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Italian Pages 336 [325] Year 1999
Nuovo Testamento Seconda serie a
cura di Peter Stuhlmacher e Hans Weder
I
Il vangelo secondo Marco
Paideia Editrice
Il vangelo secondo Marco Eduard Schweizer
Paideia Editrice
a Karl Barth per il suo 8o0 compleanno
Titolo originale d eli, opera:
f?.as Evangelium nach Markus
Ubersetzt und erklart von Eduard Schweizer Traduzione italiana di Bruno Corsani Revisione di Franco Ronchi
© Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 11998 © Paideia Editrice, Brescia I 999
ISBN 88.J94·05 79·8
Indice del volume
9
Elenco delle abbreviazioni
II II II I4 I7 I9 2I
Introduzione 1. I sin ottici 2. La questione storica 3· I detti di Gesù 4· Le storie di Gesù 5 . Il problema della verità 6. Il lavoro teologico di Marco
25
Parte prima Il principio ( I , I- I J )
38
Parte seconda La piena potestà di Gesù e la c ecità dei farisei { I,I4-3,6)
64
Parte terza L'attività di Gesù in parabole e segni e la cecità del mondo (3 ,7-6,6a)
I 03
Parte quarta Attività di Gesù fra i pagani e cecità dei discepoli ( 6,6b-8,2 I)
IJ J
Parte quinta La rivelazione di Gesù in parole piane e la sequela dei discepoli (8,22-I0, 52)
I84
Parte sesta Passione e risurrezione del Figlio dell'uomo (I I , I - I6,8)
3 I2
Retrospettiva L'opera teologica di Marco
32I 323
Bibliografia Indice analitico
26 39
Excursus Evangelo { I , I ) Il regno di Dio ( I, I 5 )
43
46 62 7I 87 97 1 03 1 36 1 84 239 243 253 263 290 298 299 301
Scribi, farisei, sadducei, anziani, sinedrio ( I,2r-28) Il segreto messianico (I, 3 4) La posizione di Gesù circa la concezione farisaica della santificazione del sabato (3, I-6} Le parabole (4, I-9) Racconti di miracoli (4,3 5-4 I) Risurrezione dai morti {5,43 ) La cerchia dei dodici (6,7- I3) Il Figlio delPuomo {8,27-3 3 ) La storia della passione (I I, I- I6,8) La pasqua ebraica (14,12- I6) Le parole d'istituzione della cena del Signore (I 4,22-2 5 ) Abba (14,36) I problemi storici del processo di Gesù (14, 5 3-72) Figlio di Dio (1 5,39) I racconti di pasqua { I6,1-8) La chiusa di Marco ( I 6, I -8) La scoperta della tomba vuota (16,1-8)
Elenco delle abbreviazioni
Scritti biblici Ab. Abacuc. Abd. Abdia. Agg. Aggeo. Am. Amos. Apoc. Apocalisse. Atti Atti degli Apostoli. Bar. Baruc. Cant. Cantico dei cantici. Col. Lettera ai Colossesi. I, l Cor. Prima, seconda lettera ai Corinti. I, l Cron. Primo, secondo libro delle Cronache. Dan. Daniele. Deut. Deu teronomio. Ebr. Lettera agli Ebrei. Ecci. Ecclesiaste. Ef. Lettera agli Efesini. Es. Esodo. Esd. Esdra. Est. Ester. Ez. Ezechiele. Fil. Lette ra ai Filippesi. Film. Lettera a Filemone. Gal. Lettera ai Galati. Gd. Lettera di Giuda. Gdt. Giuditta. Gen. Genesi. Ger. Geremia. Giac. lettera di Giacomo. Giob. Giobbe. Gion. Giona. Gios. Giosuè. Giud. ·Giudici. Gl. Gioele. Gv. Vangelo di Giovanni. I, 1, 3 Gv. Prima, se conda, terza lettera di Giovanni. Is. Isaia. Lam. Lamentazioni. Le. Vangelo di Luca. Lev. Levitico. I, .2 Macc. Primo, secondo libro dei Maccabei. Mal. Malachia. Mc. Vangelo di Marco. Mich. Michea. Mt. Vangelo di Matteo. Naum Naum. Neem. Neemia. Num. Numeri. Os. Osea. I, l Pt. Prima, seconda lettera di Pietro. Prov. Proverbi. I, 1 Re Primo, secondo libro dei Re. I, l, J, 4 Regn. Primo, secondo, terzo, quarto libro dei Regni (LXX). Rom. Lettera ai Romani. Rut Rut. Sal. Salmi. I, .2 Sam. Primo, secondo libro di Samuele. Sap. Sapienza di Sa lomone. Sir. Siracide (Ecclesiastico). Sof. Sofonia. I, .2 Tess. Prima, seconda lettera ai Tessalonicesi. 1, .2 Tim. Prima, seconda lettera a Timo teo. Tit. Tito. Tob. Tobia. Zacc. Zaccaria.
Q
=
fonte dei discorsi di Gesù utilizzata da M t.
e Le.
Scritti giudaici del II/I secolo a. C. di Damasco (Qumran). Hen. aeth. Libro etiopico di Enoc (la data di composizione varia secondo le parti). Iub. Libro dci (iiubilci (giudaico sacerdotale, n sec. a.C.?). LXX Septuaginta (traduzione greca dell'A.T.). Mart. Is. Martirio di Isaia. Ps. Sal. Salmi di Salomone (farisai ci, LXX). I Q, 4Q ecc. Scritti di Qumran (cf. sotto, p. 322). Test. XII Te stamenti dei dodici Patriarchi. CD Documento
Scritti giudaici del I/II secolo d. C. e posteriori Apoc. Esd. gr. Apocalisse di Esdra (n sec. ? Roma? rielaborazione cristia na). Apoc. Mos. Apocalisse di Mosè. Ass. Mos. Assunzione di Mosè (I sec. d.C.). Bar. syr. Apocalisse siriaca di Baruc (fine I sec.). bSanh. Talmud babilonese, Sanhedrin. 4 Esd. Quarto libro di Esdra. Filone Filone Ales sandrino, vari scritti (fino al 50 d.C., Alessandria d'Egitto). Giuseppe Fla vio Giuseppe: Ant. Antichità giudaiche; Ap. Contro Apione; Beli. Guerra giudaica; Vita Vita Iosephi (fine r sec., Roma). Hen. slav. Apocalisse sla va di Enoc. los. As. Giuseppe e Asenet. Ps. Filone Pseudo Filone, Liber Antiquitatum Biblicarum (influenzato da Qumran ?).
Scritti cristiani del If/I secolo d.C. e posteriori Atti di Giovanni ( III sec., Siria?). Act. Pii. Atti di Pilato ( Iv-v sec. ?). Act. Thom. Atti di Tommaso (nr sec., Siria?). Barn. Lettera di Barnaba (ca. IJO/ I40 d.C.). 1 Clem. Prima lettera di Clemente (circa il96, Roma) . .2. Clem. Seconda lettera di Clemente (omelia, metà II sec.). Clem. Al., Paed. Clemente Alessandrino, Pedagogo (circa 200 ). 3 Cor. Terza let tera ai Corinti (parte degli Atti di Paolo, circa 200, Asia Minore?). Di d. Didachè (ordinamento ecclesiale, fine I sec.; Siria?). E p. Ap. Epistola dei XII Apostoli (antignostica, prima metà II sec. ?). Eusebio Eusebio, Storia ecclesiastica (verso il )OO). Ev. Eb. Vangelo degli Ebioniti (prima metà II sec., Transgiordania?). E v. Hebr. Vangelo degli Ebrei (giudeocristiano, prima metà II sec.). Ev. Naz. Vangelo dei Nazarei (giudeocristiano, prima metà II sec.). Ev. Petr. Vangelo di Pietro (giudeocristiano, metà II sec.). Ev. Thom. Vangelo di Tommaso (metà n sec., Siria). lust. Giustino mar tire (metà n sec.): Apol. Apologia; Dial. Dialogo con l'ebreo Trifone. lust., Res. Pseudo Giustino, Risurrezione (metà II sec.). Ign. Ignazio di Antio chia (vescovo, I I o d.C. ca.): Eph. Epistola agli Efesini; Poi. Lettera a Poli carpo; Smyrn. Epistola alla chiesa di Smirne. Ippolito Ippolito di Roma, Confutazione di tutte le eresie (circa 2oo). lreneo lreneo, Contro le eresie (scritto polemico, fine n sec.). Ker. Petr. Kery gma di Pietro (prima metà n sec.). Origene Origene, Contro Celso ( III sec.). Policarpo Policarpo, Let tera ai cristiani di Filippi (metà II sec.). Ps. Clem. Opere pseudoclementi ne (Omelie, Riconoscimenti, 200 ca., Siria). Act. lo.
Introduzione
I. Poiché i primi tre vangeli (per il termine «vangelo» o «evangelo » v. a r , r ) coincidono notevolmente nella presentazione dell'attività di Ge sù, essi vengono chiamati sin ottici, «quelli che guardano insieme» . La coincidenza non si manifesta soltanto nel testo, che a volte è identico fin nei minimi particolari (cf., ad es., Mt. 3,7b- I o con Le. 3,7b-9 oppu re Mc. 8,34b-3 7 con Mt. r 6,24b-26 e Le. 9,2 3 b- 2 5 ), bensì anche, e so prattutto, nell'ordine della materia, che in Matteo tuttavia è trattato con maggior libertà, mentre Luca segue per lo più la struttura di Mar co, inserendo una quantità di materiale esclusivamente suo solo nella sezione 9, 5 I- I 8,1 4· Questi fatti si spiegano solo ammettendo che gli evangelisti seriori abbiano conosciuto le opere dei loro predecessori. La soluzione più verosimile del problema sinottico e quella che è ri sultata più soddisfacente nel corso degli ultimi cento anni è la cosid detta teoria delle due fonti. Secondo questa ipotesi Marco è il vangelo più antico, conosciuto e utilizzato dagli altri due che si sono altresì ser viti (cf. intr. a 4,26-29) della cosiddetta fonte di logia (R ede quelle , no ta con la sigla Q; cf. introduzione al Vangelo di Matte o). Inoltre tutti e due i vangeli seriori, come del resto anche Marco, hanno pure molti elementi particolari o comuni tratti dalla tradizione orale. Perlomeno Luca ha verosimilmente conosciuto, oltre queste, anche altre tradizio ni che erano già state messe per iscritto. Se Marco abbia conosciuto la fonte Q, che certamente è più antica del suo vangelo, ne abbia tratto qualcosa, ne abbia deliberatamente tralasciato altro (ripreso poi da Matteo e Luca) è questione tutta ancora da chiarire (cf. a I ,7.8; intr. a
6.7- I J ; 8, I I - I J) 2. Nel paragrafo 5 si tornerà sulla questione se almeno il più antico dei vangeli rispecchi fedelmente i fatti come sono realmente avvenuti e si vedrà che la risposta dipende da che cosa s'intende con questa do manda. Anzitutto si deve riprendere la ricerca degli ultimi decenni. Già nel 1 9 1 3 Albert Schweitzer, nella sua Storia della ricerca sulla
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Introduzione
vita di Gesù (che nella I ediz. del I 906 era intitolata Da Reimarus a Wrede), era giunto alla conclusione che non si poteva più scrivere una a
«vita di GesÙ » (nel senso di una comune biografia). Ancora prima il libro di William Wrede, Il segreto messianico nei vangeli ( 1 90 1 , 2a ediz. ugualmente del 1 9 1 3 ) aveva messo in evidenza che la struttura dello stesso vangelo di Marco appare del tutto inverosimile e che tutti gli ele menti importanti per una biografia dovrebbero essere suppliti facendo ricorso alla fantasia. Già lo stesso Marco vuoi predicare Gesù quale Figlio di Dio più che darci una descrizione della vita di Gesù interes sata al suo sviluppo esteriore e interiore. Questa conclusione venne ri badita quando nel suo libro del 1 9 1 9, Der Rahmen der Geschichte ]e su, K.L. Schmidt analizzò la «cornice» della storia di Gesù, cioè tutti i piccoli brani connettivi, le introduzioni, le formule conclusive, talora i brevi sommari dell'attività di Gesù, che «incorniciano)) e tengono in sieme i singoli episodi. Questa cornice appare in gran parte casuale e molti dei dati ivi forniti non possono essere storicamente esatti. Così, nel passo compreso tra 1 , 1 4 (o per lo meno 1 , 2 1 ) e 1,34 con l'esempio di un solo giorno si descrive quello che presumibilmente è accaduto in più giorni. Quest'osservazione vale soprattutto per Matteo il quale in serisce a questo punto anche tutto il sermone sul monte, sicché questa singola giornata si estende per lo meno da 5 , I fino all'osservazione di 8, 1 6 (ripresa da Marco) che la sera scendeva. Ora quest'indicazione dell'ora ha senso in Marco ove la giornata era presentata come un sa bato ed era quindi lecito trasportare gli ammalati dopo il tramonto del sole; ma in Matteo non lo ha più. Ancora più difficili sono le indica zioni cronologiche in Mc. 4,3 5: Gesù siede ancora nella barca come in 4,2, pur essendosi separato dal popolo (4, I 0) per restar solo con i di scepoli; inoltre è sera: senza dubbio, per Marco, la fine della giornata iniziata in 4, I . Ma il secondo vangelo non riferisce nulla della notte che dovrebbe essere intervenuta: fa procedere Gesù direttamente dalla barca alla guarigione del geraseno, ritornare alla riva occidentale, gua rire la donna e risuscitare la figlia di J airo, per poi andare «da lh) a N a zaret. Ciò mostra che Marco non ha alcun interesse per dati cronolo gici precisi. Lo stesso vale per le indicazioni geografiche che a volte sono scarsamente probabili {v. a 5 , I ; 7,3 1; 1 0, 1 ; I I , I). Spesso anche i brevi incisi fra una sezione e l'altra sono stereotipati; frequentissima è la formula di transizione tipica di Marco «e subito ... ». Spesso si legge che G esù è stato «in casa» senza che si sappia mai di che casa si tratti.
La questione storica
I3
L'espressione sta semplicemente a indicare che Gesù era solo con i suoi discepoli o che voleva stare da solo (v. a 2, 1 ). Analogamente «il monte» sta a significare che Gesù cerca la vicinanza di Dio oppure che sta parlando in maniera particolare per diretto incarico di Dio. Soprat tutto Marco ordina la materia in base al contenuto e non alle circo stanze biografiche. Così, ad es. in 2, I -3 ,6, mette insieme una serie di soli dibattiti polemici. L'evangelista ha dunque raccolto tradizioni che, in generale, gli so no giunte come racconti isolati o detti singoli che egli prima «incorni cia» e poi adatta al tutto. Lo si potrebbe paragonare a un bambino il quale infili in successione perline di vetro che prima erano sparse da vanti a lui. Quello che Marco vuoi dirci va dunque cercato proprio in questa «cornice» e nella struttura del suo vangelo. Ecco un semplice esempio per illustrare quanto si è detto. Secondo Mc. I I , I -2 5 Gesù en trò a Gerusalemme e la sera ritornò a Betania. La mattina seguente ma ledisse il fico, poi cacciò i mercanti dal tempio e lasciò nuovamente la città. La terza mattina i suoi discepoli trovarono il fico seccato quan do entrarono di nuovo in Gerusalemme con lui. Così la purificazione del tempio è incorniciata dalla maledizione del fico che per Marco sim boleggia il giudizio che minaccia Gerusalemme e il tempio. Al tempo stesso le parole sulla potenza della preghiera (vv . 2 2- 2 5 ) vengono col legate strettamente al detto del v. 1 7, importante per Marco, sulla «ca sa di preghiera per tutti i popoli» (v. a I 1 , 1 2-26). Matteo ha condensa to l'ingresso in Gerusalemme e la purificazione del tempio nella prima giornata così che la maledizione del fico e la morte dell'albero accado no insieme il secondo giorno, col risultato di una maggiore concentra zione del corso degli avvenimenti e-di un più grande risalto del mira colo della maledizione. Da un punto di vista strettamente storico (nel senso moderno della parola) non si possono armonizzare i due rac conti, ma ciascuno degli evangelisti, con la disposizione data alla Ina teria, annuncia ciò che gli è parso importante in quell'avvenimento anche se poteva essere colto solo da un credente. Ancora più intcres· sante è quel che facciamo osservare nell'intr. a 3 ,20-3 5 (cf. a 1 5 , 2 5). Se si esamina questo lavoro di Marco nei versetti di transizione e negli incisi, nei brevi sommari e anche nel modo di mettere insieme la materia, di selezionarla e organizzarla, apparirà la sua teologia, quello che desidera dire con la sua predicazione. Alcune parole tipiche che ritornano frequentemente in tali versetti (v. a 1,1-8 e 1,21-18) carattc-
14
Introduzione
rizzano il suo messaggio del quale, con uno sguardo retrospettivo, cer cheremo di dare un compendio alla fine del commento. Dal punto di vista metodologico questo procedimento è chiamato oggi comunemen te analisi della redazione (Redaktionsgeschichte) perché prende in esa me l'attività redazionale dell'evangelista. 3· Più antica di questo relativamente nuovo ramo della ricerca bibli ca è la cosiddetta analisi delle tradizioni (Traditionsgeschichte), l'esa me della storia dei singoli brani prima che entrassero a far parte del van gelo di Marco. È veramente possibile saperne qualcosa ? In questo cam po molto è incerto e rimarrà tale, tuttavia si possono fare alcune os servazioni. Anzitutto è chiaro che già prima di Marco si erano raccol te parole di Gesù e racconti sulla sua perspna, come mettono in evi denza le introduzioni a 2, I J - I 7; 3,7- 1 2; 5 , 2 1-43; 9,4 1 - 50. Quest'ulti mo brano permette ancora di riconoscere il modo in cui tali raccolte sono sorte. Quando si volevano inculcare, ad esempio nell'istruzione prebattesimale, certi detti importanti di Gesù sul vero discepolato, que sti venivano raccolti in base ad alcune determinate parole-chiave, in modo che potessero più facilmente essere imparati a memoria (v. a 9, 4 1 -50). Il racconto della passione, poi, era stato narrato fin dai tempi più antichi come un tutto organico (cf. excursus prima di 1 1 , 1 ). Con tutta probabilità lo si ripeteva nelle celebrazioni della Settimana Santa e forse anche (in forma abbreviata ?) in ogni celebrazione della cena del Signore (cf. 1 Cor. 1 1 ,23 e a Mc. 1 4 , 2 2 - 2 5 ) Più tardi lo si mise per iscritto per farne una lettura pubblica. L'analisi delle forme letterarie (Formgeschichte) è un metodo parti colare dell'analisi delle tradizioni. Essa tende a ricostruire la storia del le singole parole o dei singoli episodi prima che venissero a far parte di una raccolta. Il suo punto di partenza è la tesi che la forma lettera ria che i singoli brani hanno ora nei vangeli permetta ancora di rico noscere il loro cosiddetto «ambiente vitale» (Sitz im Le ben), la situa zione in cui ogni detto o racconto ha ricevuto una forma ed è stato usa to dalla comunità per uno scopo determinato. Questo procedimento può esser individuato abbastanza facilmente ogni volta che la comuni tà ha inserito a posteriori una parola di Gesù in una situazione parti colare, simile a quella in cui essa stessa si trovava. Le. 1 3 ,34 s. pone il lamento di Gesù su Gerusalemme durante l'attività di Gesù in Galilea, subito dopo che egli ha preannunciato che salirà a Gerusalemme per .
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detti di Gesù
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esservi ucciso, sottolineando così l'importanza della sofferenza e della morte di Gesù in quel luogo. Mt. 23,3 7-39 ricollega invece lo stesso detto a un discorso contro i farisei e in questo modo esso acquista una forte punta polemica nel quadro delle discussioni della comunità pri mitiva con i farisei. Ci sono però anche casi nei quali la comunità ag giunge a un detto tradizionale la descrizione della situazione. Così, ad es., troviamo ancora nel 111 sec. d.C. (Ps. Clem., Hom. 8,7) un detto di Gesù (Le. 6,46) ampliato: «Ad uno che lo chiamava spesso Signore, ma non faceva nulla di ciò che egli diceva, il nostro Gesù disse: Perché mi chiami Signore, Signore, e non fai quello che io dico ? Il dire infatti non giova a nulla, bensì il fare». Così la parola di Gesù è spiegata me diante un'aggiunta e il suo significato è messo maggiormente in evi denza mediante l'informazione sulle circostanze in cui sarebbe stata pronunciata. Il narratore antico non è in grado di distinguere nettamen te, come un autore moderno, mediante virgolette o note a piè di pagi na, la sua interpretazione dal detto di Gesù: la aggiunge semplicemen te a questo. Anche informazioni di carattere storico sull'occasione in cui Gesù avrebbe pronunciato questa o quell'altra parola, sono state aggiunte già prima di Marco per sottolinearne l'importanza per la co munità (cf. intr. a 2, 1 3 - 1 7; 7, 1 -23; 9,3 3 - 3 7 ecc.). In questi brani il vero centro è costituito dalla parola di Gesù; la cornice narrativa è stata aggiunta solo in funzione della parola. Inoltre possono essere scelti episodi che senza dubbio si sono svolti così com'è narrato, o in modo simile, al tempo di Gesù {v. a 2, 1 3 - 1 7); ma può anche capitare che una situazione o una problematica sorta nella comunità venga proiettata in dietro nella vita di Gesù (v. a 9,3 8-40). Un esempio interessante è Mt. 1 2, 1 1 = Le. 1 4, 5 . Tutt'e due le volte il detto di Gesù serve per discute re il problema dell'osservanza legale del sabato, che aveva tanta im portanza per la comunità primitiva; ma l'episodio in cui esso appare è diverso nei due passi. Mc. 3 , 1 -6, poi, racconta lo stesso episodio di Matteo, ma contiene un'altra risposta di Gesù (v. 4). Che chi osserva va Gesù in questa guarigione fosse fariseo, lo si apprende solo dal v. 6, che è dovuto a Marco, il quale inserisce così, in modo più netto, il ri fiuto del legalismo da parte di Gesù nella polemica che la comunità con duceva specialmente con i farisei. In Ev. Naz. 10 si aggiunge che il mi racolato sarebbe stato un muratore, il quale non aveva altro modo di guadagnarsi da vivere: la necessità della guarigione e l'ingiustizia del legalismo farisaico sono messi così in un risalto ancora maggiore.
I6
Introduzione
Dove dev'essere però collocato questo ambiente vitale nella co munità? Importantissima fu per la comunità primitiva la polemica con gli avversari, in modo particolare con i rappresentanti della comunità giudaica. Abbiamo già dato sopra alcuni esempi; in Mc. 2, 1 -3,6 si tro va tutta una raccolta di storie, imperniate su una parola di Gesù che serve a chiarire alcune questioni che si dibattevano fra la comunità cri stiana e il giudaismo, precisamente il perdono dei peccati e l'ubbidien za alla legge (cf. intr. a 2, 1 3 - 1 7 e a I I ,27-3 3). Un'altra situazione co munitaria importante fu l'istruzione dei pagani: anche per questo sco po si sono adoperate, riunite e modificate, parole di Gesù e storie su di lui. Così, ad es., 9,36 s. descrive il retto atteggiamento di chi vuole seguire Gesù, mentre nei versetti seguenti (9,3 7- 50) sono riunite a sco po didattico parole di Gesù che descrivono l'autentica vita del disce polo (cf. intr. ad loc. ). Altre parole sono diventate importanti per la pre dicazione missionaria o comunitaria, ad esempio detti che annunciano agli uditori la salvezza, minacce che li chiamano al ravvedimento, esor tazioni che regolano la vita della comunità, profezie che illuminano il futuro e suscitano la speranza, infine anche detti che illustrano il si gnificato di Gesù per la fede. Molte parole di Gesù erano senz' altro direttamente rilevanti per i futuri problemi della comunità; altre inve ce furono messe in relazione con i problemi che venivano alla ribalta mediante espliciti accenni a situazioni corrispondenti a uno dei pro blemi della comunità; altre ancora sono state formate ex novo (v. a 4, 101 2 e 1 3 - 20 e anche a I 2, I - I 2 ). Le parabole, per la loro stessa natura, si prestarono particolarmente a essere interpretate diversamente in situa zioni nuove, o come insegnamento sul significato di Gesù per la co munità o come consolazione nella prova o come indicazione pratica per la vita della comunità. Un primo passo di questa necessaria riformulazione era implicito già nel fatto che mentre Gesù e i primi discepoli parlavano aramaico, mentre una parte della comunità giudaica di Gerusalemme (Atti 6, I) e la maggior parte delle comunità etnicocristiane parlavano greco. Le parole dovettero perciò essere tradotte e spesso anche rifoggiate sì da presentarsi in forme di linguaggio e di pensiero completamente diver se (v. a 4, 10- 1 2). Marco, che vive nel mondo di lingua greca, riceve la tradizione di cui fa uso già in questa forma. Per la comunità Gesù non era un Signore morto, ma vivente e pro prio per questo essa doveva sempre ascoltare che cosa le sue parole a-
Le storie di Gesù
I7
vessero da dire sui suoi problemi, doveva cioè riferirle a situazioni mu tevoli e adattarle ad esse (v. a 1 0,12 e 1 1 ,26) Se è vero, come si legge in 2 Cor. 3,17 e Apoc. 2, 1 (par. a 2,7), che nello Spirito santo parla il Si gnore vivente, tutto questo non solo è lecito, ma è necessario; la paro la di Gesù non deve diventare un pezzo di antiquariato venerato sì, ma che non parla più efficacemente nel presente. Anzi, è persino inevita bile che, nell'ascolto di questa parola e nella comunione con il Cristo vivente, si osi pronunciare in situazioni nuove parole anche nuove nel suo nome, come fa il veggente dell'Apocalisse in 2,1 ss., o anche Mat teo, quando trasforma la semplice informazione del racconto della ce na nel vangelo di Marco «ne bevvero tutti)) ( r 4,2 3) in un ordine di Ge sù «Bevetene tutti ! » (26,27). Certo è altrettanto necessario confronta re queste nuove parole con le antiche per trarne indizio di eventuali deviazioni, ma ciò non toglie la necessità di affrontare quel rischio. Proprio solo con una nuova formulazione l'antica parola di Gesù di venta spesso veramente vitale. .
4· Analoghe osservazioni possono farsi a proposito delle storie. Già dal confronto dei sinottici si nota che i racconti sono stati tramandati in modo assai più libero delle parole di Gesù. Così, ad es., il dialogo di Mt. 8,8 -10 coincide alla lettera, a prescindere da varianti insignificanti, con Le. 7,6-9, mentre la storia stessa è narrata piuttosto diversamente. In un caso infatti è il centurione che parla con Gesù, n eli' altro sono alcuni amici, mentre egli rimane a casa. Anche le parole fondamentali di Gesù in Mt. 8 , 1 1 s. sono riportate da Luca in tutt'altro contesto ( I J ,28 s.). Anche qui è esclusa ogni possibilità di armonizzare le due verstont. Anche le storie hanno subito ulteriori rielaborazioni. Mc. 14,47 ri ferisce che nel Getsemani uno dei presenti recise con la spada un o recchio al servitore del sommo sacerdote; Mt. 26, 51 precisa che era uno di quelli che accompagnavano Gesù, aggiungendo alcune parole fon damentali di Gesù; Le. 22, 50 racconta che si trattava dell'orecchio de stro; Gv. I 8, I o s. infine dà il nome delle persone coinvolte, Pietro c Mal co, e aggiunge una diversa parola di Gesù. Questa elaborazione pro gressiva dei racconti continua oltre la chiusura dei nostri vangeli. Co sì, ad es., Ev. Eb. 4 riferisce che al battesimo di Gesù una gran luce il luminò improvvisamente il luogo: il Battista se ne stupì e allora la vo ce di Dio risuonò ancora una volta rivolgendosi a Giovanni, dopo di
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Introduzione
che costui si prostrò davanti a Gesù. Ev. Naz. 2 riferisce un preceden te dialogo della famiglia di Gesù con Gesù stesso: egli avrebbe affer mato di essere senza peccato e quindi di ritenere il battesimo non ne cessario. Ev. Hebr. 2 fa scendere su Gesù, al momento del battesimo, «tutta la fonte dello Spirito santo» che l'aveva atteso da tempo e che finalmente ora aveva trovato in lui il luogo del suo riposo. Giustino parla di un fuoco che si sarebbe sprigionato dal Giordano (Dia!. 8 8,3). Infiniti altri esempi mostrano che questo ulteriore sviluppo della tra dizione (v. a I 5 ,27-3 2) risale solo in rari casi a informazioni nuove, storicamente attendibili. In questo campo l'analisi delle forme ha aiutato a spiegare alcuni fe nomeni. Sia nel giudaismo sia nel paganesimo erano diffusi molti rac conti di guarigioni miracolose con uno schema fisso (cf. excursus a 4, 3 5 -4 I ). Quando la comunità raccontò e riraccontò le guarigioni com piute da Gesù, molte delle quali sono senza dubbio veramente avvenu te, si attenne automaticamente a questi modelli. Così la maggior parte dei tratti caratteristici di questo genere di storie si ritrova anche nei racconti evangelici, mentre vari furono presumibilmente inseriti o svi luppati a causa dello schema tradizionale; anche miracoli nuovi furo no narrati secondo questo schema. Ma proprio qui appare la differenza dei racconti evangelici soprat tutto rispetto a quelli pagani. Manipolazioni di Gesù, gesti misteriosi e magici o formule magiche efficaci sono al massimo appena accennati e lo svolgimento stesso del miracolo non è sempre descritto. Invece il posto centrale è occupato di solito dal dialogo di Gesù con il malato, prima o dopo la guarigione, e spesso è evidente che il fatto decisivo non è la guarigione, ma l'incontro di Gesù con il malato, che porta al la fede (v. a 5 ,34). Continuamente in Marco vengono associati i temi dell'impedimento del miracolo e della fede. Nel caso dei miracoli rela tivi alla natura si tratta del potere di Gesù sulla natura; ma ancora una volta non si tratta soltanto della rivelazione di una potenza ancora mag giore, divina: ai testimoni del miracolo viene sempre posta la questio ne della fede (cf. excursus a 4,3 5-4 I; anche a 5 ,4 3 e 6, 5 ). Tutti questi racconti non sono narrati perché sia in sé e per sé im portante sapere che in un paese lontano tanti anni fa sono avvenute co se straordinarie. Queste storie vogliono annunciare colui che oggi in contra l'ascoltatore o il lettore con la medesima potente autorità ed esi ge la sua fede, vuole chiamarlo, rimetterlo sul retto cammino, ripor-
Il problema della verità
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tarlo nella comunione con Dio. Il fatto stesso che si narrassero storie è essenziale. N o n soltanto idee, dunque, sentenze teologiche, capaci di modificare il pensiero, bensì un evento che si è svolto in Palestina in un momento ben determinato, che pure è valido anche oggi e vuole creare la fede. Per questo la comunità deve saper raccontare in modo che questo appello alla fede sia chiaramente percettibile. Nella storia della passione si racconta un avvenimento estremamen te terreno, misero, pietoso, che in sé non presenta nulla di straordina rio o di miracoloso. Ma è raccontato, specialmente in Marco, con un co stante ricorso al linguaggio anticotestamentario, specialmente a quello dei salmi del giusto sofferente (v. a r 5 ,23 s.). Questo linguaggio non solo compenetra tutta la narrazione, ma aggiunge anche occasionai mente singoli particolari. In questo modo si esprime che proprio que sto miserevole avvenimento è invece un evento «escatologico», un e vento che adempie l'Antico Testamento e realizza l'azione definitiva di Dio, valida per tutti i tempi e per tutti gli uomini. La mancanza, nello stadio più antico della tradizione, di una ricerca sistematica e di una ci tazione esplicita di questi passi dell'Antico Testamento, ci permette di vedere con quale spontaneità e immediatezza la fede del narratore si esprimeva mediante il linguaggio della sua Bibbia. Infatti solo in que sto modo il narratore esprime quel che è veramente accaduto nella pas sione, persino dove espressioni tipiche dell'Antico Testamento descri vono particolari che non si potrebbero vedere neanche in un film. 5. Il problema della verità si pone dunque in termini completamen te diversi da quelli di uno storico moderno. Senza dubbio anche que st'ultimo sa benissimo che non può esserci alcuna esposizione storica assolutamente obiettiva, perché ogni narratore sceglie gli avvenimenti che per qualsiasi motivo gli sembrano importanti, mentre ne tralascia degli altri, che avvia all'oblio. Eppure qui c'è qualcosa di più da dire. Facciamo ricorso ancora una volta all'esempio appena usato: se noi a vessimo un film della crocifissione di Gesù, saremmo meglio informa ti su centinaia di particolari, ma quel che è veramente accaduto con la sua morte, non lo sapremmo ancora. Questo non può dircelo altri che il testimone che ci parla con la potenza dello Spirito santo. È possibile che la parola del centurione (Mc. r 5,39) non si potrebbe sentire in quel film; tuttavia questa parola è più vera di cento particolari che il film potrebbe mostrarci, perché dice quel che è effettivamente avvenut in
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Introduzione
quello storico giorno: «Veramente quest'uomo è stato figlio di Dio». Tuttavia non si tratta soltanto di idee teologiche della comunità o dell'evangelista, ma veramente di quel che è successo nei pochi mesi o anni intercorsi fra il battesimo nel Giordano e la scoperta della tomba vuota. Quel che è veramente successo in quell'arco di tempo non può essere detto che nella testimonianza della fede. Tutti quelli che riferi scono queste cose � non sono storici con una preparazione moderna, che distinguono esattamente tra i fatti riferiti e la testimonianza che li interpreta. Essi non possono far altro che raccontare, con ogni specie di rimpasti e di aggiunte (non qualcosa di nuovo, di diverso, ma pro prio quello che è avvenuto), in modo che l'ascoltatore e il lettore capi scano che cosa sia avvenuto lì: qualcosa, cioè, che è ancora valido per lui oggi. È per tale motivo che questo commento, a differenza di quello di J. Schniewind (del quale seguo spesso la buona traduzione, tenendomi però occasionalmente ancora più vicino al testo originale), attribuisce molto più peso alla preistoria del testo. Certo il dato decisivo è il testo offerto da Marco e il suo messaggio. Perciò si richiamerà spesso e vo lentieri al commento di Schniewind. Tuttavia non possiamo fare a me no di chiarire pure gli stadi anteriori del messaggio di Marco, anche se tentativi di questo genere sono sempre caratterizzati da una relativa incertezza. Si tratta non di riprendere, parola per parola, la confessio ne di fede di un altro, ma di incontrare il Cristo vivente, e poi ripetere con parole nostre quello che recitano, guidandoci, i testimoni neote stamentari. Ci aiuta in questo compito l'osservazione del graduale pro cesso di formazione delle loro asserzioni. Può non essere facile segui re questo sforzo della comunità che per decenni si affanna a trovare la parola giusta per esprimere con precisione quel che è avvenuto per lei in Gesù; ma se ci contentassimo di far nostro un risultato già pronto e di ripeterlo automaticamente senza partecipare a questo sforzo, po tremmo diventare incapaci di un corretto ascolto. Proprio la pluralità delle voci ci costringe a rimeditare e riformulare, nell'incontro con la parola del Cristo vivente, che giunge a noi attraverso le parole di molti, quel che è avvenuto nella vita, morte e risurrezione di Gesù. Chi ascolta a questo modo potrà anche avvertire in parte, nonostan te tutte le voci dubbie e contraddittorie, il miracolo dell'affermazione dell'originario evento di Cristo nella confusione delle voci: infatti, men tre da un lato la testimonianza si differenziava a seconda delle situa-
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lavoro teologico di Marco
2. I
zioni (e doveva differenziarsi), dall'altro rimaneva univoca nelle cose decisive. Ci si rende così conto che la parola non può essere ricevuta in una astratta atemporalità, ma è sempre pronunciata nel linguaggio del testimone di turno. Questo fatto porta ad ascoltare con la massima attenzione e umiltà i diversi testimoni e a non farsi confondere dalle diverse tonalità delle loro voci, ma anzi induce a lasciarsi addestrare a un sempre più distinto ascolto, per poter dire la medesima cosa nella nostra lingua d'oggi e proclamarla ad altri. Marco sottolinea espressa mente che tutto questo processo di predicazione è vivente solo perché Gesù Cristo stesso sta al principio con la sua parola e la sua opera, la sua morte e la sua risurrezione, e perché continua a vivere in tutto lo sviluppo del messaggio.
6. Il risultato del lavoro teologico di Marco è imponente: egli ha creato il genere letterario dell' eva ngelo (cf. sotto, retrospettiva). All'e poca di Marco il termine significa ancora «annuncio gioioso» (v. a 1 , 1 ) ed egli non vuole offrire altro che questo. Perciò i l suo libro è più si mile a un volume di prediche che a una biografia. Ma egli predica rac contando l'attività e la morte di Gesù. Veri e propri paralleli a questo procedimento si trovano solo nei libri storici dell 'Antico Testamento o forse nel libro di Giona. Marco ha dunque capito che la parola di Dio per il mondo avvenne nell'insieme dell'attività, della morte e della risurrezione di Gesù; non in singoli detti di Gesù (perché in questo caso sarebbe rimasto soltanto un maestro, la cui sapienza poteva an che venire accettata senza saper nulla di lui), non in singoli miracoli (così da poter lo venerare quale mago divino), non in una sofferenza e semplare (che avrebbe richiesto solo imitatori), e neppure in un'astrat ta proclamazione della grazia divina (che si poteva anche svincolare da Gesù). Per questo motivo Marco ha scritto un libro nel quale manca no tutti gli elementi importanti per una biografia, ad esempio anche tut ta l'infanzia di Gesù (v. a 1 ,9). Qui c'è solo, in linea di massima, quel che è essenziale per la predicazione e che parla ancora al lettore. Ep pure è un libro di storia, perché Marco sa che proprio questi elementi essenziali non possono essere trovati altrove che negli avvenimenti di quegli anni (o forse di un anno solo, nella visione di Marco) che egli descrive (cf. retrospettiva). Chi era Marco ? Non lo si sa più. È assai probabile che l'autore si chiamasse veramente così. È vero che le soprascritte dei libri biblici
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Introduzione
sono state aggiunte solo nel n secolo; tuttavia fu necessario indicare, almeno oralmente, con più precisione i vangeli appena ce ne fu più d 'uno. Inoltre, più tardi si sarebbe scelto il nome d'un personaggio più famoso di Marco, se non si fosse più saputo chi fosse l'autore. Marco è difficilmente la stessa persona menzionata in A tti 12, 1 2.2 5 ; I 3 , 5 . 1 3 ; Film. 24; Col. 4,1o; 2 Tim. 4,11, non fosse altro perché, a quan to pare, non conosce la geografia palestinese (cf. § 2). Inoltre ha un atteggiamento fortemente polemico nei riguardi degli usi giudaici che in più spiega ancora ai suoi lettori di origine pagana (v. a 7,1-2 3 ). L'unica informazione a suo riguardo si trova in Papia, un vescovo dell'Asia Minore (verso il I 30): «Marco, che era l'interprete di Pietro, scrisse con diligenza, anche se non con ordine, tutto ciò che si ricor dava circa le cose che erano state dette o fatte dal Signore. Egli infatti non aveva ascoltato il Signore né era stato suo discepolo, ma solo più tardi, come già detto, lo era stato di Pietro. Questi proponeva i suoi insegnamenti a seconda delle necessità, ma non come chi offre una compilazione delle parole del Signore. Perciò Marco non commise al cuno sbaglio, scrivendo le cose così come se le ricordava. Egli infatti si preoccupò di non tralasciare nulla di quanto aveva inteso (da Pietro) e di non falsificare nulla di ciò» (Eusebio J,J9, I 5). Nel dare queste no tizie Papia si richiama all 'autorità di un «anziano», forse il presbitero Giovanni (cf. introduzione a 2 Gv. ). Ma poiché Papia riferisce anche cose del tutto leggendarie attribuendole alla medesima fonte (v. a 16, I 8), la sua testimonianza non è del tutto certa. L'immagine di Pietro che svolge la sua attività missionaria per mezzo di un interprete ri sponde difficilmente alla realtà, c le espressioni «insegnamenti» e «me morie» non si addicono né alla predicazione di Pietro né ali' opera di Marco. Soprattutto non si ritrova in Marco nessuna tradizione speci ficatamente petrina, ma al massimo solo alcune sue tracce (v. a 1 ,293 1). Un rapporto superficiale fra Marco e Pietro si potrebbe desumere da 1 Pt. 5,1 3 (un passo difficilmente scritto da Pietro). Viceversa que sta potrebbe essere la fonte dell'informazione pervenuta a Papia. Fin dai tempi di Clemente Alessandrino (Eusebio 6,14,6) si sostiene che Marco abbia scritto a Roma. Alcune espressioni che sembrano latini smi sono possibili ovunque siano arrivati i romani (v. a I 5 ,2 I ). Sicché possiamo solo dire con certezza che il vangelo fu scritto in una qual che località dell'impero romano per lettori di origine pagana (cf. 7,3 s.), probabilmente poco prima dell'anno 70. Infatti, a differenza di Le.
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2. 1 ,20
ss., in Marco non ci sono chiare tracce della distruzione di Ge rusalemme; Mc. I J , I4-20 sembra comunque presupporre una situa zione foriera di guerra. Poiché si nomina soltanto la Giudea, ciò po trebbe indicare che la guerra giudeo-romana, che scoppiò dapprima in Galilea nel 66-67, non fosse ancora iniziata (ma cf. intr. a I J , I -4). 7· Se alla fine di questa introduzione rivolgo un pensiero d'omaggio a Karl Barth per il suo ottantesimo compleanno e oso dedicargli que sto commento, lo faccio con la gratitudine del discepolo che ha impa rato da lui ad aver fiducia unicamente nella potenza della Parola che torna continuamente ad imporsi, e con l'augurio che, come egli ci a scoltava sempre con tanto humour e prendeva tanto a cuore i nostri problemi, così anche in quest'opera sappia trovare qualcosa, cresciuta dalla sua seminagione, di cui rallegrarsi. Che insieme vi sia cresciuta anche molta erbaccia, anzi che neppure si possa dire che cosa si dimo strerà alla fine grano e che cosa zizzania, è una realtà che si deve ap punto accettare alla luce di Mt. 1 3,29.
Parte prima
Il principio (I,I-IJ) Giovanni il Battezzatore,
1,1-8
(cf. Mt. J, I - 1 2;
Le.
J, I-20)
1 Principio dell'annuncio gioioso di Gesù Cristo (Figlio di Dio), 2 come sta scritto nel profeta Isaia: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero, che deve preparare la tua via. 3 Voce di uno che grida nel deserto: prepara te la via del Signore, appianate i suoi sentieri». 4 Giovanni il Battezzatore apparve nel deserto come predicatore d'un battesimo di ravvedimento per la remissione dei peccati. 5 E uscirono per andare da lui tutto il paese di Giudea e tutti quei di Gerusalemme e si facevano battezzare da lui nel fiu me Giordano, confessando i loro peccati. 6 Giovanni era vestito con una pelle di cammello col pelo, aveva una cintura di pelle intorno ai fianchi e man giava cavallette e miele selvatico. 7 Proclamava: «Viene, colui che è più for te di me, dopo di me; non sono degno nemmeno di chinarmi a sciogliergli i legacci dei calzari. 8 Io vi battezzo con acqua; egli invece vi battezzerà con Spirito santo» . .1
Mal.
3 , 1 ; Es. 23 ,20. 3 /s. 40,3.
Quando Marco scrisse questa sezione disponeva già di molto ma teriale: la citazione di Mal. 3 , 1 (Mc. 1 ,2) è riferita al Battista anche in Mt. I I , Io (Q) e anche lì è completata, come nel nostro passo, dall'e spressione «davanti a te» ( = Es. 2 3 ,20); già prima di Marco la comunità ha dunque riferito queste parole dell'Antico Testamento al Battista. /s. 40,3 (Mc. 1,3) è citato anche in Gv. 1 ,23, e la setta giudaica di Qum ran aveva giustificato con questo testo il suo ritiro nel monastero del de serto ( I QS 8, 1 4), vedendovi dunque un accenno all'imminente irru zione degli ultimi tempi. La prima citazione viene erroneamente attri buita a Isaia forse perché una volta si trovava in un'antologia di cita zioni bibliche dopo il passo di Isaia. Anche il soprannome di «Battez zatore» si trova in Flavio Giuseppe (Ant. I 8, I I 6). Che Giovanni predicasse nel deserto il ravvedimento è tramandato anche in Mt. 1 1 ,7; 3,8 (Q); e che molti lo considerassero Elia ritornato (Mal. 3,23 = 4, 5 ; Sir. 48,Io s.) è attestato in Le. I , I 7; Mc. 9, 1 1 - 1 3 . L a descrizione della sua cintura è presa quasi letteralmente dalla storia d i
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Evangelo
Elia (2 Re I ,8 LXX); la pelle di cammello cot:t il pelo rimanda, secondo Zacc. I 3,4, al manto di pelo dei profeti. Infine, Mc. I ,8 si trova," con leg gere modifiche, anche in Mt. 3, I 1 (Q). Come usa Marco questo materiale ? In apertura colloca le due paro le dell'Antico Testamento: così, anche se in senso stretto esse si riferi scono solo a I ,4-8, costituiscono tuttavia una specie di soprascritta del libro nel suo insieme e caratterizzano tutto quel che viene dopo come adempimento dell'opera di Dio verso Israele. Queste citazioni dicono già che Dio ha operato in modo singolarissimo. Anche nel resto della pericope Marco mette in prima linea quel che evidentemente gli sta più a cuore. La descrizione tradizionale del Battista e il contenuto del la sua predicazione li sposta invece ai vv. 6- 8 . Si può persino dimo strare dal punto di vista linguistico che l'interesse di Marco traspare nei vv. 4 ss.: il verbo «proclamare» si trova sempre soltanto in passi che danno il suo commento ai racconti della tradizione. Lo stesso ac cade con il termine «ravvedimento», e con l'aggettivo o il pronome «tutto», «tutti», che descrivono il successo di Gesù. Dovremo pertan to esaminare con la massima attenzione quel che Marco vuoi dirci con questo inizio della «proclamazione» e con la notizia del suo successo straordinario. 1. C ome il primo libro della Bibbia e il vangelo di Giovanni, anche Marco comincia dal «principio». Dio non è un'idea eternamente im mutabile: Dio agisce. Per questa ragione la sua storia ha un inizio pre ciso; di questo fatto riferisce il «gioioso annuncio» .
Evan gelo. L a parola greca euangelion significa «annuncio gioioso», anzitutto quello di una vittoria militare. Nel caso dell'imperatore, che viene adorato come un dio, i «gioiosi annunci» della sua nascita, della sua ascesa al trono, ecc. hanno un'importanza grandissima. NelPAnti co Testamento manca un termine corrispondente, anche se il verbo ha una parte molto importante (/s. 5 2,7; 6r, r; anche 40,9; 4 1 ,27; Sal. 40, I o). In Q «evangelo» è il messaggio profetico del regno imminente, co sì anche, con una forte nota apocalittica, in Apoc. 1 4, 1 0. Paolo l'ado pera per indicare la predicazione cristiana e precisamente sia l'evento della predicazione sia il suo contenuto (di regola, la morte e la risurre zione di Gesù), dunque la parola che corre per il mondo e racconta la storia di Gesù Cristo in modo da rivelare il suo significato per la fede.
Mc. 1 , 1 -8.
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In esso Dio stesso chiama il mondo alla fede in Gesù Cristo e alla sal vezza mediante lui. Come designazione di un libro euangelion appare solo verso il I 50 d.C. in Giustino Martire. Il titolo «Figlio di Dio» manca in alcuni manoscritti; è dunque con molta probabilità un'aggiunta fatta nel corso della copiatura, ma cor risponde al linguaggio abituale di Marco (v. a I 5 , 3 9) . Dato che Marco non comincia mai una frase con la congiunzione «come», e poiché una citazione così introdotta si trova costantemente, in tutto il Nuovo Te stamento, dopo la proposizione che essa vuoi sostenere e mai prima, è meglio tradurre come abbiamo fatto sopra e non, ad es., «Come sta scritto ... , così apparve Giovanni ... ». Questo vuoi dire che non un fatto qualsiasi, ma il nuovo intervento di Dio in quanto tale è l'adempimen to dell'Antico Testamento. Così anche tutto quel che viene dopo è mes so in questa prospettiva. Prima ancora di apparire, Gesù è annunciato come colui nel quale si compie la via di Dio. Solo il credente che co nosce già la risurrezione può esprimersi in questo modo. Che nella pre dicazione dell'annuncio gioioso Dio stia agendo, è qualcosa che può essere ascoltato e compreso solo come testimonianza della fede . .2.-3. Fin da Mal. 3 , 1 il ritorno di Elia (Mal. 3,2 2) come precursore di Dio (così ancora in Le. I , I 6 s . ! ) è atteso poco prima della fine. Non è altrettanto certo se inoltre fosse già considerato anche precursore del messia (Mc. 9, I I; cf. a I 5,3 5); comunque sia, questa funzione è sottoli neata proprio qui dalla comunità con l'aggiunta «davanti a te» e nel v. 3 quando parla dei «suoi>> sentieri invece di quelli «del nostro Dio» (/s. 40,3; 1 QS 8, I 4) . La comunità ha dunque inserito espressamente Gio vanni nella storia di Dio come precurs ore di Gesù (anche Gv. I ,6- 8 . 1 92 3 ; Atti I 0,3 7; 1 3 ,2 5 ; cf. I,22). Gesù stesso ha però già inteso il tempo della sua attività come tempo della irrompente signoria regale di Dio e quindi come superamento e compimento del tempo di Giovanni: lo prova il detto sicuramente autentico di Mt. 1 1 , 1 2. Per questa ragione, pur essendo stato battezzato anche lui da Giovanni, non ne pratica più il battesimo e il digiuno (Mc. 2, I 8). 4 · Marco prende dal v. 3 la parola-chiave «nel deserto», che in /s. 40,3 indicava il luogo dove si doveva preparare la via del Signore, e la riferisce al luogo dove risuona la voce di colui che grida. Probabil mente il fatto che anche Elia abbia soggiornato nel deserto ( 1 Re 1 9,4 ss.) non ha alcuna influenza; piuttosto il deserto è importante come
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Mc. 1 , 1 -8 .
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luogo dove Dio vuole essere solo con il suo popolo (Os. 2, 1 4), soprat tutto come luogo del tempo di salvezza che segue l'uscita d'Egitto, la quale deve ripetersi nel tempo della fine, atteso anche da fs. 40,3 (cf. Deut. r 8, 1 5- 1 8 e Atti 3,22 s.; 7,3 7). Perciò ogni genere di profeti in quel secolo ha costantemente portato i seguaci nel deserto. Più impor tante della figura tradizionale del predicatore del deserto quale nuovo Elia e dell'accenno a Gesù che viene, è però, per Marco, il fatto che la proclamazione dell'evangelo è cominciata e mette il mondo sotto la sua giurisdizione. Con essa comincia il tempo di salvezza di Dio. Della pre dicazione parla già il v. 3 e il battesimo stesso è menzionato come con tenuto della proclamazione. «Proclamatori» («araldi») secondo Marco sono il Battista ( 1 ,4.7), Gesù ( 1 , 1 4. 3 8 s.), i dodici (3, 1 4; 6, 1 2) e gli in viati della chiesa ( I J , r o; 14,9). Di conseguenza tutto il periodo da Gio vanni in avanti, fino alla chiesa universale, è caratterizzato come un uni co tempo di salvezza. Lo stesso può dirsi della descrizione di questa proclamazione quale «annuncio gioioso>> (v. al v. r ) e appello al ravve dimento ( 1 ,4; 1 , 1 s; 6, 1 2). Dietro la parola greca tradotta ordinaria mente «penitenza>> (e qui «ravvedimento»; letteralmente sarebbe «cam biamento di mentalità», un senso che difficilmente si coglie ancora) sta il termine ebraico «conversione», alla quale hanno già chiamato i profeti. L'accento non è messo sul mutamento delle qualità o delle a zioni di un uomo, ma su quello del suo orientamento globale, del suo rapporto con Dio. Ovviamente tutto questo racchiude anche l' atteg giamento interiore e la condotta esteriore dell 'uomo; ma questo im p orta solo come espressione di quel ri-orientamento, non come qual cosa da attuare indipendentemente da quello. A un corridore che cor ra nella direzione sbagliata non giova a nulla fare il massimo sforzo, fintanto che qualcuno non lo induca a fare una «conversione» per an dare in direzione opposta. N on è del tutto chiaro se sia il battesimo o la conversione a portare la «remissione dei peccati» . A favore della se conda alternativa ci sono passi dell'Antico Testamento e la dichiara zione esplicita di rQS 3,4- 1 2; 5 , 1 3 s. che non ci può essere remissione dei peccati senza conversione e che il battesimo può esserne solo un segno a posteriori. Ma sia nell'Antico Testamento che nella comunità del Mar Morto, accanto a questo fatto si riconosce anche che tale con versione può essere soltanto donata ed effettuata dallo Spirito di Dio, Spirito che negli ultimi tempi libererà la comunità dai suoi peccati come un'acqua di purificazione (Ez. 36,2 5 -27; rQS 4,2 1 ; cf. Zacc. 1 3 ,
Mc. 1,1-8.
Giovanni il Battezzatore
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1 ). Anche altrove l'Antico _Testamento parla di remissione dei peccati (/s. 3 3,24; 40,2 [accanto a 40,3 !]; 5 3 , 5 s.; Ger. 3 1 ,3 4; Mieh. 7, 1 8). Paolo (prescindendo da Col. e Ef, che probabilmente sono solo l'opera di un discepolo) non adopera mai questa espressione; Giovanni solo in 20,2 3; la usano invece i tre primi vangeli, gli Atti e le epistole tarde. Le. 1 ,77 rivela che essa era stata tratta dall'Antico Testamento già ne gli ambienti vicini al Battista. 5· Marco s embra aver interpretato l'accorrere delle folle nel deserto e il pubblico riconoscimento dei peccati come evidenza di un' avvenu ta conversione, alla quale Dio dona, mediante il battesimo, il segno della sua grazia. Che tutto si metta in movimento è un segno indicato re dell'inizio degli ultimi tempi, nei quali l'evangelo raggiungerà il mon do intero ( 1 3 , 1 0). 6. Solo a questo punto Marco introduce la descrizione del Battista, ricalcata sulla figura di Elia. Evidentemente era già da tempo una de scrizione tradizionale; comunque Marco non accenna espressamente al parallelo con Elia. Certi tratti ascetici sono attribuiti al Battista an che in Le. I , I 5; 7,3 3 . Tuttavia egli non esige né l'esodo nel deserto né la rinuncia al vino o alla vita civile (cf. Num. 6, I ss.; Ger. 3 5,6 ss.) e il suo cibo corrisponde semplicemente a quello dei nomadi poveri. N o n è dunque uno di quegli eremiti i quali, secondo Flavio Giuseppe (che abitò presso di loro nel 5 3 - 5 6 d.C.), avrebbero disprezzato tutto ciò che era opera dell'uomo, rinunciando anche alla carne e ai vestiti ( Vita I I ) . Ancora più radicale sarà il ripudio di Gesù (2, 1 8 -22) di un'ascesi intesa come via di salvezza. A Marco non interessa il Battista in quan to figura folcloristica, che attira l'attenzione; gli preme l'inizio della proclamazione, che ha di mira niente di meno che il mondo intero. 7.8 . Proprio questa proclamazione accenna alla persona di «colui che è più forte» . I due versetti sono riferiti in una forma diversa da Mt. 3 , I I = Le. 3 , 1 6 (Q), che forse risuona anche in Gv. 1 ,26 s. L a formula zione di Marco, che li pone uno dietro l'altro, è probabilmente più an tica di quella di Mt. 3 , 1 1 = Le. 3 , 1 6, dove sono inseriti uno dentro l'al tro. Viceversa, per quanto si riferisce al v. 8, Matteo e Luca hanno for se conservato il tenore originario, secondo il quale colui che viene battezza «con Spirito santo e fuoco». La forma primitiva della parola del Battista intendeva certamente per «fuoco» il giudizio punitivo (Mt. 3 , I0, 1 2). Ci si può chiedere se originariamente non si alludesse unica mente a questo, dato che il termine «Spirito» significa in greco anche
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«vento» o «tempesta». Fuoco e vento (necessario per la spulatura) com paiono anche in Mt. 3 , 1 2 (cf. fs. 29,6; 3 0,27 s.; Ez. 1 ,4). Sono associati in Sal. 1 1 ,6; 4 Esd. I J , I0. 27; alcuni rabbi collegano Mal. 3 , 1 9 e fs. 4 1 , 1 6 nella descrizione del giudizio. In questo caso sarebbe stata l a co munità cristiana a inserire l'attributo «Santo». D'altro canto Giovanni potrebbe aver pensato alla duplice missione del giudice: purificare gli uni con lo Spirito santo (cf. v. 4), e distruggere gli altri col fuoco. Gl. 3 , 1 - 5 ; r Q S 4, I J . 2 I hanno questi due aspetti l'uno accanto all'altro, an che se non direttamente collegati. Non si può più stabilire con sicurezza se il Battista abbia atteso per il giudizio il messia o Dio stesso. Il v. 8 può essere interpretato anche nel secondo senso; inoltre, sia da Le. 1 , 1 6 s.; Atti 1 9,2 s., sia dalla pole mica sempre più acuta nella comunità cristiana contro una simile con cezione (ad es. Gv. 1 , 1 9 ss.) e da notizie posteriori che lo attestano e splicitamente (Ps. Clem., Ree. r , 54.6o; Ree. syr. 54,8: anche il ritorno del Battista) si può desumere che c'erano discepoli di Giovanni che vedevano in lui una specie di messia e non ne aspettavano un altro. D'altra parte l'attesa di un messia era allora molto viva e il v. 7 può difficilmente venire interpretato diversamente. Anche il dubbio del Bat tista in Mt. r 1 ,3 è difficilmente una invenzione. In ogni caso il messia venturo era per Giovanni un giudice. La comunità cristiana invece conosce il compimento della parola del Battista; essa ha sperimentato lo Spirito santo come il grande dono di Gesù Cristo che giudica tutto ciò che è cattivo e perverso e crea ogni cosa nuova. Non si può assolu tamente stabilire se Mt. J, 1 r voglia indicare un battesimo di fuoco co me Atti 2,3 ; Luca certo no: infatti in Atti 1 , 5; I I , r 6 cita la parola del Battista senza l'accenno al fuoco (Le. J, r 6); sicché sembra che anche la comunità cristiana vi abbia visto piuttosto un accenno al giudizio, pur sapendo che questo giudizio si è già in certo qual modo compiuto. Giovanni l'aspettava per il futuro: per questo aveva invitato una schie ra di penitenti a farsi «suggellare)) mediante la conversione e il batte simo di ravvedimento, per sfuggire così al terrore del giudizio. La comunità cristiana sa invece che il giudizio di Dio su tutti i peccati si è già verificato e si verifica in permanenza per coloro che si sottomet tono al battesimo dello Spirito. N o n si può dire con certezza quali siano i precedenti storici del battesimo di Giovanni. Rispetto ai lavacri praticati anche nella comu-
Mc. 1 , 1 -8.
Giovanni il Battezzatore
3I
nità del Mar Morto, nella quale ci si sottoponeva regolarmente a un'im mersione, l'unicità del battesimo e l'intervento di un battezzatore rap presentano un elemento nuovo. Soprattutto è caratteristico che Gio vanni chiami tutto il popolo al battesimo, non solo un gruppo eletto di confratelli. Considerare Giovanni come un ex adepto della comuni tà di Qumran è, quindi, fuorviante. Questa setta giudaica si era infatti separata dal popolo proprio per l'osservanza radicale della legge. Inol tre il battesimo di Giovanni è un dono divino unico dell'ultima ora, non un atto di culto regolare e continuo. È estremamente incerto se già allora i pagani che volevano passare al giudaismo si purificassero mediante un'immersione compiuta una volta sola, così che, con la sua prassi, Giovanni avrebbe trattato, in certo qual modo, tutto Israele co me pagano e impuro. Piuttosto è possibile che Giovanni abbia radica lizzato alcuni riti di purificazione sul tipo di quelli che praticava la co munità del Mar Morto che anche li aspettava come un evento unico e definitivo nel giorno del giudizio ( I QS 4,2 I ) . La parola di giudizio che parla di «battesimo» con «fuoco (e tempesta)» , che costituisce il contrapposto del battesimo di Giovanni, è una sua creazione originale che si aggancia a concezioni come quella del fiume di fuoco (in Persia) o del mare di fuoco (Apoc. 1 9,20; 20, 1 0. 1 4 s.; 2 1 , 8). Se questo è vero, l'aggancio e la riformulazione della comunità cristiana vengono a tro varsi in un risalto ancora maggiore poiché essa riconosce senz' altro che Giovanni è il «principio» del tempo nuovo, che con lui ritorna Elia, che conversione e remissione dei peccati prima della fine sono diventate una possibilità. Ma appunto: egli è «principio» del tempo nuovo, non solo un segno fiammeggiante prima della fine. Il battesi mo che viene non è un fuoco che divora ogni cosa, ma il battesimo di Spirito di Gesù che è diventato realtà nella comunità cristiana e inau gura il tempo della «proclamazione» in tutta la terra della «conversio ne» e del «gioioso annuncio». Soltanto questo fatto conferisce al Bat tista e al suo battesimo il loro significato. Quel che per Marco e la sua comunità è importante nella predicazione del Battista non è l'insegna mento etico (Mt. 3 ,7- 1 0; Le. J ,7- 1 4 ), ma solo le due proposizioni dei vv. 7 e 8. In questo modo viene sottolineato l'orientamento verso co lui che viene, mentre si pone anche il problema al quale deve rispon dere il resto del racconto: che cosa rende Gesù incomparabilmente il «più forte)) ?
Il battesimo di Gesù, 1 ,9- 1 1 (cf. Mt. J , I J - 1 7; Le. 3,2 1 s.)
Accadde in quei giorni: venne Gesù da Nazaret di Galilea e fu battezzato da Giovanni nel Giordano. Io Subito, salendo dall'acqua, vide i cieli che si aprivano e lo Spirito come colomba che scendeva verso di lui. 1 1 E una vo ce (venne) dal cielo: «Tu sei il mio figlio diletto, in te mi sono compiaciuto».
9
II
Sal. 2,7;
/s. 42, 1 .
Il battesimo di Gesù a opera di Giovanni è, con moltissima proba bilità, un fatto storico, dato che procura un notevole disagio alla co munità: Mt. 3 , 1 4 s. (cf. i commenti ad loe. ) si premura di spiegare e spressamente perché esso fosse necessario; da Le. 3 ,2 1 s. nessun letto re sprovveduto dedurrebbe che fu Giovanni a battezzare Gesù; Gv. t , 29-34 non parla affatto d i un battesimo d i Gesù; Marco riferisce l a co sa senza prevenzioni, ma con la massima brevità: ne parla infatti solo nei vv. 1 o e I 1 . Ci si può domandare in che misura i particolari siano storici. È pos sibile che un'esperienza in occasione del battesimo abbia indotto Ge sù a separarsi dal Battista e che egli l'abbia poi raccontata ai discepoli. La cosa non ha grande importanza; infatti, anche se avessimo questa certezza, sapremmo solo che Gesù, come molti profeti, veri e falsi, prima di lui, ha avuto un'esperienza di vocazione. Che in quell' occa sione abbia parlato Dio stesso, può affermarlo soltanto il credente; proprio questo fa la comunità raccontando questa storia in cui tutti i particolari hanno lo scopo di esprimere una tale professione di fede, sia che alla base del racconto stia un resoconto di Gesù, sia che esso sia stato formato sui modelli dell'Antico Testamento, come compi mento della Scrittura. Per la seconda ipotesi si possono citare, ad es., i cieli aperti (fs. 63 , 1 9; Ez. r , r ) e la discesa dello Spirito sul messia (fs. 1 1 ,2; cf. però anche fs. 63 , 1 4 LXX: «Scese lo Spirito [o «il vento »] da presso il Signore»; 63 , 1 1 : « colui che metteva il suo santo Spirito nel l'intimo suo», cioè di Mosè come pastore delle pecore; Ez. 1 ,4: «uno Spirito [o «vento»] venne improvvisamente dal nord»). Inoltre si deve anche pensare che «messia» (termine ebraico) o «cristo» (termine gre co) significano «unto» e che l'unzione già in 1 Sam. ro, 1 .6. 1 o; fs. 6 r , 1 conferisce lo Spirito. L a setta di Qumran ha atteso oltre il messia re anche il messia sacerdote. Di costui si dice (Test. Levi 1 8): «l cieli si apriranno e dal tempio della gloria verrà su di lui santità con una voce paterna, come da Abramo su Isacco, e la gloria dell'Altissimo sarà .••
Mc. 1 ,9- 1 1 .
Il battesimo di Gesù
33
pronunciata su di lui e lo spirito dell'intelligenza e della santificazione riposerà su di lui» (cf. /s. I I , 2 ) . Forse che la comunità primitiva ha vi sto in maniera analoga una simile speranza in Gesù, il sommo sacer dote della fine ? Ha forse visto in lui addirittura l'Isacco che si sacrifi ca, l'unico che nei LXX venga chiamato «figlio diletto» (Gen. 22,2. I 2. 1 6) ? Ma Gesù viene chiamato solo molto tardi, nel Nuovo Testamen to, «sommo sacerdote» : nella lettera agli Ebrei. È anche possibile che il testo di Test. Levi I 8 sia opera di un giudeocristiano, quindi sarebbe esso frutto dell'influenza di Mc. I ,9 - I I (come del resto il Nuovo Te stamento stesso subì l'influenza contemporanea delle concezioni giu daiche e greche). Così tutta la materia rimane nell'incertezza. Il modello più vicino è quello del servo di Dio che in Is. 42, I ss., designato tale, viene costituito, mediante lo Spirito di Dio, araldo per i popoli e fondatore della verità sulla terra. Ciò potrebbe spiegare an che il collegamento con la storia della passione (cf. /s. 5 3 ; Mc. 10,4 5 e a 1 5,39). Certamente in /s. 42, 1 non si parla di «figlio», ma di «servo», benché questo termine nella traduzione greca potrebbe esser reso an che con «figlio ». Forse che la comunità di lingua greca ha sostituito il termine ambiguo col termine univoco «figlio» (che si ha in Mc. 1, I I ) ? O ppure a monte c'è già una traduzione aramaica, altrettanto ambigua, il cui effetto si nota in Mt. I 2, 1 8, dove /s. 4 2 , I viene citato in una for ma che ricorda molto decisamente il battesimo di Gesù ? Oppure è sta to Matteo che in quel passo ha armonizzato il tenore del testo alla sto ria del battesimo di Gesù ? Probabilmente il servo di Dio di Is. 42 e 5 3 è stato un modello di riferimento generico, dal quale inoltre Gesù è stato volutamente distinto mediante l'uso deliberato del titolo di Fi glio. Ora nel giudaismo del tempo si narrava di «visioni interpretati ve», nelle quali angeli o una voce divina hanno spiegato al patriarca, ad esempio a Isacco prima del sacrificio, il senso di quanto stava suc cedendo, dandogli così forza e coraggio. Potrebbe essere che racconti di questo genere abbiano influito sulla forma della storia del battesi mo di Gesù, così che il riferimento al tempo della fine sarebbe stato inizialmente più marginale che centrale. A questa ipotesi ben si adatta il fatto che Marco racconti ancora tutto come una visione di Gesù; solo più tardi Matteo parla dei cieli aperti e Luca anche della discesa dello Spirito come di un fatto oggettivo. Mt. 3 , 1 7 accentua ancora l'oggettività con la voce celeste che parla in terza persona, mentre Lu ca sottolinea la forma corporale della colomba. Che si sia trattato di
34
Mc.
1 ,9- 1 1 .
Il battesimo di Gesù
un battesimo accanto a molti altri oppure di una esperienza interiore di Gesù, che potrebbe anche avere una spiegazione psicologica, la do manda decisiva su quel che è veramente accaduto allora non è ancora p osta. È dato vederla soltanto quando si riconosca che la comunità che descrisse il battesimo di Gesù le diede una risposta ben precisa. I passi citati dell'Antico Testamento dimostrano che l'apertura del cielo, la ve nuta dello Spirito, il suono della voce divina sono segni degli ultimi tem pi. Anche se in origine si fosse trattato di una visione interpretativa, nella forma a disposizi�ne di Marco la comunità afferma comunque che qui Dio ha agito in modo definitivo, che ha messo in rilievo la persona di Gesù nel suo significato valido per tutti. Sal. 2,7 è la parola di Dio al re che ascende al trono; !s. 42, 1 è la parola di Dio al servo di Dio che assume il proprio incarico. Così il battesimo di Gesù è dun que stato compreso come insediamento di Gesù nell'ufficio escatolo gico di Figlio di Dio (cf. excursus a 1 5 ,39). Per Marco, probabilmente, né il forte orientamento apocalittico verso gli ultimi tempi né l'idea dell'adozione del re quale Figlio di Dio hanno un'importanza centrale. Come nelle due citazioni del v. 2, tut tavia, l'apertura del cielo e la voce di Dio chiariscono in che «dimen sione» vada visto tutto quel che è narrato su Gesù: nella dimensione, cioè, dell'intervento definitivo, valido per tutti, di Dio nel «Figlio » (v. al v. 1 1 e a 1 5 ,3 9)
9· Ciò che distingue Gesù dalla massa non è quanto un biografo potrebbe narrare: la famiglia, la sua formazione particolare, talenti o successi precoci. È riferito solo il nome; l'indicazione del luogo d'ori gine ha la funzione del nostro cognome e per di più Nazaret è una lo calità così insignificante che non è neppur menzionata nelle altre fon ti. All'infuori di questo, null'altro è detto della persona di Gesù, della sua età, del suo aspetto fisico, del suo stato civile; ciò è particolarmen te strano data la rarità, a quel tempo, di celibi adulti. 10. Quel che conferisce a Gesù la sua posizione particolare, è s ol tanto l'agire di Dio nei suoi riguardi. Infatti, anche se Marco racconta tutto come una visione di Gesù, gli è completamente estranea l'impo stazione moderna del problema, se cioè l'avvenimento non possa spie garsi come una pura esperienza psicologica. La sola cosa che conta è che qui Dio ha parlato. Quel che è descritto ha avuto luogo «veramen te», non è dovuto solo a qualcosa che preesisteva nell'intimo di Gesù.
Mc. I ,9- 1 I .
Il battesimo di Gesù
35
Se qualcun altro all'infuori di Gesù abbia udito o visto la stessa cosa, ha una importanza trascurabile. L'essenziale è proprio il fatto che tut to qui si svolge fra padre e figlio in un segreto estremo, impenetrabile a qualsiasi uomo. È. proprio questo che separa Gesù da tutti gli altri e gli dà la sua posizione unica. I cieli che si aprono indicano l'intervento decisivo di Dio: dopo un lungo periodo di carenza dello Spirito, Dio ricomincia a parlare, e que sta è la volta definitiva. Il tempo del suo silenzio è terminato. Certo dapprima è solo il figlio che se ne accorge. Non è chiaro che cosa vo glia sottolineare l'apparizione in forma di colomba. La colomba è ani male da sacrifici e un simbolo dell'anima; ha una parte nella storia del diluvio ed è adoperata una volta da alcuni rabbi per rendere l'immagi ne dello Spirito che «cova» sul caos ( Gen. I ,2 ), mentre altri menziona no uccelli diversi. Forse è più utile, per capire l'immagine, ricordare che nel giudaismo la voce di Dio nel tempio, e una volta (ma molto più tardi) anche quella dello Spirito santo, è paragonata al tubare della colomba. È certamente un puro caso che le consonanti ebraiche della parola che significa «presenza di Dio» siano le stesse d eli' espressione «quel che è come una colomba» . In definitiva, può darsi che sia stato semplicemente usato il nome dell'uccello più comune (cf. Mt. IO, I 6). 1 1 . Centro di tutto il racconto è la voce divina che chiama Gesù «figlio». La descrizione dei vv. 9 e IO somiglia a quella della vocazio ne di un profeta, in particolare a quella del servo escatologico di Dio (/s. 42, 1). Anche la formula «in te mi sono compiaciuto» va in questa direzione, mentre con le parole «tu sei il mio figliolo», Dio insediava nelle sue funzioni il re d'Israele appena eletto (Sal. 2,7). Si potrebbe allora concludere che Dio adotta l 'uomo Gesù e lo rende proprio fi glio. Tuttavia non è posta ancora affatto la nostra domanda moderna, chi sia stato Gesù prima del suo battesimo o persino prima della sua nascita. Un ebreo dell'epoca di Gesù, nutrito di Antico Testamento, potrebbe forse rispondere che naturalmente Gesù, dal punto di vista di Dio, era suo figlio da ogni eternità, perché in Dio è già realtà quello che fra gli uomini si compie solo più tardi. Questo però non cambie rebbe nulla al fatto che per lui è importante solo l'inizio di questa fi liazione fra gli uomini, cioè il momento in cui Gesù cominciò a eserci tare la sua qualità di Figlio di Dio. Quel che distingue Gesù, nel pen siero di questo racconto, dagli altri «figli» di Dio, dal re d'Israele, anzi da tutti gli israeliti (cf. excursus a I 5,39), non è il carattere eterno della
36
Mc.
1 , 1 1 s. La
tentazione di Gesù
sua filiazione: esso potrebbe esprimersi in termini analoghi, eventual mente, anche per altri. È invece il fatto che, dopo essere stato a lungo chiuso, il cielo torna ad aprirsi, lo Spirito santo torna ad agire, la voce di Dio torna a risuonare, e che in tutto ciò si adempie in maniera defi nitiva quanto era inteso in maniera provvisoria e simbolica nell' Anti co Testamento. Ciò è ancora più accentuato in Marco (cf. I , I -J). La singolarità di questa fi gliolanza è affermata anche mediante l'attributo « diletto» che i LXX traducono spesso con «unico». La tentazione di Ges ù,
1,1.1
s. (cf. Mt. 4, I - I I;
Le.
4, I - 1 3 )
1 1 E subito lo Spirito lo spinge nel deserto. 1 3 Stette nel deserto quaranta giorni, provato da Satana; stava insieme con gli animali selvatici e gli angeli lo servivano.
Il racconto della tentazione è stato tramandato molto più diffusa mente in Q. È improbabile che Marco abbia conosciuto la narrazione di Q perché in lui risuonano temi legati alla figura di Adamo, non a Mosè e a Israele (come in Mt. 4, 1 - 1 I ). In Marco manca non solo l'in tero contenuto della tentazione, ma anche il digiuno di Gesù. Il verbo «servire>> significa in particolare «accudire, provvedere di cibo» e la forma indica un'azione prolungata nel tempo. Evidentemente Marco presuppone che gli angeli nutrirono Gesù durante i quaranta giorni. È probabile che la comunità, prima di Marco, abbia raccontato tutto ciò più ampiamente (v. sotto); egli invece abbrevia molto e si interessa soltanto della vittoria di Gesù sul diavolo, che mostra, ancora una vol ta, come quel che si svolge nella vita di Gesù non sia soltanto un fatto terreno-umano, ma la battaglia di Dio stesso con Satana. 1.1. Lo Spirito di Dio appare qui, come nei racconti dei profeti nel l' Antico Testamento, una potenza straordinaria, capace di far andare da un luogo all'altro coloro che investe (cf. 1 Re 1 8, 1 2; 2 Re 2, 1 6; Ez. J , I 2. I 4 s.; 8,3 ; 1 1 ,24; Atti 8,39 s.). Questa menzione dello Spirito non stabilisce soltanto un collegamento intimo con il v. I I , ma dichiara so prattutto che è Dio stesso a mandare Gesù a questa battaglia. La via di Gesù porta fin dall'inizio non allo splendore celeste, ma al deserto do ve c'è Satana. 1 3 . Secondo fs. I 1 ,6 s. nel regno del messia regnerà la pace fra gli animali selvatici. Secondo Sal. 9 I, I 1- I 3 gli angeli di Dio custodiscono
Mc.
1,12
s. La tentazione di Gesù
37
il giusto e gli animali selvatici non possono fargli del male (cf. anche Giob. 5,22). Lo scritto giudaico Test. Neph. (8) promette ai giusti: « il demonio fuggirà lungi da voi, le fiere vi temeranno e gli angeli vi proteggeranno» . Poiché la tradizione giudaica (Apoc. Mos. I 1 ; bSanh. 59b = Str.-Bill. I, 1 3 8 ) faceva cominciare l'ostilità degli animali sel vaggi con la caduta di Adamo, che prima dominava su di loro mentre gli angeli stessi gli arrostivano la carne e gli filtravano il vino, Gesù viene raffigurato dunque come il giusto degli ultimi tempi, messo di fronte alla tentazione proprio come Adamo, subito dopo aver ricevu to una missione da Dio; ma, a differenza di Adamo, Gesù aveva resi stito alla prova e ripristinato il paradiso. Questa spiegazione è più ve rosimile dell'altra che vede negli animali selvatici un simbolo dei ter rori del deserto e solo in 3,22-30 la risposta ai problemi lasciati in so speso da questo episodio. Se però Marco fosse ancora consapevole di tutto ciò, è difficile dirlo. Per lui è importante soltanto che in Gesù è venuto colui che era stato promesso dall'Antico Testamento, che so stiene vittoriosamente il combattimento con Satana nel deserto, dove solo Dio e gli angeli sono testimoni. Dietro al modo in cui questa breve storia viene narrata sta dunque la preoccupazione kerygmatica della comunità e quella, un po' diver sa, di Marco. Perciò non ha un'importanza decisiva quanto sia storico nei particolari e quanto abbia avuto luogo solo nell'interiorità di Ge sù. Decisiva invece è la domanda che ci pongono sia la comunità pri mitiva sia Marco: è veramente venuto in Gesù il nuovo Adamo, che ha tolto il peccato originale ? È veramente venuto colui che l'Antico Te stamento aveva promesso, per riconciliare il cielo e la terra ? In breve: ha Dio stesso veramente agito in Gesù ? A questa domanda solo la fe de può rispondere, come cercano di fare Marco e la comunità prima di lui quando annunciano che in Gesù il cielo si è riaperto. In lui Dio è nuovamente intervenuto; da quel momento lo Spirito di Dio è di nuo vo all'opera; perciò cominciano il combattimento contro Satana e la pace di Dio sulla terra. Chi si avvicina a Gesù si avvicina anche al cielo aperto e al deserto, dove lo Spirito conduce ad affrontare combatti mento e tentazione; incontra l'assalto di Satana e la pace di Dio in mez zo agli animali selvatici. .••
Parte seconda
La piena potestà di Gesù e la cecità dei farisei (1,1 4-3,6) A.
LA PIENA POTESTÀ SUI DEMONI E SULLA MALATTIA
( I , I 4-4 5)
Gesù annuncia i l regno di Dio, 1,14 s . (cf. Mt. 4, 1 2- 1 7; Le. 4, 1 4 s.) 14
Dopo che Giovanni fu consegnato, Gesù venne in Galilea proclamando
il gioioso annuncio di Dio: 1 5 Compiuto è il tempo e vicino è il regno di
Dio. Convertitevi e credete al gioioso annuncio.
Marco riassume brevemente la predicazione di Gesù. «Proclamare» «gioioso annuncio» sono espressioni predilette di Marco (v. a I , I e 4). Il v. I 5 riassume esattamente l'appello di Gesù; formalmente appa re tuttavia, alla fine, il linguaggio della comunità, che associa volentie ri il ravvedimento e la fede (Atti 5,3 1 ; 1 1 , r 8; 20,2 1 ). A Marco interessa che nella predicazione Gesù percorre il mondo in lungo e in largo, che quindi il suo appello risuona anche oggi. Qui abbiamo dunque una specie di titolo o soprascritta di tutto il vangelo (cf. anche la retrospet tiva in fine volume).
e
1 4- 1 5 . Il tempo dell'attività di Gesù è chiaramente distinto da quel lo di Giovanni (diversamente da Gv. 3,24). Il verbo «consegnare» (alla prigione o alla morte) è usato spesso per i martiri, ma anche per i mal fattori. Si nota chiaramente già un parallelismo con la sorte del Figlio dell'uomo (9, 3 1 ; 10,3 3 ; 1 4,2 1-4 1 ; cf. 1 4, 1 0 s. 1 8 .42.44; 1 5 , L I O. I 5 ). I par ticolari biografici dell'imprigionamento non sono essenziali - appari ranno poi in 6, 1 7 ss., per riempire una lacuna (v. ad loc. ); l'essenziale è solo il procedere della proclamazione. Gesù, però, non rappresenta più solo il «principio dell'annuncio gioioso» { I , I ), bensì il compimen to del tempo della salvezza, un tempo distinto da ogni altro tempo (è, più o meno, quello che vuole denotare il particolare termine greco per «tempo» usato al v. I 5). Vi sono dunque diverse epoche, quelle in cui Dio prepara quel che verrà, e quelle in cui ciò si compie.
Il regno di Dio
39
Il regno di Dio. Quando Gesù annuncia la vicinanza del regno di Dio (letteralmente: del dominio, della signoria regale di Dio) si serve di un concetto coniato dall'Antico Testamento. Lì sta a indicare il do minio di Dio nella creazione (Sal. I OJ , I 9; 1 4 5 , 1 I ss.), ma soprattutto la sua sovranità incontestata negli ultimi tempi (/s. 5 2,7). Il giudaismo del tempo di Gesù parla della sovranità di Dio come di qualcosa che uno prende su di sé quando si sottomette in ubbidienza a tutti i co mandamenti, oppure parla della futura sovranità di Dio dopo la di struzione di ogni avversario e di ogni sofferenza. La sua venuta, quin di, in un caso dipende esclusivamente dalla decisione dell'uomo, nel l' altro è concepita come qualcosa che accade fuori dell'uomo e lo co glie come un evento naturale. N el N uovo Testamento il regno di Dio è anzitutto quella realtà futura (Mc. 9, 1 .47; I4,2 5 ; Mt. I 3 ,4 I -43; 20,2 I ; Le. 22, 1 6. 1 8 ; 1 Cor. I 5,50 ecc.) che viene d a Dio (Mc. 9, I ; Mt. 6, 1o; Le. 1 7,20; 1 9, 1 1 ), che l'uomo può solo attendere (Mc. I 5,43), cercare (Mt. 6,3 3), ricevere (Mc. I0, 1 5; cf. Le. 1 2,3 2), ereditare ( 1 Cor. 6,9 s.; Gal. 5, 2 1 ; Giac. 2, 5 ), ma in nessun modo creare lui stesso. Tuttavia Gesù ne parla in modo diverso dal giudaismo del tempo. Parla di rado di Dio come re e mai dello stabilimento della sua sovranità su Israele o sul mondo; molto spesso invece dell'ingresso degli uomini nel regno. Es so ha quindi una qualche analogia con uno spazio o una sfera di influ enza in cui si può entrare, sicché è meglio tradurre «regno)) (Mc. 9,47; 10, I 5 .2 3 -2 5 ; Mt. 5,20; 7,2 1 ; 1 8,3; 1 9,23). Soprattutto, poi, Gesù rinun cia a ogni descrizione e calcolo della venuta del regno di Dio, benché parli con la massima concretezza di mangiare e bere e mettersi a tavola nel regno di Dio (Mc. 14,2 5; Mt. 8 , 1 I; Le. 22,3 0). Invece parla della sua vicinanza (Mc. 1 , 1 5, Mt. 1 0,7), anzi dice che è venuto (Mt. I 2,28); par la della sua presenza in mezzo ai suoi ascoltatori (Le. I 7,2 1 ). Già la gente entra in esso (v. sopra), già lo si combatte (Mt. I 1 , 1 2); già è pre sente il più forte (Le. 1 1 ,22), che è più di Salomone e di Giona, del tem pio e del Battista (Mt. 1 2,4 I s.6; I I, I I ), colui che può dire «ma io vi dico» (Mt. 5,2 1 ss.). Per questo i demoni si ritirano (Mc. 1,26; Le. I I , 20) e gli uomini sono chiamati al discepolato (Mc. I , I 6 ss.). Dunque tutt'e due gli aspetti coesistono. In ogni caso il regno di Dio, la comu nione di mensa con Gesù nella gloria ove morte e sofferenza non sa ranno più e la fede sarà diventata visione, è una realtà futura. Ma chi incontra Gesù non può più guardare verso queste cose come se doves sero realizzarsi solo entro dieci o mille anni. Nelle opere e nelle parole
40
Mc. 1 , 1 6-�o. L'appello alla sequela
di Gesù il regno futuro viene già ora su di lui; ora si decide se un gior no egli sarà nel regno oppure no. Perciò entra già adesso nel regno fu turo; e nella comunione conviviale di Gesù coi suoi discepoli, nella ce na della comunità, nell'esperienza della potenza di Gesù e della ener gia trascinatrice della sua parola comincia già a realizzarsi la potenza del regno che viene. Presente e futuro sono dunque uniti in Gesù. Da questo dipendono tutte le altre differenze rispetto al pensiero del giu daismo contemporaneo. Mentre lì il regno di Dio era molto più impor tante del messia, qui tutto dipende dalla comunione con Gesù; mentre lì si aspettava che il mondo fosse trasfigurato o annientato nel fuoco del giudizio, la parola di Gesù pone i suoi discepoli ben in mezzo al mondo e ai suoi doveri, pur rendendoli allo stesso tempo liberi dal mon do: così il mondo non è né condannato né trasfigurato. Perciò manca in Gesù ogni visione d'un trionfo d'Israele o della chiesa e d 'una dan nazione di tutti gli altri. Al discepolo di Gesù importa solo quel che il giudizio di Dio significa per lui. Anche se la venuta del regno non dipende affatto dall'opera dell'uo mo, essa tuttavia lo impegna fin d'ora con la pienezza del suo pensiero e della sua attività. La conversione (v. a 1 , 1 4) è la conseguenza della vi cinanza del regno e del compimento del tempo. Questa precisa se quenza è decisiva. Il pentimento (ravvedimento) non è altro che il vol gersi in modo completo, totale, al gioioso annuncio. Ciò corrisponde all'atteggiamento di Gesù stesso che, con inconcepibile abbandono, attende tutto da Dio. Per questo non si prepara a una crociata missio naria a Gerusalemme o nel mondo, ma rimane nell'insignificante re gione di Galilea. Per il verbo «credere» v. a 5,3 4- 3 6; per il fatto che Ge sù non si proclamò messia, cf. excursus «Figlio di Dio» a 1 5 ,39. L'appello alla sequela, 1 , 1 6-20 (cf. Mt. 4, 1 8-22; Le. 5 , 1 - 1 1 ) 16 Mentre passava lungo la riva del lago di Galilea, vide Simone e Andrea, il fratello di Simone, che gettavano le reti nel lago: infatti, erano pescatori. 17 Allora Gesù disse loro: «Venite dietro a me, e vi farò diventare pescatori di uomini». I 8 Subito, lasciando le reti, lo seguirono. 19 Poi, essendo an dato ancora un po' avanti, vide Giacomo, il figlio di Zebedeo, e Giovanni, suo fratello, anche loro nella barca a riparare le reti. �o Subito li chiamò: la sciato Zebedeo loro padre nella barca con i giornalieri, se ne andarono die tro a lui.
Mc. 1 , 1 6-20. L'appello
alla sequela
41
Con tutta probabilità Marco ha messo qui questo racconto per mo strare che cosa potesse significare in concreto quel nuovo orientamen to. Tutti i particolari relativi al tempo, al luogo, alle circostanze preci se, sono trascurati. Come in un'incisione su legno si mostra solo l'es senziale. Se i due incontri si siano verificati nella medesima giornata, come sembra suggerire l'associazione dei due episodi, oppure no, è del tutto irrilevante rispetto ai risultati conseguiti da Marco col suo racconto (cf. a 6,7). Meno particolari vengono narrati, più ci si avvici na a una «scena ideale», tanto più il lettore può riconoscersi nei per sonaggi di cui si parla. L'immagine dei «pescatori di uomini», per la quale si deve considerare Ger. 1 6, 1 6 (cf. Am. 4,2; Abac. 1 , 1 4 s.; r QH 3,26; 5,7 s.), potrebbe essere una parola paradossale di Gesù che usa in senso positivo un'espressione usata generalmente in senso negativo; il logion potrebbe addirittura voler dire che essi dovranno «pescare)) gli uomini «tirandoli fuori)) dal Male. Per i problemi storici, v. a 6,7- I 3 ; per quelli teologici, l a retrospettiva i n fine volume. 16-20. La sequela ha sempre il suo inizio nello sguardo che elegge { 1 , 1 6. 1 9; 2, 1 4; 1 0,2 1 ; Le. 1 9, 5 ; cf. 1 Sam. 1 6, 1 ; Zacc. 1 2,4) e nella chia mata di Gesù. Quelli che vengono chiamati non sono preparati in al cun modo; non fanno neppure parte degli uditori della predicazione di Gesù ( 1 , 1 4 s.). Gesù non incontra l'uomo in una sfera particolar mente religiosa, ma là dove costui veramente vive, nell'attività quoti diana. La rete da lancio è lo strumento dei più poveri; viene appesanti ta con sassi fissati ai bordi e lanciata in acqua per catturare i pesci co me in una sacca. La chiamata di Gesù, efficace come la parola creatrice di Dio (Sal. 3 3,9; !s. 5 5 , 1 0 s.), crea la sequela, e quel che sarà del chia mato sarà opera di Gesù . Per questo anche la sequela è raccontata ov viamente senza alcun riferimento alle obiezioni che i pescatori avreb bero potuto opporre o alle difficoltà che dovevano superare. Così si realizza l'evento della grazia, senza che se ne parli. La sequela dunque non è né una decisione etica autonoma né un'accettazione intellettuale di dogmi, eppure è concretamente un nuovo modo di agire e di pensa re che sgorga dall'evento della grazia. Nel v. 20 si può forse vedere una lieve progressione rispetto al v. I 8: c'è la rottura dei legami fami li ari e l'ab bandono di un certo benessere, mentre Simone e Andrea non hanno né barca né dipendenti.
4 2.
Mc.
r ,z r -2 8 .
La dimostrazione dell'autorità di Gesù
Questa comprensione della sequela è stata coniata da Gesù. Egli si rifà al gesto autorevole dei profeti (I Re I9, I 9 ss.), ma lo porta avanti in maniera molto più radicale. I greci e i rabbi seriori hanno parlato della «sequela di Dio», ma intendevano un «diventare simili a lui» in senso etico, oppure l'osservanza dei suoi comandamenti (2 Mace. 8,3 6; cf. Deut. I J , s; Dan. 4,3 I LXX). Più prossima sembra l'immagine del discepolo che segue il rabbi. La differenza più evidente è che il rabbi non chiama il discepolo, ma è questi che va a cercarlo (cf. Mt. 8, I 9 ss.). Soprattutto sarebbe impossibile nel caso di un rabbi la chiamata radi cale che rende la sequela di Gesù più importante di tutti i comanda menti di Dio (Mc. I0,2 1 ; v. ad loc. ). Per questa ragione nessun disce polo di Gesù ha mai potuto pensare di diventare un «Figlio dell'uo mo», come un discepolo di rabbi avrebbe potuto immaginare di di ventare a sua volta un maestro, possibilmente anche migliore (cf. an che a 5 , I 9). A sua volta Gesù non discute con i suoi discepoli come fa rebbe un rabbi. Sicché la parola «seguire» sulle labbra di Gesù acqui sta un suono che altrove ha unicamente nell'Antico Testamento, in quei passi che affermano che si può «seguire» soltanto o Baal o Jahvé ( I R e I 8,2 1 ; cf. Prov. 7,22). La dimostrazione dell'autorità di Gesù, 1 ,.2. 1 -.2. 8 (cf. Le. 4,3 I -3 7) 2 1 Ed entrano in Cafarnao. Subito, di sabato, insegnava nella sinagoga. 22 E si meravigliavano del suo insegnamento; perché li ammaestrava come uno che ha autorità e non come gli scribi. 23 E subito c'era nella loro sinagoga un tale con uno spirito impuro . Gridò 24 dicendo: «Che abbiamo a che fa re con te, Gesù, nazareno ? Tu sei venuto per rovinarci. Io ti conosco, (so) chi sei, il santo di Dio» . lS Gesù lo minacciò dicendo: «Taci ed esci da lui ! » . 2 6 Allora l o spirito impuro, straziandolo e gridando a gran voce, uscì da lui. 2 7 E tutti si spaventarono, sicché ne discutevano insieme e dicevano: «Che è questo ? Una dottrina nuova con autorità. Anche agli spiriti im puri dà ordini, e gli ubbidiscono». 28 Così la sua fama si sparse subito per ogni dove, in tutti i dintorni della Galilea.
N el v. 2 I non si parla dei discepoli che accompagnavano Gesù; l'episodio dei vv I6-2o sarebbe impensabile di sabato quando era se veramente proibito pescare o aggiustare le reti. È dunque stato Marco a collegare con i vv. 2 I s. due episodi ricevuti dalla tradizione; proba bilmente l'indicazione di Cafarnao (nei vv 29-3 I ?) e l'insegnamento .
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Seri bi, farisei, sadducei, anziani, sinedrio
43
nella sinagoga erano già preesistenti. Tuttavia i nessi di tempo e di luo go non sono per lui importanti, ma naturalmente non si può dire al trettanto del significato degli avvenimenti per la comunità. Il brano dei vv. 23 -26 racconta una guarigione compiuta da Gesù come veniva narrata in seno alla comunità, usata nella predicazione e nell'istruzione religiosa, forse anche fissata per iscritto già prima di Marco. Ma quel che Marco vuoi dirci con quel racconto appare nei vv. 22 e 27 s . Il miracolo è il segno che comprova l'autorità dell 'insegna mento di Gesù. Mentre si legge che il Battista, Gesù, i dodici, la comu nità, predicavano il «ravvedimento )), il «gioioso annuncio)) (v. a I ,4), in Marco è solo Gesù che «insegna)) (I 5 volte, sempre con riferimento a un'attività continua, più 5 volte il sostantivo «insegnamento»; unica eccezione 6,3 0, che in greco usa una forma diversa indicante un'attivi tà momentanea). Si mette così in risalto la differenza fra Gesù e la normale predicazione che si svolge prima e dopo di lui. Scribi, farisei, sadducei, anziani, sinedrio. Gli scribi sono teologi e, poiché l'Antico Testamento regola ogni aspetto della vita, giuristi di professione. La maggior parte di costoro, anche se non tutti, apparte nevano al movimento religioso dei farisei, che consideravano l' osser vanza dei comandamenti nella vita quotidiana più importante del cul to del tempio. In origine un movimento laico in contrapposizione al monopolio sacerdotale, i farisei divennero gradualmente una corpora zione di eruditi perché un legalismo sempre più scrupoloso richiedeva conoscenze sempre più esatte della legge, quindi un'erudizione bibli ca. N o n si possono non vedere le somiglianze con lo sviluppo della posizione dei pastori dopo la Riforma. I sadducei sono la casta sacer dotale, cioè l'aristocrazia giudaica: conservatrice, riconosceva soltanto «la legge», cioè .il Pentateuco, e quindi non consideravano secondo Scrittura la dottrina della risurrezione (Atti 2 3 , 8 ; Giuseppe, An t. I 8, I 6 ; Bel!. 2, I 6 5 ). Il sinedrio è la più alta autorità giudiziaria di Gerusa lemme con 7I membri, i «sommi sacerdoti» (cioè i possibili candidati a questa carica), gli scribi e gli anziani (i membri laici). 2 1 -22. La sinagoga è il luogo della consueta adunanza sabbatica del la comunità per la preghiera, la lettura e il commento della Scrittura, a cui chiunque può prendere parte (v. a Le. 4, 1 6 ss.). Gesù non è un ri voluzionario: egli si inserisce nella vita religiosa normale d'Israele. L a
44
Mc.
1 ,.2 1 -.28.
La dimostrazione dell'autorità di
Gesù
meraviglia degli astanti è il segno visibile dell'autorità di Gesù. Solo la fede, sia allora che oggi, può accorgersi che Dio stesso è in Gesù. Per ciò l'affermazione della fede (v. 22b) sta prima che si riferisca qualcosa del contenuto dell'insegnamento. Matteo invece motiva la medesima affermazione con il contenuto dell'insegnamento di Gesù, spostando la pertanto alla fine del sermone sul monte (Mt. 7,2 8 s.). La differenza tra Gesù e gli scribi è che essi hanno e pretendono solo un'autorità de rivata, quella cioè di interpretare correttamente la legge, che sola ha au torità. Essi hanno lo Spirito, per così dire, solo in «scatola», senza a verne bisogno per la loro spiegazione . .1 3 . Tutte le malattie, specialmente la possessione, erano allora attri buite a spiriti impuri. In questa teoria è adombrata una verità, cioè che la malattia è, in definitiva, qualcosa di non voluto da Dio, che gli si op pone (anche se in casi particolari può essere benedetta: 2 Cor. 1 2,9 ). 24-28. La conoscenza del nome dà potere (cf. la favola di Rumpel stilzchen, 1 ma anche i papiri magici). Qui non si tratta, come nei rac conti analoghi del paganesimo e del giudaismo, dell'esorcista che co nosce il nome del dio soccorritore o quello del demone, ma d eli' as soggettamento del demone al «santo di Dio», titolo che nel Nuovo Testamento compare solo in Gv. 6,69 e nell'Antico Testamento sol tanto in Giud. 1 3 ,7; 1 6, 1 7 LXX (cf. 1 Re 1 7, 1 8 con la stessa domanda indispettita dell'inizio del nostro versetto), dove altri testi leggono «nazireo». La consonanza fra «nazoreo» (Mt. 1,1 3 ; in Marco sempre «nazareno») e «nazireo» ha forse portato all'interpretazione di «naza reno (= uomo di Nazaret)» come «santo di Dio» . Oppure, viceversa, Gesù potrebbe essere stato considerato dapprima un nazireo come Sansone e solo dopo potrebbe esser stata scoperta la consonanza con Nazaret. In ogni caso abbiamo qui uno stadio ancora assai primitivo, in cui Gesù era visto come un carismatico afferrato dallo Spirito di Dio, nel quale ritornava il tempo di salvezza dello Spirito di Dio vi vente in Israele. L'indemoniato parla di se stesso al plurale: a questo fenomeno si darebbe oggi il nome di «dissociazione della personali tà». L'immagine neotestamentaria di un'intera «legione» ( 5,9) di spiri ti rende l'idea dello stato di impotenza opprimente a cui l'uomo è ab bandonato. L'ordine di tacere è un grido di battaglia di Gesù come in 4,39. Marco senza dubbio lo interpreta diversamente (cf. al v. 34). Non I. [Racconto popolare tedesco nel quale una poveretta riesce a sfuggire alle persecuzioni di uno spiritello malefico quando ne proclama l'identità: «Tu sei Rumpelstilzchen! »].
Mc.
1 ,29-3 1 .
La guarigione in casa di Simone
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c'è dubbio che guarigioni di questo genere abbiano avuto luogo (Le. 1 1 , 1 5 .20) e che si possa dar loro anche una spiegazione psicologica: questa però non dice ancora nulla sul mistero dell'autorità di Gesù. Il gran grido del demone che esce dimostra la violenza della lotta e la grandezza della vittoria, mentre il terrore che sopraffà il popolo mo stra che esso intuisce qualcosa della presenza di Dio, la quale distrug ge ogni falsa sicurezza e tranquillità e conduce a dubbi e interrogativi salutari. La folla riconosce giustamente che l'elemento decisivo non è la guarigione di questo singolo infermo, ma l'autorità di Gesù che vi si è rivelata e che nel suo insegnamento vuole raggiungere tutti. Perciò l'effetto di quest'opera di Gesù si estende molto di là di Cafarnao. Ciò che distingue Gesù dagli altri non è dunque l'insegnamento to talmente diverso, bensì l'insegnare con un'autorità che fa succedere qualcosa: gli uomini vengono messi in movimento e i malati vengono guariti. In breve: nell 'insegnamento di Gesù Dio ritorna a parlare in maniera tale con gli uomini che coloro che sono separati da lui ven gono ripresi nella comunione con lui. Avviene la grazia. Marco si ser ve quindi di una storia di miracolo (cf. a 4,3 5-4 1 ) per evidenziare la «dimensione» dell'insegnamento di Gesù. Nella parola di Gesù il cielo irrompe veramente e l'inferno viene distrutto. La sua parola è atto concreto. Perciò per Marco è così importante che Gesù venga procla mato il «santo di Dio» da potenze sovraterrene (v. al v. 34 ). La guarigione in casa di Simone, 1 ,2 9-3 1 (cf. Mt. 8 , 1 4- 1 5; Le. 4,3 8-39 ) 29 E subito, appena usciti dalla sinagoga, andarono a casa di Simone e di An drea, insieme con Giacomo e Giovanni. 30 Ma la suocera di Si mone era a letto con la febbre, e subito gli dicono di lei. 3 1 Allora egli s'avvicinò, la pre se per mano e la fece alzare in piedi. La febbre la lasciò, ed ella li serviva.
29-3 1. Singolare è la frase «insieme con Giacomo e Giovanni»; pre sumibilmente dovrebbero essere citate tutte le persone nominate in 1 , 1 6-20. La storia si chiude sulla nota del servizio (la forma del verbo greco indica un'azione perdurante). Questa è la forma specifica della sequela femminile ( 1 5 ,4 1 ; Le. 8,3; Gv. 1 2,2; ma anche Mc. 9,3 5; 1 0,43 4 5 , ecc.). Gesù è più libero dei rabbi, i quali disapprovavano che le donne servissero a tavola. Con questa nota la storia porta un passo più
46
Mc. 1 ,3 1-39·
Il significato dell'autorità di Gesù
avanti della precedente. Lo spavento e le domande trovano il proprio fine non in una ancor più precisa definizione di Gesù, bensì nella se quela del servizio (v. a 1 ,20. 34; 8,34). Il significato dell'autorità di Gesù, 1 , 3 2- 3 9 (cf. Mt. 8, 1 6- 1 7; Le. 4,40-44) 3 2 Ma quando si fece sera e il sole fu tramontato, portavano a lui tutti gli in fermi e i posseduti, 33 e tutta la città si era radunata alla porta. 34 Ed egli guarì molti che soffrivano di svariate malattie, e cacciò molti demoni , e non lasciava parlare i demoni, perché lo riconoscevano. 3 5 Poi, la mattina presto quando era ancora buio, si alzò, uscì e se ne andò in un posto solitario, e lì pregava. 36 Allora Simone e quelli che erano con lui si misero a cercarlo 37 e lo trovarono e gli dicono: «Tutti ti stanno cercando». 38 Ed egli dice loro: «Andiamo da qualche altra parte, nelle località vicine, affinché rechi l'annuncio anche là. Per questo infatti sono uscito». 39 Cosi" andò e porta va l'annuncio nelle loro sinagoghe per tutta la Galilea e cacciava i demoni.
Il v. 3 2 ha senso solo se il tramonto indica la fine del sabato, quando era di nuovo permesso portare i malati. Per Marco questo non valeva più: quando vuole riferire usi giudaici li spiega ai suoi lettori (7,J s.). Dunque i vv 2 3 - 26. 29-3 2.34a.3 5 - 3 8 costituivano già un complesso uni tario nella narrazione anteriore a Marco. Per quanto riguarda lo stile, però, deve esserci stato il suo intervento, ad esempio nella duplice in dicazione cronologica del v. 3 2 (la prima infatti ha uno stile tipicamen te marciano); forse anche nell'aggiunta del «tutti » al v . 3 2; quasi certa mente con l'aggiunta dei vv 3 3 e 39, dato che Marco torna sempre a sottolineare la portata universale dell'attività di Gesù; soprattutto pe rò con la nuova interpretazione dell'ordine di tacere nel v. 34b (cf. ad loc. ) . Con il v. 3 5 comincia per Marco una nuova pericope; la partenza da Cafarnao (dove Gesù tornerà in 2, 1 ) diventa l'inizio della procla mazione in tutta la Galilea. .
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32-34. Marco sottolinea che Gesù interviene in ogni distretta, e che la sua efficacia si estende a tutti gli uomini. Inoltre per lui riveste gran de importanza il «segreto messianico», cioè il divieto di proclamare la dignità e l'autorità di Gesù. Nell'antico racconto dei vv . 23 -26 il grido «taci ! », come l'ordine «esci da lui ! » doveva semplicemente metter fine all'attività del demone. Secondo Marco, invece, i demoni non debbo no far sapere quello che essi soli già sanno ( 3 , 1 1 s.) e neppure devono
Il segreto messianico
ai 7
farlo i discepoli (8,30; 9,9). Ma anche i guariti non debbono raccontare in giro il miracolo di Gesù ( 1 ,44; 5,43; 7,3 6; 8,23 ?). Non deve dunque diventare notorio che Gesù è il messia. Perché allora Gesù compie mi racoli in pubblico ? Con tutta la gente che secondo 5,3 5 - 3 8 era presen te, come poteva essere osservato il divieto di 5,4 3 ? Com'è possibile che Gesù agisca come messia, al posto di Dio, in 2, 7- I I, se la sua vera natura deve rimanere nascosta? Poiché dunque si tratta di una costru zione di Marco, dobbiamo ascoltare ancora più attentamente quel che egli vuoi dirci per mezzo di essa. Gesù stesso non parla mai esplicita mente, ma solo in parabole (o con espressioni enigmatiche come «Fi glio dell'uomo») del mistero della sua attività (cf. a 4, I -9); inoltre si può osservare, nel caso delle guarigioni, una certa riservatezza sia in Gesù stesso sia nella tradizione della comunità già prima di Marco ( 1 , 3 5- 3 8; 7,3 3 ; 8,23); soprattutto va osservato che anche nel giudaismo e nel Nuovo Testamento, anche fuori di Marco, Dio e il suo operare serbano sempre un carattere di segretezza. I qumraniani, Paolo e i suoi discepoli sanno che l'operare di Dio non può mai essere rinchiuso completamente in parole, ma può solo essere compreso come un mi racolo. Diversamente dal giudaismo, il Nuovo Testamento riduce in vero questo mistero a un unico segreto: Gesù Cristo stesso; più preci samente, la sua croce ( I Cor. 2,6 ss.) o il suo passaggio per il mondo nella sua missione (Col. 1 ,26 s.; 2,2 s.; Ef 3 , 1 ss.; Rom. 1 6, 2 5 ss.; I Tim. 3, 1 6; cf. a Mc. 1 3 , 1 0). Da un lato in Marco non c'è più, come nella tra dizione prima di lui, una distinzione netta fra gli estranei e gli iniziati. Proprio i discepoli si rivelano ciechi (cf. a 4, 1 3 ; 8, 1 7-2 1 ). Difficilmente si tratta di una polemica diretta alla comunità di Gerusalemme che es si guidano. Infatti essi vengono descritti anche in maniera molto posi tiva (cf. excursus «La chiusa di Marco» a 1 6, 1 - 8), ma partecipano della cecità di tutto il mondo (v. retrospettiva). D'altra parte Marco sottoli nea come gli ordini di serbare il silenzio vengano sempre trasgrediti { I ,4 5 ; 7,36; cf. 5,2o; 7,24) e narra egli stesso straordinari miracoli di Gesù. Inoltre quel che dicono i demoni (3 , 1 1) o Pietro (8,29) è del tut to giusto ( 1 4,6 1 s.) e Dio stesso lo conferma (9,7). Miracoli e confes sioni mostrano Gesù quale Figlio dell'uomo che ha autorità in terra (2, 1 0.28), risorgerà alla destra di Dio (8,3 1 ; 9,3 1 ; 1 4,62) e ritornerà ( 1 3, 26; 1 4,62). Ma sia i miracoli sia le professioni di fede darebbero neces sariamente luogo a equivoci qualora non si conosca la via di Gesù che passa per la croce, via che esige e rende possibile la sequela (v. a 8,34).
Mc. 1 ..40-4 5 ·
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L'efficacia dell'autorità di Gesù
Così Marco si serve anche qui di un racconto di miracolo che parla di un demone che ammutolisce ed esce, ma vi legge qualcosa di più pro fondo: Gesù non combatte solo contro i demoni che tormentano que st'uomo in particolare, ma anche contro quelli che credono che si deb ba soltanto conoscere il titolo preciso (v. a 1 ,24), avere una retta con cezione della sua figliolanza divina per essere salvati e poter diventare suoi discepoli. Anche se i particolari sono storicamente incerti, pure Marco ha centrato in pieno l'attività e la proclamazione di Gesù. Il te sto ci chiede dunque se abbiamo inteso le guarigioni di Gesù (spiega bili con l'aiuto della psicologia) come intervento di Dio che ci cerca e come qualcosa che, preso di per sé, rimane ambiguo e può essere com preso solo nella prospettiva della croce e nella sequela del crocifisso. 3 5- 39. I vv . 3 5 -3 8 sottolineano questi concetti. Delle solitarie pre ghiere di Gesù troviamo menzione continuamente. Questo pregare in solitudine preserva la sua funzione sia dall'iperattivismo sia dall'iner zia; al tempo stesso rappresenta una fuga da consensi entusiastici che però non vogliono impegnarsi fino alla sequela. Per la prima volta ap pare l'incomprensione dei discepoli. Ma la missione di Gesù, per la quale è «uscito», è l'appello a tutto il popolo (a tutta la Galilea, come sottolinea Marco), appello in funzione del quale le sue opere non pos sono essere che segni. Così la pericope narra di un'autorità che guarisce in maniera mira colosa, ma che esige sequela e, al tempo stesso, ne crea le condizioni. L'efficacia dell'autorità di Gesù nonostante l'ordine del silenzio, 1 ,40-4 5 (cf. Mt. 8,2-4; Le. 5 , 1 2- 1 6) 40 E viene da lui un lebbroso, che lo supplica, cadendogli ai piedi, e gli di ce: «Se vuoi, puoi mondarmi» . 41 Adiratosi, stese la mano, lo toccò, e gli dice: «Voglio. Sii mondato». 42 Subito andò via da lui la lebbra, e fu mon d ato 43 Poi, lo strapazzò e lo cacciò subito via, 44 e gli dice: «Stai attento, non dir nulla a nessuno, ma va', mostrati al sacerdote, e offri per la tua pu rificazione quel che ha prescritto Mosè, per testimonianza a loro». 4 5 In vece quello, andato via, cominciò a proclamare con entusiasmo e a divulga re il fatto, cosicché egli non poteva nemmeno più entrare palesemente in una città, ma se ne stava fuori in luoghi solitari. Allora venivano a lui da ogni dove. 44 Lev. 1 3 ,49; cf. 1 4,1-32. .
Mc.
1 ,40-4 5 ·
L,efficacia dell·autorità di Gesù
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Risalgono probabilmente a Marco stesso le frasi sul segreto messia nico e la sua violazione, cioè i vv. 44a.4 5 (v. a I ,34), mentre forse già il racconto anteriore conteneva un ordine di tacere fino all'avvenuta con ferma da parte del sacerdote, e una divulgazione della notizia del mi racolo in un secondo tempo. Per la sua collocazione il racconto costi tuisce il punto culminante della sezione in cui è inserito. 40-4 5. La lebbra esclude dalla comunione col popolo, cioè dal po polo di Dio. « Impuro, impuro ! » doveva gridare il lebbroso da lonta no, in modo che tutti gli restassero lontani (Lev. 1 3 ,4 5 ). I rabbi lo l:Onsideravano un morto vivente e ritenevano la sua guarigione altret tanto improbabile quanto una risurrezione. Ma nel nostro passo il lebbroso varca la distanza e rimette ogni cosa all'autorità di Gesù. In questo completo orientamento verso Gesù, nel dono e nello slancio della fiducia che osa rimettersi alla sua illimitata potenza, nell'umile l:Onsapevolezza che tutto dipende dalla sua volontà e che nulla si può pretendere, appare l'autentica fede, benché non ci sia ancora un'esatta percezione della vera natura di Gesù. L'ira di Gesù (questa sarà l'anti ca lezione del testo greco) si riferisce all'orrore della pena causata dal la malattia (cf. Gv. I I , 3 3 -3 8) che contraddice all'originaria volontà creatrice di Dio allo stesso modo delle p ossessioni demoniache (I ,24 s . ) . Il movente della guarigione non è la compassione di Gesù, ma il più ampio contesto della sua volontà di lottare contro tutto quello che è contrario a Dio. La guarigione si compie per mezzo della parola re gale «voglio», ma anche il tocco è espressamente menzionato (diversa mente da 2 Re 5 , 1 o) . La potenza di Dio vive in modo quasi sacramen tale nella corporeità di Gesù e vuole per sé anche la corporeità degli uomini. Il corruccio di Gesù (lett. «sbuffare») si rivolge, esattamente come il «fremere» di Jahvé nell'A. T., alla cecità degli uomini che esalta il taumaturgo, ma non vuoi saperne della sua croce (cf. 3 , 5 e Mt. 9 , 3 0). Gesù si attiene alle prescrizioni di Lev. I4, I ss.; non mette da parte, come un rivoluzionario, la legge di Dio (v. a I , 2 I ) . È per questo moti vo che Marco ha messo il nostro racconto prima di 2, 1 -3,6? Forse nel la forma originaria del racconto il miracolato ubbidiva e il miracolo riceveva una conferma ufficiale, che serviva «da testimonianza» anche per il clero. Sull'ordine del silenzio e la sua trasgressione v. a 1 ,34·
Ancora una volta il modo in cui Marco narra questa storia mette
SO
Mc. 1 , 1 - 1 1 .
L'autorità di rimettere i peccati
nettamente in primo piano la questione. La presenza della potenza di Dio in Gesù viene descritta in modo quasi alienante: gli basta toccare per guarire e la sua potenza non può essere nascosta. Al tempo stesso, però, appare chiaro che la mera fede del miracolo non è decisiva fin ché non si è disposti a lasciarsi donare l'autentico dono di Gesù, che travalica tutte le frontiere fra puro e impuro, fra popolo di Dio ed e stranei. Questo è il motivo della terribile ira di Gesù e del suo ordine di tacere. A questo modo Marco chiede al lettore se vuoi veramente abbandonarsi a quest'incontro con Dio in Gesù e lasciarsi distruggere le tradizionali frontiere. La chiesa antica ha percepito in parte que st'intenzione di Marco, quando ha messo sulle labbra del lebbroso an cora queste parole riportate da un antico papiro: «Signore G esù, tu che vaghi insieme con i lebbrosi e mangi nella locanda . . » . .
B.
L 'AUTO RITÀ SUL PECCATO E SULLA LEGGE
(2, I -J ,6)
L'autorità di rimettere i peccati, 2,1 - 1 2 (cf. Mt. 9, 1 - 1 8; Le. 5 , 1 7-26) 1 Essendo egli rientrato a Cafarnao, alcuni giorni dopo, si seppe che era in casa. 1 Si radunarono così tanti che non c'era più posto neppure fuori, da vanti alla porta. Ed egli predicava loro la parola. 3 E vengono portando ver so di lui un paralitico sostenuto da quattro. 4 No n potendo però portarlo fino a lui a motivo della folla, scoperchiarono il tetto dove egli si trovava e, scavano fino ad aprire un varco, calano giù la barella su cui era coricato il paralitico. 5 Allora Gesù, vedendo la loro fede, dice al paralitico: «Figliolo, ti sono rimessi i peccati» . 6 Ma c'erano alcuni scribi lì seduti e ragionavano nei loro cuori: 7 «Ma che sta dicendo questo qui ? Bestemmia! Chi può ri mettere i peccati se non l'unico Dio ?». 8 Subito Gesù si accorse nel pro prio spirito che ragionano così tra sé e sé e dice loro: «Perché pensate ciò nei vostri cuori ? 9 Che cosa è più facile, dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, oppure dire: Alzati, prendi la tua barella e cammina? 1o Ma perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha autorità di rimettere i peccati sulla terra (rivolto al paralitico dice): 11 Dico a te: alzati, prendi la tua barella e torna tene a casa tua!». 1 1 Ed egli si alzò in piedi e subito prese la barella e se ne uscì davanti a tutti, così che tutti uscirono fuor di sé e glorificavano Dio di cendo: «Mai abbiamo visto qualcosa di simile!».
Dopo che Mc. 1 , 14-4 5 ha descritto le opere potenti di Gesù, segue in 2, 1 -3,6 una serie di dibattiti polemici, senza dubbio raccolta, alme no in parte (2, 1 - 1 2. 1 5-28 ?), già prima di Marco (cf. introduzione, 2). L'idea del Figlio dell'uomo che ha autorità in terra (2, 1 8.28) non può
Mc. 2, 1 - 1 2.
L,autorità di rimettere i peccati
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risalire a Marco, che introduce il titolo non prima di 8,3 I ; ma esso non compare neanche in altre storie di miracoli e difficilmente appartiene alla materia più antica (v. a 2, I o.28). Forse il titolo è stato inserito, al l'inizio e alla fine, quando queste storie furono raccolte insieme. Alla fine del v. IO c'è una frattura nel racconto: è ripetuta l'espres sione del v. 5 per introdurre un nuovo discorso al paralitico. Se, come dice il v. I 2, «tutti» lodavano Dio, sarebbero inclusi gli scribi del v. 6, e questo sarebbe in patente contraddizione con quanto vien descritto altrove (già in 2, I 6). Inoltre, c'è qui una presa di posizione rispetto al la guarigione e non rispetto alla discussione dei vv 6- I o. Probabilmen te in origine il racconto comprendeva solo i vv. I - J . I I s. La dichiara zione di remissione dei peccati prima della guarigione spinse la comu nità a descrivere nei vv 6- 1 0 il dissenso fra Gesù e gli scribi e a chiari re ancora di più l'ammaestramento centrale del racconto: tutte le gua rigioni di Gesù sono segni di un'autorità più profonda, della remissio ne dei peccati che riporta gli uomini alla comunione con Dio. Questo è esattamente quello che Gesù intendeva. Per Marco stesso è dunque decisivo che la «parola>> di Gesù (v. al v. 2) rimane incompresa, anzi che essa dà adito all'ostilità che alla fine porterà alla croce (3,6). .
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1 - 5. Non c'è una precisa indicazione cronologica. Anche la «casa>> è menzionata unicamente per far capire che Gesù vorrebbe appartarsi dalla folla (cf. 3,2o, dove l'affollarsi della gente risulta così ancora più evidente; 7, I 7.24; 9,2 8 . 3 3 ; IO, I o), ma che l'impressione travolgente che fa sul popolo glielo impedisce. La frase «predicava la parola>> ritorna in 4,3 3; 8,3 2 con tipiche differenze. Qui Marco l'adopera per indicare l'inizio di una sezione teologicamente importante che arriva fino a 3 ,6 (v. sotto). La casa palestinese si compone normalmente di un solo lo cale, con sopra un tetto piano fatto d 'un traliccio di rami poggiante su traverse di legno e ricoperto d 'uno strato di fango secco che dev'esse re risistemato ogni anno prima della stagione delle piogge. Spesso una scala esterna porta sul tetto. È, peraltro, dubbio che si possa fare un buco nel tetto mentre la casa è piena di gente. L'audacia e la costanza di cui danno prova i quattro uomini per arrivare fino a Gesù, sono chia mate da Marco «fede»; essa è chiaramente più importante di una �o noscenza già perfetta della persona di Gesù e della sua natura. Si tratta inoltre anzitutto della fede dei portatori, dunque non della ricettività dell'infermo a una qualche suggestione, o della sua disponibilità per
S1
Mc. �, 1 - 1 2.
L'autorità di rimettere i peccati
Dio. Quel che ora avviene è dunque in tutto e per tutto opera di Dio. La risposta di Gesù rivela qual è il bisogno reale. Non si vuoi dire che questo malato fosse particolarmente peccatore: in lui è solo visibile in maniera particolare la separazione dell'uomo da Dio e la radice di o gni sofferenza in quella separazione, come dice tante volte l'Antico Te stamento. Così Gesù deve metterla qui in evidenza affinché i testimo ni della guarigione non si fermino all'esteriorità del miracolo. La se conda parola di Gesù (v. I I) fa poi capire che il perdono non resta mai un fatto puramente interiore, ma riconduce anche l'aspetto corporale dell'uomo sotto la sovranità di Dio. 6- 1 .1 . Gli scribi (v. a I,22) hanno perfettamente ragione: solo Dio può abbattere il muro di separazione che gli uomini hanno innalzato contro di lui. Il giudaismo non si è mai aspettato che il messia rimet tess e i peccati; Gesù si comporta di fatto come se fosse al posto di Dio. L'espressione usata da Gesù non mette del resto in dubbio che sia Dio a rimettere i peccati per mezzo suo, anche se la formulazione di Gesù evita per sacro rispetto di menzionare espressamente il nome di Dio. Così viene portato a conoscenza ciò che accadeva quando Gesù si met teva a sedere coi pubblicani e apriva la strada verso Dio alle meretrici. Anche il fatto che Gesù sappia leggere nell'intimo dell'uomo, talché essi non possono nascondergli nulla, fa percepire la presenza di Dio. La domanda con cui Gesù replica ha senza dubbio lo scopo di co stringere alla riflessione. Per Marco la cosa «più difficile», più grande, è certamente la remissione dei peccati. Gli avversari invece pensano che sia facile dire una cosa del genere senza addurre alcuna prova che ciò sia veramente accaduto. Così il v. IO riconduce al racconto e mette ancora una volta al centro dell'avvenimento l'autorità del Figlio del l'uomo (v. a 8,3 I) che ha il potere di ristabilire l'armonia fra cielo e terra. Quel che segue (v. I I ) va preso come la dimostrazione di questo assunto. Si sono già verificate altre guarigioni; ma il popolo capisce di essere stato testimone di qualcosa che nessuno «aveva ancora visto». Proprio ciò ha inteso la comunità quando ha inserito i vv. 6- I o, di chiarando così di aver riconosciuto nelle opere di Gesù quella presen za e autorità di Dio che la libera dal peccato (2, I - 1 7) e dalla legge (2, I 8- J ,6). In questo modo la vittoria di Gesù sulla malattia e sui demoni è intesa in senso globale come vittoria sul peccato e sulla legge, pro prio come fa Paolo nel suo linguaggio teologicamente molto più me ditato (1 Cor. 1 5, 5 5 s.; Gal. 4,J . 8 - I o; cf. Col. 2, 1 4 s.).
Gesù a tavola con i peccatori, 2, 1 3- 1 7 {cf. Mt. 9,9- I 3 ; Le. 5,27-3 2) 1 3 Egli uscì di nuovo lungo il lago, e tutta la folla veniva a lui, ed egli inse gnava loro. I 4 E passando vide Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco del da zio, e gli dice: «Seguimi!». Quello si alzò e lo seguì. I 5 Poi succede che è a tavola in casa sua e c'erano pure parecchi esattori e peccatori a tavola con Gesù e i suoi discepoli. Erano molti, infatti, e lo seguivano. 16 Allora quan do gli scribi seguaci dei farisei lo videro mangiare con i peccatori e gli esat tori dicevano ai suoi discepoli: «Mangia con gli esattori e i peccatori! » . I 7 E Gesù udì ciò e dice loro: «I sani non hanno bisogno del medico, ma i mala ti; non sono venuto a chiamare giusti, ma peccatori». 1 5- 1 7. Con molta probabilità i vv . I s - I 7 sono stati narrati, un tem po, senza l'introduzione; infatti di Levi non si parla più e non è nep pure chiaro se si tratti della «casa» di Gesù o di Levi. N ella tradizione si trattava certamente della casa di Levi; Marco pensa forse si tratti di quella di Gesù (forse della casa di Pietro, messa a sua disposizione: r , 29-3 I ?). I l v . I J , così generico, è certamente dovuto a M arco. Egli an nette sempre una grande importanza all'attività didattica di Gesù (v. a 1 ,2 I -28) e alla sua efficacia descritta con l'accorrere di «tutta la folla» dietro a Gesù (v. a I , 5 ). Anche la spiaggia «lungo il lago » rappresenta lo scenario abituale dell'attività di Gesù (cf. I , r 6). Il v. 1 4 si esprime con l'essenzialità di un'incisione, riducendo tutto al minimo indispen sabile: in questo ricorda r , I 6-2o {v. sopra). Probabilmente Marco ha formulato il versetto (sulla base di una tradizione orale ?) imitando quel la pericope. Di sicuro nell'elenco dei dodici non compare alcun Levi (v. a Mt. 9,9). I problemi fondamentali sul tema della giustizia della legge, sollevati nei vv. 1 5 - I 7, hanno impegnato per molto tempo la co munità. Gesù è venuto solo per i giudei che vivono secondo la legge, o ;tnche per i pagani ? Più tardi si pose una domanda analoga all'interno delle comunità cristiane: Gesù è venuto anche per quelli che dopo il battesimo continuano a commettere peccato ? Ora, il v. I 7 si serve di un'immagine usata anche dai filosofi itineranti greci. Uno di loro, al quale veniva rimproverato di frequentare gli elementi più umili del popolo, diceva: «Anche i medici generalmente non insegnano a casa dei sani, ma dove ci sono ammalati». Il v. 1 7 dovrebbe quindi risalire alla comunità di lingua greca che avrebbe riassunto l'operato di Gesù con una immagine a lei familiare, spiegandolo ulteriormente nella se conda metà del versetto. Singolare è l'associazione «esattori e peccato ri», che certamente ben si adatta alla posizione degli scribi (v. I 6b),
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Mc.
2 , I J - I 7.
Gesù a tavola con i peccatori
che considerano gli esattori tutti peccatori, ma non ai vv. I 5 e I 6a (cf. Le. 5,29 accanto a 5,30). Il v. r 6b (e il v. I 7) dovrebbe quindi essere lo spunto dal quale è nata la scena dei vv. I 5 e I 6a Che la domanda non venga rivolta a Gesù, ma ai discepoli rimanda già al tempo della chiesa che doveva affrontare rimproveri di questo genere. La risposta può chiaramente venire soltanto da Gesù (v. 1 7). Anche la sgraziata inser zione dell'ultimo inciso del v. 1 5 è determinata dalla necessità di avere ancora una volta la parola-chiave «seguire» per mettere in parallelo la presenza dei peccatori intorno a Gesù e il gesto di Levi. Quando Mar co introduce la scena mediante il v. I 5 , egli sottolinea che fin dall'ini zio ( I , I 6-20) la chiamata di Gesù infrange le barriere che separavano il peccatore da Dio. Il v. I 5 è quindi per l'evangelista immagine della co munità nella sequela di Gesù. Perciò 2, 14 compare solo qui e non già prima, dopo 1 ,20. I J - I 7· Ancora una volta la menzione di Gesù che insegna pubbli camente costituisce il preambolo della pericope, come in I , I 4 ss. An cora una volta è chiaro che Gesù «passando» «vede» (e così elegge) un uomo che non fa parte della cerchia degli uditori della sua predicazio ne. Ancora una volta la parola autorevole di Gesù crea la sequela co me una conseguenza spontanea. A motivo dell'estrema concisione il testo diventa, ancora più decisamente di I , I 6-2o, una pura proclama zione di Cristo, senza alcun interesse per la psicologia del discepolo. Soprattutto, però, l'evento della grazia di Dio è sottolineato dal fatto che l'appello è rivolto a un individuo che vive fuori della cerchia ec clesiastica. Gli esattori del dazio sono «peccatori», infatti, perché si contaminano costantemente frequentando i pagani e anche perché so no al servizio dei miscredenti, romani o erodiani che siano. Si aggiun ga che l'appalto dell'esattoria veniva assegnato all'esattore-capo che faceva l'offerta più alta (Le. I 9,2 e v. a Le. J , I J): per far fronte agli im pegni costui doveva quasi costringere i suoi impiegati, gli esattori (pub blicani), alla disonestà, e questo li rendeva spregevoli come i pagani agli occhi dei giudei. Nella chiamata di Gesù si realizza dunque la riconci liazione, il ritorno a casa nella comunità del Signore. L'episodio che se gue dimostra che questo non è un caso isolato, ma ha valore di princi pio. Gesù è «a tavola» con gli esattori dell'imposta (lett. «è sdraiato a tavola»): l'espressione dimostra che si tratta di un banchetto. La ri concili a zione ha un compimento molto concreto nel fatto che i pecca tori si trovano estremamente a proprio agio presso Gesù e i suoi di.
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2 , 1 8-22.
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scepoli (cioè nella chiesa). Anche questo per Marco è, nell'inciso zop picante, comunque un «seguire»; va osservato però che la forma greca del verbo è quella dell'azione continuata, mentre nel v. 1 4 la forma era quella dell'azione istantanea, che caratterizza un'immediata, visibile «conversione» . Marco non traccia dunque una separazione netta fra chi è convertito in forma spettacolare e chi cresce lentamente nella co munione di Gesù e dei suoi discepoli. Di fronte all'azione di Gesù e splode anche l'opposizione dei farisei (v. a 1 ,22): non di fronte a for mulazioni dottrinali, sulle quali si potrebbe ancora discutere. L'imma gine nella risposta di Gesù non è più soltanto una metafora: nella co munione di Gesù con gli esattori avviene qualcosa di simile alla guari gione d'un malato incurabile. Per quanto grande sia l'accentuazione della «tolleranza» (Gesù è superiore a tutte le discriminazioni religio se e la comunità che racconta questi episodi rinuncia a una distinzione fra convertiti e gente che sta ai margini), altrettanto inaudito è quanto Gesù esige. Egli chiama il peccatore. Quando Luca aggiunge «a ravve dimento», non sbaglia, ma non coglie neanche nel segno. Quel che Marco intende è: lo chiama a Dio, al Dio che gli viene incontro in Ge sù . Del resto, non si contesta che esistano giusti. Ma in quest'episodio diventa visibile proprio la loro tentazione: credere di non aver biso gno di Dio giorno per giorno. Così può proprio capitare loro che non lo riconoscano, quando viene per davvero. Il loro pericolo è dunque diverso da quello dei «peccatori», ma può separarli dal Dio vivente al la stessa stregua di costoro. Proprio mediante il rilievo dato al significato fondamentale del l'opera di Gesù Marco, e in parte già la comunità prima di lui, procla ma chi è Gesù: colui mediante il cui operare (quindi non solo median te le cui parole) l'uomo viene ricondotto nella comunione con Dio. La libertà dalle opere religiose, 2, 1 8-22 (cf. Mt. 9, 14- 1 7; Le. 5,3 3 -3 9) 1 8 Ora i discepoli di Giovanni e i farisei usavano digiunare. Vengono e gli dicono: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, i tuoi discepoli invece non digiunano ?». 1 9 Gesù disse loro: «Neanche gli in vitati alle nozze possono digiunare mentre lo sposo è con loro. Finché han no lo sposo con loro, non possono digiunare. 2o Verranno però giorni quando lo sposo sarà loro strappato; e allora digiuneranno , in quel giorno.
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2, r 8-22.
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21 Nessuno cuce una toppa di stoffa grezza su un vestito vecchio; altrimen ti il rattoppo si sdruce - la parte nuova da quella vecchia - e vien fuori uno strappo peggiore. 22 E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino farà scoppiare gli otri, e il vino si perde, e anche gli otri».
Parole di Gesù potrebbero essere il v. 1 9a, certo anche 2 1 s. L'intro duzione sarà opera della comunità: infatti il mancato digiuno che co stituisce il problema è quello dei discepoli, non quello di Gesù. Perciò compaiono i gruppi che provocano ancora la comunità con la loro prassi del digiuno: fra questi, in particolare, il movimento del Battista. I discepoli dei farisei non esistono, esistono solo aderenti a questo partito. La menzione dei discepoli dei farisei è probabilmente un' ag giunta che si deve all'inserimento di quest'episodio nel gruppo dei di battiti polemici con i farisei e gli scribi. Così rimane poco chiaro da dove sia partita la domanda. Dato che l'abitudine del digiuno distin gueva nettamente Gesù dal movimento del Battista, il v. 1 9a potrebbe rientrare in questa situazione fin dall'origine. I vv . 2 1 s. sono forse proverbi ripresi da Gesù o forse immagini da lui stesso create, ma dif ficilmente sono state pronunciate insieme al v. 1 9 perché l'accumularsi delle immagini, anziché rinforzare, indebolisce l'asserzione del v. 1 9. Il v. 2 1 , preso alla lettera, è piuttosto un avvertimento a non rinuncia re alle cose vecchie. Ev. Thom. 47 parla di toppa vecchia su vestito nuo vo; tuttavia si tratta di una modifica seriore dell'immagine. Infatti an che a proposito del vino, accanto alla nostra formula, compare quella opposta. Forse queste parole volevano essere un avvertimento nel sen so di Le. 1 4,3 1 s.; Mc. x o,3 8 ? È più probabile che fossero fin dal prin cipio un avvertimento generico a guardarsi da ogni compromesso tra nuovo e vecchio, che cerchi di salvare sia la gioia per la vicinanza di Dio sia il mantenimento del legalismo. Nel contesto attuale, ad ogni modo, vanno interpretate in questo senso. Il v. 20 potrebbe essere un equivoco della comunità, che tornò almeno in parte a introdurre il di giuno dopo la morte di Gesù (Atti 1 3 ,2 s.; 1 4,23; e le glosse dei copisti in Mc. 9,29; 1 Cor. 7, 5). La comunità ha forse aggiunto anche il v. 1 9b, per sottolineare che la risposta di Gesù valeva soltanto per il tempo della sua vita terrena, seppure anche quest'inciso, che manca in alcuni manoscritti come pure in Matteo e in Luca, non è stato introdotto addirittura dopo Marco. Mentre sulle labbra di Gesù l'immagine dello sposo è ancora un'autentica similitudine - come durante la festa nu ziale non si digiuna, così anche non si digiuna nel tempo della salvez-
Mc. 2 , 1 8 -22.
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z a -, l a comunità stabilisce l'equivalenza diretta dello «sposo» con Ge sù. Il v. 20 potrebbe essere considerato parola di Gesù al massimo nel caso che si riferisse all'esclusione dal banchetto degli ultimi tempi. Ma chi potrebbe capirlo in questo senso, specialmente se si pensa che nel giudizio universale non Gesù, ma i dannati sarebbero strappati via ? La strana e zoppicante appendice del v. 20, «in quel giorno», potrebbe addirittura essere una sollecitazione a considerare il venerdì giorno di digiuno, come in Did. 8, 1 : «l vostri digiuni non siano con gli ipocriti, perché questi digiunano il lunedì e il giovedì; voi invece, digiunate il mercoledì e il venerdì ! ». Questa domanda è tipica dell'uomo che vorrebbe fare qual cosa nel campo specifico della religione. Il digiuno era prescritto sol tanto nel giorno dell'espiazione oppure in tempi di particolare distret ta, ma vi erano gruppi che se lo imponevano spontaneamente. È sor prendente la motivazione che Gesù dà della condotta dei discepoli: la grande gioia rende impossibile qualsiasi calcolo di opere religiose par ticolari. L'immagine pone il problema (nascosto, eppure chiaro per l'a scoltatore attento), se l'allegrezza sia veramente apparsa in Gesù in mo do tale che il dono di Dio sovrasta ogni altra cosa. L'immagine è pre gnante perché in Palestina le nozze sono prese così sul serio che persi no i rabbi interrompono il loro insegnamento biblico per partecipare alla gioia degli altri. Quel che è richiesto ai discepoli di Gesù è una condotta che derivi dall'allegrezza per il dono di Dio. Questo senza dubbio può includere anche l'abbandono di tutto il resto (2, 1 4), ma non include certamente opere religiose speciali per costringere un Dio ancora lontano ad avvicinarsi. Quest'interpretazione è accentuata dal fatto che nella comunità le nozze sono spesso un'immagine della glo ria degli ultimi tempi e che essa vede nello «sposo» senz' altro un'indi cazione allegorica di Gesù. Comunque, già il «finché» («per tutto il tempo che») del v. 1 9b, e specialmente il v. 20, vogliono reintrodurre la possibilità del digiuno dopo la morte di Gesù. Ciò tradisce una concezione secondo la quale Gesù viene «sottrat to» per il periodo tra la morte e il ritorno (cf. 1 3,34). Effettivamente Marco non parla mai della presenza di Gesù dopo pasqua, ma solo del la presenza dello Spirito ( 1 3 , 1 1 ). Pure egli presuppone che continue ranno a verificarsi opere di amore e miracoli nel «nome» di Gesù (9,3 73 9; cf. I 1,2 3 s.). Anzi, senza il presupposto che cose simili accadranno 1 8-20.
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libertà dalla legge
sempre, Marco non racconterebbe né storie relative alla sequela né sto rie di miracoli. Inoltre egli non limita sicuramente i vv. 2 r s. al tempo del Gesù terreno. In uno stadio avanzato lo mostra anche la conclu sione spuria di 1 6,9-20 dove anche il Gesù «assunto in cielo» opera soltanto nel proprio «nome» (qui non si parla affatto di Spirito), ben ché «diversi segni», anzi la «collaborazione» del «Signore» nella pro clamazione rimane presupposta mediante tali segni (cf. a 1 6, 1 7- 1 9). Pure la differenza non dovrebbe venire esasperata. Matteo rende an cora più forti le affermazioni circa l'assenza di Gesù (Mt. 1 0, 1 7-22; 24, 9- 1 4; 24, 3 7 - 2 5 , 1 3 ), ma parla decisamente anche della sua presenza ( 1 8, 20; 2 8, 20). Anche Luca vede nell'attività terrena di Gesù un periodo particolare prolettico della gloria, periodo che cessa con la morte di Gesù, e narra, al tempo stesso, di miracoli che avvengono «nel nome di Gesù» e della comunità guidata dal Signore glorificato (cf. ancora a Mc. 1 6, 1 7-20). - Marco stesso potrebbe aver considerato il digiuno co me ricordo del venerdì santo, senza interpretarlo di nuovo nel senso di un'opera richiesta da una legge (al riguardo cf. 1 Cor. 9,2 5 -27). La doppia similitudine alla fine del nostro brano mette in guardia contro i compromessi. Non si può adoperare il nuovo per rabberciare il vec chio o per colarlo in stampi del passato. Quel che è accaduto in G esù libera da ogni lavoro di aggiustatura. Così l'opera di Gesù viene inte sa, una volta di più, in modo radicale come liberazione da ogni tipo di opera religiosa. La venuta di ciò che è nuovo - e solo questa - ha reso ciò che è vecchio definitivamente vecchio. La libertà dalla legge, .2.,.2.3-.2.8 (cf. Mt. 1 2, 1 -8; Le. 6, 1 - 5 ) 2 3 Gli accade una volta d i passare d i sabato attraverso i seminati, e i suoi discepoli comi nciarono a farsi strada strappando le spighe. 24 Allora i fari sei gli dissero: «Guarda! Ecco che stanno facendo di sabato quel che è proi bito! » . 1s Ed egli dice loro: «Non avete mai letto quel che fece Davide, quando si trovò in necessità ed ebbe fame, lui e i suoi accompagnatori ? 16 Entrò nella casa di Dio al tempo di Abiatar, il sommo sacerdote, e man giò il pane consacrato che non è lecito mangiare se non ai sacerdoti, e ne dette anche a quelli che erano con lui». 17 E diceva loro: «II sabato è stato fatto a motivo dell'uomo, e non l'uomo a motivo del sabato. 18 Dunque il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato». 2 5 s. Lev. 14, s ss.
Mc.
2,2 3 -28.
La libertà dalla legge
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È difficile pronunciarsi sull'origine di questo brano. Gesù ha cer tamente avuto discussioni sul sabato durante la sua vita terrena, ma que st'episodio ha l'aria d'essere stato costruito. Da dove vengono i fari sei, dato che di sabato non si poteva percorrere una distanza superiore agli 8oo metri ? Si tratta forse di contadini che pensano come farisei ? Perché rimproverano ai discepoli di cogliere le spighe e non di cam minare, che era una trasgressione più grave ? Inoltre mancano tutte le indicazioni concrete di tempo e di luogo. È possibile che una parola di Gesù sia stata inserita a posteriori in una situazione adatta: vi compa rirebbero i farisei in quanto erano i più frequenti interlocutori di Ge sù. Il rimprovero relativo alla raccolta delle spighe sarebbe stato pre ferito all'altro perché più in linea con i vv. 2 5 s. di quello relativo al camminare, oppure perché rivela una forma di legalismo particolar mente gretta. Però anche i vv. 2 5 s. difficilmente risalgono a Gesù. So no i farisei che discutono a colpi di citazioni bibliche; G esù di solito argomenta in modo molto diverso. Soprattutto manca in questa repli ca ogni riferimento alla situazione completamente nuova creata da Ge sù. In questo modo può aver polemizzato la comunità quando si la sciava attirare dagli avversari sul loro terreno. Per i vv 27 s., la presen za di una nuova formula introduttiva fa pensare che essi siano stati in origine indipendenti: si è pensato che il v. 28 sia nato da un fraintendi mento del v. 27, dato che in aramaico si usava dire «Figlio dell'uomo» per intendere «uomo» in generale; ma è un'ipotesi molto improbabile. Il v. 28 è un detto del tutto diverso da quello del v. 27, e nel v. 27 ab biamo la traduzione «uomo» e non «Figlio dell'uomo». Forse il v. 2 8 , che è in contraddizione con il segreto messianico d i Marco (v. a 1 ,34), ha concluso una volta una raccolta premarciana (cf. intr. a 2, 1 - 1 2). Il v. 27 potrebbe, col suo radicalismo, risalire a Gesù. È vero che c'è un (tardo) parallelo rabbinico a questo logion (Str.-Bill. a Mc. 2,27); ma qui il rabbi vuole addirittura rendere più severo il comandamento sab batico. Si possono quindi ipotizzare quattro stadi: 1. il detto del v. 27 che esplicitamente (v. 2 8) o implicitamente si basava sulla situazione creata da Gesù; 2. i vv. 2 5 s. servivano da argomento nella disputa tra comunità e giudaismo; essi sottolineano anche solo la situazione criti ca di Davide, non la situazione particolare dei discepoli del «Figlio del l'uomo»; 3. i vv 2 5 s. furono intesi come un riferimento a tale situa zione e inseriti entrambi nella situazione dei vv 23 s.; 4· il v. 28 fu ag giunto quale conclusione di tutta la raccolta. Infine Matteo e Luca tra.
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.2.,.2.3-.2.8. La libertà dalla legge
lasciano entrambi il v. 27 perché non menziona la particolare autorità di Gesù come fa il v. 28. 2 3 -2 8 . Il verbo greco «andare per l a propria strada» significa anche «farsi strada»; ma questo lo si potrebbe fare al massimo calpestando le spighe, ma tale azione non è contestata. D eu t. 2 3 ,24 s. permetteva di raccogliere le spighe con la mano, tuttavia i farisei del tempo di Gesù consideravano questo come uno dei lavori di mietitura vietati in gior no di sabato. I compagni di Davide sono menzionati in aggiunta al re nei vv. 2 5 e 26, perché non la condotta di Gesù è oggetto della polemi ca, ma quella della comunità. «Al tempo di Abiatar» è, rispetto a 1 Sam. 2 1 ,2-7, un errore di memoria. Un testo completo dell'Antico T est amen to a quel tempo era così costoso che un vescovo del n secolo viaggiò dall'Asia Minore fino in Palestina prima di trovarrie uno (Eusebio 4, 26, 1 4). Questo significa che non era così facile verificare le citazioni. L'argomentazione è abbastanza cavillosa: non si parla affatto di viola zione del sabato, solo che in caso di estrema necessità la legge poteva essere violata, ma questo l'avrebbero concesso anche i farisei; e poi, del resto, non era questo il caso, né per i discepoli di Gesù né per la co munità cristiana. È probabile che con questi argomenti la comunità vo lesse soltanto contestare agli avversari la loro mancanza di coerenza. È solo nel contesto attuale con il v. 2 7 che il riferimento può essere inte so come un esempio del fatto che già nell'Antico Testamento (Deut. 5, 14 s . ! ) la legge non era stata data per essere un peso, ma un aiuto. La posizione di Gesù però è più radicale: non solo in casi eccezionali, ma per principio la legge è un dono per l'uomo, paragonabile alla ringhie ra delle scale che non impedisce a nessuno di salirle senza il suo aiuto, ma a quelli che ne hanno bisogno impedisce di cadere. Non è affatto necessario avere per la legge di Dio quel timore farisaico che non osa più chiedere il perché o lo scopo di un comandamento. Il figlio può chiedere al padre perché e con quale scopo dà ordini. Secondo I ub. 2, 1 8 ss. il sabato venne osservato anzitutto in cielo; poi Dio creò Israe le per celebrarlo in comunione con esso e coi suoi angeli. Invero il v. 27 non è un saggio principio generale; in caso contrario la libera gra zia di Dio sarebbe una grazia facile. Ciò è sottolineato nel v. 2 8 : sol tanto chi accetta la chiamata ed entra nel nuovo rapporto con Dio me diante l'autorità del Figlio dell'uomo comprende il v. 27. Infatti nel Fi glio dell'uomo la volontà di Dio per l'uomo, il suo dono pieno e com-
Mc. J , I -6.
L'induramento dei farisei
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pleto è divenuto realtà. Per questo egli è signore del sabato al punto da poterlo donare nuovamente all'uomo come aiuto e non come giogo. Singolare è il «dunque» che apre il v. 28. Forse la sentenza che è ve ramente alla base della libertà dal comandamento sabbatico fu consi derata, più tardi, quando il v. 27 era diventato già un luogo comune (ad es., perché si era affermata l'osservanza della domenica: 1 Cor. 1 6, 2; Atti 20,7; Apoc. I , I o ?), soltanto conseguenza di un fatto valido per tutti gli uomini ? Forse è più giusto riferire la congiunzione conclusiva a tutto quanto è stato detto a partire dal v. 1 : «dunque» trae la conclu sione che nei fatti narrati il Figlio dell'uomo si è dimostrato Signore sopra tutte le regole miranti a chiedere all'uomo un'opera. L'induramento dei farisei, J, I-6 (cf.
Mt. 1 2,9- 14; Le. 6 , 6 1 1 ) -
r Poi entrò di nuovo i n una sinagoga, e c'era lì un uomo che aveva l a mano atrofizzata. 2 E lo spiavano per vedere se lo guarirebbe di sabato, per po tcrlo accusare. 3 E dice all'uomo con la mano secca: «Alzati, va' là in mez zo b>. 4 Poi dice loro: « È lecito, di sabato, fare del bene o del male, salvare una vita o ucciderla?». Ma essi tacevano. 5 Allora, pieno d'ira, li guardò tut ti in giro, amareggiato per l'induramento del loro cuore, e dice all'uomo: «Stendi la mano ! ». Ed egli la stese e la sua mano tornò normale. 6 I farisei uscirono e si consultarono subito con gli erodiani contro di lui, sul modo di eliminarlo. Sorprende che le persone non meglio identificate nel v. 2, risultino nel v. 6 essere farisei. Ma anche il v. 2 è singolare: che i farisei abbiano veramente attribuito a Gesù la possibilità di guarire quell'uomo ? Op pure in origine era detto semplicemente che il popolo sarebbe stato a osservare «se lo guarirebbe veramente» ? In ogni caso, il v. 6 è un'ag giunta di Marco che mette una conclusione alla serie di conflitti inizia ta in 2, 1 , o addirittura alla prima grande sezione iniziata in 1, 14. La menzione degli erodiani (anche 1 2, 1 3 , cf. 8, 1 5 ) accanto ai farisei può risalire alla tradizione. Gruppi politici legati a Erode possono aver col laborato, per motivi politici, con i farisei ai tempi di Gesù oppure per ché negli anni 4 1 -44 i farisei collaborarono strettamente con Erode A grippa (cf. anche introduzione, J , fine del primo paragrafo).
1 -6.
Ancora una volta mancano precise indicazioni di tempo e di luogo. Come scenario dell'episodio è menzionata soltanto la sinagoga {v. a 1 ,2 1 ) dove gli uomini seggono a terra. La guarigione è considera-
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Gesù e la concezione farisaica del sabato
ta una prestazione medica, vietata quindi in giorno di s abato, salvo i casi di pericolo di vita. In I ,2 3 -3 I non c'era stata alcuna contestazio ne: si vede così come in n A ( I , 1 4-4 5) Marco raccolga le storie che de scrivono l'autorità e l'effetto di Gesù su tutto il popolo; in n B (2, I J,6), invece, i racconti che mostrano la crescente ostilità. L a risposta se guente di Gesù è così radicale che appare chiaro, ancora una volta, co me in gioco sia il problema della legge. N on c'è alternativa, c'è solo un aut aut: non fare il bene significa fare il male. Non salvare una vita si gnifica ucciderla. Quando si deve fare il bene, non c'è una zona neutra le, nella quale non si fa né il bene né il male; nessuna scappatoia, nes sun diritto a un legalismo la cui formale osservanza permetta di evita re di fare il bene, cioè di fare il male. L'ira di Gesù contro l'indurimen to (così letteralmente il greco) del cuore, contro l'insensibilità, che non si lascia commuovere dalla distretta, ma si corazza contro la miseri cordia con ineccepibili teorie dogmatiche o etiche, è decisiva. Il legali smo con il quale l'uomo vorrebbe salvarsi rende completamente ciechi alla presenza del Dio vivente, che viene sotto forme sempre diverse da quel che si aspetta l'uomo, il quale pensa di aver rinchiuso Dio nelle sue teorie. Ma una cosa hanno capito gli avversari: che tutto dipende da Gesù e che si può soltanto scegliere fra lui e la legge (v. a I O, I 9). Si è così arrivati a un punto decisivo del vangelo di Marco: l'autori tà potente di Dio su uomini ( I , 1 6-2o), malattie e demoni ( I ,2 I -4 5 ), pec cato e legge ( 2, 1 -3, 5 ), che è diventata realtà in Gesù, mette a nudo la cecità totale per il dono di Dio. La croce, dove troveranno compimen to il servizio di Gesù e la salvezza del mondo, appare già all'orizzonte. La posizione di Gesù circa la concezione farisaica della s antifica zione del s ab a to . Una rigorosa santificazione del sabato era al tempo di Gesù il distintivo di quella parte del popolo d'Israele che seguiva la tendenza farisaica. Non si trattava per nulla d'ipocrisia. Certo si discu teva anche di cavilli, ad esempio se in giorno di sabato, in cui non era permesso portare carichi, fosse consentito portarsi dietro un fazzolet to o fosse meglio legarselo intorno al braccio, perché così invece d'es sere un oggetto trasportato diventava un pezzo del vestiario. Ma an che questo era solo espressione della serietà con cui si cercava di rea lizzare un'ubbidienza radicale. Così israeliti si lasciarono massacrare di sabato senza difendersi, per non violare il comandamento del saba-
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to e diminuire l'onore di Dio (1 Macc. 2,3 6-3 8). Gesù ha trasgredito i comandamenti sabbatici con la predicazione e la condotta non perché pensasse che si potesse anche servire Dio con minore impegno, ma per la ragione opposta: l'ubbidienza che si attenga semplicemente alla let tera della legge non è ancora un'ubbidienza piena. Infatti è possibile os servare letteralmente una legge senza metterei il cuore, anzi permette re al cuore di desiderare il contrario e preoccuparsi soltanto di vedere fino a che punto la legge glielo permette. In questo modo osserviamo le leggi di polizia: quando queste, ad es ., proibiscono una velocità su periore agli 8o km orari noi vorremmo certo correre di più, ma osser viamo la legge. Come, però? Prendendoci il massimo della libertà con sentita, cioè gli 8o chilometri. Gesù però sa che il comandamento «Non uccidere» non è adempiuto finché il nostro cuore non evita tutto ciò che conduce ancora in quella direzione, fosse anche solo l'ira (Mt. 5 , 2 1 s.). D a u n altro punto d i vista, l'ubbidienza legalistica porta al cal colo, perché commisura le proprie opere al dono di Dio. In maniera analoga si osserva, appunto, la legge di polizia tenendo conto della mul ta. Certo, c'è anche il fariseo serio che dice che il dono di Dio è prima rio e la nostra ubbidienza solo la risposta al dono, infinitamente più piccola di questo. Tuttavia rimane il fatto di una contabilità delle ope re di Dio e delle opere dell'uomo. Ma per Gesù vera ubbidienza è solo quella che rinuncia a qualsiasi calcolo (Mt. 20, 1 - 1 6: cf. anche a Mc. 1 4, 6 s.). Gesù non rende il comandamento di Dio ancora più esigente, ma percorre una strada completamente diversa, con una libertà che lascia attoniti. L'uomo deve lasciarsi donare ogni cosa da Dio senza alcun calcolo e deve aprire il cuore a quella gioia. Così servirà Dio per que sta gioia, come un fanciullo che non mira più di sottecchi alla ricom pensa o che ha paura del bastone, ma vive nell'amore per i genitori. La legge di Dio gli sarà d'aiuto su questa via, non come una siepe che la restringe, ma come un cartello che indica la direzione. Osservare il ri poso del sabato per allegrezza verso Dio può costare più che rinuncia re semplicemente a qualsiasi lavoro; perché è impossibile rallegrarsi in Dio finché ci si adira con il fratello; può costare molto più che limi tar si a non ucciderlo per osservare il comandamento. Un'ubbidienza che non fattura le sue prestazioni a Dio esige una potenza d'amore che su peri di molto l'osservanza di una legge. Eppure rimane sempre ubbi dienza nella libertà, alla quale è partecipe anche il cuore. A una siffatta ubbidienza Gesù chiama con la sua parola e con la sua condotta.
Parte terza
L'attività di Gesù in parabole e segni e la cecità del mondo (3 ,7-6,6a) L'opera di Gesù per tutto il mondo, 3,7- 1.1 (cf. Mt. I 2, I 5 - 2 I ; Le. 6, I 7- I 9)
Poi Gesù si ritirò con i suoi discepoli vicino al lago . Un a gran folla lo se guiva dalla Galilea e dalla Giudea 8 e da Gerusalemme e dali 'Idumea e dal l'altra parte del Giordano e dalla regione di Tiro e Sidone, una gran folla: avendo sentito tutto quello che faceva, venivano a lui. 9 Allora disse ai suoi discepoli che una barca stesse pronta per lui, a motivo della folla, affinché non lo schiacciassero. 10 Infatti guarì molti, sicché gli si premevano addos so, per toccarlo, tutti quelli che erano afflitti da malanni. I I E gli spiriti im mondi, quando lo vedevano, gli cadevano ai piedi e gridavano : «Tu sei il Fi glio . di Dio» . I2 Allora li minacciava energicamente perché non lo facesse ro nconoscere .
7
Il passaggio tra la seconda e la terza parte è costituito (come I , I 4 s.) da una sommaria descrizione dell'attività di Gesù, seguita dalla chia mata dei dodici (cf. I , I 6-20 ), e termina con la reiezione di Gesù (6, I 6). Si ha qui,.essenzialmente, l'opera della mano redazionale d i Marco che ovviamente si serve di materiale tradizionale, come si vede chiara mente dal v. 9· È chiaro che difficilmente Gesù scacciava i demoni stan dosene seduto in barca. Il racconto successivo, poi, è già ambientato in montagna. La barca riappare però in 4, I e 3 6. Essa è al suo posto so lo in 4, I . Questo significa che Marco si serve di una tradizione che ri portava per lo meno il discorso in parabole dalla barca (4, I -9) e il sus seguente segno della tempesta sedata (4,3 5-4 I ; v. ad loc. ). Se 3 ,7.9 s. sono tradizione, ha forse Marco ripreso il «gli si premevano addosso» (v. I O ) col v. I 1 («gli cadevano ai piedi») e la «grande folla» (v. 8) col v. 9 ? Il v. I O riferirebbe allora fatti avvenuti prima di salire in barca, e l'insegnamento dalla barca (4, I ss.) sarebbe avvenuto in seguito. Co munque sia, Marco vuole sottolineare ancora una volta il segreto mes sianico (3 , 1 1 s.), poi esporre l'elezione dei dodici, ai quali le parabole vengono spiegate in modo speciale (J, I J - I 9; cf. 4, 1 o) , e la necessità fondamentale di parlare in parabole (3,20- 2 3 ): così il motivo della bar-
Mc. J , I 3- 1 9. La chiamata dei dodici
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ca è abbandonato e poi ripreso nuovamente in 4, I . Il fatto che Marco accetti tante incongruenze significa che annetteva una grande impor tanza alla sezione inserita qui in mezzo. La «Galilea» corrisponde quindi probabilmente alla tradizio ne, mentre Marco stesso sottolinea l'efficacia «mondiale » di Gesù. Tut to si raccoglie attorno al Salvatore del mondo presso il lago di Galilea. Allo stesso tempo si precisa che egli «si ritira», non vuole provocare i n nessun modo quest'assalto. Le regioni elencate corrispondono in cer to qual modo al piano del vangelo di Marco, dove Gesù è descritto al l'opera in Galilea (capp . r -6), Tiro, Sidone e Decapoli (cap. 7), final rnente dall'altra parte del Giordano e a Gerusalemme (capp. 1 0 ss.). Anche l'allestimento della barca illustra la diffusione della sua fama che mette ogni cosa in movimento. Come in 1 ,4 1 (v. a 1 ,42) la sua pros simità fisica, anzi il contatto con lui, trasmette la potenza di Dio. Il ri conoscimento della vera natura di Gesù da parte delle potenze so vrannaturali mostra che il «cielo» ha fatto irruzione sulla terra. Marco usa qui, dove si esprime nel proprio linguaggio, il titolo preciso di «Fi glio di Dio», diversamente da I,24 (v. a I 5,39). Immediatamente mette anche in chiaro, però, che il tempo della sua pubblica proclamazione non è ancora venuto (v. a I ,34). 7- 1 2..
Il testo afferma così due cose: che in Gesù s'incontra realmente Dio stesso, che dà una svolta a tutte le cose, e che una mera accettazione della dottrina della filiazione divina di Gesù non giova ancora a nulla. La chiamata dei dodici, J , I J - 1 9 (cf. Mt. 10,2-4; Le. 6, 1 2- 1 6) t 3 Sale sul monte e chiama a sé quelli che egli stesso volle ed essi andarono da lui . 14 Allora (ne) creò dodici, per farli stare con sé e per mandarli a pro clamare 1 5 e ad avere autorità di cacciare i demoni. 16 Così creò i dodici, e diede a Simone il nome di Pietro, 1 7 e Giacomo, figlio di Zebedeo, e Gio vanni fratello di Giacomo, e diede loro il nome di Boanerges, vale a dire «fi gli del tuono» 1 8 e Andrea e Filippo e Bartolomeo e Matteo e Tommaso e Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo e Simone, il «Cananeo», 1 9 e Giuda Isca riota, che poi lo tradì.
La lista dei dodici, in Marco, viene naturalmente dalla tradizione. Si trova anche in Mt. I 0,2-4; Le. 6, 1 4- 1 6; Atti I , I J in ordine diverso;
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Mc.
J , I 3 - 1 9.
La chiamata dei dodici
tuttavia i nomi sono i medesimi eccetto Taddeo, al posto del quale Le. 6, I 6 e Atti 1 , 1 3 hanno Giuda, figlio di Giacomo. In taluni manoscritti Taddeo è chiamato Lebbeo (Mt. r o,3; Mc. J , r 8). Per Matteo v. a Mt. 9, 9 · In Gv. 1 ,40 ss. accanto ad Andrea, Simone, Filippo appare anche Na tanaele (anche in 2 1 ,2), inoltre Tommaso ( r r , r 6; 1 4, 5 ; 20,24 ss.; 2 1 ,2); Giuda Iscariota (6,71 ; I 2,4; 1 3 ,2.26); un altro Giuda ( 1 4,22), mentre in 2 1 ,2 è incluso anche Giovanni, che va probabilmente identificato con il discepolo amato. Un elenco completamente diverso di discepoli si trova in Ep. Ap. 2, e altri nomi di discepoli di Gesù compaiono in fon ti giudaiche (Str. -Bill. 1, 3 7· 94 s.; n, 4 1 7 s.). Per il problema storico del gruppo dei dodici cf. excursus a 6,7- r 3 . Evidentemente Marco ha in serito a questo punto la vocazione dei dodici (ciascun evangelista la colloca in un momento diverso) per ribadire, di fronte alla cecità del mondo, che ora acclama Gesù, ma ben preso lo respingerà, che soltan to la sovrana elezione di Gesù e il suo lavoro sugli eletti possono crea re almeno un principio di comprensione (v. a 3,7- I 2).
1 3- 1 9. Il «monte>> non è identificato con maggior precisione: è il luogo del ritiro, ma anche della rivelazione di Dio (cf. Es. I 9,2o; I Re 1 9,8; Mc. 6,46; 9,2). La sovrana autorità di Gesù è sottolineata dalla precisazione «egli stesso» e dalla strana espressione «creò», che invero è usata nell'Antico Testamento in senso analogo (I Re 1 2,3 1 ; 2 Cron. 2, I 7). È singolare che l'effettivo scopo dell'elezione sia lo stare insie me con Gesù, ma senza dubbio ciò descrive nel modo più chiaro il si gnificato della sequela. La missione è aggiunta solo in seconda battuta, con un collegamento grammaticale piuttosto duro; di conseguenza l'i nizio del v. 14 deve essere ripetuto al v. r 6 (v. a 6,7- I J). Da un punto di vista storico, l'elezione dei dodici mostra probabilmente l'intenzio ne di Gesù di approntare il nuovo popolo di Dio, l 'Israele degli ultimi tempi. Egli chiama tutto Israele: non, come i farisei e la setta di Qum ran, un gruppo particolare. Aggiungendo l'inciso sulla missione, Mar co sottolinea, nella prospettiva del suo tempo, quel che Gesù esprime va con l'elezione: il nuovo Israele non si realizza semplicemente nella schiera dei discepoli, come se ci si potesse contentare di un gruppo cri stiano; essi non sono altro che messaggeri che chiamano tutti. L'auto rità della loro predicazione è illustrata, come nel caso di Gesù stesso ( 1 ,2 I ss.), con l'autorità sopra i demoni. Dando un nome nuovo ad al cuni dei discepoli, Gesù dimostra la sua sovrana autorità di creare co-
Mc. 3 ,.2.0- 3 5.
La cecità degli uomini e il discorso di Gesù in parabole
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se nuove. Pietro vuoi dire «roccia», nome che non si addice al suo ca rattere, ma che lo designa come colui che Dio ha chiamato per primo (v. a Mt. 1 6, 1 9; 1 Cor. 1 5,5 ) , e sulla cui predicazione apostolica è edifi cata la comunità. Il soprannome «figli del tuono>> ormai non è più ca pito esattamente. Anch'esso difficilmente si riferisce al carattere dei due discepoli (Le. 9, 5 1 ss.; Mc. 9,3 8 s.; IO,J 5 ss.), piuttosto alla loro predicazione che può aver avuto la nota del tuono dell'ira apocalittica di Dio. «Cananeo>> è reso correttamente da Luca con «zelota», cioè zelante. Anche se al tempo «zelota» non fosse stato ancora il nome di un partito, esso indica sempre un rivoluzionario che voleva riconqui stare a Israele la libertà dai romani con la violenza armata. Così tro viamo fra i discepoli di Gesù il partigiano antiromano e l'impiegato del fisco romano (o erodiano, ma strettamente legato ai romani: 2, 1 4; Mt. 9,9). «lscariota» significa probabilmente «uomo di Keriot»; eventual mente potrebbe anche essere considerato come una storpiatura del la tino sicarius, cioè «uomo armato di pugnale», equivalente a zelota. Il gruppo dei discepoli di Gesù non è dunque affatto una «comunità pu lita», unanime nelle questioni decisive. La cecità degli uomini e il discorso di Gesù in parabole, (cf. Mt. r 2,22-J 2.46- 5o; Le. I I , 1 4-23; 1 2, 1 0; 8,19-2 1 )
J ,.10-3 5
20 Viene in casa, e di nuovo si raccoglie una folla, così che non potevano
neppur mangiare un boccone di pane. 21 E non appena sentirono ciò, i suoi uscirono per bloccarlo con la forza; perché dicevano: « È fuor di te sta». 22 E gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Ha Belze bù» e: «Per mezzo del capo dei demoni scaccia i demoni». 23 Ed egli li chiamò a sé e parlava loro in parabole: «Come può Satana scacciare Satana? 24 Ma se un regno è diviso al suo interno, quel regno non può durare. 2 5 Se una famiglia è divisa al suo interno, quella famigl ia non può durare. 26 Se Satana si rivolta contro se stesso ed è diviso, non può durare, ma è alla fi ne. 27 Ma nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rubargli le sue cose, se prima non lo ha legato; soltanto allora potrebbe saccheggiargli la casa. 28 Amen, vi dico: Ogni cosa sarà perdonata ai fi gli degli uomini, i peccati e le bestem mie, comunque possano bestemmiare; 29 ma chi bestem mia contro lo Spirito santo non ha perdono per l'eternità, ma è colpevole di un peccato eterno»; 30 perché avevano detto: «Ha uno spirito immon d o ». 3 1 Intanto arrivano sua madre e i suoi fratelli, si fermarono fuori e gli mandarono uno per chiamarlo. 3 2 O ra c'era una folla seduta intorno a lui
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Mc.
J ,l O-J S ·
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e gli dicono: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e chiedono di te». 33 Allora rispose loro e dice: «Chi è mia madre e i miei fratelli ?» . 34 Poi guardò intorno quelli che gli sedevano attorno in cerchio e dice: «Ecco qui mia madre e i miei fratelli! 3 5 Chiunque fa la volontà di Dio, questi mi è fratello e sorella e madre». N o n c'è quasi nessun altro passo dove la composizione marciana appaia in primo piano con tanto rilievo come in questi versetti. Alla cecità dei familiari di Gesù (vv. 20 s.) risponde il riferimento alla «fa miglia di Dio» (vv 3 I -3 5); alla cecità degli scribi (v. 22), il riferimento al peccato imperdonabile (vv. 28 s., cf. 30). In mezzo, con una duplice cornice, c'è il primo discorso parabolico di Gesù (per questa tecnica stilistica dell'incapsulamento o inclusione cf. intr. a 5,2 I -43). La con sapevole attività redazionale di Marco risulta dal confronto con la forma più semplice del racconto che si legge in Le. I I, I 4· I 5. I 7 (Q) che corrisponde ancora esattamente alla forma letteraria del «dibattito» (cf. intr. a Mt. I 2,22-30). Si rileva che Marco ha omesso l'occasione del contrasto (Le. I I , 1 4), affinché l'accusa (Mc. 3,22) venisse a trovarsi su bito dopo quella del v. 2 1 ; inoltre l'ha riformulata (cf. Le. I I , I 5 ) per renderla parallela a quella dei familiari di Gesù. Gli uni e gli altri dico no che Gesù è pazzo: i familiari un po' meno esplicitamente, gli scribi venuti da Gerusalemme (introdotti anch'essi da Marco) in termini più teologici e maligni. Soprattutto, però, Marco ha inserito n eli' antica ste sura il v. 23a, come risulta non solo dalla sua assenza in Matteo e Lu ca, ma anche dalle parole introduttive (completamente fuori luogo) in tipico stile marciano («e li chiamò a sé ... »; anche in 7, I4; 8, 1 . 34; I 0,42; I 2,43 ). Marco tiene a farci sapere che Gesù cominciò a parlare in para bole per rispondere alla cecità degli uomini (il greco ha il verbo nella forma dell'azione continuata). A questo fatto si dovrà prestare parti colare attenzione (v. a 4,3 3 s.). I vv 28 s. dicono che ciò che era ancora scusabile prima di pasqua, non lo è più nel tempo della testimonianza potente dello Spirito santo. Forse la forma molto più generica di Mc. 3 , 2 8 è sorta più tardi, quando si vedeva nel Figlio dell'uomo il Cristo glorificato e quindi non si voleva più scusare la bestemmia contro di lui. Dato che lo Spirito santo non ha u n posto di rilievo nella predica zione di Gesù, il detto potrebbe essere sorto solo nel tempo dopo la Pentecoste. Il v. 3 5, infine, restringe nuovamente la portata del v. 3 4, tanto che Luca (più tardi anche Ev. Thom. 99, e 2 Clem. 9, I 1 ), per amor di logica, omette la prima frase, mentre Mt. I 2,49 e Ev. Eh. lo limitano .
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Mc. J,.20- J S ·
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ai discepoli. La prima frase potrebbe bene risalire a Gesù stesso, data la stupefacente apertura verso tutti. La comunità avrebbe poi accen tuato con il v. 3 5 la necessità dell'ubbidienza della fede. L'inaudito richiamo di Gesù (per «casa» v. a 2, 1 ) si contrap pone alla cecità dei parenti (linguisticamente potrebbe anche trattarsi degli amici) di Gesù. Giacomo, fratello di Gesù, è presentato in Gal. 2, I 2 s.; Atti 2 I , I 8-24 e soprattutto poi in Egesippo (Eusebio 2,23,5) co me stretto osservante della legge. Si può dunque supporre che la fami glia di Gesù appartenesse alla corrente farisaica o ne fosse simpatiz zante. Naturalmente «è fuor di testa» si riferisce a Gesù, non alla folla, come già avevano proposto gli apologisti. Anche questo è un sistema per liquidare l'azione di Dio: classificare ogni cosa in categorie ben co nosciute di fenomeni psichici. Ancora più dura è la diagnosi delle au torità di Gerusalemme, che costituisce la vera sede dell'ostilità verso Gesù (8,3 I ). Che siano venuti da così lontano è un segno indubbio della diffusione della fama di Gesù. «Belzebù» ( «Baalzebul») è in ori gine il nome di una divinità siriana e significa probabilmente «signore della casa (= del tempio ?)», cf. Mt. I 0,2 5 . 2 3 . Questa etimologia si adatta ai vv . 25 e 2 7 e potrebbe indicare una base aramaica di questo detto. Gli israeliti ne deturpavano per spre gio il nome in «Baalzebub » = «dio delle mosche» (2 Re I ,2). Gradual mente il nome della divinità pagana è poi venuto a denotare il diavolo. Di fronte alla cecità dei familiari e degli scribi Gesù comincia i suoi discorsi in parabole. Per Marco è importante il fatto che Gesù parli sempre in parabole (4, 1 1 .34). Infatti, fino a questo punto, salvo la bre ve enunciazione di 1 , 1 4 s., non è ancora stato riferito nulla del conte nuto della predicazione di Gesù. Questo vuoi dire che per Marco il mo do di questa predicazione è ancora più importante del suo contenuto (v. a 4, 1 -7). 24-30. A rigor di logica, la parabola non è del tutto convincente. Tan to nell'Antico Testamento (Es. 7, 1 I ; 8,3 ) quanto nel Nuovo Testamen to (2 Tess. 2,9; Apoc. 1 J , I 3) si presuppone che anche le potenze ostili a Dio possano far miracoli. Tuttavia qui Satana combatterebbe i demoni che provengono da lui. Così la parabola deve portare a chiedersi se per caso in Gesù non sia comparso il «più forte» (cf. I ,7), del quale senza dubbio si era molto parlato (fs. 49,24 s.; cf. Ps. Sal. 5,3; fs. 5 J , I 2 LXX); è dunque un appello alla fede. Le. I r , I9 s . fa ancora un impor20-22.
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Mc. 3 ,20- 3 s.
La cecità degli uomini e il discorso di Gesù in parabole
tante passo in avanti, ma anche lì la risposta definitiva resta aperta: può solo essere data dal lettore. Le opere potenti di Gesù dovrebbero dare il coraggio di vivere alla presenza e sotto la promessa del Dio forte; perché nell' attivit.à di Gesù questa presenza è già divenuta reale e viene assicurata a quelli che lo seguono. Se si accetta questa interpre tazione, si deve lasciar da parte (come in tutte le parabole autentiche di Gesù) il tentativo di spiegare tutti i minimi particolari, ad esempio che il «legare» sia descritto in I , I 2 s., il «saccheggiare» invece negli esorcismi, ecc. La parabola si trova in un'altra forma, più sviluppata, in Ev. Thom. 98: «Il regno del Padre è simile ad uno che vuole uccide re un uomo forte. Ha estratto la spada nella sua casa, l 'ha infilzata nel la parete per vedere se la sua mano ce l'avrebbe fatta; poi ha ucciso l'uo mo forte » {segue Mc. 3 ,3 2- 3 5 in forma abbreviata). Nel v. 28 dobbia mo anzitutto vedere e prendere sul serio l'incredibile ampiezza della grazia che tutto vuole abbracciare. Nulla rimane escluso. Secondo il v. 3 0, il v. 29 è rivolto contro quelli che sono pienamente convinti, da vanti ai miracoli potenti di Gesù, che potenze soprannaturali siano al l' opera e che non hanno dubbi sulla natura di queste forze, ma le spiegano decisamente come forze demoniache e così si ritengono eso nerati dalla fede. Non sono né cercatori né dubbiosi, i quali sono be nedetti (4,4 1 ), al contrario di quelli che invece sanno tutto alla perfe zione (v. a 8,29). La comunità, che ha creato questo detto (v. sopra), pensa a coloro i cui dubbi sono superati dalla potenza dello spirito di Dio e che soltanto bestemmiando possono scambiare la fede in Dio con la fede nel diavolo. Il nostro detto mette in guardia, con profonda serietà, da quell'estrema, quasi inimmaginabile possibilità demoniaca dell 'uomo di dichiarare guerra a Dio, non in debolezza e in dubbio, ma dopo essere stato sopraffatto dallo Spirito santo, che sa quindi e sattamente a chi dichiara guerra. Gli uomini che tremano nella loro co scienza non sono affatto quegli anticristi adamantini che non anelano alla grazia divina, ma mettono se stessi al posto di Dio, contro i quali il nostro passo è diretto. Tanto meno possiamo però dire ad un altro, senza mettere noi stessi al posto di Dio, che questa parola di giudizio è rivolta a lui. Neanche Gesù accusa gli scribi di aver commesso que sto peccato; non tralascia però di metterli in guardia, prendendo spun to dal loro rimprovero. 3 1-3 5· Giuseppe non appare che nei racconti dell'infanzia (e come nome del padre di Gesù in Le. 4, 22; Gv. 1 ,4 5 ; 6,42); morì forse presto ?
Mc. 4,1 -9.
La parabola del contadino che tribola
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Fratelli e sorelle d i Gesù sono invece menzionati anche i n 6,3 (v. a d loc. ) . L a domanda di Gesù h a dato molto da pensare alla chiesa antica: essa vuoi semplicemente dire (come anche 1 o,28-3 o) che la parentela del sangue non significa niente rispetto alla comunione con Gesù, quel la creata dalla vista delle sue opere e dall'ascolto delle sue parole. For se dietro c'è ancora una polemica contro una specie di califfato: se condo Egesippo (Eusebio 3,3 2,6), infatti, dopo Giacomo, fratello del Si gnore, anche altri parenti di Gesù avrebbero assunto la guida della chiesa. Come in 2, 1 5 - 1 7, anche qui il semplice essere con Gesù viene messo nella luce della grazia con una ampiezza inaudita. In lui la sal vezza è presente; beato chi lo vede e ascolta (Mt. 1 3 , 1 6 s.; Le. 1 0,23 s.; r r ,2 7 s .). L'ultima frase attenua l'incredibile ampiezza delle parole pre cedenti: vuoi esortare i lettori a vivere come persone che sono state reinserite nella presenza di Dio. Diventare «fratelli» di Gesù è la pro messa straordinaria. Appartenere così alla schiera di Dio è la più gran de delle promesse. Bisogna arrivare a 14,36 per sentire ancora parlare di quello che Dio «vuole», e ciò può essere un'indicazione di come Marco si raffiguri la schiera che si apre alla volontà di Dio. La parabola del contadino che tribola, 4, 1 -9 (cf. Mt. 1 3 , 1 -9; Le. 8,4-8) 1 E di nuovo cominciò a insegnare sulla sponda del lago, e gli si raduna intorno una grandissima folla, così che salì in barca, e sedeva al largo, sul lago, e tutta la folla stava a terra, sulla riva del lago. 2 Insegnava loro in pa rabole molte cose, e diceva loro nel suo insegnamento: 3 «Sentite! Ecco, il seminatore uscì per seminare. 4 E capitò, nel seminare, che un po' (di se mente) cadde lungo la strada, e vennero gli uccelli e la mangiarono. 5 E un altro po' cadde sul terreno roccioso, dove non aveva molta terra e subito spuntò, perché non aveva una terra profonda per radicarsi. 6 Quando poi sorse il sole fu bruciata e perché non aveva radice si seccò. 7 E un altro po' cadde nelle spine, e i rovi vennero su e la soffocarono, e non diede frutto. 8 E un altro po' cadde nella terra buona e portava frutto, venendo su e svi luppandosi, e produsse trenta, sessanta, cento volte tanto » . 9 Poi diceva: «Chi ha recchi per udire, oda».
Le parabole. Una parabola mostra con un avvenimento a tutti noto come stanno le cose in un caso paragonabile che non è generalmente noto. In questo schema c'è un unico punto di paragone che conta, e tutti i particolari esistono soltanto in funzione di questo. Si ha uno
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Le parabole
schema di questo tipo: a (ad es. la seminagione) : b (la raccolta) = A (la predicazione presente di Gesù) : B (il regno di Dio futuro). Un'alle goria invece è un racconto nel quale ogni particolare va interpretato. Lo schema è il seguente: a (ad es. la strada battuta del v. 1 5 ) = A (il cuore duro), b (gli uccelli) = B (Satana), c (l'atto di mangiare) = C (la distruzione dell'efficacia della parola). L'allegoria vuole deliberata mente mascherare, in modo che solo gli iniziati riconoscano quel che si vuoi dire (ad es. in tempi politicamente difficili, cf. Apoc. 1 7, 5 - 1 3). Le parabole di Gesù appartengono senza esitazione al primo tipo; è stata poi la comunità a prenderle per allegorie e a interpretar le di con seguenza. Ora si è visto che questa distinzione era ancora troppo sem plice. Le parabole di Gesù non sono soltanto mezzi pedagogici, ma vanno piuttosto paragonati all'evento dell'amore che ispira una poesia e vi si esprime. Così nelle parabole ci sono molteplici rapporti tra i m magine e realtà senza che ciò consenta di cogliere l'unico punto di pa ragone e fissarlo in un dogma o interpretare singoli particolari. A dif ferenza dei rabbi o dei filosofi greci Gesù racconta perciò soltanto la parabola, senza prima formulare una sentenza, che in seguito egli si li miterebbe a illustrare. Infatti, com'è evidente, non si può parlare affat to del regno di Dio se non in parabole (v. a 8,3 2). Il discorso diretto è comprensibile a tutti. Quando qualcuno informa: «Cena alle sette», anche una macchina può afferrarlo e tradurlo. Ma non appena si pas sa, ad es. nel linguaggio amoroso, a usare immagini, deve esservi un certo rapporto tra chi parla e chi ascolta se si vuole arrivare a essere capiti bene. Così tra coniugi possono esservi immagini che nessuno comprende oltre i due legati tra loro dalla comune esperienza. Il lin guaggio figurato non è, dunque, qualcosa d'impreciso. Se si dice di una donna che è «un pezzo di ghiaccio>> ciò è molto più preciso che se si dicesse soltanto che è frigida o scostante, anche se un controllo col termometro proverebbe l'inesattezza dell'affermazione. Le immagini invitano a farsi muovere e trascinare, analogamente a come fa la chia mata di Gesù alla sequela. Perciò qui il narrare ha il proprio posto, perché riempie le immagini di contenuto. Le immagini, dunque, non sono affatto non impegnative, ma molto più impegnative delle affer mazioni dirette che si potrebbero recepire in maniera puramente intel lettuale. Così dietro al parlare di Gesù per parabole la consapevolezza dell'Antico Testamento che l'uomo dovrebbe morire se ascoltasse o vedesse direttamente Dio. Perciò Dio e il suo regno possono incon-
Mc. 4, 1 -9.
La parabola del contadino che tribola
73
trare soltanto in parabole colui che si fa muovere e trascinare da loro. Perciò spesso la realtà trascende l'immagine (cf. la strana condotta del signore di Mt. 20,8- 1 5 o la gioia travolgente di Le. 1 5 ,9.20-24). Così nel nostro passo l'insuccesso dei vv. 4-7 è descritto con un'ampiezza che sorprende, e il successo del v. 8 è eccessivo, anche se non proprio impossibile. Con la descrizione di un fatto della vita quotidiana Gesù rende attenti al miracolo dell'azione di Dio. Dunque nella parabola Gesù percorre una strada sulla quale vuole condurre con sé l'ascolta tore. Si avvicina all'ascoltatore e si fa solidale con il suo pensiero e poi lo prende passo passo con sé fino al punto nel quale prende vita l' azio ne di Dio per lui o lo porta al dono della giusta decisione. I vv. 1 s. sono introduzione di Marco, anche se il particolare di Ge sù seduto sulla barca apparterrà alla tradizione (v. a 3,9 e 4,3 5 -4 1 ) . È significativo che come primo esempio dell'insegnamento autorevole di Gesù egli porti proprio una parabola. I vv. 3-9 potrebbero contene re l'antica parabola di Gesù, che dobbiamo spiegare anzitutto per se stessa (v. anche a Le. 8,4). 1-9. Marco descrive il modo in cui si svolgeva l'insegnamento di Gesù di nuovo così da far capire al lettore come la potenza di Dio si mostrasse in esso (v. a 1,2 1 -28). Quel che segue ne è solo un esempio (i vv . 21 ss. sono pronunciati secondo Marco in un'altra occasione). L'invito ad ascoltare (Gen. 2J,6. 1 3 ; Deut. 6,4, ecc.) è un appello ad a scoltare con partecipazione e implica una decisione. La scelta dell'im magine della semina non è originale: da Platone in poi molti vi hanno fatto ricorso. Originale è invece la descrizione particolarmente ampia dell'insuccesso. È vero che in Palestina si semina anche sopra il sentie ro battuto (Ev. Thom. 9 e Giustino, Dia!. I 2 5 , 1 scrivono, con maggio re precisione, «sulla strada») e in mezzo alle spine, tanto tutto viene poi rivoltato con l'aratro (lub. r 1 , 1 I). Perciò è anche impossibile rico noscere i punti ricoperti soltanto da un sottile strato di humus. Tutta via la descrizione della sfortuna di questo contadino sembra molto am pia, in proporzione alla brevità della frase del v. 8a, che non accenna minimamente a una quantità maggiore di semi rispetto a prima. Il frut to comunque è sovrabbondante (Ev. Thom. 9, ha addirittura 6o e I 20 volte il seme). È chiaro che l'interpretazione traspare già nell'immagi ne, non solo perché una resa del cento per uno è molto rara, ma so prattutto perché i verbi greci indicano una produzione duratura, ripe-
74
Mc. 4, r o- 1 2 . Natura dei
discorsi in parabole
tuta. Infine il versetto conclusivo invita, come l'inizio, a un ascolto par tecipe, sottolineando con l'inciso «chi ha orecchi per udire» che quan do avviene un ascolto di questo genere si tratta di un dono. Il nostro compito è dunque di ascoltare questo resoconto di un ca so della vita quotidiana in modo da vedervi con Gesù quello che egli vi vede. La conclusione è il punto più adatto per far ciò: il raccolto è grandioso; Dio raggiunge il suo scopo, e questo scopo, il suo regno, è benedizione e abbondanza. Con simili parole potevano esprimersi an che gli apocalittici giudaici che attendevano la gloria degli ultimi tem pi; o anche i farisei, che aspettavano dal giudizio di Dio una ricom pensa eterna. Quanto straordinaria e gloriosa è la descrizione del ri sultato finale, altrettanto accentuata è la fatica della semina e l'opposi zione che essa incontra. Anche gli apocalittici e i farisei potevano par lare di opposizione, ma i primi speravano ardentemente nell'annienta mento di tutti i nemici nell'ultimo giorno e i secondi la conferma e la finale ricompensa dei pii. Qui invece non si parla di distruzione degli uccelli o delle spine cattive né di guerra del seme o del campo contro di loro. In modo meno patetico, ma molto più naturale, si tiene conto degli uccelli, delle spine e delle rocce. Gesù insegna che per quel che riguarda l'azione di Dio ora «si semina», e l'uomo sarebbe tentato di vedere soltanto «pietre, spine e rocce», ma un giorno proprio questa seminagione diventerà glorioso «raccolto» . Il messaggio di Gesù è stra no: dunque il regno di Dio è qui, ora che sorge dappertutto l'opposi zione (v. a Mt. 1 1 , 1 2 ! ); ma chi ha orecchi per udire può ascoltare Gesù in modo da vedere già Dio all'opera proprio in questa resistenza cre scente: non sarà quindi incapace di comprendere, quando si troverà di fronte alla croce e alla risurrezione. Secondo la parabola di Gesù tale è evidentemente la via che Dio percorre con il suo regno. Natura dei disco rsi in parabole, 4,10- 1 2 (cf. Mt. 1 J , I O- I 5; Le. 8,9 s.) 1 0 Poi, quando fu in disparte, quelli che erano intorno a lui con i dodici lo interrogarono sulle parabole. I I Egli diceva loro: «A voi è dato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori tutto avvien e per parabole, I 2 affinché
guardando guardino e non vedano, e udendo odano e non comprendano; che non si convertano e non venga loro perdonato>>. 12 /s. 6,9 s.
Mc. •h i 0- 1 2. . Natura dei discorsi in 10- 1 2.
parabole
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Questi versetti lasciano per molti aspetti perplessi. L'armo nia dei vv I 3 5 (v. ad loc. ) è turbata; i «dodici» sono menzionati eu� riosamente in aggiunta agli altri. Gesù è interrogato «sulle parabole» hcnché ne sia stata riferita una sola. La cosa più sorprendente è l' af fermazione che bisogna considerare le parabole come enigmi che de vono accecare. Secondo 4,3 5 Gesù non ha ancora lasciato la barca dal la quale aveva raccontato la parabola del seminatorc: dunque i vv. IO I 2 e i vv . I 3 - 1 9 sono stati aggiunti in un secondo tempo. La singolare formulazione del v. IO rende plausibile l'ipotesi che in questo secondo 1nomento sia stata aggiunta anzitutto la spiegazione, più o meno in questa maniera: «E quando si fu ritirato in disparte, quelli che erano intorno a lui lo interrogarono sulla parabola (v. I o) ed egli disse loro (v. 1 3 )». In un terzo momento furono aggiunti «Ì dodici» e la doman da sull'interpretazione di questa parabola particolare fu trasformata nella fondamentale domanda sulle parabole in generale: a questa do •nanda i vv. 1 1 e 1 2 rispondono con una citazione dall'Antico Testa rnento. L'esame dei vv 1 3 - 1 9 dimostrerà che già il secondo stadio ri sale alla comunità e non a Gesù. Ma il terzo stadio è da attribuire o meno a Marco ? Il detto risale certamente alla comunità di lingua ara maica, infatti il termine ebraico o aramaico per «parabola» significa anche «discorso enigmatico» (Ez. I 7,2; Ab. 2,6; Sal. 49, 5; 78,2; Prov. 1 , 6, ecc.) e solo così si crea un contrasto rispetto alla rivelazione del 1nistero ai discepoli. «Quelli di fuori» è la formula con cui si indicava no in Palestina i pagani o gli increduli. Dato poi che in aramaico non c'è il verbo «essere» e non esiste l'avverbio, l'espressione «tutto è per loro enigmatico>> va formulata così: «Tutto viene a loro in discorsi e nigmatici». Infine, il v. 1 2 coincide, fin nei particolari, più con la para frasi aramaica di /s. 6,9 s. che con il testo ebraico o greco. Atti 28,2 5 ss. (cf. Gv. 1 2,40) mostra che il medesimo passo era usato anche in al tre circostanze per spiegare l'incredulità d'Israele. La forma aramaica può dunque aver suonato così: « ... però tutto è misterioso per gli in creduli i quali guardando guardano e non vedono, udendo odono e non comprendono, a meno che non (in greco: affinché non) si conver tano e sia loro perdonato». Tradotto in greco, il detto risulta molto radicalizzato. La comunità voleva sottolineare che ogni conoscenza di Dio è un puro dono, un miracolo di Dio. Le parabole di Gesù, infatti, provocano di fatto, per volontà di Dio, una separazione: agli uni con cedono la massima penetrazione nei misteri enigmatici di Dio, agli al.
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Mc. 4, 1 0- 1 2 .
Natura dei discorsi in parabole
tri ne sbarrano l'accesso. Il termine «mistero», che ha una grande im portanza nell'apocalittica giudaica, a Qumran, in Paolo e nei suoi di scepoli (v. excursus a I ,3 2-39) non si trova in alcun altro passo di Marco. L'idea, presente in tutti questi passi, di una piccola schiera alla quale è data la conoscenza del piano di Dio a differenza del resto del mondo, è tipica per una comunità che considera le interpretazioni come chiavi per arrivare al segreto delle parabole, ma non per Marco, secondo il quale le parabole di Gesù hanno lo scopo di raggiungere tutto il popolo. Questo è chiaro già dalla scena del v. I che Marco im posta sul modello di altri passi (2, I 3; 6,34); lo rivelano 3,2 3, dove tutti sono chiamati, e l'appello all'ascolto di 4,3 .9; lo mostrano soprattutto i vv. 2 I - 2 5 .3 3 (cf. ad loc. ). Come mai allora Marco ha accolto la dura p arola dei vv. 1 I s. ? Anche Marco sa che la possibilità di ascoltare è sempre un dono (v. al v. 9), donde le particolari attenzioni che Gesù dedica ai discepoli (4, I 3 .34). Ma solo Marco porta questo pensiero fi no alle sue estreme conseguenze. In 8, I 7 s. si dicono dei discepoli e sattamente le stesse cose che vengono dette in 3 , 5 dell'indurimento dei farisei e qui di «quelli di fuori)). Gesù lo dice già in 4, I 3 b: anche i di scepoli non capiscono le parabole; anche loro sono ciechi e sordi al mistero di Dio. Non basta quindi aggiungere alla parabola una sem plice spiegazione perché questa cessi di essere il mistero di Dio. Quel che avviene in 4, I 3 - I 9 e 4,34 fra Gesù e i discepoli deve ripetersi con tinuamente e solo il ritorno di Gesù scioglierà il mistero. Questo si gnifica che tutti stanno sotto il giudizio dei vv. I I b. I 2 e che a tutti i lettori è promesso il miracolo del v. I I a. I discepoli, che secondo 8, I 72 I hanno occhi eppur non vedono, hanno orecchi eppur non odono e perciò non possono convertirsi per la remissione e ai quali il cuore verrà finalmente aperto a pasqua, sono solo un campione di tutti colo ro con i quali Gesù vuole parlare in modo così personale. Quel che agli uomini era impossibile diventa così possibile in Dio ( I 0,27). Oc cupandosi con amore dei suoi discepoli, Gesù rappresenta, anche qui, Dio stesso che cerca l'uomo. Proprio per questo motivo anche le sue p arabole debbono rimanere dapprima un enigma per tutti, affinché nes suno si vanti della propria conoscenza e tutti vivano soltanto del mi racolo della grazia di Dio (Ger. 9,22; 1 Cor. I , I 8 s.3 1, ecc.). Ma ora che si fa? La comunità ha riflettuto sul fatto che Gesù par lava in parabole e nel corso di questa riflessione le sono state donate a
Mc. 4, 1 3 -20.
L'interpretazione dei quattro diversi terreni
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mano a mano nuove intuizioni che sottolineano tutte una parte della verità. Si ascolterà nel modo più scrupoloso Marco stesso; ma può an che essere che qualche volta, in una situazione particolare, uno degli stadi anteriori diventi particolarmente importante. Nel testo è ancora possibile scorgere quattro stadi: 1. Gesù parla in parabole perché non si può parlare dell'azione di Dio se non in immagini che invitino l'uo mo a lasciarsi muovere. 2. La comunità riconosce questo fatto e cerca di rispondere dicendo che cosa queste immagini significhino per la sua situazione (v. a 4, 1 J -20). 3· Essere in grado di far questo, e non appar tenere a «quelli di fuori» per i quali queste immagini rimangono prive di senso, è un fatto che la comunità riconosce come puro dono. Que sto confessa con i vv I I s . 4· Marco interpreta quest'affermazione (e quindi il proposito di Gesù nel parlare in parabole) in modo radicale: anche gli ammaestramenti particolari e l'interpretazione delle parabo le che Gesù dà ai discepoli, non bastano. Così le parabole di Gesù met tono in evidenza la cecità completa degli uomini, anche della comuni tà dei discepoli. Se tuttavia a questa comunità di discepoli viene pro messo «il mistero del regno di Dio», si tratta di un miracolo ancora più grande di quel che i vv I I s. possono descrivere. Se questo mira colo era già accennato nella straordinaria raccolta del v. 8, solo 8,3 1 e � 4 diranno come vi si possa arrivare. .
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L'interpretazione dei quattro diversi terreni, 4, 1 J-2o (cf. Mt. I J , I 8 2 3; Le. 8 , I I - I 5 ) -
1 3 Poi dice loro: «Non capite questa parabola: e allora, come capirete tutte le parabole? 1 4 Il seminatore semina la parola. 1 5 Ora ecco chi sono quelli lungo la strada: dove è seminata la parola e, quando la odono, subito viene Satana e toglie via la parola che è stata seminata in loro. 1 6 E alla stessa tnaniera quelli seminati sul terreno roccioso sono coloro che, quando odo no la parola, subito con gioia la ricevono, 1 7 ma non hanno radici in sé, e sono uomini del momento; quando poi viene tribolazione o persecuzione a motivo della parola, subito inciampano e cadono. 1 8 E gli altri sono quel li seminati nelle spine: essi sono quanti hanno udito la parola, 19 e le pre occupazioni del tempo e l'inganno della ricchezza e le passioni per tutto il resto subentrano e soffocano la parola, e questa diventa sterile. zo Infine i seminati sulla terra buona sono quanti ascoltano e ricevono la parola e por tano frutto, chi trenta, chi sessanta e chi cento volte tanto» .
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Mc.
4, 1 3-20.
L'interpretazione dei quattro diversi terreni
In questo brano si trova una serie di termini che ricorrono nelle epistole, ma non nei primi tre vangeli. Della «parola» in senso assolu to parla la comunità (anche Marco: v. a 2,2), Gesù invece mai. Inoltre qui è già presupposta l'esistenza di una comunità cristiana. Soprattut to si può dimostrare in base a molti esempi paralleli che spesso la co munità ha preso affermazioni di Gesù relative al tempo irripetibile della sua attività terrena o sul giudizio e il regno che viene e le ha tra sformate in parole sull'atteggiamento dei membri della comunità. Co sì le parabole di 4,26-3 2 e Mt. I 3 ,3 3 parlano soltanto del regno di Dio e niente affatto dell'uomo che lo riceve. Quando l'uomo ha una parte nelle altre parabole, è sempre solo con il suo sì o il suo no, che non vengono ancora giustificati né differenziati psicologicamente. Mentre nell'insegnamento di Gesù, dunque, la sua attività e la venuta del re gno di Dio stanno al centro, nel corso della tradizione questo posto viene preso dall'uomo religioso o irreligioso. Anche nella formulazio ne si rivela un adattamento posteriore. Secondo il v. 1 4, il seme è la p arola; secondo i vv. 1 6-20, è invece l'uomo incostante, volubile o fruttifero. Il v. I 5 comincia anche così, per poi attenersi all'identifica zione seme = parola. Veramente gli uomini avrebbero dovuto essere pa ragonati al campo: però non si può parlare facilmente di un atteggia mento corretto o errato del terreno, ma al massimo della sua disposi zione naturale, che però non può essere cambiata (cf. 4 Esd. 8,4 I con 9,3 I ). Dunque la parabola dei vv. 3 -9 non fu raccontata a priori per l'interpretazione dei vv . 14-20. A questa interpretazione posteriore manca qualcosa della forza e dell'attualità irripetibile della parabola originale di Gesù; d'altro canto essa mostra quel che di valido per la propria situazione la comunità ha udito nelle parole di Gesù.
1 3-20. Il primo versetto rinvia alla parabola dei vv 1 -9, ma nella se conda metà estende la prospettiva al problema di fondo delle parabole in generale, ma in maniera assai diversa dai vv I o- I 2 (cf. ad loc. ) . Qui appare in primo piano quel che sta particolarmente a cuore a Marco e che egli dirà più chiaramente in 8, I 7-2 I : la cecità degli uomini è così radicale che neanche i discepoli vi fanno eccezione; tanta difficoltà in contra l'apertura di Dio all'uomo, e tanto meraviglioso è il sorgere della fede. La spiegazione della comunità parte dal fatto che essa con sidera quel che è avvenuto allora (la predicazione di Gesù) come qual cosa che è ancora presente. Infatti «la parola» significa la predicazione .
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Mc. 4, 1 3 -20.
L'interp retazione dei quattro diversi terreni
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nella quale il messaggio di Gesù viene oggi incontro. Anche l'opposi zione alla parola, però, non è un fatto storico del passato, ma vive si milmente nella propria comunità. Così appaiono per primi quelli che non ricevono per niente la parola; poi quelli che non tengono duro nella persecuzione, come la comunità ha già sperimentato; poi quelli la cui fede è soffocata dalle preoccupazioni o dalle gioie della vita di tutti i giorni. L'immagine del portar frutto, infine, è ormai tanto cor rente per descrivere l'ubbidienza cristiana che suscita e ispira una vita sempre nuova, che non ha più bisogno di essere interpretata. Nel N uo vo Testamento la «parola» è sempre qualcosa di vivente, che produce vita e spinge alla fede, all'amore, alla speranza, e perviene alla sua «ma turazione», al suo «frutto» nella condotta globale della comunità. I verbi greci qui, a differenza dei vv. 1 5 - 1 9, sono nella forma dell'azione conclusa, giunta al suo scopo, quando si riferiscono alla seminagione e nella forma dell'azione che continua quando si riferiscono all'ascolto. Certo bisogna anche osservare che sono soltanto gli uomini dei vv . 1 5- 1 9 ad essere descritti con concretezza e non quelli del v. 20; e non solo perché la predicazione dei difetti è sempre più facile della descri zione positiva della fede, ma perché la comunità è interessata soprat tutto a mettere in guardia contro il rifiuto del dono di Dio. Molti vo gliono anche vedere in questa interpretazione della parabola una con solazione per la comunità di fronte agli insuccessi della missione. Que sto potrebbe darsi per Marco; ma nella spiegazione che egli ha ricevu to, si oppone a questa tesi il fatto che l'ultimo gruppo non ha un risal to particolare. Anche se l'interpretazione descrive uno stato di fatto, essa è comunque effettivamente un appello a un giusto atteggiamento (v. sopra).
È vincolante questa interpretazione della parabola ? Certo, essa non ne coglie il vero centro. L'ammonizione della comunità va però presa tanto sul serio quanto, ad esempio, quella di Paolo nelle sue lettere. Il monito deve proteggere dalla tentazione di guardare all'epoca di Gesù con uno sguardo disimpegnato. Come non si possono leggere i vv . 1 3 20 senza il loro radicamento nell'annuncio salvifico della venuta del regno di Dio nell'opera di Gesù (vv. 3 -9), così non si possono neppu re leggere i vv. 3-9 senza l'avvertimento della resistenza inattesa che s'incontra, di volta in volta, nella situazione particolare dei lettori e potrebbe defraudarli del dono dell'annuncio di Gesù.
Chi ha orecchi per udire, oda, 4,2 1 -2 5 (cf.
Le.
8, 1 6- x 8)
E diceva loro: «Viene forse la luce per essere messa sotto il moggio o sot to il letto ? O non piuttosto per essere messa sopra il candelabro ? 22 Poi ché niente viene nascosto se non per diventare così manifesto, e niente ri mase segreto se non per venire così alla luce. 23 Se uno ha orecchi per udi re, oda! ». 24 E diceva loro: «Badate a quel che udite! Con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi e vi sarà data anche la giunta. 25 Poiché chi ha, a lui sarà dato; e chi non ha, anche quello c.he ha gli sarà tolto». I quattro detti di questo brano si trovano anche sparsi in Q. Matteo li riporta solo nel contesto di Q ( 5 , 1 5; 1 0,26; 7,2; 2 5 ,29), salvo l'ultimo che ripete in 1 3 , 1 2. Luca li ha due volte, in 8, 1 6- 1 8 come Marco e in 1 1 ,3 3 ; 1 2,2; 6,3 8 e 1 9,26 come Q. Il confronto del v. 24 con Mt. 7,2 ri vela come uno stesso detto posto in contesti diversi ricevesse signifi cati del tutto diversi (v. al v. 24). In origine il logion del v. 24 è stato forse un riferimento al giudizio di Dio; lo stesso potrebbe dirsi per il v. 2 2, ma Le. 1 2,2 s. dimostra che già prima di Marco esso era stato as sociato col v. 2 1 . Il v. 2 1 è certamente un detto autentico di Gesù e sottolinea come egli non possa nascondersi e risparmiarsi, ma debba compiere la sua missione, come la luce che è presente proprio per fare luce a tutti (Mt. 5 , 1 5). Allora anche il v. 22 va inteso all'incirca nel senso della parabola del granel di senape. Così si pone al centro il te ma dell'occultamento, non dell'estinzione (v. al v. 2 1 ). Il v. 2 5 , infine, potrebbe essere stato una volta un proverbio esprimente rassegnazio ne (il ricco diventerà sempre più ricco, il poveraccio andrà in rovina) ripreso da Gesù o dalla comunità in un senso nuovo. Tutto questo ri mane però incerto e si deve invece chiedere che cosa intendesse dire M arco. È possibile che i vv . I J a. 14-3 2 siano stati messi insieme già prima di lui perché l'introduzione «Ed egli diceva (loro) » non appare altrove in Marco. Tuttavia, nel contesto attuale, le parole servono per spiegare ancora una volta il senso delle parabole. Esse rivelano la pre mura di Dio per l'uomo, la quale vuole portare all'illuminazione, ma proprio per questo cerca uomini che si lascino impegnare. Marco pen sa dunque al tempo della proclamazione dell'evangelo a tutto il mon do (v. al v. 3 2), non al tempo del regno di Dio dopo il giorno del giu dizio. Formalmente abbiamo due gruppi di parole con un breve inciso nel mezzo. I vv. 2 2 e 2 5 , che cominciano con «poiché», costituiscono la motivazione dei vv. 2 1 e 24. L'inciso centrale (v. 2 3 ) e l'introduzio ne del v. 24 sono stati certamente introdotti da Marco. .z 1
Mc. 4,2 1 -.1 s.
Chi ha orecchi per udire, oda
8I
.1 1 -.1 5 .
Se Mt. 5 , 1 5 fosse la forma più antica del v. 2 1 , si potrebbe pensare al vaso con cui si copriva la lampada per spegnerla, evitando che facesse fumo, particolarmente fastidioso negli ambienti palestinesi privi di finestre. In questo caso il detto significa: non si accende una luce per spegnerla subito dopo. Tuttavia la forma più paradossale di Marco è forse la più antica: non si mette la lampada accesa sotto il mastello o (come si è aggiunto in seguito con un'immagine colorita) sotto il letto. Osserviamo la singolare immagine della lampada che «viene», evidentemente dovuta all'applicazione del detto alla venuta di Gesù. Per Marco però, nel presente contesto, questa parola non è più uno sguardo retrospettivo verso un periodo storico passato, ma un'af fermazione circa il modo di parlare per parabole di Gesù. La giustifi cazione data nel v. 22 dimostra che Marco intende l 'immagine come una promessa: anche un detto parabolico che rimane oscuro raggiun gerà lo scopo e farà conoscere Dio. Con il ripetuto appello a «udire » Marco sottolinea ancora una volta che le parabole di Gesù devono venir capite (non c'è nulla che Gesù desideri più ardentemente), ma che ciò presuppone il dono di Dio («se uno ha orecchi per udire») e il miracolo di un uomo che se lo lasci donare («oda! »). Il v. 2 5 descrive l'ascolto e la comprensione delle parabole come un dono che progre disce continuamente e diventa sempre più ricco. Ma queste parole mo tivano dunque solo la chiusa del v. 24 «e vi sarà data la giunta». Que ste parole mancano nel passo parallelo di Mt. 7,2 e potrebbero aver avuto il loro posto originario in una descrizione del giudizio (Mt. 2 5 ,29). Con esse Marco esprime la propria interpretazione del v. 24. Le sue parole introduttive mostrano poi a chi si riferisca questo « da re» e questo «aggiungere» di Dio: a colui che bada a «ciò che» ode, cioè alla parola di Dio nella parabola che esteriormente parla solo di cose della vita di tutti i giorni. A lui viene dunque promessa la grazia di Dio che gli donerà una conoscenza sempre più grande. A colui che «misura» nella parabola di Gesù il mistero del regno di Dio verrà con cessa la sua «misura» . Così tutto quanto il brano è un'unica promessa: le immagini in cui Gesù parla di Dio non rimarranno oscure, ma si spiegheranno. Pro prio per questo il nostro brano è un appello ai lettori: lasciatevi inseri re nell'adempimento di questa promessa. «Ascoltare» significa accet tare che venga fatto un dono, così come la luce risplende senza alcun in-
Mc. 4,26-29.
82
Parabola del seme che cresce senza l'aiuto del contadino
tervento da parte di chi ascolta. Nulla può rimanere nascosto quando Dio si manifesta. Abbondanza genera abbondanza. Non si può fonda re la fede se non nell'appello a sperimentarla e a lasciarsi sopraffare dal l'abbondanza del dono. Di questo parla anche la parabola che segue. Parabola del seme che cresce senza l'aiuto del contadi no, 4,26-2 9 26 E diceva: «Così è il regno di Dio: come quando uno getti la semente sul la terra, 27 e dorma e si rialzi, notte e giorno, e la semente germoglia e viene su, senza che egli ne sappia niente. 28 Da sola la terra porta frut to: prima lo stelo verde, poi la spiga, poi i chicchi pieni nella spiga. 2 9 Ma quando il frutto lo consente, subito ci fa metter la falce, perché il raccolto è
pronto» . .2.9
Gl.
4, I J .
Questa è l'unica parabola di Marco che non ha alcun parallelo negli altri vangeli (ma cf. Mt. 1 3,24-30) . Forse questa parabola è stata trala sciata o modificata perché si sottrae a qualsiasi interpretazione mora listica. Del resto solo 3 ,20 s.; 7,3 1 -3 7; 8,22-26; 9,49; I 4, 5 I s. sono an che, più o meno, senza paralleli. 26-2 9 . Dietro questa formulazione pressoché impossibile si nascon de la consapevolezza che il regno di Dio sia qualcosa di così diverso da tutto ciò che l'uomo conosce, che l'analogia può essere espressa so lo per via di perifrasi: «Succede col regno di Dio, come con un uomo, quando egli ». Nel v. 27 cambia il tempo del verbo rispetto al v. 26: la forma dell'azione continuata sottolinea il perdurare dell'inattività: il contadino va a dormire e si alza, giorno per giorno, dopo aver compiu to l'unica azione del seminare. La notte è menzionata prima del gior no perché si vuole sottolineare anzitutto la passività del sonno, ma può anche darsi che ciò si debba al fatto che per i giudei la giornata comin ciava la sera. N el testo greco i verbi sono usati nella forma diretta del l'indicativo solo quando si arriva a parlare della produttività del cam po; l'azione dell'uomo invece era nella forma indiretta del congiunti vo (vv. 2 6 s.). L'ultima parte della parabola è una citazione di G/. 4, I 3 che descrive il giudizio finale di Dio. ...
In questa descrizione di un processo universalmente noto manca curiosamente ogni menzione delle altre opere dell'uomo (arare, disso-
Mc. 4,J o-3 2 .
Parabola del granel di senape
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dare, erpicare) e della sua lotta contro la siccità e il maltempo, mentre viene sottolineata la sua condotta spensierata fino alla mietitura. Si de v e considerare questa parabola come un invito a spogliarsi dell'ansie t à, al pari di Mt. 6,2 5 ss . ? Oppure essa vuoi sottolineare che è dato un tempo nel quale, grazie alla fede nel domani di Dio, si può vivere sen za agitazione ? L'ultima frase però accenna in modo inequivoco al com pimento del regno di Dio, di cui la «mietitura» è un'immagine costan te; «da sola» sottolinea l'azione miracolosa di Dio. Eppure i vv. 27 s. insistono sul comportamento rilassato del contadino. Questo significa l:he qui la descrizione del contrasto tra semina e raccolta, presente e il futuro di Dio che viene è diretta contro i dubbi e le preoccupazioni che, anziché attendere il compimento di Dio, vorrebbero forzare la ve nuta del regno o addirittura costruirlo: o con la rivoluzione, come gli zeloti, o con precisi calcoli e preparazioni come gli apocalittici, o con 1 'ubbidienza assoluta alla legge come i farisei. La parabola annuncia così la spensieratezza dei figli di Dio che insieme con Gesù e per amor suo, senza una managerialità spirituale e un attivismo sbagliato, aspet tano ciò che Dio farà sicuramente e proprio così si concedono in tutto il loro sentire, pensare, agire e parlare. Parabola del granel di senape che diventa un grande arbusto, (cf. Mt. I J ,J I s.; Le. I J, I 8 s.)
4,3 0 - 32
30 E diceva: «Come vogliamo paragonare il regno di Dio, o con quale pa rabola possiamo rappresentarlo ? 3 1 Come con un chicco di senape che, quando è seminato sul campo, è il più piccolo di tutti i semi da semina in terra; 3 2 ma, una volta che sia seminato, viene su e diventa più grande di tutti i legumi e fa rami grandi, tanto che alla sua ombra gli uccelli del cielo
possono fare il nido».
3 2 Ez. 1 7,23 ; 3 1 ,6; Sal. 1 04, 1 2.
Questa parabola è tramandata anche i n Q assieme a quella del lievi to, che ha il medesimo orientamento. Luca la riporta nella forma di Q, mentre Matte o combina insieme le due forme. Singolare è l'allusione a espressioni dell'Antico Testamento al v. 3 2b (v. sotto). È un elemento tipico della comunità (cf. introduzione, 4, fine), ma potrebbe anche ri salire proprio a Gesù (cf. v. 29 e v. a I , I 6-2o, intr.). 30-32. L'introduzione della parabola corrisponde allo stile semitico, ma sottolinea anche la difficoltà, tipicamente marciana, di parlare in
Mc.
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4,JO-J .2..
Parabola del granel di senape
modo adeguato del regno di Dio (v. al v. 26). Il v. 3 1 è sovraccarico e grammaticalmente difficile {letteralmente si dovrebbe tradurre: «che è un seme più piccolo di tutti i semi», essendoci il comparativo e non il superlativo). Nella forma di Q manca l'accenno alla piccolezza del se me di senape, forse perché in Palestina è proverbiale; quindi è stato si curamente aggiunto solo quando si cominciò a raccontare la parabola fuori della Palestina. Lo stesso può dirsi de Il' accenno alla grandezza dell'arbusto di senape. Si racconta di un rabbi che salì su una pianta di senape nel suo giardino, come su un fico. Per questo Q parla sempli cemente di un «albero» che è cresciuto. Non si può più dire con certezza quale fosse il significato della pa rabola nella forma originaria pronunciata da Gesù. In Q l'accento non è posto su «piccolo» e «grande», bensì su «crescere» e «diventare un albero», il che corrisponde al tratto del «lievitare tutta la massa» nella parabola complementare (v. a Mt. I J ,J I -J J). Marco sottolinea invece maggiormente il contrasto: nell'inizio poco appariscente si manifesta già, nascosto in umili spoglie, il compimento finale di Dio. Mentre i vv 3 -9 hanno evidenziato l'insuccesso presente e la futura vittoria di Dio e i vv. 26-29 l'invisibilità e il miracolo dell'azione rivelatrice di Dio, ora i vv 3 0-3 2 l'inezia dell'inizio e la contrastante grandezza della fi ne. In questa sua lettura Marco dovrebbe essere rimasto più vicino di altri alla proclamazione di Gesù. Naturalmente anche il contadino pa lestinese ha una qualche idea della crescita, ma in assenza della spiega zione scientifica di questo processo prevale l'aspetto dello stupore per le vigorose piante uscite da un minuscolo seme. La comunità non vive tuttavia più con Gesù al tempo della prima semina, ma vi guarda già in retrospettiva. Così per essa passa in primo piano il tempo fra «semi na» e «raccolto», cioè il tema della crescita. Ciò ha portato, presumi bilmente prima di Marco, ali' associazione con la parabola della semina che cresce da sola e, in Q, con la parabola del lievito, quindi all' accen tuazione della crescita del regno di Dio che permeerà ogni cosa. L'ul timo passo lo fa Marco. Anche se l'ultima frase può essere considerata un semplice abbellimento come in Sal. I 04, I 2, o un riferimento alla glo ria di Israele negli ultimi tempi come in Ez. 1 7,23 (riferimento che an che Gesù può aver fatto), Marco lo interpreta già, con ogni probabili tà, nel senso di Dan. 4 , I 8 (e Ez. 3 1 ,6) come un accenno all'inserimento di tutti i popoli nella comunità di Gesù, un tema che gli stava partico.
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Mc. 4,3 3 - 34.
Perché Gesù parlava in parabole
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larmente a cuore (v. a I J , I o; cf. los. As. I 5,7: i pagani «nidificano» nella città di Dio). Anche se Marco ci vide certamente un'immagine del compimento finale non ancora avvenuto (cf. I 3, I o), egli si avvicina però già a un'interpretazione che vede l'adempimento definitivo della parabola nella chiesa che include tutti i popoli, anche se sullo sfondo lascia apparire ancora la grande speranza del regno imminente. Tutti hanno dunque interpretato il proprio tempo alla luce di questa para bola, che si mettesse l'accento o sulla modestia dell'inizio in contrasto con la gloria della fine, o sul tempo dell'attesa e della speranza, o sui segni già visibili della vicina mietitura, interpretando ciascuno il pro prio tempo come un tempo che, a partire dalla «semina» fatta da Ge sù, sta completamente nella luce del regno che viene. Perché Gesù parlava in parabole, 4,3 3-34 (cf. Mt. I 3 ,34 s.) 33 E con molte parabole simili diceva loro la parola, così come potevano udirla. 3 4 Ma senza parabola non diceva loro nulla; (quando però erano) da soli, spiegava ogni cosa ai suoi discepo l i .
Probabilmente la raccolta di cui si è servito Marco si concludeva con un accenno all'ammaestramento particolare dei discepoli (v. 34b) . Questa istruzione in privato corrisponde a quanto si legge ai vv . I I s. e al v. 33, più che al v. I3 (v. ad loc. ). L'espressione « diceva loro la pa rola» è marciana (v. a 8,3 2); i vv . 3 3 e 3 4a si adattano perfettamente al la teologia di Marco e gli vanno certamente attribuiti (v. al v. I 2): di Dio si può parlare solo per immagini. Marco riprende l'ammaestramen to dei discepoli dall'antica conclusione della raccolta di parabole. Nel la sua ottica, per l'evangelista in questa particolare istruzione si mo stra che Gesù, per infrangere la barriera della cecità degli uomini, non solo si adatta alla loro comprensione, ma inoltre spiega ogni cosa ai discepoli. 3 3 -34. Ancora una volta il fatto che Gesù parli in parabole è più im portante del loro contenuto. Per mezzo loro giunge agli uomini «la pa rola» che fin dal primo capitolo della Genesi indica il modo nel quale Dio si rivolge alla sua creazione, precisamente «come essi possono udire» (cf. excursus a 4, I -9 ). In realtà, per Marco la frase finale vuole accentuare ancora di più l'affermazione precedente. Se le immagini
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Mc. 4,3 5-4 1 . L'autorità di Gesù sul vento e sulle onde
sono la forma in cui si può parlare del regno di Dio in modo adeguato all'uomo, serve comunque l'aiuto di Gesù per capirle. Solo in sua com pagnia si impara a capire il linguaggio che parla di Dio. Il passo di 8, 1 7-2 1 e 34 ribadirà questo principio con ancora maggiore forza. Per questo Marco non dà semplicemente la spiegazione delle parabole, fatta eccezione per 4, 1 3 -20, dove l'interpretazione era stata già aggiun ta nella tradizione. Per capire occorre dunque stare insieme con Gesù: non con un Ge sù che si possa ricostruire storicamente (se fosse così, sarebbe bastato che l'evangelista riferisse la conversazione privata di Gesù con i disce poli, che contiene l'interpretazione), bensì col Cristo vivente che parla oggi alla comunità, il quale soltanto può «spiegare (lett. « risolvere ») ognt cosa». L'autorità di Gesù sul vento e sulle onde, 4,3 5-4 1 (cf. Mt. 8, 1 8 .23-27; Le. 8,22-2 5 ) 3 s Quel giorno, s i era appena fatta sera, disse loro: «Vogliamo passare dal l' altra parte» . 36 Allora, congedata la folla, lo prendono con sé, così co m'era, nella barca; e altre barche erano con lui . 37 E si scatena una gran bu fera di vento e le onde s'abbattevano sulla barca, tanto che ormai la barca andava piena di acqua. 38 Ed egli stava a poppa, dormendo su un cuscino. Lo svegliano e gli dicono: «Maestro, non t'importa nulla che moriamo ?». 39 Ed egli si svegliò, sgridò il vento e disse al lago: «Taci ! Ammutolisci ! ». Allora il vento si posò e vi fu una gran bonaccia. 40 Poi disse loro: «Perché siete così paurosi ? Com'è che non avete fede?». 41 Li prese allora una gran paura e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il lago gli ubbidiscono ?».
È chiaro che Marco ha ricevuto questo racconto dalla tradizione. Al v. 3 6 vengono menzionate «altre barche:» che, in uno stadio anteriore della tradizione, possono aver avuto una parte nel racconto (forse per ché quelli che c'erano dentro servivano da testimoni del miracolo), ma ora non l'hanno più. Che Gesù sia ancora seduto nella barca presup pone la medesima situazione di 4,2. Forse il racconto è stato narrato in connessione con 3 ,7.9 s.; 4, 1 .2a (v. ad loc. ) prima ancora che 4, 1 oa ve�isse inserito. Per questa ragione Marco riporta l'episodio a questo punto del suo vangelo.
Racconti di miracoli
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Racconti di miracoli che narravano persino risurrezioni di morti (2 Re 4,3 5; 1 3,2 1 ; cf. excursus dopo 5,43) e tempeste improvvisamente sedate che gettano i testimoni «in gran timore» (Gion. 1 , 1 5 s.) circola vano già a proposito di profeti dell'Antico Testamento, di taumatur ghi giudei (Str.-Bill. r, 5 23 s. 5 60) e pagani (Plinio, Naturalis Historia 7, 1 24; Filostrato, Vita Apollonii 4,4 5; Apuleio, Florida 1 9; Luciano, Phi lopseudes 1 3 .26: morto risuscitato dopo venti giorni, con certificato me dico !). Si era così sviluppato un preciso schema narrativo seguito per le storie di miracoli. Lo schema comprendeva un'introduzione nella quale si presentavano il taumaturgo, gli infermi, gli avversari, ecc.; nell'esposizione si descriveva la lunga durata o la difficoltà della ma lattia, anche l'impotenza dei medici; nel corpo centrale seguiva l'ese cuzione del miracolo, di cui talora si sottolinea la difficoltà; la conclu sione conferma l'esito positivo, dando una dimostrazione del successo (ad esempio la persona guarita si porta via il letto; gli astanti tessono le lodi del taumaturgo ). Certamente a proposito di questi paralleli bi sogna operare dei distinguo. In Gesù mancano miracoli punitivi; le epi fanie sono marginali (l'esempio più chiaro è 6,48 s.) e certamente non risalgono a modelli ellenistici, bensì alle apparizioni del Risorto nelle quali si rispecchiano le apparizioni di Dio nell'Antico Testamento. Il gesto del miracolo viene raccontato sobriamente, mentre nell'esposi zione viene sottolineato il tema della fede (non soltanto della speranza, del coraggio o di un certo candore come nelle storie classiche di mira coli), ad esempio facendo notare la difficoltà di avvicinare Gesù e il suo superamento {9,24 !). Che le tradizionali imposizioni del silenzio vengano modificate letterariamente in ingiunzioni a mantenere il se greto (cf. excursus a 1 ,34) e che un'acclamazione che magnifichi il tau maturgo, ad esempio quale Figlio di Dio, venga sostituita dal racconto delle opinioni della gente, dipende dal fatto che una confessione di fe de in Gesù è veramente possibile solo dopo la crocifissione; così, in una certa misura, 1 5 ,39 è un'acclamazione anche per tutte le storie di miracoli. N on c'è da dubitare che Gesù abbia compiuto guarigioni; l'impressione della sua autorità riecheggia ancora dappertutto. Ma i racconti sono passati attraverso un processo di sviluppo che è durato decenni; noi possiamo ancora osservare questo sviluppo all'interno del la tradizione evangelica e nella letteratura successiva al N.T. (introdu zione, 4). Così, ad esempio, in Giovanni spariscono i demoni, ma ven gono messi in maggior risalto gli avversari di Gesù. I miracoli di Gesù
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Mc. 4,3 f -4I .
L'autorità di Gesù sul vento e sulle onde
erano dunque indicazioni del mistero che stava dietro alla sua autori tà, ma neanche allora, considerando i paralleli classici, prove in senso proprio. Simili prove sarebbero anche letali per la fede, perché l'ab basserebbero a mera conseguenza logica, proprio come sarebbe letale per il vero amore che il marito volesse procurarsi prove della fedeltà della moglie. In questo senso la posizione odierna non è affatto diver sa da quella dei contemporanei di Gesù (cf. retrospettiva, 1 , 1 4- 8,26). Rimane tuttavia una duplice differenza. Anzitutto non possiamo più distinguere in modo netto e indiscutibile eventi miracolosi e non mi racolosi. Uno scienziato di oggi è senz'altro disposto a constatare av venimenti straordinari, inesplicabili per il passato, perché la sua visio ne del mondo è aperta anche nei confronti di fatti che sono sì scarsa mente probabili, ma non fondamentalmente impossibili. D'altra parte, però, abbiamo imparato che non è l'eccezionalità di un avvenimento che ne fa un miracolo, ma il fatto che Dio se ne serva per parlarci; che la forma in cui avviene sia o no miracolosa, finisce per essere indiffe rente. In senso stretto, dunque, esiste solo un unico miracolo: che Dio parli e lo faccia come colui che ama, e ci raggiunga con la sua parola. Tuttavia non si può negare che un avvenimento che aveva solo una minima probabilità di accadere (come la guarigione di un infermo per il quale non vi siano più speranze) non possa certo costituire una pro va dell'opera di Dio, ma ponga però il problema dell'intervento di Dio più pressantemente di un altro. Talora Dio deve fare segnali, per così dire, con un palo perché noi prestiamo attenzione. Perciò la se conda differenza è importante: la storia è stata tramandata fino a noi, come già ai lettori del vangelo, solo come testimonianza di un creden te: cioè il narratore ha preso posizione, insieme con il suo racconto, per quel che non può essere dimostrato, ma solo testimoniato: che in questo avvenimento Dio si rivolse agli uomini e cercò la loro fede, co me fa anche oggi. Cf. anche a 5 ,4 3 ; 6, 5 ; 8, 1 1 . 3 5-4 1 . Che fosse sera si addice al sonno di Gesù, ma non 5 , 1 ss. L'im provviso arrivo di un vento di caduta è ancora oggi motivo di preoc cupazione sul Lago di Gennezaret. La descrizione precisa che trovia m o al v. 3 8a può ben risalire a testimoni oculari; tuttavia particolari co me questo possono anche scaturire nel corso della narrazione (v. a J , 1 -6, alla fine dell'intr., e a 5,2 5 ) . N ella nota di rimprovero della do manda dei discepoli c'è qualcosa della distretta dell'arante che è por-
Mc. 4,3 5 -4 1 .
L'autorità di Gesù sul vento e sulle onde
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tato a disperare per il silenzio di Dio. «Minacciando» il lago (greco: il «mare», cf. Sal. 1 06,9) e ordinandogli di tacere, Gesù manifesta la sua sovrana autorità come in 1,2 5. Così la calma che sopraggiunge è un segno della vittoria di Dio su tutte le potenze ostili. A questo proposi to va ricordato che nell'Antico Testamento la creazione viene descrit ta come un combattimento di Dio contro il mare, rappresentato come un mostro. La vittoria di Dio consiste nell'aver respinto il mare entro i suoi limiti per l'eternità (cf. Sal. 74, 1 3 s.; 89, 1 0- 1 4; 1 04, 5 -9; Giob. 3 8, 8- I I ; Ger. 5,2 2; 3 1 ,3 5 ; Preghiera di Manasse = Ode XII [LXX], 2 s.). Ma lo sfondo anticotestamentario traspare anche altrove: la tempesta c le acque designano tentazioni del credente (Sal. 69,2 s. I 5 s.; 1 8, 1 6 s.), nelle quali egli può confidare solo in Dio (/s. 43 ,2; Sal. 46,3 s.; 65,8; spec. 1 07,23 - 3 2), e di tale confidenza è segno il dormire placidamente (Prov. 3,24; Sal. 4,9; 3 , 5 ; Giob. 1 1 , 1 8 s.; Lev. 26,6). A differenza però di tutti gli altri paralleli, il nostro racconto culmina con la questione della fede: ecco il proposito del narratore. Qui la fede si contrappone alla pusillanimità; essa quindi non si riduce al semplice assenso dell'in telletto a determinati principi, ma abbraccia e coinvolge tutta intera l'esistenza. Credere, dunque, significa contare su Dio e sulla sua po tenza, precisamente significa aspettare in concreto d'incontrarla volta dopo volta in Gesù (cf. 2, 5). Della grande paura si fa menzione solo alla fine, dopo la salvezza. È una paura più grande di quella della tem pesta: non si identifica con l'angoscia, ma può accompagnarsi ad una completa fiducia nella grazia di Dio (Sal. 3 3 , 1 8) perché l'uomo teme una sola cosa: di non lasciarsi veramente afferrare da questa grazia, di non incontrarla nel modo giusto. È dunque il timore della presenza di Dio o, più esattamente, del sopravvenire di Dio su di noi, il timore del suo agire, non in uno spazio concepito teoricamente, ma nello spazio nel quale concretamente si vive. La domanda dei discepoli «Chi è co stui ?» è quindi la domanda posta da tutto il brano. Ha un'importanza particolare, in questo racconto, tutto ciò che e sula dallo schema abituale: Gesù non invoca Dio, ma interviene diret tamente, come al posto di Dio; inoltre tutto tende verso la questione della fede: « Chi è mai costui ?». La risposta non può essere racchiusa in un titolo o un termine (v. a 8,29 s.). Perciò non viene neppure tolta al lettore la possibilità di rispondere. Gesù potrebbe anche essere un ciarlatano (3 ,22) o un semplice profeta (8,28), ma secondo Marco pro-
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Mc. J , I -10. L'autorità di
Gesù sui demoni
prio la domanda dei discepoli dimostra che Dio è all'opera in loro, mentre ogni sicurezza troppo grande sarebbe sospetta ( 6,3 ; 8,29-3 3 ) . La fede p u ò realizzarsi solo nella sequela, là dove i l s ì all'azione d i Ge sù si rinnova ogni volta. Così l'evangelista congeda il lettore con la domanda se si attenda in Gesù un intervento tale di Dio, che dia luogo a parole potenti e a una nuova creazione (v. al v. 39). L'autorità di Gesù sui demoni, 5,1-20 (cf. Mt. 8,2 8-34; Le. 8,26- 3 9) 1 E giunsero alla riva dall'altra parte del lago, nel paese dei geraseni. 1 E men tre egli scendeva dall'imbarcazione, subito gli venne incontro dai sepolcri un uomo con uno spirito immondo 3 che stava di casa fra i sepolcri; e nep pure con una catena nessuno riusciva più a legarlo, 4 perché spesso era sta to incatenato mani e piedi ed erano state da lui fatte a pezzi le catene, e schiantati i ceppi; e nessuno riusciva a ridurlo all'impotenza. s E continua mente, giorno e notte, stava fra i sepolcri e sui monti, urlando e ferendosi con pietre. 6 Ora, quando vide Gesù da molto lontano, corse e si prostrò davanti a lui, 7 gridò a gran voce e disse: «Che ho io a che fare con te, o Gesù, figlio del Dio altissimo? Io ti scongiuro per Dio, non mi tormenta re! » . 8 Infatti gli aveva detto: «Esci, spirito immondo, da quest'uomo! ». 9 E gli chiese: «Qual è il tuo nome?»; ed egli gli disse: «Legione è il mio no me, perché siamo molti». Io Poi lo pregava molto che non li mandasse fuori dal paese. I I Ora c'era lì, sulle pendi ci del monte, un gran branco di maiali che pascolava. I 2 Allora lo pregarono dicendo: «Mandaci nei maiali, affinché entriamo in loro» . 13 E lo concesse loro. Allora gli spiriti immon di, usciti, entrarono nei maiali e il branco si precipitò giù dal dirupo nel la go, circa duemila, e annegarono nel lago. I4 E i porcari fuggirono e lo an nunciarono in città e nelle campagne; e vennero a vedere che cosa fosse mai accaduto. 1 5 Vengono così da Gesù, e vedono l'indemoniato che stava se duto, vestito e rinsavito, lui che aveva avuto la legione, e furono presi da spa vento . 1 6 E quelli che avevano visto, raccontarono loro com'era andata con l'indemoniato e con i maiali. 1 7 Cominciarono quindi a supplicarlo di an darsene dalla loro regione. I 8 E mentre stava salendo in barca l'ex indemo niato lo supplicava di poter stare insieme con lui. 19 E non glielo permise, ma gli dice: «V attene a casa tua dai tuoi, e riferisci loro quanto Dio ti ha fatto, avendo avuto misericordia di te». 2o E se ne andò e si mise a procla mare nella Decapoli quanto aveva fatto per lui Gesù, e tutti si stupivano.
Rimane improbabile che dietro questa strana storia si nasconda il motivo favolistico del «demonio ingannato» che con la sua millanteria tradisce il proprio nome (v. 9), poi pensa che il branco di maiali sa-
Mc. 5 , 1 -20. L'autorità
di Gesù sui demoni
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rcbbe un'ottima sistemazione per i suoi spiriti e infine affoga insieme con loro. Il v. 9 dovrebbe certamente descrivere solo lo strapotere dei demoni e i vv. 1 0- 1 3 dimostrare la loro uscita come in una storia giu daica dove il demone che esce rovescia una tinozza di acqua. Che al v. 1 6 venga ancora aggiunta la menzione dei maiali fa addirittura sup porre una forma antica in cui questi mancavano. Ci sono molti ele rnenti a favore di questa ipotesi. Il v. 2 recita letteralmente: «lo incon t ra», ma secondo il v. 6 il malato è ancora «molto» lontano. Il v. 8 pre suppone un ordine di Gesù che non viene riferito e che non ha nean che alcun immediato successo perché solo a questo punto viene inseri t o tutto il dialogo tra Gesù e il demone. Probabilmente in origine c'era dunque un più semplice racconto di esorcismo che conteneva, ad esem pio, l'arrivo del malato (vv. I s.), la difesa del demone (v. 7), la risposta di Gesù (v. 8 nella forma «ed egli gli disse: ... »), una breve notizia sul l'uscita del demone e la testimonianza dei porcari. Questa storia avreb be corrisposto al contenuto di altre storie del genere. A meno di rite nere originale una variante che si trova in Ori gene ( «gergeseni» ), ma che probabilmente altro non è che il suo tentativo di ovviare a un' og �cttiva difficoltà, in origine l'episodio non avviene neanche nelle vici nanze del lago (v. al v. I ) . Poiché si trattava di una guarigione compiu ta in territorio pagano, più tardi sono stati inseriti i particolari che mo strano la potenza dei demoni pagani e il potere su p e riore di Gesù, ad es . i vv. 3 - 5 e 9- I 3, cioè soprattutto il soggiornare nelle tombe, il no me «Legione» e quindi il passaggio al plurale «demoni», la discussione di Gesù con loro e i duemila maiali che si precipitano nelle acque del lago. Che i demoni si trovino a loro agio in terra pagana, che pertanto non vogliono abbandonare, e che considerino il branco di maiali una dimora piacevole sembra abbastanza logico a un narratore giudaico ed egli non ha più chiare cognizioni geografiche. Infine sono stati ag giunti i vv. 1 8 -20 che probabilmente vogliono far ricordare la missio ne cristiana nella Decapoli. Inoltre il v. I 8a è opera di chi ha collegato questo racconto con 4,3 6 (cf. ad loc. e a 3,7- 1 2; 4, 1 -9). Forse nel ver setto finale si può ancora riconoscere la mano di Marco, come lascia supporre il parallelo a I ,4 5 («egli cominciò a proclamare») e il cambio da «Signore» (= Dio, v. 19) a «Gesù». Tuttavia per Marco è importan te che la potenza di Gesù, nonostante la sua riservatezza, non può ri manere nascosta (cf. I,44 s.). Non è escluso che Sal. 67,7 (LXX) abbia esercitato qualche influenza nel corso della tradizione: «Dio fa abitare
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L'autorità di Gesù sui demoni
il solitario in una casa, trae fuori i prigionieri con forza, e così pure i ribelli e quelli che abitano nei sepolcri». Poiché la comunità non aveva altra Bibbia che l'Antico Testamento, vi ha «riconosciuto» volentieri l'opera e le sofferenze di Gesù. Cf. anche Is. 6 5 ,2.4. 1 -20.
Gerasa è a 5 0 km buoni dal lago. Per questo motivo Matteo ha sostituito Gerasa con Gadara, che dista IO km dalla riva. Comunque sia, il racconto è ambientato nella regione semipagana della Decapoli (= «dieci città»), posta sotto la diretta amministrazione dei romani. Il carattere sinistro e disperato della malattia è illustrato dalla dimora del malato nel regno della morte, fra i sepolcri, che per i giudei erano im puri; dal suo vivere «in uno spirito impuro» (così il greco, tradotto letteralmente); dall'inutilità delle catene. Adorazione e supplica sono associate come in 1 ,24 (v. ad loc.), solo che qui appare il titolo «Figlio di Dio» come in 3 , 1 1 (che Marco forse sostituisce a una formula più antica). L'esplicito ordine di Gesù che riporta il nemico entro i suoi confini viene ripreso al v. 8, mentre l'antico racconto si interessava so lo del dialogo fra i due. Per Marco anche la semplice domanda di Ge sù ha una forza coercitiva, così che in essa egli esprime la sua irresisti bile sovranità. Tuttavia rimane importante che oltre all'oggettiva pa rola potente di Gesù venga narrata anche la soggettiva liberazione del malato, dimostrata dall'uscita dei demoni che passano nei maiali. Il sal to nel lago mostra la sua definitiva separazione dal passato (cf. Mt. 1 2, 43 ) e il v. I 5 il suo reinserimento nella società. La forma plurale del v. 1 2a (cf. v. Ioa) potrebbe persino alludere al fatto che il malato non si identifica più coi demoni. I porcari e gli altri abitanti non sono solo importanti come testimoni del miracolo, ma, per Marco, soprattutto come esempio dell'efficacia che può avere un miracolo. Essi ricono scono il miracolo, ne sono addirittura spaventati (v. a 4,4 1 ); resoconti fatti da testimoni oculari lo ingrandiscono ancora; ma tutto ciò non conduce alla comprensione della fede. Anzi, la gente fa di tutto per non venire disturbata nella sua tranquillità. Uno solo ha veramente capito. Solo il desiderio di «stare insieme con lui» (cf. Mt. 8, 1 9) è la corretta risposta a quanto è accaduto. La risposta di Gesù dimostra come la «sequela» non debba essere intesa mai schematicamente. L'uno viene separato da casa e famiglia ( r , 1 6-2o), l'altro viene mandato proprio lì contro la sua volontà. La sequela quindi non è un metodo di salvezza, col quale il singolo si possa assicurare la propria beatitudine; si tratta
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L'autorità di Gesù sulle malattie e sulla morte
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sempre soltanto del modo migliore di proclamare il gioioso annuncio e di farlo pervenire ad altri. Il v. 20 corrisponde alla concezione di Mar co della violazione del segreto messianico (v. a 1,34·4 5 ). L 'efficacia del l' azione di Gesù non può essere limitata ad una famiglia e il malato guarito adempie l'ordine di Gesù proclamando quello che Gesù gli ha fatto. Il «Signore» (v. 1 9) non rimane per lui un'idea generica o una verità teorica: è diventato realtà. Dove mai potrebbe succedere ciò se non in Gesù ? Un racconto popolare che descrive ampiamente la potenza dell' Av versario e la potenza di Dio è diventato importante per la comunità, perché in essa diventano visibili il riconoscimento di Gesù da parte delle potenze sovraterrene, la chiara autorità di Gesù come esorcista e il suo potere che si estende al dominio della vita concreta, fisica. Per Marco stesso l'aspetto più importante è certamente la contrapposizio ne tra il mero timore al cospetto del miracolo c la corretta risposta del discepolo che ha capito che Gesù ha avuto «misericordia» di lui. Il racconto diventa così un appello agli uomini che sono preparati ad an nunciare «quanto ha fatto per loro Gesù». L'autorità di Gesù sulle malattie e sulla morte, (cf. Mt. 9, 1 8-26; Le. 8,40- 5 6)
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2 1 Come Gesù ebbe riattraversato in barca raggiungendo la riva dall'altra parte, si radunò intorno a lui una grande folla. E stava sulla sponda del la go. 22 Viene allora uno degli archisinagoghi, di nome Jai ro, e come lo vide si getta ai suoi piedi 23 e lo supplica insistentem ente dicendo: «La mia fi glioletta è in fin di vita. Vieni, imponile le mani affinché torni sana e viva». 24 Ed egli andò via con lui. Lo seguiva una gran folla, e facevano ressa at torno a lui. 2 5 Allora una donna che da dodici anni aveva una perdita di san gue 26 e aveva sofferto molto per mano di molti medici e aveva speso tutto il suo patrimonio senza migliorare affatto, anzi era andata peggiorando, 27 aveva udito di Gesù, venne tra la folla e toccò il suo vestito da dietro; 28 poiché diceva: «Se gli tocco anche solo i vestiti, sarò guarita». 29 E im mediatamente si esaurì la fonte del suo sangue ed ella avvertì, nel suo cor po, che era guarita dalla piaga. 30 Subito Gesù si accorse nel suo intimo del l'energia che era uscita da lui, si girò nella folla e disse: «Chi mi ha toccato i vestiti ?». 3 1 I suoi discepoli gli dicevano: «Vedi la folla che ti si stringe in torno, e dici: Chi mi ha toccato ?». 32 Ma egli girava intorno lo sguardo per vedere quella che aveva fatto ciò. 3 3 Allora la donna, piena di timore e
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tremore, sapendo quel che le era accaduto, venne e gli cadde davanti e gli disse tutta la verità. 34 Ed egli le disse: «Figliola, la tua fede ti ha aiutata: vattene in pace e sii sanata della tua piaga! » . 35 Poi, mentre ancora parlava, viene gente dell'archisinagogo dicendo: «Tua figlia è morta: perché inco modi ancora il maestro ?». 36 Ma Gesù colse le parole che venivano dette e dice all'archisinagogo: «Non aver paura, solamente credi ! ». 37 E non la sciò che alcuno lo accompagnasse tranne Pietro, Giacomo e Giovanni, il fra tello di Giacomo. 38 Arrivano a casa dell'archisinagogo ed egli osserva un trambusto e chi piange e chi grida forte il lamento funebre, 3 9 entra e dice loro: «Perché state facendo trambusto e piangete? La bambina non è mor ta, ma dorme». 40 Allora lo deridevano. Ma egli caccia fuori tutti, prende con sé il padre della bambina, la madre, i suoi accompagnatori ed entra do v'era la bambina. 41 Poi, afferrata la mano della bambina, le dice: «Talitha qum» (che tradotto vuol dire: «Ragazza, ti dico: alzati ! »). 42 Subito la fan ciulla si alzò e andava in giro; aveva infatti dodici anni. Allora furono su bito presi da un grande spavento. 43 Ed egli ingiuns e loro severamente che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare. Il racconto della risurrezione della figlia di J airo era già collegato nella tradizione con il ritorno della barca dalla riva orientale del lago (v. 2 1 ) e quindi con tutto il complesso che va da 4, 1 a 5 ,20 (v. a 4,3 541) o dapprima con una raccolta di storie di miracoli (4,3 5 - 5 ,20 [+ 6, 3 4- 5 I ?]) ? Oppure è stato Marco a inserirlo a questo punto, perché in questo racconto la selezione dei pochi intimi e l'incomprensione del popolo appaiono con particolare chiarezza ? Quanto al racconto della guarigione della donna dal flusso di sangue (che sembra composta in un greco migliore del resto), la sua inserzione in mezzo al racconto del la figlia di Jairo va attribuita probabilmente a Marco che ama riempire gli intervalli di tempo con inserti di questo genere (cf. 3 ,22-30; 6, 1 429; 1 1 , 1 5 - 1 9; 1 4, 1 - 1 1 . 5 3 -72). L'intervento redazionale di Marco, infi ne, appare al v. 43 dove riappare il «segreto messianico» (v. a 1 , 3 4). 2. 1 -4 3· Per Marco non ha importanza dove Gesù sbarchi e quando cada la notte (cf. 4,3 5 !); quel che lo interessa è solo la scena abituale (Gesù in riva al lago, con il popolo che gli fa ressa intorno) che mostra il grande fascino che emana da lui. L'archisinagogo (rettore o presi dente della sinagoga) è colui che presiede e dirige il culto nella sinago ga; godeva di grande considerazione ed era affiancato da un consiglio direttivo composto di tre membri del quale generalmente faceva anche lui parte. I due titoli vengono confusi in Le. 8 ,4 I .49, mentre Atti 1 3, 1 5
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parla d i «archisinagoghi» al plurale, con riferimento alla medesima si nagoga. Il nome Jairo, sul quale si attira l'attenzione con l'espressione cedi nome» usata in Marco soltanto qui, significa «colui che Jahvé il lumina» o «colui che Jahvé risveglia». Jairo potrebbe essere stato in terpretato (e inserito nella storia?) come promessa in uno stadio della tradizione nel quale si capiva ancora l'ebraico. L'imposizione delle ma ni, praticata in occasione di sacrifici, sentenze penali, benedizioni, gua rigioni, invii in missione, ordinazioni ecc., è un gesto abituale. Per Mar co senza dubbio aveva però importanza il contatto fisico come dimo strano i vv. 3 0-34. Testimonianze tarde dicono che la donna si sarebbe chiamata Berenice o Veronica, o che sarebbe stata una principessa di Edessa: la tradizione si sviluppa così senza alcuno spunto storico (v. a J , r -6). Viene espressamente precisato che ogni arte umana aveva esau rito le sue risorse, un particolare che rientra nello schema dei racconti di miracoli (cf. excursus a 4, 3 5 -4 1 ) e che non ha a che fare con l'atteg giamento dei cristiani verso i medici. La guarigione è descritta in ter mini crudamente realistici e Gesù chiama «fede» quel che noi chiame remmo «superstizione». Qui si vede che a Marco non importa affatto di presentare Gesù come un superuomo, attribuendogli, ad esempio, anche una conoscenza soprannaturale: Gesù domanda sempre. Per Marco non esiste una interiorità di pertinenza divina, distinta da un mondo di fatti esteriori, corporali, più o meno indipendente da Dio: per questa ragione la parola e l'intervento fisico vanno sempre insie me. Quando Gesù guarisce, un'energia esce da lui, non dall'anima del l'infermo, e agisce non solo sul pensiero o sul sentimento, ma anche sul corporeo. Detto questo, bisogna però aggiungere immediatamente che non è ancora avvenuto nulla di importante, finché non si giunga ad un incontro personale con Gesù, incontro che si compie solo per mezzo della parola, anzi del dialogo. Ancora una volta è da Gesù che parte lo «sguardo» che cerca e che crea la comunione con l'uomo (v. a I , r 6). Se è vero che la guarigione già avvenuta, obiettivamente consta tabile, è e rimane opera sua, è altrettanto vero che così egli non ha an cora raggiunto l'uomo che cerca. Perciò si deve arrivare alla confessio ne e a quel «timore» (v. a 4,4 r ) che esprime la consapevolezza della sua schiacciante grandezza e potenza e della propria insignificanza. Si giunge così alla risposta definitiva di Gesù che lascia andare l 'uomo in pace. L'espressione è biblica ( Giud. I 8,6; 1 Sam. r, I 7; 2 Sam. I 5,9 ) ; ma la parola «pace» in Le. 7, 50; I0,5 s.; Gv. I 4,27; I 6,3 3 ; 20, I 9.2 1 .26 non
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significa altro che «salvezza»: non la pace dell'anima, ma la condizio ne obiettiva di un uomo che, forse nel mezzo di una tempesta e di una lotta, viene messo di nuovo nel giusto rapporto con Dio. Il verbo che è tradotto «aiutare» {v. 34) può significare «guarire», ma anche «salva re» o « rendere beato», e la stessa radice verbale è contenuta nel termi ne «salvatore» . Ora, per rendere l'idea di guarire (da un'infermità), c'erano altri due termini che hanno solo questo significato e che Mar co adopera anche in I ,34; 3,2. I o; 6, 5 . I 3 l'uno, e in 5 ,29 l'altro. In que sto modo la risposta di Gesù ha un significato più ampio. Certamente era stato già il comportamento di questa donna, «un po' di astuzia, un po' di umiltà, un po' di pudore per la propria impurità e in tutto ciò una fiducia incondizionata in lui» (Lohmey er), la fede che le aveva ri portato la salute. Come in I, I 5; 4,4o; 9,2 3 s.; I I ,22 ss., la fede è tutta via più che fiducia in un taumaturgo, anche se comincia in questa for ma. Proprio per questo motivo la donna deve prendere coscienza che è avvenuta una guarigione in senso più profondo. Ma la questione del la fede viene posta anche all'archisinagogo. La logica degli uomini con siglia di sospendere il tentativo, ma proprio in questa situazione ven gono la dichiarazione «non aver paura! » che scaccia l'angoscia della 4.Crealtà», la quale apparentemente rende impossibile ogni speranza, e l'esortazione «credi solamente ! », che vuole aiutare e non lasciar de molire la fiducia che si è già mostrata. Così la parola di Gesù dona quel che esige. Il verbo tradotto «cogliere» significa «udire di sfuggi ta», ma può anche significare «non voler ascoltare», sicché potrebbe persino voler dire che Gesù trascura, «non vuole ascoltare», non fa ca so alla notizia che suggerisce una sospensione del tentativo, non pren de in considerazione la voce del tentatore. Ancora una volta, aver fede non significa aderire intellettualmente a una dottrina, bensì tener con to di Dio, attendere che egli agisca in Gesù, senza lasciarsi fuorviare neppure in presenza della realtà della morte. Si ha bisogno di questa fede, non di altro. La decisione di Gesù di portare con sé solo pochi intimi faceva forse già parte dell'antico racconto: ma probabilmente Marco la interpreta nel senso del «segreto messianico » (v. a I,J4). Le cerimonie funebri corrisponde agli usi palestinesi: «Anche il più pove ro in Israele mette non meno di due suonatori di flauto e una prefica» (Str.-Bill. a Mt. 9,2 3 ; Giuseppe, Beli. 3,4 3 7). La risposta di Gesù con testa semplicemente il fatto della morte . Il «dormire», infatti, che tan to nell'Antico quanto nel Nuovo Testamento si usa anche per indica-
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re la morte (per quanto di solito con un altro verbo greco), qui è espres samente il segno della vita. Gesù vede la bambina come Dio già la ve de. Il risveglio imminente è per lui già adesso più reale di quel che l'occhio umano possa stabilire. Nella medesima maniera Gesù vede anche il regno imminente come già presente. Ovviamente tutto dipen de dalla «convalida» di questa visione, che deve ancora venire; per il momento essa suscita soltanto lo scherno della folla che, al pari delle manifestazioni di lutto, non tiene in alcun conto l'intervento di Dio. Formule in lingua straniera si trovano in diversi racconti di miracolo. Certo la frase proveniente dalla tradizione aramaica è stata conservata perché comunicava l'impressione di una potenza misteriosa. Probabil mente Marco l'ha ripresa e conservata senza darle una particolare sot tolineatura, come fa anche altre volte (7, 1 r ; I 5,22.34). Ancora una vol ta un ordine esplicito di Gesù porta con sé la propria realizzazione. La conferma dell'avvenuto miracolo, costituita dalla bambina che va in giro e prende cibo, e il riconoscimento di quest'evidenza da parte de gli astanti, sono due elementi che appartengono allo stile di questo ge nere di storie. L'intervento di Dio che si fa realtà concreta nello spa zio della vita di queste persone, porta dritto dritto al «terrore»: tanto inquietante è la presenza di Dio che sconvolge l'abitudinarietà nella quale l'uomo si sente più o meno a suo agio. Pure, appare anche qui evidente, come ai vv. 3 2-34, che questo spavento da solo non porta ancora molto avanti se non avviene un autentico incontro con Gesù. Dato che proprio in questo caso è impossibile passare il fatto sotto silenzio (i riti funebri erano di fatto già in corso), appare ancora più chiaramente quanta importanza Marco attribuisca a queste parole che vogliono mettere in guardia dal semplice stupore per il miracolo. Questo doppio racconto è quindi tutto orientato verso l'attesa del sorgere della fede nel lettore. La descrizione greve, che entra persino nei particolari corporali, dell'azione di Dio vuole aiutare a non esclu dere dalla fiducia la corporalità. Al tempo stesso, però, viene precisato che la fede è completa solo nell'incontro personale con G esù, nel «dia logo » con lui, mentre persino l'esperienza di un miracolo che superi ogni possibilità di comprensione non serve ancora a nulla. Anche per Marco questa risurrezione dai morti è un'eccezione u nica che mostra sì l'autorità di Gesù, ma non vuoi risolvere il proble-
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ma umano della morte. Gesù non ha vinto la morte perché ha riman dato alcune persone, morte in circostanze particolarmente tragiche, a rivivere per pochi anni in seno alle loro famiglie. La comprensione di questo racconto dipende dal riconoscimento che si giunge dapprima alla fede attraverso tutte le possibili esperienze, ad una fede che, par tendo dallo «sguardo» di Gesù che cerca e crea la comunione con l'uo mo, porta al dialogo con lui e alla sua parola che lascia andare liberi nella pace di Dio (vv. 3 2-34). Soltanto ch1 ha provato questo «sÌ» di Dio a lui, la comunione in cui Dio lo ha accolto, sa anche che ciò non si interromperà con la morte. In questa prospettiva può anche ritenere Dio capace di quella potenza creatrice che risuscita i morti, di cui l'e pisodio narrato nel nostro testo è un segno visibile, e imparare a pren d ere, come fa Gesù, la realtà del Dio che risuscita i morti più seria mente della stessa apparente realtà della morte. Vicino ad una bara o sul letto di morte crederà alla vita che è più concreta e reale di tutto ciò che sulla terra si chiama vita. Invero Atti 24, 1 5 e 26,6-8 deducono, in base all'attesa farisaica e popolare di una generale risurrezione dei morti, che anche la risurrezione di Gesù non sia incredibile, mentre Atti 4,2 afferma, viceversa, che questa sia un esempio probante di quel la speranza. Ma già Mc. I 2,27 (v. ad loc. ) mostra che solo la fede nel Dio che oggi opera e dona la vita, che non annienta, può portare alla certezza della risurrezione. Così anche Paolo in I Cor. 1 5 , 1 2 ss. (v. ad loc. ) argomenta che solo l'esperienza del Cristo vivente oggi include anche la certezza che coloro che gli appartengono non saranno sepa rati d a lui oltre la morte, verranno «risvegliati con Gesù» (2 Cor. 4, 1 4). -In maniera ancora più netta Gv. 1 1 ,24-27 che una convinzione generi ca della «verità» della risurrezione non serve a nulla finché la fede non riconosca che la certezza della risurrezione risiede in Gesù, in colui che adesso incontra il credente, che questi dunque non crede più, in sieme con Marta, a «qualcosa», ma si rivolge a Gesù direttamente con il «tu » . Perciò Paolo parla soltanto di risurrezione dei credenti ( I Cor. 1 5,2 1 - 2 3 ), ma mai (nonostante Rom. 2,3 - I I ) di risurrezione per il giu dizio; ciò vale più che mai per Gv. 1 1 ,24-27 (diversamente si esprime la tradizione in Gv. 5,28 s.; ma cf. in 5,2 5 s. le parole genuine di Gio vanni). Persino Apoc. 20, 1 2 s. non usa (nonostante 20,6) la parola « ri surrezione» per indicare la presentazione dei non credenti in giudizio. Chi riflette in termini generali se «ci sia» o no una risurrezione finisce necessariamente tra le speculazioni che esulano dalla promessa di Dio
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alla fede, così che sia l'affermazione sia la negazione della risurrezione falsificherebbe la testimonianza della fede. Per la giovane comunità l'esperienza di pasqua fu così travolgente che per lungo tempo la pa rola «risurrezione» descrisse soltanto l'evento salvifico che ricevono coloro che sono uniti nella fede a Gesù e alla sua risurrezione. Accettare come verità una risurrezione del tipo di quella descritta in questo racconto, è più difficile per noi che per i contemporanei di Marco (cf. excursus a 4,3 5 -4 1 ) e ciò rende il nostro sguardo più atten to al messaggio di questo brano. Poiché questa storia presentava per loro meno problemi a livello intellettuale, essa poteva dirigere l'at tenzione via da sé, verso quella fede che crede Dio capace di tutto, an che della vittoria sulla morte. Ciò è già vero per 1 Sam. 2, 1 - I O e Gen. 5,24; 2 Re 2, 1 I raccontano di una simile vittoria. Nell'esilio babilonese cresce la speranza nella potenza di Dio che risveglia alla vita (Ez. 3 7); il Deutero-Isaia annuncia la signoria di Dio su di un nuovo mondo (ad es. 40,30 s.; 43, 1 4 ss.; 48,6 s.; 49, 8 ss.; 5 3, 1 1 ss.; 54, 1 0 ss.). Sal. 73 , 23-26; Giob. 19,2 5 -27 e /s. 24-27 parlano di colui che è più forte della morte. Nel periodo delle persecuzioni del n secolo a.C. si moltiplica no le affermazioni circa la potenza di Dio anche oltre la frontiera della morte (2 Macc. 7, 1 -2 3 ; 4 Macc. 1 3 , 1 - 1 7; 1 7, 1 2; 1 8,23 s. c soprattutto Da'fl:. 1 2,1 -3). In Sap. 2- 5 diventa già visibile la fede nel Dio che risve glia proprio quelli che sembrano abbandonati da Dio, una fede che poi giunge a compimento nel Nuovo Testamento mediante l'inaudita affermazione della risurrezione di colui che era stato crocifisso. Così tale fede, che va chiaramente molto di là di ogni concezione giudaica o greca, è possibile soltanto dopo la risurrezione di Gesù. L 'uomo mo derno, nella sua situazione del tutto diversa, si ferma facilmente alla storia stessa, bloccato nel dilemma: considerarla vera o rifiutarla. In questo modo la storia perde il suo linguaggio di «segno» . Nella Me teora di Diirrenmatt si può vedere come la reviviscenza di un cadavere e il suo ritorno a una vita terrena immutata siano l'esatto contrario della risurrezione. N o n sarebbe, cioè, una nuova creazione da parte di Dio di un modo di essere che è vita in una maniera del tutto diversa, inimmaginabile, perché è un vivere nella comunione con Dio. Di que sto modo di essere Dio offre già alcuni segni, ma trasferire la fede dal la cosa stessa al suo segno sarebbe fatale. Chi si limita a pretendere dall'uomo moderno l'accettazione della verità di questo racconto, gli nasconde che il vero miracolo di questa storia è il sorgere della fede
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6, 1 -6a. Gesù respinto dai suoi concittadini
che riconosce Dio capace di vincere anche la morte, e lo svia verso una concezione della risurrezione che somiglia solo a un ritorno alla vita terrena in condizioni migliori. Altrettanto irragionevole sarebbe però l'affermazione opposta che Dio in nessuna circostanza sarebbe in gra do di compiere un miracolo come questo, che superi ogni esperienza, come se noi la sapessimo tanto lunga su Dio da potergli prescrivere quello che gli è possibile. Questa storia vuole stornare con forza l'at tenzione da se stessa e chiede al lettare se al momento della sua morte, quando si può supporre che non accada un «miracolo», farà credito a Dio della possibilità di vincere la sua morte. Cf. a 4,3 5 -4 1 ; I 6, I -6. Gesù respinto dai suoi concittadini, 6,1 -6a (cf. Mt. I 3 , 5 3 - 5 8 ; L e. 4, 1 6-30)
1 Uscì poi di lì e viene nella sua città paterna e i suoi discepoli lo seguono. Venuto il sabato, cominciò a insegnare nella sinagoga. E i molti che lo a scoltavano, erano sbalorditi e dicevano «Da dove ha queste cose? E che sa pienza è questa che è stata concessa a costui ? E queste opere potenti che av vengono attraverso le sue mani ? 3 Non è lui il falegname, il figlio di Maria e fratello di Giacomo e Giosè e Giuda e Simone? E le sue sorelle non vivo no qui, nella nostra città ?». E trovavano in lui motivo di inciampo. 4 Allo ra Gesù diceva loro: �Un profeta non è disprezzato che nella sua città pa terna, fra i suoi parenti e nella sua casa». 5 Lì non poteva quindi fare nean che una sola opera potente, salvo guarire alcuni infermi imponendo loro le mani. 6a E si stupiva della loro incredulità. 2
Marco chiude la terza sezione del suo vangelo con il ripudio di Ge sù, esattamente come aveva fatto in 3 ,6 con la seconda sezione. Ora non sono più le autorità remote a respingere Gesù, ma i suoi stessi concittadini. Nell'insieme della costruzione di Marco, l'accento è po sto dunque sulla cecità del mondo alla rivelazione di Dio. Si può os servare che anche in Gv. I 1 ,4 5 - 50 Gesù è respinto subito dopo una ri surrezione. Che Gesù sia stato salvato miracolosamente da un attenta to alla sua vita (Le. 4, I 6-3o, posto, per motivi programmatici, prima dell'inizio dell'attività di Gesù) Marco non lo sa ancora. Nei vv. I s. i discepoli che seguono Gesù (e che nel seguito della storia non com paiono più), Gesù che insegna nella sinagoga, il riferimento alle opere potenti di Gesù (che i nazareni non hanno neanche mai viste) e lo stu pore «dei molti» (che è in contraddizione con quanto si legge ai vv. 3
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respinto dai suoi concittadini
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fine e 4) sono tratti tipicamente marciani. Il v. 2 richiama perfettamen te r ,2 1 .27a. Anche qui le domande servono ad attirare l'attenzione del lettore sulla potenza di Gesù. Inoltre il v. 5b corregge una sintesi ge nerale dell'attività taumaturgica di Gesù (v. 5 a). La « meraviglia» di Gesù è inattesa dopo il v. 4· Pertanto dovrebbero appartenere alla tra dizione (orale ?) i vv 3 ·4 (fino a «città paterna»; v. sotto, al v. 4) e 5 · In vece Marco ha trasformato il mancato riconoscimento del profeta nel rifiuto di colui che è più che un profeta. Perciò egli sottolinea la po tenza di Gesù che suscita stupore (vv I s. 5b): che essa provochi il contrario della fede è veramente inaudito (v. 6). .
.
1-6. Il nome Nazaret, menzionato in 1 ,9 qui manca perché non ha alcuna importanza per l'argomento del brano. La menzione dei disce poli che «seguono» Gesù lascia vedere la loro posizione particolare. «Cominciò a insegnare» è espressione tipica di Marco; essa sorprende perché la fine del v. 2 presuppone opere potenti, ma per Marco la po sizione degli uomini di fronte a Gesù si identifica con il loro sì o il lo ro no di fronte all'insegnamento di Gesù, cioè di fronte al fatto che in quell'insegnamento Dio si presenta sotto forma di parola piena di autorità, e si rivolge agli uomini. La reazione giusta, pertinente, è un interrogativo, e l'interrogativo pertinente riguarda la persona di Gesù. Il problema non è però tenuto aperto, bensì trova una risposta prema tura nella classificazione .di Gesù in categorie conosciute. Questo è il solo passo dove siamo informati del mestiere di Gesù: Matteo trasferi sce la notizia al padre di Gesù, Luca la omette. Il termine può indicare anche l' «operaio edile» che lavora con pietre. Giustino (Dia/. 8 8,8) riferisce che Gesù fabbricava aratri (di legno) e gioghi. È strano che si parli soltanto della madre (v. a 3 ,3 2). I fratelli di Gesù sono men zionati anche in J,J r ; Gv. 2, I 2; 7,J . 5 . I o; Atti I , 1 4; 1 Cor. 9, 5; Gal. r , 1 9 . U n uso linguistico ampliato d i «fratello» come i n Gen. I J,8; 1 4, 1 4. 16; 29, I 5 (LXX) è quasi escluso in base all'uso linguistico greco; soprat tutto, se avessero voluto indicare cugini, Marco, Luca, Paolo e Gio vanni non avrebbero potuto scegliere, indipendentemente gli uni dagli altri, una denominazione talmente non comune ed equivoca. Inoltre sia qui sia in 3,23 si parla anche di sorelle. Il Nuovo Testamento non sa dunque nulla di una verginità perpetua di Maria. Il verbo greco skan dalizein, da cui deriva il nostro «scandalo», «scandalizzare», è tradot to troppo debolmente con «urtarsi» o «adirarsi»; in 4, I 7 è stato tra-
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Mc.
6,1 -6a. Gesù respinto dai suoi concittadini
dotto con «inciampano e cadono». Il v. 4 è riportato anche da un pa piro e in Ev. Thom. 3 1 come parola di Gesù: «Un profeta non è accet tato nel paese di origine (Le. 4,24 !), e un medico non compie guarigio ni su quelli che lo conoscono>>. Altri paralleli (per il contenuto) si tro vano anche negli scrittori greci. Il v. s a è attenuato in Matteo e trala sciato in Luca: contraddice alla concezione posteriore dell'illimitata onnipotenza di Gesù. La tradizione più antica, invece, è ancora consa pevole che un vero miracolo (v. a 4,3 5 -4 1 ) crea sempre comunione fra Dio e l'uomo perché suscita la fede, pone interrogativi, fornisce rispo ste, e che Gesù non ha mai fatto nessun miracolo fine a se stesso, cioè che non portasse a questo genere di «dialogo». La frase conclusiva pre cisa ancora una volta esplicitamente che il cardine è la questione della fede o dell'incredulità. Nell'ultimo brano della terza parte del vangelo di Marco appare an cora una volta il vero ostacolo alla fede: l' «invisibilità» di Dio, cioè il fatto che egli si nasconda sotto la realtà quotidiana. Proprio nella p er sona che qui viene respinta irrompe la potenza divina. Si vede già la cecità del mondo che porterà Gesù alla croce. La sua potenza signifi cherebbe la loro salvezza, ma la loro incredulità anche la sua impoten za. L'alternativa a ciò è la «sequela», che anche nel caso dei discepoli è, per il momento, un restare aperti, un interrogare (v. a 4,4 1 ), anzi un equivocare (v. a 8, 1 7-2 1 ). Ma i discepoli evitano di rispondere prema turamente facendo chiusura, vivono insieme con Gesù e si lasciano trasportare da lui, spesso senza capirlo. Si sono accorti che la risposta non è così semplice come pensano gli increduli nazareni o i demoni «ortodossi» ( 1 ,24; 3 , 1 1 ; 5,7). La risposta non è ancora data con una giu sta considerazione, «è il figlio di Maria», oppure anche «è il Figlio di Dio». Così la storia appena esaminata potrebbe aver consolato la co munità per l'insuccesso anche della sua predicazione.
Parte quarta
Attività di Gesù fra i pa g ani e cecità dei discepoli (6,6b- 8,2 1 ) Gesù insegna, 6,6b (cf. 6b
Mt. 9,3 5 a)
Andava attorno per i villaggi, insegnando.
Come in ciascuno dei brani conclusivi delle sezioni n -rv Gesù è re spinto (J ,I -6; 6, I -6a; 8,I4- 2 1 ), così anche le pericopi di transizione { I , 14 s . ; 3,7- I 2; 6,6b) e gli inizi (cf. intr. a 6,7- I J ) si corrispondono sim metricamente. Anche qui c'è una breve notizia redazionale, con carat tere di sommario, sull'attività di Gesù (cf. anche la sezione seguente); è particolarmente concisa, perché sostanzialmente è già cominciata al v. 5· Ancora una volta l'accento è sull'insegnamento di Gesù (v. a I , 2 I ), non sulla sua attività di guaritore, e questo è tipico d i Marco. L'invio dei discepoli, 6,7- 13 (cf.
Mt. IO, I -42; Le. 9, I -6; I O, I - I 6)
E chiama a sé i dodici e cominciò a inviarli a due a due, e diede loro pieni poteri sugli spiriti impuri. 8 E ordinò loro di non prendere niente con sé per il viaggio oltre un bastone; niente pane né bisaccia né denaro nella cin tura; 9 solo sandali ai piedi, «e non indossate due vestiti». 1o E diceva lo ro: «Quando entrerete in una casa, rimaneteci finché non ve ne andrete di là. 1 1 E se una località non vi riceve né vi ascoltano, allora andatevene di là e scuotetevi la polvere di sotto i piedi, a testimonianza per loro». 12 Allora partirono e proclamarono che ci si doveva ravvedere, 1 3 e scacciavano mol ti demoni e ungevano molti infermi con olio e li guarivano. 7
Come al principio della seconda e terza parte il breve sommario era seguito dall'elezione dei dodici, in questo passo è seguito dal loro in vio in missione (cf. 1 , I 6-2o; J, I J - 1 9) . L a cerchia dei dodici. Si dubita che Gesù abbia eletto u n gruppo di dodici. In 1 Cor. I 5, 5 si parla dei « dodici », benché, dopo la diserzione di Giuda, non ne fossero rimasti che undici. Si tratterebbe, dunque, piuttosto di dodici discepoli, che grazie all'apparizione del Risorto avrebbero assunto un significato particolare nella comunità primitiva.
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La cerchia dei dodici
È esatto che i dodici sono nominati per lo più nelle parti redazionali. Si sente parlare occasionalmente solo di Pietro e dei figli di Zebedeo, mentre gli altri rimangono figure scialbe. Questo vale, però, anche per il periodo che segue la pasqua. Che i dodici, poi, abbiano diretto la co munità primitiva (Atti 6,2) non è affatto sicuro, dato che abbiamo no tizie particolari solo a proposito di Pietro e di Giovanni; Gal. 2,9 pre suppone che le guide della comunità siano Giacomo, Pietro e Giovan ni, mentre gli «apostoli» di Gal. I, I 9 sembrano essere una cerchia più ampia (v. sotto). Mancano anche, in modo quasi assoluto, paralleli di una direzione di dodici persone per le associazioni giudaiche; vi sono solo due esempi a Cesarea; IQS 8, I s. presuppone in tutto I 5 e non I 2 preposti, come dimostrano testi scoperti di recente. L'espressione «i dodici» in I Cor. I 5,5 è presumibilmente soltanto il termine tradizio nale . per indicare la cerchia più ristretta dei discepoli di Gesù, non il loro numero preciso. A questo si aggiunge l'espressione «Giuda, uno dei dodici» (v. a I 4, I O s.). Se il gruppo dei dodici fosse nato solo dopo pasqua sarebbe molto difficile immaginare che il traditore sarebbe sta to inserito nella cerchia più intima dei discepoli, con la conseguente can cellazione di un altro nome. Inoltre nel corso della tradizione i disce poli vengono sempre più scusati. Paolo, del resto, non si è mai consi derato uno dei dodici ( I Cor. I 5 , 5 -8), e questo presuppone qualcosa di più di una semplice differenza cronologica delle apparizioni del Ri sorto. Se Gesù abbia veramente mandato i dodici in missione è però un'altra questione. Fuori degli scritti di Luca essi vengono chiamati «ap ostoli» (= «inviati, missionari») solo in Mc. 6, 3o; Mt. 1 0,2 e Apoc. 2 1 , 1 4. Giovanni (Gv. I J , I 6), Paolo ( I Cor. I 5 ,7; Rom. 1 6,7; 2 Cor. 8 , 2 3 ; Fil. 2,2 5) e persino testimoni posteriori al N.T. hanno u n concet to di apostolo molto più ampio. In aggiunta a Pietro, e forse a Gio vanni, vengono citati per nome come missionari solo uomini che non appartengono al gruppo dei dodici (I Cor. 9, 5 s.; Atti 8,4 s.26.4o; I 5, 3 9 s.; cf. I I,19 s.). Secondo Mt. 1 9,2 8 (cf. Le. 22,30) la comunità primi tiva considera i dodici giudici o reggenti dell'Israele compiuto. Si può supporre che Gesù abbia chiamato i dodici come gruppo più intimo dei suoi discepoli e abbia già visto in quella cerchia il segno del com pimento futuro del popolo di Dio. Apparizione di Dio e missione so no già associate nel caso dei profeti anticotestamentari: /s. 6 I , I è così collegato alla proclamazione dell'evangelo (cf. Le. I , I 9 ). In un primo momento, dunque, ogni missionario inviato dal Risorto è «apostolo»,
Mc. 6,7- 1 3 . L'invio dei discepoli
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soltanto la pretesa di Paolo di essere «apostolo di G esù Cristo» in maniera particolare ha portato a designare quali «ap ostoli» in senso proprio i dodici, sia con Paolo o anche in contrapposizione con lui. Mc. 6,7- I 3 sarebbe allora nient'altro che una trasposizione di questa visione più tarda? I vv. 8 - 1 0 paiono una regola per missionari così co me avrebbe potuto essere stabilita nella comunità. I dodici avevano for se, al tempo di Gesù, più di quanto consentito dai vv. 8 s . ? E se sì, do ve avrebbero dovuto lasciarlo ? Inoltre tanto l'introduzione quanto la conclusione (vv. 7. 1 2 s.) riflettono pienamente sia lo stile sia le idee di Marco, ad esempio la predicazione del ravvedimento (cf. il più tardo titolo di «apostolo» al v. 30). Per contro il v. 1 1 non corrisponde alla situazione della comunità giacché il versetto presuppone soltanto un breve invito al pentimento, respinto il quale subentra il giudizio. Ora lo schema invio - regola per l'equipaggiamento - comportamento nel le case e nelle località - associazione di miracoli e predicazione si trova anche in Q, come mostra soprattutto Le. I 0,3 - 1 I (oltre 9, I -6 che cor risponde a Mc. 6,6- I 3 ). Bastone e sandali sono normali dove ci sono serpenti e animali selvatici; che Mc. 6, 8 s. li menzioni presuppone una versione precedente che li vietava (Mt. IO,IO Q). Anche per altri a spetti Q ha conservato tratti più antichi, così in Le. 1 0,4 il divieto di salutare lungo la via (per non perdere tempo); 1 0,6 l'espressione «fi glio della pace» e l'immagine della pace che riposa sugli uomini ovve ro che ritorna ai discepoli; in 1 0,9. I I il riferimento al regno di Dio e in 1 o, I 7 la conclusione con i discepoli che scoprono solo in un secondo tempo di avere potestà sui demoni. Anche 6,8 s. appare in Q in una forma adatta alla situazione di Gesù: «Non vi procurate ... » (così quel la che è probabilmente la forma più antica: Mt. I0,9. I oa). Anche la ten sione escatologica e l'inaudita severità di Mc. 6, 1 1 (cf. Le. I O, I I) po trebbero risalire a Gesù stesso. Singoli detti che circolavano isolati so no stati verosimilmente raccolti e integrati in una sorta di regolamen to missionario dalla comunità che aveva bisogno di istruzioni per i suoi missionari . Se il v. 1 1 dovesse risalire a Gesù si dovrebbe pensare a un invio in missione voluto da lui. Una cosa del genere non è impro babile perché Gesù non volle mai costituire un grupp o particolare, ma vide i dodici quale segno del suo diritto su tutto Israele. c
7- 1 3. Il servizio, per Gesù, è sempre servizio nella comunità e non può mai essere prestato senza il prossimo. Il lavoro in gruppo con al-
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meno due persone ne è un segno. Questo corrisponderà anche alla pras si della comunità ( 1 Cor. 9,6; Atti 8, I 4; I 5,36-39 ecc.; cf. l 'enumerazio ne a due a due in Mt. I o,2-4). Ancora una volta è sottolineata l'autori tà: predicare non vuoi dire impartire un'istruzione teorica, ma rivol gere un chiaro annuncio nel quale si concreta la potenza di Dio e tutte le p otenze ostili vengono assalite. La povertà degli inviati che, a diffe renza dei filosofi itineranti, si mettono in viaggio senza provviste, sac ca per la questua, senza denaro infilato nelle larghe cinture e senza un vestito di ricambio, è segno di una vita come quella degli «uccelli » e dei «gigli » (Mt. 6,2 5 -34). Inviati che vogliono essere sicuri da tutti i la ti non sono attendibili. Inviati che confidano maggiormente nel loro equipaggiamento (materiale o spirituale) piuttosto che attendere l'ir ruzione decisiva di colui che predicano, non sono attendibili. D'altro canto, però, debbono servirsi tranquillamente di tutto ciò di cui han no bisogno e non pensare fanaticamente che l'ascesi sia di per sé già un'opera positiva (il testo non raccomanda di non possedere un se condo vestito, ma solo di non portar lo con sé in viaggio); contro gli animali selvatici e i serpenti devono fare uso di bastoni e di sandali (diversamente in Mt. I o, I o; Le. 9,3 ; I o,4). Non bisogna inoltre di menticare che in ogni città giudaica c'è un incaricato che si occupa del cibo e del vestiario dei pellegrini (Giuseppe, Beli. 2, I 2 5 ) . Per quanto tempo si può approfittare dell 'ospitalità ? Finché il padron di casa non picchia l'ospite (se picchia solo sua moglie la situazione non è ancora grave), finché non gli tira dietro la sua roba Str.-Bill. a Mt. I O, I I ) o solo due giorni (Did. I I ,4 s.) ? Qui si avverte di non cercare una siste mazione più comoda nella medesima località. Invece il v. I 1 pensa a una predicazione che esige un sì o un no e quindi non lascia spazio per una cura pastorale più prolungata. È implicita la consapevolezza che il «no» alla predicazione non può venire così minimizzato che nessuno si renda più conto di quel che succede con il suo rifiuto. In ogni predicazione fatta con potenza si compie sempre anche un giu dizio. Perciò i messaggeri di Gesù hanno «un compito, non un tra guardo» : debbono, cioè, proclamare il messaggio e impegnarvisi inte ramente, anche con la loro vita fisica, ma debbono lasciare a Dio di ti rare le somme della loro fatica. Il gesto dello scuotere la polvere viene compiuto quando un Giudeo rientra in terra santa da una regione pa gana e vuol lasciare dietro di sé tutto quel che è impuro. Il gesto vuoi essere «testimonianza» per chi non si ravvede, perché riconosca la se-
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rietà della sua posizione e forse si converta ancora - oppure, addirit tura, una testimonianza contro di lui, cioè nel giudizio finale ? Il con tenuto dell'appello è riassunto come in 1 ,4. 14 s. (v. ad loc. ), però viene menzionata subito dopo la loro attività di guaritori. L'olio è usato so vente come medicamento (cf. Le. 1 0,34), qui però va interpretato co me segno esteriore che conferma la parola annunciante la guarigione (cf. Giac. 5 , 1 4). La concisa descrizione dimostra quanto sia importante l' «autentici tà» della predicazione. Tutto quanto, fin la povertà e la semplicità sen za pretese dei messaggeri e il coraggio di rendere visibile il giudizio su un «no», deve essere coerente con la parola che annuncia che Dio è infinitamente più importante di tutto il resto. Il destino del Battista, presagio del destino di Gesù, 6, 1 4-.29 (cf. Mt. 14, 1 - 1 2; Le. 9,7-9; J , 1 9-20) Ora il re Erode ne sentì parlare, perché il suo nome era diventato famo so, e dicevano: «Giovanni il Battezzatore è stato risuscitato d ai morti, e per questo operano in lui le energie». 1 5 Altri invece dicevano: « È Elia». Altri ancora dicevano: «Un profeta come uno dei profeti». 1 6 M a sentendone parlare, Erode diceva: «Quel Giovanni che ho decapitato, questo fu risusci tato ! » . 1 7 Erode stesso, difatti, aveva mandato ad arrestare Giovanni e l'a veva incatenato e incarcerato a motivo di Erodiade, la moglie di suo fratel lo Filippo, perché l'aveva sposata lui. 1 8 Infatti Giovanni aveva detto a Ero de: «Non ti è lecito tenerti la moglie di tuo fratello!». 19 Ma Erodiade glie l' aveva giurata e avrebbe desiderato uccider lo, ma non poteva. 20 Infatti Erode aveva paura di Giovanni, sapendolo uomo retto e santo, e lo proteg geva; e quando lo ascoltava era molto imbarazzato, ma lo ascoltava comun que con piacere. 2 1 Venuto un giorno propizio, quando Erode diede per il suo compleanno un banchetto ai suoi dignitari e agli ufficiali e ai notabili del la Galilea, 22 la figlia appunto della suddetta Erodiade entrò e danzò, e piac que a Erode e ai suoi commensali. Ma il re disse alla ragazza: «Chiedimi ciò che vuoi e te lo darÒ». 23 E le giurò: «Ciò che mi chiedi te lo darò, fino alla metà del mio regno» . 24 E quella uscì e disse a sua madre: «Che posso chiedere?». Ed ella disse: «La testa di Giovanni il Battezzatore» . 2 5 Ed essa tornò dentro dal re, di tutta fretta, ed espresse il suo desiderio: «Voglio che all'istante tu mi dia su un vassoio la testa di Giovanni il Battezzatore». 2 6 Allora il re divenne estremamente triste, ma a motivo d ei giuramenti e dei commensali non volle respingerla. 27 E subito il re inviò un carnefice e 14
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ordinò di portare la sua testa. Ed egli andò e lo decapitò nella prigione. 28 E portò la sua testa su un vassoio e la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. 29 E quando i suoi discepoli udirono ciò, vennero e pre sero il suo cadavere e lo posero in un sepolcro. Fra l'invio in missione e il ritorno dei discepoli passa un tempo considerevole. Per riempire l'intervallo (v. a 5 ,2 I -43) Marco sceglie il giudizio di Erode su Gesù (v. I 6) che gli viene certamente dalla tradi zione. Lo sviluppa con il v. I 5, che originariamente deve aver fatto parte del contesto di 8,27 s., e lo introduce con il v. I4. Il v. I 6, poi, permette di andare a riprendere il racconto dell'esecuzione di Giovan ni Battista che era stato tralasciato. L'uccisione di Giovanni da parte di Erode è riferita anche da Flavio Giuseppe il quale la pone, però, nel la fortezza di Macheronte, a oriente del Mar Morto (Ant. I 8, I I 9 ). L 'invito descritto qui (v. 2I, fine), invece, è pensabile solo nel palazzo di Erode a Tiberiade, la capitale galilea. Anche secondo Giuseppe, E rodiade era stata sì la moglie di un fratellastro di Erode, che si chiama va Erode anche lui, ma non di Filippo, che sposò solo una figlia di Erodiade. Infine, è quasi impensabile che la figlia di un re abbia balla to in pubblico. Il racconto è scritto in lingua molto curata ed è l'unico esempio in Marco di una storia che abbia al massimo indirettamente Gesù per protagonista. Ricorda il libro di Ester (cf. I ,3 con Mc. 6,2 1 e 5,3 con Mc. 6,2 3 ). Per Erode il titolo di «re» non è esatto, ma nel libro di Ester «re» ricorre I 83 volte; «comparire alla presenza del re» (Mc. 6,22.2 5): Est. I , I 9 e passim; «piacere al re» (cf. Mc. 6,2 2) : Est. 3,9. La storia è stata dunque certamente narrata dapprima nell'ambito del giudaismo greco (in Galilea ?), con al centro dell'interesse più Erode e sua figlia che Giovanni Battista. In origine essa rappresenta più un'e laborazione di storie bibliche circa re pagani che una leggenda biogra fica, storica o, addirittura, con un orientamento evangelico. Probabil mente la storia è stata già ripresa dai discepoli del Battista (v. 29) che vedevano il loro maestro alla luce del ritorno di Elia (v. a I ,6) prima che Marco la collocasse in un nuovo contesto e quindi se ne servisse come presagio del destino di Gesù. 14- I 6. Erode Antipa governò dal 4 a.C. fino al 3 9 d.C. come tetrar ca sulla Galilea e sulla Perea (in Transgiordania); il popolo potrebbe averlo chiamato re. Solo il v. I 6 esprime l'opinione di Erode, mentre i vv. I 4b e I 5 esprimono quella generale della gente. A Marco, quindi,
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6, 14-29. Il destino del Battista, presagio del destino di Gesù
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non interessa la cattiva coscienza di Erode, ma la questione di Cristo; qui si prepara 8 ,2 8 . Una risurrezione di Giovanni Battista è considera ta possibile, senza che per questo egli venisse già onorato come mes sia. Questa posizione presuppone che Gesù abbia cominciato la pro pria attività solo dopo la morte del Battista (v. a 1 , 1 4) e il suo battesi mo per mano di Giovanni è sconosciuto. Altri pensano a Elia, che quin di non è ancora identificato con Giovanni come in 9, 1 3 (v. a 1 , 1 - 8, intr.). Del profeta che deve venire parla Deut. 1 8,1 5; cf. 1 Mace. 4,46; 1 4,4 1 ; Gv. 1 ,2 1 . Erode stesso dà un'interpretazione suggerita dalla sua catti va coscienza sia che intenda quanto si legge nel v. 1 4 sia che invece vo glia dire: Giovanni non può essere ucciso: il suo appello alla penitenza ritorna per bocca di un altro. Marco ad ogni modo ha interpretato il pensiero d'Erode nel primo modo. Quel che di Gesù colpisce la gente sono le sue opere potenti. Controversa è solo la spiegazione. Si tratta di un fenomeno che ha una spiegazione psicologica (3,2 1 ), o di un in ganno malevolo (3 ,22) o si può cercare una spiegazione nelle categorie religiose conosciute fino a quel momento {6, 14 s.) ? La sola possibilità che non è pres a in considerazione è che qui Dio venga incontro in manie ra un1ca. 1 7-29. Secondo Le. 3 ,20 Giovanni era stato incarcerato già prima del battesimo di Gesù. Marco vi ha accennato in 1 , 1 4. Se non ha inse rito il racconto del suo arresto e della sua esecuzione a quel punto, ma soltanto qui, ciò è probabilmente dovuto al fatto che in questa sezione egli voleva esporre la sempre crescente cecità del mondo nei confronti della rivelazione di Dio. Erode il Grande è il nonno di Erodiade, dun que nipote di Erode Antipa, suo zio. Ciò costituiva, in base a Lev. 1 8 , 1 6 ; 20,2 1 (cf. Deut. 2 5 , 5 s.), u n impedimento al matrimonio. Inoltre Ero de aveva ripudiato la moglie e aveva portato via Erodiade al fratella stro Erode. L'inesattezza del v. 1 7 («Filippo») è evitata in Le. 3 , 1 9 e, più tardi, anche da alcuni copisti in Mt. 1 4,3 e qui. Erodiade somiglia a Jezabel ( I Re 1 9,2), Erode a Achab ( I Re 2 1 ,4 ss .). Non agisce in uno stato di cecità incapace di distinguere fra il giusto e l'ingiusto, ma sot to la pressione sinistra delle conseguenze d'una prima decisione sba gliata. La lezione «era molto imbarazzato» (di fronte alla predicazione profetica del Battista) (v. 20) non è sicura; altri manoscritti leggono all'incirca «lo faceva spesso» . Erodiade (v. 22) si spinge fino a sacrifi care ella stessa l'onore della figlia pur di raggiungere il proprio scopo. La promessa di Erode (v. 23) è formulata sul modello di Est. 5 ,3 ; 7,2;
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6,30 s. Il ritorno dei discepoli
fra l'altro, il principotto che deve il trono al favore dei romani non po trebbe regalare nemmeno un palmo di territorio. Il dialogo della fan ciulla con la madre accresce la drammaticità del racconto. L'esecuzio ne di Giovanni è riferita senza l'aureola del martirio; il tema non è l'e semplarità di Giovanni, ma l'opposizione del mondo a Dio. Ricerca del miracolo e legalismo, adulterio e cattiva coscienza, intrighi e debolez ze gli si oppongono. La presentazione della testa di Giovanni è de scritta in termini volutamente macabri e solo la pietà riverente dei di scepoli porta alla fine un po' di luce. Il racconto della morte del Battista, abbellita da elementi leggendari sul modello di esempi dell'Antico Testamento, serve a illustrare l'op posizione e la cecità del mondo, senza che l'impotenza e l'insuccesso del profeta di Dio e dei suoi pochi discepoli. vengano occultati. Pro prio così il racconto prepara 8,3 I. 34· Il ritorno dei discepoli, 6,3 0
s.
(cf. L e. 9, I oa; I0, 1 7-20)
30 E si radunarono i ntorno a Gesù gli apostoli e gli riferirono tutte le cose che avevano fatte e insegnate. 3 1 Ed egli dice loro: «Venite qui, voi da soli, in un posto solitario e riposatevi un poco». Poiché erano molti quelli che an davano e venivano ed essi non trovavano neppure il tempo di mangiare.
La transizione redazionale, in chiaro stile di Marco, dimostra che l'evangelista non sa più niente né di un successo né di un insuccesso della missione. Neppure si accenna a quel che Gesù ha fatto nel frat tempo. Analogamente a 4 , 3 4; 9,2 .28; 1 3 ,3 , dove in greco si trova la me desima espressione, Gesù vuoi rimanere solo con i discepoli. Questo sottolinea come Dio faccia di tutto per raggiungere gli uomini. L' effi cacia della potenza di Dio visibile nelle opere di Gesù che sorpassa ogni immaginazione (v. 3 I) fornisce la transizione all'episodio succes sivo, che già nella tradizione presuppone sia il posto solitario sia la grande folla. JO- J I . Questo è l'unico passo dove i dodici (6,7: v. ad loc. ) vengono chiamati «apostoli» ( = «inviati»); è ancora chiaramente un'indicazione della loro attività, non un titolo ufficiale. In primo piano appaiono le loro opere; del loro insegnamento si parla solo in secondo piano e uni camente in questo passo (v. a I ,23-26, intr.). Marco ha bisogno di una
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6,32-44. Gesù dà da mangiare a cinquemila persone
III
giustificazione per il v. 3 2b e accenna pertanto al riposo; probabilmen te s'intende lo stare appartati da soli e il prendersi un po' di riposo dal la fatica di cui s'era parlato in 1 ,3 5 . Ma Marco ha bisogno di una giu stificazione per 3 2b. L a ressa della folla è presentata come in 3 , 20. Gesù ha il potere di dar da mangiare a cinquemila persone, 6,3 �-44 (cf. Mt. I 4, I J -2 I ; Le. 9, 1 0- 1 7) 32 Allora se ne andarono in barca verso un posto solitario, da soli. 33 Li videro però partire e molti se ne accorsero, e a piedi da tutte le città corse ro lì tutti assieme, arrivando prima di loro. 34 E appena sbarcò vide una gran folla, e la misericordia per loro lo sopraffece, perché erano come pe core che non avevano pastore, e cominciò a insegnar loro molte cose. 3 5 Poi, quando si era fatto già tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli e gli diceva no: «La zona è isolata e si è fatto già tardi: 36 congedali che se ne vadano per le campagne e i villaggi circostanti a comprarsi da mangiare». 37 Ma egli rispose e disse loro: «Dategli voi da mangiare! » . Ed essi gli dicono: «Do vremmo andar via a comprare pane per duecento denari e dar loro da man giare?». 38 Ma egli dice loro: «Quanti pani avete? Andate a controllare!». E quando si furono accertati dicono: «Cinque, e due pesci » . 39 E ordinò loro che tutti si sistemassero, a gruppi di commensali, sull'erba verde. 40 E si sistemarono, gruppo per gruppo, sempre uno di cento e uno di cinquan ta. 4 1 E prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi verso il cielo, pro nunciò la benedizione e spezzò i pani e li dava ai discepoli perché li servis sero loro; e anche i due pesci li distribuì a tutti. 42 E mangiarono tutti e si saziarono. 43 Anzi raccolsero gli avanzi di pane, dodici ceste, più gli avan zi dei pesci. 44 E gli uomini che avevano mangiato i pani erano cinquemila.
In 8 , 1 ss. si racconta un episodio quasi identico; inoltre in Gv. 6 la storia è riportata in una forma certamente indipendente da Marco. Anche lì si trovano la traversata in barca alla riva orientale, il pasto dei cinquemila, il ritorno di Gesù, la nuova traversata, l'episodio di Gesù che cammina sul lago, la richiesta di un segno (Mc. 8, r i - I J , cf. 6, 5 3 56), l'incomprensione del discorso simbolico di Gesù circa il pane (Mc. 8, 1 4-2 1 , cf. 6, 5 2) e la confessione di Pietro (Mc. 8,2 7 -30). È chia ro, dunque, che già prima di Marco si è andato formando un certo complesso narrativo. Probabilmente il medesimo episodio è stato ri petuto con particolari diversi, una volta con quattromila e un'altra con cinquemila partecipanti (v. a 8, I - I o). Marco li ha considerati due epi sodi distinti e ha riempito lo spazio intermedio del cap . 7 con altro
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materiale. Marco colloca qui tale complesso narrativo perché già nella tradizione esso portava alla confessione di Pietro e, soprattutto, per ché dimostra in modo lampante la cecità degli uomini per l'annuncio di Dio anche di fronte ai più straordinari miracoli di Gesù (6, 5 2; 8 , 1 72 1). Fa contrasto a questo atteggiamento la fede della donna pagana (cap. 7) che si stacca dalla cecità del giudaismo legalistico, anzi persino da quella dei discepoli (7, 1 8). Si è voluta vedere l'origine di questo racconto nei fatti più diversi: in un sacramento messianico col quale Gesù avrebbe consacrato i suoi seguaci per il regno veniente, sicché l'unica notizia inesatta sarebbe che furono saziati; in un assembramento rivoluzionario nel deserto che voleva eleggere Gesù guida politica, a cui egli si sottrae; in un pacifico convegno nel corso del quale la scarsezza di provviste sarebbe stata su perata grazie all'esortazione di Gesù a dividere quello che avevano. Pure, il brano ha così evidenti le caratteristiche d'un racconto di mira colo, che dev'essere stato narrato senza dubbio come tale sin dal prin cipio. Ora, ci sono molti paralleli a questa storia ( 1 Re 1 7,8 ss.; 2 Re 4, 1 ss.42 ss.) nel mondo giudaico, in quello greco e altrove, sicché può ben essere che si tratti di una leggenda circolante applicata a Gesù. Il problema di fondo però è questo: che cosa avvenne di così suggestivo nel caso di Gesù da determinare l'attribuzione d'un episodio di que sto genere alla sua persona, nonché le modifiche caratteristiche di que sto brano ? Bisognerà fare attenzione a questo fattore nell'esegesi spe cifica. Non c'è dubbio che nel corso della tradizione il racconto è sta to interpretato come riferimento all'ultima cena. Forse in origine il v. 4 1 (v. ad loe. ) diceva soltanto: «Ed egli prese i cinque pani e i due pesci e li spartì fra tutti». Dato che il v. 41 non coincide esattamente né con 8,6· né con 1 4,22, l'assimilazione all'ultima cena deve essere stata fatta già prima di Marco. Viceversa, che egli abbia aggiunto i pesci per cela re un riferimento prematuro alla cena è molto inverosimile (cf. Gv. 2 1 , 9; Le. 24,42). La penna di Marco si riconosce specialmente nei vv. 3 2 s., ove il desiderio di Gesù di star solo con i discepoli contrasta con l' ac correre del popolo in folla, e nell'espressione conclusiva del v. 3 4· 32-44 . Secondo Le. 9, 1 0 quest'episodio avrebbe avuto luogo a Bet saida che si trova nella parte settentrionale del lago, a est della foce del Giordano. Secondo Mc. 6,4 5 (e 8,22 !) tale località si trova però sulla sponda opposta del lago, e ciò corrisponde presumibilmente alla tra-
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dizione. È probabile che Marco pensi che il miracolo abbia avuto luo go in una località della riva occidentale, così che Gesù procede solo per un breve tratto costeggiando la riva e la folla può superarlo facil mente. Gv. 6, I . I 7 immagina il miracolo sulla riva orientale, infatti la successiva traversata del lago riporta a Cafarnao e alla riva occidenta le. La compassione di Gesù (altrove solo 9,2 2 nella tradizione) si rife riva in origine, come mostra 8,2, alla fame fisica. M arco però sottoli nea che si tratta di qualcosa di profondamente diverso, precisamente dell'insegnamento di Gesù, in cui Dio si rivela: è di questo che gli uo mini hanno bisogno. L'immagine delle pecore si trova in Num. 27, I 7 s . (dove i LXX parlano di «Gesù» = Giosuè, aiutante d i Mosè); Ez. 34, 5 ; cf. 1 Re 2 2, I 7; Zacc. I J ,7· Essa è adoperata in un altro senso in Mt. 9,3 6 (con riferimento alla predicazione: per questo è omessa in 1 4, 1 4 ) e in Mc. I 4,27. L'ordine ai discepoli è dato per mettere in evidenza la loro incomprensione (cf. Num. I 1 ,2 2 ) . Come la fede diventa tale so lo nell'esecuzione, così la loro incomprensione si manifesta in un in carico concreto. La replica dei discepoli dovrebbe servire solo a met tere in evidenza l'impossibilità della proposta di Gesù: tanto denaro non ce l'hanno certamente. I pani dell'epoca erano focacce grandi co me un piatto e spesse un pollice; erano di grano o di orzo, più econo mico ( Gv. 6,9 ); venivano spezzati quando si mangiava. La parola del Signore mette fine alla discussione. Che la menzione dell' «erba verde» tradisca la speranza degli apocalittici che negli ultimi tempi il deserto si sarebbe trasformato in terra fertile, è discutibile; ma è possibile che la disposizione dei commensali a gruppi o brigate ricordi l'organizza zione militare di Israele nel deserto. La distribuzione è senza dubbio volutamente ricalcata sulla cena; per questo la distribuzione del pesce è menzionata solo dopo, come un'appendice. La benedizione giudaica abituale recita: «Benedetto sii tu, Signore, Dio nostro, re del mondo, che fai crescere il pane dalla terra» . Il tempo del verbo «dare » («li da va») presuppone che Gesù dia ai discepoli continuamente nuovo pa ne. Il fatto che i discepoli passino a loro volta il pane alla folla è del tutto naturale, dato il gran numero di persone, e non c'è bisogno di pensare che si riferisca al servizio che faranno poi i diaconi nella cele brazione dell'ultima cena, o che simboleggi gli apostoli che proclama no l'evangelo a tutti i popoli. È sottolineata in modo speciale l'abbon danza del dono (cf. anche 2 Re 4,44 ) ; l'impressione si accresce fino alla menzione del numero dei presenti che viene solo nell'ultima frase. Non
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Mc. 6,3 2-44.
Gesù dà da mangiare a cinquemila persone
è certo che «uomini» debba interpretarsi in senso stretto come fa Mt. 1 4 ,2 1 , cioè senza donne e bambini. L'espressione potrebbe indicare gli «uomini» in senso lato, oppure essere stata scelta come ricordo delle schiere d 'Israele nel deserto. Certo non si tratta, neanche nella tradizione, di un banchetto mes sianico; è piuttosto un pasto da poveri, senza vino, come conviene per una giornata non festiva (diversamente Mc. 1 4,22 ss.; 1 QSa 2, 1 7-22; cf. 1 QS 6,4 s.). Non vi è alcun accenno a uno speciale dono sacramentale o a una nuova comunione con Dio. Gesù è colui che provvede alle ne cessità materiali del popolo. Ora, alcuni particolari del racconto po trebbero far pensare che anche la tradizione anteriore a Marco presen tasse Gesù come il redentore d'Israele degli ultimi tempi, nel quale il tempo di salvezza dell'esodo dall'Egitto trova il proprio compimento escatologico (cf. Gv. 6,3 1 ). Anche se ciò non è sicuro, non c'è dubbio che Gesù venga descritto come colui che supera persino Eliseo e quin di è il salvatore escatologico. Probabilmente la tradizione è già respon s abile dell'assimilazione del racconto alla liturgia della cena. In segui to, pane e pesce compaiono spesso come simboli della cena nell'arte cristiana. Certo Marco ritorna in 6, 5 2 e 8, 1 9 su questo racconto e vi vede la cecità incomprensibile dei discepoli. Da qui si capisce la modi fica redazionale del v. 34: Marco vede nel miracolo (v. a 1 ,2 1 -2 8 ) la ma nifestazione concreta del potere di Gesù, che con il suo insegnamento vuoi ricondurre gli uomini a Dio. Così il pane (sicuramente anche quello della cena) è immagine del dono divino della rivelazione nel l'insegnamento di Gesù. Come nel caso di 4,3 5 .4 1 siamo davanti a un miracolo nella sfera della creazione, che esige la fede degli uomini (4, 40; cf. 5 ,3 2-34 ecc.). Anche l'incomprensione dei discepoli diventa vi sibile più di quanto non lo sia stata sinora. Così è più accentuata la presentazione della cecità del mondo, e anche il peso e la distretta che Dio deve accollarsi per rivelarsi a questo mondo. Tutt'e due le linee raggiungono il loro culmine in 8,27-3 3 . Questo viene anche conferma to dalla forma della narrazione perché, a differenza di altri racconti di miracolo (e di Gv. 6, 1 4 s.), qui manca l'elemento dello stupore della folla e la conferma del miracolo da parte degli spettatori. Il racconto vuole dunque distogliere da questo preciso segno miracoloso (e dal l'assenso o dal dubbio nei confronti della verità della storia) per far notare il dono e l'autorità di Gesù in assoluto.
La potenza di Gesù che cammina sul lago, 6,45-52 (cf. Mt. I4,22-3 3 )
subito obbligò i suoi discepoli a salire i n barca e a precederlo sulla sponda opposta, a Betsaida, mentre egli stesso avrebbe congedato la folla. 46 Poi, dopo averli salutati, se ne andò su di un monte per pregare. 47 Ora, quando si era fatta sera, la barca era nel mezzo del lago, e lui solo a terra. 48 E poiché vide che erano sfiniti dal remare (infatti il vento era loro con trario), verso la quarta vigilia della notte viene verso di loro camminando sul lago, e li voleva oltrepassare. 49 Ma qu elli, quando lo videro camminare sul lago, pensarono «fosse un fantasma e urlarono; 5 0 tutti, infatti, lo vide ro e caddero in preda al panico. Ma egli rivolse subito loro la parola e dice loro: «State tranquilli, sono io: non abbiate paura!». 5 1 E salì da loro nella barca, e cadde il vento. Ed erano tutti agitati e inquieti. 5 2 Infatti non ave vano capito il fatto dei pani, ma il cuore loro era indurito. 45 E
Per la tradizione premarciana cf. intr. a 6,3 2-44. Ci sono scrittori greci che attribuiscono a superuomini e demoni la capacità di cammi nare sull'acqua. Questa capacità viene attribuita a Dio ( Giob. 9,8; cf. 3 8 , 1 6) e anche alla Sapienza (Sir. 24, 5 s.). Si è immaginato che il nostro racconto fosse in origine la descrizione di un'apparizione del Risorto (cf. Gv. 2 1 , 1 - 14). È un fatto che in esso si intrecciano due diversi mo tivi. Il fatto che Gesù voglia oltrepassare la barca mostra che non era venuto per placare la tempesta. Infatti la bonaccia è menzionata solo alla fine del v. 5 1 , come un'appendice; anche in Gv. 6, I 8 è appena ac cennata (cf. 6,22-24, dove si attesta solo la traversata del lago da parte di Gesù). Questo motivo può essersi introdotto qui da un racconto come quello di 4,3 5 -4 I e avrà naturalmente portato anche agli am pliamenti del v. 4 8 a. La storia originale racconta di Gesù che è rimasto indietro, di Gesù che è passato oltre nella notte, dei discepoli rimasti sconvolti pensando di vedere un fantasma, di Gesù salito nella barca rivolgendo loro la parola. Questa potrebbe ben esser stata la descri zione di un'apparizione del Risorto, ma è più verosimile che la poten za del Gesù terreno sia stata descritta fin dall 'inizio alla luce delle e sperienze pa s quali (cf. excursus a 4,3 5 -4 1 ). Qu el che il brano significa per Marco, appare dal v. 5 2. Il motivo della cecità dei discepoli, come anche il motivo del cuore indurito (cf. 3 , 5 a; 8, I 7b) , rivelano la sua o pera redazionale.
I 16
Mc. 6, s J - s6.
La corsa al miracolo
4 5 - s2.. Le indicazioni geografiche del brano sono confuse (v. ai vv . 32 s.). Benché la meta sia Betsaida, vi arrivano solo in 8,22; secondo il v. 5 3 sbarcano a sud di Cafarnao. Non si capisce bene perché Gesù si separi dai discepoli: Marco giustifica il fatto col desiderio di pregare in solitudine, come in 1 ,3 5 {diversamente Gv. 6, 1 5). Con questo vuole mettere in evidenza la sorgente dell'autorità potente di Gesù. L'espres sione «nel mezzo del lago» sta a significare la solitudine in cui si tro vano i discepoli e il loro abbandono in balìa della tempesta. Questa si tuazione di difficoltà è sottolineata dalla notizia che dalla sera alle tre del mattino non sono andati molto avanti, mentre di solito si può tra versare il lago, anche nelle peggiori condizioni, in circa 6-8 ore. Nel comportamento di Gesù che passa oltre la barca Marco vede certa mente una prova alla quale è sottoposta la fede dei discepoli, prova nella quale essi falliscono subito. Si può vedere Gesù eppure non ve der! o (cf. 4, 1 2 !), sicché l'unico risultato è un grido pieno di angoscia. Solo quando si è pervenuti alla comprensione della parola, alla comu nione del dialogo con Dio, la vista del miracolo diventa contempla zione dell'opera meravigliosa del Signore. La tempesta acquietata è un simbolo della pace cui Gesù introduce ( 5 ,34), quando entra nella vita di un uomo. Se un intervento di Dio che spezza le categorie abituali sconvolge gli uomini, ciò è un segno della scarsa misura in cui gli uo mini tengono conto della realtà di Dio (v. a 4,4 1 ). È questo che Marco definisce cuore indurito. Attribuendo tale caratteristica ai discepoli egli li mette sullo stesso piano dei farisei di 3 , 5 .
Anche questo racconto cerca, ancora una volta, la fede; m a la sua peculiarità è di mettere in luce il portento dell'abbassamento di Dio di fronte all'incomprensibile cecità degli uomini. Il parallelismo con il racconto dei pani è perciò sottolineato ancora una volta alla fine. La corsa al miracolo, 6, 53-56 (cf. Mt. 1 4,34- 3 6)
E quando avevano compiuto la traversata fi no a terra, vennero a Gen nezaret e approdarono. 54 E appena scesero dalla barca, li riconobbero su bito 5 5 e corsero attorno per tutta la regione e si misero a portare in giro sulle barelle i malati, dovunque sentivano che si trovava. 56 E ovunque en trava in villaggi, in città o nelle campagne, mettevano i malati negli spiazzi e lo supplicavano di poter toccare anche solo il lembo del suo ves tito; e quanti lo toccavano erano guariti. 53
Mc. 7, I -2 3 .
La domanda sulla legge
I 17
Il brano potrebbe essere opera redazionale di Marco (cf. 1 , 3 2-34; 3,7- 1 2; 6,3 3 ). Possono aver servito da modello descrizioni com e 2, 3 s. o 5 ,28, dove i paralleli Mt. 9,2o; Le. 8 ,44 parlano dei «lembi» dei vesti ti (v. a Mt. 23, 5). Forse questo sommario di Marco sostituisce un bra no come 8, 1 1 - 14. Ad ogni modo, quel che è sottolineato non sono le guarigioni di Gesù, anche se si va persino oltre J , I o e 5,28 (v. ad loc. ) ma è l'accorrere del popolo; esso rivela la straordinaria efficacia di Gesù, ma ancora di più la cecità di quelli che cercano solo il miracolo. La domanda
su
l la legge, 7, 1 -23 (cf. Mt. 1 5 , 1 -20)
1 E si radunano intorno a lui i farisei e alcuni scribi, venuti da Gerusalem me. 2 E quando videro alcuni dei suoi discepoli mangiare il pane con mani impure, cioè non lavate - 3 infatti i farisei e tutti i giudei se non si sono la vati le mani con una manciata d'acqua non mangiano, attenendosi alla tra dizione degli antichi, 4 oppure venendo dal mercato non mangiano senza essersi sciacquati, e molte altre cose ci sono che essi hanno imparato dalla tradizione a osservare: lavature di bicchieri, di brocche e di recipienti di rame -, s i farisei e gli scribi gli chiedono: «Perché i tuoi discepoli non camminano secondo la tradizione degli antichi, ma mangiano il pane con mani impure?». 6 Ma egli disse loro: «Ben profetò Isaia a proposito di voi ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me; 7 invano mi onorano insegnando precetti umani co me se fossero dottrine. 8 Lasciate correre il comandamento di Dio e vi atte nete alla tradizione degli uomini)). 9 E diceva loro: «Sapete ben eludere il co mandamento di Dio per osservare la vostra tradizione! r o Disse infatti Mosè: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice padre o madre sarà condannato a morte. I 1 Voi invece dite: Se un uomo dice al padre o alla ma dre qorban, (sia offerta) tutto ciò che tu potresti mai ottenere da me, 12 voi non gli lasciate fare più niente per suo padre o sua madre, 1 3 invalidando la parola di Dio con la vostra tradizione che vi siete tramandata. E di cose simili ne fate molte)). 14 E chiamando di nuovo a sé la folla diceva loro: «Ascoltatemi tutti e capite! I s Non c'è nulla fuori dell'uomo che possa ren derlo impuro quando entra in lui; ma sono le cose che escono dall'uomo che rendono impuro l 'uomo. 17 E quando fu entrato in casa, via dalla fol la, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18 E dice loro: «Fino a questo punto siete ottusi anche voi ? Non capite che tutto ciò che dal di fuori s'introduce nell'uomo non può renderlo impuro, 1 9 p erché non gli s'introduce nel cuore, ma nel ventre, e se ne va nel gabinetto[, purificando tutti gli alimenti ] ?)) . 20 Diceva invece: «Ciò che esce dall'uomo, quello ren-
l I8
Mc. 7, 1 -2 3 . La domanda sulla
legge
de impuro l'uomo. 2 1 Infatti, dal cuore degli uomini escono i ragionamen ti cattivi, fornicazioni, furti, omicidi, 22 adulteri, avidità, malvagità, frode, libidine, malocchio, bestemmia, superbia, insensatezza. 23 Tutte queste co se cattive provengono dall'interno e rendono impuro l uomo». '
6 s . /s. 29, 1 3 . IO Es. 20, 1 2; 2 1 , 1 7;
Deut. s , l 6.
I vv 3 s. interrompono il pensiero del v. 2, che riprende al v. 5 . Essi sono anti farisaici come l'esempio dei vv 6- I 3 . La citazione di Isaia è pertinente solo fino a un certo punto, dato che qui non si tratta di una confessione a parole, di un «riconoscimento (reso) con le labbra»; ma, come viene chiarito poi al v. 8, l'intenzione è semplicemente quella di contrapporre la legge di Dio alle regole umane che si sono aggiunte dopo (come vengono esemplificate ai vv 9- I 3 con un caso veramente estremo, la cui assurdità è chiara per tutti). Comunque la citazione, co sì com'è riportata, riflette solo il testo greco di !s. 29, I 3· Così qui ci si trova di fronte alla posizione di un giudaismo liberale (ellenistico), che vuole tener ferma la legge, ma non tutta la prassi farisaica, che in terra straniera era in larga misura impraticabile. La comunità ha pro babilmente ricevuto tale argomentazione da questi ambienti liberali in un'epoca in cui il confine fra giudaismo e comunità cristiana non era ancora consolidato. L'argomento è stato usato anche altrove in fun zi�ne polemica, ad esempio in un papiro dove Gesù lo usa contro p er sone che lo chiamano «maestro», senza credere in lui; cosa che, del resto, è ancora più vicina a una «confessione con le labbra» della que stione dei farisei nel nostro testo (cf. anche Col. 2,22 ) . Che i vv 9- I 3 furono aggiunti soltanto più tardi si nota perché I . si parla della «vo stra tradizione» (vv 9· I 3 ) invece che di quella «degli antichi» oppure «degli uomini» (vv. 5 .8 ) e perché 2 . il passo riprende «bene» dal v. 6, ma non lo intende più seriamente, bensì ironicamente. N o n si vede più che dietro la questione c'è un problema serio: per i farisei, in fon do, si trattava solo di affermare che l'ubbidienza verso Dio dovrebbe prevalere anche sull'amore per padre e madre, una posizione che cor risponde essenzialmente a Mt. 5,2 I ss.; Le. I 4,26. Comunque, G esù stesso non si è espresso in questi termini. La sua opposizione raggiun ge livelli più profondi . In Mc. 2,23 ss.; 3 , I ss.; più che mai in Mt. 5 , 2 1 ss.; L e. I 8,9- 14 Gesù non attacca aberrazioni marginali, bensì una com prensione legalistica dei comandamenti centrali, anzi contro la p osi zione che considera il legalismo in genere un titolo di vanto al cospet to di Dio. Così si dice al v. I 5, che si adatta anche alla comunione con.
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Mc. 7, 1 -2 3 .
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La domanda sulla legge
viviale di Gesù coi pubblicani. Certamente Gesù non s i riferiva al pro blema dei cibi (v. 1 9 fine) che sorgerà in seguito (Gal. 2, 1 2 ! ), bensì af fermava un principio molto più generale. Mediante i vv I s. 5 la comu nità ha poi inserito la sentenza nella vita di Gesù, spiegandola dappri ma in maniera molto razionalistica coi vv 1 8b. 1 9 e poi mediante i vv. 2 0-2 3 , usando allo scopo uno dei correnti cataloghi di vizi (v. al v. 2 1 ). Per Marco stesso, come mostrano i vv 1 7. 1 Sa tipicamente marciani nel contenuto e nel linguaggio, il punto centrale è l'incomprensione dei discepoli. Marco si trovò obbligato a concludere il dibattito con questo versetto e con la spiegazione di Gesù in privato ai discepoli; non poteva quindi semplicemente aggiungere l'esempio dei vv 9- 1 3 , ma doveva inserirlo precedentemente. Per Marco l'importante è, anzi tutto, l'assurdità del legalismo giudaico e, poi, il suo superamento da parte di Gesù. Questa è la situazione dell'epoca postpaolina. La batta glia per la problematica del legalismo fu combattuta da Gesù e, dopo pasqua, soprattutto da Paolo, in modo molto diverso. Essi avevano pre so sul serio il problema e messo a nudo la radice più profonda del le galismo, il desiderio dell 'uomo di sussistere dinanzi a Dio (cf. excursus a 3 , 1 -6). Quest'epoca è finita da molto tempo ed è subentrata una ma niera molto più razionalistica di considerare il problema. N ella comu nità di Marco la legge non costituisce più una tentazione; è una fac cenda superata, che contraddice l'intelligenza illuminata. Così, ad esem pio, si attribuisce a Gesù, in un testo apocrifo, una giustificazione dell'inutilità delle abluzioni di questo tipo: l'acqua in cui sguazzano i cani e i porci non può avere la capacità di purificare; e le prostitute so no solite lavarsi e ungersi senza per questo essere interiormente puri ficate. L'interesse di Marco non si limita però a questa razionalizza zione illuministica: tutto ciò gli serve per mettere in luce l'incompren sibile cecità degli stessi discepoli di Gesù (vv. 1 7 e 1 S a). All'indurì mento dell'uomo di fronte alla rivelazione di Dio, corrisponde la dif ficoltà del cammino di Gesù. In questa prospettiva appare anche chia ramente la funzione di questo racconto nell'economia del vangelo di Marco (cf. intr. a 6,3 2-44): il legalismo che esso descrive e, soprattut to, la cecità dei discepoli, servono a mettere sempre più l'accento su quel rifiuto di Gesù da parte del mondo, a cui 8,3 1 darà la risposta. Al tempo stesso, il nostro brano forma un contrasto con quello successi vo dove appare per la prima volta l'esempio illuminante della fede di una donna pagana, 7,24-3 0. .
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Mc. 7, 1 -2 3 .
La domanda sulla legge
1 -23. I rabbi esercitano una certa funzione ispettiva sulla Galilea, ma Marco ricorda Gerusalemme solo come centro dell'opposizione a Gesù (v. a 3,22), mentre la Galilea è già, in qualche senso, l'immagine della futura comunità, più libera, costituita dai pagani (v. a 1 5 ,40). Quel che è in discussione è la condotta della comunità, non Gesù stes so. «Impuro» significa profano, non santo, non adatto a Dio. Proprio questa distinzione, fra una sfera religiosa, divina, della vita, e una sfera ordinaria, di tutti i giorni, che non appartiene a Dio, è infranta da Ge sù in tutta la sua portata di principio. Il testo greco (v. 3 ) dice lette ralmente «con il pugno», ma non fa senso; in latino, invece, la parola che ha quasi il medesimo suono significa «con una manciata» . Questo gesto corrisponde effettivamente alla prassi rabbinica. La «tradizione degli antichi» (v. 3) significa l'interpretazione giudaica dei comanda menti. Venendo dal mercato (v. 4), c'è maggior pericolo di impurità, per via del contatto con gli altri. «Lavature» in greco è lo stesso termi ne che traduciamo di solito con «battesimo» . La ricca enumerazione rivela l'atteggiamento beffardo che gli estranei avevano verso questi assurdi usi giudaici. La domanda del v. 5 pone il problema del v. 2 in una prospettiva più ampia: non si tratta solo di quell'esempio, ma del la libertà in generale della comunità di Gesù di fronte alla legge. L a domanda attenua però i l problema mettendo i n discussione non l a leg ge, ma la sua interpretazione. L'ipocrisia veniva già rimproverata d ai farisei ai loro avversari in Ps. Sal. 4,6 (cf. Mt. 6,2. 5 . 1 6; 2 3 , 1 3-29 ecc.). Il rimprovero qui non è sul piano individuale, ma su quello dei principi (v. a Mt. 6,2). Il legalismo è santità esteriore, apparente. La religiosità che si preoccupa di farsi controllare e misurare, sia nel foro della co scienza del singolo, sia davanti agli uomini o a Dio, si ferma ancora al la « apparenza», perché è solo quel che appare esternamente che può essere misurato, e non l'intimo del «cuore». Pure con questo non è ancora detta l'ultima parola. A differenza di Marco, Paolo viveva un'ub bidienza radicale alla legge; egli può quindi concepire più a fondo il suo superamento attraverso un'etica che non si preoccupi più dei cal coli, ma non sia per questo meno esigente (cf., ad es., Gal. 5 ) Anche la citazione che segue accoglie semplicemente la nota critica profetica della pietà esteriore, senza mettere in risalto, come fa Paolo, il perico lo che a questo modo l'uomo possa presentarsi davanti a Dio con un'alta opinione di sé, invece di diventare povero davanti a lui. Il v. 8 ha la sua illustrazione nei vv. 9- 1 3 . Qorban si diceva quando si voleva .
Mc.
7, 1 ... 2 3 . La
domanda sulla legge
121
consacrare a Dio un oggetto, cioè sottrarlo all'uso ordinario, ma senza consegnarlo subito al tesoro del tempio. Si tratta di un esempio limite, evidente anche a qualsiasi pagano; esso naturalmente non risolve il problema della legge, non fosse altro perché vari dottori giudei, alme no in epoca posteriore, in questo caso sono d'accordo con Gesù. L'es senziale è soltanto la preoccupazione incondizionata p er l'uomo: in questo aspetto opera ancora l'atteggiamento di Gesù (cf. 3 ,4). Con una espressione redazionale abituale, Marco ci riporta alla parola decisiva del v. I 5 sottolineandone l'importanza di là della polemica specifica. L'appello a prestare ascolto mette in risalto come in 4,2.23 s. il carat tere figurativo del detto, che si può capire solo con «orecchi che odo no» . Il v. 1 5 si ritrova, leggermente semplificato, anche in Ev. Thom. 1 4. Affermando che le «cose» del mondo non sono mai impure, ma lo diventano solo attraverso il cuore dell'uomo, la comunità di Gesù ha mantenuto la fede nella bontà della creazione di fronte a una tendenza ascetica che aveva in sospetto la creazione di Dio. N o n si sostiene dun que che l'interiore abbia maggior valore dell'esteriore; proprio il «cuo re» può essere cattivo (v. 2 I ). Queste considerazioni hanno avuto una parte importantissima nella questione della comunione di mensa fra giudei e pagani (Atti 10, 1 4; 1 5 ,28; Gal. 2, 1 I - I 7; Rom. 1 4, I 4; Col. 2,2022). Paolo è giunto alla conclusione che la rinuncia è uno sbaglio quando l'uomo con essa voglia dimostrare i suoi meriti davanti a Dio, agli uomini o a se stesso, ed è portatrice di benedizione soltanto dove è concepita come un servizio reso al prossimo. «Se uno ha orecchi da udire, oda!>> (v. I 6) manca in alcuni antichi manoscritti. Ma se Marco avesse, dopo tutto, scritto queste parole (come in 4,9 accanto a 4,3 , prima dell'insegnamento ai discepoli), allora andrebbero intese nel senso del v. 14b. Infatti la cecità stessa dei discepoli è descritta qui in termini ancora più espliciti che in 4, 1 3 (per la «casa» v. a 2, I ). Nean che la comunità, quindi, è una schiera santa separata dal mondo; quan do può capire, si tratta di pura grazia, di un miracolo di Dio. Strana è la chiusa del v. 1 9 : è un'osservazione ironica (in definitiva tutti i cibi diventano uguali nel gabinetto) oppure si tratta di una glossa che af ferma che Gesù aveva dichiarato puri tutti i cibi ? Questa seconda ipotesi è probabile, perché letteralmente il testo greco significa «nel gabinetto, purificando ... >>, e non «nel gabinetto purificatore». Il cata logo dei vizi è analogo ad altri elenchi del genere (cf., ad es., Rom. I , 29-3 1 ; Gal. 5, I 9-2 1; Col. 3 , 5 - 8 ; 1 Tim. 1,9- 10; 2 Tim. 3 , 2- 5 ) che pro-
1 2.2.
Mc. 7,24-)0.
Il primo esempio di fede dei pagani
vengono senza dubbio dal giudaismo ellenistico. L'associazione di pec cati di lussuria, avidità e idolatria («bestemmia>>, forse anche il «ma locchio » come pratica magica, se non significa soltanto invidia e male vola insinuazione) è tradizionale in questo contesto. La «malvagità» compare anche in Rom. 1,29 accanto ad «avidità». Pure l'elenco è così allargato che non si può distinguere nettamente fra azioni e pensieri. Guardando indietro al brano appena analizzato, colpisce anzitutto la polemica ironica sulle pratiche legali incomprensibili, in nome di una sana razionalità. Questa posizione naturalmente non è sbagliata, ma il suo radicamento nell'evangelo, cioè nella liberazione dell'uomo dalle «opere», cioè da tutto quello con cui egli pensa di doversi affer mare, al quale si allude certo quando si indirizza verso l'interiorità e non verso le opere esteriori, diventa visibile solo nell 'insieme dell'o pera di Marco. Se qui non si va oltre la critica profetica già fatta pro pria dal giudaismo ellenistico, ciò è dovuto al fatto che Marco è inte ressato anzitutto al v. 1 8a. Qui egli perviene alla posizione paolina del «solamente per grazia» da una direzione del tutto diversa, cioè parten do dal problema della comprensione di Dio. Con la cecità dei disce poli egli dimostra quel che Paolo dimostrava con il legalismo dell'uo mo in generale, cioè che questi non può farsi guidare per permettere che finalmente sia solo Dio a operare. Quello che poi Marco descrive con la «sequela» (v. a 8,3 4 s .), Paolo lo chiama libertà della fede, nella quale l'uomo, proprio perché non deve più affermarsi, diventa capace di vivere per grazia e quindi di vivere di cuore Dio. Il p ri mo esempio di fede dei pagani, 7,24-3 0 (cf. Mt. 1 5 ,2 1 - 2. 8)
Di lì si mise in cammino e se ne andò nella regione di Tiro e di Sidone. Ed entrò in una casa e volle che non lo venisse a sapere alcuno, eppure non poté rimanere nascosto; 2 5 anzi una donna, la cui bambina aveva uno spi rito impuro, sentì subito di lui. Venne e gli cadde ai piedi. 26 La donna era una greca, sirofenicia di nascita. E lo supplicava di voler scacciare il demo ne da sua figlia. 2 7 Ed egli le diceva: «Lascia che prima siano saziati i figli. Perché non sta bene prendere il pane dei figli e buttarlo ai cagnolini». 2 8 Ed ella replicò e gli dice: «Sì, signore; ma anche i cagnolini sotto la tavo la si nutrono delle briciole dei bambini». 29 Ed egli le disse: «A motivo di questa parola, va' ! Il d e mone è uscito da tua figlia». 30 E lei andò via a casa sua, trovò la bambina stesa sul letto e il demone se ne era andato. .2 4
Mc. 7,24-30. Il
primo esempio di fede dei pagani
1 23
Per il posto che questo racconto occupa nella struttura del vangelo di Marco, cf. intr. a 6,3 2-44 . Nel contesto immediato, la fede di questa donna estranea alla legge si stacca nettamente dal legalismo giudaico, di cui gli stessi discepoli non riconoscono ancora pienamente la star tura. A prescindere dalla transizione (v. 24) e da lievi modifiche al v. 2 7a (v. ad loc. ), il brano è un racconto unitario che ha come acme la parola dei vv. 27 s. Ci si può chiedere se Gesù non abbia detto qualco sa di simile a quanto si legge in Mt. 1 5 ,24 suscitando la risposta umile della donna pagana. Comunque sia, il racconto deve aver avuto di mi ra fin dal principio, come Mt. 8, 5 - 1 3 , il problema della posizione dei pagani rispetto ai giudei. Come in quel passo di Matteo, è la fede della persona pagana che trova accesso a Gesù. Dir questo significa cogliere in pieno ciò che in Gesù ha scavalcato le frontiere di Israele, benché egli non abbia quasi mai lasciato il paese e abbia avuto solo contatti occasionali con i pagani, e neppure abbia chiamato alla missione fra i pagani. Se quel che è decisivo non è più la fedeltà alla legge, ma il comportamento dettato dalla fede, ciò vuoi dire che di fatto l'evangelo è accessibile a tutti i popoli. Marco ha ancora sottolineato nel v. 24a il passaggio di Gesù in terra pagana, senza farne però una sorta di mis sione ai pagani: infatti già al v. 3 1 Gesù ritorna al Lago di Gennezaret, anche se forse si tratta della riva orientale, semipagana. È chiaro che il racconto di questa donna (oltre il centurione di Mt. 8, 5 - 1 3 ) è diventa to importante nelle discussioni sulla missione fra i pagani che avveni vano nella comunità. 24-30. In alcuni manoscritti manca «Sidone», ma può darsi che il nome sia stato tolto in seguito, per influenza del v. 3 1 . La menzione delle due città è un'allusione alla Fenicia intera. Il riferimento alla «ca sa» serve ad illustrare la ressa della folla anche in terra pagana (v. a 2, r ) Ancora una volta questo particolare mette in evidenza il peso della rivelazione divina. Per lo «spirito impuro» v. a 1,2 3 . La postulante è descritta esplicitamente come non israelita, e ricorda 1 R e 1 7,9. 1 7· L'av verbio attenuativo «prima» nella risposta di Gesù (esso manca nel pa rallelo di Mt. 1 5,26) potrebbe essere un'aggiunta di Marco, che natu ralmente conosce già la realtà della missione posteriore fra i pagani. È molto più discutibile che egli abbi a introdotto l'espressione «siano sa ziati » come allusione alle due moltiplicazioni dei pani, dunque che ab bia formulato lui il v. 2 7a. L'uso giudaico di chiamare «cani» i pagani .
I 24
Mc. 7,3 1 -37.
Il miracolo della restituzione dell udito ai sordi '
è significativo solo indirettamente, perché il termine greco scelto in
questo caso è quello che indica i cani domestici, molto meno disprez zati; d'altra parte un altro animale domestico per l'immagine non era disponibile. L'appellativo «signore» (v. a I 1 ,3 ) ricorre in Marco e Q (Mt. 8 ,2) solo una volta in ciascuno, entrambe le volte come indiriz zo tipicamente pagano. Il giudeo dice rabbi, il pagano mari o marana (mio/nostro signore: v. a 1 2,3 5 -40, intr.). Anche in Mt. 8 , 5 - 1 3 una guarigione (a distanza) d i Gesù rompe la barriera fra Israele e il paga nesimo grazie a una fede straordinaria. Nei due casi l'interesse del rac conto sta proprio in questa rottura: infatti la guarigione non viene di mostrata né commentata con elogi e stup o re da un coro di persone, come sarebbe normale in base allo schema dei racconti di miracolo. Senza che compaia il termine, questo racconto illustra con il pro blema del rapporto tra giudei e pagani cosa sia la fede. La storia de scrive l'umiltà e la perseveranza di questa donna, che aspetta la mani festazione della grazia di Dio in Gesù e non vuole vedere altro che l'accettazione sperata. Viene così messo in chiaro che l'evangelo non esige nessuna precondizione. Non è l'adempimento della legge che sal va (7, 1 -23 ), ma il «cuore» che aspetta ogni cosa da Dio, in Gesù. Ciò non significa che la fede significhi salvezza, bensì l'accettazione di Ge sù, la quale allontana concretamente la distretta, in modo che la fede trovi il proprio compimento nell'esperienza. In questo brano l'essen ziale è dunque che ciò avvenga in Gesù, e non la questione se e come richiesta e guarigione abbiano avuto luogo nella vita terrena di Gesù. Il miracolo della restituzione dell'udito ai sordi, (cf. Mt. 1 5 ,29-3 1 )
7,3 1 - 3 7
3 1 Poi lasciò d i nuovo l a regione di Tiro e venne, passando per Sidone, al lago di Galilea, attraversando il territorio della Decapoli. 32 E gli portano un sordomuto e lo supplicano di volere imporgli la mano. 3 3 Allora lo allon tanò via dalla folla, da solo, gli mise le dita negli orecchi, sputò e gli toccò la lingua, 3 4 guardò in su verso il cielo e sospirò e gli dice: «Effata (che si gnifica: sii aperto !)». 35 E furono aperti i suoi orecchi e il nodo della sua lingua fu sciolto e parlava normalmente. 36 E ingiunse loro di non dirlo ad alcuno. Ma più egli ordinava loro ciò, ancora più essi lo proclamavano. 3 7 Ed erano stupiti oltre misura e dicevano: «Ha fatto ogni cosa bene e fa udire i sordi e parlare i muti».
Mc. 7,3 I - 37·
Il miracolo della restituzione dell'udito ai sordi
I25
7, 1 4 contiene l'appello: «Ascoltatemi tutti e capite ! » . Tuttavia gli stessi discepoli non avevano capito il superamento fondamentale della legge; è sintomatico che solo una pagana aveva fatto qualche passo in questa direzione. A questo punto Marco inserisce la guarigione di un sordomuto in termini che ricordano !s. 3 5 , 5 , ove si attendeva dalla fu tura era di salvezza che gli orecchi dei sordi si aprissero e gli occhi dei ciechi vedessero. G razie al semplice inserimento della storia a questo punto Marco ha dunque dato a una storia di miracolo della tradizione un senso completamente nuovo. A lui si deve la caratteristica indica zione dell'itinerario di Gesù (v. 3 1 ), l'ordine di osservare il segreto mes si ani co (v. a 1 ,3 4) con la sua relativa trasgressione (v. 3 6; v. a 1 ,4 5 ), men tre il v. 3 7 costituisce forse la chiusa originaria del racconto (o di una serie di storie di miracoli). 3 1 -3 7. L'itinerario descritto è fantastico: sarebbe un po' come anda re da Bologna a Firenze passando per Cesena e Perugia (v. a 5 , 1 ). For se lo scopo è di menzionare tutto il territorio straniero attorno alla Galilea a dimostrazione dell'apertura del messaggio a tutto il mondo pagano. Gesù opera nel segreto per mostrare che Dio non si esibisce come un istrione, ma agisce silenziosamente. A un sordomuto Gesù può parlare solo con gesti: così, anche in questo caso, rimane confermata la natura discorsiva, legata alla parola, delle sue guarigioni. Il sospiro di Gesù va inteso senza dubbio come in 1 ,41 (cf. ad loc. ). Per l'uso di pa role ebraiche o aramaiche (effata) v. a 5 ,4 1 . L'espressione «fu sciolto il nodo (lett. legame) della sua lingua)) rivela forse (come il sospiro del v. 34) una concezione primitiva della coercizione demonica. Il parlare del guarito è descritto in greco, a differenza dei singoli gesti descritti in precedenza, con la forma verbale dell'azione continuata. L'ordine di tacere (v. a 1 ,3 4) anche in questo caso è praticamente irrealizzabile: in fatti è subito trasgredito. Marco vuoi far capire che la rivelazione di Dio si fa strada con potenza senza che nulla possa fermarla, ma che la sensazionalità del miracolo e lo stupore relativo non sono ancora de terminanti. L'allusione al passo di Isaia (dal quale proviene probabil mente il termine p oco comune per «muto)) al v. 3 2, mogilalos, mentre al v. 3 7 si ha alalos) che viene anche riferito simbolicamente in Sap. 20, 2 1 ali' opera della Sapienza, fa presentire che il tempo della salvezza è imminente.
I
2.6
Mc.
8, 1 - 10. La potenza di Gesù che dà da mangiare ai quattromila
C osì, probabilmente, è stato interpretato il racconto già prima di Marco. Per lui, però, questo tempo di salvezza si adempie nella rivela zione di Dio, come avverrà «apertamente » (8,3 2) in 8, 3 1 . Ancora una volta stanno per susseguirsi il miracolo della moltiplicazione dei pani, l'ostilità dei farisei, l'incomprensione dei discepoli e il miracolo dell'a pertura degli occhi a un cieco ad opera di Gesù; poi si svelerà il miste ro di G esù e per il miracolo di Dio s'apriranno agli uomini gli orecchi, la bocca e gli occhi per il Dio che si rivelerà nella via dolorosa di Gesù. La potenza di Gesù che dà da mangiare ai quattromila, (cf. Mt. 1 5 , 3 2-39)
8, 1 - 1 0
1 In quei giorni, quando c'era di nuovo una gran folla e non avevano nulla da m angiare, chiamò a sé i discepoli e dice loro: 2 «Questa folla mi fa una gran pena, perché sono già stati tre interi giorni vicino a me e non hanno nulla da mangiare. 3 Se li mandassi digiuni alle loro case, svenirebbero per strada: e alcuni di loro sono venuti da lontano ! » . 4 E i suoi discepoli gli ri sposero: «Da dove potrebbe uno saziare di pane costoro, qui nel deserto ?». s Ed egli chiese loro: «Quanti pani avete ?». Ed essi dissero: «Sette». 6 Ed egli ordina alla folla di sistemarsi per terra; poi prese i sette pani, recitò la pre ghiera di ringraziamento, li spezzò e {li) dava ai suoi discepoli, perché li di stribuissero: ed essi li distribuirono alla folla. 7 Avevano anche un paio di pesciolini ed egli pronunciò la benedizione su loro e ordinò loro di distri buire anche questi. 8 E mangiarono e furono saziati, e raccolsero gli avanzi del pane: sette canestri. 9 Ed erano circa quattromila. Poi li congedò, 1 0 e subito salì in barca coi suoi discepoli e andò dalle parti di Dalmanuta.
Per la posizione di questo racconto nella struttura di Marco cf. intr. a 6, 3 2-44 e la chiusa del comm. a 7,3 1 -3 7. Il racconto è un doppione di 6,3 2-44. Anche qui troviamo la compassione di Gesù, il dialogo con i discepoli, il loro imbarazzo, la domanda di Gesù sul numero dei pani, la distribuzione ad opera dei discepoli dopo la benedizione e la frazio ne del pane, i pesci aggiunti in un secondo momento, la folla saziata, la raccolta degli avanzi, il congedo della folla e la traversata del lago. Dopo 6,3 2-44 è impensabile che i discepoli si dimostrino così scon certati (v. 4). È stato Marco che ha messo le due varianti di questo rac conto una dopo l'altra, e a lui interessa proprio questa impossibilità. Infatti gli serve per dimostrare l'assoluta e incomprensibile cecità del l'uomo all'azione di Dio.
Mc.
8 , 1 - 1 0. La potenza di
Gesù che dà da mangiare ai quattromila
I 27
I - I o.
Come di consueto, tempo e luogo non sono indicati con pre cisione. Marco dunque non tiene a mettere in evidenza che questo mi racolo sia accaduto in territorio pagano, l'altro invece in territorio giu daico. Perciò è anche improbabile che l'espressione «da lontano» al v. 3 (cf. Gios. 9,6; /s. 6o,4; Atti 2,39; Ef 2, 1 1 ss .) sia un accenno simboli co ai cristiani di origine pagana. I discepoli sono chiamati vicino a Ge sù con un'espressione prediletta di Marco, anche se qui non ha molto senso; ma è importante per Marco, perché egli deve mettere in eviden za la loro mancanza di comprensione. Il fatto che Gesù stesso prenda l'iniziativa rappresenta certo la forma più tarda del racconto rispetto a 6,3 5 s. Per la compassione di Gesù v. a 6,34. L'impressione della capa cità di Gesù di attirare le folle, nonché la gravità del problema, sono messe in particolare evidenza dalla menzione dei tre giorni. Le consi derazioni di Gesù, che senza dubbio sa già cosa sta per fare, appaiono artificiose da un punto di vista storico-psicologico, ma servono a met tere in luce l'impotenza e il disorientamento degli uomini. Finora non s'era ancora detto che la folla si trovasse in un deserto, ma lo si pre supponeva (cf. v. 4). A partire da 6, 3 2, dove appaiono, viene descritta l'ottusità dei discepoli. La domanda di Gesù ricalca alla lettera l'altro racconto; la descrizione della distribuzione, del pasto, della raccolta degli avanzi corrisponde quasi letteralmente a 6,3 8 -43 · L 'espressione «pronunciò la preghiera di ringraziamento, li spezzò e . . » è identica a quella di 1 Cor. I 1 ,24. La comunità che ha trasmesso questo racconto usava forse questa liturgia della cena, mentre quella che ha trasmesso 6,3 2-44 ne usava un'altra ? Le cifre sono diverse, sicché la moltiplica zione risulta un po' più piccola; mancano gli accenni all'erba verde e alla disposizione per gruppi; il ringraziamento al posto della benedi zione (cf. tuttavia il v. 7) corrisponde piuttosto all'uso ellenistico. I pe sci fanno evidentemente parte del nucleo costitutivo del racconto, ma sono menzionati solo in un secondo momento, perché prima avrebbe ro disturbato il parallelismo con la cena. Invece di «cesto» è usata una parola diversa da 6,4 3; che il «canestro» indichi veramente un reci piente più piccolo, come alcuni pensano, è discutibile: infatti è il ter mine usato anche in A tti 9,2 5 . Non si sa dove fosse Dalmanuta. Potreb be trattarsi di un errore di copiatura per Magdala (cf. M t. 1 5,39). .
In origine il racconto ha esaltato l'illimitata potente autorità di Ge sù. Certamente gli è stato ben presto associato un riferimento alla ce-
1 18
Mc.
8,1 1 - 1 3 . La richiesta di segni
na. Soltanto dopo aver letto 8, I 7-2 I diventa chiaro quale sia il messag gio teologico di Marco in questo racconto dopo quello di 6,3 2-44. La richiesta .di segni, 8,1 1 - 1 3 (cf. Mt. I 6, I -4 [1 2,3 8 s.; Le. 1 1,29])
Allora i farisei uscirono e cominciarono a disputare con lui, esigendo da lui un segno dal cielo, e lo tentavano in questo modo. 1 2 Ed egli sospirò nel proprio spirito e dice: «Ma perché questa generazione pretende un se gno ? Amen, vi dico: in nessun caso sarà dato un segno a .questa generazio ne ! » 1 3 E li lasciò dove stavano, s'imbarcò di nuovo e se ne andò via, sulla sponda opposta. 11
.
Già nella tradizione {v. a 6,3 2-44) il brano faceva parte del racconto della moltiplicazione dei pani, ma si adatta particolarmente bene ai fini di Marco perché documenta ancora una volta la cecità degli uo mini. Il nocciolo del brano è la parola di Gesù al v. I 2. Il detto è tra mandato anche in Q; per questa ragione Matteo lo riporta due volte (1 2,39; I 6,4). Luca, nel quale pure non c'è parallelo per tutta la sezio ne di Marco che va da 6, 4 5 a 8,27, ha in I I , I 6 le espressioni «tentare» e «segno dal cielo» come Mc. 8 , 1 1 , mentre la parola di Gesù viene solo in I 1 ,29, secondo la versione Q. In essa è promesso il segno di Giona e questa idea ha lasciato una traccia anche in Mt. I 6,4. La strana for mulazione marciana (letteralmente: «Se sarà dato a questa generazione un segno! ») significa forse che quella con Giona era la forma origina ria del testo. Va altresì notato che di solito si parla di «questa genera zione» quasi esclusivamente in opposizione a «Figlio dell'uomo>>, co me succede in Le. 1 I ,29 s. / Mt. 1 2,39 s. (v. ad loc. ). Senza dubbio il det to è giunto a Marco già riveduto, limato e abbreviato, perché non si capiva più il riferimento a Giona (come è confermato fra l'altro anche dal nuovo tentativo d'interpretazione di Mt. I 2,40). Ma già prima di Marco era collegato al racconto della moltiplicazione dei pani, perché Marco di regola non parla di «segni» (il termine si ritrova solo in I 3 , 4.22), ma di «opere potenti», mentre anche Gv. 6,3 0 parla «di segno» . I I - I J . Non è detto d a dove vengano i farisei. Diversamente d a 1 0,2; 1 2, 1 5, dove anche si parla di «tentare», qui non si tratta di una que stione polemica, del tipo di quelle che si dibattevano fra la comunità di Gesù e il giudaismo. La richiesta di un segno può solo essere accol ta o respinta. No n si tratta quindi di un problema particolare, ma del
Mc. 8,I4-2 t . La cecità dei discepoli
1 29
problema di fondo: che cosa sia la fede. «Cielo» potrebbe essere una perifrasi per Dio, ma è più probabile che si alluda a un segno che non avrebbe potuto essere dato da un qualsiasi taumaturgo: forse un pro digio cosmico di natura apocalittica. Una pretesa di questo genere è una «tentazione» . È vero che proprio Marco sottolinea fortemente l a corposità dell'agire d i Dio; ma egli sa che non appena viene preteso il segno, quando cioè la fede finisce per dipendere da una dimostrazione visibile, si è sulla via sbagliata (cf. excursus a 4,3 5 -4 1 ). Il «sospiro» di Gesù (v. 1 2 ) è ricordato qui come in 7,34 (v. a 1 ,4 1 ). L'espressione letterale usata in greco per il rifiuto (v. sopra) può essere spiegata im maginando che sia sottinteso qualcosa come «possa io essere dannato se ... », ma può anche essere interpretata come una domanda di questo tipo: «Dovrebbe forse ... ?». In apparenza, chi è impotente qui è Gesù; in realtà è lui che li abbandona, sicché essi rimangono indietro, privati della presenza di Dio. La parola originaria di Gesù (indipendentemente dal problema se la forma più antica sia quella di Marco o quella di Q) è un avvertimento a non farsi in anticipo un'immagine di Dio su cui misurare l'azione divina per poi stabilire, in base a tale misurazione, se qui effettivamen te Dio sia all'opera oppure no, prima di schierarsi con lui. La comuni tà che ha collegato questa parola con il racconto della moltiplicazione dei pani ha voluto fare una distinzione fra un segno liberamente dona to da Dio, tale da chiamare l'uomo a porsi delle domande e fortificare così la sua fede, e un segno preteso dall'uomo, che invece distrugge l a fede. Marco, infine, sottolinea ancora una volta, mediante l a colloca zione di questo passo nel piano generale del suo vangelo, la cecità de gli uomini che solo capiscono male il segno di Dio in Gesù, che non per mettono che Dio li chiami per mezzo di questo segno alla fede, e cer cano invece la sicurezza. Di fronte a tale atteggiamento, nell'ultima frase del racconto Marco accenna probabilmente già alla possibilità della «sequela»: la fede si realizza solo quando si sale nella barca con Gesù e non si rimane fermi sulla sponda sicura. La cecità dei discepoli, 8, 14-� 1 (cf. Mt. 1 6, 5 - 1 2) 14 Ora avevano dimenticato di prendere alcuni pani con sé e non avevano con sé, in barca, niente, al di fuori di un solo pane. 1 5 Ed egli li stava am maestrando: «Badate, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Ero -
I 3O
Mc. 8, 1 4-2 I La cecità dei discepoli •
de». 1 6 Ma essi discutevano fra di loro che non avevano pane. 1 7 Allo ra se ne accorse e dice loro: «Ma che state a discutere che non avete pane? Anco ra non comprendete e non capite? Avete il cuore indurito. 1 8 Avendo oc chi non vedete e avendo orecchi non udite. E non vi ricordate, 19 quando ho spezzato i cinque pani per i cinquem ila? quanti cesti pieni di avanzi ave te allora raccolto ?». Gli dicono: «Dodici» . - 20 «E quando (spezzai) i sette per i quattr om ila, da quanti canestri avete allora raccolto tutta quella gran quantità di avanzi di pane ?». E dicono: «Sette» 21 E diceva loro: «Ma con tinuate ancora a non capire?». .
18
/s. 6,9
s.;
Ger. s ,2 I ; Ez. 1 2,2.
Il brano è stato fortemente elaborato da Marco. Al v. I4 egli ri prende evidentemente dalla tradizione i dati sulla situazione perché il possesso di una pagnotta non sarebbe necessario per l'incomprensio ne accennata al v. 1 6; anche il v. I 5 contiene una parola che faceva già parte della tradizione: appare, infatti, anche in Le. r 2, I, in tutt'altro contesto, e la sua scelta come occasione per il fraintendimento espres so al v. I 6 è assolutamente illogica. Proprio questo fatto dimostra quanta importanza abbia per Marco l'incomprensione dei discepoli, psicologicamente inspiegabile. Se si esclude per un momento il v. I 5 , s i vede che il v . r 6 si ricollega molto meglio al v . I 4 e permette di identificare un episodio al cui centro c'è la preoccupazione dei disce poli per la mancanza di pane, e il rimprovero di Gesù per la loro poca fede: «Ma cosa state a discutere che non avete pane ? ... Ma non vi ri cordate ... ?». Introducendo qui l'avvertimento di Gesù (v. I 5), senza il quale il v. r 6 non avrebbe l'aspetto di un equivoco, e il severo giudizio dei vv. r 7b e r 8, Marco ha ancora una volta messo in risalto l'incom prensione dei discepoli. Il doppio riferimento alla moltiplicazione dei pani, possibile soltanto nel quadro della composizione del vangelo di Marco (v. a 8,r - r o), ribadisce ulteriormente l'idea. Va osservato che in questo brano Gesù adopera quasi esattamente le medesime espres sioni nel medesimo ordine in cui appaiono nei due racconti della mol tiplicazione dei pani, ad esempio anche i due diversi termini per «ce sto » : il che indica che è stato proprio Marco, il quale aveva presente i due racconti del miracolo uno accanto all'altro e ciascuno con la sua terminologia, a dare la loro forma a queste parole di Gesù. Ora pro prio questo carattere redazionale mostra l'importanza del brano per Marco. Esso caratterizza ancora una volta l'intera sezione IV: come le sezioni II (J, r -6) e I I I (6, 1 -6a) terminano con l'indurimento dei farisei
Mc. 8,14-.1 1 . La cecità dei
discepoli
I3I
e dei concittadini di Gesù, questa sezione IV termina con l'indurimen to degli stessi discepoli di Gesù. Si è raggiunto così il punto dove_ sol tanto il miracolo (accennato simbolicamente in 8,22-26) dell'autorive lazione di Gesù (8,27-3 2) può aprire gli occhi che non vedono. «Lievito» indica negli scritti rabbinici qualcosa di cattivo, specialmente l'impulso cattivo del peccato (cf. Lev. 2, I I ; 1 Cor. 5,7 s.). Forse c'è anche l'idea della sua natura contagiosa, che si diffonde (cf. Mt. I 3,33; Gal. 5 ,9; r Cor. 5,6). L'equivoco è quasi grottesco, ma ap punto per questo stringente. La congiunzione greca «che» (v. 16) può anche significare «perché». Forse la semplice e piana frase originale «ma essi si preoccupavano che (o: perché) non avevano pane» è muta ta per effetto dell'inserimento del v. 1 5 , sicché ora si potrebbe inten dere: «(che dicesse ciò) perché non avevano pane», oppure, come han no alcuni manoscritti: «(egli dice questo) perché non abbiamo pane» . A l centro si trova ora il rimprovero d i Gesù. Già dopo i l primo mira colo si era detto dei discepoli ( 6, 5 2, vedi ad loc. ) quel che prima, in 3,5, era valso per i farisei; nel nostro passo viene addirittura aggiunto quel che si era detto in 4, 1 2 a proposito di «quelli di fuori» che sono perduti; anzi c'è persino una maggiore severità: infatti, Dio non ha forse fatto tutto quello che poteva (fino a dar da mangiare a migliaia di persone), non si è forse adoperato in modo speciale per questi di scepoli che ora rimangono ottusi, ciechi c sordi ? A tal punto l'uomo è immerso nel mondo in cui vive e nelle sue preoccupazioni, che non ri esce a capire il linguaggio figurato di Dio se non nel suo senso lettera le e quindi non si lascia prendere da quella fede che sola gli consente di abbandonarsi a colui che egli non potrà mai afferrare con parole e concetti, ma solo sperimentare (v. 1 9 s.; cf. excursus a 4, 1 -9). È appun to la fede che si rende conto, dunque, che egli si trova pur sempre là dove sono «quelli di fuori»; solo il miracolo divino che si ripete sem pre di nuovo, e non la sua qualità, la distingue dall'incredulità. Una tale visione porta alla solidarietà della comunità con il « mondo» . 1 4-.1 I .
I l racconto termina dunque con una domanda che è rivolta anche al lettore. Se questa piccola storia in origine intendeva soltanto criticare la mancanza di fede e cercare di superarla ricordando il miracolo di Ge sù, Marco l'ha trasformato in una presentazione della totale cecità e sordità dell'uomo di fronte al linguaggio figurato di Dio, per ricorda-
I32
Mc.
8,14-2 1 . La cecità dei discepoli
così un altro miracolo, quello che dona la fede, al quale allude an cora una volta simbolicamente il brano successivo, prima che Gesù schiuda (8,3 1 ) il proprio cammino verso la croce e (8,34) la nuova pos sibilità della sequela. re
Parte quinta
La rivelazione di Gesù in parole piane e la sequela dei discepoli ( 8 ,22- 1 0, 5 2) Il miracolo dell'apertura degli occhi ai ciechi, 8,22-26 22 Vengono poi a Betsaida. E gli portano un cieco e lo supplicano che lo tocchi. 23 Allora prese la mano del cieco, lo condusse fuori del villaggio, sputò nei suoi occhi, gli impose le mani e gli chiedeva: «Vedi qualcosa?» 24 E quello alzò lo sguardo in su e diceva: «Vedo la gente, perché vedo muo versi in giro qualcosa come alberi» . 25 Allora nuovamente pose le mani sui suoi occhi e quello gettò uno sguardo acuto e fu ristabilito e vedeva tutto chiaramente. 26 Poi lo mandò a casa sua e diceva: «In paese non parlarne a nessuno!». .
Un breve racconto di miracolo, al quale Marco senza dubbio ha ag giunto solo la prima e l'ultima frase. L'intervento redazionale più si gnificativo è dunque l'inserimento a questo punto della storia quale momento di transizione a 8,27 ss. (v. a 6,3 2 -44 e 8, 1 4-2 1 ). Per i vv . 2224a il testo coincide in larga misura con quello di 7,3 2-3 4a; anche nella sostanza c'è corrispondenza nel prendere in disparte il malato, nei ge sti di circostanza, nello sputare e nel toccare gli organi malati, nell'or dine del silenzio. N on è più possibile dire se sia stato Marco ad armo nizzare stilisticamente i racconti ritoccando l'uno o l'altro, oppure se questa armonizzazione, come sembra p iù probabile, si sia andata for mando nel corso della tradizione, oppure ancora se in origine non ci sia stato che un unico racconto, che poi sia cresciuto ulteriormente in due forme molto diverse. 22-26. Betsaida (cf. 6,4 5) è una città (Le. 9, 10) e questo non collima coi vv. 2 3 - 26. Forse il racconto non aveva una indicazione topografi ca. Tuttavia Marco inizia tutti i brani della v parte con un'indicazione del genere (cf. la retrospettiva sulla struttura del vangelo). È la prima volta che si parla di un cieco. La guarigione per gradi è inconsueta e certamente non si vuole dire che essa si va compiendo solo gradual mente, in proporzione al livello di fede di volta in volta raggiunto. Pro-
I 34
Mc.
8,27-33· L'equivoco di Pietro
babilmente il racconto popolare vuoi semplicemente descrivere la dif ficoltà della guarigione e rendere più evidente la grandezza del mira colo. Per Marco, però, questo può diventare un'immagine del crescere della fede. Nell'ultimo versetto si insiste ancora una volta sul segreto messianico (v. a 1 ,34), ma non è certo che Marco abbia scritto quel che si le gge nella nostra traduzione, poiché alcuni buoni manoscritti han no: «N on entrare neppure in paese ! >>. Questa potrebbe essere una cor rezione determinata dall'uso qui della preposizione «in» (eis), che in dica solitamente moto a luogo, per significare lo stato in luogo («nel»). In questo caso avremmo ancora una volta un avvertimento a non so pravvalutare il miracolo come tale. Quel che colpisce in questo racconto è che venga riferito solo il fatto della guarigione e della vista così donata al cieco. N o n si parla affatto della reazione del guarito o di altri. Per Marco la guarigione rappresenta dunque un chiaro, estremo segno indicatore del miracolo di Dio che solo (in netto contrasto con il v. 1 8, che parla delle possi bilità degli uomini) può aprire gli occhi ai ciechi. Per questo motivo l'evangelista mette il brano subito prima del dialogo di Cesarea di Fi lippo nel quale Gesù svelerà «apertamente» il suo segreto. L'equivoco di Pietro, l'insegnamento di Gesù sulla sofferenza del Figlio dell'uomo e l ' i n c o mp r en s i on e dei discepoli, 8,27-3 3 (cf. Mt. 1 6, 1 3-23; Le. 9, 1 8-22)
27 Poi Gesù e i suoi discepoli uscirono nei villaggi di Cesarea di Filippo e lungo il cammino interrogava i suoi discepoli e diceva loro: «La gente , chi dice che io sia?». 2 8 Ed essi gli dissero: «Giovanni il Battista e altri Elia e altri uno dei profeti». 29 Poi chiedeva loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Allora rispose Pietro e gli dice: «Tu sei il messia ». 3 0 Allora li ammonì se veramente di non dire a nessuno di lui, 3 1 e cominciò a insegnare loro: «Il Figlio dell'uomo deve soffrire molte cose ed essere sconfessato dagli an ziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi ed essere ucciso e dopo tre giorni risuscitare ». 32 E diceva questa parola apertamente. Ma Pietro lo prese da parte e cominciò a redarguirlo severamente. 33 Ma egli si girò e guardò i suoi discepoli e rimproverò duramente Pietro e dice: «Torna là, lontano da m�, Satana! Perché non hai in mente i pensieri di Dio, ma quelli degli uo m i n i_ » .
. Mc. 8,27-3 3 .
L'equivoco di Pietro
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A rigor di logica si dovrebbe porre una cesura tra il v. 3 2a e il v. 3 2b (v. la retrospettiva sulla struttura del vangelo); eppure la pericope dei vv. 2 7-3 2a non possono essere letti con gli occhi di Marco senza i vv. 3 2b-3 3 . Per questa ragione qui vengono considerati insieme coi vv. 27 ss. Il v. 30 ricorda il «segreto messianico» (v. a 1 ,34) e dovrebbe essere di mano di Marco: per lui il titolo di Cristo è sì corretto (cf. già I, I ), ma senza i vv. 3 I e 3 4 è soggetto a equivoco. Anche il v. 3 I è introdot to con espressioni tipiche di Marco perché l'evangelista vi vede, come sottolinea ancora una volta mediante l'inizio del v. 3 2 (v. ad loc. ), il contenuto vero e proprio dell' «insegnamento» di Gesù (v. a I ,2 3 - 26, intr.). Le domande di Gesù (vv. 2 7 e 29) sono state forse, ma comun que già prima di Marco, riformulate sul modello dell'istruzione cate chetica cristiana. Si dovrebbe forse leggere nel v. 3 3 la risposta origina le al v. 29, perché il titolo di messia includeva l'attesa di un re naziona le ? Eppure, senza considerare l'incertezza di questa ipotesi, chi avreb be mai tramandato ad altri queste parole dopo pasqua, quando il tito lo di Cristo era dovunque ovvio ? Il v. 3 3 deve esser stato dunque con siderato, fin dall'inizio, la risposta al v. 3 2b. Ma allora si deve tener conto che a monte ci sia un avvenimento storico perché, nonostante le tensioni fra Pietro e Paolo (Gal. 2, I I ss.), Giacomo (menzionato pri ma di Pietro in Gal. 2,9; cf. Atti 2 I, I 8), o il «discepolo prediletto» ( Gv. 2 I ,20 ss.), nella comunità del I secolo non appare mai alcuna crociata contro Pietro; il v. 3 3 non può dunque aver avuto origine da una si tuazione di questo genere, ma deve essere parola di Gesù. Ma che cosa ha provocato il v. 3 2b ? Per il testo è stato l'annuncio della passione. lnvero non è immaginabile che sia uscito così dalla bocca di Gesù. Il totale sconcerto dei discepoli il venerdì santo e l'ostinazione del loro dubbio persino davanti alle apparizioni del Risorto sarebbero altri menti incomprensibili. Ma il v. 3 I non è certo omogeneo. «Soffrire» nel contesto attuale doveva essere riferito ai maltrattamenti di Gesù, quindi non poteva essere presentato prima che avvenisse il ripudio da parte delle autorità. Ora in tutti e tre gli annunci della passione si dice che il «Figlio dell'uomo» sarà «ucciso e dopo tre giorni risorgerà». I due avvenimenti non sono mai formulati in questa maniera in Marco (9,9 s. è solo una rimembranza di 8,3 I ), quindi la formula deve essere premarciana. Marco stesso interpreta ciò in 8,3 1 come «necessità» di vina; in 9,3 I ; I 0,3 3 ; I 4,2 1 .24 come «consegna» (fatta da Dio). Ma an che la formula premarciana non rappresenta lo stadio più antico. «Sof-
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Il Figlio dell'uomo
frire» è un'espressione giudaica comune che include anche il morire (cf. Le. 22, 1 5; Atti 1 ,3; Ebr. I J, I 2; 1 Pt. 4, 1 , ecc.); «soffrire ed essere rifiu tato» è evidentemente un'antica formula (Le. 1 7,2 5 ; Mc. 9, 1 2) che po trebbe risalire a Gesù. Allora Marco avrebbe integrato questa formula col detto, già entrato nella tradizione, della morte del Figlio dell'uo mo e della sua risurrezione dopo tre giorni e quindi formulato anche il secondo e terzo annuncio della passione. In tal caso Gesù si sarebbe aspettato un destino simile a quello dei profeti (v. a Mt. 23,3 7; Le. 1 3 , 3 3 ); «Figlio dell'uomo» potrebbe venire dall'antica formula o anche da Gesù stesso. lovero questa possibilità è fortemente contestata. Il Figlio dell'uomo. Questa espressione in ebraico o in aramaico indica semplicemente l'individuo (ad es. Sal. 8, 5). Essa appare per la prima volta nei vangeli in funzione di titolo con l'articolo determina tivo («il Figlio dell'uomo>>) e precisamente: a) nella descrizione di co lui che ritorna per il giudizio; b) di colui che soffre; c) del Gesù terre no in genere. Unica eccezione, al massimo, è il Libro delle parabole di Enoc (Hen. aeth. 3 7-7 1 ) nel quale il Figlio dell'uomo (con l'articolo) viene descritto come già seduto sul trono celeste e come colui che e serciterà in futuro la funzione di giudice: tuttavia questo scritto è una traduzione etiopica di una traduzione greca di un originale semitico, del quale non si conosce la data di composizione - a Qumran si sono trovati frammenti di tutti gli altri capitoli del Libro di Enoc, ma nean che uno del Libro delle parabole di Enoc. Ma anche come immagine il «Figlio dell'uomo» si trova solo in Dan. 7, 1 3 dove significa l'Israele innalzato a Dio, finalmente giustificato dopo una lunga sofferenza, che viene ritratto in sembianze di «uomo», mentre gli imperi sono raf figurati, al contrario, con animali. In 4 Esd. 1 3 ,3 ss. (opera scritta al più presto alla fine del 1 secolo d.C.) il «Figlio dell'uomo» serve anco ra quale figura per un salvatore che, alla fine dei tempi, sorge dal mare e annienta i suoi nemici. Per spiegare l'uso linguistico dei vangeli ci sono tre possibilità: 1 . il titolo potrebbe essere stato introdotto per la prima volta dalla comunità che aspettava l'arrivo del regno di Dio con il ritorno di Gesù nell 'immediato futuro: solo gradualmente essa a vrebbe poi chiamato così anche il Gesù terreno. Contro questa ipotesi sta il fatto che il titolo «Figlio dell'uomo» si trova soltanto in parole di G esù, ad eccezione di Atti 7, 5 6, dove però si doveva forse leggere, una volta, «Figlio di Dio» (Apoc. 1 , 1 3 è un'immagine anticotestamen-
Il Figlio dell'uomo
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t aria, senza articolo). Viceversa, «servo di Dio» appare solo in affer mazioni della comunità riguardanti Gesù; «Cristo>> oltre 500 volte co sì, ma praticamente mai in parole di Gesù. Per spiegare questo fatto si dovrebbe ricorrere all'ipotesi che certi profeti (in maniera analoga ad Apoc. 2, 1 ; cf. I , I J - I 6) abbiano parlato spesso, nella comunità primiti va, nel nome di Gesù della venuta del «Figlio dell'uomo» per il giudi zio, mentre predicatori e insegnanti avrebbero parlato piuttosto, in terza persona, del « Cristo» o del «Servo di Dio». 2. Prendendo come punto di partenza Mc. 8,3 8 e Le. 1 2,8 s., si può pensare, insieme con altri studiosi del Nuovo Testamento, che Gesù non avrebbe aspettato se stesso, bensì un'altra figura quale Figlio dell'uomo prossimo ad ap parire. Ciò sembra però molto improbabile. Affermazioni del tipo di Mt. 5 ,2 1 ss.; 1 I , I I ; Le. I I ,2o; 1 7,20 s. non fanno pensare che Gesù si sia considerato soltanto l'araldo di un «Figlio dell'uomo» ancora più grande. I suoi appelli alla sequela e il fatto che egli non faccia mai pre cedere, come un profeta, le sue parole dalla formula «così dice il Si gnore», dimostrano il contrario. Soprattutto, un'attesa di questo gene re cozza con la concezione di Gesù che il futuro già irrompa nel pre sente. Inoltre, la pasqua avrebbe dovuto indurre i discepoli ad aspetta re quell'altro personaggio, dopo che Dio aveva confermato il suo aral do (come, ad es., era avvenuto a Giovanni Battista secondo l'opinione della gente: Mc. 6, 1 4), ma non a identificare questo con quello. È so prattutto incredibile che Gesù, il quale evitava ogni coloritura apoca littica, abbia creato ex novo, per indicare la venuta di una figura cele ste, un titolo non ancora entrato nell'uso. 3· Perciò altri studiosi sug geriscono che il titolo vada spiegato come frutto del lavoro esegetico della comunità. Dan. 7, 1 3 avrebbe messo a disposizione una sorta di linguaggio figurato che sarebbe stato utilizzato in maniera diversa. Si milmente la comunità si sarebbe servita di Hen. aeth. 70 s. dapprima in un'ottica apologetica per spiegare la passione di Gesù per quanto riguardava sia la successiva glorificazione, collegando i testi enochici con Sal. I 1 0 (Mc. 1 4,62a) e, più tardi, con Zacc. I l, I O (v. a Mt. 24,3 0), sia il suo ritorno. M a, allora, perché mai «il Figlio dell'uomo» compa re soltanto in parole di Gesù ? 4· Se, pertanto, si suppone che l'uso del titolo risalga a Gesù stesso, allora è pensabile che con esso Gesù abbia indicato se stesso come colui che sarebbe ritornato per il giudizio. Contro tale ipotesi valgono molte delle cose dette già prima. In ag giunta si presenterebbe la difficoltà che egli avrebbe dovuto parlare,
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Il Figlio dell,uomo
allo stesso tempo, della propria morte e risurrezione quali presupposti del ritorno. Ora il discorso della morte e risurrezione di Gesù non è mai legato all'annuncio del ritorno, ma ne è sempre s eparato. 5 · Il profeta Ezechiele viene chiamato circa 87 volte «Figlio dell'uomo» . I n quanto tale egli deve, ripieno dello Spirito d i Dio (Ez. 2, 1 ss.; 3,24 s.; I 1 ,4 s.), essere la sentinella d'Israele (3, 1 7; 33 ,7 ) , ricevere nel proprio corpo la parola di Dio e rivolgerla al popolo (2,3 ss.), non solo con templare i peccati d'Israele (8,5 ss.), bensì vivere in mezzo a coloro che hanno occhi per vedere eppure non vedono, orecchi per udire ep pure non odono (1 2,2 s.), che parlano di lui, gli vanno dietro eppure non ubbidiscono alle sue parole (3 3,30 ss.) perché pensano che il giu dizio sia ancora lontano ( 1 2,27). Perciò la sua proclamazione diventa enigma e parabola ( 1 7,2; cf. 2 1 ,5). Così egli deve annunciare la sventu ra (6, 1 ss.), pronunciare il giudizio sui peccatori (20,3 s.; 2 2,2; 23,36) e addirittura ucciderli ( 1 1 ,4- 1 3 ; 2 1 , 1 9 ss.). Egli deve prendere su di sé privazione e sofferenza quale simbolo della tribolazione d'Israele (4,9 ss.; 5 , 1 ss.; 1 2,6. I I . I 7 ss.; 24, 1 6 ss.27). Ma gli è dato anche di annuncia re il buon pastore che verrà (34,23 ss.), la purificazione escatologica mediante lo Spirito (3 6, 1 7 ss .), la «risurrezione dei morti» (3 7, 1 ss.: in Ezechiele è metafora, che più tardi sarà tuttavia intesa letteralmente) e la gloria futura (40,4; 43 ,7. 1 0; 47,6), anzi avviare risurrezione e giudi zio universale (3 7,9 s.; cf. 1 5 ss.; 39, 1 7 ss.). Gesù potrebbe, parlando per primo del «Figlio dell'uomo» (con l'articolo), aver ripreso l'imma gine di Dan. 7, 1 3 e averle data al contempo un'impronta totalmente nuova anche alla luce concomitante dei suddetti passi di Ezechiele, nei quali, certamente «Figlio dell'uomo» non è un titolo, ma un appellati vo, un'apostrofe. Proprio perché questo non era affatto un titolo dai contorni già definiti dall'uso Gesù se ne sarebbe servito per porre la domanda circa la sua opera e il suo destino, senza darle una risposta con una formula dogmatica che andava soltanto accettata. Allora pro prio le parole che parlano del Figlio dell'uomo terreno sarebbero le più originali. Di fatto ricorre frequentemente l'espressione relativa al «Figlio dell'uomo>> che «viene consegnato» e il modo tipico di Gesù di chiamare «questa generazione» i destinatari del suo appello al rav vedimento è associato spesso col «Figlio dell'uomo». Con questo com plesso ideale si sarebbe poi congiunta, in Gesù, l'attesa del destino del giusto sofferente. Ciò è quasi naturale. Infatti che la via di colui che è ubbidiente a Dio porti alla sofferenza e alla morte è, fin da /s. 5 J , quan-
Il
Figlio dell'uomo
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to l'israelita si aspetta. Anche la speranza dell'elevazione a Dio (/s. 5 2, 1 3 . 1 5 ; 5 3 , 1 2) e il ruolo nel giudizio erano del tutto naturali (Iub. 4,23 ; 1 0, 1 7; Bar. syr. 1 3 ,3; soprattutto Sap. 2, 1 0-20; 4,7. 1 0. 1 6; 5 , 1 - 5 dove il cammino di Gesù è tracciato fin nei particolari). Al momento è impossibile un giudizio sicuro. Se l'ultima ipotesi dovesse rivelarsi fondata, allora Gesù avrebbe inteso la propria vita quale compimento definitivo delle sofferenze d'Israele, dei suoi profe ti e dei suoi giusti. Se nella via del giusto sofferente era implicita anche la sua parte futura nel giudizio, Gesù non si è considerato solo come uno fra molti (come in Sap. 5, I- 5 ) , ma come il testimone che da solo prenderà posizione nel giudizio finale pro o contro quelli che hanno accolto o respinto il suo appello, decidendo così il giudizio (Mc. 8,3 8; v. ad loc. ). Più tardi, dopo pasqua, Gesù è stato poi collocato sempre più al posto del giudice stesso (cf. Rom. 2,3 - 1 1 ; 1 4, 1 0 con 2 Cor. 5 , 1 o; anche 1 Cor. 4,4 e 5 ) , tanto che invece di parlare della venuta del regno di Dio (Mc. 9, 1; Le. 22, 1 8) o di Dio che viene a giudicare (come nel l' Antico Testamento), si prese a parlare della venuta del Figlio dell'uo mo. È probabile che questa concezione sia stata poi ripresa da gruppi apocalittici del giudaismo, e applicata al messia giudaico (Hen. aeth. 46, 1 ss.; 48,2 ss.; 62,2 ss.; 69,27 ss.; 4 Esd. 1 3 ,3 ss.), come, d'altra parte, i cristiani adoperavano espressioni e concezioni giudaiche per le loro affermazioni. In sostanza la comunità non ha detto nulla di diverso da quello che Gesù aveva affermato: infatti, anche secondo la sua parola, la testimonianza del Figlio dell'uomo era decisiva per l'esito del giudi zio. Anzi l'affermazione che l'atteggiamento degli uomini verso il mes saggio e le opere di Gesù avrebbe deciso ora del regno di Dio, sicché non era più possibile rimandare il sì o il no, la fede o il rifiuto, è cen trale per Gesù. In questo senso, secondo il v. 3 8, la condotta attuale degli uomini sarà presente nel giudizio finale. In questo senso, il Dio che giudica nell'ultimo giorno non sarà, di fatto, altri che il Figlio del l'uomo, che ora sta già davanti a loro. Caratteristico, in ogni caso, è che G esù non si equipari né ai profeti né ai giusti né ai maestri dell'Antico Testamento, ma consideri la sua via fondamentalmente distinta da tutte le altre. Infatti egli non si fa neanche mettere sullo stesso piano di personaggi come quelli ricordati in Atti 5,36 s., già perché altrimenti i romani sarebbero intervenuti molto più rapidamente e il processo non sarebbe stato più necessario. Il titolo di «Figlio dell'uomo» è dunque al tempo stesso titolo di umil-
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Mc.
8,27-3 3. L'equivoco di Pietro
tà e di sovranità. Proprio come in Ezechiele, ma nel compimento della fine dei tempi, il titolo descriverebbe il ministero della sofferenza che viene esercitato per incarico di Dio con autorità e potenza e davanti al quale si deciderà un giorno fra salvezza e perdizione. Esattamente co me per il giusto sofferente, ancora una volta però nel compimento fi naie, è proprio l'umiliato e il rigettato dagli uomini che un giorno, in nalzato presso Dio, sederà in giudizio di fronte a coloro che lo avran no accettato o respinto. Bisogna pertanto prendere in seria considera zione la possibilità che Mc. 8,27-3 3 riferisca un avvenimento della vita di Gesù in termini sostanzialmente esatti. 2.7-2.9·3 1 . L'indicazione della località manca nel vangelo di Luca (che omette del tutto Mc. 6,4 5 -8,2 7a). Per Luca la scena si svolge quindi a Betsaida (Le. 9, 1 0. 1 8). L'indicazione è inattesa: non si tratta di nessu na delle località note, ma neppure è un riferimento generico a una re gione. Pure si tratta di un luogo quanto mai appropriato: secondo le fonti rabbiniche passa di qui il confine fra la terra santa e il territorio pagano. Si tratta dunque di decidere qui se Gesù debba abbandonare Israele oppure, al contrario, mettersi sulla strada pericolosa che va a G erusalemme. Presumibilmente l'indicazione toponomastica appartie ne alla tradizione; non si riesce a trovare alcun motivo per cui l'evan gelista avrebbe dovuto introdurla di propria iniziativa. Per il v. 28 cf. 6, 1 5 . La «gente» attribuisce a Gesù i titoli più elevati; più alti di così non ce ne sono, eppure non bastano. Con le parole «Ma voi ... », Gesù distingue i suoi discepoli dalla «gente» (v. al v. 3 3 ), trasformando una discussione non impegnativa in un dialogo nel quale essi devono assu mersi la responsabilità di quello che dicono. Un'autentica professione di fede avviene dunque in questo modo: l'uomo è interpellato e cerca di esprimere, con nuove, coraggiose formulazioni, ciò di cui vive; non si tratta dunque di un'asserzione ponderata, elaborata in tutta tran quillità. Secondo Ev. Thom. 1 3, Pietro avrebbe chiamato Gesù «ange lo giusto», e Matteo l'avrebbe definito «filosofo». Qui però Pietro lo confessa con il nome, consacrato dall'Antico Testamento, di «unto» (in ebraico, messia; in greco, cristo). Questa figura era anche oggetto dell'attesa dei fedeli di Qumran, certamente secondo Zacc. 4 , 1 4, nella duplice figura di sacerdote e di re. Il titolo vuoi dire dunque che Gesù è quel che Israele ha aspettato per secoli; ma la via di Gesù è così nuo va e inconsueta, che l'antico linguaggio non basta più. Così Gesù stes-
Mc.
8,27-33· L'equivoco di Pietro
14I
so conia un termine nuovo, «Figlio dell'uomo» (v. sopra e al v . 3 8). Così si compie dunque la rivelazione divina: soccombe proprio colui del quale la gente dice: è il profeta, è l'Elia che doveva venire, è il messia. Questa prospettiva è ancora sottolineata dalla comunità con la menzione degli autori della condanna (cf. excursus a I ,2 I -28) La reie zione del Figlio dell'uomo non sarà dunque un incidente di percorso, ma un «no» consapevole e meditato alla sua persona. Il mondo respin ge Dio in modo così radicale che fa pronunciare il suo rifiuto proprio dall'autorità ecclesiastica ordinaria. Non è data alcuna «spiegazione» di questa sofferenza (v. a I 0,4 5); ma la santità di Dio è l'opposto del l' agire del mondo in misura tale, che la passione di Gesù è inevitabile. 30-33· Poiché il titolo di messia ( = Cristo) è già da tempo corrente nella comunità, M arco può spiegare la risposta di Gesù (il quale usa al v. 3 1 un titolo diverso) solo nel senso della sua teoria del « segreto mes sianico» (v. 30; v. a I ,3 4). Il verbo che è stato tradotto « ammonì seve ramente» (v. 3 0) può significare anche «sgridare, rimproverare, redar guire» o «minacciare» (vv. 3 2. 3 3 ; come in 1 , 2 5 ; 3 , 1 2; 4,39; 9,2 5 ; IO, I J . 48). Durante tutto il suo ministero Gesù ha evitato l'uso d el titolo « Cri sto». Ma dopo pasqua la confessione «Gesù Cristo» includeva che una persona crocifissa sia questo messia, sicché ogni idea di un glorioso re nazionale era esclusa. Con la teoria del segreto messianico Marco do vrebbe aver appunto colto proprio ciò che tratteneva Gesù dall'usare egli stesso quel titolo: evitare che si riprendesse semplicemente un'e spressione tradizionale e si etichettasse con essa Gesù, sfuggendo così ad un incontro senza prevenzioni. Quando uno sa di discutere con un ecclesiastico e ha un'idea errata degli uomini di chiesa, spesso non rie sce a prestare veramente ascolto al suo interlocutore. Viceversa può accadere che conversando con uno sconosciuto egli riceva un'impres sione veramente profonda ed esclami poi: «Questo è veramente un pastore ! » . Ma allora il titolo ha tutto un altro tono. Perciò secondo Marco deve prima accadere quel che è annunciato al v. 3 I, e solo dopo chi incontra colui che è il crocifisso e risorto può cercare di ripetere ad altri, da testimone, nel proprio linguaggio, che è il linguaggio della comunità, quanto è avvenuto. Marco sottolinea l'importanza di que sto avvenimento quando definisce espressamente ciò che è detto al v. 3 I : «insegnamento» di Gesù (v. a 1 ,2 1 s.), ma soprattutto quando ag giunge che Gesù « faceva questo discorso apertamente» . Una formula-
I 42
Mc.
8,34-9, 1. Seguire Gesù
zione analoga segnò in 2,2 l'inizio della controversia sulla legge, e in 4, 3 3 la conclusione del discorso in parabole. Ma mentre in quel passo si legge che Gesù poteva parlare di Dio solo sotto metafora perché un altro modo di parlare non sarebbe stato capito, adesso la fine di ogni linguaggio figurato è indicata con un modo aperto, non cifrato di parlare di Dio. Ma come suona questo discorso piano su Dio ? «Il Fi glio dell'uomo deve soffrire molte cose ed essere riprovato»: Dio è Dio in quanto fa quel che l'uomo non può fare: lasciarsi respingere, abbassarsi e farsi piccolo, senza lasciarsi prendere da un complesso di inferiorità che sarebbe in realtà una prova del desiderio opposto, del l' aspirazione a una maggiore grandezza. Chi capisce la passione del Figlio dell'uomo ha capito Dio; è in quella, non nello splendore cele ste, che egli può vedere il cuore di Dio. Dopo 4,3 5 G esù portò i suoi discepoli via dalla folla e andò con loro nella tempesta, così da far sor gere la domanda: « Chi è questi ... ?» (4,4 1 ). Ora Gesù, lontano dalla fol la, ha chiesto ai suoi discepoli: «Chi sono ?». La risposta di Pietro, no nostante la sua ortodossia, ha dimostrato che l'apostolo non è più avanti dei demoni, i quali avevano già dato ( 3 , 1 1; 5,7), ma ancora me glio, la medesima risposta, e che quindi i discepoli (che il v. 3 3 a asso cia a Pietro; v. a 14, 3 7) fanno parte, come tutti gli altri, del mondo «degli uomini», non del mondo «di Dio». Questo distingue Marco dalla setta di Qumran o da altri gruppi apocalittici che consideravano se stessi l'eccezione, i pochi eletti separati dal mondo. Per Marco l'abisso fra Dio e l'uomo è superato solo se avviene quel che il v. 3 1 annuncia e se il Figlio dell'uomo, rigettato e ucciso, nella potenza della sua risurrezione trascina uomini alla sequela e apre loro il cuore per il cammino di Dio verso di loro. Perciò l'invito dei vv. 3 4 s s . è rivolto a tutti, non solo ai dodici. Quello che per Marco è i l cen tro dell'evangelo è qui formulato in modo completamente diverso da quanto Paolo scrive in 1 Cor. I , 1 8-2,9, ma è molto simile, nella so stanza, alla posizione dell'apostolo in questo passo. Seguire Gesù, 8,3 4-9,1 {cf. Mt. 1 6,24-28;
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9,2 3-27)
34 Ed egli chiamò a sé la folla insieme coi suoi discepoli e disse loro: «Se uno vuoi venirmi dietro, rinneghi se stesso e prenda la sua croce e mi se gua. 3 5 Chi infatti vuoi salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
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8,34-9,1. Seguire Gesù
143
sua vita per causa mia o dell'evangelo, la salverà. 36 Che giova, infatti, a un uomo guadagnare tutto il mondo e perdere la propria vita? 37 Perché che cosa potrebbe dare l'uomo quale controvalore per la propria vita? 38 Chi infatti si vergogna di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nel la gloria del Padre suo con i santi angeli» . 9 1 E diceva loro: «In verità vi dico, vi sono alcuni dei presenti che non assaggeranno la morte fino a che non abbiano visto il regno di Dio venire in potenza». Questo brano unisce cinque detti di Gesù, secondo una disposizio ne senza dubbio avvenuta nel corso del tempo. I primi due detti ap paiono anche in Mt. I O,J 8 s. in forma un po' diversa; in Luca, invece, sono separati ( I 4,27 e I 7,3 3); in entrambi i casi (e anche in Ev. Thom. 5 5 ) il primo detto è unito alla parola sull'odiare (ovvero amare meno) padre e madre; il quarto detto (v. 3 8) si trova in Mt. I0,3 3 (v. ad loc. ) e Le. I 2,9. La combinazione del preannuncio della passione (v. 3 1) e dell'appello alla sequela (v. 34) e alla salvezza della vera vita (v. 3 5) de ve essersi prodotta già molto tempo prima di Marco, perché si trova anche in Gv. I 2,24-26, benché i singoli detti in Giovanni abbiano as sunto una forma molto diversa. La combinazione potrebbe risalire a Gesù stesso. L'introduzione del v. 34 è, invero, tipicamente marciana. Tuttavia anche in 3,23 Marco ha inserito una formula analoga in un complesso preesistente. La forma originaria del v. 34 non può essere ripristinata con sicurezza. La presenza in una stessa fras e delle espres sioni «venire dietro a me» e «mi segua» non è possibile nella lingua di Gesù. Mt. I0,3 8 ha certamente conservato meglio la forma primitiva. Ci si può domandare se Gesù non abbia parlato unicamente di «rinne gare se stesso», e la comunità non abbia poi, morto Gesù, illustrato l'esortazione con l'immagine della croce. Ma la pena della crocifissio ne era abbastanza diffusa e l'immagine del condannato che prende la propria croce e con quella percorre la via che lo porta al luogo dell'e secuzione è così pregnante che può ben risalire a Gesù. Tuttavia ciò rimane dubbio, specialmente perché prima della crocifissione di Gesù normalmente l'immagine della croce implicava quella di un malfatto re, e comunque non ci sono paralleli giudaici dell'epoca di Gesù. Il detto successivo è tramandato in quattro forme: a) Mc. 8,3 5; b) Mt. 10,39; c) Le. I 7,3 3 ; d) Gv. 1 2,2 5 . La prima (a) potrebbe essere la più antica; l'aggiunta «e dell'evangelo» è certamente marciana; Marco vuole precisare, giustamente, che il detto vale, naturalmente, anche
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Mc.
8,34-9,1. Seguire Gesù
dopo la morte di Gesù. Probabilmente, però, anche il «per causa mia» è un'aggiunta esplicativa avvenuta nel corso della tradizione, poiché manca nella terza (c) e quarta (d) forma. Gesù avrebbe detto «a moti vo del regno di Dio» (Le. r 8 , 2 9; v. a Mc. 1 0,29); tuttavia una precisa zione di questo genere non era affatto necessaria per i discepoli che erano già in cammino assieme a Gesù. Il v. 36 è stato forse, un tempo, un proverbio che diceva come a nulla servisse tutta la ricchezza quan do arriva la morte. Più difficile è il v. 3 8. La frasetta finale manca nei paralleli (Mt. 1 0,3 3 e Le. 1 2,9) . In nessun altro passo sono associati nel medesimo contesto «il Figlio dell'uomo» e «il Figlio di Dio» (ovvero Dio «il Padre»), mentre si hanno invece insieme «il Figlio dell'uomo» e gli «angeli» (v. a r 3,3 2 ) . Per contro si trova la triade Padre, Figlio e santi angeli (ancora più chiaramente in Le. 9, 2 6) anche in 1 Tim. 5 ,2 1 ; cf. 1 Tess. 3 , 1 3 ; Apoc. 1 ,4 s . (i sette «spiriti» stanno [4, 5] davanti al tro no di Dio come gli «angeli» [8,2], benché per l'autore rappresentino lo Spirito santo). L'associazione è evidentemente tipica per una comuni tà orientata in senso apocalittico. Il v. 3 8 (fine) è dunque una spiega zione della comunità e Le. 1 2,8 s. va considerata certamente la forma più antica del logion. La singolare distinzione tra «io» e «il Figlio del l'uomo» andrà attribuita a Gesù stesso, perché per la comunità era na turale l'identificazione (cf. excursus sul Figlio dell'uomo, 2 e 5). 8,J4-9, 1 . Marco sottolinea che quanto segue riguarda tutti, non soltanto un gruppo particolare. Il v. 33 ha anzi appunto mostrato co me sia difficile separare la schiera dei discepoli dal mondo. Allo stesso tempo il v. 33 mostra quanto siano importanti per Marco queste paro le nelle quali si arriva, per la prima volta, alla giusta comprensione del v. 3 r . L e. 1 4,27 parla per primo di portare la croce: l'antica immagine descrive colui che considera la propria vita perduta ed entra concre tamente nella morte. Ma anche il rinnegamento di se stessi non è altro che questo. «Rinnegare » in Mc. 1 4,71 s. significa «non conosco quel l'uomo»; il verbo denota quindi una libertà da se stessi e da tutte le si curezze, che si chiamino ricchezza terrena o diritto a una ricompensa celeste, nella quale non si vuole più conoscere il proprio io: una liber tà che è possibile soltanto per chi si abbandona completamente a Dio . Paolo chiama tale condizione crocifissione della carne nella vita del lo Spirito (Gal. 5,24 s.); Giovanni la nascita dall'alto, non dalla carne (Gv. 3 , 5 s.). Qualcosa del genere avvenne in parte quando i discepoli
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8,J4-9,1. Seguire Gesù
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lasciarono barca, famiglia e banco della gabella, consentendo al dono dell'invito a vivere seguendo Gesù. Soltanto con tale atteggiamento si possono dunque comprendere le parole piane con cui si parla aperta mente di Dio (v. 3 I s.). Secondo il v. 3 5 nella sequela di Gesù appare dunque un rovesciamento dei valori: affermare se stessi porta alla perdita, rinunciare a sé porta al guadagno della «vita» . La parola greca psyche, come il suo equivalente semitico, significa sia «anima» sia «vi ta» . È dunque chiaro che non si può semplicisticamente separare la vi ta «naturale» e la vita «religiosa». La vera vita, anche in senso terreno e naturale, si trova solo nel dono di se stessi. Proprio chi se la vuole tenere spasmodicamente stretta per sé solo, perde la possibilità di un'autentica vita che renda felici. La vita, nel senso in cui l'ha conce pita il Creatore, si può trovare solo nella dedizione; solo così essa è una vita libera, svincolata, aperta, alla quale Dio e il prossimo hanno accesso. Una vita di questo genere non cessa con la morte perché ap partiene già a Dio e perché egli la proteggerà attraverso ogni morte (cf. excursus a 5 ,2 1 -4 3 ). Lo ha già indicato la fine del v. 3 1 . Questo non vuoi dire che con l'ascesi si dovrebbe barattare un b ene superiore, una vita eterna, come affermano paralleli sia giudaici sia greci. A que sto modo, l'uomo continuerebbe ancora a tenersi stretta la sua vita pre sente e la sua felicità futura. Quel che si intende, qui, è una vita nella sequela, possibile solo dietro a colui che ha dato la sua vita per tutti; una vita, quindi, in cui Gesù è diventato il centro a tal punto che non sono più le situazioni esteriori, di prestigio o di abbassamento (cf. Fil. 4, I 2), a determinare l'uomo, perché, orientato verso il nome di Dio, il regno di Dio, la volontà di Dio, egli è diventato libero da se stesso. Nel presente contesto il v. 36 sottolinea il principio del v. 3 5: chi si preoccupa di spuntarla ad ogni costo, può forse conquistare il mondo; tuttavia finirà per perdere se stesso e l 'occasione d 'una vita vissuta nella sua pienezza. Ma nulla potrà più ovviare a questa perdita. Gesù non aspetta un «Figlio dell'uomo» diverso da se stesso: per la questio ne cf. excursus sul «Figlio dell'uomo» (2) a 8,27-3 3 . L'accostamento tra «io» e «Figlio d eli 'uomo» al v. 3 8 sottolinea che la decisione degli ascoltatori rispetto all'uomo Gesù che sta dinanzi a loro decide già il giudizio finale, giudizio del quale Gesù parla con una terminologia sobria, che espone obiettivamente la sua funzione. Allo stesso modo anche Paolo in 2 Cor. I 2,2 passa direttamente alla terza persona e parla di «un uomo» (che in aramaico suonerebbe «Figlio dell'uomo»)
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8,34-9,1. Seguire Gesù
quando vuole significare un'esperienza divinamente misteriosa, oppu re si serve del linguaggio obiettivo delle citazioni dell'Antico Testa mento per annunciare il giudizio dell'ira di Dio il giorno del giudizio universale (Rom. 2,6; I I ,8- I O, ecc.). Il «Figlio dell 'uomo» viene distin to nettamente da «questa generazione», dall'umanità che non serve più Dio (v. a 8,27-33, intr.). Mediante la formula marciana «e diceva loro» (9, I ) viene aggiunto un detto sulla vicinanza del regno di Dio che viene. Il nesso non è originario, perché qui si parla della venuta del regno di Dio con potenza, non della venuta del Figlio dell 'uomo; tuttavia Marco ha naturalmente in mente sempre il giudizio descritto prima (8,3 8). Poiché «assaggiare la morte» è spesso sinonimo di «mo rire», il detto non può significare altro che ci si aspettava la venuta della fine del mondo durante la vita di alcuni dei contemporanei di Gesù. Si calcola, dunque, che fra la morte di Gesù e la fine intercorra un lasso, ovviamente breve, di tempo. Che questa idea risalga a Gesù, è dubbio perché egli rifiuta espressamente ogni specie di calcolo (Le. 1 7,20 s.; cf. Mc. 1 3 ,32); essa può avere avuto origine nella comunità che cercava di vincere l'impazienza crescente affermando la prossimi tà del momento atteso. Questo pone alcuni problemi perché le cos e non sono andate così, ma chi conta veramente sulla venuta finale di Dio non può rimandarla all'infinito, come se non fosse cosa da pren dersi tanto sul serio. È per questa ragione che anche i profeti hanno sempre visto il giorno del Signore nel futuro immediato e in stretta relazione con gli avvenimenti della storia contemporanea, un po' co me noi, guardando da un punto panoramico, vediamo le catene di mon ti, che spesso distano molti chilometri l'una dall'altra, come se fossero tutte accavallate le une sulle altre. Gesù però non parla con la formu lazione di 9, I , ma spiega che l'evento futuro si decide adesso, quando la parola di Gesù raggiunge l'uomo ( 8,3 8). Il senso di 9, I è il medesi mo: l'uomo non deve ingannarsi riguardo alla vicinanza incalzante di Dio. Solo che la forma dell'enunciato rispondente a quell'epoca non può essere ripetuta oggi tale e quale. Uno sguardo retrospettivo a 8,27-9, 1 mostra che già Gesù contrap poneva la sofferenza del Figlio dell'uomo all'attesa di Pietro e respin geva con estrema energia l'idea di eluderla. Ha capito Gesù soltanto chi si lascia chiamare da lui alla sequela e in tale situazione impara a trovare la propria vita autentica nel dono di sé. Questo «sÌ» a Gesù di-
Mc.
9,2-8. La risposta di Dio
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venterà presente nel giudizio futuro, quando Dio manterrà la sua pro messa di là della morte terrena e diventerà realtà la vera vita di chi ha fatto dono della propria al seguito di Gesù. La comunità ha talora il lustrato quella vicinanza di Dio, annunciata anche da Gesù, che incal za l'uomo e gli viene incontro, rappresentata con l'immagine del Fi glio dell'uomo che sta per venire molto presto (v. 3 8c); s oprattutto es sa ha chiarito ancora di più che solo sul fondamento della morte di Ge sù in croce si può «prendere la croce» e diventare discepoli di Cristo. Marco, infine, ha sottolineato l'importanza suprema di queste parole che sono al centro del suo libro, dichiarando che erano «insegnamen to aperto» di Gesù in contrasto con il linguaggio metaforico usato fino a quel momento, e così ne ha messo in evidenza la validità per tutto il mondo. Egli esprime in questa maniera che solo nella sofferen za del Figlio dell'uomo e nel discepolato consapevole degli uomini si trova il compimento di tutte le attese, anche di quelle incluse nel titolo di « Cristo» (8,27-29). La r i spo s t a di Dio all'esplicito annuncio della sofferenza de l F i gl i o de ll' uomo, 9,.1-8 (cf. Mt. 1 7, 1 -8; Le. 9, 28- 3 6) 2 Dopo sei giorni Gesù prende Pietro e Giacomo e Giovanni con sé e Ii guida su una montagna alta, da soli, in d isparte. 3 E fu trasfi gurato davanti a loro, e i suoi vestiti divennero splendenti, straordinariamente bianchi, co me nessun tintore sulla terra può sbiancarli così. 4 Allora apparve loro Elia con Mosè e si intrattenevano con Gesù. s E Pietro rispose e dice a Gesù: «Rabbi, è buona cosa che noi siamo qui; adesso facciamo tre capanne: una per te e una per Mosè e una per Elia». 6 Infatti non sapeva che cosa rispon desse; perché erano stati presi da grande panico. 7 Allora venne una nuvo la che li adombrò e venne una voce dalla nuvola: «Questo è il figlio mio di letto: ascoltatelo!». 8 E in un baleno, quando si guardarono intorno, non videro più nessuno, ma soltanto Gesù, solo con loro.
7 Sal. 2,7; /s. 42,1 ; Deut. 1 8, 1 5 ·
Dietro questo racconto potrebbe esserci un'apparizione del Risorto (ad es. quella a Pietro: 1 Cor. 1 5 , 5 ). 2 Pt. I , I 6- I 8 parla inoltre di «ono re e gloria» che Gesù avrebbe ricevuto e l' «alta montagna» (2 Pt. 1 , 1 8 : «il sacro monte») s i trova anche i n Mt. 2 8, 1 6. I sei giorni (v. 2 ) potreb bero essersi riferiti, una volta, alla morte di Gesù o a una prima appa rizione. Che di fatto lo stesso Marco abbia trasferito a questo punto
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Mc. 9,�-8. La risposta di Dio
del vangelo una storia di pasqua non è credibile, già in base a 8,3 1 (fi ne). D'altra parte nessuna storia di pasqua parla di una voce divina, di accompagnatori celesti e di una visibile gloria di Gesù. Viceversa man ca qui una parola di Gesù, come si trova invece in ogni racconto pa squale, e manca anche qualsiasi riferimento alla morte e alla risurre zione. Inoltre non si ha notizia di un'apparizione di Gesù davanti a tre discepoli. Un'esperienza storica del gruppo dei discepoli in occa sione della festa delle capanne, quando si costruivano capanne di fra sche in memoria del tempo del soggiorno nel deserto, non è neanche molto credibile. Piuttosto la storia rappresentava a tinte apocalittiche, con riferimento al v. 1 , una «intronizzazione» di Gesù con la conces sione della vita divina, la presentazione agli esseri celesti e il trasferi mento definitivo dei poteri sovrani (vv 3 ·4·7), dunque una sorta di anticipazione della sua risurrezione quale elevazione al soglio della definitiva signoria celeste. Alcuni particolari della descrizione sono affini a visioni giudaiche della fine. Qualunque possa essere l'origine della storia, Marco la usa comunque per sottolineare l'importanza de cisiva di «ascoltare» Gesù (v. 7). Col v. 6 Marco contrappone inoltre alla follia di ogni brama di miracoli, che sogna già la presenza della gloria a venire, l'insegnamento di Gesù (8,3 1 -9, 1 ) che per lui è l'unica cosa centrale. Infatti è del tutto inverosimile che l'episodio rappresen ti una polemica diretta, in origine, contro un culto sui luoghi delle ap p arizioni del Risorto. La formulazione con il «con» (Elia con Mosè) è anche tipica di Marco (4, 10; 8,34); solo che così non si sa ancora con certezza se una volta si sia parlato solo di Elia o solo di Mosè oppure sempre dei due insieme (v. al v. 4). Ai vv. 9- 1 3 si accenna poi a Elia: ma poiché Elia è visto qui quale precursore di Gesù, non è verosimile che sia stato Marco a inserire Elia nei vv 4 s. Invece i vv 1 1 - 1 3 furono tramandati già prima di Marco insieme con la nostra storia a motivo del nome «Elia» che fa da collegamento (v. a 9,4 1 - 5 0, intr.), mentre Marco ha introdotto Mosè a motivo di Deut. 1 8, 1 5 · Forse si dovrà considerare redazionale, alla luce di più recenti studi, non solo il v. 6, bensì anche i vv. 5 e 7b (come i vv 9 s.), così che le parole «ascoltate lo! » furono formulate fin dall'inizio quale ammonimento al lettore. .
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2.-8. Altre indicazioni cronologiche s'incontrano solo nel racconto della passione; si volle forse in origine mettere in risalto il parallelismo con Es. 24, 1 6 ? Forse Marco, a sua volta, ha conservato l'indicazione
Mc. 9,2-8.
La risposta di Dio
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cronologica perché il racconto della trasfigurazione veniva così colle gato al brano precedente ? Per la montagna, cf. Es. 24, I 5 , ove si rac conta che Mosè e Giosuè (nella Bibbia greca = «Gesù » ! ) salgono sul monte per ricevere la rivelazione di Dio. Pietro, Giacomo e Giovanni sono scelti anche in 5,3 7; 1 4,3 3 (cf. 1 3 ,3), cioè ogni volta che si tratta dei massimi segreti. La trasformazione di Gesù ricorda Es. 34,29 ss. (nella storia biblica per il popolo dello Ps. Filone I I , I 5 - I 2, I questo passo è assai vicino al racconto di Es. 2 4 , 1 5 s.). « Splendente » è anche l'angelo sul «monte altissimo» di Ez. 40,2 s. (LXX). Non si dice tut tavia nulla della radiosità del volto di Gesù. Il giudaismo attendeva per gli ultimi tempi la trasformazione dei giusti in uno splendore ultrater reno e in una bellezza raggiante (Bar. syr. 5 I ,3 ss.; cf. Mc. 1 2,2 5; 1 Cor. I 5 , 5 1 s.). Paolo vede già in questa luce la vita attuale del credente (Rom. I 2,2; 2 Cor. 3 , I 8, ma v. Fil. 3,2 1 ). Il bianco è il colore degli angeli ( Mc 1 6, 5 ; cf. il Figlio dell'uomo in Apoc. 1 , I 3 ss. dove si sente l'eco di Dan. 7,9. I 3). Indossare vestiti nuovi o bianchi è una figura della vita di ri surrezione che si trova anche in Hen. aeth. 62, 1 5 s.; Hen. slav. 22,8; Apoc. 3,4; 7,9; cf. 4,4; 1 Cor. 1 5 ,43 ·49· 5 1 - 5 3 · Quel che costituiva una speranza per il giudizio universale, qui si compie già per Gesù. La glo ria escatologica spunta su di lui. L' apparizione di Elia subito prima dell 'alba escatologica era attesa sin da Mal. 4, 5 (3,23). Occasionalmen te si è anche pensato a Enoc, perché Enoc e Elia sono i soli personaggi che secondo l'Antico Testamento erano stati rapiti in cielo senza mo rire (cf. 4 Esd. 6,26). Da Deut. 34,6 certi settori del giudaismo sembra no aver dedotto il rapimento in cielo di Mosè; in ogni caso, lo scritto re Flavio Giuseppe si pronuncia contro tali speculazioni (A nt. 4,3 26). A differenza di Apoc. I I ,3 ss., dove i due profeti degli ultimi tempi (chiaramente descritti come Elia e Mosè) sono sullo stesso piano, qui domina ancora l'antica concezione di Elia come personaggio decisivo degli ultimi tempi (cf. 9, 1 1 - 1 3 ). A causa delle affinità fra Mosè e Gesù menzionate sopra, Mosè appare qui come accompagnatore di Elia, an zi gli è persino anteposto (v. 5). Marco s ottolinea l'abbaglio di Pietro, che pensava fosse già cominciato il tempo del riposo escatologico, quando Dio e il suo mondo celeste «si attenderanno» su questa terra (Apoc. 2 1 ,3; cf. Gv. 1 , 1 4; in greco c'è sempre la stessa radice verbale). Quel che è certo è che Marco sottolinea notevolmente questo equivo co. La nuvola ha un suo ruolo nelle epifanie di Dio (ad es. Es. 1 6, 1 o; 24, 1 8; 40,3 5; Ez. 1 ,4) o nei casi di rapimento in cielo (Hen. aeth. I4,8; .
I 50
Mc.
9,2-8. La risposta di Dio
Tess. 4 , 1 7; Apoc. 1 I , I 2). La comunità si aspetta che anche l'apparizione escatologica di Gesù avvenga su una nube (Le. 2 I ,27; cf. Mc. 1 3 ,26; 1 4,62; Apoc. I ,7). La voce di Dio corrisponde a quella di I ,
Atti 1 ,9;
1
I I , s alvo i l cambiamento, molto importante per Marco, dalla seconda alla terza persona: ciò che in quel passo avveniva fra Padre e Figlio, ora è rivelato ai tre discepoli più intimi. A questo si aggiunge l'inciso esortativo «ascoltatelo! », che presenta anch'esso Gesù come colui che compie il servizio di Mosè (Deut. I 8, I 5 ) , e va riferito in modo speciale all'insegnamento di Gesù (v. 3 I ). L'esortazione è anche, per Marco un richiamo alla comunità a guardarsi dal fanatismo che vorrebbe vedere la fine già prossima, e a dedicarsi ali' ascolto, cioè alla parola, ali' evan gelo. Perciò la fine dell'apparizione è riferita così bruscamente: alla co munità non è dato altro che Gesù; tutte le visioni che potrebbero ac cennare alla prossima fine vogliono solo chiarire in quale dimensione vada considerato quel che sta per avvenire con Gesù nella sua passio ne (v. 1 2) . Perciò non è neanche necessario raccontare il ritorno alla normalità.
Questo racconto associa dunque due vive attese del giudaismo: la venuta del profeta escatologico come Mosè e l'apparizione di Elia al l'alba degli ultimi tempi. Per ogni giudeo la storia ha dunque annun ciato che con Gesù sta già arrivando il compimento della storia di Israele e di tutte le speranze della fine gloriosa dei tempi. Marco ha messo il brano subito dopo 8,27-9, 1 , non perché vi abbia visto il com pimento momentaneo di 9, 1 , ma certamente per ribadire che 8,3 1 è il centro del suo vangelo. Alle parole piane di Gesù, che sostituiscono ogni parlare per metafore (8,3 2), corrisponde il discorso fatto aperta mente da Dio stesso (9,7; cf. 3 , 1 I s.). Per la prima volta viene rivelato a tre eletti il segreto di Gesù che sinora solo i demoni avevano cono sciuto. Al tempo stesso, però, questi testimoni vengono allontanati da ogni fanatismo, che vede già presente sulla terra la gloria escatologica, e indirizzati verso la parola che parla della sofferenza del Figlio del l'uomo (8,3 1; 9, 1 2). L'incomprensione degli stessi discepoli viene sot tol ineata da Marco in 9, 5 s. come in 8,3 2b: l'elemento duraturo non è la visione celeste, ma unicamente il messaggio. La visione può solo sottolinearne l'importanza.
Dialogo sulla venuta di Elia e il Figlio dell'uomo sofferente, 9,9- I 3 (cf. Mt. I 7,9- I 3 ) 9 E mentre stavano scendendo dalla montagna, comandò loro d i non rac contare a nessuno le cose che avevano visto, se non quando il Figlio del l,uomo fosse risuscitato dai morti. Io Ed essi tennero a mente la parola e discutevano tra di loro che cosa fosse il risuscitare dai morti. I 1 E lo inter rogavano: «Ma gli scribi dicono che prima debba venire Elia» . 1 2 Ma egli disse loro «Elia viene prima e ristabilisce ogni cosa. Ma come sta scritto del Figlio dell'uomo ? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato. 1 3 Io pe rò vi dico: Elia è già venuto e gli hanno fatto quello che hanno voluto, co me sta scritto di lui».
Il nesso è oscuro. Il legame fra i vv 9- I o e I I - I 3, dove non si parla di risurrezione, è assai debole. Forse che i vv. I I - I 3 erano stati un tempo uniti direttamente col v. I , prima che Marco inserisse il raccon to dei vv. 2-8 e lo collegasse ai vv. 1 I - I 3 con i vv. 9 s. che in ogni caso sono opera sua? Oppure i vv 1 1 - 1 3 erano stati già aggiunti prima di lui (v. a 9,2-8, intr.) ? I vv I 1 - 1 3 potrebbero essere considerati una unità se Gesù stesso fosse identificato con l'Elia che ritorna: l'attesa (v. I I) è certamente giusta (v. 1 2a), e trova il suo adempimento nel l'attività di Gesù; tuttavia è preannunciata la sofferenza del Figlio del l'uomo (v. 1 2b); proprio in questo egli è simile a Elia, della cui perse cuzione parla l'Antico Testamento (v. I 3). In origine Elia è il precur sore di Dio che viene per il giudizio, non del messia (v. a 1 ,7 s.). Il v. I 3 si riferisce all'Elia dell'Antico Testamento ? Lo farebbe pensare il tempo del verbo, al perfetto, mentre nel v. I 2a il verbo è al presente. Può darsi che originariamente la formulazione fosse anche più chiara: «Allora, quando Elia era venuto . . . ». Non si deve neanche pensare a un passo biblico diverso da 1 Re 19,2. 1 0. Sicuramente però Mt. I 7, 1 3 ha inteso diversamente; l'identificazione che vi si legge fra Elia che ritor na e Giovanni Battista è già stata fatta prima di Marco (v. a 1 ,6). Così tale identificazione è senz'altro sottintesa nel nostro testo fin dall'ini zio. Ci sono poi due affermazioni una accanto all'altra: a) Elia è vera mente venuto, precisamente nel Battista; b) il destino del Battista, che ha adempiuto escatologicamente 1 Re I 9,2. 1 o, indica quale sarà il de stino del Figlio dell'uomo. Così certamente ha inteso Marco, o mo dificando una concezione anteriore oppure conformemente al senso originale. I due motivi si intrecciano, sicché l'insieme non risulta del tutto logico. .
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Mc. 9, 1 4-29.
La guarigione del fanciullo epilettico
9- 1 3. La situazione della discesa dal monte della gloria escatologica nell'abisso dell'insicurezza e della distretta umana è rappresentato con particolare incisività in un noto dipinto di Raffaello in Vaticano. An cora una volta Marco sottolinea il segreto messianico (v. a 1 ,3 4): una proclamazione della gloria di Gesù sarà possibile solo nella comunità postpasquale (che conosce anche la morte sulla croce !); v. a 8,30. È l'unico passo in cui si accenna alla futura risurrezione senza far men zione della sofferenza e della morte (ma cf. il v. 1 2 ! ), probabilmente perché la risurrezione (e non la crocifissione) segnò l'inizio della pre dicazione dei discepoli. La formulazione ricorda 8,3 1 . Tutto lo splen dore celeste di Cristo, che traspare nei miracoli e nelle esperienze di visione, non è altro, pertanto, che un segno della croce quale centro della predicazione pubblica che ha inizio dopo pasqua. Non è possibi le che giudei si domandino che cosa sia la risurrezione; la domanda è dunque l'espediente di cui Marco si serve per esprimere la totale cecità dei discepoli alla rivelazione di Dio. La sentenza circa il ritorno di Elia dev'essere stata importante per la comunità forse perché i giudei potevano servirsene per contestare l'attesa cristiana di una fine immi nente. Ma per Marco il destino di Elia quale prefi.gurazione della pas sione del Figlio dell'uomo è ancora più importante del semplice fatto della sua venuta (nella persona del Battista).
Questi versetti, qualunque possa essere stato il loro significato ori ginario, descrivono dunque ancora una volta, per Marco, il passaggio da una teologia della gloria a una teologia della croce; senza di loro, il racconto della trasfigurazione verrebbe inevitabilmente travisato. Le parole di vittoria di 9, 1 e 9,2-8 sono dunque inquadrate da 8,3 1 e da 9, 1 2, che offrono la chiave per la loro giusta interpretazione. Inoltre, la sofferenza non è spiegata (e quindi attenuata), ma solo annunciata parallelamente alla sorte del Battista-Elia come qualcosa di necessario e di imposto da Dio. La guarigione del fanciullo epilettico e del padre di poca fede, 9,1 4-29 (cf. Mt. 1 7, 1 4-2 1 ; Le. 9,3 7-4 3 a) 14 E quando raggiunsero i discepoli, videro una grande folla tutto intorno a loro e alcuni seri bi che discutevano con loro. 1 5 E subito, appena tutta la folla lo vide, essi si spaventarono, gli corsero incontro e lo salutavano. 16 Ed
Mc.
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9,14-29. La guarigione del fanciullo epilettico
egli chiese loro: «Che cos'è che state discutendo con loro?». 1 7 Gli rispose uno della folla: «Maestro, ti ho portato mio figlio, che ha uno spirito muto: r 8 e dovunque capita che lo colga, lo getta giù e schiuma e digrigna i denti e diventa rigido. E ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non sono stati capaci». 19 Ed egli rispose loro e dice: «O generazione incredula, fino a quando starò con voi ? Fino a quando vi dovrò sopportare ? Portatemelo qui! >> . 20 E glielo portarono . E appena lo spirito lo vide immediatamente lo fece contorcere in convulsioni e lui cadde per terra e si rotolava schiu mando. 21 E chiese a suo padre: «Da quanto tempo gli succede questo ?». E quello disse: «Dall'infanzia 22 e sovente lo ha gettato sia nel fuoco sia anche nell'acqua, per farlo morire. Ma se puoi fare qualcosa, soccorrici e abbi pietà di noi ! ». 23 E Gesù gli disse: «Se puoi! - tutto è possibile a chi crede! ». 24 Subito il padre del bambino gridò ad alta voce e diceva: «Cre do ! Soccorri la mia incredulità» . 25 Ma appena Gesù vide che la folla ac correva tutta insieme, minacciò lo spirito impuro e gli disse: «Spirito muto e sordo, te l'ordino io: esci fuori da lui e non rientrare in lui mai più ! » . 2 6 E d egli urlò, l o fece contorcere terribilmente e uscì. Ma egli restò immo bile come un morto, tanto che i più dicevano: « È morto». 27 Ma Gesù gli afferrò la mano e lo tirò su e lui si alzò in piedi. 28 E quando fu entrato in casa, i suoi discepoli gli chiedevano, una volta rimasti soli: «Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?». 29 E disse loro: «Questo tipo non se ne va in alcun modo, se non con la preghiera». Marco ha conosciuto forse questa storia in due forme ? Nei vv I 4I 9 e 28-29 l'interesse del racconto è orientato completamente sui di scepoli e sulla loro incomprensione; nei vv. 20-27 al centro c'è invece la figura del padre del malato. Anche la descrizione del male è doppia, al v. 1 8 e ai vv . 2 1 -22. Secondo i vv 1 4 e 1 7 la gente è già presente, se condo il v. 2 5 sta accorrendo. Certo fa parte dello stile della narrazio ne che prima della guarigione si manifestino difficoltà, ma questa con siderazione vale per ciascuno dei due racconti singolarmente. Forse Marco ha fuso insieme due versioni in un unico racconto perché pote va servirsi di entrambe per chiarire che cosa sia la fede al seguito di Ge sù. Per tale ragione ha messo il racconto a questo punto, anziché fra i miracoli di Gesù; perciò anche manca il «segreto messianico» (v. a I , 3 4), cioè l a proclamazione d i Gesù d a parte del demone o del miraco lato, e l'ordine di Gesù di tacere al riguardo. .
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1 4-29.
Con più precisione si dovrebbe dire «i restanti nove disce poli»; sicuramente il racconto parlava già dei «discepoli» prima che
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La guarigione del fanciullo epilettico
Marco lo inserisse a questo punto. Lo stupito terrore della folla (v. I 5 ) mostra come in 1 , 27 che Gesù s i presenta con ben altra autorità che gli scribi ( 1 ,22), e che essa emana da lui prima ancora che parli o che agi sca. Quel che segue non ha niente a che fare con una discussione fra scribi e discepoli di Gesù; ma appunto perché l'introduzione (vv. I 4I 6) non calza con il caso concreto, il suo scopo diventa evidente: deve rendere l'episodio valido universalmente, dimostrare che di là del caso specifico si tratta di una questione di fondo, e portare l'attenzione sui discepoli, cioè sulla comunità, in lotta con gli avversari a motivo della fede. La loro distretta è data, al contrario del loro maestro, dalla man canza di autorità che affonda le radici nella loro mancanza di fede. I discepoli e gli scribi non si distinguono dunque tanto facilmente se si guarda a quello che hanno; la distinzione è data soltanto da dove van no a cercare aiuto. La parola di Gesù (cf. Ger. 5 ,23; 1 R e 1 9, 1 4; Num. 1 4,27; Deut. 3 2, 5 .20) dimostra che egli non fa parte di questa «genera zione incredula», le è anzi radicalmente contrapposto e dal lato di Dio soffre alla miseria della loro incredulità: anzi è qui il vero motivo della sua sofferenza. Non si può leggere il testo senza esporsi a questa pre tesa che è il cuore della pericope introduttiva. L'autorità di Gesù (co me al v. I 5) non è presentata in modo che la si possa dedurre a poste riori in base alle parole e alle opere di Gesù, ma in modo che essa nel l'incontro si imponga di primo acchito. Così lo spirito la percepisce prima che Gesù lo apostrofi; ne segue la resistenza e l'inizio delle osti lità. La presenza di Dio può dunque significare, a volte, tempesta e di stretta prima ancora che accada qualcosa di positivo. L 'ostinatezza della malattia è descritta con efficacia: come al v. 1 8, si manifestano i tipici sintomi dell'epilessia. L'espressione «se puoi fare qualcosa» è senza dubbio formulata in funzione della risposta di Gesù; però de scrive a pennello la mezza fede del padre. La risposta di Gesù si riferi rebbe, a rigor di termini, alla sua fede; ma tutto il racconto vuole de scrivere la distretta causata dalla totale o parziale mancanza di fede da parte dell'uomo (vv. 1 9.22.24) e offrire un aiuto al riguardo (vv. 2 3 . 2 8 s.) . Il grido del padre rivela l a sua distretta: d a questa nasce la sua ri sposta, che è forse la migliore che possa essere data a questa domanda. Chi osa dire «io credo» deve aggiungere nello stesso istante che può dirlo solo come chi ha fiducia che Dio tornerà ancora e ancora ad aiutarlo ad aver fede; che quindi il soggetto ultimo di quella fede può essere soltanto Dio, non «io» . Solo nella consapevolezza della propria
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La guarigione del fanciullo epilettico
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incredulità si può riconoscere il dono divino della fede con gioia e con fiducia; perché essa è certa soltanto quando è fondata su un atto di Dio. La fede è dunque un'apertura incondizionata all'atto di Dio, una ferma attesa da parte di chi, guardando a se stesso, potrebbe sempre solo affermare la mancanza di fede, ma guardando a Dio riconosce, con gioia e certezza, che Dio torna sempre a sanare quella mancanza. Come in 2, 5, anche qui non si parla della fede del malato, ma di quella di un altro; i narratori ovviamente non pensano affatto a una guarigio ne per mezzo della suggestione. La guarigione del ragazzo, invece, è descritta (come in 1 ,2 5 ; cf. 4,39) con il verbo «minacciare», cioè come una battaglia con l'avversario, nel corso della quale Gesù sottolinea la sua autorità con un «io» fortemente accentuato. La difficoltà della gua rigione rivela la grandezza dell'opera che Gesù compie. La formula usata alla fine (v. 27) è esattamente quella di pasqua: «lo svegliò, e si alzò in piedi». Come già nell'Antico Testamento la malattia e la guari gione sono considerate una morte e una risurrezione (ad es. Sal. 30,4), così anche qui l'atto potente di Gesù diventa trasparente: naturalmen te si tratta della guarigione di un ammalato; ma dietro ad essa il lettore scorge già colui che un giorno farà levare i morti. Tratti tipici di Mar co sono di nuovo la separazione dei discepoli dalla folla ( (v. a 9,4 1 - 50). Il v. 3 7h si trova in Mat teo in un altro contesto ( 1 o,4o), in forma simile. Al suo posto questi aggiunge nel nostro contesto due altri detti (Mt. 1 8,3 s.) che compaio no similmente in Mc. 10, 1 5 e Le. 1 4, 1 1 ; 1 8, 14. È dunque chiaro che gli evangelisti inseriscono parole di Gesù tramandate, trasmesse forse fin dall'inizio in forme diverse, dove le considerano più appropriate (v. a 1 0,3 5-4 5). Il brano, nel suo complesso, è dunque composto da Marco che sicuramente ha anche costruito la scena del v. 3 6.
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Mc. 9,3 3-37·
L'incomprensione dei discepoli e la sequela di Gesù
Come in 8 , I (v. ad loc. ) e 27, con la sua domanda Gesù pren de l'iniziativa. La condotta dei discepoli rispecchia, come in 8,3 2, la volontà degli uomini completamente opposta alla volontà di Gesù di affrontare la passione. La sua aspirazione alla grandezza, una brama che si esprime ad esempio nei complessi di inferiorità, rivela la separa zione della volontà umana da Dio il quale, invece, in Gesù consente ali 'umiltà. È chiaro che non ci può essere ordine senza livelli diversi, senza un sopra e un sotto; e si può ben capire che nel giudaismo il pro blema più importante fosse quello del rango occupato davanti a Dio. Anche secondo la parola di Gesù ci sono vari livelli: ma è proprio l'ultimo, il servo di tutti, che davanti a Dio è il primo, cioè proprio quello che rinuncia a spingersi più in su e a imporsi davanti a Dio o al mondo. Con questo siamo molto vicino a quello che Paolo scrive in Fil. 3 ,7-9 e I Cor. 1 , I 8-3 1 . L a parola sull'accoglienza del piccolo fanciullo, illustrata da un'a zione corrispondente di Gesù, vuoi dire in realtà qualcosa di diverso. Per Marco, tuttavia, c'è un rapporto in quanto Gesù qui si identifica con i piccoli e i deboli (cf. Mt. 2 5,3 1 ss }; perciò, per lui, anche il v. 3 7b rientra assolutamente nel discorso contestuale (sebbene già Mt. I 8, 5 non se ne è più accorto; v. ad loc. ). Dunque il bambino è poi anche im magine del discepolo che ha bisogno di aiuto (cf. v. 4 1 ). Egli non deve aver timore di questa condizione: è stato chiamato alla sequela come uno che ha ascoltato il v. 3 1 e che nel discepolato può diventare «ulti mo» e rendere così testimonianza a Gesù, anzi a Dio, davanti al mon do. Forse è implicito qui anche il pensiero che chi può essere piccolo non ha più bisogno di «salire in cielo» (Rom. 1 o,6}, di accollarsi tutte le possibili fatiche religiose. Non ha quindi lo scopo di incoraggiare l'adozione come opera meritoria (come presso i rabbi) o come garan zia per la propria comunione religiosa (come nel gruppo di Qumran); lo scopo è solo di far capire al discepolo che proprio nei piccoli, negli indifesi, si può trovare Gesù, anzi il Padre stesso. Non deve dunque aver paura di questa condizione, ma, come uno che ha udito il v. 3 I, è chiamato a seguire Gesù e a diventare «ultimo» su quella via e così a testimoniare Gesù, anzi Dio, al mondo. Forse in questo è anche com preso l'altro pensiero che può aver guidato Matteo nel disporre il suo materiale: che proprio colui che può farsi piccolo, non ha più bisogno di «salire in cielo» (Rom. I o,6}, di compiere tutti i possibili sforzi re ligiosi per trovare Dio, ma può e deve essere dove lo esige la giornata 3 3 - 3 7·
.
Mc.
9,3 8-4o. Chi segue Gesù e chi no
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con i suoi compiti, ad esempio, accanto all'orfano che ha bisogno del la sua assistenza concreta. Così Marco ribadisce che tutto l'insegnamento particolare di Gesù non può mettere l'uomo in grado di far propria la rivelazione di Dio se questi non è pronto a mettersi al suo seguito e lì a diventare «ulti mo» e «servitore». Gli uomini invece, anche quelli eletti da Dio, con la loro ambizione di grandezza sono ciechi per questo, e rimangono di pendenti dall'azione miracolosa di Dio che sola può dar loro in dono quella sequela (v. a 1 6,7). Chi segue Gesù e chi
no,
9,3 8-40 (cf. Le. 9,49- 50)
3 8 Allora Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che nel tuo no me scacciava i demoni, il quale non viene dietro a noi; e volevamo proi birglielo, perché non veniva dietro a noi». 39 Ma Gesù disse: «Non glielo proibite; non c'è nessuno infatti che farà un'opera potente nel mio nome e subito dopo sparlerà di me: 40 perché chi non è contro di noi, è per noi».
Il piccolo brano è stato senza dubbio preso da Marco dalla tradizio ne (v. a 9,4 1 - 50); di solito Giovanni non ha alcun ruolo particolare. Poiché il Nuovo Testamento non parla mai di un'altra sequela che non sia l' «andare dietro» a Gesù, colpisce il duplice «noi» (v. 3 8). So prattutto il comportamento dei discepoli è impossibile al tempo di Gesù. Infatti, a prescindere dal fatto che difficilmente i discepoli sono stati mai un gruppo autonomo che agiva indipendentemente da Gesù, essi non possono meravigliarsi se qualcuno non va dietro «a loro»: Gesù non ha mai sollecitato tutti a unirsi al gruppo dei dodici (cf. 5, 1 9). Tutto ciò porta all'epoca della comunità, quando questo proble ma diventò incandescente (cf. excursus a Mt. 7, 1 3 -23, § 2 ) , più che al l'epoca di Gesù. Allora ci si cominciò a domandare: « Come avrebbe risolto il problema Gesù ?», e un profeta cristiano, in nome di Gesù glo rificato (cf. Apoc. 2, 1 ) potrebbe aver dato la risposta del v . 40, spiegata poi con il v. 3 9; un papiro, infine, giustifica la risposta con la speranza d'una futura adesione (alla comunità). 3 8-40. «Nel nome ... » non è una formula greca, tuttavia si trova nel l'Antico Testamento greco e in Mc. 1 6, 1 7; Le. 1 0, 1 7; Atti 3,6; 4,7. 1 0; Giac. 5 , 1 4 dove significa «invocando il nome di ... ». Giovanni personi-
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Mc.
9,4 1 - 50. Parole ai discepoli
fica l'atteggiamento naturale dell'uomo che si preoccupa di conquista re aderenti e di rafforzare il proprio gruppo ecclesiastico, e quindi non ha molta considerazione per quelli che restano al margine e non vo gliono inserirsi. Che la comunità non debba mai guardare con occhio ansioso la propria crescita esteriore, ma essere invece generosamen te aperta agli estranei corrisponde all'atteggiamento di Gesù (v. a Mt. 1 2,30 ). In verità la formulazione («nessuno ... sparlerà subito dopo») mostra che con questa parola il problema non è ancora risolto; il caso potrebbe ripresentarsi occasionalmente. Paolo dichiara in I Cor. 1 2, I 3 che anche nel paganesimo c'è ogni sorta di fenomeni straordinari e di esperienze «di Dio» (v. 2), ma il possesso dello Spirito si manifesta quando si permette a Gesù di essere il Signore (v. 3) e quindi si è di sponibili per il servizio del prossimo (v. 7). Le opere potenti dello Spi rito sono dunque tenute da tutti in grande considerazione; tuttavia non possono da sole costituire il criterio che permette di dire se per mezzo loro si predichi Gesù o si agisca contro di lui. La frase conclu siva dice che finché uno non si separi espressamente da Gesù (cf. il « Ge sù è anatema! » di I Cor. 1 2,3) appartiene alla comunità di Gesù. M arco interpreta dunque questi versetti alla luce dei vv. 3 3 -37, co me un avvertimento alla comunità di stare attenta a non attribuirsi ec cessiva importanza (cf. Atti 1 9, 1 5 ss.), e al tempo stesso come una pre cisazione della chiamata alla sequela, che non consiste soltanto nell' ap partenenza esteriore alla comunità, ma in una vita nella potenza dello Spirito. Parole ai discepoli, 9,4 1 -50 (cf. Mt. 1 8,6-9)
41 «Chiunque, infatti, vi dà da bere un bicchiere di acqua nel nome, perché appartenete a Cristo, in verità vi dico: non perderà affatto la sua ricompen sa. 42 E chiunque fa inciampare e cadere uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui avere una macina da asino appesa al collo ed essere gettato a mare. 43 E se la tua mano ti fa cadere, mozzala: meglio è per te en trare monco nella vita, che andartene con tutte e due le mani all'inferno, nel fuoco inestinguibile. 45 E se il tuo piede ti fa cadere, mozzalo: meglio è per te entrare zoppo nella vita, che esser gettato con tutti e due i piedi nel l'inferno 47 E se il tuo occhio ti fa cadere, cavalo: me glio è per te entrare con un occhio solo nel regno di Dio, che essere gettato nell'inferno con due occhi, 48 dove il verme loro non muore e il fuoco non si spegne. 49 Infatti .
Mc.
9,4 1 - so.
Parole ai discepoli
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ognuno sarà salato con fu oco. so Buono, il sale; ma se il sale diventa insi pido, con che gli darete sapore? Abbiate sale in voi e vivete in pace gli uni con gli altri». 48 !s. 66,24.
I vv. 3 7- 50 costituiscono una raccolta premarciana, utilizzata forse per scopi catechetici, nella quale il primo versetto di ogni unità con tiene il medesimo lemma che chiude l 'unità precedente, se in origine il v. 4 I parlava, come la versione di Matteo ( I 0,42), anch'esso di «uno di questi piccoli » : «nel nome»: vv. 3 7/3 8 e 3 9/4 I ; «uno di questi piccoli» : vv. 4 I /42; «fare cadere»: vv. 42/43; «fuoco» : vv. 48/49; «sale»: vv. 49/ 50. Tali lemmi servivano semplicemente da supporti mnemonici per coloro che dovevano imparare a memoria i detti, come, ad es., le paro le iniziali delle strofe dell'inno Befiehl du deine Wege .. formano il det to che serve da aiuto mnemonico per ricordare la successione delle strofe. In origine il v. 37 era certamente unito direttamente al v. 4 I , come suggerisce l'accostamento dei due detti in Mt. I 0,40.42; allora Marco avrebbe inserito i vv. 3 8-40 a motivo della frase «nel tuo no me» e sostituito nel v. 4 I le parole «uno di questi piccoli» con «voi>>, perché ora il detto era rivolto direttamente ai discepoli ai quali si rife riva. La frase «appartenere a Cristo » è pensabile soltanto nella comu nità (v. a 8,30). In alcuni manoscritti il v. 48 si trova anche dopo i vv. 4 3 e 4 5 , a dimostrazione di come tali raccolte di logia continuarono a crescere (v. anche a Mt. 5,29 s.). .
4 1- 50. Il primo detto, in origine, voleva senza dubbio raccomandare i missionari cristiani all'ospitalità. Per Marco, che lo mette di seguito al v. 40, sta a significare che neppure un servizio così modesto sarebbe stato dimenticato e chi lo avesse reso non sarebbe rientrato tra coloro cui erano rivolti gli avvertimenti dei vv. 42-48. Il Nuovo Testamento parla anche altrove con naturalezza della «ricompensa», ma in modo insolito: cf. Mt. 20, I - I 6. Così anche qui è promessa una ricompensa per un semplice bicchier d'acqua, mentre in 1 Cor. I 3 ,3 è negata, in de terminate circostanze, a chi sacrifica ogni cosa, persino la propria vita. La ricompensa ha dunque sempre il suo fondamento unicamente nella benevolenza di Dio, il quale considera così seriamente il nostro opera re da non dimenticare neppure la più piccola azione che sia stata fatta veramente per lui. Ma chi volesse rivendicare un diritto alla ricompen sa, mostrerebbe già solo per questo di non aver agito per Dio, ma per
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Mc. 9,4 1 - 5 0.
Parole ai discepoli
stesso. I «piccoli>> sono i discepoli di Gesù, i «poveri in spirito» (Mt. 5 , J ; v. ad loc. ). Marco ha chiarito il termine, diventato incompren sibile, con la precisazione «che credono» (v. a Mt. 1 8,6). In Le. I 7, 1 s. (cf. Mt. I 8,7) il detto è conservato nella forma più completa; allude chiaramente a seduttori degli ultimi tempi che vogliono far cadere i «piccoli», i discepoli indifesi, prima che giunga la redenzione definiti va. Ma anche nella forma marciana i discepoli godono della particola re protezione divina proprio per la loro esposizione agli attacchi. So no dunque gli insignificanti, i meno interessanti, gli emarginati, quelli con le spalle al muro, gli eccentrici, i noiosi che vengono particolar mente raccomandati alla comunità. Si dovrà anche pensare a quelli che non riescono a tener dietro a tutto quello che la teologia elabora; ma non certo a quei «piccoli» che considerano se stessi i soli veri credenti e tiranneggiano tutti gli altri. La «macina da asino» (v. 42) è una maci na concava simile a una campana che un asino faceva girare nei grossi mulini sopra un cono di pietra; nella parte superiore aveva un orifizio dal quale immettere il grano. L'immagine è grottesca e fa proprio per questo un'impressione spaventosa, anche perché la morte per annega mento era per i giudei una delle più abominevoli. Nei versetti seguenti (vv . 43 -47) troviamo una minaccia altrettanto terribile, che non riguar da più la seduzione di altri, ma il controllo di se stessi. È chiaro che questi avvertimenti non hanno nulla a che fare con le pratiche di auto mutilazione che venivano praticate in certe religioni dell'epoca. Moz zarsi le membra non è fine a se stesso e non serve neppure al perfezio namento dello spirito a spese del corpo. Sta a indicare, in maniera ra dicale, che l'ubbidienza verso Dio è, in qualunque circostanza, la più importante, persino più importante delle proprie membra (queste non sono quindi menzionate come qualcosa di spregevole, bensì come le cose più preziose che l'uomo possieda). È dunque chiaro che non si tratta di un invito ad applicare letteralmente queste parole (v. anche a M t. I 9, I I s.). Si deve soprattutto respingere il carattere meritorio di atti di questo genere: non si tratta, infatti, di infliggersi il sacrificio di una mutilazione per acquistarsi meriti, ma di liberarsi da tutto quello che costituisce un ostacolo alla comunione con Dio. E l'ostacolo sarà in ogni singolo caso qualcosa di diverso. L'idea che un singolo mem bro del corpo commetta peccato è conforme al pensiero giudaico (cf., ad es., Prov. 6, 1 7 s.; 23,3 3 ; 27,20). Il termine geenna, qui tradotto con « inferno» , è in origine il nome di una valle a sud di Gerusalemme ( Gios. se
Mc. 9t4 1 - 50. Parole ai discepoli
I 6J
I 5 ,8;
1 8, I 6) in cui venivano offerti sacrifici idolatrici e che per questa ragione venne minacciata del giudizio di Dio dai profeti (Ger. 7,3 2 ; 1 9,6). Pertanto divenne poi il luogo del giudizio finale e, da ultimo, luogo di tormento per i dannati. L'avvertimento più severo è conte nuto però nella citazione dell'Antico Testamento Dedurne che biso gna credere alle pene eterne dell'inferno, significa non avere capito correttamente. Contro una simile interpretazione si potrebbe rinviare a Rom. I I , J 2 o a 1 Tim. 2,4. Così la sentenza dogmatica che alcuni sconteranno le loro colpe all'inferno è altrettanto impossibile della sen tenza opposta, che tutti saranno beati. Tutte e due queste affermazio ni anticipano qualcosa che spetta solo a Dio. Se ciascuno per sé può ascoltare la prima affermazione come l'ultimo avvertimento che Dio gli rivolge nell'ora della sua personale tentazione, la seconda vale co me ultima promessa di Dio per ciascuno nell'ora del suo personale conflitto interiore. Appena queste parole vengono trasformate in pro posizioni dogmatiche non si ha più l'umile ascolto di chi è aperto al richiamo della fede, ma una volontà di disporre del futuro che lega le mani a Dio e non gli lascia più la libertà di agire nel futuro come lui vuole. Il v. 49 è trasmesso in modo diverso dai manoscritti. L'inter pretazione più probabile è che il fuoco di Dio (la tribolazione della persecuzione, o quella degli ultimi tempi, oppure lo Spirito santo ?) preserva dalla corruzione come il sale (con il quale si conserva la car ne). Ancora più difficile da interpretare è il v. 5 0. È chiaro che il sale è buono a condizione che conservi il suo sapore. «Abbiate sale» è senza dubbio forma più antica di quella tramandata da Mt. 5 , 1 3 : «voi siete il sale>> (v. ad loc. ). Forse è un accenno alla prontezza al s acrificio, sug gerita dal fatto che il sale veniva adoperato nei sacrifici ? Oppure è il messaggio dei discepoli ad essere raffigurato con l'immagine del sale ? Oppure si allude al sano buon senso ( Col. 4,6), alle opere di carità (Str. Bill. 1, 2 3 6) , alla sapienza degli ultimi tempi, alla comunione convivia le, che in Oriente è simboleggiata dal sale o, infine, semplicemente a un simbolo di pace ? Tutte queste ipotesi sono già state proposte. L'in terpretazione più probabile è questa: abbiate lo spirito della sofferen za che si sacrifica, della resistenza al mondo, ma abbiate pace tra di voi. Marco ha aggiunto al secondo annuncio della passione un brano che mette pesantemente in evidenza l'incomprensione dei discepoli. M entre Gesù va coscientemente verso la passione, i discepoli discuto-
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Mc. I o, I - 1 2 .
La sequela nel matrimonio
no su chi sia il maggiore. Di fronte a questo comportamento, Marco fa ancora una volta risuonare l'appello alla sequela in una raccolta di detti riuniti attorno al concetto dei «piccoli», detti che invitano ad ac cogliere il fanciullo indifeso, a essere tolleranti verso quelli che sono fuori della comunità, a soddisfare le esigenze vitali più modeste, e che mettono in guardia contro le seduzioni e l'inganno di se stessi. Gli ul timi due versetti esigono forse anche la disponibilità al sacrificio, co me 8,34 ss. dopo il primo annuncio della passione. Come nel cap. 8, anche qui il discepolo può però percorrere quella strada solo dietro a Gesù; una siffatta sequela è possibile solo dopo essere stati liberati da lui e solo in quella sequela si può veramente comprendere la sua via. La sequela nel matrimonio, 10,1-12 (cf. Mt. 1 9, 1 -9) I Poi si mise in cammino da lì ed entra nel territorio della Giudea e in Trans giordania e di nuovo folle accorrono a lui da ogni parte e di nuovo, co m'era solito, le ammaestrava. 2 Allora si fecero avanti alcuni farisei e gli do mandavano se sia lecito che un marito mandi via la moglie, volendo così tendergli una trappola. 3 Ma egli rispose e disse loro: «Che cosa vi ha co mandato Mosè ?». 4 Ma essi dissero: «Mosè ha permesso di scrivere una let tera di ripudio e di mandare via ». 5 Ma Gesù disse loro: «Contro la vostra durezza di cuore egli ha scritto per voi questo comandamento. 6 Ma fin dal principio della creazione maschio e femmina li fece; 7 per questo ognu no lascerà suo padre e sua madre 8 e i due diventeranno una sola carne. Così non sono più due, ma una sola carne. 9 Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non deve separare». Io E in casa i suoi discepoli gli fa cevano di nuovo domande al riguardo. I I E dice loro: «Chiunque ripudi la moglie e ne sposi un'altra, è adultero nei suoi riguardi 12 E se lei ripudia il marito e ne sposa un altro, è adultera». .
4 s. Deut. 24, 1 . 6 s. G en. 1 ,27. 7 s. Es. 2,24.
Anche il giudaismo ellenistico sottolineava che tutte le singole nor me furono emanate soltanto in seguito all'indurimento d 'Israele nei confronti del decalogo (v. anche a Mt. 1 9,8). Comunque, 1 Cor. 7, 1 0 s. presuppone una «parola del Signore» che potrebbe, più o meno, aver corrisposto a Mc. 1 0, 5 -9· Questo logion fu, dapprima, «incorniciato » coi vv. 2-4 che riflettono la situazione del dibattito polemico della co munità con il giudaismo; in un secondo momento venne ampliato con l'applicazione pratica (vv. 1 1 s.). Il v. I 2 è pensabile soltanto in pre senza del diritto matrimoniale ellenistico (v. al v. I I ). Anche il v. 1 I è
Mc. 1 o, 1 - 1 .1 .
La sequela nel matrimonio
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un ammorbidimento del v. 9: secondo il diritto matrimoniale giudai co, come si ha ancora in Mt. 5,3 2 (v. ad loc. ), l'adulterio comincia sol tanto quando la donna passa a seconde nozze. Sicuramente marciani sono il v. I (cf. 7,24) , che segna l'inizio di una nuova pericope, e il v. 10 (v. a 2, 1 ) . Forse la pericope è appartenuta già prima di Marco a una raccolta tipo catechismo che comprendeva, all'incirca, i vv . 2- 1 2. 1 3 . 1 6. 1 7-2 5 e descriveva, secondo lo schema dei codici domestici (v. a Col. 3 , I 8 -4, 1 ) il comportamento verso i coniugi, i figli e la proprietà; oppu re i vv. 2- 1 2. 1 7-2 5 . 3 5 -4 5 dove si susseguono sempre la domanda in una situazione concreta, la risposta di Gesù e la successiva applicazio ne alla prassi della comunità. Per la critica del divorzio e per la storia che precede e segue il detto di Gesù v. a Mt. 5,3 2 e 1 9, 1 -9. 1 - 1 2. Dopo l'annuncio della passione si ha ora il viaggio verso sud, verso il luogo della passione. O Marco ha idee sbagliate circa la geo grafia (normalmente Gesù dovrebbe procedere inversamente, attra verso la Transgiordania verso la Giudea) oppure ritiene che Gesù si sia trattenuto una prima volta in Giudea, una permanenza di cui vera mente non ha parlato (ma v. a 10,46- 5 2 ) , e ci sia poi ritornato più tar di. Ma si può anche pensare che «la Giudea» gli sia sfuggita dalla pen na perché voleva servirsi di questa notizia per fare un'affermazione teologica: Gesù s'incammina coscientemente verso la passione. L'ac correre in massa, che Marco sottolinea così spesso, e l' «insegnamen to» con cui Gesù svolge la sua opera di rivelazione (v. a 1 ,22 ) mettono in evidenza quanto gli uomini avrebbero bisogno della rivelazione di Dio eppure non la capiscono. La domanda dei farisei è smascherata fin dal principio: è una finta domanda. Nessun fariseo avrebbe mai po sto una domanda così radicale. Il divorzio giudaico infatti era regolato da Deut. 24, 1 -4 (il cui intento originario era di tutelare la donna e di garantirle una certa libertà). Piuttosto, ciò che si discuteva erano i motivi di divorzio: il pranzo bruciato o la maggiore bellezza di un'al tra donna oppure solo l'adulterio della donna (v. a Mt. 5 , 3 2 ) . A secon da delle posizioni era possibile o meno una poliginia scaglionata. Poi ché a rigor di termini la moglie licenziata apparteneva ancora, nono stante la lettera di ripudio, al primo marito, commentatori intransi genti consideravano «fornicazione... prendere due donne nella loro vita», mentre «il principio della creazione» sarebbe «maschio e fem mina li creò», come del resto entrarono nell'arca a due a due (CD 4,20
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Mc. I o, I- 1 z.
La sequela nel matrimonio
ss.) . Anche la comunità cristiana ha senza dubbio seguito questa pras
si. Nei versetti seguenti sorprende come Gesù parli due volte di «co mandamento», mentre gli oppositori parlano per due volte di quel che è «concesso». In altri termini: Gesù ricerca la volontà di Dio, gli altri i .propri diritti. Ma proprio questo modo di impostare il problema, co me, cioè, trarre il massimo vantaggio da ciò che è lecito, distrugge già in partenza il matrimonio, prima ancora che sia realizzato. Il v. 5 vie ne interpretato per lo più come concessione; ma in questo caso la co struzione del ragionamento diventa illogica: la domanda con cui Gesù replica (v. 3) provoca la risposta del v. 4 che è contro il pensiero di Gesù, sicché egli non può fare altro che criticare la citazione biblica, che è proprio quanto i suoi avversari desideravano. Allora la disposi zione del testo in Matteo sarebbe molto più logica. Sennonché in real tà il v. 5 non dice «a motivo della vostra durezza di cuore», bensì «per la vostra» (= «in vista di») ovvero «contro la vostra ... ». Il v. 5, quindi, non è una rassegnata concessione, ma un giudizio contro di loro, una testimonianza del loro indurimento, un atto d'accusa permanente. Per contro, Gesù mantiene, con la Scrittura, che non fu mai diversamente (questo vuoi dire la formula abbreviata «fin dal principio ... »): una donna è stata creata per un uomo. La doppia sessualità è dunque una disposizione di Dio; non è né un alto ideale né qualcosa da superare a vantaggio di un amore puramente platonico, bensì un dato di fatto na turale da accettare con gratitudine, senza attribuirgli uno splendore glo rioso e senza disprezzarlo. Il «perciò» {v. 7), che in Gen. 2,24 si rife risce alla creazione della donna dalla costola di Adamo, è riferito qui al contenuto del v. 6. L'abbandono della casa dei genitori, che a quei tempi era ancora più realistico perché si lasciava al tempo stesso il le game e la protezione della grande famiglia, costituisce ancora oggi la premessa di un giusto matrimonio. La congiunzione dei sessi che di ventano uno («i due» appare soltanto nei LXX che presuppone il ma trimonio monogamico) è biblicamente chiara espressione della volon tà di Dio e non già una conseguenza del peccato. Anzi, che nella crea zione Dio abbia creato due sessi costituisce già il fondamento del ma trimonio nella sua semplice naturalezza. L'insegnamento privato «in casa» (v. a 2, 1 ) è una tipica aggiunta marciana. In sé, tutto è già stato detto; però l'uomo non può capire la rivelazione di Dio. Così il singo lo principio va ancora sviluppato dal punto di vista etico. A questo pro posito Marco è certamente del parere che con un secondo matrimonio
Mc. I o, I - 1 2 .
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la colpa divenga ancora più grande di quanto non lo sia già nel divor zio. La prima sentenza va contro la norma giudaica corrente: «Da noi è consentito a un uomo di far questo; ma a una donna, anche quand'è divorziata, non è consentito decidere da sola di risposarsi senza il con senso del primo marito» (Giuseppe, Ant. I 5,2 59) . La seconda senten za è possibile soltanto dove la donna poteva divorziare e risposarsi di propria iniziativa. La prima parola dovette quindi essere modificata tenendo conto della mutata situazione per poter rimanere parola viva e parlare agli uomini del suo tempo. A questo proposito due sono i fat tori importanti: che essa parli sempre al tempo in cui viene pronuncia ta in modo da poter essere capita; e che non dica nulla di diverso, in sostanza, dalla parola antica. Ef 5,23 ss. fonda il matrimonio monogamico sull'amore di Dio che ha preso forma in Cristo. Esso è il fondamento vero sul quale vive il matrimonio. Nel nostro passo le cose non sono messe in questi ter mini, ma la medesima idea è già sostanzialmente implicita nella rispo sta di Gesù, perché in essa l'atto creativo di Dio è visto quale favore amorevole verso gli uomini. Esteriormente Gesù sembra avere la stes sa posizione del giudaismo più rigido; ma l'insistenza con cui Gesù trasforma la domanda su quel che è permesso in domanda su quello che è il volere di Dio, rivela un fondamentale superamento del legali smo (v. excursus a 3 , 1 -6). Gesù invita a vivere del dono del Creatore. Ciò significa non solo evitare ciò che è vietato, ma anche fare la volon tà di Dio nel campo di quel che è «permesso» . In questa libertà da ogni considerazione esclusivamente legalistica, che è dono di Gesù, si rea lizza dunque il fine della creazione. Con ciò non si vuole soltanto dire che Gesù, in quanto maestro, non fa che ripetere quel che è sempre stato vero anche prima. Non a caso Marco trasferisce quasi tutte le istruzioni di Gesù ai discepoli nella sezione che ha inizio in 8,3 1 e va intesa come sequela della sofferenza. È solo nella sorte del Figlio del l'uomo sofferente che si vede come la luce della grazia e del dono di Dio riposi fin dal principio sulla creazione; come questa, quindi, sia il primo passo di Dio verso gli uomini, il primo passo di un cammino che trova ora il suo adempimento definitivo nella venuta del Figlio del l 'uomo; anzi essa può essere compresa soltanto da questo punto di vista. Un regolamento giuridico che proibisca il divorzio non giova a nulla, e meno ancora giova una assoluta libertà per cui l'uomo possa
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Mc. 1 o, I 3- I 6.
Seguire Gesù con una fede da bambino
sottrarsi all'ammissione della propria colpa. Il divorzio può essere un segno del pentimento di due esseri umani che riconoscono la loro col pa di non essere riusciti a vivere, secondo la volontà divina, del dono di Dio e può in questo caso rendere liberi per una nuova manifesta zione di misericordia divina. Viceversa, mantenere esteriormente in vi ta un matrimonio fallito può obliterare proprio questa ammissione di colpevolezza. Ma queste sono possibilità estreme, che si trovano solo al termine di un lungo cammino, lungo il quale un coniuge abbia con tinuamente cercato il colloquio con l'altro e alla fine, per via dell'altro o per via dei figli , debba ammettere la propria colpa e trarne anche le conseguenze esteriori. Dunque le nozze dei divorziati non dovreb bero né essere proibite per legge né essere celebrate indiscriminata mente, senza che in questo evento divenga visibile qualcosa di quanto è stato detto sopra. Infatti la parola di Gesù è chiarissima e vi sono momenti nella vita matrimoniale nei quali essa può essere di grandissi mo aiuto proprio con questa sua chiarezza assoluta. Seguire Gesù co n una fede da bambino, I O, I J-16 (cf. Mt. 1 9, 1 3 - 1 5; Le. 1 8, 1 5 - 1 7)
E gli portavano bambini perché li toccasse; ma i discepoli li sgridarono. Ma quando vide ciò Gesù si indignò e disse loro: «Lasciate i bambini ve nire a me; non glielo impedite. A tali, infatti, appartiene il regno di Dio. I s In verità vi dico: chiunque non riceve il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso». I6 Poi li abbracciò e li benediceva, posando le mani su di loro. I3
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Il v. 1 5 pare essere stato trasmesso come detto isolato, poiché Mat teo lo riporta in un altro contesto ( 1 8,3; v. ad loc., intr.) e Gv. 3 , 5 (e già 3 ,3 tradotto in stile giovanneo) risale probabilmente a questo det to. Per Marco il versetto è presumibilmente il centro vero e proprio intorno al quale raggruppa tutto il resto come dimostrazione. Esso il lustra che cosa significhi seguire Gesù. Potrebbe trattarsi di un' auten tica p arola di Gesù; la tensione fra regno futuro e già presente è carat teristica del suo pensiero (v. sotto); si aggiunga che il bambino non ha mai, a quanto ci risulta, una funzione particolare nella comunità. 1 3- 1 6. Il testo non dice chi è che porta i bambini (la parola greca indica in Gv. 1 6,2 1 un neonato, in Mc. 5,J9-42 un dodicenne; in Ev.
Mc.
IO,I J-16. Seguire Gesù con una fede da bambino
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i lattanti). I discepoli si preoccupano per la genuinità della fede (sul termine «sgridare, ammonire», v. a 8,30): non abbiamo qui forse un esempio di concezioni magiche, come se un semplice con tatto, senza fede, potesse mediare misteriose forze divine ? Eppure Gesù si indigna per loro, come soleva fare per la malattia e l'increduli tà ( 1 ,4 1 .4 3; 3, 5 ) . La sua risposta non è una difesa degli adulti che por tano i bambini, ma dei bambini che non hanno fatto nulla. N on si tratta qui della loro innocenza o purezza, e meno che mai il « bambi no» è simbolo dell'asceta (Ev. Thom. 2 2); una cosa sola è chiara: che i bambini non fanno nulla e non sono neanche in grado di difendersi dall'eccesso di zelo dei discepoli. Proprio per questo sono benedetti: perché non hanno nulla da mostrare, nessuna opera da far valere. Ge sù estende però la promessa a tutti e, con una autorità quale Dio sol tanto ha, aggiudica il regno di Dio a quelli la cui fede è simile alla ma no vuota di un mendicante, perché nessuna opera propria e nessuna concezione di Dio si frappone fra loro e Dio (v. a Mt. 1 1 ,2 5; 2 1 , 1 6) . Per questa ragione si parla soltanto d i «ricevere» i l regno o d i «entra re» in esso (cf. excursus a 1 , 1 5). In tale modo può parlare solo colui che sa che in sé il regno futuro già incontra l'uomo e viene su di lui, sicché a una fede da fanciullo è dato ora tutto quanto si realizzerà un giorno in modo visibile. Come in 2, 1 4, Gesù esercita anche qui una prerogativa che spetta a Dio solo: egli promette ora la comunione con Dio, e in avvenire il regno di Dio, a colui che non ha nulla da esibire e il gesto esteriore di Gesù sottolinea soltanto la grande concretezza della sua promessa.
Thom.
2 2,
La pericope non parla del battesimo dei bambini, ma dice che il re gno di Dio viene promesso senza condizioni né meriti, anzi senza che da parte dell'uomo si avanzi una richiesta basata sui meriti. Dove il battesimo dei bambini riesce a esprimere ciò, esso è un buon segno di questa verità. In linea di principio, dunque, il battesimo dei bambini quale segno della promessa divina della grazia che precede qualsiasi opera umana è conforme alle affermazioni del N uovo Testamento. Secondo Atti 1 6,3 1 - 3 3 (cf. anche 1 Cor. 1 , 1 6) è anche chiaro che spes so veniva battezzata un'intera «casa», compresa la servitù; che vi fos sero stati anche bambini oppure no, in ogni caso non si trattava sol tanto di persone che erano pervenute alla fede per convinzione come il carceriere (si osservi il singolare «credi! », che ha per conseguenza la
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salvezza di tutta la casa) e che fossero in grado di confessarla. Il pro blema è se, celebrato come è oggi indiscriminatamente, il battesimo non diventa il segno che la chiesa vi vede qualcosa di così innocuo e indifferente da non prenderlo più sul serio neanche nella sua benedi zione. Perde allora il battesimo, che è anche (se non in prima linea o esclusivamente} una professione di fede nei confronti di altri, questa sua natura omologica ? Seguire Gesù nella libertà dalla ricchezza, 10,1 7-3 1 (cf. Mt. 1 9, I 6-3o; Le. I 8 , I 8-3o)
1 7 E mentre usciva in strada, uno corse da lui e gli si inginocchiò davanti e gli domandava: «Maestro buono, che devo fare per ereditare la vita eter na?». 1 8 Ma Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono ? Nessuno è buono salvo l'unico Dio. 1 9 Conosci i comandamenti: Non uccidere, non com mettere adulterio, non rubare, non rendere falsa testimonianza, non toglie re nulla a nessuno, onora tuo padre e tua madre». 20 Ma egli gli disse: «Mae stro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù» . 21 E Gesù lo guardò, gli piacque e gli disse: «Una cosa ti manca: avanti ! vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni, seguimi>>. 22 Ma egli fu rattristato da quella parola e andò via tutto addolorato; infatti aveva molti beni. 23 E Gesù si guardò intorno e dice ai suoi discepoli: «Come en treranno difficilmente nel regno di Dio quelli che hanno ricchezze! ». 24 Ma i discepoli si stupivano delle sue parole. Ma Gesù rispose di nuovo e dice loro: «Creature, com'è difficile entrare nel regno di Dio! 2 5 È più facile che un cammello passi per una cruna di ago che un ricco entri nel regno di Dio» .26 E quelli si stupivano ancora di più e dicevano l'un l'altro: «E chi allora può essere salvato ?». 27 Gesù li guardò e dice: «Presso gli uomini è impos sibile, ma non presso Dio; perché tutto è possibile presso Dio» . 28 Allora Pietro cominciò a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo se guito» .29 Gesù disse: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa e fratelli e sorelle e madre e padre e figli e campi a motivo di me e del l'evangelo 30 che non riceva cento volte tanto, ora, in questo tempo, case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme con persecuzioni, e nel mon do futuro vita eterna. 3 1 Ma molti primi saranno ultimi e gli ultimi primi». .
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19 Es. 20, 1 2- 1 6; Deut. J , I 6-2o.
Dietro i vv. 24b.2 5 (con «uomo» al posto di «ricco» ) e 27, forse già uniti con i vv 29-3 1 , si nascondono forse parole di Gesù e dietro i vv 1 7- 2 1 a (fino a «gli piacque» o «l'amò») una storia affine a 1 2,28-)4, così che entrambi i passi, collegati tra loro in un secondo tempo me.
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diante i vv. 2 1 b-23, furono riferiti al problema della ricchezza e allo stesso tempo assimilate ai requisiti per la sequela come Mt. 8, I 9-2 2 ? Eppure i vv. 2 1 b-22 appartennero più probabilmente fin dall'inizio alla storia dei vv. 1 7-22. Al contrario il v. 23 porta, con un'espressione tipica di Marco, dal caso singolo alla lezione generale (cf. 3 , 5 .34; simil mente 5,3 2). Anche lo stupore dei discepoli (v. 24a) corrisponde a 1 ,27 e a 1 0,3 2, ma, soprattutto, nella sostanza, alla tendenza di Marco di accentuare l'incomprensione dei discepoli. Nella parola di Gesù (v. 29) la formulazione antica (v. a 8,3 5) dovrebbe essere «per amore del re gno di Dio» (Le. 1 8 ,29). Marco ha accostato la sentenza al v. 2 8 . 1 7- 1 8. «Uno>>: è lasciato volutamente i n sospeso chi egli fosse: ogni lettore può identificarsi con lui. L'inginocchiarsi è un omaggio supe riore a quelli che si tributavano a un rabbi (cf. 1 ,4o; 5,2 2) . Da secoli in Israele i fedeli che si recano al tempio sono usi chiedere: «Che cosa debbo fare, per entrare e aver parte alla vita ?», e il sacerdote rinvia, come fa Gesù, ai comandamenti (Sal. 1 5 ; 24,3 -6). Anche i discepoli dei rabbi ponevano la medesima domanda. Ora, nel presente caso, si ha uno che vuole fare più di quanto «uno » faccia ordinariamente. In Israele si è sempre parlato di «ereditare» le promesse di Dio, perché si sapeva che la certezza dell'eredità futura riposava unicamente sulle di vine dichiarazioni di grazia e non sui meriti dell'uomo, appunto come nel caso delle eredità. Solo nel corso della storia, quando l'unità di Israele s'infranse anche in campo religioso, apparve il problema di chi facesse parte dell'Israele per il quale valevano le promesse di Dio. A questo dilemma si riferisce qui la domanda del nostro. In ogni caso è con questa serietà che va posta la domanda quando ci si mette a dialo gare con Gesù. Non si tratta solo di una vita serena, armoniosa: si tratta della «vita eterna», della possibilità di sussistere definitivamente davanti a Dio, anche di là della frontiera della morte. Questo dà al dia logo la sua profondità. Gesù è chiamato «Maestro buono» (v. 1 7) con un'espressione inusitata sia in greco che in ebraico. N ella risposta, Gesù vuoi precisare che egli respinge non il complimento, ma proprio la qualifica che è stata usata. Gesù voleva forse dire semplicemente che non si trattava di impostare il discorso sul piano dei complimenti re ciproci, ma che si trattava dell'Unico, di Dio stesso? Qui c'è senza du h bio qualcosa di vero, giacché anche in questo episodio egli agisce al posto di Dio stesso: nella sua chiamata alla sequela vengono di fatto
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verso questo uomo la vita eterna, Dio stesso, e con il suo sì o il suo no a Gesù egli dà, in realtà, un sì o un no a Dio (v. a 8,3 8). Proprio per questo Gesù invita sempre a non guardare alla sua persona, ma all' «u nico buono», come Filone chiama Dio (Mut. 7), a colui dinanzi al qua le nemmeno gli angeli sono puri (Giob. 4, I 8; I 5 , I 5 ; 2 5 ,3 s.). Ma come ha interpretato questa indicazione di Gesù la comunità, per la quale è importante che Gesù sia senza peccato (Gv. 8,46; 2 Cor. 5,2 I ; Ebr. 7,26; 1 Pt. 2, 22) ? Anche per la comunità ciò non implica ancora quella concezione greca secondo la quale Gesù sarebbe divino quanto alla sostanza, quanto alla natura che rimane costantemente immutabile. L a sua impeccabilità non è dunque una proprietà eternamente uguale, ben sì qualcosa che si realizza in mezzo alle tentazioni (E br. 4, I 5). In que sto Gesù è uguale ai «peccatori». Perciò è anche impossibile accertare la sua «bontà» una volta per tutte. 1 9-��. E ciò che cosa significa, infine, per la comunità d'oggi, che parla di «Dio padre» e di «Dio figlio» ? Essa cerca, con quelle espres sioni, di descrivere il mistero del fatto che Dio le viene veramente in contro nel Figlio. Ciò avviene proprio perché il Figlio non vuoi essere nulla per se stesso, ma in ogni espressione della sua vita vuole sempre allontanare l'attenzione dalla sua persona indirizzandola a quella di colui che è più grande di lui (aspetto che la dottrina classica della Tri nità non ha messo sufficientemente in rilievo). Così, la dottrina della Trinità non può essere compresa semplicemente come una definizione di Dio, ma piuttosto come racconto di un avvenimento: cioè che Dio vuole incontrare il mondo in suo Figlio (v. a I 5,39) e che così è fin dal principio (Gv. I , I -3 ). È sorprendente che Gesù, diversamente dai rab bi (Str.-Bill. 1, 90 1 s.), rinvii semplicemente ai comandamenti (v. I 9) colui che lo interrogava, senza interpretarli; e, inoltre, proprio ai co mandamenti pratici della seconda metà del decalogo che vengono cita ti a memoria, alla buona e senza preoccupazioni per l'ordine. Anche questo rivela l'assenza di ogni pedanteria legalistica. In questo Gesù è vicino a Mich. 6,8, ai giudei ellenistici e ai samaritani. A colui che ave va in mente prestazioni speciali da «santo» di serie A, Gesù indica so briamente la via della comunità, di tutti quelli che cercano di essere ubbidienti a Dio. Lì si può trovare la «vita». L'assicurazione dell'uo mo di avere osservato tu tti i comandamenti, non è orgoglio; infatti Ge sù «gli volle bene». C'è un'ubbidienza, un vivere con Dio giorno per giorno, ed è una buona cosa. Come in 1 , 1 6. 1 9 (v. ad loc. ); 2, 1 4 Gesù
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cerca l 'uomo con il suo sguardo; inoltre si sottolinea particolarmente l'amore di Gesù. L'unica cosa che manchi ancora è seguire Gesù . An che la sequela non va attuata in maniera legalistica: infatti Gesù non ha affatto preteso che tutti lo seguissero, cioè che si mettessero a pere grinare con lui ( 5 , 1 9 ). Invero Marco intende la sequela in senso più ampio, come condizione del discepolo di Gesù senza la quale non ci può essere un'autentica comprensione di Gesù. L'evangelista, dunque, considera valido in generale quello che Gesù qui dice in un caso parti colare a colui che gli sta dinanzi: l'osservanza dei comandamenti deve dimostrarsi proprio ora, in presenza di Gesù, con la disponibilità ad accettare la sua chiamata a seguirlo. Quanto viene chiesto non è un'o pera ancora più grande: è l'invito a non mancare di cogliere quello che l'ora richiede. Egli deve dimostrare l'ubbidienza verso Dio ricono scendo che questi gli si è avvicinato in Gesù. La cessione dei beni non è un requisito per la sequela, bensì la sua conseguenza, come in 1 , 1 8 . 20; 2, 1 4; cioè l a maniera concreta i n cui l a sequela s i compie. Pertanto non ci sono regole legalistiche valide per tutti. Una volta è necessario abbandonare la barca da pesca o il banco dell'esattore, un'altra i geni tori, oppure (Gv. 1 ,3 5-3 7.46) un altro profeta o un pregiudizio reli gioso, perché altrimenti sarebbe impossibile stare vicini a Gesù. Nel l'appello a seguire Gesù si tratta dunque sempre della totalità dell'uo mo; di una elezione che dona mentre esige; della domanda posta al l'uomo, se non voglia lasciarsi donare già qui, fin da ora, la vita futura, in una pienezza che include ogni cosa. Di fronte a questa domanda diventa allora visibile il fallimento dell'uomo davanti all'offerta di Dio, sebbene Dio gli voglia donare proprio ciò che egli sta cercando ! La tristezza dell'uomo che si allontana non è un segno di ribellione con: tro Gesù; rivela invece che egli è stato colpito nel vivo, ma non riesce ancora ad aprirsi all'accettazione del dono di Dio. La storia è stata certamente narrata e rinarrata più volte; la troviamo anche nel Vange lo dei Nazarei I 6 dove, però, i ricchi sono due: uno dei due si gratta la testa pensoso e Gesù gli contesta espressamente il diritto di dire di aver osservato la legge e i profeti, finché non sia disposto a cedere i suoi beni. Questa è solo un'illustrazione di come simili storie abbiano continuato a crescere ampliandosi. 2 3-27. Marco vuole sottolineare che quel che segue è valido per tut ti i discepoli, dunque che Gesù cerca anche la comprensione del letto re. Lo sbigottimento dei discepoli mostra lo spavento dell'uomo quan-
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do è posto seriamente davanti a Dio. Ovunque Dio diventi realtà, la sua superiorità è così radicale da gettare l'uomo nel panico. La reazio ne dei discepoli è quindi simile a quella del v. 22. Chiamando (v. 24) i suoi discepoli «creature» (o «ragazzi», «figli»: l'espressione usata qui ricorre altrimenti solo in Giovanni), Gesù mostra la sua preoccupa zione per chi è turbato e spaventato. Ma innanzi tutto la sua risposta mostra che la difficoltà non dipende da una singola richiesta esagera tamente radicale e neppure da uno straordinario attaccamento alla ric chezza, ma dal fatto che Dio non diventa così reale per l'uomo, che tutto ciò che è piccolo risulti piccolo rispetto à questa realtà. L'imma gine del cammello (v. 2 5) è grottesca e proprio per questo così efficace (v . a Mt. 5 , 1 3 ). In alcuni scritti rabbinici posteriori c'è la testimonian za di una espressione proverbiale che parlava di un elefante che passa per la cruna d'un ago. Non si può quindi indebolire l'immagine tra sformando il «cammello» in «gomena» (cambiando una lettera del ter mine greco) o lasciandosi abbindolare da un commento del IX secolo d.C. ( ! ) secondo il quale un'angusta porta di Gerusalemme si sarebbe chiamata «cruna d'ago», interpretazione alla quale è fin troppo facile associare ancor oggi, a fini di edificazione, esortazioni ad inginoc chiarsi in segno di umiltà (come veniva costretto a fare il povero cam mello quando la porta maggiore della città era già chiusa). I discepoli intendono la parola correttamente (v. 26). Il caso specifico di questo ricco rende manifesto ciò che vale per tutti. Eppure i discepoli non ca piscono ancora bene del tutto. Essi rimangono ancora fissati sull'uo mo, anche se ora hanno un esatto insegnamento circa l'uomo, invece di smettere di guardare all'uomo per guardare, invece, al grande atto di Dio. Per questa ragione Gesù li cerca ancora una volta con lo sguar do: questo gesto accresce il significato della frase seguente (v. 27). Con un'espressione anticotestamentaria (Zacc. 8,6 LXX; Gen. 1 8 , 1 4; Giob. 1 0, 1 3 LXX; 42,2) attira la loro attenzione sul miracolo della gra zia di Dio. Con la pronuncia di questa sentenza avviene la salvezza: gli uditori divengono proprietà di Dio, sono eletti. Come in 1, 1 6-20; 2, 1 4 il dono della sequela è interamente atto di Dio, interamente dono di grazia. L'ubbidienza può solo essere ricevuta in dono, e può essere conservata contro ogni pigrizia e ogni codardia sempre e solo come dono di Dio. 28-3 1 . Pietro menziona il «lasciare» prima del «seguire», benché, a ben guardare, ne sia solo la conseguenza. Inoltre, 1 Cor. 9, 5 mostra ·
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che più tardi egli prese con sé, nei suoi viaggi missionari, la moglie: è forse per questo che essa manca nell'elenco del v. 29 ? La promessa è singolare: riguarda la vita terrena (v. a 8,3 5 ), è dunque un invito a tro vare il dono della vita già qui nel donarsi. Seguire Gesù non porta alla miseria, bensì alla pienezza, alla realizzazione della vita. Dovunque c'è una dedizione autentica, lieta, che vive del dono di Dio, lì si adem pie questa promessa. Concretamente si deve pensare, senza dubbio, alla comunione che il discepolo troverà nella comunità. Eppure viene ricordato realisticamente e senza illusioni che questo avviene «insieme con persecuzioni» (v. 30). Questo compimento è dunque sobriamente distinto dal compimento pieno «nel mondo futuro». Soltanto allora ci sarà la vita senza l'ansia della tentazione. La sequela non è, dunque, una pura promessa di vita futura a scopo di consolazione; eppure è un'indicazione e un segno verso un compimento molto più ricco e completo, dove è sparita l'insidia della prova. Con l'ultimo logion (v . 3 1) Marco sottolinea la stranezza di questa legge di Dio. Marco non si limita dunque a fare l'elogio della povertà. La «mora le» del brano è anzi proprio nei vv. 2 5 -27 che non dicono niente di di verso da Rom. 3,23 s. L'affermazione che tutti sono peccatori non va certo intesa in senso esclusivamente morale. Il v. 20 permane, e anche il v. 1 9 è esatto. Solo che, non appena è giunto il momento di donare concretamente la vera vita all'uomo, si vede che nessuno la desidera veramente, a meno che non si compia il miracolo del v. 27. Non avvie ne mai il contrario, che l'uomo debba prima compiere qualche opera eccezionale, qualche grande rinuncia, affinché Dio diventi generoso verso di lui. L'esperienza mostra che ciò che è represso o negato di venta spesso preponderante rispetto a ciò che non viene represso né negato. Solo quando Dio è diventato grande, cioè quando si è verifica to il miracolo del v. 27, il resto diventa piccolo; il che certo non vuoi dire che, una volta che ciò sia cominciato ad accadere, non lo si debba anche praticare in mezzo a difficoltà. Ma in linea di principio prevale il carattere miracoloso del dono della sequela. Nessuno sforzo né de dizione né ascesi può attuare la sequela, ma unicamente il dono di Dio. Per questo motivo il brano appena esaminato ha una funzione così im portante nel vangelo di Marco. E anche per questo devono seguire, ora, l vv. 3 2-34·
Il terzo insegnamento di Gesù sulla sofferenza del Figlio dell'uomo, I O,J.2- 3 4 (cf. Mt. 20, 1 7- 1 9; Le. I 8,J I -34)
Ma erano in cammino e salivano a Gerusalemme e Gesù li precedeva ed erano sbalorditi, mentre quelli che lo seguivano avevano pau ra. Allora fece avvicinare di nuovo a sé i dodici e cominciò a dire loro ciò che gli sarebbe successo: 3 3 «Ecco, saliamo a Gerusalemme, e il Figlio dell'uomo sarà con segnato ai sommi sacerdoti e agli scribi ed essi lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani 34 e lo scherniranno e gli sputeranno addosso e lo flagelleranno e uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà» . M arco plasma questo brano, l'ultimo prima dell'inizio della passio ne, con un vigore particolare. Comincia e conclude (v. 5 2) con le paro le « in cammino»: è il cammino che porta al luogo della passione. Sia qui, all'inizio, che alla fine si trova il verbo «seguire». Quindi anche il «precedere» di Gesù, che ha la sua continuazione in 1 4, 2 8 = 1 6,7, po trebbe essere significativo per Marco. Il preannuncio della passione è notevolmente più ricco di particolari dei precedenti e somiglia a un breve riassunto della storia della passione, come forse veniva usato nel catechismo o nella liturgia. Certamente questa sintesi è stata composta dopo pasqua. Il particolare della «consegna» ai «pagani» e la forte sottolineatura delle loro azioni suggerisce che la sua formulazione è avvenuta forse in una comunità giudeocristiana. L'introduzione col riferimento al «salire» e l'attaccatura al v. 3 2 (redazionale) dovrebbero essere di Marco. 32
3 .2-34. Gesù viene descritto nella sua situazione particolare come chi procede consapevolmente, alla testa dei suoi, verso la passione. È singolare la distinzione fra quelli che «seguivano» e gli altri. Difficil mente si tratta di un gruppo diverso da quelli che in 1 0,28 dicevano « . � . noi ti abbiamo seguito». Gli «sbalorditi» sono dunque gli anonimi «loro» che vanno assieme agli altri, mentre quelli che «hanno paura» sono i discepoli in senso stretto. Sia l'uno sia l'altro gruppo intuisco no qualcosa del significato di questo viaggio; questa intuizione, nei di scepoli, si concreta in timore per via di quanto Gesù ha già detto in proposito. Ambedue le reazioni mostrano come questo viaggio abbia per Marco il carattere di azione rivelatrice divina: nel cammino di Ge sù verso la passione l'inconcepibilità di quello che Dio sta facendo di venta ancora più spaventosamente chiara che in 1 ,2 7. Così anche la p a rola di Gesù (v. 3 3 ) riprende il «salire» del v. 3 2 e ne precisa il signifi-
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cato. Della flagellazione e degli sputi parla anche /s. 5 0,6 (v. a 14,6 5 ). Il verbo «crocifiggere>> invece di «uccidere>> compare per la prima vol ta solo in Matteo (20, I 9). Appartiene forse già a uno stadio successivo della confessione di fede (di impronta paolina? cf. anche Mc. 1 6,6; Atti 2,3 6; 4, 1o) ? Marco mette proletticamente in evidenza l'importanza di questo avvenimento, senza il quale non si sarebbe capito nulla di Gesù. Per ciò segue ancora una volta la descrizione della cecità dei discepoli (vv. 3 5 -4 I ), l'appello alla sequela (vv. 42-4 5 ), e l'accenno al miracolo di Dio, senza il quale non vi è sequela (vv. 46- 5 2). L'incomprensione dei discepoli e la sequela di Gesù, (cf. 20,20-28; Le. 22,24-27)
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E Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, si avvicinano a lui e gli dico no: «Maestro, vogliamo che tu ci faccia solo quello che ti chiediamo» . 36 Ma egli disse loro: «Allora, che cosa volete che vi faccia?». 37 Ed essi gli disse ro: «Concedici di sedere uno alla tua destra e l'altro alla tua sinistra nella tua gloria>>. 38 Ma Gesù disse loro: «Non sapete che cosa chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o venire battezzati col battesimo con il quale so no battezzato ?». 39 Ed essi gli dissero: «Lo possiamo». Ma Gesù disse lo ro: «Berrete il calice che bevo e verrete battezzati col battesimo con il quale sarò battezzato; 40 ma dare il posto alla mia destra o alla mia sinistra non è cosa che spetti a me, ma (verranno assegnati) a coloro per i quali sono stati preparati». 41 E appena i dieci udirono ciò cominciarono a i rritarsi a causa di Giacomo e Giovanni. 42 Allora Gesù li chiamò vicino a sé e dice loro: «Voi sapete che quelli che sono considerati sovrani dei popoli esercitano su di loro il proprio diritto di dominio c i loro grandi esercitano su di esse il potere. 43 Ma non è così fra voi; anzi chiunque voglia diventare grande fra voi, dovrà essere vostro servo; 44 e chiunque voglia essere primo fra voi, dovrà essere lo schiavo di tutti. 45 Perché anche il Figlio dell 'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita come ri scatto per molti» . 35
La disposizione della pericope risale a Marco; come in 8,3 2 ss.; 9,3 3 ss. all'annuncio della passione seguono incomprensione dei discepoli e appello alla sequela. La parola del calice che deve essere bevuto si trova anche in Gv. I 8 , 1 I (cf. Mc. I4,3 6); quella sul battesimo anche in Le. 1 2, 50. Per quanto se ne sappia, i figli di Zebedeo non hanno sof ferto un comune martirio (Atti 1 2,2 = 44 d.C.; Gal. 2,9 [secondo 1 , 1 8;
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L'incomprensione dei discepoli e la sequela di Gesù
2, 1 = 14 (+ 3 ?) anni dopo la vocazione di Paolo] deve essere più tardo, al tempo di Atti 1 5 , 1 ss.). Proprio per questo motivo deve trattarsi di una parola di Gesù; difficilmente la comunità si sarebbe espressa in simili termini. L'ipotesi che si tratti soltanto di un'allusione al fatto che i figli di Zebedeo avrebbero in futuro avuto l'esperienza di batte simo e cena, viene praticamente esclusa dalla formulazione «potete ... ?>> . S i aggiunga che i vv. 3 8 e 39, a ben vedere, sono inconciliabili col v. 40: è forse quest'ultimo uno sviluppo posteriore o lo sono, viceversa, i vv. 3 8b.3 9 ? La descrizione dei due discepoli ha disturbato già Matteo che ha attribuito la domanda alla loro madre; però poi ha dimenticato di correggere anche 20,22.24; Luca ha tralasciato completamente tutto l'episodio. È possibile che i vv. 3 7.40 rispecchino tensioni tra i figli di Zebedeo e altri (Mt. 1 6, 1 8; Gv. 2 1 ,20- 22) nel governo della comunità primitiva ? Il v. 41 è transizione di Marco, come indica la sua espres sione tipica «li chiamò vicino a sé» (v. a 3,20-3 5, intr.) con cui aggiun ge le parole dei vv. 42-4 5 . Queste non sono del tutto pertinenti giac ché parlano di importanza nella comunità, non di grandezza nella glo ria. In Le. 22,24-27 ricorrono nella descrizione dell'ultima cena, chia ramente senza l'idea del prezzo di riscatto di Mc. 1 0,4 5 , che perciò potrebbe essere una glossa interpretativa della comunità alla pari del titolo di «Figlio dell'uomo» che manca in Luca. È probabile che a monte di questo passo vi sia fs. 5 3 , anche se non si può cogliere alcuna eco termino logica. Stranamente, fs. 5 3 è stato scoperto e usato teolo gicamente con una certa ampiezza dalla comunità solo relativamente tardi: una sua citazione vera e propria riferita alla passione di Gesù si trova per la prima volta in Atti 8,3 2 s . (dove serve a sottolineare mar catamente più la successione di abbassamento e innalzamento che il carattere espiatorio della morte di Gesù; cf. inoltre 1 Pt. 2,2 1 ss. dove la sofferenza di Gesù è intesa come modello). Il titolo di «servo di Dio» si trova solo in Mt. 1 2,1 8 (citazione, riferita alle guarigioni com piute da Gesù !); Atti 3 , 1 3 .26 (con reminiscenze di fs. 5 3 ); 4,27.30 (in parallelo col servo di Dio Davide del v. 2 5, non con fs. 5 3 ). Invece una formula citata in Rom. 4,2 5 mostra che fs. 53 è stato riferito già relati vamente presto, nella comunità, alle sofferenze di G esù, ma senza ve nire ancora sviluppato teologicamente. Tutto questo porta a conclu dere che il v. 4 5 non risale a Gesù e che forse la comunità giudeocri stiana di lingua greca fu la prima a scoprire questo rapporto con l'An tico Testamento. Anche Le. 22,2 7 fonda la condotta dei discepoli sul
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servizio di Gesù. Il logion del «servizio» (che nell'originale greco si riferisce soprattutto al servire a tavola) e del «servitore» è così salda mente attestato (v. 4 3 ; 9,3 5; Mt. 23, 1 r ) da far pensare che queste paro le, almeno nell'ambito linguistico greco, erano collegate sempre con un pasto (l'ultimo ?) di Gesù. 3 7-3 8. Il desiderio dei figli di Zebedeo mostra come la via di Dio proceda in maniera assolutamente incomprensibile e contraria a ogni pensiero umano. La «gloria» di Gesù è quella di Mt. 2 5 ,3 1, cf. Mc. 8,3 8 . L'immagine del calice della sofferenza si trova già nell'Antico Testamento: /s. 5 1 , 1 7.22; Lam. 4,2 1 ; Sal. 74,9; Mart. /s. 5 , 1 3 : «Per me soltanto Dio ha mesciuto il calice (del martirio)». Molto discusso è il detto del battesimo (v. 3 8 ) . Di «battesimo di sangue» si parla per la prima volta nel n secolo d.C. (Tertulliano, De Baptismo r 6) . Il verbo «battezzare» significa in greco «immergere», al passivo «andare a fondo». Nell'Antico Testamento si trova l'immagi ne dell'arante che si sente sommerso dalle acque o in fondo al mare (Sal. 42,8; 69, 2 s.; /s. 43,2 ), ma i LXX adoperano altri verbi per espri mere questo concetto. Solo una volta si legge: «L'iniquità mi battezza (= mi sommerge) » (/s. 2 1 ,4 LXX) . Apocalittici giudaici hanno atteso alla fine dei tempi la morte e la «rinascita» di ogni cosa. Questo verbo, che va distinto da quello usato nel Nuovo Testamento per indicare il « nascere di nuovo», si trova riferito al battesimo unicamente in Tit. 3 , 5 ; il suo uso in Mt. 19,28 è, invece, chiaramente apocalittico. In Paolo la formula «essere con Cristo » denota la vita nel regno di Dio ( 1 Tess. 4, 1 4. 1 7; 5 , 1 o; 2 Cor. 4, 14; 1 3 ,4; Fil. r,2J ) , ma allo stesso tempo ciò che viene dato all'uomo nel battesimo (Rom. 6,3 - 8 ) . Poiché anche il battesimo di Giovanni possiede chiari tratti apocalittici, forse già prima di Gesù il battesimo è stato inteso quale anticipazione della crisi escatologica, eventualmente anche persino come «rinascita» . Al lora Gesù stesso potrebbe aver adoperato un'immagine anticotesta mentaria analoga. Si potrebbe anche pensare a un «battesimo génera le» nel quale Gesù in qualche misura assume nel suo destino la tribo lazione degli ultimi tempi e così realizza la «nuova nascita» del mon do (cf. v. 4 5 ) . Ma non si può più dire con certezza se simili idee fosse ro effettivamente associate a quest'immagine né se fu così fin dal prin cipio o solo nel corso della tradizione o se l'immagine stessa sia un semplice paragone anticotestamentario.
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3 9· In ogni caso che questa sofferenza avvenga per tutti non è detto a questo punto (diverso è il v. 4 5 ), dove si afferma solo che ai due di scepoli sarà dato di parteciparne. «Calice» e «battesimo» evocarono tuttavia nella comunità l'idea della cena e del rito battesimale, preci samente nel senso del suo inserimento nella sorte di Gesù (Rom. 6,3 8). Gnostici più tardi collegano perciò direttamente questa parola con il detto eucaristico di Gv. 6, 53 s. {lppolito 5 ,8, I I ). Senza dubbio ciò ha facilitato l'aggregazione dei vv. 42-4 5 a questo passo. Già nell'An tico Testamento l'israelita partecipa delle promesse di Dio e del paese che i suoi padri hanno ereditato; con la circoncisione e con il banchet to dell'alleanza viene «incorporato» in queste realtà, e ciò implica che il suo cammino si snodi in modo analogo a quello dei padri. L'incor porazione nel destino di Gesù, che implica partecipazione alla sua be nedizione e colloca sotto la sua signoria, è dunque la prima cosa; che questo si presenti di regola sotto forma di un cammino analogo a quello di Gesù, è la seconda (cf. 2 Cor. 4,7- 1 5; 5 , 1 8-6, 1 0). Perciò il v. 38 ha i verbi al presente, il v. 39 invece al futuro: il cammino di Gesù adesso e il cammino del discepolo che vi si collegherà nel futuro si trovano su due piani diversi: ogni «seguire» è fondamentalmente una partecipazione al suo cammino che è già sempre un «precedere» (v. a I , 1 6-2o, fine). La «via» dei vv. 3 2a e 5 2b, cioè il cammino di Gesù ver so la croce, include tutta l'esperienza della comunità. Poiché questo inserimento nel cammino di Gesù è una realtà, esso si manifesterà an che in molte analogie con la via di Gesù. 40. L 'osservazione conclusiva del v. 40 è grammaticalmente dura anche in greco; si deve senza dubbio al fatto che si è voluto evitare per reticenza il nome di Dio. Proprio il fatto che Gesù lasci nella massima indeterminatezza chi siano quelli cui sono destinati (da Dio) i posti vicino a lui rende assolutamente impossibile collegare la sequela di Ge sù con il diritto a una ricompensa speciale. Ogni carattere meritorio della sofferenza è sostanzialmente respinto anche se Dio non la di menticherà di sicuro (9,4 1 ). 4 1 -45. Il successivo dialogo con tutti i discepoli sviluppa ancora una volta il significato etico (vv. 42-44) e dogmatico {v. 4 5 ) del cammino di Gesù nella sua fondamentale predeterminazione. Perciò Marco ac centua il «chiamare vicino a sé» (v. a 3,20-3 5, intr.). Rispetto a 9,3 5 (v. ad loc. ) la regola è fortemente ampliata; forse la contrapposizione ai sistemi del mondo ha preso forma solo quando c'era già una disciplina
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ecclesiastica. In ogni caso è chiaro che questa non può semplicemente copiare gli ordinamenti politici, sì che i sinodi diventino un parlamen to, le decisioni spirituali diventino una votazione democratica sulla base delle direttive di partito o di decisioni dell'autorità ecclesiastica. L'espressione «per molti» è giudaica, e significa «a vantaggio (e non: al posto) di tutti»; infatti «molti» descrive semplicemente il grande numero di persone in contrapposizione al singolo, senza accentuare (ma anche senza escludere) che ci possano anche essere alcuni che non sono inclusi. La concezione della morte di Gesù come «riscatto » (o «prezzo di riscatto» : solo in questo logion in tutto il Nuovo Testa mento) o espiazione ritorna in Marco solo in 1 4,24 (v. ad loc. ). L'idea che la sofferenza innocente sia sopportata sia per i peccati propri sia per quelli degli altri, è assai diffusa nel giudaismo di lingua greca; pro prio per questa ragione, forse, non fu riferita tanto frequentemente alla sofferenza di Gesù. Il suo carattere particolare di sofferenza «de gli ultimi tempi» che, alla fine del cammino di Israele, porta a compi mento ogni sofferenza passata ed è quindi inizio di un tempo nuovo non permetteva di venire espresso per mezzo di quel concetto. Che, perlomeno a partire da Atti I I ,20 e da Paolo, la comunità, rifacendosi alla condotta di Gesù {2,27 s.; 3,4; 7, 29; Mt. 8,ro- 1 2 ecc.), non abbia più limitato l'espressione in esame ai soli israeliti, rappresentò una novità rispetto a tutti i precedenti giudaici. Anche nel nostro contesto il v. 4 5 non è semplicemente un'interpretazione dogmaticamente esat ta del cammino di Gesù, bensì la motivazione delle proposizioni pre cedenti (v. al v . 3 9). La sofferenza di Gesù viene sì interpretata, ma non così da potere prenderne conoscenza o predicarla su un piano pu ramente concettuale, bensì in modo tale da potere solo essere creduta nella realtà di una vita vissuta da discepolo, in una sequela conforme ai vv. 42-44. Si ha così il trapasso al v. 5 2 (v. ad loc. ). Perciò il v. 43 co mincia con le parole «Ma fra voi non è così». L'inesistenza in seno alla comunità di una gerarchia nel senso del v. 42 è il frutto inalienabile della passione di Gesù. Neppure tutti gli errori della chiesa potranno annullarlo. La seq uela come miracolo di Dio, (cf. Mt. 20,29-34; Le. r 8,3 5-43 )
1 0,46- s 2
Arrivano poi a Gerico. E mentre usciva da Gerico lui, i suoi discepoli e una grande folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, un mendicante cieco, stava
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I
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Mc.
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seduto in strada. 47 E quando sentì che era Gesù di Nazaret, cominciò a gri dare e a chiamare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ». 48 E molti lo sgridavano perché stesse zitto. Ma quello gridava ancora di più: «Figl io di Davide, abbi pietà di me! ». 49 E Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo! » . E chiamano i l cieco e gli dicono: «Coraggio, alzati, ti chiama ! » . s o M a lui gettò via la veste, saltò su e venne da Gesù. s 1 E Gesù gli rispose e disse: «Che cosa vuoi che ti faccia ?». E il cieco gli disse: «Maestro, che io torni a vedere! » . 5.1 E Gesù gli disse: «Vai pure, la tua fede ti ha soccorso» . E subito tornò a vederci e lo seguiva per la via. La storia è stata presentata a questo punto e narrata da Marco in funzione della sequela e, nelle ultime parole, come immagine della se quela. Essa mette inoltre in evidenza l'importanza della storia della passione, che segue subito dopo, come 8,22-26 aveva messo in risalto l' «insegnamento» esplicito della sofferenza del Figlio dell'uomo (8,273 2). Allo stesso scopo serve l'aggiunta zoppicante «e i suoi discepoli c una grande folla» (v. 46) con cui Marco accenna nuovamente alla se quela. La localizzazione dell'episodio a Gerico è, senza dubbio, un tratto tradizionale: quindi «da Gerico» risale alla tradizione, e «a Ge rico» è di Marco. Potrebbe darsi che l'idea di un viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme attraverso la Transgiordania e Gerico sia sorta solo a motivo della collocazione marciana, condizionata teologicamen te, di questo episodio (e di una correzione manoscritta seriore a I O, I � «Verso l a Giudea attraverso la Transgiordania» ) . Mc. I ,44; Le. I 7, I 4 (sacerdoti in servizio ce n'erano soltanto a Gerusalemme); Gv. 2,2 3 ; s , I ; 7, I o; 1 0,40; I 1 , 5 4 potrebbero suggerire che Gesù sia stato più di una volta a Gerusalemme o nei suoi dintorni; tuttavia questa rimane una possibilità priva di certezza. 46- 5.1. «Figlio» in aramaico è bar, sicché i due nomi hanno il mede simo significato. Riprendendo il racconto dalla tradizione aramaica è stata certamente aggiunta la traduzione. «Figlio di Davide» in Marco si trova solo qui (v. a 1 2,3 7). La notizia dell'intervento della folla per far tacere il cieco mette ancora di più in risalto la perseveranza della sua fede e la volontà di Gesù di dedicarsi a quell'uomo derelitto e svan taggiato. Proprio questo è il senso del suo viaggio a Gerusalemme, e soltanto a uomini come quelli che il cieco rappresenta sarà concesso il miracolo dell'illuminazione. Come la disponibilità di Gesù per il cie co, così anche lo scatto del cieco verso Gesù è esplicitamente descrit-
Mc. I o,46- 5 2 .
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to: l'una e l'altro mostrano in che modo la storia della passione venga compresa nella giusta maniera. La guarigione avviene in maniera del tutto consapevole. L'appellativo «maestro» è più importante e forse più riverente del solito (rabbuni invece di rabbi). Nella richiesta come nella descrizione della guarigione è adoperato lo stesso verbo che ap pare in Is. 42, 1 8 nella promessa ai ciechi. La risposta di Gesù sottoli nea ancora una volta che in questo racconto si tratta, in realtà, di illu strare una fede autentica (v. a 5,34). Il verbo tradotto con «soccorre re» significa anche «salvare» (come in 5 ,34). Subito prima del racconto della passione Marco mostra dunque ai lettori, ancora una volta, che cosa voglia dire fede e che cosa voglia di re seguire Gesù. Nell'ordine si ha: il pregare con perseveranza, l'in vocazione malgrado gli ostacoli, il conforto, la corsa incontro a Gesù, il lasciarsi interrogare da lui, il farsi aprire gli occhi, il seguirlo nel suo cammino. Solo quando all'uomo vengono aperti gli occhi da un' azio ne miracolosa di Dio che gli consente di vedere quel che accade in Ge sù e di «seguirlo per la via», egli capisce ciò che resta adesso ancora da raccontare: il cammino del Figlio dell'uomo verso la passione.
Parte sesta
Passione e risurrezione del Figlio dell'uomo ( 1 I , I - 1 6, 8 ) La storia della passione è particolarmente controversa. Esisteva una fonte, che risaliva già alla comunità di Gerusalemme, che conteneva, oltre tutto il materiale storico di Mc. I I , I - 1 6,8 anche, ad es., 8 ,27-3 3 ; 9,2- I J . 3 0-3 5; IO, I a.J 2-3 4·46- 5 2 oppure, come sostengono altri, sol tanto gli eventi del Getsemani fino alla deposizione nella tomba? Esi stevano due fonti, una di orientamento fortemente apocalittico che an dava dall'omaggio di Betania (!) fino alla confessione ai piedi della cro ce ( I 1 , 8- I 5,39 ) , e una che narra coi verbi al presente dall'ingresso a Gerusalemme al tragitto fino alla tomba e sottolinea la preconoscenza di Gesù e il fallimento dei discepoli ? Oppure fu Marco il primo a scri vere una storia della passione, servendosi di singoli racconti, l'unico materiale a sua disposizione ? A prescindere dalla crocifissione di Ge sù, che in quanto tale deve far parte dello strato più antico, per il resto il disaccordo è totale. Ora, rispetto a quanto si è letto fin qui, la storia della passione ha indubbiamente caratteristiche proprie (cf. introdu zione, 2 -4 ) . Episodi come l'offerta di Giuda di tradire Gesù, l'indica zione del traditore durante la cena, il Getsemani, l'arresto o il proces so non possono essere stati tramandati isolatamente. Pertanto la storia della passione deve essere stata narrata fin dal principio in un certo con testo . Certamente anche dopo Marco sono stati aggiunti nuovi episo di (Mt. 27,3 - 1 0.62-66; Le. 2 3 ,6- 1 6.27-3 I ) ; anche prima di lui la tradi zione può avere subito ampliamenti (ad es. Mc. I 2, I J -40; I 3 ; forse I 4,J -9. 1 2- 1 7.22-2 5, ecc.). A differenza del resto del vangelo le sezioni principali della storia della passione compaiono anche in Giovanni, nel medesimo ordine; è certamente dovuto a fattori teologici che la puri ficazione del tempio e la domanda circa l'autorità si trovino già all'ini zio (Gv. 2, 1 1 -22 ) . Forse Luca ha conosciuto anche un'altra fonte che raccontava la storia seguendo un ordine simile (v. a Le. 2 2,47-7 I ; ex cursus a Le. 2 3, I 3 - 2 5 ) . Singolari sono le indicazioni cronologiche che compaiono a partire da 1 1, I I e, in maniera molto chiara, da I 4, 1 , men tre prima mancano quasi del tutto (se ne ha una in 9,2 : v. ad loc. e rela-
La storia della passione
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tiva intr.). I nomi di luogo e di persona sono più frequenti, ma ricor rono anche altrove (6,4 5 . 5 3 ; 7,24.3 I ; 8 , 1 0.22; anche 2, 1 4; 5,22). I som mi sacerdoti hanno un ruolo soltanto qui e nelle allusioni alla passione (8,3 I ; I O,J 3). Soprattutto a partire da I I , I - I I (certo in maniera sovrab bondante solo nel cap. 1 5) la narrazione è tale da mostrare chiaramen te l'influenza di passi dell'Antico Testamento, senza che ci siano co munque citazioni o riferimenti precisi. Poiché tutte queste particolari tà iniziano non prima di I I , l sembra abbastanza ragionevole ipotizza re che alla base di I I , I - I 6,8 ci sia una tradizione di natura particolare. Come la si può immaginare ? Quando si racconta una storia riguar dante il proprio padre, i parenti più prossimi sanno esattamente in qua le contesto della sua vita ricada l'episodio in questione, altri amici ne hanno una vaga idea, un estraneo che sia presente è totalmente all'o scuro di tutto. Tuttavia chi narra si limiterebbe a dare soltanto le in formazioni indispensabili circa la situazione («quando papà abitava an cora a R., quando aveva sì e no tre nt'anni ... » e via su questo tono). Così la comunità ha sempre conosciuto i dati principali, anche quan do si raccontava una storia isolata. La successione di morte, sepoltura, risurrezione, apparizione è già fissata in I Cor. 1 5 ,J - 5 . Poiché Paolo era a Gerusalemme pochi anni dopo la morte di Gesù, già allora l'or dine doveva essere sostanzialmente un dato fisso. Secondo I Cor. I I , 23 -26 la liturgia della cena presuppone l'ulteriore conoscenza d i certi particolari («nella notte . .. » ) . Se si parlava di ingresso a Gerusalemme, purificazione del tempio, questione dell'autorità la comunità sapeva bene dove il discorso avrebbe condotto; anzi questi particolari riceve vano un loro significato soltanto alla luce della croce e della risurre zione. Tuttavia non era necessario raccontare tutte le volte tutta quan ta la storia ed estranei possono talvolta aver sentito narrare solo epi sodi isolati. Ma ora in I I , I I s. 1 9 s.27; 14, 1 .(1 2.) 1 7 sembra affiorare una sorta di schema settimanale per gli ultimi giorni di Gesù. Questa non è ancora una prova dell'esistenza di una fonte scritta; ma dimo stra pur sempre che oltre 1 Cor. 1 5 , J - 5 gli eventi principali della pas sione erano noti e ordinati nel corso di una settimana. Questo schema non può in alcun modo essere attribuito a Marco perché nel suo van gelo non si trova nulla del genere. Come minimo, dunque, deve essere esistita prima di Marco una tradizione, orale o scritta, già ben consoli data, con un ordine di successione fisso, con precise indicazioni crono logiche e una visione fortemente improntata all'Antico Testamento.
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La storia della passione
Come si è giunti a questa fase ? I singoli brani sono certamente ser viti a scopi determinati anche se presuppongono una conoscenza di tutta la passione. Così Mc. 1 4,22-2 5 è stato sicuramente utilizzato nel la liturgia eucaristica, la scena del Getsemani è stata formulata in ma niera adatta a edificare la comunità, il rinnegamento di Pietro ha un chi a ro orientamento parenetico. Più tardi sono diventati importanti gli in teressi apologetici (Mt. 27,62-66; ma già prove scritturali dirette come Mc. I 5,24). Ma come si è giunti a uno schema cronologico e teologico vero e proprio ? Funzioni religiose dedicate alla passione con ore di preghiera fisse oppure un lezionario per la settimana di pasqua riman gono ipotesi molto incerte. Un primo inizio si manifesta invece in brevi sommari che interpretano per la comunità il destino di Gesù ( 1 Cor. I 5,3- 5). Poi si imparò a vedere la morte di Gesù alla luce dei sal mi del giusto sofferente e si scoprirono quindi, partendo da lì, anche altri riferimenti della Scrittura ai fatti degli ultimi giorni della sua vita. Forse nell 'istruzione dei catecumeni o nella predicazione della setti mana di pasqua rientrava una certa descrizione omogenea con questo orientamento. È possibile che la datazione risalga a una distribuzione del materiale articolata sugli incontri giornalieri durante questo perio do pasquale; ma non se ne sa assolutamente nulla. N on si sa se prima di Marco esistesse qualcosa di più sostanzioso di questo schema cro nologico, una rappresentazione orale già abbastanza fissa grazie alle frequenti ripetizioni, con echi stereotipati dell'Antico Testamento, in parte con una formulazione già fissa nella terminologia come 14,222 5. Comunque tale ipotesi va verificata in sede di esegesi dei singoli brani (v. a 14, 1 7-2 1, intr.). Il contributo decisivo di Marco è il prolungamento della storia della passione a ritroso, fino a 8,3 1, anzi fino a 3,6 e I , I 4a. Di fatto la storia della passione plasma tutto quanto il suo vangelo, come mostra lo schema del triplice rifiuto di Gesù e del triplice annuncio della passio ne (cf. retrospettiva). Certamente non basta definire il vangelo di Mar co «una storia della passione con una esauriente introduzione» - si dovrebbe parlare anche del «libro delle epifanie segrete» e della lotta di Gesù per la rivelazione di Dio agli uomini - ma con tale definizione si mette in evidenza qualcosa di decisivamente importante per Marco.
A.
GLI ULTIM I G I O RNI A GERUSALEMME
( I I , I - I J , J 7) L'ingresso nel tempio, 1 1, 1 - 1 1 (cf. Mt. 2 1 , 1 - 1 1 ; Le. 1 9, 29-3 8·4 5 ) 1 E quando giungono nelle vicinanze di Gerusalemme, a Betfage e Betania sul Monte degli Ulivi, manda due dei suoi discepoli 2 e dice loro: «Entrate nel villaggio che è davanti a voi, e subito, appena entrate lì, troverete un puledro legato sul quale nessuno si è ancora seduto; scioglietelo e portatelo qui. 3 E se qualcuno vi dice: Ehi, che state facendo là?, dite così: Il Signore ne ha bisogno e lo rimanda subito qui». 4 Allora andarono via e trovarono un puledro legato alla porta della città, dalla parte di fuori verso la strada, e lo sciolgono. 5 E alcuni di quelli che stavano lì dicevano loro: «Ehi, che fa te, perché sciogliete il puledro ?». 6 Ma essi dissero loro come aveva detto Gesù e li lasciarono fare. 7 E portano il puledro a Gesù e gli gettano sopra le loro vesti ed egli vi si sedette su. 8 E molti stesero sulla strada le proprie vesti, e altri frasche verdi che avevano tagliate nei campi. 9 E quelli che pre cedevano e quelli che seguivano gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore; Io benedetto il regno veniente di nostro padre Davide; osanna nei luoghi altissimi ! » . 1 1 Allora entrò a Gerusalemme, nel tempio e quando aveva guardato bene ogni cosa, essendo già molto tardi, uscì verso Betania con i dodici.
9 Sal. u 8,2 5 s.
Il racconto è molto singolare. I preparativi per l'ingresso e la grande eccitazione della folla finiscono in nulla. Risuonano grida di giubilo, ma solo fuori città; manca una confessione messianica, non si cita Zacc. 9,9 né vi si allude chiaramente, benché il termine greco « giovane pule dro» usato in quel passo significhi anche «puledro nuovo, mai monta to» e ha portato così, certo già prima di Marco, al v. 2b. Infine, tutto si conclude senza risultato, con una visita di Gesù al tempio, dove guar da ogni cosa come un turista e poi si ritira. Inoltre il v. 8 presuppone che Gesù vada a piedi. Sono state forse collegate in un secondo tempo un'ovazione a Betania e una passeggiata a dorso d'asino fino a Geru s alemme (cf. anche Gv. 1 2, 1 . 1 2)? Le manifestazioni di entusiasmo a Betania potrebbero aver richiamato l'attenzione delle autorità su Ge sù, mentre nel caso di un ingresso messianico a Gerusalemme i romani sarebbero immediatamente intervenuti. Montare un asino di per sé non dà nell 'occhio; si narra esattamente la stessa cosa di un rabbi, senza al cun particolare rilievo (Str.-Bill. 11, 4 1 5 ) . Ma forse, in seguito, la co munità vi ha visto un riferimento a Zacc. 9,9 e sottolineato l'allusione
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Mc. 1 I , J - 1 1 .
L'ingresso nel tempio
coi vv. r b-6. Forse lo stesso Gesù, in contrapposizione alle speranze messianiche, ha volutamente richiamato il re di pace di Zacc. 9,9, sen za peraltro essere capito. Comunque sia, non ha usato in alcun modo per i propri fini un'esplosione di entusiasmo popolare. Se la storia fos se stata tessuta soltanto a posteriori partendo da Zacc. 9,9 i riferimenti a quel testo sarebbero molto più evidenti. Poiché nel giudaismo Davi de non è mai chiamato «nostro padre >> il v. Io è sicuramente opera del la comunità per la quale Davide, in quanto «padre» di Gesù (Le. I,J 2) era anche suo «padre». 1 - I I. Betfage è più vicina a Gerusalemme di quanto non sia Betania, che ne dista circa 3 km. Gesù si recò forse a Betania passando per Betfage, e poi solo il giorno dopo (o anche più tardi) si recò a Gerusa lemme ? In ogni caso Marco non conosce più le località. Sul Monte de gli Ulivi si attendeva secondo Zacc. I 4,4 l'apparizione escatologica di Dio, secondo Flavio Giuseppe (Ant. 20, 1 69) quella del messia (cf. an che Ez. I 1,23; 2 Sam. I 5,3 2). Il testo non dice se il puledro fosse di ca vallo o di asino; il più comune in Palestina è il secondo, benché la pa rola greca, senza specificazione, significhi un puledro di cavallo. A par te il fatto che non si descrive mai Gesù che va a cavallo, il particolare che il puledro non sia stato mai montato prima mette in evidenza il suo significato (cf. Zacc. 9,9 ) . Ancora di più lo accentua l'istruzione di Gesù al v. 3· Mai altrove in Marco Gesù è chiamato «il Signore» (cf. soltanto 1 2,36 s. e l'apostrofe di 7,2 8). Forse in origine si voleva dire «il nostro maestro »; ma all 'epoca di Marco vi si poteva leggere soltan to l'affermazione che Gesù è «il Signore » assoluto, sopra tutti. Più tar di si scoprì in Gen. 49, I I che il puledro era legato a una vite (Giusti no, Apol. 3 2,6; Clem. Al., Paed. 1 , 5 , 1 5 ): così passi dell'Antico Testa mento introdussero nuovi particolari nella storia di Gesù. L 'esatto com pimento di quanto Gesù avev� previsto sottolinea il significato del suo procedere sul puledro: Dio stesso provvede ogni cosa e fa agire gli uo mini secondo la sua volontà. Stendere le vesti per terra (2 Re 9, 1 3 ; Act. Pii. 1 ,3 ) è una forma di omaggio abbastanza insolita, tanto più che Ge sù è sul puledro e che il cammino è lungo. Le «frasche» difficilmente possono essere rami di palma (nonostante Gv. I 2, r 3), perché le palme sono rare nei dintorni di Gerusalemme. Potrebbero far pensare a un ingresso a Gerusalemme nella stagione autunnale, perché erano comu ni in occasione della festa delle capanne, così come l'hallel (v. 9). Gesù
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cavalca evidentemente in mezzo alla folla, mentre alcuni lo precedono e altri lo seguono. «Osanna» significa letteralmente «d eh, aiuta! », ed era un'invocazione nota ad ogni israelita dalla conclusione del cosid detto hall el (Sal. 1 I 8,2 5 ). L'hallel comprendeva i Sal. I I 3- I I 8 e si leg geva in tutte le feste dei pellegrinaggi, dopo la preghiera del mattino. Al tempo di Gesù «osanna» aveva forse già una forte nota escatologi ca, come invocazione del soccorso definitivo di Dio. Tuttavia in Mar co è poco più di un grido di omaggio ( I ob, cf. Sal. 1 4 8 , I ; Did. 1 0,6: «Osanna al Dio di Davide ») - o qui si deve intendere « giù dal cielo» ? Il primo grido di giubilo (Sal. I 1 8, 2 5 s.) poteva ancora valere per qual siasi pellegrino; il secondo, però, rivela l'attesa del regno messianico promesso (v. a I 0,48 ) . Forse è contrapposto al grido di Bartimeo che ha capito che il «Figlio di Davide» col suo regno è già presente. Nulla si riferisce circa un intervento delle autorità giudaiche o romane e la notizia (v. I I ) sembra essere una indicazione geografica senza impor tanza, come se ne trovano spesso, in Marco, alla fine di una sezione. Solo nei vv. I 5 - 1 9 si vedrà che lo scopo non era puramente casuale. Così Marco all'inizio della passione descrive Gesù come il Signore che ha ogni cosa a disposizione, anche l'asino di un contadino scono sciuto. In questo, il popolo ha ragione; anzi, se non si riconosce que sta dimensione, non si può afferrare la profondità della sua sofferenza; eppure il popolo non ha capito quello che sta succedendo. Il seguito lo dimostrerà. La fine del tempio d'Israele e l'apertura di Dio ai pa gani, 1 I , I l.-2.6 (cf. Mt. 2 I , 1 2-22; Le. 1 9,4 5 -48)
E la mattina seguente, quando si misero in cammino da Betania, ebbe fame. I 3 E come vide da lontano un fico pieno di foglie, si avvicinò, se ci trovasse qualcosa. E quando fu vicino non ci trovò nulla, salvo le foglie. In fatti non era la stagione dei fichi. I4 Allora gli rispose e gli disse: «Mai più, in eterno, nessuno dovrà mangiare frutto da te» . E i suoi discepoli sentiro no ciò. I s E arrivano a Gerusalemme. Allora, non appena fu entrato nel tem pio cominciò a cacciarne fuori quelli che vendevano e quelli che comprava no nel tempio e rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombi I 6 e non permetteva a nessuno di portare masserizie attraverso il tempio. 1 7 Poi insegnava e diceva loro: «Non sta scritto che la mia casa sa rà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli? Vo i invece l'avete fatta un covo di briganti». 1 8 E i sommi sacerdoti e gli scribi udiro no queste cose e I2
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tempio d'Israele
cercavano il modo di eliminarlo; infatti avevano paura di lui, poiché tutta la ·gente era meravigliata del suo insegnamento. 1 9 E quando si fece tardi usci rono dalla città. 20 E quando passarono di là di buon'ora, videro il fico sec cato dalle radici. 21 E Pietro si ricordò e gli dice: «Maestro, guarda: il fico che hai maledetto si è seccato! >). 22 E Gesù rispose e dice loro: «Abbiate la fede di Dio! 23 In verità vi dico che chiunque dicesse a questo monte: Sol levati e gettati nel mare, e non dubitasse nel suo cuore, bensì credesse che ciò che dica avvenga, a lui avverrà. 24 Perciò vi dico: Tutto quanto invoche rete e chiederete, credete di averlo ricevuto, e vi succederà. 2 5 E quando mai vi alzate in piedi e pregate, perdonate se avete qualcosa contro qualcuno, affinché anche il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni i vostri errori. 26 (Ma se voi non perdonate, anche il vostro Padre celeste non perdonerà i vostri errori))), 1 7 lS. s 6,7;
Ger.
7, 1 1 .
I vv. 1 2- 1 4 trovano la loro conclusione nei vv. 20 s. Poiché Marco compone volentieri in questo modo (v. a 5,2 1 -43 ), è sicuro che ha in quadrato di proposito la purificazione del tempio con la maledizione del fico. È veramente strano che Gesù cerchi fichi sull'albero benché non sia stagione e poi maledica la pianta perché non ne trova. Inoltre questo è l'unico miracolo a Gerusalemme, e anche l'unico in assoluto sotto forma di maledizione. C'è dietro una parola apocalittica che at tendeva l'irruzione del regno di Dio prima che fosse ora di cogliere i fichi ? Pure una simile attesa si sarebbe dimostrata falsa nel giro di po chi mesi. Piuttosto questa maledizione, storica o no che sia, deve esse re stata intesa sin dall'inizio, alla stregua delle azioni simboliche dei profeti, quale gesto simbolico diretto contro un Israele (o i suoi scribi o i suoi sacerdoti) che non porta frutto (cf. Ger. 8, 1 3 ; Gl. 1 ,7; anche Ez. 1 7,24; Mich. 7, 1 ; Os. 9 . 1 0. 1 6 s.). In questo caso, è verosimile che la storia sia nata da una parola di Gesù simile a quella di Le. 3,6-9 e che sia stata narrata per sottolineare la serietà della sua minaccia. Si capi sce dunque il racconto solo quando si domanda che cosa Marco abbia voluto dire di Gesù con questa storia. Dietro il racconto della purifi cazione del tempio, invece, deve esserci un atto storico di Gesù. Certo è quasi impensabile che Gesù abbia potuto sgomberare il vastissimo spiazzo del tempio, soprattutto senza che intervenissero né la polizia giudaica del tempio né la guarnigione romana di stanza nelle vicinan ze. Si legge in un testo che una volta un solo commerciante offriva in vendita nel cortile del tempio ben tremila pecore (Str.-Bill. 1, 8 5 2). Da un lato la tradizione ha raccontato dunque un avvenimento, che
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era simbolicamente limitato a un angolino del piazzale, in modo tale da dare l'impressione di qualcosa di molto più imponente. D'altro la to, però, nel tempo in cui la comunità di Gesù viveva ancora nell'am bito del giudaismo, l'episodio è stato minimizzato, come se Gesù aves se solo voluto attuare una riforma della gestione del tempio (cf. al v. I 6): soprattutto la minaccia riferita in Mc. I 4, 58 (v. ad lo c. ), sottolineata probabilmente da un'azione simbolica di cacciata di alcuni mercanti e cambiavalute da parte di Gesù, dev'essere stata omessa dal brano e ri portata come pura calunnia. No n è poi escluso che nell'elaborazione ulteriore abbia avuto il suo peso anche Zacc. 14, 2 1 b (cf. 4a). Il passo dell'A. T. citato al v. 17 deve esser servito già prima di Marco a chiarire il significato dell'intervento di Gesù. Marco però lo ha inquadrato nel contesto dell' «insegnamento» di Gesù, perché per lui è questo la cosa più importante di tutto il brano, il nucleo di aggregazione attorno al quale disporre tutto il resto. Forse Marco riferisce l'aggettivo posses sivo «mia» della citazione addirittura a Gesù (anziché a Dio). Il tempo in cui avvenne la purificazione del tempio è tramandato in diverse maniere. Secondo Mt. 2 I, I 2 rappresentò il momento culmi nante dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme: avvenne quindi subito dopo l'entrata in città e prima della maledizione del fico; secondo Gv. 2, I J ss. avvenne all'inizio dell'attività di Gesù, così da mettere in evi denza fin dall'inizio la fondamentale separazione di Gesù dal giudai smo ufficiale. La datazione dei sinottici dovrebbe essere quella giusta, già perché I I ,2 8 presuppone una manifestazione dell'autorità di Gesù. I vv. 22-2 5 si trovano, negli altri vangeli, anche in altri passi come pa role isolate sul tema della preghiera che vengono riprese ora qua ora là. Poiché descrivono la maledizione del fico quale esempio della po tenza della preghiera, mentre per Marco (e senza dubbio anche per i pri mi narratori) essa è un segno del giudizio divino, probabilmente l'in serimento qui di queste parole è stato fatto già dalla comunità prima di Marco. La maledizione del fico è stata dunque interpretata diversa mente dai primi narratori, dalla comunità e da Marco, appunto come qualsiasi predicazione vivente cerca sempre di vedere quel che è ne cessario per la situazione del suo tempo. 1 2-26. La notizia che Gesù aveva «fame» è senza dubbio una spie gazione aggiunta in un secondo tempo: la delusione di una persona che ha fame non sarebbe un motivo sufficiente per una maledizione così
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pesante che è comprensibile solo come segno di giudizio contro Israe le. Le «foglie» sono menzionate per rendere più evidente il miracolo del disseccamento. L'inciso che non era stagione di fichi è stato vero similmente inserito solo quando il brano venne collocato nelle giorna te che precedono la pasqua ebraica. Il rilievo fa apparire assurdo l'atto di Gesù. Per questo motivo alcuni datano l'ingresso di Gesù in Geru s alemme già all'autunno, con un conseguente suo soggiorno nella città di circa sei mesi. N o n è possibile trarre conclusioni di così vasta por tata da un racconto narrato in un primo tempo isolatamente, senza al cun nesso con la storia della passione. Tuttavia ci sono altri motivi che s uggeriscono che forse Gesù si sia trattenuto a Gerusalemme più a lungo di quanto solitamente si pensi (v. a I 1 ,8); anche I4,49 presuppo ne certamente più di cinque giorni. Il significato della maledizione si manifesta solo in quel che segue. Infatti immediatamente dopo questo episodio (v. 1 4) si riferisce il giudizio di Gesù sul tempio (v. I 5). Se condo Marco, dunque, la maledizione di Gesù ha di mira quell'Israele che non apre il suo tempio a Gesù e quindi a tutti i popoli. I venditori e i cambiavalute erano sistemati nel «cortile dei gentili», che non era s acro, ma neppure, in verità, interamente profano (non lo si poteva a doperare come scorciatoia per attraversare la spianata del tempio) e corrispondeva un po' al piazzale dei santuari meta di pellegrinaggi. Poi ché bisognava comprare animali per i sacrifici e cambiare denaro stra niero con valuta ebraica antica o con la moneta di Tiro per pagare la tassa del tempio, questo commercio era necessario. Secondo Marco il segno di Gesù non indica una volontà di riforma (e in questo l'evan gelista ha certamente capito bene il gesto di Gesù), ma è un segno che vuole preannunciare la scomparsa del vecchio tempio (e l'edificazione di un tempio completamente diverso). L'attesa di un tale evento risale già a Ez. 40-4 8; Hen. aeth. 90,28 -30; il pellegrinaggio escatologico di tutti i pagani a Gerusalemme è atteso fin da fs. 2,2-4; 6o (cf. Ps. Sal. I 7, 3 0 s. e v. a Mc. 1 3,27). Il v. I 6 rimane ambiguo. Si voleva dire, in origi ne, che Gesù avrebbe protestato perché si portavano in giro arredi sa cri, un tratto che ben si adatta al tono di giudizio del v. I 5 ? Questo gesto fu forse interpretato più tardi in senso puramente riformistico (v. sopra) come gesto che voleva ribadire l'esclusione di oggetti profa ni dal tempio (Giuseppe, Ap. 2, I o6; Str.-Bill., ad loc. ) ? Riportando il particolare che Gesù «insegnava» Marco sottolinea (v. a 1 ,2 1 -28) il si gnificato fondamentale di quel che viene narrato in questo brano; il tem-
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po del verbo greco esprime l'idea di un'azione ripetuta. Se dapprima si è parlato dell'insegnamento di Gesù in parabole, poi del suo inse gnamento esplicito relativo al cammino di passione del Figlio dell'uo mo, ora si aggiunge un elemento nuovo: «per tutti i popoli (o: i paga ni)». Marco intende dunque la purificazione del tempio come aboli zione di una istituzione puramente a uso interno ed esclusivo del po polo giudaico. In quanto luogo di «preghiera» esso deve mettere in lu ce quell'atteggiamento con il quale l'uomo riconosce di non avere né meriti da accampare per le proprie opere né alcunché da offrire a Dio, un atteggiamento che è quindi possibile anche al pagano. Questo si gnifica un superamento sostanziale di ogni legalismo, com'era già sta to indicato programmaticamente in 2,23 -3 ,6. La reazione delle autori tà (v. I 8), descritta quasi con le stesse parole usate in 3 , 6, accentua l'im portanza di quel che Gesù ha appena finito di dire. Marco sottolinea una terza volta questa importanza con l'accenno allo stupore del po polo per l' «insegnamento» di Gesù. L 'isolamento esclusivista d'Israe le favorito dalla legge è annullato; attraverso Israele, Dio diventa ac cessibile alla preghiera dei popoli. Ciò sta all'inizio del cammino di pas sione di Gesù che neppure i discepoli comprendono ancora e che un pagano sarà il primo a capire (I 5 ,3 9). Sostanzialmente Marco è così vicino a Paolo per il quale la croce di Gesù è fine della legge e inizio di una vita nutrita dalla grazia, una vita offerta a tutti i popoli. L'uscita di Gesù «fuori della città» (v. I 9) simboleggia la sua dissociazione. Ciò diventa più che mai chiaro grazie all'avverarsi della maledizione di Ge sù (v. 20) che l'osservazione di Pietro conferma espressamente (v. 2 I ). Marco interpreta il fatto quale segno del giudizio divino, che decreta la fine del rinchiudersi d'Israele nel suo tempio. Facendo rispondere Gesù non a Pietro, ma «a loro» (v. 22), Marco vuole esprimere la vali dità generale di ciò che Gesù sta per dire. La forma più antica della parola di Gesù (v. 2 3 ) potrebbe trovarsi in Le. 1 7,6. Lo «sradicamen to» di una montagna era infatti proverbiale per la forza dell' argomen tazione rabbini ca (Str.-Bill. 1, 759), mentre l'insolita immagine dello sra dicamento di un sicomoro, la forza delle cui radici era ben nota (Str. Bill. n, 2 34), trova al massimo un'analogia in un tardo miracolo ope rato con la preghiera da un rabbi del 90 d.C. su un carrubo. L'insolita immagine (dovuta a Gesù ?) fu poi sostituita con la formula comune (Mt. I 7,20 dove manca il riferimento al mare; v. ad loc. ) e infine svanì anche il paragone con il granello di senape. Ma era proprio questo l'e-
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lemento di novità, che una simile promessa veniva assicurata a una fe de che è piccola come un granello di senape. Non è dunque la dimen sione o la qualità della fede o della penetrazione teologica ad avere, se condo la parola di Gesù, un valore decisivo: essa trasferisce il discorso dal piano della quantità, della misura del più o del meno, al fatto nudo di una fede alla quale viene promesso tutto, proprio perché non si a spetta nulla da se stessa, ma attende ogni cosa da Dio. Certo questo include anche che essa sappia pregare perché non la sua volontà sia fatta, ma quella di Dio. N ella forma marciana del logion la «fede» è definita come un «non dubitare», cioè come «essere non doppi, ma semplici» (v. a Mt. 1 4,3 1 ). Nel nostro testo, però, l'equivoco che possa trattarsi di un'opera particolare dell'uomo è ancora più facile, perché è stata lasciata da parte la promessa alla fede piccola come un granel di senape. Il detto è tramandato in contesti completamente differenti. In Mt. I 7,20 viene dopo la guarigione del fanciullo epilettico, dove i di scepoli hanno fallito; in Le. 1 7,6 è introdotto da una richiesta dei di scepoli relativa alla fede; la comunità prima di Marco lo ha messo in relazione con la maledizione del fico. Come si è detto, per Marco stes so la maledizione del fico costituisce la cornice della purificazione del tempio, e i vv. 2 3 - 2 5 sono piuttosto una illustrazione del detto sulla «casa di preghiera». Marco si avvicina quindi molto a r Cor. I 3 , 2, ove si contrappone la fede che vive come amore alla fede che opera mira coli. Il seguito (vv. 27-3 3 ) mostrerà che la stessa autorità di Gesù non è dimostrabile e che, quando se ne cercano prove, ci si sbarra il cam mino verso di lui. L'espressione «credete di averlo ricevuto>> (v. 24) mo stra che si pensa a una fede consapevole che Dio dona già prima anco ra che l'uomo pensi di chiedere (v. a Mt. 6,8). La regola sul perdono è semplicemente aggiunta al tema della preghiera (v. a Mt. 6, 1 4; 5 , 2 3 s.) e vuoi dire che un corretto rapporto con Dio include sempre quello con il prossimo. Al v. 2 6, che è tramandato solo in alcuni manoscritti, alcuni copisti hanno inserito Mt. 6, I 5, armonizzandolo però contem p oraneamente con Mc. I 1 ,2 5 . Questo dimostra per quanto tempo pa role di questo genere siano state sottoposte a modifiche formali (an che se erano tramandate correttamente nella sostanza) quando veniva rio inserite in un nuovo contesto. La maledizione del fico, in origine un segno profetico del giudizio divino su Israele (cf. Le. 1 3 ,6-9), divenne nella comunità etnicocristia-
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n a, quando il significato primitivo dell'episodio non fu più attuale, la dimostrazione della potenza della preghiera e per questo motivo atti rò a sé i vv. 2 2 - 24. Marco, infine, ha adoperato la storia come cornice per la purificazione del tempio e ha così sottolineato la grande svolta decisiva: il tempio, già riservato al solo Israele, è ora luogo di preghie ra appartenente a tutti i popoli. In questa svolta sta per Marco il signi ficato di tutta la passione di Gesù. La domanda sull'autorità di Gesù, (cf. Mt. 2 1 ,23 - 27; Le. 20, 1 -8)
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Poi ritornano a Gerusalemme. E appena egli si mette a girare per il tem pio, vengono a lui i sommi sacerdoti e gli scribi e gli anziani 28 e gli dico no: «Con quale autorità fai queste cose? O meglio: chi ti ha dato questa au torità, affinché tu faccia queste cose?». 29 Ma Gesù disse loro: «Vi chiede rò una cosa sola e mi dovrete rispondere. Allora vi dirò con quale autorità faccio queste cose. 30 Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uo mini? Rispondetemi!». 31 E quelli ragionavano fra loro e dicevano: «Se di ciamo 'dal cielo', allora dirà: Perché allora non gli avete creduto ?; 3 2 ma se diciamo 'dagli uomini' ... » - poiché avevano paura del popolo, perché tutti consideravano Giovanni veramente un profeta. 33 E risposero a Gesù e dis sero: «Non lo sappiamo». E Gesù dice loro: «Allora neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose» . 27
Comincia così un'ultima polemica, simile alle dispute dell'inizio del l'attività di Gesù (2, I -J,6). Nella sua forma odierna essa risale in buo na misura alla discussione della comunità con il giudaismo . I capi in que stione (v. 27), anche se avessero fatto le riflessioni riportate ai vv. 3 1 s., difficilmente avrebbero ammesso di non sapere la risposta. Di certo la comunità ha fatto riferimento nel senso del v. 30 al battesimo di Gio vanni, da tutti più o meno riconosciuto. Con questo non si contesta che Gesù abbia disputato anche a Gerusalemme con le autorità giu daiche. L'accenno a «queste cose» (v. 28) mostra probabilmente che in origine la domanda si riferiva direttamente ai vv. I 5 - 1 7 (cf. anche Gv. 2, 1 8); trasferita com'è ora a un altro giorno, rimane oscuro come mai l'attività del tempio continui a svolgersi pacificamente nonostante il v. 1 5. Questo conferma ancora una volta che è stato Marco il primo a servirsi del racconto della maledizione del fico come cornice dell' epi sodio della purificazione del tempio, rendendo così necessario tornare nuovamente (v. 27) alla situazione esistente nel tempio. Marco stesso
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avrà inteso «queste cose» in modo più generale, riferendole all'insie me dell'attività di Gesù (cf. 1 ,22 .27). La struttura è molto significativa per il suo messaggio: nella purificazione del tempio si compie, visibile solo simbolicamente, l'attività di Gesù come giudizio sul tempio, al cui posto compare la «casa di preghiera per tutti i popoli»; al posto del fico seccato appare la potenza di Dio, che si dona alla fede e alla preghiera, senza però poter venire sperimentata da colui che, rima nendo all'esterno, disimpegnato, chiede prove. Mc. I 2, I 2 mostrerà de finitivamente che coloro che non riconoscono questo giudizio divino pronunciano il giudizio su Gesù e, in definitiva, su se stessi. Mc. 1 2, I 2 ripete in gran parte quel che già aveva detto 1 1 , 1 8 e racchiude così questa sezione come in una grande parentesi. -
2 7-33. Compaiono di nuovo tutti e tre i gruppi del sinedrio (cf. ex cursus a 1 ,2 1 -28) e ancora una volta l'autorità di Gesù è in discussio ne, come era avvenuto già in 1 ,27 (v. ad loc. ). «Dal cielo» (v. 30) è una perifrasi dovuta alla reticenza giudaica di pronunciare il nome di Dio e quindi significa semplicemente «da Dio». La domanda sul battesimo di Giovanni rivela che ci sono situazioni nelle quali non ci si può pro nunciare semplicemente con un sì o con un no e il problema può esse re esaminato ancora con una discussione più o meno disimpegnata. Per questo Gesù esige per due volte una risposta, e il verbo greco usa to indica che egli si aspetta una risposta chiara, univoca. In realtà sa rebbe logico che i giudei pensassero: «Allora Gesù dirà: dunque anche la mia autorità è così»; ma l'accusa di incredulità rispecchia meglio quella che per il narratore è la vera morale del brano. Con la loro in decisione i sinedriti manifestano di fatto la propria incredulità. N ella circostanza si tratta proprio di questo: dovrebbero lasciarsi donare quella fede che non cerca più prove. Anche se il testo (vv. 3 1 s.) è dun que difficilmente una descrizione esatta dei pensieri dei nemici di Ge sù, in sostanza esso rende esattamente i termini del dibattito. Poiché il «no» all'azione di Dio è per loro impossibile (non vogliono essere sen za religione) si rimane nella condizione dell'ignoranza, nell'atteggia mento degli uomini che vogliono lasciare tutti i problemi aperti e ai quali neppure Dio può quindi donarsi, persino quando, in Gesù, li in contra direttamente.
La parabola della passione di Gesù, 12, 1 - 1 2 (cf. Mt. 2 1 ,3 3 -46; Le. 20,9- 1 9) 1 Allora cominciò a parlare loro in parabole: «Un uomo piantò una vigna, vi mise intorno una siepe, scavò un torchio e costruì una torre, la locò a mezzadri e andò all'estero. 2 Poi, quando venne la stagione, mandò dagli affittuari un servo a ritirare dai mezzadri la sua parte del prodotto della vi gna. 3 Ma quelli lo presero, lo bastonarono e lo rimandarono a mani vuote. 4 Allora di nuovo mandò da loro un altro servo e a questo ruppero la testa e lo coprirono d'insulti. s Allora ne mandò ancora un altro e questo lo uc cisero. Poi ancora molti altri ed essi alcuni li bastonarono e alcuni li uccise ro. 6 Ancora uno solo gli era rimasto, il figlio diletto. Mandò lui, per ulti mo, da loro e disse: Avranno rispetto di mio figlio. 7 Ma quei mezzadri dis sero fra loro: Questi è l'erede: su, ammazziamolo, e l'eredità sarà nostra ! 8 Allora lo presero, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna. 9 Che farà il padrone della vigna? Verrà e ucciderà i mezzadri e darà la vigna ad altri. I o Non avete forse letto anche questa Scrittura: La pietra che i costruttori hanno rifiutata, è diventata la pietra angolare; I I da parte del Signore è avvenuto questo, ed è meraviglioso ai nostri occhi?». I 2 Allora cercavano di arrestarlo, ma ebbero paura della folla; capirono infatti che aveva formu lato la parabola su misura per loro. E lo lasciarono stare e se ne andarono. 1 ls. 5,I s. 1 0 s. Sal. u 8,22 s.
La breve introduzione {v. 1 a) e la chiusa (v. 1 2 ) corrispondono, per stile e contenuto, ali' evangelista. La citazione (vv. 1 o s.) non si adatta bene al punto centrale del v. 9: il rifiuto della pietra, infatti, è solo un elemento marginale, mentre quello decisivo è il suo uso come pietra angola re. Poiché questo e altri passi che presentano Cristo come «pie tra», venivano spesso citati nella comunità, e combinati in varie ma niere (Atti 4, 1 1 ; Rom. 9,3 3; 1 Pt. 2 , 6 8 ; cf. Ef 2,20; Barn. 6,2-4; Giu stino, Dia/. 3· 6 , 1 ), si deve vedere in q ucsta citazione la testimonianza della comunità che trovò l'evento di pasqua preannunciato nella paro la dell'Antico Testamento. La parabola in sé potrebbe risalire a Gesù stesso. Tra ricchi latifondisti residenti all'estero e poveri affittuari o «mezzadri» (in senso lato) esistevano conflitti, soprattutto nel caso di vigneti di nuovo impianto che per quattro/cinque anni non produce vano quasi frutto. L'invio del figlio è pensabile, giacché egli solo ha pie ni poteri legali. Persino la speranza dell'eredità non è assurda giacché era possibile «usucapire» un fondo abbandonato. L'atmosfera rivolu zionaria che si poteva respirare in Palestina potrebbe quindi aver co-
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stituito lo sfondo della parabola già per Gesù. Il v. 5 (privo di semiti smi) e l'aggiunta «(figlio) diletto» dovrebbero essere certamente secon darie, mentre gli echi anticotestamentari a /s. 5 , I (v. I) e Gen. 3 7,20 (v. 7) sarebbero possibili per Gesù, mentre andrebbero attribuite ai tra duttori le assimilazioni al testo dei LXX. Ev. Thom. 65 conosce una forma della parabola nella quale due servi furono bastonati e il figlio ucciso e conclude con le parole: «Chi ha orecchi, oda ! » . Questo invito potrebbe aver occupato il posto di quello che è ora il v. 9· Ma a diffe renza delle altre parabole (v. excursus a 4, I -9) qui Gesù parla diretta mente di se stesso, anzi del suo assassinio che porterà il giudizio di Dio sui suoi avversari. Si deve dunque riferire, nell'interpretazione, una per sona della parabola direttamente a Gesù e il complesso della storia a un determinato avvenimento che lo riguardi e che renda abbastanza na turale l'interpretazione degli altri particolari. Ciò indica una composi zione dovuta alla comunità che guarda in retrospettiva alla morte di Gesù, il che naturalmente fu possibile già in Palestina, alla quale ri mandano le immagini utilizzate. 1 - 1 2. Con l'affermazione di massima che Gesù parla di nuovo «in parabole» (benché ne segua una sola; v. a 3 ,23) Marco sottolinea il si gnificato di quello che segue. A dire il vero non si aggiunge qui alcun ammaestramento particolare dei discepoli (c'è già stato in 8,3 I ) e, di versamente dalle altre volte, i capi d'Israele capiscono quello che Gesù vuole dire (v. I 2). Si tratta, comunque, di una comprensione che porta al giudizio e non alla salvezza. Questo rivela ancora una volta che per Marco la parabola non è un sussidio pedagogico per rendere chiaro ciò che è difficile da capire, bensì il modo nel quale si può parlare di Dio perché il suo contenuto è compreso solo da colui che si fa coin volgere e pronuncia il suo sì o il suo no a quanto è stato detto, il mo do di p arlare di Dio che può, dunque, avere come conseguenza solo la fede o l'incredulità. La vigna è descritta esattamente come in /s. 5, I s. La «torre)) è la baracca dove si abita durante la vendemmia; ha sul tet to un punto di osservazione per la vigilanza. Tuttavia è subito chiaro che qui c'è, al centro della parabola, non la condotta della vigna (= Israele) come in Isaia, bensì quella degli affittuari. Il proprietario è de scritto come uno straniero. Il canone di locazione consiste, secondo la prassi, in una parte del prodotto. La condotta dei mezzadri andrebbe compresa come sollevazione rivoluzionaria; tuttavia il v. 5 mostra che
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bisogna mettere l'accento proprio sull'elemento inspiegabile, che su pera ogni limite concepibile: l'immagine è chiaramente determinata dal la realtà a cui allude, la persecuzione dei profeti e l'uccisione di Gesù. Proprio questo fatto fa emergere nettamente il senso della parabola: altrettanto incomprensibile è il modo di agire d'Israele. Ma ancora più incomprensibile è quello del padrone, cioè il modo in cui Dio agisce nella sua grazia. Ancora una volta si vede come sia illogico il calcolo degli affittuari, giacché il padrone è ancora vivo. Ma anche questo par ticolare serve solo a descrivere la loro malvagità che supera ogni im maginazione; il particolare della salma gettata fuori della vigna ha sen za dubbio la medesima funzione e difficilmente va interpretato secon do Ebr. I 3, I 2. Gli «altri», ai quali alla fine viene locata la vigna, sono naturalmente i pagani. Per questo Marco ha messo la parabola subito dopo I 1 , 1 5 - I 7 (e dopo la domanda sull'autorità [I I ,27-33] che già nel la tradizione era unita a quel brano, cf. intr. a I I ,27-3 3 ) . Il passaggio dell'evangelo da Israele ai pagani è dunque motivato col no di Israele a Gesù. Così la parabola descrive la storia di Dio, il suo cammino ol tre Israele, nel mondo delle nazioni. Similmente Mt. 8, I I s.; I 2,4 I s.; 23 ,29 ss.3 7 parlano dell'incredulità d'Israele, senza però far mai riferi mento alla crocifissione di Gesù (cf. Atti 3 , I 3 ss.; 7, 5 I ss.; I 3 ,27 s .) . I passi di M atteo sono chiaramente concepiti come discorso rivolto a Israele: si vuole chiamare a ravvedimento Israele, non certo stimolare la presunzione della cristianità di origine pagana. Marco risolve il pro blema accentuando, da una parte, che il popolo di Israele, a differenza dei suoi capi, è aperto a Gesù (v. I 2) e mostrando, dali' altra, soprat tutto con l'esempio dei discepoli di Gesù, quanto tutti si trovino nel l'incredulità e siano minacciati da essa (v., ad es., a 8, 1 4-2 1 ). Ad una comunità di origine etnica (e quindi alla grandissima maggioranza del le comunità di oggi) dovrebbe esser detto che la loro presunzione nei confronti d'Israele avrebbe conseguenze ancor più catastrofiche (Rom. I 1 , 1 7-24; cf., nel commento a Mattco in questa medesima serie, retro spettiva, 2). Così la parabola termina con un avvertimento che non può passare inavvertito: Dio non è vincolato a Israele (o a una chiesa cristiana diventata disubbidiente). A questo la comunità ha aggiunto i versetti dell'Antico Testamento che attestano con accenti di trionfo la vittoria di pasqua sugli avversari. La chiusa (v. I 2) è di nuovo tipica di Marco. Egli distingue fra i maestri di Israele che vogliono uccidere Ge sù e il popolo che si meraviglia, senza peraltro capire il mistero della
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Mc. 1 2, 1 3 - 1 7.
La domanda dei farisei
sua sofferenza. Poi all'attacco di Gesù al malinteso privilegio di Israe le rispetto ai pagani segue la decisione di uccidere Gesù, esattamente come in 1 1 , 1 8 e già in 3,6 (v. ad loc. ). La parabola in sé sola spiega la passione di Gesù, in parallelo con la sorte dei profeti (v. a Mt. 23,3 7), con l'incredulità di Israele: è dunque un appello al ravvedimento. Con i vv. 1 0 s. la comunità ha aggiunto la propria convinzione che a pasqua Dio ha trionfato sul rifiuto degli uo mini e questa vittoria è diventata per lei la morale della parabola. Mar co, infine, con le sue aggiunte redazionali all'inizio e alla fine, sottoli nea che il messaggio di Gesù può essere compreso solo da chi si lascia afferrare da esso. Se questo significhi un sì o un no a Gesù dipende, secondo Marco, soprattutto da questo: se l'uomo crede di possedere un'opzione su Dio e di poterlo rivendicare per sé, oppure se va incon tro alla grazia di Dio a mani vuote, come i pagani (v. a 7,24-3 0). La domanda d e i farisei, I �, I J- 1 7 (cf. Mt. 22, 1 5 -22; Le. 20,20-26)
Allora mandano alcuni farisei ed erodiani per incastrarlo con una parola. Ed essi vengono e gli dicono: «Maestro, sappiamo che sei verace e che non hai riguardo di nessuno. Infatti non guardi all'importanza delle perso ne, ma insegni la via di Dio in verità. È lecito pagare tributo all'imperatore o no ? Dobbiamo pagarlo o non pagarlo ?». 1 5 Ma egli capì la loro ipocrisia e disse loro: «Perché mi mettete alla prova? Portatemi un denaro affi nché lo veda» . 1 6 Ed essi glielo portarono. E dice loro: «Di chi sono questa effi gie e la dicitura?» . Ed essi gli dissero: «Del cesare». 1 7 Allora Gesù disse loro: «Ciò che è del cesare ridatelo al cesare, e ciò che è di Dio, a Dio». E si meravigliavano molto di lui. 13
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Le notizie sulla situazione e sugli interlocutori sono vaghe. Così si tratta probabilmente, per lo meno per questa veste, ma in parte anche per il contenuto, del prodotto delle discussioni di gruppi giudaici con la comunità, la quale, di fronte ad ogni problema che le si presentava, cercava di porsi la domanda: come avrebbe risposto Gesù a questo ? Ciò non esclude che singole parole risalgano a Gesù. Si può supporre che egli abbia pronunciato il v. 1 7a contro le speranze di un «regno di Dio» terreno, di carattere politico nazionale. In questo caso, una ri sposta di Gesù tramandata come parola isolata sarebbe stata trasfor mata, per analogia con il brano seguente, in una discussione con i fari sei. È probabile che già prima di Marco si sia fatta una raccolta di di-
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spute di questo genere e che egli l'abbia inserita a questo punto del suo vangelo per illustrare la crescente ostilità verso Gesù. 1 3- 1 7. Anche in 3 ,6 gli erodiani (v. a 3 , 1 -6) sono stati nominati as sieme ai farisei. Il dialogo deve essere caratterizzato fin dal principio come dialogo inautentico: la discussione è un pretesto per prendere il sopravvento sull'interlocutore. Così anche i complimenti non sono al tro che una provocazione intesa a far cadere in trappola Gesù. In que sta manovra egli viene considerato un «dottore» (= « maestro») che «in segna» la «via di Dio», cioè l'etica. Il dialogo è imperniato sull'impo sta personale introdotta dai romani nel 6 d.C. che veniva rifiutata dai nazionalisti (v. a 3 , 1 8). La domanda è «ipocrisia» perché ha soltanto lo scopo di «tentare» (cf. 8, 1 x; 10,2) Gesù: non è dunque una domanda, ma una trappola. Infatti Gesù dovrebbe inimicarsi o i romani o la maggior parte del popolo. Un passo come 1 2,28-34 (cf. anche 1 0, 1 722) mostra che Marco non vuoi dare un quadro dipinto a bianco e ne ro, come se ali 'infuori della schiera dei seguaci di Gesù non ci fossero che ipocriti. Ma egli mette in guardia da un discutere che non si pro pone di imparare, bensì ha già preso in precedenza un atteggiamento di chiusura nei riguardi di Gesù. La dicitura (v. 1 6) incisa sul denaro dell'epoca leggeva: «Tiberio, cesare [= imperatore], figlio del divino Augusto [= Sommo] (in Siria: figlio dell'augusto Dio), pontefice». La risposta di Gesù si richiama al principio generale che la proprietà al trui deve essere restituita senza indagare se sia stata guadagnata legitti mamente o no. Con questa risposta la cristianità nascente ha preso chiaramente le distanze, insieme con Gesù, tanto da una apocalittica in cui il mondo scompare perché senza importanza quanto da uno ze lotismo nel quale esso è combattuto perché succube del maligno (cf. anche Rom. 1 3 , 1 -7; I Tim. 2,2; Tit. 3 , 1 ; I Pt. 1, 1 3 s.; diversa è la posi zione di Apoc. 1 3 ). Ma l'elemento decisivo della risposta sono le ultime parole, che van no chiaramente oltre la problematica posta dalla domanda. Esse nega no in linea di principio la possibilità di una risposta che si potrebbe « applicare», di una regola che si potrebbe utilizzare direttamente in o gni caso che si presenti, per sapere immediatamente come regolarsi. Forse si pensa persino che egli stesso è effigie di Dio (Gen. 1,26) come il denaro è quella dell'imperatore.
2.02.
Mc. 1 2,1 8-27. La
domanda dei sadducei
Così non viene dunque tracciata neppure una delimitazione fra una sfera politica, in cui comanda l'imperatore, e una sfera religiosa, in cui comanda Dio. La prima proposizione è chiaramente subordinata alla seconda. Infatti, chi decide che cosa appartenga veramente all'impera tore e dove finisca l'obbligo della lealtà ? Evidentemente, soltanto Dio. Dunque, anche dopo la risposta di Gesù, nelle problematiche che si ripropongono in termini ogni volta nuovi bisogna chiedere sempre, volta dopo volta, quale sia la volontà di Dio, così che né gli accomo damenti pacifici dei farisei con i romani né la ribellione degli zeloti contro gli occupanti né il conservatorismo politico né la rivoluzione trovano una giustificazione definitiva. Così Gesù non solleva l'uomo dalla responsabilità di una risposta, bensì lo mette di fronte a Dio, da vanti al quale soltanto, nel caso concreto, egli deve trovare responsa bilmente il suo sì o il suo no. Istruzioni come quelle di Rom. I 3, I -7 sono senza dubbio possibili e necessarie; ma possono essere accolte e messe in pratica soltanto con una decisione responsabile. La domanda dei sadducei, 1 2., 1 8-2.7 (cf. Mt. 22,23 - 3 3 ; Le. 2.0,27-40)
1 8 Poi vengono da lui alcuni sadducei, i quali dicono che non c'è risurre zione, e lo interrogavano e dicevano: 1 9 «Maestro, Mosè ha scritto per noi che, se ilfratello di uno muore e lascia una moglie e non lascia un figlio, suo fratello si dovrà prendere la moglie e suscitare prole al proprio fratello. 20 C'erano sette fratelli: il primo prese moglie e morendo non lasciò prole. 21 E il secondo la prese e morì senza lasciar prole. E il_ terzo lo stesso. 22 E tutti e sette non lasciarono prole. Alla fine, ultima, morì anche la donna. 2 3 Alla risurrezione, quando risorgeranno, a chi di loro apparterrà la don na? Perché tutti e sette l'hanno avuta come moglie» . 24 Gesù disse loro: «Non vi sbagliate forse perché non conoscete né le Scritture né la potenza d i Dio ? 2 5 Perché quando risorgono dai morti non prendono né moglie né marito; ma sono come angeli in cielo. 26 E poi, a proposito dei morti che vengono risuscitati, non avete letto nel libro di Mosè, al passo del rovo, come gli disse Dio? Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Gia cobbe. 27 Egli non è il Dio dei morti, ma dei viventi. Sbagliate e di molto». 19
Deut. 2 5 , 5 s
. .16 Es. 3 ,2.6.
Qui sono affrontati e risolti due problemi diversi: il problema fari seo di come si debba immaginare la risurrezione (v. 2 5 ), e quello sad duceo, se vi sia o no una risurrezione (vv . 26 s.). Il cristianesimo na scente dovette difendere la propria fede su entrambi i fronti oltre che
Mc. 1 2,1 8-27. La domanda dei sadducei
203
contro la sicurezza dogmatica che credeva di poter disporre dei miste ri divini e contro uno scetticismo che non voleva più tener conto della potenza di Dio di creare cose nuove. I farisei hanno effettivamente di scusso problemi come quello descritto (vv. 1 9- 2 3 ) e hanno concluso che in un caso simile la donna apparterrebbe al primo marito. Ma an che la risposta (v. 2 5 ) corrisponde in pieno alle idee degli ambienti apocalittici giudaici (v. al v. 2 5 ). Potrebbe trattarsi originariamente di una discussione come quelle che avvenivano fra giudei di tendenza farisaica e apocalittica; la comunità l'avrebbe ripresa perché si identifi cava pienamente con la seconda posizione. I vv. 26 s. potrebbero rap presentare un argomento, tramandato indipendentemente, contro il dubbio circa la risurrezione. Contraddittori, nei quali un passo bibli co veniva contrapposto ad un altro passo biblico, avvenivano sia fra giudei e giudei sia fra dottori giudei e dottori cristiani (v. anche a 2,2 3 2 8 c r o, r - 1 2 ) . Passi della Scrittura simili, anche s e non precisamente quelli citati in Marco, appaiono nei dibattiti tra rabbi (Str.-Bill. a Mt. 22,3 2). La scelta delle citazioni e, soprattutto, la formulazione centrale (v . 27) potrebbero risalire a Gesù. 1 8. Fatta eccezione per una serie di passi molto tardi (Sal. 73,24 ?; Giob. 19,2 5 ?; fs. 29, 1 6; Dan. 1 2, 1 -3 ) l'Antico Testamento non parla di
un'esistenza dopo la morte che meriti di essere chiamata «vita)) (cf. in particolare Sal. 8 8,6; 1 1 5 , 1 7; fs. 3 8, 1 8). Dal punto di vista della storia delle religioni l'Antico Testamento rappresenta, con la sua fede che rinuncia a una ricompensa nell'aldilà, un caso quasi unico nel suo ge nere. Eppure lo sviluppo successivo è già insito nelle molteplici espe rienze di Dio che si dimostra più forte di tutto il resto. Finché ci si ri ferisce alla lettera della Scrittura, tralasciando i pochi passi di scritti non considerati ancora universalmente canonici, cioè Scrittura, i sad ducei (cf. excursus a 1 ,2 1 - 2 8) hanno ragione a dubitare. Ma la forza della fede dell'Antico Testamento consiste proprio nel fatto che, pur non conoscendo l'attesa di una vita eterna già accettata come del tutto naturale, essa mantiene assolutamente ferma la certezza che la fedeltà di Dio verso l'uomo non verrà mai meno, qualunque cosa possa suc cedere. Rispetto a questa certezza la risurrezione di Gesù era confer ma e, insieme, novità. 19-27. Il cosiddetto matrimonio di !evirato (Deut. 2 5 , 5 ss.) serve a garantire la discendenza maschile. È molto difficile che i sadducei si
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Mc. 1 2, 1 8-27. La domanda dei sadducei
siano serviti di queste disposizioni come argomento contro la risurre zione, considerata la suddetta soluzione elaborata dai farisei. Effetti vamente anche la prima risposta non chiarisce il fatto della risurrezio ne, il vero oggetto del dubbio dei sadducei, bensì solo il come della ri surrezione, Pargomento che occupava i farisei (v. 2 3 a!). La soluzione corrisponde a quello che avevano detto anche molti giudei contempo ranei di Gesù: gli angeli non mangiano né bevono (Tob. I 2, I 9 ), non possiedono mogli (Hen. aeth. I 5,7) e che i morti, dopo la risurrezio ne, diventano angeli (Hen. aeth. 5 1,4; cf. I 04,4; Bar. syr. 5 1 ,9 s.). Va più in profondità la sentenza iniziale: la «potenza di Dio» consiste nel creare qualcosa di nuovo, di inimmaginabile per il pensiero umano. Qui si prende sul serio il fatto che Dio è Dio: egli è Dio proprio per ché non può essere circoscritto o incapsulato dal pensiero umano. L a sentenza, dunque, mantiene i due aspetti: d a u n lato viene affermata chiaramente una vita di là della risurrezione e questa certezza non è passata sotto silenzio; dall'altro se ne parla in modo tale che è rispetta to il mistero che supera le categorie umane. Come nella sezione pre cedente viene concessa alla fede una chiara informazione, della quale però la fede (prescindendo, in certa misura, dal fatto d'essere proprio fede) non può mai servirsi per potere speculare e risolvere tutti i pos sibili problemi teorici. Con questo si risponde alla problematica dei farisei circa il come della risurrezione. Del tutto diversa è la seconda risposta (v. 26). Si riprende, infatti, come un nuovo problema, la do manda dei sadducei circa il fatto stesso della risurrezione. La transi zione risulta anche dall'incerta grammatica dell'inizio della frase. La forma della replica è diversa dalla precedente (vv . 24 s.): qui si con trappone Scrittura a Scrittura, badando a citare solo dalla Scrittura ri conosciuta dai sadducei come tale. Contro il dubbio dei sadducei sulla risurrezione il fariseo Gamaliele si è servito, anche più convincente mente, di Deut. 1 I ,9: poiché Dio aveva promesso di dare il paese di Canaan ad A bramo, I sacco e Giacobbe e la promessa si era avverata soltanto secoli dopo la loro morte, egli avrebbe dovuto richiamarli in vita. Tuttavia il v. 26, proprio perché non può essere ascoltato secon do la lettera, attesta in maniera ancora più chiara l'unico argomento veramente decisivo: quando Dio diventa dio di un uomo e si impegna con lui, ciò non può essere annullato da nulla e da nessuno, se non da Dio stesso: nemmeno dalla morte, dunque! Quindi dire che Dio si impegna con un morto senza che ciò lo richiami alla vita è assurdo.
Mc.
1 1,18-34. La domanda sincera dello scriba
20 5
Dio, di fatto, non è mai un dio di morti, ma sempre di vivi o di perso . ne che vengono richiamate alla vita. Il fondamento ultimo della cer tezza della risurrezione è dunque la consapevolezza dell'impegno di Dio con l'uomo, che non può venire annullato da alcuna morte, per ché Dio è più grande della morte (cf. Rom. 4, 5 . 1 7.24 s.; cf. excursus a Mc. 5,2 1 -43). Perciò la replica di Gesù finisce com'era cominciata: fa cendo notare che gli interroganti sono in errore. Gesù non rimanda dunque a un miracolo che deve essere considera to vero che poi, a sua volta, garantirebbe l'altro miracolo della risur rezione generale: egli rinvia alla potenza di Dio, che trascende i limiti del nostro pensiero, e all'impegno di Dio oggi, che supera ogni im maginazione, e perciò sarà anche più forte della morte. Egli si aspetta dunque dall'uomo che si stacchi da se stesso e dalle sue possibilità e si getti unicamente in braccio a Dio e lo creda capace di creare qualcosa di nuovo, che superi ogni umana immaginazione. Quando Dio diven ta a questo modo grande per l'uomo, questi è aiutato a uscire dal suo «errore». La domanda sincera dello scriba, 12,28-34 (cf. Mt. 22,34-40; Le. 1 0, 2 5 -28)
18 E si fece avanti uno degli scribi che aveva udito come discutevano fra lo ro, e riconosceva che aveva risposto bene a loro; e gl i domandò: «Quale comandamento è il primo di tutto?». 19 Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele, il Signore Dio nostro è l'unico Signore 30 e dovrai amare il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima c con tutto il tuo intelletto e con tutta la tua forza. 3 1 Il secondo è questo: Dovrai amare il tuo prossimo come te stesso. N on c'è un altro comandamento maggiore di questi». 32 E lo scriba gli disse: «Bene, maestro; seco ndo verità hai detto: Egli è l'unico e non c'è un altro all'infuori di lui, 3 3 c amarlo con tutto il cuore e con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stessi è molto più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34 E Gesù lo vide che aveva risposto assennatamente e gli disse: «N o n sei lontano dal regno di Dio». E più nessuno osava interrogarlo. 19 s. Deut. 6,4 s. 3 1 Lev. 1 9, 1 8 . 33
r
Sam.
1 5 ,12.
L'introduzione (v. 28a) è sovraccarica; è probabile che Marco, o già la comunità prima di lui, abbia voluto collegare la pericope con il te sto precedente per mezzo di alcune osservazioni incidentali. Luca col-
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Mc. 1 2,18-34· La domanda sincera dello scriba
l oca questa conversazione in un passo del tutto diverso del suo vange lo ( 1 0,2 5 -2 8). Per contro il v. 34 contraddice la valutazione che Marco dà di solito degli scribi (2,6 s.; 3,22; 7, 1 ss.; 1 2,3 8 ss., ecc.). Inoltre la singolarità del v. 34 insieme con la rarità dei paralleli ai vv. 2 8-3 1 e il fatto che le citazioni non corrispondano al testo dei LXX depongono piuttosto a favore di un resoconto di un episodio avvenuto nella vita di Gesù. Tuttavia il v. 30 non corrisponde esattamente al testo che i giudei ripetevano quotidianan1ente (D eu t. 6, 5 ); risale dunque, almeno nella forma greca attuale, a una comunità che non recitava più questa confessione di fede. z8-3 4 . Anche i rabbi distinguevano fra comandamenti gravi e lievi e si domandavano anche espressamente guale fosse, fra tutti, il coman damento di maggior peso (Str.-Bill. a Mt. 2 2,36 § 2). Comunque Mar co non intende più in questo senso («il primo di tutto», non «di tut ti» !). Ogni giorno, mattina e sera, ogni israelita maschio adulto deve recitare Deut. 6,4-9; 1 1 , 1 3 -2 1 ; Num. 1 5 ,3 7-4 1 come confessione della sua fede; sono le prime frasi di questa confessione che Gesù cita in ri sposta alla domanda dello scriba: non ha dunque altro da dire se non quel che Israele sa già da tempo. L'antico comandamento riceve però un significato nuovo per il fatto di essere messo in parallelo con il «se condo » . In che senso va inteso ciò ? Mt. 2 2,39 lo chiama esplicitamente «simile», e Le. 10,27 li fa seguire uno all'altro senza funzionale subor dinante e già l'osservazione conclusiva in Marco (v. 3 r h) va nella stes sa direzione. Bisogna dunque dire che non si può osservare il primo comandamento se non vivendo nel secondo. Marco, definendolo se condo, allude alla giusta sequenza: se l'amore di Dio diventa concreto e tangibile soltanto nella pratica dell'amore del prossimo, tutto dipen de pur sempre dal riconoscimento che questo è veramente possibile solo a partire da quello. Ma che cosa vuoi dire amore di Dio? Diver samente da Matteo e Luca, Marco comincia, come la confessione di fede dei giudei, con l'affermazione dell'unicità di Dio, per passare poi all'esortazione ad amarlo. In ciò si esprime quel che riconoscono an che 1 Gv. 4, 1 0 e Rom. 5 , 5 .8 : che Dio stesso e il suo amore che elegge e salva sono la fonte di quel fiume che scorre sotto forma di amore del l'uomo per Dio e per il prossimo. L'aggiunta del secondo comanda mento non è nuova, ma non è neppure abituale. Rabbi Aqiba, che nel 1 3 5 d.C. morì martire con l'inizio della confessione di fede giudaica
Mc. 1 2,2 8-34·
La domanda sincera dello scriba
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sulle labbra, afferma una volta: «Ama il tuo prossimo come te stesso ... , questo è un gran principio generale della legge» (Str.-Bill. I, 3 5 7); tut tavia questo non è ancora unito con il primo comandamento. Invece Filone associa i «due insegnamenti fondamentali»: «Per ciò che attiene a Dio, quello dell'adorazione di Dio e della pietà; per ciò che attiene all'uomo, quello dell'amore degli uomini e della giustizia» (Spec. Leg. 2,63). Egli ha quindi applicato esplicitamente il concetto di «prossi mo» a tutti gli uomini, mentre nell'Antico Testamento esso indica in origine solo il connazionale giudeo; più tardi, poi, anche lo straniero residente. È difficile stabilire in quale misura fosse già interpretato in questo senso generale nel giudaismo palestinese (cf. Le. 1 0,29 ss.; v. a Mt. 5,43). I due comandamenti sono esplicitamente accostati in Test. Iss. 5 ,2; 7,6 (cf. Test. Dan 5,3; Test. Zab. 5 , 1 s.; Test. Ben. 3 , 3 ); tuttavia non si sa in che misura questi scritti contengano influenze o interpola zioni cristiane. Più decisivo della domanda se Gesù stesso si sia espres so in questi termini o no, è che questa risposta riceva da tutta quanta la condotta di Gesù una serietà e una forza che non ha né in Filone né nei Testamenti dei XII patriarchi. Come l'Antico Testamento e i giu dei contemporanei, Gesù intende l'amore come una volontà e pensa a tutte le piccole cose quotidiane in cui questa si esprime. Ma quello che dà a queste sentenze la loro forza che scardina ogni legalismo è la condotta di Gesù che chiamava i pubblicani alla comunione con Dio, escludeva i legalisti, i quali cercando di osservare tutti i possibili co mandamenti singoli perdevano di vista la volontà di Dio, e perciò finì con l'esecuzione di Gesù sulla croce. Soltanto in questo modo diventa possibile l'affermazione di Rom. 1 3 , 8 - I o. Cioè, quando il duplice co mandamento è compreso così radicalmente da abbracciare e includere veramente, come nella vita e nella morte di Gesù, tutti gli altri coman damenti, la legge non può più essere per l'uomo lo strumento col qua le egli si mette in regola con Dio e in virtù del quale crede di poter pretendere qualcosa da lui. Chi mai fosse, col suo amore, alla fine, non si troverebbe già più nell'amore. Tuttavia ciò non porta alla dispera zione di chi non raggiunge mai il proprio traguardo, ma alla consola zione di colui che sa di essere amato da Dio e vive della realtà di que st'amore che fluisce sempre di più. Il consenso dello scriba (v. 3 2) è un caso unico nei vangeli. La ripetizione di quel che Gesù ha detto (vv. 3 2- 3 3 ) in una forma diversa che lo interpreta è tipica del metodo seri baie. L'aggiunta che questo è «molto più» di «tutti» i sacrifici indica la
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Mc. I 2,J S -40. La domanda decisiva di Gesù
corretta interpretazione: non si tratta soltanto che il duplice comanda mento si collochi tra gli altri comandamenti, sia pure più alto di loro; si tratta che tutti i comandamenti ricevono il loro senso solo a partire da quello. Certo lo scriba pensa, sulla linea di 1 Sam. I 5 ,22; Os. 6,6; Is. 1 , 1 1 ; Prov. 2 1 ,3 (cf. Str.-Bill. 1, 500), in primo luogo a svalutare i pre cetti cultuali; tuttavia a questo modo l'etica farisaica, anche per la qua le il culto era secondario, non sarebbe ancora superata. Di fatto, anche egli contrappone l'amore vissuto con tutto il cuore e non più misurato quantitativamente, ad un legalismo che può ancora stabilire quanti co mandamenti l'uomo adempia o trasgredisca. Anche la risposta di Ge sù (v. 3 4) è assolutamente senza paralleli; è un invito al passo decisivo, che da «non lontano>> porta dentro il «regno di Dio». Ecco qui la vera novità della storia. Il regno di Dio è dunque una realtà che, sebbene irromperà solo nel futuro, è già qui in modo che si possa esserle vici no, anzi addirittura entrare in essa (cf. excursus a I, I 5 ). In Gesù, nella sua condotta e nella sua parola, il regno di Dio si è dunque avvicinato agli uomini; e lui, Gesù, sa e determina chi gli è vicino. Ciò, secondo Marco, viene detto proprio a Gerusalemme, ove entro pochi giorni Ge sù sarà messo a morte. La conclusione «e più nessuno osava interro garlo ancora» va interpretata come I ,22. La vicinanza del regno di Dio, che rende impossibile ogni discussione fine a se stessa perché la salvezza e il giudizio si compiono nello stare insieme con Gesù, dimo stra la sua efficacia. Marco chiude così la serie dei dibattiti. La domanda decisiva di Gesù, I1,3 5- 40 (cf. Mt. 22,4 1 -46; 23 , I -3 6; Le. 20,4 I -47) 3 s E Gesù si alzò e disse, mentre insegnava nel tempio: «Come fanno gli scribi a dire che il messia è figlio di Davide ? 36 Lo stesso Davide disse nel lo Spirito santo: Il Signore ha detto al mio Signore: siediti alla mia destra, finché io abbia messo i tuoi nemici sotto i tuoi piedi. 3 7 Egli stesso, Davide, lo chiama Signore: in che modo può essere suo figlio ?». E la gran folla lo a scoltava con piacere. 38 E diceva nel suo insegnamento : «Guardatevi dagli scribi che amano andare in giro in lunghe vesti e ricevere saluti per strada 39 e sedere in prima fila nelle sinagoghe e i posti d, onore nei banchetti; 40 lo ro che d ivorano le case delle vedove e per farsi vedere recitano lunghe pre ghiere. Questi riceveranno una condanna tanto più pesante» .
36 SaL
uo, 1 .
Mc. I 2,J S -40.
La domanda decisiva di Gesù
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Il riferimento, in sé superfluo (infatti vi si trovava già da I 1 ,27), al tempio (v. 3 5 ), al suo «insegnamento» (v. 3 8) e anche all'atteggiamen to del popolo, che si distingue nettamente da quello dei capi, indica che qui c'è, per Marco, una cesura importante. Difatti si conclude qui l'attività pubblica di Gesù; già 1 2,43 s., poi soprattutto 1 3 , 1 ss. e i di scorsi di commiato ( I 4,3-9 e 1 7-2 5) avvengono nella cerchia ristretta dei discepoli. La citazione (v. 3 6) non può essere stata scoperta nel te sto ebraico dove 'adonaj («mio Signore») in Sal. I I o , 5 e spesso denota Dio; potrebbe invece venire dalla traduzione aramaica ('amar mare lemari), che invero non è mai attestata, oppure da quella greca. Già la comunità di lingua aramaica, soprattutto in occasione della cena, ha rivolto a Gesù, per ribadire la giustizia divina, l'invocazione marana tha, cioè «Signore nostro, vieni ! », come dimostrano I Cor. 1 6,22; Did. I o,6 (cf. Apoc. 2 2,20). Questa invocazione potrebbe risalire all'appel lativo riservato al Gesù terreno (v. a 7,28). Comunque tale appellativo aramaico è passato nel greco dove il titolo di «Signore» compare pro prio nella cena in associazioni linguistiche insolite (I Cor. 1 0,2 1 ; I I , 2 3 .26.27.29). Si adatta a tale situazione anche il fatto che questo titolo sia riservato soprattutto al Gesù terreno o al Cristo che ritorna, men tre entrambe queste figure sono sconosciute ai culti greci che usavano il medesimo appellativo per le loro divinità. È dubbio che la citazione sia dovuta a Gesù stesso, benché rientri nel suo stile lasciare aperta una domanda che non trova una risposta dogmatica preconfezionata. L'ipotesi più verosimile è che la comunità di lingua aramaica o greca (v. al v. 3 6) abbia utilizzato questa citazione nei dibattiti con gli avver sari che le contestavano la violazione della fede nell'unicità di Dio. Nonostante la speranza nel discendente di Davide il salmo in questio ne non è mai stato interpretato messianicamente né a Qumran né ne gli scritti del giudaismo antico. L'ipotesi che simili interpretazioni mes sianiche siano sparite perché portavano acqua al mulino dei cristiani è, almeno per quanto riguarda Qumran, impossibile. Il detto contenuto in 3 8b-39 si trova in Le. I 1 ,43 come monito ai farisei, rivolto cioè di rettamente alle persone avvisate: «Guai a voi ... perché voi ... ». In questa forma il logion è anche più significativo e decisamente più originale. A Marco, invece, non interessa più l'esortazione particolare di Gesù a un singolo gruppo, ma la decisione della comunità che deve separarsi de finitivamente non tanto dal popolo giudaico quanto dai suoi capi. Il v. 40 è collegato ai precedenti in modo grammaticalmente ostico (reci-
210
Mc. I 2, J S -40. La domanda decisiva di Gesù
ta letteralmente: «State attenti agli scribi, a coloro che amano ... ; colo
ro che divorano le case ... costoro riceveranno ... »). È probabile che il v. 40 sia circolato in forma indipendente e quindi la formulazione al no minativo sarebbe corretta. So] o in un secondo tempo sarebbe stato ag giunto ai vv. 3 8 s. per associazione con la parola «vedova» del v. 42. La natura del v. 40 è diversa da quella dei vv. 38 s. Marco ha dunque ripreso, con piccole modifiche («guardatevi da ... » come in 8 , I 5; mai altrove nel Nuovo Testamento), due moniti correnti per fissare la se parazione decisiva dagli scribi alla fine dell'attività pubblica di Gesù. 3 s-3 7· Le dispute sono terminate col v. 3 4b; ancora una volta Gesù dà inizio a un discorso di rivelazione. Gesù torna a essere il maestro che rivela Dio al mondo prima di iniziare il cammino che lo porterà al la morte. La decisione di far morire Gesù (I I , I 8) e le animate discus sioni di 1 I ,2 7- I 2, I 2 non sono certo dimenticate, ma rimangono sullo sfondo. La domanda di Gesù sembra negare la discendenza davidica del messia. Forse in origine era proprio così. A dire il vero, nella lette ratura cristiana si sostiene che Gesù non fosse un davidide solo a par tire da Barn. 1 2, 1 0 s., un'opinione che qui è viziata da un atteggiamen to antigiudaico. Almeno Marco non può, quindi, capire più il detto in questo senso (cf. I 0,46). La discendenza davi dica del messia, che agli occhi dei romani poteva apparire soltanto nella sua valenza nazionale rivoluzionaria, era un peso anche per la giovane comunità cristiana. Probabilmente, dunque, la famiglia di Gesù ha fatto risalire le proprie origini a Davide. Allora al v. 37 «come ... » non significa «come mai » (traduzione del resto possibile), bensì «in che modo», «in che misu ra» . In tutto il Nuovo Testamento una formula simile a quella che in troduce la citazione (v. 3 6) ricorre, oltre che qui, solo in Ebr. 3 ,7; I O, 1 5 (cf. 9, 8; A tti I , I 6; 4,2 5 ; 28,2 5). Essa corrisponde tuttavia alla for mula rabbinica. Che l'uso di questa formula non implichi che lo Spiri to venga necessariamente limitato alla sola Scrittura, cioè «tenuto in conserva», è dimostrato comunque da I 1 QPsa 27,2 ss. Qui la formula ha la funzione di sottolineare l'importanza particolare della citazione che segue. «Mio Signore» è il re; egli può avere nell'Antico Testamen to il titolo onorifico che altrimenti spetta a Dio perché «siede sul tro no della signoria di Jahvé su Israele» ( I Cron. 2 8 , 5 ; cf. 29,23; 2 Cron. 9, 8). Il salmo I Io ha avuto nel Nuovo Testamento una funzione stra ordinariamente importante. Spesso si parla del Cristo glorificato che
Mc. 1 2, 3 5 -40.
La domanda decisiva di Gesù
lI I
siede alla destra di Dio (Atti 2,34 s.; 1 Cor. I 5,2 5 ed E br. I , I 3) e anche della sottomissione dei suoi nemici con le parole di questo salmo. Sal. 1 I 0,4, che parla della dignità sacerdotale di Melchisedec, è citato solo da Ebr. 5,6 (cf. 7,2 1 ); l'affermazione più interessante, quella che accen na alla sua generazione avvenuta prima della creazione ( ?) a opera di Dio (v. 3 , solo nei LXX), non è mai ripresa dal Nuovo Testamento, forse perché il salmo fu interpretato durante la fase della comunità di lingua aramaica. Il Nuovo Testamento vede dunque costantemente l'adempimento di questo salmo nella vittoria di pasqua e l'immagine di Gesù che siede alla destra di Dio descrive la sua posizione nel pe riodo che intercorre fra l'esaltazione e il ritorno («finché io ... »; cf. 1 Cor. I 5,2 5- 2 8). «Figlio» e «Signore» si trovano dunque in una certa tensione. Ma ciò corrisponde esattamente all'argomentazione farisai ca: due passi della Scrittura che apparentemente si contraddicono si riferiscono a due situazioni diverse, nel caso specifico, dunque, alla vita terrena e all'esaltazione. La discendenza davidica del messia è un punto fermo fin da 2 Sam. 7, 1 2 ss. (Sal. 89,4 s.20- 2 8 . 5o; Ps. Sal. 1 7,4. 2 1 -46; 4QFlor I , I o ss.). La proclamazione di Gesù quale figlio di D a vide annuncia dunque che queste promesse sono compiute. 3 8-40. Che a questo punto si sia giunti alla linea che separa gli scribi dalla comunità di Gesù, Marco lo ha avvertito e lo ha sottolineato con la notizia del consenso popolare e col successivo insegnamento fonda mentale di Gesù che sancisce, secondo Marco, la separazione definiti va. Di per sé le cose dette non comportano certo una cosa del genere: il v. 40 può essere trovato, persino in forma ancor più sarcastica, an che nel giudaismo, giacché attacca casi eccezionali particolarmente de precabili. In realtà i vv. 38 s. sono molto più centrali e Mt. 23,8- 1 I vi ha contrapposto l'ordine fondamentalmente nuovo della comunità di Gesù nella quale nessuno è superiore all'altro (v. ad loc.). Qui, dun que, non viene descritto un deprecabile caso eccezionale, che nessuno approverebbe mai, ma un costume, evidentemente generale e diffuso, che è strettamente collegato con la grande stima riservata alle presta zioni religiose. Tuttavia anche questi versetti non raggiungono quella profondità cui giunge la parabola di Gesù in Le. I 8 , I O- I4 nella quale si attacca proprio il fariseo coerente, ligio e irreprensibile (come era Paolo secondo Fil. 3,6), non la persona incoerente, che non razzola come predica.
1 1 2.
Mc. 1 2,4 1 -44.
Il sacrificio della vedova
In Rom. 1,3 s. Paolo cita una confessione di fede che ribadisce espli citamente la discendenza davidica di Gesù. Ma, al tempo stesso, essa spiega che questa non è che l'affermazione preliminare, verificabile nel l'ambito delle categorie umane. Il fatto veramente essenziale è solo quello accaduto a pasqua, quando Gesù è stato insediato nella funzio ne di Figlio di Dio, di Signore reggente al posto di Dio. Rispetto al l' attesa del giudaismo si afferma dunque che effettivamente le promes se riguardanti il venturo discendente di Davide e la sua signoria eterna sono adempiute; non si tratta però più di una semplice reggenza ter rena, politica, bensì della signoria celeste e quindi eterna di Dio nella quale, a pasqua, Gesù è stato insediato. Una simile comprensione era già stata preparata in seno al giudaismo, perché l'attesa signoria del di scendente di Davide era concepita sì come terrena, nazionale, ma ave va assunto sempre più tratti sovrannaturali, divini (Ps. Sal. 1 7) Rom. 1,3 s. sostiene dunque una sorta di cristologia a due livelli. Già a livel lo terreno Gesù è il re designato; a partire da pasqua regna di fatto. Già Paolo ha avvertito che una semplice successione temporale non era una spiegazione soddisfacente e infatti ha messo il titolo di «Figlio di Dio» (v. a I 5,39) in Rom. 1 ,3 già prima della citazione, per afferma re che Cristo era Figlio di Dio da sempre, che anzi aveva manifestato l a propria figliolanza divina nell'abbassamento della sua vita terrena e della sua morte (Gal. 4,4 s.; cf. J , I J ). Così la comunità riconosce, pas so dopo passo, il mistero di Gesù. Ancora una volta, quel che è decisi vo non è dove e quando questa o quell'altra parola sia stata detta, ma se essa descriva adeguatamente la realtà di Gesù. Da questo punto di vista bisogna dire che realmente in Mc. 1 2,36 s. si vede già l'elemento decisivo e che la formulazione raggiunge la sua massima precisione ed efficacia nel passo paolina, dove sono fermamente mantenuti i due aspetti: che Dio da ogni eternità e per l'eternità è Dio per noi nel «Fi glio», e che questo suo «essere per noi » vive nella storia dell'uomo Gesù (v. a IO, I 8). .
Il sacrificio della vedova, I 2.,4 I -44 41 Poi si mise a sedere di fronte alla cassetta delle offerte e osservava come la gente getta monete di rame nella cassetta. E molti ricchi ne gettavano dentro molte. 42 E venne una povera vedova e vi gettò due lepta, che fan no un quadrante. 4 3 Allora egli chiamò a sé i suoi discepoli e disse loro: «In verità, vi dico: questa povera vedova ha gettato nella cassetta più di tut-
Mc.
1 J, I -.17·
Il discorso sulla parusia del Figlio deH·uomo
2I3
ti quelli che vi misero un'offerta. 44 Tutti, infatti, hanno getta�o del loro su perfluo; ma questa, dalla sua miseria ha gettato tutto quel che aveva, tutto il suo sostentamento». Il racconto è stato senza dubbio collocato a questo punto già prima di Marco (v. a 1 2,3 5 -4o); esso gli offre una preziosa occasione per pas sare, con un'espressione redazionale caratteristica del suo stile (v. 4 3 a), dall'attività pubblica di Gesù nel tempio alla cerchia dei suoi discepo li, e al tempo stesso di sottolineare la distinzione fra il popolo e i suoi capi (v. a 1 2,3 7b). Ci sono paralleli indiani, greci, giudaici. Ad es., un sacerdote, che aveva respinto una vedova che gli voleva dare in dono una manciata di farina, si sarebbe sentito dire in sogno da Dio: «N o n disprezzarla; è come se avesse sacrificato se stessa» (Str.-Bill., ad loc. , d). Effettivamente la storia è molto più comprensibile nella forma di un mero resoconto o di un'istruzione divina. Gesù, infatti, non può ve dere quel che ciascuno mette nella cassetta delle offerte né sapere che la vedova aveva offerto ogni suo avere. Un motivo ricorrente è stato dunque presentato come dialogo fra Gesù e i discepoli, oppure un e sempio fatto da Gesù è stato trasformato in una storia vera. 4 1 -44. Il gazophylakion «cassetta delle offerte» è senza dubbio uno dei tredici contenitori a forma di tromba che erano sistemati nel corti le del tempio. Il valore dell'offerta, anche calcolata in moneta romana, corrisponde sì e no a venti lire. Il particolare dei «due lepta» è impor tante perché significa che la vedova avrebbe ancora potuto dividerli e tenerne uno per sé. Con il v. 43 a M arco mette in evidenza che queste parole sono dirette alla comunità. L'appendice, un po' goffa, «tutto il suo sostentamento», accentua ancora la grandezza d eli' offerta. Il piccolo racconto esalta dunque qu el sacrificio silenzioso, comple to e spontaneo che non costituisce un atto «storico», ma nel quale l'uo mo rinuncia molto concretamente a tutte le sue sicurezze e a se stesso e si consegna interamente alla misericordia di Dio. La storia costitui sce dunque una buona conclusione dell'attività pubblica di Gesù. Il discorso sulla parusia del Figlio dell'uomo, I J, I -.2. 7 (cf. Mt. 24, 1 -3 1; Le. 2 1 , 5 -28) 1 E come egli esce dal tempio , uno dei suoi discepoli gli dice: «Maestro, guar da: che pietre e che costruzioni!» . .1 E Gesù gli disse: «Vedi queste possen-
214
Mc. I J, I -27.
Il discorso sulla parusia del Figlio dell'uomo
ti costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra, che non sarà demoli ta » 3 E mentre sedeva sul Monte degli Ulivi, di fronte al tempio, gli chie devano, stando soli, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea: 4 «Dicci, quan do avverranno queste cose? E quale sarà il segno, quando tutte queste cose staranno per compiersi?». 5 Ma Gesù cominciò a dir loro: «State attenti che nessuno vi seduca. 6 Molti verranno nel mio nome dicendo: Sono io! e se durranno molti. 7 Ma quando sentirete parlare di guerre e di voci di guer re, non vi spaventate. Deve succedere, ma non è ancora la fine. 8 Infatti si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; ci saranno terremoti qua e là, ci saranno carestie: questo è il principio delle doglie. 9 Ma voi, sta te attenti! Vi consegneranno ai tribunali giudaici e sarete bastonati nelle si nagoghe; sarete portati davanti a governatori e a re per causa mia, per testi monianza a loro. ro Ma a tutte le nazioni, prima, deve essere annunciato l'evangelo. I I E quando vi porteranno e vi consegneranno, non vi preoc cupate in anticipo di che cosa dovrete dire; ma ciò che vi verrà dato in quel momento, quello dite. Infatti non siete voi che parlate, ma lo Spirito santo. 12 E un fratello consegnerà l'altro alla morte e un padre il figlio, e figli si ri volteranno contro genitori e li faranno morire. IJ E sarete odiati da tutti per via del mio nome. Ma chi sarà stato saldo sino alla fine, sarà salvato. 14 Quando poi vedrete l'abominio della desolazione, uno che sta dove non gli è consentito - chi legge capisca! - allora quelli che sono in Giudea fug gano sui monti; 1 5 chi è sul tetto non deve scendere giù né entrare per an dare a prendere qualcosa da casa; I 6 e chi è nel campo non ritorni indietro a prendere la sua veste. 1 7 In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno! 1 8 E pregate perché non succeda d'inverno: 1 9 perché quei giorni saranno una tribolazione come non se n 'è vista una uguale dal principio della creazione che Dio ha creato fino ad ora, e neanche ci sarà più. 2 0 E se il Signore non avesse accorciato i giorni, nessuna carne sareb be salvata. Ma a motivo degli eletti che ha eletto, ha accorciato i giorni. 2 1 E se allora qualcuno vi dice: Ecco qua il Cristo, eccolo là, non ci crede te! 22 Infatti, appariranno falsi messia e falsi profeti e faranno segni e mira coli per sedurre, se possibile, gli eletti. 2 3 Ma state attenti a voi stessi: vi ho predetto ogni cosa! 24 Ma in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà il suo chiarore, 2 5 e le stelle cadranno dal cie lo, e le potenze che sono nei cieli saranno scosse. 2 6 E allora vedranno il Fi glio dell'uomo venire nelle nuvole con grande potenza e gloria. 2 7 E allora manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo». .
7 Dan. 2 ,2 8 � 8 /s. 1 9,2; 2 Cron. 1 5 ,6 . u Mich. 7,6. 1 4 Dan. 9,27; I I ,J I ; 1 2, 1 1 . 1 9 Dan. 1 2, 1 . Deut. 1 3 , 1 ss . .14 s. /s. I J , I o; 34,4 .z6 Dan. 7, 1 } . 27 Zacc. 2,6; Deut. 30,4.
.
.2.2
1 -4.
Si vede subito che il capitolo si articola in introduzione (vv. 1 s.
Mc. I J , I -17.
Il discorso sulla parusia del Figlio dell'uomo
2.
I5
e 3 s.), avvertimenti (vv. 5 s.), segni premonitori (vv. 7- 1 3), avveni menti in Giudea (vv. I4-2o), avvertimenti (vv. 2 1 -2 3 ), parusia del Fi glio dell'uomo (vv. 24-27), parabole conclusive (vv. 2 8 -3 7). La parola greca parousia significa «presenza, diventare presente, venuta». In sen so stretto, quindi, non denota il «ritorno», ma semplicemente l'appa rizione di Gesù (v. excursus a Mt. 2 5,3 1 -46). Coi vv. 1 .2a Marco passa al nuovo tema dell'escatologia, la dottrina della fine. Questa ha la sua collocazione tradizionale alla fine (Mt. 2 5 e ogni volta alla fine dei cin que complessi di discorsi; Gv. 1 4- 1 7; Ebr. 6, 1 s.; probabilmente anche in Q). Qui essa conclude l'attività di Gesù prima della sua passione. Un discorso di commiato in punto di morte si trova sia per personag gi greci sia (a partire da Deut. 29 s.) giudaici. Si è ipotizzato (a dire il vero senza alcun appiglio nei manoscritti) che il vangelo di Marco in origine finisse col cap. 1 3, ma cenni alla sua importanza si trovano, al massimo, in 8,34-9, 1 mentre a partire da 8,3 I (anzi da 3 ,6) tutto tende alla storia della passione. L'annuncio della distruzione del tempio qui è totalmente piano e non è formulato, come nei profeti, quale minac cia rivolta a un popolo non disposto al ravvedimento, bensì come co municazione ai discepoli. Certamente la parola enigmatica di 14, 58 (v. ad loc. ) rappresenta di sicuro la forma più antica dalla quale è nata la predizione diretta del nostro passo. Verosimilmente Marco voleva dun que raccordare in qualche maniera mediante il v. 3 la distruzione del tempio col discorso seguente. Ciò conduce a ipotizzare una stesura del vangelo dopo il 70 d.C. ? Pure questo è l'unico passo che allude a tale evento (v. introduzione, 6, fine). Nelle confuse vicende belliche antecedenti al 70, quando fuori della Palestina si aspettava la vittoria di Roma, Marco potrebbe aver interpretato 14, 5 8 nel senso di un'im minente distruzione del tempio. Non si fa comunque parola di un in cendio del tempio (v. al v. 2; v. anche ai vv. 14- 1 9). Se il v. 4b fosse già tradizionale quale domanda dci quattro discepoli, perché Marco di solito ne menziona soltanto tre ( 5 , 3 7; 9,2; 14,3 3) e Andrea è separato da Pietro, come nell'elenco di J , I 8, l'evangelista avrebbe combinato «tutto ciò», cioè gli eventi escatologici, con «questo», cioè la distru zione del tempio. 14-.10. Nel discorso vero e proprio risalta il brano sugli avvenimenti in Giudea. Qui, a differenza dei vv. 8 .9 s. 24- 27, si invitano gli abitanti di una determinata zona di guerra, la Giudea (cf. Dan. I ,6; 2,2 5 ), a fug gire verso la regione montuosa e verso l'aperta campagna. Tutto è de-
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Mc. 1 3, 1 -27.
Il discorso sulla parusia del Figlio dell'uomo
terminato da Dan. I I ,3 I e I 2, I . Qui si è davanti alla profezia di un profeta ebraico o cristiano, probabilmente degli anni intorno al 40 d. C., quando l'imperatore romano voleva erigere la sua statua nel tem pio di Gerusalemme, atto che per il giudaismo era la bestemmia su p rema (v. al v. I 4) e faceva ricordare l'epoca dei Maccabei, quando av venne qualcosa di simile (Dan. I 1 ,3 I ss.). Perciò il lettore viene esor tato a capire che questo passo della Scrittura adesso si adempie (v. I 4b). Ciò significa, a meno che non si tratti dell'osservazione appun tata in margine da un lettore, penetrata poi nel testo solo per mano di un copista, che l'antica profezia era trasmessa già in forma fissa (scrit ta ?) insieme con questa glossa. La glossa stessa non può essere dovuta a Marco perché nell'anno 70 non è accaduto nulla di simile e «l'abo minio della desolazione» non può certo designare il generale romano. La profezia divenne dunque probabilmente di nuovo attuale nei tumul ti di poco precedenti il 70, quando si temeva che adesso sarebbe avve nuto ciò che era stato a stento evitato nel 40. Anche l'invito a fuggire associato all'esortazione alla preghiera (v. 1 8), ma soprattutto l'attesa di una crisi apocalittica senza pari (v. I 9), mostrano che la guerra non è ancora terminata. Ciò vale persino per M arco, che pure non può an cora considerare presente almeno il v. I 9· 7- I J. 1 4-.2.7. La vera e propria descrizione degli avvenimenti finali si trova nei vv 7- 1 3 e 24-27. Essa viene interrotta ai vv . 7·9- I I . I 3 con moniti in seconda persona. Il v. 12 un tempo dovrebbe aver seguito subito il v. 8, parlando della situazione di guerra. Le due sentenze so no strettamente associate in Apoc. Esd. gr. 3 , 1 2- 1 4 (in quella che è pro babilmente un'interpolazione cristiana), ma già anche in fs. 1 9,2; Ez. 3 8, 1 9-2 1 . Al v. 7 appartenevano di sicuro già a questa descrizione l'in ciso apocalittico «deve succedere» (Dan. 2,28; Apoc. I , I ; 4, I ; 22,6), la menzione di guerre e anche il v. I 3 b che in origine parlava della fine del mondo. I vv. 24b 2 5 ripetono /s. 1 3 , 1 0; 3 4,4 e lo fanno con una pre cisione di gran lunga maggiore di quella di rappresentazioni giudaiche degli eventi finali. Soltanto i vv 26 s. riprendono la diffusa speranza cristiana, basata certamente fin dal principio su Dan. 7, I J, della venu ta del Figlio dell'uomo (cf. excursus a 8 ,27-3 3 [5]). Il v. 26 può essere stato trovato soltanto nei LXX perché il testo ebraico predice una di spersione verso i quattro angoli della terra. I vv. 24-27, citati secondo i LXX, non sono dunque sicuramente dovuti a Gesù, che di regola, inoltre, non usa mettere in fila, semplicemente, citazioni dell'Antico .
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Mc. I J , I-17.
Il discorso sulla parusia del Figlio dell·uomo
2I7
Testamento, ma derivano dalla lettura biblica della comunità. /s. I J ,2I o; 4 Esd. 5,4 s. associano l'impallidire del sole e della luna alla guerra; Am. 8,8 s. (cf. Gl. 2, I o; Ass. Mos. I 0,4 s.; Hen. aeth. I o2,2) lo collega al terremoto. Secondo 4 Esd. I 3 ,30-3 2 guerre introducono la manifesta zione del Figlio di Dio (in origine del servo di Dio). Già nell'Antico Testamento la guerra è descritta frequentemente con la triade «spada, fame e pestilenza», in tutte le combinazioni possibili ( Ger. I 4, I 2; 2 I ,7; 3 8 ,2; Ez. 5, I 2; cf. I 4,2 1 ; 1 Re 8,3 7), il che corrisponde perfettamente a Le. 2 I ,I I (par. a Mc. 1 3,8). Che in Marco manchi la pestilenza, può es sere un caso, perché «fame» e «pestilenza)) in greco sono parole quasi identiche; la peste, ad es., è sparita anche nella traduzione greca di Ger. 3 8,2. Infine c'è l'attesa generale di un tempo di rivoluzione nel quale persino i membri di una stessa famiglia combatteranno gli uni contro gli altri, prima della fine: Is. 3 , 5 ; Ger. 9,4; Ez. 3 8 ,2 1 ; Mich. 7,6 (già applicato al destino della comunità in Mt. 10,34-3 6); Hen. aeth. 99, 5; Ioo, I s.; Iub. 23, 1 6. I 9; 4 Esd. 6,24; Bar. syr. 70,3 .6 {Str.-Bill. IV, 98 2): si giunge così al v. 1 2. La comunità trova dunque, in un'attenta lettura della sua Bibbia, sette segni premonitori della venuta della fine: guerra (v. 7; con estensione internazionale del conflitto: v. 8a?), terre moto (v. 8b), fame (v. 8c}, pestilenza (Le. 2 1 , 1 1 ), lotta degli uni contro gli altri ovvero persecuzione a causa della fede (v. 1 2 ) , impallidire del sole e della luna insieme con la caduta delle stelle profetizzata in /s. 3 4,4 (vv. 24 s.). Questa successione corrisponde in larga misura a quella di Apoc. 6. Le differenze sono le seguenti: il terremoto è messo insie me coi segni cosmici, cioè col terremoto delle potenze celesti, renden do disponibile il «settimo sigillo» che deve dare il via a una nuova se rie di sette (Apoc. 8, 1 ss.). Prescindendo da questo, la successione dei «segni» è identica). Il primo cavaliere non può essere interpretato con sicurezza; il quarto ha nome «morte», seguito da Ades, spada, fame, morte, fiere (tuttavia la parola «morte» è usata abbastanza spesso per «pestilenza»). Pertanto la lettura dei profeti ha portato gradualmente alla formazione di uno schema, più o meno fisso, degli avvenimenti fi nali. Più o meno è questo l o schema che Marco h a trovato già affer mato. La sua personale visione traspare, invece, nei vv. 9-1 I . I 3 . I vv. 9 e 1 I si ritrovano, in forma simile, in Le. 1 2, I 1 s. (Q). Entrambi con tengono il verbo «consegnare», già usato al v. I 2. Quindi questi ver setti sono stati collocati (forse già precedentemente a Marco) prima del v. I 2 per interpretarlo e riferirlo, in maniera nuova, alla situazione
2. 1 8
Mc.
I 3, 1 -27.
Il discorso sulla parusia del Figlio dell'uomo
di persecuzione della comunità. In questo modo anche la parola «fi ne» al v. I 3 viene a significare «martirio» . Marco inserisce frammezzo ancora l'inciso del v. 10 che egli prepara con la fine del v. 9 {«per causa mia»; cf. intr. a 8,3 5 ). In questa occasione Marco potrebbe aver ripre so un modo di dire ormai entrato nell'uso comune, ma in realtà la fra se sembra che per lui sia molto importante; certamente anche perché egli sposta ancora un po' più in là gli eventi finali, pur considerando forse il v. IO come essenzialmente compiuto. Soprattutto egli attribui sce alla sofferenza nella persecuzione il valore di testimonianza per l'evangelo. 5 s .z i -.2J. Infine Marco introduce tutto il discorso mediante i vv. 5 s., collocandolo così nel tempo della comunità. Coi vv. 2 I -23 la si tuazione è simile. Mentre numerose sono le attestazioni di falsi profeti (Mt. 7, 1 5; 2 Pt. 2, 1 ; I Gv. 4, 1; Apoc. z 6, I 3) questo è l'unico passo in cui si parli di falsi messia. In sé è impossibile che qualcuno si presenti «nel nome di Gesù» e dica allo stesso tempo: «Sono io quello»; ma an che in Apoc. 1 9,2o; 20, I o; I Gv. 2, I 8 si trovano uno o più antimessia oltre l'attesa, certo più antica, di falsi profeti. Ciò presuppone un'atte sa della parusia spasmodica. In questa prospettiva ci si aspettano ad dirittura personaggi che si spacciano per messia, come quelli menzio nati in Atti 5,3 6 s. o quel Simone (Atti 8,9 s.) che si sarebbe proclama to «padre» in Samaria, «figlio» tra i giudei e «spirito» presso i pagani (lreneo, Haer. I ,2 3 , 1 ) e sarebbe stato venerato come un dio {lust. Apol. I ,2 6, 1 - 3). Ma perché Marco ripete l'avvertimento ai vv. 2 1 -23 ? Evi dentemente perché vuole separare la fine stessa (vv. 24-27) dagli eventi bellici in Giudea (vv. I 3 -20) che si stanno svolgendo ai suoi giorni. Il ritorno di Cristo è certamente vicino, ma non imminente. Gli sforzi dei seduttori sembrano moltiplicarsi rispetto ai vv. 5 s. Falsi messia co me quelli descritti vengono identificati dai cristiani col Cristo che ri torna. Marco si aspetta quindi che il fanatismo religioso diventerà an cora più pericoloso. Si comincia a intravedere già il passaggio dall' en tusiasmo cristiano alla gnosi. La descrizione degli avvenimenti finali in Mc. I 3 è nata dunque, es senzialmente, dalla lettura della Bibbia da parte della comunità. Essa è stata gradualmente ampliata, ad es., con gli oracoli di un profeta del 40 d.C., ma si basa su parole di Gesù circa la fine del vecchio e la edifica zione del nuovo «tempio» e su tutto il suo atteggiamento verso il mon do che egli accettava pienamente, ma che considerava soltanto una re•
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altà penultima rispetto a Dio e al suo regno. Marco stesso ha trasferito il tutto nel presente e nella situazione della sua comunità (vv. 5 s.9- I 3 . 2 I -2J). Egli ha così arginato un'attesa apocalittica a breve termine (v. 7: «N on è ancora la fine»), invitando a vigilare nel frattempo. Il mede simo atteggiamento si riscontra nei vv. 3 3 -3 7 (v. ad loc.). Questa visio ne del futuro è stata fatta risalire a Gesù. Per la comunità era naturale che il Gesù glorificato le concedesse un simile discernimento nell'An tico Testamento e lo facesse parlare per essa. Soprattutto non si pote va parlare adeguatamente di Gesù che pensandolo, allo stesso tempo, quale Signore anche del futuro fino al compimento finale. A differen za dal «Signore» esaltato delle comunità paoline, in verità, nel periodo che intercorre tra la pasqua e il ritorno, Gesù svolge soltanto un ruolo in retrospettiva, riferito alla sua attività che continua «nel nome di Ge sù», e in prospettiva, nell'attesa della sua venuta (v. a I 6, 1 9). 1 -4. Dicendo che Gesù «esce dal tempio», Marco potrebbe aver vo luto simboleggiare la rottura definitiva. La distruzione del tempio è stata attesa anche da profeti (Mich. 3 , 1 2; Ger. 7, 1 4; 2 6,6) e da veggenti giudaici prima e dopo Gesù (Hen. aeth. 90,28; Str.-Bill. 1, 1 04 5 ; Giu seppe, Beli. 6,3 00 ss.). Senza dubbio questa previsione non è stata for mulata o modificata post eventum; infatti nel 70 d.C. il tempio fu in cendiato, non demolito, o al massimo fu raso al suolo soltanto in un secondo tempo. L'essenziale, poi, non è con quanta precisione il fu turo sia stato previsto, ma è quello che la domanda introduttiva del v. 1 b sottolinea: ogni falsa sicurezza dell'uomo, il quale si basa sulle sue opere colossali (e in questo caso anche religiose), è contestata dall'e vangelo. Il Monte degli Ulivi, che è più alto del monte del tempio e gli sta di fronte, è la scena appropriata per il discorso di rivelazione che segue (cf. Zacc. 1 4,4). La domanda riguarda il «compiersi» di «tutto ciò», quindi la fine del mondo, che spesso è chiamata «compimento ». Più precisamente la domanda si riferisce al «segno premonitore» (il singolare è contrapposto a una curiosità interessata a una precisa suc cessione dei vari segni premonitori); cioè a quello che interessa già ora l'interrogante in quanto indicazione di ciò che deve ancora avvenire. s-8. Il nuovo inizio indica che qui incomincia qualcosa di molto più importante di quel che è stato già detto (v. 2 ) . La prima cosa che viene detta, tuttavia, non è la risposta alla domanda (v. 4) che, fra l'altro, sa rà respinta perché inadeguata (v. 3 2), ma è un avvertimento circa un
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pericolo presente o imminente che minaccia il lettore stesso, e non sol tanto le generazioni future. Dunque si presentarono persone che si fa cevano passare per il Cristo (v. sopra, intr. al v. 5). Marco ha intes o forse l'espressione «nel mio nome» nel senso di «richiamandosi a me e alle mie parole» ? Questo rivela che nella giovane cristianità c'è stato un tempo di entusiasmo straordinario (2 Tess. 2, 1 - 1 2! ) . L'annuncio che devono apparire ancora «molte» di queste figure non ha certo tro vato il suo compimento all'epoca di Marco; esso rivela quindi che l'e vangelista non attende più la fine in un futuro troppo prossimo. Se condo il passo parallelo di Le. 2 1 ,8 sono addirittura i nemici di Cristo che credono alla vicinanza della fine. Il tempo di gu�rra prima della fi ne rientra nella «necessità» divina (v. 7). La crisi bellica non riceve co sì una sua spiegazione, ma è sottoposta dalla fede alla sovranità di Dio. Essa è chiaramente distinta dalla fine del mondo, certamente per op posizione alla tendenza, che minacciava di prendere piede nel cristi a nesimo primitivo, a identificare la confusa situazione bellica degli anni sessanta come presagio immediato dell'irruzione della fine del mondo; forse anche per opposizione alle speranze del nazionalismo giudaico. « Infatti» (v. 8) spiega l'ultima parte del v. 7; l'estendersi delle ostilità fino a raggiungere la dimensione di guerra mondiale è uno stadio suc cessivo, distinto da quello di una guerra localmente limitata. Ma anche questa estensione del conflitto non è la fine, bensì solo l'inizio delle do glie. Il termine, ripreso dall'immagine della nuova nascita escatologi ca, era già diventato un termine tecnico dell'apocalittica giudaica. Mar co vuole soltanto dire che i tempi della distretta segnalano la vita che sta per venire, ma non è dato di capire se di là delle «doglie» l' evange lista attenda un intervallo di riposo oppure se si tratti delle ultimissi me doglie che precedono immediatamente il parto. Quando Paolo già sente nella sofferenza di tutta la creazione i passi del Dio che viene (Rom. 8 , 1 8-2 5), ciò significa, in modo ancora più inequivocabile, che ogni sofferenza trae il suo significato solo dal futuro di Dio e che si tratta sempre di un'affermazione di fede; l'uomo non si impadronisce mai di Dio in modo da dare a ogni cosa una spiegazione e da stabilire, per così dire, un «calendario» o un «orario» degli avvenimenti finali. 9- 1 3. L 'espressione tipicamente marciana «state attenti! » (v. 9), non seguita da una proposizione dipendente, è un richiamo all'importanza per i lettori di quel che è stato detto e un rifiuto della lettura ispirata solo alla curiosità. La prima metà di questa frase presuppone ancora la
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giurisdizione giudaica e la disciplina della sinagoga. Solo la seconda metà si adegua alla nuova situazione. La formula «per testimonianza a loro>> significa, in origine, la «testimonianza» a carico della contropar te resa davanti al tribunale. Accanto ai vv. IO e I I , M arco deve aver pensato già qui (v. 9) al «martirio» (il termine greco che significa «te stimonianza») che «chiama» la fede. Il v. I I aggiunge poi che ciò che importa non è la dimostrazione di coraggio del martire (che può an che essere debole e pauroso), ma il carattere di testimonianza della sua condotta. Proprio in tale circostanza il discepolo può dunque prescin dere completamente da se stesso, dalle sue capacità o dalle sue debo lezze, e vedere soltanto il fratello persecutore, al quale ha la possibilità di rendere vivente il Cristo. Per Marco la predicazione al mondo inte ro (v. Io) ha un'importanza centrale (v. a 4,3 2; I I , I 7; I 5,39); perciò deve essere inserita qui, dove si parla di testimonianza, anche per escludere l'equivoco che una testimonianza sia necessaria soltanto da vanti ai tribunali (giudaici). In testi deuteropaolini si ritrovano pari menti associate le parole «evangelo», «proclamare» (o «proclamazio ne») e «nazioni» (Rom. I 6,26; Col. I ,27) ovvero «tutta la creazione» ( Col. I,2J). Già Paolo mostra in Rom. I , 5 .8- 1 7; I 1 , 1 I ss.; I 5 , I 6. 1 9 quan to sia importante per lui la marcia dell'evangelo nel mondo delle na zioni e come veda in questo il compimento delle profezie d eli' Antico Testamento (Sal. 98,2 s. in Rom. I , I 6; /s. 66,20 in Rom. I 5 , 1 6). Anche Ef 3,2-9 sottolinea l'importanza della missione fra i gentili, e in 1 Tim. J , I 6 essa appare addirittura in una breve omologia in forma di inno, come articolo centrale di fede. Qui la penetrazione dell 'annuncio nel mondo delle nazioni, oltre le frontiere d 'Israele, diventa un vero e pro prio evento salvifico, e il percorso trionfale di Cristo attraverso il mon do delle nazioni viene ad essere parallelo al suo itinerario trionfale at traverso le regioni celesti in occasione della sua elevazione pasquale. C'è una certa tensione fra questo riconoscimento e lo schema giudeo cristiano degli avvenimenti finali premarciano e che non prende affat to in considerazione la missione fra i popoli. Il «prima)) che sposta la scadenza della fine si riferisce in senso stretto alle sofferenze della per secuzione (anche nelle sinagoghe); tuttavia Marco lo ha inteso certa mente in senso fondamentale: prima dell'inizio degli avvenimenti fi nali veri e propri. N ella promessa del v. I 1 troviamo ancora al centro la concezione anticotestamentaria dello Spirito: esso è concesso solo a persone particolari (ai martiri) e in particolari situazioni di emergenza
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(nei processi) per dichiarazioni particolarmente spettacolari (v. a I , 1 2 ) . Già gli Atti degli Apostoli, ma specialmente Paolo, insistono in vece che esso è concesso a tutti i membri della comunità ed è alla base anche delle manifestazioni della vita dei credenti che non hanno carat tere eccezionale ( 1 Cor. I 2, 1 -3; cf. fra i doni dello Spirito la beneficen za, il governo della comunità, la liberalità, la compassione: v. 28 e Rom. I 2,8 ) . La sostituzione dello Spirito con il Cristo innalzato nel passo parallelo di Le. 2 1 , I 5 (cf. però Le. 1 2, 1 2 ) deve risalire a Luca, che an che altrove li considera equivalenti; essa mostra, tuttavia, quanto la comunità fosse convinta che nello Spirito santo non le parlasse altri che Gesù Cristo stesso (cf. introduzione, 3, fine). Dove sorge un con flitto con le responsabilità verso la famiglia (v. I 2), l'ubbidienza e la schietta confessione di Cristo diventano particolarmente difficili; ma anche queste circostanze non possono essere di ostacolo al sì pronun ciato a Cristo, come afferma chiaramente anche 1 0,29. Al v. 1 3 questa realtà è descritta in base all'esperienza della comunità: «tutti» non si riferisce più ai popoli della terra (Mt. 24,9 ha modificato il detto in questo senso) di cui parla lo schema apocalittico (ad es. v. 8), ma i fa miliari e i concittadini dei perseguitati. Una descrizione che riguarda va in origine tutto il mondo e poteva, quindi, diventare facilmente non vincolante, è trasformata in un discorso diretto alla comunità che getta luce nella sua distretta presente. La «fine» è, come in Apoc. 2, I o (diversamente, però, 4 Esd. 6,2 5 ), la fine della vita del confessore. Sic ché, ora, tutta la sezione passa dai segni premonitori della fine a que sta esortazione che riguarda il presente del lettore. La storia non è dunque svilita fino a essere un mero accumulo di segni strani; al con trario, essa riceve già ora la sua importanza e il suo carattere impegna tivo dalla fine che viene. 14-20. Col v. I 4 incomincia una sezione tutta particolare {v. sopra). Non si parla ancora della fine, come ci si sarebbe potuto aspettare do po il v. I J , bensì di altri avvenimenti premonitori. L' «abominio della desolazione» si riferisce in Dan. 9,27 all'altare pagano che quella volta era stato sovrapposto all'altare degli olocausti nel tempio. Mc. 1 3 , I 4 invece, lo riferisce a una persona come fa capire in modo inequivoca bile la mancata concordanza di genere {nel testo greco) tra il pronome relativo «che sta» (maschile) e il suo antecedente «abominio» (neutro), una frase anomala in greco come lo sarebbe in italiano la corrisponden te «l'abominazione . .. il q uale.. . ». Il veggente si aspetta dunque un sa-
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crilegio analogo a quello che Caligola aveva progettato di compiere pretendendo di erigere la propria statua nel tempio. È difficile che pensi alla comparsa dell'anticristo nel tempio (2 Tess. 2,3 s.). L'allusio ne «che sta dove non deve» si riferirà comunque al tempio, perché tut ta la sezione presuppone una situazione giudaica. Il v. I 8 indica che la profezia fu formulata prima del verificarsi della tribolazione attesa. La fuga sui monti, naturalmente, ha senso solo in una situazione di emer genza per una crisi bellica molto circoscritta, come al principio delle guerre dei Maccabei nel I I secolo a.C. ( 1 Macc. 2,2 8; Giuseppe, Beli. 1 ,3 6). Forse il passo è importante per Marco perché mostra precisa mente che le agitazioni degli anni sessanta in Giudea non sono ancora la fine, ma solo «presagi». Si è anche avanzata l'ipotesi che in questo passo Marco inviti la comunità cristiana ad abbandonare Gerusalem me per recarsi in Galilea e assistere lì all'imminente parusia del Figlio dell'uomo (v. a I 6, I -8). Questo è molto improbabile. Per quanto sap piamo, la comunità è uscita sì dalla città, ma per recarsi in Transgior dania, non in Galilea. L'ipotesi sarebbe anche poco probabile propri o perché la guerra romano-giudaica cominciò proprio i n Galilea. Qui, comunque, non si parla di una partenza per la Galilea, bensì di una situazione critica in un futuro ancora incerto (v. I 8) che costringerà a fuggire in preda al panico verso le montagne (dunque in Giudea) e in aperta campagna. Inoltre, la conoscenza imprecisa della geografia pa lestinese rivela che Marco non vive certo nelle vicinanze della città e che quindi non può neanche essere interessato unicamente alla comu nità di Gerusalemme e alla sua fuga. È però soprattutto la struttura complessiva del suo vangelo a escludere che questo sia stato concepito come un opuscolo con lo scopo, negli ultimissimi giorni prima della fine del mondo, di esortare a una condotta corretta nell'ultima ora. Naturalmente non si può lasciare il «tetto» senza scendere (v. I 5): è chiaro che qui si vuoi raccomandare di farlo solo per la scala esterna, senza rientrare in casa. L'espressione «non si volga all'indietro)) (v. I 6) è forse formulata ricordando Gen. 1 9,26: sarebbe così un altro se gno della conoscenza della Bibbia che soggiace a questo capitolo. Che al centro delle preoccupazioni non ci sia la profanazione del tempio, ma la distretta dei più deboli, delle madri (v. 17), è certamente dovuto all'influenza di Gesù. L' «inverno» (v. I 8) è particolarmente pericolo so per la fuga, non tanto a causa dei fiumi in piena, quanto a motivo della mancanza di cibo nei campi. Questa difficoltà, geograficamente
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Mc. I ) , I -27.
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assai limitata, diversamente da quanto avviene ai vv. 8 . 1 0.24-27 che han no una prospettiva molto più ampia, è considerata qui come la distret ta decisiva, finale, senza eguali; tuttavia la chiusa del v. 1 9, presa alla lettera, presuppone ancora un ulteriore periodo di tempo prima della fine. «Nessuna carne» è un calco greco di traduzione. Nell'Antico Te stamento «carne» significa semplicemente l'umanità nella sua fragilità e finitezza. Si può parlare di una riduzione di giorni (v. 20; cf. Bar. syr. 20, 1 s.; 8 3 , I ; Barn. 4,3 ) perché gli apocalittici giudaici presuppongono un calendario divino molto preciso e fisso. Che cosa è avvenuto qui ? In una determinata situazione di distretta della Giudea, che in una prospettiva mondiale non sarebbe altro che una questioncella locale, paragonabile alla repressione della rivolta di uno sceicco arabo, è sorto un profeta che ha interpretato questa crisi nel senso dell'apocalittica, come venuta di Dio. Marco riprende questa profezia senza fare riferimenti concreti a un avvenimento storico; nel contesto sembra così che si pensi certamente a un avvenimento che deve ancora succedere. In questo modo si sottolinea che Dio sta anche dietro esperienze tragiche, piene d'orrore apocalittico, come il Dio che guida verso il traguardo stabilito. La descrizione diventa dunque un appello a credere in lui e nel suo futuro, contro ogni apparenza con traria. È proprio quanto avviene esplicitamente nei versetti seguenti. 2 1 -23 . Ancora una volta la descrizione degli ultimi tempi sfocia dun que in un discorso alla comunità che vive nel presente. Una proposi zione analoga si trova in Le. I 7,23 in un contesto diverso. Per i «falsi messia» (in greco: «falsi cristi») v. sopra (intr. ai vv. 5 s . 2 1 -23 ) . Già se condo Deut. I 3,2-4 i miracoli non sono di per sé prove di Dio. Come al v. 5 si insiste sullo «stare bene attenti» . Marco mette in guardia, con l'autorità di Gesù stesso, da una fede in Cristo improntata all'entu siasmo (cf. 1 Gv. 4,2 s.), che non rimane più vincolata esclusivamente al Figlio dell'uomo sofferente (cf. I 3 ,9 con I4, 5 3 - I 5 , 1 5 ; I 3 ,22 s. con 1 4,3 3 -46. 5 0.66-72; I 3,26 con I4,62; anche 1 3 ,3 2 s. con I4,3 5 · 3 7 e 1 3 ,3 5 con 1 4, 1 7.43 ·72; 1 5 , 1 ) . Non per nulla Marco ha visto in 8,3 1 la prima aperta rivelazione di Dio. 24-27. La transizione «in quei giorni» si riferisce, a rigor di termini, al tempo del v. 1 7, ma è una formula tipica di Marco (salvo Le. 9,3 6 e la rettifica consapevole di Le. 5 ,J 5 , si trova solo in passi che dipendo no da Marco). Anche in 1 ,9 e 8, I serve semplicemente a collegare due sezioni separate, senza annettere importanza alla contemporaneità.
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Anche qui, allora, si aggiunge semplicemente che ciò succederà «dopo quella tribolazione» (in un periodo di tempo non meglio precisato). Ciò che allora accade riguarda l'intero cosmo. Quanto è riferito qui non è messo in alcun rapporto con l' «abominio della desolazione» che, evidentemente, sta ancora �> al quale prestare attenzione è l'attività del Gesù terreno e per Marco è l'attività di Dio attraverso tutta quanta la storia che è divenuta visibile mediante Gesù . La «vici nanza» de Il' estate, che in Palestina fa irruzione immediatamente dopo la fine del periodo delle piogge, si nota ancor più chiaramente che da noi. Che cosa o chi stia « alla porta» non è detto, ma nel contesto deve trattarsi della parusia di Gesù. Essa deve essere anche inclusa in «tutte queste cose» (v. 3 0). L'uso del termine «generazione» in Le. 1 6,8 indi ca che esso poteva anche significare tutto il genere umano e non sol tanto una sola generazione (v. anche a 8,3 8). Ma prenderlo in quel sen so anche qui sarebbe una banalità, giacché all'epoca nessuno ha pensa to che l'umanità potesse sparire totalmente prima della fine del mon do. Dunque «tutte queste cose» accadranno prima che la generazione che vive ai giorni di Gesù sia completamente estinta (v. a 9, 1 ). Anche qui lo scopo è di insistere con il lettore sul fatto che il Figlio dell 'uo mo gli verrà incontro e che egli non può tranquillizzarsi con l'idea che ci vorrà ancora molto tempo e che saranno solo le generazioni future a doversi preparare per quell'incontro. « Le mie parole» non è espres sione marciana; egli parlerebbe piuttosto del «mio insegnamento» (v. a 1 ,22). Tuttavia egli applica il detto che gli è stato tramandato non so lo al cap. 1 3 , bensì a ciò che altrove chiama «insegnamento» di Gesù, alla rivelazione di Dio che ha avuto luogo nella sua persona e che in elude, soprattutto, anche la sofferenza del Figlio dell'uomo. Nella rid da degli eventi finali che si susseguono e si alternano tale insegnamen to rimane saldo, è il terreno solido sul quale la comunità può vivere e affrontare fiduciosa ogni orrore ch_e venga ancora prima della fine. La disponibilità a prestare ascolto non deve però condurre mai alla cer tezza di conoscere alla perfezione i piani di Dio, come si è sempre cer cato di raggiungere coi calcoli apocalittici. In questo modo, infatti, l'uomo si impadronirebbe di Dio e potrebbe veramente rimandare di nuovo l'incontro con lui fino al momento che ha calcolato. Secondo il v. 3 2 Gesù è capito rettamente solo come «Figlio» . Singolare è che Ge sù sia messo assieme agli angeli; di solito ciò avviene sempre nelle pa role escatologiche sul Figlio dell'uomo (Mc. 8,3 8; 1 3 ,27; Mt. 2 5,3 1 ; Le. 1 2, 8 ; cf. Gv. 1 , 5 1 ; v. a 8,3 8, intr.). Qui non si parla di « Figlio dell'uo-
Mc. I J , 2 8 - J 7· Parabole sulla retta attesa
23 I
mo», ma di «Figlio» : è chiaro che ciò serve ad accentuare la sua subor dinazione a Dio piuttosto che la sua elevatezza e la sua dignità. Infatti, mentre «Figlio di Dio» (v. a 1 5,39), contrapposto a «figlio di padre uma no», è un titolo di sovranità, l'espressione «il Figlio>>, priva di qualifi cazioni, fa sempre pensare, per contrasto, al «Padre», quindi descrive a priori uno stato di subordinazione rispetto al Padre. Anche in 1 Cor. 1 5,2 8, nel contesto di affermazioni escatologiche, la medesima espres sione è usata perché si eviti l'equivoco di vedere in Cristo una sorta di secondo Dio. Questo principio doveva essere mantenuto contro un'ac centuazione eccessiva dell'innalzamento di Gesù a Figlio di Dio, che governa nel cielo (Rom. 1 ,4), poiché egli è appunto colui nel quale l'u nico Dio si volge al mondo. Questa riserva è espressa anche qui. Gesù è colui che sta in modo particolarissimo a fianco degli « angeli» e tut tavia è distinto da loro; colui che storna gli sguardi d alla sua persona per farli volgere verso Dio, colui che lo fa diventare presente. L'inten zione di Marco è particolarmente evidente al v. 3 3 · Il «tempo» che non si può calcolare e che proprio per questo riguarda direttamente ad ogni istante l'uomo, chiama a «vegliare», cioè a quell'atteggiamento in cui si sta sempre responsabilmente di fronte al Signore che viene, e non si permette che alcunché distolga da una costante disponibilità per lui. Così il «tempo» che viene diventa quello che determina piena mente il presente, e gli dà la sua tensione, la sua speranza, il suo fine, e quindi il suo senso. Proprio questo è affermato con l'immagine dei com piti che sono assegnati per il tempo che precede la venuta del Signore, mentre l'immagine del vegliare e l'accenno all'ora incerta della sua ve nuta dà a questa responsabilità tutta la sua urgenza: nessun istante è se condario, perché ciascuno può essere quello della venuta definitiva del Signore; perciò è impossibile per la comunità far passare il tempo dor mendo, quasi si trattasse di un tempo vuoto, non di un tempo già ri empito della futura venuta del Signore, come se non contasse l'uso che se ne fa. Quando Marco insiste ancora una volta, nelle sue osservazio ni conclusive (v. 3 7), che questo vale per «tutti » e non solo per i quat tro intimi (v. 3), a differenza delle vere e proprie affermazioni apoca littiche, egli mostra ancora una volta che il suo vero interesse è costi tuito dali' ammonimento. Il periodo fino alla parusia non è dunque soltanto un periodo tran sitorio, bensì è il tempo dell'azione responsabile in vista del Signore
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Mc. 1 4,1
s.
La congiura mortale
che viene. La fedeltà in questo operare è la vera e giusta «veglia». Lo spiega anche l'inserimento del discorso a questo punto, che certamen te era già fissato dalla tradizione (cf. intr. a I J , 1 -4). Si sbaglia a consi derare il discorso circa la parusia e la storia della passione la cima bi corne del vangelo di Marco. Nell'unico passo precedente nel quale si accenna alla parusia (8,J 8-9, 1 ), questa serve a ribadire l'urgenza del l'appello alla sequela sulla via della croce. Così anche il cap. 1 3 si col loca alla fine dell'attività di Gesù e all'inizio della via della passione. Certamente 1 4,62 mostra che risurrezione ( = esaltazione) e parusia provano il sì di Dio al cammino di Gesù (cf. excursus a 1 6, 1 -8}; ma proprio ciò permette che passi in primo piano il significato centrale di questo cammino verso la croce. Questo cammino impronta tutta la vi ta della comunità nell'ora presente che viene vissuta in mezzo a perse cuzioni e tentazioni eppure nella fiduciosa certezza quale testimonian za che vuole abbracciare tutto il mondo. La consapevolezza che il Si gnore viene dà a questa vita il suo carattere di impegno e, soprattutto, il suo vivo splendore. B.
I G I O RNI DELLA PASSI ONE DI GES Ù E DELLA SUA RISURREZ IO NE
( 1 4, 1 - 1 6,8)
La congiura mortale, 1 4, 1 s. (cf. Mt. 26, 1 - 5 ; Le. 2 2, 1 -2) 1 Ma di lì a due giorni era la festa della pasqua e degli azzimi, e i sommi sa cerdoti e gli scribi cercavano il modo di poterlo prendere con l'inganno e metterlo a morte. 2 Dicevano infatti: «Non nella festa, affinché non nasca una sommossa popolare».
1 -2 . L'indicazione della data ha difficilmente fatto parte del raccon to della passione fin dall'inizio, ma è comunque premarciana. In Gio vanni la congiura per far morire Gesù e l'episodio dell'unzione sono messi ancora prima del suo ingresso a Gerusalemme. La festa della p a squa comincia al tramonto (v. a 1 4, 1 2- 1 6) precedente il primo pleni lunio dopo l'equinozio di primavera; secondo il calcolo giudaico, il 1 5 Nisan. Gli «azzimi» o «pani azzimi» (ebraico ma��ot), significano per estensione l'intera settimana, dalla pasqua fino al 2 1 . «La pasqua e gli azzimi » è espressione corrente, anche se la prima era compresa, a ri gor di termini, in questi ultimi. L'indicazione della data vuoi proba bilmente accentuare l'idea che tutto, un passo dopo l'altro, è preordi nato da Dio e si svolge secondo il suo piano: due giorni fino alla p a-
Mc. 1 4,3 -9·
L'unzione in vista della morte
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squa, poi l a notte e il giorno di pasqua, divisi, l'una e l'altro, i n tre in tervalli di tre ore ciascuno, poi di nuovo due giorni fino alla risurre zione. Si pensa ormai soltanto al come eliminare Gesù (dopo J ,6 e I I , I 8); i piani relativi sono stati messi a punto fino nei particolari. An cora una volta appare la distinzione fra il popolo e i suoi capi (v. a I 2, I 2) alla quale Marco attribuisce tanta importanza. Forse (v. 2) si può tradurre: «Non nel raduno festivo»; ma Marco vuole piuttosto dire che proprio ciò che gli uomini vogliono evitare sarà quanto Dio farà succedere: l'esecuzione avverrà proprio «durante la festa» (almeno se condo Marco: v. a 1 4, 1 2- I 6). vista de ll a morte, 1 4,3-9 (cf. Mt. 26,6- I J ; Le. 7,3 6- 5o)
L'unzione in
3 Ora, mentre egli era a Betania, in casa di Simone il lebbroso, mentre stava a tavola, venne una donna con una fiala di alabastro contenente profumo di nardo, genuino, costoso. Ruppe l'ampolla e glielo versò sul capo. 4 Ma al cuni s'indignarono fra di loro: «Perché questo spreco dell'unguento ? 5 In fatti quest'olio profumato poteva essere venduto per più di trecento denari da dare ai poveri». E inveivano contro di lei. 6 Ma Gesù disse: «Lasciatela stare! Perché la mettete in imbarazzo ? Ha fatto un bel gesto verso di me. 7 I poveri, infatti, li avete sempre con voi, e quando volete potete fare loro del bene; non sempre, invece, avete me. 8 Quel che poteva, lei lo ha fatto; ha profumato in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9 In verità, io vi dico, in tutto il mondo, dovunque verrà proclamato l 'evangelo, si parlerà, a sua memoria, anche di quello che costei ha fatto».
Luca ha già riportato la storia in tutt'altra forma al cap. 7,3 6- 5 0. Anche lì Gesù si trova da un certo «Simone», certamente un fariseo. Giovanni deve aver conosciuto una forma intermedia del racconto: infatti 1 2,3 b coincide con Le. 7,3 8b, in parte addirittura alla lettera; per il resto, invece, segue la forma marciana. A dire il vero, la des cri zio ne lucana della donna che asciuga coi capelli i piedi di Gesù bagna ti di lacrime è abbastanza logica; non altrettanto invece quella di Gio vanni dove i piedi sono unti di profumo. La scena può essere capita soltanto come un ricordo impreciso di Le. 7,3 8 . La versione marciana dovrebbe essere la più antica. Si può supporre che nella comunità si sia preso come esempio, per illustrare la parabola di Le. 7,40-43 , la storia dell'unzione, o che questa sia stata identificata con un altro epi s odio, in cui una prostituta (alla quale, del resto, si addiceva il posses-
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Mc. 1 4,3-9· L'unzione in vista della morte
so di unguento odoroso) bagnò i piedi di Gesù con le sue lacrime e p oi glieli asciugò coi capelli. L'ubicazione a Betania (anche Gv. 1 2, 1 ) e nella casa di Simone (anche Le. 7,40) è già fissata nella tradizione. In fatti, che Simone fosse un lebbroso, probabilmente guarito da Gesù, non ha alcuna rilevanza per l'economia del racconto; l'osservazione proviene quindi da un'epoca in cui si conosceva ancora il personaggio o la sua storia. D'altra parte, la costruzione stilisticamente sgraziata «mentre egli ... mentre egli ... » (v. 3 a) sta forse a indicare che la tradi zione più antica cominciava con il secondo «mentre egli ... » e che il primo, con l' indicazione più precisa del luogo, fu aggiunto solo più tardi (da Marco, in base alla tradizione orale, o perché la menzione della casa di Simone si trovava già nella seconda proposizione tempo rale ?). Sicuramente ci sono stati alcuni accrescimenti nel corso della tradizione. Nello strato più antico, che può ben corrispondere a quel che è accaduto durante la vita di Gesù, il culmine è stato con tutta probabilità il v. 7a.c: il tempo di Gesù è un tempo eccezionale, il tem po dello «sposo» {2, 1 9), in cui i doveri religiosi del digiuno (2, 1 9) e dell'elemosina (14, 5 ; cf. Tob. 1 2,8: «Preghiera, digiuno, elemosine, giu stizia»; v. a Mt. 6, 1 -8) non possono più occupare il posto principale, perché nei confronti di Gesù è imperativo agire in un modo che superi i criteri della vita ordinaria. Naturalmente bisognava evitare l'equivo co che ormai la pratica delle opere di carità fosse considerata super flua, e questo si è ottenuto con l'inserimento di 7b. Anche altrove ci sono parole di Gesù che sottolineavano il carattere particolare, l'uni cità del suo tempo le quali sono state in seguito trasformate, perché per la comunità erano diventati più importanti i quesiti etici (v. a 4, 1 3 20) . Nel v. 8 a sembra esserci una nuova interpretazione del gesto della donna in direzione di 1 2,44b : essa ha donato tutto quello che aveva. L 'indicazione topografica di «Betania» mostra che il racconto era in serito nel complesso della storia della passione già prima di Marco. L 'episodio potrebbe quindi appartenere a una fonte della storia della passione insieme col v. 8b. Più probabilmente la storia fu tramandata isolatamente a livello orale e il v. 8b fu aggiunto non prima del secon do o terzo stadio. Il v. 8b presuppone, ad ogni modo, che la risurre zione impedì l'unzione della salma ( 1 6, 1 -8). La particolarità del gesto di questa donna non fu vista più soltanto nell'aver ritenuto Gesù più importante di tutte le considerazioni finanziarie o persino caritative, ma nel carattere profetico dell'unzione che preannuncia la passione di
Mc. 1 4,3-9·
L'unzione in vista della morte
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Gesù. Ciò che era implicito nel y. 7 venne formulato esplicitamente. Finalmente è stato certo Marco a sottolineare ancora (v. 9) che il nu cleo della proclamazione evangelica è l'annuncio della passione, già an ticipato nel gesto di questa donna (in base al v. 8). Il v. 9 è formulato in modo strano: infatti il racconto non fa mai il nome della donna, mentre qui è detto che tutte le generazioni che verranno racconteran no l'episodio «a sua memoria)) . Solo con Gv. I 2,J si dà un nome alla donna, e nel IV secolo Efrem siro identificherà questa Maria con Maria Maddalena (Mc. 1 5 ,40 ecc.) e con la peccatrice di Le. 7,3 7. Così è nata la figura della Maria Maddalena penitente che divenne poi la prima testimone della risurrezione. Il logion del v. 9 è dunque stato aggiun to, in ogni caso, quando la missione in tutto il mondo era diventata un fenomeno scontato (Atti 8, 1 ; I r , I 9 s.) e non si sapeva più il nome di questa donna. È pensabile un interesse particolare per questa figura da parte dello stesso Marco per il quale la passione di Gesù era diventata così centrale. Il racconto interrompe il filo tra 1 4, 1 -2 e I 4, 1 0- I I; esso è stato cer tamente messo all'inizio del racconto della passione a motivo del v. 8 e dell'ubicazione a Betania: Marco l'ha inserito fra la congiura e il tradimento (v. a 5, 2 1 -43), Giovanni l'ha collocato prima dell'ingresso a Gerusalemme. Marco ha ottenuto in questo modo un contrasto mol to efficace fra la congiura delle autorità e l'amore cognitivo, nel senso più profondo, di questa donna che viene dal popolo. Al tempo stesso il versetto conclusivo (v. 9) fa notare quanto sia importante la cono scenza del significato centrale della passione di Gesù. 3-9. Secondo r I, I . I 1 s. Betania è la residenza notturna di Gesù. Per gli usi del tempo, il fatto è già insolito in sé: una donna entra dove c'è un gruppo di soli uomini e cosparge improvvisamente di profumo Gesù non prima, ma durante il pasto. Marco lascia tace l'identità di colui che fa la domanda sgradevole. In Mt. 26,8 e Gv. 1 2,4 (cf. Le. 7, 3 9) essa viene indicata in termini diversi, ma sempre più precisi. La somma di 300 denari corrisponde all'incirca alla paga annuale di un la voratore a giornata. Che le persone menzionate al v. 4 si mettano a fa re questi conti è comprensibile e, in una situazione normale, anche giusto; anche il loro sdegno è comprensibile. Eppure la loro indigna zione è sbagliata come in IO, I J . Proprio quando le considerazioni ra gionevoli, sobrie si trovano dalla parte di coloro che si indignano, la
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Mc. 1 4, 1 o s. Il tradimento di Giuda
loro incapacità di capire al cospetto della presenza eccezionale di Ge sù, che trascende tutte le regole, risalta in maniera macroscopica. Gesù vede la «buona azione». È vero che si ribadisce ancora (v. 7), in termi ni simili a quelli di Deut. I 5 , I 1 , che in una situazione normale le criti che sarebbero appropriate; tuttavia mediante Gesù viene a crearsi una situazione eccezionale nella quale quei principi giusti sono comunque sbagliati. In questo caso il motivo non è la sua attività o il suo messag gio, ma solo la sua presenza con l'ombra incombente della morte. Col v. 8 a si sottolinea un aspetto diverso, cioè la grandezza del sacrificio. Nel v. 8b l'unzione viene interpretata come un'azione profetica sim bolica: prepara Gesù al suo cammino di passione. Per via della risurre zione la salma di Gesù non potrà essere cosparsa di profumo secondo l'usanza ( I 6, 1 ). Per Marco questa donna è la prima ad aver riconosciu to l'importanza centrale della passione di Gesù cui accenna il v. 8. Qui il «credere all'evangelo» ( I , 1 5 ) si compie in maniera unica. Così in Marco la donna sta all'inizio della passione e con il suo gesto sottoli nea che il cammino di Gesù verso la morte e la risurrezione è il centro decisivo del messaggio. Il tradimento di Giuda, 14,10 s. (cf. Mt. 26, I 4- I 6, Le. 22,3 -6) 1 0 E Giuda Iscariota, proprio uno dei dodici, se ne andò dai sommi sacer doti per consegnarglielo. 1 1 E appena udirono ciò, essi si rallegrarono e pro misero di dargli del denaro. E cercava come avrebbe potuto consegnarlo alla prima buona occasione.
Questa breve notizia si trovava forse originariamente insieme con i I e 2 in un antico resoconto della passione (v. ai vv. 3 -9). Che Giu da fosse «uno dei dodici » (anzi qui è detto persino «l'uno dei dodi ci» ), è un dato solido della tradizione (cf. I4, I 0.20.43; Gv. 6,7 I ; v. a 6, 7- I J ). Dal punto di vista storico non è del tutto chiaro che cosa Giuda abbia tradito. Gv. I 8,2 fa credere che si tratti del luogo dove Gesù pas sava la notte; ma se questo era un luogo abituale, sarebbe stato relati vamente facile esserne a conoscenza anche senza Giuda; e se era un luogo occasionale, egli non avrebbe potuto saperlo in anticipo. Pensa re che Gesù avesse fondato qualcosa di simile a un movimento clande stino di resistenza contro i romani con nascondigli accuratamente scel ti, è abbastanza fantastico. O forse Giuda ha tradito che Gesù riteneva di essere il messia ? Ma l'ostilità verso di lui sussisteva già da molto vv.
Mc. I 4, I o s.
Il tradimento di Giuda
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tempo per via della posizione assunta da Gesù a proposito della legge e del tempio (3 ,6; I 1 , 1 8; 14, 5 8), e poiché Giuda non comparve nel pro cesso come testimone ( 1 4,6 1 s.) anche questa ipotesi è difficilmente sostenibile. È possibile che Giuda fosse di tendenza filozelota (v. a 3 , 1 8 s.) e, deluso dall'immobilismo di Gesù, abbia preso contatto con amici fra gli avversari di Gesù per costringere finalmente quest'ultimo all'azione e dare il primo impulso alla rivoluzione. Può darsi che du rante o dopo l'ultima cena egli abbia avvisato con un cenno convenu to qualcuno che quella sera Gesù sarebbe rincasato a notte fonda. Tut tavia si resta sempre nel campo delle pure ipotesi. 10- 1 I. Il testo sottolinea la gravità della sorte di Gesù, che qui viene tradito proprio da colui per il quale si è particolarmente impegnato e che avrebbe dovuto conoscere molte più cose degli altri (v. a 4,34; 8 , 26). L'azione d i costui è indicata costantemente con il verbo «conse gnare» usato anche in molti altri passi (9,3 I; 10,3 3; I 4 ,4 I ; Le. 9,44; 1 8, 3 2 ecc.), pur senza riferimento a Giuda. Ciò costituisce già un' allusio ne all'intreccio di azione umana e di determinazione divina, giacché Giuda esegue solo quella «consegna» del Figlio dell'uomo nelle mani degli uomini che era già preannunciata in 9,3 I e di cui già 8,3 I aveva detto che «doveva» avvenire. Un cavallo selvaggio può essere domato da un cavaliere, ma ciò non elimina la sua selvatichezza e non la giu stifica. Eppure proprio così ora serve a colui che lo cavalca. Così an che qui appare chiaro che non si può giudicare la colpa di Giuda sem plicemente col metro delle norme morali. Questo è il caso, più che mai, del v. I 1; infatti, secondo Marco, solo in seguito si considera l'op portunità di una ricompensa. Sarà solo Mt. 26, 1 5 a fare dell'avidità di denaro di Giuda il movente del tradimento (cf. anche Gv. 1 2,6) e a pre cisare pure l'importo, suggeritogli evidentemente da Zacc. 1 1 , 1 2 s. (Mt. 27,9). Marco invece lascia aperto il problema se il movente non sia sta to un nazionalismo idealistico e niente affatto una profonda degenera zione morale. Ciò mostra in modo esemplare quanto i criteri puramen te morali siano insufficienti per misurare la colpa al cospetto di Dio, quando uomini vogliono o devono percorrere la loro strada passando davanti a Gesù.
La preparazione dell'ultima cena, 1 4, 1 2-16 (cf. Mt. 26, 1 7- 1 9; Le. 22,7- 1 3 ) 12 E il primo giorno degli azzimi, quando si uccideva l'agnello pasquale, i suoi discepoli gli dicono: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare l'agnello pasquale?». 1 3 Ed egli manda due dei suoi disce poli e dice loro: «Andate in città, e vi si farà incontro uno che porta una brocca di acqua; seguitelo, 14 e dove entra là dite al padron di casa: il mae stro dice: Dov'è il mio alloggio dove posso mangiare l'agnello pasquale con i miei discepoli? 1 s Ed egli vi mostrerà, di sopra, una sala grande, arre data con stuoie, pronta; e lì preparate per noi». 16 E i discepoli se ne anda rono e vennero in città e trovarono appunto come aveva detto loro, e pre pararono la pasqua.
Il brano si differenzia chiaramente dal contest�. Quattro volte sono menzionati i «discepoli» (nel racconto della passione, solo un'altra vol ta in 1 4,3 2), mentre al v. 1 7 e anche ai vv. 1 0.20.43 sono chiamati «i dodici» . Inoltre, Gesù manda avanti due discepoli, mentre il v. 1 7 af ferma che Gesù è venuto «coi dodici». L'indicazione cronologica «il primo giorno degli azzimi)) (v. a 1 4, 1 ) è esatta per i greci e i romani, per i quali il giorno inizia la mattina, ma non per il giudeo, che fa co minciare la sua giornata, e quindi anche la pasqua e la settimana degli azzimi, al tramonto; per lui si dovrebbe dire «il giorno prima degli az zimi»; dato che l'indicazione sbagliata si trova talvolta anche presso i giudei, potrebbe trattarsi solo di una inesattezza. Infine, interi incisi al v. I 3 a e al v. 1 6 (cf. anche v. 1 4) sono letteralmente identici a I I , I s. 4.6 (cf. anche v. 3). L'episodio manca del tutto in Giovanni. Il brano si è formato sul modello di I I , I ss. come introduzione ai vv. I 7 ss. o a un'altra descrizione di un pasto. In Marco questo è l'unico passo dove l'ultima cena è chiamata cena pasquale (altrove, solo Le. 22, I 5 ), e questo implica che Gesù sarebbe morto il giorno della festa di pasqua, il I 5 Nisan. Questa cronologia potrebbe risalire benissimo alla comu nità che interpretava la cena come sostituto della cena pasquale ebrai ca. È inoltre altrettanto evidente che secondo Gv. 1 8,28; 1 9, I 4 Gesù è morto il 1 4 Nisan, il giorno, dunque, in cui si uccidevano gli agnelli pa squali. Certo questo potrebbe anche essere dovuto al fatto che Gio vanni considera Gesù come l'agnello pasquale (Gv. 1,29. 3 6; I 9,3 6; cf. 1 Cor. 5 ,7). È certo che Gesù morì di venerdì (v. a I 5 ,42); ma poiché non si conosce l'anno, non si può neppure sapere se il venerdì fosse il giorno della pasqua o la vigilia.
La pasqua ebraica
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A favore del I 5 di Nisan depone, oltre a Le. 22, I 5 , anche il canto dell'inno ( I 4, 26; tuttavia v. ad loc. ), come si usava fare celebrando la pasqua. Forse questo può valere anche per l'ora tarda della cena, che però è effettivamente solo accennata in 1 Cor. I I ,23 mentre in Gv. I 3 , 3 0 ha un senso simbolico. Tuttavia l'ora tarda era p ossibile anche per una cena fra amici, che si voleva distinguere da un pasto ordinario, come del resto l'uso del vino e il giacere a mensa. Finalmente si addice all'interpretazione pasquale che la cena si svolga a Gerusalemme, fatto che in Marco ancora una volta risulta solo da Mc. I 4, I 2- 1 6; ma anche Gv. I 8, I lo presuppone. Lo stesso vale per la successiva sosta sul Mon te degli Ulivi, che apparteneva ancora al distretto cittadino in senso am pio; tuttavia, stando a Gv. I 8,2; Le. 2 I ,3 7; 22, 3 9, ciò non costituiva nulla di eccezionale. A favore del I 4 di N i san depone il fatto che né in Mc. I 4, I 7-2 I né nei vv. 22-2 5 appare alcun riferimento alla pasqua e braica; che all'infuori di Le. 22, I 5 nessuno dei racconti dell'ultima ce na menziona il punto centrale della pasqua, cioè l'agnello; che le paro le della spiegazione non somigliano per forma a quelle tradizionali per la pasqua e non sono pronunciate al medesimo momento nel corso del pasto; che (diversamente da quanto avveniva per la pasqua ebraica) non vi sono donne e che la benedizione del calice è pronunciata da Gesù e non da uno dei commensali. Soprattutto la convocazione del tribunale e la condanna di Gesù il giorno della pasqua sono, se non impossibili, almeno assai difficilmente immaginabili. Alcuni piccoli particolari, come il fatto che Simone tornava dai campi ( 1 5,2 I ) o che alcuni portavano armi ( I 4,47; Le. 22,3 8 ) , depongono contro l'ipotesi di un giorno festivo. Se la prima cena del Signore fosse stata una cena pasquale, infine, ci si dovrebbe aspettare che la comunità la celebrasse una volta l'anno anziché ogni giorno o una volta la settimana. Sicché la datazione giovannea è in qualche misura più probabile. Anche se condo una tradizione giudaica (tarda) Gesù è stato giustiziato la vigi lia di pasqua (Str .-Bill. 1, 1 02 3 [b]). Certo, anche se celebrata la vigilia, l'ultima cena si trovava già nell'atmosfera di pasqua, esattamente come una cena la vigilia di natale, da noi, si trova già nella luce del natale. La pasq ua ebraica. Per la cena pasquale si uccideva nel tempio, du rante il pomeriggio, un agnello o un capretto di un anno, senza difet to. La riunione conviviale deve avvenire entro i confini della città di Gerusalemme e comprendere di regola almeno dieci persone, perché
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Mc. 1 4, 1 2 - 1 6.
La preparazione dell'ultima cena
non si può preparare più di un agnello per gruppo, d'altra parte però non deve avanzare nulla. Si può cominciare a mangiare solo dopo il tramonto. Anzitutto si mesce il primo calice recitando una lode. Co me antipasto vengono servite insalata e erbe aromatiche, spesso con un passato di frutta, e pane non lievitato. Quindi segue il secondo ca lice e si spiegano le differenze tra questa cena e un pasto ordinario, forse nella forma che è attestata più tardi: «Ecco, questo è il pane di afflizione (cf. Deut. 1 6,3) che hanno mangiato i nostri padri che usci rono dall'Egitto» . In ogni caso, «l'uomo ha l'obbligo di considerare se stesso, in ogni generazione, come se fosse uscito lui stesso dall'Egit to» . Si comincia quindi l'hallel, cioè la recitazione dei salmi I I J - 1 1 8 , interrotta da una preghiera di ringraziamento. Segue poi il pasto. Esso ha inizio con la frazione del pane: il padre di famiglia pronuncia la for mula di lode, quindi spezza il pane e ne dà un pezzo a ciascuno. Subi to dopo c'è il terzo calice con la preghiera di ringraziamento per la men sa, il «calice della benedizione» ( I Cor. I o, I 6), poi c'è il quarto, con la fine dell'hallel. Ma anche in un comune pranzo fra amici si serviva un antipasto, durante il quale assieme al primo calice ciascuno pronuncia la dossologia per conto proprio. Poi viene il pasto vero e proprio, per il quale, a differenza dei pasti abituali, ci si sdraiava a tavola e si beve va del vino. Si cominciava esattamente come per la cena pasquale, con il calice e con la frazione del pane. Alla fine del pranzo si raccolgono i resti del pane, si pronuncia la preghiera di ringraziamento per la men sa e si beve il «calice della benedizione» . In entrambi i casi le parole relative al pane della cena del Signore corrispondono dunque alla dos sologia per il pranzo al momento della frazione del pane (la spiegazio ne della pasqua non ha luogo a questo momento, ma prima di comin ciare a mangiare) e le parole relative al calice corrispondono a quelle che si pronunciavano sul «calice della benedizione» alla fine del pasto (come I Cor. I 1 , 2 5 ; Le. 2 2,20 riferiscono esplicitamente). Prendono dunque semplicemente il posto della preghiera ai pasti, prima e dopo mangiato. Sicché dallo svolgersi della cena del Signore non si può sta bilire con sicurezza se si sia trattato di una cena pasquale o di un pranzo fra amici, la vigilia della festa. 1 2- I 6. Gesù è chiaramente il personaggio centrale nel gruppo di di scepoli, come si vede dal fatto che la domanda è rivolta a lui in secon da persona singolare («dove vuoÙ> ), non in prima plurale. La preveg-
Mc. 1 4, 1 7-1 1 .
L'indicazione del traditore durante la cena
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genza prodigiosa di Gesù è descritta esattamente come in I I ,2 s. Un portatore d'acqua è uno spettacolo abbastanza comune, anche se una brocca era forse più rara di un comune otre di pelle; ma naturalmente il miracolo consiste nella predizione precisa di tutto quello che viene dopo. «Il maestro» potrebbe significare «il nostro maestro» ; si tratte rebbe allora della normale richiesta del pellegrino che chiede una stan za, richiesta alla quale era normale rispondere positivamente, per poco che fosse possibile. Ma il modo in cui è formulata la parola di Gesù ri vela che qui c'è qualcosa di più: egli è «il maestro>> che può disporre di tutti gli uomini. Anche in Marco, questo titolo, oltre che per rivolgere la parola a Gesù, è usato una sola altra volta ( 5 ,J 5 ); però corrisponde bene al titolo di «discepoli» che è caratteristico di questo brano. L'esi stenza di una sala al piano superiore, arredata per di più con tappeti e divani, implica che si tratta di una casa signorile. Alla fine si riferisce ancora brevemente che tutto si adempì come Gesù aveva previsto. Questo brano ha due scopi: mettere la cena al posto della pasqua e braica, e al tempo stesso sottolineare come tutto quanto accadde quel giorno non fosse una tragedia che colpì Gesù inaspettatamente, bensì un evento da lui previsto e consapevolmente subito. L'indicazione del traditore durante la cena, 14,1 7-� I (cf. Mt. 26,20- 2 5 ; Le. 2l, I4 (2 I - 2 3 ) 1 7 Poi, appena s i era fatta sera, viene con i dodici. 1 8 E men tre erano stesi a tavola e mangiavano Gesù disse: «In verità vi dico che uno di voi mi conse gnerà, quello che sta mangiando con me» . 19 Essi cominciarono a rattristarsi e a dirgli a uno a uno: «Non io ?». 10 Ma egli disse loro: «Uno dei dodici, che intinge con me nel piatto. 11 Perché il Figlio dell 'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a colui, per opera del quale il Figlio dell'uomo è consegnato; buon per lui, se quel tale non fosse mai nato ! » . 1 8 Sal. 4 1 , 1 o.
L'ipotesi più verosimile è che qui sia stata ripresa una tradizione scritta. Se Marco non avesse avuto a disposizione il v. I 7 in una for mulazione ormai consolidata non avrebbe di suo scritto «con i dodi ci», ma «con gli altri» o qualcosa di simile. Difficilmente Marco avreb be anche ripetuto la frase «e mentre mangiavano» con le medesime parole al v. 1 8 e al v. 22, soprattutto perché la frazione del pane (v. 22) segna l'inizio del pasto (v. ancora al v. 20). Anche l'indicazione dell'o-
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Mc. 14,1 7-2 1 .
L'indicazione del traditore durante la cena
ra e lo sfondo anticotestamentario suggeriscono che Marco abbia usa to la storia scritta della passione (v. excursus prima di I I , I ). Il v. I 8 ri corda il Sal. 4 I , I o («Perfino l'uomo ... che mangiava il mio pane, ha al zato il calcagno contro di me» = Gv. I J, I 8). È vero che si tratta di una reminiscenza non letterale, tuttavia l'espressione era già diventata proverbiale (I QH 5,2 3 s.: «Tutti coloro che mangiavano il mio pane mi voltarono le spalle ... e dissero menzogne contro di me»). Si può dun que pensare che tutta la scena potrebbe essere soltanto una rappresen tazione figurata di questa parola. Ad ogni modo, anche secondo Gio vanni e Le. 22,2 1 (dove forse si ha una tradizione particolare) l'indica zione del traditore avviene durante l'ultima cena, sicché si può consi derare la possibilità che il fatto corrisponda a quanto avvenuto stori camente. Invece la prescienza di Gesù, la sua disponibilità a sottomet tersi alla volontà di Dio (v. 2 1 a), soprattutto il comportamento dei di scepoli, psicologicamente incomprensibile, ma tipico della maniera marciana di caratterizzarli (v. 1 9b, cf. 29!), servono invece alla predi cazione e sono elementi teologici più che storici. Sembra dunque assodato che i vv I 4, 1 s. I o s. 1 7-2 1 puntino in di rezione di una fonte scritta. Naturalmente questa fonte deve contene re anche il racconto dell 'arresto (a notte fonda; certo anche il rinnega mento al cantar del gallo), del processo e della crocifissione e aver avu to, probabilmente, il suo culmine nell'evento di pasqua (v. le sezioni corrispondenti). Pericopi come I4,22-2 5 (certo dopo essere state tra mandate oralmente) avevano già una forma scritta fissa e vennero in serite (da Marco ?) nel corpo maggiore. Altri passi, come 1 I , I - 1 1 . 1 5 1 9.27- 3 3 ; 1 4,3 -9· 1 2- 1 6, potevano venire raccontati soltanto tenendo conto della storia della passione di Gesù nota alla comunità. È difficile stabilire se e fino a che punto questi passi fossero incorporati nel rac conto scritto della passione già prima di Marco. .
1 7-2 1 . L'indicazione dell'ora può riferirsi tanto al tardo pomeriggio quanto alla sera vera e propria. Si presuppone (nonostante il v. 22) che il pasto sia già cominciato; è dunque evidente che in questo brano la frazione del pane con la relativa parola pronunciata da Gesù all'inizio del pasto non hanno alcuna importanza e che l'interesse si concentra solo sullo smascheramento di Giuda. L'uso assoluto del verbo «con segnare» è singolare (v. ai vv IO s.). Che tutti i discepoli pongano que sta domanda (v. 1 9; cf. anche 1 4,3 1 ) non va inteso come un'esortazio.
Le parole d'istituzione della cena del Signore
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ne ai lettori a porsela anche essi (cf. E br. 6,6), bensì ha la funzione, co me spesso in Marco, di ribadire che anche i discepoli continuano a non capire fino all'ultimo (v. a 8, I 7-2 1 ). «Uno dei dodici» è impossi bile in bocca a Gesù; dovrebbe dire, come al v. I 8, «uno di voi»; da que sto si vede come la formula si fosse già consolidata (v. al v. I o) . «lntin gere» non va riferito necessariamente all'intingere le erbe amare nella cena pasquale; il verbo può indicare (come Gv. I 3,26) il gesto di pren dere cibo nel piatto o di immergere il boccone in una salsa. È un parti colare che serve a mostrare la profonda comunione che c 'è fra Gesù e il traditore. «Andarsene» non è un'espressione corrente per «morire»; il verbo significa quindi, di certo, che Gesù percorre il cammino asse gnatogli da Dio. Già 9, 1 2 ha spiegato che la passione del «Figlio del l'uomo» è preannunciata dalla Scrittura; anche l'associazione di «Fi glio dell'uomo» con il verbo «consegnare» (al passivo) ritorna frequen temente (v. a 9,3 I ). Così questa parola sottolinea una volta di più che tutto accadrà conformemente alla volontà di Dio, ma questo non to glie la colpa di colui che «consegna» Gesù (v. ai vv. IO s.). Le promesse dell'ultima cena, 1 4,.1.1-.1 5 (cf. Mt. 26,26- 29; Le. 22, 1 5-20; 1 Cor. I I ,2 3 -2 5) E mentre mangiavano, prese un pane, pronunciò la benedizione, lo spez zò e lo diede loro e disse: «Prendete, questo è il mio corpo». 2 3 Poi prese un calice, pronunciò la preghiera di ringraziamento e lo dette loro e tutti ne bevvero. 24 E disse loro: «Questo è il mio sangue del patto, che è versa to per molti. 25 In verità vi dico: non berrò più del frutto della vite fino a quel giorno, quando lo berrò nuovo nel regno di Dio». 22
1 4 Es. 2-4,8 ;
Ger.
3 I , J I ss.;
Zacc. 9, I 1 .
Le parole d'istituzione della cena del Signore. La ripetizione del particolare «e mentre mangiavano ... » (cf. v. 1 8) mostra che i vv. 22- 2 5 venivano tramandati una volta indipendentemente dai vv . 1 7-2 1 . Poi ché la frazione del pane rappresenta l'inizio del pasto il v. I 8 è anche obiettivamente impossibile, a meno che non si pensasse a un antipa sto. Lo stile conciso, che elenca in successione, con tono quasi solen ne, solo i gesti e le parole liturgicamente importanti, mostra che que sta pericope è stata con molta probabilità recitata sempre ad ogni ce lebrazione della cena del Signore. Se si esclude la breve notizia che tutti bevvero del calice, si parla solo di quello che fa Gesù. Anche 1
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Le parole d,istituzione della cena del Signore
Cor. 1 1 ,2 3-2 5 mostra poi che a Corinto Paolo ha insegnato alla comu
nità fin dal principio un analogo riassunto essenziale dell'ultima cena di Gesù. I versetti sono stati dunque tramandati indipendentemente dal contesto e possono essere più antichi o più recenti dei vv 1 7-2 1 . 1 Cor. 1 1 ,23 -2 5 presenta un'altra forma del racconto dell'ultima ce na. Mt. 26,26-29 segue il racconto di Marco con poche variazioni; Le. 22, 1 9 s. è un misto della forma paolina e di quella marciana, come ri sulta in modo molto evidente dal v. 20 (letteralmente: « ... nel mio san gue, quello versato per voi»), mentre Le. 22, 1 5 - 1 8 . 27-3 0 presentano ancora una terza tradizione, che è sostanzialmente parallela a M c. 1 4,2 5 . Se si confrontano i testi di Paolo e di Marco, si vede che que st'ultimo ha sì conservato alcune espressioni semitiche, soprattutto la formula «per molti» (v. a 10,4 5), ma nel complesso è probabilmente la forma più recente. Viceversa la formula attestata in Paolo ha conserva to l'antica frase che Gesù prese il calice solo «dopo aver cenato» (v. excursus ai vv. 1 2- 1 6). Le due parole, che in origine erano separate da tutto lo svolgimento della cena, suonano qui: «Questo è il mio corpo per voi - questo calice è il nuovo patto nel mio sangue» . È più facile immaginare che due parole, originariamente non simmetriche, siano state gradualmente assimilate l'una all'altra (specialmente dopo che nel corso dell'evoluzione il pasto venne anticipato e le due parole finiro no per essere contigue) che non il contrario. Forse la successione delle due pericopi (vv 1 7-2 1 e v. 22) indica che nella comunità di Marco si consumava dapprima un pasto completo, e solo dopo si passava al p a ne e al vino. Se le due parole fossero state fin dal principio simmetri che come in Marco, si sarebbe dovuto parlare inoltre di «carne» e «sangue» perché «corpo» non si trova mai come termine correlativo di «sangue» . N ella forma paolina, dove «patto» fa da riscontro alla p a rola «corpo», non c'è questa difficoltà. Infine, l'idea di bere il sangue è una cosa così raccapricciante per un ebreo che il detto nella sua forma marciana, senza alcun commento che chiarisca la necessità di un atto così obbrobrioso, è inimmaginabile in un ambiente giudaico (cf. Gen. 9,4; Lev. 1 7, 1 0 ss.), a meno di interpretarlo fin dall'inizio come pura metafora. La forma paolina, invece, non contiene quest'idea. Se dun que la variante paolina è probabilmente la più antica, questo non vuoi dire che sia stata tramandata del tutto invariata. «Il mio corpo per voi» (senza verbo) non si può dire in aramaico; l'inciso «per voi» è proba bilmente penetrato nel testo per influenza della parola relativa al cali.
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Le parole
d,istituzione della cena del Signore
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ce attestata in Marco, quando nella comunità si usava già la lingua gre ca; mentre l'aggiunta «del patto)) sarà stato ripresa, viceversa, nel testo marciano dalla formula trasmessa da Paolo. Anche l'ordine (duplice) di ripetere l'atto, che manca in Marco, in Paolo potrebbe essere un'ag giunta posteriore per prescrivere esplicitamente la celebrazione della cena del Signore. Così la forma più antica ancora raggiungibile reca la forte impronta dell'idea di un nuovo patto fra Dio e il suo popolo (cf. Es. 24, 8- 1 o, dove «il sangue del patto» è collegato col mangiare e bere alla presenza di Dio e nella gloria escatologica). Il (nuovo) patto ha anche un posto importante nella comunità di Qumran, che conosce pure un pasto comunitario quotidiano con benedizione di pane e vino ( I QS 6,2- 5 ; I QSa 2, I 7-22; cf. Ios. As. I 5, 5 ; I 6; I 9, 5 ). Le. 22,1 5 - I 8 .2 5 JO contiene forse un terzo racconto dell'ultima cena, una volta com pleto in sé, prima dell'inserimento delle parole dell'istituzione riprese dalla tradizione paolina e marciana? In quel racconto sarebbero stati associati, come in Gv. 1 3 e I 4- 1 6, un riferimento al servizio di Gesù e uno sguardo alla gloria futura, senza una particolare istituzione. L 'at tesa di un banchetto escatologico nella gloria si trova già anche in Is. 2 5 ,6; 6s , I J ; Hen. aeth. 62, 14; Bar. syr. 29,8; Str. -Bill. IV, I I 54- I I s 6. Contro l'ipotesi che questo sia il racconto più antico di tutti, sta però il fatto che la cena vi sia presentata chiaramente come consumazione dell'agnello p asquale (cf. intr. ai vv . 1 2- 1 6), mentre le caratteristiche lin guistiche indicano una comunità di lingua greca. Forse questa tradizio ne particolare risale a una celebrazione della pasqua (ellenistico-)giu deocristiana. Per la forma marciana, che rispetto a Paolo e alla tradi zione particolare di Luca è più recente, il modello è costituito certa mente dal pasto sacrificale giudaico che dona ai commensali la parte cipazione alla benedizione della vittima (cf. 1 Cor. I O, I 6- I 8). Se si con siderano i diversi racconti dell'ultima cena di Gesù, ci sono tre momenti che compaiono, con diversa accentuazione, in tutti e tre: 1 . la cena è orientata verso il compimento futuro del regno di Dio, nel quale com pimento il banchetto escatologico è atteso come espressione di comu nione perfetta fra Dio e uomo. Questo aspetto è accentuato con parti colare fo�za in Le. 22, I 5 - I 8 .27-3 0, ma si trova anche in Mc. 1 4,2 5 e, come traccia del suo ricordo, in I Cor. I I ,26 alla fine. Anche I Cor. I 6,22 s. mostra probabilmente che l'invocazione escatologica «Signo re, vieni ! » faceva parte della liturgia della cena, come in Did. I o,6 (v. a 7,2 8). 2. La cena è orientata verso il rapporto presente di alleanza tra
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Mc. 1 4,22-2 s.
Le promesse dell'ultima cena
Dio e il suo popolo. Questo rapporto ha un posto centrale in I Cor. 1 1 ,2 3 -2 5, ma si esprime anche nella comunione conviviale di Le. 2 2, I 5 (il v. 29 parla persino, alla lettera, di «lasciare in eredità quale dono del patto») e in Mc. 14,22 s. (con il riferimento al «patto » nel v. 24). 3 · La cena, ad ogni celebrazione, è orientata in retrospettiva verso la morte di Gesù, avvenuta una volta per tutte, che è la radice di questa comu nione. Ciò è messo in evidenza più di tutti in Mc. I 4,24, ma si trova anche in Le. 2 2,27b (pronunciato la notte prima della crocifissione !) e in I Cor. I I , 2 3 b; viene poi confermato esplicitamente ancora una vol ta dall'aggiunta «per voi» in I Cor 1 I ,24. Un israelita che ha ricevuto aiuto celebrava insieme con altri un p a sto quale offerta di ringraziamento, durante il quale ricordava, raccon tando l'esperienza, il pericolo evitato o la difficoltà superata, lodando Dio per il suo intervento (cf. Sal. 22,2-22/23-3 2; v. a I 5 , 24). Con que sto pasto la persona salvata viene reinserita nella comunità e viene ri stabilita la pace tra Dio e uomini. Sarebbe naturale, dunque, che i di scepoli dopo pasqua continuassero la comunione conviviale con Gesù goduta in maniera particolare l'ultima sera proprio con questo pasto di ringraziamento, nel quale il pane ricordava il «sacrificio» offerto (ora la morte di Gesù) e il calice veniva inteso quale «calice delle opere salvifiche di Dio» (Sal. I I 6, I 3 . I 7). Ciò è concepibile se Gesù aveva già suggerito con le proprie parole un significato particolare del pane e del calice. Senza tale situazione a monte non sarebbe affatto naturale stabilire un'equivalenza tra pane (= morte di Gesù) e «sacrificio di rin .
graziamento». 2 2-2 5. I l gesto d i Gesù corrisponde pienamente all'inizio abituale di un pasto (cf. 6,4 1 ; 8,6 e intr. a 14, I 2- 1 6). È il rito che unisce i presenti in una comunione conviviale. Nei banchetti giudaici si distingue net tamente fra gli antipasti, quando ciascuno pronuncia per conto pro prio la dossologia e nuovi ospiti possono ancora aggiungersi, e il pa sto vero e proprio, quando la comunione conviviale si costituisce me diante la preghiera di ringraziamento detta per tutti al momento della frazione del pane. N ella prima frase la parola aramaica usata è stata certamente gufa = «corpo» (v. sopra) che vale «corpo, stesso, io» (cf. Gv. 6,3 2 · 3 5 ·4 8 . 5 1 a) e comprende quindi l'intera persona di Gesù. In genere parole come «carne>> o «corpo» in ebraico o in aramaico si rife riscono sempre a tutta la persona, anche se osservata da una particola-
Mc. 1 4,22-2 s .
Le promesse dell'ultima cena
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re prospettiva. In questo caso il pane spezzato e distribuito a tutti è inteso come segno e caparra della presenza di Gesù stesso, del suo «io» o della sua «persona)). È così anche in Marco; solo che «corpo)), in stretto parallelismo con «sangue», denota ancora più marcatamente Ge sù come colui che, corpo e sangue, viene dato per tutti alla morte. An che per il calice (v. 2 3) il gesto di Gesù corrisponde pienamente alla conclusione normale del pasto . La notizia che «tutti ne bevvero» è ri volta forse in senso polemico contro tendenze ascetiche o pauperisti che che volevano escludere il vino dalla celebrazione della cena del Si gnore; esiste una serie di resoconti di siffatte celebrazioni. Non è se condario che i discepoli bevano prima delle parole di Gesù: non c'è quindi la minima idea che la parola di Gesù trasformi il vino nella s o stanza, materialmente. Certo, gli dà un suo carattere particolare, ma per mezzo della propria promessa, un po' come la stampigliatura e la firma della banca danno al pezzo di carta di una banconota o di un'obbligazione un valore grazie all'impegno implicito di garantire il valore di quel pezzo di carta, che, quanto alla sostanza, rimane immu tato. Le parole con cui Gesù garantisce la promessa fatta agli uomini nella cena del Signore possono dunque essere pronunciate tanto pri ma che si beva, quanto dopo. La seconda parola (v. 24) sottolinea chia ramente l'idea del sacrificio. Anche se il sangue versato per la stipula zione di un patto in origine era solo espressione di un impegno di fe deltà all'estremo (un po' come dire: « Possa succedere anche a me co me a questo animale, se trasgredisco l'impegno dell'alleanza! »; cf. ad es. Gen. I 5 , I o; 1 Sam. I 1 ,7), il riferimento al sangue in Marco significa sicuramente che il patto di Dio con la sua comunità sussiste solo sul fondamento della morte sofferta per essa da Gesù (v. a 1 0,4 5 ). Il fatto che Gesù poche ore dopo questa cena sarebbe morto sulla croce in combeva ovviamente fin dal principio sulla cena e sulle parole pro nunciate in quell'occasione. Così la comunità conviviale riunita per la cena del Signore viene inserita in quell'avvenimento nel quale diventa evidente che Dio è solidale col cammino di Gesù verso l 'umiliazione, proprio nella quale può essere trovato. In tal modo la comunità con viviale è collocata nella nuova comunione con Dio e sotto la nuova si gnoria di Cristo. Luca dovrebbe dunque avere sostanzialmente ragio ne quando mette le istruzioni di Mc. I 0,42-4 5 in relazione diretta con l'ultima cena. La cena del Signore, però, non sarebbe cena del Signore se non avesse la prospettiva del compimento. Il presente della comu-
24 8
Mc. I 4,26-3 1 . La cecità dei
discepoli e la promessa di Gesù
nione conviviale è presenza del futuro. Già lo stesso fatto di trovarsi ora insieme gli uni con gli altri è vera comunione soltanto perché è uno stare insieme con il Cristo presente. Proprio per questo motivo lo stare insieme non è immaginabile senza il suo completamento in quel futuro di Cristo, in cui si adempirà veramente l'essere «con Cristo» (cf. I Tess. 4, 1 7 e passim). Da questa prospettiva la cena del Signore trae il suo carattere gioioso (Apoc. 2,46). Nelle prime comunità c'era più il pericolo di un'allegrezza traboccante che di una cerimonia so lenne tormentata dall 'angoscia (cf. anche 1 Cor. 1 1 ,23 ss.). Tale alle grezza è senza dubbio possibile soltanto quando sia viva la consape volezza che quel che si compie già ora a mo' di segno e in situazione di conflitto interiore, sarà donato compiutamente nel regno di Dio che viene. In questa prospettiva la comunità celebra la cena come la comu nione conviviale che le è donata già qui da Dio, ma che è tutta aperta verso il futuro. L'accenno al fatto che Gesù (già ora o dopo questa ce na?) non berrà più fino al compimento, sottolinea ancora una volta, come la formula del sangue versato e in piena sintonia con la posizio ne di Marco, il grande significato della passione di Gesù. La questione così vivacemente dibattuta all'epoca della Riforma circa il valore della copula («è») non è dunque pertinente, perché né Gesù né la comunità primitiva avevano il nostro concetto di «sostan za» . Essi si domandavano quale fosse la funzione, il servizio che una cosa esercitava. Anzi in aramaico la frase deve essere stata pronunciata senza il verbo essere: «Questo - il mio corpo». Il problema che si po neva già per i greci, ma molto più per il pensiero moderno a causa del lo sviluppo delle scienze naturali, di sapere che cosa sia una cosa, di che consista, era ancora lontanissimo. La frase vuoi soltanto dire che Gesù stesso è presente e agisce e incontra la comunità, quando essa mangia il pane e beve il calice (v. al v. 2 3). La cecità dei discepoli e la prom e s s a di Gesù, 14,26-3 1 (cf. Mt. 26,30-3 5; Le. 2 2,39 [3 1 -34]) 26 E quando ebbero cantato l'inno uscirono andando verso il Monte degli Ulivi. 27 E Gesù dice loro: «Inciamperete e cadrete tutti, perché sta scritto: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse. 28 Ma dopo il mio ri sveglio vi precederò in Galilea» . 29 Ma Pietro gli disse: «Anche se tutti gli altri inciamperanno e cadranno, io no!». 30 Allora Gesù gli dice: «In verità
Mc. 1 4,26-3 1 .
La cecità dei discepoli e la promessa di Gesù
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ti dico: proprio tu oggi, questa notte stessa, prima che il gallo canti due vol te, mi rinne gher ai tre volte» . 3 1 Ma egli assicurava in modo esagerato: «An che se dovessi morire con te, non ti rinnegherò mai». E tutti dicevano la medesima cosa. 17
Zacc. 1 3,7·
Il v. 28, in quanto riferimento a 1 6,8, potrebbe essere un'aggiunta di Marco. Ma poiché «precedere, camminare davanti)) appartiene al vo cabolario della pastorizia, Zacc. 1 3 ,7 (citato al v. 27) è seguito ( 1 3,9) da un annuncio di salvezza e l'annuncio dello smarrimento dei discepoli difficilmente non era associato a una promessa (cf. Le. 2 2,3 2), ecco per tutte queste ragioni 14,28 apparteneva probabilmente già alla storia della passione nota a Marco (l'unico argomento contro è, al massimo, la citazione diretta) oppure era almeno tramandato oralmente insieme col v. 2 7. Anche a fianco di Gv. 1 6,3 2 (dove si nota l'influenza di Zacc. 1 3 ,7) c'è la promessa di 1 6,3 3 e Gv. 1 3 ,36 accenna alla sequela succes siva di Pietro. Questi paralleli mostrano che il cammino di Gesù fu rappresentato, certamente prima di M arco, come quello del giusto sof ferente, abbandonato da tutti, ma guidato da Dio alla vittoria (cf. I 5 , 20-26, riepilogo). Poiché Luca h a cancellato l a fuga dei discepoli non presenta una sentenza analoga ai vv. 27 e 3 I; anche il v. 28 non può es sere preso in considerazione da Luca perché per lui Gesù non appare in Galilea, ma a Gerusalemme (contro Mc. I 6,7; Mt. 2 8 , 1 6). Entrambi i rilievi valgono anche per Giovanni benché la previsione della disper sione dei discepoli nella loro patria ( 1 6,3 2 ) tradisca ancora una cono scenza della fuga verso la Galilea (e dell'apparizione del Risorto in Galilea). Questa fuga in Galilea dovrebbe essere un fatto storico. �6- 3 1 . Il canto dell'inno di lode avveniva normalmente alla fine del p asto pasquale e quindi senza dubbio era abituale anche alla fine della cena del Signore (cf. 1 Cor. 14,26; Col. 3 , 1 6; Ef 5, 1 9); la sua menzione qui potrebbe anche essere dovuta al fatto che il narratore si figura l'ul tima cena di Gesù sulla falsariga del culto eucaristico nella sua comu nità. Per il Monte degli Ulivi cf. 1 J , J . Con la predizione di Gesù e il rinvio alla Scrittura, la comunità attenua lo scandalo della fuga dei discepoli. Certamente questo non diminuisce la loro colpa; al contra rio, Marco ha interesse a far risaltare la sofferenza di Gesù mettendo in evidenza come la cecità perfino dei dodici allarghi ogni volta di nuo vo l'abisso fondamentale che separa l'uomo da Dio. Si vede tuttavia
2 5O
Mc.
14,16-3 1 . La cecità dei discepoli e la promessa di Gesù
quanto Gesù si erga quale Signore anche sopra questa defezione. Con forza ancora maggiore il v. 28 indica nella medesima direzione. Gesù pone la propria promessa sopra qualsiasi fallimento umano: con la defezione dei discepoli e con la morte di Gesù (per la quale anche essi hanno la loro parte di colpa) la sequela non viene in alcun modo inter rotta, anzi, in verità, comincia da questo punto. L'immagine dell'An tico Testamento mostra oltre il pastore colpito solo il gregge disperso. Ma G esù promette, nella sequela, la nuova riunione del gregge dalla di spersione. E soltanto questo nuovo ricomporsi del gregge renderà pos sibile una vera unità in una vera sequela. Così, per Marco, attraverso il crollo dei discepoli e la passione del «pastore», il cammino porta alla risurrezione e alla comunità di Gesù. «Vi precederÒ» può essere inter pretato in senso spaziale o temporale: nel primo caso, vuoi dire come guida, alla testa di un gruppo in marcia (come in 1 0,3 2); nel secondo caso, vuoi dire prima che arrivino gli altri (come in 6,4 5 ) . Per Marco si tratta sicuramente del secondo significato (v. a r6,7 e le osservazioni sulla chiusa di Marco, ibid. ). L'espressione «oggi, in questa stessa notte» (v. 30) riflette l'uso giudaico di considerare il tramonto come inizio della giornata. La predizione del rinnegamento non è molto fa cilmente collegabile con la fuga (v. 27) anche se Marco lo fa per mezzo del v. 29. Storicamente le cose si saranno svolte così: i discepoli ab bandonarono Gerusalemme per tornare alle proprie case solo quando il destino di Gesù era stato definitivamente deciso. Con il versetto di collegamento (v. 29) Marco vuoi mettere ancora di più in evidenza la cecità di Pietro: proprio colui che si sente più sicuro, che si considera addirittura come un'eccezione rispetto agli altri, cadrà più in basso {cf. Le. 1 0, 1 5 ; 14, 1 r ; 1 8 , 1 4; Giac. 4, r o; 1 Pt. 5,6) . Quanta impressione abbia fatto quest'episodio, si evince dalla triplice variante della tradi zione (Marco, Luca, Giovanni). Singolare è il duplice canto del gallo (solo in Marco). Forse il primo canto deve servire da avvertimento. Anche l'ultimo intervento, la sincera e autentica disponibilità al marti rio, non giova: infatti l'uomo si inganna continuamente, nelle valuta zioni positive come in quelle negative, finché considera se stesso e la robustezza della propria fede dal di fuori della situazione di emergen za. Quel che lo salva è solo la promessa di Gesù (v. 28); essa può mani festarsi con tutta la sua forza anche in modo del tutto inaspettato (cf. Gv. 1 3, 3 6 fine; 2 1 , 1 8 s.). Proprio quando tutti, anche chi è più vicino a Gesù, vengono meno, Gesù si palesa più grande di ogni defezione.
Mc. 1 .,32-42 . .•
La solitudine di Gesù nella lotta dolorosa
25 I
Marco ha già sottolineato {8,3 1 . 34 ss.; 9,3 1 .3 5 ss.; 1 0,3 3 s.39. 5 2) l'in terdipendenza della sofferenza di Gesù e della sequela del discepolo: ora ( 1 4,22-3 1) fa vedere che questa è possibile unicamente come dono della grazia, perché Gesù ci precede. La solitudine di Gesù nella lotta dolorosa, 1 4,32.-42. (cf. Mt. 26,3 6-46; Le. 22, 40-46) 3 2 Arrivano in un luogo il cui nome era Getsemani, ed egli dice ai suoi di scepoli: «Sedetevi qui in terra, finché io abbia pregato». 33 E prende Pie tro, Giacomo e Giovanni con sé; e cominciò a essere preso da panico e an goscia. 34 E dice loro: «L'anima mia è profondamente triste, fino alla mor te; rimanete qui e vegliate» . 3 5 Poi andò un poco più in là, cadde giù a ter ra e pregava che, se fosse possibile, quell'ora passasse oltre da lui; 36 e di ceva: «Abba, Padre, tutto ti è possibile: fa passare oltre da me questo calice. Ma non quel che io voglio, bensì quel che tu voi » . 37 E viene e li trova ad dormentati e dice a Pietro: «Simone, dormi ? Non sei stato capace di veglia re neanche per un'ora? 38 Vegliate e pregate, affinché non veniate in tenta zione; lo Spirito è pronto, ma la carne è debole>>. 39 E di nuovo si allonta nò e pregava con le stesse parole. 40 E di nuovo tornò e li trovò che dor mivano, perché i loro occhi si erano appesantiti e non sapevano che cosa rispondergli. 41 E viene per la terza volta e dice loro: «Adesso dormite an cora e riposatevi ! Basta ! L'ora è venuta: ecco, il Figlio dell'uomo è conse gnato nelle mani dei peccatori. 42 Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi con segna si è avvicinato» . 3 4 Sal.
42,6 . 1 2; 4 3 , 5; Gion. 4,9.
Singolare è già il duplice inizio con la scelta dei tre intimi, che sono poi lasciati indietro a loro volta, senza che Gesù li prenda con sé per pregare (v. 3 2, fine; v. 34, fine). Luca ignora completamente l'episo dio. Il v. 36 ripete in discorso diretto la preghiera già riferita (v. 3 5 ) in discorso indiretto: al proposito c'è da chiedere chi potesse conoscere il contenuto della preghiera, dato che i discepoli non s ono vicino a Gesù, e per di più dormono. Gesù torna indietro tre volte, sebbene si allontani soltanto due. Soprattutto non viene mai detto se ritorna dai tre o dai nove discepoli; i vv. 4 3 - 5 0 presuppongono che i due gruppi siano di nuovo insieme. I vv. 39 s. sono una ripetizione, in termini molto generali, della prima scena, solo che i discepoli non trovano le parole; più precisamente, questa viene riferita solo a proposito del terzo ritorno. Se si lascia da parte l'inciso «e viene per la terza volta» (v. 4 1 ) il racconto diventa più logico, e il secondo episodio risulta pa-
252
Mc. 1 4,3 2-42.
La solitudine di Gesù nella lotta dolorosa
rallelo al primo. Il ricordo di una duplice preghiera ha dato forse vita a un racconto con tre momenti di preghiera perché esisteva il costume di pregare tre volte (2 Cor. I 2,8; Dan. 6, I I , I 4; e anche esempi greci, non biblici) ? Forse che il duplice inizio, il duplice sommario della pri ma preghiera (vv. 3 5 s.) e la mera ripetizione del primo ritiro di Gesù per la preghiera per mezzo del secondo ritiro, sono indizi di due reso conti {vv. 3 2. 3 6-3 8 e 3 3 -3 5 .40 s., senza 4 I a) che sono stati elaborati e combinati tra loro ? Per Luca Gesù si allontana una sola volta per pre gare che corrisponde a Mc. I4,3 2.3 6-3 8 e non contiene ancora la paro la sul Figlio dell'uomo. Tuttavia è più semplice l'ipotesi che un rac conto più breve sia stato progressivamente ampliato. La lotta sostenu ta da Gesù nella preghiera del Getsemani potrebbe essere concepita come un modello per la comunità, tuttavia è probabile che si tratti di un episodio storico. Esso è presupposto anche in G-p. I 2,2 7 (cf. I 8, I 1 b); E br. 4, I 5; 5 ,7 s. e non si adatta né alla figura del servo di Dio né, a più forte ragione, a quella del glorioso taumaturgo o del Signore di vino. Ma è altrettanto certo che il racconto è stato ampliato. Sono sta te inserite parole che dovevano circolare isolate e che erano importan ti per la comunità (v. 4I b, che è molto simile a 9,3 I a, con la differenza che l'espressione sibillina «uomini» è spiegata con il più comprensibi le «peccatori»; forse anche il v. 3 8b, che è citato solo in Policarpo 7,2). L'esortazione alla comunità viene sottolineata al v. 3 8a con echi che richiamano il Padrenostro (così Policarpo, ibid. ). Sono state accolte frasi che riecheggiano l'Antico Testamento (v. 3 4), e così al posto del sunto indiretto della preghiera (come al v. 3 5), subentra il testo esatto della preghiera di Gesù. Così nel racconto attuale sono accostati, in maniera poco omogenea, il «venire» dell'ora, dal profondo significato teologico, e l' «avvicinarsi», in senso banalmente materiale, di Giuda; l'idea teologicamente rilevante che Gesù è «consegnato» ai peccatori e quella, dal significato più banale, che Gesù è «consegnato>> alle autori tà giudaiche. Anche la solitudine di Gesù potrebbe essere stata accen tuata ancora di più per analogia con passi del tipo di Gen. 22, 5; Es. 24, I 4. Forse i tre intimi, di cui Luca non sa nulla, potrebbero essere stati inseriti (v. 3 3) in un momento successivo (per parallelismo con 9,2 dove c'è la stessa espressione «prende con sé»), perché alcuni rac contavano così l'episodio. Oppure è stato Marco che per primo ha vo luto mettere l'accento sulla defezione anche di quelli che erano più vi cini a Gesù (v. a 1 3 ,3 ) ? La formulazione dei vv. 3 7a.4o ricorda I J,J 6.
Abba
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3.1-36. «Getsemani» significa «frantoio per l'olio» ; il nome fa sicu ramente parte della tradizione, specialmente considerando che Marco aveva già dato un'indicazione di luogo (v. 26). All'opposto di quanto avviene nelle leggende dei martiri ebrei o cristiani, e anche nei prean nunci della passione (cf. invece Le. 1 2, 50), qui è descritta l'angoscia e il panico di Gesù. C'è stata vera sofferenza, e si leggerebbe male il van gelo se ci si figurasse Gesù secondo l'immagine di uno stoico, come uno che è al di sopra di ogni distretta umana, che non ne è toccato. Una figura di questo genere sarebbe più imponente di quella biblica; ma allora Gesù sarebbe uno dei pochi uomini eccezionali, o addirittu ra un superuomo, non più colui che è diventato fratello dell'uomo che si trova nella distretta più profonda (cf. Ignazio, Ef 7,2; Pol. 3,2: in sé, Gesù è immune da sofferenza, ma diventa sofferente per amor no stro). Il lamento occupa una porzione sorprendente dell'Antico e del Nuovo Testamento; ed è così perché in questi testi gli uomini hanno il cuore aperto anche alla sofferenza, e non vogliono assicurarlo o co razzarlo contro la distretta. Questo atteggiamento biblico ha la sua ra dice più profonda nel fatto che Dio stesso ha approvato questo cam mino che porta dritto nella sofferenza e non solo a girarle intorno; che ha detto sì anche alla distretta vissuta realmente e profondamente nel Getsemani. «Fino alla morte» (Gion. 4,9) significa « al punto che pre ferirei essere già morto». L'invito a «vegliare» è scelto già in contrap posizione al sonno dei discepoli di cui si parla subito dopo; si com prende correttamente la separazione di Gesù dai discepoli solo pre supponendo già il significato traslato di una disponibilità nella preghie ra per l'azione di Dio o, all'inverso, la prontezza a difendersi dalla ve nuta del tentatore. Questo significato deriva però soltanto dalla comu nità cristiana (e nel senso di I J ,34- 3 7). L'«ora» (v. 3 5 ) è quella deter minata da Dio. Il termine ha acquistato la sua risonanza particolare nell'apocalittica, dove sta a indicare l'ora del compimento finale, l'ora del giudizio universale (Dan. 1 1 ,40.4 5 LXX). Bisogna dunque dire, an che per il nostro passo, che all'interno della storia batte quell'ora che trascende tutta la storia. Nell'angoscia avviene il superamento dell'an goscia, in quanto Gesù sa quel che verrà e lo interpreta come un com pito assegnato da Dio, sicché solo Dio stesso potrebbe evitarglielo.
L'invocazione Abba all'inizio della preghiera è unica nel suo gene re. Dovrebbe risalire all'uso stesso di Gesù; è stato p oi ripreso dalla
2S4
Mc. 1 4,)1-41.
La solitudine di Gesù nella lotta dolorosa
comunità che ha continuato a usarlo nel suo nome (Rom. 8 , 1 5 ; Gal. 4, 6); per quanto si sa, nessun giudeo, prima o dopo Gesù, ha mai invo cato Dio con questa forma del nome di padre. Anche il termine ordi nario per «Padre», riferito a Dio, si trova però abbastanza raramente nell'Antico Testamento, e mai come appellativo in una preghiera, sen za dubbio a causa dei miti delle popolazioni vicine, secondo i quali il mondo o l'umanità sarebbero stati generati da dio. Solo nel giudaismo postbiblico Dio è visto come padre del singolo. Tuttavia l'invocazione diretta «padre mio» o «padre» non compare mai nel giudaismo palc stinese. Soltanto in due preghiere liturgiche dell'inizio del n secolo d. C. Dio viene invocato quale «nostro padre, nostro re »; anche nel giu daismo della diaspora l'invocazione al «Padre» è insolita (Sir. 23, I ). Anche fuori dell'invocazione è raro che Dio sia detto «Padre>>. Que sto è vero anche per la comunità cristiana primitiva. In Marco, in Q e nel materiale proprio di Luca, raramente Dio è chiamato «padre»; so lo in Matte o (circa 3 7 volte) e in Giovanni (circa I oo volte) ciò avviene con frequenza. E c'è anche un'altra osservazione da fare: Gesù parla sì di «Padre vostro» e di «Padre mio»; ma egli non si associa mai ai di scepoli con la formula « Padre nostro». Infatti anche in Mt. 6,9 Gesù si limita a dire ai discepoli che essi devono pregare così. Inoltre nella forma più antica di Le. I I,2 manca il «nostro». Tutto ciò indica chia ramente che Gesù sapeva di avere col «Padre suo» un rapporto parti colare, diverso da quello di tutti gli altri uomini, per i quali Dio diven tava « Padre vostro» solo per mezzo suo (Gv. 20, 1 7). «lo» e «tu»: fi glio e padre sono uno di fronte all'altro, ma vengono riuniti nella pra tica dell'ubbidienza. La loro unità non va dunque immaginata sempli cemente come unità fisica, naturale. L'unità condizionata biologica mente nel rapporto umano padre-figlio è ovvia né può essere elimina ta. L'unità tra Dio e Gesù nasce nell'invocazione «Abba», nell'ubbi dienza vissuta e nell'aiuto sperimentato; è l'unità dell'amore che si rin nova continuamente nell'operare e che si riconquista resistendo alla tentazione (cf. excursus a I 5,39). 36-42. Il «calice» (v. 3 6) è il calice della sofferenza porto da Dio (v. a 1 0,3 8). La durezza della sofferenza è sottolineata dal fatto che qui (a differenza di Le. 22,4 3 s., in diversi manoscritti; cf. Gv. I 2 , 2 7 ss.), nul la si dice di una risposta divina alla preghiera di Gesù. Simone (v. 3 7) è naturalmente il rappresentante di tutto il gruppo dei discepoli; forse è
Mc. 1 4,3 2-42.
La solitudine di Gesù nella lotta dolorosa
25 5
messo particolarmente in rilievo a motivo dei vv. 29.3 1 . Spesso un evangelista attribuisce al solo Pietro ciò che un altro attribuisce a tutti i discepoli (v. a Mt. 1 5 , 1 5 a; cf. Mc. 1 3 ,3 e Mt. 24,3; inoltre Mt. 1 8 ,2 1 e L e. 1 7,4; cf. Le. 1 2.4 1 s. e Mt. 24,4 5). Fino da 3, 1 6 Simone si chiama Pietro: viene forse chiamato di nuovo «Simone» per sottolineare il suo fallimento ? Troviamo un nuovo invito a «vegliare» (v. 3 8), stavolta con una motivazione particolare; ripetendo l'invito, l'evangelista na turalmente rafforza l'esortazione ai lettori. Sorprendente è la contrap posizione di «spirito» e «carne>>. È vero che il giudaismo la conosce già (/s. 3 1,3), ma non si tratta mai di una contrapposizione all'interno dell'uomo. «Spirito» si riferisce sempre a Dio e al suo mondo; «carne» si riferisce all'uomo con le sue possibilità psichiche e intellettuali e al suo mondo. Così, l'opposto più frequente di «carne» è Dio stesso, la sua parola, la sua grazia, la sua elezione (/s. 40,6-8, ecc.). I greci, inve ce, se di scuola platonica, distinguono nettamente fra l' «anima», che viene dal cielo e vi ritorna, e il «corpo», che è terreno e tiene l'anima prigioniera; però non adoperano mai, per questa contrapposizione, i termini «carne» e «spirito». Il pensiero giudaico e quello greco si sono dunque uniti fino a un certo punto. L'espressione di questo versetto risale al testo ebraico di Sal. 5 r , 1 4 che parla di uno «spirito pronto» o «volenteroso» che sarà donato agli uomini da Dio, e che di fatto non è altro che lo «Spirito santo» di Dio (Sal. 5 1 , 1 3 ). Il pensiero che lo Spi rito ricevuto in dono da Dio dimori in modo permanente nell'uomo pio (e non solo, ad esempio, in un re o un profeta) è eccezionale nel l'Antico Testamento, sempre che non s'intenda «spirito », nel senso di energia vitale. Mc. 1 4,3 8 è dunque un esempio di come nel giudaismo dei tempi di Gesù fosse possibile considerare presente ciò che l'Anti co Testamento aspettava altrimenti solo per gli ultimi tempi. Lo «Spi rito» è ancora considerato in modo chiaro e rigoroso come Spirito di Dio, ma pure come ciò che Dio ha donato all'uomo in modo comple to e per tutti i tempi. Se ne può dunque parlare, in un certo senso, co Ine dello spirito dell'uomo, del «suo» spirito. Certo è sempre un dono dato in «prestito», perché appartiene ancora a Dio e quando esso ope ra il soggetto rimane pur sempre Dio. Alla debolezza dell'uomo non è dunque contrapposta la sua forza spirituale, ma quella di Dio il quale gliela dona sempre di nuovo (cf. 1 QH 9, r 6; 1 QS 3,2 5 -4,4). La ripeti zione della preghiera (v. 39) mette in evidenza con maggiore intensità il travaglio della sofferenza di Gesù e la solitudine del Figlio dell'uo-
2 56
Mc. I 4,J l-.f2..
La solitudine di Gesù nella lotta dolorosa
mo che nel suo combattimento di preghiera è circondato da gente che dorme della grossa e non lo comprende. La traduzione del v. 4 I a non è sicura. La prima frase potrebbe essere tradotto come una domanda: «Continuate a dormire e vi riposate ? » . Ancor più incerta è la parola che segue: la traduzione «basta! » è più un suggerimento che una tra duzione che si possa suffragare citando altri passi. Letteralmente il ver setto recita: «Si tiene lontano (da quello che ci sarebbe bisogno di fare ora ? ) » oppure « È (ancora) molto distante ? (no, l'ora è venuta ... ecc.)», o «egli (Giuda) (mi) prende (ora)», oppure, con una diversa lezione, «è giunta la fine (del sonno ? per me ?)». Più importante è la menzione dell' « ora», che rinvia al v. 3 5: essa non passerà dunque oltre. Così vie ne sottolineato che in quest' «ora» temporale (v. 3 7) si compie l' «ora>> di Dio (già nel v. 3 5 c'era la stessa identificazione), e nell'esser «conse gnato» ai magistrati giudaici si compie quella «consegna» che fa parte del piano di Dio. Per quanto riguarda lo sfondo, dunque, l'atto di Giu da è molto di più della defezione o dello sbaglio compiuto in buona fede da un seguace deluso: per opera sua colui che non è peccatore viene consegnato ai «peccatori» (v. ancora a 9,3 I ) . I vv 4 1 b.42 accen tuano, come fa costantemente Giovanni (cf. Gv. 1 2,28), in una certa tensione con i vv 34 s., la sovranità di Gesù, sovranità raggiunta attra verso il conflitto interiore. Tanto più forte risulta la determinazione di Gesù di percorrere questo cammino nell'ubbidienza, coscientemente e volontariamente. .
.
In questa sezione è sottolineata ancora una volta la realtà, l' «umani tà» della sofferenza di Gesù, e l'azione di Dio diventa visibile proprio in essa. Che Gesù possa dire sì senza riserve a questo cammino, dun que che possa fare ciò che l'uomo non è mai riuscito a fare, ecco dove si dimostra la sua divinità. Marco riassume dunque in un quadro di grande effetto quello che si è sforzato di mettere in risalto in tutto il suo lavoro: Gesù è il Figlio dell'uomo sofferente, completamente stac cato dagli uomini che dormono e non possono capirlo e proprio per questo costituiscono la ragione più profonda della sua sofferenza. In questo modo Gesù attua però, in modo radicale, l'essere di Dio per gli uomini e con gli uomini.
E subito, mentre egli parla ancora, appare Giuda, uno dei dodici, e con lui un manipolo armato di spade e bastoni, da parte dei sommi sacerdoti, degli scribi e degli anziani. 44 Ma colui che lo consegnava aveva dato un segno convenzionale e detto: «Quello che bacerò, è lui: afferratelo e porta telo via legandolo bene» . 45 E come arrivò gli si avvicinò e gli dice: «Mae stro» e lo baciò. 46 Ma quelli gli misero le mani addosso e lo sopraffecero. 47 Ma uno di quelli che stavano lì vicino, trasse la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli amputò l'orecchio. 48 E Gesù si rialzò e disse loro «Siete venuti ad arrestarmi con spade e bastoni, come un brigante. 49 Ogni giorno stavo vicino a voi nel tempio e insegnavo e non vi siete impadroniti di me; ma, affinché le Scritture siano adempiute! » . so Allora, tutti lo lascia rono e fuggirono. p E un giovane lo aveva seguito, vestito solo di un len zuolo di lino sul corpo nudo e lo agguantano. 52 Ma quello lasciò cadere il lenzuolo e se ne fuggì nudo. 43
La locuzione avverbiale «e subito» è una delle preferite di Marco; così come predilige il costrutto greco della secondaria «mentre egli parla ancora» . Sembra dunque che sia stato Marco il primo ad aver formulato così il nesso tra questo brano e il precedente, il che certa mente non esclude che già nella tradizione ci fosse una menzione (molto più breve) dell 'episodio del Getsemani. Altre osservazioni particolari rafforzano l'impressione che ci si trovi davanti a un rac conto che preesisteva a Marco: Giuda è presentato ancora una volta, come al v. 1 0 ( 1 8.2o), come «uno dei dodici», il che certamente può essere letto sia come indizio di una fonte sia come accentuazione mar ciana della mostruosità dell'azione di Giuda. Il verbo « arrivare, pre sentarsi» (v. 43) non compare altrove in Marco, mentre il termine tra dotto qui «manipolo» (indica una nutrita pattuglia o una squadra di guardie) solitamente è usato nel vangelo per indicare la « folla» . Col v. 46 sembra che la scena si sia conclusa. Il colpo di spada al v. 47 è sor prendente: ci sono forse altre persone con Gesù, oltre i discepoli ? Perché non c'è alcuna reazione, né da parte degli sgherri né da parte di Gesù ? Il v. 48 riprende il v. 43 e il v. 49 il v. 1 2, 1 5 (cf. 1 2, 1 2). Il v. 50 sembra essere stato messo subito dopo il v. 49b perché adempiva la predizione del v. 27, mentre ci si aspetterebbe che la fuga fosse avve nuta già dopo il v. 46 o 47· Probabilmente Marco ha ampliato coi vv. 47- 5 2 un racconto antico (vv. 43-46) che era tutto concentrato sugli sgherri; invece gli episodi del fendente e del giovane che fugge via nu-
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Mc. 1 4,43 - 5 1 .
L'arresto di Gesù
do circolavano, fino a Marco, come tradizione orale. I vv. 5 I s. sono singolarmente frammentari e il lessico è affine a quello di I 6, I -8 . Si è pensato che il giovane in questione sia stato lo stesso evangelista Mar co e lo si è identificato con quello nominato in Atti 1 2, 1 2.2 5 ; I 5 , 3 7. 3 9 così che egli sarebbe stato presente anche alle riunioni della prima co munità a Gerusalemme, che forse venivano tenute proprio al piano su periore della casa dei suoi genitori (Mc. 1 4, 1 5 !). Si veda comunque l'in troduzione, 6. Ma la storia in esame non è certamente il racconto di un testimone oculare. Così qui dovrebbe essersi conservata un'antica notizia di un giovane che, senza appartenere alla cerchia dei dodici, fu presente all'arresto di Gesù e più tardi si unì alla comunità. Infatti l'e pisodio non è stato certamente ricavato da A m. 2, I 6 e il giovane non è neanche una pura figura simbolica del credente (cf. Rom. 6,4-8; 2 Tim. 2, I I) che muore e risorge con Cristo { I 6, 5 ). Per i problemi storici, cf. excursus a I 4, 5 3 -72. 43- 5 2. Collegando intimamente questo brano con i vv . 4 I s. Marco vuoi sottolineare che qui si compie l'azione di Dio e che Gesù entra in quel che sta accadendo con ubbidienza consapevole. Ricordando an cora una volta che Giuda apparteneva al gruppo dei dodici, Marco sottolinea la tragicità del destino di Gesù: persino quelli a lui più vi cini non l'hanno compreso. Anche l'arresto non è il gesto impulsivo di un estraneo, ma opera dei capi ufficiali del giudaismo: la solenne triplice menzione si trova anche in 8,3 I; I I,27; I 4, 5 3; I 5 , I (v. excursus a I ,2 I -2 8). Il segno convenzionale, il bacio di Giuda, è strano. Gesù ha insegnato pubblicamente nel cortile del tempio; non c'era proprio nessuno che lo conoscesse da poter mandare con le guardie ? Inoltre sarebbe bastato un cenno nascosto col dito e cercare di nascondere così le intenzioni del gruppo o la collaborazione di Giuda sarebbe certo senza senso. Evidentemente qui si vuole soltanto rappresentare, come in un dipinto, l'atteggiamento interiore di Giuda mediante un gesto visibile. Giuda è descritto come colui che vive a stretto contatto con Gesù eppure non ha il coraggio di esprimere i suoi dubbi o la sua opposizione alla via di Gesù, ma invece lo «consegna ai peccatori» (v. 4 I ) senza una parola, senza un segno che riveli la fine della sua comu nione con Gesù. Il verbo «baciare>> è in greco ancora più intenso del verbo usato al v. 44 e suggerisce l'immagine di uno stretto abbraccio. L'arresto stesso, in contrasto con questa scena, viene descritto molto
Mc. I 4,·B-J2. L,arresto di Gesù
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sobriamente e con poche parole, senza che in un primo momento si parli né di resistenza e neanche di semplici obiezioni. Praticamente la situazione non è modificata dalla successiva menzione della spada: infatti la sua ridicola inefficacia ne fa piuttosto un segno di come Gesù sia indifeso. Con tutta probabilità l'incidente è storico; in ogni caso è riferito senza alcuna finalità teologica. Il linguaggio usato sembra in dicare una cerchia più vasta di spettatori occasionali, uno dei quali vuole prendere le difese di Gesù. Gesù non trova niente di meglio di uno spettatore sprovveduto che simpatizzi con lui. Il termine «brigan te» è abbastanza frequente; difficilmente può essere considerato un'al lusione al fatto che i romani lo abbiano considerato un rivoluzionario, mettendolo sullo stesso piano dei «briganti» di 1 5 , 2 7. Invece di «ogni giorno» si potrebbe forse tradurre «tutto il giorno»; ma sostanzial mente questo non cambia nulla. La rimostranza di Gesù è stata diffi cilmente pronunciata da lui in questi termini; infatti essa ha senso solo rispetto ai mandanti, non già ai gendarmi e ai soldati, ai quali non spetta decidere come e quando devono intervenire. Questa parola ser ve dunque a evidenziare ancora una volta il contrasto: fin da 8,3 1 Ge sù è pronto a percorrere il cammino verso la sofferenza; dichiara poi ancora una volta espressamente di essere pronto ( 1 4,4 1 s.); com'è ridi colo, dunque, lo sforzo di fare le cose di nascosto, con tutte le misure di sicurezza per un arresto notturno con una forte scorta armata! Se questa parola è v era nel suo significato profondo, se diventa messag gio evangelico, ciò non dipende dal fatto che Gesù l'abbia detta così e in quel momento, ma dal fatto che descriva ciò che veramente accadde quella volta: che tutte le misure umane erano ridicole perché, in realtà, si stava svolgendo, nel profondo, qualcosa di completamente diverso: la consegna del Figlio dell'uomo conformemente alla prescienza salvi fica di Dio. In questo evento si fa riferimento alla Scrittura in termini molto generali, come ad es . in I 4,2 1 c in 1 Cor. I 5 ,J s. È dunque suffi ciente professare che qui si compie la volontà di Dio decisa da tempo immemorabile, senza fare tentativi apologetici per convincere con la citazione di testi ad effetto. Perciò manca anche qualsiasi rimprovero a Giuda e persino agli sgherri, ai quali viene rimproverato solo il mo do del loro intervento, ma non l'intervento stesso. Essenziale è soltan to che attraverso la colpa degli uomini proceda la via voluta da Dio che significa la salvezza del mondo. La fuga dei discepoli (v. 50) è rife rita senza alcuna giustificazione. La solitudine del Figlio dell'uomo è
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La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro
totale. Anche il piccolo episodio del giovane contribuisce a rendere più evidente l'atmosfera da «si salvi chi può», dalla quale si stacca chiaramente la calma e la sobrietà con cui Gesù percorre in silenzio il . proprto cammtno. .
Tutto il racconto è semplice e conciso, narrato senza abbellimenti edificanti. Esso si propone di mostrare la solitudine di Gesù che si av via sul cammino decretatogli, staccato tanto dagli avversari quanto da gli spettatori simpatizzanti quanto dai discepoli . Nella sua passio ne il «Figlio dell'uomo » è effettivamente separato da tutti gli «uomini» ai quali «viene consegnato» (9, 3 I ) . La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro, (cf. Mt. 26, 5 7-75; Le. 22, 54-7 1 )
1 4, 5 3-72
Allora condussero Gesù dal sommo sacerdote e si riuniscono tutti i som mi sacerdoti e gli anziani e gli scribi. 54 E Pietro lo seguì da lontano fin den tro il cortile del sommo sacerdote e si mise a sedere con i servi e si scaldava al fuoco. 5 5 Ma i sommi sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimo nianza contro Gesù per condannarlo a morte e non la trovavano s 6 Infatti molti rendevano falsa testimonianza contro di lui e le testimonianze non coincidevano. 57 E alcuni sorsero a rendere falsa testimonianza contro di lui e dicevano: 58 «Noi l'abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tem pio, fatto con le mani, e in tre giorni ne edificherò un altro, non fatto con le mani. 59 Ma neppure così la loro testimonianza era concorde. 6o E il sommo sacerdote, levatosi nel mezzo, interrogò Gesù dicendo: «Non ri spondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te ?». 6r Ma egli ta ceva e non rispose nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò e gli dice: «Sei tu il messia, il figlio del Benedetto ?» . 62 Allora Gesù disse: «So no io, e vedrete il Figlio dell'uomo sedere alla destra della Potenza e venire con le nuvole del cielo». 63 Ma il sommo sacerdote si strappò le vesti e di ce: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni ? 64 Avete udito la bestem mia! Qual è il vostro verdetto ?». Allora quelli lo condannarono all'unani mità, che era reo di morte. 6 5 E alcuni cominciarono a sputargli addosso e a bendarlo e a colpirlo coi pugni e a dirgli: «Indovina ! »; e gli inservienti lo presero a schiaffi. 66 E mentre Pietro era giù nel cortile viene una delle do mestiche del sommo sacerdote 67 e notò Pietro che si scaldava, lo guardò c gli dice: «Anche tu eri col nazareno, con Gesù !». 68 Ma egli negò e disse: «Non so e non capisco di che stai parlando». E uscì fuori nel vestibolo. 69 Ma la domestica lo vide e cominciò di nuovo a dire ai presenti: «Questo s3
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è dei loro». 7 0 Ma egli negò d i nuovo. E dopo u n po' i presenti ricomincia vano a dire a Pietro: «Veramente sei dei loro: infatti sei un galileo». 7 1 M a quello cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco questo uomo del quale parlate!». 72 E subito il gallo cantò per la seconda volta. E Pietro si ricordò della parola, come Gesù gli aveva detto: «Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte», e si mise a piangere. 62 Dan. 7, 1 3 ; Sal. 1 10, 1 .
I l rinnegamento d i Pietro è collegato anche i n Gv. 1 8, 1 3 -27 con l'interrogatorio di Gesù, benché Giovanni racconti entrambi gli epi sodi in maniera alquanto diversa. Questo fatto è particolarmente ri marchevole perché Gesù, secondo Gv. 1 8 ,24, viene tradotto da Caiafa, ma 1 8,2 5 riprende semplicemente I 8, I 8b secondo il quale Pietro sta seduto vicino al fuoco nel cortile di Anna. Quindi questa struttura pa rentetica dell'episodio è un dato fisso della tradizione. Poiché questo episodio, inoltre, presuppone l'arresto di Gesù, la fuga dei discepoli, la traduzione di Gesù davanti al sommo sacerdote e la presenza di ser vi, difficilmente fu mai narrato senza la cornice della storia della pas sione (cf. intr. a I 4,26-3 1 ). Una questione diversa è, tuttavia, se questo episodio sia stato collegato, fin dall'inizio, con l'interrogatorio descrit to in Mc. 14, 5 5-6 5 oppure soltanto con una breve notizia della tradu zione di Gesù davanti al sommo sacerdote (v. 5 3 a), forse una volta con un interrogatorio privato condotto dal sommo sacerdote stesso, tnentre la riunione del sinedrio fu menzionata in seguito (cf. I 5 , 1 ). Ciò è quanto Gv. 1 8, I 3 -27 sembra presupporre, quando Gesù viene portato solo in un secondo tempo dal sommo sacerdote vero e pro prio (le cose stanno in maniera simile anche in Le. 22, 5 7.63 -7 1 ; v. sot to, la sezione dedicata alla «conduzione del processo»). Ora, Marco ama incastrare i racconti a questo modo (v. a 5,2 1 -4 3 ) e quindi questa struttura a incastro, a scatole cinesi, potrebbe essere stata opera sua; in ogni caso la triade delle autorità giudaiche (v. 5 3 b) tradisce la sua ma no (v. al v. 43). Ad ogni modo la storia sarebbe stata già inserita prima di Marco tra un breve interrogatorio condotto dal sommo sacerdote e il processo davanti al sinedrio. Storicamente il racconto dovrebbe co munque corrispondere, nella sostanza, ai fatti. Tutti i dati concreti non sono né necessari per l'adempimento della predizione di Gesù ( I 4, 27.30) né teologicamente rilevanti. Inoltre la storia dovrebbe essere stata inventata già durante la vita di Pietro, il che è difficilmente im maginabile. Non c'è traccia alcuna di tendenze che cerchino di dan-
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Mc.
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La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro
neggiare o sminuire la figura di Pietro. Naturalmente qualche partico lare è stato aggiunto. Al v. 54 la precisazione «da lontano» potrebbe essere un'eco di Sal. 3 8, I I («quelli che mi sono più vicini si fermano da lontano»; cf. Mc. I 5,40 ). La conclusione drammatica col canto del gallo potrebbe essere nata come finale ad effetto: tenere pollame a Ge rusalemme era proibito, ma la norma non era osservata rigidamente (Str.-Bill. a Mt. 26,34). «Per la seconda volta» (v. 72) è sorprendente, giacché non è stata menzionata la prima volta che il gallo ha cantato (solo pochi manoscritti la riportano). Questo secondo canto del gallo viene da 1 4,30, dove l'accostamento di «due volte» e «tre volte» ha una sua efficacia retorica, e intende descrivere il compimento letterale della previsione di Gesù. Ma anche l'interrogatorio stesso non è unita rio: i vv . 5 7b- 59 ripetono praticamente solo il v. 5 6. Perciò Marco ha probabilmente inserito il logion del tempio (v. 5 8), definendolo subito una calunnia. Questo detto viene dalla tradizione (v. sotto) come pa rola isolata. Certamente la contrapposizione «fatto con mani / non fat to con mani» è tipica del pensiero ellenistico nel quale al culto esterio re viene contrapposto un culto puramente spirituale, interiore (cf. Atti 7,48 ; 1 7,24; 2 Cor. 5 , 1 ; Ef 2, 1 1; Ebr. 9, 1 1 .24). Questa contrapposizio ne manca anche in Mc. I 5,29 e Mt. 26,6 1 ed è quindi una spiegazione posteriore. Probabilmente la forma di enigma profetico è più antica del mero annuncio della distruzione del tempio ai discepoli ( 1 3 ,2) che non è un oracolo di «minaccia». Poiché «tre giorni» proprio nel di scorso tipicamente profetico indicano semplicemente un tempo breve (Os. 6,2) ed esistono paralleli (v. sotto) che testimoniano l'attesa della costruzione di un nuovo tempio, all'inizio dello sviluppo dovrebbe trovarsi un detto (di Gesù ?) come 1 5 ,29. Per il resto, la descrizione del l'interrogatorio (vv. 5 5 s.6o-65) è fortemente colorato dai salmi del giusto sofferente, una caratteristica tipica della fonte soggiacente (v. excursus prima di i 1 , 1 ): Gesù tace (Sal. J 8, 1 4- 1 6; 3 9,9 s.), viene tratta to ostilmente (Sal. 3 7,3 2; 54, 5 ecc.) da falsi testimoni (Sal. 27, 1 2; 3 5 , 1 1 ) e condannato a morte (Sap. 2,1 8-20). Senza i vv. 5 7- 5 9 il processo scor re parallelo a quanto narrato in I 5,2- 5 . Anche davanti a Pilato Gesù viene interrogato due volte, certo in ordine inverso per quanto riguar da il contenuto delle domande, prima in merito al suo titolo di re (o di messia), poi riguardo al suo silenzio; in entrambi i casi l'esito è la con danna a morte. C'è da chiedere quale sia il racconto più antico. È dif ficile da chiarire la storia della tradizione del v. 62: esaltazione e paru-
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sia non compaiono mai altrove insieme; è anche singolare che si veda Gesù «seduto» e «venire ». È chiaro che si è davanti a un accostamento di Sal. I IO, I (al riguardo v. a Mc. 1 2,3 5 -40, intr.) e Dan. 7, 1 3 (v. excur sus a 8,3 I, inizio e al punto 3 ), col secondo passo citato in una forma diversa da Mc. 1 3 ,26. Probabilmente la comunità, che riscopriva in misura sempre maggiore nella sua Bibbia la storia di Gesù, ha associa to i due passi (v. a 1 5,22-24, intr.). Questo processo permette ancora, in una certa misura, di essere seguito. La crocifissione di Gesù fu dap prima intesa alla luce di Zacc. I 2, I O (Gv. 19,3 7; cf. Mt. 24,30) , poi as sociata anche col ritorno di Gesù e Dan. 7, 1 3 (Apoc. 1 ,7) . Da Zacc. I 2, I O proviene probabilmente l'introduzione di Mc. 1 4,62 (come in Mc. 1 3,26; Mt. 24,30 ) : «Vedrete ... ». Il cielo aperto e il Figlio dell'uomo sono associati nella visione di Gv. 1 , 5 I e Atti 7, 5 5 s. che si riferisce al Cristo esaltato «alla destra di Dio» (Sal. I I O, I; qui, invero, il glorifica to siede, non sta in piedi). Forse Dan. 7, I 3, che in realtà parla della ve nuta del Figlio dell'uomo al trono, non dal trono di Dio, fu riferito inizialmente all'esaltazione di Gesù (cf. Str.-Bill. 1, 9 5 7: venuta al tro no di Dio, forse in associazione anche con Sal. I I o, 1 ) . In ogni caso, tuttavia, Mc. 1 4,62 è il frutto di uno studio della Bibbia piuttosto lun go. «Sputi» e «schiaffi» potrebbero venire da fs. 50,6 dove sono asso ciati alla flagellazione del servo di Dio. Questi particolari sono stati forse accolti prima nella scena davanti a Pilato e poi passati da lì all'in terrogatorio condotto dal sommo sacerdote ? Gv. 19,3 (davanti a Pila to) usa il medesimo termine greco per «schiaffi» usato in !s. 50,6 e Mc. 1 4,6 5, ma non in Mc. I 5 , 1 9· Le. 2 2,6 3 formula in maniera più generica e il breve sommario di Mc. IO,J4 parla di scherno, sputi e flagellazione da parte dei «pagani». I problemi storici del processo di Gesù sono molto complicati, vi vacemente dibattuti e difficili da risolvere. Per il problema della data v. a Mc. 1 4, 1 2- 1 6. Già non è chiaro chi abbia ordinato l'arresto di Ge sù. La terminologia militare usata in Gv. I 8,3 . I 2 è impiegata altrove quasi esclusivamente per le truppe romane, e quindi si può riferire difficilmente, con un significato impreciso, alla polizia del tempio. Poiché Giovanni, come il Nuovo Testamento in genere, si sforza soli tamente di lasciare nell'ombra la collaborazione dei romani, questa potrebbe essere storica (v. anche al v. 4 8 ) . È anche difficile da immagi nare che sia stato possibile ottenere dal procuratore romano una sen-
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problemi storici del processo di Gesù
tenza capitale con una tale rapidità, se non ci fosse già stata una certa intesa fra le due parti. Pilato, che dal 26 al 3 6 d.C. risiedette a Cesarea, sulla costa, ma andava spesso a Gerusalemme dove abitava nella reggia di Erode, nella parte occidentale della città, non è in ogni caso uno che, secondo le fonti, avrebbe ceduto così facilmente alla pressione giudaica. Secondo Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù, era «duro e non si lasciava intenerire nella sua ostinatezza>> (Legat. 3 0 1 ). Ma non c'è dubbio che Gesù sia stato messo a morte dai romani; in fatti la crocifissione non era usata dai giudei. D'altra parte non si può neanche dubitare della partecipazione giudaica. Secondo tutti i rac conti Gesù è stato preso in consegna anzitutto dalle autorità giudaiche e certamente anche sottoposto a interrogatorio da loro. In questa vi cenda i sadducei, che al tempo erano gli unici detentori del potere mentre al tempo dell 'evangelista erano diventati insignificanti, hanno avuto una parte maggiore di quella dei farisei, divenuti importanti solo in seguito (v. a J , I -6, intr.). Questa considerazione è corroborata dal ruolo decisivo della parola di Gesù contro il tempio (v. 5 8), dal fatto che la domanda circa l'autorità si riferiva, in origine, alla purifi cazione del tempio e dalla frequente menzione dei sommi sacerdoti. Viceversa essa rende verosimile che le pericopi menzionate apparten gano allo strato più antico del racconto della passione. Di sicuro Gesù non aveva alcuna intenzione di dare l'avvio a un movimento messiani co rivoluzionario. In 1 4,47 s. chi agita la spada è più un estraneo, pre sente alla scena, che un discepolo; Le. 22,3 5 s. è una visione precorri erice del tempo della persecuzione durante il periodo missionario del la comunità e così anche L e. 1 2,49 come mostrano i vv. 50- 5 3 · Proprio nel rifiuto del nuovo ordine rivoluzionario e nell'invito al ravvedimen to Gesù viene a trovarsi sulle medesime posizioni dei farisei. In Gal i lea, la regione non amministrata direttamente dai romani, dove perciò s arebbe stato possibile per Erode decretare la pena capitale (6,27), Ge sù rimane relativamente indisturbato, cioè appare meno rivoluziona rio del Battista. Anche i romani, che contro personaggi come quelli ri cordati in Atti 5,36 s. hanno agito rapidamente e, soprattutto, senza fare processi, nel caso di Gesù sono intervenuti soltanto dopo un re golare dibattimento giudiziario (cf. excursus sul «Figlio dell'uomo» a 8,27-3 3 , verso la fine). Proprio per i sadducei l'elemento decisivo è, oltre il tempio, la legge che regola la vita religiosa e la vita politica e della cui osservanza essi sono responsabili; i farisei, invece, avrebbero
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potuto riconoscere più facilmente Gesù quale maestro di sapienza e scriba. La consegna da parte delle autorità giudaiche ai romani di un profeta che aveva attaccato il tempio è tramandata anche da Giuseppe (Beli. 6,JOO ss .); in verità i romani, poiché durante l'interrogatorio quello si ostinava a tacere, alla fine lo flagellarono ben bene e lo rimi sero in libertà, considerandolo pazzo. Che autorità giudaiche fossero coinvolte lo mostra, a parte le molte notizie dei vangeli circa l'opposi zione a Gesù e la fonte giudaica nominata nel commento a I4, I 2- I 6 (intr.), anche la persecuzione dei suoi seguaci dopo l a morte di Gesù (Gal. 1 ,23; entro il triennio dopo la crocifissione). Giudei e pagani, autorità religiose e secolari hanno collaborato ed è escluso, anche da un punto di vista puramente storico, che si possa addossare la colpa a una sola parte. Per il lettore che voglia udire il messaggio di Marco, c'è in ogni caso una sola risposta, quella di Ebr. 6,6. Chi è consapevole di essere stato negligente nell'ubbidienza, manchevole nell'amore, in dolente di fronte alle esigenze della vita di ogni giorno, non può scari care su qualcun altro la responsabilità di questa morte. Ma anche nello svolgimento del processo non mancano gli interro gativi. Secondo 1 5, I il sinedrio viene convocato la mattina, come se non ci fosse già stata una seduta notturna. La procedura processuale codificata posteriormente dai farisei stabilisce che una condanna a mor te non possa essere pronunciata prima del secondo giorno né di notte. Dato che il giorno comincia la sera e la condanna fu pronunciata già la notte, neanche la procedura suddetta può spiegare il perché di una se conda udienza. Probabilmente questa normativa non era ancora nean che in vigore, mentre lo era una legislazione sadducea che {la ricostru zione è francamente ipotetica) richiedeva testimonianze concordi (vv. 5 6. 59), lacerazione delle vesti (v. 63) e la somministrazione di una be vanda narcotizzante ( I 5,23). Secondo Marco queste regole sarebbero state osservate. Invece, secondo queste norme, un processo il giorno della pasqua ebraica (v. a 14, 1 2- r 6, intr.) non sarebbe stato possibile e una seconda seduta del sinedrio non sarebbe stata necessaria. Forse Mc. r 5 , 1 si riferisce solo alla conclusione della seduta notturna (v. ad lo c. ). Ma poiché la convocazione nella notte di tutto quanto il sinedrio è abbastanza inverosimile, si potrebbe ipotizzare che di notte sia avve nuto soltanto un (breve ?) interrogatorio dell'imputato condotto dal sommo sacerdote o dal suo ancora più potente suocero (Gv. r 8, r 3 ) e soltanto la mattina si ebbe il verdetto del sinedrio. Così raccontano lo
2.66
I problemi storici del processo di Gesù
svolgersi degli eventi Luca e, probabilmente, anche Giovanni, senza che si sappia, in verità, se avessero a disposizione una tradizione parti colare. Benché, in genere, Luca ami mettere in evidenza le colpe dei giudei (v. a Mc. I 5 , I 6-2o, intr.), egli non dà notizia di una condanna a morte in senso stretto. È anche storicamente verosimile che si sia deci so soltanto di consegnare Gesù ai romani {forse sulla bas e di preceden ti accordi). Ad ogni modo, se in Marco il nome del sommo sacerdote manca del tutto, esso è riportato sbagliato in Le. 3,2; Atti 4,6 ( 5 , I 7?) e giusto soltanto in Mt. 26,3 . 5 7, mentre Gv. I 8 , I 3 . 24 (cf. 2 2 ! ) menziona entrambi i nomi. Pilato è invece noto in tutti gli strati della tradizione; egli appare dunque collegato più fortemente ancora del sommo sacer dote non solo con l'esecuzione della pena, ma anche con la sentenza di condanna. Se i giudei avessero avuto all'epoca il diritto di eseguire pene capitali, sarebbe chiaro che l'iniziativa era stata presa dai romani: infatti i giudei avrebbero messo Gesù a morte mediante lapidazione . Anche secondo altre fonti Gv. I 8,3 I b ha ragione: per le autorità giu daiche non era praticabile altra via che quella che passava per il procu ratore romano. Atti 7, 5 7 s. non è un esempio del contrario, perché lì si trattò di un linciaggio durante un tumulto. 5 8.6 I . I particolari sono di difficile valutazione. Che la comunità abbia ricevuto informazioni dirette sul processo da qualche testimone auricolare non è impossibile (Mc. I 5,43), ma rimane assai incerto. Il dato testuale consente di dubitarne. La parola di Gesù sul tempio (v. 5 8) ha evidentemente causato serie difficoltà alla comunità e Marco le risolve dichiarando che si tratta di una falsa testimonianza. Secondo Mt. 26,20 s. Gesù avrebbe soltanto detto di poterlo fare, non che lo a vrebbe fatto. Luca tralascia completamente il detto, ma Atti 6, I 3 s. co nosce un'accusa analoga nel processo contro Stefano. Gv. 2, I 9 rende allegorica la profezia e la vede adempiuta già nella morte e risurrezio ne di Gesù. Questi sforzi di vario genere per disinnescare il logion stanno a indicare che il detto era saldamente ancorato nella tradizione e che difficilmente poteva essere negato. La comunità lo ha tuttavia conosciuto probabilmente come detto isolato di Gesù o di un profeta. Forse essa sapeva ancora che il logion aveva avuto un suo ruolo nel l'accusa mossa a Gesù; poiché la purificazione del tempio e la que stione dell'autorità hanno probabilmente scatenato il conflitto, è an che storicamente probabile che sia stato così. La discordanza dei testi moni è meno credibile, giacché ciò sarebbe stato concordato meglio
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La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro
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prima. Altri tratti particolari vengono dalla Scrittura (v. sopra). La do manda del sommo sacerdote è impossibile perché «Figlio di Dio» non è un titolo messianico giudaico (nonostante 4QFlor I ,7 ss.; v. excur sus a I 5,3 9) e la pretesa di essere il messia non era ancora una bestem mia. Bar Kochba ha trascinato Israele nella catastrofe del I 3 5 d.C. co me «messia» ed è stato apertamente chiamato così da rabbi Aqiba: en trambi rimasero onoratissimi. Ma certo questa accusa è stata avanzata a beneficio dei romani, per suggerire loro la pericolosità di Gesù. La scritta sulla croce indica già in questa direzione. Il ricordo dell'accusa avrà portato alla formulazione cristiana della domanda del v. 6 I . s 8. Dal punto d i vista storico, dunque, la parola del tempio ha co stituito probabilmente la vera spina nel fianco di tutti: per il sommo sacerdote e i sadducei si trattava di una questione veramente centrale; per i farisei era stato toccato così, come minimo, un punto dentro la legge nel quale Gesù peccava. Per gli orecchi del procuratore romano si doveva denunciare Gesù come messia. Così, probabilmente, tutto si riduce a un interrogatorio notturno condotto dal sommo sacerdote, forse anche col dileggio da parte dei suoi servi, e a un breve consulto del sinedrio la mattina.
S3-6s. I tre gruppi costituiscono per Marco i veri avversari di Gesù {v. a 8,3 I ; I 4,43 ) . Al v. 54 potrebbe seguire immediatamente il v. 66. Con l'inserimento di un racconto dentro l'altro e il parallelismo for male fra Gesù e Pietro Marco fa risaltare con forza la differenza fon damentale che c'è fra loro. Gesù e Pietro vanno incontro all'ora della tentazione e della prova richiesta, esteriormente separati, ma nella medesima situazione. Certamente Gesù rischia la condanna capitale (fin da 3,6! ) , mentre Pietro affronta al massimo un pericolo generico. Marco fa cominciare l'interrogatorio di Gesù (v. 5 5) con un'osserva zione che ricorda molto 3,6; I I , I 8; I 2, r 2; I 4, I : l'esito del processo è deciso, più o meno, fin dall'inizio. Gli sforzi per osservare alla lettera il principio giuridico che occorrono almeno due testimoni concordi, hanno un effetto ironico tanto più che sono evidentemente a disposi zione falsi testimoni in numero insolito per soddisfare le esigenze di legalità e per arrivare alla conclusione prestabilita. Marco vuole che emergano così, in tutta chiarezza, la gravità della colpa degli uomini e la grandezza della sofferenza di Gesù che percorre il cammino di Dio proprio per questi uomini. Nel nuovo tempio promesso da Gesù (v.
168
Mc. 1 4, S J -71.
La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro
5 8) la comunità ha visto certamente se stessa, dato che spesso è de scritta come edificio (Mt. t 6, t 8) e come tempio ( 1 Co r. 3 , 1 7; 2 Cor. 6, 1 6; Ef 2,22; forse Apoc. 3 , 1 2). Così ha certamente capito anche Mar co. Poiché già Hen. aeth. 90,29-36 (cf. Iub. 1 , 1 7.27 s.) attende la di struzione del vecchio tempio e la ricostruzione di un nuovo tempio celeste (cf. riedificazione del tempio mediante il messia: Str.-Bill. 1, 482. 1 00 5 ; diversamente Apoc. 2 1 ,22), il detto, se dovesse risalire a Ge sù stesso, avrebbe potuto alludere al regno di Dio oppure, poiché Ge sù sottolinea ripetutamente il significato decisivo dell'offerta e del co mandamento di Dio qui e ora (v. a 8,3 8 ecc.), a un nuovo Israele chia mato da Dio all'ubbidienza e alla sequela. Analogamente alle molte pa role sulla legge (2, 1 -3 ,6; 7), la parola sul tempio combatte (nell'inten zione di Marco, se non di Gesù) ogni soddisfatta sicurezza, la quale immagina che il possesso del tempio e il corretto esercizio del culto garantiscano la salvezza. La salvezza deve essere attesa, come dono della grazia, soltanto dall'ordine nuovo di Dio che include l'ubbidien za del discepolato. Il detto corrisponde alla purificazione del tempio ( 1 1 , 1 5 - 1 9) e all'interpretazione marciana, che vi scorge già la porta aperta per il mondo delle nazioni. È un tratto tipico anche di questo logion che Gesù abolisca la religione del tempio, soddisfatta e sicura di sé, senza negare che il tempio fosse un dono buono di Dio, e che perciò deve continuare a esistere anche come tempio spirituale in sieme col «culto» che vi si deve praticare (Rom. 1 1, 1 s.). Esattamente lo stesso vale per le parole di Gesù sulla legge. Ev. Thom. 71 non ha più capito questa posizione e perciò prosegue: « e nessuno lo rico struirà». Il silenzio di Gesù (vv. 6o.6 1 ), messo ancora più in evidenza come incomprensibile dalla domanda del sommo sacerdote, è un se gno efficace e chiaro di ciò che avviene nella passione di Gesù: l'uomo deve aver sempre ragione e difendersi, quindi non può capire come uno possa agire diversamente; il Figlio dell'uomo, che percorre il suo cammino per incarico di Dio, può invece tacere. L'uomo deve prote stare, esteriormente o interiormente, contro ogni sofferenza e contro la morte, anche quando l'accetta come inevitabile; il Figlio dell'uomo va senza proteste verso l'umiliazione della sua passione e della sua morte. Qualcosa di simile si compie qui nel silenzio di G esù, che sug gella la sentenza capitale pronunciata su di lui (cf. /s. 5 3,7). La do manda ripetuta del sommo sacerdote sulla figliolanza divina di Gesù è importante per Marco anzitutto come domanda posta alla comunità ..•
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che legge questo racconto: a essa è posta questa domanda, perché que sta è la fede che essa confessa, anche durante la persecuzione. In ter mini moderni: è sufficiente confessare genericamente fede in Dio, sen za dire con tutta chiarezza chi veramente s'intenda, oppure si può con fessare Dio soltanto quando lo si è incontrato nella persona di Gesù, cioè quando assume lineamenti decisi e non più vaghi nelle promesse e nei comandamenti di Gesù ? A questa domanda Marco risponde, in sieme con tutta la tradizione cristiana, nel secondo senso. Diversa mente da Matteo, Marco riporta un'inequivocabile risposta affermati va di Gesù alla domanda postagli (v. 62). È certo però che essa può es sere data solo qui, nel punto più profondo della debolezza e dell'in successo di Gesù. Matteo è più riservato nella formulazione a causa di un possibile fraintendimento del titolo di messia (v. a 8,29 s.). Tutti e due lo interpretano con riferimento alla posizione di dominio di Gesù e alla sua futura parusia. La confessione della figliolanza divina di Ge sù comporta per la comunità, anzitutto, il riconoscimento che Gesù è «il Signore». Se ciò significa in primo luogo che egli sia il Signore della comunità, al quale essa deve ubbidienza e dal quale attende guida e soccorso, oppure il Signore del mondo, al quale tutte le potenze terre ne e celesti sono sottoposte, è un dilemma al quale nella comunità so no state date risposte diverse. Ciò comporta anche che essa attende quel compimento nel quale questa sovranità di Gesù sarà visibile, po nendo termine ad ogni conflitto interiore e stabilendo il regno di Dio al di sopra di ogni cosa. Strapparsi i vestiti (v. 63 ) significa esprimere un sentimento di orrore (2 Re r 8 ,3 7; r 9, r ) e forse fa persino parte del le norme di procedura (cf. introduzione). Poiché si cadeva nella be stemmia (v. 64) solo pronunciando il nome santissimo, una condanna a morte per l'affermazione di Gesù non era legalmente sostenibile. Tanto più forte è quindi l'intenzione teologica: il no del mondo alla via di Dio in Gesù non è pronunciato in uno scatto emotivo momen taneo, ma in uno svolgimento proccssuale ordinato. Ciò è messo an cora maggiormente in luce dalla notizia del dileggio e dei maltratta menti (v. 65) che proprio questi stessi membri del tribunale (ora evi dentemente contro ogni regola processuale) infliggono a Gesù. La cor rettezza formale, che fino a questo punto era stata più o meno mante nuta, ora è chiaramente infranta e il trionfo degli uomini, che consiste nel no alla via di Dio, anzi addirittura nella apparente vittoria su di es sa, lascia via libera allo sfogo delle passioni.
270
Mc. 1 4, s 3 -72.
La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro
66-72. Mentre Gesù rimane saldo nella prova e mantiene la propria confessione, senza cedimenti e possibilità di equivoci, sia tacendo che parlando, Pietro è ancora giù, nel cortile. L'accusa della domestica (v . 67) menziona il «nazareno», poi dopo aggiunge anche il nome. Que sto sembra risalire a un'abitudine di chiamare Gesù e anche i suoi di scepoli (Atti 24, 5 ) semplicemente «nazareni» o «nazorei» (v. a 1 ,24). La tentazione si avvicina a Pietro in forma semplice, casuale. N o n si tratta di una situazione di confessione. Non è interrogato riguardo alla sua fede, ma solo riguardo ad una circostanza puramente esterio re: se è lui quello che la domestica crede di aver visto una volta in compagnia di Gesù. N o n gli viene neanche richiesto di assumersi una responsabilità in pubblico: è solo una serva che gli fa una domanda, una donna che, con tutta probabilità, non ha la minima idea di che co sa sia questa faccenda del «nazareno», sicché rié un sì né un no costi tuisce una presa di posizione su problemi di fede. Con un sì Pietro si assumerebbe al massimo un rischio, senza però fare una confessione di fede. Le sue molte parole, che corrispondono a una formula di giu ramento che si trova anche presso i rabbi, lasciano trapelare il suo im barazzo. Anche il suo sgusciare verso il portale è una mezza ritirata. Ma poiché è la stessa domestica che insiste nella sua dichiarazione una seconda e una terza volta, Pietro non può fare altro che insistere sul suo no anche davanti ad altri testimoni, e con espressioni sempre più forti, specialmente perché, forse, il suo accento galileo (v. 70) diventa pericoloso per lui (un punto che nuovamente non ha a che fare con una confessione religiosa). Con il versetto conclusivo (v. 72) Marco sot tolinea che il rinnegamento preannunciato da Gesù ( 1 4,30) è accaduto proprio ora. Si ha una situazione di confessione di fede ogni volta che una tale professione venga richiesta, cioè ogni volta che qualcuno, si tratti anche di una sola persona del rango di una domestica, abbia o non abbia interessi religiosi, incontra un discepolo di Gesù in modo tale da costringerlo a manifestare apertamente la sua appartenenza o non appartenenza al «nazareno». Quando Dio si aspetta la testimo nianza da un discepolo, il rifiuto di · render la diventa una colpa sulla quale Pietro non può far altro che versare lacrime amare. Ma proprio con questo pianto egli si rivela, a differenza dell'arrogante pentimento che crede di poter mettere a tutto riparo da solo (Mt. 27, 3 - 5 ), discepo lo di Gesù.
Mc. 1 5, 1 .
La consegna a Pilato
271
Quel che Marco vuoi dire con la struttura del suo libro nel com plesso, appare con particolare chiarezza in questa sezione. Gesù è la presenza di Dio in mezzo agli uomini; in lui Dio vuole aprirsi agli uo mini, ma questi si chiudono contro di lui. Anche il discepolo che è più vicino a Gesù, che è pronto a intervenire con entusiasmo e persino a morire ( I 4,3 I ), viene meno. Così la fedeltà del Figlio dell'uomo e l'in fedeltà degli uomini sono di fronte in netto contrasto. In tutto ciò ap pare chiaro quanto gli uomini rendano difficile a Dio rivelarsi loro e la chiusa della sezione mostra che c'è incontro con Dio soltanto dove l'uomo non si immagini, con una superficiale sicurezza di sé ( I 4,29), d'essere immune dal pericolo della tentazione, bensì sappia di essere sotto il giudizio di Dio. La conse gna a Pilato,
1 5, 1
(cf. Mt. 2 7, I -2; Le. 23, 1 )
1 E subito, di prima mattina, i sommi sacerdoti con gli anziani e gli scribi e tutto il sinedrio tennero consiglio, fecero legare Gesù e lo condussero via e lo consegnarono a Pilato.
Per la questione storica v. a 1 4, 5 3 -72. Manoscritti buoni e antichi leggono «presero una decisione» o persino «stilarono una delibera zione». Il testo sarebbe allora parallelo al v. 3 ,6 (che è redazionale), così che si potrebbe supporre che Marco pensi alla continuazione del la medesima seduta, e non a una nuova riunione. La sua espressione favorita «e subito» sarebbe allora la transizione per riprendere il filo interrotto con il rinnegamento di Pietro. L'aggiunta di «c tutto il sine drio » è superflua perché esso si componeva appunto dei tre gruppi ap pena menzionati (cf. I 4, 5 3 . 5 5 ); con questo sovraccarico di indicazioni si vuole accentuare il carattere ufficiale della condanna: a mandare Ge sù alla morte sulla croce non sono stati alcuni uomini che si trovavano per caso in una situazione favorevole agli errori e in un momento di esplosione emotiva: è stata invece una decisione ben meditata. Qui c'è qualcosa della tesi paolina che tutti, senza alcuna eccezione, sono pec catori davanti all'evangelo (Rom. 3 , 24) . Pilato è già così noto che non c'è più bisogno di dire che è il procuratore romano.
La
da nn a del re dei giudei, I 5 ,2- I 5 (cf. Mt. 27, I 1 -26; Le. 2 3 ,2- 5 . 1 7-2 5 ) con
Pilato gli domandò: «Sei tu i l re dei giudei ?». Ma egli gli rispose e dice: «Tu lo dici». 3 E i sommi sacerdoti lo accusavano con veemenza. 4 Ma Pi lato riprendeva a interrogarlo: «Non rispondi nulla ? Guarda di quante co se ti accusano!». s Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato si meravi gliava. 6 Ma in occasione della festa egli era solito concedere loro la libertà di un prigioniero, di quello che gli richiedevano. 7 Ora c'era quello chiama to Barabba, incarcerato insieme coi sediziosi che nella sommossa avevano commesso un omicidio. 8 E la folla venne su e cominciò a richiedere quel lo che egli era solito fare per loro. 9 E Pilato rispose loro dicendo: «Volete che vi rilasci il re dei giudei ?». 1o Infatti capiva che i sommi sacerdoti lo ave vano consegnato per invidia. 1 1 Ma i sommi sacerdoti incitarono la folla affi nché egli liberasse loro piuttosto Barabba. 12 Ma Pilato rispose di nuo vo e diceva loro: «Che cosa farò dunque di colui che chiamate il re dei giu dei ?» . 1 3 Ma essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo! ». 1 4 Ma Pilato diceva loro: «Che male ha dunque fatto ?». Ma essi gridarono ancora più forte: «Crocifiggilo ! ». 1 5 Ma Pilato voleva accontentare la folla e liberò loro Ba rabba e consegnò Gesù perché fosse crocifisso dopo la fustigazione. 2 E
Per i problemi storici v. a 14,5 3 -72. L'intero interrogatorio è riferi to in forma stilizzata, sicché è tralasciato tutto quanto aveva solo inte resse per la cronaca, ma non per la predicazione: il luogo dell'interro gatorio (probabilmente il palazzo di Erode: cf. v. r 6 e v. a Mt. 27, 1 9), il contenuto dell'accusa (che è già presupposta dal v. 2), la sommossa (quella cui fa riferimento il v. 7). Ci si aspetterebbe il v. 2 solo dopo il v. 5; forse in origine si raccontava prima solo il silenzio di Gesù, ma più tardi, a motivo dell'iscrizione sulla croce tramandata, fu inserita la domanda del v. 2, importante per la comunità; fu messo così proprio al principio la rivendicazione decisiva per mettere subito in chiaro il nocciolo della questione. Anche la scena di Barabba presuppone già il titolo di re (v. 9). Inoltre ai vv. 8 . 1 0 s. si ricupera quello che veramente doveva stare prima del v. 2: la folla, guidata dai sommi sacerdoti, è presente all'udienza e le autorità giudaiche hanno consegnato Gesù a Pilato con uno specifico capo di accusa. L'episodio di Barabba, dun que, è cresciuto soltanto gradatamente. Il parallelismo nel racconto dei due process i notato commentando I 4,6o-6 5, parallelismo che in I 4,6o s./I 5 ,2- 5 è tale anche a livello terminologico, mostra che le due pe ricopi si sono influenzate a vicenda. In genere si considera 1 5,2- 5 la
Mc. 1 s ,z- 1 s .
La condanna del re dei giudei
27 3
narrazione più antica. Ma se il silenzio ostinato proviene dalle d es cri zioni del giusto sofferente, l'origine deve essere I 4, 5 6.6o (v. sopra a I 4,6o-6 5) e I 5 ,3 - 5 ne è un riflesso. È possibile che la domanda riguar dante la regalità di Gesù, proprio perché sta all'inizio in posizione il logica, sia stata aggiunta per prima tirandosi poi dietro, in un secondo momento, la domanda, per i cristiani ancora più chiara, di I 4,6 I . An che la scena del dileggio ha in I 5, I 6-20 una collocazione più naturale che in I4,6 5, dove gli schernitori dovrebbero essere i sinedriti. Pro babilmente, quindi, nella trasmissione orale i racconti sono cresciuti in modo da influenzarsi reciprocamente (cf. anche intr. a I 5 , 1 6-20; Le. 2 3 ,9. I 1 ), senza che sia possibile considerare con certezza uno dei due racconti primario, nella sua interezza, rispetto all'altro. Così in Marco (v. excursus a 14,22-2 5) la forma della prima parola dell'istituzione della cena ha provocato la formulazione parallela della seconda ( «que sto è il mio corpo f ... il mio sangue>>); viceversa la locuzione «per mol ti» che dapprima stava nella seconda parola, ha portato in Paolo al l'ampliamento della prima («per voi»). Da un punto di vista storico l'udienza davanti a Pilato e la condanna da lui pronunciata sono dati sicuri; probabilmente anche il silenzio di Gesù, il dileggio e la conse gna effettuata dalle autorità giudaiche. È molto improbabile che vi fosse l'abitudine di rilasciare ogni anno un prigioniero: non se ne tro va cenno né nelle fonti romane né in quelle giudaiche. Luca non ne parla affatto, sebbene conosca la decisione del popolo a favore di Ba rabba. Anche nei particolari, il racconto è difficilmente esatto dal pun to di vista storico. L'offerta di liberare un prigioniero (v. 9) prima an cora che sia stata pronunciata una sentenza o addirittura sia stata po sta la questione della sua colpevolezza, è uno schiaffo alla procedura processuale romana. Più ammissibile e verosimile è un caso isolato di grazia, narrato per contrapporlo alla condanna di Gesù e farla appari re ancora più pesante, anzi, forse, persino per far suonare presto la no ta del carattere sostitutivo della passione di Gesù: l'omicida diventa libero, il Figlio di Dio porta la pena. Già Mt. 27, 1 7. 2 1 (v. ad loc. ), ad ogni modo, favorisce la possibilità di questa lettura perché, secondo quel passo, Pilato stesso prende l'iniziativa e lascia libertà di scelta sol tanto fra i due. La figura di Barabba però non è una semplice inven zione, come conferma l'osservazione che egli non è presentato fin dal principio come «Barabba l'assassino», ma viene lasciata aperta, in Marco, la questione del suo rapporto con i sediziosi. Evidentemente
2. 74
Mc. 1 5 ,2- 1 S·
La condanna del re dei giudei
c'era stata al tempo una qualche piccola sommossa contro Roma, sen za che un'osservazione storica oggettiva la dovesse mettere, senza al cuna evidenza delle fonti, in qualche rapporto con il movimento su scitato da Gesù. 2.- 1 5 · La domanda di Pilato (v. excursus a I4,43 - 5 2, inizio) è identi ca nei quattro vangeli e corrisponde all'iscrizione sulla croce (v. a I 5 ,26). Si tratta di una formulazione greco-romana della domanda che il sommo sacerdote aveva posto ( I4,6 I ) in una versione giudaica. Per il procuratore romano questo, naturalmente, significa accusare Gesù di sedizione politica. Infatti non esisteva più un re dei giudei, ma s ol tanto «tetrarchi» che governavano, quali vassalli dei romani, sul paese diviso in diverse parti (v. a 6, 14). Naturalmente Pilato non poteva por re la domanda così come la si legge nel testo, ma nel migliore dei casi poteva chiedere: «Hai affermato di essere re dei giudei ?» o qualcosa di simile. Pilato, infatti, non poteva ammettere che esistesse un re. La ri sposta di Gesù è singolare. Un sì esplicito deve essere evidentemente evitato perché il titolo può essere frainteso in senso nazionalistico. In fatti, mentre «Israele» indica il popolo giudaico in quanto eletto da Dio, e non è sempre equivalente alla totalità di coloro che vi apparten gono per razza o politicamente, «giudeo» è semplicemente un'indica zione di nazionalità. Ma poiché Gesù è di fatto, per il credente, «il re d'Israele» ( I 5,3 2; Gv. 1 , 50; 1 2, 1 3 ), un certo diritto a questo titolo non può essere semplicemente negato. Pilato doveva esaminare la causa interrogando i testimoni ed esaminando le cose dette e fatte dall'im putato. Di tutto questo, nulla è stato tramandato, benché lo svolgi mento dei processi romani fosse pubblico. Per la comunità quei parti colari non meritavano di essere conservati; soltanto il silenzio di Ge sù, che non ha paralleli (cf. 1 3 , r i ; Atti 7, 1 ss.; 22, 1 ss.; 2. 3 , 1 ss.; 2 Tim. 4, 1 6 s.; Fil. I, I 2 s.) le è rimasto impresso perché in quel silenzio si esprimeva la volontà di Gesù di affrontare la passione. Senza dubbio esso ha anche fatto ricordare alla comunità le parole di fs. 5 3,7. In questo modo il chiaro sì di Gesù alla domanda sulla sua messianicità di 1 4,62 ( I 5,2) e il silenzioso e sofferto sì al compito di Dio incluso in quel titolo (1 4,60 s.; I 5,3 - 5) si completano a vicenda. Colui che costi tuisce l'alternativa (v. 7) è costantemente presentato come «il Barab ba>> ( = figlio di Abba), come colui che il popolo conosceva e del quale chiedeva la liberazione, per il quale Gesù deve morire. La domanda di
Mc. I 5 ,2- I 5 .
La condanna del re dei giudei
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Pilato (v. 9) presuppone che il popolo non abbia ancora avanzato al cun nome. Ancora una volta non si può dire se sia storicamente vero simile che la folla, senza avere in mente una persona precisa, si sia re cata in corteo da Pilato per chiedergli una generica amnistia. La for mulazione della domanda di Pilato vuole ancora una volta mettere in forte rilievo la gravità della scelta da fare: si chiede al lettore se insie me col testo egli veda che in Gesù è stato veramente respinto «il re dei giudei». Il v. IO è anche di fatto una dichiarazione dell'innocenza di Gesù e significa che anche Pilato ne era persuaso. Marco non parla mai altrove di «invidia» (ma cf. Gv. I 2, I 9 ). Deve trattarsi di un' osser vazione esplicativa d eli ' evangelista che anche qui, come di solito (cf. I I ,8 . I 8; I l, I 2. 3 7; I 4, I s. I I ecc.), distingue tra popolo e autorità e at tribuisce solo a queste ultime la vera e propria colpa, sebbene anche il popolo {vv. I J s.) venga istigato da loro (v. I I ). Nel testo greco «i sommi sacerdoti» sono le ultime parole del v. IO e le prime del v. 1 I con una durezza stilisti ca che vuole attirare ancora maggiormente l' at tenzione del lettore sulla loro responsabilità. Anche la successiva do manda di Pilato (v. I 2 ) è singolare: infatti egli avrebbe potuto assolve re l'imputato. Inoltre il procuratore romano, quale rappresentante del la potenza occupante, non doveva certo chiedere alla popolazione sog getta che cosa dovesse fare. Ancora una volta si vuole descrivere l'in decisione del giudice e la decisa assunzione di responsabilità da parte di tutto il popolo, e forse c'è anche il desiderio di sottolineare l'ironia che proprio coloro che attribuiscono a Gesù il titolo di re lo condan nano a morte. «Di nuovo» (v. I 3) è singolare (come anche in Gv. I 8 , 40), perché prima non s i è parlato affatto di grida del popolo n é di ri chiesta di crocifissione e Gesù non era neanche stato ancora condan nato. Probabilmente «di nuovo» vuole esprimere il rifiuto ripetuto e caparbio opposto a Gesù, come pure la forma stessa della pena è e spressamente voluta da tutto il popolo. La nuova domanda di Pilato (v. I 4), che di fatto stabilisce ancora una volta l'innocenza di Gesù, ri vela sotto sotto la sua decisione di cedere. Mentre il prigioniero col suo silenzio è veramente libero, Pilato è presentato come completa mente privo di libertà. L'accostamento di Barabba, il colpevole gra ziato, e di Gesù, che è condotto al patibolo, suggerisce l'idea della sof ferenza vicaria, senza formularla dogmaticamente. Sorprendente è l a brevità con cui è ricordata l a fustigazione (letteralmente: «e consegnò Gesù, avendo[lo] fustigato, affinché fosse crocifisso»). Per i condan-
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Mc. l s , I 6-2oa. Il
dileggio del re dei giudei
nati che non erano cittadini romani (Atti 22,2 5 ) si usava uno staffile con pezzi di metallo nell'intreccio di cuoio. Il racconto evita dunque volutamente ogni descrizione dell'atroce procedura che potrebbe su scitare la compassione o l'odio. Né l'una né l'altro si addicono alla gran dezza dell'evento che si sta compiendo. L'una e l'altro metterebbero questa passione accanto a migliaia di altre esecuzioni che spesso si svol gevano in modo anche più crudele. Anche qui si rinuncia di proposi to a una descrizione più completa e precisa dal punto di vista storico. Il coerente silenzio di Gesù, il prudentemente giusto eppure ineffi cace e non convincente barcamenarsi di Pilato, l'azione mirata della nobiltà sacerdotale giudaica e l'urlo della folla istigata sono espedienti stilistici che non vogliono essere il semplice verbale degli avvenimenti, bensì descrivere ciò che è avvenuto veramente in quei fatti con quella profondità che solo la fede conosce. Di fatto tutto l'episodio è interes s ato soltanto all'inerme silenzio di Gesù davanti a tutte le domande del giudice inquirente, a tutte le astute accuse dei capi religiosi politici e alle urla della plebe agitata. Esso annuncia in questo modo la consa pevole e voluta passione di Gesù. La domanda che questo racconto pone al lettore non è dunque se la presentazione dei fatti gli sembri storicamente corretta; almeno nei particolari, non lo è affatto. La do manda è quella che Marco e già la comunità prima di lui pongono in quanto predicatori dell'evangelo: la posizione dell'uomo è forse come quella dei discepoli che fuggono; come quella di Pietro che rinnega; o addirittura come quella degli abitanti di Gerusalemme che preferisco no chiedere la libertà di un povero, oscuro peccatore, del quale non si sa se meriti simpatia oppure no, piuttosto che dire di sì alla via di Dio sulla quale la promessa e le richieste di Dio li incontrerebbero in mo do tale da privarli della loro sicurezza di sé ? E in Gesù non è vera mente il «figlio del Benedetto», il «re dei giudei» mandato da Dio, che va alla morte perché quest'uomo diventi libero ? Il dileggio del re dei giudei, 1 5,16-zoa (cf. Mt. 27,27-3 1 a) 1 6 Ma i soldati lo condussero nell'interno del palazzo, che è il pretorio, e c onvocano tutta la coorte. 1 7 Poi lo rivestono di porpora e gli mettono una corona di spine che avevano intrecciata; 18 e cominciarono a riverirlo: «Salve, re dei giudei ! » . 1 9 E gli colpivano il capo con una canna, gli sputa-
Mc. 1 f , I 6-.1oa.
Il dileggio del re dei giudei
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vano addosso e, mettendosi in ginocchio, gli si prostravano davanti. 2oa E quando l'ebbero beffeggiato, gli tolsero di dosso la porpora e gli rimisero i suoi vestiti. Si potrebbe saltare dal v. 1 5 al v. 2ob. Inoltre il passo manca in Lu ca, ove si ha pertanto l'impressione che siano stati i giudei a crocifig gere Gesù (solo in 2 3 ,3 6 compaiono i soldati romani). Del resto anche Gv. 1 9, 1 6 passa direttamente dalla condanna a morte da parte di Pila to alla crocifissione (ad opera dei soldati romani, come dice chiaramen te il v. 23). Sennonché Gv. 19,2 s. parla del dileggio di Gesù in termini molto simili, ponendolo subito dopo la fustigazione, che in Giovanni è però già menzionata un po' prima. L'assenza dell'episodio in Luca può risalire probabilmente alla sua tendenza a riferire il meno possibi le azioni negative dei romani, tanto più che egli riferisce un analogo dileggio di Gesù davanti ad Erode, dove introduce anche il motivo del silenzio di Gesù ( 2 3 ,9. I I) Questo fatto rivela la notevole facilità con cui tali motivi passino da un episodio all'altro. Anche il conciso riepi logo della passione in Mc. 10,3 3 s. contiene il particolare del dileggio. Poiché il posto tra il v. 16 e il v. 2ob è l'unico possibile, e il v. I6 con tiene anche altri dati precisi che presuppongono una conoscenza del luogo, l'episodio deve essere stato collegato con l'interrogatorio da vanti a Pilato presto o fin dall'inizio. Vi sono poi alcuni paralleli inte ressanti. Quando il re Agrippa giunse in Egitto, la plebaglia si fece beffe di lui prendendo un idiota di nome Karaba, munendolo di «dia dema», «manto regale» e «scettro)), e riverendolo con il nome di mare («Signore»), titolo col quale, del resto, anche la comunità primitiva invocava Gesù (Filone, Flacc. 36-39). Un simile dileggio in occasione di moti antisemiti contro il «re dei giudei», che pure era riconosciuto da Roma, può ricordare come i due casi siano sostanzialmente affini, e come sia miseranda la parte che devono recitare in un caso Gesù, ab bandonato al disprezzo e all'umiliazione, e nell'altro il povero idiota che deve rappresentare il re (sul quale non è purtroppo p ossibile met tere le mani). Verso il 1 00 d.C. Dione (4,66 s.) racconta che in Persia, quando celebrano una loro festa, i saci fanno sedere un condannato a morte sul trono reale, dove gli è consentito di esercitare una specie di governo burlesco per un breve tempo. Usi analoghi sono riferiti anche per i romani. Si può citare anche il dileggio e i maltrattamenti dell'im peratore Vitellio prima della decapitazione. Questo mostra quanto un trattamento del genere fosse abituale e depone più a favore che contro
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Mc. I s , I 6-2oa.
Il dileggio del re dei giudei
la storicità dell'episodio. Il motivo degli sputi e delle percosse, che in terrompe la descrizione degli omaggi (v. I 8) e delle riverenze (v. 1 9, fine), potrebbe essere entrato nella storia in un secondo tempo, prove nendo dall'Antico Testamento (v. a I 4,65 , intr.). Così la scena con l'ol traggioso omaggio regale sarebbe in origine ancora più unitaria, cioè puro ludibrio senza maltrattamenti. 1 6-1 9. Il termine greco usato al v. 1 6 può significare sia «palazzo» (v. a I 4,43 - 5 2) oppure il «cortile» interno. La spiegazione va a favore della prima accezione. Mantello di porpora (presumibilmente una mantellina militare rossa) e corona aurea (v. I 7) sono simboli della di gnità regale. Costituivano anche una specie di decorazione per meriti particolari: così, ad es., furono concesse al maccabeo Gionata, nomi nato «amico del re)) per il suo valore straordinario ( 1 Macc. Io,2o). Il titolo «re dei giudei» fa anche qui (v. I 8) saldamente parte della tradi zione (v. al v. 26). Il saluto augurale corrisponde al tradizionale grido romano Ave, Caesar. Nel Vangelo di Pietro (6-9) si fa sedere Gesù sul lo scanno del giudice dicendogli: «Giudica con giustizia, o re d'Israe le)>, evocando così l'idea del giudice cosmico, e l'insulto dei flagellato ri («con quest'onore vogliamo onorare il Figlio di Dio») accresce il violento contrasto fra l'incredulità degli uomini e l'azione di Dio che in realtà si sta svolgendo qui. Gettarsi in ginocchio (v. 19) è il gesto orientale dell'ossequio più profondo.
Nell'insieme di Marco l'inconsapevole testimonianza alla regalità di Gesù è accentuata dalla domanda di Pilato (v. 2 ) e dalla menzione del l'iscrizione sulla croce (v. 26). Giovanni sottolinea quest'idea con l'e sclamazione di Pilato ecce homo («ecco l'uomo ! »; cf. anche I 9, 1 9-22), e il Vangelo di Pietro la sviluppa teologicamente nel senso del giudice cosmico. A fianco di questa idea s'insinua il tema dell'umiliazione (!s. 50,6 e anche la parola di Gesù in 1 0,34). Così tutto l'episodio diventa sempre più consciamente un riferimento occulto alla regalità di Gesù e al mi sterioso adempimento del piano di Dio che si svolge proprio in quel l'ab bassamento esteriore che sembra dimostrare il contrario.
La crocifissione di Gesù, I s,l.ob-2.6 (cf. Mt. 27,3 1 b-3 7; Le. 2 3,26.3 3-3 5a.3 8 ) 2ob Poi l o conducono fuori per crocifiggerlo. 2 1 E costringono un passan te, Simone di Cirene, che viene dai campi, il padre di Alessandro e di Rufo, a caricarsi della sua croce. 22 E lo portano in località Golgota, che tradotto significa «luogo del teschio». 23 E gli porgevano vino alla mirra, ma non lo accettò. 24 E lo crocifiggono e si spartiscono i suoi vestiti tirando/i a sorte, che cosa avesse a prendersi ciascuno. 2 5 Ed era l'ora terza quando lo croci fissero. 2 6 E sulla scritta con l'imputazione si leggeva: «Il re dei giudei». 24 Sal.
22, 1 9.
Questa sezione contiene un resoconto semplicissimo, evidentemen te molto antico, della crocifissione (vv . 2ob-24a) coi verbi al presente collegati da semplici «e». Solo il v. 23 è al passato, ma il suo contenuto è di sopra di ogni dubbio (v. sotto). L'uso di una locuzione dell' Anti co Testamento al v. 24b e il v. 2 5 , un po' goffo, non sono necessaria mente argomenti a sfavore dell'originalità. La congiunzione «e» del v. 25 va intesa nel senso di «quando». Non si è quindi affatto in presen za di un secondo racconto della crocifissione, ma soltanto di una forte accentuazione dello schema orario (premarciano: v. excursus prece dente 1 1 , 1 ; cf. vv. 3 3 s.). Il v. 26 può essere appartenuto al racconto fin dal principio. 2. 1 . La breve notizia (v. 2 1 ) su Simone di Cirene (in Africa Setten trionale) è stata tramandata perché si conoscevano ancora i due figli (altrimenti i loro nomi non sarebbero stati certamente ricordati); pro babilmente avevano aderito alla comunità (forse il Rufo di Rom. 1 6, 1 3 è u n figlio di Simone ?). Intenzioni teologiche non s e ne vedono; ad esempio non si descrive la debolezza di Gesù né il suo collasso per i tormenti. In seguito spariranno molti particolari, interessanti finché si conoscono le persone in questione: anzitutto i nomi dei due figli (Mt. 27,3 2; Le. 2 3 ,26}, poi anche la notizia che Simone veniva dai campi (Mt. 27,3 2). Al tempo stesso, le espressioni sono scelte in modo che il lettore possa capire il significato più profondo: Marco si esprime co me in 8,34, benché il verbo, specialmente nel tempo che è stato scelto in greco, significhi propriamente «alzare» più che «portare» . Luca, che dice veramente «portare» aggiunge «dietro a GesÙ » per ricordare Le. 9,23 ; 1 4,27. Un particolare storico ricevuto dalla tradizione comin cia dunque a «parlare>> nella comunità e diventa per gli uditori un'im magine della «sequela» alla quale essi sono invitati. Un passo successi-
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Mc. I 5 ,.1ob-z6.
La crocifissione di Gesù
v o di questo sviluppo si vede in Giovanni, dove l'episodio è lasciato fuori; senza dubbio perché nel quarto vangelo tutta la debolezza uma na scompare dinanzi alla proclamazione della vittoria nella passione di Gesù. Infine lo gnostico Basilide (lreneo, Haer. I ,24,4), partendo dal fatto che nei sinottici chi porta la croce è Simone, mentre nel vangelo di Giovanni è Gesù, concludeva che il Figlio di Dio avrebbe scambia to la propria figura con quella di Simone e che questi sarebbe stato quindi crocifi sso al posto suo senza che i nemici se ne accorgessero. 2.2..2.J.2.4.2.6. Fin dall'inizio il nome Golgota (v. 22) è stato traman dato negli ambienti di lingua greca con la traduzione (Le. 2 3,3 3 ; Gv. I 9, I 7). La bevanda narcotica (v. 2 3 ) corrisponde a un uso giudaico, sta bilito da Prov. 3 I ,6. Già Mt. 27,34 (v. ad loc. ) sostituisce la mirra {resi na odorosa adoperata come incenso) con fiele, in base a Sal. 69,22. Nel corso del tempo la comunità ha scoperto sempre nuovi passi alla cui luce intendere la passione di Gesù; l'Antico Testamento è infatti l'uni ca Scrittura nella quale essa possa leggere la storia di Gesù. La spartì zione degli abiti (v. 24) è descritta in Sal. 22, I9. Questo salmo ha un ruolo di primo piano nella storia della passione (cf. vv. 29.34 e a I 4, 2.2-2 5 , intr., verso la fine). Esso deve essere stato ripreso già dalla co munità di lingua aramaica perché altrimenti si sarebbe utilizzata la fra se «mi trafissero le mani e i piedi» che si trova solo nel testo greco (Sal. 2 2, I 7 LXX) . Anche la spartizione delle vesti, come la bevanda di Sal. 69, 22, è descritta con due espressioni parallele, conformemente al lo stile della poesia ebraica. Come Mt. 27,34 ha dedotto da quel paral lelismo (Sal. 69,22) due azioni consecutive con due bevande diverse, così in questo caso è stato Gv. I 9,2 3 s. a riferire il «sorteggio» alla ve ste inconsutile, e la «spartizione» ai rimanenti indumenti. Poiché l'uso di spartire gli indumenti non è attestato nelle esecuzioni capitali ro mane, benché sia facilmente immaginabile, la comunità potrebbe aver trovato questo particolare solo nella sua Bibbia; infatti il Sal. 22 aveva nella sua vita cultuale una funzione simile a quella che nella chiesa o dierna hanno i racconti evangelici della passione (v. a 29.3 4; cf. Mt. 27, 4 3 ; inoltre anche Gv. 1 9,28). Indicare la colpa del condannato su un cartello (v. 26) è prassi abituale. È senz'altro possibile che la formula zione sul titolo sia intesa come scherno delle speranze giudaiche. Che Gesù sia stato proclamato così presto e universalmente dopo la sua morte messia (= Cristo) potrebbe dipendere dal fatto che egli sia stato giustiziato in quanto tale e che l'iscrizione sulla croce lo rendeva noto.
Mc. I s,2ob-26.
La crocifissione di Gesù
28 I
20-26. I condannati devono portare essi stessi la traversa al luogo del supplizio. Che un altro abbia dovuto farlo per Gesù, probabil mente prostrato fino allo sfinimento dalla flagellazione, diventa per la comunità l'immagine di una sequela secondo la parola di Gesù (8,34). Per la comprensione del discepolato nella comunità questo non è se condario. Anche qui (v. a 1 , 1 8.20) non c'è alcuna glorificazione della decisione del discepolo; egli viene infatti costretto da altri a seguire. Anche qui la sequela avviene molto concretamente andando dietro a Gesù, non in un'esperienza interiore o in un fatto intellettuale. Que sto aspetto realistico del seguire Gesù ha indotto la comunità a usare il verbo unicamente per indicare il camminare insieme con il Gesù ter reno (con l'eccezione di Apoc. 1 4,4), sebbene storie e parole che si ri feriscono al seguire Gesù fossero tramandate affinché anche la co munità che viveva dopo pasqua entrasse nella sequela di Gesù. «Dai campi» sta a indicare che non è il giorno della pasqua ebraica (v. a 1 4, 1 2- 1 6); tuttavia si potrebbe anche intendere che veniva «da un casale» e non dalla città. La località dove nel 33 5 d.C. si completò la co struzione della chiesa del Santo Sepolcro può essere all'incirca l'antico Golgota, dato che allora si trovava ancora fuori le mura. La leggenda che vuole il teschio di Adamo sepolto lì nei pressi è certo posteriore (cf. i paralleli fra Adamo e Cristo in Rom. 5,1 2 ss.; 1 Cor. 1 5 ,2 1 s.4 5 ss.); forse la località ha avuto il suo nome dalla protuberanza montuo sa simile a una calotta cranica. Il rifiuto della bevanda narcotica indica la volontà di Gesù di soffrire consapevolmente. L'altezza della croce supera solo di poco la statura di un uomo. La morte sopravviene per collasso del condannato, flagellato a sangue e poi esposto svestito agli insetti; spesso si verifica solo al secondo giorno. Il condannato può es sere legato alla croce oppure inchiodato (questa procedura è presup posta in Le. 24, 3 9a?, Gv. 20,2 5; discussione più esauriente a Mt. 27, 3 5 ) . Tutto ciò non è descritto. Più sobriamente di così non si può rac contare. Solo la forma presente dei verbi fa forse emergere l'atto deci sivo dal resto. Di nuovo si avvera quel che era stato detto prima (v. 1 5 b): la vera sofferenza non sono i dolori, di cui non c'è la descrizio ne, ma il rifiuto di Gesù, che si delinea in misura crescente a partire da 3,6 in tutte le varianti possibili fino alla completa sparizione dalla sce na di tutti i suoi discepoli da 1 4,72 in poi. La ripartizione del vestiario è chiaramente descritta come adempimento delle profezie dell'Antico Testamento, senza che ciò venga fatto notare espressamente. L'indi-
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.Mc. I s ,27-3�- Il dileggio del crocifisso
cazione dell'ora (le 9 del mattino), che non è conciliabile con Gv. 19, 1 4 (condanna alle 1 2}, sta solo a significare che, ora dopo ora, tutto si svolge esattamente secondo la volontà di Dio (cf. vv. 3 3 s.); egli è il Si gnore di questo giorno e di ogni sua ora. Allo stesso modo il dato gio vanneo vuole annunciare che Gesù muore all'ora in cui vengono im molati gli agnelli pasquali. Chi vuole conciliare ad ogni costo le due indicazioni cronologiche, si priva di un umile ascolto di quello che Marco e Giovanni vogliono dirci sul punto decisivo: nella morte di Gesù si adempiono le promesse di Dio contenute nell'Antico Testa mento. L'iscrizione sulla croce, accanto a questo sobrio resoconto d'un evento crudele, ma relativamente frequente, fa l'effetto di una beffa, e tale voleva probabilmente essere nell'intenzione dell'autorità governa tiva che ha pronunciato la condanna. Il lettore sa però che quelle pa role dichiarano la verità profonda di quello che sta succedendo. Colpisce la descrizione straordinariamente concisa e sobria che ri nuncia tanto a ogni sentimentalismo quanto a suscitare la compassio ne o l'odio e tramanda anche particolari storici come il nome dei due fi gli di Simone. Già molto presto si è riconosciuta e sottolineata la volontà di Gesù di soffrire coscientemente. In varie fasi si esprime poi la percezione della comunità che nella sofferenza di Gesù si è realizza to l'adempimento globale del cammino di tutti i giusti sofferenti d'I sraele (v. a 8,27-3 3 ), dunque che in quella sofferenza Dio porta al tra guardo previsto il proprio cammino con Israele. Perciò la passione di Gesù è stata vista soprattutto alla luce dei salmi (Sal. 22; 69, ecc.), mentre i paralleli ancora più stretti di Sap. 2 sembrano aver esercitato la loro influenza soltanto su Mt. 27,43 . Nello schema delle ore si espri me inoltre la convinzione che la decisione non appartiene né al caso né all'iniziativa umana, ma alla volontà di Dio, e l'iscrizione, al cui si gnificato Giovanni dà una particolare rilevanza, proclama quello che in verità avviene: la vittoria di Dio nell'umiliazione di una esecuzione capitale. Il dileggio del crocifisso, 1 5 ,27-32 (cf. Mt. 27,3 8-44)
E con lui crocifiggono due briganti, uno alla sua destra e l'altro alla sua sinistra. 29 E quelli che passavano lo insultavano, scuotendo le loro teste e dicevano: «Ehi tu ! tu che butti giù il tempio e lo costruisci in tre giorni, 3 0 salva te stesso e scendi giù dalla croce!». 31 Ugu almente i sommi sacer27
Mc. 1 5,.17- 3 2 .
Il dileggio del crocifisso
28 3
doti lo schernivano tra di loro insieme con gli scribi e dicevano: «Ha salva to altri, non può salvare se stesso; 32 il messia, il re di Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo ! » . E quelli crocifissi con lui lo in sultavano. 29
Sal.
22,8;
Lam .1,1 5. .
Che Gesù sia stato crocifisso fra due briganti apparterrà al racconto più antico. Il fatto è sicuramente storico e dà anche piuttosto fastidio alla comunità. Non si intravede ancora un particolare interesse teolo gico per questo particolare; solo più tardi alcuni copisti hanno inseri to come v. 2 8 la glossa che questo era il compimento di /s. 5 3 , 1 2 («e fu contato fra gli empi »). In Luca i due briganti servono a descrivere l'a morevole propensione pastorale di Gesù per i miseri e al tempo stesso a mettere in luce la differenza fra l'accettazione e il rifiuto dell'amore divino da parte degli uomini. Ancora più esemplare è la reprimenda che il brigante pio, il quale confessa la sua colpa, tiene ai soldati in Ev. Petr. I 3. In Giovanni, poi, i due malfattori servono per illustrare la differenza tra Gesù e loro ( 1 9,3 1 - 3 7). In misura crescente viene così annullata l'uguaglianza fra Gesù e i !adroni, che qui ancora si sente, e viene accentuata la sua posizione particolare. La notizia zoppica e ar riva in ritardo. Giovanni provvede a correggere l'anomalia (Gv. 1 9, 1 8). In principio forse la narrazione diceva solamente che i passanti insul tavano Gesù (v. 29a) e gli altri due crocifissi inveivano contro di lui (v. 3 2), poi, gradualmente, insulti e ingiurie presero forma e divennero precise offese e invettive. I vv. 29b.3o e 3 1 . 3 2a contengono due mot teggi che parlano, in termini quasi identici, di «salvare se stesso» e di «scendere giù di croce»; solo che il primo si rifà a 1 4, 5 8 e il secondo a 1 4,6 1 (o solo a I 5 ,26?). Si tratta forse di due varianti la serio re delle quali sarebbe costituita dai vv. 3 1 s., quando non si comprendeva più la parola sul tempio e il titolo di Cristo era considerato l'argomento più importante ? L'introduzione dei sommi sacerdoti e degli scribi al posto di persone anonime si può osservare anche altrove (Mc. 3,22 ac canto a Le. I I , I 5; Mc. 8, I I accanto a Le. I 1 , 1 6; Mc. 3 ,6 accanto a J , I 5 ) e potrebbe risalire a Marco che doveva pensare che l a seconda fosse stata pronunciata da persone diverse da quelle della prima. Ancora una volta si può osservare l'impronta dei salmi che è così tipica per l a prima storia della passione. L'espressione «scuotere le loro teste» vie ne dal Sal. 22,8 (v. al v. 24, intr.), ma si trova, invero, anche in Lam. 2, I 5 dove si parla inoltre di «passanti» . Nello stesso v. 8 del Sal. 22 si leg-
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Mc. I s ,27-J2.
Il dileggio del crocifisso
ge che «chi lo osservava arricciava il naso», che Le. 2 J , J 5 ripete alla lettera secondo i LXX, e che «allungavano il labbro» (testo ebraico) o «mormoravano con le labbra>> {testo greco): le due espressioni sono riprese entrambe da Giustino (Dial. 1 0 1 , 3; Apol. 1,3 8,6; cf. 1 Clem. 1 6, 1 6,). Sal. 2 2,7 chiama ciò «vituperio degli uomini e disprezzo del po polo»; forse questa duplice espressione sta a monte dei due dileggi di stinti ? Certo è che Sal. 22,9 è stato ripreso in Mt. 27,43 (v. ad loc. ); as sai più incerto è se abbia già influito sull'espressione «salva te stesso». Qual è il risultato di queste considerazioni ? Che Gesù, la cui intensis sima speranza sembrava così clamorosamente crollata, sia stato scher nito, è quasi ovvio. Si può supporre che il dileggio sia avvenuto dap prima in modo molto conciso, più o meno come riferisce l'inizio del v. 29, che è in contrasto con la tendenza marciana di dare la colpa solo alle autorità e di scagionare il popolo; poi sarebbero state ripetute e spressioni dell'Antico Testamento e infine si passò a concretizzare le offese in parole precise che facevano riferimento al detto di Gesù sul tempio. I vv. 3 1 .3 2a sarebbero allora un'altra variante di questo rac conto, semplicemente giustapposta all'altra da Marco, con la conse guenza che il v. 27 e la chiusa del v. 3 2b, che gli appartiene, sono rima sti alquanto distanziati. 2 7- 3 2 . Forse i «briganti» sono due dei sediziosi menzionati al v. 7; ma di preciso non è detto nulla, perché tutto è diretto verso la passio ne di Gesù e quindi null' altro ha importanza all'infuori della descrizio ne della sua morte fra due malfattori. «Insultare» è un termine molto forte e presuppone implicitamente che in Gesù Dio stesso è bestem miato. Gli schernitori stessi, dunque, fanno quello che ha fornito ( 1 4, 64) il motivo della condanna capitale di Gesù. Per il detto sul tempio, v. a 1 4, 5 8. Il presupposto dello scherno della gente è che la salvezza della propria vita sia il fine supremo, e che se ciò non si verifica vuoi dire che non se ne ha la potenza o la possibilità. Che Dio la pensi di versamente, è già stato detto da Gesù (8,3 5 ). Solo in un secondo tem po i sommi sacerdoti e gli scribi vengono introdotti come schernitori principali. «Re d'Israele» in bocca loro è giusto; essi pensano al signi ficato religioso dell'espressione, non a un condottiero nazionalistico. L'equivoco si manifesta nella maniera più madornale nella pretesa che Gesù dia loro una dimostrazione della sua potenza affinché possano credere. Proprio ciò renderebbe qualsiasi fede impossibile (v. excursus
Mc.
1 5,33-39. La morte di Gesù come rivelazione di Dio
28 5
a 4,3 5 -4 1 ). Scendere giù dalla croce sarebbe stato sì un miracolo pro digioso, ma avrebbe tutt'al più rivelato Gesù come un superuomo, e non come «messia e re d'Israele» . Dio si distingue dall'uomo e dal su peruomo proprio per non aver bisogno di imporsi, di giustificarsi, di distruggere i suoi avversari (cf. retrospettiva, 1 , 1 4-8,26). Ciò viene an cora rafforzato dall'osservazione secondo la quale anche i due che so no crocifissi con lui inveiscono contro Gesù, rifiutano la comunione con lui disposta dal destino e permettono così alla solitudine del suo soffrire di diventare totale. Egli non appartiene neanche ai suoi com pagni di sventura. Se si guarda ancora una volta al lento formarsi di questa sezione, allora ciò significa che si presentano testimoni diversi, i quali indicano tutti un unico e medesimo avvenimento. Ciò che ha colpito in primo luogo e maggiormente la comunità, è evidentemente l'isolamento di Gesù che costituisce la dimensione profonda della sua sofferenza. Qui si trova la stupefacente diversità della via di Dio rispetto a tutto ciò che gli uomini considerano loro scopo o si immaginano come via di Dio. Questa realtà affiora sempre più in superficie, a mano a mano che la comunità scopre il modello di questa passione nei salmi del giu sto sofferente; accogliendo questi testi essa afferma in forma esplicita che in tali eventi si compie la volontà redentrice di Dio, finché, alla fine, proprio le figure dei due malfattori servono a sottolineare la di versità di Gesù. La morte di Gesù come rivelazione di Dio, (cf. Mt. 27,4 5 - 54; Le. 23 ,44-47)
I f,JJ-39
33 E, venuta l'ora sesta, si fece tenebra su tutta la terra fino all'ora no na. 34 E all'ora nona Gesù gridò a gran voce: «Eloì Eloì, lemà sabachthà ni, che tradotto vuoi dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?». 3 s Ed alcuni dei presenti udirono e dicevano: «Ecco, chiama Elia». 36 Allo ra qualcuno corse, riempì una spugna di aceto, la infilò su una canna e gli dava da bere con queste parole: «Lasciate, vogliamo vedere se viene Elia a tirarlo giù». 37 Ma Gesù, emise un gran urlo e spirò. 38 E la cortina del tempio si squarciò in due, dall'alto al basso. 39 E il centurione che era pre sente, di fronte a lui, vide che era spirato così, disse: «Veramente quest'uo mo è Figlio di Dio». 34 Sal. .1.1,2. 36 Sal. 69,2 2 .
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Mc. 1 J , J J -39· L a morte di Gesù come rivelazione di Dio
Il centro della sezione è la frase sulla morte di Gesù con un gran grido, che già in Marco è formulata in modo da avvicinarsi molto al l'immagine del «rendere lo spirito» (Mt. 27, 5 0; Le. 23 ,46; Gv. 1 9, 3 0 ciascuno con u n verbo greco diverso). Ora, al v . 3 4 è menzionato u n altro grido di Gesù, reso con l e parole del Sal. 2 2 ,2. È abbastanza ve rosimile l'ipotesi che la comunità abbia ritrovato nella sua descrizione biblica della passione (v. ai vv. 2 2 - 2 4 , intr.) il grido inarticolato di Ge sù e gli abbia attribuito alcune parole. In un trattato giudaico si rac conta che Ester sarebbe stata esaudita quando, nella sua distretta, a vrebbe gridato: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato ? » ; perciò i l primo e i l secondo giorno del digiuno si prega «Mio Dio ! », ma il terzo giorno si dice tutta la frase (Midr. Sal. 22, § 6; cf. 1 6 e Str. Bill. n, 5 77). La formulazione può essere immaginabile in aramaico, tuttavia l'equivoco del v. 3 5 è difficilmente pensabile. Chi capisce l'ara maico non può travisare così grossolanamente l'inizio del salmo, e chi non lo capisce non può sentirvi un'invocazione a Elia. È dunque pro b abile che sia stata soltanto la comunità di lingua greca a tradurre (v. 3 4b) il grido (v. 34a) e a presentare il v. 3 6 come un equivoco assurdo e uno scherno. L'uso dell' «aceto» potrebbe essere stato dedotto dal Sal. 69,2 2 (v. al v. 2 3 , intr., e a Mt. 27,34); ma il termine greco denota anche il vino acidulo di poco prezzo, sicché si può anche pensare che un soldato compassionevole abbia fatto un atto di carità al supplizia to, atto che più tardi sarebbe stato interpretato diversamente. Infine la morte di Gesù è inserita fra due segni apocalittici, entrambi assenti in Giovanni. L'oscuramento del sole si trova in Am. 8,9 dove solo più avanti si parla del «lutto per il figlio unico » (v. I o): «E in quel giorno avverrà che io farò tramontare il sole a mezzodì e farò venire le tene bre sulla terra in pieno giorno» (Am. 8,9). Simili fenomeni sono riferi ti anche a proposito della morte di Cesare e di altri avvenimenti ecce zionali. Tuttavia in questo particolare, storicamente impossibile in concomitanza col plenilunio di pasqua, si manifesta ancora una volta l'antica storia della passione che vede ogni cosa alla luce dell'Antico Testamento, sebbene qui non si richiamino i salmi, ma un passo pro fetico apocalittico. Il segno della cortina squarciata risalirà alla comu nità che ha visto nella morte di Gesù la fine di tutto il culto del tem pio. È dunque un'affermazione teologica, non un'affermazione stori ca. Che la comunità abbia avuto l'idea perché nel trionfo a Roma nel l' anno 70 venne esibita anche la cortina del tempio è quasi impossibile
Mc.
1 S , J J -39·
La morte di Gesù come rivelazione di Dio
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anche per sole considerazioni cronologiche. Probabilmente il partico lare faceva già parte della tradizione ricevuta da Marco; altrimenti egli non avrebbe interrotto il nesso tra il v. 39 e il v. 3 7 (prima dell'inseri mento del v. 3 5 anche con il v. 3 4 ?). I due segni, pertanto, appartengo no difficilmente allo stesso strato (apocalittico) della tradizione: il pri mo segno si colloca nel filone che vede nella passione di Gesù l'adem pimento dell'Antico Testamento; il secondo presuppone una limita zione cultuale del tempio. Il v. 39 potrebbe essere un'aggiunta marcia na, dato che per Marco la confessione che Gesù è Figlio di Dio ha un'importanza centrale; non si dice esplicitamente che il centurione sia pagano, ma ciò va da sé. 3 3-36. Le tenebre menzionate in Am. 8,9 rivelano l'ampiezza degli effetti di questa morte: essa riguarda non solo la terra, ma tutto il co smo. Si adempie dunque già qualcosa di quello che secondo 1 3 ,24 ac compagnerà il giudizio universale. Con questo tratto la morte di Gesù è già collocata nella luce di quell'evento: anche la futura catastrofe u niversale non sarà lasciata alla follia di un uomo né al caso, ma starà sotto la croce di Cristo, cioè sotto la volontà di Dio il quale, attraver so e di là di ogni giudizio, ha pronunciato il sì della sua grazia per il mondo. Se si rimane al livello della problematica della possibilità o meno di un fenomeno di oscuramento del sole (ad es. in conseguenza di una tempesta di sabbia), si perde il vero messaggio del testo e quin di ci si priva di un autentico ascolto di esso. Allo stesso modo va in terpretato lo schema orario (v. al v. 2 5). Per la terza volta è trascorso un periodo di tre ore ed è così giunta l'ora del compimento. Nell'in vocazione di Gesù si riassume con straordinaria prcgnanza il duplice aspetto di quanto avviene in quel momento: esso è un'espressione ra dicale della solitaria sofferenza di Gesù che deve essere vissuta com pletamente come abbandono non solo da parte degli uomini, ma an che da parte di Dio; ma al tempo stesso è anche un tenersi stretto a Dio contro ogni esperienza che lo faccia sentire come l'assente, come colui che lascia I' orante solo, un rivendicare ancora Dio come il Dio «mio» senza lasciarlo andare. Per dire questo la comunità ha descritto il grido inarticolato di Gesù (v. 3 7) come una preghiera tratta dai sal mi. In questo grido la realtà di Dio è consegnata alla memoria di tutti i tempi, anche di quelli nei quali né esperienza né pensiero possono af ferrarlo. Il problema di questo testo non è se Gesù abbia pronunciato
288
Mc.
1 s,J J -3 9·
La morte di Gesù come rivelazione di Dio
queste esatte parole o, forse, quelle ricordate in Luca o in Giovanni, o tutte o nessuna di esse; il problema è se Gesù abbia osservato il primo comandamento e mantenuto fede ad esso in maniera tale che Dio fu realtà anche dove il pensiero e l'esperienza non vedevano che abban dono e se ciò diventa necessario per il lettore. È possibile che si voglia descrivere un equivoco (v. 3 5) solo se Elia a quel tempo (nel giudai smo ellenistico?) era già considerato un soccorritore celeste. Poiché secondo 2 Re 2, I I il profeta era stato rapito in cielo, anche nelle leg gende giudaiche (in verità attestate, tuttavia, solo in un'epoca poste riore) egli dimora fra i beati e appare ai pii per soccorrerli in momenti di particolare distretta. Anche il soldato (? - lo dice Le. 23,36) vuole prima vedere e poi eventualmente credere, proprio al pari dei sommi s acerdoti (v. 3 2) e come già i nemici del giusto sofferente (Sap. 2, 1 8 ). I n tal modo l'offerta dell'aceto affinché si dissetasse, probabilmente già in Marco (sicuramente in Le. 23,3 6) è stata intesa come scherno (v. al v.
2 3 ).
3 7· La morte stessa di Gesù è descritta con sobrietà impressionante, senza alcun abbellimento, senza accenno alcuno all'imperturbabile pa ce interiore e senza alcun gesto o parola solenne, come si legge altro ve, nei racconti della morte di martiri ebrei o cristiani. Qui non è ne cessario nulla più del sobrio resoconto del fatto stesso. Esso riceve la sua grandezza da tutto quel che è stato riferito sin qui riguardo a Ge sù. C olpisce senza dubbio il grande urlo, dato che i crocifissi muoio no proprio per sfinimento; perciò è già stata avanzata l'ipotesi che si tratti dell'aggiunta apportata al testo da una comunità che pensa in ca tegorie apocalittiche e che si raffigura Gesù che muore con sulle lab bra il grido di vittoria del trionfatore. Nonostante alcuni paralleli (Hen. aeth. 62,2; 4 Esd. 1 3 ,4. I o: la voce del giudizio che uccide i peccatori o i nemici; Hen. aeth. 7 1 , 1 I : la voce della lode a Dio innalzato dal Glo rioso; 4 Esd. Io,26 s.: il grido d'orrore che esce da Sion e fa tremare la terra; il grido dello stesso veggente) un tale grido imprecisato, senza quelle aggiunte che altrove ricorrono sempre, resterebbe assolutamen te incomprensibile, e nel Nuovo Testamento, dove un gran grido ricor re spesso nell'Apocalisse, soltanto le grida dei demoni sconfitti (Mc. 1 ,26; 5 ,7; Atti 8,7) sono inarticolate o riferite senza precisazioni espli cative. Ci si potrebbe immaginare, al massimo, che la comunità abbia in seguito interpretato così, alla luce di questi paralleli e soprattutto dei vv. 3 3 e 3 8, un grido di Gesù al momento del trapasso, tramandato
Mc. 1 5,J 3-39·
La morte di Gesù come rivelazione di Dio
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dalla tradizione e probabilmente storico. Tuttavia, fino a Marco, sem bra che esso non abbia avuto altra funzione che quella di sottolineare la profondità della sofferenza di Gesù. 3 8-39. Segni che avrebbero dovuto annunciare la futura distruzione del tempio (spalancarsi improvviso delle porte, sussulti, rumori) sono riferiti anche in fonti giudaiche (Str.-Bill. 1, I045 s.); tuttavia qui in Marco (v. 3 8) non si tratta solo di avvisaglie di avvenimenti futuri, bensì della descrizione di una fine che si è già compiuta nella morte di Gesù, dunque dopo 1 1 , I 7; 1 3,2; I 5,29 s., come segnale della fine del culto del tempio implicita nella morte di Gesù; forse, più precisamen te, alla fine della esclusione dei laici e, soprattutto, dei non giudei dal luogo della presenza di Dio (cf. Ef 2, 1 3 s.). Del resto anche poco pri ma i sommi sacerdoti sono apparsi come i veri nemici di Gesù (v. 3 I ) . Ev. Eb. 6 tramanda una parola di Gesù (sicuramente inautentica nella sua forma negativa): «lo sono venuto a distruggere i sacrifici». Gli av venimenti che succedono al momento della morte di G esù diventano nella tradizione, col passare del tempo, sempre più miracolosi (cf. già Mt. 27, 5 1 - 5 3 !). Secondo Ev. Naz. 2 1 si spaccò la gigantesca architrave della porta del tempio e migliaia di giudei si sarebbero convertiti. Se condo Ev. Petr. 1 5 -27 si fece così buio che molti credettero che fosse già notte e andarono a letto, ma quando Gesù morto fu deposto a ter ra, questa tremò fortemente; per questo fenomeno e per la riappari zione del sole, il popolo rimase così atterrito che tutti riconobbero le loro colpe e piansero sulla futura fine di Gerusalemme. Marco invece mette deliberatamente accanto a questi segni della fine di tutto il culto del tempio il pagano che per primo comprende veramente quanto è accaduto. Stando al testo, si potrebbe tradurre tanto «un Figlio di Dio » quanto «il Figlio di Dio» e se Marco avesse voluto veramente sottoli neare con forza che qui si intendeva l'unico Figlio di Dio, accanto al quale non ve ne sono altri, avrebbe potuto usare una formulazione gre ca diversa (che tuttavia, nel caso della sintassi del testo presente non sarebbe, in verità, una costruzione corrente). In Mt. 1 4,3 3 ; 27,40.43 ; Le. 1 ,3 5; Gv. 10,3 6, dove c'è l a stessa costruzione greca, s i intende pe rò, senza dubbio, «il», non «Un» Figlio di Dio. In questa dichiarazio ne, dunque, Marco vede certo non solo l'intuizione da parte di un pa gano di qualcosa di divino, ma una confessione di fede in piena regola. Se ne ha la certezza quando si vede come la confessione che Gesù è il Figlio di Dio determini tutta la struttura del vangelo di Marco.
2 90
Figlio di Dio
Figlio di Dio. Fin da 2 Sam. 7, 1 2- 1 6 e anche ai tempi di Gesù (4Q Fior 1 ,7 ss.; cf. a Mt. 1 , 1 8) Israele attende quel discendente di Davide che quale «figlio » di Dio stabilirà per sempre la signoria davidica su Israele. Vale anche qui quel che si è già messo in luce a proposito del titolo di «Cristo» (v. a 8,29): Gesù ha invocato Dio in modo unico co me padre suo (v. excursus 14,3 6), ma egli stesso non ha mai usato per sé il titolo di «Figlio di Dio» (v. -a I 3,3 2). L'uso puro e semplice di un titolo già diffuso avrebbe soltanto impedito agli uomini di incontrare veramente la realtà presente in lui in modo eccezionale e non descri vibile con alcuna categoria corrente. L'uso del titolo nella comunità avviene con una certa esitazione e questo è un argomento a favore della genuinità della professione di fede: alcuni uomini sopraffatti da Dio cercano di esprimere con linguaggio umano quel che è stato loro dato di conoscere, e al tempo stesso di precisarne continuamente il li mite per evitare gli equivoci in agguato nel linguaggio che adoperano. In Rom. I ,J s. Paolo cita una confessione di fede secondo la quale a pasqua Gesù sarebbe stato insediato come «Figlio di Dio» (v. a I 2,3 7). Anche Atti I 3,3 3 riferisce l' «oggi» (Sal. 2,7), in cui il «Figlio di Dio» è generato, al giorno di pasqua. Questa dichiarazione che è in contrasto con la cristologia odierna corrisponde interamente al pensiero del Sal. 2,7 secondo il quale il re d'Israele è insediato, «generato» come Figlio di Dio il giorno della sua ascesa al trono. «Figlio» nel pensiero vetero testamentario indica dunque una funzione, precisamente la reggenza di colui che governa al posto di Dio sul suo popolo. L'uomo del tem po di Gesù, cresciuto alla scuola dell'Antico Testamento, non si pre occupa tanto dell'essenza di una persona o di una cosa, quanto della sua funzione, di come agisce, di come opera. Non lo interessa se uno è «in sé e per sé» Figlio di Dio; anzi, non capisce neppure questo pro blema. Gli importa soltanto se uno gli viene operativamente incontro come colui che esige la sua ubbidienza, esercita su lui la sua signoria, lo protegge e lo guida. In questo senso la comunità ha confessato che, a partire da pasqua, ha sentito su di sé la signoria di Gesù, quindi ha sperimentato la sua figliolanza divina, e la proclama a tutto il mondo. E se il risorto di pasqua era il medesimo che aveva soggiornato sulla terra come Gesù di N azaret, bisognava vedere l'inizio della sua si gnoria, quale rappresentante di Dio, già nel battesimo (v. a 1 ,9 - 1 1 ) . Anche quando gli uomini non lo hanno riconosciuto, il Figlio di Dio è già venuto loro incontro nel Gesù terreno, come colui che cercava la
Figlio di Dio
.19 1
loro ubbidienza e assicurava loro le promesse divine degli ultimi tem pi. Ma appena la comunità si rese conto che non si trattava solo di un evento casuale della storia umana accanto a mille altri, ma veramente dell 'incontro definitivo di Dio con il mondo che portava tutto a com pimento, dovette dire che questo ufficio di figlio era cominciato già con la sua nascita (Le. 1 ,3 2. 3 5) anzi, in realtà, anche prima, perché la volontà di Dio di incontrare il mondo per mezzo del «Figlio» non è stata una decisione presa all'improvviso. Dio rimane sempre uguale a se stesso perché da ogni eternità è Dio soltanto come amore, come «essere-per». Questo movimento dell'amore, senza il quale Dio non sarebbe Dio, la comunità ha cercato di descriverlo balbettando, affer mando che il Padre ama il Figlio già dall'eternità e mediante lui ama anche il mondo (cf. Gv. 1 , 1 - 5 ; 3 , 1 6; 1 5 ,9; 1 7, 5 ; Gal. 4,4 s ., ecc.). A que sto fine furono impiegate concezioni correnti dell'epoca, come quella della nascita di molti grandi uomini dell'ellenismo senza intervento di un padre umano (v. excursus a Mt. 1 , 1 8 . 2 3 ) o quella dell'invio del Lo gos come messaggero o figlio degli dèi ovvero della Parola come figlio e della Sapienza come figlia di Dio nel giudaismo ellenistico, dove que sta visione si era combinata anche con le storie bibliche della nascita miracolosa dei patriarchi e dell'invio degli angeli. Ancora una volta, importanti sono non le forme concettuali nelle quali si esprime la fede, ma la realtà che quelle forme vogliono comunicare: che in Gesù Cristo Dio stesso si fa incontro al mondo; che questo non è un avvenimento casuale, ma l'espressione di quella volontà eterna di Dio riguardo al mondo, che sola rende Dio veramente Dio; e che questo non avviene solo dopo pasqua, ma già nella persona terrena di Gesù di Nazaret. La domanda decisiva che Marco si pone è però quest'altra: in che modo avviene ciò ? La tentazione di vedere la rivelazione di Dio nei miracoli di Gesù era a portata di mano (v. retrospettiva, seconda so luzione). In questo modo Gesù sarebbe stato un taumaturgo fra tanti, più o meno autentici, e la sua figliolanza divina si sarebbe limitata a prestare soccorso in situazioni di particolare distretta. Ciò permette di vedere quanto poco si ottenga, in sostanza, sostenendo la verità dot trinale di un titolo, sia pure così elevato, e quale profonda saggezza ci fosse nella rinuncia di Gesù a tutti i titoli prefabbricati e già provvisti di un contenuto concettuale quanto mai vario, i quali fanno sì che l'uomo si venga a trovare con un'idea già fatta prima ancora di incon trare Gesù Cristo, che è vivente e sempre diverso. Contro simili ten-
292
Figlio di Dio
denze Marco scrive il suo vangelo. Si è pensato che sul modello del cerimoniale dell'Egitto antico egli volesse esporre l'adozione del Fi glio di Dio ( r , I 1 ), la presentazione alla corte (9,7) e la vera e propria ascesa al trono ( 1 4,6 1 s.; 1 5,39): Gesù sarebbe diventato nel senso più p rofondo Figlio di Dio solo con la crocifissione. Ma la forma di que sto cerimoniale reale non era nota a Marco. Inoltre in nessun passo balena l'idea che Gesù non sia Figlio di Dio fin dal principio e in sen so pieno. Si può solo dire che per Marco la passione costituisce la rive lazione decisiva della figliolanza divina di Gesù. In ogni caso Gesù è Figlio di Dio (forse già in r , I ) , ma lo è per incarico di Dio che lo pone su un cammino ben determinato ( 1 ,9- 1 I ). Perciò la fede che attribui sce una natura divina a Gesù solo a motivo dei suoi miracoli è demo niaca (3 , 1 I; 5 ,7) e quindi non deve venire assolutamente proclamata in giro. Soltanto dopo che l'equivoco di Pietro è rettificato, dopo che la rivelazione centrale di Dio, sino a quel momento ancora velata nel di scorso in parabole, è avvenuta negli annunci della passione del Figlio dell'uomo, e dopo che la possibilità di una fede autentica è promessa unicamente a chi lo segue sulla vita della croce, Dio stesso manifesta ai tre intimi la figliolanza divina di Gesù, e anche in questo caso non si richiama ai suoi miracoli, ma alle sue parole (9,7). Solo quando comin cia la passione Gesù confessa, sia pure in forma singolarmente riserva ta, di accettare il titolo impiegato dal sommo sacerdote (non da Gesù stesso), e non prima che Gesù sia spirato con un grande urlo il primo uomo può confessare, in base alla propria fede: «Veramente, quest'uo mo era il Figlio di Dio». Che l'uomo sia un pagano indica, al tempo stesso, che questa morte ha aperto la porta sul mondo delle nazioni. Attorno a un breve resoconto della morte di Gesù accompagnata da un forte grido, e probabilmente anche del dileggio della gente e della compassione di un singolo che voleva attenuare le sofferenze di Gesù con un po' di vino da quattro soldi, si raggruppano sempre più nume rose le affermazioni con le quali la comunità cercò di esprimere quello che era veramente accaduto in questa circostanza. Perciò troviamo proprio nella sezione centrale, com'era da aspettarsi, una gran quanti tà di testimoni, che non vogliono semplicemente riferire particolari di cronaca, come un testimone oculare estraneo ai fatti fa in tribunale, ad esempio a proposito di un incidente nella circolazione. Quello che è veramente avvenuto in quelle ore può dirlo soltanto uno che sia im-
Mc. 1 5,40 s.
Le donne al seguito di Gesù
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plicato nell'evento e quindi non possa fare a meno di interpretar lo. Certo, se ha ragione quello che l'interpreta come la morte di un pazzo fanatico che invoca inutilmente soccorso da Elia, oppure quello che vede in esso la morte del Figlio di Dio, può dirlo solo la fede. Marco non ci nasconde la prima interpretazione, benché attesti con tutta chia rezza che egli ha riconosciuto come giusta la seconda. Di questo avve nimento non si può parlare in modo diverso da così, cercando cioè, con la spiegazione di avvenimenti storici o persino con l'aggiunta d i nuovi tratti, di dire quel che Dio ha fatto. Allo stesso modo u n pittore può dipingere un'aureola (che naturalmente non era visibile durante la vita dell'interessato) per far vedere chi era veramente il personaggio dipinto; oppure mettere Gesù in un ambiente moderno, per dire che egli è ancora vivente oggi. In questo senso i primi cristiani hanno rac contato, ad esempio, il fatto delle tenebre e della cortina squarciata: per attestare il significato unico di Gesù. Le donne al se guito
di Gesù,
1 5 ,40 s.
(cf. Mt. 27, 5 5 s.; Le. 23,49)
C'erano anche alcune donne che guardavano da lontano, fra le quali an che Maria di Magdala, e Maria, madre di Giacomo il piccolo e di Giosè, e Salome, 4 1 le quali, quando era in Galilea, lo avevano seguito e servito, e molte altre, che erano salite con lui a Gerusalemme. 40
I nomi delle donne in I 5,40.47; I 6, I sono indicati in modo diverso. Il genitivo «di Giosè» (v. 47) può indicare propriamente solo il padre, eventualmente il marito. Lo stesso vale per I 6, 1 . Questo fatto invalida la spiegazione che in I 5,40 siano nominate quattro donne, del le quali I 5 ,47 nominerebbe la prima e la terza, 1 6, I invece la prima, la seconda e la quarta. È più verosimile che più tardi un glossatore abbia cercato di sciogliere il nodo delle due diverse tradizioni in 1 5,47 e 1 6, I con la notizia che la seconda Maria sarebbe la madre d i Giacomo e di Giosè, perché evidentemente non può essere la figlia di entrambi. Allo stesso tempo il glossatore avrebbe voluto distinguere questo Giacomo dal più noto fratello di Gesù e dal figlio di Zebedeo, perché evidente mente conosceva ancora un Giacomo soprannominato «il piccolo» . Stranamente i n 6,3 compaiono Giacomo e Giosè ( e Giuda!) anche co me fratelli di Gesù; ma 1 5,40 non può riferirsi alla madre di Gesù per ché sarebbe stata altrimenti presentata come tale. Ora è certo che la se poltura di Gesù non è stata raccontata senza tener conto di pasqua e la 40-4 1 .
294
Mc. 1 5 ,42-47·
Il seppellimento di Gesù
scoperta della tomba vuota non è stata raccontata senza presupporre che le donne avessero assistito alla sepoltura e, quindi, conoscessero la tomba. Ma si poteva raccontare la sepoltura per sottolineare la realtà della morte di Gesù ( 1 Cor. I 5,4a) oppure come introduzione alle sto rie di apparizione, la seconda con una breve introduzione come «le don ne, che avevano visto che era stato messo nella tomba senza essere un to, ... ». Così, probabilmente (ma non è possibile esserne certi), i diver si nomi si sono fissati nella tradizione e hanno portato, più tardi, al tentativo di armonizzazione di I 5 ,40. Le donne vengono indicate co me d onne galilee e questo dovrebbe corrispondere alla realtà storica. È un fatto che dimostra anzitutto che il movimento sviluppato da Ge sù durante la sua vita era limitato sostanzialmente alla Galilea, ma an che che i discepoli erano fuggiti già prima della morte di Gesù, proba bilmente facendo ritorno alle loro case. La solitudine di Gesù nella sua morte deve dunque essere stata descritta con fedeltà, anche da un punto di vista storico; infatti anche le donne, come sue seguaci, posso no solo guardare da lontano. Il discepolato di donne è ricordato solo qui (e in Le. 8 , 1 ss.; cf. però «servire», in Mc. 1 ,3 1 ), insieme col fatto che queste donne, evidentemente, hanno perso la testa molto meno dei discepoli. Ciò è tanto più notevole se si pensa alla posizione insi gnificante che la donna occupava nel giudaismo e nell'antichità in ge nere. È probabile che Marco, del quale è tipica l'accentuazione del «seguire» e del «salire a Gerusalemme» (cf. I O,J 2 !), voglia col v. 4I pre parare già 1 6, 1 ss. Sono ancora una volta seguaci di Gesù quelli ai qua li viene rivelata per primi la verità della sua risurrezione: per il disce polo la morte di Gesù non è la fine, ma vero inizio di una nuova vita. Il sepp ellimento di Gesù,
1 5 ,4.1-47
(cf. Mt. 27, 5 7-6 I ; Le. 2 3 , 5 0- 5 6)
42 E poiché si era già fatta sera, perché era la preparazione, cioè il giorno prima del sabato, 43 venne Giuseppe di Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anche lui il regno di Dio, osò e si presentò da Pilato e chic se il corpo di Gesù. 44 Ma Pilato si stupì che fosse già morto e chiamò a sé il centurione e gli domandò se fosse già morto da tempo. 4 5 E quando eb be la conferma dal centurione concesse la salma a Giuseppe. 46 E questi comprò un telo di lino, lo tirò giù, lo avvolse nel telo e lo depose in un se polcro che era scavato nella roccia e rotolò una pietra all'imboccatura del sepolcro 47 E Maria di Magdala e Maria di Giosè osservavano dove era sta to deposto.
Mc. 1 S,.42-47·
Il seppellimento di Gesù
2. 9 5
Se questo episodio fosse stato narrato fin dal principio insieme con il prossimo o fosse stato costruito soltanto per spiegare come mai le donne conoscessero il sepolcro, la conclusione sarebbe più adatta. Dopo l'indicazione dei nomi (I 5 ,47) I 6, 1 potrebbe continuare: «E alla fine del sabato comprarono ... ». Lo stesso si potrebbe dire se 1 6, 1 - 8 avessero costituito più tardi la continuazione di I 5 ,4 2-47. Probabil mente entrambe le pericopi sono state tramandate relativamente auto nome (v. al v. 40). Va detto che ci sono diverse affinità linguistiche, ma queste si limitano all'apertura e alla chiusura della tomba, senza considerare gli inevitabili termini «comprare» e «tomba». I 5,46b è stato forse formulato solo al momento dell'associazione con 1 6,3b.4 oppure, viceversa, 1 6,3 s. è un accrescimento secondario (v. ad loc. ) ? Il fatto, certamente storico, che non sia uno dei discepoli a preoccuparsi per la sepoltura, ma solo un simpatizzante di una cerchia più vasta, conforta anche la storicità della menzione delle donne che sono colle gate evidentemente molto presto con la storia. Un'intenzione teologi ca particolare non sembra soggiacere a queste notizie, anzi la descri zione contraddice /s. 5 3 ,9. Gv. 1 9,3 8-42 contiene una tradizione del seppellimento di Gesù sostanzialmente uguale. Solo qui si viene a sapere che Gesù morì di venerdì, e che, se condo l'inserto 1 4, 1 2- 1 6 (v. ad loc. ), era anche il giorno della pasqua ebraica (contro Gv. I 8,28); questo fatto, certo, avrebbe impedito l'ac quisto del telo di lino. Il giorno della settimana è stato tramandato dun que con esattezza, anche perché questo spiega il seppellimento fretto loso e provvisorio di Gesù. Se Giuseppe riuscì ad andare da Pilato, !a sciargli il tempo per la sua indagine, comprare il telo e seppellire Gesù prima che cominciasse il sabato, significa che Gesù deve esser morto abbastanza presto nel pomeriggio (Mc. I 5,2 5 · 3 3 s.; diversamente Gv. 1 9, 1 4). Un «consigliere» può essere un membro del sinedrio (così Le. 2 3 , 5 I ) , ma anche di una qualche corte giudiziaria locale. La descrizio ne fa pensare a un giudeo che apparteneva ad un gruppo fortemente orientato verso l'attesa del veniente regno di Dio e in simpatia con Gesù, senza esserne diventato un seguace (diversamente Mt. 27, 5 7). È probabile che gruppi di questo genere siano rimasti ancora in stretto contatto con la giovane comunità cristiana fino al 70 d.C., senza rom pere tuttavia con il giudaismo. Anche questo particolare dev'essere sto rico. Ai discepoli di Gesù è accaduto di veder annullate le loro opinio42.-47.
296
Mc.
1 6, 1 -8.
La vittoria di Dio
ni dottrinali, e questo li ha messi tanto fuori strada da costringerli a fuggire. È dunque uno che sta al margine a fare quel che sul momento andava fatto; forse proprio perché non si era ancora fatto un'idea trop po p recisa e dogmaticamente rigida di Gesù, e quindi restava più aper to per quel che Dio si aspettava da lui in quel momento. Secondo Atti 1 3 , 2 8 s. sono stati «gli abitanti di Gerusalemme» a seppellire Gesù. Che egli abbia «osato)) andare da Pilato, non permette di concludere che questi fosse così favorevole a Gesù come sembra suggerire 1 5 ,2 ss. Se condo l'uso romano la salma viene lasciata senz'altro ad amici o a pa renti, mentre secondo l'uso giudaico un condannato a morte non ha diritto a una tomba privata. La morte deve essere accertata ufficialmen te (v. 44) affinché un condannato ancora semivivo non possa essere salvato dai suoi amici. Ma forse questo particolare è riferito (da Mar co ?) anche per controbattere tutte le voci di una morte solo apparente (cf. 1 Cor. I 5 ,4a). Il termine «salma)) è sostituito in Mt. 27, 5 9 (Le. 23, 52 s.); Gv. I 9,3 8.4o da quello, quasi identico, «corpo», probabilmente perché alla comunità, nella cena del Signore, viene offerto il «corpo)) del Signore dato per lei, del Signore che si rivela continuamente come vivente, e non come «salma)). I cimiteri non erano conosciuti : i morti venivano seppelliti nei loro terreni o fuori dai luoghi abitati. La pietra viene rotolata davanti all'imboccatura come protezione dalle fiere; e ventualmente poteva anche difendere la tomba dai ladri, per quanto di regola una persona fosse sufficiente per rimuoverla. Anche Flavio Giu seppe (Beli. 4,3 1 7) conferma che il seppellimento prima del tramonto del sole era importante per i giudei, anche nel caso di crocifissione. An che qui appaiono ancora una volta solo alcune donne come testimoni; proprio quelle che fra i giudei e i greci hanno una posizione piuttosto sprezzata, qui si dimostrano più forti dei discepoli. Si profila la nuova posizione della donna nella comunità di Gesù. La vittoria di Dio, 1 6, 1 -8 (cf. Mt. 28, I - I o; Le. 24, I - I I ) 1 E , passato i l sabato, Maria di Magdala e Maria d i Giacomo e Salome com prarono unguenti profumati per venire e ungerlo. 2 E molto presto, il pri mo giorno della settimana, vengono al sepolcro, al primo sorgere del sole. 3 E dicevano l 'una all'altra: «Chi rotolerà per noi la pietra dall'entrata del sepolcro ?». 4 Ma quando alzano lo sguardo, vedono che la pietra è sposta ta: era in realtà molto grande. 5 Ed entrarono nel sepolcro e videro un gio vane seduto a destra, vestito di una veste bianca e sono pres e da un gran pa-
Mc.
1 6, 1 - 8.
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nico. 6 Ma egli dice loro: «Non spaventatevi; cercate Gesù, il n azareno, quel lo che è stato crocifisso: egli è stato risuscitato, non è qui. Ecco il posto do ve l'avevano messo. 7 Ma andate, dite ai discepoli e a Pietro: Egli vi prece de in Galilea; lì lo vedrete, come vi disse». 8 Allora esse uscirono e fuggi rono dal sepolcro, perché tremito e terrore le aveva colte. E non dissero nul la a nessuno: veramente avevano paura. Per i nomi delle donne v. a 1 5,40 s. Dato che il sabato finisce con il tramonto, si deve pensare che le donne abbiano fatto il loro acquisto di sera (secondo Le. 2 3 , 56 l'avrebbero già fatto il venerdì), mentre un acquisto fatto prima del sorgere del sole, come sembra suggerire Mar co, è difficilmente immaginabile. Si dà per scontato che la sepoltura provvisoria sia avvenuta senza imbalsamazione (v. a I 4,8; diversamen te Gv. I 9,39 s.). Visitare i primi tre giorni la tomba di un defunto è uso attestato nel giudaismo (cf. Gv. I I,J I -J9; Str.-Bill. n, 54 5), ma pro cedere all'unzione dopo 36 ore non è facilmente immaginabile. L'un zione giudaica delle ossa è qualcosa di diverso. Ma da un lato a Geru salemme, di primavera, non fa troppo caldo e poi c'è da chiedersi se il primo narratore fosse affatto in grado di immaginarsi le condizioni climatiche. Particolarmente strano è che solo per strada si siano chie ste chi avrebbe rotolato la pietra per loro. Ma la loro riflessione serve alla storia, come anche il riferimento zoppicante alla grandezza della pietra tombale, soltanto per evidenziare il prodigio, senza riguardi per la verosimiglianza psicologica. La parola dell'angelo con le apposizio ni che seguono il nome di Gesù {lett. « Gesù ... il nazareno, il crocifis so ... ») e con il riferimento al «crocifisso» (atipico per Marco) reca l'im pronta di una corrispondente formula omologica della comunità (cf., ad es., Atti 4, 1 o). Il v. 7 riprende 1 4,28, solo che il verbo «precedere» è usato ora al presente. Tuttavia la cosa più strana è l'interruzione alla fine del v. 8 (v. a 9-20 e l'excursus «la chiusa di Marco»). Il v. 7 potreb be anche essere stato inserito solo dal redattore; la particolare menzio ne di Pietro potrebbe essere dovuta o al suo rinnegamento o al fatto della prima apparizione a Pietro ( 1 Cor. 1 5, 5 ). Le discrepanze nei no mi delle donne rendono probabile che la storia sia stata narrata in un primo momento, ma sempre nel contesto della storia della passione no ta alla comunità, in maniera relativamente autonoma; essa presuppo ne, infatti, la conoscenza della crocifissione il venerdì, la sepoltura sen za imbalsamazione e la presenza delle donne.
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I racconti di pasqua
I racconti di p asqua sono molto difficili da districare. Il più antico (I Cor. 1 5,3 -8) è stato messo per iscritto verso il 5 5 d.C., ma come ci tazione alla lettera della tradizione della comunità (di Gerusalemme ? d i Antiochia ?) e d a Paolo che, appena cinque/sei anni dopo l a morte di Gesù, ha conosciuto personalmente una serie di testimoni dei fatti e ha collaborato a lungo con cristiani di Gerusalemme. Delle apparizio ni che vi sono menzionate, a Pietro e ai dodici, a più di cinquecento fratelli «dei quali la maggior parte è ancora in vita», a Giacomo e a tutti gli apostoli (che quindi costituivano una cerchia distinta - e più ampia ? - di quella dei dodici), infine a Paolo stesso, soltanto la secon da viene narrata nei vangeli. La breve notizia di un'apparizione a Pie tro in Le. 24,3 4 mostra che Luca conosce sì il fatto (ripreso da una formula omologica?), ma non più i particolari. Secondo Le. 24,3 6-49 e secondo il racconto completamente diverso di Gv. 20, 1 9-23 , la dome nica di pasqua il Risorto apparve a Gerusalemme; secondo Mt. 28, 1 620 in Galilea. Se si volesse collocare quest'ultimo episodio dopo le ap parizioni a Gerusalemme, alle quali tuttavia Matteo neppure accenna, rimarrebbero incomprensibili i dubbi di alcuni discepoli dopo Le. 24, 3 6-49 e Gv. 20,24-29, senza dire che il viaggio in Galilea sarebbe una patente disubbidienza all'ordine del Risorto (secondo Le. 24,49). Di un'apparizione in Galilea, che in origine era descritta come la prima, ma che si svolge in maniera completamente diversa da quella di Mt. 2 8 , 1 6-20, parlano anche Gv. 2 1 (il capitolo di appendice al quarto vangelo) e Ev. Petr. 6o. I vari resoconti, se si pone il problema della successione storica degli eventi, non possono più essere armonizzati. I l testo storicamente più sicuro è I Cor. 1 5, 5 - 8. Ma non se ne può ri cavare nulla circa il luogo e il modo delle apparizioni, a prescindere dal fatto che Paolo mette la sua personale esperienza sulla stessa linea di quella degli altri, pensando quindi certamente ad apparizioni del Si gnore celeste e non di un Signore che si aggira sulla terra. A dire il ve ro, egli le distingue nettamente da semplici visioni (cf. Gal. 1 , 1 5 s.; 1 Cor. 9, 1 con 2 Cor. 1 1 , I 6- 1 8 ; 1 2, 1 - 1 1 a). Ora anche Mt. 28, 1 8b (v. ad loe. ) presuppone già anche l'innalzamento di Gesù a Signore celeste «alla destra di Dio». Come in Paolo (Gal. 1 , 1 5 s.) e diversamente dai racconti di Luca e di Giovanni, tale apparizione in Matteo è interpre tata come invio a predicare e non come autenticazione della risurre zione (v. a 1 6, 1 5 ) . Anche Mc. 1 6,7 presuppone la Galilea come scena rio delle apparizioni.
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La chiusa di Marco può essere spiegata in diversi modi. Del tutto inverosimile è l'ipotesi che il v. 7 contenga una parola autentica e ir realizzata di Gesù, la quale si aspettava che egli si s arebbe recato, co me risorto, in Galilea alla testa dei suoi discepoli (v. a 1 4,2 8). Conce zioni apocalittiche di questo genere non si trovano mai altrove nel pensiero di Gesù, e in ogni caso già Marco non ha più inteso il detto in questo senso perché secondo l'evangelista Gesù si sta già recando (verbo al presente !) al luogo dell'incontro. Anche la supposizione che Marco aspetti in tempi brevi il giudizio universale con l'apparizione del Figlio dell'uomo in Galilea e tronchi col v. 8 perché ora bisogna aspettare l'adempimento del v. 7, non ha un fondamento sufficiente (v. a I J , I 4). Certo l'esperienza della parusia può essere indicata con il verbo «vedere» (Mc. I 3,26; I Gv. 3 ,2; Apoc. 1,7; 22,4), ma così anche l'incontro con il Risorto ( I Cor. 9, 1 ; Gv. 2o, I 8; il frequente modo di dire «apparve a ... » significa esattamente «fu visto da ... »). Mc. 14,62 in clude nel medesimo detto la visione del Cristo innalzato a pasqua e quella di colui che verrà un giorno. Poiché la parusia sembra ancora essere abbastanza lontana (in caso diverso non si scriverebbe un inte ro vangelo), mentre la risurrezione fu preannunciata (8,3 1 ; 9,9.3 r ; I O, 3 4) e appena proclamata (I 6,6), si deve riferire il v. 7 a quest'ultima. La notizia che la parusia di Gesù avrà luogo con la missione ai pagani in Galilea non risponde più al vero, almeno per Marco ( I ) , I 0. 24-27!). Infine, anche la menzione particolare di Pietro implica che la storia del suo rinnegamento e del suo pentimento non è ancora stata raccon tata fino alla fine e che c'è ancora da aspettare un incontro di Gesù ri sorto con lui ( I Cor. I 5 , 5 ; Le. 24,3 4; Gv. 2 I , I 5 - I 9). Sembrerebbe più logico pensare che col v. 7 Marco voglia riferirsi proprio alle appari zioni del Risorto perché non .ha più informazioni particolareggiate e quindi deve accontentarsi del messaggio del v. 6 e del suo esplicito ri ferimento alla tomba vuota. Solo che ciò non spiega in alcun modo il silenzio delle donne e la conclusione brusca. Anche la supposizione che la risurrezione, di cui la comunità è al corrente, sia un tale mistero che, analogamente al segreto messianico, se ne possa soltanto accenna re in termini di mistero, non è molto verosimile in considerazione d i tutte l e palesi dichiarazioni. Ancora più impossibile è l'ipotesi che qui si combatta contro la fede nella risurrezione della comunità di Geru salemme rappresentata dai discepoli. Certo per Marco il Risorto non è presente nel medesimo senso in cui lo era il Gesù terreno e lo sarà il
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Gesù che ritorna (v. a 2,20). Certo i discepoli vengono rappresentati come ottusi; ma, intanto, non è sempre così (3 , 1 4 s.; 6,7- 1 J .J0.4 1 ; 8,6; I0,28-3o), poi essi sono di fatto galilei e, infine, si sarebbe dovuto par lare della loro incredulità e non del silenzio delle donne se in loro si fosse voluto colpire la comunità di Gerusalemme. In considerazione di 1 Cor. 1 5 , 5 -8 (cf. v. 1 I !) e del fatto che Paolo conosce un 'unica co munità primitiva (Gal. 1 , 1 7; 2, 1 ) che egli vide unita (Gal. 1 ,22 s.) già prima della sua vocazione, ai tempi in cui ancora la perseguitava, è quasi impensabile che vi fossero gruppi che ignorassero completa mente le apparizioni del Risorto. Ma allora 1 6,7 deve riferirsi necessa riamente a tali apparizioni. Si può dunque solo ammettere che la chiu sa del vangelo sia andata perduta; infatti, prescindendo da ogni altra considerazione, è difficilmente immaginabile che un libro finisca con le parole del v . 8, anzi addirittura con un «infatti)). Nella chiusa erano probabilmente riferite le apparizioni in Galilea, forse un'apparizione a Pietro e un'altra ai dodici ( I Cor. 1 5,5 ). Non è escluso che in Mt. 2 8,9 s . (v. ad loc. , intr.) e 28, 1 6 ss. appaia quel che il suo autore aveva anco ra letto in Marco. La descrizione di un'apparizione puramente celeste potrebbe avere scandalizzato ed essere stata coscientemente lasciata da parte. Questo potrebbe anche spiegare perché le apparizioni elen cate in I Cor. 1 5, 5 -8 siano scomparse dalla tradizione dei vangeli. Ma questa resta una supposizione non dimostrabile, e poiché vi sono nu merosi casi in cui è andata perduta (e la cosa era abbastanza facile) la fine di libri scritti sia su fogli di papiro sia su rotoli, l'ipotesi più pro babile è quella di una perdita casuale. C'è addirittura un manoscritto tardo che per caso s'interrompe proprio a 1 6,8, benché sicuramente aveva contenuto d eli ' altro. Marco si immagina che i discepoli siano a Gerusalemme (v. 7). Da un punto di vista storico, il richiamo a 1 4, 2 8 è probabilmente il tentativo di collegare le tradizioni della tomba vuota e delle apparizio ni in Galilea che circolavano indipendenti e al tempo stesso di scusare a posteriori la fuga dei discepoli in Galilea, riconducendola a un ordi ne di Gesù (v. sotto). Che i discepoli siano effettivamente tornati alle loro case è probabile perché non compaiono né alla crocifissione né alla deposizione dalla croce né al seppellimento, mentre solo in tradi zioni tarde si fanno vedere nei pressi della tomba vuota e perché Luca mostra anche altrove una predilezione teologica per Gerusalemme. Inoltre devono essersi recati, una volta o l'altra, in Galilea, perché poi
La scoperta della tomba vuota
3oI
hanno fissa dimora a Gerusalemme con le loro famiglie, che prima non li avevano accompagnati. Quel che è avvenuto in modo particolare alla scop erta della tomba vuota è ancora una volta difficile da stabilire. I racconti sono note volmente diversi. L'ordine dell'angelo è stato coscientemente modifi cato in Le. 24,6- 8, come si vede dallo strano accenno alla Galilea che ha un senso tutto diverso. In Gv. 20, 1 l'ordine appare ancora diverso. Mt. 28, I sembra pensare che la visita al sepolcro abbia avuto luogo la sera del sabato, dopo il tramonto. Inoltre attribuisce alla visita, come pure Gv. 20, I , un'intenzione di semplice pietoso omaggio e non il proposito d'imbalsamare la salma e quindi di penetrare nella tomba, eliminando così alcune difficoltà. Così, manca in tutti gli altri racconti la riflessione sulla pietra; al suo posto Mt. 28,2 s. racconta invece non la risurrezione stessa, ma la discesa dell'angelo (v. ad loc. ). Secondo Mt. 28,2- 5 l'angelo parla alle donne stando davanti alla tomba (esse, pertanto, s econdo il v. 8, «vanno via», mentre in Mc. 1 6,8 «escono»). Secondo Le. 24,4 ci sono due angeli nel sepolcro. Anche il testo del l'annuncio della risurrezione è diverso. Infine, la comunicazione del l'ordine ai discepoli in Mt. 28,8 è prevista, in Le. 24,9 è stata eseguita. Mentre dci racconti delle apparizioni riportati in 1 Cor. 1 5 , 5 - 8 è rima sta nei vangeli la sola apparizione ai dodici (narrata poi in maniere molto diverse), la scoperta della tomba vuota, narrata da tutti e quat tro i vangeli, manca invece completamente fuori di questi. Le due tra dizioni sono dunque state trasmesse indipendentemente l'una dall'al tra. Naturalmente il narratore giudaico delle apparizioni di Gesù pre suppone che la tomba sia vuota; comunque non ne menziona testimo ni. Questa storia potrebbe essere sorta come specie di prova soltanto quando le idee sulla risurrezione erano diventate più «grossolane» ? M a questo l o sarebbero, nonostante l a molteplicità delle concezioni, mol to di più nel giudaismo che nell'ellenismo; per un giudeo è naturale che chi è asceso al cielo non sia più nella tomba (cf. Atti 2,29-3 1). Le «chiac chiere di donne», sulle quali ironizza ancora Celso (Origene, Contra Celsum 2, 5 5 ), non possono comunque costituire una prova nel giu daismo, dove la donna non aveva diritto di testimonianza. Che i rac conti della tomba vuota e quelli delle apparizioni siano stati collegati solo in un secondo tempo è chiaro, se quella è stata scoperta a Gerusa lemme e queste sono avvenute in Galilea. Al primo livello manca an-
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La scoperta della tomba vuota
che la comunicazione della scoperta ai discepoli e un controllo da par te loro. Che Mc. I 6, 8 voglia soltanto spiegare come mai non si sia sa puto niente della tomba vuota per tanto tempo, è una risposta con pre supposti troppo moderni. Che cosa Marco voglia dire teologicamente col v. 8 si vedrà in seguito. Il racconto è storicamente credibile ? Certo è stato formulato in tutti e quattro i vangeli come leggenda. Ma è strano quanti pochi testi moni vengano nominati. La forma primitiva sembra aver conosciuto un'unica donna, Maria di Magdala, che secondo Gv. 2o, I (cf. Mc. 1 6, 9) si recò da sola alla tomba. Questa è anche l'unica che venga nomi nata concordemente negli elenchi di Mc. I 5 ,40 (v. ad loc. ).47; I 6, I c ancora diversamente in Mt. 28, I ; Le. 24, I O. Il controllo da parte dci discepoli spunta solo più tardi con Gv. :z.o,2- Io; infatti secondo Gv. 20, I I Maria Maddalena è sempre ancora sola alla tomba (cf. ancora Le. 24,24). Di un'apparizione di Gesù alle donne (contro Le. 24,23 s.) parla per primo Matteo . Questo è il segno di una tradizione degna di fede. Infatti una «prova» della risurrezione che fosse stata costruita in un secondo tempo sarebbe interessata, fin dal principio, al maggior nu mero possibile di testimoni attendibili: dove c'è nel Nuovo Testamen to una storia di miracolo senza una platea di testimoni e, possibilmen te, anche una dimostrazione del miracolo ? Storicamente immaginabi le, anche se improbabile, sarebbe al massimo l'ipotesi accennata più so pra che una volta - ancora senza il miracolo della pietra rotolata (vv. 3 s.) e senza dimostrazione della tomba vuota (v. 6, fine) - tutto il peso fosse messo sul kerygma pasquale in bocca all'angelo e sull'annuncio di future apparizioni (vv. 6 s.). Anche allora doveva tuttavia essere già noto il fatto delle donne alla tomba spalancata, altrimenti si sarebbe fat to parlare l'angelo ai discepoli. Ma anche così non ci sarebbe spiega zione per il silenzio delle donne. La cosa più verosimile rimane sem pre, allora, che Maria Maddalena abbia effettivamente scoperto la tom ba vuota. Del resto secondo I 5,42-47 la tomba di Gesù sembra essere stata conosciuta (con l'insospettabile nome di Giuseppe d' Arimatea) né sembra che sia stato mai contestato il fatto che fosse vuota. Fin da Mt. 2 8, I 3 questo fatto è stato tuttavia spiegato in maniera sempre di versa anche nella polemica giudaica, e la predicazione della risurrezio ne a Gerusalemme non sarebbe immaginabile se fosse stato possibile mostrare la tomba (Atti 2,29-3 2). Forse è persino possibile spiegare co sì la datazione della risurrezione «il terzo giorno» (1 Cor. 1 5,4 e pas-
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sim) ; infatti i discepoli difficilmente avrebbero raggiunto l a Galilea già la domenica, così che le apparizioni seguirono certamente più tardi. Certamente ciò non ha a che fare con una prova della risurrezione. Se si esclude la possibilità già esaminata in Mt. 27,64 il cadavere di Gesù seppellito provvisoriamente potrebbe essere stato spostato in un'altra tomba oppure Maria potrebbe essersi recata alla tomba sbagliata. So prattutto la questione della risurrezione non dipende dalla tomba vuo ta (come mostra anche I Cor. I 5 ,3 -8). Paolo parla di un «corpo spiri tuale» completamente diverso ( I Cor. I 5,44), dunque di una forma del la vita di risurrezione che per noi non è più immaginabile. Con questo tipo di discorso a Paolo preme soprattutto precisare che anche dopo la risurrezione l'uomo non è un fluido indeterminato, fuso con Dio e l'universo, bensì rimane quel soggetto determinato che Dio ha già ac colto nella comunione con sé prima della morte. Ma anche per Paolo questa continuità è fondata soltanto nel miracolo di Dio che mediante la sua opera creatrice chiama di nuovo il defunto, creandolo così di nuovo. Se quindi il vecchio corpo (di coloro che sono morti prima) marcisce nella tomba oppure (nel caso di coloro che alla parusia sono ancora in vita) è «ingoiato» dalla nuova opera creatrice di Dio (2 Cor. 5,4), non ha per Paolo una grande importanza ( I Tess. 4, I 3 - 1 8). Che la scoperta della tomba vuota di Gesù non abbia creato alcuna fede (for se solo Gv. 20,8 non è di questa opinione) mostra che la certezza della risurrezione di Gesù si basa unicamente sul fatto che egli incontra gli uomini come chi è vivo. Per chi ha avuto questa esperienza il fatto della tomba vuota è tuttavia segno dell'unicità di quello che è avvenu to qui, dell'atto di Dio che è uguale a quell'altro che per la prima volta fece sorgere dalla materia morta quel mistero profondo che si chiama «vita» e che non si riesce a spiegare. 1-8. Ancora una volta ci sono solo le donne per compiere il servizio d'amore che ora è richiesto (v. a I 5 ,47). Anch'esse compiono solo un pio dovere e non si aspettano in alcun modo l'atto di Dio che ha già a vuto luogo. La formulazione greca è scorretta (lett. «nell'uno» invece che «nel primo giorno della settimana») e risale all'ebraico dove si di ceva così; tuttavia potrebbe anche essere stata ripresa dai LXX. Anche Gv. 2o, I ; I Cor. I 6, 2 ; Atti 20,7 (diversamente solo Mc. 1 6,9 !) si espri mono allo stesso modo e forse ciò va attribuito alla tradizione. La do manda delle donne vuole soltanto caratterizzare coloro per i quali la
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La vittoria di Dio
grossa pietra sigilla ancora e definitivamente la tomba. Accanto a que sto interrogativo l'atto miracoloso di Dio, già avvenuto, appare ancor più potente; perciò viene anche menzionata, in ritardo come spesso avviene nei racconti popolari, ancora una volta la dimensione della pie tra. Sarà solo una traduzione latina a inserire qui una descrizione della risurrezione stessa di Gesù. Per il Nuovo Testamento resta decisivo che il mistero dell'atto di Dio non può venire descritto né contempla to da alcuno. Non è il miracolo della risurrezione e neppure l'incom prensibile scoperta della tomba vuota, a creare la fede, ma l'incontro del vivente con i suoi discepoli. Esso è il fondamento permanente del la fede nell'atto miracoloso di Dio, e solo colui al quale il Risorto stes so si sia manifestato vivente può capire il racconto della tomba vuota. Quindi, per il momento, non è ancora l'atto stesso di Dio che è visibi le, ma solo una sua conseguenza che non si può ancora interpretare. L'angelo (v. 5) è descritto in termini molto sobri come «un giovane», esattamente come in 2 Macc. 3,26.3 3 (cf. anche Giuseppe, Ant. 5 ,277: «Una apparizione di Dio, simile a un giovane bello e grande»). Al massimo il vestito bianco fa pensare simbolicamente al mondo di Dio. Il modo così riservato di parlare del miracolo è tipico di colui per il quale il Dio che gli viene incontro in quell'atto è più importante della forma più o meno miracolosa in cui ciò avviene, sebbene questa sia talvolta necessaria come segno per farlo notare. Così anche qui è ve ramente solo dal terrore delle donne (cf. anche il v. 8 ! ) che si intuisce trattarsi non di un giovane qualsiasi (v. a 14,43 - 5 2, intr., verso la fine), ma del messaggero di Dio. Quasi dovunque nella Bibbia il Dio viven te incontra l'uomo, la sua prima parola deve liberarlo dallo spavento; infatti l'uomo può vedere se stesso di fronte alla grandezza di Dio, che supera ogni cosa, solo con spavento. L'espressione «voi cercate ... » è sorprendente; essa mette in evidenza l'opera degli uomini, piena di devoto omaggio in sé, ma di fronte all'atto di Dio così insensata. Que sto non è un indizio che esse prima cercano la tomba e un ragazzo qua lunque dà loro la notizia della risurrezione. Con l'espressione «egli è stato risuscitato», l'atto di Dio è messo al centro. Il miracolo del quale l'an gelo dà notizia è che Dio è intervenuto nella storia quando da un punto di vista umano tutto era finito. Lì avviene per Gesù quello che diversamente si sperava solo per il lontano futuro. «Egli non è qui » dev'essere stato scelto come un'originale iscrizione funebre, che nella sostanza è profondamente neotestamentaria. Ma il significato di quel
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Il primo tentativo di ristabilire la conclusione mancante
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che è avvenuto, lo rivelerà solo l'incontro con il Risorto in Galilea. La menzione specifica di Pietro è probabilmente un richiamo al suo rin negamento. Ancora una volta sono chiamati da Gesù quelli che prima erano fuggiti al momento del suo arresto, e colui che poi lo aveva espressamente rinnegato (v. a 14,28). Ancora una volta egli va innanzi a loro (cf. 10,3 2) e chiede ai discepoli di seguirlo. Ancora una volta si tratta di un atto di grazia, ed essi rivedranno colui che non li ha ab bandonati quando essi abbandonavano lui, e saranno presi definitiva mente al suo servizio. La risposta dell'uomo, come si è sempre visto in tutto il vangelo, è una completa cecità. Non si percepisce alcun cenno di gioia: solo spavento. Di fronte all'inaudito atto di Dio, da parte del l'uomo, anche da parte delle persone piene di venerazione, che amano Gesù, che mostrano un certo coraggio, c'è soltanto un'incomprensio ne totale. Ancora una volta il Risorto stesso deve aprire gli occhi dei ciechi (cf. 8,22-26 prima di 8,27-3 1 ). Di questo miracolo, che finalmen te esprime il miracolo del mattino di pasqua, riferiva la chiusa perduta del vangelo di Marco. L'elemento più sorprendente di questa sezione è il v. 8. Marco è così lontano dall'usare il fatto della tomba vuota come prova della ri surrezione, che non solo cita le parole dell'angelo che spiegano per pri me quello che è successo qui, ma sottolinea altresì che anch'esse pro ducono solo timore e spavento, ma non fede e neppure intendimento. Ora, nell'insieme della tradizione, anche di quella dei racconti delle apparizioni di Gesù ai discepoli, si percepisce che la realtà della risur rezione di Gesù dovette imporsi a uomini molto critici e che non si aspettavano per niente quell'avvenimento. Marco però va anche oltre: non riferisce neppure la nascita di una sola fede. Di fronte all'incom prensione ancora perdurante degli uomini, rimane unicamente la pro messa di Gesù che egli li precederà e che opererà egli stesso dove gli uomini sono incapaci, che chiamerà ancora una volta, nonostante tut te le loro defezioni, i discepoli a seguirlo, e che andrà incontro a loro, in modo che essi lo vedano. Il primo tentativo di ristabilire la conclusione mancante, 16,9-20
Ma dopo essere risuscitato all'alba del primo giorno della settimana, ap parve in primo luogo a Maria di Magdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni. 10 Essa andò e l 'annunciò a quelli che erano stati con lui, che pian9
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Mc. 1 6,9-20.
Il primo tentativo di ristabilire la conclusione mancante
gevano e facevano cordoglio. 1 1 E quelli, udito che egli viveva e che era stato visto da lei, non credettero. 1 2 Ma in seguito si manifestò a due di lo ro che erano in cammino, sotto altro aspetto, mentre andavano ai campi. 13 E quelli andarono e l'annunciarono agli altri; ma non credettero neanche a loro. 1 4 E dopo si manifestò agli undici stessi mentre erano a tavola, e rimproverò la loro incredulità e la loro durezza di cuore, che non avevano creduto a quelli che l'avevano veduto risuscitato. r s E disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate l'evangelo a tutta la creazione. 1 6 Chi crede c viene battezzato sarà salvato, chi non crede sarà condannato. 1 7 Ma questi segni accompagneranno quelli che credono: nel mio nome cacceranno i de moni, parleranno in nuove lingue, 1 8 solleveranno serpenti, e qualora be vano qualcosa di mortifero, non farà loro male, imporranno le mani agli in fermi e saranno sanati» . 1 9 Dopo aver parlato con loro, dunque, il Signore fu innalzato in cielo e si sedette alla destra di Dio. 20 Ma essi uscirono e predicarono per ogni dove e il Signore operava con loro e rafforzava la pa rola mediante i segni che seguivano. 19
2
Re 2, u ;
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Mace.
2, 5 8 ; Sal. u o, I .
Il brano manca nei manoscritti più antichi; alcuni Padri della chiesa lo conoscono, altri attestano la sua assenza. Il linguaggio, a cominciare dal titolo di «Signore» dato a Gesù, non è marciano (v. a 1 1 ,3). Manca la tipica para tassi narrativa marciana (soprattutto la congiunzione «e» all'inizio di una pericope), come anche altre locuzioni preferite («su bito », «di nuovo», ecc.). Al contrario si trova per tre volte un verbo che significa «andare» (vv. 1 0. 1 2. 1 5) che non è mai usato in Marco. L'intero vocabolario (fatta eccezione per «mortifero» al v. 1 8) si trova anche nei LXX. Unica è, inoltre, l'indicazione del giorno al v. 9 (v. al v. 2 ) ; «egli vive» con riferimento alla risurrezione non si trova prima di Luca, con l'eccezione di 2 Cor. 1 3 ,4; i tre verbi per «apparire» s ono usati, oltre che qui, soltanto a partire dal n secolo d.C. e il verbo «in nalzare» viene usato con riferimento a Gesù solo più tardi. Per quanto rig u arda il contenuto sono presupposti dappertutto i racconti di Luca, ma anche di Matteo e di Giovanni (v. sotto). Inoltre il v. 9 non si adat ta ai vv. 1 - 8; Maria di Magdala era stata già nominata (v. 1 ) insieme con altre donne («la mattina del primo giorno della settimana, presto >>: v. 2 ) e la precisazione che la riguarda (v. 9 , fine) andava fatta almeno in quella sede; inoltre nel v. 9 manca il soggetto, così che in base ai vv. 5-7 il soggetto dovrebbe essere veramente l'angelo. Tutto questo mo stra che il passo non è stato composto per supplire semplicemente la continuazione del vangelo di Marco che si interrompe improvvisamen-
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te. Ci si trova forse davanti a una sintesi dei racconti di pasqua com posta forse per scopi catechetici ? In base a una tradizione molto incer ta, la pericope potrebbe risalire al presbitero Aristione (verso il 1 00 d.C.). Come minimo l'autore ha conosciuto le opere di Luca, proba bilmente anche gli altri vangeli, benché vi inserisca anche molta tradi zione particolare. Ma per tutto il n secolo persino detti del Signore ve nivano trasmessi liberamente e modificati anche in ambienti dove sicu ramente i vangeli erano conosciuti.
9-20. Due volte si susseguono rivelazione, proclamazione, incre dulità (vv. 9- l 1 . 1 2 s.), poi avviene la rivelazione decisiva agli undici col mandato di predicare e la doppia possibilità della fede e dell'increduli tà (vv. 1 4- 1 6) insieme con la promessa dei segni (vv. 17 s.), infine l'a scensione, la proclamazione universale e la dimostrazione coi segni. Tutta la pericope è dunque fortemente orientata alla proclamazione e alla fede che essa deve suscitare. Soltanto Giovanni conosce un'appa rizione a Maria Maddalena ( Gv. 2 0, I I- I 8), dove si menziona anche il riferimento della notizia ai discepoli. La cacciata dei sette demoni vie ne da Le. 8,2. «Lamento e pianto» ( Gv. 20, I I. I 5 riferisce un compor tamento simile di Maria) vengono altrove attribuiti ai discepoli solo in testimonianze apocrife. Nuova è, invece, l'accentuazione della loro in credulità. Due elementi sono dunque importanti per l'autore: il mes saggio del v. 7 non basta se non si giunge a un incontro diretto col Ri sorto; il Risorto deve imporsi e vincere la resistenza degli uomini (al riguardo cf. Mt. 28, I 7; Le. 24,2 5 . 3 7·4 I ; Gv. 20,24-29; Ignazio, Smyrn. 3,2; Ep. Ap. I o; Iust., Re s. [MPG 6, I 5 7 I ss.] 9). Secondo il v. I 2 si pen sa a un gruppo consistente di discepoli. A questo punto è inserito un riassunto dell'episodio di Emmaus (Le. 24, 1 3-3 5). L'«altro» (o «diver so») aspetto (v. I 2) non si riferisce a quello visto da Maria, né all'a spetto precedente del Gesù terreno (Le. 24, I 6), bensì denota piuttosto la figura completamente nuova, «celeste» nella rivelazione vera e pro pria (Bar. syr. 49,2-5 1 , 1). Ancora una volta è sottolineata l'ostinata in credulità dei discepoli, che però contraddice Le. 24,34. Il fatto che il narratore non eviti questa contraddizione dimostra l'importanza che annetteva a questo punto. L'apparizione ai discepoli presuppone la presenza dei soli «undici»; in questo senso è stato interpretato senza dubbio anche Le. 24, 36-43 . Anche lì e in Atti {I ,4); 1 0,4 1 (cf. Ev. Hebr. 7; Ignazio, Smyrn. 3,3) è detto che l'apparizione avviene durante il pa-
3 o8
Mc.
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sto. Ancora una volta si sottolinea l'incredulità, anzi l'indurimento dei discepoli. Quel che Marco voleva sempre accentuare, specialmente in 8, 1 7-2 I, è stato capito anche da questo narratore: l'esistenza della te stimonianza, della predicazione, della grazia e della salvezza è unica mente atto di Dio in contrasto con l'opposizione degli u omini. Senza dubbio questo era troppo per uno dei copisti, che aggiunse: «Ed essi si giustificarono e dissero a Cristo: Questo eone dell'iniquità e dell'incredulità è sotto la potestà di Satana, che non permette che la vera potenza di Dio ( ?) sia afferrata dagli spiriti impuri ( ?); per questo rivela già la tua giustizia ! E Cristo rispose loro: Il limite degli anni della potenza di Satana è compiuto; ma altre cose terribili si avvicina no, anche per quelli per i quali, perché peccarono, io sono stato con segnato a morte, affinché si convertano alla verità e non pecchino più, affinché ereditino la gloria spirituale e incorruttibile della giustizia che è nei cieli» . Quest'aggiunta, formatasi ancora molto tardi, è interessan te perché rivela che il problema del peccato tormentò ancora a lungo la comunità dopo la risurrezione: qual è il rapporto fra la vittoria pa squale di Dio e la piena rivelazione futura della «gloria» e della «giu stizia» di Dio ? Naturalmente non basta rispondere che la potenza di Satana è spezzata sì, ma che debbono ancora venire «altre cose terribi . li». Questo anz i oscura la risposta fondamentalmente corretta del te sto (vv. I 1 - 14) che cioè il motivo del paradosso sta nella realtà dell'in credulità. Come credente l'uomo vive già nella luce della vittoria pa squale di Dio, ma in quanto è continuamente messo in crisi dall'incre dulità vive al tempo stesso «in questo eone», e solo il compimento alla parusia lo fa passare dalla fede alla vista, e vivere, senza più crisi, nella piena comunione di Figlio di Dio insieme con il Padre ( 1 Gv. 3 ,2 !). I s -20. Perciò l'autore dei vv. 9-20 non ha alcun discorso di giustifi cazione, e invece troviamo subito il comandamento missionario. An che Marco ha sempre interpretato il testo così: superamento dell'in credulità e del conflitto interiore, in breve l'avvenimento della grazia di Dio che prende l'uomo al suo servizio e lo inserisce nella fede. Il te sto è affine a quello di Mt. 28,1 6- 20, non al testo stesso, bensì a una sua variante nella quale l'accento principale è sull'universalità della missione ai gentili. Mc. 1 3 , 1 0 parla come Mt. 28, 1 9 di «tutti i popoli» ; Mc. 1 4,9; r 6, r s a e Rom. 1 ,8 di «tutto i l mondo»; ancora più ampio è l'orizzonte di Mc. I 6, 1 5 b e Col. r ,2 3 di «tutta la creazione» Si esprime qui una teologia nella quale Cristo viene lodato quale Signore di tutto
Mc.
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il creato già prima della nascita e tanto più dopo la risurrezione. N o n solo gli uomini, ma tutta la natura è soggetta alla sua signoria. Ma an che dove non si arriva a tanto, si sente già l'effetto di una determinata forma di pensiero nella quale il punto centrale non è tanto il crocifisso (come in Paolo, 1 Cor. 2,7 s.) quanto la missione alle nazioni (cf. re trospettiva, 1). Pure in Mc. 1 6, I 5 non c'è traccia né dell'altrimenti tipi co concetto del «segreto» (v. a 4, I 2) né l'immagine del corteo trionfale dell'Innalzato attraverso i cieli ( 1 Tim. 3 , 1 6; v. a Mc. I J , I O). In questo senso il detto di Mt. 28, 1 9 è ancora più vicino. Teologicamente impor tante è che la fine dell'incredulità non è data semplicemente con il mi racolo della risurrezione, si trova invece solo nell'ubbidienza donata del testimone nella quale il Risorto si rivela ancora una volta «a tutta la creazione» come il vivente (cf. excursus sui racconti di pasqua a I 6, I -8). Come in Mt. 28,1 6-20 si parla (v. 1 6) di battesimo; ma ancora più chiaramente che in quel passo, qui esso è inteso come espressione della fede, e nella forma negativa è menzionata solo l'incredulità, non la mancanza del battesimo. La forma greca indica tutt'e due le volte il punto in cui un uomo è pervenuto, in linea di principio, alla fede ov vero si è deciso per l'incredulità. Una sentenza molto somigliante si ha in Ker. Petr. 4 (ovvero vn): « ... che coloro che odono e credono saran no salvati, coloro che non credono ... non possono dire: Non abbiamo udito». Tuttavia qui va messo il più energico punto interrogativo. È vero che secondo Mt. 1 1 ,20-24 le città che videro le opere di Gesù e non fecero penitenza sono minacciate di giudizio; ma un simile appel lo al ravvedimento viene abbreviato in modo pericoloso quando, al posto dell'invito a osservare le opere di Dio e dell'appello alla conver sione, si mette soltanto la condanna apodittica della «incredulità». An che se va concesso che qui essa significa qualcosa di più del semplice rifiuto di una dottrina, tale interpretazione dell'incredulità non è mai troppo lontana (v. 14). Inoltre la speranza nel grande futuro di Dio viene espressa soltanto in questo riferimento alla salvezza o alla dan nazione a venire. Non si coglie più alcuna traccia del fatto che nelle grandi opere di Gesù è apparso già qualcosa della salvezza definitiva di Dio e che Gesù stesso sarà un giorno il compimento. La conoscen za della venuta escatologica di Dio in Gesù si è ridotta alla concezione del giudizio universale. L'elenco dei segni (v. 1 7) promessi a tutti ( ! ) i credenti fa pensare a una comunità nella quale i miracoli sono impor tanti e continuano ad avvenire. In Marco il termine «segno» è valutato
3 IO
Mc. 1 6,9-20. I l primo tentativo di ristabilire la conclusione mancante
piuttosto negativamente. L'incredulità li pretende. In senso positivo ne parla Giovanni. Tutti i tipi elencati appaiono anche in Atti 2, I ss.; 3 , I ss.; 9,3 2 ss.; I4,8 ss.; I 6, I 6 ss.; I9, I 3 ss.; 28,3 ss., fatta eccezione per la inefficace pozione avvelenata di cui però parla Papia fra il I 30 e il 1 40 d.C., ricordando persino come le figlie di Filippo (Atti 2 1 ,9) risu scitano un morto (Eusebio 3,39,9). Anche autori posteriori conoscono il motivo (Hennecke-Schneemelcher 1 1 , I 37 s.). Guarigioni dal morso di un serpente sono attestate in Str.-Bill. IV, 4 5 9; Storia dell'infanzia di Tommaso 1 6; Act. lo. 73 -83; Act. Thom. 3 3 · Che si nomini solo la glos solalia (glossolalia incomprensibile ? parlare in lingue straniere ? più probabilmente parlare la lingua celeste degli angeli) e non la profezia (cf. I Cor. I 4,4 s.) prova quanto fosse diventato importante l'aspetto miracolistico. Per simili comunità che vissero per secoli cf. excursus a Mt. 7, I J -23(7). Come in Le. 24, 5 I Gesù sale al cielo (v. I 9) la domeni ca di pasqua, subito dopo la sua conversazione con i discepoli: per de scriverlo sono usate espressioni dell'Antico Testamento, riprese dalla storia di Elia (2 Re 2, I I; più esattamente I Mace. .2, 5 8 ) e dal Sal. I I o, che è citato con grande frequenza nella comunità. Soltanto Luca (tut tavia cf. Gv. 20, I 7) distingue chiaramente tra risurrezione e ascensio ne (v. excursus sui racconti di pasqua a 1 6, 1 - 8 e a Mt. 28, I 8 , intr.). Un elemento di novità è che Gesù «si siede alla destra di Dio », come viene narrato esplicitamente (ancora diversamente A tti 2,34). Anche qui, dunque, l'ascensione, intesa quale inizio della reggenza di Cristo, e la parusia non sono collegate. In un primo momento, in verità, anche la risurrezione fu considerata l'inizio degli eventi escatologici, quindi della parusia: da un lato quale indicazione della parusia ventura, men tre nel frattempo il «nome» di Gesù operava miracoli (v. a 2,2o); dal l'altro quale inizio della presenza dell'Innalzato presso la sua comuni tà. Per la prima posizione era importante la ripetizione dei miracoli di Gesù, particolarmente degli esorcismi; per la seconda i miracoli di una nuova vita celeste come la glossolalia che annunciava la diretta presen za del glorificato e facevano passare in secondo piano la speranza di una parusia. Ciò lascia capire che, soprattutto nel caso di gnostici, sem pre meno ci si ricorda dei miracoli del Gesù terreno o se ne trovano di nuovi, mentre vengono prodotti ancora nuovi miracoli degli apostoli. In Mc. 1 6, I 7- 20 le due tendenze sono già fuse insieme. È chiaro che le apparizioni in Galilea (Mt. 28, I 6) non hanno più posto alcuno in que sta tradizione. L'attività missionaria dei discepoli (v. 20) è la vera e pro-
Il secondo tentativo di ristabilire la conclusione mancante
3II
pria conclusione dell'evangelo. Quello che Luca ha realizzato con gli Atti degli Apostoli qui è dunque visibile nello stadio iniziale. La narrazione è percorsa da un fremito di entusiasmo ancora vivo che scorge nelle esperienze miracolose l'opera costante del Signore glorificato e, probabilmente, vede tutti i credenti sul medesimo piano, senza alcuna gerarchia ecclesiastica. L'aggiunta permette di gettare lo sguardo su un momento della storia della comunità nel quale si attri buiva grande valore ai miracoli e ai doni carismatici. Il vero scopo del la risurrezione di Gesù consiste nella proclamazione d eli' evangelo in tutto il mondo. E ciò avviene proprio ad opera dei discepoli riassunti in servizio dal Risorto: lui solo può superare la loro incredulità. In que sto si manifestano la potenza, la signoria e la vittoria del Risorto. Il secondo tentativo di ristabilire la conclusione mancante
Ma tutto quanto era stato loro comandato, esse narrarono brevemente a quelli che erano con Pietro. In seguito anche Gesù stesso inviò per mezzo di loro dall'Oriente fino all'Occidente il santo e incorruttibile annuncio della salvezza eterna. Anche in questa seconda, brevissima conclusione è riferita, in un linguaggio completamente estraneo a Marco, l'esecuzione dell'ordine dell'angelo e soprattutto l'inizio della predicazione in tutto il mondo. La comunità ha visto evidentemente in questo fatto il vero e proprio adempimento di pasqua. Pietro ha qui una posizione particolarmente eminente quale capo della schiera dei discepoli (cf. I 6,7}. Termini co me «incorruttibile» ed «eterno» orientano già nella direzione del pensiero ellenistico. Quello che si è detto sopra a proposito del posto centrale della predicazione, vale anche per questa conclusione.
Retrospettiva
L'opera teologica di Marco
Quando Marco scrisse il suo vangelo, l'annuncio di Gesù Cristo aveva già raggiunto la maggior parte dei paesi intorno al Mediterraneo. La sua avanzata nel mondo, soprattutto grazie a Paolo, ma grazie anche a innumerevoli sconosciuti (ad es. quelli che avevano fondato l'impor tante comunità di Roma) non poteva più essere arrestata. Nel vasto mondo, come risulta specialmente da Ef 3 , 1 -9 e Col. 1 ,23 .26 s., senza dubbio opera di discepoli di Paolo, dall'inno di 1 Tim. 3 , 1 6 e dalla dos s ologia aggiunta più tardi alla fine della lettera ai Romani, il corso trionfale del Cristo glorificato attraverso il mondo delle nazioni venne interpretato come l'autentica rivelazione del mistero di Dio nascosto dall'eternità (v. a 4, 1 2; r 6, r 5). Ma il problema del significato della vita e della morte di Gesù non era ancora chiarito affatto. 1 . Si profilavano tre soluzioni principali. Le comunità giudeocristia ne erano interessate soprattutto alle parole di Gesù che davano loro un'indicazione etica e allo stesso tempo un insegnamento di carattere apocalittico sull'attesa degli ultimi giorni con la parusia del Figlio del l'uomo per il giudizio (così la fonte dei discorsi, cf. introduzione, I ) . Ma bastava limitarsi ad aspettare il Figlio dell'uomo e il suo giudizio ? Gesù era presente solo nel suo ammaestramento etico ? La sua funzio ne prima della parusia era quella di un maestro di sapienza ? Ma allora, in fondo, non sarebbe lui a essere essenziale, bensì la sua dottrina. Già Q andava chiaramente oltre · perché in essa si guardò indietro espressa mente al Gesù terreno e lo si identificò col Figlio dell'uomo. Forse fu anche presa posizione contro tendenze nazionalistiche rivoluzionarie del momento (cf. introduzione a Matteo, 2, e intr. a Mt. 4, 1 - 1 r ) , ma anche così non si era data risposta alla domanda di quale fosse il signi ficato di Gesù nel tempo fino alla parusia.
2. Già degli «uomini di Dio» dell'Antico Testamento si narravano miracoli straordinari (v. excursus a 4,3 5 -4 1 ); al tempo di Gesù c'erano
L'opera teologica di Marco
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esorcisti giudaici (v. a Mt. 1 2,27). Taumaturghi percorrevano la Siria, ma anche l'Asia Minore e la Grecia, meravigliando la folla ora con truc chi ora con vere guarigioni ottenute con la loro personalità e la loro reputazione. Poiché anche nelle comunità si continuarono ad avere gua rigioni «nel nome di Gesù», Gesù venne a essere associato a Salomo ne, nel cui nome furono cacciati demoni, e a simili taumaturghi. In un ambiente fortemente ellenistico ciò si mischiò con l'idea di un Signore che operava dal cielo direttamente o per mezzo del suo Spirito (v. a 1 6, 1 7- 1 9). La tradizione che sta dietro i vangeli di Marco e di Giovan ni sembra tradire ancora che in alcuni gruppi questo fosse l'aspetto centrale del messaggio. In questo caso la morte di Gesù andava certa mente intesa come una fine tragica dovuta alla follia degli uomini. 3·
Nelle comunità sorte dalla predicazione di Paolo, la croce e la ri surrezione di Gesù costituivano il centro della confessione di fede ( 1 Cor. I 5 , 3 - 5 , già prepaolina). Per Paolo era così un punto assolutamen te fermo l'importanza del Gesù terreno giustiziato sulla croce, ma proprio per questa morte infame egli era diventato un persecutore del la comunità. Ma proprio perché per lui lo scandalo di questa esecu zione era così centrale (1 Cor. 1 ,2 3 ; 2,2), erano meno importanti i par ticolari dell 'opera di Gesù come vennero più tardi raccolti nei vangeli e col tempo per coloro che non avevano percorso il medesimo cammi no di Paolo, persino la croce di Gesù scadette allo stato di mero sim bolo dell'atto salvifico di Dio. La Palestina era molto lontana, sperdu ta in qualche angolo ai confini dell'impero romano, abitata da gente strana con usi strani. La religiosità entusiastica dei corinti fu certamen te influenzata dall'entusiasmo dei primi cristiani e dei loro profeti, ma aveva un fondamento tutto diverso. I miracoli del Gesù terreno non hanno più alcun ruolo e spariscono sempre più dalla tradizione, so prattutto nella gnosi. Il Figlio dell'uomo che viene oscurato dal Signo re celeste già presente che nello Spirito dona la nuova vita ( escatologi ca). Allora nessun peccato poteva più toccare l'essenza intima dell'uo mo, divina ed eterna, già data mediante il sacramento. I doni spirituali, glossolalia e miracoli, rendono testimonianza di questa nuova e divina vita. Nel periodo successivo, la risurrezione sembra esser stata inter pretata sempre di più come innalzamento alla dignità di Signore co smico, al quale sono fin d'ora sottoposte tutte le potestà e i principati. Tutto sembrava dunque già compiuto, il mondo intero, e anche la na-
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Retrospettiva
tura, sembrava già misteriosamente trasmutato dalla sua gloria che compenetrava ogni cosa, e la comunità si distingueva dalle altre crea ture e dalle cose solo per conoscenza esplicita di questa redenzione già avvenuta, conoscenza che quelle non avevano. Anche se Paolo ave va già insegnato l'eternità del Figlio di Dio e la sua esistenza presso Dio prima dell'incarnazione, ora la vita di Gesù non significava altro che l'irruzione di una vita celeste e di una forza celeste sulla terra. Ge sù di N azaret era scomparso dietro il Cristo celeste e, a dire il vero, non si vedeva bene perché non si sarebbe potuto scegliere anche il no me di qualche dio o figlio di dio greco o romano come simbolo del l'irruzione della grazia divina, della signoria divina nel mondo e del l'unità del divino con l'essenza intima dell'uomo risuscitato. È questa la conseguenza che la gnosi del n secolo d.C. ha effettivamente tratto. All'epoca di Marco Paolo aveva probabilmente già sofferto il martirio, e i suoi discepoli richiamavano la comunità a tornare alla sua procla mazione di colui che era stato crocifisso il quale permise alla giustizia di Dio di manifestarsi e con essa aprì la via alla libertà dalla legge e dal peccato, ma contemporaneamente mette l'uomo sulla via dell'ubbi dienza della fede. Essi accentuano ora il compito della predicazione universale nella quale il Signore innalzato voleva penetrare il mondo non come una misteriosa forza sovrannaturale, bensì come maestro dei discepoli che gli rendevano testimonianza percorrendo le strade dell'impero romano e anche, spesso, giacendo in prigione. Ma il riferi mento alla croce e alla risurrezione fu sufficiente per questo ritorno ? Più ci si allontanava stori�amente da quegli eventi più diventava gran de il pericolo di intendere la croce soltanto come cifra della grazia di Dio, per giungere, attraverso la fine del legalismo, alla libertà della giu stificazione e dell'ubbidienza che ne deriva e di intendere la risurre zione unicamente come cifra della vita eterna promessa da Dio. Ma l'esito della sua vita ricevette il suo inconfondibile aspetto solo perché aveva a monte tutta l'opera di Gesù. Perciò fu necessario scrivere il primo vangelo. Marco. Che in una situazione simile Marco per primo abbia scritto un vangelo, creando così un genere letterario completamente nuovo, costituisce un'impresa teologica di prim'ordine. C'erano, è vero, rac colte di parole di filosofi ellenistici itineranti o di rabbi giudaici, in frammezzate con alcune notizie o aneddoti biografici. Qualcosa di a-
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nalogo era già stato fatto con la fonte dei discorsi (Q) anche per le pa role di Gesù. Per Marco, però, vale il contrario: la storia di Gesù, che per lui occupa il posto centrale, è solo occasionalmente interrotta con alcuni detti che spesso servono a interpretare la narrazione stessa. C'erano forse già anche antologie di racconti di miracoli e una raccol ta analoga di miracoli di Gesù è esistita senza dubbio anche prima di Marco (cf. introduzione, J, inizio). Proprio questa ha però procurato a Marco le maggiori difficoltà; infatti l'ampiezza con cui egli narra la storia della passione e il modo in cui inserisce nel suo materiale, fin dal principio, riferimenti ad essa, rivelano che egli aveva in mente qual cosa di completamente diverso da una compilazione di avvenimenti stupefacenti. Certamente per lui resta importante che la gloria di Dio si manifesti anche nei miracoli di Gesù; ma egli ha anche ascoltato la critica di Gesù alla richiesta di segni. Soltanto chi segue Gesù per la via della croce riconoscerà anche qualcosa della potenza miracolosa di Dio, che egli tuttavia non pretenderà mai, ma soltanto accetterà come dono. Oltre alle raccolte di parole e di storie di miracoli di Gesù c'era no anche inni e confessioni di fede che riassumevano i dati decisivi dell'opera di Gesù. In questi, però, all'infuori della morte, general mente ma non sempre menzionata, occasionalmente anche della sua nascita, molto raramente del battesimo di Gesù, erano ricordati sol tanto avvenimenti esterni alla sua vita: la discesa dal cielo, l'elevazione a Dio e altre cose dello stesso genere; non avrebbe avuto senso svilup pare tali elementi oltre la pura menzione degli avvenimenti stessi. Marco sapeva che cosa era presente, come spunto iniziale, già nella formulazione di queste brevi confessioni e inni. Da un lato era neces sario dire che nell 'intera attività di Gesù, compresa la sua morte, era veramente Dio stesso che incontrava l'uomo; ma, dall'altro, che la pre senza di Dio non poteva mai essere letta direttamente, ad es., da mira coli straordinari. Perché una concentrazione sul Figlio dell'uomo che viene, un'accentuazione unilaterale dei miracoli o una teologia che mette al centro soltanto la figura del Signore celeste facevano correre il rischio di lasciar cadere in oblio la fi ne vergognosa di Gesù: per tutti questi perché Marco creò il genere letterario completamente nuovo del «vangelo», per il quale ci sono timidi precedenti solo nell'Antico Testamento e forse nella descrizione p remarciana della passione (cf. introduzione, 6). Ciò diventa visibile nella struttura del libro:
I. 1 , 1 - 1 3 11. 1 , 1 4-3,6
111. 3,7-6,6a
IV.
v.
L'inizio: il tempo della salvezza è compiuto ( 1 -8) e prologo in cielo (9-I 3) L'autorità di Gesù e la cecità dei farisei Pericope di transizione: sommario b) I, 1 6-2o La chiamata dei discepoli A. 1 ,2I-4 5 Autorità su demoni e malattia B. 2, I-3,5 Autorità su peccato e legge c ) 3,6 I farisei rifiutano Gesù a) I, I4 s.
L'opera di Gesù in parabole e segni e la cecità del mondo Pericope di transizione: sommario b) 3 , 1 3 -I9 Scelta dei dodici discepoli A. 3 ,20-4,34 Gesù parla in parabole B. 4,3 5 - 5 ,43 I miracoli di Gesù c ) 6, I-6a I concittadini rifiutano Gesù a) 3 ,7-I2
6,6b-8,2 I
L'opera di Gesù fino ai pagani e la cecità dei discepoli Pericope di transizione: s"ommario b) 6,7- I 3 Missione dei discepoli A. 6,14-3 I Morte del Battista, ritorno dei discepoli B. 6,3 2- 56 e 8, I-I3 L'autorità miracolosa di Gesù e la richie sta di segni da parte degli uomini C. 7 La promessa per le nazioni c) 8, I 4-2 1 I discepoli rifiutano Gesù a) 6,6b
8,22- 1 0,52 La rivelazione di Gesù in discorsi piani e la sequela dei disce poli a) 8,22-26 Pericope di transizione: apertura di occhi ciechi Betsaida
b) 8,27-32a La sofferenza del Figlio dell'uomo - Cesarea lippo
di Fi
c) 8,32b-9, 1 Malinteso dei discepoli e chiamata alla sequela
A. 9,2-8 La trasfigurazione - l'alto monte Elia e il Figlio d eli 'uomo sofferente B. 9,9- r 3 C. 9,I 4-29 La questione della fede La sofferenza del Figlio dell'uomo - Galilea (Cafar b) 9,30-32
c) 9,3 3 - 5 0
nao)
Malinteso dei discepoli e chiamata alla sequela A. r o, I - I 2 Il matrimonio - Giudea e Transgiordania B. 1 0, 1 3- I6 I bambini C. I0, 1 7-3 1 La ricchezza b) 1 0,32-34 La sofferenza del Figlio dell'uomo - il viaggio verso c)
Gerusalemme
10,3 5 -4 5 Malinteso dei discepoli e chiamata alla sequela I0,46- 5 2 Pericope di transizione: apertura di occhi ciechi e sequela - Gerico
L'opera teologica di Marco VI.
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I I , I - I 6,8 Passione e risurrezione del Figlio dell'uomo I I , I - I J , J 7 Scontro aperto e insegnamento ai discepoli circa la fine - Ge r 4, 1 - I 6,8
rusalemme
Passione di Gesù e risurrezione
Nell'introduzione ( I , I - 1 3) Marco descrive la dimensione in cui va inteso tutto quel che viene dopo, e precisamente in senso «orizzonta le», come adempimento escatologico delle profezie dell'Antico Testa mento, e in senso «verticale)), come irruzione del mondo celeste di Dio sulla terra. In tre movimenti, che cominciano sempre con una de scrizione sommaria dell'attività di Gesù e la chiamata o l'invio in mis sione dei discepoli e finiscono sempre con la reiezione di Gesù ( 1 , 1 43 ,6; 3,7-6,6a; 6,6b-8,26), P evangelista delinea quindi da un lato la rive lazione di Dio 1 . nelle opere potenti e nei dibattiti polemici di Gesù; 2. nei discorsi in parabole e nei miracoli che a questi erano collegati già nella tradizione; 3 . nella sua lotta contro il legalismo, nella svolta verso i pagani e nelle moltiplicazioni dei pani; dall'altro lato, la cecità 1 . dei farisei; 2. del popolo fino ai più intimi compaesani di Gesù; e fi nalmente 3· dei discepoli stessi. Tutto comincia così con l'appello au torevole di Gesù che rende gli uomini suoi discepoli e con la lotta contro un'interpretazione erronea dei miracoli nel senso di una vene razione del taumaturgo. Per questo i demoni e i miracolati sono ob bligati a tacere, e per questo Gesù parla in parabole; per questo l' ac cento viene messo soprattutto sull'insegnamento di Gesù e sul conse guente progressivo indurimento degli uomini che alla fine penetra persino dentro la cerchia dei discepoli . La storia della guarigione del cieco introdotta da una indicazione di luogo come ciascuna delle se zioni e delle sottosezioni seguenti fino a 10,46 (e 1 1 , 1 } conduce a quel che viene dopo: l'uomo non può vedere nel Gesù storico quel che ve ramente si sta compiendo; solo il miracolo del Dio vivente può aprire gli occhi a tale realtà. Così il centro del vangelo è caratterizzato dali' e pisodio di Cesarea di Filippo (8,27-9, 1 ). Certo Pietro non arriva con la sua confessione del Cristo fino al punto dov'erano giunti i demoni, che già da tempo avevano più correttamente chiamato Gesù Figlio di Dio; Gesù, però, parla per la prima volta apertamente, senza parabole, della sofferenza del Figlio d eli 'uomo e della sua risurrezione. La p a rola deve dunque diventare carne nel corpo del crocifisso, altrimenti non raggiunge il cuore dell'uomo. Ma la differenza infinita fra Dio e l'uomo appare qui per la prima volta in tutta la sua chiarezza: proprio
3I8
Retrospettiva
questo non viene compreso dai discepoli, sicché Gesù può soltanto chiamare tutti, di là della ristretta cerchia dei discepoli, perché lo se guano sulla via della croce, dove finalmente si può capire quel che Dio fa. Così la sequela, che aveva caratterizzato l'inizio della storia di Ge sù, compare ancora una volta all'inizio del cammino di Gesù da Cesa rea di Filippo a Gerusalemme. Di questa sequela si occupa la parte se guente (8,27- 1 0, 5 2) in cui il termine «seguire» è adoperato soltanto nel suo significato pregnante. Per tre volte all'annuncio della sofferen za del Figlio dell'uomo segue l'incomprensione dei discepoli e l'ap pello di Gesù a seguirlo, e di nuovo c'è alla fine il miracolo in cui Dio stesso apre gli occhi ciechi, grazie al quale un uomo «lo seguiva per il cammino» che, come era stato già detto ( I O,J 2), portava a Gerusalem me. Con 1 I, r cominciano i giorni trascorsi a Gerusalemme, nei quali si compie la sofferenza del Figlio dell'uomo (r I , I - I 6,8). Se i dibattiti polemici mostrano la crescente opposizione a Gesù e il discorso sulla parusia sottolinea la serietà della sequela nel periodo intermedio, Mar co mette in particolare rilievo i passi nei quali l'erompere dell' evange lo dal legalismo e dalla pietà giudaica, e la sua apertura verso i pagani, diventano visibili ( 1 r , r 7 s.; I 2,9; I J , I o; 1 4,9; I 5 ,3 8 s.). La sofferenza di Gesù è descritta con grande sobrietà, mentre la defezione degli uomi ni è messa in evidenza, ancora una volta fin nella cerchia più ristretta dei discepoli. Non sarà più il Gesù storico, ma solo il risorto, colui del quale l'angelo annuncia che non è più fra i morti, che, precedendoli in Galilea e chiamandoli a seguirlo, guiderà i discepoli a vedere veramen te e quindi alla missione ai gentili in Galilea, della quale si parlava già tn I J , I O. Così il vangelo di Marco è il resoconto dell'inaudito e incomprensi bile amore incarnato di Dio, che in Gesù cerca e trova l'uomo, supe rando ogni opposizione. Dato che ogni rivelazione diretta potrebbe condurre soltanto a una fede nel miracolo, come quella che hanno an che i demoni, Dio deve percorrere un cammino che porta all'occulta mento, anzi all'ignominia e all'abbassamento, alla morte, come appare chiaramente, con sobrietà impressionante, nel grido di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ?» e nell'affermazione che Gesù spirò con un grande urlo. La fede può esistere solo come sequela. Il segno che questo miracolo può veramente succedere, che la rivela zione di Dio raggiungerà il suo scopo, è costituito da un simpatizzan te estraneo al gruppo che seppellisce Gesù; da un pagano, che come
L'opera teologica di Marco
3 I9
ufficiale non può veramente aver sempre le mani pulite e che è persino incaricato d eli' esecuzione di innocenti; da un paio di donne, che si limitano ad aver paura e non hanno fiducia neppure nelle parole del l'angelo. Questi, ma soprattutto i discepoli, che Gesù precede in Ga lilea nonostante la loro più completa defezione, segnalano il miracolo della comunità che viene, che il Risorto stesso chiamerà all'esistenza e invierà nel mondo.
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Indice analitico a cura
di Gotthold Holzhey
Poiché nomi e concetti presenti nel testo biblico possono essere ricercati in dizionari biblici disponibili in gran numero, in questo indice analitico sono stati accolti unicamente quei lem mi che nel commento al testo sono stati trattati specificamente. I numeri rinviano quindi al l•esegesi delle pericopi corrispondenti. Per evitare ripetizioni e tuttavia offrire nel modo più completo possibile concetti tra loro intimamente legati da più relazioni, sono state inserite le opportune indicazioni con la freccia in avanti o indietro (-+ +-). I particolari excursus inseriti nelle singole esegesi sono contraddistinti dalla lettera E. adempimento (e promessa della ricompensa), 2,I 8. I 9; J,6 E; 9,4 1
agnello pasquale: Gesù, intr. a 1 4, 1 2- 1 6; intr. a 1 4,22-2 5 alleanza, nuova, intr. a 1 4,22-2 5 E; I 4,24 amore verso Dio e verso il prossimo, I 2,2 8 ss.; I 2,J I ; n,J J angelo, intr. a 1 , 1 2 s.; 1 , 1 3 ; 1 2,2 5 ; intr. a 1 6, I - 8 E J ; I 6, 5
apostolico, servizio [missionario], intr. a 6,7I J E ; 6,JO
ascensione di Gesù, 1 2 ,36; I J , I O . J 2; intr. a 1 6, 1 - 8 E I ; retrospettiva
1 4,62;
bambini, battesimo dei -+ battesimo battesimo, I ,7.8; I O, I 6. J 8 ·J9; 1 6, I 6 dei bambini, I o, I 6 e discesa dello Spirito, intr. a 1 ,9- 1 1 fede e, I o, I 6 d i Gesù ad opera d i Giovanni, 1 , 1 3 ; intr. a 1 ,9- 1 I
di Giovanni (+-),
1 ,4 · 5 ·7·8; I O,J 8;
intr. a
I I,
27- 3 3 ; I I 1JO
con lo Spirito santo, I ,7.8 bestemmia contro Dio e Gesù, intr. a
J ,2o
J 5 ; 3,29; 1 4,64; I 5 ,29
cecità [accecamento, ostinazione) (verso Dio e Gesù), 1 ,43; intr. a J , I -6; J,s .6; intr. a J , I J - I 9; intr. a 3 1 20-3 5 ; 3,2 1 ; 4, 1 2. I 3 ; intr. a 6, 1 -6a; 6, 1 7-29; intr. a 6,3 2-44; 6,44. 5 2; intr. a 6, 5 3 - 5 6; intr. a 7,3 1 -3 7; intr. a 8 , r I o; intr. a 8 , 1 I - I J ; 8 , 1 3; intr. a 8 , 1 4-2 1 ; 1 0, 49 . 5 0; 1 6,8; retrospettiva
cena, ultima [parole della], intr. a 6,3 2 -44; 6, 4 1 .44; 8,6 ss. 1 o; 10,39; intr. a 1 1 , 1 - 1 6,8; intr. a 1 41 1 2 - 1 6; intr. a 1 4, 1 2 - 1 6 E; 1 4, I 6; intr. a 1 4,22- 2 5 E ; 1 4,22.23 ss. 2 5 .26 Cesare -+ stato comandamento (-i), I 2,28 ss. di Dio, osservanza dei, I O, I 9. 2 1 comunione con Dio e con Gesù, 1 , 1 5 E; 3 , 1 4; 5 , )0 . 43; 9,43 -47; I O, I 5 .40; 1 3 ,27; intr. a I 4, 22-2 5 E; 14,24 . 2 5
comunità, intr. a 4, 1 3 -20; 4,2o; 7, I 7. 1 8 di Gesù (-+ popolo di Dio) 4, 3 2; 9,3 9 s.; 1 4,28; retrospettiva confessione di Dio e di Cristo, 5 , 3 3 ; 8 ,29; intr. a 1 3 , 1 -27 [ 5 - I 3 .24 -27); I J , I 2 ; intr. a 14, 1 - I6,8; 1 4,6o.6 I ; I 5 ,3 9; retrospettiva di Gesù, intr. a 1 4, 5 3 -72 di Pietro, intr. a 6,3 2-44 controversie (di Gesù), intr. a 2, 1 - 1 2; intr. a 2, 1 8-22; 8 , 1 1 ; intr. a 10, 1 - 1 2; intr. a I 2, I J 27; intr. a 1 2, I 8 -2 7; intr. a 1 2,28-34 conversione -+ ravvedimento creazione di Dio, 4,3 3 · 3 9; 7, 1 5; I o, l 2 Cristo, intr. a 9,4 1 croce [crocifissione] di Gesù (-+ morte di Ge sù), 1 ,34 E; 8,34; 9,9; I O,J9; I4,5 3 · 5 4 E; I 4,62; 1 5 , 1 ; intr. a 1 5 ,2ob-26; I 5 ,24; intr. a 1 5 ,27- 3 2 ; retrospettiva ponare la, 8,34; 9, I ; intr. a I 5 ,2ob-26 Davide, figlio di Davide,
10,47; n , I o ; I 2 ,J 5 ·
J7;
demoni, cacciata dei demoni,
I ,24.26; I ,J 4 E ;
3 24
Indice analitico
2 , 1 2 ; 3 ,24-26; intr . a 5 , 1 -20; 5 , 1 0; retrO spettiva demonio -+ Satana digiuno, intr. a 2 , 1 8-22; 2, 1 8 .20 Dio, azione di [in Gesù Cristo] (-+ rivelazio ne), 1 , 1 ; 1 , 1 E; intr. a 1 ,9- 1 1 ; 1 , 1o; intr. a 1 , 1 2 s.; intr. a 1 ,2 1 -2 8 ; 1 ,4 5 ; 2 , 5 .6.7.20; intr. a 4, 1 -9 E; 4,9; 5 ,2o; intr. a 6,30 s.; 8, 1 3 ; 9,4 8 ; 1 0, 1 2 .37 · 5 2 ; 1 4,2 1 .43 ·49; 1 5 , 1 8.20.2 5 . 26; 1 5 ,3 2 · 3 3 ; 1 5 ,3 9 E ; retrospettiva discepoli [discepolato], 9,3 6 . 3 7 cecità [incomprensione, poca fede] dei, 1 ,
intr. a 6,4 5 - 5 2; intr. a 7, 1 -2 3 ; 7, 1 7. 1 8 .2 3 ; intr. a 8 , 1 4-2 1 ; 8, I 8-2o; 9, 1 o; intr. a 9,3 3-37; 9,4 8; intr. a I0, 1 7-3 1 ; I 0, 3 2 ; 1 2,9; I 4, 1 9; intr. a 1 4,26-3 I ; I 4,27.29. 3 1 ; 1 5 , 1 5 . 24; I 6,7. 1 1 . 1 3 . 1 4; retrospettiva «dodici», intr. a 3 ,7- I 2; intr. a J , I J - 1 9; intr. a 6,7- 1 3 E; 6,3o; intr. a 1 4, 1 2- 1 6 dei farisei, intr. a 2,1 8-22 di Gesù, 1 ,2o; intr. a 3 , I 3 - 1 9; 3 , 1 8 s.; 6,2 .6; intr. a 8 ,3 3 - 37 E; 8,34; 9,42; 10,2 I .26. 3o. 32; I 4, 1 2 . 1 4; intr. a I 4, 1 7-2 1 ; retrospettiva di Giovanni (Battista) -+ Giovanni Batti sta, discepoli missione (attività missionaria) dei, 3 , 1 4; intr. a 6,7- I 3 E; 6,9; I 6,2o; retrospettiva dodici, i -+ discepoli, di Gesù 3 4 E ; 1 ,36.37; 6,44;
elezione, 1 0, 2 I ; I 3,27 Elia [attesa di], intr. a 1 , 1 -8; 1 ,2.4.6·7·8 . 1 5 ; 9, 4. 8 ; intr. a 9,9- I 3; 9, I I ss. Erode Antipa [erodiani], intr. a 3 , 1 -6; intr. a 6, I 4-29; 6, I 4; 1 2, 1 3
famigli a d i Gesù, intr. a 3 ,20-3 5 ; 3 ,3 3 ; 6,3 farisei, 1 ,2 1 -28 E; intr. a 2, 1 3 - I 7; intr . a 2,2 328; 2,27; intr. a 3 , 1 -6; 3 ,6 E; intr. a 7, I - 23; 8, I I; 1 0,2; 1 2, 1 3; intr. a 1 2, 1 8 -27; intr. a 1 2, 3 5 -40
discepoli dei +fede [problema delJa], intr. 4. 5 ; 1 , 1 3 ; intr. a 1 , 1 4 s.; 1 , 1 5 E; 1 ,22.40; 2, 5 ; 3, 27; 4, 1 3 .24. 29 . 3 9 ; 5 ,34; 5 ,3 6.43 ; 5 ,43 E; 6,5 s. 3 7·49· 52; 7,2 3 ; Ìntr. a 7,24-30; 7, 30; 8, I 1 . 1 3 . 1 8-20. 2 3 -2 5 ; Ì ntr. a 9, 1 4-29; 9, I 6.24.32.48; I O, I J . 1 5 . 5 2; I I ,23 s.; intr. a 1 1 ,27-3 3 ; 1 1 ,32; 1 2, 24 .27; I 3 ,20; I 4,9; I 5, J4; 1 6, I -8 E 2; 1 6,4 . 8 . 1 4 . I 5 . 1 6; retrospettiva in Gesù Cristo, I ,1 E; 4,40 s.; 1 2, 1 8; 1 S ,39 E
miracoli e
+-
Figlio dell uomo, intr. a 2,2 3 - 2 8 ; intr. a 8 , 1 1 - 1 3 ; intr. a 8,27-3 3 ; intr. a 8,27-33 E; 8, 3 1 .3 8 ; 9, 1 ; intr. a 9,9- 1 3 ; 9, 1 2. 1 3 ; intr. a 1 0,3 5 -4 5 ; intr. a 1 3 , 1 - 2 7 ( 5 - 1 3 . 24-27] ; 1 3, '
14.26. 27; 14,62
Gesù, intr. a 2, I - I 2; intr. a
3 ,20-3 5 ; 1 3 ,27;
1 4,2 1 .42 · 5 1 . 5 2; 1 4,60.6 1 giudice del mondo, 1 ,7.8;
intr. a 8,3 3 - 3 7 E; q , r 8 . 2o sofferenza del +Figlio di Dio [figliolanza divina], I, I o. I 1 ; 8, 38; r 5 ,J 9 E
Gesù, intr.
2, 5; 1 , 1 E; intr. a 1 ,9- 1 x; I , I 1 ; I ,J 4 E; 3 , I I ; 5,7; 6,6; intr. a 1 2, 1 - 1 2; 1 2,J 7; intr. a 1 3 ,28 -37; 1 3 ,3 2; 1 4,6o.6 r ; 1 4,62; intr.
a 1 5 ,2- 1 5 ; 1 5 , 1 5 . 1 8; 1 5 ,3 9 E; retrospettiva fine, giudizio finale, attesa (-+ giudizio; -+ ri torno di Gesù), intr. a 1 ,9- 1 1 ; 1 , 1 5 E; 2, 1 9.20; 9, 1 .4.8; 10,3 8 ; intr. a I J , I -27 [ 1 -4 - 5 1 3 . 24-27] ; I J ,4.8 . 1 3 . 1 4.20.27; intr. a 1 3 ,283 7; I ) , 2 8 .29.3 1 . 3 7; I 4,3 5 ; retrospettiva fuga, 1 3 , 1 4 ss. dei discepoli di Gesù ( +-}, 1 4, 5 o; 1 5 ,4o; intr. a I 5 ,42-47; intr. a I 6, z - 8 E 2; 1 6,7 generazione, questa, intr. 1 9; 1 3,30 gioia, 2, 1 9 .2 1 . 22; 3 ,6 E
a 8,1 1 - I 3 ;
8,3 8 ; 9,
Giovanni Battista (-+ battesimo), intr. 8; 1 ,3 .4·6
a
1,1-
decapitazione, intr. a 6,1 4-29; 6,27 discepoli (movimento del Battista), 1 ,7.8; intr . a 2, 1 8 -22; intr. a 6, 1 4-29 Gesù e, 1 ,7. 8; intr. a 1 ,9- 1 1 ; 1 , 1 4; intr. a 6, 14-29; 6, 1 6 . 29
predicazione di (-+ ravvedimento), intr. a 1 , 1 -8 ; 1 , 1 4
ritorno di, intr. a 9,9- 1 3 ; 9, 1 2 . 1 3 Giuda Iscariota, traditore di Gesù, 3 , 1 9; i ntr . a 1 4, 1 0 s.; 1 4, 1 0. I I ; intr. a I 4, I 7-2 I ; I 4, 1 8 . 20.42; intr . a 1 4,43 - 5 2; 1 4,43 giudei [giudaismo] {-+ Israele), imr. a 7, 1 -23 comunità di Gesù e, intr. a I I ,27- 3 3 pagani e, intr. a 2, I 3- I 7; intr. a 6,32-44; intr. a 7,24-30; 7, I 5 - 2 7.29.30; 1 2,9. 1 2 giudizio {-+ fine, attesa della), intr. a 6,7- I 3 E; 6, 1 1
. 1 ,7.8; 1 , I 5 E; intr. a 8,3 3 -3 7 E; 8 , 3 8 ; 9, 1 ; intr. a 9,9- 1 3 ; 9,43 -47; intr. 1 1,
di Dio, 27-3 3
a
Indice analitico [giudizio] su Israele, intr. a
1 1 , 1 1- 26; 1 1 , 1 2 .
26
ultimo, intr. a 8,3 3 -3 7 E; 8,3 8 ; I4,3 5 ; 1 5 , 3 3 ; intr. a I 6, I - 8 E 2 sul tempio +giudizio, giudice universale � giudizio; � Fi glio dell'uomo; � ritorno di Gesù giusto, giustizia, 2 , I 7 della legge, intr. a 2, I J - I 7 grazia, 1 , 1 8 . 2o; intr. a 1 ,2 1 -28; 3,34; 7,30 di Dio, 2 , 1 4 ; 3 , 2 8 ; 4, 1 1.24.4 1 ; 7, 13 ; 1 o, I 6. 27
guarire, guarigione, intr. a
4,3 5 -4 I E;
intr. a
5 , I -20j 5 t 34
Gesù, intr. 4; intr. a 1 ,2 1 -28; 1 , 2 5 ; 1 ,3 4 E; 1, . p ; intr. a 2, 1 - 1 1; 2, 5 . 1 2; 5 ,30; intr. a 6, 5 3 5 6; intr. a 7 , 3 I -3 7; 8,21.16; retrospettiva incredulità [poca fede],
3,29; 4, I I ; 8 , 1 8 -2o;
9, 1 8 S.13 .24; I I ,J1j l S , l 8 .2o; 16, 1 5 . 1 6
dei discepoli di Gesù +di Israele +inferno, 9,43 -47·48 insegnamento di Gesù {� parola, di Gesù}, intr. a 1 ,2 1 -2 8; intr. a 2, I J - 1 7; 2, 1 3 ; intr. a .f, I -9; 4, 1 ; 6,2.6b. 34·44; intr. a 8,27-3 3 ; 8 , 32; 9, 1 . 3 1 ; 10, 1 ; intr. a 1 1 , 1 2-16; 1 1 , I 7 s.; I 2, 1 4 .3 5 ; retrospettiva ipocrisia, 7,6; I 2, I 5 Israele ( � giudei}, I o, I 7 e Gesù, I 2,5 incredulità, 4, I 2 ; I 2,9. I 2 raduno di tutti i popoli, I 3 ,27 giudizio su +maledizione contro +legge [legalità], 2,26; 3 ·3 ·4· 5 ; intr. a 7, 1 -1 3 ; 7,6. 2 3 ; intr. a 7,24-30; 1 1, I 8 adempimento della, 7,30 di Dio, 2,17; intr. a 7, 1 -.23 fine della, 1 1, I 8 Gesù e la legge, 2, I 2 .26.27; 3,6 E; intr. a 7,
8 E 3; 1 6,9
matrimonio, adulterio, divorzio, 8,2. s s.9; intr. a 10, 1 - 1 2; 1 0,2.8 S. I I . I 2 mensa, comunione di, intr. a 1 4,22-2 5 E ; 14, 22-24 s. tra giudei e pagani, 7, 1 5 messia [Cristo, unto], intr. a 1 ,9-1 1 ; intr. a 8,27-33 E ; 8,29.30 1 ,7.8. 1 2; intr. a 8,27-3 3 ; intr. 8,27-3 3 E; intr. a 9,9- 1 3 ; 10 .47; intr. 1 1 , 1 - I I ; I I , I . I Oj 1 2,3 5 · 37 Gesù, 1 ,34 E ; 1 4,6o.6 1 ; 1 5 ,3 - 5 ·26. 3 2
attesa del,
a a
mistero del (di Gesù), 1 ,34 E; intr. a 1 ,4ointr. a 3 ,7- 1 2 ; 5 ,2o; intr. a 5 ,2 1 -4 ) ; intr. a 7·3 1 - ) 7; 8,23-2 5; intr. a 8,17-3 3 ; 8,3o; 9, 9; intr. a 9, 1 4-29; 9,30 miracoli [di Gesù], intr. 4; 1 ,34 E; 2, 5 ; intr. a 4·3 5 -4 1 E ; 4,4 1 ; intr. a 5 , 1 -20. 1 4 S.26.4 3 ; 5 , 43 E; 6, 5 .6; intr. a 6,3 2-44; 6,44; intr. a 8 , I - I o; 8 , IO. I 8-2o; intr. a 8,22-26; retrospet tiva di Dio, 8,26 fede e, intr. a 4·3 5 -4 I E; 7, 36 scienze naturali e, intr. a 4,3 5 -4 1 E missione, precetto della missione (� disce poli, di Gesù}, intr. a 6,7- 1 3 E; 6,9; 1 6, I 5 fra i popoli [missione universale], I J , I O . 27; intr. a 1 4,3 -9; 1 6, 1 5 mistero (-i) di Dio (� rivelazione; -. regno di Dio; � potere di Gesù) 1 ,3 4 E; 4, 1 2 morte, 2,20; 5,2; 9,26.27; I 2,27 di Gesù ( � crocifissione), intr. 6; 2 ,2o; 8,3 3 ; 9,3 1; 1 0.4 5 ; intr. a 1 4,3-9; I 4,7.24; I.f , 5 J · 5 4 E ; 1 4,60.6 1 ; intr. a 1 5 ,33 - 39; 1 5 , 3 7·44 s.; retrospettiva datazione, intr. a 1 4, 1 .2- 1 6; 1 5 ,42 vittoria di Gesù (di Dio) sulla, S,.43; h43 45;
E; 1 2,27
opere, azioni di Dio � Dio, azione di; -+ ri velazione di Dio di Gesù, intr. a 6,30 s.; intr. a 8, 1 1 - 1 3 nel mondo intero (-+ vangelo), intr. a I , J1 39; I ,3 2-J 3 ; 3 ·7· 8
1 -2 3 ; 1 4,6 5 ; 1 4, 5 8
giustizia della +libertà dalla, 2,28 violazione della, 2,26 maledizione su Israele, 1 1 , I 4 s.2 1 .23 .26 Maria Maddalena, intr. a 14,3 -9; intr. a
325
pace, 5 ·34 Padre, Dio, 1 3 ,3 2 e Figlio (Gesù) (-+ figliolanza divina}, 1 6, 1 -
I 8; 1 3 ,32; 14,36 E; 1 5 ,39 E pagani, 4, 1 1; 1 1 , 1 7; 1 2,9
vangelo ai (-+ vangelo}, retrospettiva
1 0,
3 26
Indice analitico
[pagani] Gesù e i pagani, intr. 3 9; 1 5 , 3 9 E
a 7,24-30;
1 5,
giudei e � missione ai (-+ missione, fra i popoli), intr. a 5 , I -20; intr. a 7,24-30; 7,27 pane, 6,3 8 .4 I .44; 8 ,7 azzimo, I 4, I frazione del, da parte di Gesù, intr. a 1 4, 1 2 - 1 6 E; 1 4, 1 8; intr. a 1 4,2 2-25 Paolo, apostolo (rapporto con Mc.), 1,1 E; 2, 1 2 ; intr. a 6,7- 1 3 E ; intr. a 7, 1 -23; 7,6. 1 5 .
2 3 ; 9 t } • 3 5 ·J9; 1 0,34 ·3 8 ; I 1 , 1 8; 1 2, 1 8. 27.37; 1 3 ,8 . t o; intr. a 1 4,22-2 5 E; intr. a 1 6, 1 -8 E 1, 2 e 3; retrospettiva parabola (-e), discorso in parabola, intr. J, 7- 1 2; intr. a ) ,20-3 5 ; intr. a 4, 1 -9 E; 4 , 10 ss.; intr. a 1 2, I - I 2 allegoria e, intr. a 4, I -9 E
a
) ,23; intr. a 4, 1 -9 E ; intr. a 4, 1 3 intr. a 1 3 ,2 8-37 di Gesù, interpretazione delle, 4, 1 0 ss.; intr. a 4, 1 J -2o; 4, 1 3 ; intr. a 4,2 1 -2 5 ; 4t 3 2; intr. a 4,3 3 s. parola (-e), intr. a 4, I 3 -10; 4, 1 4 ss.; 9,6.7 di Dio, 4,14 . 3 3 di Gesù (-+ insegnamento di Gesù), intr. J j 2,2; 4,3 3 ; 5 ,30; I 3 ,3 1 ; retrospettiva pasqua, cena pasquale, 1 4, 1 ; intr. a 1 4, I Z- 1 6; intr. a 1 4, 1 2 - 1 6 E; I 4,26 racconti di, storia della (-+ risurrezione), intr. a 9,1-8; intr. a t 6, r -8 E 1; I 6,9. 1 4 passione [storia della] di Gesù ( � sofferenza di Gesù), intr. a 3 .4; 1 0,3 3; intr. a 1 t , I - 1 6, 8; I I , I I . I 7 s.; intr. a 1 1, 1 - 1 2; intr. a I • h3 9 ; intr. a 1 4,26-3 1 ; 1 4, 5 1 · 5 1; 1 4,60.6 1 ; 1 5 , 3 9 E; retrospettiva paura, 4,4 1 ; 5 , 3 3 ; 1 6,6. 8 peccati (peccatori), intr. a 2,I J - I 7; 1, 1 4. 1 5 .
di Gesù, 20; 1 2, 1 ;
I 7.20
impeccabilità di Gesù, 1 o, I 8 remissione, I,4·7·8 ; intr. a 2, 1 - 1 2;
2,5 .6·7·
9· I 2 . 1 5 . I 7.20
vittoria di Gesù sui, 1, 1 2 persecuzioni (della comunità), ro,3o; 1 3 t 3 7 Pietro, intr. 6 ; 3 , 1 6; intr. a 6,7- 1 3 E ; intr. a 8,27 - 3 3 ; 1 4,37; Ì ntr. a I 5 ,2- 1 5; intr. a t 6, I 8 E 2; r 6,7.2 1 ; retrospettiva rinnegamento di Gesù, intr. a 14,16-3 t ; I 4, 29; intr. a 1 4, 5 3 -72; 1 4, 5 3 · 54; 1 4,66-72 popolo di Dio, nuovo, 3 , 1 4; I 4, 5 8
potere di Gesù, intr. a t ,1 1 -1 8 ; 1 , 22.2 5 .27.19; 1 ,34 E ; 1 ,40.4 I ; intr. a 2, 1 - 1 1; 2, 1 4; 3 , 2 . 1 4; intr. a 4t3 5 -4 I E; intr. a 5 , I -20; 5 · 1 3 .20; 6, 7. 1 1 .44; intr. a 6,4 5 - 5 2; 6,46; 8 , I o; 9, I 5 .2o; intr. a I I , 1 2- 26; I 1 , 23; intr. a J I ,17- 3 3 predicazione (di Gesù) -+ vangelo preghiera, 9,19; intr. a I I , 1 1 -26; I 1 , 1 7 s.23 . 1 5 ; intr. a l 1 ,27-3 3 ; intr. a 14,3 2-41 di Gesù, 1 ,3 5 ; 6,46; intr. a 1 4,3 2-41 prossimo, amore del -+ amore pubblicani, 2, I 4. 1 5 Gesù e i, 1, 1 7 peccati e , intr. a 2, 1 3- 1 7 ravvedimento, appello al ravvedimento [con versione], 1 ,4 · 5 ·7·8; intr. a 1 , 1 4 s.; 1 , 1 5 E; 2, 1 7; intr. a 6,7- 1 3 E; 1 3 ,27 in Giovanni Battista, intr. a I , t -8 ; 1 ,4; 6, 1 6 di Israele, 1 1,9. I 2 re [regno] Gesù, I 5 ,2·9· I 3 , 1 f; intr. a 1 s , t 61oa; I 5 , 1 7.10.3 2; 1 6,20
regno di Dio [signoria di Dio], 1 , 1 5 E; intr. a 4, 1 -9 E; 4,9; intr. a 4, 1 3 -2 0; 4, 1 2 .24.26. 30.3 1; intr. a 8,3 3 -3 7 E; intr. a I O, I J - t 6; I O , I 5 ; 1 1,34; 1 4,5 8; 1 4,61
imminenza, compimento del,
1 , 1 5 E; 4,29.
J1j 9, 1 ; 1 0,4 5 ; I Z,34
venuta in e con Gesù Cristo, 1 , 1 5 E; 4,32; Io, I 5 . 1 6; I 3, 17; intr. a 1 4,11 - 2 5 E ricchezza [proprietà], 8,36; 1 0,1 1 . 14 rifiuto di Gesù, intr. a 6, r -6a; 8,J I .J 3 ; 9,3 1 ; 1 5 , I 3 · I 5 .14; retrospettiva risurrezione dei morti, 4,3 5. -4 1 E; S ,3 9·4 3; 5 ,43 E; 9,9.26.27; intr. a 1 2, 1 8 -27; 1 2, 1 8. 17; intr. a t 6, I - 8 E 3 ; 1 6,6 di Gesù (-+ racconti di pasqua}, intr. 6; 8 ,3 3 ; 9·3 ·3 I i 1 2, 1 8; I 4, 1 . 8 s.18 ; intr. a t 6, t 8 E 1 ; 1 6,4. I 5 ; retrospettiva risurrezione, segni della, intr. a 6,4 5 - 5 1 ; intr. a 9,2-8; intr. a 1 6, 1 - 8 E; t 6,4 ·7· 8 ·9· 1 4 risveglio dei morti -+ risurrezione ritorno di Gesù ( -+ fine, attesa della}, i ntr. a 8, 3 3 - 3 7 E; 1 2 ,36; intr. a I J , I -27 [ 1 - 4] ; 1 3 ,29. 37; 1 4,61; 1 5 , 1 8.2o; intr. a t 6, I - 8 E 1 rivelazione di Dio (-+ Dio, azione di), J , I J ; 4, 1 1; intr. a 6, t -6a; 6, 1 7-3 4 · 44; intr. a 7, 1 23 ; 7,24 . 36; 8,3 t ; 9, 1 0 . 3 I ; 9,36.37; I O, I . I 8 ; 1 3 ,23; 1 4,49; 1 6, 1 4
i n Gesù Cristo,
I ,22; 3, 1 2; 9,8; 1 0,3 2 ; 1 2, 3 5 ; 1 3 t3 I ; 1 4,72; 1 5 t39 E ; retrospettiva
3 27
Indice analitico sabato, precetti del, santificazione del, intr. a 2,2 3 -28; intr. a 3 , 1 -6; 3,6 E posizione di Gesù riguardo al, 2,2 8 ; 3 ,6 E sadducei, 1 ,2 I - 28 E; intr. a 1 2, 1 8 -27; 1 2, 1 8 salvezza [tempo della salvezza] (di Dio), I ,4. 5·1 5; intr. a 2 , 1 8-2 2; 2,2o; S ,J4; 1 0,27 in Gesù Cristo, I , I E; 3 ,34; I 4,5 8 Satana [demonio], I , I ) ; 3 ,22.24-26; intr. a s ,
intr. a 1 5 ,2obretrospettiva sommo sacerdote, sacerdote: avversario di Gesù, 8,3 1 ; intr. a I 5 ,2- 1 5 ; I 5 , 1 1 spirito [possesso dello spirito] (-+ battesi mo), 2 8 . J I .3 3 · 3 9 ·42·49 · 5 6.6o.6 I ; 26; 1 5 ,26; I 5 ,3 2 · 3 7;
1 ,7.8; 9,)9; I 4,J 8
di Dio, 1 , 1 2; I 4,3 8 santo, I ,7.8. 1 1 ; intr. a
3 ,20-3 5 ; 1 2,36; I J ,
I I ; I 4,38
1 -20
vittoria di Gesù su, intr. a 1 , 1 2 s.; 1 , 1 3 tcribi, I ,2 I -2 8 E; 2 ,6.7; 8,J I ; intr. a I 2,3 5 -40;
bestemmia contro lo + stato [governo, Cesare], 1 2 , I 7
I 2,3 8
Gesù e, intr. a 2, I - 1 2 ; intr. a 2, I 3 - I 7; intr. a 3,20-3 5 segni, intr. a 1 1 , 1 2-26; 1 I ,26; intr. a I I ,27-3 3 ; intr. a I 3 ,28-3 7; 1 3 ,29 di Gesù, I I , I 5 richiesta di, 8 , 1 I · del tempo finale -+ fine, attesa della sequela, I , I 8 . 2o; 2 , I 7; 6,6; 9 ,36.37; 1 3 ,3 7; 1 4, s8
di Gesù,
1 , 1 5 E ; intr. a 1 , 1 6-2o; 1 , 1 6 . I 9. 3 1 ; 1 ,34 E; intr. a 2 , 1 3 - I 7; 2, I 4. 1 5 ; 3 , I 4 . 2 3 ; 4,4 1 ; 5 , 1 9 s.; 6, 1 ; intr. a 8,33 -37 E ; 8,33 ·34·
3 5 ; 9, 1 ; intr. a 9, I 4-29; 9,29; intr. a 9,3 3 3 7; intr. a 9,3 8 -40; 9,4 8 ; intr. a I O, I J - 1 6; 1 0, 1 8.2 I . 27·30.3 I j intr. a 1 0,3 2-34; I 0,39· 40.4 5 ; intr. a I o,46- 5 2; I o, p ; 1 4,J I . 5 J . 5 4;
Ìntr. a I 5 ,2ob-26; I 5,20.2 I ; I 6,7.8; retro spettiva servire, servizio (per Gesù), I ,3 I ; 6,7; intr. a 9,3 3-37; 9,3 5; intr. a I O,J 5 -4 5 ; I 6, I 5 .20 servo di Dio, intr. a I ,9- I I; intr. a 8,3 3 -3 7 E; intr. a 1 0,3 5 -4 5 ; 1 4,65 Signore Gesù (signoria di G.), 9,39; I I ,3 ; intr. a 1 2,J 5 -40; 1 2, 3 6; I 4,24.62; retrospettiva signoria di Dio -+ regno di Dio silenzi di Gesù, I 5 ,3 - 5 ; intr. a I 5 , I 6-2oa; 20a silenzio, precetto del, da parte di Gesù, I ,34 E; intr. a I ,40-4 5 ; 1 ,4 5 ; 7,36 sinedrio, sommi sacerdoti, 1 ,2 I -28 E; 8,3 1 ; I5,I
sofferenza [martirio] , I J ,8 .27; 1 4,3 1 annuncio della, intr. a 8,27-3 3 ; 9,3 1 del Figlio dell'uomo, intr. a 9,9- 1 3 ;
33
cortina del, intr. a I 5 , 3 3 - 3 9 distruzione del, intr. a I 3, 1 -27 [ I -4] giudizio sul, I I , I 5 .2 I ; intr. a 1 1 ,2 7-3 3 ; I 5,3 8
parole di Gesù sul, I 4,5 8; I 4,6 5 ; I s , 29- 3 2 purificazione ad opera di Gesù, intr. a 1 I , 1 2-26; I I ,26; intr. a I I ,27- 3 3 tempo, compimento del, I , I s ; l , I s E tentazione, 8 , I I ; I o, I 8 d i Gesù, intr. a I , I 2 s. testimoni, falsi, 1 4, 5 8; I 4, 5 6 ubbidienza, 3 ,6 E a Dio e Gesù Cristo, intr. a 7, I -2 3 ;
9, 4 3 -
47; I 0,1 9.20.2 I . 27; 1 3 , 1 2; I4,5 8 di Gesù, 1 4.4 2.43
udire, 4,3·9. I 2 .20.23 ss.; 9,6.7 vedere e, 4, 1 2
vangelo [buona novella], intr. 6; I , I E; I ,4·7· 8; intr. a I , I 4 s.; I , I 5 E; 5 , I 9; 8,3 5 ; 9, 8 ; re trospettiva predicazione universale del, I , I E; 1 ,4; intr. a I, 14 S.j intr. a 1 ,2 I - 2 8 ; intr. a 4,2 1 -2 5; intr. a 7,24-30; 7,3 I j I I , I 7; 1 2,9; intr. a I J , I -27 ( 5 - I 3 .24-27] ; I ) , I 0 . 3 7; 1 6, I 9.20.2 I ; retro spettiva veglia, vegliare, intr. a I 3 ,28-3 7; I 3 ,3 3 · 3 5 · 3 7; I 4,34·3 8
9, 1 2 .
I J; 1 3 ,3 7; I 4,2 I
di Gesù ( -+ passione), intr.
tempio, vecchio e nuovo, I I , I 5 ; I 4t4 8; I 5 ,3 8 aperto a tutti i popoli, 1 1 ,26; intr. a I I ,27-
6; intr. a 8,3 3 3 7 E ; 8,J I ; 9, 1 . 1 9.48; I o, r . 1 2; intr. a I O,J23 4; 1 0,32; intr. a 1 0,3 5 -•1-5 ; 1 0,39 · 40·4 5 ; 1 1 , 1 1 ; 1 2, 1 2; I 3 ,3 1 ; intr. a 1 4,3 -9; I 4,2 5 .
vita, 8,3 5 ; I 6, I -8 E 3 eterna, I O, I 7; I 8 ,2 1 .30.3 I volontà di Dio, fare la, 3,3 5 ; 4, 1 2 ; 1 4,2 1 .49
zelota (-i),
3 , I 8 . 1 9; 1 2, I 4. I 7
r o,2- 5 . 1 2;