Marco. Vangelo di una notte vangelo per la vita. Commentario Marco 6,14-10,52 [2] 8810206606

"Comprendiamo a che cosa serviva questo testo nella comunità o nelle comunità che l'hanno visto nascere? Possi

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Marco. Vangelo di una notte vangelo per la vita. Commentario Marco 6,14-10,52 [2]
 8810206606

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BENOiT

STANDAERT

arco Vangelo di uno notte vangelo per lo vito

Commentario Mc 6,14-10,52

2

Titolo originale: Evangile selon Mare.

Commentaire, Deuxième partie, Mare

6,14 à

10,52

Traduzione dal francese: Romeo Fabbri L'edizione francese è pubblicata da J. Gabalda et C•, Éditeurs, Pendé (France), 2010

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

0

2011 Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna: www .dehoniane.it

EDB®

ISBN 978-88-10-20660-7

Stampa: ltaliatipolitografia, Ferrara 2011

L'ARGOMENTAZIONE. MARCO 6,14-1 0,52

In 6,14 Marco comincia una nuova parte che giungerà fino alla fine del ca­ pitolo 10. Rispetto al dossier su Gesù che ha costituito nei capitoli 1,14-6,13, ora egli vuole introdurre il suo lettore alla vera comprensione di chi sia Gesù e alle conseguenze pratiche che derivano da questa corretta comprensione dell'identità riconosciuta. Per Marco, si tratta delle due facce di una stessa percezione: cono­ scere bene Gesù è al tempo stesso accettare di seguirlo fino al termine del cammi­ no. Quando si è compreso pienamente chi sia Gesù con tutto il suo destino, non è più possibile sottrarsi all'attrazione che emana da lui e spinge a seguirlo. In una prima grande sezione, Marco ci conduce verso quel momento essenziale che è la confessione di Pietro, in 8,29, e a partire da 9,30 presenta lo stile di vita caratteri­ stico di tutti coloro che seguono Gesù, ma è al centro, da 8,27 a 9,13, che l'evange­ lista ci mostra l'articolazione di queste due dimensioni dell'unico mistero. Niente teoria senza pratica, niente conoscenza senza stile di vita conseguente, ma anche nessuna condotta diversa da quella che deriva dalla giusta comprensione dell'i­ dentità messianica di Gesù. Possiamo quindi distinguere tre sezioni in questa parte centrale: 6,3�,21: la cosiddetta «Sezione dei pani>>, dove domina la questione della giusta comprensione di chi sia Gesù; 8,27-9,13: la sezione centrale, nella quale si articolano l'aspetto teorico e l'a­ spetto pratico, cioè la conoscenza dell'identità di Gesù, poi l'accettazione di seguirlo; 9,30-10,45: la cosiddetta «sezione del cammino>>, dove, con piccole catechesi successive, si impara lo stile di vita al seguito del Maestro. Attorno a queste sezioni Marco ha disposto con arte quattro racconti, che as­ sicurano la transizione da una parte all'altra. l. In 6,14- 16 e 17-29 egli compie la transizione fra la prima parte del suo rac­ conto evangelico (la narratio propriamente detta) e la seconda, che si può chiama­ re, in base a un vocabolario retorico tradizionale, l'argomentazione (argumentatio, confirmatio, probatio, n (onç, KIX'tllOKEU� ) . Lo fa in un modo del tutto convenzio­ nale, perché l'analisi di 6,14-16 mostrerà che questi versetti costituiscono una vera propositio (np�K9EOLç, Éno:yyeHa), annunciando il tema di tutto ciò che segue, e lo studio di 6,17-29 confermerà che si tratta di una digressio convenzionale (digressus, egressio, excessus, excursus, no:p€Kj3o:oLç, OLÉ,;oooç), che pure annuncia indirettamen­ te il tema conseguente della necessaria sofferenza del protagonista. Per queste due unità, innestate l'una sull'altra, Marco formula già una prima volta ciò che articole­ rà, magistralrnente, nella sezione centrale, cioè il rapporto fra l'identità di Gesù e il suo destino di sofferenza. L'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

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2. In 8,22-26 Marco colloca la guarigione di un cieco. Ora Gesù ha appena trat­ tato i suoi discepoli da persone «che hanno occhi, ma non vedono». La guarigione, in due tempi, corrisponde al cammino che i discepoli dovranno compiere per acce­ dere pienamente sia alla giusta comprensione di chi è Gesù sia all'adeguata condot­ ta per seguirlo. La persona di Pietro illustrerà nei versetti seguenti un tale ricono­ scimento «in due tempi» (cf. 8,29.32 e 9,4-8). 3. In 9,14 -29 il racconto della guarigione del bambino epilettico costituisce una pausa dopo la sezione centrale. Dall'inizio alla fine di questo racconto, l'accento non cade più sulla rivelazione di chi sia Gesù, bensì sulle condizioni necessarie per poter compiere una tale guarigione: Gesù spiega che senza la fede e senza la pre­ ghiera non si può fare nulla. Il racconto ci prepara a entrare nella sezione pratica dove si tratta delle condizioni per seguire Gesù. 4. In 10,46-52 Marco colloca un ultimo racconto di guarigione: quello di Bar­ timeo, il cieco mendicante di Gerico. Questo breve racconto ricapitola bene i temi sviluppati in tutta la parte precedente e illustra magnificamente il giusto atteggia­ mento dell'uomo che confessa Gesù e «lo segue sul suo cammino», fino alla fine. L'episodio ci introduce direttamente all'ultima parte, che si svolge a Gerusalemme e comincia con un'analoga acclamazione di Gesù come «figlio di Davide». L'immagine schematica comprendente le osservazioni che abbiamo appena fatto corrisponde a questo disegno:

8,27-3)

Il

8,22-26 A 6,3().8,21

La ripetizione formale di 6,14-16 in 8,27-28, cioè le tre identificazioni sbagliate della persona di Gesù, costituisce una forte inclusione che inquadra tutta la prima sezione (ABA'). Osservando il complesso di tutta la parte fino a 10,52, si ritrova lo schema studiato sopra e già incontrato due volte in Marco: ABA' C e D:1

A: 6,14-16 B: 6,3 0--8,21 A': 8,27-28 C:

D:

8,29-9,13 9,3 0-10,45

1 Cf. sopra l'analisi di questo schema e le sue sette ricorrenze in Marco, pp. 207s e Composirion,

174-261.

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L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

6,14-1 6. La propositio: la questione dell'identità di Gesù

Con questa nuova apertura, lasciamo per un momento la scena nella qua­ le Gesù stava operando e insegnando. Non è, strettamente parlando, la prima volta: in 3,21 c'era brevemente un'apertura analoga, con lo stesso verbo, per farci scoprire il punto di vista della famiglia (KaL aKmlaav·m; ot nap' airrou Èl;ip.eov .. . «e i suoi, avendo sentito, partirono . . . » ) .2 Appena un mezzo versetto. Qui, il cambiamento è molto più esteso: per un'intera pagina (sedici versetti) si resterà al di fuori della zona in cui vive Gesù (6,14-29). C'è quindi, nello spazio del racconto, una cesura importante. E si effettuerà una profonda cesu�a anche nel tempo. Infatti, in tutto ciò che si racconta su Gesù si ricorda anch� la mor­ te violenta del precursore, Giovanni Battista: egli è stato decapitato. 'E questo episodio, già avvenuto rispetto al presente del racconto, sarà raccontato tale e quale: da 6,17 a 29 si ritorna indietro e si ascolta in flashback ciò che era stato appena abbozzato in 1,14, all'altro capo della parte di cui or ora abbiamo letto la conclusione (6,12-13). «Dopo che Giovanni fu consegnato>> (1 ,14) coincideva con l'inizio della predicazione di Gesù in Galilea. Il narratore torna su questo episo­ dio: l'inclusione è evidente. Così la fine del prologo e l'inizio della seconda parte del suo racconto si seguono. Nell'introduzione a questo racconto su Giovanni, il precursore ucciso, ci ven­ gono offerte tre opinioni su Gesù. In questo modo, l'evangelista pone la domanda centrale della parte che inizia: chi è Gesù? Questa domanda dominerà tutta la pri­ ma sezione (6,30-8,26) e troverà risposta solo al centro in 8,29 (la confessione di Pietro}, poi, con più autorità, in 9,7 (la voce dal cielo). Possiamo considerare questa triplice opinione la propositio formale della parte che segue. Essa è certamente pro­ blematica, perché invece di offrirei chiaramente l'identità di Gesù ci offre tre opi­ nioni sbagliate, ma considerato dal punto di vista dei lettori/destinatari questo para­ grafo scuote la loro attenzione, ricordando tutto ciò che in chiare lettere il prologo aveva comunicato loro e ciò che si suppone sappiamo grazie alla catechesi che han­ no ricevuto in precedenza.3 C'è quindi l'annuncio di una tematica precisa in questi tre versetti collocati in testa a tutta la parte che segue, per cui si può giustamente affermare che tali versetti, sul piano della disposizione retorica, corrispondono alla propositio!npoÉK9EaLç dei manuali dell'epoca.4 6,14: Kat �KouaEv ò f3aaLÀ.EÙç 'Hp�OT]ç, tf>aVEpÒv yà.p ÈyÉvET:o 'tO OVOIJ.Il aÙ'tou, Kat E:l..Eyov on 'IwavVT]c; ò j3aTT'tL(wv Èy�yEp'taL ÈK VEKpwv Kat OLà. 'tOU'to ÈvEpyou aLv at òuva�Hç Èv aù't>, gli altri: , Mt 14,1-2). Questo parallelo matteano ha potuto indurre certi copisti a leggere qui il singo­ lare piuttosto che il plurale. 354

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La prima identificazione costituisce l'errore più evidente: «"Giovanni il Bat­ tista è risorto dai morti; di qui i poteri miracolosi che si manifestano nella sua per­ sona"». Che Giovanni sia «risorto dai morti» - l'espressione ha qualcosa di scanda­ loso agli orecchi degli iniziati cristiani, perché questa affermazione verrà fatta per la prima volta solo riguardo a Gesù - è quanto il racconto che segue sulla morte crudele del Battista provvederà subito a negare nel prosieguo di queste opinioni, con un innegabile effetto ironico: alla fine si vedono i discepoli di Giovanni depor­ re i resti mortali del loro maestro in una tomba, senza alcuna prospettiva futura (cf. 6,29). Affermare che Gesù deve la sua forza a Giovanni significa avanzare una spiegazione francamente oscura: il prologo ci ha informati che Gesù agisce con la potenza dello Spirito Santo e lo stesso Giovanni ha parlato dì Gesù come di uno più forte (Laxupo·n=poc;;) , che battezzerà «con lo Spirito Santo» mentre lui, Giovanni, battezza solo «con acqua>> (1,7-8). Nella presentazione di Marco, e anche dei sinot­ tici in genere, Giovanni non ha fatto alcun miracolo (Mvat.LLç;) e questa immagine si ripercuote fin nel quarto vangelo: (cf. Gv 10,41). Per il lettore/destinatario, alla luce del prologo, questa prima opinione è chiaramente un notevole fraintendimento dell'identità di Gesù. Riducendo Gesù a un Joannes redivivus, ci si preclude il riconoscimento della spe­ cificità sia dell'uno che dell'altro e di colpo non ci si può più aprire alla pienezza del momento, al fatto annunciato da Gesù che «il tempo è compiuto>> (1 ,15). Si ritrova qui la strategia, notata a Nazaret, che consiste nel rendere l'incomparabile e l'unico assolutamente comparabile con ciò che si conosce, e addirittura, con un tour de for­ ce ancora più radicale, a ridurlo al già visto.

6,15: ,AHoL OÈ EÀ.Eyov OtL 'HÀ.Lac; Èat(v· aÀ.À.OL OÈ EÀ.Eyov OtL 1Tpo4>�tT)c; wc; dc;

tWV 1TpOij>T]tWV.

6,15: «Altri dicevano: "È Elia". E altri dicevano: "È un profeta, come uno degli al· tri profeti"».

v. 15: «Altri dicevano: "È Elia">>. Questa seconda opinione vede in Gesù l'E­ lia atteso e annunciato dall'ultimo libro profetico: Malachìa (cf. 3,1 .23). Ma per chi ricorda il messaggio del prologo di Marco, l'Elia annunciato è Giovanni Battista. È lui il precursore del Messia. L'errore è certamente meno grave del precedente, ma comunque svia dal vero riconoscimento di chi sia Gesù. Infatti, chi vede in Gesù l'Elia annunciato deve aspettare ancora un altro dopo di lui, il vero Messia, mentre il prologo ha insegnato che dopo Gesù non c'è più un altro: egli è il Profeta escato­ logico, l'Unto di Dio, il Figlio nel quale abita lo Spirito Santo. «E altri dicevano: "È un profeta, come uno degli altri profeti"». La terza opi­ nione si congiunge con una delle affermazioni fatte da Gesù stesso appena dieci versetti prima nel racconto dì Marco. Sì, Gesù è profeta, lo ha detto lui stesso, in modo velato, in una proverbiale sentenza: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (6,4). Ma dicendo «un profeta, come uno degli altri profeti>> si imbocca nuovamente la strada della comparazione e della riduzione dell'unico al medesimo. Ora, agli occhi di Marco, Gesù è realmente pro­ feta, ma non . È chiaramente , quello atteso per la fine, il profeta escatologico annunciato da Mosè in Dt 18,15.18. È il nuovo Mosè, il sal­ vatore atteso che condurrà il suo popolo alla fine dei tempi, come il primo Mosè lo aveva condotto fuori dalla casa della schiavitù dell'Egitto. Sia il prologo sia l'analisi L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

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più approfondita delle espressioni ridondanti in Mc 6,4, ma anche e soprattutto la grande parabola del capitolo 12 (vv. 5-6), affermano in coro che Gesù è l'ultimo dei profeti: con lui comincia la fine dei tempi. Considerandolo semplicemente profeta «come uno degli altri profeti», non si potrà mai rendersi conto di tutta l'urgenza di­ vina manifestata con la sua venuta e la sua predicazione. Si nota un decrescendo nella successione delle tre opinioni e l'ultima è quella che si avvicina di più alla verità. Così ogni lettore o destinatario è come guidato e incamminato verso il pieno riconoscimento dell'identità segreta di Gesù. Sul pia­ no catechistico questo non è privo di importanza: l'evangelista ci dice che la cono­ scenza di Gesù si sviluppa come un processo. Le tappe da percorrere ci allontanano da un fraintendimento totale e ci conducono verso un riconoscimento sempre più pieno. Era un principio scolastico di cui troviamo l'abbozzo retorico e didattico in Lattanzio: la conoscenza si trasmette in due tempi. Si tratta prima di «confutare l'errore» e poi di «esporre la verità». Marco ci prende per mano e ci guida in questo percorso. Nella crescita verso il vero, le parole diminuiscono e il silenzio che aderi­ sce e confessa aumenta sempre più. Le tre identificazioni sono certamente una costruzione di Marco,8 al servizio della sua catechesi cristologica. Il percorso seguito è altamente profetico. L'identi­ tà più profonda di Gesù come Cristo/Messia e Figlio di Dio è presentata secondo una tradizione che lo distingue anzitutto come profeta. In Marco si lasciano in gran parte nell'ombra altri punti di vista: quelli che lo considerano come re o sacerdote, addirittura saggio e dottore. 6,16: 'AKoooac; OÈ ò 'Hpa.À.�v 'lwavvou -rou J3a.m [,ovmc;. 21a.À�v 1wavvou -rou [3a.nttatou. 2�a.ì. nep[À.unoç yevoiJ.Evoç ò [3a.a LÀEÙç OLIÌ toùc:; OpKouç KIX.L toÙç !ÌVIX.KELj.LÉVOUç OÙK �9ÉÀ.TjOEV !Ì9E"tTJOIX.t a.Ùt�v · 6,23-26: «E le fece un giuramento: "Tutto ciò che mi chiederai, io te la darò, fosse anche la metà del mio regno". Ella uscì e disse a sua madre: "Che cosa chiederò?". Quella rispose: "La testa di Giovanni il Battista". Rientrando subito in fretta dal re, ella gli fece questa richiesta: "Voglio che subito tu mi dia su un vassoio la testa di Giovanni il Battista". ll re fu molto contristato, ma a causa dei suoi giuramenti e dei commensali non volle mancarle di parola». v. 23: «E le fece un giuramento: "Tutto ciò che mi chiederai, io te la darò, fosse anche la metà del mio regno">>. " Oj.i.VUIJ.L (), cf. 14,7l;per Pietro. [noÀÀ4], avverbiale, che manca in B ma è attestato in D, 8 e P45, è caratteristico dello stile di Marco e doveva proba­ bilmente trovarvisi. Questa seconda formulazione è interessante: l'espressione ricorda il libro di Ester, come del resto tutto il passo (cf. LXX: Est 5,3.6; 7,2). Questo genere di pro-

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messa riprende - in forma iperbolica - le formule di successione o di adozione.18 Ma Erode, formulando in questo modo la sua promessa, si espone enormemen­ te: parlando del suo regno che è disposto a dividere in due parti per darle la metà, consente di venire lui stesso - dato che re e regno si includono a vicenda - tagliato in due. In realtà, la spada taglierà, ma a rotolare sarà la testa di Giovanni. Così la violenza può insinuarsi e colpirlo nel legame protettivo che Erode intratteneva con il Battista (v. 20). v. 24: > (Le 3,19-20). L'esecu­ zione capitale non viene raccontata né al capitolo 3 né al capitolo 9, ma solo ricorL 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

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data in tre parole: «Giovanni, io l'ho decapitato . . . » ('lwavvrw Èyw CÌ1TEKE>. Una notevole attenzione del Maestro verso i suoi discepoli, com­ parabile allo sguardo d'amore di Gesù all'uomo ricco quando afferma: «Tutte que­ ste cose (ta.uta navta.) le ho fatte fin dalla mia giovinezza>>. «Gesù lo amò>>, dice l'evangelista (10,21). In entrambi i casi questa misura di tenerezza non avrà seguito nel racconto successivo. Marco è capace di raccontare tali «misure per nulla». Le sue aperture calorose - così tipiche sia dell'evangelista sia del suo Gesù - richiedo­ no, in un secondo tempo, di affrontare la prova della verità. «Infatti quelli che arrivavano e quelli che partivano erano talmente nume­ rosi che gli apostoli non avevano neppure il tempo di mangiare» (�oa.v yàp ot

ÈPXOj.lEVOL K!tL OL unayovtEç 1TOÀÀOL, K!tL oOOÈ $ayeiv EUKa.(pouv). EòKa.LpEiV, «avere l'occasione di>> (unico caso in Marco; cf. At 17 ,21 ; lCor 16,12), qui all'imper­ fetto, riflettendo la situazione di impasse che permane. Marco aggiunge questa frase esplicativa, come è solito inserirne nel suo racconto (con la particella di congiunzio­ ne yap ) . È un modo per dare più peso alla frase iniziale (amplificatio, oyKoç). Egli evoca al tempo stesso una situazione che abbiamo già incontrato più di una voltà e

2 Cf. «D rac::conto elementare•, pp. 175s.

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che può comportare un doppio riferimento: un ricordo .di ciò che era del tutto na­ turale e caratteristico in occasione della predicazione di Gesù (cf. 1 ,33; 2,2.15-16; 3,9.20; 4,1; 5,24; ecc.) e un'immagine speculare della situazione in cui si trova l'as­ semblea riunita di Marco quando il testo viene proclamato. «Neppure il tempo di mangiare>>. In sé, l'espressione dice che c'era un affollamento di persone provenien­ ti da ogni parte, ma si anticipa il verbo che diventerà un leitmotiv della sezione che segue: «mangiare» (cf. 3,20, ma anche 5,43). Il percorso della storia sembra essere ogni volta questo: dallo stadio in cui si dice di non poter mangiare allo stadio in cui si dice: «datele» o «date loro da mangiare» (cf. 5,43 e 6,37). Questo passaggio è pie­ no di forza suggestiva, perché nella notte iniziatica che cosa si farà se non passare dal digiuno (in attesa di mangiare) al momento in cui, insieme, si spezza il pane? Si ricordi la notte pasquale esemplare a Troade, descritta negli Atti, dove tutto termi­ na con la frazione del pane prima dell'alba (At 20,7-12). 6,32-33: Kaì. ani)À8ov Èv tQ 1TÀOLql ELç EP11!10V t01TOV Kat' i.ùlav. 33KaÌ. ELOOV aòtoùç imayovtaç K«Ì. Èn(yvwoav noHoì. K«Ì. ne(fl ànò naawv twv noÀewv ouvÉopa11ov ÈKEL K«Ì. npoi)À8ov autO"uç. 6,32-33: «Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Veden­ doli allontanarsi, molti capirono e da tutte le città corsero là a piedi e li precedet­ tero». v. 32: «Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte» (KaÌ. àni)À8ov Èv tQ nÀOLqJ etç EP11!10V t6nov Kat' l.Mav). Si esegue alla lettera ciò che

Gesù aveva proposto. Si va «verso un luogo deserto, in disparte». Le due espres­ sioni ritornano, ma in ordine inverso rispetto al versetto precedente. Marco lo fa varie volte: noÀÙ nÀ.i)8oc; . . . nÀ.i)8oc; noÀ.u (3,7.8; ecc.). Se ne vanno «nella barca». Questo dettaglio reintroduce uno strumento che è già servito a creare uno spazio intermedio quando la folla diventava troppo opprimente (cf. 3,10 e 4,1-2). Questo dettaglio, collocato qui nell'introduzione, mette in risalto questo oggetto che torne­ rà molto spesso lungo tutta la sezione, per poi scomparire definitivamente dal rac­ conto dopo l'arrivo a Betsaida in 8,22. Infine, questo dettaglio indica il luogo in cui si trova Gesù. Infatti in 6,6 egli lascia Nazaret e va a predicare «in giro» (KUKÀ.qJ), e nulla indica il luogo in cui poteva trovarsi quando, in 6,30, ritornano i suoi disce­ poli. Qui, grazie al motivo della barca, sappiamo che è vicino al mare, là dove tutto era cominciato e dove tutto non faceva che ricominciare, «a casa», a Cafarnao (cf. 1,16.21-22; 2,1-2; 3,20). Il fatto che Marco non avverta il bisogno di chiarire questo punto ci insegna due cose: conferma ancora una volta la discontinuità retorica fra 6,6-13 e 6,30-34; e, d'altra parte, ci mostra che, per Marco, Cafarnao era il luogo in cui Gesù aveva la sua dimora e dove tornava regolarmente. Questo non detto del testo è, indirettamente, un forte indizio per conservare questo tratto nell'immagine concreta del Gesù storico. v. 33: «Vedendoli allontanarsi, molti capirono e da tutte le città corsero là a pie­ di e li precedettero». Bell'esempio di stile in Marco: viene detto tutto in due riprese (cf. Neirynck, Duality) e tutto all'aoristo (etoov . . . K«Ì. Èn(yvwoav, ouvÉop«!lOV . . . K«Ì. npoi)À.8ov). Il tentativo di Gesù e dei suoi discepoli di sfuggire per un momento alla folla fallisce. Marco dice che la gente vide e comprese la manovra e a piedi, cioè «via terra», precisa Lagrange, arriva per prima al luogo previsto, «dettaglio interes­ sante conservato unicamente da Marco, perfettamente verosimile, soprattutto se il Marco 6,30-8,21: la •sezione dei pani•

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vento era contrario» (ancora Lagrange, 166). Marco nota che si viene «da tutte le città». Questo inseguimento di Gesù, partito da solo in disparte, ricorda 1,35s, con la differenza che qui i discepoli fanno parte del tentativo di appartarsi e che questa volta è la folla che va a cercarlo. Il «tutti ti cercano» di Simone in 1,37 resta immuta­ to, a questo punto del racconto. Ha solo acquistato maggiore importanza. Si ritrova questa forza centripeta che emana da Gesù: essa dominerà nel corso di tutta questa sezione. È certamente anche quella che, storicamente, è diventata predominante a partire da un certo momento della sua vita, e dalla quale dovette anche difendersi.l Anche in questo caso ci si può chiedere quali possibili riferimenti al contesto della sua comunità faccia la situazione qui evocata da Marco. Cercare Gesù (cf. Mc 1,35-36), sforzarsi di raggiungerlo o anche volere essere soli con lui, in disparte, e ricevere tutto ciò che egli può donare, non è forse il dinamismo spirituale che anima coloro che sono riuniti nella notte di veglia per celebrare la Pasqua del Signore, e ancor più particolarmente coloro che in quella notte saranno battezzati e partecipe­ ranno al banchetto eucaristico? La comparsa di una tale corrispondenza in questo momento del racconto è molto comprensibile: l'inizio - come la fine - di una sezione, così come l'inizio e la fine di tutto il racconto, hanno sempre dal punto di vista retorico la maggiore probabilità di contenere delle allusioni o interpellanze ai presunti destinatari. Ma questo non implica che questo momento del racconto sia privo di fondamento storico. Noi crediamo al contrario che, a un certo momento della sua attività nel nord del paese, Gesù sia andato da solo fra i monti, verso l'alta Galilea, accompa­ gnato unicamente da alcuni discepoli, per farvi come un secondo ritiro (cf. i qua­ ranta giorni all'inizio della sua vita pubblica, Mc 1,12). Fu un tempo di riflessione e di valutazione del passato, durante il quale egli dovette digerire un'esperienza deludente a causa del rifiuto incontrato sia presso le autorità religiose sia presso i membri della sua famiglia, un'esperienza anche ambigua, perché l'entusiasmo della folla mancava di un vero discernimento. Fu un tempo in cui poté ricollegarsi con il punto di partenza della sua missione. Il nostro passo e vari elementi della cosiddetta «sezione dei pani», come anche certi elementi della sezione centrale (8,27-9,13), conservano il ricordo di questo momento di ritiro e bilancio da parte del Gesù storico.4 Il fallimento di questo tentativo di sottrarsi alla folla è istruttivo sia per valutare l'originalità della cristologia di Marco sia per la nostra conoscenza del Gesù storico. In Marco, Gesù può intraprendere un'iniziativa che non riesce e, in questi casi, il narratore non incolperà per questo la folla. Al contrario, questo fallimento diventa, paradossalmente, una situazione di rivelazione. Gesù rive­ lerà le sue viscere di misericordia e tutta la sua statura di pastore escatologico. Più Gesù verrà presentato come uguale a Dio, più diventerà difficile continuare a raccontare simili fallimenti. Se Marco racconta queste sequenze, mentre la sua fede colloca Gesù risorto alla destra della Potenza (cf. 14,62), possiamo ragione­ volmente pensare che ci abbia conservato un ricordo reale, vissuto da qualche autentico testimone.

3 a. il riquadro «Il movimento centripeto e centrifugo della missione», pp. 149s.



92-100. 378

Si possono leggere pagine dedicate a questo momento nella vita di Gesù in L'espace Jésus,

L 'argomentazione. Marco 6, 14-- 10,52

6,34: Kaì. �EÀ.ahlv dOEv noA.ùv l>xA.ov K«Ì. ÉonÀ.«yx.v (o9T] Èn' a\rmU!;, on {Jaav Wç

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6,34: «Scendendo daDa baua, vide una grande foUa e ne ebbe compassione, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro a lungo». v. 34: «Scendendo dalla barca, vide una grande folla e ne ebbe compassione, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro a lungo». «Ed essi videro . . . ed egli vide>> (Ka.Ì. Eioov . . . K«Ì. ELOEv). Qui, sul piano narra­ tivo, si viene invitati a cambiare punto di vista: anzitutto si è visto, con la folla, Gesù e il suo gruppo andarsene e si è cominciato a seguirli dalla riva e anche a precederli. Poi Marco ci costringe a guardare le cose dal punto di vista di Gesù. Spetta al letto­ re riconoscersi anzitutto nel desiderio della folla, accettare poi di lasciarsi guardare da Gesù e infine raggiungerlo nel suo sguardo. Pur avendo preso l'iniziativa di partire e di andare in disparte, Gesù non con­ tinua a fuggire. Guarda e assume ciò che vede, «preso alle viscere>>. Si tratta di un grande verbo nei vangeli. Nei racconti il soggetto è sempre Gesù: Mc 1,41 (davanti al lebbroso) e 8,2 (Gesù dice: «Sono preso alle viscere»); Le 7,13 (davanti alla vedo­ va di Nain); Mt 9,36; 14,14; 15,32; 20,34 (davanti ai ciechi di Gerico). Anche in tre delle sue parabole Gesù racconta personalmente come uno possa essere «preso alle viscere>> (Mt 18,27, davanti all'uomo completamente indebitato; Le 10,33, il buon samaritano, e Le 15,20, il padre che vede da lontano il figlio prodigo che ritorna). Le due moltiplicazioni dei pani in Marco scaturiscono da questo punto vulnerabile toc­ cato in Gesù (Mc 6,34 e 8,2). Questo verbo unico («essere preso alle viscere>>) espri­ me tutta la missione di Gesù. Nelle Scritture questo verbo (Cnì, onÀ.«yx.v(CEo9at) viene usato quasi esclusivamente per Dio e rende il suo sentimento materno di compassione davanti a chi è vittima nella storia. Anche ciò che un uomo sente nel­ le sue viscere coincide con ciò che freme come pietà e misericordia nelle viscere di Dio.5 Il racconto evangelico testimonia che l'attributo divino della misericordia (rakhamim, J::J' Cnì) è entrato nella storia nella persona di Gesù. L'ascolto del testo o l'atto della sua lettura implica che spetta alla comunità dei credenti tradurlo in pratica e manifestarlo.6 «Perché erano come pecore che non hanno pastore».

s Cf. il commento di p. Jacques Dupont sulla beatitudine matteana: J. DuroNT, «Beati i misericordiosi», in Les Béatitudes, Gabalda, Paris 1973, III, 604-633. Ricordiamo il testo, citato a p. 616, del Testamento di Zabulon: «Abbiate una tenerezza misericordiosa verso ogni uomo affinché anche il Signore vi faccia misericordia nella sua tenerezza. Infatti, negli ultimi giorni, Dio invierà la sua tenerezza sulla terra e dove troverà sentimenti di misericordia, lì abiterà. Perché nella misura in cui un uomo ha pietà del suo prossimo, il Signore ne ha per lui» (8,1-3). L'invio della tenerezza di Dio sulla terra negli ultimi giorni è un tema originale che fa eco a molte affermazioni del NT. ' Ebrei, cristiani e musulmani, attingiamo tutti a un tesoro comune quando si tratta del Dio della misericordia. Cf. E. LÉVINAS, Du sacré au saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Paris 1977, 1 58 («Rahamim è la relazione con l'utero dell'altro nel quale avviene la gestazione. Rahamim è la stessa maternità. Dio è misericordioso, è Dio definito attraverso la maternità. Un elemento femminile è intenerito in fondo a questa misericordia. Questo elemento materno nella paternità divina è molto notevole . . . »). Cf. C. DE CHERGÉ, L 'invincible espérance, Paris 1997, 67-108 ( «Chrétiens et musulmans, pèlerins de la miséricorde», prima pubblicato in Lettre de Ligugé 1(1983)217, 26-50); B. STANDAERT, «La miséricorde», in La Sagesse comme art de vivre. Abécédaire de la vie spirituelle, Paris 2009, 252259 (tr. fr.).

Marco 6,3o-8,21: la •sezione dei pani•

379

«Come pecore che non hanno pastore»

L'espressione è fortemente biblica, con possibili allusioni alle tre parti della Tanakh (Torah, Profeti, Scritti). Il riferimento alla Torah è certamente di gran lun­ ga quello più importante, ma neanche il resto manca di pertinenza per la compren­ sione del passo di Marco. l. Nm 27,17. Mosè ha appreso che non potrà entrare nella terra che vede dall'alto del monte degli Abarim. Prega Dio: «Il SIGNORE, Dio degli spiriti che animano ogni carne, stabilisca su questa comunità un uomo che esca e entri alla sua testa, che li faccia uscire ed entrare, perché la comunità del SIGNORE non sia come un gregge senza pastore>>. Il SIGNORE rispose a Mosè: «Pren­ di Giosuè, figlio di Niìn, uomo nel quale abita lo Spirito (tÒV 'IT]oouv utòv NaUT] av9pwtrov oç EXEL lTVEUtJ.a Èv ÉautQ). Tu gli imporrai la mano» (Nm 27,16-18).

È nel momento in cui viene menzionato il successore di Mosè, colui che porta il nome di 'IT]oouç in greco, che le Scritture parlano per la prima volta di un «gregge senza pastore». Mediante questa allusione Marco ci riporta al prologo e a tutta la catechesi cristologica che il suo racconto presuppone: ecco, all'inizio della sezione, il successore di Mosè, «Un uomo nel quale abita lo Spirito», che guiderà il popo­ lo e sarà il suo pastore escatologico. La domanda sull'identità di Gesù riceve d'un tratto, indirettamente, una risposta. Le associazioni mosaiche ritorneranno conti­ nuamente nella sezione che segue, perché n si parlerà costantemente di «nutrire» il popolo «in un luogo deserto>>. 2. Oltre al libro dei Numeri, si può citare la letteratura profetica che costitui­ sce una sorta di primo commento sulle espressioni raccolte nei Numeri. I profeti annunciano la venuta di un pastore che come una figura escatologica e messianica si sostituirà ai capi e alle autorità esistenti, sia politiche che religiose. a. Ez 34,4 («Esse [le pecore] si sono disperse, per mancanza di pastore, per diventare preda di ogni bestia selvatica; esse si sono disperse>>), ma si potrebbe citare tutto il capitolo, con la sua conclusione messianica (34,23-31; cf. 37,24). O ancora Zc 10,2-12 (>. Il verbo principale è all'aoristo: il racconto riprende il suo ritmo, con una certa distanza. Si assiste allo svolgimento dell'azione miracolo­ sa. La suspense resta. L'ordine dato riguarda i discepoli che servono da inter­ mediari fra Gesù e la folla; fino alla fine, essi saranno coinvolti continuamente nell'azione. Così si compie, nonostante tutto, il «date loro voi stessi da mangiare». 'AvaKA.tvaL, all'attivo, piuttosto che la forma passiva che certi manoscritti hanno introdotto, a partire dal parallelo in Matteo (Lagrange, 168). � UiJ.Tiocr ut crUiJ.TIOcr La, il latino ha tradotto: secundum contubernia. Lane (229, n. 99) segnala l'espressio­ ne in ebraico: haburot haburot (n111:Jn n1i1:Jn ). La ripetizione sembra essere pro­ prio un ebraismo, ma anche il greco conosce questo modo di esprimere l'aspetto distributivo ( ). La habourah o il symposion è la cerchia di amici che si riunisce, specialmente per vegliare insieme durante la notte pasquale. È nuovamente molto forte l'effet­ to speculare per la comunità di Marco che veglia in quella stessa notte (cf. Gesù e 384

L 'argomentazione. Marco 6, 14-10, 52

i suoi nell'orto del Getsemani, in Mc 14,32).10 «L'erba verde» è tipica della prima­

vera in Galilea. Il parallelo giovanneo precisa: «la Pasqua era vicina» (Gv 6,4). La menzione dell'erba verde evoca molte cose: vita nuova, primavera, festa, comodità per la partecipazione al banchetto improvvisato Il «luogo deserto» si rivela un «paradiso» verdeggiante. Qui risuona con grande pertinenza almeno un versetto di un salmo: «I l SIGNORE è il mio pastore [ . . . ] su prati di erba fresca mi fa riposare . . . » (Sal 23,2). Si tratta del Pastore divino. Egli è presente in mezzo a questa folla della Galilea. v. 40. L'ordine viene subito eseguito, e ora vediamo la grande folla ben ordi­ nata e disposta «per gruppi di cento e di cinquanta>>. Pen ivarr( TTtHV («ricadere>>, in greco tardivo: «adagiarsi a tavola») cf. anche 8,6. IlpaaLaÌ. rrpa> ricorda l'organizzazione del popolo al tempo dell'Esodo (cf. Es 18,21 .25; Nm 31,14; Dt 1,15), riferimenti che hanno acquistato più importanza da quando sono stati trovati citati in certi testi di Qumran: «per migliaia, per centinaia, per cinquantine e per decine>> (cf. CD 13,1; Regola della comunità Il, 21; lQS 2,21-22). Il narratore crea un'impressione di meravigliosa pienezza, inoltre ben ordinata, il che deve evo­ care l'origine quando, in occasione dell'Esodo, il popolo venne convocato e orga­ nizzato da Mosè nel deserto. . . .

6,41-42: Kaì. Mxj3Wv toÙI; trfvtE &ptouc; KllÌ- toùc; lioo tx9Uac; à:va�ÀÉ\jlac; Elc; TÒv oÙpavÒv EÙÀOYT]OEV KaÌ. KatfKÀIXOEV toÙc; &ptouc; KaÌ. ÈÒLÒOU to'ic; �a8T]ta'ic; [aÙtoiì) '(va rrapan8woLv aÙTo'ic;, KaÌ. toùc; Mo i.xeooc; È�ÉpLoEv triioLv. 4�aì. Écj>ayov mivtEc; Kaì. Èxop•aaST]aav. 6,41-42: «Prendendo aJiora i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, bene­ disse e spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli per servirli a loro. Divise anche i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono e furono saziati». vv. 41-42: «Prendendo allora i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, benedisse e spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli per servirli a loro. Divise anche i due pesci fra tutti. Tutti mangiarono e furono saziati>>. È qui che avviene la mera­ viglia, il miracolo. Tutto si compie con la massima semplicità, con un gesto che non differisce in nulla da quello che compie un padre di famiglia quando presiede a ta­ vola, benedice Dio e spezza il pane all'inizio del pasto. Notiamo comunque il movi­ mento di . Dal battesimo nel Giordano (1,10), il cielo non è più coinvolto in nessuna azione del protagonista.l1 Allora il cielo si era aperto e lo Spirito era sceso su di lui. Qui si ristabilisce il contatto con il cielo, indicando una relazione vissuta con Colui del quale si dice che >. I discepoli restano i primi destinatari e i veri collaboratori dell'azione. Attraverso le loro mani che distribuiscono il tutto si rea­ lizza la Parola: «Date loro voi stessi da mangiare». La finale contiene la grande sor­ presa: «a tutti>> e «tutti mangiarono e furono saziati>> (ÈfJ.fPLOEV rraaw. Ka.ì. Éa.yov rravreç Ka.Ì. Éxop-c.X.oefloa.v) . Il narratore risparmia gli effetti e si limita a suggerire il risultato finale, più che esporlo in modo trionfale. Il riconoscimento drammatico (ò:va.yw.>pwLç) aumenterà sempre più fino alla fine del v. 44. La «sazietà di tutti» ricorda il ciclo dell'Esodo, sia Es 16,12 sia i salmi che riprendono l'esperienza del deserto (cf. Sal 78,29). Nella Bibbia, solo Dio «Sazia>> tutto un popolo. Ciò che av­ viene qui è opera della sua manoY Ci si è molto interrogati sul numero dei pani, come anche sulla presenza dei pesci. Alcuni hanno pensato che i pesci siano stati aggiunti al racconto originario. Altri vi hanno visto un'allusione ai miracoli dell'Esodo: il pane ricorda direttamen­ te la manna, mentre i pesci dovrebbero essere messi in relazione con le quaglie, che, secondo certe tradizioni, «Uscivano dal mare».13 Questa corrispondenza, pur essendo un po' troppo dotta per Marco e per i suoi ascoltatori (con dei riferimenti al libro della Sapienza, a Filone e allo Pseudo-Baruch), è interessante per il fatto di raggiungere il contesto ampio della lettura di Marco. Nella notte pasquale ci si ri­ corda dei nostri padri e di ciò che essi hanno mangiato al tempo dell'Esodo e della traversata del deserto. Si può aggiungere che se il pasto sulla riva del lago voleva evocare una vera festa, addirittura la festa del banchetto messianico di cui parlano i profeti (cf. Is 25,6-7), doveva esservi qualcosa di più del solo pane. La presenza

12 Nel libro di Rut si racconta che Booz dà da mangiare a Rut: �Dopo che ella ebbe mangiato a sazietà, ne avanzò» (2,14). I commentatori rabbinici vedono in questo «resto» il segno dei tempi

messianici. Cf. Y.l. BROCH, The Book ofRuth, Feldheim, Jerusaiem-New York 21983, ad loc. (in ebraico e inglese, con un commentario midrashico). 13 Cf. J.-M. VAN CANGH, La multiplication des pains et l'eucharistie (Lectio div. 86), Paris 1975 e «L'énigme des poissons», in > (cf. l'woE ( e l'wç posto davanti al numero dagli altri due evangelisti). Matteo aggiunge: «senza contare le donne e i bambini>>, accrescendo ulteriormente l'effetto di tutto il racconto. È l'assemblea più numerosa segnalata da Marco dall'i­ nizio del suo racconto.

�� moltiplicazione dei pani in Marco

e

nel ciclo di Eliseo

Il ciclo di Elia e di Eliseo nei libri dei Re (lRe 17 e 2Re 9}, con i loro numerosi miracoli, è incontestabilmente servito da modello ai primi narratori cristiani, quando cominciaro­ no a raccontare gli atti meravigliosi del profeta di Galilea. Fra tutti i racconti contenuti in questo grande ciclo narrativo, quello della moltiplicazione dei pani da parte di Eliseo in 2Re 4 ( vv. 42-44) è certamente quello che si può più facilmente accostare a ciò che i quattro vangeli raccontano riguardo alla moltiplicazione dei pani da parte di Gesù per la folla in Galilea. Vediamo la struttura formale del breve racconto in 2Re 4: - c'è una grande necessità, addirittura (4,31); - arriva qualcuno con venti pani di primizie; - l'uomo di Dio ordina subito di distribuire il pane e di mangiare; - il suo servo obietta: «Una quantità così piccola per un numero così grande di persone! Sono un centinaio!»; - l'uomo di Dio ripete l'ordine di dare da mangiare: ve ne sarà abbastanza; addirittura dei resti! Egli parla da profeta (>. Erode Filippo (marito di Erodiade) vi verrà sepolto nel 34. Secondo il quarto vangelo, Simon Pietro e Andrea, ma anche Filippo, erano di Betsaida (cf. Gv 1,44; 12,21 ) . Il luogo è appena di là dal territorio controllato da Erode Antipa. In questo modo Gesù vuole sfuggire all'occhio della volpe Antipa (cf. Le 13,32) ? Sia come sia, i discepoli non raggiungeranno la loro destinazione, ma andranno errando per tre capitoli, come il popolo durante la traversata del deserto. Parallela a questo errare nello spazio c'è la loro incomprensione delle cose: il loro cuore resta indurito e «la loro mente chiusa>>, secondo l'espressione del narratore, in Mc 6,52. La ragione per la quale qui Gesù, con tanta fermezza, spinge i suoi discepoli a salire sulla barca non è immediatamente evidente. Perciò molti vanno a cercarla nel testo parallelo di Giovanni (6,14.15 ) , dove si legge che «la folla voleva prenderlo per farlo re>>. Gesù ha fretta di sottrarsi a questo entusiasmo popolare. Ma in Gio­ vanni se ne va da solo sul monte, senza dire nulla ai discepoli. Il racconto di Marco, che ha una sua coerenza, non contiene alcuna allusione a questo aspetto delle cose: congedando personalmente la folla, il Gesù di Marco non sembra fare nulla per cal­ mare qualche eccessivo entusiasmo da parte della folla. Al contrario. Occorre quin­ di cercare una spiegazione diversa. Aùtòç émoÀ.UEL tòv ox}..ov , . Da una parte, ora Gesù compie ciò che i discepoli gli avevano chiesto: «Congedali>>; con la differen­ za che la folla parte saziata. Dall'altra, obbligando i discepoli a imbarcarsi da soli, in disparte, e a non tornare a casa, ritorna al programma iniziale (6,30-32) . Occu­ pandosi personalmente della folla, assicura il riposo dei suoi. Li avrebbe raggiun­ ti a piedi, «via terra>>, ma questa volta sicuro che la folla non avrebbe più cercato di raggiungerli? Ecco certamente ciò che conferisce maggiore coerenza al testo. Ilpoaynv è un verbo chiave in Marco e tipico per Gesù: egli «precede>>, cammina davanti, come un pastore, fino all'ultima pagina (in 16,7; cf. 14,27-28, con l'imma­ gine del pastore). Il discepolo «segue>>, cammina dietro di lui. Ma qui l'ordine dato sembra invertire i ruoli: sono loro che devono «precedere>>. Comunque, se cammi­ nano avanti, lo fanno ancora seguendo la sua parola; senza la fede, è il panico. Il verbo aya:vaKtELV («COStringere>>) indica perlomeno, SUl piano narrativo, che il Gesù di Marco desidera ottenere qualcosa dai suoi discepoli. Già il primo episodio della sezione era interamente polarizzato su di loro, e lo stesso vale per questo secondo quadro. A questa volontà corrisponde - a livello del lettore - l'esiMarco 6,30-S,21: la •sezione dei pani•

391

genza di essere doppiamente attento, perché ciò che segue deve essere importante per la formazione del discepolo. Su questo punto, il racconto somiglia molto all'a­ pertura dell'altra traversata del lago, in 4,35, dove Gesù aveva preso l'iniziativa ( (0ocpaEi'tE, cf. 10,49, a Bartimeo). 'Eyw EÌ.IJ.L (letteramente: «io sono>>, sono io). Non si tratta solo di farsi rico­ noscere ma, a causa della potenza dell'espressione nell'Antico Testamento, que­ sto linguaggio ha chiaramente una forza rivelatrice nella quale risuona il Nome divino. Si pensa, oltre che a Es 3,14 («>), a Dt 32,39; Is 43,10; ecc. (cf. Gv 8,34). Tanto il «fatevi coraggio>> quanto il «non abbiate paura>> sono espressioni che appartengono sia al linguaggio delle teofanie sia a quello che ri­ suona nel cuore delle liturgie iniziatiche. Si ritrovano ancora scritti su certe tom­ be. Questo passo costituisce un momento supremo di comunicazione e di rivela­ zione da parte del protagonista. Per il lettore/destinatario che vive la sua notte iniziatica, questo momento certamente spaventa, ma è anche essenziale, perché struttura la sua formazione. v. 51 a: «Poi salì accanto a loro sulla barca e il vento cessò>>. L'azione prolunga la parola e i suoi effetti raggiungono il loro contenuto. Gesù esprime la sua vicinan­ za salendo sulla barca accanto a loro e manifesta la sua potenza con la vittoria sul «Vento che era loro contrario>> (cf. v. 48). In questo stile sobrio e oggettivo, il nar­ ratore traduce una vicinanza che è intrisa di bontà: eccolo ora accanto a loro nella barca (npòc; a:ò-roùc; EÌ.c; -rò 1TÀoiov ). vv. 51b-52: «Ed essi erano interiormente al colmo dello stupore, perché non avevano compreso il miracolo dei pani, ma la loro mente era chiusa» (Ka:Ì. Hav [�K

1TEp LaaofJ] ÈV ÉIIUto'ì.c; ��LO'tiiV'tO' OÙ yèx.p auvijKIIV ÈlTÌ. 'tOLc; ap'tOLc;, àU' �V aÙ'tWV i) Ka.pi>Loc 1TE1TWpKIIÌ. �9a4J.oc(ov< dopo È�L.o-ra:v-ro, anch'essi mancanti in B, ma molto meno ben attestati altrove.

394

L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

Marco conclude la storia riferendo la reazione dei discepoli e poi aggiungen­ dovi un commento, introdotto da un «poiché» esplicativo (yap). Lo stupore dei discepoli (È�Lotavto, cf. 2,12; 5,42) corrisponde a ciò che prova ogni persona nelle Scritture di fronte a una manifestazione sconvolgente, teofanica. Tutto il racconto evangelico terminerà in un tale clima di estasi e timore reverenziale (EKot«aLc;, 16,8; cf. 5,42). Però qui la reazione viene anche commentata e collegata non solo a ciò che è appena avvenuto, ma anche all'episodio precedente, il fatto dei pani (È1TÌ. to'iç &ptoLç) . Si dice in due volte che essi non hanno compreso nulla, e che il loro cuore/ spirito era indurito/chiuso. IIwpwoLc;, «durezza», «indurimento» è un termine già incontrato in 3,5; per il verbo, cf. anche 8,17: «Avete il cuore/lo spirito così 1TE1TWPWIJ.É VT]V», cioè «indurito», chiuso? (una sola volta nella LXX, in Gb 17,7, «i miei occhi sono "accecati" dalla collera»; cf. in Paolo: 2Cor 3,14; Rm 1 1 ,7; Ef 4,18: OUl t�v 1rwpwcnv tiìc; K«plil«c; «Ùtwv). I discepoli vengono quindi dichiarati non-intelligenti, incapaci di accede­ re alla corretta comprensione di tutto ciò che è avvenuto a partire da 6,30. Questo punto, così sottolineato dal narratore, ha un effetto provocatorio per ogni lettore. Se anch'egli confessa di non comprendere, è come loro: paralizzato dalla paura, ma restando in qualche modo fuori. Spetta a lui sforzarsi di entrare nel mistero. Sa che occorre comprendere, sempre di più.19 Evidentemente lo sforzo richiesto non è solo quello di una migliore analisi o di una riflessione più brillante su ciò che si è ascoltato. Marco drammatizza il processo della conoscenza fino a un parossismo quasi insopportabile. Si tratta di comprende­ re che, senza abbandonare tutto, anche intellettualmente, si resterà sempre «fuori», senza relazione autentica con Colui che si rivela. L'abbandono perfetto coincide con la fede che spera tutto dall'Altro. Il narratore conduce sistematicamente il suo lettore, al di là di alcune dure stangate, fino a un'accoglienza libera, senza riserve e autentica, di Dio che si rivela in Gesù. Ciò che occorre comprendere riguarda la persona di Gesù. La catechesi dispensata prima della lettura lo ha esplicitato. Ne intravediamo delle tracce al v. 34: ecco il nuovo Pastore, il successore di Mosè, il vero «Giosuè/Gesù», annunciato nelle Scritture, colui che nutre il suo popolo nel deserto e vuole rivelarsi come a Mosè e a Elia, passando davanti a loro e cammi­ nando sulle acque. Il racconto di Gesù che si rivela ai discepoli sul lago verso la fine della notte ha un'innegabile preistoria. Ci si può chiedere se non lo si debba collegare al ricordo di un'apparizione a Pietro, che avrebbe avuto luogo dopo la morte di Gesù. Sap­ piamo che Pietro è tornato in Galilea, dopo la morte di Gesù in croce. E sappiamo anche che ha avuto un'esperienza visionaria nella quale ha incontrato il Risorto: la tradizione più antica lo ripete in coro: «È apparso a Cefa»; «è apparso a Simone» (1Cor 15,5; Le 24,36). Anche Marco non ignora il fatto: al capitolo 16 il giovane nel sepolcro ripete la parola di Gesù («Andate in Galilea, egli vi precede là, là voi lo

19 Qui i discepoli non «comprendono nulla del fatto dei pani», ma per contrasto si può segnalare ciò che si dice in Le 24 dei discepoli di Emmaus: «l loro occhi si aprirono ed essi lo riconobbero», e ancora: «e raccontarono . . . che lo avevano riconosciuto alla frazione del pane». In ambiente cristiano, l'iniziato è uno che comprende un mistero relativo alla persona di Gesù e trova nel pane spezzato il suo simbolo più espressivo. Considerando insieme Le 24,30.35 e Mc 6,52, si vede meglio ciò che Marco vuole dire: i discepoli in Mc 6,51-52 reagiscono come chi non ha ancora ricevuto la piena iniziazione e il lettore! destinatario, impegnato nella via iniziatica, si incammina insieme a loro verso una comprensione sempre maggiore di questo Gesù e di questo pane così essenziale.

Marco 6,30-8,21: la •Sezione dei pani•

vedrete») e chiede di ricordarla ai discepoli, «e specialmente a Pietro», con un K«L enfatico (cf. Mc 16,7). Secondo R. E. Brown20 il racconto di Gv 21 sarebbe il ricordo di questo incontro del Risorto con Pietro, riferito in situ ma allargato a un gruppo di sette discepoli, mentre Le 5,1-11 e Mt 14,28-33 (// Mc 6,45-52) riferirebbero lo stesso avvenimento, ma retrocesso a un momento precedente della vita di Gesù. Il punto di partenza della riflessione di Brown è che tutto il Nuovo Testamento sa, con gran­ de certezza, che Pietro ha visto il Risorto (cf. la testimonianza più antica: 1 Cor 15,5) ma, al tempo stesso, non si è conservato da nessuna parte come tale il racconto di questo avvenimento. La sua ricostruzione consiste nel mostrare che questo avveni­ mento è ben presente anche nei vangeli, ma sparso qua e là. Fra questi frammenti, l'autore segnala, e accosta fra loro, passi quali Mt 14,28-33 e 16,16b-19; Mc 6,45-52 - il nostro passo - e 16,7; Le 5,1-11; 22,32 e 24,34 e, infine, Gv 21, il suo punto di par­ tenza. Ogni ricostruzione ha la sua inevitabile parte ipotetica, ma, leggendo questo contributo, io trovo la presentazione coerente e verosimile. Marco, che non raccon­ ta l'apparizione a Pietro ma segnala che la conosce (16,7), ne avrebbe conservato i contorni in questa pericope. D'altra parte, il racconto offre degli elementi di rilettura simbolica che i padri della Chiesa hanno sviluppato molto spontaneamente, come nel caso del racconto parallelo della tempesta sedata (Mc 4,35-41): la barca raffigura la Chiesa, le acque i rischi della storia, il vento contrario le prove di ogni sorta. L'immagine di Cristo in preghiera sulla terraferma e sul monte, mentre la barca è in mezzo al mare, cor­ risponde all'esperienza nella quale, da una parte, il Cristo risorto è presso Dio, e, dall'altra, la comunità ecclesiale soffre per la sua lontananza, persino per la sua assenza. Il fatto che egli veda le sofferenze del suo popolo e il gesto con il quale si avvicina, si manifesta con il suo Nome e con la sua compagnia, «salendo accanto a loro nella barca», rivelano la sua misteriosa presenza fin d'ora, nel cuore stesso del­ la storia tormentata e la vicinanza dell'ora del suo ritorno. Ciò che autorizza più di tutte le riletture del genere è la stessa esperienza della fede: chi vive il paradosso di una presenza divina in mezzo alla sofferenza, nella quale tutto grida l'assenza di Dio, si riconosce nel racconto e ne trae, nonostante tutto, forza e speranza. Qui si verifica il principio ermeneutico: «Quando si è nella tradizione, si può fare con un testo tutto ciò che si vuole» (Pierre Lenhardt, a nome della tradizione rabbinica). Nella stessa linea, va da sé che questa pagina, ricollocata nel contesto liturgico di una veglia pasquale, acquista intensità: questo Gesù che, verso la fine della notte, dice: «Sono io (Èyw E LIJ.L)» e si avvicina per passare davanti a loro e rivelarsi, deve aver interpellato in profondità tutti coloro che ascoltavano questo racconto durante una tale veglia notturna. Specialmente i futuri iniziati devono aver ascoltato questo racconto con timore e speranza.21

20 RE. BROWN, «John 21 and the First Appearance of the Risen Jesus to Peter», in Resurrexit. Actes du Symposium international sur la résurrection de Jésus (Rome 1970), par E. DHANIS, Città del Vaticano 1974, 246-265. Cf. le pagine del commentario di Giovanni che riprendono la stessa argomentazione in lo., The Gospel according to John (X/li-XXI) (AB 29A), New York 1970, 1085-1095. " Cf. le osservazioni alla nota 19. L 'argomentazjone. Marco 6, 14-10,52

6,53-56. L'incontro con la folla a Gennesaret

6,53-56: Kat ou�:rrc:plioavm; È1TL t�V yf)V �ì..eov c:Lç rc:vvT]oapÈt KllL 1Tp00Wpj.LL09T]Oa.V. 54Ka.t ÈI;EÀ.90vtWV aÒtWV ÈK tOU 1TÀOLOU c:Ù9Ùç È1TL yvovtEç a.ÙtÒV 551TC:p LÉopa.j.LOV OÀT]V t�V xwpav ÈKELVT]V KllL �pl;avto È1TL tol.ç Kpa.(31ittOLç toùc; Kll.KWç EXOVta.ç 1TEp uj>ÉpE LV 07TOU �KOUOV on ÈOtLV. 5�at 07TOU à.v E LOE7TOpEllE1"0 E Lç Kulj.Lilç � c: i.ç noì..Hç � c:Lç àypouç, Èv -rai.ç àyopai.ç Ètlec:oa.v -roùc; ào9c:voiivta.c; Ka.t uapEKttÀouv aùtòv '(va Kà.v toii KpaouÉoou -rou L!J.at(ou aùtoii 1iljrwvtaL Kat oooL à.v illjravto aù-rou Èo>, mentre la gente «riconosce» (v. 53) e si comporta di conseguenza. Di rimbalzo, la domanda viene posta a noi, lettori/destinatari: comprendiamo? Abbiamo occhi per vedere, riconoscere e agire di conseguenza?

Così termina una prima unità in questa cosiddetta sezione dei pani. Con 7,1 comincia un nuovo insieme, introdotto da una proposizione ricalcata sull'apertura di 6,30 (Kat ouvayov-raL npòç aùr6v): stesso verbo, stesso presente storico, ma con altri personaggi come soggetto. Si apre un'altra fase.

7,1 -23 . Discussione sul puro e sull'Impuro

Finora, nella cosiddetta sezione dei pani, c'erano solo tre ruoli: Gesù, i disce­ poli, la folla. Ora entrano in scena nuovi personaggi: dei farisei con alcuni scribi. II loro intervento produce uno scontro frontale fra loro e Gesù sul comportamento di alcuni dei suoi discepoli. Gesù si rivolge anzitutto a loro, in due tempi (7 ,6-8.913), poi chiama la folla (v. 14) e le offre un principio fondamentale sulla questio­ ne, per ritornare in seguito ai discepoli (v. 17) e spiegare loro fino in fondo il suo 398

L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

pensiero (v. 23). Una lunga parentesi all'inizio del capitolo serve da narratio (vv. 2-4). La domanda dei farisei e degli scribi al v. 5 è la domanda formale del trattato (quaestio finita); essa scaturisce dalla narratio. Il fatto che in questo quadro inter­ vengano tutti i ruoli - anche la folla - e che tutto cominci e finisca con i discepoli indica che questo trattato al centro della sezione è molto importante. La posta in gioco è in definitiva una domanda che riguarda il comportamento del discepolo. Essa raggiunge l'attualità del lettore/destinatario, nella quale la pratica cristiana consiste nell'accettare alla stessa tavola battezzati di origine ebraica e battezzati di origine pagana. 7,1-2: Kaì. auvayovraL 1YpÒc; avwv ot clla.p LOIXLOL KIXL tUJEç tWV ypa�tÉwv ÈÀ90VtEç cl1TÒ 'IEpoooÀU!J.wv. lt>: l'espressione condizionale con una doppia negazione è tipica dello stile di Marco (cf. Neirynck, Duality, 89, 9A), che comunque tradisce qui un'in­ negabile enfasi. La condizione diventa talmente importante che essi rifiutano persino di mangiare se non è soddisfatta! L'anacoluto, la generalizzazione e la

400

L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

doppia negazione (ÈIÌv Il� · · · oÙK} sono tre figure di stile al servizio di una reale carica retorica. Iluylltì è un latinismo, studiato a fondo da Martin Hengel: traduce il noto ter­ mine latino pugno per indicare una misura, e qui significa ciò che prescrive il trat­ tato Yadaim (4,6 8) della Mishna: cioè la misura d'acqua - né più né meno - che bisogna usare per lavarsi le mani prima di mettersi a tavola.23 Un ultimo tratto viene a qualificare l'atteggiamento di base: «Conformemente alla tradizione degli antichi» (Kpatouvw; t�v TTapaòoo Lv twv TTpEo�utÉpwv), il che anticipa già la critica che ri­ volgerà loro Gesù (cf. v. 8). IIapacSoo Lç (> (Lagrange, 183). Questo latini­ smo, come pugno al versetto precedente, si trova in un paragrafo esplicativo nel quale il narratore cerca di farsi comprendere dai suoi destinatari. Il fatto che, per spiegare cose piuttosto tecniche, Marco si serva di termini latini indica piuttosto chiaramente che i suoi destinatari comprendono questa lingua con le sue particola­ ri espressioni (stessa cosa in 12,42, con la traduzione del valore delle due monetine -

23 M. HENGEL, «Mk 7,3 1TUY�ti: die Geschichte einer exegetischen Aporie und der Versuch ihrer U)sung», in ZNW 60(1969), 182-198.

Marco 6,3D-8,21: la •sezione dei pani•

401

della vedova con un termine che corrisponde al latino quadrans). Indirettamente, questo conferma l'ipotesi secondo cui Marco scrive il suo testo per un uditorio ro­ mano.24 L'ultima espressione KlxL Khvwv («e di Ietti») è abbastanza ben attestata (D A W E> f1 565 700) per essere mantenuta, anche se manca in B, L e N:. Il motivo per cui sarebbe stata aggiunta, o eliminata, non è molto chiaro. Una spiegazione potrebbe essere questa: secondo Lv 15, nella lista delle cose da lavare c'è anche «il letto» di un uomo affetto da gonorrea (v. 5) (così Swete, seguito da Lagrange e mol­ ti altri). Al contrario, parlare di I3«1TtLOj.1Òc; twv KÀLVWV non è molto appropriato, e questo potrebbe essere il motivo dell'eliminazione. Sia come sia, provenga dallo stesso evangelista o da uno dei suoi editori, quest'ultimo tratto rafforza la nota iro­ nica già accentuata da tutta la lista e mostra che questa preoccupazione della purità può essere prolungata all'infinito . . . Dal punto di vista retorico, la parentesi costituisce una narratio che prepara l'argumentatio propriamente detta. E tutta orientata verso la soluzione e racconta­ ta dal punto di vista opposto a quello degli interlocutori di Gesù. Secondo i retori, bisognava «spargere germi di prove» già nella narratio, preparando così la parte argomentativa che segue.25 È ciò che fa il nostro narratore. Anche l'espressione che sarà oggetto della critica di Gesù è già menzionata ben due volte (Kpn:tE'iv t�v 1Tn:paoooLv, «osservare la tradizione»). Notiamo in tutto questo un'evidente emo­ zione: l'argomento doveva essere ancora scottante all'epoca di Marco, specialmen­ te fra giudei e cristiani, e forse fra gli stessi cristiani. Esso non ha perso nulla della sua importanza fra gli ebrei delle diverse correnti fino ai nostri giorni. 7,5: Kn:t È1TEpwtwaw n:ùtòv ot �n:p Lon:'iot Kn:l oì. ypn:j.lj.ln:tE'ic;, �uì: t( où 1TEpt 'ITO:touaLv oL jJ.n:9T]tO:L aou Kn:toc t�v 1rn:pa6ooLv twv 1TpEoJ3utÉpwv, à:Hà Kown:'ic; XEpalv Èa9(ouoLv tòv &ptov. 7,5: «Dunque i farisei e gli scribi lo interrogano: "Perché i tuoi discepoli non si compor· tano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono D loro pasto con mani impure?"». v. 5: Kn:l È1TEpwtWoLV («ed essi Io interrogano»), si ritorna al presente stori­ co, come al v. l, e ci si ritrova in primo piano, nel vivo della discussione. «l farisei e gli scribi»: ci si ricollega con loro nominandoli di nuovo, solo in modo un po' più conciso (cf. 7,1). Il narratore non perde di vista le due dimensioni della discussione: l'aspetto pratico (cf. i farisei) e l'aspetto teorico (cf. gli scribi). «Perché i tuoi discepoli>>. La domanda è rivolta a Gesù e riguarda direttamen­ te la pratica dei suoi discepoli (cf. 2,18). «Non si comportanO>>: 1TEp L1TO:tE'ì:v, termine tecnico che rinvia giustamente alla halakha. Il verbo con questo preciso significato ricorre spesso nel Nuovo Testamento (cf. Mc 12,38, ironico; At 21,21; Paolo: 1Ts 4,1 .12; Fil 3,17; Rrn 6,4; 8,4; ecc.). «Perché non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono il loro pasto con mani impure?». In modo chiaro e conciso gli oppositori riassumo-

,. Cf. pp. 18s. 25 a. QuiNTILIANO, Inst. or. 4,2,52. Sul rapporto fra na"atio e probatio il maestro dell'arte oratoria dice ancora: «Quale differenza c'è fra una prova (probatio) e una narrazione (narratio) , se· non che la narrazione è una prova presentata sotto forma di un racconto continuo e che, da parte sua, una prova è una conferma (congruens confirmatio) che si accorda con la narrazione?» (4,2,79). 402

L'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

no tutto ciò che è stato detto in precedenza e lo riesprimono sotto forma di una grande domanda. Qui «mangiare» è ancora alla lettera «mangiare il pane» ('tòv aptov, cf. v. 2). L'espressione «tradizione degli antichi» è già stata usata, nel raccon­ to del narratore (v. 3), come anche l'espressione «mani impure» (v. 2). Si sente una doppia accusa, una concreta e l'altra più generale, cioè il fatto di mettere in discus­ sione > (to"tOCVE LV). «Infatti, Mosè ha detto: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia punito con la morte>>. Due citazioni tratte dalla Torah di Mosè offrono sia il principio con il comandamento positivo proveniente dal Decalogo sia, nell'even­ tualità della trasgressione di questo precetto, la relativa punizione. I due testi sono congiunti secondo una tecnica nota ai rabbi: infatti una stessa espressione, «padre e madre», ricorre in entrambi, per cui possono essere interpretati l'uno con l'altro.

>O Chi considera le regole alimentari in vigore nelle caste superiori dell'India scopre un sistema nel quale la separazione fra puro e impuro è ancor più rigida che, ad esempio, nel libro del Levitico. Basta l'ombra di un fuori casta che passa sul cibo di un bramino per renderlo «impuro». Anche l'islam ha le proprie regole alimentari, considerate parte integrante dell'alleanza con Dio. Nella quinta sura, già citata, uno dei primi punti precisati riguarda la distinzione fra carni lecite e carni illecite durante il pellegrinaggio (cf. V, 1-4). Cf. CuvPERS, Le Festin, 34-64. Nel commento, l'autore chiarisce questi passi a partire da testi biblici paralleli, come il codice deuteronomico (Dt 12-14) e il decreto apostolico nel libro degli Atti (At 15,20.29; 21,25). Inoltre, rinvia allo studio di V. CoMERRO, «La nouvelle Alliance dans la Sourate al·Md'iia••. in Arabica 48(2001 )3, 285-314, che pone ugualmente i divieti alimentari del v. 3 in relazione con i «comandamenti noachici», fissati dal giudaismo rabbinico in epoca ellenistica (p. 53). Dietro queste regole si può riconoscere la preoccupazione di formare una comunità di credenti che, distinguendosi dagli altri, vuole vivere nell'alleanza con Dio. Perciò, una comunità religiosa senza più alcuna regola alimentare non deve interrogarsi su ciò che la costituisce nell'alleanza con Dio?

Marco 6,30-8,21: la •sezione dei pani»

405

Il primo testo è tratto da Es 20,12: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il SIGNORE tuo Dio ti dà». La clausola finale non è stata ripresa. Del resto, in greco essa è doppia: «perché i tuoi giorni si prolunghino sulla terra che il SIGNORE tuo Dio ti dà» (Es 20,12 LXX). Con questa aggiunta il testo greco si avvicina al parallelo in Dt 5,16, che inoltre precisa: «Onora tuo padre e tua madre, come il SIGNORE, tuo Dio, ti ha comandato, perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il SIGNORE tuo Dio ti dà>> (Dt 5,16). Qui l'arte di combinare le citazioni consiste nell'eliminare la clausola finale della prima e nel riprendere la seconda che si sostituisce alla prima e mostra l'altra faccia della medaglia. Vediamo il se­ condo testo. «Colui che maledice suo padre o sua madre sarà messo a morte>> (Es 21 ,17). In Lv 20,9 troviamo una frase analoga con una giustificazione: > (e si ritrovano le parole che Marco avreb­ be aggiunto - E L01TOpEU01!EVOV Elc; tòv liv9pw1Tov ). «Non può renderlo impuro (Kowwacn) perché - e qui viene la spiegazione - non entra nel suo cuore/spirito (Kap6Ltt) ma nel suo ventre (KOLÀ.Lct)>>. In greco è quasi un gioco di parole: Kttpo(tt 41 2

L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

KoL.U.a: («cuore/ventre»). E la spiegazione prosegue: « . . e se ne va [ÈK1TOpEUEta:L, il verbo parallelo e antitetico di E LOlTOpEUOIJEVov] nella fogna». Ecco il primo movimento, che sarà seguito dal movimento inverso, ma solo dopo una significativa inserzione. Infatti il narratore afferma come di sfuggita: Ka:Sa:p ((wv 1Tixvta: toc �PW!Jilta:, «dichiarando puri tutti gli alimenti». La maggiore rivoluzione in materia interviene sotto forma di un tobiter dictum, non del prota­ gonista ma del narratore. Dal punto di vista retorico, questa è una vera prodezza. Dal punto di vista narrativo, è invece un intervento sottile, un po' forzato e quasi maldestro. Ma ciò che conta è l'effetto retorico. Marco arriva a dire che la norma secondo cui ormai si può mangiare qualsiasi cibo senza distinzione risale a Gesù. Luca eliminerà questo dibattito dal suo vangelo, rinvierà la discussione sul­ le norme alimentari al libro degli Atti e farà risalire a Pietro la decisione di non fare più distinzione fra alimenti dichiarati puri o impuri. Per ben tre volte Pietro sente la voce ripetere: «Ciò che Dio ha purificato, tu non dichiararlo impuro>> (A t 10,15). Matteo non riprenderà queste quattro parole inserite dal narratore in Marco. Anch'egli concluderà il suo capitolo più sobriamente, precisando proprio alla fine che «mangiare senza essersi lavati le mani non rende impuro l'uomo>> (Mt 15,20). Egli dà così l'impressione che la discussione avviata dagli oppositori sia fuori luogo, perché accorda un peso eccessivo a una cosa priva di importan­ za. D'altra parte, resta fedele al suo principio ermeneutico: la chiave decisiva per reinterpretare tutta la Torah è la regola d'oro, o il comandamento dell'amore del prossimo, o ancora «la misericordia e non i sacrifici» (cf. Mt 7,12; 9,13; 12,7; 20,39-40). .

7,20-23: ÉÀEyEv l'iÈ on Tò ÈK tou &v8pw1rou ÈK1TOpEUOIJEVov, ÈKE'ivo KOLvo'i tòv liv8pw1rov. 21Éaw9Ev yocp ÈK tfìç Ko:pl'i(o:ç twv &v8pw1rwv ot l'i La:ÀoyLa!JOÌ. ot Ko:Koì. ÈK1TOpEuovto:L , 1TOpVE'io:L, KÀ01TO:L, cjlovOL, �OLX,E'ia.L, 1TÀEoVE/;Lo:L, 1TOVTJpi.a.L, OOÀoç, &aÉÀyE Lo:, Ocjl8a.4Lòç 1TOVI'Jp6ç, �Àa.acfJTJIJ.La., imEpTJcfJo:vi.o:, &!flpoauVI'J· 23-rravto: to:uto: toc 1TOVT]poc Éaw9Ev ÈK1TOpEUEtO:L KO:Ì. KOLVo'i tÒv &v9pw1Tov. 7,20-23: «Diceva: "Ciò che esce daU'uomo, ecco ciò che rende impurO l'uomo". In­ fatti, è da dentro, dal cuore degli uomini, che escono i propositi perversi: impurità, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calun· Dia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive escono da dentro e rendono im· puro l ' uomo"». v. 20: «Diceva: "Ciò che esce dall'uomo, ecco ciò che rende impuro l'uomo"». Ora viene il parallelo antitetico della prima proposizione. Qui la seconda parte del detto (cf. v. 15) viene riprodotta senza alcuna glossa. Ormai sia l'uditore sia il let­ tore/destinatario sanno come trasporre l'immagine: «ciò che esce dall'uomo>> è ciò che «esce dal cuore dell'uomo>>. Per introdurre questo passaggio il narratore ha do­ vuto restituire la parola al protagonista (ÉÀEyEv l'iÉ, «e diceva>>), perché la sua picco­ la inserzione (v. 19b) ha interrotto la risposta di Gesù ai discepoli. vv. 21s: «>. Il seguito riprende in parte il logion (v. 21a) e lo amplifica con una no­ tevole digressione (vv. 21b-23a) prima di concludere ritornando letteralmente ai termini della parabola: «ciò che esce da dentro e rende impuro l'uomo>>. L'inizio e la fine di questo paragrafo riprendono quindi il v. 20, mentre il centro è una glossa molto accentuata, nella quale si trova il centro di gravità di tutta la comunicazione.

Marco 6,3o-8,21: la •sezione dei pani•

41 3

Le ultime parole concludono la discussione ricollegandosi sia all'apertura di tutto il

capitolo sia alla parabola in testa all'ultima parte (v. 15).35 Si assiste così a un insegnamento in due parti: in un primo tempo, si tratta di eliminare il tabù che regna attorno a certi alimenti (vv. 18-19, con l'intervento alla fine del narratore che dichiara «puri tutti gli alimenti»); in un secondo tempo, si mo­ stra dove si contrae la vera impurità (vv. 20-23) con, alla fine, un'espressione messa in bocca a Gesù ma che riprende le espressioni del narratore all'inizio del suo rac­ conto (7,1s). L'impurità di ordine rituale viene eliminata; le uniche impurità sono quelle di ordine etico. Esse escono dal cuore, il centro della persona umana. Non si può non notare che l'eliminazione di ogni considerazione rituale è una semplifica­ zione radicale. Può essere letta come una razionalizzazione. L'excursus su ), gli altri dieci termini della lista compaiono solo qui in Marco. I vizi sono raggruppati sot­ to l'espressione ouxì..oyLOIJ.OL Ka.KOL (), e l'ultimo termine di ogni metà è il termine più generale della serie: novT")pLa.L () e àcppoouVT") («Stoltezza>>). La lista riguarda principalmente tutto ciò che distrugge la vita di rela­ zione fra le persone. In un contesto di comunione a tavola fra giudei e pagani, que­ sta scelta è assolutamente appropriata. Stesso principio in Paolo, quando induce a riflettere sulla stessa questione i suoi lettori romani: Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso, ma solo per colui che ritiene un alimento impuro; in questo caso esso è impuro per lui [ . . . ). Non

" Mt 15,20 si ricollega ancor più esplicitamente con l'apertura della discussione, aggiungendo questo testo, riprodotto in corsivo: «Ecco le cose che rendono l'uomo impuro; ma mangiare senza essersi lilvati le man� questo non rende l'uomo impuro».

414

L'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

mandare in rovina con il tuo cibo colui per il quale Cristo è morto! Non esponete quin­ di il vostro privilegio all'oltraggio! Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo. Cerchiamo dunque ciò che favorisce la pace e l'edificazione vicendevole. Non distrug­ gere l'opera di Dio per una questione di cibo! Tutto è certamente puro, ma diventa un male per l'uomo che mangia dando scandalo [ . ]. Colui che mangia nonostante i suoi dubbi è condannato, perché agisce senza buona fede e tutto ciò che non procede dalla buona fede è peccato (Rm 14,14-23 passim). .

.

Questo vocabolario morale di Marco è considerato eminentemente paolino da Taylor. In realtà è eminentemente pastorale, e corrisponde a ciò che appartiene a ogni catechesi parenetica o morale. In questo senso, noi disponiamo di pochi cri­ teri per valutare l'antichità o anche l'autenticità di questa lista. Il succitato parallelo buddista mostra bene la difficoltà. Dal momento in c�i accettiamo la possibilità di un insegnamento morale in Gesù, come non riconoscere che egli poteva difficil­ mente esprimersi senza servirsi di parole che appartengono a liste del genere, atte­ state un po' ovunque? Nella nostra rilettura potremmo chiederci: quali sono le nostre liste attuali? E quali sarebbero le differenze importanti rispetto a queste liste antiche?

7,24-37. Due guarigioni In territorio pagano

Ora Marco prolunga il suo insegnamento sul puro e sull'impuro a livello nar· rativo: due episodi di guarigione, collocati chiaramente in territorio pagano, assi­ cureranno il passaggio, prima di ritornare in riva al lago e permetterei di assistere a una seconda moltiplicazione dei pani, l'altro pannello parallelo da 8,1 a 21 . In real­ tà, ogni pannello del trittico è composto da tre unità. Marco 6,30-56

7,1-37

8,1-21

l. moltiplicazione dei pani

discussione sul puro e l'impuro

moltiplicazione dei pani

2. traversata del mare

guarigione della figlioletta della siro-fenicia

dal cielo

da parte dei farisei

3. guarigioni a Gennesaret

guarigione di un sordomuto

messa in guardia dei discepoli

la domanda di un segno

Così, complessivamente, da 6,30 a 8,21 abbiamo nove pericopi. Con la guari­ gione del cieco di Betsaida, racconto di transizione (8,22-26), fanno dieci unità per tutta la sezione. È la seconda volta che vediamo Marco elaborare una sezione uni­ ficata in dieci unità ben integrate (cf. 1,21-3,6).

Marco 6,3D-8,21: la •sezione dei pani•

415

7,24-30. La siro-fenicia e la figlioletta posseduta

7,24: 'EKEiBEv òÈ àvttotàc; à1T'iìJ..9ev etc; tà opLtt Tupou KttÌ. �Lòvoc;. KttÌ. ELOEÀ9wv ELç OLKLttV ouOÉvtt �9EÀEV yvvttL, KttÌ. OUK �òuvf]9T] J..tt9eiv · 7,24: ((Partendo di là, se ne andò nel territorio di Tiro [e di Sidone]. Essendo en­ trato in una casa, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto"'· v. 24: «Partendo di là, se ne andò nel territorio di Tiro [e di Sidone]». Nuova partenza, spostamento piuttosto notevole nello spazio, una distanza impressionan­ te percorsa in questo mezzo versetto. Gesù parte in direzione nord-ovest, lasciando le rive del lago. Sul piano biografico, si tratta di un secondo ritiro nella vita di Gesù, un soggiorno errante nelle montagne dell'Alta Galilea, fino-di là dalle frontiere, in pieno territorio pagano. A volo d'uccello la distanza fra il lago e Tiro supera i 70 km. Gesù e alcuni suoi discepoli hanno camminato per giorni. Si scopre un Gesù profeta itinerante, persino errante, che prende tempo e distanza per riflettere, valu­ tare il recente passato e certamente anche ricollegarsi con le sue intuizioni origina­ rie e con la sua esperienza fondatrice, così come si era sviluppata al Giordano e nel deserto di Giuda. Marco delinea in pochissime parole un momento molto impres­ sionante del percorso di Gesù. Non c'è motivo di dubitare di questo lungo viaggio. Come in occasione della prima traversata del lago verso la riva pagana, lo storico si interroga: perché un tale spostamento?36 'EKE19Ev («di là»). Termine poco frequente in Marco: 5 occorrenze di cui 3 nella narrazione (6,1; 10,1 e qui, 7,24) e 2 in un discorso (6,10.11). In Matteo 12 occorrenze (11 nel racconto, l in un discorso, 5,26). In Luca: 3 occorrenze (mai nei racconti; in At 4 occorrenze). Il òÉ che segue è raro all'inizio di una pericope in Marco (Taylor (155] rinvia al rilevamento di Hawkins: 6 volte OÉ a fronte di 80 volte KttL ). In tutti gli altri casi in cui ricorre, ÈKE19Ev non è mai costruito con OÉ ma sempre con KttL (cf. 6,1; 10,1; cf. anche 9,30: KUKE19Ev ) . Anche il parallelo matteano non ha òÉ. Kttl ÈçEJ..9wv ÈKE19Ev ò 'IT]oouç UVEXWPT]OEV (Mt 15,21, benché Matteo preferisca cominciare un racconto con òÉ piuttosto che con KttL [Hawkins, citato da Taylor (49 ) , nota che su 159 pericopi, 38 cominciano con KIXL e 54 con OÉ]). Di fron­ te a queste statistiche si resta perplessi, perché la critica testuale di Mc 7,24 mostra che un numero rilevante di manoscritti ha qui KaÌ. ÈKEi9Ev invece di ÈKE19Ev òÉ. Le edizioni critiche optano tutte per quanto attestato in B � L !J. 1424: ÈKEL9Ev òÉ. Come interpretare questo fenomeno piuttosto insolito in Marco? La frase è un po' stereotipata. Potrebbe risalire a una fonte (Taylor), o appartenere alla cor­ nice del racconto in una raccolta preesistente al vangelo (K.L. Schmidt [198), citato da Taylor), o semplicemente far parte dello stock di piccole frasi di congiunzione di cui si servivano narratori e catechisti. Su questo punto Matteo ha più locuzioni, che ama usare ripetutamente.37 Ciò che si trova qui è piuttosto naturale per ogni racconto che presenti un personaggio itinerante (cf. negli Atti 4 volte ÈKE19Ev). Ma con il ùÉ originale, o perlomeno eccezionale, si può dire che Marco qui si afferma . . .

36 Cf. 4,35 e il commen to a pp. 275s («Gesù e l'altra riva»). Cf. ancli e L'espace Jésus, 92s.

31 B. RIGAUX, Témoignage de l'Évangile de Matrhieu (Pour une histoire de Jésus Il), Bruges-Paris 1967, 34-35 e 41-44. In Matteo le parole e le espressioni caratteristiche sono quasi un centinaio, mentre in Marco sono poco più di una quarantina (p. 35).

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L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

in quanto narratore, imprimendo una brusca sterzata al racconto. Dicendo che il suo protagonista «SÌ alza e se ne va», vuole indicare che egli prende volutamente le distanze da tutto ciò che precede. Il fatto che l'espressione non sia abituale sotto la sua penna, come mostrano le statistiche, significa che anch'egli vuole prendere le distanze dal flusso abituale della propria narrazione. Una seconda difficoltà riguarda il luogo in cui si reca Gesù: molti manoscritti non hanno solo «Tiro», ma anche «e Sidone». I due nomi fanno tradizionalmente coppia nel linguaggio biblico (cf. già Mc 3,8; 7,31) e si ritrovano entrambi nel pa­ rallelo di Matteo (Mt 15,21). Ma D L ò W 0 e alcuni altri (28 565) non hanno KIÙ E L ow voç (>. Anche questo stupisce: Gesù viene disturbato nel suo sforzo di restare nasco­ sto. Si assiste qui a un tratto proprio della dinamica del racconto di Marco. Per la seconda volta, vediamo Gesù di fronte a un'impossibilità (ouK �ouv1}9Tl). A Nazaret

" Anche nella vita di rabbi Nahman di Bratislava (1772-1810), un maestro chassidico celebre per le sue numerose massime e le sue magnifiche parabole. e su questo punto molto vicino a Gesù. c'è un momento nel quale egli parte, abbandona il mondo in cui ha predicato e compiuto opere prodigiose e va a nascondersi all'estero. Cf. GREEN, Tonnented Master. A Life of Rabbi Nahman of Bratslav. e É. WJESEL, Célébration chassidique. Portraits et légendes, Paris 1972, 175-206. Marco 6,30-8,21: la •sezione dei pani»

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«non poté fare alcun miracolo», «a causa della loro incredulità» (cf. Mc 6,5); qui ac­ cade il contrario: non può restare nascosto. È a causa della fede? È ciò che dovre­ mo vedere. In entrambi i casi, Gesù subisce il racconto. Similmente, al capitolo 5, abbiamo visto una donna toccare la frangia del suo mantello e liberare di colpo una forza che uscì da lui ancor prima che egli potesse decidere al riguardo. Ora lui stesso dirà che era stata la fede a provocarla (Mc 5,34). Ma in tutti questi casi è il narratore a gestire i possibili e gli impossibili che incontra il protagonista. 7,25-26: 'AU' EùeÙI; aiCOOOOO« yuvf) 1TEpÌ. aÒ'tou, �c; ElXEV -cÒ 9uyatpLOV aÙ-cf)c; 1TVEU!-10C aKa9ocp'COV, ÈÀ.90UOOC 1TpOOÉfTEOEV 1TpÒç 'COÙI; fTOOocç OCÙ'COU' 26fJ & yuv� �V 'EUT)vLç, :EupO. Quest'ultimo tratto ci riporta a 1,23, il primo incontro di Gesù a Cafarnao, ma anche a 5,1-20, il primo incontro sull'altra riva del lago, in territorio pagano. Ogni volta si tratta di una persona posseduta da uno spirito, e questo spirito vie­ ne sempre detto impuro. Qui l'elemento originale è il fatto che la donna serva da intermediaria fra Gesù e la figlia. Per il diminutivo di figlia (9uyatp wv) cf. 5,23 (la figlioletta di Giairo ) L'ocùtf)ç («di leh>) è ridondante rispetto al relativo che precede (cf. 1 ,7; 6,16). «Andando, ella si gettò ai suoi piedh>. Il suo gesto viene descritto subito, ancor prima che sia terminata la presentazione. Tutto assume fin dall'inizio un ritmo accelerato (già l'aU' EÙ9uc; «ma subito», in testa �Ila frase) e questo costituisce un bel contrasto con la volontà di Gesù di restare nascosto. «Gettarsi ai suoi piedh> è un segno di grande riconoscimento. È già un gesto ver­ ticale e questo movimento verso il basso corrisponde bene all'atteggiamento che caratterizza la donna lungo tutto l'episodio: abbandono e umiltà. Su questo pun­ to, il racconto è perfettamente coerente. v. 26. Ora interviene una doppia precisazione su questa donna: «La donna era greca>> ('EUT)VLç). L'espressione vuole dire soprattutto che era «pagana>>. Il contesto e il clima in cui la storia viene raccontata indicano una sensibilità eminen­ temente giudaica, e questo obbliga a discernere in ogni termine una connotazione specifica. Qui il termine, che di per sé significa «ellenica>> o «greca», vuole dire più chiaramente: non giudea, non appartenente al popolo eletto, «pagana» nel senso teologico del termine. :EupO) è una precisazione molto curiosa, etnica (il che la distingue dai veri «ellenh>) e sociale al tempo stesso, come ha mostrato recentemente Alice Dermience nella sua tesi presentata a Louvain.

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la-Neuve.39 Non è quindi giudea né di lingua né di cultura, né per provenienza né soprattutto per nascita (tQ yfvH). Ma il termine scelto «Siro-fenicia» nasconde an­ che altre sfumature. Nei testi della letteratura antica che ci sono pervenuti questo termine composto è raro: lo si incontra solo tre volte, una in greco e due in latino. Nella letteratura latina se ne sono serviti gli autori satirici: Lucilio (II sec. a.C.) e Giovenale (di poco posteriore a Marco). In entrambi il termine Syrophoenix indi­ ca un personaggio poco raccomandabile, abitante nei quartieri malfamati di Roma, «trafficante maledetto», associato con le prostitute.40 Anche in Luciano di Samosata (Il sec. d.C.), caso unico in tutta la letteratura greca conservata, il termine è spre­ giativo: il tono del passo in questione è ironico e non differisce molto da quello de­ gli autori satirici latini.41 Dermience, riunendo i testi succitati, ha creduto di poter concludere che Marco si è servito del termine per presentare la donna ai suoi lettori romani come una prostituta. In questo modo, per il lettore/destinatario l'identità della donna è assolutamente evidente: la figlia è posseduta da uno spirito impuro; lei stessa è pagana e di condizione sociale malfamata e, per la sensibilità giudaica, «impura» da ogni punto di vista. Inoltre, vale la pena considerare la scelta del termine «Siro-fenicia» per loca­ lizzare la comunità alla quale si rivolge Marco. Lo studio lessicale mostra che in Siria non ci si servirebbe mai di questo termine per indicare una persona. In Siria si distinguevano tre gruppi: fenici, celesiri e siri.42 Solo fuori della Siria si è potuto usare il termine in questione, designante in questo caso gli abitanti della provin­ cia «Sirofenicia»,43 o anche i fenici della Siria, distinti da quelli della costa libica (AtP\Jiflo(vtKEç). Questo costituisce un argomento negativo contro l'ipotesi siriana (Theissen) o anche galilea (Marxsen), e indirettamente un argomento a favore del­ la tradizione che colloca a Roma la redazione del Vangelo di Marco.44 «Ella lo pregava» (cf. 3,9; 5,10) «che volesse scacciare il demonio (cf. 1,34) da sua figlia». Richiesta semplice, che ricorda tutte le richieste analoghe dall'inizio del vangelo. Ma per Gesù, che non vuole essere conosciuto e sembra deciso a non vo­ ler più manifestare la sua potenza compiendo miracoli (ùuvlif.LELç), questa richiesta, apparentemente semplice, diventa una vera prova. 7,27: Ka:ì. EÀEyEv a:\rriì , "Acjleç 1rpwrov xopta:o9i'lva:L tèt tÉKva:, ou . yap Èonv Ka:ÀÒv

À.a:(3ELV tÒV aptOV 'tWV tÉKVWV Ka:Ì. to'iç Kuva:p(otç paM:'iV.

7,27: «Ed egli le diceva: "Lascia prima che si sazino i figli, perché non è bene pren­ dere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini"».

39 Si troverà una buona sintesi delle sue scoperte in A. DERMIENCE, «Tradition et rédaction dans la péricope de la Syrophénicienne: Mare 7,24-30», in RTL 81(1977), 15-29 (21 -24). "' Cf. LUCILIO, I. 15 fr. 496-497; GIOVENALE, Satire 8,158-162. 41 « È questo bravo Dioniso, questo mezzo uomo che non è neppure greco da parte di sua madre, perché è il nipote di Cadmo, un mercante siro-fenicio» ( LuciANO, Decr. conv. § 4). 42 Cf. F.M. ABEL, Géographie de la Palestine, 2: Géographie politique, Paris 31967, 1 36 , citato da A. DERMIENCE, p. 54 della tesi, n. l. Cf. T.A. 8URKILL, in ZNW 57(1966), 23-37 (35). 43 GIUSTINO, Dia/. 78 parla della Sirofenicia (� EupO> risuona come un basso continuo, lungo tutto il racconto di Marco, e ricapitola da solo le continue pulsioni che attraversano questa storia per aprirla continuamente a un altrove e a un aldilà. Il grande affresco del capitolo 13 presenta la storia e la sua fine come una nascita: le doglie annunciano questa fine ma non lo sono ancora. La fine come tale è la venuta vittoriosa e gloriosa di quell'al­ dilà della storia nella persona del Figlio dell'uomo, che attira i suoi «dall'estremità della terra all'estremità del cielo>>, assumendo quindi tutto lo spazio immaginabi­ le, lo spazio più aperto che vi sia, per riunirli tutti nell'unico universo che rimane, que11o della gloria di Dio. Dal momento in cui «vide strapparsi i cieli» c'è nella sto­ ria una breccia irreparabile che la rende sovraesposta a una libertà ormai infinita. 7,35-37: Kal �vo('Y'lOav aùt"oiì at d:Koa(, Kal Èlu&r] b &=aJ..LÒ>. Alla prima moltiplicazione, la risposta era stata: «Cinque e due pesci>>. Qui solo «Sette (pani)>>, nient'altro. Che fare con questi numeri? I sette pani restano, come i cinque di quell'altro giorno, una quantità ridicolmen­ te piccola per nutrire, addirittura sfamare, una folla. Su questo punto l'effetto è lo stesso: quasi nulla per un immenso numero di persone. Ma «sette>>, come le >, alla fine della prima moltiplicazione) rinvierebbe quindi al contesto geografico nel quale si svolge la seconda moltiplicazione. Essa riguar­ da specialmente «coloro che vengono da lontano>>, il polo pagano sulla riva pagana del lago. Tutti questi elementi riuniti sono convergenti e ognuno di loro si distin­ gue da ciò che si trova nella prima moltiplicazione. Si può giustamente riconoscervi uno dei principali accenti del narratore evangelico . ..Perciò per Marco il messaggio

" Nella LXX ricorre 6 volte �PTJIJLct (contro 386 volte €pT]IJDç). Ma anche n si tratta semplicemen­ te di sinonimi. Marco 6,3D-8,21: la •sezione dei pani•

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di questa seconda moltiplicazione è anzitutto e soprattutto questo: Gesù invita alla tavola messianica non solo i giudei, ma anche i pagani. Così egli rivela ciò che Dio vuole e si rivela come colui che inaugura in questo modo il tempo messianico con la sua pienezza (cf. 1,14-15). 8,6-9: Ko:t no:po:yyÉUH t>, come nella prima moltiplicazione, 6,44). Ko:t Èo[oou to'ì.ç �o:ST]taiç o:ùtou 'L va: no:po:n8wo w («e li dava ai suoi di­ scepoli per servirli»): questo membro della frase corrisponde letteralmente allo svolgimento descritto nella prima moltiplicazione (6,41). I discepoli conservano il loro ruolo di mediatori fra Gesù e la folla. La successione delle azioni non ha nulla di sorprendente quando si ricorda il primo racconto: la ripetizione ha un effetto cumulativo, soprattutto perché il narratore, con piccole variazioni, evita una ripetizione troppo meccanica. Per il lettore/destinatario la somiglianza fra i due episodi raccontati ha l'effetto di un ritorno alla carica, tanto più necessario per il fatto che il discepolo, nel racconto, non sembra ancora comprendere ciò che accade. È sintomatica la maggiore concisione di tutte le espressioni in questo secondo racconto. Anche qui, la successione dei gesti di Gesù, con qualche leggera modifica, evoca il gesto della frazione del pane nell'eucaristia. I verbi si susseguono natu­ ralmente: «prendere», «rendere grazie>>, «spezzare il pane>> e «dare/condividere>>. La forza simbolica del gesto semplice non sfugge a nessuno. Lo stile sobrio, denso, ritmato corrisponde pienamente a un gesto rituale. Notiamo il legame con la cre­ azione, con Dio (prendere e rendere grazie), con se stessi e con gli altri (spezzare, dare, abbandonare e comunicare). La successione ÀU�wv . . . eùxo:pLot�oo:ç EKÀUOEV si ritrova tale e quale in Paolo, quando evoca l'istituzione dell'eucaristia in 1Cor 11,24, mentre per la coppa nell'ultima cena abbiamo ugualmente in Marco: Ko:l ÀU�v 'lTOt�pLOv eùxapwt�oo:ç EOWKEV aùto'ì.ç («e prendendo la coppa, renden­ do grazie egli [la] diede loro», Mc 14,23). La differenza più evidente con la prima moltiplicazione è il verbo «benedire>> (eÙÀ.oye'ì.v), che qui diventa «rendere grazie>> (eùxo:pLote'ì.v). Poiché i due verbi sono usati simmetricamente in occasione dell'isti­ tuzione in Mc 14,22-23, è difficile contrapporli o vedere nel primo più un uso ebrai­ co e nell'altro un uso per cristiani venuti dalle nazioni, tanto più che si ritroverà il primo verbo al versetto successivo. Marco varia volentieri le sue espressioni, qui come altrove. v. 7. Non si dimenticano i pesci. Non erano stati raccolti insieme con i pani come in occasione della prima moltiplicazione, ma vengono ricordati in seguito.

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Non si specifica il loro numero. La loro infima quantità è resa con il diminutivo txeuow: e l'aggettivo ò:Hyoc («poco»). In questo modo il parallelismo con la prima moltiplicazione risulta rispettato. Da una parte, cinque (pani) e due (pesci); dall'al­ tra, sette (pani) e tre volte nulla, quanto ai pesci. Qui, ancor più che nel primo rac­ conto, i pesci sembrano aggiunti in un secondo momento. Come nel caso della pri­ ma scena, sono state fatte varie ipotesi per spiegare la presenza dei pesci: l) ricordo storico (sia della prima moltiplicazione sia del pasto dopo la risur­ rezione, cf. Gv 21,9-12); 2) allusione a una pratica in occasione dei pasti tomunitari nella prima gene­ razione cristiana; 3) allusione all'Esodo, al miracolo non solo della manna ma anche delle qua­ glie (che sembrano uscire dall'acqua); 4) simbolo cristologico, il pesce (Lx9�) si riferisce al nome di Gesù (1T]oouç Xp Lotòç 8Eou 'Y Lòç �w-r�p). Come nel caso della prima moltiplicazione, noi crediamo che Marco abbia at­ tribuito un valore ai pesci per confermare il ruolo dei discepoli chiamati a diventa­ re «pescatori di uomini» (Mc 1,17). Al tempo stesso, l'aggiunta di questo dettaglio conferisce al pasto il suo carattere di festa, e più precisamente di festa messianica: con il pane è stato servito pesce. Koct eòì..oyi)oocç ocòt& («e dopo averli benedetti»). Si tratta di un'espressione poco semitica: nella tradizione ebraica si benedice Dio per i doni ricevuti ma non si benedicono come tali gli oggetti presentati. Segue l'ordine di servire i pesci in stret­ to parallelo con quello di servire il pane. vv. 8-9: «e mangiarono e furono saziati . . . ». Il parallelismo con 6,42-43 è evi­ dente. Ma, ancora una volta, il secondo racconto è decisamente più conciso e si limita all'essenziale, variando al tempo stesso il vocabolario: le , situato sulla riva occidentale del lago, non molto lontano da Tabga, fra Cafarnao e il kibbutz Ginnosar. Questo non collima pressappoco con la «regione» immaginata dal nostro evangelista? 8,11: Kal ÈçfJ18ov ot cl>aptcralot KaÌ. �pçavro cru(rrrelv aim\), (T)touvreç 1rap' aùtou OT)iJ.E"iov à1rò tou oùpavou, 1THp«i( ovw; aùt6v. 8,11: «l farisei uscirono e si misero a discutere con lui; gH chiedevano un segno dal cielo per metterlo alla prova», v. 11. N uovo episodio, brusco, sorprendente nella sua brevità, intenso nel con­ fronto. Dei farisei «escono>>. Da dove escono? Non sono forse Gesù e i suoi a uscire dalla barca? L'effetto invadente della loro comparsa è reso bene da que�to verbo ali 'aoristo. Li avevamo lasciati in 7,17, dopo la discussione sul puro e sull'impuro. Li ritroviamo qui e, in realtà, il luogo non è molto lontano da dove li avevamo lasciati (cf. 6,53, Gennesaret). Essi «Si mettono a discutere con lui>>: ou(T)tE"iv aùt, E i. ùoefjaEtaL tt\ yEVE� ta.utn OTJJ.1E'iov. 8,12: «Gemendo nel sno spirito, egli dice: "Che ha questa generazione a domanda­ re un segno? In verità, , non sarà dato segno a questa generazione"». v. 12. La risposta di Gesù, introdotta da un presente storico (ì..É yEL), in primo piano, scaturisce dalle profondità del suo essere, gemendo (à.vaatEva(EL v, unico caso nel NT; quattro casi nella LXX, fra cui Lam 1 ,4; Sir 25,18; 2Mac 6,30; ancor più forte di atEva(ELv, cf. Mc 7,34). «Nel suo spirito» {t> nella folla Cf. anche la nota 29. .

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parallelo sviluppato con un riferimento leggermente diverso in Eb 4,7s, basando­ si sullo stesso Sal 95(94). Matteo, nel testo parallelo, qualificherà maggiormente la generazione, scrivendo al vocativo: «Generazione malvagia e adultera!» (Mt 16,4), avvicinandosi ancor più a Dt 32,5. Marco non ignora questo linguaggio, come vedremo al centro del suo vangelo, in 8,38 e 9,19. Altri passi nel Nuovo Te­ stamento testimoniano un'analoga sensibilità, con le stesse allusioni al testo di Dt 32. Cf. At 2,40 (in bocca a Pietro), Fil 2,15, e tutto il passo che commenta il Sal 95(94) in Eb 3,7-4,1 1 . «In verità, , non sarà dato segno a questa generazione» (ttll�V >: 'im () introduce un'imprecazione che è una forma solenne di negazione. «Così l'ho giurato nella mia collera: mai entreranno nel mio riposo>> (Sal 95,11, se­ condo la traduzione abituale). Il parallelo più interessante, oltre a questo salmo, ben valorizzato in Eb 3-4, è il primo capitolo del Deuteronomio: «>, all'aoristo come un atto pre­ ciso, cioè come la dimenticanza di un momento; poi aggiunge, all'imperfetto, come una situazione che dura nel tempo: «e se non un pane, essi non (ne) avevano con loro nella barca>>. La formulazione con la negazione significa: non avevano quasi nulla con loro. A prima vista ci si trova davanti a una situazione analoga a quella descritta all'inizio delle due moltiplicazioni dei pani: ci si ritrova in pratica senza provviste. Si riuscirà a uscirne fuori? Ma c'è di più: il risalto dato a quel «Solo pane unico» che «hanno con loro nel­ la barca>> suggerisce che hanno dell'altro oltre a quel «quasi nulla». C'è l'«uno>> e l'«unico» «Con loro nella barca»! Queste pennellate discrete ma piene di effetto in greco,. specialmente con la messa in risalto di queste quattro parole («e se non un pane», EL IJ.TJ €va &ptov), attirano l'attenzione del lettore/destinatario: qui, c'è ben di più. Ricordiamo che per gli antichi, sia in greco che in ebraico (11J�). tutto ciò che riguarda l'uno può essere associato con il divino. Così «Una carne sola» della coppia in Gen 2 viene riletta da Gesù come un 'unione che Dio ha suggellato (Mc 10,8-9;

ro Anche Giovanni al capitolo 6, dove si può vedere una rilettura originale di tutta la sezione dei pani di Marco, ha un parallelo in 6,30-31 («Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? l nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto . »). ..

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cf. Ef 5,31-32). «Uno solo è buono» si comprende subito come un-riferimento a Dio (cf. Mc 10,18; 12,29; cf. ancora Eb 2,1 1). Non si può escludere che, per la comunità di Marco, questo «pane unico» avesse la forza di evocare il rito eucaristico, perché Paolo, quando ne parla, sotto­ linea che «tutti partecipiamo all'unico pane». La «frazione del pane» (KÀiiln c; -roiì &p-rou) come rito comunitario si faceva, a quanto sembra, a partire da un solo pane spezzato fra tutti: «Poiché vi è un solo pane (Etc; &p-roe;), noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane (miv-rEc; ÈK -roiì Évòc; iip-rou llHÉ XO!l-EV)>> (1Cor 10,17). «Con loro nella barca». Questi ultimi due tratti completano il quadro. Stretta­ mente parlando, questi dettagli non sono indispensabili. Il f.LE8' Èa.u-rwv («con loro stessi>>) rinserra il gruppo e l'Èv "t� 7TÀ.OLq> («nella barca>>) rafforza il tratto. Si tratta - come spesso nelle aperture dei racconti in Marco - di un momento forte, gene­ roso, intenso, nonostante la piccola stretta al cuore che si prova a causa di questa spiacevole dimenticanza.61 Soprattutto «con loro» non è privo di importanza, se si considerano alcuni casi analoghi nel nostro vangelo: in 9,8, si legge: «e subito, guar­ dando, non videro più nessuno se non Gesù solo con loro>> (-ròv 'ITJooiìv J.LOVOV J.LE8' Èa.mwv). In 14,7 Gesù dice: «< poveri, li avrete sempre con voi (ÉXE"tE J.LE8' Èa.u-rwv) [ . . . ], ma non avrete sempre me>>. Infine in 2,19 è ancora Gesù a parlare in immagini: «l compagni dello sposo possono digiunare finché lo sposo è con loro (o vuJ.L(oc; ' J.LE"t a.ù-rwv)? Finché hanno lo sposo con loro (ÉxouoLv -ròv vuJ.L(ov J.LE"t' a.ù-rwv), non possono digiunare . . . >>. In ciascuno di questi casi, il f.LE8' Éa.u-rwv o J.LE"t' a.ù-rwv riguarda la presenza o l'assenza di Gesù. Tutto ciò invita a vedere in questa apertu­ ra della pericope l'intenzione di evocare ben più della semplice mancanza di pane. Marco suggerisce. Il lettore ha intravisto la presenza segreta dell'unico necessario o resterà, con i discepoli, confuso per la mancanza di una provvista: abbiamo dimenti­ cato di prendere del pane con noi? I discepoli che non comprendono nulla riguardo al lievito dei farisei e di Erode, non comprendono nulla neppure riguardo a questo «unico pane» che hanno «coò loro nella barca>>. Così gli stessi esegeti, che rifiutano ogni spiegazione data riguardo al lievito che segue, non hanno percepito la possibi­ le portata dei tratti sopra definiti del versetto che precede.62 v. 15. «Egli faceva loro questa raccomandazione>>, OLa.o-rÉÀ.À.Eo&L (cf. 5,43), all'imperfetto, come insistenza ripetuta. «Aprite l'occhio», 'OpihE (cf. 1,44) è puramente esortativo. Cf. aprire l'oc­ chio, fare attenzione a. BÀ.É7TE"tE («vedete !>>) ne è il duplicato enfatico. Seguito da oc7T6, il verbo significa: «State in guardia>>, (cf. 12,38; Luca ha una formulazione analoga: 7TpooÉXE-rE OC7TO -rfìc; (ullfìc;, «diffidate del lievi­ to . . . >>, Le 12,1).

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Cf. «Il racconto elementare», pp. 175s.

62 Cf. Q. QuESNEL, The Mind of Mark. lnterpretation and Method through the Exegesis of Mark

6,52 (AnBib 38), Rome 1967, che presenta un ampio stato della questione su questa finale della sezione dei pani (Mc 8,14-21 ). Cf. anche T. SNov, «La rédaction de la marche sur les eaux (Mc VI, 45-52)», in ETL 44(1968), 205-241 e 433-481. ll logion del v. 15 ). Inoltre, il lievito impedisce al pane di conservarsi a lungo. Paolo ne parla ai suoi galati come di un'influenza nefa­ sta (Ga1 5,9), e ai corinzi, che esorta a celebrare la Pasqua «non con il lievito vecchio né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di purezza e di verità>> (1Cor 5,6-8). L'immagine del lievito nel nostro contesto fa parte dello stesso campo se­ mantico di quello del pane, delle briciole, dei pezzi, e questo rafforza il legame con tutto ciò che precede. Al tempo stesso, evoca un'abitudine tipica del tempo di pre­ parazione alla festa di Pasqua: l'abitudine di eliminare ogni «lievito», purificandosi sistematicamente. In una notte pasquale, tutto questo acquista evidentemente un maggiore significato. Allora «guardatevi dal lievito>> risuona come la raccomanda­ zione dell'apostolo: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, perché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato !>> (1Cor 5,7). Chi ha riconosciuto in Gesù «il Cristo>> e la «nostra Pasqua>> si purifichi dal «lievito vec­ chio>> di Erode e dei farisei, loro che non hanno chiaramente riconosciuto in Gesù il profeta escatologico, il Messia, il nuovo Mosè, quello della fine. Bisogna quindi guardarsi dall'influenza sia di Erode sia dei farisei. Essa è nefa­ sta. L'immagine conserva, senza dubbio volutamente, il suo carattere vago e persi­ no enigmatico. Volendo scoprire un contenuto più preciso in questa messa in guar­ dia, bisogna tenere conto soprattutto del contesto letterario. In questo caso il nome di Erode e il termine farisei non hanno alcuna connotazione politica o sociologica: ci sembra fuori luogo leggere qui un'allusione alla situazione dei cristiani a Roma: «Erode» potrebbe far pensare agli erodiani, il gruppo di giudei che sono riusciti a introdursi nei ranghi più alti della società romana e non hanno alcuna simpatia per la nuova setta venuta dalla Galilea; i «farisei>> rappresenterebbero allora le comuni­ tà giudaiche tradizionali e le loro sinagoghe. Ma le osservazioni di Gesù in ciò che segue non vanno affatto in questa direzione. In realtà, dopo il prevedibile equivoco dei discepoli, Gesù correggerà l'inte­ ra prospettiva e interpellerà i suoi sul piano della «comprensione>>. Ora Erode, se ha giocato un qualche ruolo nel Vangelo di Marco, lo ha giocato in relazione alla comprensione dell'identità di Gesù. Si è sbagliato, profondamente ((Mc 6,14-16). E ugualmente i nostri farisei: essi restano fuori, non comprendono, non si lasciano conquistare dalla persona di Gesù che si rifiutano di riconoscere in tutta la sua mis­ sione profetica e, in definitiva, messianica. Il lievito è allora ciò che impedisce di

63 Risulta immediatamente evidente il motivo per cui Marco mette in bocca ai «farisei» la richiesta di un segno dal cielo, nella pericope precedente (Mc 8,11 ) Questi «farisei» assicurano la continuità con quelli del capitolo 7 e quando, alla fine, Gesù parla del «lievito dei farisei» (8,15), si riferisce con questo tennine «farisei>> sia a quelli che lo hanno messo alla prova in precedenza sia a quelli del capitolo 7. In questo modo si ricapitola sotto il loro nome tutta l'opposizione che interviene lungo l'intera sezione. .

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accedere alla piena conoscenza di ciò che è Gesù. Così Marco ci guida come lettori verso la domanda centrale, che verrà nuovamente posta una decina di versetti più avanti: chi è Gesù (cf. 8,27-30)? Questo tema della giusta comprensione ha accom­ pagnato, in filigrana, tutta la sezione dei pani. È a esso che bisogna collegare anche questa messa in guardia dal lievito dei farisei e da quello di Erode.

8,16-21: Ka:ì. OLEA.oy(Covto rrpòç &.U�A.ouç on "Aptouç oÒK €xou0lv. 17Ka:Ì. yvoùç A.ÉyE L a:Ùtoi.ç, T ( OLa:A.oy(CHJ9E OtL liptouç oÙK EXEtE; oimw VOEi.tE oùOÈ auv(EtE; rrErrwp�Évrw EXEtE t�v Ka:po(a:v ÙJ.Lwv; 1Sò> (v. 17 e v. 21, stessi verbi che in 6,52 e 7,14.18). Il >Y Tuttavia questo allontanamento dal contesto imme­ diato è solo apparente. Infatti vedremo che ciò che avviene in questo piccolo quadro riguarda in profondità sia il discepolo del racconto (che Gesù ha appena trattato da «cieco>> - «chi ha occhi e non vede>>) sia il discepolo della comunità di Marco che si prepara all'ultima tappa della sua iniziazione. Il battesimo non era forse chiamato, fin dai tempi antichi, una «illuminazione» (cjlwnofl Èç�VEYKEv a.ùtòv €çw -cf)c; KW�Tlc; Kal 1Ttooa.c; ELç tà OIJ.�'ta aù-coiì, Ém9Etc; -ccXc; XE'ipa.c; a.Ùt>, «si giunge>>). Ma il verbo successivo, pure al plurale, suppone un altro soggetto, per cui bisogna tradurre con un «essi>> personale, che ingloba Gesù e i discepoli.

66 Matteo, da buon catechista, chiarisce e decifra ciò che è enigmatico in Marco: «Allora essi compresero che egli non aveva detto di guardarsi dal lievito del pane, ma dall'insegnamento dei farisei e dei sadducei» (M t 16,12). Altro genere, altra modalità di comunicazione. " Cf. pp. 139 e 474, n. 12. Cf. Composition, 1 12-1 18.

Marco 6,30-8,21: la •sezione dei pani»

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Il narratore non menziona più che scendono daDa barca. Ormai la barca è de­ finitivamente alle nostre spalle. Ora giungono a Betsaida, la destinazione che Gesù aveva indicato ai discepoli subito dopo la prima moltiplicazione dei pani (cf. 6,45). Finalmente, si potrebbe dire, dopo più o meno tre capitoli di vagabondaggio. In questo momento estremo, nel quale essi non vedono e non comprendono più as­ solutamente nuDa (v. 21), ecco che, quasi loro malgrado, arrivano là dove devono essere. La vera «intelligenza» è un dono. Quando l'impasse è al colmo, ecco che im­ provvisamente, in modo insperato, si presenta una via d'uscita. In Marco questo si realizza attraverso il racconto. In molte biografie spirituali si trova descritto lo stes­ so processo ineluttabile; dopo la morte del primo «iO» tutto diventa luce. «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (cf. Gal 2,20). Su «Betsaida» come posto di frontiera fra la Galilea, il territorio di Erode Anti­ pa, eia regione della Decapoli, cf. sopra il commento a 6,45. In occasione della prima traversata, all'altro capo della sezione, i discepoli non hanno raggiunto la loro desti­ nazione. Invece di raggiungere Betsaida sono finiti a Gennesaret (6,53). Non hanno neppure saputo accogliere la rivelazione di Gesù che camminava sull'acqua e, per dir­ la tutta, la «loro mente era chiusa riguardo ai pani», secondo il commento del narra­ tore (6,52). Ora si assisterà a un totale capovolgimento della situazione: essi giungono a destinazione (8,22), un cieco recupera la vista (8,25) e subito dopo uno di loro con­ fesserà la vera identità di Gesù (8,29). Questo invita a rileggere la guarigione del cie­ co di Betsaida in stretto rapporto con il tema dell'incomprensione dei discepoli (6,52; 7,17-18 e 8,17-21) e del loro progressivo riconoscimento di chi sia veramente Gesù. «E gli conducono un cieco, pregandolo di toccarlo>>. Notiamo lo slittamento: «essi giungono ed essi gli conducono un cieco>>. Nel primo caso si tratta di Gesù e dei suoi, nel secondo «ci si>> rivolge a lui, Gesù, e i discepoli dove sono? È piutto­ sto un «Si>>, forma impersonale, a condurgli un cieco. Questa ambiguità narrativa viene subito spiegata ed eliminata da coloro che vedono, a partire dal secondo verbo, la presenza di una sorgente che il narratore introduce e incolla - in verità, piuttosto maldestramente - a ciò che precede. Ma forse l'ambiguità - è persona­ le? è impersonale? - ha anche il merito di permettere al lettore/destinatario di ascoltare il racconto «in tutti i sensi>>: può identificarsi con i discepoli che arrivano e lasciarsi subito prendere dal verbo che conduce il cieco da Gesù, come portato da un'unica azione. È il discepolo a proposito del quale Gesù ha appena detto: hai occhi e non vedi? Ed è l'uomo che si conduce per essere toccato e preso in mano da Gesù. Il gesto legato al verbo «portare» (cjlÉpE w) è frequente in Marco (cf. specialmen­ te 2,3, il paralitico, e 7,32, il sordomuto). E (stessi verbi: «pregare» e «toccare>>). E tuttavia una sottile differenza: là pregavano di poterlo toccare, qui che egli voglia toccarlo. Toccare o essere toccato: il contatto guarisce. In questo caso la richiesta di essere toccato significa: essere trattato in modo terapeutico. Il trattamento consiste nel toccare con la mano, o nell' «imporre le mani», come si chiedeva di fare per il sordomuto (cf. 7,32, dove si vede in seguito un tratta­ mento approfondito, perché il «toccare>> coinvolge le mani, le stesse dita e la saliva). La richiesta suppone la fede, la fiducia che attraverso il contatto si verificherà la guari­ gione (cf. l'emorroissa in 5,28). Toccare è sempre un modo di identificarsi con l'altro. Il guaritore che vuole toccare efficacemente entra a sua volta nella stessa area della L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

fede. Da fede a fede può avvenire un miracolo. In Gesù, la fede in se stesso è la forte consapevolezza che «tutto ciò che è tuo è mio»: egli vive in un'apertura illimitata con la Sorgente onnipotente e libera di Dio, suo Padre. In questa presa di coscienza, tutto è abbandono, dimenticanza di sé e stabilità nell'assoluto dell'Altro. v. 23: «Prendendo il cieco per mano, lo fece uscire dal villaggio». Primo atto dell'azione terapeutica: l'isolamento. Abbiamo visto la stessa cosa in 7,32s: in di­ sparte dalla folla. Il commento ha sottolineato la corrispondenza con tutta l'azione iniziatica e con l'idea corrente in Marco: bisogna liberarsi dall'opinione e dal com­ portamento gregario di ogni «folla» per raggiungere veramente Gesù. Il termine >, in ExpT 87(1975-76), 23: > (9,13; 12,7), «le cose gravi>> come . Un ultimo imperativo («ascoltatelo») collega la rivelazione con ciò che precede: l'appello a seguire colui che dimostra di essere l'ultima rivelazione dopo Elia, e al di là di Mosè. E. Il quinto elemento (9 ,9-13) reintroduce anzitutto, come alla fine del primo elemento, la severa raccomandazione di non parlare di ciò che si è visto, perlomeno per il momento'. La conversazione continua su un versetto biblico, parlando della venuta di Elia, il precursore del Messia («prima deve venire Elia»). Nella sua risposta Gesù torna sia sulla questione dell'identità (cf. A) sia su quella della necessaria sofferenza del Figlio dell'uomo (cf. B). Egli identifica Giovanni Battista con «l'Elia che deve venire prima» e indica che uno stesso destino di sofferenza lo unisce al suo precursore. Mentre è abbastanza facile isolare l'elemento C, gli altri quattro elementi (A, B e D, E) poggiano l'uno contro l'altro: il tema dell'identità di Gesù in A trova il suo complemento in D e il tema della necessaria sofferenza in B trova la sua conferma in E. Così nella composizione si delinea un chiasmo.

l A. 8,27-30 l l R 8,31 -33 l l 34-35

E. 9,9-13 D. 9,2-8 38-9 ,1

l

l

36-37 c.

Al tempo stesso vi sono molte corrispondenze fra A ed E, l'inizio e la fine. «Elia» associato a Giovanni Battista compare da entrambe le parti. In A Gesù pone le domande ai discepoli e in E sono i discepoli a interrogarlo. Il ruolo di Pietro in B e D è piuttosto analogo: in entrambi i casi, non riesce a essere all'altezza di ciò che si dice o avviene. La forza di queste corrispondenze consiste nel fatto di articolare bene l'uno sull'altro i due grandi temi: quello della conoscenza dell'identità di Gesù e quello del necessario destino di sofferenza di colui che viene riconosciuto come il Messia. Così tutto il dramma di Marco si intreccia e si risolve nell'unica transizione che va da 8,29 a 8,31. Da un lato, la confessione di Pietro in 8,29 («Tu sei il Cristo») costituisce il punto d'arrivo della lunga suspence che attraversa i primi otto capitoli; dall'altro, l'annuncio dell'ineluttabile sofferenza del Figlio dell'uomo apre il racconto su una prospettiva che ingloberà l'insieme degli otto capitoli che seguono.

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L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

Paul Claudel e il centro di Marco L 'annuncio a Maria di Pau! Claudel illustra a suo modo l'originalità drammatica della sezione centrale di Marco. Al centro del dramma di Claudel si vede ricomparire, dopo una lunga assenza, la protagonista Violaine. Eccola, in mezzo ai familiari: padre, madre, la sorella Mara, il fidanzato, tutti la vedono. Ma questo momento di riconoscimento, di per sé gioioso, coincide drammaticamente con la scoperta che Violaine è segnata da una malattia mortale. Lo choc è enorme. Lei comunque, pienamente consapevole di ciò che l'aspetta, ripartirà per vivere in disparte, soffrire e morire necessariamente in solitudine. Come Gesù, Violaine si mostra e sa: ha già accettato il suo destino ineluttabile e fatale. Il seguito del dramma si svolgerà nel cuore di ciascuno degli altri personaggi: come il padre, la madre, la sorella o il fidanzato riusciranno ad accettare questa prospettiva della morte della figlia, sorella o fidanzata? Il seguito del dramma di Marco è dello stesso tipo: Gesù riaffermerà ripetutamente il suo destino di sofferenza e di rifiuto, ma il discepolo, nel racconto come nell'uditorio dei destinatari di Marco, sarà in grado di seguirlo su questa strada verso il rifiuto totale e la crocifissione?

8,27·30. La confessione di Pietro

8,27-30: Ko:ì. È/;fì}..SE:v ò 111aoUç KttÌ. oL !J1X911•ttì. o:Ù"tou E Ì.c; •ètc; KWIJIXc; Ko:LattpE(o:ç •ile;; ci>Lì.. Lnnou· KttÌ. Èv •tì ò04J È1l11PW"ttt •oÙç j.J.tt9tFIÌc; o:Ù"tofl lÉywv o:Ù"to'ì.c;; , T(vo: IJ.E lÉyoooLv oL &v9pwnoL EÌ:vcu; 28oL OÈ EÌ:nav o:ù•4J lÉyovnç [on] 'Iw&.vvrw "tÒV Pttnna"t�V, KttÌ. aÀ.À.OL, 'Hl(o:v, aUOL OÈ on Elç "tLlV npO>. Kat aùtòç («e lui>>): si cambia soggetto e, non senza una qualche enfasi, viene introdotto l'aÙtoç. Gesù «interroga» di nuovo (cf. v. 27), il che conferisce una certa solennità al passo. 'AtroKpL9Etç o IIÉtpoç ÀÉyE L aùt'i> («rispondendo, Pietro gli dice»). Nessuna particella di congiunzione, il che è eccezionale ed esprime sempre una forte tensione nella successione delle frasi. Presente storico del verbo principale, preceduto dal verbo all'aoristo, àtroKpLvE09aL, già incontrato quattro volte ma che ritornerà ancora più spesso in seguito (cf. 3,33; 6,37; 7,28; 8,4. In seguito, non meno di 25 volte: 9,5.6.17.19; 10,3.24.51; 11,14.22.29.30.33; 12,28.29.34.35; 14,40.48.60.61; 15,2.4.5.9. 12). Almeno otto volte Marco compone in questo modo il participio all'aoristo, seguito dal verbo ÀÉyHv al presente. Apertura molto solenne per introdurre la parola di Pietro (cf. 9,5, del tutto analogo, creando così un'ulteriore simmetria fra il nostro passo in A e quello in D). Sono stati interrogati tutti, ma a rispondere è Pietro. Si potrebbe dire che sia il loro portavoce o anche che, quando si tratta di confessare, ognuno deve prendere la parola al singolare e impegnarsi personalmente. Non si confessa in modo gregario. Inoltre, il fatto che chi risponde in questo modo sia proprio Pietro rivela qualcosa del legame che l'evangelista intrattiene con questo discepolo/testimone di Gesù. Non è forse il primo chiamato (1,16), colui che sarà più spesso citato per nome lungo tutto il racconto e l'ultimo menzionato alla fine (16,7)? Nel racconto Pietro è considerato il testimone per eccellenza. Ma Marco non ha solo un legame privilegiato con Simon Pietro: il fondamento del percorso che egli delinea per la catechesi iniziatica del discepolo corrisponde in profondità al percorso spirituale effettuato dal primo dei Dodici. Questa scelta - Marco lo riconosce attraverso certe debolezze confessate del suo protagonista - ha necessariamente i suoi limiti, perché ogni individuo ha non solo la sua unicità, ma anche al tempo stesso il suo lato limitato e il suo lato esemplare. È sulla strada percorsa da Pietro fino in fondo che il nostro autore educa il suo lettore, e lo conduce alla vera libertà e alla piena conoscenza di chi sia Gesù. «Tu sei il Messia>>, il Cristo, l'Unto (o Xp Lotoç). L'espressione è risuonata nelle prime parole del testo (1,1: «vangelo di Gesù Cristo>>), ma da allora nessuno l'ha più ripresa, neppure il narratore (cf. più avanti nel testo: 9,41; 12,35; 13,21;

Marco 8,27-9, 13: la sezione centrale

457

14,61; 15,32). Si tratta quindi di una buona identificazione, esatta, fedelmente corrispondente all'apertura (1,1). Essa interviene qui in contrasto con le identificazioni errate che sono state richiamate. C'è un'evidente rottura, ma forse anche una qualche continuità: per Marco, Gesù è anzitutto un Messia profetico e la triplice identificazione errata suggeriva comunque un riconoscimento profetico della persona di ·Gesù. Certo, non è , ma «il profeta>>, colui che Mosè annunciava: profeta escatologico, messianico (cf. Dt 18,15.18). Per Marco, il termine «CristO>> o «Messia>> indica il compimento delle promesse messianiche contenute nelle Scritture e l'irruzione escatologica del regno di Dio. 1 Perciò la risposta di Pietro corregge ciò che dice (Gv 1 41 ) Filippo dice: EJ..Ei. &vepwrrov KEpOf]> (9,1 : K«Ì. EÀf'YEV a.ù-.o'iç). Abbiamo già incontrato più di una volta questo procedimento consistente nello staccare una frase alla fine di un paragrafo, senza tuttavia separarla (cf. 4,9, introdotto da KIXÌ. EÀEyEv; e 8,21, con la stessa introduzione che abbiamo qui). In realtà, le proposizioni si concatenano con una distribuzione equilibrata, raggruppate a due a due, e secondo una disposizione concentrica facilmente riconoscibile: l) la sentenza del v. 34 è ripetuta da quella del v. 35; 2) la domanda retorica, di tono sapienziale, del v. 36 viene ripresa una seconda volta al v. 37; 3) la prospettiva escatologica si apre una prima volta al v. 38 e viene riaffermata con forza in 9,1. Dal punto di vista estetico, si vedono ricomparire in greco in modo simmetrico varie locuzioni che rafforzano l'unità dell'intero paragrafoY

E'L ne; 8ÉÀE L òrr(ow f.J.OU ÉÀ8E'iv, &:rra.pvT]olio8w Èau-.òv KUÌ. IÌ:pU'tW 'tÒV O't«UpÒv IXÙ'tOU KIXÌ. OCKOÀOU8EL'tW f.J.OL. 35oç yàp Èàv 8ÉÀ1J 't�V IJroX�V UÒ'tOU OWOUL &:rroÀÉoEL aù-.�v · oç li' civ OCTTOÀÉOEL ·�v IJrox�v aÙ'tou EVEKEV Ef.J.OU KUÌ. 'tOU EÙUyyEÀLOU OWOEL UÙ't�V. 36'1'( yàp W>, anche «ignorare» l'altro e considerarlo come estraneo. Questo altro in Isaia è il Creatore, e nel Nuovo Testamento il Cristo, come in occasione del celebre rinnegamento di Pietro, cosi fortemente sottolineato in Marco (cf. Mc 14,30-31 .72: «tu mi rinnegherai tre volte>>, «io non ti rinnegherò»). Un logion conservato in Luca, e attribuito normalmente alla fonte Q (cf. Mt 10,32-33), è costruito in due parti antitetiche. Viene enunciata dapprima la proposizione positiva, con il verbo «confessare», «dichiararsi per» (Òj.LoÀoyE1v ) : «>), ma anche in 10,29 («a causa di me e a causa del vangelo>>). Toù eùa:yyeÀ.Lou, espressione tipica di Marco. Al centro della sua composizione egli si preoccupa di richiamare la parola chiave dell'apertura (cf. 1,1 e 1,15 ) . C'è la persona di Gesù e c'è il messaggio vittorioso. Chi aderisce a Gesù si dispone ad accogliere tutto il messaggio e a portarlo. In 3,14 i Dodici erano scelti «per essere con lui (la persona) e per mandarli a proclamare», cioè ad annunciare

16 H. CousiN , «Le prophète assassiné», in DELARGE, introduction C. DuQuoc, Paris 1976.

Marco 8,27-9, 13: la sezione centrale

Histoire des textes évangéliques de la Passion, par J.-P. 471

il vangelo. Anche in 13,9, ritorna il «per causa di me» (ÉVt:KEV Éf.loiì) e, in 13,10, del «vangelo». Si tratta di una realtà (cf. 1 ,1), enunciata per lo più con due espressioni. v. 35a. È puramente paradossale: chi vuole salvare la sua vita, la perderà, la rovinerà. La frase ha un sapore sapienziale (come del resto le due che seguono, vv. 36-37). L'uomo non può salvare se stesso, dato che non può giustificarsi fino in fondo. Chiunque pretendesse di poterlo fare, andrebbe decisamente alla rovina. Come accedere allora alla salvezza? «Chi può essere salvato?» (la domanda risuonerà con tutta la sua forza in 10,26: ·d.ç òUva.tocL ow9ftva.L). v. 35b. L'altra metà del proverbio non si limita ad affermare il contrario di 35a. Aggiunge: «per causa mia e del vangelo» (ÉVEKfV Éf.J.OU Ka.l tou EÒa.yyEÀLou ) . Non ogni forma di perdita della vita è salvifìca. Solo chi abbandona completamente se stesso per questo Soggetto unico - Gesù - conoscerà la vera salvezza. In lui c'è salvezza. Se inizialmente la frase è stata formulata in ebraico o in aramaico, il verbo «salvare>> e il nome proprio di colui che parla, «a causa di me», «Gesù/Jehoshua>>, si rinviano a vicenda direttamente agli orecchi degli ascoltatori. In M t 10,39 si legge: «Chi avrà trovato la sua vita l la sua anima, la perderà e chi avrà perduto la sua vita l la sua anima per causa mia la troverà>>. L'immagine è diversa. Si tratta di «trovare» e di «perdere>>, come si trova o perde un tesoro, una cosa di grande valore. Solo in Gesù l'uomo può «trovarsi>>. Qui il sapore sapienziale è ancora più evidente. La parola è rivolta a coloro che sono alla ricerca della sapienza, del valore supremo. Gesù predica l'abbandono, il «lasciare tutto>>, la rinuncia radicale a se stessi. Chi accetta di farlo, sulla sola parola del Maestro, conoscerà la vera sapienza. Nel cuore del messaggio evangelico c'è la ricerca del valore supremo. Esso viene indicato con molti nomi diversi, a seconda degli ambienti e delle tradizioni: in una tradizione si chiama la Sapienza, in un'altra il Regno, nella corrente di ispirazione profetica il Messia con la sua pienezza. In Le 17,33 si legge un'altra variante: «Chi cercherà di risparmiare (nEpL1TO L�oa.o9a.L) la sua vita l la sua anima la perderà, e chi la perderà la preserverà ((.Joyo�oEL)». Là, anche a causa del contesto, il senso è anzitutto escatologico. Perciò la stessa parola si presta almeno a tre diversi registri: sapienziale, cf. Mt 10,39; soteriologico, cf. Mc 8,35; escatologico, cf. Le 17,33. Non spetta a noi decidere quale delle tre prospettive sia, con maggiore probabilità, quella originaria. In Gv 12,25 troviamo la creatività dell'ambiente giovanneo che, con lo stesso materiale attestato dai sinottici, ricompone massime e proverbi. Fra 12,23 e 27 si può notare la successione di quattro momenti. Si parte dal più generale («il chicco di grano che cade in terra e muore>>, come una legge di natura) per giungere al più personale e immediato: Gesù stesso, colto nel turbamento e nell'angoscia della sua agonia. Il secondo momento è quello che si avvicina di più al nostro versetto: Chi ama la propria vita l la propria anima, la perde. E chi odia la propria vita / la propria anima in questo mondo, la conserverà in vita etema (Gv 12,25).

Qui il sapore sapienziale del logion è sorprendente. La relazione con Cristo in persona non compare più, ma non si può escludere che l'autore comprenda questo proverbio come una parola che riguarda anzitutto Gesù. Il paradosso viene usato per se stesso. Ogni amore narcisistico e filautico («l'amore di sé») viene qualificato come perdizione. La seconda proposizione si avvicina a Mc 10,29-30 par. e a Le 14,26 ( ('d yàp

LltpEÀE'i. &v9pc.>1Tov KEpùftmn 'tÒv KOOIJ.OV oÀov Kal (TJiJ.Lc.>9ftvaL ri)v ljtux�v aÙ'tou; ,( yèx.p ùo'i &v9pc.>1Toç àv•aHayiJ.a •ftç ljtuxftç aùmu;). valido Tutte le frasi, a partire da 8,34, si collegano con un yap («infatti») giustificativo.

Ogni nuova proposizione chiarisce e approfondisce l'impegno di colui che accetta di camminare dietro a Gesù. Il sapore sapienziale delle tre proposizioni (vv. 35.36.37) conferisce a questo impegno il carattere di un cammino giusto e giustificato, saggio e vantaggioso per il soggetto. Ma è una saggezza paradossale: è saggio farsi stolti, è vantaggioso scommettere sulla gratuità, e a chi pensa a se stesso si raccomanda di rinnegarsi davvero. I due versetti che seguono (36-37), sorprendentemente paralleli fra loro, si trovano al centro delle sei sentenze riunite da Marco (8,34-9,1), che come insieme si trovano al centro della sezione 8,27-9,13, il passo che lega tutta l'argomentazione da 6,14 a 10,52, la grande parte mediana, che occupa per un terzo il centro di tutto

17 Cf. un utile dossier sull'amore di sé, illustrato in seguito a partire da uno dei più grandi padri spirituali del suo tempo, Massimo il Confessore, in l. HAUSHERR, Philautie. De la tendresse pour soi à la charité selon saint Maxime le Confesseur (OrChrAn 137), Roma 1 952. Si potranno leggere con profitto anche le riflessioni di M. BALMARY, in La divine origine. Dieu n'a pas créé l'homme, Grasset, Paris 1993, 291-320 («Un Messie à ne pas suivre» ), dove l'autrice commenta Mc 8,34s e i suoi paralleli, e osa capo­ volgere la lettura abituale con il suo senso distruttivo del soggetto, chiamato a seguire. «Seguire>> signifi­ ca alla lettera «accompagnare» (lil>, anch'esso caso unico in Marco). Paolo in Fil 3,7s gioca sulla stessa antitesi. Per «guadagnare» Cristo è stato disposto a «perdere» tutto. La domanda retorica riguarda l'utile (0>). Paralleli a queste due proposizioni sapienziali si trovano un po' ovunque, sia nella Bibbia greca sia in tutte le letterature, da Euripide ( Oreste 1 155) e Giobbe (28,15), a Menandro e Filone, dai Salmi ( 48,8 LXX) e dallo Pseudo­ Baruch (51,15) a Clemente Alessandrino (cf. già Swete, 183s). Non si tratta tanto di sapere chi viene citato qui quanto piuttosto di riconoscere il genere di interrogazione formulata da questi due versetti. I saggi di ogni estrazione - Qoelet in testa - si chiedono spesso: che cosa è veramente utile all'uomo? Oppure: quale valore supera ogni altro valore? Le due domande dei vv. 36 e 37 suppongono la stessa risposta negativa: nulla supera la vita o l'anima! La seconda formulazione, nettamente più breve, traduce l'effetto di perdita irreparabile mediante la stessa brevità della frase. Marco, collocando queste sentenze proverbiali qui al centro, conferisce al suo discorso una portata universale, incentrata sul valore sommo. L'invito del Maestro in 8,34 («Se qualcuno vuole venire dietro a me . . . >>) è rivolto in particolare all'individuo, ma riguarda ogni uomo e interpella ogni uomo su ciò che c'è di più prezioso. Ecco il complemento espresso dai vv. 36 e 37. Si passa dal particolare all'universale, poi si torna, al versetto seguente, al particolare, ma in questo caso illuminato dalla luce dell'ultimo: l'incontro escatologico che combina sempre l'universale e il particolare, l'ordine della storia e quello dell'universo (cf. Mc 13,24-27). v. 38: «Perché chi sarà arrossito di me e delle mie parole iil questa generazione adultera e peccatrice, anche il figlio dell'uomo arrossirà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi» (oç yà.p f:à.v È1TIXLOJ(UV9ij j.LE KIXÌ. roùç

Èj.LOÙç Àoyouç Èv tij YEIIE� tiXU!lJ tij j.LOLJ(IXÀLlÌ L KIXÌ. ftj.LIXptWÀC\ì, KIXÌ. O ui.Òç tOU &vepw1rou È'TTIX Loxuve�aEtiXL IXÙrov, otiXv ÉJ..eu f:v tfl M�u rou 1T1Xrpòç IXÙrou iJ.Età tWII ayyÉÀWII tWII ày(wv).

La nuova frase, la cui apertura in greco è accuratamente ricalcata su quella del v. 35 (oc; yà.p Mv), spinge il ragionamento fino in fondo, fino all'ora escatologica, «quando il figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi>>. È la prima volta che Marco apre questo registro sull'ora della fine e parla della gloria (cf. 10,37; 13,26). In seguito questa prospettiva diventerà una costante. L'attesa di tutta la comunità è quella: il Figlio dell'uomo ritornerà e lo farà in gloria e potenza (cf. 13,24-27; 14,62). Nella veglia pasquale ci si ricorda di tutte le notti, e in particolare di quella che deve ancora venire, la quarta notte, quella della fine. In contrasto con lo scenario evocato dell'ultima ora, c'è il presente caratterizzato dalla vita «in questa generazione adultera e peccatrice>>. L'espressione è molto carica, e come tale unica in Marco, anche se ha dei precedenti, come in 8,12 («questa generazione»), e per ciò che segue cf. 9,19 («questa generazione incredula»; cf. 13,30). Parlare in questo modo della generazione contemporanea si addice 474

L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

profonda coscienza profetica: l'espressione ricorda il linguaggio di Mosè {cf. Dt 32,5; cf. Mt 12,39.41; Le 11 ,29s). Questo linguaggio si ritrova anche nei primi cristiani (At 2,40, in bocca a Pietro, in occasione del primo appello alla conversione), e in Paolo (cf. Fil 2,15). Marco prolunga e assume questo tipo di linguaggio. Da Mc 1,4-5 è evidente che il peccato intacca l'insieme della generazione attuale. Il verbo «arrossire» o «aver vergogna» (ÈTTa:Lax.uvEa9a:L, due volte, unici casi in Marco) appartiene allo stesso campo semantico. Il ragionamento implicito è quello di un rimpovero a fortiori: se ora voi non avete vergogna di essere complici di questa generazione adultera e peccatrice, quale non sarà la vostra vergogna quando comparirete alla faccia della gloria divina? Ma nell'opposizione fra ora e allora prende posto ogni volta il Soggetto unico di Gesù. Tutto si decide riguardo a lui e in rapporto a lui: «me e le mie parole» o «il figlio dell'uomo». La reciprocità viene espressa con forza mediante la ripetizione dello stesso verbo «arrossire/avere vergogna», ma modificando il soggetto e il complemento oggetto diretto: se voi arrossite di me, io - il Figlio dell'uomo - arrossirò di voi! Una stessa· reciprocità risuona nel logion parallelo di Q, già citato sopra, e anche nell'inno conservato in 2Tm: «Se noi lo rinneghiamo, anche lui ci rinnegherà» (2,12b ). Consideriamo i due passi più da vicino. a) Le 12,9: >, mentre si è autodesignato «figlio dell'uomo>>. Al tempo stesso attribuisce una gloria propria al Figlio, accrescendo ulteriormente la sua dignità. Riguardo agli angeli in connessione con Gesù, cf. Gv 1,51; Eb 1,6; Ap 1,1 e 22,16. Marco fa subire al suo destinatario un percorso estremamente concentrato: chi si appresta a seguire Gesù, secondo il v. 34, si trova di colpo a dover incontrare al v. 38 il Figlio dell'uomo quando verrà nella gloria. La scelta fatta all'inizio ha conseguenze che si verificheranno fino all'ultima ora. I termini «croce>> e «gloria>>, che risuonano alle due estremità del percorso (v. 34 e v. 38), cristallizzano tutta la tensione contrastata fra l'inizio e la fine. Bisogna scegliere, e la scelta impegna

Testament presented to Matthew Black, by E. BEST - R. MeL. WJLSON, Cambridge 1979, 155-168. «Come Gesù patì e fu vendicato, così anche i suoi seguaci possono aspettarsi di patire e di essere vendicati>> (p. 165). «l detti sul "figlio dell'uomo" sfidano a includere altri e a considerare l'interpretazione corporativa una realtà e non una possibilità» (p. 168). Cf., d'altra parte, ciò che si dice del Figlio dell'uomo in Marco, pp. 42s, 563 e 793. 20 Per il significato di questo > in 16,27 e 16,28, trasformando il secondo versetto per renderlo più conforme al primo. Invece i moderni, a cominciare da chi ha numerato i versetti, hanno letto questa messa in rilievo come una proposizione distaccata e facente maggiormente parte del contesto che segue. Cosi nelle nostre edizioni questo versetto apre il nuovo capitolo 9.21 «In verità, io vi dico» (lif..L�V M.yw Uf..LL V). Questa introduzione è un modo supplementare per mettere in risalto ciò che segue, a volte con una forte emozione. Per lo più, questa espressione in Marco giunge alla fine di un'unità. Finora abbiamo incontrato due casi (3,28 e 8,12, senza i>f,Li.v e forse anche senza }..f.yw; per il seguito, cf. 9,41; 10,15.29; 1 1 ,23; 12,43; 13,30; 14,9.18.25.30). Le dodici o tredici parole introdotte da queste tre parole fanno ogni volta appello direttamente alla comunità: al di là degli immediati destinatari nel racconto, Gesù interpella il lettore o uditore del racconto evangelico. Qui è particolarmente evidente, come anche in 9,41; 10,29; 13,30 e 14,9. Ma bisogna leggere anche gli altri passi, con la stessa forza ..

21 Citiamo LÀGRANGE, 226, che iUustra bene tutta una corrente: «"La ripresa di Marco lascia intra­ vedere che ciò che precede non si collegava originariamente a ciò che la segue" (Loisy Il, 27). Ma non si può dire nulla di più preciso. Loisy pretende che questa dichiarazione di Gesù rispondesse direttamente alla confessione di Pietro; Holtzmann si chiede se non sia ripresa dai Logia; Swete la suppone rivolta ai Dodici dopo la partenza della folla. Altrettante congetture senza prove, ma è certo che IX, l non si colle­ ga a ciò che precede, come se si trattasse dello stesso avvenimento, la cui data sarebbe ora determinata». Lagrange continuerà la sua riflessione ancora per due pagine, cercando in Paolo un'interpretazione di Èv OUvUilEL, e rigettando così sia il lavoro fatto dagli altri due sinottici sia la lettura fatta dai padri (Chrys., Euth., Theoph.) che vedono nella trasfigurazione il compimento della promessa di 9,1 . «Del resto, que­ sta interpretazione proviene dallo gnostico Teodoto (in Excerpta Theodoti, Clem. Al., § 4, Swete)» (p. 227). Lo stesso SwETE, 176 è certamente più felice quando conclude: , perché finalmente «Dio sia tutto in tutti>>, v. 28). Qui vale la pena riascoltare il Poema delle Quattro notti, trovato nel Targum Neofiti su Es 12,42. Mentre la prima notte contempla il momento della creazione, la quarta contempla la fine di tutte le cose. Lo scenario apocalittico è necessariamente visionario, piuttosto vago e innanzitutto suggestivo, ma, accostato al nostro testo e al contesto successivo, è difficile non vedervi le numerose corrispondenze, come anche l'originale trasposizione: Ora quattro notti sono iscritte nel Libro delle Memorie. La prima notte (fu) quando YHWH si manifestò sul mondo per crearlo. Il mondo era confusione e caos e la tenebra era sparsa sulla faccia dell'abisso. E la Parola di YHWH era la Luce e brillava. Ed egli la chiamò Prima notte. La seconda notte (fu) quando YHWH apparve ad Abramo in età di cento (anni) e a Sara, sua moglie, in età di novant'anni, per compiere ciò che dice la Scrittura (cf. Gen 17,7). Abramo a cent'anni genererà e Sara, sua moglie, a novant'anni, partorirà? E Isacco aveva trentasette anni quando venne offerto sull'altare (cf. Gen 22,1-18). I cieli si abbassarono e scesero e Isacco ne vide le perfezioni e i suoi occhi si oscurarono a causa delle loro perfezioni. Ed egli la chiamò Seconda notte. La terza notte (fu) quando YHWH apparve agli Egiziani, a mezzanotte: la sua mano uccideva i primogeniti degli Egiziani e la sua destra proteggeva i primogeniti di Israele, perché si compisse ciò che dice la Scrittura: Il mio figlio primogenito è Israele (cf. Es 4,22). Ed egli la chiamò Terza notte. La quarta notte (sarà) quando il mondo giungerà alla fine per essere distrutto (o essere liberato);24 i gioghi di ferro saranno spezzati e le generazioni perverse saranno annientate; Mosè salirà dal deserto e ç 't'ÒV IIÉ't'pov Kttl 't'Òv 'IttKwj3oil

KCXL cÒV 'Iwavvrw KO:L &:vcx«j>ÉpH a:ÙcoÙ>, pp. 88s. 32 c. MAATJE, Literatuurwetenschap, Utrecht 31974, 129s; 142-157. a. Composition,, 338, n. l. Distinguere il tempo è dare rilievo a ciò che si racconta.

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della creazione dell'uomo, la vigilia del sabato nel quale culmina tutta la creazione nel riposo e nella conclusione dell'azione divina. Dopo sei giorni ci si prepara a un vertice nel quale Dio agisce, santificando, benedicendo e portando a compimento tutto ciò che ha fatto (cf. Geo 2,1-4). «Dopo sei giorni» ricorda, al tempo stesso, molte indicazioni liturgiche della Bibbia, specialmente in relazione alle grandi feste che durano un'intera settimana. «Dopo sei giorni» rinvia quindi alla fine e al culmine di una festa. Inversamente, in Gv 12,1 si legge: «Sei giorni prima della Pasqua», evocando l'ultima settimana di preparazione alla festa. Vi sono infine le indicazioni bibliche degli antichi racconti, come ad esempio in Es 24. In un primo tempo, Mosè sale solo con alcuni, poi è invitato a continuare da solo: Mosè sal� come pure Aronne, Nadab, Abihu e settanta anziani di Israele. Essi videro il Dio di Israele. Sotto i suoi piedi c'era come un pavimento di zaffiro, limpido come il cielo. Contro i notabili degli israeliti non stese la mano. Essi contemplarono Dio, poi mangiarono e bevvero. Il SIGNORE disse a Mosè: «Sali verso di me sul monte e rimani lassù; io ti darò le tavole di pietra - la legge e il comandamento - che io ho scritto per la loro istruzione••. Mosè si alzò con Giosuè, suo servo, ed essi salirono sul monte di Dio. Egli disse agli anziani: >. Per 1TO:pO:Àaf.LI3&-vE Lv, «prendere>>, cf. 4,36; 5,40; 10,32, «i suoi discepoli>>. Chissà se ci si deve aspettare una nuova rivelazione come sull'altro monte, quella del monte Moria, dove Abramo conduce e «porta>> suo figlio Isacco? Gesù vive al tempo stesso lo spazio di Abramo e quello di Isacco. Egli introduce i suoi all'interno dello spazio spirituale della libera oblazione di Abramo e di !sacco. Su entrambi i monti si tratterà di «vedere>> e di «essere visto». Al momento dell'oblazione sul monte Moria, «i cieli si strappano>>, nota il Targum. Che cosa si deve ammirare di più: un tale padre che offre suo figlio così liberamente o un tale figlio che accetta di farsi legare perché il sacrificio sia perfetto? È, secondo il Targum, la domanda che si pongono gli angeli vedendo compiersi l'oblazione del padre e del figlio. Anche il monte della trasfigurazione sarebbe monte dell'oblazione e luogo del sacrificio, un luogo di trasfigurazione? Sul monte a volte si ottiene che «i cieli si strappino». Quando l'oblazione è perfetta, gli angeli piangono, dice ancora il Targum. Ora le lacrime degli angeli, cadendo sugli occhi di Isacco, lo resero cieco . . .

34 Ciò che è relativamente eccezionale in Marco (cf. 6,46, solo per pregare; 13,3; 14,26: monte degli Ulivi), non lo è in Matteo, dove si può trovare una vera e propria serie di sette monti che si susseguono lungo tutta la composizione del suo vangelo (cf. Mt 4,8; 5,1; 14,23; 15,29; 17,1; 21,1; 24,3; 26,30; 28,16). Cf. lo studio di V. MoRA, La symbolique de la création dans l' Évangile de Matthieu (LD 144), Paris 1991 («Les sept montagnes», 17-124). 484

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C'è intimità fra questi pochi, e c'è comunque oggettività per il fatto di essere più persone: la loro testimonianza risulta valida dal momento che vi sono due o tre, dicono le Scritture. Ciò che il narratore cerca di dire è al limite del comunicabile, ma la presenza dei tre sottrae ciò che egli dice a una rivelazione troppo intimìstica e personale. In tutto sono quattro e, secondo Jung, quattro significa sempre tre contro uno. Uno è attivo, tre sono passivi. Uno senza timore, tre in preda al timore. Uno con Dio, in Dio, tre davanti a Dio. Colui che all'inizio della scena è estremamente attivo diventerà subito assolutamente passivo. Su quale monte? A sei giorni di cammino da Cesarea di Filippo, si può già tracciare un cerchio piuttosto ampio al cui interno trovare un alto monte. Quello che domina tutta la regione è ovviamente il monte Hermon, ai cui piedi nasce in tre punti diversi il Giordano. Cesarea/Banias è proprio vicino a una di queste sorgenti. Poiché la tradizione più antica non nomina il luogo, si può piuttosto pensare a una delle molte alture del Golan o del sud del Libano (Dalman propone vari rilievi a sud-est di Cesarea: Tell el-Ahmar, Tell Abu en-Neda e Tell esh-Shecha; cf. Taylor, 388). Ma la tradizione bizantina, desiderosa di fissare un luogo a ogni tappa della vita di Gesù, ha optato per il monte Tabor, ma non prima del IV secolo. A suo favore ha potuto giocare il nome (Tabor: tav 'or, «vicino alla luce»), come anche certe reminiscenze bibliche (cf. soprattutto il Sal 88(89),13 e il commento di Eusebio: PG 23,1092). Al tempo di Gesù, in vetta al monte Tabor c'erano una fortezza e una cinta muraria (Giuseppe Flavio, Beli. IV, 1 ,8). Lagrange (233s) conclude: «Del resto, è certo che gli evangelisti hanno dato importanza non tanto al nome del luogo quanto piuttosto al carattere di monte alto, in parallelo con il Sinai; il fatto era avvenuto nell'intimità e forse i tre non parlarono mai del luogo in cui era avvenuto». J. Wellhausen (69) pensa allo stesso monte di cui parla Mt 28,16: quello sul quale il Risorto apparirà ai Dodici. Molti hanno pensato che questo racconto in Mc 9,2s e par. contenga in realtà un racconto di apparizione del Risorto ma spostato nella vita di Gesù. Alcuni hanno persino proposto un'intera ricostruzione della finale di Marco: per risolvere quella difficile conclusione basta leggere dopo Mc 16,8 l'episodio di Mc 9,2-8. Il v. 9,9, in cui Gesù vieta ai discepoli di parlare di ciò che hanno visto prima della sua risurrezione, sarebbe la cicatrice di questa operazione di inversione. In 2Pt 1,18 si tratta dello stesso episodio, collocato sul «santo monte» («eravamo con lui sul santo monte», oùv a.ÙtQ ovm; È v t!\ì ay(� OpE L ) Convinto che il racconto della trasfigurazione riferisca, in realtà, un 'apparizione del Risorto, Michel Coune ha sostenuto che la testimonianza di 2Pt 1,18 colloca questo avvenimento a Gerusalemme, perché «il monte santo» può riferirsi solo alla Città santa. Egli colloca quindi l'avvenimento sul monte degli Ulivi. Tutto questo è decisamente frutto di speculazione, tanto più che a Gerusalemme il «monte santo» è la spianata del Tempio oppure il monte Sion, mai il monte degli Ulivi.35 Con realismo Heinz Schiirmann segnala, commentando la trasfigurazione in Luca, che il Risorto (tranne i racconti degli Atti, con Paolo sulla via di Damasco) non appare mai ai discepoli in gloria luminosa né in modo anche solo minimamente > (cf. 8,38). In un primo tempo si vede la gloria, poi gli angeli, e alla fine si sente la voce del Padre. La visione in Marco ci presenta prima Elia, poi Mosè, e insieme essi conversano con Gesù. La successione è assolutamente significativa per Marco: prima Elia (cf. 9,11-13), perché egli è di fatto il precursore del Messia secondo Malachia (3,1 .23); poi Mosè, figura del profeta escatologico, secondo Dt 18,15.18, e infine Gesù. Notiamo che anche in Malachia, nella versione greca, il versetto consacrato a Mosè viene dopo quello che riguarda Elia (M1 3,23-24 LXX). Matteo e Luca ristabiliscono l'ordine storico della rivelazione: prima Mosè, poi Elia, e molto presto l'esegesi cristiana ne parlerà come rappresentanti rispettivamente la Legge e i Profeti (cf. Tertulliano e Origene ). Gesù viene dopo gli altri due e si distingue di colpo chiaramente sia dall'uno che dall'altro. Così la visione viene a confutare gli errori circolanti (cf. 6,14-16 e 8,28): dunque Gesù non è «Elia>>; e non è neppure semplicemente «Un profeta come gli altri». La domanda resta: chi è allora? Il fatto di parlare insieme indica che Gesù è perlomeno allo stesso livello degli altri due. Il bel verbo ouUa.l..fi.v è raro nella LXX: quattro occorrenze in tutto e una sola nella Torah. Ricorre alla fine del capitolo 34 dell'Esodo, subito dopo aver parlato del viso splendente di Mosè: quest'ultimo toglie nuovamente il velo quando, nella Tenda, va «a intrattenersi con lui>>, il SIGNORE (ouUaÀ.EÌ.V au-.4)). Qui, nel nostro episodio, Mosè ha il privilegio di «intrattenersi>>, senza velo, con Gesù. Alcuni padri della Chiesa hanno interpretato il passo di Es 33, dove Mosè chiede a Dio di «vedere la sua gloria>>, come una preghiera che viene finalmente esaudita, qui, sul monte della trasfigurazione.38 Finalmente, «conversando con Gesù», egli

38 Cf. l'arroganza di Mosè nell'omelia di ANASTASIO DEL SINAI, in M. COUNE, La joie de /a Transfiguration d'après /es pères d'Orient (Spiritualité orientale 39), Bellefontaine 1985, 161: «Tu che 488

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può contemplare senza velo la gloria del Signore in Gesù glorificato. A giustificare questa rilettura è la ricorrenza delle espressioni (Le 9,31). Sono loro a informare Gesù riguardo al seguito e al luogo in cui si compirà. Notiamo il paradosso: egli va a «compiere>> quello che è un «esodo>>, una morte. Come per Gesù, Paolo negli Atti apprenderà il destino che lo attende durante un momento di preghiera e di estasi nel tempio di Gerusalemme (cf. At 22,17-21). >. Ad esempio, s. Girolamo, citato da Swete, scrive, coinvolgendosi completamente: «Così ho visto Mosè, così ho visto i profeti perché io comprenda che essi mi parlano di Cristo e non perché resti nella Legge e nei Profeti, ma perché, attraverso la Legge e i Profeti, giunga a Cristo». «Questo rafforza l'idea che i discepoli dovrebbero fare attenzione unicamente a Gesù, perché in lui e non in Mosè o Elia hanno potuto vedere che il regno di Dio è venuto con potenza, mentre Marco non ha attribuito alcuna trasfigurazione agli altri due>> (così R.H. Gundry, 462). Ma è proprio questo che Marco vuole dire? Indubbiamente, l'accento cade anzitutto sulla pienezza nascosta in questo unico che è con loro, e quindi sulla massima attenzione che ormai bisogna accordargli. II !J.ovov 1J.E9' Éa.u'tWV ha una notevole pregnanza: essa evoca sia il programma originario della loro vocazione: «essere con lui» (3,14), sia i momenti sottolineati in modo particolare dal narratore, come in 8,14 o 14,7. Al riguardo, Lev Gillet, monaco della Chiesa d'Oriente, notava che dopo la trasfigurazione non si vede più che Gesù. Quando si guarda troppo a lungo il sole, si brucia una parte della retina e si forma una macchia, per cui in seguito su tutto ciò che si guarda si deposita un punto nero. Chi ha contemplato il Trasfigurato vede Gesù in tutto ciò che ha di fronte: da quel momento la vicinanza di Gesù riempie lo sguardo. Marco suggerisce un clima nuovo, abitato da questa vicinanza del Figlio. Ai suoi occhi, essa basta.

9,9-1 3. Domande sulla risurrezione e su Elia

Un quinto e ultimo paragrafo viene a chiudere l'unità centrale di tutto il racconto evangelico (8,27-9,13). Si tratta ancora di una conversazione fra i discepoli e Gesù. L 'argomentazione. Marco 6, 14-- 1 0,52

Non è più lui a interrogarli come all'inizio (in 8,27) ma sono loro a porre la domanda su Elia. Precedentemente Marco aveva chiuso l'episodio sul monte facendoli scendere insieme a Gesù e mettendo in bocca a lui un'ultima raccomandazione, che somiglia molto a quella che concludeva la prima conversazione (cf. 8,30). Segnaliamo ancora la figura del Battista che ritorna, pur noil facendone il nome. Tutto questo fa di quest'ultimo paragrafo (E) il pendant del primo (A). 9,9-10: Ktù Ka:ta:Jxnv6vtwv a:Òtwv EK tOÙ opouç òu:otELÀa:tO a:Òto"iç '(va: IJTJ�VÌ. o uLòç toù &v8pW1TOU EK VEKpwv &.va:mn. Ka.Ì. tÒV Myov ÈKpatT]OO:V 11pÒç Èa:utoùç OU,T]tOÙVtEç ti. fOtLV ota:v ÈK VEKPWV &.va:otn.

a ELÒOV ÒLTJY�OU>Vta.L, EÌ. 1.1� Ota.v

9,9-10: «Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno

ciò che avevano visto, se non dopo che il figlio dell'uomo fosse risorto dai morti. Essi osservarono la raccomandazione, por chiedendosi fra loro quando sarebbe che risusciti dai morti». vv. 9-10: «Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il figlio dell'uomo fosse risorto dai morti. Essi osservarono la raccomandazione, pur chiedendosi fra loro quando sarebbe che risusciti dai morti». d LetotÉlleo8a.L («ordinare»), cf. 5,43 (dopo la risurrezione della figlia di Giairo). dLTJYE1o8a:L (> (MI 3,23) trova il suo corrispondente nel 'll'pw-rov («prima>>) della domanda dei discepoli. Questo avverbio di tempo è prezioso per il nostro evangelista, come abbiamo già notato in 3,27; 4,28 e 7,27. Per Marco la storia avanza a tappe, secondo le Scritture, e Giovanni costituisce una tappa nel grande svolgimento finale dei tempi messianici. Non bisogna cercare di ricostruire i ragionamenti dei discepoli su Elia a partire dal racconto della trasfigurazione, come hanno fatto in passato Loisy e Lagrange, non senza una laboriosa immaginazione. Qui l'evangelista riprende la sua catechesi cristologica di base, come già l'ha distillata nel prologo e anche nell'introduzione alla parte argomentativa (6,14-16; cf. 8,28).s1 Se l'«Eiia che deve venire prima» è Giovanni Battista, Gesù, come colui che viene dopo, è il profeta escatologico, l'altro Mosè annunciato per la fine. Nel racconto della trasfigurazione il narratore aveva rispettato questo ordine, conferendo a Elia il ruolo di precursore, prima di Mosè, e collocando Gesù alla fine (v. 4; stesso ordine gerarchico, ma invertito, nella parola di Pietro al v. 5). v. 12. Gesù risponde con un riferimento esplicito alle Scritture. Nella prima metà cita, senza dirlo, il passo di MI 3, nella seconda è esplicito: ciò che dice «è scritto>>. Il �Év non ha c5É corrispondente, ma quest'ultimo è sostituito da un interrogativo (KaÌ. TI'Wç: «e come . . . ?»). La prima parte della frase esprime una concessione: «Effettivamente, Elia, venendo prima, deve rimettere tutto in ordine». Il presente del 'verbo principale (&11'oKa.9La-ravE L) rafforza questo effetto. Questo verbo viene ripreso alla lettera

SI a. l'Introduzione, pp. 36&.

Marco 8,27-9, 13: la sezione centrale

499

da Ml 3,23. Significa «restaurare, ristabilire, istituire di nuovo» e traduce il verbo ebraico shuv che si rende con «convertire, ritornare>>. Il compito di Elia è quello di «convertire i cuori dei padri verso i figli e dei figli verso i padri>>, perlomeno nel testo masoretico. In greco si dice che «convertirà il cuore del padre verso il figlio e il cuore dell'individuo verso il suo prossimo>> (anoKa.-ra.o-r�oE L Kapo(av na.-rpòc; rrpòc; utòv Ka.Ì. Kapo(av av9pwnou npòc; -ròv TTÀT)OLOV a.ùtou). L'espressione di Gesù con rrocvta comprende tutto questo, ma considera anche la pienezza dei tempi messianici. In At 3,21 si parla di aTTOKatocota.aLç TTOCVtWV, espressione che pure ricorre nelle Scritture profetiche, come ad esempio MI 3,23. Certo, Elia verrà e ristabilirà tutto, come dice il profeta Malachia, ma, aggiunge Gesù, c'è la sofferenza. «Come è scritto del figlio dell'uomo che deve soffrire molto ed essere disprezzato?». C'è come una correzione delle prospettive, paragonabile al passo 8,29-31: non è sbagliato dire «TU sei il Messia>>, ma sappiate che bisogna attraversare la sofferenza; e qui, certo prima deve venire Elia e rimettere tutto in ordine, ma sappiate che, secondo le Scritture, bisogna attraversare la sofferenza e fare l'esperienza del disprezzo. Qui abbiamo in Marco il caso più evidente nel quale l'espressione «figlio dell'uomo>> ha valore di titolo più che di designazione diretta di sé da parte di Gesù. Per questo «figlio dell'uomo>> nelle Scritture, si pensa ovviamente a Dn 7 (v. 14) come anche ai molti casi in cui il profeta Ezechiele si lascia interpellare in questo modo dalla voce di Dio («figlio d'uomo»). Bisogna pensare anche ai testi messianici, nei quali l'inviato messianico è nella sua condizione umana «un uomo dei dolori>>, rifiutato e disprezzato dalla moltitudine (cf. Sal 22[21 ),7; 118[117),22s; Is 53,3: Èçot&VE=i. olftu, unico caso nel NT,52 (cf. Ml 3,23; Is 49,6) e «essere ritenuto da nulla (oÙÙÉv)» e «soffrire molto (noì..Mi)». Qui il «figlio dell'uomo» è l'espressione più o meno tecnica per indicare l'uomo messianico. Perciò ciò che vale per lui vale anche l'«Elia che deve venire prima». Infatti anche le sofferenze di quest'ultimo e il suo rifiuto devono essere interpretati come messianici. Ora, come è noto, nelle Scritture anche Elia ha avuto la sua parte di sofferenze e di rifiuto; cf. come aii'Oreb si lamenta davanti a Dio (1Re 19,21; 3Re 19,21 LXX). 9,13: 'AUÌt ÀÉyw Uf.LLV on Ka.Ì. 'HHa.c; U�ì..u9EV, KaÌ. ÈTIOLTJO«V aù-r>, e vedono «attraverso i loro momenti di veglia» la gloria di Gesù e i due uomini con lui (9,32). Tutto lo svolgimento dell'episodio è più articolato rispetto a Marco, e la grande aggiunta è certamente il contenuto della conversazione fra Gesù e i due uomini (9,30-31). Luca ha quindi semplificato l'insieme (19 versetti a fronte dei 25 di Marco) e ha ridotto anche le messe in scena: non menziona più il luogo, Cesarea di Filippo, all'inizio e si limita a dire che Gesù parla (cf. Mc 8,34a e Le 9,23: «poi diceva a tutti»). Al posto delle cinque unità di Marco, dopo le modifiche, Luca ha solo due grandi unità, ognuna delle quali comincia con la preghiera. Il primo polo sottolinea l'identità di Gesù con il suo destino di sofferenza, ma con Io sbocco della risurrezione e della gloria (9,22.26); il secondo polo rivela la sua identità di Figlio glorioso, ma con la prospettiva che si apre sull' (9,31; cf. Le 9,51). Notiamo ancora che in Luca la voce dal cielo designa Gesù come «il mio figlio, l'eletto>> (9,35), un termine che ritornerà al momento della crocifissione (23,35; cf. Is 49,7). Luca ama tenere presente questa bipolarità: il diacono Stefano, morendo come Cristo in croce, vede il Risorto, mentre l'altro diacono, Filippo, rapito come il Risorto, commenta un brano di Isaia sul Servo sofferente. Entrambi riproducono nella loro vita un aspetto del mistero di Cristo, ma meditano l'altro aspetto di un mistero unico, nel quale il Figlio dell'uomo deve necessariamente soffrire per entrare nella sua gloria (cf. Le 24,26). Matteo ha conservato le cinque unità di Marco e non ha praticamente eliminato nulla, bensì piuttosto arricchito l'insieme (29 versetti di Matteo a fronte dei 25 di Marco). Fra le cose accantonate c'è il commento di Marco sulla reazione di Pietro alla trasfigurazione («non sapeva quello che diceva» e il seguito) e il versetto di Mc 9,10 sui discepoli che si

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chiedono quando potrebbe essere questo momento della risurrezione del Figlio dell'uomo. Anche nel suo caso, Gesù non convoca la folla ma si rivolge unicamente ai discepoli per invitarli a seguirlo (Mc 8,34 e Mt 16,14). Per il resto Matteo conserva ciò che trova, aggiungendovi qua e là qualche tocco molto personale. Il grande cambiamento consiste certamente nel fare il contrario di Luca: mentre quest'ultimo fonde praticamente in un solo paragrafo gli elementi A e B di Marco, Matteo arricchisce anzitutto abbondantemente il primo momento (A), aggiungendovi tre versetti di parole di Gesù rivolte a Pietro (16,17-19), poi separa ancor più nettamente la parola sul destino del Figlio dell'uomo da ciò che precede con un potente anò ton (). Questo diventa un nuovo punto di partenza, che orienta esplicitamente tutto il seguito del racconto verso Gerusalemme (16,21 ) Mentre Luca ha ripreso Marco distribuendolo su due unità polari, Matteo lo riprende distribuendolo su tre grandi unità: la prima incentrata sulla confessione di Cesarea; la seconda sul cammino del Figlio dell'uomo che conduce a Gerusalemme, al rifiuto e alla messa a morte ma alla risurrezione al terzo giorno; la terza, «sei giorni dopo», sulla trasfigurazione e sulla rivelazione su un alto monte. Ogni unità comprende due parti: l'una illumina anzitutto la persona di Gesù, l'altra si concentra sul discepolo o sui discepoli. I ritocchi dei dettagli, al di là di una grande fedeltà, sono comunque numerosi. Alcuni sono stati già segnalati commentando Marco, come l'inversione nell'ordine di comparsa di Elia e di Mosè o la chiara identificazione di Elia con Giovanni Battista in 17,13 (cf. già 11,13). La confessione di Pietro è ampliata: > contiene un limite. Implicitamente la do­ manda avvisa: sappiate che non sarà così all'infinito. Oggi Dio è paziente (nella sua hesed o attributo di bontà), ma verrà il giorno in cui farà giustizia (con il suo attributo di rigore, il din) e non lascerà passare più nulla. O, in senso inverso, se mostra per un istante la sua collera, sappiate che poi è disposto a manifestare la sua misericordia. L'emozione così espressa nel nome di Dio spinge gli ascoltato­ ri a scegliere in modo maturo e responsabile. Infine, ci si può interrogare fino in fondo: nel gemito di uno di noi, non percepiamo la spaventosa stanchezza causata dall'uomo a Dio? Nella storia Dio piange e grida: fino a quando? Il grido biblico contiene un riferimento implicito alla fine, alla partenza della morte: è ancora lontana? Nel frattempo, egli «porta»: io sono in mezzo a voi come colui che vi porta e vi sostiene. Questo vale soprattutto per i discepoli (cf. il verbo «portare verso l'alto>>, in 9,2). Notiamo anche il contra­ sto: se la trasfigurazione era una visualizzazione del >), pleonasmo frequente, come con ÙTIÒ ll«Kp69Ev, non avvertendo più a sufficienza che il -9Ev indica la provenienza (cor­ rezioni: TI«LOL69ev o ÈK traLOOç, le due forme sono attestate nella tradizione mano­ scritta). In Omero si trova È� oupav69ev («dal cielo>>), censurato dai puristi attici (Lagrange). «Spesso lo ha gettato sia nel fuoco sia nell'acqua per farlo morire». Il dialogo evidenzia la gravità del caso davanti al quale si trova Gesù e spiega indirettamente il motivo per cui i discepoli non hanno potuto guarirlo. Fuoco e acqua, due estremi, entrambi mortiferi. Il demonio lo spinge alla morte. La malattia induce chiaramen­ te al suicidio. Il potere sul demonio richiederà un potere capace di vincere la morte, una forza in grado di far evitare sempre il baratro o di superarlo in modo vittorioso. «Ma se tu puoi qualcosa, vieni in nostro aiuto, per pietà di noi>>. «Se tu puoi qualcosa>>, con il verbo ouvao9aL all'assoluto, cf. Le 12,26; 2Cor 13,8. Bo118E'ì.v ( «aiu­ tare>>, cf. 9,24, frequente nel linguaggio dei salmi). L'evocazione della malattia sfo­ cia in una bella preghiera, estesa perché parla a nome di un «noi>> e si rivolge all'at­ tributo della pietà e della misericordia divina (otrÀaYXVLo9e l.ç, cf. 1 ,41; 6,34: 8,2). In certi manoscritti è stato introdotto un Kup LE («Signore>>) immediatamente prima dell'appello alla misericordia (cf. D G 565 0), trasformando la domanda in una bel­ la giaculatoria. Loro «non hanno potuto>> (ouK 'Loxuoav), tu, «se puoi qualcosa>> (e'C n ouvn), vieni in nostro aiuto. Si rimane nello stesso campo semantico: la questio­ ne del potere. v. 23: «Ma Gesù gli disse» (ò liÈ 'I11aouç EltrEV aùrQ). Nuova partenza, in forza, con il nome proprio di Gesù e un 1iÉ leggermente avversativo. «Riguardo al "se tu ..

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puoi", tutto è possibile a chi crede» (tÒ d. OUVlJ, navta ouvatà t>). La semplicità e la forza di queste quattro parole: navta ùuvatiÌ t>) ricordano vari passi paralleli in Marco, che incontreremo in seguito: - cf. soprattutto 10,27: «Per gli uomini, impossibile, ma non per Dio: perché tutto è possibile per DiO>> (Tiavta yàp ouvatà napà t>. Lagrange (241 ): questo equivale quasi a «Vieni in aiuto a me incredulo» (IJ.OL t>. Del resto, l'abba testimonia, a partire dalla sua esperienza, che Dio fa misericordia. v. 25: «Gesù, vedendo accorrere la folla, minacciò lo spirito impuro dicendo­ gli: "Spirito muto e sordo, io ti ordino, esci da lui e non rientrarvi più"». Viene reintrodotto il nome proprio del protagonista e, tornando a lui, si cam­ bia punto di vista («Gesù, vedendo . . . »). «Una folla accorre» (Èmouvt"pÉxnv, ver­ bo forte, unico caso nel NT e assente nella LXX). Questo assembramento ricorda quello dell'inizio dell'episodio («essi videro molta gente (E!òov OXÀOV TTOÀuv) at­ torno ai discepoli», v. 14, e la folla che «accorse» [npootpÉxovm;], v. 15). Lagrange: «È probabile che usando ÈTTLOUV't"PÉXELV che è un hapax, egli (Marco) abbia voluto sottolineare che la nuova folla raggiunge quella precedente (ÈlTL- nel composto)». La messa in scena di questo versetto conferisce al gesto di Gesù che segue un'ampia dimensione pubblica. Il quadro, chiaramente affermato in questo punto, permette­ rà di passare subito dopo alla scena in privato, quando saranno «in casa>>, lui con i suoi discepoli, da soli (vv. 28-29). «Minacciò lo spirito impuro». Finora il demonio non era stato qualificato come spirito impuro. La sua impurità non è evidente, a meno che l'indizio determinante non sia la sua connivenza con la morte (cf. v. 22). D'altra parte, in Marco quasi tutti gli spiriti demoniaci sono considerati per loro natura «impuri», contrapponendosi diametralmente alla santità dello Spirito che abita in Gesù. Lo scontro così descrit­ to ricorda il primo gesto compiuto in pubblico da Gesù (cf. 1,23-27, a Cafarnao; cf. 9,28, «in casa»). Afywv aòt4ì («dicendogli»), con questo dativo aggiunto, enfatico. «Spirito muto e sordo». Gesù interpella lo spirito, rivolgendosi direttamente a lui. In mancanza del suo nome (Lagrange), Gesù lo indica con i suoi tratti caratteri­ stici: «muto>> e > il suo servo, «a causa dei nostri peccati» (KaÌ. Kup wc; napÉOWKEV au'tÒV 'tu'ic; Ùfl.llp 'tLULc; �f.I.WV, cf. Is 53,6 LXX, senza parallelo stretto nel testo masoretico). v. 32: , ot ùÉ («ma essi>>) non è frequente in Marco. (àyvOE'iv, unico caso in Marco), all'imperfetto, sottolineando la durata della loro incompren­ sione. «La parola>> ('tÒ pfJf.La), termine molto frequente nella Bibbia greca (548 volte nell'AT; 68 volte nel NT), ma che Marco usa solo qui e in 14,72 (Pietro che si ricor­ da della parola detta da Gesù). Riguardo ai lettori, questa incomprensione da parte dei discepoli di allora ren­ de questa parola misteriosa ancora più preziosa, persino più intrigante. L'intrigo che accompagna enunciati del genere, come abbiamo visto in 9,9, accostato a 1 6 ,7-8, ne fa una sciarada. Come ha potuto essere conservata e trasmessa questa «parola», questo «insegnamento>>, dal momento che nessuno lo comprendeva? È perché un �orno almeno questa parola è apparsa alla loro mente chiara, sensata, intelligibile? E perché un giorno i fatti iscritti e annunciati in questa parola si sono verificati per loro? E per noi? Quando ci sarà dato di comprendere questo insegnamento? . Non osare interrogare: si ritroverà un enun­ ciato analogo in 12,34, dove (cf. 1,11) equivale alla proposizione su questo «figlio dell'uomo che deve soffrire molto, morire e il terzo giorno risorgere>>. Il fatto di non comprendere non ha nulla di sorprendente nella vita spirituale. Il non osare interrogare è decisamente più problematico. Ma il Maestro non cede a questa difesa basata sul silenzio o la paura: interrogherà alla prima occasione (cf. 9,33) e continuerà imperterrito il suo insegnamento, spiegando loro tutto ciò che deriva da questo cammino unico del Figlio dell'uomo. Matteo riassume la reazione dei discepoli dicendo: «ed essi furono molto rat­ tristati>> (Mt 17,23, KIÙ ÈÀ.utr�61Jmxv a>, «questi piccoli>>, «fuocO>>, «sale>>. Forse Marco non è responsabile della loro successione, ma certamente della disposizione delle tre unità in un grande insieme. 9, 33-37. ceC hi è il più grande?»

9,33-34: Kat til.9ov Etc; Koojla:pvaouw Kat Èv •tì olKI.cy: YEVClf.LEvoc; ÈTTT]pc.l-.a aù-.ouc;, T( Èv •tì òcSQ ÒLEÀ.oyi.CEa6E ; 34oi. cSÈ Èmwtrwv · trpòc; àU�l.ouc; yàp ÒLEÀ.ÉX9f101XV Èv

•tì òcSQ • te; f.LE(Cwv.

'

9,33-34: «E giunsero a Cafamao; e dopo essere arrivati a casa, egli chiedeva loro: "Di che cosa discutevate per la strada?". Ma essi tacevano, perché per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande».

v. 33: (En11pc.ha airrouç). Coloro che non osavano· interrogarlo si vedono ora interpellati e interrogati. Ironia del narratore. «Di che cosa discuteva­ te per la strada?» (T[ �v •u M4> OLEA.oy[(Eo9E). 'Ev •u ò04) («per la strada») vie­ ne ancora una volta a congiungersi e contrapporsi semanticamente a Ev •u otK[q: («nella casa»). Nel quadro più ampio dell'intera sezione (9,30-10,52) l'espressione evoca nuovamente e sottolinea il tema del cammino dietro a Gesù. �LaA.oy[(Eo9aL, OLaA.oytoiJ.OL («discutere», «pensieri», cf. 2,6-8; 7,21; 8,16-17; 11,31). Questa sorta di pensieri, dibattiti o discussioni interiori viene in genere qualificata negativamente da Marco. Apparentemente l'argomento della loro discussione era diverso da quel­ lo appena affrontato da Gesù. L'interrogazione di Gesù non è direttamente in rela­ zione con la parola sul Figlio dell'uomo. Ma guardando le cose più da vicino, tutto è strettamente legato: coloro che hanno paura di interrogare Gesù sul suo destino si dimostrano preoccupati di loro stessi, del loro rango, delle precedenze ... . v. 34: «Ma essi tacevano». Un nuovo o t òÉ («ma essi») come in 9,32. Simmetria nelle loro reazioni e prese di posizione: là non osavano interrogarlo, qui essi taccio­ no, non vogliono rispondere. Decisamente, non riescono a comunicare bene con il Maestro. La sezione comincia male. Si è talmente in basso che si può sperare solo in qualcosa di meglio. Per loro risponde il narratore: «perché per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (npòç àU�A.ouç yètp OLEMX91loav EV •u oo4) ,;[ç IJ.E L(wv). Bell'esempio di un yap in terza posizione. È eccezionale ma assolutamente regola­ re. �LaA.ÉyEo9at, unico caso in Marco (e nei vangeli, ma frequente negli Atti), qui sinonimo del verbo precedente: OLaA.oy((Eo9aL. Marco varia il suo testo con piccoli tocchi diversi. T[ç iJ.ELCwv («chi più grande?»). «Come avviene spesso nel greco ellenistico, si usa il comparativo per il superlativo» (Taylor). La domanda è formulata nella sua forma più concisa possibile, come se ci si dovesse un po' vergognare a porre domande del genere. Domanda vitale per ogni vita comunitaria; domanda che tocca la sogget­ tività di ogni membro e mette in gioco la scala dei valori di un determinato gruppo. La domanda riaffiorerà nuovamente all'altro capo della sezione (10,35-45). Essa vie­ ne in qualche modo a inquadrare tutte le discussioni di questi due capitoli. Domanda insolubile finché si resta sul piano di una sensibilità altamente soggettiva: come tale, questa domanda può rovinare una vita di gruppo. Ma domanda necessaria: è indispen­ sabile risolverla ed è inevitabile che sia risolta mediante un superamento. Chi pone la domanda? Nel passo, non c'è volto: se la pongono a vicenda. Chi risponde? Chi può dire� «>. 12 È interessante notare come in questo manuale così classico, quando si tratta di paradossi, si ricorra spontaneamente al vangelo. Occorre passare attraverso il paradosso: l'estremità è al di là dello choc dove la logica del buon senso è messa in crisi. È assolutamente degno di nota che questo vangelo, spe­ cialmente in questi capitoli decisivi da 8,34 a 10,45, rigurgiti di formule paradossali. Evi­ dentemente l'autore vuole inculcare un punto di vista certamente non facile, ma fonda­ mentale. Al di là del paradosso, quando qualcosa cede sotto il peso appena sopportabile della tensione, c'è festa, sovrabbondanza di vita, libertà fiduciosa. Nel Nuovo Testamento, è soprattutto nella Prima lettera di Pietro che si respira questo clima. L'autore accumula le formule antitetiche ed eccelle nell'arte di coniare nuovi os­ simori. Il più originale è certamente «pietra viva», ma c'è anche «piaga che guarisce» (ri­ preso da ls 53, ma nuovamente cesellato con arte in greco: où ·� IJWÀwm locerrrf , si noti lo iato pieno di effetto). Gioia nella prova, elezione e disseminazione, essere straniero (fra gli uomini) scelto (presso Dio), soffrire ingiustamente ed essere dichiarato beato, sperimentare lo Spirito di Dio quando si è oltraggiati per il nome di Cristo . . . I l paradosso in Marco e l'ossimoro nella Prima lettera d i Pietro attingono certamente alla stessa fonte. Si può supporre che il genio del primo chiamato nel racconto evangeli­ co animi con il suo soffio ciò che questi due grandi testi trasmettono come insegnamento originario.13

1 1 Cf. P. FoNTANJER, Les figures du discours, Flammarion, Paris 1 968 (nuova edizione del Manuel des tropes, 1830), 137: «>, in La Rivista del clero italiano 90(2009)2, 139-152. Yvan Bourquin ha ripercorso tutto il Vangelo di Marco, scoprendo in ogni unità quella che egli chiama una «struttura ossimorica»: cf. Y. BouRQUIN, , . Verbo raro, unica­ mente in Marco nel Nuovo Testamento, e due volte (cf. 10,16, non senza legame con la pericope nella quale Gesù insiste di lasciar venire a lui i bambini). Il gesto sposta l'attenzione di tutti, preoccupati del loro rango nella comunità: si crea un nuovo centro. Il gesto affettuoso del Maestro, che per un momento si identifica con il bambino, costringe ognuno a provare sentimenti di tenerezza verso quest'altro che essi non avevano certamente neppure notato. All'epoca non si prestava alcuna particolare attenzione a un bambino in mezzo agli adulti}4 La creatività di questo gesto consiste anche nel fatto di scacciare la possibile vergogna dei discepoli me­ diante il sentimento di tenerezza condiviso. v. 37: . La parola-sentenza è introdotta senza particella di congiunzione e con questo oc; av ripetuto che ricorda le parole-sentenze che seguono Mc 8,34: cf. 8,35 e 8,38: oc; y&p Mv. Questo rafforza il legame con le sei sentenze al centro del vangelo. Invece di sei, qui ve ne sono tre: v. 35 e v. 37 a e. b. Ora Gesù commenta il gesto fatto e parla dell'accoglienza, come ha appena fatto con il bambino. L'accoglienza deve essere estesa, al di là del bambino, a chi è come lui: senza importanza, marginale, non considerato in comunità. Ora si tratta di accogliere «nel mio nome>>. Questo introduce una qualità indispensabile, perché il nome evoca la persona, con la sua influenza, la sua autorità, il suo essere. La con­ seguenza è che l'accoglienza dell'altro permette di accedere a Gesù stesso, e l'ac­ coglienza di Gesù di accedere a Colui che lo ha mandato. Nella considerazione per i più piccoli della comunità c'è un orizzonte che si apre su Dio stesso. La parola ha una certa risonanza testamentaria, come se Gesù pensasse alla sua assenza: la dina­ mica proposta riguarda più una comunità attuale, postpasquale, che la compagnia di Gesù in senso stretto, con i discepoli attorno a lui a Cafarnao. Nel logion 12 del Vangelo di Tommaso la partenza di Gesù è esplicitamente menzionata dai discepo­ li, ancor prima di porre la domanda su chi sarà il più grande: «l discepoli dissero a Gesù: "Noi sappiamo che tu ci lascerai. Chi sarà allora grande su di noi?">>. I ricercatori si sono spesso chiesti (cf. Bultmann e Taylor, ripresi e approfon­ diti nei commentari più recenti, come quello di Adela Yarbro Collins) fino a che punto questa parola di Gesù sia al suo posto qui. Marco non avrebbe creato questa messa in scena con il bambino, attingendo alla tradizione che riferirà più avanti in 10,13-16 (dove si ritrova lo stesso verbo raro «abbracciare>>)? E non ha introdot­ to qui (v. 37) un logion che riguarda in primo luogo l'accoglienza dei missionari,

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14

Cf. S. LÉGASSE, Jésus et l'enfant: «enfants», «petits» e «simples» dans la tradition synoptique

(Etudes bibliques 55), Paris 1%9. 524

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«mandati nel suo nome>>, ma applicandolo all'accoglienza del fratello, indipenden­ temente dal suo ruolo o dal suo rango in comunità, che ora si tratta di «accogliere nel mio nome>>? In realtà, molte parole conservate nel discorso missionario (Mt 10,40; Le 10,16) sono molto vicine a ciò che leggiamo qui e usano il verbo «acco­ gliere>> (ùÉXE08a:L, cf. Mc 6,1 1, applicato al missionario) e «essere mandato nel mio nome» in modo semplice e pertinente. Da tutte queste ricostruzioni non si può con­ cludere granché per il nostro passo: non si tratta forse soprattutto di trovare un si­ gnificato soddisfacente a ciò che si dice qui, certo con parole ed espressioni che pos­ sono avere avuto un'origine molto complessa? Marco aggiusta, assume, riorienta e, se non si spiega tutto a partire dal suo lavoro editoriale o redazionale, è perché c'è un residuo tradizionale certo. 9,38·41 . «Chi non è contro di noi è per noi»

La seconda unità de1la nostra sezione (9,33-50) è introdotta da «Giovanni». Non può trattarsi che di Giovanni fratello di Giacomo, l'altro figlio di Zebedeo, en­ trambi soprannominati da Gesù «figli del tuono» (3,17 ) . 9,38-41: "ETJ aù-r ÒVOj..LU't L oou EK!XiUov-ra. OIX. Lj..LOV La. KllL È:KWÀUOj..LE V a.ù-r6v, on OÙK �KOÀOU8EL �j..LL V. 39o oÈ 'ITJOouç El:TIE=v, Mi, KwA.unE aù-r6v. où&tç yap E:onv òç rroL�on ouva.j..L L V ETTL •4> ò voj..LU't L j..LOU Ka.L ouv�ona:L -ra.xù Ka.KoA.oyfìoa( !-LE ' 40'òç yàp oÙK Eonv Ka.8' �1-Lwv, imÈp �j..LWV E=anv. 41"0ç yàp &.v TTO'tL01J Ùj..Liiç TTO't�p LOV UOa'tDç EV ÒVOj..Lil 'tL on XpLO'tOU EO'tE, àj..L�V ÀÉyw Ùj..LL V on où 1-L� àTToÀÉ01J -ròv j..L L08Òv a.ù-rou. 9,38-41: «Giovanni gli disse: "Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome, uno che non ci segue, e noi volevamo impedirglielo, perché non ci segui­ va". Ma Gesù disse: "Non glielo impedite, perché non c'è nessuno che possa fare un miracolo invocando il mio nome e subito dopo parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi. Infatti chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua per questo motivo che voi siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa"».

v. 38: "ETJ aù-r> (àLOOOKaÀE). Questa apostrofe è piuttosto frequente e naturale sotto la penna di Marco, specialmente nei contesti chiaramente didattici (cf. sopra 4,38; 9,17; e anche 10,16; 12,14.19.32). Il discepolo, un uomo della folla, un ricco, degli oppositori: tutti si rivolgono a Gesù con questo appellativo: a volte con riMarco 9,3Q- 10,45: la «Sezione del cammi

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spetto, a volte con un pizzico di ironia, come in 12,14 e 19. In Marco, Gesù è «mae­ stro», «insegnante» e chi viene da lui è «discepolo», viene per «imparare». Questa immagine nel Vangelo di Marco è molto forte e corrisponde certamente al genere letterario di tutto il suo scritto. Si può legittimamente pensare che essa si avvicini anche a ciò che Gesù ha potuto essere, storicamente.15 In Matteo e Luca questi trat­ ti. fra i più antichi, si appannano per far posto a titoli più nobili, più carichi dal pun­ to di vista cristologico: «Signore», «Figlio di Davide», «il capo, colui che presiede» (E:mot«hT]c;, solo in Luca). «Abbiamo visto uno che scacciava demoni nel tuo nome, uno che non ci se­ gue, e noi volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Giovanni pr.esenta un caso. Non chiede nulla a Gesù, almeno esplicitamente, ma forse il suo tentativo di bloccare questo esorcista esterno al gruppo non è pienamente riuscito ed egli ha continuato la sua pratica. Che fare? In realtà, il verbo «impedire» (KWÀVE Lv) all'im­ perfetto indica che egli ci ha provato varie volte. «Nel tuo nome»: qui costruito con E:v, altrove con Èlr( (cf. vv. 37.39; 13,6). Piccola variazione idiomatica, senza alcuna grande differenza sul piano semantico. Tuttavia alcuni vedono nella preposizione «in» (E:v) la sfumatura strumentale e in «SU» (E:n() quella di fondamento sul quale ci si basa. Così Taylor ritiene che E:n( nel versetto successivo debba essere inteso come una correzione rispetto a E:v. Ricordiamo che Marco ama variare le sue espressioni. Nella proposizione l'accento cade sul «non ci segue» (ripetuto due volte; la ripeti­ zione è molto probabilmente originaria, ma numerose varianti testuali cercano· di eliminarla). Il problema posto ricorda l'atteggiamento del giovane, poi quello di Gio­ suè figlio di Nun, in Nm 1 1 , quando Eldad e Medad cominciarono a profetizzare nell'accampamento, pur non essendo andati alla Tenda (Nm 11 ,26-30). Il giovane (VEOCVLOKoc;) corre a riferirlo a Mosè e Giosuè «prese la parola e disse: "Mosè, mio signore, impediscili!"» (stesso verbo KWÀVELV - «impedire» nella LXX). Qui di col­ po Gesù entra nel ruolo di Mosè. A partire da questa associazione, il nome di «Gio­ vanni» era molto più adatto di quello di «Pietro», considerato il primo dei Dodici e il più anziano dei chiamati, mentre Giovanni era certamente ritenuto più giovane di suo fratello Giacomo e, forse, il più giovane dei Dodici (cf. Mc 9,34-35; 10,35.43s). Il problema dietro a questo caso concretq è quello della relazione fra confes­ sione cristologica e appartenenza ecclesiologica. L'esorcista anonimo si serve bene del nome di Gesù, ma non sembra «seguire» la stessa condotta di vita, cioè quella di Giovanni e dei suoi («noi»). Il verbo «impedire>> è un verbo forte, giuridico e di­ sciplinare. v. 39. Gesù riprende Giovanni. Il Of. avversativo in testa alla frase è chiaro. «Non impediteglielo!» (Il� Kw.l..UE:n: ocùt6v). L'interdizione è ben diretta, al plura­ le, dato che Giovanni parlava a nome di un «noi>> collettivo. Gesù interdice che si interdica! Colui che parla non si sente assolutamente minacciato. Chiede di aver fiducia. Nessun timore. Egli fornisce un primo argomento: «perché non c'è nessuno che possa fare un miracolo [ouvocfLLç, "opera di potenza", cf. 6,5] invocando il mio nome [la frase riprende con altri termini il "cacciare un demonio nel tuo nome"], e subito dopo

15 Cf. al riguardo l'ampio dossier in R. RIESNER, lesus alr Lehrer. Eine Untersuchung zum Ursprung der Evangelien-Uberlieferung (WUNT 7), Tiibingen 1981.

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(-rttxu) parlare male di me». Per KttKoloyE'iv («parlare male di»), cf. 7,10 LXX. Su Év (òvo!J.ttn ) cambiato in ÉlTL, cf. il commento al versetto precedente. In At 19,3 si

vedono di fatto esorcisti non cristiani servirsi del nome del Signore. Sugli esorcismi nel nome di Gesù, cf. ancora At 3,6s; 19,13; Le 10,17; Gc 5,14; Giustino, Dia/. 30. Chi confessa il mio Nome e fa opere di potenza in questo Nome, continuerà in seguito a onorare il mio Nome e, ancor più, non parlerà male di me: non si tro­ verà in lui un detrattore della via cristiana. Gesù - e Marco con lui - dimostra una fiducia nel Nome come forza benefica che opera il bene al di là della comunità e, di rimando, per il bene della comunità che non avrà nulla da temere da parte di simili taumaturghi. Il ragionamento suppone una grande fede nella forza del Nome. v. 40: «Perché chi non è contro di noi è per noi» (oç yàp oÙK eanv Ktte' �!!Wv, ÙnÈp �� u;)v Éanv). Un nuovo ycip («perché») introduce un secondo argomento che offre un fondamento generale o una chiave che permette di distinguere coloro che non si devono temere. La tradizione manoscritta esita fra ��wv (B � C W) e ù�wv (A D it, «chi non è contro di voi, è per voi»). Il testo parallelo di Luca modifica un po' la frase precedente e vi collega direttamente la proposizione seguente. Perciò vi si legge: «perché egli non segue con noi (on oÙK àKolouefi �e· ��wv)". Ma Gesù gli rispose: "Non lo impedite: perché chi non è contro di voi, è con voi"» (oç yàp oÙK eanv Ktte' ù�wv ÙnÈp ù�wv Éanv, Le 9,49-50). Dal punto di vista della critica testuale, si può notare che il testo di Luca ha potuto influenzare certe varianti del testo di Marco, ma anche viceversa, mentre naturalmente l'itacismo ha potuto cre­ are confusione, qui come altrove, per distinguere «noi» e «VOi» in greco. Il primo cambiamento in Luca consiste nell'affermare che egli non segue . Questo produce immediatamente un gioco interessante di tre preposizioni: �e· ��wv, Ktte' ù�wv e ÙnÈp ù�wv. Inoltre Luca indica che non si tratta di «Seguire noi>>, bensì di «seguire con noi>> un altro, cioè lo stesso e unico Signore. Il fatto che Luca, per la risposta di Gesù, abbia preferito la seconda persona plurale alla prima corrispon­ de bene alla sua sensibilità: egli vuole salvaguardare l'indipendenza di Gesù. Per Marco il «contro di noi» comprende sia Gesù che i discepoli. Per Luca il «contro di voi>> non coinvolge Gesù: egli è il Signore che parla e assicura i suoi che non hanno nulla da temere. Che lui non abbia nulla da temere non è corretto. In genere, Luca distingue con molta precisione i suoi uditori e ama usare questo «VOÌ>> implicativo quando Gesù parla, come nelle sue aperture di parabole: . Questa parola di Gesù, nel contesto delle persecuzioni che caratterizzano sia la vita della comunità di Marco sia la sua memoria, possiede un innegabile potere di incoraggiamento. La massima significa: considera ogni persona che si appella al nome di Gesù un'alleata, anche se la sua condotta è un po' diversa dalla tua. In una situazione di oppressione, è saggio costruire sull'unanimità nelle cose essenziali, e per il resto non diffidare gli uni degli altri e non tirare tiri mancini. L'apertura pro­ dotta da questa parola è certamente comparabile con quella che sviluppa Paolo quando tratta questioni pratiche di condotta e di rispetto vicendevole. Cf. special­ mente Rm 14,1-15,13 (sui forti e sui deboli, in materia di alimenti). Più che vedere un'influenza diretta di Paolo sul testo di Marco, è forse più giusto notare un profon­ do punto di incontro fra le mentalità aperte di Gesù e di Paolo. Molti, in ogni epoca, hanno notato la somiglianza strutturale fra questo logion e quello di Mt 12,30 Le 11,23 : «Chi non è con me è contro di me e chi non racco­ glie con me disperde>> (o �� wv �E't' É�ou Kttt' É�ou Éanv, Ka:Ì. o �� auvaywv �Et' É �ou oKopn((E L). L'analogia formale è sorprendente, ma questo versetto sembra ..

. . .

=

Marco 9,3Q-1 0,45: la •sezione del cammi

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affermare il contrario dell'altro . . . La grande differenza è che il logion della fonte comune di Matteo e Luca è centrato sul Cristo e vuole sottolineare l'assoluta radi­ calità della sua scelta. Il testo di Marco ha più una portata ecclesiologica e, saggia­ mente, indica la relatività di ogni appartenenza a un gruppo con una determinata pratica. Le due parole si possono facilmente pensare e vivere insieme, senza alcuna necessità di contrapporle. Già Maurice Bionde!, in L 'Action (1896), criticava coloro che cercavano di infilarsi sottilmente fra ciò che, da una parola all'altra, sembrava un'insostenibile contraddizione. Dal punto di vista ecumenico, questa parola apre uno spazio di cui non abbia­ mo ancora scandagliato tutte le ricchezze e possibilità. Là dove i cristiani rappre­ sentano una minoranza e sono alle ·prese con un ambiente poco accogliente, se non decisamente ostile, non faranno fatica a riconoscere tutta la forza positiva che que­ sta massima di Gesù contiene. v. 41: «>. Linguaggio potente, scongiurante, con questo «in verità io vi dico>> che di solito riguarda la situazione attuale della comunità di Marco (cf. 3,28; -

16 Si trovano soprattutto in questi capitoli 9 e 10 di Marco, non senza rapporto con i versetti del centro (8,35 e 38). Cf. all'altro capo della sezione 10,43 e 44, poi alla conclusione di altre due catechesi: 10,11 e 15.

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9,1; 13,37; 14,9; ecc.). Questo spiega in parte perché Gesù compaia momentane­ amente alla terza persona: «voi siete di Cristo». Sul piano della critica testuale e anche nell'esegesi ci si è chiesti: come ha potuto Gesù, mentre era vivo, parlare in questo modo di se stesso? (cf. Gv 17,3). Se il testo greco ci è stato trasmesso fe­ dehnente, allora molto probabilmente questa parola non è una parola autentica di Gesù. Ecco l'aporia che sottende l'analisi di questo testo in molti commentari. In ogni caso, la .formulazione Év 6v�n on Xp Lo'tou Éo'tE è curiosa. Matteo l'ha modificata: E Ì.ç OVOIJ.a. !J.!X8T]'tOU («in quanto discepolo>>), il che avvicina il testo ad altre parole di Gesù che si ritengono in genere autentiche (cf. Mt 25,40). Molte va­ rianti e congetture più moderne vanno nella stessa direzione. Taylor suggerisce: Év OVOIJ.a.'tL on ÉI.LOL Écr'tE, sull'autorità di T.W. Manson, con il riferimento a Ps Sal 9,16 Év OVOIJ.a.'tL on cro( ÉOIJ.EV (in N* si trova il curioso Èv OVOI!!X't"L on ÈllOV Ècr'tE). L'idea è paolina, secondo Taylor, che rinvia a Rm 8,9; 1Cor 1,12; 3,23; 2Cor 1 0,7. Forse è meglio rinunciare a trattare il testo come un palinsesto da decifrare all'infinito. Restano sempre due immagini che non è troppo difficile far risalire a Gesù: la valorizzazione del semplice gesto di solidarietà consistente nel dare un bic­ chier d'acqua e l'idea che un tale gesto non è sprecato presso Dio, ma sarà comun­ que ricompensato. Riguardo alla questione del motivo invocato: Èv 6v611a.n, beshem, in persona, «a titolo di. . .», non è troppo difficile dargli un contenuto, anche se le espressioni possono variare: perché voi appartenete al Messia, all'era messianica, al Regno che irrompe nel tempo . . . «a titolo di» discepolo dell'inviato di Dio, che annuncia il Re­ gno imminente. Dal punto di vista semantico tutte queste espressioni appartengo­ no allo stesso campo. La versione conservata in Marco, «perché voi appartenete al Messia>>, o, reso in modo più paolino, «perché voi siete di Cristo», realizza una delle possibilità che si può ricollocare ugualmente bene sia nell'orizzonte della predica­ zione di Gesù sia nel contesto della Chiesa di Marco. In quest'ultimo contesto, quello dell'evangelista, la frase conserva un forte ri­ ferimento escatologico. La «ricompensa» rinvia a ciò che sarà dato alla fine, esatta­ mente come per i termini «geenna» e «fuoco>> che compariranno nei versetti succes­ sivi. Così vediamo ancora una volta che questa terza sentenza spinge la riflessione fino a un limite, quello dell'eschaton. La fine del capitolo (cf. vv. 48-49) è anticipata già qui una prima volta, e questo in un senso puramente positivo. Abbiamo visto che anche nel capitolo 4 le ultime due parabole alternano la prospettiva sulla fine secondo un aspetto prima negativo e poi positivo. Anche Matteo ha colto questa sfumatura in ql!-esta parola di Gesù: scrivendo «uno di questi piccoli», rinforza il legame con la scena del giudizio finale, al termine del discorso escatologico (cf. Mt 25,40)_17 In Gesù l'idea di una ricompensa è paradossale: chi rinuncia a ogni ricompen­ sa sarà ricompensato da Dio. Ma chi agisce per un salario non ne riceverà un altro e, in fin dei conti, scoprirà che non sarà ricompensato. Nel corso dei secoli si sono accese molte controversie attorno alla stessa idea di «salario>> e di «ricompensa>>, e anche di «meriti». Su questo punto Gesù prolunga l'eredità ricevuta dall'ambien­ te dei farisei. Benedetto, nella sua Regola, non disprezza affatto questo insieme di

17 Tutto il capitolo lO di Matteo, il discorso missionario, termina su questo logion del bicchiere d'acqua. È a ragion vedut a che l'evangelista ha collocato questa parola dal sapore escatologico in questo punto, annunciando le prospettive del giudizio, descritto in Mt 25.

Marco 9,3o-1 0,45: la •sezione del cammi

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idee che attinge specialmente nel Vangelo di Matteo. Dal punto di vista pedago­ gico, non è certamente una buona cosa escludere ogni idea di ricompensa: questo potrebbe indurre alcune persone all'apatia o a una smobilitazione troppo sistemati­ ca. D'altra parte, è importante conservare la sua punta paradossale: il salario è «nei cieli>>, e ciò che è veramente gratuito è noto unicamente a Dio. Ma il fatto di essere noto solo a Dio e di avere il proprio nome scritto nei cieli è una gioia imperdibile, e questa basta. «Egli promette una ricompensa a coloro che obbediscono senza la minima idea di ricompensa>> (Bultmann, citato da Taylor, 408). L'idea introduce un rapporto diretto fra impegno etico e sguardo di Dio. L'e­ spressione «per il motivo che voi siete di Cristo>> cambia lo sguardo sul prossimo: l'altro ispira amore e immenso rispetto perché «appartiene a Cristo». La Regola di s. Benedetto inculca sistematicamente questo sguardo reciproco, nel quale Cristo è non solo il malato, ma anche chi lo visita. Il bell'incontro si verifica quando, accan­ to al letto del malato, Cristo visita Cristo e viene riconosciuto da entrambe le parti. Questa piccola serie di sentenze, generata dall'osservazione di Giovanni, ci conduce paradossalmente molto vicino al Gesù storico e al tempo stesso alla visio­ ne paolina, là dove l'apostolo parla della Chiesa come corpo di Cristo. Chiaramen­ te Gesù e Paolo possono coabitare senza alcun problema nello spazio offerto dal testo di Marco. 9,42-50. Lo scandalo La

terza e ultima unità di questa conversazione nella casa di Cafamao (9,33-

50) riguarda lo scandalo: ciò che può far cadere uno dei «piccoli che credono in me>>.

Dopo la serie di sentenze che illustrano un atteggiamento altamente positivo, specialmente ad extra, ecco una serie di sentenze nella quale si invita il discepolo a tenere una condotta severa e critica, specialmente ad intra. 9,42: Kat oç àv aKavOaÀ.La1J E Va 'tWV llLKpwv 'tOUtWV 'tWV ma'tEUOV'tWV E lç ÈI!É,

KaÀov Èanv aim\) lliillov EÌ. lTEpLKHtat IJ.UÀoç òvtKÒç lTEpt 1:Òv 'tpaxTJÀov aù1:ou Kat �PÀTJtat EÌ.ç ·�v 6aÀ.aaaav. 9,42: -«Ma se qualcuno deve scandalizzare uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui vedersi passare attorno al collo una di quelle macine che gi· rano gli asini ed essere gettato nel mare». v. 42: Kat oç àv («e se qualcuno . . . »). Consideriamo un altro caso, parallelo al precedente (stessa formula per cominciare) ma diametralmente opposto, il che autorizza a considerare qui il KaL iniziale una forte antitesi: «Ma se qualcuno . . . La sentenza che segue governa tutto lo sviluppo successivo, m a grazie alla formu­ la oç élv Marco riesce a stabilire un legame formale con la sentenza precedente. Allo stesso modo, ora i «piccoli>> vengono qualificati come «questi che credono in me>>, e questo dimostrativo (toutwv) si riferisce a ciò che precede, più diretta­ mente a coloro che «sono di Cristo>> (v. 41). In questo modo Marco collega nuova­ mente questo passo alla fine del passo precedente, ma riporta inoltre l'attenzione sull'apertura e sulla formulazione del v. 37: 'E v twv 'tOLOU'tWV 1Tatò(wv. Là si trat­ tava di accogliere «uno di questi piccoli bambini>>, qui, al contrario, si segnala il caso nel quale si fa cadere «Uno di questi piccoli». Questi piccoli >, al contrario di Mc 9,45 o Mt 18,8. È probabile che in origine l'ordine fosse temario e che in testa alla piccola serie vi fosse, come in Mc 9, la mano e non l'occhio. In Mt 18,8-9 l'evangelista interpreta le immagini della mano, del piede e dell'occhio in senso sociale: così educa la sua comunità alla tolleranza verso i >. L'immagine della mutilazione ricorda anzitutto usanze punitive di certi popoli dell'antichità, in particolare dei persiani (tagliare la mano o il lembo dell'orecchio a chi ha rubato o commesso un crimine analogo; cf. Mc 14,47 e il commento). Qui Gesù suggerirebbe l'automutilazione come un modo di punire se stessi fin d'ora, prima del momento del giudizio che sarà infinitamente più terribile. Questo ragio­ namento si avvicina a quello di molti logion che fanno emergere tutta la differenza fra l'ordine provvisorio attuale e l'ordine definitivo ultimo, che è imminente (cf. Mt 5,25-26). Ma l'immagine ricorda anche molti racconti della letteratura spirituale: dei padri del deserto (abba Macario, di fronte alla falce dei demoni che vogliono ta­ gliargli un piede); dei maestri buddisti (la storia di Gutei e il dito tagliato o della mano tagliata volontariamente dal primo discepolo cinese di Bodhidharma); dei maestri chassidici (la frusta del padre ritrovata dal figlio che senza batter ciglio glie­ la riporta). Ogni volta si vede che la minaccia di un membro tagliato gioca un ruolo decisivo nella crescita spirituale del discepolo. Una rilettura psicanalitica permette di vedere in questi racconti e nell'immagine ricorrente di un membro tagliato il re­ golamento di conti con la paura della castrazione. Questa paura affonda le radici 534

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nell'istinto di conservazione. Fanno parte del cammino verso la piena maturità l'in­ contro con la morte prima della morte e il superamento della paura che essa può ispirare. In ogni caso, una tale vittoria resta misteriosa. Essa può essere il frutto di un decisivo confronto con un grande maestro, di una crisi personale nel segreto della coscienza, di una prova fisica come una grave malattia, o anche il dono di una natura generosa e senza paura. La parola di Gesù su una tale automutilazione rivela anzitutto la libertà di colui che la pronuncia, e invita ogni discepolo a un discerni­ mento nel quale si impegna a entrare in questa libertà in nome del valore sommo: Dio, il suo Regno, la Vita. Vi sono indubbiamente dei gradi in questo regolamento di conti con quella grande forza in noi che è l'istinto di sopravvivenza. Quando s. Francesco d'Assisi abbraccia il lebbroso, supera l'istinto e scopre una prima volta la grande libertà. Più il regolamento di conti è radicale, profondo e ripetuto, più la libertà sarà grande, anche inafferrabile, senza modelli, sfuggente a ogni griglia di lettura. Chi pronuncia questa parola sul piede e sulla mano tagliati, ha avuto perso­ nalmente le due mani e i due piedi trafitti. 9,48-49: . . o1rou ò OKWÀ� airtwv ou tdt=ut� Kat tò 'ITflp ou oj3ÉvvutaL 49JI«Xc; yllp .

,

1TUpL cXÀL08�oE'taL.

« dove il loro verme non muore e dove il fuoco non si spegne. Perché saranno salati con il fuoco».

9,48-49: tutti

•••

v. 48: «" . . . dove il loro verme non muore e dove il fuoco non si spegne"». Ci­ tazione da Is 66,24, l'ultimo versetto del libro, immagine che ha avuto successo e che si ritrova usata spesso in seguito (cf. Sir 7,17; Gdt 16,17; Billerbeck, l, 19). Qui i verbi sono al presente, rendendo l'attività ordinaria e continua sia del verme che del fuoco. Immagini da interiorizzare, dicono i commentatori antichi: figure di una cattiva coscienza rosa da un senso di colpa che nulla riconcilia e pacifica. Immagi­ ne escatologica ripresa da un grande capitolo escatologico: da una parte, Isaia an­ nuncia tutti coloro che saranno radunati «da tutte le nazioni sul mio santo monte a Gerusalemme», ma dall'altra evoca, fuori dalla città, «i cadaveri degli uomini che si sono rivoltati contro di me»: «Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si spe­ gnerà, e saranno un abominio per tutti» (66,24). Non è chiaro se qui Marco pensi a questa grande cernita evocata da Isaia. In base al contesto precedente, dove ricorre per ben tre volte l'antitesi fra la Vita e la geenna, si potrebbe pensare che, in real­ tà, egli aggiunga questo tratto nella stessa linea della finale di Isaia. Ma il versetto seguente (v. 49), dove si dice in modo generale che «tutti» saranno sottoposti alla prova del «fuoco», tende ad abbandonare l'antitesi. Perlomeno si può dire che egli si serve di quello che è diventato un cliché per parlare della fine irrimediabile, sotto il suo aspetto negativo. v. 49: «Perché ognuno sarà salato con il fuoco» (1rliç yllp 1rupt àA.Lo8�ot=taL). Questa frase esplicativa («perché») nella sua generalità e formulata al futuro sot­ tolinea l'ineluttabile prova del fuoco che viene. La versione latina (con D e alcuni altri manoscritti greci) stabilisce la relazione con la pratica dei sacrifici: et omnis victima sallietur. Ogni sacrificio richiede l'uso del sale e non si offre mai alcunché «Senza il sale dell'alleanza del SIGNORE» (cf. Lv 2,13: KaL 1TiiV owpov 8uo(aç UIJWV àA.t àho8�oE'taL, ou 0Lil1TilUOE''tE' iiÀa 0La8�KT]ç Kup(ou IÌ1TÒ euo Lao!J(itwv UIJWV). Questa aggiunta, che cita alla lettera il testo del Levitico, cerca di chiarire una re­ lazione che non era immediatamente evidente fra ciò che precede e ciò che qui si Marco 9,30-- 1 0,45: la «sezione del cammino•

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presenta come regola generale. La parola gancio che stabilisce il legame è il fuoco. Inoltre, la citazione valorizza l'immagine del sale. Scrive Swete (213): «Nel caso di ogni discepolo di Cristo, il sale dell'alleanza è il Fuoco divino (Mt 3,11: «Lui stesso vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco») che purifica, preserva e consuma il sacrificio - l'alternativa del Fuoco divorante (M t 3,12; Eb 12,29)». E cita Eutimio: «Ogni fedele sarà salato con il fuoco della fede in Dio o dell'amore del prossimo, o ancora rigetterà il marciume del male>>. Hooker (233) nota che il «sale>> e il «fuoco» hanno in comune il fatto di purificare. Paolo in lCor 3,10-15 afferma, ugualmente in una prospettiva escatologica, che la qualità dell'opera di ciascuno sarà provata «mediante il fuoco». Alcuni saranno >) si ritrovano in Mt 5,13 e Le 14,34-35. &vaÀ.oç («insipido»), termine che solo Marco usa nella Bibbia (assente anche nella LXX). 'Apt& Lv («insaporire>>). L'immagine si ritrova in Col 4,6 (si tratta di «insaporire sempre le proprie afferma­ zioni con del sale», simbolo della saggezza e dell'umorismo). Il verbo ELPTJVEUELV ri­ corre solo qui e in Paolo nel Nuovo Testamento: l Ts 5,13 (ELpT)VEUetE È v Éautoi.ç); 2Cor 13,11 e Rm 12,18; cf. tuttavia anche Eb 12,14 («cercate la pace con tutti . . . >>). Si abbandona la prospettiva della fine per ritornare alla realtà attuale del­ la comunità, come indica soprattutto l'uso della seconda persona plurale. Le due proposizioni si susseguono senza la minima congiunzione. Marco vuole concludere l'intera catechesi con una doppia esortazione: «Abbiate sale in voi stessi e vivete in pace gli uni con gli altri». E questo tratto finale a spiegare meglio l'inserimento di «buona cosa è il sale>>. L'immagine del sale si collega al tempo stesso a ciò che è stato appena detto al versetto precedente (v. 49). Qui l'unica caratteristica del sale evidenziata è il suo carattere insostituibile: il sale non può mancare e nulla può so­ stituirlo. Spetta quindi al discepolo realizzare la sua vocazione insostituibile e non permettere alla sua vita di diventare insipida, specialmente con vane controversie di precedenz�, punto di partenza di tutta la conversazione. La conclusione insiste sull'idea che bisogna applicare questo carattere indispensabile del sale a se stessi: «Abbiate sale in voi stessi>>. È così che si chiudono i vv. 42-50a. Il «vivete in pace gli uni con gli altri» conclude i nove versetti precedenti (9,3341). Perciò con una frase Marco conclude la doppia catechesi di 9,33-50a. La seve­ rità si applica a se stessi, la tolleranza e la comprensione si esercitano nei riguardi degli altri. Ecco tutta la saggezza. Si sente la ridistribuzione dei due attributi antite.

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tici del rigore e della bontà (din e hesetf), l'uno esercitato ad intra, l'altro ad extra. È una soluzione tipica di Gesù e di Paolo. Marco, creativo in questo passo, si rivela qui un fedele continuatore della tradizione. 1 0, 1 -1 2. Matrimonio e divorzio

Si continua il viaggio, verso Gerusalemme. Durante il cammino, alcune con­ versazioni, a seconda degli incontri, rappresentano per Gesù altrettante occasioni per dispensare un insegnamento catechetico, specialmente ai discepoli. Varie volte l'insegnamento viene dispensato in due volte: dapprima in pubblico, per tutti, poi a parte, nella cerchia ristretta dei discepoli. Il genere di queste catechesi è principal­ mente esortativo, ma non senza una profondità che apre a una comprensione che oltrepassa il piano morale o semplicemente pratico. 10,1-4: Kcll ÈKEi9f:v &vocatoc� EPXHOCL ELç tiÌ op LOC tf)c; 1oulia(ocç KOCL 1TÉpocv tOU

'Iopoovou, KOCL OUIJ1TOpEUOVtOCL 1TIXÀ.LV OXÀOL 1TpÒç aòt6v, KOCL wc; Elw9f:L 1TIXÀLV ÈMòaoKEV ocòtouç. �at 1Tpom:.t96vtE� ll>ocpLaalOL È1TT)pwtwv ocùtòv EL EI;Eanv &iì opì. yuva1Ka cÌ'IToÀUOOCL, 1TELpa(ovtEç aòtov. 3Ò liÈ: cX1TOKpL9Eì.ç EL'ITEV ocòtolç, T( uiJ.lv ÈvEtE LAato Mwoof)c;; 4ot liÈ: EL1Tav, 'E1TÉtpEijJEv Mwoof)ç �L�Hov &1Tootoco(ou ypaljJCXL KIÙ cX'ITOÀOOOCL. 10,1-4: «Partendo di là, viene nel territorio della Giudea e di là dal Giordano e di nuovo le folle si radunano attorno a lui e, secondo la sua abitudine, di nuovo egli insegnava a loro. Avvicinandosi, dei farisei gli domandavano "se è lecito a un ma­ rito ripudiare la propria moglie?". Era per metterlo alla prova. Egli rispose loro: "Che cosa vi ha ordinato Mosè?". Dissero: "Mosè ha permesso di redigere un atto di divorzio e di ripudiarla"». n primo versetto offre un nuovo quadro nello spazio, dopo la conversazione piuttosto lunga e intensa avvenuta «in casa», «a Cafarnao» (9,33). Le prime tre pa­ role (Kocì. ÈKE19EV &vocotaç) «essendosi alzato di là . . . » costituiscono una transizione facilmente riconoscibile (cf. 7,24), indicando una nuova partenza. Là, in 7,24, Gesù si dirigeva verso nord, qui va verso sud, verso la Giudea e Gerusalemme. Della Giu­ dea non si è più parlato dal prologo (1 ,5) e in occasione del momento panoramico di 3,7. Si ritorna sia verso l'inizio del racconto sia verso il vero centro del paese. Gravi­ tà del momento. Qualcosa sembra precipitare nella trama narrativa. «Viene nel territorio della Giudea e di là dal Giordano». Presente storico, questo €pxecm («viene»), così frequente in Marco all'inizio di un episodio ( 1,40; 2,18; 3,20; ecc.), ci ricolloca in primo piano e nel vivo del racconto. Il verbo è al sin­ golare: si segue solo Gesù nei suoi spostamenti. La formulazione spaziale è doppia (per 'tOC op Loc, , cf. 5,17; per 1Tfpocv, , poi la strada che ha scelto «di là dal Giordano». In buona logica, venendo dalla Galilea si passa prima per la regione >. La frase esita sottilmente fra discorso in­ diretto e diretto. Si tratta di una questione halachica - il diritto di un uomo di ripu­ diare la propria moglie -, il che corrisponde perfettamente alle domande dei farisei. In Marco essi discutono con Gesù solo e sempre di questioni halachiche. Ma la do­ manda è formulata in un modo poco rabbinico e lascia già sottintendere l'esito: non è forse vero che per noi questo è permesso, mentre per voi no? In realtà per i rabbi, basandosi su Dt 24,1-4, si trattava di sapere non se fosse lecito o meno divorziare, ma per quali motivi, a quali condizioni e con quali conseguenze lo si potesse fare. v. 3: «Egli rispose loro: "Che cosa vi ha ordinato Mosè?">> (o OÈ ànoKpL�Ì.ç EtTTEV auto"ì.ç, T( Ùf.L"ì.v ÈVEtE(À.atO Mwoof)ç). La formulazione con il verbo «rispon­ dere>> al participio (ànOKpL8E (ç) è molto frequente in Marco e ben si collega al con­ testo precedente. Essi interrogano e lui risponde. Lo fa ponendo un'altra domanda. Lo scambio è vivace. Qui «Mosè>> viene citato come un'autorità riconosciuta senza riserve dalle controparti. Nessuna insinuazione di discredito della Legge di Mosè (cf., allo stesso modo, in 1,44) . 'EvtélliaeaL («ordinare, prescrivere>>) si ritrova in 13,34. v. 4: «Dissero: "Mosè ha permesso di redigere un atto di divorzio e di ripu­ diarla">>. 538

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Oi. OÈ Etmxv («ed essi dissero»). Transizione breve, resa più viva dall'uso ri­ petuto della congiunzione ùÉ piuttosto che di KOCL (cf. ai vv. 3.4.5 e 6). Del resto, nel discorso diretto l'uso della congiunzione O€ è decisamente più frequente di K«L (cf. l'analisi del c. 13). Questa controversia, benché riferita come un «racconto», è nella sua vivacità quasi un «discorso», per riprendere l'antitesi formulata dal linguista E. Benvéniste. «Mosè ha permesso» (ÉmtpÉnw, «permettere, accordare», cf. 5,13), il che si ad­ dice alla citazione di Dt 24,1, che è condizionale. La risposta chiarisce il punto di vista dell'uomo, i suoi interessi e la sua libertà. Dt 24,1 suppone la decisione ormai presa e presenta le regole sul modo di procedere. Lo scritto (>. Gesù non era coinvol­ to, ma era solo testimone della scena. Egli «vede>> e ormai noi seguiamo la scena a partire dal suo punto di vista. Li rimprovera: il verbo &yava.KtE'iv (cf. 10,41 ; 14,4; Mt 20,24; 21,15; 26,8; Le 13,13) esprime, più di ÉnLt q.Lav , una forte indignazione. È l'u­ nica volta in Marco che Gesù è il soggetto di questo verbo. Chi si indigna, si mette in agitazione per un valore sbeffeggiato. Qui il narratore, trasmettendo ciò che ha conservato come una forte emozione di Gesù, rivela anche se stesso. E indiretta­ mente, attraverso questo tratto, rivela lo stesso Gesù. . Per &: LÉ Va. L («la­ sciare>>, permettere), cf. 1 ,34; per KWÀ.UELV («impedire>>), cf. 9,38-39. Due proposi­ zioni, senza congiunzione, che esprimono una stessa idea, prima in positivo, poi in negativo. L'asindeto non è raro in Marco e rafforza l'emozione contenuta nel lin­ guaggio (cf. 1,27; 2,7; 4,9s; 6,38; 8,17s; 9,19). L'indignazione riguarda l'atteggiamen­ to di rifiuto da parte dei discepoli. Gesù considera direttamente il bambino e non coloro che lo portano. Fin dalla sua prima reazione, la sua attenzione si concentra sul bambino: un significativo spostamento di accento. Notiamo lo stesso riflesso di 9,39: «non impediteglielO>> (�� KWÀ.UEtE), a proposito degli altri «che non ci seguo­ no>> ma fanno miracoli nel nome di Gesù. Riflesso di apertura, di tolleranza, di spa­ zio senza costrizione né angoscia.

Marco 9,30-10,45: la •sezione del cammino•

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«Perché è a simili a loro che appartiene il regno di Dio» ('rc3v yàp to �outwv Èotì.v � j3ao�A.Eto: tou 8Eou). Salto sorprendente e istantaneo dal bambino accolto al

Regno. La gravità del rifiuto è che si rischia di chiudersi di fronte alla realtà più es­ senziale, quella del Regno. Attorno al bambino è in gioco il valore dei valori. Si tratta di essere come loro, simili a loro. L'interpretazione di parole così ben costruite non deriva tanto dall'analisi dei vocaboli o anche dei loro contesti, quanto piuttosto dalla libertà spirituale che si può supporre in Marco o in Gesù, e questa dipende a sua volta dalla libertà che il commentatore riesce a vivere nella sua tradiZione, sia essa gnosti­ ca o antignostica, ortodossa o eterodossa, mistica o pratica, orientale o occidentale. Certo, è buona cosa sapere che il bambino era preso sul serio all'epoca nella cultu­ ra dei giudei del I secolo: non considerato, senza diritti, senza permesso di parola in mezzo agli adulti; poiché nella trasposizione metaforica questi tratti continuano a giocare il loro ruolo (cf. il commento a Mc 9,36: «prendendo un bambino lo pose in mezzo a loro»). Ma più profondamente, qui ognuno si vede rinviato a quel momento inafferrabile del bambino che egli ha in sé, nascosto e spesso rimosso. François Varil­ lon, in L 'humilité de Dieu, commenta le considerazioni di Nietzsche sul «bambino», al di là della sottomissione del «cammello» e l'onnipotenza divoratrice del «leone». L'autore associa allo spirito d'infanzia l'esperienza dell'agonia; ci provoca a non pen­ sare l'agonia al di fuori dello spirito d'infanzia, e viceversa. Solo chi accetta il limite dell'angoscia di dover morire raggiunge la forza dello spirito d'infanzia. Non è forse lo stesso qui: «ai simili a loro . . . »? Non si tratta di una semplice regressione all'infan­ zia, ma neppure del rifiuto di un tale moto di ritorno verso di essa. Non può trattarsi dell'esaltazione dell'incapacità infantile ad assumersi le proprie responsabilità, ma neppure di accontentarsi della grande serietà di chi ha il senso della responsabilità. n «bambino» corrisponde a una debolezza abitata da una forza altra, a essere se stesso in modo ingenuo ma pieno, colmo della liberazione che lo Spirito del regno di Dio opera nell'uomo. Essere pienamente se stesso perché interamente conquistato dallo Spirito di filiazione, lo spirito dell'Altro, «più me stesso di me». 10,15-16: 'Ail�V A.f.yw ÒIJ.'ì.v, 8c; liv Il� Of.�rrto:� t�v j3ao�A.E to:v 'tOU BE:ou wc; 1TIXLOLOV, OÙ Il� Ei.of.A.9U Ei.c; o:Ùt�V. 1flco:Ì. Èvo:yKo:hoaJ.LEVOc; o:Ùtà. KO:tEUAOYH n9Eì.c; tà.c; XE'ì.po:c; Èn' o:ù't&..

10,15-16: «"In verità io vi dico: chiunque non accoglie il Regno di Dio come un bambino, non l'i entrerà". Poi li abbracciò e li benedisse, imponendo loro le mani».

v. 15: «In verità io vi dico: chiunque non accoglie il Regno di Dio come un bambino, non vi entrerà». La parola è introdotta e rafforzata da questo «in verità io vi dico», che in Marco, come abbiamo già visto più volte, interpella normalmente anche la comunità riunita per ascoltare il vangelo proclamato. La parola vale «ieri e oggi» (cf. Eb 13,8). Può aver avuto un'esistenza indipendente, ma ricollocata nel nostro contesto sembra anzitutto spiegare il «simili a loro>> (rc3v yà.p totoutwv) del versetto precedente. A ljvello dell'immagine, si percepisce una tensione che non è certamente ca­ suale: «chi non accoglie . . . non vi entrerà>>. Spontaneamente, si immagina che l'en­ trata dipenda dall'accoglienza ricevuta: non vi entrerà colui che non è accolto. Tut­ tavia qui si richiede alla persona che vuole essere accolta di accogliere anch'essa. Ora l'impegno richiesto è un'inversione, perché deve accogliere il Regno «come un bambinO>> per essere accolto. 546

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Anche qui l'interpretazione è aperta a molti livelli di lettura, secondo la ric­ chezza della cassa di risonanza alla quale viene esposta. Una prima comprensione della parola corrisponde a un'esperienza comune di chi è ricevuto come ospite. L'ospite ricevuto sa che sarà accolto nella misura in cui accoglie senza pregiudizi e senza riserve l'ambiente che incontra. Sul piano spirituale, questa parola di Gesù si riferisce alla qualità di libertà e di ricettività reciproca che caratterizza tutti coloro che partecipano al Regno e all'inabitazione dello Spirito Santo. Questa reciprocità non ha altro fondamento che l'abbandono gratuito, come si deduce dalla formu­ lazione paradossale del logion: «ricevere il Regno come un bambino», invece di «essere ricevuto», e «entrare nel Regno». Il regno dello Spirito, come sottolinea Paolo in lCor 2,6-16, sfugge a ogni legge di gravità. «L'uomo psichico non riceve (ou > (10,13 in continuità con 10,10). Il narratore 548

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alterna consciamente le due annotazioni spaziali: «in cammino» e «in casa» (cf. l'a­ pertura della sezione, in 9,33). Si riprende la strada che conduce a Gerusalemme, il cammino della sequela - cammino della croce, cammino unico dietro al Figlio dell'uomo che dovrà soffrire e morire per risorgere dopo tre giorni. La frase comincia con un genitivo assoluto (cosa rara in Marco, Taylor nota tre casi, cf. 5,2), che non è del tutto regolare, perché il soggetto del genitivo assoluto ritorna come oggetto nella frase principale: KIXÌ. ÈK1TOpEU011Évou airmu E tc; ÒOÒv («e lui, uscendo verso la strada»). «Un uomo accorse e, inginocchiandosi davanti a lui, lo interrogava». Per 1rpoo-rpÉXHV («accorrere») cf. 9,15 (gli unici due casi in Marco), e per yovu1THELV cf. 1,40 (pure gli unici due casi in Marco). Etc; con il valore di ne;, «qualcuno». La messa in scena è viva, vibrante, precipitosa: l'uomo giunge correndo, si getta ai piedi di Gesù e lo saluta in modo più che elogiativo. Il narratore gode a sottolineare l'aspetto un po' eccessivo dell'approccio. Si trattiene il respiro: dove vuole portarci? Il racconto, prolungato per quindici versetti, è importante agli occhi dell'evangelista: si tratta di un vertice nella catechesi del discepolo. Il pensiero corre spontaneamente ai primi racconti di vocazione: Mc 1,16-20; 2,13-14; 3,13-19. Marco non caratterizza ulteriormente l'uomo. Per Matteo è un «giovane» (vEav(oKoc;), per Luca un «capo» (&pxwv). Matteo e Luca hanno dedotto questi tratti dal seguito del racconto di Marco: infatti l'uomo parlerà della sua «giovinezza» e si scoprirà che ha molti beni, quindi potenzialmente un «capo». La descrizione piuttosto vaga del personaggio da parte di Marco permette a ciascuno, specialmente al discepolo en­ tusiasta, di riconoscersi in lui. «Lo interrogava», come abbiamo visto fare i discepoli (cf. 9,1 1, ad esempio). «Maestro buono» (11 LoaoKaÀE &ya8É). Secondo Taylor, che si riferisce a Dal­ man (337) e a Billerbeck (Il, 24), si tratta di un'espressione abbastanza rara e piut­ tosto adulatoria. In sintonia con ciò che è stato appena detto, questo saluto confer­ ma il carattere primario, impulsivo, entusiasta della persona in questione. Questo modo spontaneo ed esuberante di correre verso il Maestro si ritrova in ogni tempo. Cf. ancora Le 9,57 (anonimo ed ·esemplare) o, più avanti, Mc 10,35s, con i figli di Zebedeo. S. Benedetto, nella Regola, parlerà del «fervore del novizio». «Che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (-r( TIOL�> (Mc 9,43.45). Essa è oggetto di speranza (cf. Tt 1,2: «nella speranza della vita eter­ na» e 3,7: «perché diventiamo eredi secondo la speranza della vita eterna>>). L'idea che questa vita sia già presente, fin d'ora, come si vede in Giovanni (cf. Gv 3,15, ad esempio), non è ancora acquisita nel nostro testo. L'uomo pone la grande domanda: come acquistare o ereditare la vita eterna, realizzare il compimento dell'esistenza, ottenere la beatitudine garantita in modo duraturo? Nella sua domanda si percepisce la convinzione che ciò che importa sia il fare, la prestazione, l'aspetto attivo: ai suoi occhi esiste un legame necessario fra lo sforzo e il risultato. Lo si percepisce nella stessa metafora dell'«eredità>>: se faccio ciò che devo fare, non avrò diritto alla mia parte di eredità? «Gesù gli disse» (o ùÈ 'I,aouc; ELTIEV autQ), transizione breve, vivace (con òÉ), diretta (autQ) e personalizzata (ò 111aouc; ). «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo>>. Niente complimenti superficiali. «Uno solo è buono>>, l'UMarco 9,30-10,45: la •sezione del cammino•

no, Dio. Indirettamente si impara che Gesù è pieno di questo Uno e pone subito il suo potenziale discepolo davanti all'essenziale. Confronto esigente, sostenuto dal­ la coscienza di questo Unico, che è la bontà stessa. A prima vista, Gesù raffredda lo zelo del candidato entusiasta. In realtà lo provoca a dare tutto ciò che può. Se l'ardore iniziale è autentico, questo incontro non può che accrescerlo. Secondo una pratica corrente in ambiente ebraico, chi non riesce a sopportare all'inizio il rigo­ re (il din), è degno di ricevere in seguito la bontà generosa dell'hesed? Nell'ordine degli attributi e delle sefirot, l'attributo dell'hesed si trova a un gradino superiore a quello del din. Chi comincia con l'attributo bontà (hesed) in seguito può scendere solo verso il rigore (din), e questo conduce verso forme sempre più precise di isti­ tuzione come la malkhut o il regno, ultima sefirah, in basso nella scala. Chi invece comincia con il rigore, salirà verso un incontro sempre più coinvolgente con l'Uno. 10,19-20: Tcìç ÈvtoAà.ç olooç- .M� cjlollf'oonc; . M� 1.10 LXf00nç, M� KÀÉ IJrnç, M� \jlfUOOf.lLI:ptup�ouc;. M� à1TOOtEpl)onc;. T (f.UI: tÒV 1TIXtÉpa oou KIXÌ. ti}v llTJtÉpa. 20Ò oÈ ETJ aut4), �LOOoKIXM, tiXUtiX mivta ÈuÀ.O:I;ai!T)V ÈK Vf'OtT)tOç I!OU. 10,19-20: •"Tu conosci i comaodamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non fare torto, onora tuo padre e tua madre". Gli disse: "Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza"». v. 19. Ciò che segue immediatamente dimostra che il primo contatto è carat­ terizzato dal rigore: «Tu conosci i comandamenti>> (rà.ç ÈvroJ..cìç olooç). Segue una lista di sei precetti, con i primi cinque formulati in negativo: M� >, come in 6,52, «a proposito dei pani>>. Gesù rincara la dose e ora dice in modo ancora più generale, senza legame con la ricchezza: «Figli (miei), come è difficile entrare nel Regno». L'espressione che introduce queste parole è tipica di Marco, con il (t=uKonw-rEpov, cf. 2,9). I due verbi si richiamano a vicenda, in greco ancor più che in italiano: OLEÀ9t=iv ( ). L'immagine è ricca di effetti grazie alla sua fi­ gura stilistica: l'esagerazione. Gesù ama questo tipo di immagini (cf. la trave e la pa­ gliuzza, spostare un monte, sradicare un sicomoro per andare a piantarlo in fondo

Marco 9,30-10,45: la •sezione del cammino•

al mare, ecc.). Qui si tratta di un animale particolarmente imponente, il più grande noto nell'ambiente a quell'epoca, mentre la «cruna di un ago>> è lo spazio più stretto di cui si disponeva. L'effetto è divertente, quasi grottesco, al limite dell'impossibile, ed è proprio questo che chi parla cerca di suscitare nei suoi ascoltatori. Una rilettura con altre chiavi permette di scoprire nella scelta delle immagini successive una logica non meno sorprendente: il «Cammello» nella tradizione ebrai­ ca (cf. specialmente la tradizione della Cabala) è associato sia con il ricco sia con l'attributo della bontà/generosità. L'immagine non è quindi del tutto casuale, nel nostro caso: il ricco/cammello deve entrare nel Regno passando per . . . La «Cruna» corrisponde all'attributo del rigore. Per accedere alla grande compassione e infine al Regno (nella successione delle sefirot secondo l'albero tradizionale), la generosi­ tà deve passare attraverso il rigore e quindi il cammello attraverso l'ago. Il ricco che accetta questo percorso è colui che distribuisce la sua ricchezza, e fa della sua ge­ nerosità del filo e un mantello per coprire la nudità dei poveri (cf. v. 21).25 Gesù co­ mincia dicendo: «Figli miei>>, collocandosi al livello della bontà (hesed), e conduce i suoi ascoltatori fino in fondo, al Regno, alla Malkut, all'ultima sefirah, che coincide con la figura di Davide, dopo essere passato per la giustizia, associata al patriarca Giuseppe, colui che ha visto le vacche magre succedere alle vacche grasse. Queste ultime furono mangiate dalle vacche magre, l'hesed dal din, e alla fine prese forma in Egitto un ordine equilibrato di giustizia, grazie al giusto Giuseppe (cf. Pr 10,25: «il giusto [tsaddiq] è il fondamento [yesod] del mondo>>). 10,26-27: Oì. &: lTEpwawç È/;ElTÀ.�aaovro À.Éyov-rEç 1rpòç Ècxumuç, Kcxl -r(c; ouvcx-rcxL aw6f)vcxL; 27È�pÀ.Élj/cxç a.Ù-ro'Lç Ò 1TJaouç À.ÉyH, Ila.pà av9pW1TOLç aouvcx-rov, aH' où 1rcxpà 9E4}" miv-ra. yàp ouva.-rà 1ra.pà -rQ 8E4ì. 10,26-27: «Essi restarono sconcertati all'eccesso e si dicevano gli uni agli altri: "E chi può essere salvato?". Fissando su di loro il suo sguardo, Gesù dice: "Per gli uo­ mini, impossibile, ma non per Dio: perché tutto è possibile per Dio"». v. 26: «Essi restarono sconcertati all'eccesso e si dicevano gli uni agli altri: "E chi può essere salvato?">>. Essi sono «sconcertati all'eccesso>>, per lTEpLaawç cf. 15,14, ma l'aggettivo è più frequente: 7,36; 12,33.40; per il composto ÈKlTEpLaawç, cf. 14,31, imeplTEpLaawç, 7,37. Riguardo al verbo, che esprime uno stato sconvolto e pa­ ralizzato dalla paura, cf. 1 ,22; 6,2; 11,18. Essi si dicevano e isola proprio in mezzo, «ma non per Dio>>, la leva di tutto il logion. La seconda metà del versetto (con «infatti») ricorda la parola di Dio ad Abra­ mo e Sara, alle querce di Mamre, che annunciava la nascita di un figlio, Isacco. «Per Dio nessuna cosa/parola è impossibile>>: 11� MUVT]TE'i 1rapò: -r� 6E� pfìl.loc (Gen 18,14; cf. Ger 32,17.27; Gb 1,13; 42,2; Zc 8,6). L'idea in quanto tale è ricorrente nel testo di Marco: cf. 9,23; 1 1,22-23; 14,36. L'antitesi fra «Dio>> e «l'uomo>> fa parte di molte ca­ techesi nel nostro vangelo, come abbiamo visto già in 8,33; 8,36-37 e 10,9 (cf. 3,28-29). La drammatizzazione conduce il lettore/destinatario fino al punto in cui «l'uo­ mo» - e non solo «il ricco>> o «il discepolo>> - si trova nudo davanti a . Gesù stesso, in Marco, è con­ dotto fino a questo punto (cf. 14,36, dove al Getsemani prega il Padre dicendo: «Tutto è possibile per te>>). Lo spazio nel quale di fatto «tUttO è possibile>> (1TttV"tOC OUVOC"ttt) si apre mediante la fede (cf. 9,23; 11,22-23). Questo spazio resta chiuso e inaccessibile dove regna la mancanza di fede (cf. 6,5-6). «Credere>> libera l'esperienza umana di impotenza radicale e lascia entrare l'azione divina nella sua pienezza assolutamente insospettata (cf. 2,5; 10,52 o ancora 4,40). A causa del legame con i versetti del centro (8,33-37), ma anche con l'episodio del Getsemani, si conferma ancora una volta il fat­ to che ci troviamo davanti a uno dei passi più importanti per Marco.26

26

Cf. il riquadro «La fede in Marco», pp.

Marco 9,30- 10,45: la «Sezione del cammi

153-154. 557

1 0,28-31 . Terzo quadro

Non è finita. L'ultima parola sembrava poter essere una conclusione teologica potente e più che sufficiente, ma Marco riesce ad aggiungervi un ultimo quadro. Fa intervenire Pietro, che dovrà fare da contrappeso al momento deludente del ricco che se n'è andato triste e mortificato. 10,28-30: "Hpl;a:ro MyELV o Ilftpoç um�. 'looù �IJELç acjl�KiliJEV mivtu Ka:Ì �KOÀ.ou6�Kir1JÉV OOL. 2�cjlfl o 'lflOOUç, 'AIJ�V À.Éyw UIJ.LV, oùùe (ç Ècrnv oç acjliìKEV otKLaV � atiEi..cjloÙç � à&:i..ljlàç � IJfl'tfpa � 1T!Xtfpa � tÉKVIX � aypoÙç fVEKEV ÈIJOU Ka:Ì EVEKEV ·rou eùo:yyei..Lo u, 30Èàv 1-1� AIXPn ÈKatovta1TÀaa(ova vuv Èv tQ i (cf. 6,45, stesso verbo TTpooyHv) è una figura costante del racconto di Marco. Egli è il pastore, la guida di coloro che, per ciò stesso, sono chiamati a «se­ guirlO>>: i due verbi «camminare davanti» e «seguire>> si richiamano a vicenda, insie­ me all'immagine del «pastore>> (cf. 6,34; 14,27-28, «il pastore>> che, prima «colpito>>, «risorge» e «cammina di nuovo davanti>>). In Marco è impensabile che si possa pre­ cedere Gesù o prendere posto davanti a lui (cf. come Pietro, in 8,33, viene ricollo­ cato «dietro a me>>, alle spalle e non fra Gesù e il suo destino). Si potrebbe dire che il discepolo è per definizione uno che «cammina dietro>> al Maestro e «segue>>. Que­ sto tratto, così accentuato dal narratore, esprime bene la ferma risoluzione di Gesù, il suo cammino risoluto verso il centro, Gerusalemme. Quello che è diventato in questa sezione di Marco un leitmotiv letterario, contiene certamente un ricordo ben preciso dell'atteggiamento fondamentale del Gesù della storia: non è stato sorpreso dalla morte, e non l'ha neppure rifiutata o fuggita, ma l'ha affrontata risolutamente, dandole un senso, integrandola nell'insieme della sua missione.30 Correre così da­ vanti agli altri è un tratto caratteristico di persone spiritualmente libere: esse danno sempre l'impressione di essere una o due misure in anticipo sui loro contemporanei e di non reagire a ciò che accade, ma di costringere tutti gli altri a reagire a ciò che esse intraprendono (cf. il Mahatma Gandhi). Koct È60CJ.1�0UVtO, o t OÈ aKOÀOU9ouvtEç Ècpo�OUVtO («ed essi erano stupiti e coloro che li seguivano erano spaventati>>). La frase in greco è piuttosto pesante (notare le tre finali: -bounto . . . -outhountes. . . -obounto ). In realtà� il clima suggerito è pesante, perché intriso di una paura generalizzata. Il solo fatto di prendere riso­ lutamente la direzione di Gerusalemme genera immediatamente un clima di paura che invade i discepoli. Ancor prima di ascoltare ciò che Gesù dirà, si registra la loro reazione; dopo le sue parole, il narratore non dirà più nulla al riguardo: continua

30 Cf. L'espace Jésus, 100·109. Cf. anche H. Exégèse et théologie (tr. fr. LeDiv 93), Paris 1977; GUILLET, Jésus devant sa vie et sa mort, Paris 1971.

562

ScHiiRMANN, Comment Jésus a-t-il vécu sa mort? H. CousiN, Le prophète assassiné, Paris 1976; J.

L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

immediatamente con la domanda dei figli di Zebedeo (10,35). Anche il quarto van­ gelo conosce questo clima di grande inquietudine {cf. Gv 11,16.55). La Città santa, gioia, consolazione e fierezza dell'ebreo pellegrino, così come ne parla il Salterio e tutta la Bibbia postesilica, ispira nella tradizione più antica di Gesù (cf. anche Le 13,34-35, riconosciuto come proveniente dalla tradizione Q) e nell'esperienza dei primi cristiani (cf. Gal 1-2) anzitutto apprensione e paura. Luca, a partire dalla sua conoscenza delle Scritture, conferirà alla città un doppio significato: è lì che si com­ piono tutte le Scritture, ma è lì che si «uccidono i profeti». Riguardo al centro di Gerusalemme, si può parlare di un certo traumatismo nella coscienza cristiana pri­ mitiva - specialmente a partire dai punti di vista galileo e paolino. Dal punto di vista stilistico, ci si stupisce: perché, dopo il primo verbo É9aj.J.­ j3ouvro (? Duplicazione tipica di Marco, che ama dire in due tempi la stessa cosa {cf. Neirynck, Duality)? Notiamo che tutto inizia con un verbo molto generale, quasi impersonale: «essi salivano>> ( si sa­ liva) «verso Gerusalemme>>, sullo sfondo del quale.si precisa: «Gesù camminava da­ vanti a lorO>>; poi, in modo analogo, «essi erano stupiti>> (più o meno equivalente a «si era stupiti»), che viene ulteriormente precisato: «coloro che seguivano erano spaven­ tati>>. Più che voler distinguere qui delle fonti o dei ritocchi di seconda mano nel testo, noi crediamo che Marco dica un'unica cosa in base a un doppio registro: in modo am­ pio e quasi impersonale, poi in modo più preciso e personalizzato. Il secondo membro della prima unità («egli camminava davanti>>) trova il suo corrispondénte nel secondo membro della seconda unità («coloro che seguivano erano spaventati»). Come abbia­ mo visto sopra, «camminare davanti>> e «Seguire>> si richiamano a vicenda. =

ilna pedagogia e una dram�iurgia deli� p�:,jra La paura è un grande tema nel nostro vangelo. Persino Gesù, il protagonista, non vi sfuggirà (cf. 14,33) e, alla fine, tutto termina con questo sentimento (1 6,5-8). È bene en­ trare in questo clima, perché ciò significa che ci si rende conto della terribile sfida della storia e, di rimbalzo, di tutto ciò che implica un'imitazione degna di questo nome. L'ele­ mento drammatico è al servizio di una purificazione (katharsis) della coscienza, attraver­ so due grandi sentimenti: la pietà e la paura (così Aristotele, nella sua Poetica). Marco, drammatizzando, svolge il suo racconto in modo tale da permettere a questa paura di invaderei, insieme con i primi testimoni: Pietro e i Dodici. Si tratta di conoscerla, come farà Gesù al Getsemani, perché solo allora si può accedere alla libertà e alla gloria del Figlio di Dio. Su questo punto, siamo ancora una volta molto vicini alla Lettera agli Ebrei (cf. Eb 5,5-10). Per Marco, Gesù è per eccellenza il testimone che ha attraversato la paura e attira dietro a sé coloro che vogliono partecipare alla sua vittoria.

vv. 32b-33. «Prendendo di nuovo i Dodici con sé, si mise a dire loro quello che stava per accadergli». Le parole che seguono sono introdotte in un modo mol­ to competente: Marco ricrea un uditorio autorevole con testimoni di primo rango, i Dodici (cf. 4,10; 9,35).31 E, eccezionalmente, precisa, ancor prima che Gesù pren-

" Undici volte si parla dei Dodici in Marco (Mt 8 volte; Le 7 volte; Gv 4 volte; At l o 2 volte, cf. At 1,26 v.l. «Undici»). Due volte nella nostra sezione (9,35 e 10,32, ma cf. anche 10,35.41); quattro volte nel racconto della passione: 14,10.17.20.43. Marco 9,3o-1 0,45: la •sezione del cammi

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da la parola, di che cosa parlerà: «quello che stava per accadergli» (ou�!}a(VELV, unico caso in Marco, cf. Le 24,14). Il verbo 1To:pa.M.�!XiVE LV («prendere») compare ogni volta che avviene qualcosa di decisivo per i discepoli (cf. 4,36; 5,40; 9,2; 14,33). Qui si accentua ulteriormente il movimento di personalizzazione, notato al versetto precedente. Rivolgendosi al gruppo dei suoi discepoli dotato di maggiore autori­ tà, i Dodici, Gesù parla con lucidità, in modo deciso, prevedendo tutto l'avvenire. Non mancano paralleli biblici nei quali un protagonista comunica alle persone che lo circondano ciò che sta per accadergli: Gen 42,4.29; 44,29; Gb 1,22; Est 6,13 (cf. Taylor, ad loc.). L'effetto drammatico è facilmente riconoscibile: l'eroe predice la sua fine e costringe i suoi ascoltatori - sia quelli sulla scena del racconto sia quelli che ascoltano il testo proclamato - a guardare in faccia la crisi e ad assumerla pro­ gressivamente. «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme>>. Ritroviamo l'esatta ripresa in discorso diretto di ciò che il narratore ci ha appena comunicato sotto forma narrativa (v. 32a). Ora verrà chiarito agli orecchi dei discepoli tutto il contenuto dettagliato e do­ loroso di questa salita a Gerusalemme, e questo giustificherà ampiamente il clima di paura già evocato. La ripetizione in prima persona plurale sembra coinvolgere tutti: Gesù, i suoi, ma in definitiva anche il lettore/destinatario: «Ecco noi saliamo>>. «E il figlio dell'uomo sarà consegnato . . . » (Ko:t Ò utòç tou av9pw1Tou 1Tttpttùo9�oEto:L ). «Noi saliamo e il figlio dell'uomo . . . ». Il primo soggetto («nOi») lascia subito il posto alla figura enigmatica già incontrata del «figlio dell'uomo». Si tratta di un'autodesignazione di Gesù, ma con un curioso valore implicativo: questo figlio dell'uomo corrisponde all'«io» di colui che parla, ma in lui si ritrova, poten­ zialmente, tutta la condizione umana e quindi anche tutti coloro che il «noi» iniziale ingloba . . . Figlio d'uomo o figlio di Adamo, è lui ed è ognuno.32 «Sarà consegnato» (1Ta.po:ùo9�oeta.L), al passivo, qui senza precisare chi sia il soggetto dell'azione. Gesù, parlando di se stesso, si designa alla terza persona primo nascondimento - e si serve di una formula che vale per ogni essere umano - secondo nascondimento -, poi lascia che questo soggetto subisca l'azione, formu­ lando il verbo al passivo - terzo nascondimento. Questo suseita spontaneamente la domanda: ma chi è questo soggetto per parlare in questo modo di se stesso? Da dove gli viene questo strano nascondimento e quest'ultima passività, da una parte, e questa eminente precisione nella conoscenza di tutti gli avvenimenti successivi che gli accadranno, dall'altra? Non si può non essere colpiti dalla forza notevolmente tragica di tutta questa affermazione, redatta con un'intensità quasi insopportabile. Libertà del soggetto che parla in questo modo e misteriosa sottomissione nell'eser­ cizio stesso di questa libertà: è così che Marco presenta Gesù mentre avanza e sale in testa verso Gerusalemme. «Ai capi dei sacerdoti e agli scribi», si tratta di due delle tre categorie delle principali autorità a Gerusalemme. Mancano gli «anziani» (cf. 1 1 ,27; 14,43 e 15,1 dove si trovano le tre autorità riunite). Mentre il primo verbo è al passivo, tutti gli altri (sei) sono all'attivo plurale e Gesù ne è l'oggetto che subisce l'azione. Torna a essere il soggetto solo del verbo collocato alla fine: quello dell'alzarsi, del risorgere.

32 Probabilmente nessuno ba cercato di cogliere tutte le sfumature di questa forma di autodesignazione più di R. VIGNOLO, «l titoli cristologici nel Vangelo di Marco», in Credere oggi 22(2002) 131-132, 67-88. Cf. il commento a Mc 14,62 e il fuori testo che segue su «Gesù e la visione del Figlio dell'uomo in Daniele 7», p. 793.

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Ci si può chiedere: chi è il soggetto che agisce in questo primo membro nel quale si dice: «essere consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi»? Si può pensa­ re a Giuda, il «consegnatore/traditore» per eccellenza in Marco (ò 1Tupru5toouç, cf. 14,43.45; già in 3,19, in occasione della formazione del collegio dei Dodici, Giuda viene qualificato come «colui che lo ha consegnato»). Giuda, «uno dei Dodici»: questa formula ritorna varie volte (cf. 14,10.43; 14,20-21). Ora qui Gesù si rivolge espressamente ai Dodici (10,32). Ma si può pensare anche al mistero delle Scritture e alla volontà divina iscritta in esse (cf. 14,21; 9,12-13; 14,49; cf. anche il commento a 14,21.41 -42). Marco, al termine dell'agonia al Getsemani, lascia intendere che l'o­ ra della Venuta per eccellenza, quella attesa nella notte pasquale, l'ora messianica, coincide puramente e semplicemente con la venuta estemporanea di colui che «lo consegnerà>> (ò '!Tupuotoouç). Il traditore che «lo consegna» è quindi più di se stes­ so. Questa doppia prospettiva nella quale si considera contemporaneamente, nello stesso atto, l'uomo con la sua responsabilità e Dio con un suo disegno, accresce la densità di questa parola qui al passivo: 1Ta:pa:009TJOHI.H («Sarà consegnato>>). I destinatari della «consegna/tradimento» sono dei sacerdoti e degli scribi/te­ ologi. In seguito, essi stessi lo «Consegneranno ai pagani», poiché Giuda è solo il primo a «consegnarlo>> a loro. Il «figlio dell'uomo>> sarebbe troppo umano per gli ambienti sacerdotali e per i teologi, e anche per questo dodicesimo discepolo? L'u­ mano troppo umano, che rivela umilmente un Dio spoglio e umile, può essere solo rifiutato, accantonato, «consegnato>>, perché troppo umano e non abbastanza pro­ digioso (cf. 8,33)? Comunque colui che parla non mostra alcuna amarezza né re­ sistenza interiore verso questo terribile processo che lo attende: lo vive come una strana necessità, il cui esito sarà in qgni caso benefico. Egli lo percepisce e lo annun­ cia come un percorso guidato in definitiva da Dio stesso. I professionisti della reli­ gione - coloro che sono dediti alle azioni cultuali e alla riflessione teologica - sono paradossalmente gli avversari più accaniti della manifestazione del divino nella sto­ ria. Ma misteriosamente la loro opposizione contribuisce a rendere questa mani­ festazione ancora più luminosa, ancora più generale. Dove dobbiamo collocarci in questo dramma, e siamo pienamente liberi di sceglierei un ruolo? Tutti agiscono come possono, in base alla loro luce, e tutti contribuiscono in definitiva a far sì che questa irresistibile epifania apra il corso della storia e ne riveli la profondità divina. Maggiore sarà il nostro nascondimento, più splendente sarà la manifestazione di questo figlio d'uomo, infine risorto (v. 34). Strano mistero di libertà e di necessità, di responsabilità personale e di predizione scritturistica: lungo tutto il racconto evan­ gelico, Marco mantiene in equilibrio questi due poli della storia (cf. il commento a 14,21 e a tutto il capitolo parabolico, 4,1-34). «E lo condanneranno a morte>> (K!Ù KUta:Kp tvooow uutòv 9uvoctcv) (cf. Dn 4,34 LXX, per una stessa espressione con il dativo). Questo giudizio di condanna sarà raccontato con un'estrema forza drammatica in 14,60-64, primo quadro della passione. Ka:tuKp (vnv («condannare>>, unico caso in Mc, oltre a [16,16]). «Morte» (9ocva:toç), la prima volta che ricorre il termine, applicato al protagonista, ma l'idea della sua eliminazione compariva già fin dai capitoli 2 e 3 (cf. 2,18-22, «lo Sposo tol­ tO>>; 3,6. 19; 8,31; ecc.). Gesù stesso pronuncia la parola e dice la sua sorte. «E lo consegneranno>> (Ka:t 1Ta:pa:owoouo tv uut6v). Il consegnato viene conse­ gnato, l'eliminazione avviene attraverso mediazioni, perché ogni confronto troppo diretto è insopportabile: l'innocenza potrebbe emergere, risplendere e smaschera­ re di colpo la violenza gratuita che è all'opera. Ma, già nominando ciò che avverrà, Gesù smaschera il comportamento cieco e lo rende leggibile, in tutta la sua oggettiMarco 9,30-10,45: la •Sezione del cammino»

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vità, anche se egli ne è la vittima. Anche smascherato, il meccanismo della violenza non può essere fermato. La presa di coscienza da parte degli altri (cf. 12,12: «essi avevano ben compreso») non conduce alla conversione, perché ogni conversione porterebbe a partecipare a ciò che vive la vittima . . . C'è un altro modo di situarsi nella vita? «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà . . . » (8,35). Gesù non ci con­ duce forse a superare l'istinto di conservazione, a uccidere dall'interno la morte, in piena libertà? «Ai pagani» (to'iç e9VEow). Questo passaggio ai non giudei è una morte, una perdita di identità e la rivelazione di un'altra solidarietà, al di là della distinzione giudeo/pagano (cf. Gal 3,28).33 Per Gesù, come per Pietro e Paolo, ma anche nella conversazione con certi pensatori ebrei contemporanei, l'apertura positiva ai paga­ ni è pensabile solo dopo aver attraversato una vera morte. «Ed essi lo derideranno» (KaÌ. È=IJ.'ITCt.L�ouow aùtpayEÀlWaaç, che si ritrova in Gv 19,1). Per ogni verbo, si potrebbero trovare nella LXX casi che riguardano il profeta o il giusto, il servo di Dio o il salmista fedele. La rilettura dell'Antico Testamento da parte delle prime generazioni cristiane evidenzierà queste corrispondenze, trovan­ dovi ogni volta degli annunci di quello che la Lettera agli Ebrei chiama «l'obbro­ brio di Cristo>> (ÒvE LÒLOIJ.Òç tofl Xp Lotou) e la Prima lettera di Pietro le «sofferenze di Cristo» (tèt 1Tet.9�1J.ata tou Xpwtou) (cf. Eb 11,26; l Pt 1,10-12; 4,13; 5,1). «E uccideranno», Ket.Ì. OC'ITOKtEvooow. Strana finale senza oggetto diretto, anche se attraverso questa messa a morte la sua negazione è ormai totale. Il verbo dice: que­ sto condurrà alla messa a morte, ben più che alla «SUa» morte, o alla morte «di lui». «E dopo tre giorni risorgerà» (KaÌ. IJ.Etft tpE'iç ��J.Épa.ç &vaat�OEtet.L). Il trat­ to finale è esattamente lo stesso che in 9,31, e quasi lo stesso che in 8,31 (KaÌ. IJ.Etft tpE'iç ��J.Épaç &vaatf]vaL, con il verbo all'infinito). Lo negheranno fino a farlo mori­ re, ma ecco che, al verbo seguente, egli risorge, essendo lui stesso soggetto del ver­ bo. Lo scopo perseguito (9avrh�. v. 33), la morte, è finalmente raggiunto, ma anche grammaticalmente egli sfugge alla loro presa. Tutti i colpi e tutti gli schemi erano rivolti a lui (a.Ùt ci conduce fino al destino ultimo dello stesso Gesù: come uno schiavo, sarà appeso al legno della croce (cf. Fil 2,7; Gv 13,16). «Lo schiavo di tutti>>. L'immagine indica il limite estremo.42 Se «tutti» lo han­ no come schiavo, che cosa gli resta come diritto e chi difenderà la sua causa? È alla mercé di tutti. «Voi avete preso talmente l'ultimo posto che mai nessuno ha potu­ to togliervelo» (parola dell'abbé Huvelin a Cristo, trasmessa da frate! Charles de Foucauld). 10,45: Kaì. yocp o uLòç 'tOU &vepw1TOU OÙK �À9E:v 0LIXKOVTJ9fìVIXL &:Hoc OLIXKOvftoiXL KaÌ. oouvaL ·�v !Jrux�v au•oiì ÀUTpov àv.ì. 1roUwv. 10,45: «"Anche il figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine"�. v. 45: «"Anche il figlio dell'uomo infatti . . . "». La transizione con KIXÌ yap è enfatica: il ragionamento precedente trova qui un potente sostegno: è che, in effet­ ti, il Figlio dell'uomo . . . Per ouK 'JÌÀ9E:v &Ua si può ricordare 2,17 (ouK 'JÌÀSov . . . &:Ua, «io non sono venuto per . . . m a. . . »), con la grande consapevolezza di essere inviato e di avere una missione particolare. «Servire>>, inteso non solo come e «dare da mangiare» (cf. 1,13 e 31), ma nel senso di «dare la vita>>: presso i greci viene detto dei soldati, presso gli ebrei dei martiri (cf. 1Mac 2,50; 6,44) (Taylor). Alla fine c'è l'espressione più forte: ÀllTpov &:v.ì. 1roUwv, . Matteo ha ripreso la stessa espressione, che non ricorre altro­ ve nel Nuovo Testamento. lTm 2,6 parla di àvTLÀUTpov, con lo stesso signifìcato43 («che si è consegnato in riscatto per tutti>>, unico caso in tutto il NT; cf. in Tt 2,14: «che si è consegnato per noi>>, senza la nozione di «riscatto>>).· L'idea che Cristo si è «consegnato per noi>> o o anche >.

Marco 9,30-10,45: la •sezione del cammi

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un testimone, nel febbraio del 1980, sentendo parlare mons. Romero della violenza che regnava nel suo paese. La violenza che egli descriveva e analizzava non aveva più alcuna presa su di lui, e non lo provocava più a ricorrere a un'analoga violenza contraria. Era come uscito dalla spirale della violenza. Meno di un mese dopo verrà ucciso, ma non aveva forse già preannunciato lui stesso, tranquillamente: «lo risor­ gerò nel popolo»? Il pensiero formulato qui con forza, posto come un sigillo su tutto ciò che pre­ cede, non è facile da giustificare. Un'intuizione del genere è nota perché attestata in alcuni grandi testi eccezionali come Is 53 (10-12), Zc 12 (10-11) o Sap 2,10-20. Un uomo può, nella stessa qualità con cui sopporta la negazione più totale, sprigionare una forza benefica che tocca la moltitudine. Isolato e negato, egli scende nell'abis­ so, ma lì si rivela in grado di offrire ad altri la «giustizia» che perdona e riconcilia e dona la pace. «Mediante le sue sofferenze il mio servo giustificherà le moltitudini» (Is 53,1 1 ). Questa qualità disarmante e onnipotente spaventa alcuni, può persino disgustarli e, guardando all'insieme dei grandi testi dell'umanità, si nota che è ri­ conosciuta solo da un'infima minoranza. Anche nel Nuovo Testamento l'idea non è accettata da tutti. Luca ad esempio le resiste. Le tradizioni ufficiali sia dell'ebrai­ smo che dell'islam emarginano questo genere di pensieri, e in certi casi li rifiutano formalmente. Quello che in Marco costituisce al tempo stesso il culmine e il centro del suo messaggio può diventare una pietra di inciampo estremamente fastidiosa nell'incontro interreligioso con i nostri fratelli ebrei e musulmani. Su questo punto, pensatori della tradizione buddista - come ad esempio il giapponese Masao Abe si dimostrano più aperti e maggiormente disposti a entrare in questi paradossi di coloro con i quali noi condividiamo l'eredità di Abramo. Il dialogo non consiste nell'imporre una visione né nell'inculcare ciò che viene percepito come inaccettabi­ le, bensì nel cercare di comprendere la ragione per cui questo pensiero suscita qua e là tali resistenze (e la fondatezza delle stesse), e il motivo per cui altri vi si rico­ noscono quasi subito. Il punto qui evidenziato da Marco è il frutto di un percorso segnato da molte prove. Se non si passa attraverso qualcosa di analogo, è probabile che si rimanga sempre al di fuori di una tale intuizione e si comprenda solo l'aspet­ to morale dell'accettazione di servire altri con tutte le proprie risorse e nulla di più. Dopo questa grande parola, Marco non annota alcuna reazione (cf. dopo 10,34). Questa è da molti punti di vista la parola finale. O anche, ciò che segue è solo l'azione in sé: passiamo all'atto, camminiamo e rendiamo quest'ultimo servi­ zio. Una parola del genere non tollera alcun ritardo né commento: pronunciata con forza e pienezza, come conclusione di 9,35-10,44, questa parola comporta una se­ rietà quasi insopportabile, mortifera per ogni linguaggio che si verifica immediata­ mente nell'azione. La passione può cominciare. La creazione di parole del genere è possibile solo alla luce della morte, indi­ pendentemente dal fatto di attribuirle a Gesù o alla tradizione creatrice. La «lette­ ratura>> prodotta qui da questo modo di scrivere possiede l'intensità del fuoco: essa consuma all'istante tutto ciò che è falso o semplicemente le frasi ben bilanciate da una retorica vuota. Parole del genere continuano a vivere solo in «roveti ardenti».

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L 'argomentazione. Marco 6, 14-10,52

1 0,46-52. La guarigione del cieco di Gerico, Bartimeo

Un ultimo episodio deve assicurare la transizione fra la nostra sezione (9,3010,45) e la parte nuova che si svolgerà interamente a Gerusalemme e nei suoi din­ torni. La storia della guarigione di Bartimeo spicca sul suo contesto, ma costituisce al tempo stesso un bell'esempio di racconto di transizione. Nel Vangelo di Marco ve ne sono almeno otto.45 Di fatto, ciò che precede è una grande esortazione e ciò che segue sarà una serie di controverse, mentre l'episodio in questione è un mira­ colo. Ma mediante la sua cornice e molti piccoli tratti comuni con ciò che precede e ciò che segue, Marco riesce a fare di questo breve racconto al tempo stesso una pausa, una digressione, una conclusione di tutto ciò che Io precede e l'annuncio di tutto ciò che lo segue. Un nuovo racconto di transizione

La storia di Bartimeo si inscrive in un itinerario, chiaramente annunciato in 10,32: «Essi erano sulla strada, salendo a Gerusalemme . . . ». L'apertura del racconto di guarigione segnala I'arri11o e l'attraversamento di Gerico: la storia in sé è situata all'uscita dalla città (10,46). L'inizio della pericope successiva ci colloca di colpo vi­ cino a Gerusalemme «in vista di Betfage e di Betania, vicino al monte degli Ulivi» (11,1). Cosi l'episodio di Bartimeo appare come l'ultima tappa del viaggio verso Gerusalemme. La guarigione conclude la sezione dell'insegnamento e prepara di­ rettamente l'ingresso a Gerusalemme.46 Vari tratti del racconto corroborano fin nel dettaglio questa osservazione ge­ nerale. All'inizio e alla fine della pericope si parla del «Cammino» (10,46.52). Si tratta di uno dei motivi ricorrenti di tutta la sezione precedente (cf. 8,27; 9,33.34; 10,17.32). Come abbiamo visto, in quanto motivo, il , in JBL 92(1973), 224-243. L'autore presenta un'apprezzabile rassegna delle opinioni (pp. 237-238) e osserva anche che l'episodio «costituisce la transizione dall'insegnamento sul discepolo all'ingresso a Gerusalemme» (p. 237). Marco 9,3G-10,45: la «Sezione del cammino•

Gesù ritornerà su questo titolo e insegnerà alla folla che se egli è il figlio di Davide, il Messia, al dire dello stesso Davide, ne è anche il suo signore (12,35-37). Così la doppia invocazione di Gesù come «figlio di Davide» da parte di Bartimeo introdu­ ce direttamente alla sequenza successiva e ai suoi prolungamenti in tutta la sezione (11,1-12,44). Altro dettaglio significativo: il cieco «getta il suo mantello» per andare incon­ tro a Gesù (10,50). Vedremo che il verbo usato in greco non è assolutamente certo nella tradizione manoscritta: Èmj3aÀwv o cktroj3aÀwv. Con questo gesto, egli può sia «gettare il suo mantello a terra» (È1nj3aÀwv), come fanno i mendicanti per ricever­ vi le elemosine, sia «gettare via il suo mantello>> (lbroj3aÀwv), abbandonandolo per correre da Gesù che lo chiama. In questo secondo caso, il suo atteggiamento ripro­ durrebbe quello del discepolo perfetto che per seguire Gesù abbandona tutto (cf. 10,17-31). Nel primo caso, bisogna osservare che poco dopo, quando Gesù entra a Gerusalemme, la gente fa proprio ciò che si è appena detto del cieco: a terra (vv. 7-8).47 Qualunque scelta si faccia sul piano della critica testuale, in entrambi i casi è riconoscibile un legame formale con ciò che precede e ciò che segue. Consideriamo ancora due dettagli. Gesù interroga il cieco e la sua domanda corrisponde alla lettera a quella posta un po' sopra ai due figli di Zebedeo: 10,36: «Che cosa volete che io faccia per voi?».

10,51: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

Questo parallelismo stabilisce un legame fra le due pericopi e invita a rilegge­ re l'episodio di Gerico alla luce della problematica sollevata nel passo precedente. Come per l'episodio del bambino epilettico (cf. il commento a Mc 9,14-29), l'accen­ to principale del racconto non cade sulla rivelazione dell'identità di Gesù (come nei primi otto capitoli, anteriormente alla confessione di Pietro), bensì sull'atteggia­ mento pratico di coloro che incontrano Gesù e desiderano seguirlo. Questo tratto, più di ogni altro, inserisce l'episodio di Bartimeo nel contesto precedente. La finale (10,5 1-52) associa i temi vedere, credere, seguire, cioè i temi prin­ cipali di tutta la parte centrale del vangelo (6,14-10,45). Nella risposta del cieco: «Rabbuni, che io veda!» si esprime tutto il desiderio di conoscenza dell'identità di Gesù, caratteristico della prima sezione (6,30--8 ,21), e su questo punto il paralleli­ smo con la guarigione dell'altro cieco, quello di Betsaida (8,22-26), è il più evidente. Nell'ultimo tratto () si riassume tutta la tematica deli 'ul­ tima sezione. Infine: «Va', la tua fede ti ha salvato» riprende il tema dell'atteggia­ mento richiesto per accedere a Dio e alla potenza divina che è in Gesù. Qui si per­ cepisce un'inclusione con la catechesi sulla fede, inserita nell'episodio del bambino epilettico, all'altro capo della sezione (9,14-29). Tutti questi tratti riuniti fanno del nostro episodio una bella finale rispetto a tutto ciò che precede, ma anche una sorprendente transizione verso ciò che segue. Siamo di nuovo alla cerniera fra due grandi parti (6,14-10,45 e 1 1-15) e Marco, conformemente agli insegnamenti dei retori, introduce qui una . Al presente storico, ricollocando i protagonisti in primo piano sulla scena. Vivace ripresa del racconto. «A Gerico». Al tempo di Gesù, la città è ben oltre il Giordano, vicino allo sbocco del wadi Qilt.48 Erode il Grande vi aveva costruito in seguito tre palazzi d'inverno. Dettaglio curioso: in 10,32, ultima indicazione del percorso, si parlava di «Salire verso Gerusalemme», ma per arrivare a Gerico è stato necessario soprattut­ to scendere: il Mar Morto è circa 400 metri sotto il livello del mare e Gerico a circa -256 metri (la città più bassa del mondo). Fra 10,32 e 10,46 si è continuamente scesi e, ricordando le conversazioni, Gesù ha condotto i suoi verso il punto più basso, più umile. In 10,45 si dice: «> si avvicina a Gesù (10,17}. La tematica del «camminare dietro>> a Gesù non è lontana (cf. 10,52, all'altro capo della storia raccontata). Per 1rpoon:hT]ç («mendicante>>) cf. ancora Gv 9,8, unici due casi nel Nuovo testamento, termine sconosciuto dalla LXX o dal greco classico. «Il figlio di Timeo, Bartimaios>>. La presentazione è carica e piuttosto strana: prima il nome in greco, poi la versione in aramaico - un aramaico molto grecizza­ to. Certamente anzitutto nella lingua degli ascoltatori, poi, per aggiungere un tocco di autenticità, nella lingua della gente del luogo che è anche la lingua di allora, del tempo di Gesù. Questo nome scompare sia in Luca (18,35) sia in Matteo (20,30, che del resto parla di «due ciechi>>, certamente per recuperare quello di Betsaida [Mc 8,22s] che aveva accantonato; cf. inoltre i due ciechi in Mt 9,27, che gridano un'in­ vocazione analoga: «Abbi pietà di noi, figlio di Davide !»). Con Giairo (Mc 5,22), è il solo personaggio in Marco prima del racconto della passione di cui venga indicato il nome proprio, al di fuori dei Dodici. Riguardo all'etimologia del nome, i commen­ tatori esitano: sarebbe «figlio di Tameo>> ('�r..lt!i ), cioè «figlio dell'impuro>>, o ancora, meno probabile, secondo un'etimologia attribuita a s. Girolamo: Barsemia, filius caecus (cf. Lagrange, 284s)? Non lo sappiamo con certezza. Secondo Bengel (cita­ to da Taylor) il cieco era noto al tempo degli apostoli (notus apostolorum tempore Bartimaeus). Questo potrebbe giustificare l'insistenza di Marco sul suo nome pro­ prio. Vedremo in seguito che la cosa è molto probabile. v. 47: KO:L aKOlJOO:ç on 1T]oouç ò Nn:(O:pTJVOç Éanv. Il narratore ci costringe ad abbandonare il punto di vista di chi guarda dal di fuori e ad assumere quello del mendicante: «SentendO>> (Kn:L aKOlJon:ç). «Che era Gesù il Nazareno», questo nome non contiene nulla di molto alto e non implica alcuna confessione. Ma questo modo di presentare Gesù ricorda l'i-

49 a. il riquadro «Gesù e Giosuè, figlio di Non», pp. 69-70. 580

L 'argomentazione. Marco 6, 14-- 1 0,52

nizio del racconto, la sua apertura (1,9: «Gesù venendo da Nazaret in Galilea») e, inoltre, il grido dell'indemoniato nella sinagoga di Cafarnao, anch'esso all'inizio del ministero di Gesù (1,24). Si tratta di un effetto ricapitolativo per il lettore (come in 14,67 e soprattutto alla fine, in 16,6). Il passaggio da è subito affianca­ ta dal nome proprio di Gesù: «Figlio di Davide, Gesù>> ('ltl> e guarigione, il mendicante raggiunge la forza divina che si trova nella persona Gesù. 'AKmioac; . . . �pçato Kpa(nv, «ascoltando>> e «SeJJ,tendo», si mette a «gridare» (Kpa(nv, cf. 3,11; 9,24; ecc.). L'ascolto della fede lo conduce al grido della fede e alla confessione, seguita dalla preghiera di supplica. Il passaggio è notevole, brusco, intenso, pieno. 'IT]oou, ÈÀÉT]oov IJ.E , «Gesù, abbi pietà di me». È la preghiera di tanti poveri, tanti monaci, fin dai primi padri del deserto. Marco chiude la sua grande sezione

50 Cf. K. BERGER, «Zum traditionsgeschichtlichen Hintergrund christologischer Hoheitstitel», in NTS 17(1971), 391-425; Io., >, la­ sciando quindi tutto, perché un mendicante possiede solo il suo mantello, come af­ ferma in modo molto pertinente la Legge di Mosè (Es 22,25-26).5' Questo ricorda: il contesto precedente, nel quale Gesù chiede a coloro che vogliono seguirlo di lascia­ re tutto, beni e persone (cf. 10,21.29). Bartimeo, di colpo, eccelle su questa strada. Nel contesto ancora più ampio, quello della notte iniziatica, questo gesto di gettare via il mantello poteva evocare l'altro gesto con cui il candidato lasciava il drappo che lo ricopriva per entrare nudo nell'acqua del fiume o del lago, per ri­ cevervi il battesimo ed essere reso conforme a Cristo nella sua morte e nella sua sepoltura. Il racconto di Bartimeo ha incontestabilmente dei tratti esemplari ed è difficile valutare quali tratti non evochino assolutamente la situazione del discepolo candidato al battesimo nella comunità di Marco. Una cosa è certa: nel quadro dell'i­ potesi iniziatica, questa espressione conviene stranamente molto bene al contesto presunto.58 Come per il dialogo che precede, gli altri due evangelisti, il cui genere

,. Cf. Lohmeyer, 226, che considera ÉmjlaAWv più originario e più biblico e cinojla:Àwv una corre­ zione, ellenizzante. Egli comprende il verbo con ÉTTL- nel senso di cingersi, per correre meglio (cf. Ger 1,17 e At 12.8). E non comprende il verbo con cino- nel senso di lasciare tutto, ma solo nel senso di to­ gliersi il mantello per stenderlo e mendicare. E. HAULOTTE, Symbolique du vetement selon la Bible, Paris 1966, 106 mostra che l'abbandono volontario del vestito può essere una forma di dono di sé. " «Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle, nel quale può coricarsi e dormire» (Es 22,25-26). "' G. DAMBRICOURT, L 'initiation chrétienne selon saint Mare, Paris 1 970, 52-53 vede in questo gesto un riferimento al rito del battesimo nel quale ci si spoglia dei propri vestiti. Cf. più recentemente G. Marco 9,3Q-10,45: la •sezione del cammi

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non è più allineato sull'iniziazione, non hanno conservato neppure questo elemento del mantello abbandonato. «Balzò in piedi» (àva'TTT]Oà v, «alzarsi di scatto» unico caso nel NT; cf. 1Sam 20,24; 25,9; Est 5,1; Tb 2,4). D'un tratto si trova vicino a Gesù, senza più alcuna me­ diazione. Eccoli faccia a faccia. v. 51: «Allora Gesù gli rivolse la parola» (KaÌ. &noKpLBEì.