodici e quelli che li circondano, e vi sono gli altri, quelli di fuori. Chiaramente Marco si esercita a gio­ care sugli uditori e qui ci tiene, per la prima volta, a introdurre una netta distinzio­ ne.12 Si delinea un inizio di formazione del corpo della Chiesa a causa della presenza dei Dodici con, di fronte a questa entità, un gruppo in contrapposizione. Al di là della messa in scena in riva al lago, Marco raggiunge una realtà ecclesiologica a lui contemporanea che i suoi lettori/destinatari devono necessariamente riconoscere. Questo gruppo va a interrogare Gesù sulle parabole. È la prima volta che egli viene interrogato in Marco, come è la prima volta che l'evangelista distingue chiaramente questa struttura di un insegnamento dispensato «a parte», solo per un gruppo ristretto. Questa diventerà comunque una struttura ricorrente, specialmen­ te nella seconda parte del racconto (6,14-10,45). Per il verbo Èpw'tiiv («interroga­ re») cf. Mc 7,26 e 8,5. Molto più frequente è il verbo composto ÈTIEpwTiiv (cf. 5,9 per la prima volta, 25 volte in tutto). Il verbo qui all'imperfetto è costruito con due accusativi. «Riguardo alle parabole». Finora Gesù ha raccontato una sola parabola (per cui certi manoscritti hanno corretto il testo e scritto al singolare: «la parabola»). La scena e il dialogo, raccontati all'imperfetto, vogliono evocare un insegnamento fon­ damentale, non legato unicamente al solo episodio appena raccontato. La risposta di Gesù avverrà in due tempi. La prima risposta è introdptta da un imperfetto (KaÌ. EÀEyEv aÙ"to'ì.c;), la seconda da un presente storico (KaÌ. ÀÉyH aÙ"to'ì.c;). La prima vuole essere essenziale e generale; la seconda è specifica e riguarda l'applicazione attualizzata della prima parabola appena raccontata.

12 Questo lavoro è indubbiamente qualcosa di artificiale, che alcuni hanno avvertito nella doppia espressione «quelli che lo circondano» e «COn i Dodici». Così alcuni manoscritti ( D El ecc. ) hanno sem­ plificato l'espressione, parlando semplicemente dei , come si vede del resto negli altri sinottici (Mt 13,10; Le 8,9).

Il discorso parabolico: Marco 4, 1-34

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Tutta questa messa in scena, comunque piuttosto complicata - eravamo vicino a Gesù nella barca in riva al mare, come mescolati alla folla sulla riva, ed ecco che il narratore sconvolge ogni cosa -, indica la volontà di introdurre qualcosa di diver­ so e di importante. Marco non precisa la domanda di coloro che circondano Gesù: riguarda in modo generale «le parabole», il linguaggio parabolico in quanto tale. Matteo, da buon catechista, riuscirà a formulare la domanda in questo modo: «Per­ ché parli loro in parabole?» (Mt 13,10). La parabola come tale fa problema. Perché non parlare semplicemente? Si ritrova un'eco di questo tipo di interrogazione alla fine dell'ultimo discorso di addio in Gv 16: «l discepoli gli dissero: Finalmente parli chiaramente e senza figure (m�pOL�La.L)!» (Gv 16,29; cf. 10,6). La stessa domanda si pongono i primi discepoli del Buddha: perché ci parla in immagini, in parabole?13 La domanda può essere antica nella tradizione evangelica e, chissà, risalire alla pri­ ma cerchia dei discepoli di Gesù. Marco la riprende per introdurla nel suo sistema di comunicazione che vuole iniziare e quindi comunicare, a chi ne è degno, il senso del mistero del Regno. Gesù comincia con l'affermare un punto, poi lo giustifica basandosi su un testo profetico tratto dalla visione inaugurale di Is 6. Il punto che afferma con forza è du­ plice: «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono fuori tutto avviene in parabole>>. Nella sua semplicità questo linguaggio è forte, persino duro: agli uni il segreto è dato, comunicato, svelato; agli altri non lo è pienamente, per­ ché le immagini continueranno a fare schermo; per loro la parabola resta parabola, a loro il suo senso sfuggt> è, nei testi dell'epoca, il piano di Dio, i suoi disegni, ciò che egli ha deciso, la sua volontà e tutto il corso della sto­ ria che egli dirige. 14 Bisogna essere profeta o apocalittico per entrare nel consiglio di Dio e ascoltare come una rivelazione ciò che Dio ha deciso di fare, a breve o a lungo termine. Perciò l'espressione «a voi è stato dato il mistero del regno di Dio» significa: voi riceverete l'insigne favore di conoscere la volontà di Dio, i suoi dise­ gni, e voi avete accesso alla sua libertà e alla sua potenza, voi siete introdotti nella sua intimità. Questo mistero ha a che vedere con lo Spirito Santo. Il Messia, pieno dello Spirito di Dio (ls 1 1 ,1s; 42,1; 61,1, nel quale il dono dello Spirito e l'unzione messianica coincidono), è colui che ha accesso al consiglio segreto di Dio e viene a comunicare questo mistero nel cuore della storia. La forma confidenziale di trasmissione di questo mistero corrisponde al fatto che i primi discepoli di Gesù, e specialmente . Pietro, sono vissuti nella cerchia ri­ stretta delle persone vicine a Gesù. All'epoca un insegnamento a due livelli non era raro e i rabbi, pur poco propensi a formare piccoli gruppi settari, praticavano con­ sciamente la distinzione fra ciò che si dice in forma essoterica, al grande pubblico, al primo venuto, e ciò che si insegna in forma più esoterica solo ad alcuni. Su que­ sto punto Gesù non fa eccezione. Ma questa forma, qui accentuata dall'evangelista

13 Cf. la Sutra del Loto, c. 3. 14 Rm 16,25; Col l ,26-27 e Ef 3,3-9 sono altrettanti passi nei quali il termine «mistero» copre tutto il disegno di Dio, rimasto nascosto e ora rivelato da Dio ai suoi intimi, i profeti. Dn 2 (vv. 18.19.22.23.27.28) offre un bell'esempio di un testimone che ha diritto di parlare del mistero perché ha ricevuto la cono­ scenza del disegno di Dio grazie a un favore divino. Uno solo conosce i misteri: Dio. È lui che «rivela i misteri» e (Èv napapola'ì.ç '!tt navra YLVE'!aL). Anche in Is 28,11-12 il profeta annuncia un destino di condanna: quando non si vuole ascoltare, ogni linguaggio diventa incomprensibile, «con labbra balbettanti e in lingua stra­ niera parlerà a questo popolo>>, perché «non vollero ascoltare>> (Kat oÙK 'JÌ9ÉÀTJoav IXKollE' Lv). In 1Cor 14,21-22 Paolo cita questo testo (che echeggia del resto la male­ dizione annunciata in 0t 28,49). Il '!tt lTaV'!a significa sia «tUttO>> sia > (Cva). Marco cita Is 6,9 e 10, e introduce la citazione con un sem­ plice e potente '(va (cf. 14,49: O:U' '(va 1TÀT]pw9wo LV ai ypa4Ja().16 Ciò che accade con la separazione degli uditori («a voi . . . ma a quelli che sono fuori>>) è conferma­ to dalle parole ascoltate da Isaia al momento della sua vocazione. Questo passo è citato nei quattro vangeli e ritorna, citato più ampiamente, sulle labbra di Paolo alla fine degli Atti degli apostoli, come ultima apostrofe dell'apostolo nei riguardi dei suoi interlocutori ebrei a Roma, spiegando l'indurimento del popolo eletto nei confronti della Parola evangelica (At 28,26; Gv 12,40; Mt 13,14s; Le 8,10). Giusti­ no, nel suo Dialogo con Trifone (12,2) alla metà del II secolo, cita ancora questo stesso testo per chiarire la stessa realtà storica: i giudei hanno ascoltato il messaggio evangelico, ma non vi hanno aderito con fede. L 'ambiente cristiano ha trovato in Is 6 una risposta alla domanda lancinante: perché la maggior. parte del popolo eletto, con i suoi capi politici e religiosi, si è rifiutata di credere al vangelo? Questo rifiuto era previsto, questo fallimento era annunciato. Dio stesso lo ha fatto conoscere in anticipo ai suoi profeti. 1 7 Nella sua parte finale, la profezia mostra anche un al di là del fallimento: «Un resto» sarà salvato e «il ceppo è seme santo».

15 La meditazione del saggio Ben Sira su ciò che è rivelato e ciò che resta nascosto può chiarire il nbstro v. 1 1 : «Chi lo ha visto e potrebbe rendeme conto? Chi può magnificarlo come merita? "Resta molto di misteri ("rroHà h6Kpu>, cioè coloro che sono visitati dalla Parola, vengono resi responsabili della Parola dentro di loro. Interpellati dalla Parola, essi diventano grazie a essa soggetti responsabili. Spetta a ognuno di quelli che ascoltano la para­ bola esaminare dove si trova esattamente e come si comporta rispetto al condizio­ namento che sperimenta. Il commento descrive ciò che avviene nel momento stesso in cui si ascolta la parabola. Notiamo che sia «la Parola>> sia il verbo «ascoltare>> ritornano In ciascuno dei quattro casi e, complessivamente, «la Parola» risuona sette volte in questi sei ver­ setti (15 [2 volte). 16.17.18.19.20; «ascoltare», 4 volte). L'insieme mira incontestabil­ mente a inculcare un buon ascolto della Parola, evitando tre possibili scogli. Questa «Parola seminata», che genera alla vita fruttuosa, si ritrova in una forma piuttosto vicina al nostro testo in 1Pt 1,23-26, con una citazione di Is 40 (6-7) che sfocia sull'at­ tualizzazione diretta: «È questa Parola, di cui vi è stata portata la buona novella».19 v. 15. La prima categoria è rappresentata da «quelli che sono ai bordi della strada dove è seminata la Parola». Mentre nella parabola si tratta del seme che cade ai bordi della strada, il commentatore riprende il luogo, «ai bordi della strada», ma indica oltre al seme coloro che rappresentano questo luogo o questa terra di acco­ glienza del seme. «Essi ascoltano», ma «subito viene Satana e porta via la Parola seminata in loro». È inutile voler serrare troppo da vicino la trasposizione dell'im­ magine nella sua applicazione. Comunque l'idea è chiara: la prima situazione evo­ cata nella parabola corrisponde al fallimento dovuto all'intervento di Satana. Egli arriva e non permette al seme neppure di germogliare nella terra. Colui che raccon­ ta la parabola inserisce questo fattore in tutta l'impresa della «semina»: Satana può giocare un ruolo fin dall'inizio e rendere impossibile ogni fruttificazione. La sua re­ sponsabilità è molto maggiore di quella della terra in quanto tale. Ogni fallimento non dipende quindi solo dall'accoglienza. Un fattore indipendente dall'uomo può nuocere fino al punto da rendere impossibile la produzione di qualsiasi frutto. v v. l 6-1 7. La seconda categoria riguarda coloro che corrispondono al «seme caduto su un suolo sassoso». Il commento evoca l'immagine e la traspone in ogni elemento: essi accolgono la Parola con gioia, ma la mancanza di profondità della terra corrisponde alla loro esistenza 1TpOaKa.tpot: «uomini di un momento» (cf. Mt 13,21; 2Cor 4,18; Eb 1 1 ,25). «Se sopraggiunge in seguito» (come il sole che si alza a livello dell'immagine) «una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola», e

19 È nota peraltro la vicinanza fra questo passo e il versetto seguente (2,1), da una parte, e la bella proposizione in Gc 1 ,21, dall'altra: . La catechesi dell'accesso alla fede attraverso l'ascolto della Parola si ispira regolarmente alla grande metafora della semina, certamente come eco diretta della predicazione di Gesù. 250

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

qui il narratore evoca le situazioni missionarie ben note alla comunità, specialmen­ te a Roma, subito essi si scandalizzano e «soccombono>>. 9Uijnc;; («oppressione, tribolazione», cf. Mc 13,19.24 e 37 volte altrove nel NT, al di fuori dei vangeli) e OLWyj.l6c;; («persecuzione», cf. Mc 10,30; Mt 13,21; At 8,1; 13,50; Rm 8,35; 2Cor 12,10; lTs 2,15; 2Ts 1,4; 2Tm 3,11, 2 volte) sono termini familiari del vocabolario delle prime comunità. Qui, il linguaggio si appropria di espressioni che ricordano specialmente molti passi di Paolo. Soprattutto a Roma la comunità non ha conosciuto solo vessazioni, ma è stata oggetto, sotto Nerone, di tribolazioni e di una vera persecuzione (OLWY!-l6c;; ) ufficiale da parte delle autorità romane. Il O Là. -ròv Àoyov («a causa della Parola>>) è vicino al EVE'KEV Éj.Loù KIÙ wu eOO.yyeHou («a causa mia e del vangelo>>) di Mc 8,35 e 10,29. Il commento guarda ben oltre la situazione della Galilea evocata dal contesto in questo capitolo 4 di Marco. L'esperienza della comunità di Marco affiora nel testo e il lettore/destina­ tario apprende ciò che, prima o poi, dovrà necessariamente affrontare. Evitare che vi siano tribolazioni o persino persecuzioni non dipende da chi ascolta, ma evitare di soccombere nelle· prove dipende dalla responsabilità dell'ascolto. I!Ka.voa.HCELv è un verbo piuttosto frequente in Marco (cf. 6,3; 9,42s.45.47; 14,27.29), e anche in Matteo (14 volte), mentre Luca lo evita (solo 2 volte; Gv 2 volte; Paolo 3 volte). Si­ gnifica «far vacillare» e, al passivo, >, preciserà ulteriormente questa dimensione. L'ul­ tima domanda del Padre nostro ha una cosa in comune con Mc 4,15: il Maligno può precederei o soppiantarci con la sua forza. La preghiera testimonia che senza l'aiu­ to di Dio noi non possiamo tener testa a colui che in precedenza Gesù ha chiamato «il Forte>> (3,27). Nella seconda categoria, il male yiene dal di fuori e bisogna che l'uomo sia avvertito e protetto dalla profondità del suo ascolto e dalla perseveranza nella sua assimilazione della Parola. Anche in questo caso, l'uomo non è responsabile delle cause che provengono dall'esterno. Ma può essere volubile, pau�;oso, incostante, «uomo del momento>>, e quando viene la prova, soccombe. Gesù, con realismo, ha mostrato più di una volta che nessuno è risparmiato: indipendentemente dall 'essere costruita sulla roccia o sulla sabbia, in ogni caso la casa sarà esposta a forti piogge, al vento e alle tempeste (Mt 7,24-27). Considerando la natura o anche il dramma degli incidenti (come la torre di Siloe che crolla), Gesù ne trae delle lezioni per una continua vigilanza e un costante spirito di conversione (cf. Le 12,54-55; 13,1-5; Mt 25,1-10[5] ; Mc 9,43-48). Nella terza categoria, il male deve essere cercato nel cuore dell'uomo: la sua debolezza, i suoi desideri, il suo lasciarsi sedurre e le sue scelte di vita. Il vangelo è esigente nella sua proposta generale: Gesù stupisce per la radicalità delle sue paro­ le quando tratta della ricchezza, dei legami familiari, degli onori o dello stile di vita quotidiano. Nella quarta categoria, il commentatore non ha per così dire più nulla di spe­ ciale da precisare. Riproduce le immagini festive della parabola, senza cercare di attualizzare maggiormente. Certi commentatori vedono qui la prova che la spiega­ zione della parabola non risale a Gesù stesso. Secondo Taylor questi ultimi sono «a mere foil to the discreditable types. So little is the parable understood !» (261). Tuttavia è possibile anche un'altra lettura. Riproducendo la fantasia festiva della parabola con la sua bella esagerazione («trenta, sessanta, cento per uno!>>), mentre il destinatario sa bene su che cosa posi questa breccia vittoriosa, il testo non resta maggiormente nella linea di Gesù, invece di continuare a moralizzare in quest'ultima categoria? Tanto più che «la terra buona» non deve la sua bontà a se stessa, ma al fatto di essere seminata dalla Parola dell'Altro. La punta della parabo­ la, se così si può dire, anche nel suo commento, è che la Parola come messaggio che viene da Dio porterà comunque frutto, nonostante tutte le avversità incontrate. Il fatto stesso che si sia ricordato anzitutto Satana apre l'esegesi della parabola a una comprensione diversa dalla sola comprensione moralizzatrice. Ciò vale senza dub­ bio anche per l'ultima categoria. Non spiegandola di più, il commentatore ci rinvia a una comprensione stupita del dono di Dio nella sua parola che, come dice il pro­ feta, «non ritorna mai a lui senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata>> (Is 55,1011). Anche in questo passo altamente profondamente esortativo, l'evangelista èi educa all'accoglienza della meraviglia del dono: «A voi è dato il mistero». Il discorso parabolico: Marco 4, 1-34

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4,21 -25. Le parabole della lampada e della misura

Al centro di questo grande capitolo parabolico si trovano due brevissime pa­ rabole: quella della lampada e quella della misura. Il poeta si accontenta di un rapi­ do colpo di pennello: un tratto per ciascuna deve bastare a far comprendere. Le due parabole sono situate all'interno della casa, diversamente dalle altre tre parabole della semina. Sono introdotte dalla stessa ampia formula: KaÌ. �À.EyEv airro'L ç («ed egli diceva loro»), collocandole così allo stesso livello, e, a causa de Il'imperfetto, si suppone un insegnamento generale e fondamentale. 4,21-25: Kaì. EÀEYEV aòto'Lc;, M�n EPXEtaL o Àuxvoç '(va UlTO tòv IJ.OOLOV tE9fl iì imò t�v KÀLVflv; oùx 'Cva ÈTIÌ. t�v Àuxvl.av tE9fl; 22où yocp Éanv KpuTiròv f.à.v IJ.� '(va ljlavEpw9fl, oùùf ÉyÉvEto Ò:TioKpuljlov &U' lva EÀ01J E Lç ljlavEpov. 2Y( nç EXE L wta àKOlJE LV Ò:KouÉtw. 24Kaì. EÀ.EyEv aùro'Lc;, �ÀÉTIEtE r( Ò:KOUEtE . Év � j.iÉtp� j.lEtpELtE 1J.Etpfl9�>, una volta terminata la cernita nella storia, «si vedrà il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria e i suoi angeli raduneranno gli eletti>>. Tutto questo rivela la coerenza del pensiero di Marco in questo discorso cen­ trale, collocato nel cuore della prima parte del suo racconto evangelico. Già il di­ scorso parabolico orienta verso l'altro capo del racconto e il secondo grande di­ scorso che tratterà della fine (c. 13). Le parabole stimolano la riflessione: rivelano e mostrano, ma chiedono anche impegno e ricerca. Esse nascondono un mistero che bisogna cogliere pienamente. Ogni destinatario, anche il lettore di oggi, è responsa­ bile del suo ascolto: comprenderà nella misura della sua apertura radicale. «Gli uccelli del cielo»

Chi sono questi «uccelli del cielo» in Mc 4,32? La domanda ha incuriosito più di un com­ mentatore. Ma è una buona domanda? Dopo l'opera classica di A. Jiilicher (1910), c'è come un tabù nell'esegesi delle parabole di Gesù: evitate soprattutto di considerarle al­ legorie! Sbaglia chi cerca di interpretare ogni dettaglio. E tuttavia l'uccello incuriosisce. Già quando ne parlano Ezechiele e Daniele si sente che l'immagine non nùra a una semplice coerenza interna. Ad esempio, quell'albero in Ez 31, nei cui rami >). Sono riconciliati il cielo e la terra, l'alto e il basso e l'umano fra i due. Allora gli uccelli che vengono dal cielo e scendono per rifu­ giarsi «sotto» l'ombra dell'albero sarebbero gli angeli, e l'immagine finale del discorso parabolico sarebbe in sintonia con il tratto finale del prologo, come anche con la visione apocalittica alla quale Marco continua a guardare come termine di ogni attesa: «Il Figlio dell'uomo che viene sulle nubi con i suoi angeli santi» (8,38; 13,24-27; 14,62). A livello dell'immagine e dell'economia narrativa, l'uccello sfugge: né il seminatore, né la terra, né il seme diventato albero possono imporgli un ordine, qualunque esso sia. È pro­ prio questa la ragione pe"r cui l'uccello incuriosisce. Ad Apt, dei ragazzi del catechismo cominciarono ad analizzare le cinque parabole di Marco; una ragazzina di appena dodici anni notò la presenza di un uccello all'inizio del capitolo e di uccelli nell'ultimo tratto dell'ultima parabola. Il primo ha beccato solo qualche seme, mentre gli ultimi si riparano in quello che nel frattempo è diventato un albero. Tutto finisce bene. Infatti, siccome gli uccelli non mangiano tutto, ci sarà un posto anche per loro nel Regno. Simbolo ambiva­ lente, angelo e demonio, anche l'uccello attraverso questo capitolo va incontro a un de­ stino felice. In Marco, il tratto finale non è mai vendicativo, ma indica che un giorno Dio ristabilirà tutto in gloria. Al/ shall be wel/, dichiarava Cristo alla mistica inglese Giuliana di Norwich; anche per l'uccello che si è permesso di beccare il seme, appena seminato.

32 Cf.jAvZ III, 42c, 44; e NumRabba 13 ad Nb 7,13, citati da JBRBMJAS, Jésus et les p�i"ens, 61, 4. Il discorso parabolico: Marco 4, 1-34

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4,33-34. La concl usione del discorso parabolico '

Marco termina il discorso in modo accurato, così come lo aveva introdotto in modo molto ben definito. Del resto, i due passi si corrispondono, ma anche la parentesi narrativa del v. 10, che interrompe per un momento la scena nella bar­ ca, trova un'eco in questi due ultimi versetti. Cosi la conclusione ricapitola tutto il complesso. 4,33-34: Kocl toLocutocLç TiocpocpoJ..a'Lc; lTOÀÀa'Lc; ÈÀ4ÀEL ocùto'ic; tòv .A.oyov Koc9Wç �Mvocvto OCKOUELV' 34xwpìç OÈ lTocpocpoA.iìc; oùK U.liA.H ocùto'ic;, Kett' tMocv oÈ to'ic; lo(oLc; f.UX9T]toc'iç ÈlTfÀUEv mivtoc. 4,33-34: «È con un gran numero di parabole di qnesto genere che egli annunciava loro la Parola, come potevano comprenderla; e non parlava loro senza parabole, ma, in privato, spiegava tutto ai suoi discepoli».

«Con un gran numero di parabole di questo genere». Marco riepiloga tutto il capitolo e lascia intendere che ci ha offerto solo un frammento della ricchezza del­ le parabole di cui si serviva Gesù. Ne aveva presentate alcune già ai capitoli 2 e 3 e ne presenterà ancora, in particolare la grande parabola del capitolo 12 (vv. 1-11, sulla vigna e i vignaioli omicidi). Questa osservazione vale per tutto il suo vangelo: non ci racconta tutto. Comunque, per Marco, Gesù è stato un uomo in grado di tra­ smettere il suo messaggio anche attraverso le immagini. Matteo e Luca confermano ampiamente questo ricordo di Gesù, offrendo ciascuno un ventaglio molto vario di altre parabole. Si può concludere che il Gesù storico è stato un maestro nell'arte di raccontare storie, con un dono di osservazione e di narrazione senza pari. Poiché la parabola è al servizio della comunicazione, questa arte di trasporre una situazione difficile in un racconto ricco di colori rivela anche un fine psicologo, capace di in­ contrare in modo allegro, poetico o drammatico, secondo i casi, persone che hanno preso le distanze dal suo messaggio e dal suo comportamento, o che addirittura li combattono apertamente. La frase in greco ricorda formalmente la proposizione conclusiva di 7,13: 4,33: Kocl toLocutocLc; TiocpocpoJ..a'ic; lTOÀÀa'ic; ÈÀiiÀE L ocùto'ic; tòv A.oyov 7,13: KOCL 1TOCp01JOLOC tOLOCUtOC lTOÀÀ.à lTOLE'i't'E. Marco ama chiudere un'unità con queste generalizzazioni («un gran numero», «di questo genere>>). Notiamo anche la corrispondenza con l'apertura del capitolo, dove pure sono segnalati il mezzo e la quantità: Èò(fuoKEV Èv TiocpocPoJ..a'ic; lTOÀÀa. 'EÀiiÀE L ocùto'ic; tòv A.oyov. Marco riprende qui una formula piuttosto solenne che abbiamo incontrato già in 2,2, e con la quale vuole esprimere l'essenziale: «di­ cendo la Parola», Gesù proclama il Regno e annuncia la venuta di Dio nella storia. Niente meno. Le parabole sono al servizio di questa grande comunicazione iniziale (cf. 2,2 che rinvia a 1,14-15). Il tema del Regno è tornato almeno tre volte nel capi­ tolo (4,11 .26.30). L'aùto'ic;, qui come in 4,2 e in 2,2, indica la moltitudine, i TioUoL Koc9wc; �òuvavto OCKOUE LV, ((come>> o ((secondo che potevano comprendere>>. Questo breve inciso ci riconduce ai vv. 10-12, nonché alla massima ripetuta due volte in 4,9 e 23 («Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti !») . Non è la sfumatura della capacità, ma quella della responsabilità che bisogna conferire qui all'uso del verbo �ouvocvto. La possibilità o impossibilità di ascoltare dipende dalla qualità dell'acco270

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

glienza nell'ascolto della fede. Si confrontino gli usi dello stesso verbo in collega­ mento con la fede in Mc 6,5-6; 9,22-23; 10,26-27; 14,36. In Giovanni, Paolo o Gere­ mia si ritrova questo stesso verbo ausiliare che, con la negazione, esprime il rifiuto di credere: Gv 6,60: �KÀTJp6ç Èanv ò Àoyoç oùtoç· tLç Mvoctln ocutou aK:o& w («questa parola è dura. Chi può ascoltarla?>>) e 12,39: ou't tofrm OUK �Mvocvto TTLOtEDELV, seguito dalla citazione di Is 6,9-10; cf. 16,12. Per Paolo, cf. 1Cor 3,1-2. Per Geremia, 6,10: «l loro orecchi sono incirconcisi ed essi non potranno ascoltare», ou OUVTJOOVtOCL aKODE LV; 20,1 1: liux tOUtO Èli(wl;;ocv KOCL VOTJOOCL OUK �Mvocvto; 22,21 («essi non possono comprendere>>), ecc. Marco ricapitola così la tensione essenziale al cuore del capitolo: il seminatore dona, ma la fruttuosità della sua azione dipende dalla qualità dell'accoglienza. Il verset­ to successivo ripete in un certo modo la stessa cosa, ma ricorda la cernita operata. «Non parlava loro senza parabole>>. Questo frammento richiama il ricordo concreto di Gesù con il suo modo di parlare, ma ritorna anche su ciò che questo linguaggio parabolico ha operato a livello degli ascoltatori, come è stato raccontato e spiegato in 4,10-12. La for­ ma e il contenuto della parabola contengono questo effetto: la divisione degli uditori. La storia della comunità cristiana in relazione con le comunità giudaiche nel corso di quasi mezzo.secolo determina il senso da attribuire alla cernita effettuata. «Ma, in privato, spiegava tutto ai suoi discepoli». Solo Marco, fra gli evange­ listi, ha questo verbo quasi tecnico ÈTTLÀDELV per dire «spiegare» o «interpretare» una parabola, un sogno, una visione. Il mivtoc, collocato alla fine, ricorda quello incontrato in 4,1 1. Agli altri, al di fuori, «tuttO>> resta velato, «qUi>> tutto viene spie­ gato. Due volte in quest'ultimo versetto ricorre il termine 'LiiLDç, il che sottolinea il carattere privato di questo insegnamento al secondo grado. Così Marco conserva il ricordo di una forma di insegnamento del Gesù storico, con cui, accanto al discorso essoterico, Gesù ha formato i suoi in base a un modello più esoterico. Ma l'evan­ gelista riproduce questa struttura di comunicazione incorporandola ai propri scopi, che sono di ordine catechetico e iniziatico. Comparando i versetti di apertura del discorso parabolico con quelli della conclusione, si scopre un movimento che va dalla moltitudine ad alcuni, dalla fol­ la ai discepoli, dall'esterno all'interno e da un'incomprensione alla spiegazione di ogni cosa. Questa dinamica attraversa tutto il discorso parabolico, ma riflette an­ che, come in uno specchio, il modello di comunicazione di tutto il racconto evange­ lico, con il suo progetto specifico di catechesi iniziatica.

4,35-41 . Racconto di transizione. La traversata del lago e la tempesta sedata

Il racconto della tempesta sedata occupa un posto intermedio fra il discorso parabolico e i tre miracoli che saranno raccontati al capitolo 5. Si assiste a una pic­ cola digressione che, da una parte, prolunga la conversazione in disparte con i soli apostoli, segnalata durante e alla fine del discorso parabolico, e dall'altra, annun­ cia i grandi miracoli del capitolo successivo. Questo racconto partecipa al contesto precedente per l'aspetto didattico che contiene all'indirizzo dei discepoli, ma, come racconto di miracolo, annuncia i racconti meravigliosi che seguono. La sua posizio­ ne intermedia fra due sezioni - una sezione di insegnamento mediante la parola e Il discorso parabolico: Marco 4, 1 -34

271

una sezione nella quale il maestro illustra la sua autorità con atti di potenza - e la sua partecipazione sia a ciò che precede sia a ciò che segue permettono di ricono­ scergli la funzione di una transizione letteraria. Come la guarigione del lebbroso nel capitolo precedente si aggiungeva a una sezione chiusa da un sommario (1 ,39) e serviva da introduzione alle serie delle controversie che segue, così il racconto della tempesta sedata segue la conclusione del discorso in parabole (4,33-34) e introduce i tre miracoli del capitolo 5. In Marco vi sono sette «racconti di transizione».33 Que­ sto è il secondo che incontriamo. La vecchia critica delle forme ha etichettato un po' troppo sbrigativamente questo racconto come «racconto di miracolo», per poi collegarlo agli altri tre rac­ conti dello stesso genere.34 In realtà, come vedremo, i tre racconti che seguono for­ mano un tutto organico, e i discepoli giocano in questi racconti unicamente il ruolo di testimoni. Invece, nella tempesta sedata, sono i diretti destinatari sia dell'azione sia dell'ultima parola che Gesù rivolge loro alla fine. 4,35-36: Kat ÀÉyH aùroi.ç EV EKE LV1J tii �iJ.Épr;t 611t(aç yEVOiJ.ÉVT\ç, �LÉì..9WiJ.EV E tc; rò 1TÉpav. 3�at &; «non sono solo i miracoli a seguire lo stesso sviluppo. Così per la predicazione>>, e compara di nuovo, su due colonne, Mc 1,21-22.27 con 6,1-2.

Ktx.L EòaÙç to'iç o��OLV E toeÀ9wv dç t�v ouva.ywy�v éo(Oa.oKEV. 22 Ka:t Él;eTil"l)ooov-ro ÉlTL •ti oLOa.Xti a:u-rou, ..

6,1 Ka:t EPXEt!U e tc; t�v 1Ttx.tp(Oa. a:u-rou, 2 Ktx.L yevOj.lÉvou aa.�tou i\p�«to OL«5!iOKE LV EV tfl ouva:ywyti, KO:L TIOÀÀOL tXKOUOV'tEç Él;enl"l)ooovto ÀÉyovteç,

27 Ka.t É9a:�1)9'100:V UTIO:VtEç Wo'tE ouç'ltELV 1TpÒç ka.u-roÙç ÀÉyov-ra:ç· T( Éonv -rou-ro; OLoa:x� Ka.Lvi] Ka:-r' Él;ouo(a:v·

II69Ev tou-r4J ta:ut!i KO:L tLç � oo(a: � oo9etoa. tou-r4J, Ktx.L tOLç TIVEUj.ltx.OL tOLç tXKa:a!ip'tOLç È1TL tcXOOH, KO:L a.l OUvcfj.lE Lç 'tOLtx.Uttx.L oLà. twv XHpwv a:utou ywoiJ.Eva.L; KO:L ll'TTO:KOUoUOLV a.u-r4ì.

Che cosa concludere da questo triplice accostamento fra Mc 1,21-27 e Mc 4,5 e

6? Per il p. Lagrange si trattava di confutare le conclusioni di p. Wendling. Quest'ul­

timo riteneva che questi paralleli dovessero essere attribuiti ad autori diversi. La­ grange ribatte: «Un autore ha il diritto di imitare se stesso>>. Ma a livello della re­ dazione di Marco, questi accostamenti lasciano intravedere almeno tre osservazio­ ni supplementari. Anzitutto, Marco presenta la sedazione della tempesta come un esorcismo. Infatti la forza o l'autorità di Gesù sui demoni si estende anche al vento e al mare, le forze cosmiche. Questo episodio lo rivela sempre più. In secondo luo­ go, la reazione delle persone nella sinagoga al capitolo l e poi la reazione di quelle nella sinagoga al capitolo 6 registrano una tappa intermedia nella reazione dei di­ scepoli nella barca al capitolo 4. Questi tre passi, nei quali ci si chiede con stupore chi sia questo Gesù, costituiscono uno dei fil rouge che attraversano tutta la narra274

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

tio (da 1 ,14 a 6, 1 3) e preparano direttamente la parte successiva, l'argomentazione (da 6,14 a 10,52), dove la domanda fondamentale verrà posta in testa: chi è Gesù? (6,14-16; cf. 8,27-29). In terzo luogo, bisogna riconoscere che la scena descritta in Mc 1,21-28 è senza dubbio fondamentale: è come la matrice che genera molte altre varianti, indipendentemente dai generi (miracolo sulla natura, altro esorcismo e al­ tro insegnamento). Questo primo quadro dell'attività di Gesù (eliminato tuttavia da Matteo) contiene già agli occhi di Marco tutto ciò che segue. Nella comparazione si potrebbero notare anche i tre dettagli che non hanno paralleli con Mc 1,21-28: il fatto che Gesù orienti l'azione dando all'inizio un ordine e poi diventando completamente passivo; l'apostrofe (, al c. 4, e «Gesù il Nazareno, il santo di Dio>>, al c. l); infine, il tema della fede, contrapposto a quello della paura. Questi tre tratti collegano l'episodio al suo contesto immediato: all'in­ segnamento precedente () con le parabole (specialmente alla quarta, nel­ la quale l'agricoltore che ha seminato ) e alla sequenza che segue, dove la paura e la fede saranno esplicitamente tematizzate (cf. 5,34.36: ). Gesù e l'altra riva

Stupiamoci. Gesù, profeta itinerante, desideroso di riunire le dodici tribù e di prepara­ re così tutto Israele alla venuta prossima del Regno, dà l'ordine di attraversare il lago. Là c'è una regione che non è affatto giudaizzata ed è organizzata in un progetto politi­ co agile, sottratto al potere dei discendenti di Erode il Grande, la cosiddetta Decapoli. Che cosa va a fare là? I vangeli, a cominciare da Marco, hanno conservato questo dato. Un secondo passaggio nella regione verrà segnalato in Mc 7,31 («Ritornando dal pae­ se di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli>>). È un movimento dello stesso genere di quello che troviamo altrove, cioè a un certo mo­ mento Gesù va verso nord e prosegue fin nella regione di Tiro e di Sidone? Molto pro­ babilmente questo movimento verso nord è piuttosto una fuga o un ritiro, nel quale egli forma soprattutto i suoi ma riflette anche su quello che è stato chiamato «il fallimento galilaico>>, l'entusiasmo della folla senza discernimento, da una parte, e il rifiuto ostenta­ to delle persone religiose, in particolare scribi e farisei, dall'altra. Qui non si ha l'impressione che fugga o, se fugge, è una fuga in avanti: allarga brusca­ mente il suo raggio d'azione e tenta una predicazione presso gli altri, la gente che vive là di fronte, i pagani. Quando, in occasione di una carestia, la Bibbia racconta che «Un uomo con la moglie e i suoi due figli emigrò da Betlemme di Giuda nei campi di Moab» (Rt 1 ,1 ), tutti i commentari tradizionali ebraici esprimono una forte riprovazione. Non si lascia così la terra santa! Se Gesù lascia la terra santa e attraversa il lago o si spinge verso nord oltre i confini della Galilea, lo fa perché c'è una crisi profonda o perché pensa a una vera e propria missione anche in mezzo ai non giudei. La grande coscienza messiani­ ca contiene sempre una doppia prospettiva: alla venuta del Messia tutto Israele sarà salvato, ma anche tutte le nazioni riconosceranno questa salvezza e, in un certo sen­ so, questo non le riguarderà di meno. 36 L'episodio non può non indurre a interrogar­ si sul progetto che Gesù ha potuto avere passando così all'altra riva. Nella sua predì-

� E. P. SANDERS, Jesus and Judaism, London 1985, 212-221. Nei commentari ebraici tradizionali del primo versetto del libro di Rut, il fatto che Elimelech lasci la terra santa per emigrare in una terra pagana viene generalmente qualificato come tradimento. Lasciare la terra, anche al tempo della prova, come in occasione di una carestia, fa problema. Si ha quindi il diritto di interrogarsi quando si vede Gesù oltrepassare, a più riprese, i confini del paese sia verso est sia verso nord.

Il discorso parabolico: Marco 4, 1-34

275

cazione non solo sarebbe potenzialmente presente un universalismo, come si è spes­ so sottolineato, ma avrebbe anche assunto forme molto concrete in una predicazione che non escludeva né il pagano né il samaritano (cf. Gv 4 e Le 9,5 1-56; 10,33; 17,1 -19). L'espressione solletica anche per il fatto che in molti testi orientali, specialmente buddi­ sti, «l'altra riva>> indica la grande coscienza, nella quale tutti i particolarismi sono inte­ grati e oltrepassati al tempo stesso. Così, nel contesto contemporaneo della ricerca del dialogo interreligioso, il comando di Gesù di «passare all'altra riva» acquista una nuova risonanza, come una provocante sfida.

Da questo momento i discepoli prendono in mano la situazione. Pur avendo dato l'ordine di attraversare, Gesù diventa d'un tratto stranamente passivo: «Essi lQ prendono (conducono)» all'accusativo (1TapaÀaiJ.I3tivouatv aùt6v, cf. 7,4; 9,2.40; 10,32; 14,33; normalmente è Gesù che «prende» i discepoli con sé, specialmente alla trasfigurazione, 9,2). Questa passività sarà sottolineata anche in seguito, presentan­ do Gesù addormentato in mezzo alla tempesta. Gesù è come assente nell'azione propriamente detta. Questo contrasto fra prendere l'iniziativa, da una parte, e la­ sciarsi gestire nella più totale passività, dall'altra, è indubbiamente il punto nevral­ gico del racconto. Come nelle parabole precedenti, è in questo genere di tensioni che bisogna cercare il significato ultimo del racconto.37 4,37-38: Kaì. YLII€tln )..at)..a1!J IJ.EYaÀ.TI à:l'É!Jou Kaì. tèt Kll(Ja-ru È1TÉ13a.UEv ELç -rò dol.ov, wa-rE �ò11 YEIJL(Ea8at -rò 1TÀ.ol.ov. 38Kaì. aù-ròç �v Èv •iJ 1TpUIJ.VU E1TL -rò 1TpOOKEcfJ&.ÀaLOV Ka8EUÒWV. KaÌ. ÈyELpOUO LV aÙ'tÒV KUÌ. À.Éyouatv UÙ'tQ, tltò&.OKUÀ.E , OÙ IJ.ÉÀ.EL OOL on èmoÀ.À.UIJ.ESa; 4,37-38: «Si scatena allora una grande tempesta di vento e le onde comi nciarono a gettarsi nella barca in modo che essa già si riempiva. Ed egli era a poppa, sul cusci­ no,

e dormiva. Essi lo svegliano e gli dicono: «Maestro, non t'importa che noi pe• namo ?. ». v. 37: KaÌ. y(vE-rat (presente storico) Àal.Àatjl 1-J.EyaÀ.ll avÉIJ.OU, letteralmente «Un grande turbine di vento». Per Àal.Àatjl cf. anche Le 8,23 (testo parallelo a M c) e, in senso figurato, 2Pt 2,17 («nubi agitate da un turbine»). Matteo (8,24) parla di un grande «sconvolgimento» (aELOIJÒç (JÉyaç, cf. Mt 27,51; 28,2), quasi uno tsunami! Il genitivo &vÉ!JOU stupisce un po', non è né semitico né un greco molto letterario, e apparterrebbe, secondo Lagrange, al greco parlato. Notiamo comunque che Luca lo ha tranquillamente ripreso tale e quale. Del resto, la menzione del vento non è superflua, come si mostrerà il seguito (vv. 39.41). Lagrange conosce i luoghi: «Il lago di Tiberiade è come un catino circondato da montagne;38 i venti violenti di sud­ ovest penetrano dalla parte bassa meridionale e scatenano vere tempeste; le onde, corte e fitte, rischiano di superare il bordo dell'imbarcazione. La barca era proba­ bilmente piuttosto carica, contenendo i Dodici con Gesù» (123). La descrizione di

37 In Mc 14,12-16 c'è un racconto invertito rispetto a questo: n sono i discepoli a prendere l'inizia­ tiva e a diventare subito dopo totalmente passivi, perché tutto sembra già meravigliosamente previsto . In entrambi i casi, il narratore drammatizza gli effetti e rivela indirettamente la statura del profeta al centro dell ' episodio. ·" Cf. Z. BIEVER, Au bord du lac de Tibériade, Conferenze di Saint-Etienne, 1909-1910. 27(5

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

Marco sembra fedele: «le onde cominciarono a gettarsi nella barca in modo che essa già si riempiva>>. Matteo vede le onde già ricoprire la barca . . . Per il vocabolario: KUIJ-0:, cf. Mt 8,24; 14,24, Gd 13. I l verbo E1T��ci.t�.nv, «get­ tare sopra» (cf. Mc 1 1 ;7; 14,46.72} viene usato qui in modo intransitivo e con la preposizione Etc; ha il significato di «gettarsi in» (Moffat, citato da Taylor, traduce: «splashed into the boat» ) . L'imperfetto è incoativo: «esse cominciarono a» o «Si misero a . . . ». �611 («già»}, prima occorrenza (cf. Mc 6,35 [2 volte] ; 8,2; 11,1; 13,28; 15,42.44). YEfJ.L(ELv, (cf. Mc 15,36). Vale la pena comparare questo versetto di Marco con la storia di Giona: KlxL Kup LOç €ç�ynpEv 1TVEUf.lll E te; t�v a«J..aooav KllL EYÉVE'tO KÀUÙWV f.l.Éyac; EV •u eaJ..cioon KllL 'tÒ 1TÀOLOV EK�VIiUVEUEV ouv-rp �pf)va� (Gn 1 ,4). La differenza è eloquente: qui ci viene detto fin dall'inizio che il vento è mandato dal SIGNORE. In Marco nulla del genere. La questione si pone, ovviamente, come si vedrà all'altro capo dell'episodio evangelico. In Marco non si conose la causa, ma solo l'effetto, che è strettamente parallelo a Gn 1,4b (in Le 8,23 viene espressa la stessa idea di «pericolo» come in Giona: Kat EK �VIiUVEuov). v. 38. «Ed egli era a poppa, sul cuscino, e dormiva» (Kal au-ròç �v Èv -rfl 1TpUf.1V1J E1TL -rò TTpoaKEijliXÀaLOV Kll9Euliwv). Solo Marco ha conservato questo tratto colto sul vivo. Anche Giovanni parla di un Gesù affaticato che si siede accanto a un pozzo nell'ora più calda del giorno (Gv 4,6).39 La costruzione perifrastica sottolinea la durata del sonno e qui ha il felice effetto di isolare al termine della frase il verbo «dormire» (Ka9Euliwv). La poppa (1TpUf.1V11} e il cuscino (TTpOOKE!jlaJ..a LOv) non solo aggiungono profondità al sonno, ma esprimono anche tutto il carattere scandalo­ so della cosa. Come può Gesù dormire così tranquillamente e comodamente, e per giunta nel luogo in cui il pilota della barca deve dirigere le manovre? È steso con la testa sul cuscino e dorme proprio là dove il comandante dovrebbe tenere il timone in mano e dirigere le operazioni . . . Marco scrive con pochi mezzi, m a con ricchezza di effetti. Il suo gusto del con­ creto è al servizio del contrasto: il Maestro ha dato l'ordine di fare la traversata ed eccolo ora dormire profondamente in mezzo alla tempesta. Il succo del racconto deve essere cercato in questo contrasto, sottolineato dal narratore. Non siamo evi­ dentemente lontani dal paradosso incontrato nella quarta parabola. Là, l'agricolto­ re che ha seminato viene presentato in seguito addormentato e il racconto precisa: «D �rma o si alzi, da se stessa la terra porta frutto». Qui Gesù ha seminato una pa­ rola, dato un ordine, quello di attraversare il lago, ed ecco che anche lui si mette a dormire . . . Che ne sarà dell'ordine dato e di tutti coloro che sono impegnati nella stessa barca, compreso lui stesso? L'uomo di Dio che dorme in una barca in mezzo alla tempesta è una scena che possono subito riconoscere tutti coloro che hanno una memoria biblica ben esercitata. Gesù che dorme assomiglia al profeta Giona, il quale dorme nella stiva della nave che lo conduce a Tarsis. Iwvac; liÈ Ka-rÉP11 E Lç t�v KOLÀ11V -roiì 1TÀOLOU Kat EKa9Eu&v Kal EPPfYXEV (1 ,Sb LXX: ). La domanda suona come un rimprovero. Non c'è più nulla del genere in Matteo e Luca. Ma in Le 10,40 sentia­ mo Marta formulare un analogo rimprovero a Gesù (KUp LE, où j..LÉÀE L OOL on . . . ) . Lo scarto fra ciò che Gesù può provare e ciò che essi provano è enorme. Si pensa ai discepoli di Emmaus: «Sei il solo forestiero a Gerusalemme per non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?>>. Se c'è uno che sa, e dall'interno, tutto ciò che è accaduto, questo è proprio il loro interlocutore . . . La tensione così raccontata è drammatica in entrambi i casi. Essa è al servizio del riconoscimento mediante la fede. Indirettamente il testo dice: se tu credi ed effettui il riconoscimento di chi è realmente Gesù, potrai sperimentare quanto ti sia sempre vicino, nell'estremo peri­ colo. Si pensi al dialogo fra il monaco Antonio il Grande, tormentato tutta la notte dai demoni, e Cristo: «Dov'eri? - Ero qui, vicino a te, nel cuore della tua prova!>>.40 La fede può capovolgere l'espressione dei discepoli e affermare: «Noi periamo e tu ti curi ancora di noi>>, perché tu hai tutto in mano e continui a prenderti a cuore la nostra storia. Macario di Scete insegnava che per pregare non bisognava usare mol­ te parole, ma stendere le mani e dire: «Siccome tu sai e siccome tu vuoi, abbi pietà di me». E se la battaglia continuava, consigliava di gridare: «Signore, aiuto!>>. E il monaco aggiungeva, quale testimone che lo aveva sperimentato: «Egli conosce ciò di cui abbiamo bisogno e ci usa misericordia».41

4,39: Kcxì. ùLeyepSeì.ç E1TE"tLIJTJoev •4ì à.vÉ!Jc.p Kcxì. ei1Tev •n ecxMioau. �Lw1Tcx, 1TEL!Jwao. KCXÌ. ÈK01TCXOEV O aVEIJOç KCXÌ. ÈyÉVE"tO ycxÀ�VIl f!EyaÀT].

40 ATANASIO,

Vita Antonii 20. 41 Gli apoftegmi dei padri, serie alfabetica, Macario, n. 278

19.

La narratio: Marco 1, 14-fi, 13

4,39: «Essendosi sl'egliato, minacdò il 1'ento e disse al mare: "Silenzio! T ad!". E il 1'ento cadde e si fece una grande calma». v. 39. «Essendosi svegliato, minacciò il vento e disse al mare>> (KIÙ oLEyepeetc; È1TEt"L!J.T)CJEV ti\} avÉ!J.� KO:L ELTIEV tfl ea:Mioon). Il parallelismo è sorprendente e quasi poetico. Wellhausen ritiene che :tU ea:Mioon sia stato aggiunto. Ma non è mu­ tilare lo stile di Marco? Al termine del versetto si troverà l'effetto pacificatore sui due elementi, il vento e il mare, e anche la riflessione stupita dei discepoli alla fine riguarda entrambi. Il verbo È1THLIJ11QEV è quello di cui si serve più spesso Marco per comandare ai demoni (cf. 1 ,25; 3,12). «Silenzio! Taci! >>. Nuovo caso della famosa «dualità in Marco>> (Neirynck, Duality). L'asindeto aggiunge ulteriore forza alla locuzione. Il 1TE!jl(!Jwoo ricor­ da l'ordine dato in occasione del primo esorcismo nella sinagoga di Cafarnao: ljlL!JuSe1ln (Mc 1 ,25). Stesso verbo. Gesù comanda al vento come a un demonio e apostrofa direttamente il mare come un soggetto personale. In Giona (1 ,4) il vento era stato mandato da Dio. Qui si è alzato, senza altre precisazioni. Nei salmi Dio comanda al mare e calma i flutti. Nel Sal 88,9-10 LXX: KUpLE ò eEòc; twv ouva!JEWV 'tLç IJjJOLOç OOL ouva:tòç eL . . où OE01TO(Hç tOU Kpatouç tftç ea:Mioonç tÒV OÈ oaì..ov twv KUf.Latwv a:ùtftç où Kata:1Tpauvw; («Signore, Dio delle potenze, chi è pari a te nella potenza [ . . . ). Tu sei padrone della forza del mare e il ribollire delle sue onde sei tu a placarlo>> ). Nel Sal 106,23-32 Dio parla e subito si scatena la tempesta (v. 25), poi dà un nuovo ordine e subito tacciono le onde (v. 29). Ka:Ì. ÉKOrraoEV ò ttVEIJ.Dc; KaÌ. ÉyÉVEto ya:l�VT) f1EY&À1l. «>. I due tratti si confermano, causa ed ef­ fetto si seguono. Ma soprattutto Marco ottiene una radiosa armonia con le ultime due parole riunite e poste saggiamente alla fine: yaì..�VT) IJ.EYUÀ.11. Taylor osa scrivere: «con inconscia abilità artistica». Non è forse dire troppo e troppo poco? L'espressione giusta non è ricercata e tuttavia piena di effetti. In realtà, queste due parole con le loro sillabe lunghe e aperte sono particolarmente indicate per rendere alla fine la calma prodotta. Questo capita varie volte in Marco e lo si può ottenere solo con un esercizio perseve­ rante. Luca ha semplicemente Ka:Ì. ÉyÉVEtO yaÀ.�VT), mentre Matteo non riprende affat­ to Marco su questo punto. Ma fin dall'apertura Luca si discosta da Marco, rendendo il suo ì..a:'ì.ì..a.ljl f.LEY&À1l Ò:IIÉIJ.OU semplicemente con ì..a.U.aljl Ò:IIÉIJ.OU. Matteo, da parte sua, parla di OELO!J.Dc; jJÉyaç. Perciò in Marco l'aggettivo f1EY&À1l alla fine dell'episodio inter­ viene in modo più giusto rispetto a tutte le dimensioni del racconto. Quindi la cosa non è né inconscia né artificiosa, ma condivide la bella precisione di una calligrafia cinese.42

4,40-41: Ka:Ì. EL'ITEV aùtoi.ç, T( & Lì..o ( ÈotE; ounw EXEtE n(onv; 41mì. Èljlo��e,aa:v tfJOpov jJÉya:v KO:Ì. EÌ..Eyov npòç &U�ì..ouç, T(ç &pa: oùt6ç Èonv on Ka:Ì. o ttVEjJOç Ka:Ì. � e&ì..aaaa \maKOUE L a:Ùtl\); 4,40-41: «Poi disse loro: "Perché avete così paura? Non avete ancora fede?". ADora essi furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: "Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?"».

42

Si può ricordare che l'agge t tivo f.lfyuç ricorre molto spesso in Giona (oltre 10 volte) e vi gioca sempre al termine della frase, in

un ruolo fondamentale. Cf., del resto, l'effetto dello stesso aggettivo Mc 16,4.

Il discorso parabolico: Marco 4, 1 -34

279

vv. 40-41 . Dopo aver parlato agli elementi cosmici, ora si rivolge ai discepoli. «Disse loro», all'aoristo, tempo narrativo semplice: T( OHÀOL EOtE outwç; OU1TW EXEtE llLOtLV. Il testo ha sofferto nella sua trasmissione e non mancano le varianti. Nel primo membro, l'outwç manca in molti manoscritti (fra cui B N D L t:. 0). Dove è attesta­ to, non occupa sempre la stessa posizione: a volte precede ÙE LÀOL (P45), a volte si trova aUa fine (W). Nel secondo membro, l'oi'i11w (lectio difficilior) è a volte cambia­ to in 11wç où. Il testo di Matteo (T( OELÀOL E:otE) può aver influenzato l'eliminazione di outwç, che mostra ancora il rimprovero rivolto ai discepoli. Anche la giustappo­ sizione di outwç e OU1TW ha potuto influenzare sia l'eliminazione del primo (variante di un caso di aplografia) sia la modifica del secondo. Luca evita tutto questo � mette in bocca a Gesù una domanda nettamente più neutra: «Dov'è la vostra fede?>> (cf. Le 19,6: «> in Marco. Il T( ha il significato di 11wç come in Mc 4,24. «Che cosa (avete a) essere così pusillanimi?>> corrisponde a «Come (potete) essere così pusillanimi?>>. «Non avete ancora fede?>>. Quest'ultimo tratto, con la sua nota cronologica curiosa e difficile, rinvia al contesto precedente. Là, per la prima volta, il maestro li aveva redarguiti: «Non comprendete questa parabola? Come comprenderete tutte le pa­ rabole?» (4,13). Le parabole, ben comprese, avrebbero dovuto mediare l'intelligen­ za della fede e introdurre alla comprensione del mistero. Soprattutto la parabola dell'agricoltore che dorme (4,26-29) avrebbe dovuto impartire loro una lezione di fiducia e consolidare la loro fede. La loro reazione dimostra che non sono ancora là. Per loro la fede sarà un cammino. Il testo di Marco prenderà il tempo necessario per educarli, per almeno otto capitoli, prima che uno di loro giunga a confessare chiaramente chi è Gesù (cf. 8,29). I discepoli nel racconto, e quindi anche il discepo­ lo della comunità di Marco, scoprono che la fede passa attraverso delle prove. Qui il Maestro è il primo a credere e ad attraversare tranquillamente la prova. Arrive­ ranno a credere basandosi sulla fede di Gesù? Di fronte alla fede c'è la timidezza della paura. Cf. 2Tm 1 ,7 per il sostan­ tivo OHÀLa («Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma uno spirito di for­ za [MvafJ. Lç] , di amore e di dominio di noi stessi. Non vergognarti quindi della testimonianza . . . >>). Vediamo che, con questa apostrofe, Gesù cerca di formarli, perché giungano a «non vergognarsi del Figlio dell'uomo», come dirà loro in Mc 8,38. Anche la domanda che si porranno nel versetto successivo allinea la fine di questo episodio su tutto il seguito, la parte centrale di Marco, quella che l'anali­ si retorica ha evidenziato come l'argomentazione propriamente detta. Qui, nella narratio, Marco sparge già elementi che preparano la questione dell'identità di Gesù, tema principale della prima parte dell'argomentazione, e la questione del­ le esigenze che comporta il seguire Gesù, tema sussidiario, sviluppato nell'ultima parte dell'argomentazione. D'altronde, il rapporto antitetico fra paura e fede, te­ matizzato qui per la prima volta, ritornerà in forma ancora più esplicita nel corso del capitolo seguente.43

43 L'antitesi è stata oggetto, neU'opera di M. B ELLET, La peur ou la foi, Desclée, Paris 1966, di una rifiessione che assume e prolunga il pensiero di Marco.

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La narratio: Marco 1, 14-6, 13

Questo racconto, inserito fra due. sezioni, come una pausa, ha certamente an­ che una sua pertinenza attuale per la comunità di Marco: deve aver operato come uno specchio. La comunità può scommettere pienamente su Dio e su Gesù. Anche se quest'ultimo sembra assente, addormentato, morto, crocifisso, non perdiamo la fiducia. Egli ha preso l'iniziativa. Essa riuscirà: la fine è assicurata e vittoriosa. Le tre parabole della semina lo hanno illustrato ampiamente. Credere è proprio que­ sto: conservare la fiducia in qualsiasi situazione. Il primo credente, colui che testi­ monia gioiosamente la sua fede, è il narratore delle parabole. In mezzo alla tempe­ sta egli ha dimostrato che la sua fede in Dio è incondizionata. Il racconto termina sulla reazione dei discepoli, prima raccontata e poi verba­ lizzata nel loro stupore incuriosito: «Allora essi furono presi da grande timore (KIÙ È> con sé alcuni discepoli (4,36 e 14,33). In entrambi gli episodi è scesa la sera. Qui, sul lago, Gesù dorme, i suoi discepoli lottano con la paura di perdere la vita a cau­ sa della tempesta, mentre egli è con loro nella stessa barca. Nell'orto del Getsemani, Gesù in agonia lotta con l'angoscia di dover morire, mentre i suoi discepoli dormono, incapaci di vegliare un'ora con lui, nonostante che per tre volte Ii abbia risvegliati dal sonno. La differenza fra questi due racconti riguardo al modo di essere vicini all'al­ tro può aprirci gli occhi. Dio è vicino a noi, fin nella nostra agonia, molto più vicino di quanto possiamo percepirlo, poiché compare nel suo Figlio al nostro fianco nella stessa barca. E noi, esseri umani, come riusciamo a essergli vicino? Il Messia conosce perso­ nalmente le angosce della morte, ma noi siamo in grado di restargli vicino e di veglia­ re un momento con lui? In ogni uomo che lotta con la vita e la morte, Dio stesso è in agonia. Perciò ha senso vegliare, anche solo un'ora, al suo fianco. Il salmo ci ricorda: «E preziosa agli occhi del SIGNORE la morte dei suoi amici . . . ». Un altro dice: «Beato chi pensa al povero» e accetta di «essere con lui>>, in tutta semplicità (cf. Mc 3,14). La fede implica il sapere che egli ci è vicino nell'ora in cui la paura della morte ci coglie e il riconoscerlo quando un altro, chiunque sia, patisce le stesse angosce davanti alla fine irrimediabile. La fede ci consente in entrambi i casi di , secondo l'espressione di Benedetto da Norcia nella sua Regola (RB 4,72). Ricordiamo ancora che i due testi, ambientati nella notte, evocano immediatamente la situazione dei lettori/destinatari che vegliano nella notte pasquale.

44 I contatti lessicali con il libro di Giona sono ancora un po' più numerosi, se si considerano i paralleli in Luca e in Matteo. Cf. Gn 1,4 e Le 8,23: Etewliuv�uov e v. 24: tQ te Àuowv t. In Matteo, in con­ clusione si Ieg_ge in 8,27: ol OÈ &v6pw11m E9alij.l«oav, il che ricorda l'ultima frase di Go l, nella Settan­ ta (1,19: te«L �oj31)el]o«v ot &vop�ç . . . ; in certi manoscritti della Settanta o l &vlipeç è cambiato in ol &v6pw11m). Per Matteo, alla fine, è l'uomo che riconosce il suo Signore e suo Dio. Altre tradizioni in Matteo e io Luca ritornano su questo parallelo fra i due profeti galilei, Gesù e Giona (cf. Mt 12,39-41 // Le 11 ,29-30.32). Occasionalmente, Gesù stesso, presentandosi, ha potuto basarsi su quest'altro profeta del nord. Su questo punto, qui Marco è solo un testimone fra gli altri. ·

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La narrati : Marco 1, 14-6, 13

FIN E DELLA SECONDA SEZIONE DELLA NARRATIO: MARCO 5, 1 -43

n capitolo 5 di Marco forma una grande composizione unitaria che chiude la narratio. Nell'arco che va da 3,20 a 5,43 costituisce la terza e ultima parte, il pendant di Mc 3,20-34, permettendo così di centrare in questa sezione il grande discorso parabolico. 1 Rispetto alla disposizione di tutta la narratio questo capitolo chiude il tutto, ricollegandosi in modo sorprendente con i primi episodi, raccontati al capi­ tolo l. Così vedremo che l'esorcismo nella Decapoli (5,1-20) contiene varie remini­ scenze del primo esorcismo nella sinagoga di Cafarnao (1 ,23-27) e si può stabilire un parallelo anche fra la guarigione della suocera di Pietro in privato in 1,30s e la risurrezione della figlia di Giairo, sempre in privato, alla presenza degli stessi disce­ poli testimoni, in 5,38-43. Gli episodi si concatenano in modo coerente e continuo nel tempo, come nella sequenza dell'inizio (1,21-39), mentre non è più così per ciò che viene raccontato a partire da 1 ,39. Si ritorna quindi a una sequenza cronologi­ ca, semplice e forte, come all'inizio del racconto. Subito dopo l'ultimo episodio del capitolo 5, Marco colloca un nuovo dittico, il terzo, su Gesù e i discepoli. Esso si ri­ collega al primo (1,14-20) e a quello posto al centro della narratio (3,7-19). Insieme queste tre unità inquadrano la narratio con le sue due grandi sezioni che vanno da 1 ,20 a 3,6 e da 3,20 a 5,43.2 Marco chiude la narratio in bellezza, con racconti ampi, dettagliati, attraversa­ ti da un sorprendente paradosso. L'elemento sensazionale si sposa con l'elemento eminentemente discreto e segreto. La potenza messianica di Gesù è più forte di tut­ to ciò che abbiamo visto o ascoltato finora, ed è anche più discreta di quanto possia­ mo immaginare, operando in modo quasi impercettibile. Al centro della composi­ zione e come incrostato nella trama dell'ultimo episodio con il capo della sinagoga, Marco ha collocato il racconto della guarigione della donna che perdeva sangue da ben dodici anni. Nel violento contrasto fra la sua fede, che tocca ed è toccata, e l'at­ teggiamento sia della folla che dei discepoli che circondano il Maestro e addirittura lo schiacciano ma senza aver accesso alla sua forza, l'evangelista ci trasmette la sua filosofia del giusto rapporto con l'evento Gesù. Così il tema della fede, annunciato nell'episodio precedente della tempesta sedata («non avete ancora la fede ?», 4,40), è il filo conduttore di questa grande pagina. Si ricollega con l'apertura di tutta la narratio («convertitevi e credete alla buona novella>>, 1,15) ma esplicita per la prima volta tutte le implicazioni di questo atteggiamento che permette di accedere alla

1 Cf. supra, pp. 97ss. 2 Cf. supra, pp. 99ss.

Fme della seconda sezione della narratio: Marco 5, 1-43

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salvezza («la tua fede ti ha salvata», 5,34).3 Leggere Marco è, riconoscere questi ar­ chi che egli tende fra vari episodi riuniti, e anche fra le estremità di grandi sezioni o parti del suo racconto. Su questo punto non fa altro che seguire ciò che sì consi­ gliava nei manuali dell'epoca. 4 Anche l'interpretazione dell'episodio molto colo­ rito dell'indemoniato posseduto da sì precisa e approfondisce quando si rilegge il racconto in tutto il suo contesto, in relazione sia a 5,21 -43 sia a 1,21 -29. Il tratto più sorprendente, quando si entra in questo capitolo o si sente leggere il Vangelo di Marco tutto d'un fiato, è certamente l'ampiezza dei racconti. Di solito Marco si accontenta di pochi versetti, da tre a sette, per raccontare una storia, men­ tre qui dedica 43 versetti a tre racconti, e il primo copre un'intera pagina di venti versetti! Un bravo artista, formato nelle scuole di retorica del tempo, doveva essere in grado di fare due cose: dire molto in modo conciso, con la forza della brevitas; ampliare una storia e conferirle volume. In latino si diceva ornare; in greco è - ugualmente - «posseduta da uno spirito impuro». Si tratta di un modo tipico di Marco di presentare un indemoniato (cf. 3,1 1 ; 6,7; 9,25 ) . Si tratta anche ogni volta di ciò che si contrappone più fortemente allo Spiri­ to che abita in Gesù: così «lo spirito impuro>> si trova di fronte allo «Spirito Santo» (cf. 3,29-30) .7 L'impurità dell'indemoniato è come aggravata dal fatto di uscire dai sepolcri, luogo impuro per eccellenza. Per f.LIIT]f.LE'ì.ov («tomba») cf. Mc 6,29; 15,46; 16,2.3.5.8. In seguito, in Marco, il termine compare solo là dove si parla della fine del Battista o della fine di Gesù. Marco conosce anche il suo sinonimo f.LvfJf.La., che ri­ correrà nei versetti seguenti 5,3.5 e in 15,46. L'incontro protrebbe cominciare, come in 1,23, ma il narratore ha deciso diversamente. Ci conduce a una bella digressione - un racconto nel racconto - informandoci sullo sfondo e sulla preistoria di ciò a cui stiamo per assistere. 5,3-5: Oç 't'�V Ka.'t'OLKT)CJLV flXEV ÈV 't'O'ì.ç f.L�j..La.CJ LV, Ka.Ì. oÙOÈ aÀOOEL OÙKÉ't'L OÙOEÌ.ç ÈOUVa.'t'O a.Ù't'ÒV c5iìaa.L 4ÙUX 't'Ò a.Ù't'ÒV 1TOÀMXK Lç 1TÉÙa.Lç Ka.Ì. aÀOOECJLV 0Ec5Éa8a.L Ka.Ì.

vano sapere che le città di Gerasa e Gadara sono lontane dal lago. Invece, a Roma, questi luoghi danno senso all'episodio e l'inesattezza geografica non solo non disturba, ma può servire senza grandi problemi al disegno dell'evangelista. 7 Cf. l'excursus sui demoni in Marco, pp. 26ss.



286

La narratio: Marco 1, 14-{5, 13

OLECJ'!Tao9aL U'IT' aùtoiì tètç aÀUCJE Lç KIXL tètç 'ITÉOaç CJUVtEtp'itf>9aL, KIXL oooùç toxUEv IXÙtÒV Oaj.LlXOIXL . �IXL OLCÌ 'ITIXVtÒç VUKtÒç KIXÌ. �j.LÉpaç ÈV to'iç IJ.tni!J.IXO LV KIXL ÈV to'iç lSpECJLv �v Kpaçwv Kat KataKomwv Éautòv H9oLç. 5,3-5: «Egti aveva la sua dimora nelle tombe e nessuno poteva più legarlo, neppure con una catena, perché spesso era stato legato con ceppi e catene, ma aveva rotto le catene e spezzato i ceppi, e nessuno riusciva a domarlo. E continuamente, notte e giorno, era nelle tombe e sui monti, gridando e tagliandosi con pietre». vv. 3-5. L'uomo «aveva la sua dimora nelle tombe». La proposizione spiega ciò che si è appena detto, cioè che usciva dai sepolcri, il che conferma il suo sta­ to «impuro». Per variare, qui il narratore si serve di un sinonimo per indicare la «tomba» (IJ.VTJIJ.IX, IJ.VT)!J.E'iov). La cosa è tanto più sorprendente per il fatto che nel III e IV secolo i primi monaci cristiani in Egitto scelsero proprio questi luoghi come loro dimora.8 Quest'uomo non viveva nei luoghi riconosciuti per viverci e abitarci, bensì nel luogo della morte e, per un giudeo, dell'impurità. Testi come Is 65,4 o Sal 67(68),6 LXX associano la vita nelle grotte e nelle tombe con un'esi­ stenza impura («abitavano nei sepolcri. . . mangiavano carne suina e cibi immondi nei loro piatti»).

KIXÌ. OLCÌ KUL KIXÌ.

OÙOÈ aÀOOE L OÙKÉtL oÙÙELç ÈOUVIXtO aÙtÒV of)oat tò aùròv 'ITOÀÀaK Lç ;rÉùaLç KIXÌ. ttÀUCJECJLV liEùÉo9aL ou =o mxo9a L im' aùrou rètç (XÀ.UCJELç KUÌ. rètç iTÉOaç CJUvtEtp'itf>9aL OOOEÌ.ç LCJXUEV aùròv oaj.LiioaL .

Si tratta di un paragrafo con una chiara inclusione fra l'inizio e la fine ( «nes­ suno poteva legarlo» e «nessuno riusciva a domarlo»). Al centro si ricordano tutti i tentativi fatti, 'ITOÀMKLç («spesso»), ma senza successo. Si noti la ripetizione in­ vertita di «ceppi» e «catene>>, ottenendo così una figura in chiasmo (;rÉùatç KaÌ. àÀooECJLV, tètç ÙÀUCJE Lç KIXÌ. rètç ;rÉùaç). La preistoria è stata lunga e in definitiva ogni volta infruttuosa. Questa descrizione ha la sua importanza: serve a mettere in risalto la potenza dell'azione di Gesù, il quale riuscirà di colpo là dove tanti altri hanno ripetutamente fallito. Essa illustra anche in modo simbolico l'esistenza pa­ gana abbandonata a se stessa: si tratta di vivere con un demonio locale indomabile. Nel suo grande romanzo I demoni, Dostoevskij descrive come si vive nella società russa del suo tempo e ha posto come esergo a questo romanzo il parallelo lucano del nostro racconto. Evidentemente per il romanziere russo la trasposizione del racconto evangelico nell'esistenza attuale non era difficile. Agli occhi di Marco e della sua tradizione, Gesù va a liberare una regione terrorizzata da una potenza malefica apparentemente indomabile. >, caso unico nel NT, 22 volte nella Settanta), percuotendosi con pietre e mutilandosi, cosa vietata dalla Legge. Da ogni punto di vista, il comportamento di quest'uomo in territorio pagano è l'esatto contrario di una vita ordinata, che osserva i comandamenti della Legge. Il testo è chiaramente redatto partendo dal punto di vista dei giudei sulla vita. Nel­ la parte finale del racconto tutte queste caratteristiche, qui riunite, saranno a una a una capovolte in seguito all'incontro con Gesù. Nel contesto iniziatico che abbiamo supposto per la proclamazione del nostro racconto, questi dettagli diventano molto pertinenti. Ogni ascoltatore di origine pagana si rende conto da dove viene e a qua­ le trasformazione si sta preparando. Il testo, con al centro l'impossibilità di legare l'indemoniato, invita a riflette­ re su ciò che può significare uno stile di vita più o meno «libero>> nei riguardi sia di se stessi sia degli altri. Da una parte c'è Gesù, l'uomo spirituale caratterizzato da una piena libertà filiale; dall'altra c'è questo indemoniato che a livello sociale se­ mina il terrore attorno a sé e a livello personale non ha il controllo di se stesso. Il racconto drammatizza i rapporti e presenta così una tipologia con, alle estremità, l'uomo «pieno di Spirito Santo>> e l'uomo posseduto da uno «Spirito impuro>>. Da Luca (8,27) apprendiamo, inoltre, che l'uomo in questione non accettava neppure di indossare il mantello. L'Incontro e l'esorcismo: w. 6-1 3

5,6-8: KIXL i.owv tÒV 1T]OOUV ciTTò j.LIXKpOSEV EOpa.j.LEV KIXL TTpOOEKUVTJOEV a.Ùt(\ì 7Ka.t

Kpliça.ç wvtJ IJ.EyaJ..u ÀfyH, T( ÈIJ.OL Ka.t oo(, 'IT]oo\ì utÈ to\ì 8Eou to\ì in)l(otou; òpd(w oE tòv 8Eov, Il� IJ.E J3a.oav(ouç. 8"EJ..EyEv yàp a.titQ, E.;EÀSE tò TTVE\ìj.La. tò ttKa8a.ptov ÈK toiì ttv8pWTTOU. 5,6-8: «E-vedendo Gesù da lontano, egli accorse, si prostrò davanti a lui e gridò con voce forte: "Che vuoi da me, Gesù, Figlio del Dio Altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!". Gli diceva infatti: "Esci da quest'uomo, spirito impuro!",.. v. 6. «E vedendo Gesù da lontano». L'incontro può avere luogo. Si torna sulla riva, dove il narratore ci aveva condotti quando Gesù scendeva dalla barca (v. 2), e poiché ora conosciamo tutta la storia della vita precedente dell'indemoniato, il punto di vista del racconto è effettivamente quello del posseduto che «vede Gesù da lontano>>. È piuttosto eccezionale trovare il nome di Gesù all'accusativo in un rac­ conto, come oggetto e non come soggetto delle azioni raccontate. Il narratore ci ha condotti come fuori dal cerchio e dalla sfera di irradiamento del suo protagonista. Eccoci posti, con l'indemoniato, come a distanza: tt1TÒ IJ.1XKp08Ev, espressione piut­ tosto frequente in Marco e tipica del nostro evangelista, attestata qui per la prima volta (cf. 8,3; 1 1 , 13; 14,54; 15,40). Evidentemente il narratore prende in mano il suo racconto e racconta l'episodio in un modo più descrittivo, e quindi più oggettivante, rispetto ai capitoli precedenti. Questo crea necessariamente una maggiore distanza fra lui e i suoi destinatari, generando un clima di distensione. Il destinatario non si sente interpellato troppo direttamente: il film scorre ed egli può guardarlo tranquil-

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La narratio: Marco 1, 14-f3, 13

lamente, stupirsi, ma senza essere troppo vivamente interpellato. È una questione di sfumature, ma la differenza con il modo di raccontare dei primi quattro capitoli è sorprendente. Alcuni ritengono che qui il narratore mescoli due fonti, con la saldatura in questo v. 6 che si ricollega di fatto al v. 2. L'à:1TÒ j..La.Kpo8fv sarebbe allora in con­ traddizione con il v. 2, dove Gesù e l'indemoniato si trovano «subito» (fùeuç) l'uno di fronte all'altro. Ma la digressione intenzionale dei vv. 3-5 ha prodotto innegabiJ-· mente una distanza nel tempo e il narratore ci riconduce al primo piano del raccon­ to, rendendosi conto di tutto il cammino percorso insieme a noi. Non c'è ragione di supporre qui una molteplicità di fonti. Qui si nota la creatività di un narratore che desidera ampliare il suo quadro e sa colorirlo a piacere, ma poi deve necessaria­ mente ricollegarsi con il punto dove lo ha lasciato per un momento. «Accorse», «si prostrò davanti a» Gesù e «gridò con voce forte». TpÉXHV («correre>>), cf. 15,36; 1TpOOKUVHV («prostrarsi>>, «piegare il ginocchio>>), cf. 15,19, normalmente costruito con il dativo (cf. la correzione in certi manoscritti ed edizio­ ni). «Correre>> e sembrano indicare una grande riconoscenza. Nel ciclo dei patriarchi, questo verbo «correre>> ricorre spesso in incontri felici come in Gen 18,7 (dove Abramo corre), o al capitolo 24 (vv. 1 7.20.28.29), dove tutti sembrano correre: il vecchio servo, la giovane Rebecca (2 volte) e Labano, suo fratello. Si ag­ giunge anche l'atto di prostrarsi, cf. Abramo in Gen 18,2, all'arrivo dei tre uomini alla sua tenda, o anche il servo di Abramo in Gen 24 (cf. vv. 26.48). Sarebbe un in­ contro dello stesso genere? L'ultimo tratto e il contenuto di ciò che l'uomo grida ci costringono a interpretare i primi segni come una grande sottomissione di qualcuno che ha scoperto un altro più forte di lui. Se c'è riconoscenza, essa riguarda una po­ tenza superiore che impressiona e già comanda la sottomissione. ricor­ da ciò che egli faceva abitualmente (v. 5) e fa eco al modo di parlare dei demoni, come in 1 ,24 (à:vÉKpa.çfv À.Éywv) e soprattutto in 3,11. Lì si dice che . Perciò qui la prosternazione è una forma di annientamento davanti alla potente autorità che emana dall'altro. Riguardo al verbo «gridare» (11 volte Kpa(nv e i volte à:va.Kpa(nv, 1 ,23; 6,49; �oliv, 1 ,3; 15,34), in Marco si sentono gridare i malati, la folla, gli indemo­ niati e persino Gesù dall'alto della croce (cf. 3,11; 5,5.7; 9,24.26; 10,47.48; 1 1 ,9; 15,13.14.39). La voce (wvfj j..LfyaA.u). In 1 ,26, è nel momento in cui lo spirito impuro lascia l'uomo; qui, il grido interviene già nel primo confronto; un terzo esempio interessante è quello del bambino epi­ lettico in 9,26: l'incontro scatena anche una terribile crisi e, al momento di lasciare il bambino, il demonio lo fa «gridando e sbraitando>>, mentre il bambino diventa come morto (Kcr.Ì. ÉyÉvftO wofÌ. VfKpoç). Che cosa significa? In Marco il confronto fra Gesù e un indemoniato assume chiaramente la forma di un'agonia, di una lot­ ta per la vita o la morte. Quando si trovano di fronte, lottano come nemici giurati. La vicinanza di Gesù costituisce ogni volta una minaccia di morte per le potenze del male. Questo conferisce a ciascuno di questi racconti - con sullo sfondo la lot­ ta nel deserto di Mc 1 , 12-13, dove Gesù, con la forza dello Spirito, combatte con Satana in persona - una dimensione apocalittica: dove compare Gesù, si scatena subito la battaglia escatologica fra lo Spirito di Dio, spirito di santità, e lo spirito Fme della seconda sezione della narratio: Marco 5, 1-43

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del male, spirito di impurità. I testi di Qumran alludono ripetutamente a questa battaglia finale, attesa per la fine.9 Marco si serve della stessa espressione o di termini analoghi per descrivere la morte di Gesù. Si confrontino: 15,34: È�o,aEv ò 'I11aouç 4>wvu IJ.Eyaln 15,37: Ò Of 111o0uç à.4>ELç 4!wv�v IJ.EYtXÀ11V ÉçÉ1TVEUOEV 15,39: on oìh·wç Kpaçaç ÈçÉ1TvEuoEv. Sono possibili diverse interpretazioni. Una prima, basandosi sull'idea acquisi­ ta secondo cui Marco sarebbe piuttosto povero nella scelta delle sue formulazioni, ritiene che l'evangelista non abbia trovato nulla di meglio per dire due cose molto diverse praticamente con le stesse espressioni. Sarebbe un ulteriore indizio che fa indubbiamente ciò che può, ma manca di mezzi. Secondo un'altra interpretazione, come il grido violento dell'indemoniato coincide con la vittoria del Figlio di Dio sulle potenze del male, così la morte di Gesù che emette un grande grido sarebbe il segno di una vittoria momentanea del male sul Bene, ma con questa differenza: che Gesù entra in questa agonia e in que­ sta battaglia fino alla morte in modo pienamente abbandonato e consenziente: egli accetta la volontà del Padre (cf. l4,36) e consegna lo Spirito (a4>E l.ç. ÉçÉ1TvEuaEv}.10 AÉyn («dice»). Il narratore ritorna al presente storico e ci fa vivere le cose in primo piano sulla scena, come se fossimo presenti. Ciò che dice ricorda innegabil­ mente l'incontro con l'indemoniato al capitolo l, nella sinagoga di Cafarnao: •.

5,7

1,24

T( ÈIJ.OÌ. K«Ì. OOL

T( Ttll.iv K«Ì. oo(

'lTJOOU ulÈ: tou !lfoi) tou uljl(otou; òpd(w oE tòv 9E6v, 1-1.� IJ.E jl«oav(auç.

1TJOOU NIX(«pTJv€ ; �À.9Eç anoÀÉO«L �!J.Uç; oiM oE t (ç EL, Ò ayLoç tOU 9EOU.

Per il significato della domanda inziale (che si ritrova in 1 Re 17 ,18), cf. il com­ mento in 1 ,24. Si tratta di un timore e di un rifiuto radicale di entrare in contatto con Gesù. Qui il nome proprio di Gesù, seguito dal titolo della sua identità più alta, il che implica il riconoscimento della sua piena autorità, non vengono pronunciati come confessioni di fede, ma semplicemente come auspici, ai quali lo spirito demoniaco si inchina e riconosce la sua impotenza di fronte all'altro. Si incontra il termine ùtJt(a'!ou anche per designare il dio supremo in ambiente pagano.11 Comparato con 1,24, il pa-

9 L. BouYER, Le Consolateur. Esprit-Saint et vie de grace, Cerf, Paris 1980, 41-44, con riferimento in particolare al cosiddetto Rotolo della «Guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre>> (l QM); cf. Règlement de la guerre, dans la Bible. Écrits inter-testamentaires , La Pléiade-Gallimard, Paris 1987, 187-226. "' Cf. pili avanti il commento ad loc. Giovanni rafforzerà questa idea, scrivendo «egli consegnò lo Spirito» (mxpÉiìwKEV tò 11VEii�UX). Anche la Lettera agli Ebrei vede in questo momento del trapasso un atto al tempo stesso libero e obbediente a Dio (Eb 5,7-8). 11 Cf. lo studio di A.T. KRAABEL, «Yljltotoç and the Synagogue at Sardis», in Greek, Roman and Byzantine Studies 10( 1969 ) , 81-93. Nella Settanta si trova questa espressione specialmente in bocca a pa­ gani: cf. Geo 14,18-22 (Melchisedek); Nm 24,16 (Balaam); Sa1 86,5 (le nazioni); Esd 2,2 (Ciro) e Is 14,14 (il re di Babilonia). Nello stesso ordine di cose, vediamo in Atti, a Filippi, la serva pagana, pure possedu­ ta da uno spirito, salutare gli apostoli come «i servi del Dio Altissimo» (At 16,17 ) .

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La narratio: Marco 1, 14-tl, 13

rallelo presenta alcune sorprese. Anzitutto in Mc 1,24, il demonio parla di lui al plu­ rale (Tt fy.tl.v KaÌ. aot, «che c'è fra noi e te») e in 5,7, dove l'uomo è posseduto nien­ temeno che da una legione di demoni, si esprime al singolare! Nel parallelo in Matteo (Mt 8,28-29), che ha eliminato l'episodio dell'esorcismo a Cafamao, ma ha introdotto qui un secondo indemoniato, questa coppia di indemoniati si esprime di fatto al plu­ rale (Tt �IJ.LV KaÌ. aot), come l'unico indemoniato nella sinagoga secondo Mc 1,24P2 Colpisce anche il fatto che qui, in 5,7, il nome più alto sia pronunciato d'un fiato, men­ tre in 1 ,24, a Cafamao, viene pronunciato in due tempi: anzitutto, il suo nome più basso: «Gesù il Nazareno», poi «il santo di Dio>>, il che significa, sul piano semantico, esattamente il contrario di ciò che è lui: «spirito impuro». Segue questa sorprendente supplica: ÒpKL(w aE 'l:Òv 6Eov («Ti scongiuro, in nome di Dio>>). Fin dall'epoca persiana si vede come anche i demoni possano rivol­ gersi a Dio. Hanno una loro relazione con Dio, come ricorda Giacomo nella sua let­ tera («anche i demoni credono nel Dio unico e tremano!>>, Gc 2,19). Un'espressio­ ne molto vicina a quella che si legge qui risuonerà nel processo davanti al sinedrio, dove nella versione matteana il sommo sacerdote supplica: «Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci . . . >> (fl;opKt(w aE Ka'l:Ò: 't:OU 6Eou 'l:OU (wv'l:oç 'Cva �11tv EL'IT1Jç EL aù EL ò XpLmÒç ò utòç 'l:ou 8Eou·, M t 26,63). In At 19,13, a Efeso, esorcisti giudei cer­ cano di fare lo stesso, con il nome di Gesù: 'OpKL(w ÙIJ.&ç 'l:ÒV 'IT}aouv ov IIauÀ.oç KT}pooaE L (). Si noti il doppio accusativo, come in Mc 5,7. Questo >Y Il contesto apocalittico appare ancora più chiaramente tematizzato nella versione parallela di Matteo (8,29), quan­ do dice: «Sei venuto qui a torturarci prima del tempo?>> (�.l..Seç eS& rrpò KaLpov �aaVLOll L �jJ.Iiç). v. 8: EÀ.fYEV yàp c:dm\ì («infatti gli aveva detto>>). L'imperfetto esprime un'an­ teriorità e il yocp esplicita che la parola dell'indemoniato risponde a ciò che aveva detto Gesù. Ci si può chiedere per quale motivo l'evangelista abbia operato una tale inversione sul piano narrativo. La forza di questo spostamento consiste senza dubbio nel mostrare che Gesù dirige le operazioni, perché Marco pone al centro

12 Qui Matteo ha due indemoniati, come a Gerico vi saranno due ciechi da guarire. Avendo elimi­ nato il cieco di Betsaida (Mc 8,22-26), egli lo recupera aggiungendo un altro cieco a qùello che Marco chiama Bartimeo. A volte Matteo osa eliminare questo o quel passo di Marco ma, come si vede qui, re­ cupera più avanti ciò che ha eliminato precedentemente. " Altre occorrenze del verbo nel NT: Mt 8,6.29; 14,24; Le 8,28; 2Pt 2,8; Ap 9,5; 1 1,10; 12,2; 14,10; 20,10. Cf. anche !}ll:ao:VLOiloç, solo nell'Apocalisse («tormenti»: 9,5; 14,11; 18,7.8.15). Cf. anche i tormenti del ricco nell'inferno, in Le 16,23.28 (!Jiioo:voç).

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non la parola dell'indemoniato ma quella di Gesù.14 Al tempo stesso, egli sembra segnalare la cosa come di sfuggita, perché Gesù agisce senza la minima enfasi. Vi si può intravedere una punta paradossale: con poco sforzo Gesù ottiene effetti enor­ mi. Alcuni, come Taylor che su questo punto segue Bultmann, ritengono che questa piccola frase con ylip sia l'unica cosa che Marco avrebbe aggiunto alla sua fonte . . . In realtà Marco, quando racconta, inserisce molto spesso queste piccole frasi giu­ stificative, con yap, come un'idea affiorata a cose fatte ma piena di effetti (cf. 5,42; 6,52; 9,6; 10,22; 1 1 ,13; 16,4.8; già in 2,15). Considerando le cose più da vicino, si nota che l'autore ha conservato quest'ultima informazione supplementare per collocarla proprio nel punto in cui ritiene che abbia il maggiore effetto sul suo lettore/ascolta­ tore. Secondo una ricerca condotta a Nimega negli anni 1975- 1976, sotto la direzio­ ne di Bas van Iersel, Marco è fra i sinottici il narratore che varia maggiormente le preposizioni all'interno di uno stesso racconto (Ka.(, OÉ, ylip, K«L lTtthv, K«L Eòe\x;, &:.ua, K&.KE!.ew . . . ) "E�EÀ.9E -rò lTVEUIJ.U -rò IÌKtt9ap-rov ÉK -rou àvepw1rou: «Esci da quest'uomo, spi­ rito impuro! » (cf. 1 ,24: «Taci ed esci da lui!»). Questo linguaggio semplice stupisce: Gesù non usa alcuna formula imprecatoria, non invoca Dio e una qualche potenza superiore. L'uomo che nessuno riusciva a dominare è subito in ginocchio davanti a Gesù, e la domanda più semplice e diretta lo angoscia e lo riempie di paura, paura di essere annientato. .

5,9-10: Kat É1TTJpW-ra aù-r6v, T( ISVQI.Ui crOL; Kal À.Éyn aù-rQ, AEytwv OVOj.ltt IJOL , on lTOÀ.À.OL ÉO!-LEV. ·�at lTUpEKttML aÙ'!ÒV lTOÀ.À.à. 'Cva Il� aùtà &.lTOO'!ELÀ.U E�W •iìç

xwpac;.

5,9-10: «Ed egli lo interrogava: "Qual è il tuo uome?". E gli dice: "Legione è il mio nome, perché siamo in molti". E lo supplicava con insistenza di non cacciarli fuori dal paese». v. 9. «Ed egli lo interrogava>>. Di nuovo all'imperfetto, certamente con il va­ lore di un piuccheperfetto. Gesù «lo aveva interrogato>>, e questo viene raccontato come sullo sfondo, mentre la risposta, introdotta da un presente (KaL À.Éyn), ci ri­ porta in primo piano. Il verbo ÉlTEpw-riiv compare qui per la prima volta, ma in se­ guito ricorre molto spesso in Marco (25 volte in tutto; cf. 4,10: Épw-riiv). «"Qual è il tuo nome?". E gli dice: "Legione è il mio nome, perché siamo in molti">>. Il nome «Legione>> è un latinismo ben noto (cf. Mt 26,53, «più di dodici legioni di angeli>>; Le 8,30) e del resto molto diffuso sia in greco sia in aramaico, attestato anche in Plutarco e nei papiri. Una legione romana è composta da cin­ que-seimila uomini, dieci coorti di cinque-sei centurie, inquadrate pressappoco da altrettante truppe ausiliarie (auxilia). Il termine «legione» evoca di per sé una gran­ de moltitudine, e il testo non manca di dirlo chiaramente: «perché siamo in molti>>;

14 Un bravo narratore, come quello che ha scritto il libro di Giona, fa la stessa cosa al capitolo l, v. lOb: lascia anzitutto che si esprimano i marinai scandalizzati e poi ricorda ciò che Giona ha appena detto, per cui questa parola solenne di Giona (il suo bel credo) diventa il centro di tutta la prima pagina del libro.

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ma l'espressione evoca inoltre una forza armata, suggerendo così che il compito di Gesù sarà terribile. 15 Domandare il nome fa parte della normale procedura di un esorcismo. Chi conosce il nome, può avere un potere sull'altro. Giacobbe, lottando con l'angelo in Gen 32, desidera conoscere il nome del suo avversario, ma otterrà una risposta eva­ siva: l'angelo gli sfuggirà, poiché il suo nome resterà sconosciuto, inafferrabile. Ma la sottomissione della forza demoniaca a partire dall'individuazione del nome non funziona necessariamente in tutti i casi: con umorismo, in At 19,15s Luca racconta che l'indemoniato risponde a esorcisti giudei: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?» e nudi e coperti di ferite riescono per un pelo a sottrarsi all'uomo posseduto da uno spirito cattivo! v. 10: Kn:l nn:pEKttÀE L n:ùtòv noll& («e lo supplicava con insistenza». IloU& è avverbiale, e il verbo è all'imperfetto, suggerendo uno sforzo reiterato: «Continua­ va a supplicare>>. La supplica prolunga quella del v. 7: «Non tormentarmi>>. "lvn: IJ.� ocùtà OC1TOOtE LÀ1J E/;W tfìç xwpocç («di non cacciarli fuori dal paese»). Per 1TOCpOCKOCÀElV cf. 1 ,40 (9 volte in Marco; qui cinque volte di seguito: vv. 10.12.17.18.23). La rappresentazione delle cose è proprio cosi: questa regione, come tutta la regione pagana (cf. v . 1 ), è sotto il dominio di un demonio locale. Il demonio o i de­ moni, trovandosi davanti a Gesù, si sentono minacciati: rischiano di perdere il loro dominio sulla regione in questione. La posta in gioco riguarda uno spazio, che può essere un uomo, una casa o una regione. Occupato dall'uno, questo spazio rischia, al sopraggiungere dell'altro, di passare sotto il dominio dell'intruso. La coabitazio­ ne è esclusa, come dice molto coerentemente 2Cor 6,14-16 («Quale intesa fra Cri­ sto e Béliar? Quale accordo fra tempio di Dio e idoli? Quale unione fra la luce e le tenebre?>> ) . 1 6 La stessa espressione del «posseduto>> tradisce questo aspetto delle cose: ci si sente sotto il dominio di un altro che occupa tutto lo spazio interiore. Be­ nedetto, nella sua Regola (RB 53), in continuità con la saggezza dei padri del deser­ to, ha questa bella espressione di un fratello cuius animam timor Domini possidet. Come mi ha spiegato un confratello filologo: qui possidere ha lo stesso significato che ha per una città che, prima assediata (obsidere) dal nemico, finisce poi per es­ sere «occupata>> (possidere). Secondo Benedetto l'anima di questo fratello è «pos­ seduta>>, cioè occupata, come può esserlo una città, dalla potenza del timore di Dio. I Padri consideravano il timore del Signore ciò che meglio evoca la presenza dello Spirito nella persona.17 Grazie al rito del battesimo, l'anima era ormai abitata dallo Spirito Santo che cacciava ogni altro spirito. Nel IV secolo, soprattutto in Siria, i monaci discutono se il battesimo liberi veramente e completamente l'anima da ogni altro spirito o se occorra continuare la lotta, per tutta la vita, per «purificare il cuo-

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Ci si è chiesti se qui si dovesse leggere un accenno antiromano nel nome stesso del demonio. I secolo d.C. in Palestina stazionava la decima legione (Legio X Fre­ tensis). Il suo emblema era il cinghiale (cf. F. ANNEN, «ÀEy�WV», in ExWNT H, 852-853). Se all'origine della storia poteva esservi uno spunto ironico nei riguardi della forze di occupazione, a livello di Marco questo aspetto si è notevolmente smussato, perché il vero Nemico è spirituale (cf. 1,12-13, «Satana»; cf. del resto la confessione esemplare messa in bocca a un centurione in 15,39). " Questo testo, molto probabilmente di Paolo, ha diversi punti in comune con molti testi scoperti a Qumran. In essi si esprime una stessa logica di totale incompatibilità fra i due mondi. Cf. specialmente la Regola della comunità (H, 1 -18; V, 7-20; ecc.). 17 Cf. B. STANDAERT, La crainte de Dieu, Anne Sigier, Québec 2006, 13-14 e 41-46. a. la rassegna in FocANT, 203. Nel

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re» ed eliminare la presenza di ogni demonio o spirito impuro dentro di noi.l8 Que­ sti sviluppi dimostrano che i racconti di esorcismo individuano chiaramente la vera sfida di una piena iniziazione cristiana: si tratta di ottenere lo Spirito Santo e rice­ vere il perdono di Dio, liberandosi dalla possessione di qualsiasi demonio impuro. Poiché lo supplicano di non essere cacciati «fuori dal paese» (xwpa, cf. v. l e 1 ,5}, qui il confronto con Gesù non riguarda solo un individuo, ma la liberazione di tutta una regione. 5,11-13: �Hv OÈ ÈKEL 1TpÒç tt:y OpEL ocyÉÀ.T) XOLpWV J.l.EYcXÀT) j3oOKOf.LÉVT) ' 11\:aÌ. 1TapEKttÀmav aùtòv ÀÉyovtEç, TIÉf.LlJrov �f.Liiç Elç toùç xol.pouç, '(va Elç aùtoùç EioÉÀSwf.LEV. 13Kcd. E1TÉtpE1JrEv aùtolç. KaÌ. È.!;E.\96vta tèt 1TVE4.w:ta tèt liKa9apta EÌ.oi;.\Sov EÌ.ç toùc; xol.pouç, KaÌ. WPf.LTJOEV � ocyÉÀTJ Katèt tOU KPTJf.LVOU Elç t�V S!X.\aooav, wc; OLOXLÀLOL, KaÌ. È1Tv(yovto Èv ttJ ea.\cioon. 5,11-13: «C'era là, sul monte, una grande mandria di porci al pascolo. E gli spiriti impuri lo supplicarono dicendo: "Mandaci verso i porci, perché entriamo in essi". Ed egli lo permise. Allora, uscendo, gli spiriti impuri entrarono nei porci e la man­ dria si precipitò dall'illto della rupe nel mare, in numero di circa duemila, e affoga­ rono nel mare». v. Il. Ecco un nuovo dato, introdotto con un OÉ significativo: «C'era là, sul monte, una grande mandria di porci al pascolo». Dal punto di vista dei giudei, il dato è scandaloso: da nessuna parte si potevano tenere maiali, secondo la Mishna (mBabaQ 7,7). Questo mondo è decisamente pagano e impuro, senza Torah. Il 1Tpoç con il dativo è assolutamente eccezionale (solo 6 casi in tutto il NT). v. 12: KaÌ. 1TapfKttÀmav aùtòv ÀÉyovtEç (. Il movimento spaziale è chia­ ramente espresso. A volte un esorcismo può assumere la forma di un parafulmine: trovando un buon conduttore, si allontana la forza che così si scarica altrove. In re­ altà, «Spirito impuro>> e «porco» si attirano a vicenda. v. 13. «Ed egli lo permise>>. È1TLtpÉ1TW («permettere>>, «accordare»; cf. 10,4). Dobbiamo stupirei per questa soluzione adottata in modo del tutto naturale, senza la minima messa in scena teatrale, senza neppure una parola di scongiuro o qualche invocazione divina, una preghiera: Gesù allontana il terribile demonio con dolcez­ za, con un'autorizzazione. Agli occhi di Marco, questo non è segno di una qualche impotenza di fronte a una forza che egli non sarebbe stato in grado di dominare, ma esattamente il contrario. Senza sforzo e senza ricorso a una potenza esteriore, Gesù testimonia la sua suprema autorità su quello che si è presentato finora come il demonio più terribile del racconto evangelico: «e lo permise>>. Infatti, poiché spe­ ravano di sfuggire al pericolo della vicinanza di Gesù, ecco che, trascinati dai porci

18 Lo Pseudo-Macario, Gregorio di Nissa, Diadoco di Foticea e la controvenia sui Messaliani il­ lustrano questo grande dibattito fra spirituali, a partire dalla fine del IV secolo. Cf. A. GuiLLAUMONT, art. «Messaliens», in DSp X, 1074-1983; M. CANÉVET - V. OESPREZ, art. >). Si ritrova il presente storico, che ci pone in primo piano, in una posizione ben più diretta ri­ spetto al verbo precedente: KaÌ. �.l..eov. Sembra aprirsi una nuova scena, come tante altre già incontrate con questo KIXÌ. E P XHaL in testa (cf. 1,40; 3,20; ecc.). IIpòç tòv 'IT)oouv, nuova convergenza verso di lui (cf. v. 6), dopo l'allontanemento e la di­ gressione del v. 14. Ma subito si incentra l'attenzione non sulla sua persona, bensì sull'effetto della sua azione: perciò essi «l'indemoniato>>, «seduto>>, «Ve­ stito>> e «sano di mente>>. L'uomo era conosciuto, e qui viene riconosciuto, come l'«indemoniato>>, e pur non essendolo più viene indicato ancora in questo modo. È «seduto>>, lui che nessuno poteva in alcun modo legare o incatenare. Luca ag­ giunge , come un discepolo vicino al suo maestro. ). aw�povouv-ra, bella espressione, sco­ nosciuta alla Settanta, per dire che egli si controllava di nuovo pienamente (cf. Tt 2,2.5.6}. 19 . Quest'ultimo elemento contrasta net­ tamente con tutto ciò che si dice di lui. KtÙ É���9T)oav, «ed ebbero paura». La pau­ ra è la giusta reazione di fronte a ogni manifestazione di una potenza meravigliosa: cf. 4,41 (i discepoli nella barca, nell'episodio precedente); 9,6; 16,5.8 (tratto finale di tutto il racconto evangelico). v. 16. «< testimoni raccontarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e che cosa era successo ai porci». Marco prende tempo e racconta che le persone,

19 Cf. tutto il vocabolario del «Controllo di sé>> e della «Sobrietà>> che ritorna continuamente, spe· cialmente nelle pastorali, per caratterizzare la condotta cristiana: ou\povt(w, owc�>po01JV1], awc�>povLOj.lOç, owcl>povwç ( lTm 2,9. 15; 2Tm 1,7; Tt 1,8; 2,2.4.5.6.12). 296

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testimoni dell'episodio, si mettono a loro volta a raccontare: lascia che i suoi per­ sonaggi riassumano ancora una volta tutto l'episodio, che è formato da due parti: ciò che riguarda l'indemoniato e ciò che riguarda i porci. Quindi i mandriani, in preda al panico per ciò che era accaduto alla loro mandria, non hanno detto tut­ to? ÙLT]y�oavto: cf. 9,9, «esporre in dettaglio, riferire>>. L'uomo conserva la sua caratteristica originaria: è !'«indemoniatO>>. Abbiamo visto che i pescatori diven­ tano «pescatori di uomini>>; e gli indemoniati che cosa diventano: «indemoniati evangelisti»?

5,17-19: KaL �p�aVtO lTUpaKaÀELV autOV tt1TEÀ9Ei.V ttlTÒ tWV OpLWV aUtWV. 111KaL EoiJ.I3aLVOVtoc; autou ELc; tÒ 1TÀ.Oi.ov 1TapEKnÀE L aùtòv ò ùaq.10VLCJ9Etc; '(va IJ.Et' aùtou �. 19 Kat ouK à> (cf. Mc 7,24.31; 10,1; Mt 6 volte; At 13,50). La paura (v. 15) sfocia, dopo la spiegazione dei testimoni (v. 16), in una vera ossessione: se ne vada per favore dal loro territorio. Marco non ci offre molti elementi per com­ prendere il motivo del loro comportamento. Gesù li ha liberati dal demonio terri­ toriale che seminava il terrore in tutta la regione. Ma si desidera veramente essere liberati dal proprio demonio? Si sentono minacciati da questo profeta dall'autorità così potente e temono, permettendogli di restare più a lungo in mezzo a loro, di do­ ver rinunciare a tutte le loro abitudini pagane (mangiare carne di maiale, ecc.)? Di fatto preferiscono vederlo partire piuttosto che prolungare anche solo un po' il suo soggiorno fra loro. Questo offre al narratore una via di uscita del tutto naturale per permettere al suo protagonista di raggiungere l'altra riva. v. 18. «Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo pregava per restare in sua compagnia>> (Kat ÈIJ.Pa(vovtoc; aùtou EL>. Quanto all'«indemoniato>>, questa volta il verbo è all'aoristo (OaLIJ.OVL09E (c;), lasciando intendere che lo era e quindi che non lo è più. Sul piano narrativo, Marco ci riserva qui un altro piccolo colpo di scena, che prolunga il rac­ conto ma soprattutto lo riapre, conferendogli una conclusione assolutamente inso­ spettata. L'uomo ormai liberato dal demonio «chiede>> (sempre lo stesso verbo, qui all'imperfetto, come nel caso di un'insistenza ripetuta: 1TapEKnÀE L) di poter «essere con lui» ((va IJ.Et' aùtou ù). In tutta la sua concisione, la formula rinvia a ciò che si dice al momento della chiamata dei Dodici: «perché siano con lui>> (3,14, '(va WOLV IJ.E-r' aùtou). Era perlomeno il primo aspetto della loro vocazione, perché il secondo era quello di «predicare con il potere di scacciare i demoni>>. Che cosa farà Gesù?

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v. 19: KIXÌ. oÙK à.fJKEV aù-r6v («non glielo permise»). Strano questo Gesù di Marco. In questo grande raccconto fa solo due cose: «e lo permise lorO>> (v. 13) e «non glielo permise» (v. 19). Ai demoni concede. All'uomo liberato non concede ciò che chiede. Il risultato nel primo caso è la fine del Distruttore che seminava il terrore. E nel secondo caso? La vita e la gioia liberate da Legione. ÙÀ.À.à À.ÉyE L aù-r� («ma gli dice»), al presente storico, in primo piano. "YTTayE Elç -ròv otKov oou TTpÒc; -roùc; ooùc; KIXÌ. à.miyyELÀ.ov aù-rol.c; ooa Ò KUpLoç; OOL TTETTOLflKEV KIXÌ. �ÀÉflOÉV OE . L'uomo viene mandato ad annunciare. Curiosamente, è come se potesse re­ alizzare almeno l'altra metà di ciò che caratterizza la vocazione dei Dodici: pro­ clamare la buona novella (cf. 3,14-15). La sua vita si concentra in primo luogo sulla «sua casa e i suoi>>, il che per uno che aveva la sua dimora nei sepolcri co­ stituisce un cambiamento radicale. Egli ritrova una famiglia, relazioni fraterne,, una vera umanità con le persone del suo ambiente di vita (cf. 2,1 1 e 8,26). A loro deve comunicare (à.TTayyÉÀÀE Lv, cf. 5,14 e 6,30) «Ciò che il Signore ha fatto per lui nella sua misericordia>>. Le espressioni richiamano certe formulazioni dei Salmi e hanno una risonanza liturgica. Si tratta di annunciare le meraviglie di Dio, come Maria nel suo Magnificat; cf. l Pt 2,9s (con un verbo analogo: OTTWç; -rà.c; apHocç; ÈçayyE LÀfl"tE, pure seguito dal tema della pietà/misericordia). Si pensa anche al Sal 125,2 LXX: «Allora si dirà fra le nazioni: "Il Signore ha fatto grandi cose con loro">> (-ro-rE ÈpoflaLv Èv -rolc; €9vEaLV ÈIJ.Eya.l..uvEv KupLOç; -rou TTOLTJOIXL IJ.E-r' aù-rwv ) . In Marco il verbo ÈÀÉE L v («avere pietà>>) si trova solo qui e nel racconto di Bartimeo (10,47s).

5,20: KIXÌ. ÙTTT'JÀ.9EV KIXÌ. �pça-ro KT]pOOOELV ÈV "tU aEKIXTTOÀE L &Ja ÈTTOLflOEV aÙ-r>, si sbarazza del Nemico che lo teneva prigio­ niero. Si esce dall'acqua, si è «rivestiti>> di una tunica bianca, si riceve la luce che illumi­ na l'intelligenza, ci si ritrova come discepoli ai piedi di Gesù, , avendo recuperato l'autocontrollo grazie alla sapienza dello Spirito Santo. Si rientra per «annunciare» nel proprio ambiente pagano «ciò che il Signore Gesù ha fatto nella sua misericordia». L'episodio raccontato ha luogo dopo una notte di veglia sul lago. Il battesimo era am­ ministrato al termine della notte pasquale, all'aurora. Si usciva dal luogo dell'assemblea per raggiungere un lago, un fiume o anche il mare e lì, mediante un'immersione comple­ �a, si compiva il rito. 20 Gesù, nuovo Mosè, ha attraversato le acque della morte e guida 1 suoi in un'esistenza ormai libera e interamente dedita alla volontà di Dio. Qui si può ricordare la preghiera posta al termine della Lettera agli Ebrei ( 13,20-21), dove l'autore riprende il grande testo di Is 63-64 e applica a Gesù ciò che lì si dice di Mosè. Abbiamo già incontrato questa pagina in relazione con il battesimo di Gesù nel Giordano, seguito dallo strappo dei cieli (Mc 1,10-11). Da entrambe le parti, la catechesi biblica soggiacen­ te a Mc l ed Eb 13 si basa su una rilettura cristologica di Is 63 . 21 «> (Is 63,11-14). 300

La narratio: Marco 1, 14-6, 13

5,21 -43. Doppio racconto miracoloso: l'emorroissa e la figlia di Giairo

La seconda metà del capitolo 5 segue direttamente nel tempo ciò che è stato appena raccontato. Tuttavia l'episodio principale viene interrotto per un momento, nonostante la fretta di andare a guarire una persona che sta per morire: una donna nella folla ha toccato il lembo del mantello di Gesù . . .. Questo racconto, inquadrato dall'episodio della risurrezione della figlia del capo della sinagoga, è come una per­ la preziosa incastonata con arte all'interno di una grande composizione, e, guardan­ do le cose più da vicino, si trova proprio lì il segreto che illumina tutto il contesto. 5,21 -24: Introduzione

Un primo paragrafo di quattro versetti presenta un quadro generale . al cui centro spicca la domanda preziosa di una persona. La «folla numerosa>>, menzio­ nata due volte (vv. 21 b e 24b), avvolge come in un mantello l'incontro personale di Gesù con Giairo (vv. 22-23).

5,21: Kcù cSLa.'!TEplim�vmç rou 1T)crou Èv 'TTÀo(� 'TTtt ÀLv Elç rò 'TTÉpa.v cruvt1x9TJ ISx}« '!TOÀÙç È'TT ' a.ùr6v, Ka:Ì. . �v '!Ta:pà. rijv eliMcrcra:v. 5,21: «Dopo che Gesù ebbe attraversato di nuovo in barca verso l'altra riva, molta foUa si radunò attorno a lui ed egli restava in riva al mare�. v. 21 : Ka:ì. cSLa:'!TEplicra:vtoç tou 'Il)Oou Èv 'TTÀO L� 'TTtt ÀLv EÌ.ç tò 'TTÉ pa.v. La fra­ se è un po' pesante, dato che quasi ogni elemento viene ripetuto. Qui abbiamo un bell'esempio della famosa «redundancy>> di Marco (cf. Taylor, passim). Ka:Ì. c5La:1TEplioa:vroç (genitivo assoluto, corretto) ricollega a 5,1-2; tou 'IT)crou ricollega al v. 18; Èv 'TTÀO L� (manca in D) ricollega al v. 18 e a 5,2; 1TttÀLv (manca in B ed è collocato dopo tre parole in molte varianti); EÌ.ç tÒ 1TÉpa:v ricollega all'apertura del capitolo (5,1) e alla fine del capitolo 4 (v. 34), e riprende ciò che è già stato detto nel participio c5La:1TEplioa.vroç. Si sente che il narratore accentua ciascuno degli elementi, tuttavia semplici, che introduce, mettendoli così maggiormente in risalto: poiché il racconto prece­ dente era lungo e anche il racconto successivo sarà piuttosto sviluppato, egli cura gli snodi fra le due sezioni. cruvi)xeTI ISxA.oç 1roA.ùç È1r' a.ùrov («molta folla si raduna "su" di lui>>). Per il vèr­ bo si veda già 1,33, e d'altra parte questo movimento della folla è costante in Marco (cf. 2,2; ecc.).22 Quale contrasto con i geraseni che gli ordinarono di lasciare il loro territorio ! Qui ci si raduna quasi gettandosi su di lui (si noti la forza deii'ÈTI' a:Ùtov,

22 Cf. sopra il riquadro sulla missione centripeta e centrifuga, p. 149s. Il contrasto fra l'episodio precedente e questo si basa su tale differenza. Là, Gesù partiva in missione e tutto si concludeva con l'invio dell'uomo guarito, mentre qui è sufficiente che arrivi per attirare le folle. Rne della seconda sezione della narratio: Marco 5, 1 -43

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corretto in D con 1TpÒc; a;Ù'rov, «Verso lui»). Swete (102) traduce: «>: «Il SIGNORE ha visitato il suo popolo e gli ha dato di nuovo del pane» (Rt 1 ,6). Per il cieco che mendica alle porte di Gerico, tutto cambia quando «sente» che passa Gesù di Nazaret (Mc 10,46s). Beati coloro che, anche nella peg­ giore situazione, come Noemi e l'emorroissa o Bartimeo di Gerico, sanno ancora «sentire>>. Tutto potrà cambiare, in bene. Il narratore, con questo à.Koooa.oa., che

25 n numero 12 evoca le ore del giorno e deUa notte, come anche il numero dei mesi nell'anno so­ lare. La figlia di Giairo «aveva dodici anni», noterà il narratore più avanti, alla fine del capitolo. Queste due volte si strizzano l'occhio: Gesù passa e sblocca situazioni irrigidite permettendo loro di ristabilire il contatto con la vita e con la fertilità. ,. Si ritroverà qualcosa di assolutamente analogo, riguardo ai mezzi e agli effetti, nella presenta­ zione della vedova povera con il suo obolo, all'ingresso del Tempio, in Mc 12,42--44. Fme della seconda sezione della narratio: Marco 5, 1-43

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è comparabile all'towv già incontrato varie volte, ci invita a continuare l'ascolto, adottando il punto di vista della donna. Attraverso questi participi di «Vedere» e «sentire», noi impariamo dove si trova «l'uomo della cinepresa», cioè il punto di vi­ sta a partire dal quale il cineasta vuole che il suo spettatore veda le immagini. Per i futuri battezzati della comunità, questo punto di vista che risanerà anche la peggio­ re delle situazioni è sommamente evocativo: anch'essi «hanno sentito» delle cose «a proposito di Gesù» e sono venuti. Seguendo il corso del racconto, essi guardano in qualche modo nello specchio che riflette il loro proprio cammino. Ella «viene da dietro» e «si mescola alla folla». Il suo statuto di donna impura la obbliga, secondo la Legge, a restare in disparte per evitare di essere toccata da qualsiasi persona o di toccarla. Si intrufola nella folla, manifestando così la sua co­ raggiosa volontà di arrivare fino a Gesù, ma lo fa «da dietro» per evitare di essere notata, riconosciuta e allontanata, addirittura sequestrata a causa della sua malat­ tia. Ancora una volta la folla in quanto tale è decisamente ambigua. Come massa, protegge la donna, la nasconde nell'anonimato; ma se la folla per un momento la guardasse in faccia, in un confronto diretto, ella verrebbe subito identificata e ban­ dita. La folla come identità di gruppo non ha volto e non vede alcun volto. L'avver­ bio posto alla fine «da dietro» caratterizza bene la relazione velata che si intrattiene sempre con la folla. Nessun faccia a faccia, nessun incontro diretto.27 �ljta:to tofl Lj.J.o:t(ou a:Ùtou. Ecco finalmente il verbo principale e l'atto decisi­ vo: «Gli toccò il mantello>>. Matteo e Luca precisano: tou Kpa:arrÉoou, cioè la frangia legale (cf. Nm 15,37-41; Dt 22,12, tsitsith in ebraico), collocata ai quattro angoli del mantello (Mt 9,20 e Le 8,44; Marco ne parlerà a sua volta in 6,56) . Si è stabilito il contatto, fosse pure attraverso l'estremità della persona dell'altro, il suo mantello, addirittura la frangia ai bordi del mantello. ÉÀEyEv y&p («infatti diceva dentro di sé>>; cf. 5,8, analogo per la forma, ma di­ versamente gestito sul piano narrativo). Marco introduce qui un piccolo discorso interiore, che conferisce profondità al gesto semplicemente descritto. Ancora una volta, queste parole non sono pronunciate tali e quali, ma l'arte del narratore riesce a verbalizzare ciò che non viene detto, caricandolo così di tensione drammatica fra ciò che noi sappiamo grazie a lui e ciò che i presenti continuano a ignorare. on 'Eà.v aljiWj.J.()';L Kèìv tWV Lj.l()';tLWV a:ùtou aw8�00f..UH . Kèìv, cf. la contrazione KO:L &v (E&v). «Sarò salvata», cioè, in questo caso, «guarita». Sottile differenza con il racconto del versetto precedente: qui la donna parla di «vesti>>, al plurale, mentre là parlava di «mantello>>, al singolare (stesso termine in greco). Il suo desiderio era aperto, risoluto ma impreciso: qualsiasi cosa della sua persona, fosse pure la frangia dei suoi vestiti; la sua azione invece è precisa: si tratta del suo mantello, concreto e unico. Grazie a questa osservazione, il narratore ci trasferisce interamente nel mondo vissuto della donna e delle sue aspettative. Chi è agli estremi e praticamente perduto è anche spesso più aperto all'abbandono totale nella fede. L'ultima parola risuona con forza: «sarò salvata>>, guarita, toccata da Yeshoua, «Gesù>>, che signifi­ ca: «il Signore salva>>. v. 29: Ka:Ì. Eùeùç E/;Tlp&v8T] � 1TTIY� tou a;'(j.la:toç a:uti'Jç. Immediatamente la fon­ te del sangue si secca. L'espressione «fonte del sangue» è biblica, cf. Lv 12,7.

27 Le analisi fenomenologiche di Emmanuel Lévinas sul volto deU'altro e sulla . relazione con lui ci aiutano a rileggere in profondità passi del genere. Cf., in particolare, E. LÉVINAS, Totalité et infini. Essai sur l'extériorité, Martinus Nijhoff, Leiden 1971 (tutta l'ultima parte). 306

La narratio: Marco 1, 14--6, 13

K«Ì. Eyvw t4) aWJ.Lal'L 0-rL 'Lat«L Ù'TTÒ -rftc; �tLyoç. Per �OTLç (> (3,13-19). Qui, di nuovo, il narratore conosce l'esito finale, senza che nulla indichi nel passo che Gesù lo conoscesse in quel momento. Mva�ouç, «forza», «potenza» (cf. ,.,,:l) in ebraico). Il termine ricorre spesso in Marco, ma copre un ampio ventaglio di significati. Si tratta di un attributo di Dio, che lo accompagna quando viene il Regno o il Figlio dell'uomo (cf. 9,1; 13,25s); si tratta anche di un nome di Dio (14,62, «alla destra della Potenza»; cf. . l2,24, l'atto divino che risuscita dei morti). Si tratta inoltre di quegli atti di potenza che com­ pie Gesù, detti abitualmente «miracoli» (6,2.5.14; 9,39). Qui si tratta di una forza o energia che lo abita e che egli è in grado di comunicare. Nel caso concreto, i suoi effetti sono la guarigione. «Voltandosi (essendosi voltato) nella folla, si mise a dire (diceva)>>. Si susse­ guono due participi senza congiunzione. Qui l'asindeto ha tutta la sua forza, con il secondo che consegue dal primo. Il movimento è coerente. La donna viene da die­ tro (ÈÀ.8ouoct Èv t!\) O)(À. Ecco che tornano i discepoli, che non si erano più né visti né sentiti dalla prima traversata del lago (4,35-41). Il loro ruolo è quello di esaltare il contrasto. Il loro stupore un po' esasperato deve dare risal­ to alla differenza fra il semplice accalcarsi attorno a Gesù e il toccarlo veramente. Anche la loro osservazione è introdotta da un imperfetto. Non si tratta di una pa­ rola detta in primo piano, chiara e incisiva, ma di un'osservazione apparentemen­ te di buon senso, pronunciata sullo sfondo e come ripetuta: BÀÉ'ITELç tòv O)(À.Ov

29 Cf. le osservazioni di A. DE WAELHENS, «La phénoménologie du roman», in Revue de métaphy· sique et de morale 88(1983), 289-297.

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La narratio: Marco 1, 1 �. 13

ouv9H13ovt!t OE' KIXÌ. .À.Éyuc;, T(c; !JOU �lJiu-co, «Vedi bene che la folla ti circonda e ti schiaccia e dici: "Chi mi ha toccato?" ». L'osservazione dei discepoli è in funzione del lettore/destinatario. Quest'ultimo sa che cosa è accaduto a Gesù e alla donna. Perciò l'effetto dell'osservazione è diverso se ascoltata all'interno della storia rac­ contata o come uditori del racconto. Nel primo caso, l'osservazione piena di buon senso è penosa, persino tragica, e nuoce alla persona di Gesù; nel secondo caso, quello del lettore, è quasi comica e nuoce al ruolo dei discepoli, e, per quanto ap­ paia grottesca, contiene un serio avvertimento ai lettori: per favore, non siate così stupidi come loro! I discepoli riprendono ciò che il narratore ha appena descritto: la folla circon­ da e schiaccia Gesù (stesso verbo ouv9À.L!}E LV, qui e al v. 24), poi ripetono ciò che Gesù ha appena detto, ma in forma più breve: T(c; IJOU �lJiu-co («Chi mi ha tocca­ to?»). Così lasciano cadere le ultime due parole: «le vesti», e rendono ancor più pre­ gnante la domanda. Chi tocca le sue vesti, tocca Gesù stesso. v. 32. Gesù non reagisce alle parole dei discepoli e si attiene alla sua doman­ da. Il suo sguardo, che compie un movimento circolare così caratteristico in Marco (cf. 3,5.34, e più avanti 10,23 e 1 1,11), estende la domanda. Il verbo è all'imperfetto, sottolineando la durata. Notiamo la ridondanza: TTE'pLE'�ÀÉTTE''tO lc'iE='ì.v, dove si par­ la due volte di «Vedere». Il greco stupisce: t�v TTOL�aaaav, al femminile, come se Gesù sapesse già che a compiere quel gesto è stata una donna. Bruce (375) nota: «"A woman's touch" was recognized». In realtà, qui il narratore abbandona per un momento il punto di vista di Gesù e viene a collocarsi accanto ai suoi destinatari, i quali sanno bene che a compiere quel gesto è stata una donna. Al tempo stesso, il narratore ci prepara al momento del riconoscimento drammatico: il protagonista, se ha ignorato per un momento ciò che è avvenuto, ora accede per primo al pieno riconoscimento. v. 33: � OÈ yuv� («quanto alla donna»). Con il OÉ espressivo, si cambia pun­ to di vista, cosa già preparata da ciò che precede. QJO�TJ9E=1oa Kal. tpÉj.LOUCJIX, E= i.Ou'ia o yÉyoVE:v aùtfl. Tre participi precedono i tre verbi principali. Ritroviamo il ricco vocabolario di Marco sul timore. È l'autore del Nuovo Testamento che presenta il maggior ventaglio di termini ed espressioni su questo tema. Già nei due episodi pre­ cedenti (4,41 e 5,15) il timore giungeva ogni volta alla fine, come a sigillare l'avve­ nimento, colto nella sua pienezza. Avverrà lo stesso al termine dell'ultimo episodio della sezione, in 5,42. Per Marco il timore è per lo più l'espressione di un grande ri­ conoscimento. I due sinonimi («timore» e «tremore», ljlo�oc; KaÌ. tpoj.Loc;) ricorrono spesso nella lingua greca (si veda in Paolo: 1Cor 2,3; 2Cor 7,15; Fil 2,12) e nel lin­ guaggio biblico in generale (cf. Gen 9,2; Es 15,16; Sal 54,6 LXX; ecc.). ELùu'ia o yÉyovEv aùtfl, «sapendo ciò che le era accaduto»: l'osservazione spiega il timore e ricapitola tutto ciò che precede. �À9Ev KIXL trpooÉtrECJEV aùt� KIXÌ. E'LTTEV aùt� TTiiaav t�V aÀ�9uav. Ella si av­ vicina, «Cade ai suoi piedi», un verbo e un gesto che si incontrano varie volte in Mar­ co (TTpoon( trtE Lv: 3,1 1 ; 7,25; cf. 5,22: trLtrtE L npòc; toùc; TTOOaç; 9,20; 10,17). «E gli dis­ se tutta la verità». In questa verità c'è tutta la sua storia precedente. C'è quindi sim­ metria fra quest'ultimo pezzo della frase e l'osservazion� precedente sul fatto che ((ella sapeva ciò che le era accaduto>>. Si è potuto osservare uno stesso movimento di ricapitolazione alla fine del racconto precedente (cf. 5,16: essi «raccontarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e che cosa era successo ai porci»). Gesù la obbliga a parlare, perché la parola reintroduce la donna nella comunità. Parlando, la donna racconta tutto il suo passato e può testimoniare la sua guarigione: ora tutti Fme del/a seconda sezione della naJTatio: Marco 5, 1-43

la guardano in faccia e tutti possono ridarle accesso alla vita in comune. La paro­ la reintegra pienamente; la sua impurità è tolta. Strettamente parlando, come per il lebbroso in 1,40-45, la donna avrebbe dovuto passare dal sacerdote e offrire due tortore o due piccioni per permettergli di compiere su di lei il rito dell'espiazione (cf. Lv 15,28-30). Qui basta la parola, piena di autorità, di Gesù a dichiarare la don­ na salvata e guarita. Nella storia di Marie Cardinal (Les mots pour le dire, il titolo è già di per sé eloquente), questa parola che reintegra prenderà molti anni. 5,34: o OÈ el1TEV a:\rr'fl , 0uyli't'TJp , � 1TLonc; oou oÉowKÉV oe · IJ1ra:ye elc; elp�VTJV Ka:Ì. '( o9 L ÙyL�ç a1TÒ tf)ç j.LOCO't'L yoç OOU. 5,34: «Ed egli le disse: "Figlia, la tua fede ti ha salvata; va' in pace e sii guarita dalla tua infermità"». v. 34. Il racconto termina con una triplice parola di Gesù. Egli la chiama «fi­ glia» (0uyatTJp, al nominativo piuttosto che al vocativo, come avviene anche al­ trove, cf. Le 8,48; Gv 12,15), così come chiamava il paralitico «figlio�� (tÉKvov, 2,5). Gesù parla come un padre ed esprime tutta la sua libertà paterna in queste tre pa­ role. Nomina la fede della donna; in 2,5, nel caso del paralitico, il narratore diceva che Gesù «vedeva la loro fede». Il parallelismo è interessante: la paternità di Gesù e la filiazione mediante la fede appartengono allo stesso campo semantico. Una cosa si rivela contemporaneamente all'altra. La tua fede «ti ha salvata», oÉowKÉv OE, al perfetto, come il '(a:ta:L incontrato sopra. Ella sa di essere «guarita>> davvero e lui la proclama «salvata», come uno stato ormai acquisito. L'espressione che coordina «fede» e «salvezza» risuona come una frase catechistica essenziale. Essa attraversa tutto il Nuovo Testamento (cf. Mc 10,52; cf. Rm 10,9; Mt 9,22; Le 7,50; 17,19; 1 8,42; At 16,31). «Va' in pace». Un saluto molto comune, conosciuto anche dall'Antico Testa­ mento (Gdc 18,6; 1Sam 1 ,17; 2Sam 15,9), e la cui portata dipende ogni volta dal con­ testo e dalla qualità della relazione (At 16,36 e Gc 2,16 sono due casi evidenti nei quali questo tipo di saluto è tutt'altro che soddisfacente). Qui, Gesù risponde al suo timore. Al timore divino succede la pace divina. «Sii guarita dalla tua infermità» (Co9L Ùy L�c; a1TÒ tf)c; �-taonyoç oou) e in buona salute: le promette un ristabilimento duraturo.

L'anonima in Marco che surclassa i discepoli

È la prima volta che incontriamo in Marco questo tipo di donna: in seguito incontrere­ mo ancora tre o quattro altri casi. Si veda la sirofenicia al capitolo 7, la vedova povera con il suo obolo alla fine del capitolo 12, la donna di Betania che spezza il suo vasetto di alabastro all'inizio del racconto della passione, e si potrebbero aggiungere, all'altro capo del racconto, le donne che si recano al sepolcro, la mattina di Pasqua, anche se queste ultime hanno un nome e sono conosciute come tali nella comunità. Volendo fare un rapido ritratto comune di tutte queste donne, si possono notare sei o sette caratteristiche che ritornano in tutte: - sono quasi tutte anonime; - sono povere, umiliate, a volte sfruttate come qui, emarginate, sottovalutate; - testimoniano la loro fede e la esprimono con un abbandono incondizionato; - sono in contatto con Gesù e Gesù è in contatto con loro, si riconosce in loro;

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- si trovano più di una volta più vicine a lui dei suoi discepoli; - sono ogni volta assolutamente esemplari: per Marco, incarnano il giusto atteggiamento nei riguardi dell'evento Gesù; si potrebbero leggere come l'espressione della sua anima, che compensa ciò che il suo anìmus può avere qualche volta di decisamente rude; - la loro grandezza consiste nella libertà della loro fede; rischiano tutto, senza timore. 5,35-43.

La risurrezione della figlia di Gialro

L'interruzione dovuta all'episodio dell'emorroissa costringe il narratore a n­ collegarsi al racconto iniziato sopra. Così i tre versetti che seguono costituiscono una transizione, e orientano anche ciò che segue offrendo la chiave decisiva: «Non temere, soltanto abbi fede». Aumentano la suspense, già prodotta dall'apertura: Òv 1aKwj3ou. 5.)7: «E non permise a nessuno di accompagnarlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo». v. 37. Gesù prende in mano la situazione e, in contrasto con la folla opprimen­ te, permette solo a tre dei discepoli di accompagnarlo. Questo movimento che va dalla grande folla ad alcuni riproduce quello che abbiamo già osservato lungo tutto il capitolo 4 (cf. vv. 1-2, poi 10-12 e infine 33-35). Questo si spiega con il carattere iniziatico del testo e con la sua dimensione esoterica. Se si tratta, in definitiva, di tra­ smettere un segreto, bisognerà necessariamente allontanarsi dalla folla. Uno sguar­ do sociologico sul testo potrà leggere qui anche una traccia della precarietà della comunità di Marco: il gruppo sa di essere marginale, oggetto di persecuzioni in un recente passato, desideroso di trasmettere le cose essenziali solo a coloro dei quali ci si può pienamente fidare. In questo contesto, una facile pubblicità o propaganda non è affatto raccomandabile. oÒK àl!>iìKEV ouliÉva («non permise a nessuno»): doppia negazione, frequente in Marco, cf. 1 ,44; e il verbo lii!> � Éva�. uno dei verbi ausiliari più frequenti in lui (33 volte). Con la negazione, cf. 1 ,34; 5,19; 1 1 ,16. auvaKoÀou8E1v («seguire, accompagnare»), verbo forte, espressivo, grazie al prefisso auv-, e che ritroveremo ancora una volta nel racconto della passione, con il giovane coperto da un drappo che cerca di seguire Gesù (14,51; cf. Le 23,49, a pro­ posito delle donne della Galilea). Il ruolo dei tre discepoli è esemplare: sono auto­ rizzati a essere «con lui» (iJ.Et' aòtou, come in 3,14; cf. 5,18), e saranno dei testimoni - i «due o tre>> richiesti per ogni vera testimonianza secondo la Torah (cf. Dt 19,15, citato in Mt 1 8,16). Si noti l'effetto ridondante del iJ.EtcX seguito dal auv- nel verbo. Al primo posto viene Pietro, che è e resta il testimone numero uno del van­ gelo in Marco. Poi l-. Per na.pa.1af.LpUvnv, cf. 4,36, ma anche e soprattutto 9,2 e 14,33, dove gli stessi tre discepoli sono oggetto dello stesso verbo. Il numero delle persone è ridotto. Saran­ no sette in tutto nella camera: il padre e la madre, i tre discepoli testimoni, Gesù e la bambina. I due movimenti - cacciare la folla e prendere qualcuno - hanno un aspetto esemplare: eliminare il molteplice ed entrare con grande semplicità nello spazio ridotto della camera, dove avverrà la cosa santa per eccellenza. Il racconto riproduce in modo speculare un'azione che evoca il cammino iniziatico. Ka.Ì. ElanopEUE'ta.L onou �v -rò na.LOLov. «Egli entra». Finalmente. Al presente storico, con un verbo quasi solenne. D'altra parte, la bambina viene indicata costan­ temente al neutro: -rò na. LÙLov («fanciullo», tre volte in due frasi e una quarta volta al versetto seguente). Questo la rende molto piccola, quasi una cosa, appena capace di comportarsi come un soggetto. v. 41 . «E prendendo la mano della bambina le dice». Anzitutto il gesto, poi la parola. Il gesto in questione ricorda il primo miracolo dello stesso tipo in privato, al capitolo l, con la suocera di Simone (1,31: «E avvicinandosi, la fece alzare prenden­ dola per la mano»; cf. 9,27). L'inclusione è significativa: Marco chiude la prima parte del suo racconto, e lo segnala con questo tipo di richiami. Ma questo gesto dell'uomo di Dio ritirato nella camera evoca anche le figure di Elia e di Eliseo, l'uno che risu­ scita il figlio della vedova di Sarepta (lRe 17,17-24), l'altro che risuscita il figlio della sunammita (2Re 4,18-37). Il primo invoca il SIGNORE e si stende per tre volte sul bam­ bino; il secondo, dopo l'insuccesso del suo servo Giezi, si chiude nella camera con il bimbo, prega il SIGN ORE e si stende sette volte su di lui («pose la bocca sulla bocca di lui, gli occhi sugli occhi di lui, le mani sulle mani di lui, si curvò su di lui»). Per chi conosce questi magnifici racconti, che sono pieni di colore e illustrano la grandezza dei due profeti, veri , la comparazione con il nostro passo è sorpren­ dente. Qui nessuna preghiera particolare, nessuna azione singolare, tutto viene rife­ rito nel modo più naturale possibile: prendere la mano e rialzare la persona coricata. 1Éyn a.ù-ru (le dice»). La mano è quella del «piccolo bambino» (-rou na.Lù(ou ), al neutro, ma quando parla si rivolge a lei, al femminile: a.ù-rfl. I grammatici parlano di costruzione ad sensum. Ma c'è di più. Attraverso la parola che le rivolge, ella ces­ sa immediatamente di essere un oggetto neutro: diventa un soggetto, una persona. Ta.1L9a. KOUf.L, o Èanv f1E9Epf.LT]VEu6fl.Evov Tò KopacrLOv, aoì. 1Éyw, EYHPE (). Semplicità del gesto, sem­ plicità delle parole. L'espressione aramaica viene immediatamente tradotta, il che ha l'effetto di smascherare subito ciò che una formula, in lingua straniera, potrebbe ave-

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re di magico. Gesù ha detto la cosa più naturale da dire quando si risveglia una bam­ bina dal sonno. D'altra parte, l'imperativo qum, accentuato dal fatto di essere ripe­ tuto nella traduzione: ÈyHpE, può assumere vari significati. Ciò che Gesù aveva detto alla folla - «dorme» - non viene contraddetto: egli viene a risvegliarla dal suo sonno. Ma questo imperativo: «Alzati! Svegliati!» evoca per i cristiani la risurrezione dai morti. I primi cristiani hanno potuto comprendere questo racconto solo come il segno che Gesù comunica qui il suo potere sul regno della morte, soprattutto se la nostra ipotesi è corretta ed essi lo ascoltano durante la notte pasquale, che è per eccellenza la notte della risurrezione. Il frammento di un antico inno in Ef 5,14 può chiarire l'eco che questo passo ha potuto avere nella comunità di Marco: Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà

EYHPE o Ka9Euliwv

KllL àva.oca ÈK 't"WV

VEkpWV

Kat ÈmljlauoH oot b Xpto't"oç.

I primi due verbi (Eyupe, &vcicn:a) si trovano tali e quali nel nostro racconto. Nella traduzione greca dell'espressione aramaica il narratore ha aggiunto due parole rispetto all'originale, che rafforzano l'interpellazione della figlia: aoì. ÀÉyw. Ciò ricorda la guarigione del paralitico a Cafarnao, al capitolo 2, dove risuona esat­ tamente la stessa espressione: aoì. ÀÉyw, ÉyHpE. Là, la guarigione aveva letteral­ mente la forma di una risurrezione: colui che era coricato, portato da altri, si risai­ leva, si alza dal suo letto e porta lui stesso la barella che lo sosteneva. La tradizione manoscritta esita fra qum e qumi (Kou�, KOU�L). Con l'aggiun­ ta di uno iota alla fine si rende femminile la forma imperativa del verbo. È ciò che avviene in particolare nella tradizione siriaca. Lagrange ritiene che l'originale (ben attestato da B, N, C, M, L, ecc.) fosse KOU� e che KOU�L sia una correzione per mi­ gliorare il testo. E aggiunge: «Forse Kou� è stato preso anche senza allusione al ses­ so, nel senso di "in piedi">> ( 144). Come J'airru era una costruzione ad sensum, così si può ammettere che il qumi nelle varianti testuali corregga e costruisca il verbo quoad sensum. Questo è interessante: Gesù dice alla fanciulla: «In piedi ! >> (qum), ma anche: «Fanciulla, alzati (qumi)», risvegliando in essa la donna. Gesù la prende sul serio nella sua persona e la obbliga a uscire da un'infanzia nella quale la sessua­ lità è ancora indistinta. Talità è reso con tò Kap6.a wv , che è il diminutivo di KOp� («serva, figlia») e nella Settanta traduce di solito il termine ;"T1DJ . La figlia di Erodiade sarà chiamata così (cf. Mc 6,22.28). Anche se il termine è neutro, c'è una differenza notoria fra «bambino» (na(òwv) e «ragazza>> (Kop6.owv). Perciò la sua risurrezione è anche un passaggio dall'infanzia all'età nubile di giovane donna. Del resto, al versetto se­ guente verrà indicata la sua età, che corrisponde precisamente all'età in cui si può contrarre matrimonio. L'aramaico in Marco In Marco ricorrono più formule in aramaico rispetto agli altri evangelisti: oltre a 5,41 , cf. 3,17; 7,11.34; 1 4,36; 15 ,22.34. Ciò deve essere stato considerato più popolare, ma anche più vicino all'originale, accentuando quindi il valore storico della testimonianza. Ma per la critica moderna questo non autentica a priori tutto ciò che viene dètto in aramaico. L'affabulazione non è il privilegio delle lingue greche o latine. Si può essere creativi e inventivi anche in aramaico o in ebraico. F�ne della seconda sezione della narratio: Marco 5, 1-43

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5,42: KaÌ. eò9Ùç livÉOTTJ tÒ KopUOLOV KaÌ. 'ITEp LE'ITUtH' �V yàp ÈtWV OWÙE:Ka. KUÌ. ÉçÉatT]IJilV eùaùç ÉKOtaiJH j!EyaÀ.'(l. 5,42: ((E subito la fanciulla si alzò e camminava, perché aveva dodici anni. Ed essi furono presi da grande stupore».

v. 42. «E subito la fanciulla si alzò e camminava, perché aveva dodici anni». La trasformazione è immediata, semplice e fresca. Non si possono leggere o ascoltare queste righe, con la simpatica aggiunta dei dodici anni, senza un sorriso. Si è colpiti, stupiti, ma anche toccati dalla tenera semplicità di Gesù, così vicino a questa gio­ vane donna. Ancora una volta, il verbo &vÉO'tTJ può essere inteso nel suo significato ovvio, rafforzato dal verbo 'ITEP LE'ITatE L che segue: «ella si alzò e camminava» (all'im­ perfetto in greco), ma anche nel significato arricchito che ormai i cristiani danno al verbo livÉotT]: «egli/ella è risuscitato/a». La bambina «Si alza>>, ma anche Gesù è intervenuto e l'ha «risuscitata>>; perciò ormai partecipa alla forza che permette di risorgere. Per il verbo nEp LnatEI.v, cf. Mc 2,9 (a proposito del paralitico guarito, cf. Gv 5,8.9.11.12; At 3,8); Mc 8,24; 12,38; [16,12]. Le piccole parentesi come quella che troviamo qui («aveva infatti dodici anni>>) sono state studiate da C.H. Turner all'ini­ zio del secolo scorso. Sono generalmente piene di effetto e si sbaglierebbe a sminu­ irne il valore e considerarle un segno di debolezza del narratore. Il lettore apprende che aveva l'età in cui normalmente si cammina. Ma c'è di più. Françoise Dolto, nelle sue conversazioni sul vangelo con Gérard Séverin (L'évangile au risque de la psychanalyse), legge gli episodi di queste due donne come un dittico. L'una è malata da dodici anni, l'altra ha appena raggiunto l'età di dodici anni. Quando l'una è nata, l'altra è morta nella sua capacità di generare figli. L'una è colpita nella sua ·maternità, l'altra entra nell'età nubile e potrebbe realizzare la sua femminilità. Gesù passa. Semina la vita, libera il desiderio. All'una dà la capacità di poter tornare a generare guarendola; all'altra conferisce la libertà diventando ciò che ella è: una donna nubile. Dotto suggerisce che la bambina fosse bloccata dall'ecces­ sivo attaccamento di suo padre; Gesù libera il desiderio e stabilisce la giovane figlia nella sua piena identità di donna, espressa dalla sua età.32 Ciò che a noi sembra fresco e tenero, non lo era necessariamente per gli ascoltatori del I secolo. Una giovane don­ na di dodici anni è considerata in linea di principio matura per la vita coniugale. La guarigione/risurrezione rivela la persona nella pienezza della sua dignità. Swete (104) segnala un'omelia di Agostino che accosta i tre racconti di risurrezione nei vangeli (Mc 5, la figlia di Giairo; Le 7, il figlio unico della vedova di Nain, e Gv 11, Lazzaro) (Sermo 98). Ka.Ì. ÉçÉotT]oav eùeùç ÉKataoH 1-LEYUÀ.'(l. Dopo la reazione della figlia, ecco la ripercussione su tutti i presenti. Qui il raddoppio del Ka.Ì. eùeuc; (cf. vv. 29 e 30) ha un effetto cumulativo. Ognuno è colto da timore, stupore e turbamento. Il verbo è

32 F. DoLTO - G. SÉVERIN, L 'évangile au risque de la psychanalyse, Paris 1977, l, 105-123. «Il fatto che questi due racconti siano associati nella trama evangelica significa che sono legati da un collegamen­ to inconscio organico e spirituale. In realtà, si tratta di una stessa storia: c'è una donna con il destino femminile bloccato e c'è un uomo con un destino paterno falsalo» (l 07). «Così come è, Giairo non può sopportare che la sua figlia cresca, che gli sfugga diventando nubile, poi donna, poi madre a sua volta» (l 12). «I genitori devono soddisfare i bisogni di questa bambina e non i suoi desideri. La bambina è mor­ ta, ha perso l'appetito di vivere: le avevano dato tutto, senza che essa potesse mai desiderare qualcosa da sé. [ . . ) "Datele da mangiare, non divoratela"» ( 1 19). .

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La narratio: Marco 1, 14-Q, 13

già risuonato alla fine della guarigione del paralitico (cf. 2,12) e un grande timore ha assalito i discepoli in occasione della tempesta sedata (4,41: É>). Quest'ulti­ mo tratto, collocato con effetto retorico al termine sia del racconto sia dell'intero

34 a. G. MoUNIN, «Structure, fonction, pertinence:

linguistique 10(1974), 21-32. 320

À propos de Thérèse Desqueyroux», in La La narratio: Marco 1, 14-6, 13

capitolo con i suoi tre grandi episodi, ha qualcosa di pungente. Considerando la grande composizione della sezione B della narratio,35 quest'ultimo tratto viene a rispondere all impasse segnalata proprio all'inizio: là si diceva che «non potevano neppure mangiare del pane» (3,20). Qui, in disparte, «bisogna darle da mangiare». Fra i due non si parla mai di mangiare. L'inclusione non è casuale: dopo 3,20 ve­ diamo i familiari venire da Nazaret per mettere le mani su di lui e riportarlo a casa. Qui, subito dopo, Gesù parte alla volta di Nazaret dove ritroverà il suo ambiente d'origine (6, 1). Così si chiude una grande sezione. Gli altri due vangeli sinottici hanno modificato questa finale di Mc 5. Il loro genere letterario è diverso e la loro composizione presenta tutt'altra disposizione. Matteo non menziona neppure il divieto di parlare, dicendo al contrario che «la notizia si diffuse in tutta quella regione» (Mt 9,26, un'idea che verrà ripresa tale e quale in 9,31, come un ritornello, e che sembra ripresa da Mc 1,28, la conclusione dell'episodio che Matteo non ha conservato; così non perde tutto ciò che ha elimi­ nato). Luca inverte l'ordine: Gesù prima raccomanda di dare da mangiare e poi «ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto>> (8,55-56). L'effetto finale non è più lo stesso, e non c'è più neppure inclusione con il passo precedente, perché sia Luca che Matteo non hanno ripreso Mc 3,20-21. Anche questo tratto di un pasto come punto conclusivo può essere interpreta­ to in relazione con la notte iniziatica: sappiamo che dopo la veglia e dopo il rito del battesimo nel quale ci si sottopone, con Gesù e in suo nome, al processo di morte e risurrezione alla nuova vita, giunge il tempo del mangiare: si procede alla cosid­ detta «frazione del pane>> e si compie il rito eucaristico. Giustino, nella sua grande Apologia (I, 61.65-66), ci ha descritto il modo in cui lo si faceva al suo tempo. Come picchetto fra Giustino e Marco si può pensare a un passo degli Atti (20,5-12). Il narratore ricorda che siamo nella settimana dei pani azzimi. La not­ te dal sabato alla domenica si veglia nella stanza al piano superiore, dove ardono molte lampade. Si ascolta non il Vangelo di Marco (che è il vangelo di Pietro), ma l'apostolo Paolo e il suo insegnamento. Si dice che un ragazzo (vEav(aç) si addor­ menta e nel sonno . . Paolo scen­ de, si china su di lui, lo prende in braccio e assicura che . Si ritorna nella stanza al piano superiore, «Si spezza il pane e si mangia>>. Nel frattem­ po il ragazzo ha ripreso coscienza: . La storia così riferita è certamente un aneddoto. Ma, come spesso avviene in Luca, è ben più di questo. Vi si può leggere in filigrana l'abitudine di vegliare nella notte fra il sabato e la dome­ nica, dopo il 14 Nisan, e ascoltare la haggadah cristiana, nella testimonianza delle Scritture, quelle di Pietro o quelle di Paolo. Poi «i giovani», gli iniziandi chiamati all'epoca proprio «giovani>> (VEav(oKOL o VEav(a L), ricevono il battesimo come un processo di morte, per uscirne rivivificati e rivestiti di una tunica bianca e accedere poi al pasto eucaristico in comunità. «Datele da mangiare>> diventa l'ordine del vero padrone di casa, che invita i nuovi membri alla comunione della tavola. Così la «giovane>> compie nella sua per­ sona tutto il cammino iniziatico: è passata dalla morte alla vita e, prendendo cibo dietro ordine di Gesù, termina questo percorso. '

35 Cf. supra, pp. 270s.

Rne della seconda sezione della narratlo: Marco 5, 1-43

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TERZO DITTICO E CONCLUSIONE DELLA NARRATIO: MARCO 6, 1 - 1 3

Le due pericopi seguenti (6,1-6a e 6,6b-13) formano un nuovo dittico su Gesù e i suoi discepoli, il terzo e ultimo in quella che noi abbiamo individuato come pri­ ma parte del vangelo, la narratio (1,14--6,13; cf. 1,14-20 e 3,7-19). Vedremo infatti che molte cose annunciate e iniziate fin dal capitolo l si chiudono in queste ultime due unità narrative. Vedremo anche che i tre dittici trovano qui il loro punto d'ar­ rivo e la loro conclusione: qui si realizza effettivamente la parola programmatica di Gesù ai primi discepoli che ha chiamato per farne dei «pescatori di uomini», con­ fermata dalla chiamata dei Dodici in 3,13-19. Essi fanno proprio il programma di Gesù, «proclamando che la gente si converta» (6,12; cf. 1,14-15); in questa parte il verbo «convertirsi» (f.LEtavoE'l.v) si trova solo qui e in Mc 1,15. I tre dittici che inqua­ drano le dieci (1,21-3,6) e le dodici unità (3,20-5,43) formano un tutto unico che termina con la partenza in missione dei Dodici. Si torna a Nazaret, da dove Gesù era partito (1,9), e si ritroveranno i suoi fa­ miliari che erano venuti da Nazaret a Cafarnao «per prenderlo» (cf. 3,20-21, passo che segue il secondo dittico). Ora Gesù si reca spontaneamente dai suoi, non per restare nascosto e tranquillo, come loro avevano sperato che facesse, ma per (13,55). Alcuni manoscritti di Marco hanno seguito la versione di Matteo su questo punto, dando luogo a una frase piuttosto accidentata in greco. Celso critica il movimento cristiano, il cui fondatore aveva come unico mestiere quello di falegname. Orige­ ne lo confuta affermando che «da nessuna parte» nei vangeli è scritto che Gesù in persona fosse «falegname» (Contra Ce/s. VI, 36). Egli si basava probabilmente su Matteo e su una delle varianti del testo di Marco, per affermarlo in modo così pe­ rentorio. Si avverte l'imbarazzo. Perché non ricordare il nome del padre, invece di quello della madre? Anche quando il padre è già morto, si continua a nominare qualcuno dicendo di chi è figlio e collocandolo nel suo albero genealogico. Poiché la frase vuole essere un'espres­ sione di disprezzo, ci si riferisce a sua madre, e poi ai suoi numerosi fratelli e persi­ no alle sue sorelle. Tutto questo serve allo stesso processo di svalutazione. In Gdc 11 c'è un caso analogo piuttosto interessante, nel quale un capo viene sqUalificato a causa di sua madre, nonostante la dignità del padre: « viene ricordato anche in Mt 13,55; At 12,17; 15,13; 21,18; lCor 15,7; Gal 1,19; 2,9.12. Forse si deve pensare a lui in Gc 1,1, come Gd l potrebbe volersi riferire all'altro fratello di Gesù, ((Giuda» (cf. Mt 13,55).2 Riguardo a questo Giuda. Eusebio (Hist. ecc/. III, 20) ha conservato la tradizione secondo cui i nipoti vivevano ancora sotto Diocleziano e lavoravano con le proprie mani. Gesù, come suo fratello Giuda, esercitavano lo stesso mestiere che, stando a Mt 13,55, esercitava il loro padre e che, secondo l'usanza, avrebbe trasmesso loro (cf. TosQid 1 , 1 1 ; bSan 106ab; cf. Bill. Il, lOs). In 1Cor 9,5 anche Paolo ricorda i fratelli di Gesù come sposati. L'ordine dei nomi propri non è lo stesso in Mt 13,55 (Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda). La forma del nome dell'altro fratello, >, «fra i suoi parenti>>, «in casa sua>>. Una tale enfasi deve corri­ spondere a una preoccupazione più specifica dell'evangelista. Evocando i parenti, il testo torna sui passi di 3,21 e 31-34, dove la famiglia non credeva in lui o dove lui le si manteneva a distanza. Trattandosi qui del primo caso in. cui Gesù parla di sé come profeta, e avendo visto che già nel prologo e nel primo episodio a Cafarnao egli deve la sua autorità allo spirito di profezia, come un altro Mosè, ci si può chiedere se non si debba vede­ re anche qui, in questa sottolineatura, un'esplicita allusione a Dt 18,15.18. Infatti là si dice due volte: «Il Signore Dio susciterà per te un profeta come me tratto dai tuoi fratelli» (ÉK twv ocùEJ..> (E�EÀ9E ÈK t�ç y�ç oou Kat ÉK t�ç ouyyEvE i.aç oou K«L ÈK toD oi.Kou toD na-rpoç aou). È la via che farà del patriarca una benedizione «per tutte le tribù della terra» (K«L ÈVEUÀoy��oov-ra L Èv oot niioa L al >, e della vigilia della sua comparizione davanti a Erode (12,3.6; , v. 4). La cosa sorprendente, per il nostro contesto, è che l'ordine dell'angelo corrisponde all'ordine del SIGNORE in Es 12,1 1, e che il risultato è, come là, una liberazione miracolosa. Di nuovo, come in A t . 20,5s, Luca racconta una storia unica e aneddotica, ma la portata dell'avvenimento oltrepassa di gran lunga il breve episodio.13 Gli altri due evangelisti non hanno conservato questi due dettagli di Marco, perché il loro genere letterario e il contesto della proclamazione del loro racconto evangelico non erano più gli stessi. In realtà, questi dettagli non sono più pertinenti se si elimina il contesto pasquale. Ultima osservazione riguardo ai sandali. Il termine greco è prezioso: ricorre solo quattro volte nell'Antico Testamento (Gs 9,5; ls 20,2; Gdt 10,4; 16,9) e contra­ sta con il termine molto più frequente di scarpa: tl1TOOTJlll (cf. Le 10,4). Il sandalo è una calzatura leggera, che si indossa per andare a una festa (cf. Giuditta, in 10,4 e 16,9). Marco, e il Gesù di Marco, invita i suoi a prepararsi per una festa. Si può co­ gliere una doppia risonanza: si tratta della festa verso la quale si sta andando, cioè quella della Pasqua, né più né meno; e si tratta di fare eco a ciò che dice il profeta: (Is 52,7; cf. Na 1 ,5 LXX). Questa profezia viene citata più volte nel Nuovo Testamento in relazione agli o a coloro che «annunciano la buona no­ vella» (cf. At 10,36, discorso di Pietro presso Cornelio, a proposito di Gesù stesso; Rm 10,15; Ef 6,15). Questo allineerebbe i Dodici a Gesù in persona e alla sua prima predicazione del dicendo a tutti: «Regna il tuo Dio!>> (cf. 1 ,14-15), e rafforzerebbe ulteriormente l 'effetto di inclusione fra l'apertura della narratio e la sua finale. Marco, per introdurre il sandalo, ha dovuto modificare la struttura grammaticale della frase.

" Gli antichi consideravano la storia come scarsamente filosofica rispetto alla tragedia. Infatti la storia racconta solo aneddoti, cose che succedono una volta sola, mentre il dramma racconta ciò che è di tutti i tempi e mette in scena la condizione umana in quanto tale. Così, un bravo storico cercherà da conferire a ciò che racconta un'altra profondità, mostrando che ciò che è successo una volta si ritrova in un certo modo continuamente. Cf. anche il racconto dei discepoli di Emmaus (o l'incontro di Filippo con l'eunuco in At 8), che riproduce in modo speculare i due movimenti di ogni celebrazione comunitaria : l'ascolto delle Scritture, confrontate con la testimonianza di Gesù, e la frazione del pane (o il battesimo). Terzo dittico e conclusione della narratio: Marco 6, 1 - 13

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6,10-11: Ka:Ì. fM:yev o:Ùt"otç, �'Onou èà.v eloÉÀ9fl'tE €le; otKLa:v, fKet �ÉVETE (wç

àv È/;ÉÀ.8TJ'tE ÈKEL8Ev. 11KOCÌ. oc; àv -r6noc; Il� ùÉ/;T)'tOCL òl.llic; I.ITJOÈ: Ò:KOIJOWOLV UI.IWV,

ÈKnopEUOI.IEVOL ÈKE'i8Ev ÈKnv�oc-rE -ròv xouv -ròv U1TOKihw -rwv noowv ÒI.IWV ELç I.IOCP'tUp LOV ocù-ro'ic;. 6,10-11: «E diceva loro: "Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non par· tiate di lì. E se un luogo non vi accoglie e non vi ascoltano, uscite di lì e scuotete la polvere cbe è sotto i vostri piedi in testimonianza contro di loro». vv. l 0-1 1 . Segue una seconda serie di raccomandazioni che riguardano il com­ portamento dei Dodici durante la missione. La frase è in discorso diretto e intro­ dotta da un KOCÌ. EÀ.qEv ocù-ro'ic; all'imperfetto, che le conferisce una durata. Per onou Èav («dovunque>>) cf. 6,56; 9,18; 14,9.14. €wc; àv («finché>>) ritorna in 9,1 e 12,36. La disciplina riguarda l'accoglienza incontrata. Anzitutto si considera il lato posi­ tivo, poi quello negativo. La formulazione della prima raccomandazione sembra un'affermazione ovvia: «entrare in una casa e restarvi fino a quando se ne esca»; come fare altrimenti? Qui Marco sembra riassumere un insegnamento in un modo così stringato da renderlo quasi incomprensibile. Si può comprendere nel senso che Gesù invitava il discepolo ad accettare la prima accoglienza che gli veniva offerta, senza voler fare una scelta, «andando di casa in casa» (cf. Le 10,7), il che è una bel­ la ascesi. Questo per la visione positiva. In caso contrario, quando un luogo non li accoglie e non li ascolta, se ne andranno facendo un gesto eloquente: scuotere la polvere dai loro piedi, in testimonianza per loro. Lane (208, n. 35) nota che l'ulti­ ma espressione () è aggiunta per rendere il gesto, immediatamente compreso dai semiti, comprensibile anche agli occidentali. La for­ mulazione si trova già in Mc 1 ,44 (cf. 13,9; cf. Geo 21 ,30 e Dt 31 ,19, a proposito del cantico). Il gesto in sé, come lo spiega Lagrange citando la ricerca di J. Lightfoot (Horae hebraicae et talmudicae Il, 315s), è tipico della sensibilità ebraica e come tale