Il vangelo secondo Matteo 8839406271, 9788839406279

Il libro in pillole: - Agile commento al vangelo di Matteo. - La figura di Gesù in Matteo, insieme messia della parola e

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Italian Pages 528 [520] Year 2001

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Il vangelo secondo Matteo
 8839406271, 9788839406279

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IL VANGELO SECONDO MATIEO

Come per i commenti agli altri due sinottici, anche per il vang�lo di Matteo Eduard Schweizer dà prova delle sue capacità divulgative, senza che ne scapitino la precisione e l'approfondimento delle peculiarità del testo matteano, e questo nonostante la difficoltà insita in qualsiasi tentativo di esposizione della teologia di Matteo. Nel suo commento E. Schweizer mostra come al centro del vangelo di Matteo stia la figura di Gesù, che è Cristo e Figlio di Dio, insieme messia della parola e dell'azione. Egli è il precursore che apre la via ai discepoli, e il Gesù glorificato continuerà a essere presente nei suoi precetti annunciati dai discepoli. Questi, a differenza che in Marco, non sono· ciechi come tutti gli altri uomini, ma sono fondamentalmente coloro che comprendono, e in tale prospettiva la comunità è vista quale schiera dei discepoli nella quale Gesù continua a vivere perché essa osserva e insegna i suoi comandamenti.

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Nuovo Testamento Seconda serie a cura di P e t e r Stuhlmacher e Hans Weder 2

Il vangelo secondo Matteo

Paideia Editrice

Il vangelo secondo Matteo Eduard Schvreizer

Paideia Editrice

Titolo originale dell'opera: J?.as Evangelium nach Matthaus

Ubersetzt und erklart von Eduard Schweizer Traduzione italiana di Franco Ronchi © Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen •1986 © Paid�ia Editrice, Brescia 2001

ISBN 88.J94.0627.1

Indice del volume

9 1I 11 II

I3 14 I5 17 19 63

Elenco delle abbreviazioni Introduzione 1. 2. 3· 4· 5· 6.

Gli ampliamenti di Matteo La fonte Q La teoria delle due fonti La testimonianza di Papia L'autore Il commento

Parte prima La preparazione di Gesù (1,I-4,I6) Parte seconda Il messia della parola e degli atti e la comunità dei suoi discepoli (4,17-II,3o)

258

Parte terza Il conflitto di Gesù con gli oppositori (I2,I-I6,I2)

312

Parte quarta Il cammino verso la passione (I6,13-20,34)

37 3

Parte quinta I giorni in Gerusalemme (capp. 21-25)

447

Parte sesta Passione e risurrezione di Gesù (capp. 26-28)

497

Retrospettiva

sos

Bibliografia

so7

Indice analitico Excursus

24

Le citazioni di riflessione

29

La nascita di Gesù dalla vergine

48

La giustizia di Dio

8 55

73 86 I 68 I 82 346 4I 4 444 493

Indice del volume Il problema del Maligno Le beatitudini Figli di Dio Profeti, sapienti, scribi e giusti nella comunità di Matteo

Il discorso della montagna Il problema del peccato Gesù, Sapienza di Dio Il ritorno di Cristo Padre, Figlio e Spirito santo

Elenco delle abbreviazioni

Scritti biblici Ab. Abacuc. Abd. Abdia. Agg. Aggeo. Am. Amos. Apoc. Apocalisse. Atti Atti degli Apostoli. Bar. Baruc. Cant. Cantico dei cantici. Col. Lettera ai Colossesi. I, 2 Cor. Prima, seconda lettera ai Corinti. I, 2 Cron. Primo, secondo libro delle Cronache. Dan. Daniele. Deut. Deu­ teronomio. Ebr. Lettera agli Ebrei. Ecci. Ecclesiaste. Ef. Lettera agli Efesini. Es. Esodo. Esd. Esdra. Est. Ester. Ez. Ezechiele. Fil. Lette­ ra ai Filippesi. Film. Lettera a Filemone. Gal. Lettera ai Galati. Gd. Lettera di Giuda. Gdt. Giuditta. Gen. Genesi. Ger. Geremia. Giac. Lettera di Giacomo. Giob. Giobbe. Gion. Giona. Gios. Giosuè. Giud. Giudici. Gl. Gioele. Gv. V angelo di Giovanni. 1, 2, 3 Gv. Prima, se­ conda, terza lettera di Giovanni. Is. Isaia. Lam. Lamentazioni. Le. I, 2 Macc. Primo, secondo libro dei Vangelo di Luca. Lev. Levitico. Maccabei. Mal. Malachia. Mc. Vangelo di Marco. Mich. Michea. Mt. Vangelo di Matteo. Naum Naum. Neem. Neemia. Num. Numeri. Os. Osea. I, 2 Pt. Prima, seconda lettera di Pietro. Prov. Proverbi. 1, 2 Re Primo, secondo libro dei Re. I, 2, J, 4 Regn. Primo, secondo, terzo, quarto libro dei Regni (LXX). Rom. Lettera ai Romani. Rut Rut. Sal. Salmi. I, 2 Sam. Primo, secondo libro di Samuele. Sap. Sapienza di Sa­ lomone. Sir. Siracide (Ecclesiastico). S of. So fonia. I, 2 Te ss. Prima, seconda lettera ai Tessalonicesi. 1, 2 Tim. Prima, seconda lettera a Timo­ teo. Ti t. Tito. Tob. Tobia. Zacc. Zaccaria. Q= fonte dei discorsi di Gesù (v. introduzione 2).

Scritti giudaici del II/I secolo a. C. Apoc. El. Apocalisse di Elia (rielaborazione cristiana). CD Documento di Damasco (Qumran). Hen. aeth. Libro etiopico di Enoc. Iub. Libro dei Giubilei. LXX Septuaginta (traduzione greca dell'A.T.). J, 4 Macc. Ter­ zo, quarto libro dei Maccabei (LXX). Ps. S al. Salmi di Salomone (farisai­ ci, LXX). 1Q, 4Q ecc. Scritti di Qumran (cf. sotto, p. 506). Test. Abr. Testamento di Abramo (con interpolazioni cristiane). Test. Ioh Testamen­ to di Giobbe. Test. XII Testamenti dei dodici Patriarchi.

Scritti giudaici I/II secolo d. C e porteriori Bar. gr. Apocalisse greca di Baruc (nfrn sec.). Bar. syr. Apocalisse siriaca di Baruc (fine I sec.). Filone Filone Alessandrino, vari scritti (contempo­ raneo più anziano di Gesù, Alessandria d'Egitto). Ps. Filone Pseudo Filo­ ne, Liber Antiquitatum Biblicarum (influenzato da Qumran ?). Giuseppe Flavio Giuseppe: Ant. Antichità giudaiche; Beli. Guerra giudaica (Roma, fine I sec.). Hen. slav. Apocalisse slava di Enoc. Tg. �s. Jon. Targum dello Pseudo Gionata (libera versione aramaica del Pentateuco ). Vit. Ad. Vita di Adamo ed Eva.

Scritti cristiani del l/II secolo d. C. e posteriori Act. Petr. Atti di Pietro (200 d.C. ca., Asia Minore). Apoc. Paul. Apoca­ lisse di Paolo (Infrv sec.?). Apoc. Petr. Apocalisse etiopica di Pietro (n sec., Egitto?). 1 Clem. Prima lettera di Clemente (96 d.C. ca., Roma). 2 Clem. Seconda lettera di Clemente (omelia, metà n sec.). Ps. Clem. Opere pseudoclementine (Omelie: Riconoscimenti, 200 d.C. ca.; Lettere [alle vergini], III sec., Siria). 3 Cor. Parte degli Atti di Paolo (200 d.C. ca., Asia Minore?). Did. Didachè (ordinamento ecclesiale, fine I sec., Siria?). Di­ dasc. Didascalia, Const. Ap. r-6 (III sec., Siria?). Ep. Ap. Epistola dei XII Apostoli (n sec., Asia Minore o Egitto). 5 Esd. 4 Esdra 1-2 (cristiano). Ev. Naz. Vangelo dei Nazarei (giudeocristiano, prima metà del n sec.). Ev. Petr. Vangelo di Pietro (metà II sec.?). Ev. Thom. Vangelo di Tommaso (metà II sec., Siria, tr. in K. Aland, Synopsis Quattuor Evangeliorum, 71971). Herm. Pastore di Erma (apocalisse, metà del II sec., Roma). Ign. Ignazio di Antiochia: Mg. Epistola ai Magnesi ( 1 oo d.C. ca., Asia Minore). Od. Sal. Odi di Salomone (prima metà del n sec., Siria). Policarpo Policarpo, Lettera ai cristiani di Filippi (inizio 11 sec., Asia Minore).

Introduzione

1 . La prima differenza tra questo vangelo e quello di Marco che salta subito all'occhio è la sua maggiore estensione. Se si va a guardare più da vicino, ciò è ancor più singolare perché la maggior parte delle sto­ rie che si trovano anche in Marco sono narrate in maniera più concisa (v. a 8, 1 -4 intr.). La parte principale dell'ampliamento è quindi dovuta a nuovo materiale: soprattutto all'inserimento di lunghi discorsi di Gesù oltre che ai racconti dell'infanzia che aprono il vangelo. Si po­ trebbe perciò supporre che Matteo sia meno interessato all'aspetto storico della vita di Gesù che al suo insegnamento. Tuttavia la risposta non è così semplice perché proprio Matteo vuole vincolare la comuni­ tà non solo alle parole di Gesù, ma anche alle sue azioni e proprio a tale proposito egli si dimostra più scettico di Marco (v. excursus a 7, 1 3 -23 [3]). Anche i nuovi riferimenti a passi della Scrittura che Matteo introduce e dissemina in tutto il vangelo intendono mostrare l'adem­ pimento della salvezza promessa da Dio proprio in ciò che è accaduto storicamente nella vita di Gesù. Certamente le narrazioni di miracoli e altre simili non sono importanti in sé, bensì vengono lette nell'ottica del loro significato per la comunità; ma questo o quell'aspetto è anco­ ra vincolante per la comunità soltanto perché è avvenuto storicamente nella vita di Gesù o dei discepoli. Proprio in quanto evento storico, appunto, un avvenimento diventa «trasparente» per il presente (cf. a 8, 23). Comunque si rimanda alla retrospettiva finale per informazioni più precise sul contributo teologico dell'evangelista. Per il problema della verità cf. l'introduzione a Marco, 5 (pp. 19 ss.).

2. Nei capp. 3 -4 e 1 2-28 Matteo segue quasi senza eccezioni Marco. Sebbene Matteo inserisca parecchio materiale aggiuntivo le pericopi si susseguono esattamente nell'ordine che hanno in Marco, coincidendo spesso quasi perfettamente anche nel dettato (ad es. I 5,32-39; I 6,2428 ) . Poiché la linea evolutiva procede chiaramente da Marco a Matteo e non viceversa, come mostrano molti passi (ad es. I 3, I; I 4, I. I 5; I 5, I 5;

I2

Introduzione

I 9, I . I 6 s.; 20,22: v. ad lo c. ), si può solo concludere che Matteo abbia conosciuto il vangelo di Marco. Nel materiale aggiunto si incontrano numerose pericopi nelle quali Matteo e Luca coincidono praticamente alla lettera (ad es. 3,7- ro ) . Stranamente anche queste si susseguono nel medesimo ordine che viene rispettato anche in quei casi nei quali gli evangelisti le inseriscono in posti diversi rispetto a Marco. Così in en­ trambi si susseguono parole del Battista, storia della tentazione, tutte le parole del discorso della pianura di Luca che compaiono anche nel discorso della montagna di Matteo e la guarigione del servo del centu­ rione di Cafarnao, sebbene Matteo faccia seguire subito il discorso della montagna · alla prima chiamata dei discepoli, mentre Luca lo ri­ porta solo dopo aver narrato già tutta la sezione di Mc. 1 ,2 1 -3 , I 9 che in Matteo viene solo più tardi e sebbene Luca ponga la guarigione del servo del centurione subito dopo il discorso della pianura, mentre Mat­ teo vi frappone la guarigione del lebbroso di Mc. I ,40-4 5 che Luca ha già narrato precedentemente. Questa situazione non può essere spie­ gata facilmente che con la teoria delle due fonti (Zweiquellentheorie) (v. intr. a Marco, p. r I [ 1 ]). Questa teoria dice che Matteo ha conosciu­ to, oltre al vangelo di Marco, anche la fonte dei discorsi di Gesù (Re­ dequelle, nota con la sigla Q) (v. a 4, 1 - 1 I intr.). Q ha contenuto, es­ senzialmente, solo detti o dialoghi di Gesù (cf. a 8,5 - 1 3 intr.). Poiché tanto il materiale di Marco quanto il materiale di Q, considerati cia­ scuno per sé, mostrano per lunghi tratti il medesimo ordine nella suc­ cessione dei fatti, ma non nell'organizzazione delle due tradizioni, non si può trattare di una tradizione comune nella quale Marco e Q sarebbero stati già uniti. Non si può dunque trattare né di un vangelo primigenio ( Urevangelium ) , ad esempio una forma originaria del no­ stro Matteo, né di un vangelo di Marco già integrato con il matet:iale di Q. Fin dalla scoperta del Vangelo di Tommaso, che va datato relati­ vamente tardi e riporta detti di Gesù già fortemente alterati, si sa con sicurezza che esistevano raccolte contenenti unicamente detti di Gesù. Simili raccolte di «parole dei sapienti» si collocano nella prosecuzione diretta di -quanto si trova già nei Proverbi e nella Sapienza di Salomo­ ne. Anche per quanto riguarda il contenuto Q si pone decisamente su questa linea (v. excursus a 23,34-39); ma lo fa, in verità, in modo da ri­ sultare un p�nsiero sapienziale fortemente orientato verso la fine dei tempi. Così al centro c'è anche la venuta ancora futura di Cristo. Tut­ tavia il venerdì santo (v. a 4, I - I 1 intr.; 2J,J7·39) e pasqua (v. a I I ,27)

La teoria delle due fonti

I3

vi sono al pari presenti e molto probabilmente la liturgia del culto del­ la comunità che leggeva Q ha contenuto inoltre la narrazione del ve­ nerdì santo e della pasqua, come del resto anche nella tradizione giu­ daica successiva alla chiusura dell'Antico· Testamento la dottrina e la storia continuarono a procedere fianco a fianco come due filoni della tradizione in larga misura separati.

3· Non si può negare che questo schema delle due fonti sia ancora troppo semplicistico; soprattutto non spiega perché Mt. s-I r si allon­ tani così singolarmente dall'ordine di Marco. Nell'intr. a 4, 1 7- 1 I,JO si avanza l'ipotesi che, ad esempio, i detti contenuti nel discorso della pianura di Le. 6,20-49 siano stati già usati, ampliati e modificati a sco­ po catechetico, nella comunità di Matteo e che forse sia successo qual­ cosa di simile anche per alcune storie degli atti di Gesù. Ad esempio, come Matteo segue Marco nei capp. 3 e 4, integrandolo però con ma­ teriale preso da Q, come inoltre in sezioni che compaiono in entram­ be le tradizioni egli segue sì Marco, attenendosi tuttavia occasionai­ mente al tenore e all'ordine di Q, così egli potrebbe farsi condizionare da un «catechismo» in uso nella sua comunità per quanto riguarda il discorso della montagna e la raccolta degli atti di Gesù. Non si dovrà im maginare neanche che tutto il materiale comune a Matteo e Luca si sia trovato, sie et simplieiter, in Q. Dove, come avviene ad esempio nella parabola del banchetto (22, 1 - 1 0; Le. 1 4, 1 5 -24), non coincidono né il dettato né la collocazione pur trattandosi della medesima parabo­ la, è molto dubbio che si tratti di materiale ripreso da Q. In questo ca­ so si potrebbe pensare a una tradizione orale che abbia plasmato in maniera diversa il materiale. A questo proposito non si può neppure escludere che alcune differenze risalissero anche al fatto che Gesù abbia raccontato la stessa parabola più di un� volta con certe differen­ ze. Inoltre Matteo e Luca potrebbero aver letto il vangelo di Marco in un testo che non corrisponde esattamente a quello che si conosce og­ gi. In copie manoscritte possono verificarsi piccole variazioni: esiste, ad esempio, una serie di manoscritti degli Atti che presentano in molti passi un testo diverso, un po' più lungo, quasi si trattasse di una nuo­ va edizione. Ciò potrebbe spiegare piccole concordanze dei testi di Matteo e Luca contro Marco (oltre i capp. 8-9; v. ad es. a 26,7 5). La cosa più importante è che non ci si deve immaginare Matteo come uno studioso moderno che copi con precisione Marco, meditando co-

I4

Introduzione

scientement� su ogni variazione. Ovviamente narrando le storie che ha a disposizione egli le segue in maniera libera, attento anche alla for­ ma nella quale detti di Gesù e storie erano correnti nella sua comuni­ tà, eventualmente persino nella sua liturgia. Ciononostante queste va­ riazioni, che spesso avvengono inconsapevolmente, mostrano uno svi­ luppo teologico. Come non si deve dunque immaginare che il proces­ so avvenga in maniera eccessivamente meccanica, sebbene il rigido ri­ spetto dell'ordine sequenziale nell'organizzazione della materia sia pensabile solo in presenza di un esemplare scritto, così si deve presta­ re grande attenzione a ciò che viene tralasciato, aggiunto o variato. In­ fatti proprio queste nuove formulazioni inconsapevoli tradiscono spes­ so gli spostamenti di interesse e di comprensione. Perciò nel nostro commento si presupporrà l'interpretazione proposta in Il vangelo se­ condo Marco dei passi paralleli del vangelo di Marco, mettendo in evi­ denza soltanto ciò che in Matteo è cambiato. In queste sezioni non si tratterà quindi di nuovo l'importante questione del fondamento stori­ co e delle esposizioni premarciane. Nel commento a Matteo, quindi, nei casi suddetti non si considererà la storia della tradizione (Traditions­ geschichte), bensì la storia della redazione (Redaktionsgeschichte, cf. intr. a Marco, pp. 1 1 - 1 7 [2-3]). 4· Verso la metà del n secolo P apia racconta: «Matteo ha raccolto i detti (logia) in lingua ebraica, ma ciascuno li tradusse come era capace di farlo». Il termine «detti» fa pensare a materiale contenente parole e discorsi; tuttavia non è neanche impossibile che con quel termine egli si riferisse anche a storie, come anche oggi l'espressione «parola di Dio>> include entrambi i generi. Di sicuro Papia non può riferirsi così al nostro vangelo giacché è certo che Matteo non rappresenta una tra­ duzione dall'ebraico o dall'aramaico, prescindendo poi del tutto dal fatto che gli antefatti narrati in Mt. 2 e ·3 escludono il racconto "diretto di un testimone oculare (Mt. 9,9) e anche alcune citazioni si adattano al testo soltanto nella traduzione greca dell'Antico Testamento. Inol­ tre la diversità tra i vangeli non può essere sicuramente spiegata in una maniera così semplice con una traduzione divergente. Il passo di Pa­ pia indica: a) alla metà del n secolo la diversità dei vangeli costituiva un problema; b) il nostro vangelo veniva collegato con Matteo, il di­ scepolo del Signore che appare in Mt 9,9; c) non si osava tuttavia farlo risalire direttamente a lui, ma si pensava a un modello semitico primi-

L'autore

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genio; d) probabilmente tale stesura originaria veniva addirittura limi­ tata ai detti di Gesù o ad alcuni logia in essa contenuti. Ma il gabellie­ re chiamato da Gesù non può essere colui che ha compilato Q perché anche il materiale di Q non è in sé molto omogeneo e, ad esempio nella storia della tentazione, presuppone già una lunga riflessione teologica e, tra l'altro, anche il titolo di Figlio di Dio. Quanto già in questo periodo la tradizione fosse incerta risulta manifesto dalle leg­ gende stravaganti narrate dallo stesso Papia circa una risurrezione ad opera delle figlie di Filippo e altro ancora (v. Mc. , p. 3 1 0 a Mc. 1 6, 1 8). Rimane dunque possibile ciò che suggerisce già il cambiamento del nome Levi (Mc. 2, 14) in Matteo (Mt. 9,9): il pubblicano Matteo era co­ nosciuto nella comunità che sta dietro il nostro vangelo e forse si face­ vano risalire a lui alcuni racconti su Gesù che non sono più individua­ bili in concreto. 5. Alcune informazioni sono ricavabili dal contenuto del vangelo. Per quanto riguarda la data il vangelo va posto sicuramente dopo il7o d.C. (v. 22,7 intr.). Poiché la tradizione marciana è già nota e plasmata ulteriormente e si devono ipotizzare, insieme con materiale più anti­ co, anche dispute scribali del genere di quelle che si sono verificate· dopo il 70 d.C., si può azzardare, senza pretesa di certezza, una data­ zione attorno ai primi anni 8o. Il luogo di composizione più verosimi­ le resta sempre la Siria. Da un lato è chiaramente percepibile il legame con il giudaismo palestinese e la sua interpretazione della legge; dal­ l'altro l'ampiezza del mondo delle nazioni e l'accoglimento dei pagani nella comunità postpasquale sono già realtà acquisite. La distruzione di Gerusalemme ha sì una sua parte, ma la tragedia non è stata vissuta in prima persona e tracce dell'uscita dei cristiani di Gerusalemme dalla città possono essere ancora rilevate al massimo dietro la tradizione già ripresa da Marco, ma non direttamente nel vangelo di Matteo. A ciò si aggiunge che il riferimento alla persecuzione ordinata dalle autorità pagane e la testimonianza resa con essa a tutti i popoli (Mt. IO, I 8) è preso, nonostante tutte le variazioni, da Marco e reso ancora più pre­ gnante. Certamente ciò sarebbe stato possibile anche in Palestina, ma se si va a vedere ancora lo stesso vangelo di Giovanni che parla soltan­ to di persecuzioni da parte della sinagoga, si penserà a una regione oltre i confini della Palestina, anche se non si può del tutto escludere la Galilea che viene messa in risalto in Mt. 4, 1 5. A favore della Siria c'è

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Introduzione

che la fi gura di Pietro ha un ruolo importante soprattutto per quanto riguarda la sua interpretazione vincolante dei comandamenti di Gesù nella loro rilevanza per nuove situazioni (v. a 1 6, 1 9); infatti secondo Atti 1 2,17 Pietro ha lasciato Gerusalemme. Come si sa da Gal. 2, 1 I ss. Pietro è stato sicuramente ad Antiochia di Siria. Vero è che è stato di certo anche a Corinto (1 Cor. 1 , 1 2; cf. 3 ,22; 9, 5 ), ma la Grecia (e l'Asia Minore) possono difficilmente essere prese in considerazione perché il carattere della comunità di Matteo è molto diverso da quelle paoline e da quelle microasiatiche che si conoscono da altri scritti (cf. excur­ sus a 7, I 3 -2 3) e anche perché manca qualsiasi reminiscenza di Paolo o di espressioni paoline. Palese è lo sfondo giudaico. Le usanze giudai­ che sono note a tutti (v. a 1 5,5); la questione della legge è un problema centrale (v. a 5,1 7-20) e si continua a osservare il sabato (v. a 24,20). È vero che la disputa con i farisei serve soprattutto a mettere in guardia la comunità (v. intr. ai capp. 2 I -25), tuttavia a monte deve trovarsi an­ cora il contraddittorio con i principali rappresentanti della sinagoga. Ma soprattutto resta centrale per Matteo e la sua comunità il metodo scribale dell'interpretazione della legge che «scioglie>> e «lega» (v. a 1 6, I 9; 1 8, I 8). Che vengano tramandati detti come 23,2 s. i quali riba­ discono l'autorità della dottrina farisaica, ma soprattutto che si dia un particolare rilievo nell'ordinamento della comunità all'esortazione a no'n ferire, nonostante tutta la libertà dalla legge rituale, coloro che pensano ancora in rigide categorie legalistiche (cf. a I 7,24-2 7), mostra che il dialogo con la sinagoga giudaica non è stato ancora semplice­ mente interrotto. D'altra parte un detto come 27,2 5 rivela che la co­ munità e la sinagoga si sono definitivamente separate anche se la spe­ ranza in una conversione di giudei non è stata ancora sepolta. La co­ munità nella quale Matteo vive ha una propria spiccata natura del tipo di quella che si può rilevare ancora, sia pure in uno stadio un po' più avanzato, nella Didachè, cioè in una realtà che va anch'essa collocata probabilmente in Siria (v. excursus a 7, 1 3 -23). Questa comunità mo­ stra ancora forti tracce del legame con il Gesù storico, l'adozione alla lettera delle sue istruzioni con una certa impronta ascetica, un'alta considerazione delle esigenze etiche, dell'interpretazione scribale e del­ l'autorità carismatica. Probabilmente queste caratteristiche sono tipi­ che di tutta la chiesa di Siria e non solo di una sua piccola parte, anche se entrambe le possibilità sono ipotizzabili. Tuttavia la Didachè e il fatto che il primo vangelo divenne relativamente presto il vangelo prin-

Il commento

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cipale della chiesa fanno pendere il piatto della bilancia verso la prima ipotesi. L'evangelista andrà quindi cercato di preferenza tra i giudeo­ cristiani della chiesa di Siria. 6. Per le pericopi che non sono state già trattate nel commentario a Marco si è conservata, nella maggior parte dei casi, la partizione in introduzione, commento dei singoli versetti e nota conclusiva. L'intro­ duzione presenta la storia della tradizione, la conclusione riassume il contenuto teologico della pericope. I rimandi si riferiscono sempre al commento ai singoli versetti, salvo diversa indicazione. Nella tradu­ zione seguo, in verità con molti cambiamenti, Schniewind, il cui com­ mento si continua a consultare con profitto. Per un commentario è più determinante la massima precisione e maggiore vicinanza al testo greco di una lettura scorrevole e di un linguaggio moderno, due fatto­ ri importanti per la lettura nel culto o in privato. Qui non è possibile giustificare tecnicamente l'adozione, basata su argomenti scientifici, di alcune tesi insolite. Ho pubblicato in luoghi diversi parecchie di que­ ste, nella speranza di poter raccogliere più tardi in un volume i saggi in questione. 7. Se mi è consentito dedicare il mio tentativo di interpretazione di Matteo alla facoltà teologica evangelica di Vienna questo non è che un piccolo segno della mia gratitudine per il dottorato honoris causa con­ feritomi su sua indicazione dall'Università di Vienna. Potrebbe essere che una comunità che è vissuta per secoli come minoranza, ha sofferto persecuzioni, spesso ha abbandonato casa e lavoro per seguire, in sen­ so letterale, Gesù e si è tuttavia conservata in clandestinità senza alcu­ na protezione istituzionale, senza gerarchia né istruzione teologica ca­ pisca particolarmente bene e meglio di me il messaggio proprio di que­ sto vangelo per il nostro tempo.

Parte prima

La preparazione di Gesù

(1,1-4,16)

Matteo si distingue da Marco (e da Giovanni) perché racconta, come Luca, la nascita e l'infanzia di Gesù. Ciò serve a mostrare fin dall'ini­ zio, ancora prima che Gesù cominci a operare, che qui si parla di colui nel quale si compiono le promesse di Dio (v. excursus a I, I 8-2 5 ) e che le nazioni attendono da lungo tempo (v. conci. a 4,1-1 I ) . Si narra, co­ me in Marco, di Giovanni il Battista, del battesimo di Gesù, della sua tentazione e dell'andata in Galilea; ma lo si fa integrando quel raccon­ to con materiale tratto da Q, la fonte dei detti di Gesù. Mediante tale integrazione si accentuano maggiormente la necessità del ravvedimen­ to e il castigo incombente (v. a 3,7-1 2). Al contempo si sbarra così la via all'equivoco di un messianismo rivoluzionario (v. 4, 1 - 1 I conci.). In un'aggiunta peculiare a Matteo (J, I 4 s.) risuona per la prima volta il tema per lui importante della giustizia di nuovo tipo voluta da Gesù. Gesù il fine della storia di Dio,

I,I-17

1 Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo.

Abramo generò !sacco, !sacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giu­ i suoi fratelli. 3 Giuda generò con Tamar Peres e Zara. Peres generò Esrom, Esrom generò Aram, 4 Aram generò Aminadab, Amirìadab generò Naasson, N aasson generò Salmo n. 5 Salmo n generò Boaz con Raab, Boaz generò Iobed con Rut, Iobed generò lesse, 6 lesse generò il re Davide. Davide generò Salomone con la moglie di Uria. 7 Salomone generò Ro­ boamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asaf, 8 Asaf generò Iosafat, Iosafat generò Ioram, Ioram generò Uzzia, 9 Uzzia generò lotam, lotam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Io Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia. I I Giosia generò Ioiachin e i suoi fra­ telli all'epoca della deportazione babilonese. I 2 Dopo l'esilio a Babilonia Ioiachin generò Salati el, Salatiel generò Zo­ robabele, 13 Zorobabele generò Abiud, Abiud generò Eliachim, Eliachim generò Azor, I4 Azor generò Sadoq, Sadoq generò Achim, Achim generò Eliud, I5 Eliud generò Eleazar, Eleazar generò Mattan. Mattan· generò Gia2

da e

20

Mt. I,I-17. Gesù il fine della storia di Dio

cobb e,

16 Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale nacque Gesù che è chiamato il Messia. 17 Dunque in totale le generazioni da Abramo fino a Davide sono quat­ to rdici e da Davide fino alla deportazione a Babilonia sono quattordici e dali' esilio babilonese fino al messia sono quattordici generazioni.

Già il fatto stesso che Matteo inizi con una genealogia di Gesù fa pre­ sagire la sua originalità. Certo anche Marco inizia il suo vangelo con un riferimento all'Antico Testamento, ma egli può soltanto proclama­ re questo nesso tra predizione profetica e compimento; Matteo cerca invece di dimostrarlo storicamente. La genealogia non coincide né col testo ebraico né con la traduzione greca dell'Antico Testamento (cf. soprattutto I Cron. 2, 1 - 1 5; 3 , 5 - 1 6). Ioiaqim (6o8-597 a.C.) e il figlio Io­ iachin ( 5 97 a.C., deportato dopo tre mesi di regno in cattività: 2 Re 24, 6 ss.) sono diventati una sola persona, forse perché nella Bibbia greca il nome di entrambi è Ioiachim (2 Re 24,6). Tra Uzzia e lotam (v. 9) sono cadute tre generazioni, probabilmente perché in un manoscritto dei LXX si ha i n I Cron. J,I 1 s. la successione Uzzia-Ioas-Amasia­ Uzzia-lotam e poi qualcuno è saltato direttamente dal primo al secon­ do Uzzia. Anche la forma del nome Aram è un indizio che richiama la Bibbia greca: secondo il testo ebraico di Rut 4, 1 9 ; I Cron. 2,9 s. que­ sto Aram si chiama Ram (mentre nel testo greco di I Cron. 2,9 Ram è il nome di un fratello di Aram). Sta del pari solo nella traduzione gre­ ca di I Cron. J , I 7 - I 9 che Zorobabele sia figlio di Salatiel, mentre se­ condo l'originale ebraico egli fu generato da Pedaia (ma cf. Agg. 1 , 1 ed Esd. 3,8; 5 ,2 nel testo ebraico). Tutto ciò sta a indicare che la genealo­ gia fu composta sulla base della Bibbia greca. Essa dovrebbe essere il frutto di una certa erudizione biblica cristiana (v. a 1 3 , 5 2) che certa­ mente era già all'opera prima di Matteo. Per la precisione si contavano ' da Adamo fino ad Abramo 3 x 7 generazioni (Le. 3,34-3 8; un po di­ versamente in I Cron. 1 , 1 -4.24-27); da Abramo fino a Gesù 6 x 7 ge­ nerazioni, con il risultato che il messia appare dopo nove «settimane di anni», all'inizio della decima (cf. excursus dopo Le. 2,3 8 =Luca, pp. 64 s.) oppure - cominciando il computo da Abramo - all'inizio della settima, la «settimana sabbatica». Di tutto ciò in Matteo non si coglie più alcun cenno. Che le lettere ebraiche, che hanno altresì valore nu­ merico, diano per il nome «Davide>> proprio la somma di 14 (v. 1 7! ) può esser� casuale, giacché anche 2 x 7 (il numero «sacro ») fa 1 4. In ogni caso la genealogia mostra da Abramo (incluso) a Davide 14 mem-

Mt.

I , 1 - 1 7. Gesù il fine della storia di Dio

21

bri, da Davide a Eliachim altrettanti, ma poi solo I 3 fino a Gesù. Ma poiché, secondo la prassi antica, il primo e l'ultimo elemento di una serie sono sempre inclusi si deve probabilmente intendere così: da Abramo a Davide I4; da Davide (contato di nuovo) fi no a Giosia, l'ul­ timo re libero, I 4; da Ioiachim, il primo re in cattività, fino a Gesù 1 4 generazioni. Le. 3,2 I - 3 8 conosce una genealogia del tutto diversa con I I x 7 ge­ nerazioni (da Abramo in poi 8 x 7). È impossibile conciliare le due genealogie. Anche se vi si volesse vedere, contro Le. 3,2 3 e ogni usan­ za corrente, una genealogia di Maria, non si spiegherebbe comunque come mai Matteo faccia discendere Salatiel e Zorobabele (v. 1 2) da Davide attraverso Salomone e Luca, invece, li faccia sempre discende­ re da Davide attraverso Natan con progenitori del tutto diversi. Luca ha quindi conosciuto un elenco diverso, non contenuto nell'Antico Testamento. Proprio perché queste genealogie non rappresentano una sequenza di dati storici si deve ricercare con ancor maggiore impegno che cosa Matteo abbia quindi voluto dire con la sua. 1-17. Che per l'evangelista questa genealogia sia importante si evin­ ce non solo dalla sua posizione iniziale, ma anche dalla soprascritta che è formulata a imitazione di Gen. 5 , 1 (cf. 2,4). Poiché il termine «discendenza» in Gen. 6,9; 3 7,2 denota anche, in senso più lato, tutta la storia di una famiglia, si è voluto vedere nel v. I la soprascritta a tutta la storia di Gesù. Ma usato in questo senso il termine sarebbe ve­ ramente strano e poiché Davide ed Abramo vengono menzionati tanto al v. I quanto al v. I 7, questi due versetti costituiscono la corni­ ce della genealogia; tuttavia in questo modo è già sottinteso che la storia di Gesù che verrà narrata in seguito scaturisce dalla storia di Dio che è narrata nella genealogia stessa. Il v. I 7 rivela che cosa essa voglia dire: l'intera storia che va dall'elezione di Abramo a Gesù, il suo traguardo, sta in mano a Dio. Naturalmente non si tratta di una prova storica (v. intr. sopra, a proposito dei vv . 9 e I I ); è la comunità credente che con la genealogia afferma che in Gesù il Dio che ha già guidato la storia di Abramo e di Davide e ha fatto loro particolari pro­ messe (Gen. I 7,4-8; Gal. 3, I 6;2 Sam. 7, I 2- 1 6; Gv. 7,42; Ebr. 1 , 5 ), adem­ piendo tutte le promesse precedenti, ha incontrato l'uomo. Già al v. 2 vengono ricordati i fratelli di Giuda e al v. 1 I quelli di Ioiachin. Così lo sguardo abbraccia anche la storia dell'intero popolo d'Israele, delle

.2.2

Mt. I,I-I7·

Gesù il fine della storia di Dio

dodici tribù, e anche dei più lontani rami dei Davididi dopo la cattivi­ tà babilonese. Le forme dei nomi Asaf (invece di Asa) e Amos (invece di Amon) sono probabilmente una reminiscenza del cantore di Salmi (Sal. 50 e 73-8 3) e del profeta e costituiscono forse un'allusione al fat­ to che Gesù adempie le predizioni di entrambi, salmisti e profeti. È singolare che vengano ignorate non solo le famose progenitrici Sara, Rebecca e Lea, ma anche altre donne nominate nell'Antico Te­ stamento. Matteo seleziona dunque i minimi, i meno famosi, per illu­ strare un aspetto della strana giustizia di Dio che non sceglie ciò che è grande agli occhi degli uomini. Ancor più singolare è la menzione di Raab sebbene la Bibbia non dica nulla del suo matrimonio. Che cosa hanno in comune queste quattro donne? Si potrebbe pensare che tutte quante, a torto o a ragione, sono state sospettate di fornicazione (Gen. 3 8, 1 4- I 8; Gios. 2,I; 2 Sam. I 1 , 1 - 5 ; Rut 3,7- 1 5). Si vorrebbe dunque lo­ dare così la potenza di Dio che può portare ai massimi onori anche persone di origine umile o malfamata, come dice Giuseppe (Ant. 5,3 3 7) a proposito di Rut e Davide? O si vorrebbe in questo modo giustifica­ re addirittura la sospetta nascita di Gesù da Maria? Ma da un lato nel giudaismo si loda la «giustizia» ( Gen. 3 8,26) di Tamar, la condotta di Raab (cf. anche Ebr. I I ,3 I; Giac. 2,2 5) e Rut quale antenata del messia e nel caso di Batsheba la colpa viene sempre attribuita al solo Davide. Dall'altro Maria viene inserita nella genealogia in maniera del tutto diversa, cioè abbandonando lo schema «il tale generò il talaltro con la tal dei tali», ma senza menzione del marito: « dalla quale nacque Ge­ sù» (v. I 6). Probabilmente le quattro donne sono menzionate perché tutte straniere. Nella letteratura giudaica precristiana Tamar (presup­ posto anche in Rut 4 , 1 2 ?) è definita straniera, Raab lo è secondo Gios. 2, 1 ; 6,2 5 . Rut è moabita (Rut I ,4.22, ecc.). Batsheba non viene men­ ·z ionata per nome, ma presentata come «quella di Uria» perché essa divenne straniera soltanto sposando il marito che la Bibbia chiama sempre «l'Hittita» (2 Sam. 1 1 ,3 e passim). Allora i quattro nomi di don­ na vogliono annunciare l'opera di Dio che. inolude già tutti i pagani e raggiungerà il suo fine in Gesù (28, I 9!). 18. Che secondo il v. I 8 Gesù non fosse affatto fisicamente il figlio di Giuseppe non sminuisce minimamente per Matteo l'importanza del­ la genealogia: infatti «se uno dice: questi è mio figlio, egli lo è legal­ mente» {norma giuridica giudaica, Str.-Bill. a 1 , 1 6 [1]). Determinante è il riconoscimento giuridico, non la discendenza biologica. Così an•••

Mt.

I , I - 17. Gesù il fine della storia di Dio

23

che il fidanzamento, sebbene chiaramente distinto dalla coabitazione, è l'atto giuridico decisivo. Un a fidanzata il cui promesso sposo muore è una vedova. Una fidanzata che si congiunge con altri uomini non è colpevole di fornicazione, ma di adulterio. Poiché Giuseppe è il legit­ timo marito di Maria, Gesù è suo figlio, a meno di impugnare il ma­ trimonio esistente e il bimbo che è nato in esso. Anche il v. 20 chiama Giuseppe, non Maria, discendente di Davide. A un traduttore siriaco ciò non è stato più sufficiente. Egli scrive: «Giuseppe, al quale Maria, la vergine, era fidanzata, generò Gesù ... ». Ma poiché il v. I 8 viene con­ servato e Maria è espressamente definita vergine e fidanzata, a meno di avere un adattamento meccanico ai versetti precedenti, non può che trattarsi che appunto il legittimo marito di Maria è anche il « genito­ re». Così la versione siriaca aggiunge anche al v. 2 I «essa ti partorirà un figlio» (analogamente anche al v. 2 5 ). Anche altre mani si sono date molto da fare per correggere questo versetto: ad esempio, altri hanno trovato disdicevole la frase «marito di Maria» e correggendola in «che si era fidanzato con Maria... » oppure «al quale era fidanzata Maria, la vergine che partorì GesÙ». Per la sensibilità moderna la genealogia di Giuseppe e la nascita verginale sono in contraddizione mentre risultano problematiche tan­ to la numerazione che conta Davide due volte (ma non Giosia) quan­ to la discordanza dei nomi con l'Antico Testamento, senza parlare poi di una successione di generazioni verificabile storicamente. Diventa allora tanto più chiaro che la questione non è se si ritiene vero che tra Abramo e Gesù siano passate le 42 o 5 6 generazioni attestate in Mat­ teo e Luca o addirittura che Salatiel discenda sia da Salomone sia an­ che dal fratellastro di questi, bensì che qui si ha davanti la testimonian­ za della fede dell'evangelista che ci vuole dire che Dio iniziò la storia con il proprio popolo già con l'elezione di Abramo e l'ha ora condot­ ta al suo traguardo con Gesù, superando lungo il suo corso ogni azio­ ne torbida, dubbia, peccaminosa degli uomini. L'interrogativo che il testo propone è se possiamo dire di sì a questa testimonianza, non già a una controversa e non vincolante questione storica.

L'Emmanuelè, 1, 18-25 Ma ecco come avvenne la nascita di Gesù. Essendo sua madre Maria fi­ danzata a Giuseppe, successe che ancor prima di congiungersi lei restasse incinta dello Spirito santo. 19 Tuttavia Giuseppe, che era giusto e non vo­ leva comprometterne la reputazione, decise di !asciarla senza scalpore. 20 Ma mentre meditava ciò tra sé e sé, ecco apparirgli in sogno un angelo del Signore e dirgli: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prenderti in casa Maria, tua moglie; giacché ciò che è generato in lei viene dallo Spirito santo. 21 E lei partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù perché egli «salve­ rà dai loro peccati» il suo popolo. 22 Ma tutto ciò è avvenuto affinché si adempisse q u anto fu detto dal Signore mediante il profeta che recita: 23 «Ec­ co, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio e verrà chiamato Emmanue­ le», che tradotto significa «Dio con noi». 24 Ma appena Giuseppe si sve­ gliò dal sonno fece come l'angelo del Signore gli aveva ordinato e si prese la moglie in casa. 2 5 E non la conobbe finché non ebbe partorito un figlio che egli chiamò Gesù. 18

21

Sal. IJo,8; Ps. Sal. 17,25 . .13 fs. 7,14; 8,8.10.

1 . Con una citazione di riflessione (ossia una citazione con la quale si riflette sull'adempimento dell'Antico Testamento nella vita di Ge­ sù) Matteo interpreta nei vv. 22 s. la storia dei vv. 1 8 -2 r . In Matteo si trovano altre undici citazioni di questo genere con una formula intro­ duttiva simile, se si contano tra queste anche 2,6 (dove a parlare sono il sommo sacerdote e gli scribi) e I J , I 4 s. introdotto con una formula un po' diversa e sostanzialmente già anticipato da Marco. La citazione segue sempre il racconto. Non si tratta quindi di una interpretazione della Scrittura applicata agli eventi contemporanei, come quella dei monaci di Q umran, ma viceversa di una illuminazione a posteriori della storia di Gesù partendo dalla Scrittura. Ci si pone la domanda se esistesse già prima di Matteo una sorta di raccolta di citazioni. È certo che l'intro du zion e è formulata dallo stesso Matteo. Egli è l'unico a usare il verb o «recitare, dire» impiegato qui (ad es. lo usa in 3 , 3 men­ tre Marco ne ha uno diverso). Inoltre egli varia l'introduzione nei casi in cui desidera evitare, nel contesto del suo racconto, di attribuire al­ l'intenzione di Dio cose terribili (cf. a 2, 1 7; 27,9). In 2 1 ,4 s. egli ha in­ trodotto una citazione del genere in un racconto che prima non ne conteneva alcuna. Perciò come il versetto conclusivo di quel passo (v. · sotto, 2 ) anche quello introduttivo è verosimilmente di mano di Mat­ teo. Le citazioni non coincidono né con il testo dei LXX né con il te-

Le citazioni di riflessione

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sto ebraico. Corrispondono al testo greco unicamente 1 ,23, eccettuato il cambiamento «gli porranno nome ... » invece di « gli porrai nome ... » (così Matteo al v. 2 1 !), e 1 3, 1 4 s. dove però viene tralasciata una paro­ lina. Poiché in 1,2 3 il testo greco parla chiaramente di una «vergine», mentre quello ebraico di una « giovane donna» (sposata o nubile), que­ sto passo chiama comunque in causa la comunità di lingua greca. Ma poiché altre citazioni che si trovano in Matteo contengono anche esse, quando non provengono da Marco, forme miste, talvolta anche libere rese di testi dell'Antico Testamento, ciò non prova ancora l'esistenza di una particolare raccolta proprio di queste dodici citazioni. Contro tale ipotesi si può far valere che le citazioni in 2, 1 5 . 1 8; 27,9 s. restano oscure senza il racconto nel quale compaiono. Se quindi Matteo non è stato il primo a inserir le (ad es. in 2, 1 5 . I 8.23), esse potrebbero al mas­ simo essere state già unite all'intera storia. La citazione in 27,9 s. ha addirittura condizionato per lungo tempo la tradizione della fine di Giuda (v. ad loc. ). Inoltre tali citazioni compaiono quasi esclusiva­ mente in pericopi che mancano in Marco. Ciò significa che non esiste­ va alcuna raccolta precedente ben definita e che Matteo non le ha tro­ vate tutte lui. L'ipotesi più semplice è che i biblisti cristiani hanno col­ legato, in fasi diverse, storie di Gesù con testi dell'Antico Testamento e che Matteo ha messo in particolare rilievo queste dodici citazioni mediante la sua introduzione. Perché? 2. La metà dell'attività di Gesù è caratterizzata da quattro riferi­ menti a lui quale rivelatore profetico dei misteri di Dio ( I 3, I 3- I 6. 3 5 ) e schivo guaritore in virtù dell'autorità di Dio (8, 1 7; I 2, 1 7-2 1 ). Due ci­ tazioni sottolineano l'ubbidienza del discepolo. In I ,24 alla citazione segue una «formula di attuazione>> (Ausfuhrungsformel) che ricorda l'Antico Testamento: «Ma Giuseppe si alzò... e fece come l'angelo del Signore gli aveva ordinato>>. Similmente in 2 1 ,6, dopo una citazione di riflessione, si legge: «Ma i discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro ordinato» (così anche in 26, 1 9). In entrambi i casi l'intro­ duzione della citazione comincia con le parole «ma (tutto) ciò avven­ ne affinché ... ». Entrambi i casi descrivono un adempimento che va ben oltre la lettera della citazione: Giuseppe si trattiene dall'avere rapporti sessuali affinché Maria non solo «concepisca», ma anche «partorisca» vergine e i discepoli fanno sedere Gesù su due asini. Matteo ha dun­ que sottolineato l'ubbidienza alla lettera. L'ultima citazione (27,9 s.) descrive viceversa il rimorso del discepolo disubbidiente.

26

Mt. 1,1 8-2. 5 .

L'Emmanuele

3· Le restanti cinque citazioni (2,6. I 5 . I 8 . � 3; 4, 1 5 s.), che in parte po­ trebbero essere state già unite alla tradizione, descrivono la peregrina­ zione di Gesù da Betlemme fino in Egitto, passando per Rama, e poi dall'Egitto a Nazaret e Cafarnao (è questa la parte del viaggio che in­ teressa di più a Matteo ). Senza dubbio Matteo vuole dunque mettere in risalto l'attività carismatica di Gesù nelle parole e negli atti e anche il discepolato ubbidiente richiesto da quegli atti e da quelle parole. È possibile che per l'evangelista le peregrinazioni del giovane Gesù sia­ no importanti anche perché illustrano proletticamente il destino del di­ scepolo che si sposta di luogo in luogo come un profeta errante (v. ex­ cursus a 7, I 3 -2 3 ), sebbene queste citazioni accompagnino il cammino di Gesù solo fino all'inizio della sua attività?

È sorprendente come il miracolo del concepimento verginale non venga narrato, ma presupposto. Matteo l'ha dunque appreso dalla tra­ dizione, certamente orale, della comunità. L'espressione usata per dire «essere incinta» e la formulazione del v. 2 I a derivano dalla citazione veterotestamentaria. Probabilmente Matteo ha usato di grande libertà nello stilare il testo e soltanto nei vv. I 8b-2o sarà contenuto ciò che nella comunità si è narrato e rinarrato. Qui appare anche la frase «in sogno» che ricompare altre quattro volte nel cap. 2 (e dopo solo in 27, I 9) e si racconta inoltre di Giuseppe in termini simili a quelli usati allora in ambienti giudaici per narrare la storia del padre Mosè (cf. a 2, 1 3 -23): «Dio ... gli si avvicinò nel sonno: ... Questo figlio redimerà... il popolo degli ebrei dal giogo degli egiziani» (Giuseppe, Ant. 2,2 I 221 6); «e lo Spirito di Dio venne di notte su Maria [la sorella del nasci­ turo Mosè] ed essa vide in sogno una visione: ... Va' e di' ai tuoi geni­ tori: Ciò che nascerà da voi ... , mediante lui compirò segni e libererò il mio popolo» (Ps. Filone 9, I o) . Anche la spiegazione, comprensibile soltanto in ebraico, del nome di Gesù dev'essere già precedente a Mat­ teo e verosimilmente anche la citazione di /s. 7, 1 4 LXX era unita alla storia della nascita di Gesù già prima di lui poiché è certamente pre­ supposta anche in Le. 1 ,3 1 . Infine Matteo è stato forse a conoscenza dei sospetti nutriti dai giudei nei confronti di Maria. Come plasma ora l'evangelista questo materiale preesistente? 18-25. Non vengono narrati esplicitamente né il concepimento ( I , I 8) né la nascita di Gesù (2, 1 ), ma soltanto le loro conseguenze: l'imba-

Mt.

1,18-25 . L'Emmanuele

27

razzo di Giuseppe da un lato e di Erode dall'altro. Ciò indica che Matteo, probabilmente per controbattere critiche allusive riguardanti la dubbia origine di Gesù in quanto figlio nato fuori del matrimonio e nazareno (invece che betlemita), sottolinea che la nascita avvenne a Betlemme ( 2, I ss.) e fu opera dello Spirito santo. In questa maniera egli non vuole dire altro che questa nascita è stata voluta e provocata così da Dio e che in questo senso Gesù è Figlio di Dio (per 1 ,22 cf. an­ che 2,I J -23 intr.). A Qumran (4 Q 243) si trovano le espressioni «Fi­ glio di Dio», «figlio dell'Altissimo», (il suo Spirito? soggetto femm. nel testo originario) «si posa su di lui». Il riferimento allo Spirito san­ to distingue la nascita di Gesù da molti altri racconti simili (v. sotto, excursus sulla nascita verginale), Già nell'Antico Testamento lo Spiri­ to viene collegato con la potenza creatrice di Dio che genera la vita (Ez. 37,9 s. 1 4; più tardi Gdt. I 6, I 5 ; Bar. syr. 2 1 ,4; 23,5; cf. Gv. 3, 5 s.; 6,63; 2 Cor. 3,6). Nel Nuovo Testamento lo Spirito indica la presenza di Dio che caratterizza anche Gesù in tutta la sua vita e opera (Mc. I , I 0. 1 2; Mt. I2, 1 8 .28; Le. 4, 14. 1 8; 1 0,2 I ; Gv. 3,34; 7,3 7-39; 14, 1 6- I 8, ecc.). Così la comunità ha ripreso la nozione veterotestamentaria di Dio quale vero creatore di ogni vita, l'unico che doni i figli. Questa convin­ zione è già illustrata con i miracoli successi alle mogli dei patriarchi (Gen. I 8, 1 0- 1 2; 2 5,2 1; 29,3 1 ; 30,2.22 s.). Perciò Mt. I ,l8 parla con tan­ to riserbo del miracolo di questa nascita e senza la minima allusione all'idea di un amante divino. Diversamente da quanto accade in Luca, qui Giuseppe ha una parte importante. Definendolo «giusto» Matteo non vuole indicarne la fedeltà alla legge (Deut. 22,20 s.), bensì la di­ sponibilità premurosa (2 5,3 7; 1 0,4 1 ; 1 3,43). «Senza suscitare scalpore» non significa che Giuseppe volesse ripudiare Maria «segretamente», bensì «senza denunciarla>>, cioè senza sporgere quella denuncia che a rigor di legge avrebbe significato per Maria la pena di morte. La Bib­ bia parla di «angeli>> (v. 20) per significare che Dio interviene concre­ tamente nella nostra vita, si rivolge a noi e ci avvia per un nuovo cam­ mino, ecc. A questo proposito, soprattutto nel Nuovo Testamento viene sottolineato sempre di meno l'elemento miracoloso dell'appari­ zione (cf. a Mc. I 6, 5 ) ; anzi Paolo può affermare che la parola del mes­ saggio è incomparabilmente più importante e attendibile di qualsiasi apparizione angelica dietro la quale può celarsi addirittura il diavolo (Gal. I ,8; 2 Cor. I I , 1 4). Anche in Matteo non c'è traccia alcuna delle speculazioni su tutte le possibili categorie celesti di angeli che si tro-

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Mt. r,18-25.

L'Emmanuele

vano nella letteratura giudaica. L'angelo rappresenta semplicemente Dio sulla terra e le sue indicazioni sono estremamente semplici e toc­ cano la vita concreta. L'appellativo «figlio di Davide» mostra che la paternità legale è l'unica determinante: Gesù è un davidide in quanto figlio riconosciuto di Giuseppe (v. a 1 , 1 8). Matteo è più interessato in questo aspetto che nella nascita verginale. Lo stesso vale per l'impo­ sizione del nome fatta da Dio la quale sembra a sua volta più impor­ tante della nascita stessa, come viene ribadito dalla formulazione « ... partorirà un figlio e tu chiamerai il suo nome... » che coincide alla let­ tera con il testo greco di /s. 7, I 4 (v. 23; cf. Gen. I 7, I 9 ) . Certamente Gesù è un nome giudaico diffuso, dunque neanche il nome lo disti n­ gue dai suoi contemporanei: egli è veramente uomo, non un semidio. «Gesù» è la forma greca di «Giosuè» e si trova così anche nella tra­ duzione greca dell'Antico Testamento. In origine il nome significa di sicuro «Jahvé (è) salvezza», ma ai tempi del Nuovo Testamento se ne coglieva ancora soltanto l'eco lontana: «risanare» (o «salvare»); quindi anche «redentore» (o «salvatore»; Le. 2, 1 I; A tti 5 ,3 I ; 1 3,23; Fil. 3,2o; Gv. 4,42; 1 Gv. 4, I 4 e nelle lettere deuteropaoline). Tuttavia ciò vale solo per l'ebraico, eppure Matteo dà per scontato che lo si sappia sen­ za dover aggiungere alcuna spiegazione più esauriente. Non ci si aspet­ tava che la «salvezza» che Gesù procurerà «al suo popolo» (l' espres­ sione denota in Matteo, come in genere nel giudaismo, « Israele») ve­ nisse soltanto da parte di Dio, ma talora che fosse anche il messia a portar la. L'opera di Gesù non è dunque indirizzata unicamente ad al­ cuni devoti, a un gruppo che si distingue da altri, ma all'intero popolo (v. a 2,2). La novità è che Matteo chiama esplicitamente «peccati» ciò da cui gli uomini devono venire liberati (cf. Sal. I J0,8). Remissione dei peccati (v. a Mc. 1 ,4) è un concetto centrale già nell'Antico Testa­ mento perché la miseria dell'uomo consiste nella sua separazione da Dio. Anche nel Nuovo Testamento si può riassumere con questo concetto tutto quanto il messaggio, tuttavia ci sono scritti nei quali es­ so non compare affatto perché la Bibbia non intende mai la «salvezza» in senso puramente negativo. Perciò si afferma subito (v. 23) anche in forma positiva che tutta la salvezza consiste nel fatto che «Dio (è) con noi)). In verità la citazione non è del tutto pertinente (v. sopra, excur­ sus sulle «citazioni di riflessione))) perché si stava parlando di «GesÙ>> e non di « Emmanuele» . Ma per Matteo �> parlando, come nell'Antico Testamento, con l' «io» di Dio (v. I 3) determina tutto ciò che segue. Egli è, in una certa misu­ ra, l'azione di Dio personificata. Anche qui (v. I 4) la figura di Giusep­ pe è centrale. La sua ubbidienza si manifesta nuovamente (v. a I ,2 5 ) nell'esecuzione alla lettera d eli'ordine angelico: «Ma egli s i alzò e pre­ se il bambino e sua madre» (esattamente come in 2,20 s.). La fuga met­ te ancora una volta in evidenza il contrasto tra l'apparente potenza del re in carica e l'umiltà e impotenza del futuro re universale. Questi sembra essere oggetto e non soggetto della storia, ma in realtà egli do­ mina tutto l'evento. In Osea «Figlio di Dio» indica Israele (v. I 5), ma ai tempi del Nuovo Testamento si vedeva spesso (v. sopra) la reden­ zione messianica come evento parallelo alla liberazione dall'Egitto. La crudeltà di Erode è stata proverbiale (v. I 6): egli fece giustiziare tre fi­ gli e al momento della sua sepoltura si sarebbe dovuto uccidere un membro di ogni famiglia affinché il cordoglio di tutti fosse sincero (Giuseppe, Ant. I 7, I 8 I ). Che Flavio Giuseppe, il quale raccolse volu­ tamente tutti questi atti di crudeltà di Erode, non faccia cenno a una strage di fanciulli è un forte argomento contro la storicità di questo preciso crimine. Secondo Giud. I 9, I 3 (cf. I Sam. I , I ) Rama (v. I 8) è situata a nord di Gerusalemme. È in accordo con tale ubicazione l'in­ dicazione di I Sam. I o,2 che pone la tomba di Rachele al confine tra Beniamino ed Efraim e di Ger. 3 I , I 8 che parla di Efraim il cui territo­ rio si trova a nord di Gerusalemme. Ancora più precisa è l'indicazione di Gen. 3 5, I 6- I 9 che ubica la località tra Bete l ed Efrata. Vero è che una mano seriore, seguendo Mich. 5 , I (dove Betlemme è chiamata an­ che Bet-Efrata), ha identificato sia in Gen. 3 5 , I 6 ss. che in Gen. 48,7 Efrata con Betlemme, che è situata invece a sud di Gerusalemme. Là

40

Mt.

2,1 3 -23 . Da Betlemme a Nazaret passando per l'Egitto

infatti si mostra anche, dal IV sec. d.C. a oggi, la tomba di Rachele. L'ordine di ritornare in patria (vv. 19 s.) corrisponde perfettamente a quello di fuggire (v. 1 3 ). Questo è l'unico passo del Nuovo Testamen­ to nel quale compaia l'espressione «terra d'Israele» che è stata ripresa nel moderno stato d'Israele. Strano è l'uso del plurale nella frase «co­ loro che attentavano alla vita... ». Ciò è forse dovuto al parallelismo con Es. 4, I 9 (LXX): «Poi il re di Egitto morì. Ma il Signore disse a Mosè: . . . Va' via in Egitto, ... poiché sono morti tutti coloro che atten­ tavano alla tua vita>>. Alla sua morte (v. 22) il regno di Erode venne diviso tra i tre figli, il più temuto dei quali era Archelao. È particolar­ mente importante per Matteo che anche il trasferimento a Nazaret av­ venga per ordine dell'angelo. L'espressione «prese dimora» e il fatto che Giuseppe si sia trasferito a Nazaret solo dopo un'indicazione avu­ ta in sogno rivelano chiaramente che per Matteo i genitori di Gesù so­ no vissuti prima non a Nazaret, ma a Betlemme. Con questo trasferi­ mento di residenza a Nazaret dj . Galilea, confermato anch'esso dalla parola profetica, si è giunti al punto culminante. Guardando indietro ai primi due capitoli si riconosce in quale ma­ niera diversa la comunità abbia cercato di esprimere l'unicità di Gesù. La genealogia lo presenta come il davidide promesso da Dio che al contempo adempie tutta la storia d'Israele a partire dalla vocazione di Abramo. Le storie susseguenti lo vedono come il redentore d'Israele che è ancora più grande di Mosè. Inoltre sono stati già riferiti a lui testi che lo rappresentano come colui che era stato promesso dai pro­ feti. Mentre nella genealogia e nei racconti dell'infanzia Giuseppe oc­ cupa la posizione centrale, nella tradizione della nascita verginale que­ sto ruolo viene assegnato in realtà a Maria; tuttavia ciò avviene unica­ mente nella storia dell'adorazione dei magi. Qui appare anche il moti­ vo del re universale. Quanto a lui, Matteo può riprendere tutte queste affermazioni senza essere personalmente interessato in maniera parti­ colare ai paralleli con Mosè o Davide. Per lui è essenziale la posizione unica di Gesù alla cui importanza per tutte le nazioni si allude già nella genealogia con la menzione delle quattro donne. Ma Matteo è interessato nel contempo alla funzione prolettica di Gesù: parte della sua vita errante, della sua vocazione, della protezione divina di cui ha goduto si rifletterà nei suoi discepoli (cf. excursus a 7, I J -2J). Pe·r que­ sta ragione l'evangelista mostra un intenso interesse per i luoghi indi-

Mt. 3 , 1 -6.

Giovanni il Battista

41

cati: Betlemme-Rama-Egitto-Nazaret (-Cafarnao). Così i primi capi­ toli chiariscono già la «dimensione>> nella quale si deve vedere Gesù. Egli è il salvatore d'Israele già prima di iniziare la sua missione. Egli è già «GesÙ>>, Immanu-El e Figlio di Dio fin dal principio: costretto a errare di luogo in luogo, attaccato dal mondo del quale egli è il re, ma guidato da Dio stesso. Giovanni il Battista, 3,1-6 (cf. Mc. 1 ,2-6; Le. 3 , 1 -6) 1 Ora in quei giorni comparve Giovanni il Battista predicando nel deserto della Giudea 2 e dicendo: Ravvedetevi perché il regno dei cieli si è avvici­ nato. 3 Lui è infatti quegli del quale è detto mediante il profeta Isaia dove recita: «La voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del .Signore, raddrizzate i suoi sentieri» . 4 Ma lui, Giovanni, vestiva una pelle di . cam­ mello con il pelo e una cintura di cuoio ai fianchi; il suo cibo erano caval­ lette e miele selvatico. s Allo ra uscì per andare da lui Gerusalemme e tutta la regione della Giudea e tutta quella attorno al Giordano . 6 Ed essi si fa­ cevano battezzare da lui nel Giordano e confessavano i loro peccati. 3 fs. 40,3 . 4 2 Re 1,8; /s. 66,24.

Matteo passa immediatamente a Giovanni Battista e al battesimo di Gesù. Neanch'egli ha niente da raccontare sul periodo intermedio che secondo Le. 3,2 3 abbraccia circa tre decenni. Dapprima egli segue Marco (cf. Mc. , pp. 25 ss.; per la struttura del nostro vangelo cf. intr. [2]), ma poiché questo capitolo è preceduto già da due capitoli con storie di Gesù, a differenza di Mc. 1 ,2 s. la citazione (v. 3) di /s. 40,3 non costituisce più una sorta di soprascritta a tutto il vangelo, ma è solo una delle tante attestazioni. Perciò essa viene dopo i vv. r s. ed è priva di una specifica introduzione a sottolinearne il compimento (cf. excursus a 1 , 1 8 -2 5). In questo modo il «deserto» del v. 1 non è più collegato direttamente con la citazione, dunque non è più il «deserto» del piano salvifico di Dio di cui parla l'Antico Testamento: Matteo lo identifica topograficamente come «deserto di Giuda». Per questo mo­ tivo egli usa già nell'introduzione di sua mano (v. 1) l'epiteto «il Batti­ sta» che Marco menziona solo più avanti (Mc. 6,2 5 ). Viene anticipata anche la descrizione del Battista, come è più logico (v. 4). Si vede una volta di più come Matteo sia più fortemente interessato ai dati geo­ grafici e storici che mostrano come Giovanni sia Elia redivivo ( r 1 , 1 4; 1 7, 1 3), mentre Marco voleva narrare per prima cosa l'inizio della pro-

42

Mt. 3, I -6.

Giovanni il Battista

clamazione e i suoi primi effetti. Certo anche Matteo menziona già al v. 2, come Marco, la proclamazione del Battista, ma al posto delle pa­ role «battesimo di ravvedimento per la remissione dei peccati» si ha «ravvedetevi» (cf. a Mc. I ,4) poiché il regno dei cieli è ormai arrivato vicino» (cf. al v. 8). In questo modo la predicazione del .Battista diven­ ta un appello più energico a una «conversione» morale (questo il termine veterotestamentario per «pentimento» o «ravvedimento»), co­ me è confermato anche dal fatto che la remissione dei peccati non vie­ ne collegata a Giovanni, ma solo alla cena di Gesù (26,28). Giovanni è colui che annuncia (cf. ai vv. 7- I 2 ! ) la «via della giustizia» (v. a 2 I ,3 2); ma è il profeta dell'ora escatologica di Dio. Il ravvedimento viene motivato con la vicinanza del regno di Dio: soltanto la venuta di Dio all'uomo permette a questi di andare a sua volta a Dio. Forse Matteo parla di « regno dei cieli» per la reticenza del giudeo a usare il nome di Dio, ma probabilmente c'è dietro dell'altro: secondo 28, I 8 a Gesù è stato conferito ogni potere e autorità in cielo e in terra. Così Matteo può anche parlare del regno del Figlio dell'uomo (v. a I 3,4 I ; I 6,28; 20, 2 I ) . «Regno dei cieli)) fa pensare tanto a Dio quanto a Gesù quale Si­ gnore. D'altra parte la comparsa del Battista viene adeguata a quella di Gesù (si ha il medesimo raro verbo al v. I e al v. I 3); ma soprattutto l'appello del Battista suona come quello di Gesù (4, 1 7; cf. J, I o con 7, I 9 e anche I J,JO con 3, 1 2 e 1 2,34; 23,3 3 con 3,7): infatti proprio per Matteo Giovanni «è più di un profeta)) ( I 1 ,9 ). Si deve tuttavia notare che le parole del Battista sono seguite immediatamente da una citazio­ ne (v. 3) che conferisce loro il carattere di promessa mentre il medesi­ mo messaggio posto in bocca a Gesù acquista, grazie alla citazione in­ trodotta in 4, 1 4- 1 6, la natura di adempimento. Inoltre proprio Matteo sottolinea che Giovanni battezza Gesù non senza scrupoli (v. a J , I 4 s.) e identifica, in maniera più chiara d i quanto non faccia l a tradizio­ ne, il Battista con Elia che viene visto quale precursore del messia ( I I , I 4; I 7, 1 3; cf. ancora a I I , l 2 s.). I cambiamenti rispetto a Marco sono quindi condizionati da Mt. I e 2 dai quali risulta già che in Gesù è arrivato colui mediante il quale Dio adempirà le proprie promesse profetiche. Di conseguenza la peri­ cope sul Battista deve servire meno a questo scopo che a narrare la storia degli inizi dell'attività di Gesù. Con tale disposizione della ma­ teria l'appello al ravvedimento viene messo con maggior forza al cen­ tro. In questo messaggio il Battista e Gesù sono uniti, mentre il dono

Mt. J,7· I o.

Contro qualsiasi presunzione religiosa

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della remissione dei peccati sarà riservato a Gesù: con il Battista si ar­ riva solo alla confessione dei peccati (v. 6). Contro qualsiasi presunzione religiosa, 3,7-IO (cf. Le. 3,7- 9) Ma quando vide venire al battesimo molti dei farisei e dei sadducei egli disse loro: Voi, covo di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira futura? 8 Producete ora frutto degno del ravvedimento. 9 E non illudetevi neanche di poter pensare: Abbiamo Abramo per padre. Poiché vi dico: Dio è capace di suscitare ad Abramo figli da queste pietre. 10 Ma la scure è già posta alla radice degli alberi; ora ogni albero che non produce frutto buono viene ta· gliato e gettato nel fuoco.

7

7

Gen.

3,1 5·

Prescindendo dall'introduzione del v. 7a e da cambiamenti minori (v. 8: «frutto» l «frutti>>; v. 9 : «non pensate» l «non cominciate»; ag­ giunta di «anche» in Le. 3,9) la predica è identica alla lettera a quella che si legge in Luca. Entrambi hanno quindi riprodotta immutata la fonte Q (cf. intr. [2]), alla quale va forse attribuita anche l'indicazione che il Battista predicava nella «regione circostante il Giordano» (Mt. 3, 5 = Le. 3,3). Per contro nell'introduzione Matteo fa una distinzione in seno a Israele: l'ira di Dio è diretta contro «Ì farisei e i sadducei» (cf. a Mc. I 2, I 8), non semplicemente contro tutto Israele come in Lu­ ca. È singolare che questi due gruppi, ostili tra di loro, vengano acco­ munati sotto un'unica voce (così anche in 1 6, I .6. 1 I s.). Ma all'epoca di Matteo i sadducei sono già scomparsi; di loro si sa ancora soltanto che ai tempi della vita di Gesù costituivano l'altro importante raggruppa­ mento religioso d'Israele. Poiché almeno il v. I 1 , se non già il v. 9, ap­ pare diretto a tutti, né è facilmente immaginabile, anche considerando 2 1 ,2 5. 3 2, che «m olti farisei» si siano presentati al battesimo, la versio­ ne di Luca sarà storicamente più corretta. Ciò viene confermato dal­ l' osservazione che in I 6, I - I 2 Matteo ha inserito per ben quattro volte nel testo di Marco la frase «farisei e sadducei» . Tuttavia in queste in­ troduzioni si riflettono semplicemente i diversi giudizi teologici su Israele: mentre per Luca tutto Israele viene attaccato dal Battista, fino a 2 7,2 5 Matteo fa una più forte distinzione in seno a Israele, ma anche in seno alla propria comunità (7,9 = 3,I o!), tra ubbidienti e disubbi­ dienti. Entrambi gli evangelisti tramandano dunque sì la parola di Gio­ vanni immutata, ma la interpretano molto diversamente mediante l'in-

44

Mt.

3 ,7- ro.

Contro qualsiasi presunzione religiosa

troduzione. Che anche Q abbia contenuto la predicazione di Giovan­ ni mostra come questa sia stata considerata, anche prima degli evange­ listi, parte dell'evangelo (cf. Atti 10,37 ss.; Mc. 1 , 1 ss.; Gv. 1 ,6-8 . 1 9 ss.). 7-10. La fede sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento prende sul serio il castigo dell'ira di Dio che verrà (Am. 2,4 ss.; Sap. h l 9 ss.; 1 Tess. 1 , 1 o) . Ci si crede in modo tale che sono proprio i · pii a essere scossi dal loro presuntuoso autocompiacimento. «Covo di vipere» (v. 7) ricorre anche in fs. I 1 ,8; I 4,29; 30,6. In tutti questi passi c'è un'uni­ ca parola ebraica così che ·non si sottolinea, ad esempio, solo l'origine dei «serpenti» (cf. Ger. 46,22). Tuttavia una simile metafora è molto singolare come apostrofe e non ha paralleli anche se CD I 9,22 parla di «bava di drag·o e veleno di vipere>> degli israeliti infedeli. Ogni sicu­ rezza sacramentale viene distrutta; decide il ) . La forma conservata in Marco e quella di Q si sono quindi influenzate vicendevolmente in Luca o già prima di lui. Tuttavia Q ha un raccon­ to un po' più esauriente di Marco. Matteo aggiunge «per il ravvedimento». Come al v. 8 (v. so­ pra) per lui il battesimo è un appello ad agire giustamente, distinto quindi nettamente dal battesimo di Spirito e fuoco del messia. Usando questa terminologia il Battista avrà pensato in origine al giudizio che avviene con «tempesta (questo il termine greco che significa anche spirito) e fuoco» (v. a Mc. I , I 8). Forse ciò è ancora vero per Q. In al­ cuni manoscritti di Le. J , I 6 manca infatti l'aggiunta «santo» a «Spiri­ to» (o «tempesta») e altrove Q non parla mai di spirito (Mt. 4, 1 è un caso diverso; ma forse 1 2,3 2). Il detto che parla del giudizio (v. 1 2), non facilmente compatibile con l'immagine cristiana di Gesù, dovreb­ be risalire al Battista. Non è chiaro chi Giovanni volesse intendere, se Dio o il messia (cf. a Mc. 1 ,7 s.). Ma che Q, a differenza di Marco, ab­ bia conservato il detto mostra in che misura Q abbia visto in Gesù il messia giudice. Certamente chi ha realmente dato ascolto ai vv. 7- 1 0 si è già sottoposto al giudizio di Dio e sta quindi dalla parte del «frut­ to». Quando si ventila il grano trebbiato viene lanciato in aria: mentre i chicchi pesanti ricadono a terra il vento trascina via la pula che così può essere raccolta e poi bruciata. Si resta così coerenti con l'immagi­ ne del giudizio che separa con il turbine di vento e il fuoco. Il «fuoco I I - I l..

Mt.

J, I J-I7. Il battesimo di Gesù compimento della giustizia

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inestinguibile» (/s. 34, I o; 66,2 4 ) in verità non si adatta all'immagine; qui si è passati all'idea del giudizio universale. Questo intreccio di im­ magine e realtà significata è un tratto tipico dell'apocalittica che è in­ teressata all'imminente arrivo della fine con le sue catastrofi cosmiche. Tuttavia secondo la comprensione della comunità cristiana si tratta del ministero terreno di Gesù che comunque, tanto per Q quanto per Matteo, è un segno premonitore del giudizio universale imminente (cf. a 9,3 7 s.). Il suo compito consiste nel separare il frutto (v. al v. 8) dalla pula. Non si racconta più quale sia stata la reazione del popolo alla parola di giudizio del Battista (ma cf. v. 6) perché Matteo vuole rivol­ gere il detto ai suoi lettori e si aspetta che essi vi rispondano con la fe­ de. Tuttavia alla comunità che ascolta il vangelo devono tremare le ve­ ne e i polsi per il timore di essere mera pula. Essa deve sapere che il giudizio di Dio, cioè il modo in cui Dio vede la sua vita, pende costante e ineluttabile su di lei. Il battesimo di Gesù compimento dell a giustizia, J, I J- 1 7 (cf. Mc. I ,9- 1 r ; Le. 3,2 1 s.) I 3 A quel tempo Gesù viene dalla Galilea al Giordano da Giovanni per farsi battezzare da lui. 14 Ma Giovanni si rifiutò dicendo: lo ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me? I 5 Ma Gesù rispose dicendogli: Adesso lasciami fare, perché è appropriato che compiamo così ogni giusti­ zia. Allora egli lo lasciò fare. 1 6 Ma quando Gesù fu battezzato egli uscì subito dall'acqua ed ecco: si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio volteggiare giù come una colomba e venire su di lui. 17 Ed ecco: una voce dal cielo disse: Questi è «il mio figlio prediletto, nel quale mi sono compia­ ciuto)). 1 7 Sal. 1,7

(2 Sam. 7, 14); ls.

41, 1 .

1 3- 1 7. I vv. I 3 e I 6 s. corrispondono al racconto di Marco, con la differenza che Matteo narra in maniera più «oggettiva>> (v. a Mc. I ,9I I ). Ciò è conforme allo stile profetico. «l cieli si aprirono ed egli vi­ de ... » si trova alla lettera in Ez. I , I, e che lo Spirito «venne su di lui» in Ez. 2,2. La breve frase sulla voce dal cielo si trova anche in un apo­ calittico giudaico (Bar. syr. 1 3 , 1 ) che imita Ez. 1 ,28; 2, 1 . In queste cir­ costanze non si fa alcuna distinzione tra un avvenimento «oggettivo>> e il mero contenuto di una visione (cf. Apoc. 4, 1 con 1 9, 1 1 ). Al massi­ mo la voce che parla direttamente sottolinea ancora di più la trascen-

48

La giustizia di Dio

denza di Dio: soltanto quando il cielo si apre veramente Dio diven­ ta accessibile all'uomo. Un po' strana suona l'affermazione che Gesù uscì «immediatamente» dall'acqua: qui si sente ancora l'influenza del testo di Marco che è più logico. Per contro Matteo ha inserito ai vv. 1 4 s. una discussione di principio sul battesimo di Gesù (cf. al v. I I ). Si può valutare se un dialogo del genere sia stato tramandato già pri­ ma di Matteo, ma in ogni caso la soluzione del v. I 5 b è del tutto con­ forme al pensiero di Matteo e dovrebbe essere stata formulata in que­ sti termini da lui per primo. Il v. I 4 esprime apertamente la difficoltà che il battesimo di Gesù a opera di Giovanni costituiva per la comuni­ tà. No n può trattarsi di un detto storico del Battista, giacché altrime n­ ti sarebbe difficilmente immaginabile che Giovanni, avendo già rico­ nosciuta la dignità unica di Gesù, non avesse smesso di battezzare e non fosse diventato discepolo di Gesù. Inoltre Cv. I,J 1 -34 dice che Giovanni avrebbe riconosciuto Gesù soltanto alla discesa dello Spirito (cf. anche al v. 1 7) . Ciononostante Matteo, che è già più fortemente di Marco interessa­ to all'esistenza parallela della comunità di Gesù e dei discepoli del Battista, perciò anche alla corretta cristologia, formula l'effettivo pro­ blema che si è posto storicamente con il battesimo di Gesù: può infatti Gesù Cristo porsi un gradino sotto Giovanni ? Per prima cosa la paro­ la di Gesù («lascia che sia!») determina l'azione del Battista. La moti­ vazione accomuna Gesù e Giovanni in un solidale «noi» che corri­ sponde alla visione di Matteo (cf. a 3,2 ). Essenziale è «compiere ( = fa­ re) tutta la giustizia», un principio che sta a cuore a Matteo anche se­ condo 5 , 1 7-20. Ma che significa «giustizia» ? La giustizia di Dio non è nell'Antico Testamento una sorta di prin­ cipio secondo il quale Dio misurerebbe esattamente il premio o la pu­ nizione spettanti a un uomo in base alle sue azioni. Inoltre il termine non descrive una qualità, ma un comportamento che rende giustizia all'altro in ciò che gli serve. Così gli atti di Dio per Israele vengono chiamati «giustizie» (Giud. 5 , 1 1; Mich. 6, 5 ) . La sua giustizia è senza eccezioni la sua opera salvifica a favore del suo popolo (fs. 5 1 , 5 ; Sal. 22,32; 40, 10; 69,28 ecc.) che certamente include anche il giudizio sugli oppressori d'Israele. Il giudizio è giusto perché è conforme al patto di Dio e fa avere al suo popolo ciò che esso può sperare sulla base di questo patto. Così soprattutto nei Salmi si afferma, davanti a una ma-

La giustizia di Dio

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rea di accuse contro Dio, che alla fine la sua giustizia si dimostrerà magnifica, e la famosa formulazione del tema della lettera ai Romani all'inizio dell'epistola (Rom. I , I 6 s.) sembra ripetere la speranza di Sal. 98,2 s.: «Il Signore fa proclamare la sua salvezza, fa manifestare la sua giustizia al cospetto delle nazioni; ricorda la propria grazia e fedeltà verso la casa d'Israele; tutte le estremità della terra vedono la salvezza del nostro Dio)). La giustizia di Dio è dunque la salvezza di Dio. Per­ ciò il messia è chiamato «il Signore è la nostra giustizia)) ( Ger. 2 3,6; 33, 1 6; cf. !s. I I , I -4; Ps. Sal. 1 7, 3 2; 1 8,7 s.). Una tale benevolenza e giu­ stizia viene diffusa da Dio sopra gli uomini (Sal. 3 6, 1 1; fs. 6 r , I I ): è lì che essa deve prendere vita (Sal. I I ,7; 3 3 , 5; /s. 6 I ,8- Io), non restare nascosta nel suo cuore (Sal. 40, I I). Il popolo di Dio deve tener pre­ senti sulla terra il suo diritto e la sua giustizia (Sal. I I9, r o6. I 2 1 ). Giustizia dal cielo e fedeltà sulla terra sono speculari (Sal. 8 5, 1 2). An­ che a Qumran giustizia e fedeltà sono congiunte ( I QS r 1 , I o- I 8 ) . Dio ha ragione rispetto a tutti ( 1 QH 20,3 I; r 6,2), nessuno è giusto oltre lui ( r QH I 2,JO s.; 20, I 9; I 5 , I 7). L'opera creatrice di Dio nel patto ( I QH 7, I 4 s.; I 5 , I 5 -20) giudica i disubbidienti e patrocina la vertenza per «i poveri in spirito)) ( r QH 6,3 ), così che la giustizia di Dio significa per loro grazia ( I QH I 9, I 8.3 r ), perdono e redenzione ( 1 QH 1 7, 1 3-23; I 9,7-9; 4,20) perché l'uomo diventa giusto solo mediante la giustizia (o la benevolenza) di Dio ( r QH 1 2, 3 7; 5,23) e poi, certo, detesta ogni ingiustizia e vive da giusto ( I Q H 6,26). I due aspetti sono uniti nel modo più bello in /s. 5 6, I : « ... praticate la giustizia, poiché la mia giu­ stizia ... si è avvicinata)). Questo passo mostra al medesimo tempo che la giustizia di Dio come il regno di Dio nella proclamazione di Gesù (Mt. 4, I 7) è una potenza che si prepara ad arrivare (in greco c'è lo stesso verbo «si è avvicinata»). Solo Dio rivelerà un giorno una giusti­ zia universale ( 1 QH 6, r 6). In Test. Dan 6,I o l'attaccamento alla giu­ stizia di Dio che porta alla salvezza eterna significa la rinuncia a ogni ingiustizia e già in alcuni manoscritti di questo testo la giustizia di Dio è identificata con la giustizia verso la legge di Dio. Se si intende dunque la giustizia di Dio nel senso dell'Antico Testamento come forza d'amore che vuole affermarsi sulla terra e conquistare per sé l'uo­ mo, non risulta più possibile tracciare una distinzione netta tra l' azio­ ne di Dio sull'uomo e l'azione dell'uomo che vive dell'atto divino. Si può solo chiedere su quale aspetto venga posto l'accento. Per quanto riguarda Matteo (v. a 5 ,6) in 5,20 si tratta sicuramente

50

Mt. J , I J - 1 7· I l battesimo

di Gesù compimento della giustizia

dell'azione dell'uomo secondo la norma della giustizia di Dio; così cer­ tamente anche in 3, 1 5; 2 1 ,3 2. Incerto resta 5 , I o (v. ad loc. ). Per contro in 6,3 3 « giustizia di Dio» appare come concetto parallelo a «regno di Dio>>, dunque probabilmente come dono, dono della grazia di Dio. Ciò vale certo anche per 5 ,6. Di sicuro in 6, I o regno di Dio e volere di Dio sono affiancati: entrambi sono doni da richiedere in preghiera che però includono l'esecuzione della volontà di Dio da parte dell'uomo. N el nostro passo si vuole sicuramente intendere il fare la volontà di Dio. Nell'Antico Testamento e in particolare nel giudaismo degli ulti­ mi due secoli a.C. questa esecuzione consiste soprattutto nell'accetta­ zione umile da parte del giusto della sofferenza che Dio gli ha impo­ sta. Matteo condivide con l'affermazione paolina «nato sotto la legge» (Gal. 4,4) l'immagine di Gesù quale uomo ubbidiente che non vuole affermare se stesso, ma solo la volontà di Dio. Ma diversamente da quanto si fa in Paolo, in Matteo si parla della personale, consapevole accettazione del comandamento divino da parte di Gesù, un'osservan­ za che va ben oltre la legge scritta. Mentre Paolo spiega l'umiliazione e la sofferenza di Gesù come effetti della legge alla quale Gesù fu sottoposto, Matteo vi vede invece un consapevole atto di ubbidienza. Entrambi condividono la convinzione che la legge è certo la legge di Dio, ma che in quanto tale non conduce ancora a salvezza. Per Paolo a causa dell'abuso degli uomini la legge è diventata un potere malva­ gio del quale cade vittima anche Gesù (Gal. 3, 1 3) per potere così redi­ mere gli uomini da esso. Per Matteo Gesù supera la legge diventando solidale con il peccatore che si affretta al battesimo e proprio in que­ sto modo compie quella «giustizia» che supera di molto ogni puro le­ galismo e della quale si parla qui e in 5 ,20, « instaurandola» come giu­ stizia di Dio. 1 7. Secondo Matteo tanto Gesù quanto il Battista sanno già prima quale sia la dignità unica del battezzando. Ma anche il lettore lo sa già ( I , I 8.20.23; 2, I 5). Così la sua figliolanza divina (v. a Mc. 1 , 1 ed excur­ sus a Mc. 1 5 ,39) non gli può venire attribuita solo al momento del battesimo dalla voce celeste: essa non viene attribuita, ma proclamata alla presenza di Giovanni (e della comunità): «Questo è [non più: tu sei] mio figlio». Matteo sottolinea anche che lo Spirito di Dio sta sulla vita di Gesù fin dall'inizio ( I , I 8.20), senza che ciò escluda per l' evan­ gelista che Dio faccia scendere il proprio Spirito all'inizio (3, I 6) e ri-

Mt. 4, I- I I .

La tentazione di Gesù

5I

petutamente nel corso del ministero di Gesù ( 1 2, 1 8.28) su di lui e sui suoi discepoli ( 1 o,2o) . Riguardando al cap. 3 si vede già come la fonte Q sottolinei soprat­ tutto l'appello al ravvedimento, l'annuncio del giudizio e quindi la fi­ ne di ogni presunta sicurezza. Anche il «più grande» che verrà si di­ stingue dal Battista solo per il battesimo di fuoco che brucerà tutta la paglia. Matteo stesso riprende questa nota e adegua anche la predica­ zione di Gesù a quella del Battista. Ma al contempo egli mostra in ma­ niera ancora più consapevole di Marco come ciò che era stato predet­ to dal profeta diventi storia concreta con il Battista e Gesù, ma preci­ sando che con il primo si ha la fase preparatoria, con il secondo il compimento definitivo. Entrambi gli interessi si manifestano anche nella storia del battesimo: la superiorità di Gesù rispetto al Battista consiste proprio nel fatto che Gesù, sottoponendosi ubbidiente e umi­ le al battesimo, «compie ogni giustizia». La tentazione di Gesù, 4,1-1 1 (cf. Mc. 1 , 1 2 s.; Le. 4, 1 - 1 3) I Allora Gesù fu condotto dallo Spirito su nel deserto per essere tentato dal diavolo. 2 E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3 E il Tentatore gli si avvicinò e gli disse: Se sei Figlio di Dio parla affinché queste pietre si trasformino in pane. 4 Ma egli rispose dicendo: Sta scritto: «L'uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio ». 5 Allora il diavolo lo porta con sé nella città santa e lo pose sul tetto del tempio 6 e gli dice: Se sei Figlio di Dio gettati giù, giacché sta scritto: «Egli darà ai suoi angeli un ordine a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle mani affinché tu non urti col piede in una pietra» . 7 Ge­ sù gli disse: C'è anche scritto: «Non tentare il Signore tuo Dio>>. 8 Di nuo­ vo il diavolo lo prende con sé su di un monte altissimo e gli mostra tutti i regni del mondo e il loro splendore 9 e gli disse: Ti darò tutto ciò se ti prostrerai davanti a me in adorazione. Io Allora Gesù gli disse: Vattene, Satana! Poiché sta scritto: «Ti prostrerai davanti al Signore, tuo Dio, e ser­ virai soltanto lui». I I Allora il diavolo lo lascia ed ecco: angeli arrivarono lì e lo servirono.

Es.

2 34,28. 4 Deut. 8,3 . 6, I J ; 5,9.

5

Ez. 8,3 . 6 Sal.

9I,I I

s.

7 Deut.

6, I6. 8 Deut. 3,27; 3�1.

10 Deut.

Il racconto della tentazione di Gesù, che Luca narra in forma simi­ le, si allontana di molto dalla brevissima storia di Marco. Coincidono

52

Mt. 4 , I - 1 I .

La tentazione di Gesù

soltanto la guida dello Spirito, la tentazione di Satana o del diavolo, la durata di 40 giorni e l'assistenza degli angeli. Ma mentre secondo Marco Gesù viene tentato da Satana e servito dagli angeli per tutto il tempo, secondo Matteo e Luca entrambe queste cose avvengono solo alla fine di 40 giorni di digiuno. Questa versione proverrà dunque da Q nella quale non era ricordato certamente molto di più del dialogo tra Gesù e il diavolo preceduto da una breve introduzione (cf. intr. a 8,5 - 1 3). Forse Matteo ha ripreso da Q il verbo «condurre su», che egli usa solo qui, poiché anche Le. 4, 1 parla di «essere guidato». La secon­ da e la terza tentazione hanno in Matteo und ordine diverso da quello di Luca. L'ordine seguito da Matteo è certamente quello più antico perché in questo modo le due prime tentazioni iniziano secondo il medesimo schema («se sei Figlio di Dio ... ») e soltanto nella terza Sata­ na getta la maschera e pretende di essere adorato. Forse Luca ha inte­ so la frase «non tentare il Signore tuo Dio» di Mt. 4,7 = Le. 4, 1 2 nel senso dell'ingiunzione a Satana di non tentare oltre Gesù e per questa ragione ha voluto concludere con queste parole. Al contempo in que­ sto modo Gerusalemme viene a occupare la posizione finale: Satana si allontana da Gesù a Gerusalemme «fino al tempo stabilito» (Le. 4, r 3) e lo aspetterà di nuovo lì in occasione della passione (Le. 22,3; tuttavia 22,28 si riferisce già a tentazioni precedenti). Il riferimento alla figlio­ lanza divina sembra presupporre il battesimo di Gesù con la voce dal cielo (Mt. J,I 7). Se la voce appariva veramente anche in Q questa fon­ te cominciava dunque con un ordine simile a quello di Marco: annun­ cio di Gesù fatto da Giovanni, battesimo e tentazione. Marco dice che in Gesù è stata riparata la disubbidienza di Adamo e il paradiso è stato riportato; in Q si presuppone già che Gesù sia Figlio di Dio e si riflet­ te soltanto sul modo in cui intendere questa figliolanza. È difficile immaginare che Gesù abbia raccontato diffusamente ai discepoli una esperienza vi_s suta e che in Marco non ne sarebbe rima­ sta che una storia così breve. Poiché, inoltre, la questione della figlio­ lanza di Dio non ha alcun rilievo neanche nelle parole di Gesù (v. ex­ cursus «il Figlio di Dio» in Mc. , pp. 290 ss.) e in tutta la pericope si cita la traduzione greca dell'Antico Testamento, in origine sarà stato tr�mandato nella comunità soltanto il fatto della tentazione di Gesù (cf. Ebr. 2, 1 8; 4, 1 5; anche I I , 1 7). La comunità ha letto questo avveni­ mento alla luce della sua Bibbia, qui in particolare del Deuteronomio. Tutte le risposte di Gesù provengono dai capitoli nei quali si trova la

Mt. 4, 1 - 1 1 .

La tentazione di Gesù

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confessione fondamentale di fede d'Israele che ogni pio giudeo recita quotidianamente: «Ascolta, Israele, il Signore nostro Dio è l'unico Si­ gnore e amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Deut. 6,4 s.). In tutti e tre gli assalti del Tentato­ re si tratta proprio di questo. Soltanto la prima e la seconda tentazione sono introdotte dalla frase «se sei Figlio di Dio . » e solo nella seconda il diavolo cita la Scrittura. Presumibilmente la terza tentazione fu formulata per prima perché in essa il conflitto è presentato nella sua forma più evidente e il rifiuto di Satana è riportato direttamente al centrale primo comandamento (Deut. 5,6 s.), il principio fondamenta­ le di tutta l'ubbidienza d'Israele. Nel primo periodo la comunità do­ vette chiarire a se · stessa e ai giudei suoi contemporanei perché Gesù non divenne il tanto atteso messia nazionale che avrebbe portato /s. a dominare il mondo. In questa situazione doyeva anche colpire il paral­ lelismo con l'ubbidienza di Mosè verso Dio (v. sotto). Ma era anche viva l'attesa che nel tempo finale si sarebbero ripetuti i miracoli avve­ nuti durante la peregrinazione nel deserto, ad esempio la manna (Es. I 6, I 5-3 6) o la separazione delle acque del Giordano ( Gios. J.), come profetizzata e tentata da Teuda (Atti 5,36) nel 44 d.C. (Giuseppe, Ant. 20,97). Su questo punto Gesù appare in maniera più netta agli antipo­ di dello stesso Israele; comunque anche la somiglianza con Mosè di­ venta ancora una volta chiara (v. sotto). La seconda tentazione è quel­ la che sembra maggiormente elaborata. Qui si ha addirittura una di­ sputa del tipo di quelle che potrebbero aver avuto luogo tra scribi giu­ daici e cristiani. La scelta dello scenario del tempio può dipendere dal­ le speranze del tempo (v. sotto, al v. 5). Si potrebbe pensare che Sal. 9 I fu scelto perché parla (vv. I 1 e I 3) del servizio degli angeli e degli animali selvatici (cf. anche Deut. 8, 1 5) che non possono nuocere al credente, dunque di quanto Mc. I , I 3 narra a proposito di Gesù. La comunità sarebbe stata allora convinta che in Gesù avvenne il compi­ mento di Sal. 9 I, I o- I 3 e la restaurazione della condizione paradisiaca perché egli si rifiutò, come gli suggeriva invece Satana, di far avvenire ciò mediante un miracolo compiuto di propria iniziativa, ma ebbe in­ vece piena fiducia in Dio. Forse hanno già funto da esempi contrari le affermazioni fantastiche di taumaturghi ellenistici come Simone (Atti 8,9 s.) di poter volare (Aet. Petr. 4) e tramutare i sassi in pane (Ps. Clem., Ree. 3 ,4 7) Gesù non è affatto un taumaturgo di questo genere. Nel rac­ conto giovanneo della moltitudine sfamata colpisce la grande somi..

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Mt. 4, 1 - 1 1 .

La tentazione di Gesù

glianza tra la nostra storia e la descrizione della tentazione a compiere il miracolo del pane ( Gv. 6,3 I ), a operare un segno visibile a tutti ( Gv. 6,3 o), a esercitare il potere in senso terreno-nazionalistico (Cv. 6, I 5). La forma scritta definitiva del racconto (fissata in Q?) è unitaria. Essa risale a una comunità che usava i LXX, riferiva il titolo di Figlio di Dio al Gesù terreno e contrapponeva la sua ubbidienza a una visione di Gesù quale taumaturgo. Tutto ciò ritornò di attualità quando negli anni 6o d.C. gli zeloti chia­ marono Israele alla lotta contro Roma. Israele avrebbe dovuto vincere l'imperatore romano con la forza delle armi, come ai tempi dei Mac­ cabei, e confidare nel miracolo di Dio che avrebbe reso il tempio di Gerusalemme il centro del mondo intero e dato a Israele il dominio mondiale. Allora si sarebbero ripetuti i miracoli del tempo di Mosè e la manna sarebbe caduta dal cielo. A simili programmi la comunità ha probabilmente contrapposto la raccolta dei detti di Gesù che oggi vie­ ne chiamata Q, inserendovi all'inizio l'appello del Battista al ravvedi­ mento . e la storia della tentazione. Se questa ipotesi è esatta, allora la comunità ha pronunciato in questo modo la sua parola chiara e preci­ sa in merito alla politica del giorno. Con Gesù essa ha dedotto dalla confessione di fede nell'unico Dio (Deut. 6,4 s.) esattamente il contra­ rio di quanto vi avevano letto i suoi contemporanei rivoluzionari. Es­ sa ha mostrato in questa maniera di aver capito il significato della cro­ ce quale fine del cammino di Gesù. 1-4. L'introduzione è stilata da Matteo che si è riallacciato a Mc. I , I 2 (v. a d loc. ). La costruzione del periodo è simile a quella d i J, I J . Viene messa in risalto ancora più evidente la guida dello Spirito di Dio che conduce Gesù proprio verso la tentazione a opera del diavo­ lo. Elementi nuovi sono il digiuno di 40 giorni, la tentazione di muta­ re le pietre in pane e la risposta di Gesù con le parole di Deut. 8 , 3. Il suo cammino è visto qui in notevole parallelismo con il cammino di Israele: «Il Signore, tuo Dio, ti condusse nel deserto per... tentarti ... , ti fece soffrire la fame e ti nutrì con la manna ... , per farti sapere che l'up­ mo non vive di solo pane, bensì. .. di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Deut. 8,2 s. LXX). In Deut. 8, 5 (LXX) si racconta anche che con questa esperienza Dio voleva educare Israele «come un figlio». Già nell'Antico Testamento, ma soprattutto nel giudaismo, Satana sosti­ tuisce Dio quale autore della tentazione (cf. 2 Sam. 24, I con 1 Cron.

Il problema del Maligno

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21 , 1 ). Secondo Iub. 1 7, 1 6 il diavolo spinse Dio a tentare Abramo (Gen. 22, 1 ) e secondo Iub. 48,2 non Dio, ma il diavolo si volge contro Mosè (Es. 4,24). Così anche nella storia cristiana della tentazione Satana ap­ pare al posto che Dio ha nel racconto dell'Antico Testamento. La co­ munità sa che, preda dei morsi della fame, Israele ha mormorato con­ tro Dio, negandogli l'ubbidienza (Es. 1 6,2-4; Sal. 78, 1 8-32). In quanto Figlio di Dio Gesù avrebbe avuto, a differenza d'Israele, il potere di procurarsi cibo, come gli sussurrava Satana; egli è rimasto invece ub­ bidiente, contrapponendo a Satana proprio ciò che secondo Deut. 8,3 Israele avrebbe dovuto imparare. In questo modo Gesù non si è sol­ tanto fatto «educare da Dio come un figlio», ma si è dimostrato Figlio di Dio, adempiendo insieme il modello di Mosè che ali'epoca del soggiorno d'Israele nel deserto prese le difese di Dio contro il mor­ morio del popolo. Secondo Es. 34,28 già Mosè restò presso il Signore «quaranta giorni e quaranta notti [Mt. 4,2; non Le. 4,2], non toccò ci­ bo [Le. 4,2 molto simile; meno chiaro in Matteo] né bevve acqua e scrisse le parole>> di Dio. Questo episodio di Mosè costituisce il paral­ lelo più prossimo e non, ad esempio, un digiuno penitenziale di qua­ ranta giorni di Adamo ( Vit. Ad. 6). Il problema del Maligno. L'idea del diavolo crea difficoltà. Matteo lo immagina come una persona visibile, giacché aggiunge un modo di dire che gli è peculiare e che usa anche a proposito del Risorto in 2 8, 1 8 : «gli si avvicinò e disse». Certamente in Matteo, come nel resto del Nuovo Testamento, il diavolo non viene né descritto più dettagliata­ mente né presentato quale signore dell'inferno. Anche in Matteo non si sottolinea il momento visivo, ma quello uditivo: si ascolta il diavo­ lo. Non è possibile immaginarne l'aspetto visibile più di quanto esso venga presupposto in maniera ancora primitiva da Matteo. Nel conte­ sto di roghi di streghe, persecuzione dei giudei o follia razzista si parla certamente anche di «potenze» che possono dominare un intero po­ polo. È importante che il modo moderno di parlare del potere dell'in­ conscio individuale o collettivo non escluda, ma anzi esiga una esatta analisi delle cause; ma altrettanto importante è l'esperienza biblica, espressa nell'immagine mitologica del diavolo, che il male può piom­ bare sul singolo o su interi gruppi, sopraffarli e diventare più forte di tutte le loro considerazioni razionali. Giac. I , I J spiega in maniera ve­ ramente moderna che non c'è tentazione che non scaturisca dal desi-

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Mt. 4, I - I I .

La tentazione di Gesù

derio che si nasconde in me. Praticamente in tutti gli scritti del Nuovo Testamento viene descritto con l'idea del diavolo proprio il fenomeno per il quale questo potere può diventare sovrapersonale, non più con­ trollabile dal singolo e nemmeno da interi gruppi. Già l'appello a resi­ stergli e sicuramente anche Giac. I, I 3 mostrano che in questo modo non ). Ancora una volta, in quella situazione, egli lascia che Dio sia pienamente Dio, benché non provi che l'abbandono di Dio e muore da «Figlio di Dio)), senza un miracolo visibile, in estrema unità col volere di Dio (v. a Mc. I 5,34· 39). Così la croce sarà la reale, definitiva risposta a Satana. Anche nella terza tentazione (v. 8) si narra una sorta di trasferimento da un luogo a un altro (v. al v. 5 ). In modo simile Mosè venne condotto su di un alto monte per guardare «tutto il pae­ se)), anzi, secondo un'interpretazione rabbinica, addirittura tutta la terra (Deut. 34, I -4). L'espressione «tutti i regni del mondo)) si ritrova in una visione simile di Baruc (Bar. syr. 76,3). Ma nel caso di Mosè è Dio che gli offre questa veduta ed egli muore senza poter toccare con mano quella terra. Invece a Gesù viene offerto il dominio universale: egli potrebbe entrare in possesso di tutto ciò che vede, se solo lo vo­ lesse (v. 9 ) . Si è così giunti al culmine della tentazione. Colui che eser­ cita in pratica il potere e colui che Dio ha destinato a essere il vero Si­ gnore universale si confrontano. Viene ripreso il tema del cap. 2: non è forse il diavolo a governare questo mondo ? Tutto il resto non è che una m era illusione? No n si devono allora usare i mezzi del diavolo se si vuole mettere ordine in questo mondo, almeno in una certa misura? Certo a questo punto si getta anche la maschera: si invita chiaramente a rinnegare Dio e Gesù non può che scacciare definitivamente Satana (v. I o; cf. I 6,23). In 1 7, 1 e 28, 1 6 Gesù si troverà nuovamente su di un monte, ma allora quale vero Signore universale che non si fa donare il suo regno dal diavolo né lo realizza con l'equilibrio del terrore e della violenza. Anche Gesù ragiona in termini realisticamente sobri, ma nel senso di Dio, non del diavolo. In Sal. 2, un salmo regale, Dio dice: «Chiedi a me e io ti darò quale tua proprietà i popoli e i confini della terra)) (v. 8). Gesù si è comportato secondo questa parola del salmo. In questo modo Satana è sconfitto e, come Matteo riprende sicura­ mente da Mc. 1 , 1 3, gli angeli di Dio servono Gesù. Tuttavia questa vittoria è descritta con grande moderazione, senza alcun accenno a un visibile trionfo divino (v. 1 1 ).

Mt. 4, I - I I .

La tentazione di Gesù

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L'interrogativo se le tre tentazioni si siano storicamente svolte in questo modo e se Gesù le abbia raccontate o meno ai suoi discepoli, non è essenziale (v. sopra, intr.). Decisiva è l'unicità in cui qui viene posto il problema di Dio. Dio, vuole dire la comunità, ci incontra in Gesù, cioè in colui che respinse pienamente la tentazione di utilizzare Dio per i propri scopi, mettendo nelle mani di Dio tutta la sua vita e morte. Il «vero Dio» ci incontra dunque in colui che ha respinto la tentazione, che va oltre la dimensione umana, di «diventare come Dio» (Gen. 3,5), di possedere il potere e di assicurarsi il successo, di­ tnostrandosi in questo modo «vero uomo». Ciò è effettivamente acca­ duto nella vita e morte di Gesù e la nostra pericope concentra tutto ciò nel giro di poche ore. Se è vero che Q ha consapevolmente pre­ messo questa storia alla raccolta di detti durante i disordini della rivol­ ta giudaica contro Roma, allora è chiaro che il sì o il no alla storia del­ la tentazione di Gesù risulta decisivo solo nella situazione concreta. Il vero interrogativo posto dalla storia della tentazione di Gesù è se pre­ tendiamo di servirei di Dio per i nostri propri scopi da perseguire con la tattica o con la violenza o se ci lasciamo conquistare da lui per quel­ la vera umanità che ha preso forma nella vita e morte di Gesù e d esi­ dera donarsi a noi. Il compendio più brillante di questa pericope si trova nel capitolo sul grande inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij . Secon­ do questa visione la tentazione della chiesa è il successo: per ottenere attraverso esso il dominio della chiesa sull'uomo, sottrargli decisioni che egli non sarebbe ancora in grado di prendere. Forse Dostoevskij sposta così un po' l'accento, perché Mt. 4 sottolinea meno la questio­ ne di come il messia - o la chiesa in suo nome - ottenga il potere sugli altri, ma la questione più terra terra, valida per ogni uomo, di come l'uomo divenga sicuro di Dio e ubbidiente a lui. Gesù dimostra la propria messianicità meno della propria «devozione». Più precisa­ mente: proprio dimostrandosi il vero uomo che confida appieno in Dio egli è messia e Figlio di Dio. Tuttavia da ciò consegue necessa­ riamente la critica di Dostoevskij a una chiesa dominata dall'idea del successo. Nel corso della storia questo aspetto è stato accentuato in maniera diversa. Per prima cosa fu sostenuto con fermezza, scontrandosi con le attese giudaiche, che Gesù aveva volutamente rifiutato ogni potere politico (terza tentazione). Poi si vide Gesù in antitesi ancora più de-

6o

Mt.

4, 1 2- 16. Gesù si

sposta in Galilea

eisa con il popolo della peregrinazione nel deserto come colui che fu veramente ubbidiente e, al contempo, come colui che superò Mosè col suo digiuno di 40 giorni {prima tentazione). Infine nelle singole for­ mulazioni della seconda tentazione si riflessero le discussioni con gli scribi giudaici. Come nel cap. 2, anche in 4, I - I I la figura di Gesù ap­ pare già nella tradizione, senza che Matteo debba metterlo in partico­ lare risalto, il parallelo che supera Mosè e il popolo d eli' esodo. Ciò che a questo livello era ancora una pura decisione teologica assunse rilevanza politica quando gli zeloti chiamarono alla lotta armata con­ tro lo stato romano. Ponendo all'inizio di Q la predicazione del Batti­ sta e la storia della tentazione la comunità cristiana prese chiaramente le distanze da questo movimento. Al tempo dell'evangelista la cosa non era più attuale. La catastrofe dell'anno 70 d.C. con la caduta di Geru­ salemme aveva posto definitivamente fine a simili iniziative. Per Mat­ teo è decisiva la giustizia di Gesù che chiama alla sequela, quella giu­ stizia che consiste proprio nella rinuncia a ogni garanzia e confida to­ talmente in Dio. Tutti i miracoli e tutte le manifestazioni di potenza delle quali si parlerà in seguito sono perciò promesse solo a chi è pronto a diventare minimo con umile ubbidienza. In questo senso Mt. 2 7,40 è il traguardo che è già qui visibile. Gesù si sposta in Galilea, 4,1 2-16 (cf. Mc. 1 , I 4 s.; Le. 4, I4 s.) 1 2 Ma avendo udito ch e Giovanni era stato incarcerato, egli si spostò in Galilea. 1 3 E lasciata Nazara si trasferì e andò ad abitare a Cafarnao sul la­ go, nella regione di Zabulon e Neftali, 14 affinché si compisse ciò che è detto nel profeta Isaia che recita: 1 5 «Il paese di Zabulon e il paese di Nef­ tali, sulla via del mare, il paese di là del Giordano, la Galilea dei gentili, 1 6 il popolo che giaceva nelle tenebre vide una gran luce e coloro che giacevano nella landa e nell'ombra della morte, su di .loro sorse una luce» . 1 5-16 cf.

fs. 8,23; 9, 1.

Matteo riprende l'arresto di Giovanni e il trasferimento di Gesù in Galilea da Marco. Per lui è tuttavia importante il cambio di luogo da Nazaret (2,23) a Cafarnao (v. excursus a 1 , 1 8-2 5 ). Il v. 1 3 è in stile mat­ teano ed è stato certamente inserito a questo punto dal primo evange­ lista. In Marco ( 1 ,2 I ) Cafarnao viene menzionata soltanto dopo le vo­ cazioni dei discepoli (Mc. I , 1 6-2o = Mt. 4, 1 8-22) e soltanto quale luo­ go dell'attività di Gesù, non della sua residenza. Matteo insiste quindi

Mt. 4, 1 2- 1 6.

Gesù si sposta in Galilea

61

particolarmente s u questo spostamento, evidentemente perché Naza­ ret non si trova nel territorio nominato dal profeta. È strano che qui si abbia «Nazara» come in Le. 4, I 6 e invece «Nazaret» in Mt. 2,23 e 2 I , I I . Questa forma del nome proviene forse da una tradizione di un rifiuto di Gesù a Nazara che è conservata soltanto in Luca? Non è del tutto escluso che Gesù si sia trasferito per questa ragione a Cafarnao insieme con la famiglia (Cv. 2, I 2), così che soltanto le sorelle (sposate) s�rebbero rimaste a Nazaret (Mc. 6,3). Le aggiunte che precisano l'ubi­ cazione di Cafarnao derivano sicuramente dalla citazione (vv. I 5 s.). Affinché la concordanza sia chiara fin dall'inizio Matteo formula già il v. I 3 con le parole del profeta che avrebbe citato. Il testo è un sunto li­ beramente riportato di /s. 8,2J -9, I . Il termine ebraico galil (= circon­ dario) viene tradotto «Galilea» anche nei LXX; il verbo «giacere» non compare né nel testo ebraico né in quello greco; il verbo «vedere» è conforme all'ebraico, ma non ai LXX; la conclusione subisce forse l'influenza di fs. 5 8 , I o. La citazione deve essere pervenuta a Matteo già dalla tradizione; considerato che al v. I 5 la lacuna è piuttosto am­ pia, non sarebbe facile capire perché Matteo avrebbe conservato pro­ prio la frase «di là del Giordano» che in 4,2 5 ritorna in un contesto del tutto diverso. 12-16. Non si dice se l'arresto del Battista sia la ragione della parten­ za (cf. a I4, I J) oppure se si tratti di una mera coincidenza di date. For­ se Matteo pensa che la fine del ministero di Giovanni sia il segnale di Dio per colui che dovrà, in quanto compitore dell'opera, prendere ora il suo posto. «E andò ad abitare in ... » (v. I J) si trova anche in 2,2 3: si menziona esplicitamente l'abbandono di Nazaret. Si tratta dunque di un trasferimento definitivo col quale si compie la parola profetica (v. I4). Ancora una volta la citazione è collegata direttamente con il topo­ nimo, e non solo al v. I 7 al quale si sarebbe perfettamente adattata la seconda metà della citazione profetica. Matteo è quindi interessato agli spostamenti di Gesù (cf. excursus a I , 1 8-2 5 ). Con la citazione stessa (vv. I 5 s.), soprattutto con il v. I 6 che non è stato tralasciato, si dice che con Gesù arriva l'adempimento definitivo di Dio di tutte le spe­ ranze profetiche e arriva proprio nella disprezzata «regione pagana».

Si chiude qui la parte introduttiva del vangelo. L'andata di Gesù nella «Galilea dei gentili» mostra l'opera sorprendente di Dio che si

62

Mt.

4, 12-16. Gesù si sposta in Galilea

rivolge a coloro ai quali nessuno avrebbe mai pensato. Come nelle quattro donne della genealogia e nei magi della storia della natività all'inizio del vangelo, così alla fine della prima parte ci sono i pagani. Al contempo questa conclusione guarda già in avanti. L'esempio di colui che abbandona la città della sua giovinezza per trasferirsi presso coloro che vivono nelle tenebre costituisce il modello per �hi vorrà seguire Gesù (cf. 4, 1 8-22; 5 , 1 4).

Parte seconda

Il messia della parola e degli atti e la comunità dei suoi discepoli (4, 1 7- 1 1 , 3 0) Nella descrizione dell'inizio del ministero di Gesù, della sua predica­ zione e della vocazione dei discepoli {4, 1 7-22 ) Matteo segue ancora Marco come ha fatto da 3 , 1 in poi, chiaramente con ampliamenti presi da Q e con aggiunte come 3, I 4 s.; 4, 1 3 - 1 6 che per lui sono importanti. Da I 2, I in poi seguirà nuovamente il tracciato di Marco. È singolare come ciò non avvenga in Mt. 5 - 1 1 . Ora è chiaro che nei capp� 5 -7 Matteo vuole presentare Gesù quale messia della parola e nei capp. 89 quale messia degli atti. Perciò 4,2 3 verrà ripetuto alla lettera in 9,3 5 (senza «in Galilea» e «nel popolo>>), costituisce dunque una cornice chiusa attorno a questo duplice complesso. È altrettanto chiaro per­ ché venga inserito il cap. I o. In Q alla conclusione del discorso della pianura (o della montagna) seguono la storia del centurione di Cafar­ nao (Mt. 8, 5 - I 3 = Le. 7, 1 - I o) e la domanda del Battista (Mt. I 1 ,2-6 = Le. 7, 1 8-23 ) . Nella sua risposta Gesù fa riferimento ai miracoli. Per questa ragione Matteo li riunisce nei capp. 8 s.; anzi alla fine aggiunge ancora la guarigione di due ciechi e di un sordomuto, pur non avendo a disposizione le storie adatte a questi atti (v. a 9,27-34 ), soltanto per­ ché in 1 1 , 5 Gesù spiega ai discepoli del Battista che avrebbero dovuto raccontare al loro maestro quanto avrebbero visto: «I ciechi vedono... i sordi odono .. �. Ma Matteo non fa seguire questa pericope diretta­ mente alla raccolta di storie di miracoli perché vuole dire che alla co­ munità è conferita la medesima autorità a compiere miracoli (v. a 9,3 5 e I o,8). La risposta di Gesù ai discepoli del Battista è dunque anche la risposta della comunità ai seguaci del Battista ai tempi dell'evangelista. Nella comunità si vede ancora sempre all'opera l'autorità di Gesù. Es­ sa è la risposta a tutti i dubbi. A questa risposta seguono ancora sol­ tanto alcune poche parole sul Battista ( I I ,7- 1 9) e due pericopi che esor­ tano alla decisione ( I I ,20-30 ). Poi con 1 2, I Matteo ritorna a seguire Marco. Se in questo modo la struttura è a grandi linee chiara, non tutti gli interrogativi sono stati ancora soddisfatti. .

Capp. 5-7. In Mt. 5-7 si trovano pericopi maggiori presenti anche nel discorso della pianura di Luca. Sebbene Matteo vi frapponga pa­ recchio altro materiale, le pericopi che hanno un parallelo nel discorso lucano della pianura si susseguono nel medesimo ordine di Luca. Si tratta delle beatitudini (Mt. 5,3 - 1 2 = Le. 6,20-26), del comandamento di rinunciare alla violenza e amare il nemico (5 ,3 8-48 = Le. 6,27-36), del­ l'ingiunzione a non giudicare (7, 1 - 5 = Le. 6,37-42), del riferimento ai frutti (7, 1 5 -20 = Le. 6,43 -4 5) e della parabola conclusiva con il prece­ dente avvertimento che non basta dire semplicemente Signore, Signo­ re (7,2 1 -27 = Le. 6,46-49). Matteo ha ripreso un solo versetto (Le. 6, 3 1 ) soltanto in 7, 1 2 (v. ad loe. ) e lo ha fatto per precise ragioni. Ancora più convincente si fa l'ipotesi di una tradizione comune quando si os­ servi che queste pericopi che compaiono tanto in Matteo quanto in Lu­ ca erano messe in ordine anche al medesimo punto di Q (v. intr. [2]). L'unica spiegazione possibile di tale fatto è che tutte queste peri­ copi dei due evangelisti si trovassero scritte già in questo ordine, ap­ punto in Q. Ma perché i due evangelisti si differenziano così tanto nel dettato proprio a questo punto ? Anche quando segue Marco, Matteo si fa influenzare da Q nella propria formulazione e riprende parti di Q (v. a 3 ,7- 1 2). Non dovrebbe essere successo qui lo stesso ? Forse le pericopi del discorso della pianura menzionate sopra sono state usate nel catechismo della comunità di Matteo, arricchite di altro materiale, con eventuali interventi anche sul linguaggio, un po' come succede og­ gi quando parole della Bibbia vengono usate per compilare, ad esem­ pio, un manuale a uso degli sposi e tradotte anche in un linguaggio più moderno. Matteo avrebbe quindi ripreso il discorso della pianura contenuto in Q nella forma a lui nota, anche ampliata, e al contempo (come avviene anche in 3 , 1 4 s.) vi avrebbe inserito nuovo materiale accompagnato dal suo commento. Delle pericopi maggiori che non ap­ partenevano a Q alcune erano sicuramente già disponibili ali' evange­ lista in forma scritta: le prime due antitesi (formulazioni contrappo­ ste), probabilmente anche la terza e la quarta ( 5 ,2 1 s.27 s. [29 s.3 3-37]), la dottrina delle tre buone opere (6,2-6 [7 s.] 1 6- 1 8, v. ad loe. ), forse la figura delle due vie (7, 1 3 s., v. ad loc. ). Si può supporre che più o me­ no queste pericopi siano state già unite a quelle provenienti dal di­ scorso della pianura e usate nella comunità. Capp. 8-9. Più difficile risulta spiegare il raggruppamento degli atti

di Gesù. Anche nei capp. 8-9 è chiara, nelle singole storie, la dipen­ denza da Marco o da Q. Tuttavia l'ordine è affatto diverso da quello di Marco. La guarigione del lebbroso (8, 1 -4) segue Mc. 1 ,40-4 5; dopo questa viene la storia del centurione di Cafarnao che in Q segue subi­ to alla conclusione del discorso della pianura/montagna. In 8, 14- 1 7 Matteo riprende Mc. 1 ,29-34, ma poi in 8,1 8-34 e 9, 1 8-26 offre Mc. 4, 3 5 -5,43 . In mezzo (9, 1 - 1 7) si hanno le dispute con gli scribi e i farisei che si trovano in Mc. 2, 1 -22. Si pone dunque il problema perché Mat­ teo si distacchi ora in tal modo da Marco proprio qui, in maniera to­ talmente diversa da quanto fa da 1 2, 1 in poi. Non è possibile avanzare altro che ipotesi. Alcuni fatti sono importanti: il detto della porta stretta (7, 1 3 ), il detto di giudizio verso coloro che invocano il «Signo­ re)) del giudizio finale, ma hanno compiuto ingiustizie (7,23), il detto di minaccia su Israele che sarà escluso mentre i pagani entreranno in folla (8, 1 1 s.) risultano contigui, nel medesimo ordine, in Le. 1 3,23 -29. In Matteo questi detti sono collegati con la conclusione del discorso lucano della pianura e con la storia del centurione di Cafarnao che in Q segue subito a quella conclusione. In tutti e tre i casi il dettato di Matteo è notevolmente diverso da quello di Luca. Potrebbe questo fatto indicare che la raccolta usata nella comunità di Matteo per l'istru­ zione religiosa includesse, oltre la conclusione del discorso della pia­ nura anche la storia immediatamente successiva e che in entrambi i luo­ ghi fosse utilizzata una tradizione, accolta anche in Q (Le. 1 3,23 -29), si confrontasse con il ripudio d'Israele ? È possibile fare una seconda osservazione. Poco dopo seguono le parole a due seguaci (8, 1 9-22). Esse sono inserite nella storia della tempesta sul lago. Questa viene narrata seguendo chiaramente Mc. 4,3 5 -4 1 , ma mostra coincidenze minori con Luca (v. intr. a 8 , 1 8-27). Certamente non si può dare un peso eccessivo a questo fatto, come mostrano 1 2,47 (v. ad loc. ) e 1 4, 1 3 (v. ad loc. ); tuttavia qui si cumulano in maniera particolare i punti di coincidenza che mancano in Marco. Forse che già prima di Matteo le parole sulla decisione di seguire Gesù con le quali (nella forma mat­ teana) lo scriba viene respinto, ma il discepolo chiamato, sarebbero state collegate alla storia della tempesta in funzione di illustrazione della stessa? Potrebbe ciò dipendere dalla ricordata tradizione della comunità? La terza osservazione è che anche in 9, 1 - 1 7 si trovano con­ cordanze minori di Matteo e Luca contro Marco, cioè in tre storie che contengono la polemica di Gesù con il giudaismo. Tutte le storie men-

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Mt. 4, 1 7- I I ,J O

zionate qui hanno un chiaro carattere didascalico. Gli atti di Gesù non sono che illustrazioni per la discussione con Israele: la storia del centurione porta alla parola di minaccia contro Israele; la storia della tempesta sul lago mostra che cosa significhi la sequela di Gesù dalla quale rifugge lo scriba; la guarigione del paralitico smentisce il dubbio degli scribi circa l'autorità di Gesù di rimettere i peccati; la vocazione di Levi e la disputa sul digiuno segnano l'allontanamento di Gesù e dei discepoli dai farisei. Forse appartenevano a questo complesso an­ che 8, I -4 con l'accoglimento del lebbroso escluso da Israele, il riferi­ mento a Mosè e l'avvertimento ai sacerdoti, perché anche in questa storia si hanno coincidenze con Luca, ed eventualmente persino 9,3 234 (cf. Le. I I , I 4 s.). Di nessuna utilità è una quarta osservazione sul ripetersi di determinate espressioni («si avvicinò e disse: Signore»: 8, 2 . 5 s.; «toccò»: 8,3 . I 5; «va'»: 8,4. I 3 ecc.). Si può constatare spesso una cosa simile (8, r 3; 1 5,28/8,24; I 4,24ji o,6; I 5,24/1 2,39; r 6,2.4/I 3,40-42. 49 S.ji 4, 5; 2 l ,26.46/ 1 4,20 s.; l 5,36-3 8/I 7,20; 2 I ,2 l jr 8, I O. I 4/I 8,2 I -3 5 ecc.). Si può concludere che ci sia una precisa intenzione dell'evange­ lista soltanto nei casi in cui vengano chiaramente collegate in questo modo pericopi diverse (v. intr. ai capp. 2 I -2 5 ). Potrebbe darsi, dunque, che la comunità di Matteo avesse già utiliz­ zato una raccolta di parole di Gesù e di atti di Gesù dedicata specifica­ mente al dibattito con Israele? La controprova deve mostrare se pre­ supponendo una simile raccolta l'opera redazionale di Matteo diventa comprensibile. Se è così, Matteo ha ricuperato, in collegamento con la guarigione del lebbroso (= Mc. I ,40-4 5 ), anche quella della suocera di Pietro (Mc. 1 ,29-34) perché l'elenco delle guarigioni di Gesù in ap­ pendice a essa gli permetteva di inserire la citazione che mostra Gesù quale compimento delle attese profetiche (Mt. 8, 1 4- I 7). La storia della suocera di Pietro deve venire inserita a questo punto perché l'incontro con il centurione avviene ancora sulla via per Cafarnao mentre la casa di Pietro si trova proprio a Cafarnao (Mc. 1 ,2 1 .29). Di seguito alla storia della tempesta sul lago (8, I 8-27) egli ha posto la guarigione de­ gli indemoniati di Gadara (8,28-3 4), che in Marco è strettamente con­ giunta con essa, mentre le tracce della storia della tempesta sedata so­ no ancora chiaramente visibili nel versetto di transizione (9, I ) alla pe­ ricope successiva della raccolta che Matteo aveva in mano («e mentre egli saliva in barca [Mc. 5 , 1 8] .. [e] passava sull'altra riva» [Mc. 5 ,2 1]). Matteo ha posto nella parte finale, quale culmine, la continuazione .

con la risurrezione della fanciulla morta (9, 1 8-26), alla quale seguiva poi soltanto la breve descrizione della guarigione di due ciechi e di un muto perché ne aveva assolutamente bisogno per I I , 5 , e in questo mo­ do alla fine si aveva la definitiva separazione tra seguaci e avversari. Coloro «che lo seguono», che riconoscono in lui il «figlio di Davide» perché «vengono loro aperti gli occhi» «per la loro fede», così da di­ ventare missionari di Gesù, costituiscono l'efficace contrasto con i fa­ risei che accusano Gesù di essersi alleato con i demoni. Di tutte le storie di miracoli contenute in Mc. 1 - 5 manca solo la guarigione del­ l'indemoniato (Mc. 1 ,23 -28) perché Matteo presenta sempre un solo esempio di ogni genere di miracolo (cf. 8,28-34). La cosa più importante è vedere che cosa significhi teologicamente per Matteo questa struttura, comunque essa possa essere spie.gata. Il fatto che egli inizi il discorso della montagna, come Luca il suo di­ scorso della pianura, con i macarismi mostra come egli sia consapevo­ le che al principio non possa esserci che la parola di speranza della grazia di Dio che certamente sollecita il giusto atteggiamento del­ l'uomo. Ma poi seguono in Matteo detti riguardanti il giusto discepo­ lato { 5, 1 3 - 1 6) e soprattutto l'esposizione della «migliore giustizia» dei discepoli rispetto alla legge mosaica e alla sua interpretazione farisaica ( 5 , 1 7-20). Si vede che proprio qui sta l'interesse principale di Matteo e della sua comunità perché il detto sull'amore per il nemico, che nel di­ scorso della pianura segue direttamente alle beatitudini, viene ora sviluppato in due antitesi come la nuova etica di Gesù, a differenza dei comandamenti dell'Antico Testamento, apparendo solo in 5 ,3 8-48 quale antitesi culminante di sei simili antitesi, delle quali almeno due erano già contenute nella tradizione. Anche tutto il cap. 6 descrive que­ sta nuova etica di Gesù come libertà, distinguendola nettamente da ogni pietà legalistica. In questo modo all'appello ad amare il prossimo si affianca quello ad amare Dio che si pone in contrasto sia con la ri­ strettezza giudaica (6, 1 - 1 8) sia con la preoccupazione dei pagani (6, 1 9-34). In 7, 1 -6 la comunità esorta a essere disponibili e aperti perché anche è solo la benevolenza divina verso chi prega ad aprire l'accesso al regno di Dio (7,7- 1 1 ) Che Matteo collochi in una posizione diversa la regola aurea (7, 1 2) quale unico principio mostra quanto essa sia im­ portante per lui. In effetti con essa si vuole indicare l'amore del pros­ simo come la soluzione di tutto il problema della legge (v. ad loc. ). .

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Mt. 4, 1 7-22.

La chiamata alla sequela

Alla regola segue ancora soltanto la pericope che Matteo riprende sì dal discorso della pianura, ma accentua in maniera del tutto nuova: la messa in guardia dai falsi profeti in seno alla comunità cristiana i quali tentano proprio di farla desistere da questo attivo amore per il prossi­ mo (v. ad loc.). Da questo pericolo mette in guardia ora la parabola conclusiva del discorso della pianura. In maniera identica l'avverti­ mento alla comunità segue due volte la disputa con Israele nei capp. 2 1 -2 5 (v. intr. ad loc.). All'umiliazione d'Israele davanti alla fede dei pagani (8, 5 - 1 3 ) che si trova già in Q viene premessa (come in 5 , 1 7- 1 9 rispetto a 5,2 1 ss.) una pericope che documenta l'assoluta fedeltà di Gesù alla legge (8,4). L'ammaestramento sulla sequela e la sua illu­ strazione mediante la tempesta sul lago (8, 1 8 -27) distingue i discepoli di Gesù dallo scriba. La p ericope precedente presenta già la sequela di Gesù come un «servirlo» (non più «servirli» come in Mc. 1 ,3 1 ) e Gesù come colui che adempie la predizione profetica {8, 1 4- 1 7). Forse è im­ portante per l'evangelista anche la seguente guarigione dell'indemo­ niato a motivo della separazione tra il guarito, che invoca Gesù quale «Figlio di Dio», e gli abitanti della città che lo scacciano (8,28-34). In ogni caso il tema di 9, 1 - 1 7 è il confronto con Israele. La risurrezione della morta (9, 1 8-26) che costituisce il culmine mostra ancora una vol­ ta Gesù . quale giudeo fedele alla legge (v. a 9,2o) e le due pericopi fina­ li, composte già con un occhio a I 1 ,2-6, segnano il confine tra i segua­ ci fedeli e i farisei che rifiutano Gesù. La chiamata alla sequela, 4,1 7-22 (cf. Mc. 1 , 1 4-20) 17 Da allora in poi Gesù cominciò a proclamare dicendo: Ravvedetevi per­ il regno dei cieli si è avvicinato. 1 8 Ma mentre camminava in riva al Mar di Galilea vide due fratelli, Simone, soprannominato Pietro, e Andrea, suo fratello, mentre gettavano nel lago il tramaglio; infatti erano pescatori. 19 E dice loro: Venite qui, dietro a me"! Così vi farò pescatori di uomini. 20 Ma essi lasciarono immediatamente le reti e lo seguirono. 21 E prose­ guendo oltre vide due altri fratelli, Giacomo, il figlio di Zebedeo, e Gio­ vanni suo fratello, mentre in barca insieme con il padre Zebedeo sistema­ vano le loro reti; e li chiamò. 22 Essi abbandonarono immediatamente la barca e il padre e lo seguirono.

ché

Matteo riprende il racconto marciano dell'inizio dell'attività di Gesù già perché la vocazione dei discepoli deve venire narrata pri­ ma del discorso della montagna nel quale costoro costituiscono un 1 7-22.

Mt. 4, 1 7-22.

La chiamata alla sequela

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particolare gruppo di ascoltatori. Tuttavia è possibile notare modifi­ che significative. Per prima cosa Matteo collega l'appello al ravvedi­ mento di Gesù alla citazione dei vv. r 5 s. mediante la sua caratteristica locuzione «da allora in poi». N ella proclamazione di Gesù risplende quindi la luce per coloro che giacciono nelle tenebre. Ciò indica che non parla più il precursore, bensì il compitare, benché _ la sentenza da lui proclamata è letteralmente identica a quella del Battista (v. a 3, 2 ). È teologicamente rilevante la mancanza del duplice riferimento di Mar­ co all'evangelo (v. excursus a 7, I 5 -23 [3]). Le due storie della chiamata di due discepoli in ciascuna di esse vengono adeguate maggiormente tra di loro. Ora si legge, tanto al v. 1 8 quanto al v. 2 1 «egli vide (altri) due fratelli» e tanto al v. 20 come al v. 2 2 «ma essi lasciarono ... e lo se­ guirono». In questa maniera viene rafforzato il carattere tipico del­ l' azione. Che il padre Zebedeo sieda nella barca è già detto al v. 2 I e non ricuperato solo alla fine come in Marco. In questo modo la storia è narrata in maniera un po' più lineare. Importanti sono altre due os­ servazioni. Simone (v. I 8) viene presentato fin dall'inizio come «Pie­ tro», certamente perché i lettori lo conoscono con questo nome. Mat­ teo non racconta quindi più che sia stato Gesù stesso a dargli questo nome (Mc. J , I 6; v. ad loc. ). Il suo carattere di roccia, che per Matteo è importante, non è creato con un detto di Gesù, ma viene semplice­ mente constatato da lui (v. a I 6, I 9). Dipende ciò dal fatto che tutti i nomi doppi contenuti nella lista degli apostoli (Simone, Giacomo, Io,2-4; cf. Giuda, Le. 6, r 6) hanno un soprannome? Afflne a tale fatto è la mancanza in Matteo della particolare elezione dei dodici (v. a Io, r ). Ancora più determinante è che Matteo rinforza il motivo della sequela (v. 22). Non solo egli usa anche al v. 22 il verbo «seguire» che è già diventato un termine fisso; egli spiega anche che l'ubbidiente ab­ bandono della barca e del padre (non più la chiamata di Gesù come in Mc. 1 ,20) è avvenuto «immediatamente». La luce annunciata nella ci­ tazione del v. r6 è dunque l'appello di Gesù al ravvedimento. Non c'è salvezza evitando il ravvedimento mediante l'adozione di una formula dogmatica. Certamente il ravvedimento è un dono, come mostra la vocazione dei primi discepoli. Il ravvedimento è sequela, nella quale tutto dipende dal fatto che Gesù va avanti ed è ovunqtJe colui che ve­ ramente agisce eppure mette proprio così gli uomini in movimento. Il vero aiuto di Dio consiste proprio nel prendere sul serio l'uomo e tut­ to ciò che fa, anzi l'include nel proprio operare.

Il messia che insegna e guarisce, 4,23-2 5 (cf. Mc. 1 ,3 9.28; 3,7 s.) 23 E G esù si spostava per tutta la Galilea e insegnava nelle loro sinagoghe p rocla mando l'annu ncio gioioso del regno e guarendo ogni malattia e in­ fermità nel popolo. 2.4 E la voce su di lui si sparse per tutta la Siria e gli portavano tutti i sofferenti colpi ti da malattie e dolori di ogni genere, inde­ moniati, lunatici e p aralitici , ed egli li guariva. 2 5 E grandi folle lo seguiro­ no dalla Galilea e d alla Decapoli e da Gerusalemme e dalla Giudea e dalla Transgiordania.

L'accostamento tra parole e atti del messia nei capp. 5 -7 e 8-9 appa­ re già nell'introduzione riepilogativa il cui v. 2 3 verrà ripetuto in 9,3 5 . L a presentazione sommaria redatta da Matteo al v. 2 3 ricorda forte­ mente Mc. 1 ,39; al v. 24 Mc. 1 ,28.34; al v. 2 5 Mc. 3,7 s. (v. sotto). L'ul­ timo parall�lo è interessante perché il riepilogo dell'opera di Gesù in Mc. 3,7-1 3 termina con Gesù che sale sul «monte)) (come Mt. 5 , 1 ). Marco narra l'accorrere del popolo e le guarigioni di malati e indemo­ niati, poi l'ascesa di Gesù sul monte e la scelta dei dodici discepoli. Mat­ teo cancella l'elezione dei dodici (v. excursus a 7, 1 3 -23 [ 1 ]) e collega direttamente il discorso dei capp. 5 -7 che diventa così il «discorso del­ la montagna». Luca inverte l'ordine e narra dapprima la scelta dei do­ dici sul monte, poi l'accorrere del popolo e le guarigioni dopo la di­ scesa dal monte, così che il discorso che segue, nel quale è contenuto il nocciolo del discorso della montagna di Matteo (v. sopra, intr. a 4, 1 71 I ,Jo), diventa il «discorso della pianura)), In questo modo entrambi gli evangelisti ottengono che la predicazione seguente sia rivolta alla folla (Mt. 4,2 5; 5, 1 ; Le. 6, 1 7), sebbene tutti e due menzionino all'inizio in maniera particolare i «discepoli)) (Mt. 5 , 1 ; Le. 6,20). Probabilmente già in Q c'era quest'ordine di successione: accorrere del popolo al la­ go, spostamento di Gesù sul monte, discorso limitato ai discepoli. Sal­ tando o invertendo i vari momenti Matteo e Luca hanno poi allargato il pubblico a tutto il popolo (v. a 5 , 1 ). 23-2 5 . Ancora una volta Matteo riprende per prima cosa da Mc. I, 39 l'indicazione geografica, per lui importante, della Galilea (v. a 4, 1 3 1 6). Ma gli spostamenti di Gesù vengono sottolineati ben oltre Marco (anche Mc. 6,6), un particolare che non viene altrimenti mai riportato a proposito di nessun altro profeta o maestro giudaico (cf. excursus a 1 , 1 8-2 5 [3]). Mentre Marco racconta che Gesù avrebbe «proclamato nelle loro sinagoghe», Matteo sembra distinguere tra «insegnare nelle

Mt. 4, 2 3 -2 5 .

Il messia che insegna e guarisce

71

loro sinagoghe» e «proclamare l'evangelo del regno» (v. excursus a 7, I 3 -23 [3]). Vuole forse dire che Gesù dapprima ammaestra nelle «lo­ ro» (cf. a 7,29; I O, I 7) sinagoghe Israele raccolto per il culto e soltanto dopo, «nelle strade» (22,9 s.), proclama il suo messaggio particolare (cf. a I 0, 5 s.) ? In Matteo l' «insegnamento» ha a che fare con la sinago­ ga, la legge e l'ammonimento etico; la «proclamazione>> con evangelo e regno di Dio. Perciò in I 3, 1 -3 Matteo non chiama più il discorso in parabole «ammaestramento>> come Mc. 4, 1 s. Nessuno dei discorsi di Gesù di cui Matteo riferisca il contenuto è situato in una sinagoga o anche in una casa (diversamente Le. 4, I 7-2 7 ). Prescindendo dai di­ scorsi escatologici (Mt. 24-2 5; forse anche 1 7,24 ss.) essi non sono mai pronunciati neanche in villaggi o città, ma sul monte, nella campagna, sulle rive del lago dove chiunque lo può trovare. La mancata menzio­ ne della guarigione di indemoniati ricordata in Mc. 1 ,3 9 dipende solo dal fatto che la storia dell'indemoniato di Cafarnao (Mc. 1 ,2 I ss.) è sta­ ta omessa (v. intr. a 4, I 7- I 1 ,30, p. 68). In Mt. 4,24; 8, 1 6 ecc. vengono raccontati esorcismi (per la mancanza di Mc. 9,3 8-40 cf. a Mt. I 8,6). Singolare è la menzione della Siria: forse si tratta della patria dell'evan­ gelista, ma non è del tutto impossibile che Matteo abbia scritto syn­ oria ( = «i dintorni>>), come legge un manoscritto, in verità tardo, e co­ me sarebbe sostanzialmente conforme a Mc. I ,28, e che poi questo termine venne letto per errore Syria ( = «Siria»). Per il resto il contenu­ to del v. 24 coincide quasi perfettamente con Mc. I ,28.34, con la diffe­ renza che qui non si parla né di «dolori>> né di «lunatici e paralitici>>. Questo lungo catalogo di malattie e di infermità fa capire chiaramente che Matteo non vuole che questo aspetto dell'opera di Gesù venga in nessun caso sottovalutato. Egli ritornerà anzi su questo punto anche nei capp. 8 s. Il v. 2 5 corrisponde in larga misura a Mc. 3,7 s. È com­ prensibile che Matteo tralasci la confessione dei demoni resa al Figlio di Dio (Mc. J, I I ; v. ad loc. ). Non demoni, ma discepoli che sono pronti alla sequela riconoscono in Gesù il Figlio di Dio ( 1 4,33; I 6, I 6 [v. ad loc.], ma anche 8,29). Che cosa resta dunque essenziale per Matteo prima di passare a pre­ sentare sommariamente Gesù che parla e opera ? La sua attività nella «Galilea dei gentili», là dove nessuno se lo sarebbe aspettato e dove l'ha condotto per molti sentieri contorti la guida di Dio; la chiamata alla sequela, cioè a una vita di proclamazione e di aiuto carismatico

72

Mt.

5,3 - r 2.

Dio parteggia per i poveri

conforme a quella di Gesù; l'annuncio dell'evangelo del regno che vie­ ne interpretato nel discorso della montagna; le guarigioni con la po­ tenza di Dio che vengono sviluppate nella raccolta delle opere potenti; il potente ministero di Gesù ben oltre i confini della Galilea, fin nella patria dell'evangelista e della comunità che legge il suo libro ( ?). Gesù maestro, 5,1

s.

1 Ma quando vide le folle egli si spostò più in alto, salendo sul monte. E si sedette e i suoi discepoli gli si avvicinarono. 2 Ed egli aprì la bocca, li am­ maestrava dicendo: ...

1-2. Se il « mon te» (v. intr. a 4,23 -2 5) e i «discepoli» erano già nomi­ nati nella tradizione, ora Matteo e Luca sottolineano che il discorso vale per tutto il popolo (v. intr. a 4,23-2 5 ). Mt. 7,28 ribadisce questo punto ancora nella sua formula conclusiva (v. ad loc. ). Certamente il discorso della montagna è etica per i discepoli. Detti rigu a r d an ti i di­ scepoli vengono inseriti subito dopo le beatitudini e si pretende dal discepolo una giustizia migliore di quella dei farisei. Ma discepolo è chiunque si faccia chiamare da Gesù a Dio. Così il discorso della mon­ tagna si rivolge a tutto il popolo. Perciò vengono inclusi anche i detti di Gesù che liberano proprio dall'ossessione della legge e chiamano alla leggerezza degli uccelli e dei fiori . Ma viceversa una tale apertura a tutti non può sottrarsi al comandamento di Gesù di amare il prossi­ mo. Dove discepoli di Gesù insegnano in modo tale che l'amore fatti­ vo per il prossimo si raffreddi, si tratta di falsi profeti la cui casa crol­ lerà un giorn o nella tempesta del giudizio (v. a 7, 1 s). Dio parteggia per i poveri, 5,3-1 2 (cf. Le. 6, 20- 2 6 ) 3 Salve ai poveri nello spirito: infatti di loro è il regno dei cieli ! 4 Salve agli afflitti: infatti saranno consolati ! 5 Salve agli umili: infatti erediteranno il mondo! 6 Salve a coloro che hanno fame e sete di giustizia: infatti saranno saziati ! 7 Salve ai misericordiosi: infatti troveranno misericordia ! 8 Salve ai puri di cuore: infatti vedranno Dio ! 9 Salve a quelli che mettono pace: in­ fatti saranno chiamati figli di Dio ! xo Salve ai perseguitati per la giustizia: infatti di loro è il regno dei cieli ! 1 1 Salve a voi, quando vi insultano e pers e guitano e vi accusano falsamen­ te di ogni malvagità per causa mia! 1 2 Rallegratevi e giubilate: infatti il vo-

Le beatitudini stro premio è grand e in cielo ! vi hanno preèeduto. 3

s.

Perché così hanno perseguitato

73

i p rofeti che

/s. 6 1 , 1 s. 10 I Pt. J, I 4. 1 1 I Pt. 4, 14.

I . Le· beatitudini, meglio sarebbe chiamarle gridi di saluto (Heilru­ fe) , sono già note all'Antico Testamento. Soprattutto la sapienza è il

loro ambito naturale: considerano «fortunati» gli uomini che condu­ cono la propria vita secondo le regole della sapienza (ad es. Sir. 2 5 , 71 0). Ricorrono però anche nei Salmi, spesso usate quale saluto rivolto ai pellegrini che arrivano (Sal. 8 4, 5 S. I J ; 1 28, 1 ). Certo si hanno s erie di maledizioni profetiche (/s. 5 ,8-23), mentre i gridi di saluto si trovano, al massimo, in coppia (Sal. 84, 5 s. ecc.; uno sviluppo maggiore in Sir. 2 5 ,7 - 1 o) . Le beatitudini non sono mai associate alle maledizioni, con l'unica eccezione del testo greco di Ecc/. I o, 1 6 s. Entrambe si trovano invece certamente nella proclamaz�one della legge, dove tuttavia non si contrappongono «salve! » e «guai!», ma «benedetti» e «maledetti» (Deut. 27, 1 4 ss.; 28, 1 ss. I 5 ss.). Che in Matteo si trovino raccolti nove macarismi, in Luca quattro più altrettante invettive corrispondenti, indica che il genere letterario aveva subito un'evoluzione che ai tempi di Gesù si riscontra anche nella letteratura giudaica che si occupa del ­ l'imminente fine dei tempi (ad es. Hen. slav. 4 2 e 5 2). 2. Nell'Antico Testamento il saluto in seconda persona è quanto mai raro. Soltanto la cosiddetta apocalittica giudaica presenta almeno un esempio che somigli alle parole di Gesù così come sono tramandate da Le. 6,20 s.: «Salve a voi eletti e giusti perché la vostra sorte sarà glorio­ sa! » (Hen. aeth. 5 8,2). Per contro la seconda persona s'incontra anche altrove nel Nuovo Testamento (Mt. 1 3 , 1 6; I 6, 1 7). Si deve presupporre che Gesù l'abbia usata; infatti il detto di Mt. 5 , 1 I s. è formulato an­ ch' esso così, sebbene i precedenti otto macarismi siano stati già rifor­ mulati nella forma corrente della terza persona. Ciò indica che Le. 6, 20 s. ha conservato l'antica forma di apostrofe. Nel particolare tempo della salvezza, che per l'opera di Gesù spicca su tutti gli altri tempi, il macarismo in discorso diretto è destinato a colui che sta proprio ora davanti a Gesù. Qui non si tratta più di regole formulate in terza per­ sona e valide per tutti gli uomini di tutte le età, ma della diretta assicu­ razione della salvezza a tutti coloro che possono udire. 3· Tutti gli esempi dell'Antico Testamento e della letteratura giudai­ ca esprimono con una proposizione relativa o participiale il destinata­ rio del saluto augurale: «Salute a chi vive così e così» oppure «salve al

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Mt.

5,3- 1 �.

Dio parteggia per i poveri

vivente così e cosÌ». Unicamente il già citato versetto di Hen. aeth. 5 8 , 2 si avvicina, se non altro, ai detti di Gesù. Il saluto di Gesù è infatti diretto, secondo la forma originaria di Le. 6,20 s., a tutti i poveri, affa­ mati, afflitti senza che aggiunte di un qualche genere presentino poi condizioni che debbano essere adempiute dagli uomini. 4· La sapienza del1'Antico Testamento parla della fortuna terrena che viene assegnata a colui che è dichiarato beato; più tardi vengono esal­ tati coloro che vivranno il tempo della salvezza ventura. Prescindendo da Hen. aeth. 5 8,2 le parole di Gesù sono totalmente nuove perché as­ sicurano già ora all'ascoltatore la salvezza futura descritta in una bre­ ve proposizione esplicativa («infatti»). 5 · Tutto quanto si è detto vale anche per i non molto frequenti ma­ carismi della letteratura greca. Anche questi non sono generalmente in serie, di solito sono alla terza persona e seguono Io schema: «Salve a colui che .. ! )). Di regola si tratta di sentenze gnomiche che vogliono aiutare a raggiungere la felicità ·in terra. Soltanto nelle religioni miste­ riche vengono occasionalmente usate nella prospettiva di una salvezza più ampia. I macarismi di Gesù si differenziano quindi da tutti i modelli preesi­ stenti. Nelle parole di Gesù non vengono più poste condizioni alle quali la salvezza possa essere promessa a qualcuno. In realtà non si chiede per chi valga la salvezza, ma viceversa che fine attenda tutti i poveri, affamati e afflitti di questa terra. A tutti coloro che sono abba­ stanza poveri da avere orecchi per udire Gesù assicura la salvezza con un'autorità che decide già nel loro presente l'adempimento futuro. Perciò le beatitudini sono formulate come discorso diretto in seconda persona. Isolate da questo evento dell'autorità di Gesù e dell'ascolto indotto mediante essa, considerate regole valide in generale in base alle quali a chi va male qui sulla terra un giorno andrà proporzional­ mente tanto meglio nell'aldilà, le beatitudini sarebbero tuttavia false. Invece dove segue e viene ascoltata l'assicurazione di Gesù, per il suo saluto l'uomo diventa nuovo e salvo perché nella voce di Gesù è già arrivato su di lui il futuro regno di Dio. .

I I- I l..l.- 10.4. L'ultimo saluto (vv. 1 1 - 1 2) si differenzia notevolmen­ te dai precedenti. È molto più lungo, è formulato in seconda persona e presuppone già che i discepoli abbiano subito persecuzioni. Questi e non Gesù (come in 2 3,3 7; ma cf. 2 3,24) vengono paragonati ai profeti.

Mt.

5 ,3 - 1 1. .

Dio parteggia per i poveri

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Il detto si è quindi formato sicuramente più tardi, ma si trova già in Q (Le. 6,22 s.). Le altre otto beatitudini (vv. 2- 1 0) formano due gruppi di quattro che coincidono persino nel numero di parole. Nel secondo gruppo diventa ancora più chiaramente lodato un determinato com­ portamento dell'uomo, non solo un suo patimento. Il primo, il secon­ do e il quarto detto si trovano in forma simile in Le. 6,20-2 3 e quindi sono stati già tramandati in Q. Di certo il secondo detto in Matteo (v. 4) è stato adattato a /s. 6 r ,2 s.: gli «afflitti» invece di «coloro che pian­ gono», «saranno consolati» invece di «rideranno». Ciò spiega anche perché questo detto appaia in Matteo al secondo posto, in Luca invece solo al terzo. Infatti /s. 6 I , I comincia con il gioioso messaggio ai po­ veri e inserisce al v. 2 la consolazione degli afflitti. I due primi saluti sono quindi entrambi considerati adempimento delle promesse profe­ tiche e furono adattati al tenore del testo biblico. Is. 6 I , 1 -3 ebbe anche in altri casi un ruolo nella comunità di Gesù (Le. 4, 1 8 s.; cf. Mt. 1 1 , 5 ; Atti 4,27; 10,3 8; eventualmente Giac. 4,9 s.) e forse apparve un riferi­ mento ovvio anche perché subito prima (/s. 6o,2 I ) si ha la medesima sentenza di Mt. 5,5b. Tutto ciò deve essere avvenuto già prima di Mat­ teo perché la corrispondente invettiva di Le. 6,2 5 b unisce già entram­ be le forme: «farete cordoglio e piangerete)) e anche la promessa della «consolazione)) è stata registrata nella prima invettiva (Le. 6,24). Il detto è circolato quindi in due forme già prima di Matteo e di Luca. Infatti è estremamente improbabile che sia avvenuto invece il procedi­ mento inverso attraverso le seguenti fasi: dapprima sarebbero apparsi neUe invettive, così come si trovano oggi in Le. 6,24 e 2 5b, casualmen­ te separati tra di loro, due flebili echi di fs. 6 1,2; questi echi sarebbero poi stati uniti formando una chiara reminiscenza di fs. 6 1 ,2 (Mt. 5,4) e avrebbero poi provocato lo spostamento dei detti per ottenere un p a­ rallelismo con Is. 6 I , 1 e 2. Ciò indica che le maledizioni rappresenta­ no uno stadio ancora più tardo dell'adattamento di questa beatitudine al testo dell'Antico Testamento (v. sotto). Anche l'invettiva di Le. 6,26 presenta una formulazione che si dimostra simile a Mt. 5 , I I , ma non alla corrispondente beatitudine di Le. 6,22: «dicendo contro di voi ogni sorta di malignità/parlano bene di voi». Se tutto ciò non è solo un caso, forse al tempo in cui si sono formate le invettive circolava già una variante più vicina alla forma matteana. Si può pensare che Gesù si sia espresso ricordando /s. 6 I e che Luca abbia omesse tali remini­ scenze, conservandole solo nella formulazione delle invettive. Tutta-

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Mt. s,3-11.

Dio parteggia per i poveri

via l'adattamento a !s. 6 I è piuttosto un ampliamento successivo alla pari delle influenze veterotestamentarie in Mt. 5 , 5 e 8, la for�a del v. 3 e certamente anche la formulazione alla terza persona. s.6.J. Più difficile risulta giudicare i cinque detti che manca�o in Lu­ ca. La promessa agli umili (v. 5) potrebbe essere una mera variante di quella ai poveri; in aramaico i due termini hanno un suono molto si­ mile. Forse è per questa ragione che in manoscritti siriaci, dove si ha la medesima omeofonia, il terzo detto (v. 5) viene subito .dopo il primo (v. 3 ). Anche la proposizione esplicativa non è sostanzialmente diver­ sa: infatti la terra che gli umili erediteranno un giorno non è diversa dal regno dei cieli perché questo diventerà realtà sulla nuova terra. Certamente le promesse dei Salmi hanno avuto un'influenza notevole: Sal. J 7, I I per il v. 5; Sal. 24,3 s. per il v. 8 . Ma anche la formazione de­ gli altri detti può essere probabilmente spiegata in base a testi dei Sal­ mi. Sal. 3 7 ha avuto un ruolo notevole nella comunità dei «poveri>>, il gruppo giudaico di Qumran (4QpPsa3 7). In esso si trovano i temi della fame e della sazietà uniti al tema della giustizia nei vv. 1 9 e 1 2 (Mt. 5 ,6), quello della giustizia e della misericordia nel v. 2 I (Mt. 5 ,7), quello dell'eredità della terra nel v. 22 (Mt. 5 , 5 ). Misericordia e cuore puro (Mt. 5,7 s.) sono collegati anche in Sal. 23,4 (LXX) e nella bene­ dizione di Aronne (Num. 6,2 5 s.) sono associati volto di Dio, miseri­ cordia e pace (cf. Mt. 5,7-9 ). Per la formulazione di Mt. 5,9 potrebbe esser stata determinante l'influenza del detto di Mc. 9, 50; Mt. 5 , I o è il contenuto del v. I I in forma abbreviata. Indubbiamente le tre beati­ tudini di Le. 6,20 s. sono le più antiche. Almeno la prima, ma più pro­ babilmente tutte e tre, risalgono a Gesù per la loro forma paradossale. Esse sono comprensibili soltanto sulle sue labbra, col presupposto che nel suo saluto è Dio stesso a incontrare l'uomo. Nella seconda e nella terza l'avverbio «ora>>, che manca ancora nella prima, è stato aggiunto solo in un secondo momento, certo dallo stesso Luca (cf. Le. I 6, I 9-3 1 ecc.). Viceversa in Matteo la trasformazione alla terza persona (v. so­ pra, excursus alle beatitudini [2]) e l'adattamento a fs. 6 1 ,2 (v. sopra, al v. 4) risalgono alla comunità. L'inserimento della «giustizia» (v. 6) cor­ risponde al l'interesse di Matteo (vv. 1 0.20; 6,3 3) mentre l'ampliamen­ to da «avere fame» a «avere fame e sete» è adeguamento al linguaggio dell'Antico Testamento (Sal. I 07,9; /s. 49, I o; 6 5 , I 3; A m. 8, I I ; cf. Gv. 6,3 5 ). Anche l'ampliamento da «povero» a «povero in spirito» (v. 3 ) è esplicazione posteriore. Secondo Mt. I I , 5 , il cui dettato risale a /s. 6 I ,

Mt. 5,3;. 12. Dio parteggia per i poveri

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I , l'evangelo di Gesù è annunciato ai «poveri», senza aggiunte di sorta. I I. Ci si può chiedere se le cinque beatitudini mancanti in Luca rappresentino una variante che terminava similmente con una pro­ messa per i perseguitati (Mt. 5 , I o; Le. 6,22). È molto più probabile che ai tre detti originali se ne siano aggregati altri mediante riformulazio­ ne di versetti dei Salmi o di parole di Gesù. È possibile che in una prima fase si sia formato il primo gruppo di quattro beatitudini me­ diante l'inserimento del v. 5; infatti in questo gruppo le categorie «sa­ lutate» cominciano tutte, in greco, con la consonante p. Forse si for­ mò in seguito un gruppo di sette macarismi (senza il v. 10) perché nella tradizione prematteana sembra presentarsi talora lo schema set­ tenario. Poi l'evangelista avrebbe composto come conclusione il v. I o attenendosi ai vv. I 1 s . La forma greca «perseguitati» esprime con una forza ancora maggiore del v. I I una condizione che si è già verificata, i ndica quindi, in ogni caso, il tempo dopo la pasqua. Il tema della giu­ stizia è importante per Matteo (v. a 5,20) e la ripresa della promessa del regno dei cieli contenuta nel primo detto serve a chiudere la corni­ ce. Il tema di questa ultima beatitudine è già preindicato dai vv. 1 I s., ma diventa sempre più attuale anche ai giorni di Matteo come indica IO, I 5 39 . Inoltre il predicato principale, comune a entrambi i detti, «perseguitare», si trova solo nella versione di Matteo (v. 1 I ), non in quella di Luca. Il linguaggio delle beatitudini aggregate è quello della comunità più tarda: cf. 1 Pt. 3,4 («mitezza»); 2, 10 («misericordia»); I,22 («cuore puro»); 1,8 («vedere Dio>>); J,I I (Mt. 5,9); 3,14 (Mt. 5 , I o); 4, I 4 (Mt. 5 , 1 1 ); 4, 1 3 (Mt. 5, I 2). Appartengono a questo complesso fin dal principio anche le invettive riportate in Luca (v. sopra, excursus sulle beatitudini [ 1 ]) ? Matteo potrebbe averle espunte perché egli è maggiormente interessato alle istruzioni sul come agire giustamente che al ripudio profetico. Ma contro tale ipotesi si deve osservare che le maledizioni sono elencate in Luca solo dopo Le. 6,22 s., cioè dopo la promessa, ampia ed esauriente, ai perseguitati che è sicuramente stata aggregata alle beatitudini più tardi. Inoltre. esse non sono particolar­ mente pertinenti in un discorso diretto ai discepoli, così che Luca è costretto a ricominciare ancora una volta col v. 27. Infine le invettive presuppongono già la riformulazione della beatitudine di coloro che piangono (v. sopra, a Mt. 5 ,4). Le maledizioni costituiscono dunque una sorta di commento ai detti originari che vuole chiaramente preci­ sare per chi essi valgano e per chi no. Nel caso dell'ampia formulazio-

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Mt. s ,3 - 1 2.

Dio parteggia per i poveri

ne della promessa ai perseguitati (v. 1 1) Matteo, che pensa solo alle ca­ lunnie, sembra rappresentare uno stadio più antico di quello di Luca che presuppone già la scomunica della sinagoga contro i cristiani. È possibile che entrambe le varianti risalgano a una base aramaica. Ciò potrebbe spiegare la diversa forma del detto conclusivo. Matteo avreb­ be riferito la frase «che erano prima di voi» ai profeti, mentre Luca la . riferì ai persecutori traducendo perciò: «così fecero già ai profeti [coloro che furono prima di voi =] i vostri padri>>. La lezione che si trova soltanto in alcuni manoscritti «a motivo della giustizia» sarà sta­ ta ripresa successivamente dal v. I O. I medesimi manoscritti omettono l'aggiunta «mentendo» probabilmente perché è ovvio che sia così se si è perseguitati «a motivo della giustizia». I n conclusione i primi tre macarismi dovrebbero risalire a Gesù nel­ la forma di Le. 6, 20 s. (senza «ora»). Essi sono stati già arricchiti in Q prima di Matteo con una beatitudine di una certa ampiezza rivolta ai perseguitati per amore di Gesù ( Le. 6,22 s.). Detti simili, soprattutto come reminiscenza di passi dell'Antico Testamento, sono state poi ag­ gregate al primo complesso (Mt. 5,5 .7-9 o 1 0) . Infine essi sono stati interpretati da un lato mediante maledizioni costituenti una delimita­ zione negativa (Le. 6,24-26), dall'altro mediante precisazioni (Mt. 5, 3.6). Forse una originaria unità settenaria è stata ampliata da Matteo a formare una duplice serie quaternaria e provvista con una conclusione teologicamente importante per l'evangelista (Mt. 5, 1 o). Per il signifi­ cato teologico di questo sviluppo v. sotto, pp. 89 s. 3· Ai tempi di Gesù la denominazione «povero» non è mai usata in senso soltanto traslato, totalmente disgiunta dalla condizione sociale. Certamente già in /s. 6 1 , 1 ; 66,2 si trovano associati «povero» e «dal cuore/spirito contrito» (cf. /s. 57, 1 5; Prov. 1 6, 1 9; 29,23; Sal. 34, 19). Perciò nel giudaismo del tempo di Gesù «povero» è diventato quasi un titolo onorifico del giusto (Ps. Sal. 5,2. 1 1 ; 1 o,6; 1 5, 1 ; 1 8,2 nel 1 sec. a.C.) perché caratteristica principale della giustizia e della pietà era ac­ cettare con fede il cammino di Dio senza opporsi a esso. Mentre ai tempi del D eutero-Isaia «povero» era ancora una denominazione di tutto Israele che, privato della sua terra, viveva all'estero, nell'epoca successiva si distinsero sempre più. con questo termine i poveri in sen­ so sociale dalle classi dirigenti. Così «poveri» e «giusti» diventano concetti in larga misura paralleli (Sir. 1 3, 1 7 s.; 4 Qp Ps a3 7 2,8 ss.; CD

Mt. 5, 3- 1 2.

Dio parteggia per i poveri

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1 9,9 ). Infine a Qumran si trova la formulazione più prossima a quella di Matteo: «Poveri (o: umili) di spirito» ( 1 QM I 4,6 s.): essi sono colo­ ro che conoscono Dio il quale «a quelli cui tremano le ginocchia ha dato la forza per sostenersi e rafforza i lombi alle spalle ferite», coloro «la cui via è perfetta» (cf. Mt. 5 ,48). In questo testo non si può più distinguere nettamente se ciò significa che essi sono poveri perché lo Spirito di Dio li ha resi tali o perché il loro spirito umano si sente tale. Anche le autodefinizioni «i poveri della grazia, i poveri della tua re­ denzione, i poveri che accetteranno il periodo di afflizione» ( I QH I 3, 22; 1 QM I 1 ,9; 4QpPsa3 7 2 , 9 s.) permettono entrambe le letture. In Matteo si tradurrà «poveri quanto allo spirito», quindi si dovrà pensa­ re in prima linea allo spirito umano come nella formulazione parallela «puri quanto al cuore» (Mt. 5,8). Ma come in Mc. I 4,3 8 (v. ad loc. ) = Mt. 2 6,4 1 e come in Sal. 5 1 , 1 4 lo spirito (ben disposto) dell'uomo equivale allo Spirito santo donato da Dio (Sal. I 5 , 1 3). Che Matteo abbia scelto «spirito» e non altri termini che usa frequentemente, ad esempio «anima» o «cuore», oppure perifrasi come in 6,4.6. 1 8, sta a indicare che egli è a conoscenza di questo nesso. Probabilmente egli ha in mente uomini la cui condizione esteriore li spinge ad attendersi tutto da Dio, ma che hanno anche ricevuto veramente in dono da Dio lo spirito di aspettarsi tutto da lui. Come a Qumran, ciò non ha nulla a che fare con una mortificazione passiva che non osa più agire (v. sotto, vv. I 3 - 1 6). L'originaria assicurazione di Gesù è rivolta semplicemente ai «po­ veri». Si evita anche la sola apparenza che si pretenda che l'uomo fac­ cia prima qualcosa. La salvezza è assicurata a tutti i poveri, non solo a coloro che si sentono tali o che l'accettano umilmente. Dio è qui per tutti loro, parteggiando per i miseri come i giudici dell'Antico Testa­ mento che svolgevano il loro mandato secondo la volontà di Dio. Essi sono i protetti del re verso i quali si manifesta la sua misericordia per­ ché secondo il diritto divino spetta al re difendere la causa dei deboli. In questo modo si rivela in maniera ancora più clamorosa la totale pa­ radossalità di questo saluto. Non è assolutamente evidente che i po­ veri saranno felici soltanto perché glielo dica un uomo povero come loro. L'unica ragione che Gesù può addurre è il riferimento al regno di Dio che appartiene loro. Le motivazioni successive sono tutte al tempo futuro e quando Gesù parla del regno anche ciò indica sempre qualcosa di futuro. Gesù non è un entusiasta che desideri nascondere

8o

Mt. 5,3-12. Dio parteggia per i poveri

povertà, sofferenza e fame semplicemente dietro a una devozione fa­ natica. Egli sa con certezza che tutto dipende dal fatto che un giorno Dio manterrà tutte le promesse che Gesù fa qui. Ma facendo ciò, il re­ gno futuro si avvicina a loro; perciò essi sono già «salvi» . Allora, in verità, tutto dipende dal fatto che dietro Gesù c'è l'autorità stessa di Dio; senza questa egli sarebbe ridicolo. Se si prende sul serio che per Gesù ogni povertà è una povertà al cospetto di Dio, allora la sua assi­ curazione vale per tutti coloro che possono udirla; infatti nell'atto stesso dell'ascolto si compie quel «ravvedimento» che prende la pro­ messa di Dio più seriamente di qualsiasi altra. Di questa realtà parla­ vano già l'attacco del Battista a ogni senso di sicurezza acquisita e la storia della tentazione che precedono in Q la terna delle beatitudini. Chi può ascoltare la parola rassicurante di Gesù dice addio a ogni fi­ ducia non solo nella ricchezza esteriore, ma anche a quella spirituale dell'aristocrazia farisaica o sacerdotale (Mt. 3,7 ss.) o a quella di una ideologia «cristiana» basata sul successo (4, I ss.). Indubbiamente il sa­ luto di Gesù è rivolto ai poveri tout court, senza ulteriore specifica­ zione; altrettanto indubbio è che la sua validità dipende dal fatto che il saluto è pronunciato da colui nel quale Dio ha fatto irruzione nel mondo. In questo modo i nostri macarismi si collocano nella catena della maggior parte delle beatitudini del Nuovo Testamento che de­ scrivono la particolare età escatologica che è arrivata con Gesù (Mt. I I ,6; I 3, I 6; anche I6, I 7; Le. I ,45; I 2,3 7-43; cf. una certa correzione in Le. I I ,27-28; per il giudaismo v. sopra, excursus alle beatitudini [I]). Solo per chi le può ascoltare così le beatitudini non sono ridicole; ma per costui la sua povertà si è al contempo già trasformata in «povertà di spirito». Matteo ha dunque sicuramente alterato la forma del detto di Gesù. In questa lettura è insito il pericolo di fraintendere la povertà come un comportamento che l'uomo debba assumere. Eppure ci si de­ ve chiedere se Matteo non sia rimasto più aderente di Luca alla sen­ tenza di Gesù che il terzo evangelista si limita a ripetere alla lettera, solo tradotta in greco. Infatti in Luca il detto fa l'effetto di una regola, valida dovunque e sempre, che recita: in cielo tutte le situazioni saran­ no capovolte, i poveri saranno dunque ricchi e i ricchi poveri. Per con­ tro Matteo ha conservato una parte del senso di questa parola che di­ venta vera quando ci viene pronunciata da Gesù con l'autorità di Dio, quando cioè si verifica un aspetto del mistero che nell'Antico Testa­ mento è descritto come l'evento dello «Spirito». Vale sicuramente per

Mt. 5 ,3 - 1 2 .

Dio parteggia per i poveri

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la parola di Gesù quanto dice un filosofo ebreo moderno, Martin Bu­ ber: la parola biblica non andrebbe mai avulsa dalla situazione in cui è stata pronunciata. La parola di Gesù non va né generalizzata in modo tale da valere ovunque ed essere comprensibile per chiunque né essere considerata un interessante dato meramente storico, che resta vincola­ to al passato. La salvezza gridata nel saluto diventa vera soltanto quan­ do viene pronunciata di volta in volta da Gesù stesso. Poiché Matteo voleva evitare entrambi gli equivoci ha cercato di spiegare con l' ag­ giunta «in spirito>> quanto la parola aveva da dire ai suoi giorni. 4· Gli afflitti vengono salutati come felici: gli afflitti, non coloro che fanno cordoglio per i propri peccati, come si legge in commenti rab­ binici. Proprio secondo Matteo si odia e si abbandona il peccato, non ci si piange sopra. Non si tratta neanche di quelli che sono tristi per la dannazione degli infedeli, come intende uno scritto cristiano recente (Didascalia Syriaca 5,14,22 ) . Proprio secondo Matteo gli increduli ven­ gono chiamati ad ascoltare e li si mette in guardia da ogni sicurezza di sé con la minaccia del giudizio che dovranno affrontare. Qui si inten­ de, come in Is. 6 1 ,2, qualunque genere di afflizione, di sofferenza, non importa se di origine fisica o spirituale (cf. Sal. 1 26, 5; Apoc. 7, 1 7). Si afferma dunque di nuovo che Dio è la dove più serve. Anche questa non è una regola valida universalmente, un po' come il proverbio che dice che il bisogno insegna a pregare. L'esperienza confermerebbe proprio il contrario: il bisogno insegna molto più spesso a imprecare, a brontolare, a diventare ostinati o a cercare una scappatoia. Come proverbio di comprensione generale questa beatitudine sarebbe sem­ plicemente falsa. In che senso Matteo l'intenda si capisce forse da 9, 1 5 dove egli ha inserito la parola usata qui: che l'afflizione sia superata è vero solo in presenza di Gesù. Ciò vale già per la tradizione premat­ teana improntata al passo messianico di fs. 6 1 , 1 s. (v. sopra, al v. 4). Sulla base di questo passo il giudaismo più tardo chiamerà il messia proprio «consolatore». Tuttavia Mt. 5,4 si aspetta, come fs. 1 2, 1 ; 49, 1 3; 5 I ,J. I 2; 5 2,9 ecc., che la consolazione venga da Dio stesso. Ancora una volta il detto è quindi apostrofe, impegno che vuole essere accet­ tato, che cerca ascolto, che è diverso da una nozione, ad esempio di un teorema matematico o, appunto, di un proverbio di comprensione ge­ nerale. Il detto è vero per chi si fa dire da Gesù che proprio adesso Dio diventa realtà come i profeti avevano atteso che avvenisse per la fine dei tempi di Dio. Ancora una volta nella versione di Luca c'è il

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Mt.

5,3- 1 2. Dio parteggia per i poveri

pericolo, ancor più aggravato dall'inserimento dell'avverbio «ora», di fraintendere la beatitudine nel senso di una regola generalmente valida circa la compensazione della sofferenza terrena mediante la ricompen­ sa trascendente. Viceversa in Matteo è in agguato l'equivoco che l'uo­ mo debba prima dimostrarsi degno della salvezza con il proprio com­ portamento, un fraintendimento tanto più insidioso quando si osservi come in Giac. 4,9 « essere afflitto» e «essere umile» siano quasi sinoni­ mi (cf. anche a Mt. 9, I 5). 5· La terza beatitudine riguarda gli «umili». Anche il mondo greco loda l'umiltà del saggio e del re. Essa rappresenta, come Platone dice di Socrate, la vera somiglianza con il dio. Scrittori giudaici di educa­ zione greca, Filone e Flavio Giuseppe, riprendono questo concetto, ma anche in Palestina circolano aneddoti che descrivono l'umiltà di rabbi Hillel (poco prima di Gésù). Ma in Gesù questo comportamen­ to non corrisponde alla saggezza di un filosofo o di un regnante che si guarda dal suo contrario, la hybris, la presunzione. Nel linguaggio di Gesù «umile» vale come «povero». Nel termine si coglie il momento della «piccolezza», della «bassezza», e forse la traduzione migliore sa­ rebbe «debole» . Non si tratta di fragilità o mollezza, giacché questi deboli sono destinati a possedere un giorno il mondo! Il termine si trova così soltanto in Matteo (I r ,29; 2 I, 5 riferito a Gesù) e in 1 Pt. 3, 4· Per Matteo Gesù rappresenta quindi il vero modello di questa «umil­ tà». Allora si vuoi dire che i poveri e gli afflitti lodati nei primi due macarismi devono dunque apparire anche verso il proprio prossimo come coloro che ripongono ogni loro speranza in Dio, cioè come de­ boli che non si innalzano sugli altri, ma sono disponibili al servizio. Pertanto a questa variante della prima beatitudine (v. intr.) sarà unito fin dall 'inizio un forte interesse catechetico: essa vuole ammonire la comunità a vivere come quella che essa è diventata per la parola di speranza di Gesù. La promessa di possedere la terra (o il paese) è stata riferita nell'Antico Testamento dapprima al paese di Canaan (Gen. I 7, 8), poi a tutta quanta la terra che un giorno diventerà la sede del regno di Dio (così anche Giac. 2, 5 s.). Sal. I r 5, I 6 ricapitola così la situazio­ ne: il cielo è la dimora di Dio, la terra è stata data agli uomini . .Da que­ sta visione si sono sviluppate le attese giudaiche del futuro che scorro­ no parallele tra di loro senza convergere. Da un lato si attende un re­ gno terreno nel quale Dio stesso governerà mentre tutti i popoli servi­ ranno Israele o confluiranno in esso. In questa visione si può sottoli-

Mt. 5,3- 1 2.

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neare che non si tratta soltanto del compimento di sogni politici, ma di un mondo trasformato da Dio, dunque, in un certo senso, di un mondo «trascendente» (/s. 65, I 7; 66,22; 2 Pt. J , I J). Dall'altro si pensa a un'assunzione in cielo sul tipo di quella già toccata a Enoc e a Elia. Le due visioni non sono affatto così distanti e possono perciò essere anche contigue come qui i vv. 3 e 5 . Entrambe esprimono un aspetto importante per il pensiero biblico: da un lato il futuro di Dio non rin­ negherà la sua creazione: ciò che egli ha creato e ciò che ha fatto acca­ dere nella storia verrà anche portato da lui in maniera soddisfacente al suo fine. D'altro lato ciò non è il risultato di sforzi umani e di corsi storici, ma è opera soltanto di Dio. Ciò include in sé che tanto l' Anti­ co quanto il Nuovo Testamento sono, proprio perché si attendono da Dio e dalla sua potenza la realtà definitiva, estremamente interessati a ciò che su questa terra viene plasmato da tale speranza. Perciò il no­ stro vangelo si conclude con il potere dato a Gesù «in cielo e in terra» (Mt. 28, I 8) e proprio perciò la comunità di Matteo prega che la volon­ tà di Dio sia fatta «in terra come in cielo» ( 6, I o) . 6. In Le. 6,2 I sono detti beati gli affamati e si assicura loro che ver­ ranno saziati. Qui in Mt. 5,6 non è determinante che si parli di «affa­ mati e assetati », come nei passi dell'Antico Testamento citati sopra {p. 76), ma che si aggiunga «di giustizia» (cf. excursus a J,I 5 ). Il termine, che manca totalmente in Marco, si trova 7 volte in Matteo e soltanto I volta in Luca (Le. 1 ,75) in un salmo dai forti toni veterotestamentari quale caratteristica della promessa età di Dio. Ci sono quindi tutti gli elementi per credere che Matteo abbia inserito qui il termine. Già nel­ l'Antico Testamento fame e sete sono usate spesso quale metafora del desiderio struggente della parola (A m. 8, I I ), della grazia (/s. 5 5 , I s.) e della presenza di Dio (Sal. 42,3). Ai poveri e ai minimi viene promesso che la loro fame verrà placata ( 1 Sam. 2, 5; Sal. 1 07,J6-4 1 ; 1 46,7). Nel giudaismo dei tempi di Gesù (Ps. Sal. e Test. XII) la fame è stata intesa come castigo divino a fine di salvezza. Secondo Bar. 2, I 8 solo l' «ani­ ma affamata» può lodare la gloria e la giustizia di Dio. In verità un gruppo già esistente di persone pie o anche di socialmente affamati non viene esaltato da Gesù come avviene in Luca. Il detto è una parola di salvezza che crea gli uomini per i quali vale solo nel momento in cui li invita all'ascolto e fa entrare chi l'ascolta nella salvezza di Dio. Alla luce di Mt. 5 ,20 si deve dire che Matteo è soprattutto interessato a che la giustizia di Dio divenga realtà concreta anche nell'azione della

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sua comunità. D'altra parte gli è stata tramandata una parola che parla di fame (e sete) e qui egli ha inserito la parola chiave «giustizia». Sullo sfondo dell'Antico Testamento si vuole significare qui prima di tutto l'ardente desiderio del regno futuro e della giustizia di Dio che si at­ tuerà in esso; il grido che invoca colui che renderà giustizia a coloro che patiscono violenza (Sal. I 46,7: il rendere ragione è unito alla re­ galità [= il «regno»] di Dio, v. I o) e «il nuovo cielo e la nuova terra... nei quali dimorerà la giustizia» (2 Pt. 3, I 3). Anche se in Matteo l'ac­ cento è posto sull'attuazione di questa giustizia da parte dei discepoli, nessun giudeo nutrito dall'Antico Testamento può dimenticare, a tal proposito, che il vero adempimento sarà l'opera escatologica di Dio. Questa è descritta come saziamento. Gesù che può parlare di mangia­ re e bere al banchetto del regno venturo (Mt. 22, I ss.; Le. 22,30) ha meno . timore di una comprensione troppo letterale e troppo corposa di una simile speranza che di idee eccessivamente incolori che non so­ no più capaci di suscitare alcuna gioia reale. 7· Un invito alla misericordia risuona anche nel discorso della pia­ nura di Le. 6,36 (cf. a Mt. 5,48) e in una forma ancora più breve (1 Clem. 1 3,2 e Policarpo 2,3): «Praticate la misericordia per ottenere miseri­ cordia» (cf. a Giae. 2, I 3 ). Materiale tradizionale che fu usato, ad esem­ pio, nell'istruzione religiosa, è stato dunque formulato in maniere di­ verse e qui è stato versato nello stampo del macarismo. Per Matteo la misericordia è il centro della proclamazione di Gesù che mostra che cosa significhi adempiere la legge (v. a 5 , I 7-2o; 9, I 3; I 2,7; 2 5,3 I -46). Essa è stata dimenticata dai farisei (23,23: così solo in Matteo). La mi­ sericordia non si limita quindi alla generosità nel dare l'elemosina. In Le. 6,3 6 si afferma che ogni opera di misericordia dell'uomo sgorga dalla misericordia di Dio. Ciò vale più che mai per la parabola di Gesù del servo perfido (Mt. I 8,23-34): ciò che interessa a Matteo è l'affer­ mazione che non può contare sulla misericordia di Dio chi non la pra­ tica ( I 8,3 5; così anche Giae. 2, 1 3). Questo è anche il suo commento al Padrenostro (v. a 6, I 4 s.). Così il quinto «salve>> si avvicina al detto che la misericordia dell'uomo trionfa sul giudizio di Dio (Giae. 2, 1 3 ) e che da cielo si prova misericordia per colui che, da parte sua, prova misericordia per l'uomo (massima rabbinica). In un mondo spietato la misericordia è quella giustizia di cui hanno fame e sete i discepoli di Gesù. Il termine impiegato qui, «i misericordiosi», nel Nuovo Testa­ melftò �ppare soltanto in un altro passo (Ebr. 2, I 7), riferito a Cristo,

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ma è frequente nell'Antico Testamento greco. Così dietro al vangelo di Matteo si staglia, ancora una volta, il profilo di un giudaismo fami­ liare con i LXX. 8. Come mostrano 1 Tim. 1 , 5; 2 Tim. 2,22 anche la frase veterotesta­ mentaria «un cuore puro» è stata accolta felicemente nella parenesi cristiana. Come Matteo intende la misericordia in contrasto con il ge­ sto rituale puramente esteriore (9, I 3; I 2,7), così già nel giudaismo si è vista la purità di cuore in questo contrasto. Passi come I Sam. I 5 ,22; /s. I , I O- I 7; Ger. . 7,3-7 hanno portato alla richiesta pressante della cir­ concisione del cuore in contrasto con la circoncisione puramente re­ ligioso-rituale (Deut. Io, I 6; 30,6; Ger.. 4,4; 9,2 5; r QS 5,5; I QpHab I I , 1 3 [IQH 2 I ,2o ?]; Rom. 2,29; cf. anche Ez. I I , I 9). Certo d i regola si menzionano insieme mani pure e cuore puro, come in Sal. 24,3- 5 (cf. anche Sal. 5 I , I 2) che costituiscono le condizioni di accesso per "coloro che vogliono salire sul monte del Signore e sostare sul luogo santo (cioè nel tempio); in tale contesto il cuore puro significa anche che uno non ha intenzioni malvagie e non cerca di truffare il prossimo. Il cuore non è quindi soltanto la sede dei sentimenti, ma anche la parte più nascosta dalla quale viene plasmata, spesso inconsciamente, tutta una vita. Ciò vale similmente per Qumran (cf. a 3,8). Ciò che Matteo ha in mente è quindi un cuore «semplice» ( 6,22; Rom. I 2,8), allineato con Dio: proprio ciò che significa per lui «fede» (v. a 1 4,3 I ). e ciò che Paolo può anche descrivere in termini di sincerità e schiettezza (2 Cor. 1 ,2; Fil. I , I o; 2, I 5 ). Ciò può riferirsi tanto al rapporto con una donna (Mt. 5,28) quanto a quello con il denaro (6,2 I s.) o con la paro­ la ( 5 ,37) e sta in antitesi con la purità esteriore che si consegue ritual­ mente ( 2 3,26). Così con questa beatitudine si mette in discussione tutta la prassi rituale giudaica e pagana con i loro sacrifici e atti espia­ tori (cf. a Mt. 7, I 5 ). Come indica già la collocazione di questo versetto tra il v. 7 e il v. 9, il v. 8 è diretto essenzialmente al comportamento verso il prossimo. La contemplazione di Dio che al momento è im­ possibile per l'uomo (/s. 6, 5), è una promessa per l'ora della fine quan­ do si giungerà a una limpida comunione tra Dio e uomo (Apoc. 22,4; 1 Cor. I 3, I 2) come quella di cui adesso è concesso godere soltanto agli angeli ( I 8, I o). Vedere Dio com'è è l'insuperabile estremo compimen­ to di ciò che la fede spera ( I Gv. 3,2). In questa contemplazione è con­ tenuto tutto ciò che significano salvezza, vita, gloria. Del resto Dio è menzionato direttamente solo ai vv. 8 s., mentre in tutti gli altri maca-

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rismi a lui si accenna soltanto, conformemente alla prassi del giudai­ smo dei tempi di Gesù, velatamente come al sottinteso e innominato datore della promessa. 9· Anche qui si ha sullo sfondo materiale tradizionale della predica­ zione cristiana. In Giac. 3, I 8, con una perfetta corrispondenza tra opera e premio, si promette la pace quale frutto della giustizia a colo­ ro che si adoperano per la pace. Una beatitudine simile, unita con una maledizione, si trova anche nella letteratura giudaica (Hen. slav. 5 2, I I - I 3 ). Questo è l'unico passo della Bibbia in cui si trovi il termine «paciere» (il verbo è usato in Prov. I o, I o; Col. I,2o). Esso non denota persone semplicemente pronte a fare pace, bensì persone che «creano, procurano pace>> (così i rabbi). L'appello a dedicarsi a tale compito occupa nel giudaismo del tempo di Gesù quasi il posto che occupa nel Nuovo Testamento il comandamento dell'amore. Poco dopo la di­ struzione del tempio il rabbi più in vista del momento, rabbi Johanan ben Zakkai, ha promesso a colui che si adoperava per la pace la sal­ vezza che veniva conferita prima dall'altare dei sacrifici. «Pace>> è il saluto quotidiano e in questo modo è già descritta nell'Antico Testa­ mento la salvezza per antonomasia: chi ha pace è salvo. Principe di pa­ ce è un titolo del messia (/s. 9, 5) e nel giudaismo, probabilmente già in quello del tempo di Gesù, si è visto il messia anche nel messaggero di Dio che annuncia la pace di /s. 52,7. Del resto questi operatori di pace non devono venire idealizzati: sono infatti coloro che non riescono ad affermarsi rispetto a tutti gli attacchi possibili. Figli di Dio. Ai facitori di pace viene promessa la figliolanza di Dio. Gesù ha parlato di «Padre>>, di «mio Padre>> (cf. a Mc. I 4,36 e I 5,39), probabilmente anche, occasionalmente, di «vostro Padre>>. Non si trat­ ta affatto di qualcosa di unico, né per Gesù rispetto all'Antico Testa­ mento e al giudaismo né per quest'ultimo rispetto ad altre religioni. Nuova è tuttavia la distinzione tra «mio Padre>> (riferito a Gesù) e «vostro Padre>>. Gesù non si associa mai con altri uomini in un comu­ ne «nostro Padre>>; infatti anche in Mt. 6, 9 «Padre nostro>> è limitato ai soli discepoli cui Gesù insegna a pregare così. Tuttavia «mio Padre>> manca in Marco e «vostro Padre>> compare soltanto proprio in Mc. I I ,2 5, un versetto che nella forma ricorda fortemente Matteo. Anche in Q è raro trovare queste due espressioni («mio Padre>> in Mt. I 1 ,27; eventualmente in Le. 22,29; «vostro Padre>> in Mt. 5,48; 6,3 2; diffìcil-

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mente i n Le. 1 2,3 2). Luca e soprattutto Matteo hanno l e due espres­ sioni vicine, ma senza confonderle. Tuttavia Gesù ha invocato Dio in primo luogo come proprio padre ( Mc. 14,36); che insegni ai discepoli a invocare, seguendolo, Dio quale loro padre è miracolo e dono. Di conseguenza si parla solo con molte esitazioni di uomini quali figli o prole di Dio. Fuori di Paolo e Giovanni si sostiene senza eccezioni che la figliolanza di Dio è un dono che verrà fatto all'uomo solo al momento del giudizio finale affinché abbia vita eterna (cf. Os. 2, 1 cita­ to in Rom. 9,26 s.; Iub. 1 ,24-28). Per l'Apocalisse il credente sarà solo un giorno (2 1 ,7) ciò che il Cristo esaltato è già ora: Figlio di Dio (2, 1 8). Il Sal. 2 che tratta del Figlio di Dio si avvererà allora per lui come si è già avverato ora per Cristo (Apoc. 2,26- 28). I primi tre vangeli par­ lano in termini simili della figliolanza di Dio. Soltanto nel caso del detto di Mt. 5,45 sull'amore del nemico, che probabilmente in origine va inteso nel medesimo significato (Le. 6,3 5), si pensa forse che questo miracolo si verifichi già quando un uomo cresce in totale ubbidienza e diventa simile a Dio nel proprio operare (v. a 5,4 5 ) . Questo è l'unico passo dei sinottici in cui compaiano simultaneamente i termine «pa­ dre» e «figli» (negli altri casi si parla sempre di Dio e Gesù: Mc. 1 3,32; Mt. 1 1 ,27 [v. ad loc.] e parr.). A Matteo piace aggiungere al nome di Padre la frase «in cielo>> per ricordare in questa maniera l'aspetto mi­ racoloso di questo appellativo che in Marco, in Q e nel materiale pro­ prio di Luca viene espresso con l'uso raro del nome di Padre (cf. a Mt. 6,9 ) . L'alterità della figliolanza divina di Gesù viene sottolineata da Matteo già in 1 , 1 8-2 5 (cf. 2, 1 5) e poi anche in 1 4,3 3; I 6, 1 6 (cf. 4,3 e 1 I , 2 7 = Q). Gesù e i suoi discepoli stanno sempre, fino a Matteo compre­ so, sul terreno della tradizione dell'Antico Testamento nel quale pro­ prio la consapevolezza che il patto è un immeritato dono della grazia fa passare in secondo piano la denominazione di padre che nei popoli vicini descriveva una sorta di ovvia parentela tra dio e uomo dovuta alla creazione. Come Isaia e Geremia essi vi vedono il miracolo della misericordia e del perdono di Dio. Per le medesime ragioni Giovanni distingue i «figli>> di Dio ( Gv. 1, I 2) dall'unico «figlio>> e Paolo spiega chiaramente che diventiamo figli di Dio solo credendo in Cristo e par­ tecipando del suo Spirito (Gal. 4,4-7; Rom. 8,J . I 4- I 7). Così anche in Mt. S ,9 si intende evidentemente il miracolo della comunione con Dio che verrà donato a chi si adopera per la pace nel giudizio finale con l'autorevole sentenza divina («saranno chiamati>>!) che li trasformerà.

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10. Nel giudaismo del tempo di Gesù è convincimento diffuso che i perseguitati siano i protetti di Dio. Lo sanno i Salmi che parlano della sofferenza del giusto (Sal. 22; anche 3 4,20; ancora più chiaramente Sap. 2, 1 o-2o; cf. a Mt. 27,43 ) . Passi come I Pt. 3, 1 4, dove si parla della sofferenza «a motivo della giustizia», e 4, 1 3 s., dove compaiono i termini «salvezza», «insultare», «rallegrarsi», giubilare» (Mt. 5 , 1 1 s.), mostrano che una sentenza come Mt. 5 , 1 0 o 5 , I I s. era nota in forme diverse. La mancanza dell'articolo determinativo davanti alla parola « giustizia» è del tutto normale in greco, così che traducendo si può legittimamente mettere anche l'articolo. La promessa del regno di Dio chiude l'intera serie come l'aveva aperta in 5 , 3 . Così in tutti e otto i macarismi si sussegue il sì di Dio a coloro che dipendono da lui e lui attendono, quel sì che nell'autorevole parola di Gesù diventa già ora realtà sebbene il mantenimento visibile della promessa competa solo a Dio e diventerà vero soltanto alla venuta del suo regno. 1 1 - 1 .1. L'ultima e di gran lunga più diffusa promessa è un'attualiz­ zazione più tarda mediante la quale la comunità constata dove la paro­ la incoraggiante di Gesù diventa realtà: appunto nella situazione diffi­ cile nella quale essa viene a trovarsi a causa dei suoi persecutori. Con la formulazione in seconda persona si prepara già la transizione ai vv . I J - I 6. In Matteo si rispecchia ancora una situazione nella quale i di­ scepoli di Gesù vengono attaccati soprattutto con calunnie. Per il giu­ deo la calunnia è un atto estremamente grave; i rabbi la classificano con l'idolatria, la fornicazione e lo spargimento di sangue ritenendola un atto altrettanto malvagio. La vittima della calunnia perde il suo po­ sto nella comunità e quindi, date le circostanze di allora, quasi la pos­ sibilità di vivere. Anche qui non si fa della retorica: non si tratta di un martirio che si potrebbe abbellire con leggende. Ancora una volta qui non vengono esaltati i forti che difendono eroicamente la propria fede tra l'ammirazione generale, bensì i calunniati, le oscure vittime. In ve­ rità si aggiunge, per prudenza, che ciò vale solo nel caso che la diffa­ mazione non sia vera. Si trova la medesima limitazione in I Pt. 2, 1 9 s.; 4, 1 5 s. (v. anche sopra, al v. I o ) , una cautela giustificata dalle cattive esperienze della comunità con truffatori operanti sotto la copertura della fede cristiana (cf. a 7, I 5 ss.). Ciò che è già implicito nel «salve» iniziale viene reso maggiormente esplicito con i verbi «rallegrarsi» e « giubilare», venendo in questo modo sottratto a una sfera meramen­ te religiosa. Diventa chiaro quanto concretamente l'ascolto della pro-

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messa di Gesù voglia permeare tutta quanta la vita in tutti i suoi aspet­ ti. Anche in questa beatitudine non si tratta solamente di un qualche angolo dell'anima riservato alla religione, ma della totalità del cuore (cf. al v. 8). Esso dovrà vivere della parola di Gesù e tutte le sue mani­ festazioni dovranno rifletterne lo splendore non solo nel senso di un modesto considerarsi soddisfatti perché spesso, come si sa, c'è più fe­ licità in una capanna che in una reggia, ma nel senso di una speranza chiara e precisa. Alla base di tutto ciò c'è infatti che la vita umana vie­ ne orientata dalla parola di Gesù verso il futuro di Dio. Per l'idea del premio, del quale si parla senza reticenza, cf. a Mt. 20, 1 - 1 6 e Mc. 9,4 1 . Il paragone con i l destino dei profeti non vuoi dire che il detto è diret­ to soltanto agli apostoli quale gruppo distinto dai normali discepoli, ma viceversa che ogni discepolo di Gesù per il quale valgono i vv. 1 3 1 6, è un profeta di Dio. Gl. 3 , 1 s.; Ger.. 3 1 ,34; /s. 54, 1 3 ( = Gv. 6,4 5) hanno già predetto ciò per l'età finale. Ciò che in Num. I 1 ,29 era solo un pio desiderio, cioè che nel popolo di Dio tutti fossero profeti, si è ora compiuto (cf. excursus su profeti, savi, ecc., a 7, 1 3 -23). Il loro è il destino violento dei profeti. Che il premio sia già pronto «in cielo» si­ gnifica che Dio lo ha già stabilito con assoluta certezza (4 Esd. 7,8 3 ; 1 3, 56; cf. Hen. aeth. Io8, I o). Le particolarità dei macarismi di Gesù sono diventate visibili già dal punto di vista della forma (v. excursus a 5,3 - 1 2 [1 e 4]). Risulta singo­ lare la mancanza di qualsiasi legame con l'osservanza della legge in senso farisaico o del culto in senso sadochita. Ciò richiama alla mente sentenze simili della letteratura sapienziale, a differenza delle quali, tuttavia, le beatitudini toccano ripetutamente temi che hanno un ruo­ lo notevole nelle attese escatologiche d'Israele. Infatti anche gli unici paralleli formali si sono riscontrati nell'oracolo di salvezza riferito al tempo finale di Dio (v. sopra, Hen. aeth. 5 8,2). Differentemente da questo passo, tuttavia, la salvezza che Gesù assicura non è soltanto fu­ tura, ma è al contempo una salvezza presente. Certo colui che pronun­ cia queste parole non ruba a Dio il suo posto: l'opera propria di Dio porterà regno, conforto, eredità, sazietà. Ma con l'autorità di Dio Ge­ sù promette già ora a colui che lo può ascoltare e far diventare la sua parola efficace ciò che un giorno verrà. Negli originari macarismi di Gesù non viene lodato né un particolare atteggiamento religioso, ad esempio la pia rassegnazione, né una particolare classe sociale in bloc-

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co, cioè non si trasfigura quindi semplicemente la povertà o si promet­ te al proletariato la vittoria. Tutto dipende dall'evento dell'ascolto del saluto di Gesù. Per il saluto di Gesù non diventano felici semplice­ mente coloro che cercano Dio, ma certamente coloro che hanno biso­ gno di Dio e cui viene concesso di ascoltare quella parola. Le attese riguardanti la venuta del messia si adempiono in maniera del tutto inaspettata. Gesù non consegna semplicemente già nelle mani di colo­ ro che attendono il contenuto della promessa; egli loda l'attesa di Dio che lascia Dio essere Dio e si aspetta perciò che il concreto compi­ mento venga dalla sua azione futura. Ma Gesù è così incrollabilmente certo della venuta di questo Dio da .c hiamare uomini all'ascolto affin­ ché essi vengano inclusi già ora nella sua propria certezza di questo Dio che viene e divengano così salvi. Tuttavia chi non può udire in ciò il saluto di Dio non può vedere in ciò altro che l'illusione di un fanati­ co. Con grande libertà Gesù lascia tuttavia imprecisato se coloro che egli ha chiamati siano poveri interiormente o esteriormente, consape­ volmente o inconsapevolmente, meritatamente o immeritatamente, se accettino o rifiutino il loro stato. Ciò dovrà essere precisato più tardi in maniera diversa. Già l'accoglimento in Q ha sottolineato l'impor­ tanza del ravvedimento che avviene mediante l'ascolto, mentre Luca sottolinea viceversa con l'inserimento di «ora» che la parola è diretta a persone che concretamente sono povere, patiscono la fame e versano lacrime. Mediante aggiunte ai primi tre macarismi e con altre cinque beatitudini Matteo ha messo in maggior risalto l'atteggiamento inte­ riore e gli atti dell'uomo che ne derivano. Egli ha così ribadito che la parola di Gesù vuole essere udita, entrare nell'uomo e improntare tut­ ta la sua intera esistenza. Sebbene esteriormente egli abbia introdotto maggiori cambiamenti, tuttavia Matteo è rimasto probabilmente più vicino di Luca alla proclamazione di Gesù non fissata rigidamente, ma ancora completamente fluttuante (v. sopra, al v. J, seconda sezione). Il discepolato, s, I J- 1 6 1 3 Vo i siete i l sale della terra. Ma se il sale diventa sciapo, con che lo s i sale­ rà? Non serve più a niente se non a essere gettato via e calpestato dalla gen­ te. 14 Voi siete la luce del mondo. Una città che è posta in cima a un monte non può restare nascosta. 1 5 Neanche si accende una lucerna e la si mette sotto il moggio, ma la si pone sul lucerniere ed essa fa luce a tutti quelli che

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sono in casa. 1 6 Allo stesso modo la vostra luce deve risplendere davanti agli uomini, così che vedano le vostre buone opere e lodino il Padre vostro in cielo.

Tanto il detto del sale quanto quello del lucerniere sono tramandati anche altrove in forma diversa: il primo in Mc. 9, 5 0 (v. ad loc. ) e Le. 1 4,34 s., il secondo in Mc. 4,2 1 (v. Mc., p. 8o) e Le. 8, 16; 1 1,33. Il me­ desimo detto è stato dunque inserito in posti diversi. In origine le me­ tafore, come si è detto nel commento a Marco, avrebbero dovuto rife­ rirsi alla proclamazione di Gesù, anzi forse allo stesso Gesù. Si può osservare spesso che simili parole furono poi riferite volentieri ai di­ scepoli (v. a 1 6,23). Ciò è vero già per Mc. 9, 5 0 («abbiate sale in voi»), ma anche il detto ancora più affine di Le. 1 4,3 4 s. secondo il v. 3 3 va riferito ai discepoli. Matteo rende ciò quanto mai chiaro mettendo in­ sieme i detti del sale e del lucerniere e riferendoli entrambi diretta­ mente ai discepoli mediante una breve introduzione a ciascun detto: «Voi siete il sale della terra ... Voi siete la luce del mondo ... » . Quanto sia naturale questa associazione è indicato dallo scrittore romano che dichiara che nulla è più necessario del sale e del sole e dalle figure del sale e della luce usate in Israele per descrivere la legge. Inoltre in Mc. 9,49 s. fuoco e sale sono già uniti. Formalmente Mt. 5 , 1 3 è più vicino a Le. 1 4,34 s.: entrambi contengono, rispetto a Mc. 9, 5 0, l'espressione «diventa sciapo» invece di «diventa insipido», il che forse va ricondot­ to a una imprecisa traduzione dell'espressione aramaica, la forma pas­ siva «essere salato/insaporito», e soprattutto un ampliamento che par­ la dell'eliminazione del sale divenuto privo della sua forza. Al detto del lucerniere fu associato il detto della città in cima a un monte. Ciò avvenne probabilmente già prima di Matteo perché altrimenti que­ st'ultimo detto difficilmente avrebbe preceduto quello, interrompen­ do il rapporto tra luce e lucerniere. Su di un papiro e in Ev. Thom. 3 2 questo detto appare con l e aggiunte che s i tratta d i una città ben for­ tificata e che pertanto non può cadere. Ciò potrebbe suggerire che in origine questa metafora si ricollegasse un tempo all'attesa escatologica dei profeti secondo cui il monte di Sion «starà stabile» e sarà più alto di tutti i monti, da lui uscirà la legge e tutti i popoli accorreranno a es­ so perché la gloria di Dio servirà da luce e fuoco (/s. 2,2 5 ; 4, 5 s.; 6o). Sarebbe poi stata trasferita alla comunità di Gesù che è fondata soli­ damente e non cadrà (cf. Mt. 1 6, 1 8). Tuttavia in tutte e tre le varianti si parla di una (non della) città su di un (non sul) monte. L'associa-

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5,1 3-16. 11 discepolato

zione del detto della città e del detto del lucerniere anche nel Vangelo di Tommaso potrebbe confermare l'ipotesi di un collegamento pre­ matteano dei due detti; ma naturalmente potrebbe anche essere vice­ versa un ulteriore sviluppo dei due detti di Matteo. È difficile risalire alla forma originale del detto del lucerniere. Matteo parla solo di mog­ gio, Mc. 4,2 1 ha l'ampliamento secondario (v. ad loc. )' «moggio o ... letto» che in Le. 8, r 6 diventa «vaso o ... letto», in Le. I 1 ,3 3 «nascondi­ glio [cf. Le. 8,I 6: «nascondere»] e moggio». Stranamente, quindi, Le. I r ,3 3 è ancora più vicino alla forma marciana del parallelo diretto (Le. 8 , I 6). Inoltre le due versioni di Luca coincidono all'inizio con «nessu­ no prende un lume e ... » e alla fine con «così che coloro che entrano vedano la luce {lo splendore)». Questa conclusione richiama la frase finale di Mt. 5 , 1 6 mentre 5, I 5 ha l'altra versione: «e illumina tutti quel­ li che sono in casa>). Soltanto Mt. 5 , I 5 contiene il tema dell'accensione del lume. Matteo intende dunque: non si accende un lume per rico­ prirlo subito con il moggio, che si usa per spegnere senza fare fumo. Non si può decidere se questa sia la forma più antica o già una studia­ ta evoluzione. Forse la forma primitiva recitava più o meno così: «Non si mette un lume (oppure: non si accende un lume e lo si mette) sotto il moggio, ma sul lucerniere». Questa forma fu poi chiarita da un lato con il commento che il lume farebbe luce in tutta la casa o per quelli che entrano, dall'altro con l'immagine del nascondere. Per con­ tro, il sommario che riprende anche la parola «luce» dali 'introduzione matteana del v. r 4 a è sicuramente opera di Matteo che mostra così come interpreti le metafore. 1 3- 1 6. Terra (v. 1 3) e mondo (v. I 5 ) indicano dunque in Matteo la totalità degli uomini (v. 16). Ciò vale esattamente anche per l'Antico Testamento per quanto riguarda la «terra» (Gen. 1 1 , 1 ; Mt. I 0,34; Le. I 2,49) mentre la comunità di lingua greca usa generalmente al suo posto «mondo» (così anche Sap. 6, 2 4; I o, I; I4,6; Mc. I4,9; Mt. I 3,3 8; I 8,7; 1 Cor. 1 ,27 s.). Altrettanto chiaro è che secondo Matteo i disce­ poli sono, con le loro buone opere, luce (e sale); ma lo sono in modo tale che queste buone opere non mettono assolutamente in evidenza se stessi, ma il Padre loro in cielo (v. 1 6). Dopo aver sottolineato tre volte l'azione dei discepoli (voi, vostra, vostre) sulla terra, nel mondo e verso gli uomini il movimento di ritorno non porta più dagli uomini ai discepoli, ma al «Padre in cielo». Forse nella struttura si può vedere

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un parallelo voluto da Matteo con I 6, I 7- I 9. Alla beatitudine già tra­ mandata qui, ma nella quale solo Matteo inserisce l'allusione che i di­ scepoli sono profeti (vv. I I s.), seguono come lì la parola che conferi­ sce la loro nuova natura indicata con una metafora («voi siete... » / «tu sei ... ») e il loro nuovo compito (vv. I 3 - 1 5 / 1 6). L'uso tradizionale delle immagini del sale e della luce per significare la legge e il patto di Dio (v. ai vv. I 3 e 14) interpreta quindi il loro compito nel senso che essi, in quanto profeti di Dio e discepoli di Gesù, devono annunciare al mondo la legge che il loro maestro ha spiegato in maniera nuova e vi­ vere essi stessi secondo essa (cf. retrospettiva [3]). Al contempo (v. 1 3 ) si intravede anche il contrasto tra ciò che è piccolo e modesto e il suo grande effetto. Che cosa è mai il pizzico di sale al confronto di tutto il ·resto, della farina e degli altri ingredienti? Che cosa sono mai i «voi>> (in greco il pronome è accentuato con forza), cioè i poveri, gli afflitti, gli affamati, coloro che attendono Dio rispetto a tutto quanto il mon­ do ?! Eppure già l'introduzione allusiva parla dell'importanza mondia­ le di questo sale, qualunque sia l'idea che sta a monte dell'immagine: il paragone rabbinico della legge con il sale, l'importanza del sale per la conclusione del patto di Dio con il suo popolo (Lev. 2, I J; Num. 1 8, I9; 2 Cron. 1 3 ,5; cf. Atti I ,4 dove si dice letteralmente che il Risorto avrebbe «preso sale» insieme con i suoi discepoli), per la purificazione dei sacrifici (Es. 30,3 5; Ez. 1 6, 4; 43,24) e di ogni cosa andata a male e guasta (2 Re 2,20 ss.) oppure semplicemente il pensiero che il cibo senza sale è quasi immangiabile ( Giob. 6,6). Che in questo modo si .esprima l'alterità dei messaggeri di Gesù rispetto al mondo, cioè non si pensi a una influenza esercitata gradualmente sul mondo, bensì a una testimonianza sotto persecuzione è giusto anche se l'immagine del sale non fosse ripresa direttamente dall'offerta rituale di sale (Mc. 9, 49 !). Forse il detto del sale si differenzia per questo aspetto da quello della luce che sottolinea maggiormente l'attiva forza irradiante, ma ciò resta incerto. Si è voluta privare della sua carica esplosiva l'espressione paradossale del sale sciapo o traducendo «con che lo [== il mondo] si salerà?», una traduzione totalmente impossibile per Mc. 9, 50 e Le. I 4, 3 4 e quasi impossibile per Mt. 5 , I 3 perché sia prima sia dopo si parla solo del sale, oppure facendo riferimento alle impurità presenti nel sale palestinese che rimangono quando il sale è sciolto dall'umidità o a lastre di sale che i fornai usavano e poi gettavano via quando si era­ no bruciate troppo. Un'operazione del genere è altrettanto insensata

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dell'appiattimento del detto della trave nell'occhio (v. a 7,3 - 5 ) o del cammello che deve passare attraverso una cruna (v. a Mc. I 0,2 5 ; altre immagini simili in Mt. 6,3; 8,22). Quando un rabbi a Rqma ridicolizza la domanda capziosa di che cosa si possa usare per salare il sale sciapo rispondendo: «Con la placenta di una mula che ha appena partorito» (giacché questo animale è sterile) ciò mostra soltanto quanto siano ri­ . sultate efficaci proprio le ardite immagini di Gesù (cf. a 7,3) . È possi­ bile che una volta la parola di Gesù abbia attaccato Israele chiamando­ lo sale diventato insipido e che davanti a questo giudizio il rabbi sot­ tolinei come Israele non possa perdere la sua posizione privilegiata più di quanto il sale possa perdere la sua sapidità. Allora anche le pa­ role del lume e della città hanno esortato una volta Israele a essere ve­ ramente ciò che pretende di essere: luce profetica delle nazioni e città di Sion che è superiore al mondo e lo attira a sé. Quando il sale va a fi­ nire sotto i piedi degli uomini e viene calpestato si ha la lampante di­ mostrazione della sua totale inutilità. Luca vuole esprimere il medesi­ mo concetto quando dice che il sale sciapo non serve nemmeno per fare concime. Già l'osservazione che nell'Antico Testamento Dio (Sal. I 8 ,29; Mich. 7,8; /s. 6o, 1 -3), nel pensiero rabbinico Israele, la legge o il tempio, ma anche alcuni grandi sapienti (cf. Rom. 2, I 9 ), in Matteo Ge­ sù stesso (4, 1 6) siano luce e lucerna fa capire chiaramente che non i di­ scepoli illumineranno, ma il Padre in cielo attraverso loro (v. I 4). Nella medesima direzione indica /s. 42,6 dove il servo di Dio appare quale alleanza del popolo e luce delle nazioni. Se dietro al detto della città in cima a un monte ci fosse la speranza profetica del Sion escato­ logico (v. sopra) anche questa parola sottolineerebbe la presenza di Dio. È stupido accendere una lucerna e rimetterla subito sotto il mog­ gio, dunque spegnerla (v. 1 5). La lucerna esiste proprio per illuminare «tutti quelli che sono in casa», casa che in Palestina è di regola un mo­ nolocale. Ancora una volta si sottolinea che i discepoli devono rivol­ gersi «a tutti>>. Se il lucerniere denota, nel contesto delle parabole di Gesù (Mc. 4,2 I = Le. 8, I 6), la proclamazione di Gesù, nel contesto della lode di Gesù e del detto sul segno di Giona (Le. 1 I ,J J ) Gesù stesso (o nel contesto del v. 34 la luce interiore dell'uomo ?), in Matteo la situazione non è affatto diversa, sebbene egli riferisca il lucerniere ai discepoli. Per Matteo questi sono in un certo senso trasparenti e la­ sciano risplendere colui che sta sopra di loro e dona tutto ciò che essi sono. Questo significato è del tutto diverso dal corrente modo di dire

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derivato dalla nostra immagine per il quale uno non deve mettere la propria luce sotto il moggio. Non l'uomo, ma solo il «Padre in cielo» (cf. al v . 9) che gli sta dietro diventa visibile se le loro opere sono vera­ mente opere buone e non opere cattive, che mettono in evidenza solo che le compie (v. a 6, 1 ss.) (v. 1 6). Ma anche ciò non è ancora suffi­ ciente: queste opere devono essere fatte nell'orizzonte degli «uomini>>, non nel chiuso di una confraternita, per invitare all'incontro con Dio con tutta l'apertura universale di Gesù. .

Così i detti di salvezza, i macarismi che hanno sottolineato con tan­ ta forza la povertà e la dipendenza da Dio di coloro cui Gesù si rivol­ ge, sono ripresi, ma allo stesso tempo protetti da un equivoco. Il disce­ polo di Gesù non deve proprio ritirarsi sempre nel suo guscio, sguaz­ zando beato nei suoi complessi di inferiorità, e lasciare al suo corso il mondo presuntuoso. Anche se è vero che la schiera dei discepoli non è che un pugno di sale vicino ·a una montagna di farina, pure essa è chiamata a far penetrare in tutto il mondo, con le proprie opere, che sono ribadite con insistenza, il suo Dio che ora è, lui sì, forte e ricco e potente. Entrambi gli aspetti sono veri. Da una parte Gesù dice ai di­ scepoli in faccia: «Voi siete ... >>. Ciò li differenzia dal popolo dell'Anti­ co Testamento al quale fu detto: «Mi diverrete un sacerdozio regale e una tribù santa». Dall'altra ciò sfocia nell'esortazione a esserlo anche davanti a tutto il mondo, un invito che manca già nel Vangelo di Tommaso e senza il quale questa assicurazione potrebbe portare alla sicurezza di sé. Così, in quanto schiera di ambasciatori incaricati da çiesù, essi sono «chiesa per il mondo»: ma chiesa che mantiene con­ torni netti e non diventa in alcuna maniera mondo essa stessa. Gesù adempimento della legge, 5,1 7-2.0 I 7 No n pen sate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire, ma per adempiere. 18 Poiché, amen, vi dico: finché cie­ lo e terra non saranno passati non passerà neppure uno iota o un apice del­ la legge finché ogni cosa non sia accaduta. 19 Chi dunque sospenderà uno solo di questi minimi comandamenti e insegnerà così alla gente, sarà chia­ mato minimo nel regno dei cieli. Ma chi lo metterà in pratica e lo insegnerà sarà chiamato grande nel regno dei cieli. 20 Perché vi dico: se la vostra giustizia non è molto maggiore di quella degli scribi e dei farisei non entre­ rete nel regno dei cieli. -

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Il detto sulla incrollabilità della legge, incluso ogni iota e apice, si ritrova sostanzialmente simile in Le. I 6, I 7 («è più facile che passino cielo e terra che un solo apice della legge cada»). Così parlava una co­ munità rigorosamente giudeocristiana che voleva mantenere nella forma più netta il legame assoluto con la legge, certamente in contra­ sto con una visione più liberale, del tipo di quella che venne difesa, ad esempio, da Stefano (cf. Atti 7,48 ss.; 8,1; H. Conzelmann, Le origini del cristianesimo, 8o ss.) e più tardi anche da Paolo (Gal. 2,2-6. 1 I - I 6; Atti 1 5 ). La formulazione «amen, vi dico ... non succederà .mai ... finché ... » è tipica di sentenze riguardanti il tempo finale e si ripete più volte (cf. Mc. I J,JO; 14,2 5 ; Mt. 10,23; h26; Gv. 1 3,3 8; Mc. 9, I ) . «Amen» in inizio di frase proviene probabilmente dall'uso linguistico giudeo-el­ lenistico, come sarebbe stato certamente possibile anche per Gesù stesso giacché in Palestina il greco era molto diffuso. Tuttavia amen si trova soltanto nelle parole di Gesù e un unico passo, per di più dub­ bio (Test. Abr. A 8 ) , potrebbe esserne stato influenzato. Altrove la co­ munità potrebbe aver aggiun�o più tardi «amen» per esprimere, come in Ger. 28,6, che Gesù ha parlato in perfetta sintonia con la volontà divina e ascoltando Dio. Probabilmente il nostro detto si trovava dap­ prima alla fine di un discorso escatologico del tipo di Mc. I 3,30 s. ed era formulato secondo il medesimo schema: «Amen, vi dico: Non pas­ serà né uno iota né un apice della legge finché (tutto) ciò accada». La forma in Le. I 6, I 7 (che dipende parimenti da Mc. I J,JO s.) accolse il detto non appena fu tramandato da solo, svincolato dal contesto del discorso escatologico. Non potendosi allora capire più la frase «finché ogni cosa non sarà accaduta», sembrò adatta la breve frase relativa al «passare di cielo e terra» contenuta in Mc. I 3,3 1 . Così la formulazione di Le. I 6, 1 7 ha accresciuto maggiormente la validità della legge. Q, che anche altrove tende a mitigare la critica di Gesù alla legge (Le. I I , 42 fine), accolse la sentenza più o meno i n questa forma. Matteo, che parimenti non collega più il detto a un discorso escatologico, conosce tuttavia ancora la conclusione originaria e così lo deve reinterpretare. Effettivamente la legge vale fino all'ultima virgola, ma viene adempiu­ ta veramente soltanto da Gesù e dalla sua comunità (v. sotto). A que­ sti detti se ne aggiunge un altro di tenore simile. La minaccia che colui che viola «il minimo» comandamento «sarà chiamato minimo nel re­ gno dei cieli» è probabilmente formulata così solo per amor di paral­ lelismo, giacché in realtà non si pensa affatto a un angolo, per quanto

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piccolo, nel regno dei cieli, ma effettivamente all'esclusione da esso. È tipico di queste minacce di giudizio formulare la pena con parole il più possibile uguali a quelle della mancanza commessa (cf. I Cor. 3, 1 7). Queste minacce vanno forse attribuite a profeti protocristiani (v. excursus a 7, 1 3 -23 [2]) che con la loro predizione dell'imminente giu­ dizio stabiliscono il diritto richiesto dallo Spirito di Dio per la sua co­ munità usando per esso una forma che compare già nelle ammonizio­ ni della letteratura sapienziale. Le lettere di Apoc. 2-3 mostrano una forma ampliata di una siffatta formazione del diritto. I Cor. 5, 5 e Atti 5, 5 . 1 o dimostrano che talvolta a una tale autorevole proclamazione del giudizio seguiva la morte del peccatore, come anche oggi si può notare qualcosa del genere in Africa. Ciò sembra indicare che la frase, non caratteristica del linguaggio matteano, fosse già unita al v. I 8 pri­ ma di Matteo. Come secondo il v. 1 8 non può cadere neanche uno io­ ta della legge, così per il v. I9 non può essere disatteso neanche il mi­ nimo dei comandamenti. Se si osserva che si parla soltanto di «sospen­ dere>>, cioè di dichiarare una norma non efficace in determinate situa­ zioni (cf. a I 6, 1 9), e non di «abolire>>, come al v. 1 7, ciò diventa ancora più verosimile. Lo schema che mette insieme una tesi principale con «amen, vi dico: ... )) e due proposizioni condizionali, generalmente an­ titetiche, si trova anche altrove in forma simile (prematteano in 6,2 s. 5 s. 1 6 s.; certamente composizione originale di Matteo in 1 2,3 I s.; I 8,J 5 · I O- I 4· I 5 - I 8). Se si volesse comunque prendere alla lettera la frase del posto mi­ nimo, si dovrebbe pensare a una graduatoria di questo tipo: le tra­ sgressioni relative ai comandamenti maggiori escludono dal regno dei cieli, quelle dei minori mettono agli ultimi posti. Questa concezione sarebbe del tutto estranea al giudaismo dei tempi di Gesù. Nel dibatti­ to della comunità sul problema della legge si trova un lontano paralle­ lo nel cosiddetto decreto apostolico (Atti I 5 ,20.28 s.) che richiede dai pagani solo l'osservanza delle norme principali della legge, natural­ mente senza pensare a una differenziazione dei posti nel regno dei cie­ li, per la quale neanche Mt. I 9,28 e 2o,2 I offrono un'esatta analogia. In questo caso il detto risalirebbe a una situazione tipica per la chiesa di Siria; infatti lo stesso Paolo non ha conosciuto questa regola, come si vede da Gal. 2,6. Inoltre Atti 2 I ,2 5 rivela che l'apostolo non era presente quando la decisione venne presa. Anche I Cor. 8, I ss.; I o, 2 3 ss.; Rom. I 4, I ss. mostrano come egli non l a conoscesse perché non la

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nomina mai sebbene parli proprio della questione della carne offerta agli idoli trattata in quella deliberazione. La frase introduttiva di questo dibattito è formulata dallo stesso Mat­ teo (v. I 7). Cambiando il detto tramandato in Le. I 2, 5 I , Matteo intro­ duce anche 10,34 con le medesime parole e in IO,J 5 aggiunge: «sono venuto per ... ». È concepibile che egli abbia usato in 5 , 1 7 un detto di Gesù che spiegava in via positiva soltanto che Gesù era venuto per portare a compimento la legge. Una simile parola avrebbe rappresen­ tato al tempo una pretesa inaudita, sconvolgente. Comunque stiano le cose, l'evangelista segue tuttavia una tendenza controcorrente e sotto­ linea la non abolizione. A priori egli pone quindi quanto segue in an­ titesi con una errata opinione che egli aveva evidentemente già incon­ trata. Anche la formulazione «legge e profeti» (qui «legge o profeti» a motivo della negazione che precede) è tipica dello stile matteano. Questa espressione non si trova nel giudaismo palestinese, ma è usata in quello di lingua greca (2 Maee. I 5,9; 4 Maeh. 1 8, 10) e qui forse vie­ ne naturale a Matteo a motivo di Le. 1 6, 1 6 (v. 1 8 = Le. I 6, 1 7). In 7, 1 2 e 22,40 Matteo ha ripetuto questa lòcuzione in una posizione di risalto dandole rilevanza teologica. Va tenuto presente (v. al v. 1 8) che Mat­ teo non parla solo della legge, come facevano i detti che gli sono stati tramandati, ma anche dei profeti. Infine è creazione di Matteo il v. 20, con la sua accentuazione della «giustizia» (v. al v. 6) e la sua distinzio­ ne da quella degli scribi e dei farisei, e anche il riferimento al regno dei cieli. Con questo versetto Matteo ricapitola il messaggio dei versetti precedenti e al contempo stila la soprascritta per le antitesi che segui­ ranno, anzi per tutto il discorso della montagna. 1 7-20. Il v. I 7 si oppone all'opinione che Gesù voglia «abolire», cioè abrogare, legge e profeti. Ma che significa «adempiere» ? Quando Matteo aggiunge, contro il v. 1 8 (e 1 9), ma come in 7, 1 2 e 22,40, i pro­ feti alla legge, ciò è concepibile soltanto perché (sebbene anche nel giudaismo i profeti siano considerati interpreti della legge) egli vede una linea storico-salvifica che parte da loro e arriva fino a Gesù. «Adempiere» contiene dunque anche la nota che è presente in I ,22 e in tutte le introduzioni alle citazioni dell'Antico Testamento: in Gesù è arrivato ciò che legge e profeti avevano solo annunciato. In lui è pre­ sente, qui e ora, la pienezza che in loro era indicata, ma non ancora raggiunta. Ma in che senso si deve intendere ciò ? Indubbiamente si

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deve pensare all'insegnamento di Gesù riferito in 5 ,2 I ss. nel quale di­ venta visibile che cosa volessero veramente dire legge e profeti. Ma per Matteo non esiste alcuna retta dottrina che non includa anche l'azione. Si rimprovera ai farisei di insegnare, ma di non fare ciò che insegnano (23,3) e si era appena detto, appunto, che i discepoli di Ge­ sù avrebbero dovuto ammaestrare il mondo facendo le buone opere ( 5 , I 6}. In questo senso secondo 3 , I 5 anche Gesù ha «compiuto» ogni giustizia con la propria azione, cioè sottoponendosi umilmente al battesimo di Giovanni. Soprattutto il v. I 9 mostra, a questo proposi­ to, come Matteo includa nel verbo «ade!Jlpiere» anche l'osservanza pratica della legge (v. ad loc. ). «Adempiere» nel senso di «fare» si tro­ va anche, sia pure raramente, nel giudaismo greco (ad es. in Filone; di Gal. 5, I 4). Per «amen» in principio di fras� v. sopra, al v. I 8. Già la formula corrente «finché passino cielo e terra» include una certa limitazione (v. I 8}: invece le parole di Gesù non passeranno neanche allora, ma continueranno a durare anche nel nuovo mondo del regno di Dio (24,3 5 = Mc. I J,J I ). Ma neanche ciò basta a risolvere l'enigma del v. I 8 . Come fa Matteo a dichiarare che non passerà nean­ che una sola lettera della legge, anzi nessuno dei segni diacritici appo­ sti dal pio copista, finché duri la terra, quando poi Gesù viola il sabato ( I 2,8), rifiuta il regolamento mosaico del divorzio ( 5 ,3 1 s.) e soprattut­ to abroga le norme relative ai cibi ( I 5 , 1 I ; v. ad loc. ) ? «Finché ogni co­ sa non sia accaduta» non può più significare per Matteo l'inizio degli avvenimenti escatologici perché in questo modo non si farebbe che ripetere l'inizio del versetto. Fatta eccezione per 24,34 = Mc. I 3,30, ovunque in Matteo «accadere» denota il verificarsi della promessa di­ vina nella vita di Gesù ( 1 ,22; 2 1 ,4; 26, 56) ed equivale sempre a nel regno dei cieli come Sal. 40 parla d i entrare nel tempio e dei comandamenti che devono essere osservati per poter stare nel luo­ go santo oppure come /s. 2 6, 2 parla della giustizia quale condizione per poter accedere alla città santa. Decisivo in questa sezione è che il messaggio di Gesù non viene frainteso come invito a non prendere troppo sul serio la legge, la vo­ lontà di Dio. La grandiosa ubbidienza dei farisei, che oltre a tutte le tasse donavano ancora, preciso al centesimo, un altro r oo/o del loro reddito; che si fecero massacrare senza alzare un dito pur di non per­ dere il dono divino del sabato; che patirono martiri crudeli per non abbandonare la loro Bibbia; che sapevano che la vita è vera vita umana solo quando Dio è più importante di tutto il resto: tutto ciò non viene assolutamente messo in ridicolo. L'ubbidienza non deve essere resa facile, Dio non deve diventare di poco conto. Dai discepoli di Gesù ci si aspetta di più, appunto quel discepolato più energico, luminoso, vi­ sibile da lontano di cui parlano i vv . 1 3 - r 6. Devono essere le «querce di giustizia» di cui parla fs. 6 r ,3 perché la giustizia di Dio è diventata in loro una forza e mediante loro si diffonde nel mondo. Invece che di giustizia Matteo e Paolo possono parlare anche di «amore». Per que­ sto è comunque necessario qualcosa di più di una nuova dottrina: esso diventa possibile soltanto attraverso l'opera propria di Dio, come fa capire già il parlare di giustizia di Dio o di legge scritta da Dio nel cuore (cf. al v. 22 ed excursus a Mc. 3 , r -6). Per Matteo quest'opera di Dio ha un nome: Gesù. Perciò l'evangelista non parla semplicemente di nuovo insegnamento di Gesù, ma di adempimento della legge. E con ciò Matteo vuoi dire che Gesù stesso fa ciò che insegna e che così facendo rende possibile per il discepolo di apprendere da lui a fare la volontà di Dio «affinché ogni cosa (che la legge vuole) avvenga» nella vita stessa di Gesù e partendo da lui in tutti coloro che egli include nel suo insegnamento e nella sua opera, nella sua sequela. LA NUOVA GIUSTIZIA,

5,2 1 -48

Se si considerano dapprima solo le antitesi si nota che le prime due si riferiscono a due dei dieci comandamenti (non uccidere - non com­ mettere adulterio) e li rendono più severi dichiarando che il coman­ damento sarebbe già violato quando si va in collera o si lancia uno

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Mt. 5,2 1 -48.

La nuova giustizia

sguardo lascivo. Nella quarta antitesi questo riferimento non è più co­ sì chiaro; tuttavia il divieto di giurare il falso potrebbe riferirsi all'abu­ so del nome di Dio, forse anche all'ingiunzione a non testimoniare il falso perché la sequenza «non uccidere - non commettere adulterio ­ non deporre il falso» ricorre anche in Mt. 1 9, 1 8 = Mc. 10, 1 9. Il coman­ damento dell'amore del prossimo corrisponderebbe anche alle ultime due antitesi (cf. R om. 1 3 , 9; Did. 2). L'ammonimento a non giurare mai il falso si trova anche, insieme con molti altri, in uno scritto giu­ deo-ellenistico (Focilide 1 6) e in autori greci. L'esortazione generica di Gesù riceve il suo senso pregnante solo alla luce della sentenza positiva sul «sì, sÌ» e «no, no» dei discepoli. Solo questo detto allude anche al rapporto interpersonale che è centrale per tutte le altre anti­ tesi, ma si trova, in una forma ancor più primitiva, cioè .senza il con­ trasto con l'Antico Testamento, già in Giac. 5,1 2 (v. sotto). Le cose stanno più o meno così anche per la quinta antitesi. Anche qui il breve appello a «non opporsi al malvagio» acquista significato soltanto gra­ zie agli esempi addotti. Anche questi si trovano insieme con l'ultima antitesi nel discorso della pianura di Le. 6,27-36 senza essere tuttavia formulati in contrapposizione con l'Antico Testamento. Ciò vale an­ che per il parallelo della terza antitesi in Le. r 6, r 8 Mentre le prime due antitesi rendono ancora più severi due dei dieci comandamenti, la terza, quinta e sesta antitesi abrogano norme dell'Antico Testamento (ma nessuno dei dieci comandamenti). Certo ciò è vero soltanto per la forma che presentano in Matteo. Nel caso del divorzio il contrasto era già anticipato in Mc. 1 0,2-1 2 = Mt. I 9,J- I 2 benché il logion di Q (Le. r 6, r 8) non lo contenesse. Nel caso dell'appello a non resistere il con­ trasto è fornito, in verità in maniera non del tutto pertinente, dal principio «occhio per occhio ... »; nel caso della terza tesi, invece, la fra­ se «odierai il tuo nemico» è una illazione possibile solo perché il co­ mandamento dell'Antico Testamento nomina quale oggetto dell'amo­ re solo il «prossimo>> . La quarta antitesi mantiene una posizione inter­ media: non è una antitesi diretta, ma abolisce la prassi invalsa di usare innocue formule di giuramento come quelle descritte. Inoltre è forse ispirata a uno dei dieci comandamenti. Che si può concludere sulla base di simili osservazioni ? La cosa più probabile è che furono formulate dapprima (da Gesù ?) la prima e la seconda antitesi. La seconda, che metteva in guardia dall'adulterio, venne più tardi ampliata con la terza antitesi al comandamento della .

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lettera di divorzio che sulla base di un detto di Gesù (Mc. 10,9) fu adat­ tata nella forma alla seconda, invero con una introduzione abbreviata («è detto inoltre»). Solo in questi tre casi si dichiara con una proposi­ zione introdotta da «chiunque» che già l'ira, lo sguardo lascivo o il ri­ pudio legale costituiscano omicidio, adulterio o motivo di adulterio. A queste si aggiunse una quarta antitesi nata dalla riformulazione di una nota parola di Gesù, così come è attestata dal v. 3 7 e da Giac. 5, 1 2, e forse unita sin dall'origine, come in quei passi, con una rinuncia to­ tale al giuramento (v. 34a) e non solo allo spergiuro. Infine Matteo (o la comunità prima di lui ?) ha collegato le quattro antitesi con le sen­ tenze sulla rinuncia alla resistenza e l'amore per il nemico; in questa operazione la quarta antitesi è servita da modello per l'agganciamento della quinta. La quarta antitesi rimanda alla prima con «inoltre» e il riferimento agli «antichi»: potrebbe essere un indizio che questa an­ titesi abbia costituito una sorta di conclusione precedentemente al­ l'unione con le sentenze del discorso della pianura. L'aggiunta delle ultime due antitesi potrebbe essere stata facilitata dalla vicinanza in Lev. 19, 1 2- 1 8 e 24, 1 4-22 della proibizione dello spergiuro e dell'odio ovvero del divieto di bestemmiare il nome di Dio e del principio «occhio per occhio, dente per dente». Conformemente alla conce­ zione di Matteo l'invito di Gesù ad amare i nemici viene a trovarsi alla fine, risultando così accentuato. Per quanto attiene alla sostanza, tutte le altre antitesi hanno una funzione preparatoria rispetto al coman­ damento finale e vanno a culminare in esso. Di certo in Q come in Le. 6,2 7 esso veniva immediatamente dopo le beatitudini (cf. i termini «odiare» in Le. 6,22.27 ovvero «perseguitare» in Mt. 5 , I o-1 2.44; «fi­ gli» in Mt. 5,9.45 e la prossimità di contenuto di M t. 5,7.9- 1 1 con il comandamento dell'amore per il nemico, che in verità è concludente solo se Matteo risale già a un ampliamento di Q nel quale fossero ac­ colti questi versetti). Il processo di aggregazione può essere seguito meglio che altrove nelle ultime due antitesi (vv. 3 8-48). In Le. 6,27-36 il detto della rinun­ cia alla ritorsione e quello dell'amore del nemico sono, entrambi in una forma molto diversa dalla matteana, inseriti uno nell'altro. Il se­ condo è al plurale nei vv. 27 s. e 3 2-36, il primo appare improvvisa­ mente nel suo corpo (vv. 29 s.) al singolare. Qui il v. 32 riprende inol­ tre chiaramente il v. 27. Ciò mostra che una volta i due detti circola­ vano separati pur trovandosi già insieme nel discorso della pianura di

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Q. Probabilmente il detto sulla ritorsione fu interpretato come espo­ sizione del detto sull'amore dei nemici e quindi inserito in esso. Mat­ teo riporta i due detti in successione presentandoli al contempo in forma antitetica. Nel v. 39 si può ancora vedere come ciò sia avvenuto in un secondo momento: l'introduzione di Matteo è composta alla 2 a pers. plur. come in tutte le antitesi: «Ma io vi dico ... »; il detto stesso ha invece la 2 a pers. sin g. La distanza tra le due formulazioni è superata con l'esortazione generica a «non resistere al malvagio» che non fa ca­ pire se sia diretta a un singolo individuo o a tutti. Per la terza antitesi il modello è stato offerto dal detto tramandato in Le. r 6, 1 8, ma il con­ tenuto è fornito dalla �sputa sulla prassi della lettera di ripudio (Mc. 1 0,4 = Mt. 1 9,7). Anche 1 Cor. presuppone un divieto del divorzio ri­ salente a Gesù, senza menzionare comunque la norma della lettera di ripudio che in quella situazione non era più attuale. Ancora una volta è difficile dire con sicurezza dove sia conservata la versione più antica di questo detto. L'aggiunta «salvo che in caso di fornicazione» risale a Matteo stesso o alla tradizione della sua comunità sia in Mt. 5 , 32 sia in 1 9,9. Invece l'espressione matteana «fa che con lei si commetta adul­ terio>> riflette la concezione giudaica. Poiché in 1 9,9 non offre varia­ zioni rispetto a Marco, qui Matteo dovrebbe aver ancora conosciuto una forma più antica del detto. Anche il logion che vieta di contrac­ cambiare la violenza (vv. 39-42) mostra in Matteo ancora la forma se­ mitica (v. al v. 40) mentre il parallelo lucano sembra essere un com­ pendio rispondente alla mentalità ellenistica. L'esempio della requisi­ zione militare (v. sotto, al v. 4 1 ) non è forse più sentito fuori della Pa­ lestina (e della Siria) e viene pertanto tralasciato da Luca, sebbene sia possibile che esso sia stato aggiunto (in Q ?) ai tempi della forte ten­ sione con Roma. Inoltre Matteo ha conservato meglio di Luca il carat­ tere esemplificativo delle istruzioni in parola (v. al v. 42) e anche il ri­ ferimento ai prestiti dovrebbe avere qui la sua sede originaria (v. al v. 42). Ora, poiché questo detto raro appare soltanto proprio in Mt. 5,42 e Le. 6, 34 s., ciò potrebbe forse indicare che anche Luca l'ha conosciu­ to inserito nel contesto del divieto di resistere perché egli mette in­ sieme (Le. 6, 34 . 3 5 b) questo divieto con il riferimento a «prestare>> do­ po aver riassunto ai vv. 32 s. e 3 5 il comandamento di amare i nemici. Il detto sull'amore per i nemici che è, insieme con la sua motivazione, particolarmente tipico di Gesù, è circolato in diverse versioni. Rom. 1 2, 1 4 combina «perseguitare» (Mt. 5,44) con «benedire/maledire» (Le.

Mt. 5,2 1 -48. La nuova giustizia

10 5

6,28). Un papiro conosce la forma: «Pregate per i vostri nemici>> che mischia Mt. 5,44a e 44b. La medesima frase appare in Did. I , J unita con l'inizio di Le. 6, 2 8 e in Giustino (inizio n sec.) insieme con parti della versione lucana e la frase «ma io vi dico)) della versione mattea­ na. È singolare come proprio le parole iniziali di Matteo e Luca che coincidono alla lettera, «amate i vostri nemici)), mancano in tutti gli altri detti, fatta eccezione per una nota marginale in 2 Clem. I J ,4· Nel­ la maggior parte dei casi si ricorda di pregare per i nemici e di amare coloro che ci odiano. Se si confrontano i due vangeli coincidono in una certa misura nel tenore solo alcuni elementi: l'appunto che anche altrove si trova che uno ama chi a sua volta l'ama, un qualche accenno al «premio)) e il rimando alla natura di Dio. In questo contesto Le. 6, 3 5 s. sottolinea la misericordia di Dio (cf. a Mt. 5,7); per contro Mt. 5, 4 5 ha già fatto prima riferimento a colui che fa risplendere il suo sole e cadere la sua pioggia «su cattivi e buoni)) (in quest'ordine anche in 22, I o; sicura aggiunta di Matteo). In entrambi i vangeli questo riferimen­ to alla benevolenza di Dio è strettamente unito con la promessa che i discepoli diverranno figli di Dio. Non si può decidere quale riferi­ mento sia più antico: se quello al creatore, più fortemente radicato nel pensiero sapienziale (Mt. 5 ,4 5 ), o quello al Dio che agisce nella sua grazia (Le. 6,3 5 s.). L'esortazione finale alla misericordia (Le. 6,36) si adatta bene alla continuazione in Q, «non giudicate ... , non condannate. .. )) (Le. 6,3 7) e poiché Matteo ha inserito anche in I 9,2 I l'esigenza della perfezione, il v. 48 potrebbe essere di sua mano. Anche il nome di Dio appare in entrambi nella forma tipica di ciascun evangelista: («l'Altissimo)) solo in Luca e nei LXX; «il vostro Padre celeste)) in Matteo). Dunque nei vv . 46-48 solo la struttura dell'argomentazione è, di fatto, consolidata mentre la formulazione resta ancora molto libera. Si può quindi dire soltanto che la versione più ampia di Luca, soprattutto la ripetizione del comandamento in Le. 6,3 5 a, rappresenta uno sviluppo posteriore. Mentre nelle antitesi precedenti il tenore originario sembrava essere piuttosto quello di Matteo, qui è sicuramente vero il contrario. Anche l'esempio del «salutare)) di Mt. 5,47 che manca in Luca appare estre­ mamente incolore al confronto dell'onnicomprensivo «amare)) (v. 46) mentre il «fare il bene)) di Le. 6,3 3 descrive concretamente l' «amare» e quindi è più pertinente. «Pubblicani)) e «pagani)) (vv . 46 s.) vanno be­ ne per un ambiente giudeocristiano ( I 8, I 7), ma Gesù non li ha mai

106

Mt. 5,2 r -48.

La nuova giustizia

idealizzati. Se il detto dovesse tuttavia risalire a Gesù ci si aspettereb­ be piuttosto «peccatori» (Le. 6,32 s.). Ma anche nel testo di Matteo è ancora possibile osservare il proces­ so di ulteriore sviluppo e di interpretazione dei logia di Gesù. La pri­ ma antitesi di Gesù si sarà fermata col v. 22a e ci si può perfino chie­ dere se il v. 21 b ne abbia fatto parte fin dal principio giacché è intro­ dotto da «chiunque... », come le aggiunte di 5,22b.c, e non da «chi ... >> come al v. 22a. Anche ai vv . 3 1 s. la seconda espressione dovrebbe ri­ salire alla formulazione di Q (Le. 1 6, 1 8), la prima alla libera resa di Matteo o del suo predecessore. Singolare è la gradazione ascendente che non è logica né nel caso del peccato né in quello della punizione giacché raka e «matto» significano più o meno lo stesso (v. sotto) men­ tre l'inferno è qualcosa di diverso dal tribunale del sinedrio. «Matto» potrebbe essere semplicemente la traduzione greca di raka; allora il detto con raka sarebbe stato aggiunto come illustrazione dell' «ira», mentre una mano più tarda l'avrebbe integrato con un detto con «mat­ to>> per avere l'opportunità di m enzionare la pena dell'inferno. Il v. 22c si differenzia dalle due proposizioni precedenti anche perché non parla più del «fratello» . Anche per quanto riguarda le pene «giudizio» al v. 22a significò sicuramente un tempo il giudizio definitivo di Dio. Oltre al riferimento al sinedrio (v. 22b) e all'inferno (v. 22c) con il te­ sto attuale si deve pensare per forza a un tribunale locale benché il ter­ mine impiegato non denoti mai un'autorità, ma significhi sempre o giudizio o pena. Tutti questi ampliamenti hanno un senso solo come polemica contro scribi occupati a spaccare un capello. Più che mai so­ no aggiunte inserite più tardi i vv. 23-26 con la funzione di norme ese­ cutive redatte alla 2 a pers. sin g. Già il fatto che qui non si dica che sia l'offerente ad essersi adirato con il fratello, ma viceversa che costui avrebbe qualcosa contro quello, mostra che questo invito al perdono appartiene a un contesto del tutto diverso. La questione è estrema­ mente importante per Matteo come si vede da 6, 1 4 s.; 1 8,2 1 ss. Perciò egli accoglie a questo punto una variante di questo detto. Resta incer­ to se il logion presupponga ancora l'esistenza del culto sacrificale, ri­ salendo dunque al tempo di Gesù o della comunità primitiva di Geru­ salemme, oppure no. La situazione descritta corrisponde effettivamen­ te più al tempo dell'Antico Testamento che a quello di Gesù, quando infatti solo il sacerdote porta il sacrificio all'altare. L'ultima esortazio­ ne è una variazione sul medesimo tema. Non è escluso che i due detti

Mt.

5,2 1 -48.

La nuova giustizia

1 07

siano stati già accoppiati prima di Matteo; infatti il verbo «liberarsi di» della versione lucana (Le. I 2, 5 8) è quasi lo stesso di «conciliarsi» nel primo detto (Mt. 5,24). Potrebbe quindi darsi che il secondo detto, in una versione ancora più vicina a Luca e probabilmente inteso alla lettera, fosse già unito con il precedente prima di essere ripreso da Matteo e di venire al contempo formulato in maniera ancora più gene­ rica. Probabilmente Gesù ha utilizzato un tale consiglio, che probabil­ mente fu espresso più volte, come parabola intesa a invitare gli uomini al ravvedimento in considerazione dell'imminente giudizio di Dio (co­ sì Le. 1 2, 5 8 s.). Matteo lo intende come esortazione alla conciliazione estragiudiziale in caso di lite. Nella descrizione del procedimento giu­ diziario (v. 2 5 ) i nomi delle cariche romane sono adattati all'ambiente palestinese («servo del tribunale»), viceversa nell'ultimo versetto viene nominata una moneta romana, mentre altrove il testo coincide, si fa per dire, alla lettera con Le. 1 2, 5 9. Mt. 5,2 5 che si differenzia notevol­ mente dal dettato di Le. 1 2, 5 8 si è aggregato dunque già più antica­ mente ed è stato poi ampliato solo da Matteo in base a Q? Tuttavia con queste aggiunte Matteo mostra che cosa significhi praticamente la parola di Gesù nella vita della comunità. Esse presuppongono pertan­ to anche una convivenza degli uomini simile a quella che si può trova­ re nella comunità di Gesù («fratello»: vv. 2 3 s. !). Parimenti nella se­ conda antitesi si aggiunge il detto dell'occhio cavato o della mano ta­ gliata in una variante diversa da 1 8,8 s. = Mc. 9,43-48. L'intervento re­ dazionale è segnalato già dal passaggio alla 2a pers. sing. (vv. 29 s.). Qui l'opposto di «inferno» non è più «vita»: ciò indica che Mc. 9,43 . 47 offre la forma più forte, certamente la più antica. La quarta antitesi (vv. 3 3-37) è particolarmente interessante perché Giac. 5 , 1 2 la conosce ancora in una forma che parlava solo di giuramenti e non di voti. Questa forma dovrebbe essere la più antica anche perché è anche quel­ la più affine alle citazioni del detto di Gesù che si trovano negli scrit­ tori ecclesiastici antichi. Poiché anche nel comandamento dell'Antico Testamento si tratta soltanto del giuramento il v. 3 3 b è sicuramente un ampliamento successivo; la prassi scribale ha trattato questo tema soprattutto sotto l'aspetto dei voti. Ma non si può certo trattare di questi giacché quando Gesù controbatte che sarebbe meglio non giu­ rare affatto, di certo non intende proibire i voti a Dio, bensì le formu­ le di giuramento usate in tutte le circostanze possibili. Dove invece, come in Mt. 23, 1 6-22 (v. ad loc. ) si parla di voti la preoccupazione è

1 08

.

Mt. s,2 I-26. Dell'omicidio

proprio quella contraria, cioè che i voti vengano effettivamente man­ tenuti. Tra le aggiunte rientrano quindi anche i vv. 34b.3 5 s. con le lo­ ro articolate esemplificazioni simili a Mt. 2 3 , 1 6-22; infatti essi nascono proprio da que�te discussioni che vogliono stabilire quali voti siano veramente promessi a Dio, dunque irrevocabili, e quali no. A ciò si aggiunge che unicamente in questa antitesi vengono citati passi della Scrittura a sostegno dell'argomentazione di ·Gesù che vengono ripro­ dotti esattamente secondo il testo dei LXX e persino Gerusalemme viene menzionata con la forma greca del nome. L'esposizione partico­ lareggiata origina quindi dal giudeocristianesimo di lingua greca. Ter­ ra e cielo quale formula di giuramento sono menzionati oltre che in fonti rabbini che anche, ad esempio, da Filone, Spec. Leg. 2, 5. Questi ampliamenti sono comunque illogici: davanti a una richiesta radicale di dire semplicemente sì o no non ha molto senso dimostrare che for­ mule di giuramento più innocue sono anch'esse comunque riportate al nome di Dio. L'ultimo versetto pensa poi addirittura anche a un di­ scorso rafforzato con un giuramento. Giac. 5 , 1 2 fa capire chiaramente come ogni sì debba essere e restare un sì e ogni no un no, mentre la formulazione matteana potrebbe essere fraintesa come un consiglio a pronunciare, invece di un giuramento, un doppio sì o un doppio no, come proponevano di fare anche alcuni rabbi. Infine anche l'intima­ zione diretta di Giac. 5 , 1 2, «non giurate» è più originaria di quella indiretta di Matteo («vi dico di non giurare affatto»). La minaccia del «giudizio>> per il bugiardo (Giac. 5, 1 2) costituisce un certo parallelo a Mt. 5,22a nella prima antitesi e conferma forse che anche lì ci si riferi­ va al giudizio di Dio. 1. Dell'omicidio, 5,2 1 -26 21 Avete udito che fu detto agli antichi: «Non uccidere»; ma chiunque uc­ cida sarà portato davanti al tribunale. 22 Ma io vi dico: Ognuno che si adi­ ri con suo fratello sarà sottoposto al giudizio; ma chi dica al fratello: Raca! .sarà portato davanti al sinedrio; ma chi gli dica: Matto ! sarà consegnato alle fiamme dell'inferno. 23 Ora se porti la tua offerta all'altare e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, 24 allora lascia là la tua offerta davanti all 'altare e va' via, riconciliati prima con tuo fratello e poi vieni e offri la tua offerta. 2 5 Mostrati subito compiacente con il tuo avversario finché sei ancora per strada con lui, affinché il tuo avversario non ti consegni al giudice e il giu-

Mt. 5J.1 I -2.6. Dell'omicidio

1 09

dice al servo del tribunale e tu venga gettato in carcere. 26 Amen, ti dico: uscirai finché non abbia pagato fino all'ultimo centesimo.

Tu non ne 11 Es. 20, 1 3 .

2 1-26. L'inizio del v. 21 potrebbe essere tradotto anche «che fu det­ to dagli antichi», ma la rara forma verbale usata per dire «fu detto» nel Nuovo Testamento introduce sempre un discorso di Dio, quasi esclu­ sivamente una citazione biblica. Gli «antichi» sono così la generazio­ ne del Sin ai alla quale fu data da Dio la legge mosaica. Che l'omicida venga consegnato al tribunale non è contenuto, in verità, nei dieci co­ mandamenti, ma è ripetuto spesso nella legge mosaica (Es. 2 1 , 1 2; Lev. 24, 1 7; Num. 3 5, 1 6 ss.; Deut. I 7, I 8 ss.; cf. Gen. 9,6). Il contenuto di quanto detto da Gesù nelle antitesi originarie non è affatto una novità assoluta nel giudaismo (cf. ancora Lev. I 9, I 8; Eccl. 7,9; Prov. 1 5 , 1 ; Sir. 1o,6; 28,7; Did. 3 ,2). L'affermazione rabbinica che chi odia il prossimo va catalogato tra gli assassini (Str.-Bill. sotto G) si avvicina molto al detto di Gesù. In effetti si tratta anche qui di un inasprimento della legge che vuole spiegare quale fosse l'intenzione più profonda del comandamento. Per contro inaudita è la formulazione «ma io» con un «io» molto accentuato (v. 22) che pone l'io di Gesù a fianco del nome di Dio sottinteso nell'espressione «fu detto)). Questa formulazione va ben oltre tutte le pretese messianiche solitamente immaginabili; in essa va inoltre osservata anche la differenza temporale tra «fu detto)) e « io dico)), un'asserzione che vale qui e ora e che risale sicuramente a Gesù essendo inaudita nel giudaismo, mentre nella comunità il contrasto di Gesù con la legge o viene attenuato o, in Paolo, viene motivato diver­ samente alla luce della croce, fino a scomparire infine del tutto dalla vista. Dalle parole di Gesù si viene a capire che la rivelazione di Dio non può mai essere semplicemente una raccolta di sentenze che po­ trebbero essere riversate nei paragrafi di un codice di diritto, conser­ v at e e utilizzate per tutti i tempi, bensì una esteriorizzazione divina che vuole sempre di nuovo ridiventare realtà. Nelle antitesi e in altre parole simili di Gesù diventa evidente come non sia più possibile tracciare un confine preciso tra il lecito e coloro che vi si attengono puntualmente da un lato e l'illecito e i trasgressori dei comandamenti dali' altro. Dove l'omicidio comincia con il cuore adirato non è più pos­ sibile trovarsi lo spazio libero all'interno del quale si rimane ancora perfettamente irreprensibili: qua serve un nuovo cuore creato da Dio (Ger. 3 1,33; cf. a Mc. 3,1 -6). Forse in Giac. 1 ,20 si è ancora conservata

I IO

Mt.

5,11-16. Dell'omicidio

un'eco del nostro logion: «L'ira dell'uomo non fa la giustizia di Dio» (cf. Mt. 5 ,20). La cosa decisiva è che ora lo sguardo sia completamente distolto dalla propria persona e dalla sua ambita irreprensibilità e si posi sull'altro al quale il nostro comportamento, anche il solo cuore irato, limita lo spazio vitale. Questo voltare le spalle alla propria giu­ stizia e guardare al prossimo da proteggere è tipico delle antitesi; è una svolta che traspare ancora perfino nelle aggiunte dell'evangelista. Il «giudizio» è a · giudizio definitivo di Dio (v. sopra). Non si può contestare tale lettura sostenendo che allora il termine significherebbe qualcosa di diverso dal v. 2 1 giacché nella condanna a morte eseguita dagli uomini secondo la legge di Mosè si compie il giudizio ultimo di Dio. Poiché nei libri di Mosè non si prende ancora in considerazione un giudizio dopo la morte, anche il giudizio divino non può che espri­ mersi in una forma immanente. Tuttavia non appena si aggiunse al detto il seguito con la menzione del sinedrio, cioè della corte suprema di Palestina, il primo «giudizio» non poté che essere inteso nel senso di «tribunale>> locale così da creare una successione ascendente di gradi di giudizio: tribunale locale, tribunale supremo del paese, tribu­ nale di Dio (v. sopra). In questo modo si ottenne una imitazione per­ fetta della dottrina farisaica che fissava tutti i singoli casi distinguen­ do con la massima precisione possibile le trasgressioni meno gravi da quelle più gravi e le rispettive pene. «Raca>> è probabilmente la resa inesatta di una espressione ebraica che significa «testa vuota, matto>>, benché la si sia fatta derivare anche da un termine greco e tradotta «fanfarone». La notevole differenza tra la minaccia dell'inferno riser­ vata all'ultimo caso e le due precedenti si potrebbe forse spiegare con il fatto che «matto» denota soprattutto l'empio (Sal. 14, 1 ; 94,8; fs. 3 2, 5 s.; Deut. 3 2,6; Ger. 5 ,2 1 ). Allora il testo direbbe che chi con i suoi in­ sulti disturba i rapporti umani dell'altro verrebbe consegnato al giudi­ ce umano e chi disturba i rapporti con Dio al giudice divino. A dire il vero una simile lettura renderebbe questa prassi anche ridicola: se si procedesse così crollerebbe tutto l'ordinamento giuridico; infatti dove potrebbero esserci sufficienti tribunali per condurre tutti questi pro­ cessi ? Per la questione dell'inferno v. a Mc. 9,47 e 48 (Mc. , pp. 1 62 s.). L'aggiunta delle parole seguen�i (v. 2 3 ) è dovuta alla necessità che la comunità di Matteo vivesse con le parole di Gesù e all'interesse dell'e­ vangelista a che la comunità non si limitasse a covare pensieri inauditi e radicalmente nuovi, ma li mettesse in pratica nella sua vita quotidia-

Mt. 5 , 2 1 -26.

Dell'omicidio

III

na, come la parola di Gesù voleva aiutarla a fare. Perciò bisognava che venisse aiutata a ritrovare continuamente il riferimento alle parole di Gesù, non limitandosi a scriverle in lettere d'oro sulle facciate delle chiese, quasi fossero alti ideali, ma vivendo concretamente con esse. Anteporre ciò che riguarda il prossimo a ciò che concerne il culto è una caratteristica di Matteo (9, I 3 ; I 2,7; 23,2 5 s.), che nella sua tenden­ za risale a Gesù stesso (Mc. 7, I 5 ). Questa anteposizione induce la co­ munità a scegliere la situazione del sacrificio che mette tale principio di precedenza in un risalto ancora maggiore di quanto non faccia Mc. I I ,2 5 con la scena della preghiera. Secondo la dottrina dei farisei un sacrificio può essere interrotto per motivi rituali. Si arriva anche a dire che persino il giorno del gran perdono non cancelli i peccati contro il prossimo se l'interessato non si riconcilia prima con il suo prossimo (Str.-Bill. al v. 24, B 2 ) . L'interruzione dell'azione sacrificale per amo­ re di questo prossimo è tuttavia impensabile perché il vero fine dell' at­ to rituale resta l'offerta di un sacrificio puro e di una pura penitenza. Dove l'atto di culto viene interrotto per amore del fratello, come ri­ chiesto da Gesù (v. 24), una siffatta concezione del culto è fondamen­ talmente superata. Ma che, viceversa, il culto non possa neanche esau­ rirsi mai nell'attenzione per il prossimo che ne costituisce, al contra­ rio, solo la premessa, è quanto dice la conclusione del v. 24. Anche il versetto seguente (v. 2 5) può essere capito dapprima solo alla lettera e così lo hanno probabilmente inteso coloro che lo hanno aggiunto. In verità qui sia ha soltanto l'espressione generica «per strada» senza la precisazione «dal magistrato» (Le. I 2, 5 8). Sorprende anche la solenne conclusione del detto, «amen, ti dico», che in genere si riferisce al­ l'evento escatologico (v. 26). In I 8,34 una formulazione affatto simile descrive in una parabola, la cui tendenza somiglia a quella del nostro passo, la condanna definitiva pronunciata dal tribunale di Dio perché è totalmente senza speranza pagare tutto fino all'ultimo centesimo. Anche in Le. I 2, 59 il detto è capito come mostra il contesto successi­ vo. Considerato che Matteo sottolinea continuamente il riferimento all'imminente giudizio di Dio (22, I 3; 24,5 I ; 2 5,30·46), egli ha proba­ bilmente pensato anche qui al giudizio finale di Dio. Non sarebbe neanche pertinente un «pagare» in senso letterale perché prima non si è affatto parlato di debiti. Allora «per strada» denota semplicemente il tempo della vita di un uomo e si pensa a ogni discordia con un avver­ sario che un giorno potrebbe accusare davanti al tribunale divino. Cer-

I I2

Mt.

5,27-30. Dell'adulterio

tamente qui non si riflette sulla possibilità di scontare la pena nel pur­ gatorio; come in I 8,34 (v. ad loc. ) si vuole solo sottolineare che agli occhi di Dio non si può mai estinguere il debito. Così il detto invita ad afferrare le possibilità di incontrare il fratello concesse dalla grazia. Non si tratta di riparare - il v. 26 anzi lo esclude proprio -, ma sicura­ mente di uomini che si riavvicinano tra di loro superando ogni torto causato e talvolta non più rimediabile. �. Dell'adulterio, 5,�7-30 27 Avete udito che fu detto:

«Non commettere adulterio». 28 Ma io vi dico: Ognuno che guardi una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29 Ma se il tuo occhio destro ti farà inciampare, cavalo e gettalo via da te. Infatti per te è meglio che una delle tue membra se ne sia andata e non che tutto il corpo venga gettato all'inferno. 30 E se la tua mano destra ti farà inciampare, mozzala e gettala via da te. Infatti è meglio che una delle tue membra se ne sia andata e non che tutto il corpo vada all'inferno. 1.7 Es.

20, 14.

�7-30. Anche la seconda antitesi riprende uno dei dieci comanda­ menti. L'espressione greca corrente suona letteralmente «l'ha offesa con l'adulterio)) (v. 28), un indizio di come qui si voglia tutelare il di­ ritto della donna. Già il decimo comandamento rifiutando il desiderio per la moglie del prossimo accenna nella medesima direzione del detto di Gesù e il ricordo del matrimonio di Dio con Israele (Os. 2,4-3 , I ) porta i n Mal. 2 , I o - I 6 ali' esortazione alla fedeltà, per dire il vero solo verso la moglie giudaica. Altri passi mostrano una tendenza del tutto diversa dalla suddetta. Giob. 3 I , I ; Sir. 23,4 s.; 26,9- 1 I ; Ps. Sal. 4,4 s.; Test. Iss. 7,2 sanno che già lo sguardo può essere adulterio e lo stesso dicono alcuni rabbi. Ma in tutti questi casi è sempre la donna a essere considerata pericolosa per l'uomo: così pericolosa che l'uomo pio chiude gli occhi all'avvicinarsi di una donna, preferendo incespicare che peccare, non la saluta né le stende la mano. Il diritto matrimoniale è conforme a tale situazione. Solo la donna sposata commette adulte­ rio quando ha rapporti sessuali con celibi o non giudei, ma non l'uo­ mo sposato che faccia lo stesso. Certamente i giudei rigidamente de­ voti combattono anche questo comportamento che comunque non è

Mt. 5,17-30.

Dell'adulterio

I I3

mai messo sul medesimo piano dell'adulterio della donna. Ciò mostra come qui si pensi totalmente dal punto di vista dell'uomo e che anche lì dove ci si vuole proteggere da ogni fornicazione, andando oltre il diritto matrimoniale, non ci si preoccupa del diritto della donna, ma della sua pericolosità. Per questo trova posto all'interno del giudaismo, ad esempio nel monastero di Qumran, anche la totale rinuncia asceti­ ca alla comunione dei sessi. A questo proposito l'Antico Testamento considera la comunione sessuale un fatto di natura creato e voluto da Dio. Lo sa anche Gesù ( I 9,4-6) al quale interessa soltanto che c'è una realtà molto più grande che non può essere messa in pericolo dal desi­ derio naturale dell'uomo ( 1 9, I 0- 1 2), ad esempio il diritto e la vita del­ la donna ( 5 ,28). In questa prospettiva non si deve certan:tente pensare soltanto alla donna che viene a trovarsi in pericolo solo ora, ma anche a una futura sposa. Proprio per questa ragione non si mette in guardia dallo sguardo pericoloso gettato sulla donna, ma da quello lascivo che entra come un ladro in qualcosa che appartiene soltanto a lei. In que­ sta prospettiva diventa chiaro che l'adulterio avviene sempre «nel cuore» e dunque non è più costatabile e giudicabile giuridicamente. L'adulterio nel cuore può coincidere con una estrema correttezza esteriore e, viceversa, la purità del cuore con un gesto esteriormente scorretto e rifiutato dalle altre persone. Tuttavia l'ampliamento indica già in tutt'altra direzione quando ricorda che sarebbe preferibile per­ dere occhio destro e mano destra anziché venire gettato tutto (per «corpo)) cf. a 1 0,28) nell'inferno (v. a Mc. 9,47 s.). Come mostra Mc. 9, 43-48, l'aggiunta proviene da un altro contesto (cf. Mc. , pp. 1 6 1 ss.). Matteo ha cercato di mettere i detti in relazione con l'adulterio ante­ ponendo il riferimento all'occhio (v. 28: «ognuno che guardù> !) e omet­ tendo quello al piede benché un trattato giudaico nomini, sempre a questo proposito, mano, piede, occhio e cuore e parli anche del taglio della mano. Tuttavia già la limitazione all'occhio destro e alla mano destra mostra come il logion non si adatti al v. 28. Soprattutto torna a rivolgere lo sguardo via dal prossimo che potrebbe essere offeso alla possibilità del soggetto di superare o meno il giudizio finale. D'altra parte in questo modo si intima alla comunità di non limitarsi a venera­ re le parole di Gesù, ma a vivere con esse. Anche se l'ubbidienza della sequela - diversamente da quanto avveniva in ambito giudaico - non significa agli occhi di Dio un servizio particolare, ma è per il discepolo la naturale e ovvia vita con Dio, è necessario che si esorti a essa. Ma

I I4

Mt. 5,3 1

s.

Del divorzio

ciò può avvenire nel modo giusto solo quando non si dimentichi il comportamento di Gesù con l'adultera di Gv. 8,I - I I (cf. Le. 7,47). 3· Del divorzio, 5,3 1

s.

(cf. Mt. I 9,9; Mc. I O, I I s.; Le. I 6, I 8)

Fu detto inoltre: «Chiunque ripudi la prop ria moglie dovrà darle un cer­ tificato di divorzio». 32 Ma io vi dico: Ognuno che ripudi la moglie, salvo che in caso di fornicazione, fa che con lei si commetta adulterio e chi sposi una donna ripudiata la spinge a commettere adulterio. 31

31 Deut.

24, 1 .

3 1 -32.. La norma seguente della legge non appartiene ai dieci co­ mandamenti, ma è un compendio della procedura fissata in Deut. 24, I -4 (v. 3 I ). In origine essa mirava esattamente a ciò cui mira la parola di Gesù al v. 28: alla protezione della donna. Ma col passare del tempo divenne sempre più un comodo strumento in mano all'uomo che gli permetteva di godere di un matrimonio a tempo determinato, che po­ teva occasionalmente durare anche un solo giorno: in pratica consen­ tiva al marito la piena libertà sessuale. In questo modo la donna tornò a essere un oggetto, cioè una proprietà dell'uomo che egli può alienare o comprarsi. Le condizioni e le regole di procedura previste nell' Anti­ co Testamento e qui non menzionate cercano, in verità, di arginare ta­ le situazione, ma non riescono a superarla. La tesi contraria di Gesù è diretta chiaramente contro un comandamento dell 'Antico Testamento e lo abroga. Certo ciò è vero soltanto se si tralascia (come in Le. 1 6, I 8 o Mc. I o, I I ) l'inciso «salvo che in caso di fornicazione>> che risale, ma con una formulazione rabbinica, a Deut. 24, I . Con questa aggiunta la parola di Gesù viene di nuovo messa in linea con la posizione degli scribi più intransigenti. Già prima di Gesù Shammai ha contestato Hillel, per il quale bastava un cibo bruciato durante la cottura a giusti­ ficare il rilascio di una lettera di divorzio, sostenendo che solo l'infe­ deltà della moglie darebbe al marito il diritto di procedere in questo senso. Di sicuro la formulazione priva dell'inciso risale a Gesù (Le. 1 6, I 8; Mc. I O, I I ; cf. 1 Cor. 7, 1 0). L'aggiunta di Matteo è comprensibile alla luce della prassi della comunità. La chiara e univoca sentenza di Gesù in Mc. I0,9 = Mt. I 9,6, «ciò che Dio ha unito l'uomo non sepa­ rerà>>, si trasforma dapprima in un principio giuridico: «Chiunque ri­ pudi la moglie e sposi un'altra donna è adultero nei suoi riguardi» (Mc. I O, I I ). In ambito ellenistico si ribadisce anche per la donna il di-

Mt. s,J I

s.

Del divorzio

II5

vieto di divorzio (I Cor. 7, 1 0 s.), prevedendo tuttavia al contempo una eccezione per i matrimoni misti con un coniuge pagano ( 1 Cor. 7, 1 216). Infine si aggiunge il divieto di seconde nozze per entrambe le par­ ti (Le. 1 6, 1 8; Mc. IO, I 1 s.). A dire il vero già I Cor. 7, 1 5 non prevede lo scioglimento del matrimonio se entrambi i coniugi sanno di essere uniti alla parola di Dio. È decisivo che, secondo i vv . 1 2- 1 6, soltanto il coniuge non cristiano debba decidere se divorziare- o meno. Ma ciò si­ gnifica che davanti a un legalismo che è convinto che l'osservanza let­ terale dell'indicazione di Gesù sia già ubbidienza si continua a tutelare con fermezza il diritto vitale dell 'altro, in questo caso proprio del non cristiano. Se vuole divorziare gli si deve lasciare la libertà di farlo; se non vuole, idem. L'aggiunta di Matteo costituisce l'ultimo anello di questa evoluzione. «Fornicazione» denota in essa una infedeltà conti­ nua più che un singolo caso di adulterio. Ora, naturalmente, un matri­ monio nel quale uno dei coniugi, chiuso a qualsiasi forma di dialogo, vive insieme con un'altra persona una durevole e intima comunione di vita, non può essere più considerato un matrimonio. Eppure questa regola non può essere osservata se viene intesa come norma giuridica. Proprio l'infedeltà di un coniuge può, ad esempio, far scivolare un ma­ trimonio divenuto noioso nella crisi nella quale entrambi potrebbero ritrovare il dialogo tra di loro e quindi la via dell'incontro. Un evento del genere è reso impossibile se una parte derivasse da Mt. 5,32 il suo diritto al divorzio. In questo caso egli avrebbe perso l'occasione offer­ tagli da Dio di vedere i propri limiti che hanno spinto il coniuge all'in­ fedeltà e di superarli. Soprattutto da parte cattolica si è tentato di normalizzare questo passo con la dottrina dell'indissolubilità del ma­ trimonio. Linguisticamente impossibile è la traduzione «chiunque, per una qualche ragione, anche per fornicazione, ripudia . .. » oppure «chiunque ... ripudia - neanche a causa di fornicazione (è permesso)» ! Se si intende la fornicazione come nell'Antico Testamento quale im­ magine dell'idolatria, una lettura certamente impossibile nel nostro contesto, allora soltanto un matrimonio misti potrebbe essere disciol­ to; in verità si darebbe così il diritto di divorzio solo al coniuge cri­ stiano: l'esatto opposto di quanto dice I Cor. 7, 1 2- 1 6. Anche l'espe­ diente, in caso di infedeltà di una delle due parti, di non sciogliere il matrimonio, ma di tollerare seconde nozze, potrebbe essere una via percorribile nella prassi, ma non è certamente conforme a Gesù. Que­ sta aggiunta andrebbe giudicata in maniera del tutto diversa se prove-

I I6

Mt. 5,3 1 s. Del divorzio

nisse dalla prassi seguita dalla comunità primitiva nell'accogliere nuo­ vi membri. Secondo il cosiddetto decreto apostolico di Atti 1 5,20 (v. intr. a 5 , 1 9) si impone infatti ai pagani che entrano nella comunità di osservare le stesse norme che valgono per gli stranieri residenti in Israele (Lev. 1 7, 1 0; 1 8,26): rinuncia all'idolatria (Lev. I 7,8 s.; 1 8,2 1 ; 20, 1 -6}, all'emofagia (Lev. I 7, I O- I 2), a mangiare carne non macellata secondo le prescrizioni religiose giudaiche (Lev. 1 7, 1 3). Oltre a ciò si richiede loro di astenersi dalla «fornicazione» (il termine usato qui manca in Lev. 1 8 !) che include, secondo Lev. r 8,6-2o, non solo l'adul­ terio, che viene menzionato soltanto nell'ultimo versetto, ma soprat­ tutto, oltre ogni sorta di perversioni elencate ancora nei vv 22 ss., il matrimonio con parenti. Si dovrebbe dunque vedere dietro l'aggiunta matteana ancora una prassi di accettazione che chiedeva al pagano, prima del battesimo, di sciogliere il suo matrimonio se la moglie rien­ trava in uno dei gradi di parentela proibiti da Lev. I 8 ? Sarebbe forse questa l' «unica causa>> per la quale secondo Mt. 19,3 si dovrebbe scio­ gliere il matrimonio ? Anzi si è persino già riferito a questo sacrificio il detto sull'automutilazione ( 1 9, 1 2; cf. v. 9). In questo modo si sarebbe certo già infi ltrato di nuovo nella libertà della comunità il legalismo in una forma altrettanto grave dell'imposizione della circoncisione (Gal. 2,3 s.; 5 ,2 s.). Ma poi ci si chiede anche se missionari che hanno intro­ dotto con le migliori intenzioni il principio assoluto della monogamia nella struttura poligamica dell'Africa non abbiano agito nella mede­ sima maniera. Questa interpretazione non è affatto impossibile; eppu­ re si oppone a essa la comprensione dell'adulterio quale cedimento al desiderio sfrenato non solo nella parola di Gesù (v. 28) contro il peri­ colo cui viene esposta la donna mediante lo sguardo lascivo, ma anche proprio nell'aggiunta della comunità (vv 2 9 s.). Non è molto probabi­ le che «fornicazione>> venisse compresa, oltre che in questo significa­ to, in uno totalmente diverso, tanto più che resta anche molto dubbio che essa debba essere intesa nella medesima maniera nel cosiddetto decreto apostolico. Così resta in piedi, a buon diritto, l'interpretazio­ ne corrente. A favore di tale lettura parla il contesto attuale e anche quello di 1 9,3- 1 2 dove pure la traduzione più logica del v. 1 (v. ad loc.) esclude praticamente l'altra interpretazione. La formulazione «fa che con lei si compia adulterio» scaturisce dalla sensibilità tipicamente giudaica. Essa presuppone ciò che viene detto in Mc. 10,4 ss., ma non qui: che nonostante il ripudio i due coniugi costituiscono una unità .

.

Mt.

5,3 3 -3 7.

Del giuramento

I I7

inscindibile. Perciò il primo matrimonio è realmente violato quando la donna ripudiata viene risposata (cf. anche 1 Cor. 7, 1 1 ) . Tuttavia la formulazione più semplice di Mc. I o, I 1 = Mt. 1 9,9 dovrebbe rispon­ dere meglio all'intenzione di Gesù. La seconda frasetta di Mt. 5 , 3 2 parla del caso d i nuove nozze, attribuendo al secondo marito l a re­ sponsabilità dell'adulterio. In Le. 1 6, 1 8 le due proposizioni si corri­ spondono in maniera più precisa che in Mt. 5,3 2 (due participi). Non è possibile stabilire se questa rappresenti la forma più antica oppure un adattamento successivo. Ancora una volta Gesù attacca quindi la sicurezza di sé dell'uomo il quale è convinto che tutto vada per il meglio se solo si sono seguite con scrupolo le regole della lettera di divorzio; ancora .una volta pren­ de di mira tutti i tentativi di autolegittimazione e di legalizzazione dei propri peccati; ancora una volta egli si oppone a tutto ciò, ma lo fa in primo luogo per l'inerme, per la donna che in questo modo viene spinta all'adulterio. La pericolosità dell'eccezione prevista da Matteo in caso di fornicazione non è costituita dalla regola in sé. Proprio per il bene dei coniugi il divorzio può essere talvolta la soluzione miglio­ re. La pericolosità è insita nel diritto di divorziare che questa regola concede apparentemente all'uomo così che questi potrebbe di nuovo sentirsi a posto con la sensazione di avere fatto tutto a modo. A que­ sto proposito può tuttavia trattarsi solo di questo, che in certe circo­ stanze due persone debbano anche percorrere, sotto il perdono di Dio, la via del divorzio perché l'altra via sarebbe ancora più colpevole. Tuttavia per tutto l'argomento cf. le considerazioni finali a Mc. I o, I 1 2 (Mc. , pp. 1 67 s.). ·

4· Del giuramento, 5,33-37 3 3 Avete i nol tre udito che agli antichi fu detto: «Non sp e rgiurare», m a in­ vece «rendi al Signore i tuoi giuramenti » . 34 Ma io vi dico di non giurare affatto: né per il cielo, poiché è il trono di Dio, 3 5 né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del Gran Re. 36 E no n giurare per la tua testa, p erché tu non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37 Ma la vos tra parol a sia: Sì, sì; no, no; ma il di più viene dal male. 33 Es. 20,7; Lev. 1 9, 1 2; Num. 30,3; Deut. 23, 22; Sal. 50,14. 34 s. /s. 66,1. 35 Sal. 48,3; 99,5 ·

33-37· Con il v.

33a

si riprende sicuramente ancora una volta l'in-

I I8

Mt. s,JJ -37· Del giuramento

terpretazione dei dieci comandamenti. L� aggiunta positiva che si deb­ bano mantenere i voti è tuttavia citata da altri testi (Num. 30,3; Deut. 23,22-24; Sal. 50, 1 4). Ora nel giudaismo il giuramento ha una parte importante nei voti; oltre a questo giuramento specifico ci sono poi gli altri: che non si sapeva niente di una data cosa oppure di essere in­ nocenti oppure gli scongiuri rivolti all'imputato perché dica la verità (Mt. 26,63; Gv. 9,24). La proposizione secondaria limita quindi già il campo a determinati casi e interpreta l'antica parola di Gesù già in una determinata direzione: si tratta del problema molto dibattuto nelle di­ scussioni degli scribi di quali giuramenti siano realmente vincolanti (vv . 34 s.; cf. 23, 1 6-22). Con una prima risposta vengono ridicolizzate le distinzioni fatte perché richiamandosi alla Scrittura (/s. 66,1; Sal. 48,3), che è proprio l'unica aHtorità riconosciuta dagli scribi, si sma­ scherano come appelli a b io stesso anche le molteplici perifrasi con giuramenti per il cielo, la terra o la città di Gerusalemme. In questo modo si sposta di fatto la vera direttrice di attacco della parola di Ge­ sù. Adesso si potrebbe pensare che si tratti soltanto di evitare anche le parole velatamente pericolose che tuttavia possono pur sempre impli­ care il nome di Dio e non che si tratti per contro di non giurare asso­ lutamente più (come ha giustamente capito Giac. 5,1 2). Nell'ultima esemplificazione (v. 36) l'argomentazione ha un andamento diverso. Il dato di fatto che un uomo non può cambiare a suo piaci mento nean­ che un solo capello - chiaramente non si pensa alla colorazione dei capelli, nota anche allora - indica che egli, con tutto ciò che è, conti­ nua a dipendere da Dio. Questo concetto appartiene al pensiero sa­ pienziale che si trova anche in detti di Gesù come 6,27.30. Il detto si adatta all'esempio precedente in quanto, come mostra proprio quello, persino quando ci si appella alla propria testa in ultima analisi c'entra pur sempre Dio. A tutto ciò si contrappone (v. 3 7) il sì e il no che ri­ nuncia del tutto a giurare (v. 34a) perché viene pronunciato in piena onestà. In Hen. slav. 49, 1 si consiglia di sostituire il giuramento con un doppio sì o un doppio no ed è possibile che la parola di Gesù fosse stata già mitigata diventando un simile suggerimento. Il significato originario, attestato ancora da Giac. 5 , I 2 e dai Padri della chiesa è tut­ tavia certamente che ogni sì deve essere un sì e ogni no un no. La bre­ ve frase conclusiva non è linguisticamente chiara: deve essere condan­ nato ogni eccessivo giurare o ci si riferisce a tutto ciò che va oltre il semplice sì o no ? Incerto è anche se si pensa al male o al Maligno. In

Mt. 5,38-42. Della rinuncia a resistere

I I9

Mt. I J, I 9 «il Maligno» appare al posto di Satana (Mc. 4, 1 5) che anzi secondo Gv. 8,44 è il padre di tutte le menzogne; inoltre Matteo co­ nosce anche il nome di Dio «il Buono» ( 1 9, 1 7). Nonostante tutto è preferibile pensare che il riferimento sia al male. Una volta di più il rifiuto del giuramento non è una novità (cf. già Os. 4, 1 5). Tanto greci, soprattutto i pitagorici, quanto giudei di cultu­ ra greca (Ecci. 9,2; Sir. 23,9- 1 1 e Filone) lo conoscono anch'essi. Ma l'aspetto essenziale di questo detto è che Mt. 5,3 7 toglie la terra sotto i piedi a una mentalità che cerca di osservare il comandamento di Dio con una prassi estremamente pignola regolata fin nell'ultimo dettaglio senza tuttavia dover diventare ubbidiente con tutto quanto il cuore, senza riserve. Ma in questo modo la parola di Gesù libera dalla com­ plicata distinzione tra formule innocue e formule che usano o sottin­ tendono il nome di Dio, una cosa che non si può mai sapere con pre­ cisione. Questa parola libera soprattutto dal tentativo ancor più fati­ coso di giustificarsi ai propri occhi e a quelli degli altri. Filone dice che l'ottimo sarebbe di essere così veritieri che tutte le parole potreb­ bero valere da giuramenti; al secondo posto ci sarebbe giurare il vero. Gesù non sa niente di una simile rassegnazione o di un simile com­ promesso, tanto meno di un nuovo legalismo che costringerebbe sol­ tanto a parlare con ancora maggiore cautela di prima. Ciò che Gesù ha in mente è la liberazione dallo sguardo che l'uomo rivolge sempre su se stesso, sulla sua perfezione o imperfezione, e la liberazione per una vita che è totalmente rivolta verso il prossimo. Infatti dove la parola umana viene falsificata così che un sì potrebbe significare anche no e un no, in certe situazioni, anche sì, ogni comunione è distrutta. In verità, nella forma attuale del detto tutto ciò viene piuttosto nascosto dall'interpretazione che i voti vanno mantenuti. 5. De lla rinuncia a resistere, 5 ,J 8-4.1 (cf. Le. 6,29 s.) 38 Avete udito che fu detto: «Occhio 3 9 M a i o v i dico di non resistere affatto

per occhio» e «dente per dente» . al malvagio; invece a chi ti colpisce sulla guancia destra porgi anche l'altra. 40 E a chi vuole andare in giudizio con te e toglierti la tunica lascia anche il mantello. 4 1 E con chi ti costringe a fare un miglio, fanne insieme due. 42 Da' a chi ti chiede e a chi vuole un prestito non voltare le spalle. 38 Es. 21,25.25;

Lev.

24,19.20.

I 20

Mt.

5,38-42. Della rinuncia a resistere

38-42. «Occhio per occhio ... » è un principio giuridico che non si trova soltanto in Es. 2 I ,24; Lev. 24,20; Deut. I 9,2 I (in una forma det­ tagliata più forte), ma resta in molti casi pilastro di tutto il diritto. In origine questo principio serviva ad arginare la sfrenata vendetta di sangue (Gen. 4,23 s.), ma nel corso dell'evoluzione è stato utilizzato sempre di più quale strumento per affermare i propri diritti. Tuttavia ai tempi di Gesù la rivalsa è stata sostituita nella prassi, ma non senza opposizione sul versante teorico, da un risarcimento economico ade­ guato. Confrontandosi con questo principio Gesù esorta a rinunciare a ogni resistenza (v. 39). L'associazione di questo detto con la frase dell'Antico Testamento è stata certamente facilitata dall'aspetto lin­ guistico giacché in greco il verbo contrastare è composto con la mede­ sima preposizione usata nel principio in questione: «occhio contro oc­ chio, dente contro dente» . Si deve tradurre «al male» o «al malvagio» ? I n un caso il contesto con il v. 37, nell'altro il contesto con i vv . 43 -48 mostrano comunque che nan si deve fare il male e là dove esso mi­ naccia il prossimo si deve anche impedire che esso accada e basta (cf. anche vv. 2 I -3 2). Gesù non annulla le differenze esistenti tra buoni e cattivi, ma certamente vuole far cessare un atteggiamento per il quale l'uomo vuole rivolgersi con amore soltanto a coloro che egli giudica buoni. Non è impossibile che Matteo pensi soprattutto alla «opposi­ zione» in sede giudiziaria perché nei suoi esempi egli riprende tipiche questioni giuridiche. Il verbo viene usato proprio in questa accezione in Deut. 1 9, I 8 e fs. 50,8 nella Bibbia greca. Nella medesima pericope di Isaia (/s. 50,6) si trovano anche lo stesso verbo «porgere» e la stessa parola «guancia» che si hanno al v. 39b. Si pensa forse già all'esempio del servo di Dio che viene descritto in quel passo ? Nel diritto rabbini­ co il «manrovescio», che è considerato particolarmente disonorevole, viene punito con una doppia ammenda; esso colpisce di solito la guan­ cia destra della vittima. Si potrebbe quindi pensare ai discepoli che ve­ nivano colpiti in questa maniera in quanto eretici. Ma forse non si tratta che di una coincidenza, come nell'esempio del v. 29. Se nel v. 39 il riferimento al diritto del tempo era una possibilità, nell'esempio del v. 40 è una certezza. I due termini, «tunica» e «mantello», sono usati in ordine perfettamente inverso a quello di Le. 6,29. Nel passo lucano si immagina un !adrone che per prima cosa strappa via il mantello; in quello matteano si tratta della controparte in un processo che vuole la tunica perché il mantello, che serve sia da indumento sia da coperta

Mt. 5,3 8-42. Della rinuncia a resistere

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per la notte, in base al diritto israelitico non è pignorabile. Già in Es. 22,2 5 s. Dio stesso si preoccupa che questo principio inteso a proteg­ gere il povero venga scrupolosamente applicato. Dietro all'afferma­ zione inaudita di Gesù che uno dovrebbe preferire di concedere tutto e di continuare a vivere nudo anziché affermare in un processo il pro­ prio diritto contro l'altro c'è l'assoluta fiducia nel Dio che ha miseri­ cordia del misero. N el terzo esempio (v. 4 1) si tratta del diritto delle truppe di occupazione romane di costringere un giudeo ad andare con loro come guida o come portatore. Il termine usato è un esotismo che indica la requisizione governativa o militare e viene impiegato in 27,3 2 nel caso di Simone il Cireneo che viene costretto dai soldati romani a portare la croce di Gesù fino al luogo dell'esecuzione. In maniera si­ mile a quanto successo a Simone certamente anche un singolo ha spes­ so preteso tali servigi persino quando la cosa non era del tutto legale. Forse il termine conteneva già in Q una nota particolare perché deno­ tava l'esatto contrario di ciò che sosteneva il movimento rivoluziona­ rio clandestino contro l'occupazione romana, lo zelotismo (v. a 4, 1 ss.). Nella parola di Gesù questo diritto di requisizione non viene né ap­ provato né rifiutato: è qualcosa che esiste nel mondo, come la pioggia o la siccità. Egli si limita a consigliare che è meglio accompagnare i soldati per 3 km buoni che farne soltanto la metà richiesta. L'ultimo esempio (v. 42) si pone in termini del tutto diversi ed è perfettamente analogo a un ammonimento già ribadito con forza in Deut. I 5,7- 1 1 . Qui non si tratta, infatti, di una forza «malvagia» alla quale non ci si deve opporre. I rabbi facevano una distinzione tra oggetti come una scure e una falce che si «supplica» di poter usare {Str.-Bill. al v. 43, 2a) e il denaro che si «prende in prestito» (Str.-Bill. al v. 42, 2.3). Ma forse nel nostro testo si pensa anche viceversa a una «supplica» che non pensa affatto alla restituzione e a un «prestito» che invece la prevede. La forma dei verbi greci mostra che Matteo pensa a esempi che si pre­ sentano in una determinata situazione, Luca invece (Le. 6,29 s.) a re­ gole valide sempre e ovunque. Ciò vale ancora di più per Ev. Thom. 9 5 dove è proibito prestare a interesse. Anche del filosofo greco Diogene si narra che diede anche il vestito a uno che voleva il suo mantello, ma in questo caso si tratta dell'ideale del saggio autosufficiente che sa vivere anche senza vestito e mantello. Anche i rabbi esortano all'arrendevolezza, ma si riferiscono quasi sem­ pre a richieste o, soprattutto, a punizioni di Dio, quindi alla meritevo-

1 22

Mt. 5,43-48. Dell'amore per il nemico

le ed espiatrice accettazione della sofferenza (Str.-Bill. al v. 39 A). In Gesù è evidente, ancora una volta, l'orientamento al prossimo. Egli pensa alla comunione, fragile ed esposta a mille pericoli, che mediante l'uso della forza, sia pure quella legale della querela e del processo, provoca tanto spesso rancore e violenza in un crescendo negativo continuo che conduce alla catastrofe. Proprio per questa ragione non si deve in alcun caso cadere nello stile dell'avversario, neanche a buon fine, per quanto sia illuminante la massima che appare una volta, come dappertutto, anche nella tradizione giudaica: «Se uno ti vuole uccide­ re, precedilo e uccidilo» (Str.-Bill. al v. 39 A). Non è un caso che pro­ prio qui si passi dal «voi» al «tu»: si tratta di decisioni estremamente e strettamente personali. Per la questione di principio della rinuncia alla violenza cf. excursus dopo 7,29, specialmente a,3 e c,4. 6. Dell'amore per il nemico, 5,43-48 (cf. Le. 6,27 s.32-36) 43 Avete udito che fu detto: «Ama il tuo prossimo» e odia il tuo nemico. 44 Ma io vi dico: Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori 4 5 affinché diventiate figli del Padre vostro in cielo, giacché egli fa sorgere il suo sole su cattivi e buoni e fa piovere su giusti e ingiusti. 46 Infatti se

amate coloro che vi amano, che ricompensa avete ? Non fanno anche i pub­ blicani lo stesso ? 47 E se salutate esclusivamente i vostri fratelli, che fate di straordinario ? No n fanno anche i pagani lo stesso ? 48 Ora siate perfetti co­ me il Padre vostro in cielo è perfetto. 43

Lev.

1 9, 1 8 . 48

Lev.

1 9,2.

43-48. Con l'invito ad amare il nemico si raggiunge il culmine. L'e­ sortazione a odiare il nemico non si trova così nella legge. In verità il principio «ama il tuo prossimo» (Lev. 1 9, 1 8) è stato interpretato sem­ pre in modo da riferirsi ai connazionali, ma non agli stranieri. Una spiegazione del genere è in larga misura ovvia in situazioni semplici nelle quali non si può ancora quasi vedere oltre il limite della propria tribù o del proprio popolo. Inoltre in Israele l'amore verso lo stranie­ ro residente è un esplicito comandamento di Dio (Lev. 19,3 3 s.; Deut. I O, I 8 s.), anche se esso fu tuttavia limitato, più tardi, a coloro che en­ tro un anno si facevano accogliere nella comunità sottoponendosi alla circoncisione e accettando di ubbidire a tutta la legge. Ma viene elo­ giato anche l'amore verso il nemico (1 Sam. 24,20) e viene ingiunto nella prassi quotidiana, ad esempio quando si tratta del bestiame (Es.

Mt. 5,43-48. Dell'amore per il nemico

1 23

23,4 s.), o in situazioni critiche (Prov. 2 5,2 I s.). Al tempo stesso l'An­ tico Testamento ha i salmi di vendetta (cf. Sal. I 3 7,7-9; I 39,2 I s.) il cui odio, a dire il vero, non è diretto a un nemico personale come nei passi succitati, ma a coloro che si ribellano a Dio e alla sua legge. Al tempo di Gesù la riflessione è andata avanti ispirandosi a entrambi i filoni. Già prima di Gesù il rabbi esorta ad amare gli uomini e a con­ durli alla legge e da parte dei rabbi si lotta contro invidia, istinti mal­ vagi e odio (Str.-Bill. Ie, 2a). D'altra parte la totale dedizione a Dio e la rigorosa osservanza delle sue leggi nella setta di Qumran portano al comandamento di «amare tutto ciò che egli predilige e odiare tutto ciò che egli ha ripudiato», quindi anche di «amare tutti i figli della luce ... e odiare tutti i fi gli delle tenebre» ( I QS I ,J s.9 s.; ma cf. per contro I o, I 7b. I 8). Espressioni analoghe si possono trovare anche presso gli seri­ bi in contrasto con il popolo che non è istruito nella Scrittura e per­ tanto non osserva tutti i comandamenti: «Chi dà in sposa la figlia a uno del popolo è come chi la lega e poi la fa stendere davanti a un leo­ ne»; «l'odio con il quale quelli del popolo odiano i discepoli degli seri­ bi è più grande dell'odio con il quale gli idolatri odiano gli israeliti e le loro donne odiano ancora più di loro» (Str.-Bill. 3). Come in tutti i movimenti di lotta qui non si intende l'odio verso la singola persona, ma l'odio contro l'empietà o il capitalismo o il comunismo o verso qual�iasi cosa venga demonizzata, l'odio che una lotta senza compro­ messi sembra richiedere. Stando all'interpretazione di questa antitesi, Gesù si rivolge contro tutto ciò (v. 44). In questa forma l'affermazio­ ne non ha paralleli ed è inaudita per il suo tempo. Gesù elimina tutte le delimitazioni con le quali l'uomo vuole limitare l'amore per il pros­ simo a un determinato gruppo nazionale o confessionale. Egli vi in­ elude espressamente coloro che proprio adesso stanno combattendo contro di noi. A questo proposito la forma matteana è stata probabil­ mente plasmata dall'esperienza della persecuzione proprio per la fede in Gesù: essa mostra che molto realisticamente si pensa non solo a idee o sentimenti, ma all'odio di cui si sono senti ti i morsi nel proprio corpo. Le. 6,2 7 s. parla più in generale di odio, maledizione e ingiuria. Entrambi parlano dell'intercessione. Ciò indica, da un lato, che l'amo­ re non può restare puro sentimento, ma deve diventare azione: quan­ do a uno, in una situazione di persecuzione, vengono di solito legate le mani, l'atto forse più grande e importante è forse la preghiera. Ciò va oltre l'Antico Testamento dove non si trova mai una preghiera per

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Mt. 5,43-48. Dell'amore per il nemico

uomini che non siano legati per natura o per una storia comune con l' orante, ad esempio proprio per dei nemici. Dall'altro mostra che tale amore è realizzabile solo dove ci si pone proprio alla presenza di Dio e ci si fa aiutare da lui ad amare. Questo amQre è dunque un'opera buona, non una prestazione misurabile con la quale si potrebbe giusti­ ficare un diritto o un merito. Questo aspetto è particolarmente chiaro in Matteo (v. 45) perché segue immediatamente la proposizione causa­ le con il riferimento a colui che fa venire sole e pioggia su cattivi e buoni. Il suo sviluppo nei vv. 4 5 -48 va molto oltre le brevi frasi origi­ narie delle altre antitesi. Ciò indica che una volta ci sono state parole di Gesù che forse fin dal principio (come Le. 6,27-36) sono appartenu­ te ai detti sull'amore per i nemici e la resistenza, ma non alle antitesi matteane. Ciò mostra allo stesso tempo che Matteo le intende pro­ babilmente quale conclusione di tutte le antitesi e perciò si riferisce fondamentalmente a tutte. Il richiamo al Dio che governa nella crea­ zione (v. 4 5 ) si può trovare già nella letteratura sapienziale. Certamen­ te anche in questa non è un'affermazione di principio ovvia. Diversa­ mente di quanto si legge nelle testimonianze giudaiche non si nomina soltanto la pioggia, che in Palestina è di regola benefica, ma anche il sole che brucia. A quella fa infatti riferimento il falso amico Elifaz in Giob. 5 , 8 - 1 6 mentre Giobbe stesso chiama in campo contro Dio le ca­ tastrofi naturali (9, 5-7. 1 1 -24). Affermazioni simili servono presso i greci per illustrare l'indifferenza degli dèi verso gli uomini. Persino lo stesso filosofo Seneca, più o meno contemporaneo di Gesù, che di so­ lito vede la natura con ottimismo, sa che «il sole sorge anche per i cri­ minali e i mari sono aperti per i pirati», in verità limita immediatamen­ te questo pensiero. Pur deducendo da questo fatto che noi, per imitare gli dèi, dovremmo fare opere di bene anche all'ingrato, avvicinandosi quindi al detto di Gesù, egli con «dèi>> non intende altro che il domi­ nio della natura nel quale l'uomo dovrebbe inserirsi. Il riferimento al creatore è dunque veramente utile solo alla fede che sa da tutta la sto­ ria di Dio con il proprio popolo che Dio è effettivamente benevolo con «cattivi e buoni, giusti e ingiusti» (si noti l'inversione nell'ordine). A dire il vero Matteo non parla esplicitamente della bontà di Dio co­ me Le. 6,3 5 s. o dell'opera della sua grazia come Paolo (Rom. 5 , 5 - 1 0); ma anche egli sa come Gesù ha strappato alla mancanza di fede ( Giob. 9, 5 -7. 1 6- I 8 !) la frase sul sole e la pioggia fondando su essa il suo invi­ to ad amare il nemico. Come se Dio non fosse Dio solo perché non

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corrisponde alle nostre idee di giustizia! Come se non fosse vero pro­ prio il contrario, che noi non siamo veramente uomini finché non im­ pariamo da Dio ad amare non solo cattivi e buoni, ma realmente an­ che giusti e ingiusti, comunisti e capitalisti, normali e handicappati mentali, psichicamente sani e depressi! Anche perciò Gesù non dichia­ ra che siamo figli 4i Dio, ma esorta a diventarlo (cf. excursus a 5,9). L'uomo naturale agisce diversamente, come i «pubblicani>> e i «paga­ ni». Come nelle beatitudini (vv. 3 - 1 2) nella parola di esortazione di Gesù scende sull'ascoltatore la benevolenza di Dio che avviene pro­ prio in questo momento chiedendo di entrare nella sua vita. Soltanto in questo modo egli impara a vedere ciò che Gesù vede nella creazione come opera del Dio che ama anche i suoi nemici. Soltanto su questa base c'è amore che non è una semplice reazione naturale all'amore dell'altro,. non è soltanto amore di se stesso in una qualche forma stra­ namente contorta, ma che è veramente amore diretto verso l'altro. Il saluto (v. 47) ha per i rabbi una grande importanza e salutare per pri­ mi è espressione di grande rispetto. I «fratelli» non sono qui soltanto gli appartenenti alla medesima famiglia, ma soprattutto quelli che ap­ partengono alla medesima comunità (religiosa). Proprio tenendo con­ to della suaccennata persecuzione (v. 44) a opera di persone che vivo­ no fuori di questi confini, l'esempio acquista una particolare intensità. Riassumendo il tutto, Gesù motiva il suo appello col richiamo a Dio che è perfetto (Le. 6,36: misericordioso). Con questa parola si traduce nell'Antico Testamento greco un termine ebraico che denota la totali­ tà, l'integrità, l'interezza. Così l'Antico Testamento può dire che uno vive perfettamente (cioè totalmente, interamente) nel proprio cuore con il Signore ( 1 Re 8,6 1 ; 1 1 ,4; I 5,3 . 1 4). La parola è usata a Qumran in maniera diversa: è diventata il termine con cui la setta denota se stessa per indicare che la sua vita è totalmente scandita dalla legge di Dio, ma è al contempo del tutto consapevole che questa perfezione può soltan­ to essere ricevuta in dono dal Signore stesso ( 1 QS 1 ,8- 1 3; 1 QH I 2,JO­ J2). Così anche in Matteo il termine denota l'orientamento totale ver­ so Dio, non l'assenza di errori di una personalità in sé armoniosa, svi­ luppata alla massima perfezione possibile. Una cosa del genere sareb­ be proprio un allontanamento da quel totale orientamento verso Dio. Tuttavia in Matteo la legge come punto di orientamento ha un ruolo come in Qumran, ma nel senso della giustizia, non della «perfetta san­ tità» ( 1 QS 8,2o; CD 20,2. 5). Anche in Giac. 1 ,4; 3,2 la perfezione è in-

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tesa nel medesimo modo. Quando Gesù, diversamente da quanto av­ viene a Qumran, anzi diversamente da quanto avviene nell'Antico Te­ stamento e nel giudaismo, fa riferimento al Dio perfetto egli intende indicare con questo termine viceversa il totale, intero orientamento di Dio verso l'uomo, la sua fedeltà al patto, la sua assoluta attenzione per l'oggetto del suo amore. La sentenza è modellata da un lato su Lev. I 9,2 («sarete santi perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo») e dall'altro su Deut. I 8, I 3 (> che alla frase più lunga del v. 2, «come fanno gli ipocriti)). Per la forma questa triplice regola ricorda parti della poesia sapienziale (per la so­ stanza cf. Sir. I 7, I 5; 23, I 9; 39, I 9 ); fuori di questo schema sapienziale si collocano il profetico «amen, vi dico» (v. intr. a 5, I 7-20, al v. 1 8) e il chiaro riferimento al giudizio finale di Dio c he nelle sentenze sapien­ ziali appare di rado. La triplice regola è sicuramente prematteana co­ me mostra la formula «il Padre tuo», del tutto insolita in Matteo, che costella tutto il brano, mentre l'evangelista usa di solito esclusivamen­ te «il Padre vostro» (seguito sempre da «in cielo» eccetto che in 6, 8 . I 5; Io,20. 29) . Se Matteo avesse avuto libertà di formulazione avreb­ be spostato alla fine anche la pericope sulla preghiera perché egli vi annette il Padrenostro con alcune aggiunte (vv . 7- I 5 ) . Il Padrenostro si trova anche in Le. I I , I -4 (v. sotto), mentre tutti i restanti detti non hanno paralleli negli altri vangeli. Esso è introdotto da un logion con­ tro le preghiere lunghe che nella forma corrisponde ai vv. 3 I s.: «non (chiacchierate) (come i) pagani ... perché il Padre vostro sa (di che co­ sa/che) voi ... avete bisog111 o ». Neanche questa analogia formale per­ mette di decidere se Matteo stesso abbia costruito questa introduzio­ ne secondo il modello dei vv. 3 I s. oppure se le abbia dato solo la sua forma particolare oppure se, viceversa, una parola originaria di Gesù abbia influenzato la forma dei vv. 3 I s. in Q oppure se entrambi i detti siano stati formulati già da Gesù in forma simile. In appendice al Pa­ drenostro appare un detto sul perdono da concedere agli altri la cui metà positiva si trova anche in Mc. I I ,2 5 (unico caso in Marco con la frase « il Padre vostro in cielo»), mentre la metà negativa viene aggiun­ to solo in una parte dei manoscritti in Mc. I I ,26. Poiché anche nella prima metà il dettato non coincide esattamente, Matteo deve aver co­ nosciuto il detto già in questa forma più completa. Egli lo tralascia nel

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parallelo a Mc. I I ,2 5, ma formula lui stesso una sentenza simile alla fi­ ne della parabola del servo furbo ( 1 8,3 5 ). Le tre pericopi su elemosina, preghiera e digiuno possono risalire a Gesù ? L'introduzione è di mano di Matteo. Nel Nuovo Testamento «guardatevi» s'incontra solo in Matteo e in Le. 20,46, tuttavia altrove è costruito con un sostantivo («da ... » : 7, 1 5; 1 0, 1 7; 1 6,6. 1 1 ). Praticare la giustizia è uno dei suoi interessi principali (vv. 6. 1 0.20 ecc.). L'espres­ sione «per essere visti», connessa anche con il verbo «fare» e «(davanti agli) uomini» ricompare uguale anche in 2 3, 5; il riferimento alla ri­ compensa è preso dai tre detti (vv. 2. 5 . 1 6); la frase «il Padre vostro in cielo» rivela la sua mano (v. sopra). Difficilmente quanto resta risale a Gesù; infatti non è sufficiente per questa attribuzione il contrasto tra un essere visti dagli uomini e un essere visti da Dio: anche il fariseo della parabola di Le. 1 8,9- 1 4 vuole essere visto solo da Dio; anche egli prega «dentro di sé», fa la sua offerta e digiuna solo davanti a Dio. A ciò si aggiunge che Gesù rifiuta del tutto il digiuno quale esercizio di pietà (9, 1 sa = Mc. 2, 1 9a). L'ipotesi che un detto sia stato pronunciato davanti a estranei e l'altro davanti ai discepoli non è soddisfacente. Oppure la novità radicale annunciata da Gesù non vale per gli estra­ nei ? Eppure dietro al nostro passo si può ancora sentire la voce di Ge­ sù. Infatti in ciascuna delle tre pericopi traspare una formulazione ben più radicale. Se la mano sinistra non deve sapere ciò che fa la destra (v. 3) l'uomo non può neanche voler apparire al cospetto di Dio con la sua azione; infatti proprio davanti a Dio egli non sa che cosa ha fatto di buono, come mostra il discorso sul giudizio universale (2 5,3 1 -46). E se il Padre sa già di che cosa abbiamo bisogno prima ancora che glielo chiediamo (vv. 7 s.), allora è diventata priva di senso qualsiasi opera di preghiera che vuole fare affidamento su un particolare sforzo dell'uomo, dunque sul «biascicare vuote litanie» . L'indicazione di un­ gersi con olio i capelli e lavarsi la faccia quando si digiuna (v. 1 7) è singolare; consiglia infatti di indossare volutamente la maschera op­ posta. Essa ricorda tuttavia una parola di Gesù molto più radicale che spiega come dove ci sia lo sposo non si possa assolutamente più di­ giunare, bensì solo festeggiare (9, 1 s a). Ciò induce a supporre che die­ tro a queste tre pericopi ci siano tre detti di Gesù che forse furono uniti tra di loro già dall'inizio in quanto commenti alle tre forme principali della pietà giudaica e che con il loro efficace linguaggio fi­ gurato rendevano impossibile ciò che è sempre stato più a cuore ai de-

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voti di ogni tempo: il conteggio con Dio dei propri adempimenti reli­ giosi. Ora proprio la citazione biblica al v. 6 potrebbe ancora indicare che essa sostituisca un detto più radicale di Gesù, precisamente il v. 7· Anche Paolo in Rom. 2,28 s. conosce la distinzione tra quanto appare all'esterno e quanto è nascosto che viene lodato solo da Dio e non da­ gli uomini. Anche in quel passo paolino tale antitesi è congiunta con frasi che sono radicate nella devozione giudaica e che furono pro­ nunciate già prima di Gesù in maniera simile, cioè che ci si dovrebbe far circoncidere da Dio il cuore e non soltanto la carne (Deut. Io, I 6; 30,6; Ger. 4,4; Ez. 44,7.9; cf. a 5,8). Sempre in Paolo si ha una formula­ zione che ricorda il nostro passo: il vero giudeo, il «giudeo nel segre­ to>>, cioè il giudeo che è tale nel cuore deve aspettarsi di essere lodato da Dio e non dagli uomini. Ma anche Paolo, seguendo Gesù, vede il contrasto in termini ancora più radicali di quelli usati nelle afferma­ zioni dell'Antico Testamento e giudaiche: egli sottolinea che tale pietà può essere concessa solo dallo «Spirito» di Dio e non può mai essere raggiunta con l'ubbidienza alla «lettera» della legge. L'idea della pietà «segreta» che vale solo per Dio, non per gli uomini, è stata dunque evidentemente conosciuta nella comunità e collegata con sentenze ana-. loghe di un giudaismo riformista. Ma anche in questo processo la voce di Gesù non è stata dimenticata. Nelle metafore paradossali che sono ancora conté nute nel vangelo di Matteo si coglie il medesimo messag­ gio della riflessione teologica di Paolo: chi confida realmente in Dio rinuncia a tutto ciò che viene dagli uomini, anche alla giustizia ancora da misurare da parte di chi l'ha compiuta, e si è quindi liberato da ogni concetto di opera virtuosa intesa ati accumulare meriti davanti a Dio. Le cose starebbero in maniera un po' diversa se avessero ragione i ma­ noscritti, in verità tardi, che alla fine di ognuna delle tre pericopi ag­ giungono ancora «(ti ricompenserà) pubblicamente». In questo caso si potrebbe eventualmente ipotizzare, sulla base di Prov. 2 5 ,2 1 s., un ori­ ginale ebraico o aramaico di questo tenore: Dio farà compiersi, giun­ gere alla sua pienezza, la nostra opera soltanto un giorno, cioè nel giorno del giudizio, quando tutto ciò che è segreto verrà alla luce ( Col. J , I -4). Ma tanto la lezione quanto questa interpretazione resta­ no molto dubbie e in ogni caso ciò potrebbe valere solo per una fase precedente che non è più possibile ricostruire veramente. Così si de­ vono distinguere tre strati: una sentenza di Ges.ù che non è più rico­ struibile nei particolari con esattezza; la triplice istruzione sulla retta

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pietà formulata nella comunità ancora profondamente radicata nel giu­ daismo; la redazione matteana. È necessario fare attenzione a quali fos­ sero gli interessi di ciascuna di queste tre fasi.

Le tre dimostrazioni della pietà, 6, 1-6. 16-18 1-.1. Stando all'introduzione matteana (v. I) il tema è la «giustizia»

dell'uomo. Sotto tale concetto Matteo può quindi classificare insieme elemosina, preghiera e digiuno, cioè le buone opere che secondo la fe­ de giudaica vanno oltre quanto richiesto dalla legge, procurano meriti particolari o espiano trasgressioni della legge, anzi possono addirittu­ ra venire accreditate a un'altra persona se superano i debiti dell'inte­ ressato il giorno del giudizio finale. Ovviamente non è sbagliato né la pratica di tali buone opere né l'attesa di una ricompensa nel giudizio finale di Dio (cf. a 2o, r - I 6 e Mc. 9,4I ), ma certamente lo è l'orienta­ mento verso l'uomo. Si ha il medesimo concetto in Mt. 23,5. Alla fi ne del commento di questo passo si dovrà riflettere in che misura ciò sia giusto. Il primo detto (v. 2 ) tratta delle opere di beneficenza, in primo luogo dell'elemosina, ma poi anche di ogni opera di bene fatta all'al­ tro. Il giudaismo ha conosciuto un'assistenza ai poveri esemplare am­ ministrata dalla comunità sulla base di offerte che ogni membro era tenuto a versare, ma oltre a ciò esisteva una beneficenza privata gene­ rosa. Toh. 1 ,3 e Sir. 7, 10 esortano a esercitare tale generosità. Partico­ larmente bella è una sentenza rabbinica che accomuna pudore, miseri­ cordia e beneficenza facendo risalire tutte e tre queste opere buone alla stessa azione divina (Str.-Bill. IV, 5 38 s. [a]; 1, 346 n. 2 e a Mt. 6,3 s.). Il termine «ipocrita)) denota in origine l'attore teatrale che imper­ sona un dato ruolo. Nella Bibbia greca vengono chiamati così gli em­ pi; nei Salmi di Salomone, un'opera farisaica, vengono chiamati così i sadducei, gli avversari dei farisei che li ritenevano secolarizzati (Ps. Sal. 4,7.2 5 ); nel n sec. d.C. un rabbi giudaico dichiara che il 90o/o di tutta l'ipocrisia del mondo è concentrata in Gerusalemme (Str.-Bill. a 2 3, r 3 A I ). Di per sé il termine non include necessariamente una diso­ nestà soggettiva; può anche riferirsi a una contraddizione con se stessi di cui le persone in questione non sono affatto cons-apevoli, ma che di fatto le smaschera e mostra che sono interessate a qualcosa di diverso da quello che vogliono far credere a se stesse e agli altri. Ma nel verset­ to in questione la pratica della devozione giudaica viene evidenziata con

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tratti così critici che probabilmente si ha in mente una contraddizione consapevole. Certo nella sinagoga vengono detti la somma offerta e il nome del donatore e non è del tutto impossibile che talvolta si attiras­ se l'attenzione su offerte particolarmente generose con squilli di trom­ be. Tuttavia si sarebbe trattato allora di casi particolarmente eccezio­ nali, come si è soliti fare in tutto il mondo, anche nella chiesa cristiana dove importanti donazioni recano il nome del donatore. Oltre a ciò ci sono anche nel giudaismo del tempo voci che sostengono che l' elemo­ sina deve restare nascosta come il fianco di una persona e sarebbe me­ glio non dare che far vergognare con la propria offerta il beneficiato (111 sec. d.C.). Effettivamente, dunque, la parola non va oltre una ri­ forma della pietà possibile anche all'interno del giudaismo. Lo si vede anche nella formula «questa è tutta la loro ricompensa» che ricalca infatti la normale formula di quietanza con la quale si riconosce «ho ricevuto (il mio salario)». Ciò è perfettamente conforme a quanto si trova anche nel giudaismo: o l'uomo riceve già in questa vita la sua ri­ .compensa, ad esempio con onore e fama presso i concittadini, e quin­ di non deve aspettarsi altro, oppure rinuncia a ciò, anzi si accolla per amore di Dio offese e dolore e può quindi attendersi in cambio di ciò una ricompensa celeste. Solo in caso di beneficenza si spera talora in entrambe le cose: il capitale rimane intatto in cielo mentre se ne go­ dono gli interessi già sulla terra. Anche su ciò che si dice qui si dovrà riflettere più avanti per vedere in che misura sia vero. 3-4. Con la sua immagine sorprendente ed efficace il detto sulla ma­ no sinistra cui non è dato sapere che cosa faccia la destra (v. 3) va ben oltre questo schema. Naturalmente, considerata l'anatomia del nostro cervello, non è affatto possibile che la destra faccia qualcosa senza es­ sere guidata dal sistema nervoso centrale come la mano sinistra. Ma questo paradosso (cf. a 5 , 1 3) è uno degli enigmi che indica con assolu­ ta urgenza il miracolo di un nuovo (Gv. 3,3 ss. direbbe: nato di nuo­ vo) uomo. Se già la mano sinistra non sa più che cosa sta succedendo sotto i suoi occhi, allora ancora molto di più all'oscuro di tutto sarà il cuore che vorrebbe aspettarsi una ricompensa per quel gesto. Qui vie­ ne portato a termine lo sfondamento di ogni sistema di pensiero che vorrebbe ancora misurare l'opera fatta per pretenderne poi l'adeguata ricompensa dagli uomini oppure da Dio. Così si pone l'interrogativo se le parole sul Padre che vede nel segreto (v. 4) possano essere inter­ pretate solo nel senso che egli vede ciò che altri uomini non possono

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vedere, ma che l'autore stesso vede perfettamente e fa in vista della ri­ compensa di Dio, oppure se sia lecito intenderle diversamente, cioè che qui si sta parlando del gesto radicalmente segreto, che non viene più registrato e aggiunto al totale dei suoi meriti neanche da chi l'ha compiuto. Se ne riparlerà in occasione della retrospettiva sui vv. I - I 8. Che la seconda lettura non sia del tutto esclusa lo mostra la presenza dell'espressione « il Padre tuo)) che nei primi tre vangeli ricorre soltan­ to nel nostro passo: essa ricorda ancora le parole di Gesù nelle quali con «ricompensa)) non si vuole indicare soltanto la paga adeguata per un lavoro, ma il dono dell'amore (cf. a 2o, I - 1 6). s-6. Il secondo detto tratta della preghiera che nel giudaismo era vi­ va e praticata con esemplare ricchezza: c'era la preghiera comune nel tempio e nella sinagoga, la preghiera privata, la preghiera liturgica con i suoi schemi fissi, la preghiera libera che nasceva dalla situazione del momento. Tanto i Salmi dell'Antico Testamento quanto quelli com­ posti ai tempi di Gesù mostrano con quale forza qui si sia pregato di cuore. A sua volta è ben comprensibile il comportamento biasimato degli «ipocriti)). Si giunge a fissare tempi precisi per la preghiera e li si osserva dovunque ci si fermi, pregando in piedi con la faccia rivolta al tempio di Gerusalemme, un po' come si può osservare ancora oggi per i maomettani. Per questa preghiera si suggerisce di ritirarsi il più possibile negli angoli delk� strade. Ad alta voce si prega solo in occa­ sione del digiuno, altrimenti di regola si bisbiglia. Naturalmente com­ piendo questi atti può avere una sua importanza anche il pensiero di essere visti da altri mentre si prega, sia che si pensi all'esemplarità del proprio gesto che spronerà altri a imitarlo sia all'impressione che tale pietà farà su altri. Certamente si perde anche l'unico interlocutore im­ portante se pregando si sbirciano le altre persone rendendole così, in un certo senso, i veri destinatari della preghiera. Ma con tutto ciò non si tocca ancora il pericolo più grave, cioè la meritorietà della preghiera presso Dio, che anche nel giudaismo del tempo veniva avvertito (cf. ai vv. 7 s.). Chi prega viene mandato nello stanzino della dispensa che serve da rimessa e che è l'unico locale della casa palestinese che può essere chiuso a chiave. Il testo è adeguato alla traduzione greca di /s. 26,20 dove si parla della maledizione d'Israele (ma cf. 2 Re 4,3 3); tut­ tavia la dispensa è diventata quasi il luogo proverbiale dove non si è visti da nessuno. Naturalmente essa è citata solo come esempio, non come l'unica possibilità - ad esempio Gesù prega da solo sul monte

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( 1 4,23) e viene consigliata la preghiera in comune ( 1 8, I 9 s.). Essenziale è soltanto che ci si rivolga interamente a Dio, «con tutto il cuore>>, senza sbirciare gli altri né ammirarsi compiaciuti. Naturalmente l'o­ rientamento totale verso Dio non è garantito dalla scelta del luogo di preghiera. L'aspetto importante di questo esempio è che si sceglie un normalissimo ambiente domestico, non il silenzio di un angolo del tempio o della sinagoga. 1 6- 1 8. Si parla del digiuno in maniera analoga. Ufficialmente si di­ giuna soltanto il giorno dell'espiazione, quando è proibito mangiare, bere, lavarsi e ungersi, oppure in culti straordinari di penitenza in momenti di crisi; tuttavia all'epoca è stato molto diffuso il digiuno privato e volontario (9, 1 4; Le. J 8, I 2 ) . «Sfigurato)) e «far bella figura» formano anche in greco un gioco di parole; il primo termine è piutto­ sto forte così che si potrebbe pensare che essi «alterassero)> il loro aspetto normale per apparire del tutto diversi da come erano in realtà. Ma poiché il termine è stato scelto per ragioni di omofonia, è legittima la traduzione proposta sopra. In effetti l'uomo è così contorto che può ancora godere del dolore della sua penitenza, può considerare con soddisfazione l'afflizione per il proprio peccato. Il giudaismo sa fin da fs. 5 8, 5 ss. (cf. Ger. I 4, I 2; Zacc. 7, 5 ss.; Gl. 2, 1 3) che è necessario di­ stinguere chiaramente tra vero e falso digiuno, che ciò che conta è la partecipazione interiore, il vero ravvedimento, non l'atto esteriore. Un a posizione simile si ha anche in Qumran con la comprensione del battesimo (cf. a 3,8). Anche qui, dunque, in un primo momento non si dice nulla di nuovo. Ma paradossalmente si invita a ungere e lavare, quindi a quei preparativi che si fanno in vista di una festa (v. 1 7). Qui si coglie una nota che è caratteristica della proclamazione di Gesù: il vero ravvedimento è gioia, anticipazione del festoso giubilo escatolo­ gico (9, 1 s a; 1 3,44; 22, I - I o; Le. I 5,7. I0.22-..2 4 ). Di nuovo ci si deve dun­ que chiedere se veramente si debba capire che si deve «apparire)) non davanti agli uomini, ma davanti a Dio oppure se, molto più radical­ mente, venga annunciata una gioia che conosce solo il giubilo per la grande benignità di Dio e non più alcun digiuno che vuole prima me­ ritarsi questa benevolenza. Certamente anche in questa seconda lettu­ ra il digiuno non sarebbe proibito; può addirittura essere consigliato se l'uomo vuole partecipare a qualcosa che è ancora più grande del mangiare e del bere e che ha come presupposto una certa apertura e quiete dei sensi {4,2; 1 Cor. 7, 5).

Il Padrenostro, 6,7-IJ (cf. Le. I 1 , 1 -4) 7-8. Una nuova nota altrettanto radicale risuona nei vv. 7 s. Con un logion che non è attestato altrove questi versetti mettono in guardia dalle ciance, cioè dalla preghiera che vuole meritarsi l'ascolto di Dio con la sua prestazione, con il cumulo numerico di parole. La ragione per cui qui si citano specificamente i pagani è che nel paganesimo del­ l' epoca non si sapeva più quale fosse veramente la divinità giusta; si cominciò così a mettere in fila, uno dopo l'altro, diversi nomi o epiteti divini. Ciò portò, come si può ancora controllare su papiri con -formu­ le magiche, a liste infinite per evitare di saltare negli scongiuri proprio il giusto nome del dio. Fenomeni simili sono costatabili anche nel giu­ daismo. La «preghiera delle diciotto benedizioni» che dovrebbe essere recitata tre volte al giorno è diventata decisamente lunga. Con la lotta alle litanie, ancora una volta, no·n viene certo detto niente di nuovo: lo si trova già in Sir. 7,14 e Ecci. 5, 1 mentre tra i rabbi non mancano quelli che consigliano preghiere brevi. Decisiva è comunque la secon­ da sentenza (v. 8). Ancora una volta non si ottiene ancora granché con una comprensione puramente letterale che riduce semplicemente il numero delle parole. Si narra che Gesù abbia pregato notti intere ( 1 4, 2 3 2 5 = Mc. 6,46-48; Mc. 1 ,3 5) e Paolo parla di preghiera costante (Rom. 1 2, 1 2; r Tess. 5,1 7); anzi lo stesso Gesù esorta a pregare incessante­ mente (7,7- 1 1 ; Le. I 1,5 ss.; 1 8, 1 ss.). Ma è decisivo come la persona in­ tenda la. propria preghiera, se intende con essa, per dirla col filosofo romano contemporaneo Seneca, «sfinire gli dèi» (Ep. 3 I , 5) oppure se prende sul serio l'assicurazione di Dio in /s. 6 5,24: «Prima che invo­ chino rispondo loro; mentre essi ancora parlano, esaudisco». In que­ sto modo la preghiera diventa un dono di Dio e cessa completamente di essere uno sforzo con il quale si potrebbe ottenere qualcosa, un'o­ pera sulla quale basare un diritto. Il suo proprio esempio mostra che Gesù non vuole togliere all'uomo il dono della preghiera, ma lo libera dal dover intraprendere una fatica particolare senza la quale non gli sarebbe garantito il libero accesso a Dio. Gesù permette che la preghie­ ra ritorni a essere il dialogo dei figli con il Padre. Il Padrenostro si trova in Le. 1 1 ,2-4 in una forma abbastanza diver­ sa. A questo proposito è sorprendente notare con quanto poco timore e scarso legalismo la prima comunità abbia trattato le parole del suo Signore. Persino un testo così centrale viene elaborato con una relati-

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va libertà, adattato alla situazione del momento e ampliato. Per la co­ munità non c'erano testi sacri nel senso che dovevano essere ripetuti alla lettera. Il Padrenostro non è dunque un codice di leggi: è un aiuto per la preghiera, una guida che si può seguire per pregare senza essere vincolati per forza a questa o a quella formulazione. Perciò il Padre­ nostro può mancare in Marco, Giovanni (e Paolo). Tuttavia anche alla base del testo greco della preghiera c'è indubbiamente una forma co­ mune, come prova già l'attributo molto raro di «pane» presente in entrambe le versioni. La cosa più strana è la mancanza della terza ri­ chiesta nella versione di Luca. Essa è stata dunque aggregata solo più tardi alla nostra preghiera, forse sulla base della richiesta di Gesù nel Getsemani. Ad ogni modo questa si trova letteralmente uguale alla ri­ chiesta del Padrenostro soltanto in Mt. 26,42, cioè in un versetto che Matteo ha riformulato rispetto a Marco (per contro il v. 39 = Mc. I 4, 36). Tuttavia è possibile che la comunità di Matteo conoscesse ancora la tradizione di una tale preghiera nel Getsemani e l'accolse nella sua preghiera. È inoltre notevole come in alcuni manoscritti la seconda ri­ chiesta (Le. I I ,2) venga sostituita dalla frase «venga il tuo santo Spiri­ to su di noi e ci purifichi>> e come anche la forma che si trova in altri manoscritti, «su noi (o: a noi) venga il tuo regno», rappresenti proba­ bilmente ancora un'eco di questa variante. Per quanto si può vedere la richiesta dello Spirito santo ha preso talora il posto anche della prima richiesta. Si tratta probabilmente di una frase che in origine veniva pronunciata al battesimo e si trova simile in testi protocristiani senza alcun nesso con il Padrenostro; dalla prassi battesimale è certamente passata poi nel Padrenostro. Così in Matteo si susseguono tre richie­ ste, in Luca due, uniformi nel testo greco, appaiate ma indipendenti, con il «tuo» in posizione enfatica alla fine della proposizione. Così si può tradurli nella nostra lingua solo con l'agg. poss. «tuo/tua» ante­ posto tre volte. A queste seguono altre tre richieste che riguardano il nostro pane, il nostro debito e la nostrt tentazione. Mentre in Luca l'apostrofe è semplicemente «Padre», in Matteo essa viene ampliata secondo la forma corrente nel giudaismo mediante l'aggiunta di «no­ stro» e «in cielo». La terza richiesta, che manca in Luca, è sviluppata, rispetto alle prime due, mediante un'aggiunta («come in cielo così an­ che in terra»). In Matteo si ha un'ulteriore aggiunta, questa volta al­ l'ultima richiesta («ma liberaci dal male»). Si possono quindi constata­ re ampliamenti nell'appellativo, dopo le due richieste alla 2 a pers. sing.

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e dopo l'ultima richiesta. Pertanto in origine si aveva la breve apostro­ fe «Padre» seguita da due richieste parallele alla 2 a pers. sing., poi due richieste più lunghe, formulate in parallelo tra di loro, alla I a pers. plur. e una terza breve richiesta conclusiva messa in particolare evi­ denza. Le ultime tre richieste vanno oltre quelle importanti iniziali, che si trovano, in forma del tutto simile, anche in preghiere giudaiche, e sono strettamente unite dalla congiunzione «e>>, mentre le prime due sono scollegate e semplicemente contigue. La dossologia finale «tuo è il regno e la potenza e la gloria in eterno» si trova soltanto in alcuni manoscritti tardi quale conclusione della versione di Matteo. Questa formula che risale a 1 Cron. 29, I I - I 3 è probabilmente la dossologia responsoriale con la quale la comunità rispondeva alla preghiera pro­ nunciata dall'incaricato a dirigerla, rendendola così anche propria. Poi­ ché nel giudaismo dossologie finali di questo tipo, libere o previste dalla liturgia, erano comuni in occasione delle preghiere, si può rite­ nere che fin dall'inizio si pronunciasse una dossologia simile in forma ancora fluida. Per quanto riguarda i particolari, nella richiesta del pa­ ne la versione lucana sostituisce «oggi)) con «quotidiano», cambiando anche la forma del verbo così che si pensa a un dono ripetuto conti­ nuamente. La rielaborazione nella comunità lucana è inoltre eviden­ ziata dall'uso del termine più comune per «peccati)) nella richiesta del perdono e dalla formulazione della subordinata > che cercavano solo l'approvazione della gente, ma ·s i aspettava dai suoi di­ scepoli un atto di misericordia, di preghiera e di digiuno che venisse dal cuore (6,2-6. 1 6- 1 8). 4· Già i1 4iscorso della pianura di Q (più o meno Le. 6,2ob-23 .27-J 8. 4 I -49) si coagula attorno ai detti di Gesù sull'amore per il nemico e sul non giudicare. Esso è decisamente orientato verso un comporta­ mento che includa il momento interpersonale e non solo i propri con­ fratelli. Così non si rimanda, allora, al Dio perfetto, come in Matteo, ma al Dio misericordioso che deve improntare l'azione della sua co­ munità (Le. 6,36; Mt. 5 ,48). In un discorso della pianura relativamente breve i macarismi iniziali e la parola del buon frutto che può venire solo da un albero buono assumono un significato ancora più forte. A ciò si aggiunge il collegamento di quest'ultima immagine con la severa parola del Battista, con la quale Q inizia, e la collocazione del discor­ so della pianura tra il racconto della tentazione di Gesù e quello del centurione di Cafarnao. Se Q è veramente nata in radicale opposizio­ ne agli zeloti, dunque contro un gruppo rivoluzionario che fidando nell'appoggio divino voleva scacciare dal paese con la forza delle armi le truppe di occupazione romane, allora è ancora più chiaro quanto in Q venga preso sul serio l'avvertimento di Gesù a guardarsi da un'ope­ razione che rimanga puramente esteriore e non comprenda tutto il cuore dell'uomo. In tutto ciò non è stato dimenticato l'appello di Ge­ sù alla realizzazione in atti concreti che risuona a partire dalle parole del Battista fino alla parabola della costruzione della casa che conclu­ de il discorso della pianura. In Q manca del tutto la problematica del­ la validità della legge o anche della prassi giudaica della pietà che ap­ pare invece in primo piano nelle antitesi matteane e nei logia menzio­ nati sopra, ai punti 2 e 3· Anche il riferimento al dono del Padrenostro e della vita senza ansietà, che pure Q conosce, non è stato ancora inse­ rito nel discorso della pianura. A Q interessa soprattutto che divenga possibile la comunione tra uomini che sono diventati sani a partire dal­ la radice mediante la parola rivolta loro da Gesù e possono così smet­ tere di odiare e di giudicare. 5 . Ci sono motivi per credere che il discorso della pianura sia sta­ to già ampliato nella comunità dalla quale Matteo proviene, sebbene

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quando si entri nei particolari la questione si faccia per molti aspetti incerta. L'ampliamento più probabile è quello che ha portato le beati­ tudini a sette; infatti già qui è stato sottolineato più energicamente il comportamento che l'uomo deve assumere ( 5 ,7-9 ). Prematteane sono anche le antitesi originarie che presentano un inasprimento della legge { 5 ,2 1 .22a.27 s.3 3a.37) e lo schema ternario delle opere della pietà (6,26. 1 6- 1 8). Quelle risalgono verosimilmente a Gesù, questo agli interes­ si catecheti ci della comunità. Matteo segue sì quasi senza eccezioni l'or­ dine del discorso della pianura e la sua collocazione in Q, ma si allon­ tana abbastanza decisamente dal dettato di questa, mentre accoglie qua­ si alla lettera nel discorso della montagna anche altro materiale di Q. L'ipotesi che Matteo abbia conosciuto il discorso della pianura anche in una forma ampliata in uso nella sua comunità sembra fornire la spiegazione migliore di questo fatto. Se in questa forma corrente nella comunità di Matteo erano inclusi anche i passi suddetti, allora già in questa il discorso della montagna è stato letto soprattutto dal punto di vista del confronto polemico con la legge. La risposta sarebbe tuttavia rimasta ancora relativamente semplice: Gesù non ha abolito la legge, ma l'ha soltanto interpretata in modo tale da mettere in risalto la vera volontà di Dio che si manifestava in essa. L'atteggiamento antifarisai­ co (6,2-6. 1 6- 1 8) è certamente rivolto già contro il giudaismo degli an­ ni successivi al crollo di Gerusalemme che si va consolidando. In que­ sta polemica i farisei non vengono messi fondamentalmente in que­ �tione, bensì li si accusa di scarsa coerenza, come si può leggere in 2 3, 2-4, ma soprattutto in 2 J, 5. Probabilmente l'ampliamento delle antite­ si in una forma che presenta con ironia la discussione farisaica ( 5 ,22b. 29 s. ?3 3b-3 6) si è aggregato in questa fase. 6. Per quel che riguarda Matteo stesso (cf. excursus a 7, 1 3 -23 e retro­ spettiva, in calce al volume), egli deve affrontare lo spinoso problema di una corrente di «anomia» nella quale la grazia corre il rischio di di­ ventare un affare a buon mercato. La minaccia più seria, che ha addi­ rittura un carattere escatologico (24, 1 1 s.), proviene dai falsi profeti la cui pericolosità non è costituita tanto dalla loro dottrina eretica quan­ to dalla loro condotta sbagliata. Qui la comunità deve resistere «fino alla fine»; qui Matteo si oppone senza mezzi termini ai suoi avversari e con una sorta di postfazione dirige tutto il discorso della montagna su questa contrapposizione (7, 1 5 -27). Per questa ragione egli rende an­ che più forte il riferimento alla piena approvazione della legge divina

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da parte di Gesù ( 5 , 1 7-20). Egli non riesce a liberarsi da una certa pre­ occupazione che la comunità di Gesù possa intendere la sua nuova vi­ ta «in maniera fin troppo nuova». La comunità potrebbe dimenticare che Dio cerca il proprio popdlo anche nella legge. Ciò che viene qui n­ di richiesto ai discepoli non è, come sottolinea Matteo, qualcosa di meno, bensì qualcosa di più di quello che fanno farisei e .scribi. Mat­ teo, dunque, non è certamente Paolo. Per quanto non ignori certa­ mente il contrasto con la legge dell'Antico Testamento, come mostra­ no proprio le antitesi composte in un secondo momento ( 5 ,3 1 s.3 8 -48), pure Matteo l'imposta nel senso che soltanto la legge letta alla luce dell'amore del prossimo e orientata totalmente verso il prossimo stes­ so porti a compimento i comandamenti di Dio. Come la letteratura sapienziale spiegava che solo la sapienza consentiva di conoscere i co­ mandamenti e donava perfezione (Sap. 9,6.9 s.), così secondo Matteo in Gesù è apparsa la Sapienza (v. excursus a 23,34-39) che insegna ciò che Dio ha voluto veramente dire nella sua legge. La sua soluzione del problema è il compendio di tutta la legge nell'appello di Gesù all'amo­ re. A questa visione risale anche l'unico spostamento che egli compie nel discorso della pianura, quello che riguarda la regola aurea che ades­ so forma, insieme con 5 , 1 7-20, la parentesi che racchiude i detti sulla nuova, superiore giustizia. A questo proposito Matteo sa che soltanto la realtà di questo amore in tutto quanto l'insegnamento e l'opera di Gesù fino alla sua morte inclusa dona al discepolo la nuova vita nella quale viene compiuta la legge. Mediante 5 , 1 7 e l'aggiunta a 5 , 1 8 egli interpreta l'antica parola che giudicava positivamente la legge conser­ vata dalla tradizione. Così anche l'invito a rinunciare a ogni rivalsa e ad amare il nemico costituisce il culmine del confronto di Gesù con il problema della legge ( 5 ,3 8·39a·43 ·44a). Questo orientamento verso il benessere del prossimo si manifesta anche nelf,interpretazione mattea­ na del Padrenostro che adesso sottolinea proprio l'assoluto obbligo del perdono verso l' «uomo» (ancora una volta non solo verso il fratel­ lo) colpevolé. Ma vanno nella medesima direzione anche gli esempi che riguardano il mantenimento e ristabilimento della comunione tra gli uomini e spingono all'azione concreta ( 5,23 -26; l'aggiunta in 5,3 2). A Matteo interessa che nella concreta convivenza degli uomini nella comunità e oltre i confini di questa si giunga realmente a vivere l'amo­ re. Perciò Matteo offre, oltre il radicale comandamento di Gesù, an­ che indicazioni pratiche su come ubbidire a questo comandamento del-

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l'amore (cf. anche la conci. a 26,47- 56). L'evangelista non ha neanche dimenticato che secondo la volontà di Gesù la comunità non è mai chiamata al proprio perfezionamento, ma deve costituire un segno per tutti. Così egli sposta in avanti i detti che riguardano i discepoli sale della terra, luce del mondo e città posta sul monte ( 5 , I 3 - I 6} e fortifi­ ca la sua comunità in vista della persecuzione che dovrà affrontare se pratica una siffatta giustizia ( 5, I o). In tutte queste situazioni Matteo sa da dove venga alla comunità la forza che sola permette di vivere una tale vita. Egli ha ripreso da altre parti di Q non solo il Padreno­ stro (6,9- 1 3 }, ma anche le parole sul Dio benevolo che esaudisce que­ sta preghiera più sicuramente di un padre umano (7,7- 1 1 ) e le senten­ ze che vogliono liberare dall'avarizia �rraffatrice e dalla preoccupazio­ ne (6, 19-34), inserendole organicamente nel discorso della montagna. In un certo modo il Padrenostro segna il centro del discorso della montagna con le prime tre richieste sviluppate nella parte precedente e le ultime tre nelle pericopi seguenti (6, I 9-34; 7, I - 1 2. 1 3-23). Ma poi­ ché il Padrenostro è inserito in uno schema ternario preesistente alla voce «preghiera» e inoltre il passo di 7, 1 3 ss. è una postfazione attua­ lizzante, si può probabilmente dire soltanto che Matteo ha imparato da Gesù, in particolare dal Padrenostro, ad anteporre le grandi richie­ ste che riguardano Dio ai desideri e alle necessità dell'uomo. Difficil­ lnente il discorso della montagna è stato costruito deliberatamente sul modello parallelo del Pentateuco. In verità si sono paragonati la Ge­ nesi (Dio benedice il popolo affinché divenga una benedizione per tutti} a Mt. 5,3- 1 6; l'Esodo (Dio dà la legge) a 5 , 1 7-48; il Levitico (Dio insegna la corretta adorazione) a 6, 1 - 1 8; i Numeri (Dio protegge il suo popolo) a 6, 1 9-34; il Deuteronomio (giudizio della parola di Dio; offerta della vita o della morte) a 7, 1 -27. Il parallelismo resta comun­ que molto dubbio. Ma indubbiamente il contributo più importante di Matteo è di aver composto il discorso della montagna e di averlo inse­ rito organicamente nel suo vangelo. In questo modo egli ha presenta­ to Gesù quale «messia della parola» e chiarito che si può capire e vive­ re quanto viene detto qui soltanto nella sua sequela, essendo guidati da lui nel suo totale orientamento verso Dio e nella sua ubbidienza. Proprio la sorprendente libertà con la quale compone e rimodella è un segno eccellente della liberazione che gli è venuta da questo Signore {cf. quanto si dice sul termine «evangelo» nell'excursus a 7, 1 5 -23 [3]). 7· Infine l'ordinamento ecclesiastico siriaco mostra, ad esempio, co-

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me si possa fraintendere di nuovo il discorso della montagna quale pu­ ro discorso sapienziale, comprensibile a tutti, privarlo di questo suo centro e quindi falsificarlo. «Amate coloro che vi odiano» è ora una me­ ra regola di saggezza: « ... e non avrete più nemici)). La sentenza « ... al­ lora non pretenderne la restituzione» viene giustificata con l' esperien­ za comune che quando si tratta di un debitore moroso il ricupero del credito è poco probabile: « ... tanto neanche lo potrai riavere». «Egli non uscirà da lì prima di aver pagato fino all'ultimo centesimo» è ora riferito a chi riceve l'elemosina abusivamente! Al detto « d a' a chiun­ que ti chiede» si aggiunge: «Che la tua elemosina sudi nella tua mano finché tu non sappia a chi debba darla» (Did. 1 ,3 -6). Siffatte regole di saggezza per navigare nella vita furono redatte all'epoca anche da un giudeo come Massime sulla giustizia del Dio santo e attribuite al poeta greco Focilide (cf. ad es. Pseudo Focilide, 1 ,2 s.7. 1 I . 1 4- 1 7.22.J 2-34). A questa visione si adattano anche l'esortazione di Did. 6,2 che se non si riesce a essere già perfetti, . si dovrebbe almeno fare il possibile, e l'osservazione di 8 , 1 s. che non si dovrebbe digiunare come gli ipocriti di lunedì e giovedì, ma di mercoledì e venerdì, e per la preghiera non si dovrebbe usare un formulario giudaico, ma il Padrenostro.

c) Il problema della verità. 1 . Certamente, con tutto ciò che si è det­ to il problema della verità è stato solo posto, senza dargli tuttavia una risposta. Che cos'è ora che conta? Quale di queste molte voci è quella che non è assolutamente lecito non udire ? Eppure è stato già detta la cosa decisiva. Infatti proprio la molteplicità della trasmissione e del­ l'interpretazione delle parole di Gesù mostra chiaramente che non si ha comunque a che fare con una formula giuridica, immutabile per tutti i tempi. Lo si può mostrare con esempi. Non si racconta mai che Gesù si sia chiuso in dispensa per pregare, come suggerisce 6,6, ma soltanto che egli abbia pregato davanti alla folla o da solo su di un monte ( r 4, 1 9.23). Inoltre Gesù non si è evidentemente limitato a tace­ re né in occasione del suo arresto né davanti al tribunale (26, 5 5; Gv. 1 8,2 3 ). Si nota il medesimo comportamento anche nel caso dei suoi discepoli (Atti 1 6,37 ss.; 22,2 5 ss.; 2 5 , 1 0 ss.). Davanti agli attacchi dei farisei Gesù non ha affatto porto solo l'altra guancia, ma ha lanciato un contrattacco così violento che ci si è già chiesti se Gesù abbia ama­ to i farisei e pregato per loro, anzi se abbia minimamente cercato di capirli. Ora Gesù fu probabilmente invitato anche a casa di farisei e

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voleva intavolare con loro un dialogo (Le. 7,3 6- 50; Gv. J , I ss.). Egli poté essere d'accordo con uno scriba e dichiarare che questi non era lontano dal regno di Dio (Mc. I 2 ,3 4) e ebbe amici tra i membri del si­ nedrio (Mc. I h4J ). Ma non si può negare che Gesù abbia anche eser­ citato una critica aspra. Eppure è proprio davanti a questo esempio che si deve porre la questione della verità. Ciò che questa critica signi­ fica dipende cioè dalla questione di chi la esprime e in quale situazio­ ne lo faccia. Il materiale dei vangeli è stato raccolto in un periodo in cui la comunità di Gesù e il giudaismo a guida farisaica si separarono e allontanarono, dovendo ciascuna comunità lottare per sopravvivere. Sono così nate nuove sentenze antifarisaiche e antiche parole sono state interpretate diversamente. Sarebbe da chiedersi fino a che punto ciò fosse giustificato o storicamente necessario. N el caso dello stesso Gesù venne esercitata una critica aspra anche contro molti altri gruppi del suo popolo e in questa critica si manifesta proprio la sua lotta per conquistare il prossimo, il suo amore. Perciò sono più importanti le considerazioni fondamentali. Infatti sarebbe spesso molto più como­ do non discutere con altri e limitarsi semplicemente a tacere invece che collaborare a chiarire i punti di contrasto. Potrebbe essere più co­ modo porgere semplicemente l'altra guancia a un figlio che in un im­ peto d'ira colpisca la madre anziché opporglisi e aiutarlo a superare quel momento con un dialogo che richiede un impegno interiore. Spes­ so è più facile dare a un mendicante qualcosa che avere tempo per lui. Una vita come quella degli uccelli in cielo e dei gigli nei campi può es­ sere espressione di fede, ma anche essere altrettanto bene solo pigri­ zia: il problema è già noto a 2 Tess. 3,6 ss. (cf. 1 Tess. 4, Io ss.). Davanti a tutti questi passi si deve chiedere e decidere di continuo, volta dopo volta, che cosa sia concretamente per il prossimo un servizio di amo­ re, che cosa rappresenti un sottrarsi a esso, e l'osservanza letterale della legge di Gesù non può sottrarci né a tale interrogativo né a tale decisione come non può farlo l'osservanza letterale della legge di Mo­ sè. Proprio ciò mostra la tradizione nella quale la comunità ha chiesto, ricominciando ogni volta da capo, che cosa significhi praticamente in questo preciso momento l'ordine di Gesù. 2. Con ciò si è anche toccato già l'aspetto più importante riguardo alle grandi questioni legate al discorso della montagna. Che cosa si­ gnifica non resistere al malvagio quando vengo precettato ? Significa che ubbidisco senza oppormi oppure che io, per non venire costretto,

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in quanto soldato, a opporre resistenza, mi oppongo alla precettazio­ ne ? Significa che non posso opporre resistenza a un sistema malvagio che sfrutta i poveri e i deboli, cioè che io stesso partecipo a tale sfrut­ tamento oppure significa che devo fare resistenza proprio per non es­ sere complice del sistema ? Movimenti idealistici che vogliono stabilire sulla terra un regno di pace secondo il modello del discorso della mon­ tagna hanno condotto, per questa nobile causa, a una escalation della violenza. La scelta di esempi è ampia, da Jan Matthys a Miinster fino a Stalin. Viceversa l'indifferenza che non ha opposto per tempo resi­ stenza a un lusso irresponsabile o a un sistema ingiusto o alla demo­ nizzazione e persecuzione di una minoranza ha portato a sofferenze infinite. Ancora una volta gli esempi vanno dal periodo precedente la rivoluzione francese ai decenni dell'industrializzazione dell'Europa con il suo lavoro minorile fino al manifestarsi delle persecuzioni con­ tro gli ebrei. Che cosa si richiede alla. comunità? Essa viene invitata alla fede da tutti gli strati del discorso della montagna. Ciò significa, dunque, che essa aspetta in realtà la risposta che viene dal suo Signore, non da se stessa. Essa viene perciò chiamata a pregare, in primo luogo anche ad attendere e ascoltare. Il fatto che probabilmente già la nascita del discorso della montagna sia avvenuta sotto il segno di una deter­ minata decisione politica, precisamente il chiaro rifiuto opposto ai ri­ voluzionari dell'epoca, ricorda alla comunità che essa dovrebbe essere molto diffidente quando qualcuno incita a servirsi della forza per una causa nobile o presunta tale. Proprio nel discorso della montagna, ci si aspetta tuttavia per prima cosa dalla comunità che soffra e venga per­ seguitata, non che colpisca. In verità le linee di confine non sono sem­ pre così chiare da impedirci sempre di sporcarci le mani. Nel vangelo di Matteo chi si lava le mani perché vuole averle pulite è Pilato, non l'imputato Gesù che rimane estremamente sospetto e ambiguo. Anche un gruppo di discepoli che soffre e si limita a una resistenza passiva può esercitare una pressione che è una forma più blanda di violenza. E quando Gesù scacciò le persone dal tempio e attaccò i farisei con ta­ gliente crudezza egli esercitò, sia pur simbolicamente, violenza. Lo stesso Matteo esorta la comunità a non tacere affatto quando il fratel­ lo cade nel peccato, ma a correggerlo e, se veramente necessario, a trattarlo alla stregua di un pubblicano e di un pagano { I 8, I 5 - 1 8). Ci possono essere casi nei quali si deve prendere così sul serio il pros­ simo che veramente si ha l'obbligo nei suoi confronti di non cedere

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finché non sia stato strappato dalle mani del maligno. Soprattutto si presenteranno sempre casi nei quali membri di una medesima co­ munità sono chiamati da Dio a prendere decisioni diverse. Uno che fa il servizio militare può, ad esempio nel 1 940 in Svizzera, voler strap­ pare a una morte tremenda non solo se stesso, ma anche migliaia di profughi. Al contempo un altro deve rifìutarsi, nella medesima situa­ zione, di prestare il servizio militare per mettere in guardia da qual­ siasi fanatico patriottismo. Gesù non si è identificato né con gli zeloti rivoluzionari né con i sadducei, politicamente conservatori, né con i farisei che tendevano ad astenersi dalla vita politica. Così non esiste alcuna formula fissa che potrebbe descrivere per sempre la posizione della comunità. 3· Il problema diventa più acuto non appena si entri nella sfera· della società. Il giudice che assolvesse tutti gli imputati, senza distinzione, si assumerebbe una ben grave responsabilità. In questo modo egli po­ trebbe abbandonare migliaia di persone in balia di omicidi e assassini. Certamente egli non può neanche nascondersi dietro alla carica che ri­ copre, sostenendo di dover agire secondo le sue leggi. Il funzionario che applicando le leggi in vigore durante il nazismo ha mandato a mor­ te, senza scrupoli, milioni di ebrei, è stato giustamente condannato an­ che se nella sua vita privata fosse stato sposo e padre modello. Anche il giudice deve quindi ubbidire al comandamento dell>amore. Egli, se è veramente convinto dell'innocenza dell'imputato, deve essere addirit­ tura pronto a sopportare le conseguenze di una sentenza di assoluzio­ ne pronunciata infrangendo gli articoli delle leggi che è suo compito applicare. Ma egli sa che è anche chiamato ad amare coloro che ha il dovere di proteggere dall'arbitrio e dal diritto illimitato del più forte, cioè l'intera società, mediante il mantenimento di un certo ordine. Se in questo esempio è ancora possibile riuscire a vedere in una certa mi­ sura, trattandosi di un singolo individuo, quali saranno le conseguen­ ze della sua azione, la decisione si fa molto più difficile quando giunge il momento di considerare, ad esempio, misure economiche, diritto del lavoro, costo dei terreni. Qui è proprio la comunità di Gesù a essere interessata a che esperti, che possono collaborare soltanto in gruppo, la aiutino a vedere il problema e a rispondere che cosa significhi con­ cretamente amore in questi casi. Così il comandamento dell'amore per il singolo uomo che mi sta di fronte e il comandamento dell'amore per i molti che devono essere protetti mediante un certo ordine, devono

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essere soppesati tra di loro. In questa situazione il conflitto è in evita­ bile. Ciò che Gesù si aspetta dal suo discepolo è l'impegno coraggioso ed energico per l'amore, non quella innocenza che si rifiuta sempre e ovunque di essere coinvolta. 4· Vivere nella fede non è una soluzione garantita che risponde a tutti gli interrogativi. O gni volta che la comunità ha cercato di farlo le cose sono andate male. E sorprendente e per molte persone traumati­ co che Gesù abbia parlato sì contro le pratiche scorrette nella sfera del matrimonio, ma non si sia mai impegnato per la creazione di un nuo­ vo diritto matrimoniale; che abbia parlato dell'omicidio che inizia già nel cuore irato, ma non si sia mai espresso contro il servizio militare; che abbia parlato del sì che non ha bisogno di essere convalidato da un giuramento, ma non abbia dato indicazioni sul problema di presta­ re giuramento nello �tato; che abbia esortato ad amare il nemico, sen­ za tuttavia prendere posizione né a favore degli zeloti né del partito conservatore; che abbia indicato la vita degli uccelli e dei fiori, ma non abbia neanche tentato di cambiare il diritto del lavoro allora vigente o persino l'istituzione della schiavitù; che abbia messo in guardia da mammona, senza tuttavia attaccare il sistema economico. Tuttavia al seguito di Gesù ci sono discepoli che hanno capito che le parole di Gesù sollecitano un'azione pratica che scaturisca dalla fede, ad esem­ pio -la battaglia dei metodisti e dei battisti contro la schiavitù nel XVI II secolo. Ma si vedranno i limiti di tutte le opere pratiche. Se Gesù aves­ se fatto approvare in Palestina un nuovo diritto matrimoniale e del la­ voro, questo sarebbe già da lungo tempo obsoleto e superato; soprat­ tutto questo diritto, in una diversa situazione, si sarebbe nuovamente dimostrato sbagliato ed eventualmente più pericoloso dell'antico or­ dinamento. Il divieto degli interessi nella chiesa medievale, direttamen­ te ispirato dal discorso della montagna (v. a 5,42), ha avuto la conse­ guenza che solo i giudei potessero ancora occuparsi di affari finanzia­ ri, dimostrandosi così estremamente dannoso. Gesù non ha sviluppato mai alcun programma perché i programmi vanno sempre attuati solo con gli articoli della legge e con la minaccia delle relative pene. Ciò che Gesù ha cercato è il rinnovato cuore dell'uomo che agisce non per costrizione, ma con la libertà della fede. La legge che opera con la co­ strizione impedisce proprio di diventare liberi in questo modo. Certo ci sono situazioni nelle quali si deve usare la costrizione per amore dei bisognosi. Se il buon samaritano non avesse avuto una cavalcatura egli

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non avrebbe ovviamente predicato a un pagano di passaggio, ma gli avrebbe chiesto aiuto, se necessario lo avrebbe costretto a collaborare persino mediante la dolce violenza della persuasione o la meno dolce violenza della minaccia, affinché l'uomo ferito non morisse nel frat­ tempo. Per questo non c'è bisogno tuttavia della Bibbia, ma basta il buon senso umano. E anche Gesù presuppone che si usi questa sana ragione. Perciò nel Nuovo Testamento non vengono affatto menzio­ nati particolarmente i casi come questo. Cf. anche conci. a cap. 5. 5· L'interesse centrale d i Gesù è però l'appello alla fede che s i mani­ festa nell'organizzazione concreta della vita. È questo che dà alle ag­ giunte alle antitesi (5,23 -26) il loro senso. ' In queste aggiunte viene comunque ripreso, sia pure in una forma non eccelsa che rispecchia piuttosto male e con approssimazione l'assolutezza delle formulazioni di Gesù, l'aspetto che per Gesù era decisivo. Non si tratta che l'uomo debba perfezionare se stesso; neanche, per prima cosa, che egli ricono­ sca di non aver raggiunto la perfezione. Si tratta invece che egli diven­ ga libero per Dio e quindi, al contempo, per l'uomo che ha bisogno di lui. È questo il segnale che egli deve dare: egli sarà allora pronto a trarre conseguenze familiari, ma anche politiche ed economiche, e allo stesso tempo disposto a farsi mostrare se ciò per cui magari ha lottato per tutta una vita non vale più in una nuova situazione e quindi deve essere abbandonato o cambiato. 6. Nel movimento ecumenico è stata sottolineata, a Londra e Bossey nel 1 946-47, l'ubbidienza in seno alla comunità, ubbidienza che può essere solo un segno per il mondo; nel 1 9 5 4 a Evanston la superiore giustizia nel mondo quale anticipazione del regno di Dio che viene; nel r 96 1 a Nuova Dehli il ruolo della comunità quale luce del mondo; nel r 968 a Uppsala la concreta responsabilità politica ed economica anche della comunità. Così come il discorso della montagna invita con urgenza a trarre conseguenze pratiche è necessario ribadire con altret­ tanta chiarezza che l'amore che vive della fede non può mai trasfor­ marsi in un programma. Questo amore deve continuare a essere sale e luce nei movimenti politici e sociali, deve continuare a stimolare e il­ luminare, deve continuare dunque a nuotare sempre controcorrente e proclamare colui che con la propria attività non si è mai adattato ad alcun programma, rendendo perciò impossibile a priori qualsiasi sche­ ma fisso amico-nemico.

La guarigione del lebbroso, 8,1-4 (cf. Mc. 1 ,40-4 5; Le. 5, 1 2- 1 6) 1 M a quando scese dal monte una folla numerosa lo seguì. 2 Ed ecco: un lebbroso gli si avvicinò, si prostrò davanti a lui e disse: Signore, se vuoi, puoi pu rifi carmi. 3 Ed egli allungò la mano, lo toccò e disse: Lo voglio, sii puro! E subito la sua lebbra divenne pura. 4 E Gesù gli disse: Guarda di non dire niente a nessuno, ma va', fatti vedere dal sacerdote e offri il sacri­ ficio che Mosè ha prescritto, per testimonianza a loro.

4 Lev. 1 3 ,49; 1 4,2-J 2.

Matteo abbrevia considerevolmente la parte narrativa, riducendo nel complesso, rispetto a Marco, le storie di miracoli del 4 5 %, le storie che mettono in evidenza la messianicità di Gesù solo del 1 oo/o circa, le storie legate alle dispute in media del 2o0/o . Anche nelle storie di mira­ coli a Matteo interessa l'incontro di Gesù con gli uomini. La descri­ zione della guarigione viene regolarmente abbrevìata di molto, met­ tendo invece in risalto il dialogo sulla fede (ad es. 9,20-22 dove si tro­ vano faccia a faccia soltanto Gesù e la donna; 8, 1 3; 1 5 ,2 1 -28; cf. anche intr. a 1 8, 1 -5), come si può osservare anche nel nostro passo. Per la questione del miracolo cf. excursus a Mc. 4,3 5 -4 1 (Mc. , pp. 8 7 s.). 1 -4. La storia viene unita al discorso della montagna mediante il v. 1 (si ha un nesso simile in 1 7,9). Le folle ( 5 , 1 a) vengono presentate come testimoni non solo delle sue parole, ma anche dei suoi atti. Forse si vuole anche descrivere il ritorno al mondo del bisogno e della soffe­ renza. «Ed ecco» imita il linguaggio della Bibbia. È storia di Dio quel­ la che si sta svolgendo qui. La formula metterà in seguito in evidenza anche la guarigione del paralitico, della menorragica, del muto inde­ moniato (9,2.20.32) e inoltre la situazione di pericolo dei discepoli (8, 24), un aspetto importante per Matteo, il riconoscimento del Figlio di Dio (8,29), il passaggio dei demoni nel branco di maiali (8,3 2, cf. 34), l'obiezione degli scribi (9,3) e la venuta dei pubblicani (9, 1 0). Manca nella guarigione dei ciechi, che per Matteo è così importante a motivo di I 1 ,4 s. (invece è presente in 20,30) e soprattutto nelle risuscitazioni dei morti. Non si può quindi parlare di un uso sistematico della for­ mula anche se Matteo la usa volentieri per mettere in risalto qualcosa che gli sembra importarne. «Avvicinarsi e prostrarsi» nell'Antico Te­ stamento indica frequentemente l'adorazione rituale e Matteo usa so­ vente in particolare il primo verbo per descrivere il riverente avvici-

Mt.

8, 1 -4. La guarigione del lebbroso

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narsi degli uomini a Gesù (il verbo è usato 4 1 volte per indicare gli al­ tri che si avvicinano a Gesù, quasi sempre con riverenza; solo due vol­ te ne è soggetto Gesù stesso: 1 7,7; 2 8, 1 8; cf. a 8,2 5 ; 9, 1 8; 1 5 ,2 5 ) . In Mat­ teo non si accentua più l'urgente necessità del malato come in Marco, ma il momento dell'avvicinamento che riconosce Gesù quale Signore. Questo aspetto viene sottolineato dall'appellativo «Signore» che Mat­ teo aggiunge, nonostante la suddetta opera di accorciamento, e che nel suo vangelo appare solo sulle labbra di credenti (cf. 8,6; 1 5,22; 1 7, 1 5; 20,30 s.). La richiesta è quindi già un modello di adorazione credente che si aspetta ogni cosa dalla onnipotenza del «Signore». La guarigio­ ne viene descritta con la massima brevità possibile in esatta corrispon­ denza con la parola di Gesù. Il voluto parallelismo tra «avvicinandosi gli si prostrò davanti e disse» e «stendendo la mano lo toccò e disse» è insolito. Era già presente nella tradizione prematteana? Matteo trala­ scia sia la collera di Gesù (Mc. 1 ,43 ) sia il riferimento alla sua miseri­ cordia (Mc. 1 ,4 1 ) . L'aspetto umano di Gesù passa in secondo piano la­ sciando la scena libera per la sua divina onnipotenza. L'ultimo verset­ to (v. 4 ) non intende autenticare il miracolo, ma presentare Gesù qua­ le figlio d'Israele osservante della legge ( 5 , 1 7 ) . È sorprendente che si mantenga l'ingiunzione di tacere (Mc. 1 ,44) sebbene, secondo l'intro­ duzione di Matteo, la folla sia testimone del miracolo. Quest'ordine appare ancora una volta (9,30) alla fine dei racconti di miracoli insie­ me con la violazione dell'ingiunzione in analogia con Mc. 1 ,4 5 . Con l'ordine di tacere Matteo vuole probabilmente sottolineare l'umiltà di Gesù, il servo di Dio che non grida né si fa propaganda ad alta voce nelle strade (cf. a 1 2, 1 5 -2 1 e già in 8, 1 7) . Diversamente da quanto avviene in Marco (v. Mc. , pp. 49 s.), in Matteo la storia invita ad adorare il «Signore» il cui aiuto risponde progressivamente alla richiesta che gli è stata indirizzata. L'ubbidien­ za di Gesù verso la legge di Dio è sottolineata più che in Marco, così anche la rinuncia di Gesù a ogni rumorosa pubblicità, ma proprio in questo modo anche l'apparizione del «servo di Dio» che frantuma i rigidi precetti della pietà buoni solo ad escludere, ma non a sanare il lebbroso. Così il guarito diventa una testimonianza contro l'Israele ufficiale, come confermerà il prossimo brano. In questo modo, tutta­ via, viene posto anche al lettore l'interrogativo se voglia aprirsi al Dio che in Gesù gli si fa incontro così da poter anche lui sfondare real­ mente le mura (anche quelle religiose!).

La fede del centurione di Cafarnao, 8,5-1 3 (cf. Le. 7, 1 -9; 1 3,2 8 .29; 7, 1 o) 5 Ma appena entrò a Cafarnao gli si avvicinò un centurione, lo supplicò 6 e disse: Signore, il mio servo giace in casa paralizzato, soffrendo per il gran dolore. 7 Egli gli dice: Verrò io stesso e lo guarirò. 8 Ma il centurione gli rispose e disse: Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; ma pronuncia solo una parola e il mio servo sarà guarito. 9 Poiché anch'io so­ no un uomo sottoposto a un'autorità e ho sotto di me soldati e dico a uno: Va' ! ed egli va, e a un altro: Vieni! ed egli viene, e al mio schiavo: Fa' que­ sto ! ed egli lo fa. Io Quando udì ciò, Gesù si meravigliò e disse a coloro che lo seguivano: Amen, vi dico: In Israele non ho trovato in nessuno una fede così grande! - I I Ma vi dico: Verranno molti, «da oriente e da occidente», e si metteranno a tavola con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli. 1 2 Ma i figli del regno verranno espulsi nella tenebra di fuori: là ci sarà la­ mento e digrignar di denti. 13 E Gesù disse al centurione: Ritorna a casa! Ti succeda come hai creduto. E il servo fu guarito in quello stesso istante. -

I 1 fs. 49, 1 2 ; 39,1 9; Mal. 1 , 1 1; Sal. 107,3 (cf. fs. 2,2 s.; 43, 5).

Le parole del centurione e quelle di Gesù nei vv 8- 1 0 coincidono quasi alla lettera con Le. 7,6-9, con la differenza che Luca aggiunge al v. 7a un commento nel suo stile tipico. Nel resto del racconto non c'è neanche una parola uguale, fatta eccezione per il termine «centurione» e per l'indicazione topografica «entrare a Cafarnao» (v. 5 ). Secondo Luca il centurione non si muove di casa, ma mandasi limita a inviare gli amici che, certamente, dicono esattamente ciò che secondo Matteo ha detto il centurione. Naturalmente, ragionando in termini storici, non possono essere avvenute entrambe le cose. Per il resto secondo Matteo il malato è paralizzato, secondo Luca è in punto di morte, sen­ za che si dica di che malattia si tratti. Inoltre secondo Luca una prima delegazione di anziani ha sollecitato la venuta dt Gesù, prima che gli vengano mandati incontro gli amici, tutte cose che Matteo ignora com­ pletamente. Mt. 8,6 parla di «ragazzo», che potrebbe denotare tanto il servo quanto il figlio, mentre Luca parla decisamente di «servo», se h­ bene abbia il medesimo termine di Mt. 8 ,6. 8 nella richiesta del centu­ rione (Le. 7,7). Probabilmente anche Gv. 4,46- 54, dove il «figlio» ma­ lato del funzionario reale di Cafarnao viene guarito a distanza, è una versione più moderna di questa storia, adattata a un'epoca nella quale il problema del giudeo o del pagano non era più così acuto. A quanto sembra, dunque, Q tramandava unicamente il dialogo dei vv 8- 1 0, cer.

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Mt. 8, 5 - 1 3.

La fede del centurione di Cafarnao

20 1

tamente dopo un'indicazione di massima, una sorta di soprascritta, sul­ la malattia del «ragazzo» del «centurione di Cafarnao». In Matteo è intessuto nella storia un detto fondamentale: alla storia del pagano esemplare egli aggiunge la scena dei pagani seduti a tavola nel ban­ chetto escatologico, dell'esclusione d'Israele e del conseguente lamen­ to e stridore di denti. Le. 1 3,28 s. conosce il detto, ma esattamente nell'ordine inverso, forse perché in Luca esso è collegato con la parola di giudizio di Le. I 3 ,27. Probabilmente il logion è stato ripetuto fre­ quentemente, ora in questa ora in un'altra forma. Tuttavia il richiamo ai pagani mal si adatta al contesto in cui lo pone Luca e anche il riferi­ mento della precedente minaccia (Le. I J,27) ai giudei (v. 26) va attri­ buito più a Luca stesso che alla tradizione più antica. Così il detto ap­ partiene certamente già prima di Matteo, forse fin dall'inizio, alla no­ stra storia (v. intr. a 4, I 7- I I ,J o). Esso p'uò risalire a Gesù (v. al v. I I ) e potrebbe essere stato pronunciato in un'occasione simile a quella de­ scritta qui. Matteo stesso formula il detto della guarigione che corri­ sponde alla fede (v. I J; cf. l'excursus sulle storie di miracoli a Mc. 4, 3 5 -4 I in Mc. , pp. 87 s.). Singolare è l'affinità sostanziale con I S ,2 I -28: si racconta di guarigioni a distanza solo nel caso di pagani. 5-1 3. Il centurione dovrebbe essere un pagano di Siria al servizio di Roma. La fede è sottolineata talmente che già la richiesta non è che una proposizione dichiarativa che lascia totalmente a Gesù di fare quel­ lo che vuole. Si potrebbe leggere il v. 7 anche come domanda, ma pro­ babilmente esso va letto quale manifestazione dell'apertura e dell'au­ torità di Gesù. Subito dopo viene la parola che spinse Calvino a osser­ vare che questo centurione fu guarito da Dio ancor prima che il suo servitore venisse guarito da Gesù. Essa è espressione della conoscenza obiettiva della posizione che occupa agli occhi di Dio colui che parla. Infatti in Palestina il giudeo non entra in casa di un pagano per non contaminarsi. In quanto pagano il richiedente non può vantare alcun diritto su Dio come coloro che dicono: «Abbiamo Abramo per pa­ dre» {3,9). Ma proprio questa consapevolezza rappresenta già il nuovo modo di pensare della conversione {3,8). Proprio la disponibilità di Gesù ha sopraffatto il postulante, come l'irruzione di Dio nella vita del profeta gli mostra tutto di un colpo la sua condizione: «Signore, sono un uomo dalle labbra impure» (/s. 6, 5; cf. Le. 5,8). Appunto così egli è aperto ad attendersi tutto da Gesù, anche ciò che è apparente-

mente impossibile. Così in questo v. 8 sono espressi entrambi i mo­ menti: la consapevolezza della propria nullità e l'audace iniziativa che conta concretamente sulla potenza di Dio. Singolare è l'espressione «sotto un potere che comanda» (v. 9). Ci sono, in verità, traduzioni siriache che recitano «con potere di comando» e si è già ipotizzato un fraintendimento di un testo aramaico che di fatto non sappiamo se sia mai esistito. I traduttori siriaci vogliono verosimilmente soltanto al­ lontanare l'idea che Gesù si trovi sotto un potere ancora superiore. Ma il centurione vuole dire proprio questo. Con ciò è al contempo la­ sciato aperto il modo in cui si dovrebbe esprimere correttamente que­ sta superiorità di Gesù. O si vorrebbe forse dire che Gesù, il quale non è sottoposto ad alcuno, sarebbe tanto più libero di dare questo ordine ? In un modo o nell'altro in queste parole si evidenzia una fede che conta sull'opera di Dio che è tanto reale quanto ciò che avviene nel mondo accessibile al centurione. La sorpresa di Gesù mostra che là dove si verifica veramente, la fede è sempre un miracolo di Dio (v. I o) . Gesù non rifiuta questa fiducia nella sua parola; non si schermisce neanche, come fanno profeti e apostoli, anzi persino gli angeli (Atti 3, 1 2; 1 4, 1 5; Apoc. 1 9, 1 0). Al contrario Gesù dichiara che qui si è veri­ ficata «una grande fede» (v. I oc ). Ciò mostra, da un lato, come pro­ prio qui la fede non sia semplicemente accettazione di un determinato dogma, sebbene possa certamente includere anche questo aspetto, ma sia in grado di essere grande o piccola, debba quindi manifestarsi pra­ ticamente nella sfera della vita. Perciò Gesù può dire di non aver tro­ vato in Israele una tale fede «neanche in uno solo» (così solo in Mat­ teo), sebbene in Israele non ci fosse assolutamente nessuno che dubi­ tasse dell'esistenza di Dio e moltissimi fossero del parere che l'ubbi­ dienza verso Dio andasse posta sopra tutte le altre cose. Al v. I 1 a una siffatta fede si promette il regno dei cieli. Quest'affermazione presup­ pone la speranza, viva in Israele a partire già da Isaia ( 2, I - 5 ), delle na­ zioni che affluiscono a Sion (Tob. I J, I I ; 1 4,6 s.; Hen. aeth. 90,JO-J 6), ma non la visione di una comunità composta di pagani e giudei prepa­ rata dal gruppo di Stefano (Atti I I , I 9 s.) e portata alla vittoria da Paolo. Per la precisione non si parla del tempio di Sion, ma invece del­ la partecipazione al banchetto celeste (nell'Antico Testamento solo in fs. 2 5 ,6 ) perché non si pensa più a un regno terreno. Anche se prepa­ rato da oracol i profetici come Mich. 3, 1 2; Am. 3,2; 9,7, è nuovo e inau­ dito che ciò non avvenga a onore d'Israele, che diventerebbe più gran-

Mt. 8,5- 1 3 .

La fede del centurione di Cafarnao

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de per il confluire dei popoli, ma che Israele stesso corra anzi il peri­ colo di venire escluso dal regno di Dio. Sono paragonabili a questa pa­ rola solo Atti 2 8,2 5 ss. e Rom. 9- I I (dove, in verità, si lascia la porta aperta alla speranza in I I ,24 s.). I «figli del regno» sono coloro che appartenevano propriamente a questo regno; analogamente l'ebreo par­ la di «figli della città», «figli della legge», ecc. La ripetizione dell'im­ magine alla fine del v. I 2 in I ) ,42. 50; 22, 1 3; 24, 5 1 ; 2 5 ,30 mostra che Matteo intende questa parola come avvertimento anche per la propria comunità, gli attuali «figli del regno» (cf. intr. ai capp. 2 1 -2 5). Non è possibile decidere se il «pianto e stridor di denti)) rappresentino sem­ plicemente gesti orientali di contrizione o di rabbia e disperazione op­ pure riflettano la concezione del luogo della dannazione «bollente co­ me il fuoco e freddo come la neve)) (Hen. aeth. I 4, I J). La tenebra estre­ ma è una metafora alla pari del banchetto: se questo rappresenta la fa­ miliarità e la comunione con Dio e il suo mondo, quella indica la se­ parazione da tutto ciò. Secondo il versetto finale per Matteo non è im­ portante il miracolo in sé, ma il riscontro tra fede e adempimento (co­ sì anche in 9,29; I 5,28). Il riferimento alla perfetta coincidenza del­ l'ora viene aggiunto da Matteo anche in 9,22; I 7, I 8 . Questa storia si è svolta proprio così ? Non lo sappiamo con certez­ za. Tuttavia oggi il problema non è rappresentato tanto dal fatto che si ritenesse impossibile un simile avvenimento quanto piuttosto che si è a conoscenza di paralisi di origine nervosa che improvvisamente gua­ riscono e che, ad esempio, nelle religioni dell'Asia orientale si diano casi credibili di guarigioni a distanza. Ma proprio questi fatti aprono al lettore moderno l'accesso a questo racconto. Non c'è dubbio ed è importante che Gesù fosse un «carismatico» che operava anche guari­ gioni fisiche. Ma ciò non è affatto qualcosa di assolutamente unico. Così il significato dei suoi atti non è contenuto in questi avvenimenti, di regola molto rari, e la fede non dipende dal fatto che si siano verifi­ cati alcuni miracoli in più o in meno. Al contrario, se questa divenisse la questione decisiva, si sarebbe mancato di cogliere proprio quello che Matteo vuole dire con questo racconto. Fin dal principio la storia era un avvertimento a guardarsi dalla pia sicurezza che fa affidamento sul­ l'appartenenza ai padri invece di vivere la fede concretamente nei pro­ blemi e nelle difficoltà della vita quotidiana. Questo avvertimento fu reso più netto mediante la parola dei vv. I 1 s., in Q mediante il nesso

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Mt.

8,14-17. La guarigione in casa di Pietro

con i logia critici del discorso della pianura ai quali si aggiunsero poi, forse ancora prima di Matteo, le antitesi contro l'osservanza solo let­ terale della legge e la polemica con i farisei in 9, I - I 7. Matteo ha una conoscenza già decennale dell'affluenza dei pagani e mette perciò in evidenza ancora maggiore la capitale importanza di Gesù che si mani­ festa in parole e atti, nel discorso della montagna e nei seguenti dieci miracoli e continua a vivere come autorità nella sua comuni.tà. Così la storia mostra che la fede vive certamente come fiducia pratica in con­ crete emergenze, ma che è molto più di questo, che apre la via della salvezza e lo fa proprio per colui che sa di non averla in alcun modo meritata o di potersela ancora meritare. L'ammonimento della storia potrebbe essere estremamente attuale in un'epoca nella quale forse africani e asiatici sono chiamati nella comunità di Gesù a mostrare al­ l'Europa «cristiana» che cosa sia la vita cristiana. La guarigione in casa di Pietro, 8,14- 1 7 (cf. Mc. 1 ,29-34; Le. 4,3 8 -4 I ) 14 E Gesù venne in casa di Pietro e vide la suocera di questi che stava a let­ to febbricitante. 1 5 Ed egli toccò la sua mano e la febbre la lasciò e lei si al­ zò e si mise a servirlo. - 1 6 Ma quando si fece sera gli portarono molti in­ demoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti gli ammalati, 17 affinché si adempisse ciò che fu detto mediante il profeta Isaia che reci­ ta: «Egli stesso ha portato via le nostre debolezze e rimosso le nostre ma­ lattie». 17 fs. 5 3 ,4.

14-1 5· Per la collocazione della storia a questo punto cf. l'intr. a 4, 1 7- I I ,JO. La storia della guarigione della suocera di Pietro (Mc. I ,29: di Simone; cf. intr. a Mt. I 6, I 7- I 9 verso la fine) viene abbreviata note­ volmente. È l'unica guarigione che Gesù compie di propria totale ini­ ziativa, mentre secondo Mc. I , J o sono ancora i discepoli che richia­

mano la sua attenzione sulla malata. Qui Gesù e la malata sono assolu­ tamente soli, faccia a faccia (cf. intr. a 8, I -4) . Matteo omette (cf. a 8,2 ) che Gesù «si avvicinò» (Mc. I ,J I ) . Che la donna guarita si alzi da sola, mentre in Marco è Gesù che l'aiuta ad alzarsi, mostra il successo tota­ le. Che essa si metta a «servir/o» (non a «servir/i» come in Marco) sottolinea il concetto della sequela: ogni atto e tutta la vita devono es­ sere orientati soltanto verso Gesù.

Mt. 8,I 8-l7·

Seguire Gesù nella tempesta e nelle difficoltà

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1 6-17. Che i malati vengano portati soltanto la sera aveva un senso in Marco perché a quell'ora finiva il sabato ed era quindi lecito tra­ sportare i malati; in Matteo viene invece a mancare tale ragione. Se­ condo Matteo questa giornata inizia con 5, l e naturalmente non è più sabato. Rispetto al racconto di Marco il nostro evangelista abbrevia anche il riferimento generale all'affluenza di gente e alle guarigioni, mentre sottolinea espressamente la «parola)) di Gesù {8,8) quale mez­ zo per sconfiggere i demoni. Matteo va oltre ·Marco (secondo il quale «tutti )) i malati gli furono portati e «molti)) vennero guariti) anche quando dice che Gesù guarì «tutti)) i malati. Ma soprattutto egli ag­ giunge (v. 1 7) le parole di Isaia sul servo di Dio. Gesù non viene più riconosciuto e confessato dai demoni quale «santo di Dio)) come in Marco ( 1 ,24.3 4) ; a rigor di termini la sua vera identità non viene di­ mostrata neanche dai suoi miracoli: per Matteo è la Scrittura che pro­ va che i miracoli di Gesù sono opera di Dio e che lui stesso è il servo di Dio. Questo è l'unico passo dei vangeli in cui si citi esplicitamente fs. 5 3 . La cosa sorprendente è che la citazione non venga riferita alla passione e all'esaltazione di Gesù (come in Atti 8,32 s.; cf. I Pt. 2,22 ss.), bensì - contro tutte le interpretazioni giudaiche e anche contro l'Antico Testamento greco che parla dei «peccati)) - alle opere di gua­ rigione di Gesù: i verbi che in origine erano intesi nel senso di «pren­ dere su di sé)) e «portare)), in Matteo vengono indubbiamente inter­ pretati nel senso di «togliere via)) e «rimuovere)), giacché i medesimi verbi hanno anche questa accezione. Tuttavia 1 2, 1 6-2 1 mostra che Mat­ teo vede (cf. il v. 1 8) proprio nelle guarigioni di Gesù l'opera silenzio­ sa, non appariscente, che non solleva alcun frastuono propagandisti­ co, del servo di Dio. Colui che viene con la potenza di Dio compie il suo servizio a favore degli esclusi. Parlando delle «nostre)) debolezze Matteo pensa certamente alla comunità nella quale prosegue l'opera di Gesù (cf. anche excursus a 1 , 1 8-2 5). Seguire Gesù nella tempesta e nelle difficoltà, 8, 1 8-27

(cf. Mc. 4,3 5 -4 1 ; Le. 8,22 -2 5 ; 9 , 5 7-60) 18 Ma quando Gesù vide una gran folla attorno a sé comandò di partire per l'altra riva. - 19 E si avvicinò uno scriba e gli disse: Maestro, voglio seguir­ ti dovunque tu vada. lO E Gesù gli disse: Le volpi hanno la loro tana e gli uccelli del cielo i nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove poggiare il capo. li Ma un altro dei discepoli gli disse: Signore, permetti che io p rima mi al-

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8, r 8-27. Seguire Gesù nella tempesta e nelle difficoltà

lontani per seppellire mio padre. 22 Ma egli gli dice: Seguimi e lascia i mor­ ti seppellire i loro morti ! 2 3 Ed egli salì nella barca e i suoi discepoli lo seguirono. 24 Ed ecco: nel lago si verificò un grande sconvolgimento così che la barca venne sommer­ sa dalle onde. Ma lui dormiva. 25 Ed essi si avvicinarono, lo svegliarono e dissero: Signore, aiuto ! �iamo perduti! 26 Ed egli dice loro: Ma perché sie­ te tanto paurosi, scarsi di fede! Allora si alzò, minacciò i venti e il lago e si fece una gran bonaccia. 2.7 Ma gli uomini si meravigliarono e dicevano: Ma chi è mai questo qui, che anche il vento e il lago gli ubbidiscono ?!

Per la collocazione del brano cf. intr. ai capp. 4, 1 7 I I ,3 o. Questo passo è l'esempio più evidente di «riconversione» di una storia di mi­ racolo. Con il v. I 8 , infatti, viene ripresa da Mc. 4,3 5 .3 6a («passare al­ l'altra riva», «la folla») l'introduzione alla storia della tempesta placa­ ta. Matteo, o forse già la tradizione prima di lui, ha modificato «passare dall'altra parte» in «partire», «andare via» per stabilire un collegamento con il medesimo verbo alla fine del v. I 9 ( = Le. 9, 5 7). Parimenti ora il v. 2 1 parla espressamente di «uno dei discepoli», l'in­ giunzione di Gesù «seguimi» (cf. il v. 1 9) è stata spostata al v. 22 (v. ad loc. ) e i medesimi due verbi sono ripetuti, contro Marco, al v. 23, in modo da far apparire evidente che la storia seguente descrive appunto questa sequela dei discepoli. Come in 8, 5 - I 3 il dialogo tra Gesù e i due seguaci si trova, identico quasi alla lettera, in Luca (9, 5 7-6o ), mentre le indicazioni di contorno sono molto diverse; inoltre Luca aggiunge anche un terzo caso. -

1 8-22. Si deve forse intendere il testo nel senso che l'ordine di Gesù di attraversare il lago è rivolto a tutti e che solo coloro che ubbidisco­ no a questo invito alla sequela diventano «suoi discepoli» ? Fatta ec­ cezione per 5, I, dove l'espressione proviene dalla tradizione, non si è ancora parlato mai dei discepoli e solo in 1 o, I si viene a sapere dei dodici. In questo caso la separazione di coloro che seguono l'invito di Gesù da coloro che non gli ubbidiscono avrebbe preso il posto del­ l'elezione dei dodici (Mc. 3, 1 3 - 1 9) che viene omessa in Matteo. Tutta­ via il v. 2 1 presuppone già l'esistenza di discepoli (quelli di 4, I 8 -22?). Oppure Gesù vuole sottrarsi al grande entusiasmo della folla e assu­ mere volutamente il ruolo di servo di Dio (v. 1 7) ? Dopo il v. I 6 (= Mc. 1 ,3 2) n on è più necessario che Matteo ripeta che «si era fatta sera» (Mc. 4,3 5 ). Solo Matteo dice che l'interrogante era uno «scriba». Pensa

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8,1 8-27. Seguire Gesù nella tempesta e nelle difficoltà

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forse Matteo quanto sia difficile, proprio ai suoi tempi, per gli scribi giudaici diventare discepoli di Gesù? «Seguire» è inteso, come quasi sempre nel Nuovo Testamento, in senso concreto e direttamente ri­ ferito alla decisione di Gesù di andare via. «Dovunque» (v. 1 9) sottoli­ nea in questo contesto il valore completo di questa decisione di segui­ re Gesù. Gesù non cerca in alcun modo di allargare il suo successo e di mettere insieme il maggior numero possibile di seguaci. Al contra­ rio egli cerca di scoraggiare coloro che sono entusiasti di lui (cf. a Mc. 5, I 9) facendo notare che cosa comporti seguirlo. Chi vuole iniziare la sequela deve rinunciare a tutte le sicurezze. Si deve conservare la li­ bertà assoluta, anche quella intellettuale. L'entusiasmo per la grande abilità oratoria o i risultati terapeutici straordinari del modello non devono diventare una costrizione. È molto improbabile che il detto fosse in origine un comune proverbio raffigurante il destino incerto dell'uomo rispetto agli animali che hanno sempre tane e nidi, giacché ciò sarebbe vero solo per particolari tempi di guerra e di crisi. Ancora meno verosimile è che gli animali rappresentino nomignoli offensivi per indicare gli edomiti (Erode, cf. Le. I 3,3 2) e i romani ai quali ver­ rebbe contrapposto l'Israele privato dei suoi diritti. Probabilmente con questa immagine si vuole constatare l'assenza di qualsiasi prote­ zione e sicurezza sul cammino di Gesù e dei suoi seguaci. Allora il Figlio dell'uomo è dunque lo stesso Gesù nella sua vita terrena itine­ rante che è priva di qualsiasi protezione civile (v. excursus sul Figlio dell'uomo a Mc. 8,27-3 3 in Mc. , pp. 1 3 6 ss.). Così, nei fatti, la sequela è il passo che porta a vivere inermi, senza protezione alcuna, perché colui nel quale Dio viene agli uomini non trova mai una sua casa tra gli uomini, ma viene sempre disconosciuto da loro. Perciò non si pro­ mette neanche nulla a chi lo segue se non che entrerà nella sfera di in­ sicurezza del Figlio dell'uomo e ne condividerà il destino. Proprio questa è la via che introduce nella comunione con Dio e soltanto in essa è possibile imparare quella benedetta mancanza di ansiosa preoc­ cupazione di cui parlano 6,2 5 -3 4; r o,26-3 I; 1 6,2 5 s. Singolare è l'espres­ sione «un altro dei discepoli» (v. 2 1 ). Di solito Matteo sembra identi­ ficare i «discepoli» con i dodici. In Matteo solo i credenti chiamano Gesù «Signore» : infatti lo scriba di poco prima lo chiama solo « mae­ stro» . Infine «prima» mostra che per il postulante è ovvio andare via con Gesù subito dopo. Tutto ciò porta a concludere che Matteo vuoi dire «un altro, uno dei discepoli» . Poiché colui che presenta la sua ri-

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8 , 1 8-27.

Seguire Gesù nella tempesta e nelle difficoltà

chiesta a Gesù è un discepolo è chiara anche la domanda stessa, senza che debba esserci necessariamente un precedente invito a seguire Gesù (come al v. 1 9) o un precedente ordine di Gesù (come in Le. 9, 59). Co­ me mostra Le. 9, 59 il logion era già tramandato in forma fissa prima che si precisasse meglio a chi fosse rivolto. N el giudaismo l'obbligo di seppellire è inculcato in maniera estrema. Il contatto con un cadavere, anche quello del proprio padre, è vietato solo al sommo sacerdote e al nazireo che si dedica a Dio perché la «consacrazione» è ancora più importante (Lev. 2 1 , 1 1; Num. 6,6 s.). In I 5,4 Gesù sostiene energica­ mente il comandamento di onorare padre e madre, ma in questo passo si tratta di sottrarsi alla volontà divina mediante una interpretazione artata; qui di sottrarsi, appellandosi al comandamento, a quella richie­ sta straordinaria di Dio che è ancora superiore a quella legge. La secca risposta di Gesù (v. 22) sembrerebbe dire che coloro che non ascolta­ no l'invito di Dio di fatto sono morti perché c'è vita solo nella sequela di Gesù e nella comunione con Dio ( 1 6,2 5 s.). Probabilmente si tratta soltanto di un'immagine scioccante come quella della trave nell' oc­ chio (7,3 -5; v. intr. ad loc. ) che vuole costringere l'ascoltatore a tende­ re l'orecchio mediante lo straniamento. I morti possono essere lasciati ai morti ora che la vita stessa è presente e aspetta nella sequela di Ge­ sù. Un rito di sepoltura perde qualsiasi significato davanti all'arrivo di Dio. Perciò dove la nuova realtà irrompe in modo tale da far perdere alla morte la sua centralità e il suo potere, là nasce la libertà. Questa ridà alla vita il suo senso perché la trasforma nel cammino da percor­ rere insieme con Gesù per entrare nella comunione con Dio. Il fatto che qui sia un discepolo a porre la domanda mostra soltanto come que­ sta comunione vada continuamente rinnovata. Il detto ricorda 1 Re 1 9,20 dove Eliseo vorrebbe soltanto andare ancora a congedarsi dal padre e l'apparentemente indifferente risposta di Elia, «vedi solo di ritornare», lo induce a offrire un sacrificio e a seguire subito il profeta. 23-.2.7. Diversamente da Marco, il salire nella barca viene descritto da Matteo quale «sequela» dei >, cioè in termini messianici. Ma proprio a questo punto Gesù si apparta in casa e vieta la diffusione della notizia della guarigione. La cecità è uno dei peggio­ ri flagelli dell'Oriente. La guarigione da questa infermità è oggetto della speranza escatologica già nell'Antico Testamento (fs. 29 , 1 8; 3 5, 5 ) e nel Deutero-Isaia sembra che si pensi anche alla guarigione dalla cecità per la signoria di Dio (fs. 42,7; cf. 6 1 , 1 ; Le. 4, 1 8). Di questo si parlerà in 1 6, 1 3 -28. 32-34. Anche la guarigione seguente prepara I I , 5 . Il termine greco può denotare un sordo, un muto o un sordomuto; tuttavia la prima accezione è esclusa dal v. 3 3a. Già in fs. 29, I 8; 3 5, 5 si ha l'associazione di ciechi e (sordo)muti. Anche questo brano corrisponde a Mt. 1 2,2224. Come mostra l'accusa del v. 34 il passo appartiene, come quello parallelo di Le. I I , I 4 s., al contesto della disputa su Beelzebul raccon­ tata in Mt. I 2,22 ss. Il fatto sorprendente è tuttavia che sia il nostro passo, e non quello di Mt. I 2,22-24, a coincidere in larga misura lette­ ralmente con Luca, solo che qui manca il nome di Beelzebul che si trova invece nel contesto dell'analoga disputa tanto in Le. I 1 , 1 5 quan­ to in Mt. I 2,24. Ancora una volta materiale comune a Matteo e Luca appare in un luogo diverso ed è stato probabilmente tramandato così già prima di Matteo (v. intr. a 4, 1 7- 1 I , 3o). In entrambi i racconti esclu­ sivamente Matteo ha, oltre l'introduzione, secondo la quale il muto viene portato a Gesù, il riferimento all'ostilità dei farisei e al ricono­ scimento popolare. Con linguaggio biblico (9,3 3 : letteralmente: nulla mai si manifestò «in questa maniera>>) il testo suggerisce al lettore l'uni­ cità di questo evento. Questo riferimento (vv . 3 3 -34) ricapitola a que­ sto punto l'effetto degli atti di Gesù nei capp. 8 s. (per questa duplice presa di posizione cf. anche a 9,8; I 2,2·2 -24; 2 I , I 4- 1 6). L'accusa «scac­ cia i demoni in combutta con il capo dei demoni>> si trova precisa alla lettera in Mc. 3,22; Mt. 9,3 4; 1 2,24; Le. I I , I 5 · Mentre la narrazione del­ l'accaduto varia nei particolari della descrizione, questa sentenza si è impressa nella memoria. Persino in questo detto si coglie ancora una lontana percezione della realtà unica che in Gesù diventa evento e for­ se, nonostante l'ostilità che lo ispira, esso è ancora più vicino alla ve­ rità del tentativo più moderno di appiattire tutto e di spiegarlo con il fortunato incontro di condizioni psichiche tanto nel guaritore quanto

Mt. 9,3 5-38. Il passo da Gesù alla comunità

219

nel malato, come s e appunto ciò non fosse un miracolo unico donato da Dio. La guarigione stessa non viene narrata. Importante è solo la sepa­ razione tra il popolo, che almeno prova stupore e rimane aperto alla questione del significato di Gesù, e coloro che lo rifiutano seccamen­ te. Con questa scena si è giunti alla conclusione e, al contempo, anche alla preparazione per quanto seguirà. La radicalità della richiesta di Gesù è diventata chiara, tanto nel di­ scorso della montagna quanto verso i seguaci che Gesù invita alla tra­ versata nella tempesta e oltre; altrettanto chiara è diventata la miseri­ cordiosa attenzione di Gesù per i poveri e gli afflitti tanto nelle beati­ tudini del discorso della montagna quanto nelle molte guarigioni. Queste sono addirittura storie esemplari della potenza della fede su­ scitata da Gesù. Così si vede come Gesù incontrando un uomo lo ri­ svegli alla fede e lo renda in tal modo libero di compiere il passo verso un cammino privo di protezioni sul quale ci si aspetta tutto da colui che invita a credere. Quanto questo invito sia esteso a tutti, proprio anche al lettore del vangelo, lo mostra il capitolo seguente. Il passo da Gesù alla comunità, 9,3 5-3 8 (cf. Le. 1 0, 1 .2; Mc. 6,6.34) 3 5 E Gesù si recò in tutte le città e i villaggi dei dintorni, insegnando nelle loro sinagoghe e proclamando la lieta notizia del regno e guarendo ogni malattia e infermità. 36 E quando vide le folle esse gli fecero pietà perché erano maltrattate e sfinite, come pecore prive di pastore. 37 Allora disse ai suoi discepoli: La messe è tanta, ma gli operai sono pochi. 38 Perciò prega­ te il padrone della messe affinché mandi operai nella sua messe. 36 Num. 27, 1 7;

1

Re 22, 1 7.

Poiché il v. 3 5 e le prime parole del v. 36 coincidono alla lettera con 4,23; 5, 1 , le due affermazioni costituiscono le parentesi che racchiu­ dono la presentazione di Gesù quale messia della parola e degli atti (v. a 4,23). Solo che al posto di «tutta la Galilea» si ha ora «tutte le città e i villaggi», più o meno come si legge anche in Mc. 6,6b parimenti subi­ to prima dell'invio in missione. Al contempo il versetto prepara già l'invio giacché ciò che viene concesso ai discepoli ( 1 o, 1 ) corrisponde esattamente alle ultime parole che descrivono il potere di guarire pro-

220

Mt. I o, I - 1 6.

La missione dei discepoli

prio di Gesù. Matteo inserisce quindi la missione dei discepoli a que­ sto punto del vangelo perché vuole mostrare che il potere di Gesù di compiere atti miracolosi, sui quali tornerà in I I ,5, è stato dato anche alla comunità (cf. a 9,8; I 0,2 5; I 2,3 1 s.). Il v. 36 coincide ampiamente con Mc. 6,3 4; tuttavia la sentenza delle pecore che non hanrio pastore (Num. 27, 1 7; Ez. 34, 5 ; cf.. Mt. r o,6) è in verità quasi proverbiale. Che Matteo la ometta in 1 4, 1 4 ( = Mc. 6,34) indica come sapesse che si trattava del medesimo detto. Per contro il detto rivolto ai discepoli è letteralmente uguale a Le. 1 0,2 (con lo spostamento di due parole) do­ ve forma l'introduzione del discorso che prepara la missione (v. a I o, 1 ) mentre in Matteo ancora lo precede. Il passaggio a un'altra tradi­ zione si manifesta anche nel cambiamento totale dell'immagine. Le due immagini sono tenute insieme unicamente dall'idea del raccolto. Di solito Gesù parla nelle parabole della mietitura futura del giudizio universale (v. sotto), ma egli può anche vedere irrompere già ora ciò che un giorno si verificherà nel futuro regno di Dio (cf. a 1 2,28). 3 5-38. Per Matteo è dunque importante che l'autorità di Gesù raffi­ gurata nei capp. 5 -9 continui nella sua comunità. Questo fatto è com­ prensibile solo alla luce della misericordia di Gesù (v. a 20,3 4) che ve­ de la triste situazione d'Israele (v. 3 6). L'immagine fa pensare a un greg­ ge braccato e totalmente sfinito o, come minimo, a un gregge mal gui­ dato e trascurato da cattivi pastori (Zacc. I I , 1 6; Ez. 34). Questa situa­ zione critica è il tempo della mietitura di Dio (vv. 3 7.3 8). Quando gli uomini hanno finito le loro risorse Dio interverrà e farà i suoi grandi atti. Anche per questa ragione i discepoli non vengono semplicemente messi direttamente all'opera, ma esortati a pregare. Non è l'uomo che può creare la novità necessaria; solo Dio si sceglie i messaggeri. Perciò si deve pregare. La mietitura è di solito metafora del giudizio finale di Dio (già fs. 9,2 s.; 27, 1 2; Os. 6, 1 r ; Gl. 4, 1 3 ; Mt. 3 , 1 2; I 3,8.39 s., ecc.) e i mietitori sono allora gli angeli che raccolgono per la condanna o per la salvezza definitiva ( 1 3 ,4 1 ; 24,3 1 ). Ma la parola di Gesù vede la mie­ ti tura di Dio cominciare già, dove uomini esercitano questo servizio angelico uscendo nel mondo e invocando il nome di Gesù. La missione dei discepoli, I o, I-16 (cf. Mc. 3 , 1 4- r 9; 6,7- r I ; Le. 6, I 3 - 1 6; 9, 1 - 5 ; I o,3 - I 2; A tti I , I J) 1 Ed egli chiamò a sé i suoi dodici discepoli e conferì loro autorità sugli spiriti impuri, per scacciarli, e su tutte le malattie e infermità, per guarirle.

Mt. IO, I- I 6. La missione

dei discepoli

22 I

Ma questi sono i nomi dei dodici apostoli: per primo Simone, detto Pie­ tro, e Andrea, suo fratello; e Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni, suo fratello; 3 Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo, il gabelliere; Giaco­ mo, figlio di Alfeo, e Taddeo; 4 Simone, il Cananeo, e Giuda Iscariota, colui che anche lo ha consegnato. 5 Questi dodici Gesù inviò in missione e ordinò loro: Non imboccate la via verso i pagani e non mettete piede in alcuna città dei samaritani, 6 m a andate invece alle pecore perdute della casa d 'Israele. 7 Ma andate e pro­ clamate: Il regno dei cieli si è avvicinato ! 8 Guarite malati, risuscitate mor­ ti, purificate lebbrosi, scacciate demoni. Gratis avete ricevuto, gratis date! 9 Non procuratevi né oro né argento né rame nelle vostre cinture Io né una sacca da viaggio per il cammino né due vesti né sandali né bastone, giacché il lavoratore si merita il nutrimento. - I I Ma quando entrate in una città o in un villaggio, cercate chi c'è lì di degno; e restate lì finché non vi rimetterete in viaggio. I2 Ma quando entrate in una casa, porgetele il sa­ luto. I 3 E se la casa ne è degna, la vostra pace verrà su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritornerà a voi. I4 E chi non vi accoglie e non vuole ascoltare le vostre parole - uscite dalla casa o dalla città e scuotete la polvere dai vostri piedi. I 5 Amen, vi dico: il giorno del giudizio la sorte del paese di Sodoma e Gomorra sarà più sopportabile della sorte di quella città. r6 Ecco, vi mando come pecore tra i lupi: così siate ora prudenti co­ me i serpenti e sinceri come le colombe. 2

16 4 Esd. 5 , 1 8 .

Il discorso sulla missione è tramandato in due forme. In Luca esse sono distribuite tra i capp. 9 e I o. La prima corrisponde per larghi tratti a Mc. 6,7- 1 3 e si riferisce, come in Marco, all'invio dei dodici; la . seconda è stata collegata da Luca con una missione di 70 o 72 discepo­ li. Matteo ha combinato le due versioni in un unico discorso ai dodici. Già in 9,3 7 si è incontrato il logion iniziale della seconda versione. Resta possibile che già prima di Matteo siano state riunite insieme di­ verse parole di Gesù relative a un medesimo tema, come avviene, ad esempio, nel Vangelo di Tommaso. Per i problemi storici cf. excursus a Mc. 6,7- 1 3, Mc., pp. 1 03 ss. Non è facile conciliare i vv. 5 s. con l'apertura di Gesù verso i samaritani e i pagani (Le. 10,33; Gv. 4,4 ss.; 8,48; Mt. 8, 1 I ) e l'istruzione sarebbe al massimo possibile per una sin­ gola missione ai giorni di Gesù. Probabilmente il logion risale a un gruppo d ella comunità primitiva fermamente convinto che solo l' en­ trata nel giudaismo mediante la circoncisione permettesse di venire accolti nella comunità (cf. a Gal. 2, I - Io; Col. 2, 1 0 s.; Tit. 1 , 1 o). Più

.2.22

Mt.

IO, I - 1 6. La missione

dei discepoli

tardi il detto è stato inteso nel senso di un ordine di successione (da Israele al mondo delle nazioni; v. sotto). L'introduzione segue Marco. La collisione tra due tradizioni si ma­ nifesta nell'incongruenza tra la richiesta a Dio di mandare lavoratori (9,3 8) e l'invio, immediatamente successivo, di missionari fatto da Ge­ sù. Anche «chiamare vicino a sé» (= Mc. 6,7) discepoli che stanno già vicino a Gesù è impossibile. Alla fine Matteo equipara l'autorità dei discepoli a quella di Gesù (v. a 9,3 5). L'elenco dei dodici viene ricuperato (cf. intr. a 4,23-2 5 ) con Andrea che risulta però spostato, come in Le. 6, 1 4, direttamente accanto al fra­ tello (cf. a 4, I 8); inoltre Matteo è chiamato «il pubblicano>> (cf. a 9,9 ). Negli elenchi strutturati a coppie le aggiunte avvengono sempre nel secondo elemento; questa regola ha provocato anche il cambio di po­ sto TommasojMatteo (vv . 2 -4) . Segue poi una parola particolare nota al solo Matteo (v. 5). Si trova al medesimo posto che in Le. I 0,3 è oc­ cupato dal logion delle pecore tra i lupi. Luca l'ha forse trovata già tra 1 0,7 e I o,8, omettendola poi (cf. le reminiscenze di Le. 1 0,9 in Mt. 1 0,7 s.) ? Questo detto proverrà dall'epoca nella quale una comunità di stretta osservanza giudeocristiana ha atteso certamente che i pagani af­ fluissero cercando di venire accolti in Israele, ma non si aspettava di sicuro di dover andare da loro. L'ordine di proclamare la vicinanza del regno di Dio deriva dalla versione di Q (Le. I o,9) perché è collega­ to in entrambi i posti con quello di guarire i malati (v. 8). Questa istru­ zione viene notevolmente ampliata da Matteo riecheggiando il reso­ conto dell'opera di Gesù (v. sotto). Le parole relative all'equipaggia­ mento (vv. I O s.) seguono di nuovo Mc. 6,8 - 1 0, ma vengono riformu­ late alla luce della più severa versione di Le. I 0,4 vietando i «sandali», mentre Mc. 6,9 li permette ancora esplicitamente. Anche la disposizio­ ne che il lavoratore si merita la paga e la menzione della città proven­ gono dalla versione utilizzata in Le. I 0,7 s.; per contro l' ammonimen­ to a restare nella casa ospitale viene da Mc. 6, 1 0. Poiché in Matteo i vv. 9. 1oa e t ob cozzavano tra di loro, mentre in Le. 10,4.7 erano separati, l'evangelista ha certamente cambiato «paga» in «nutrimento» per evi­ tare qualsiasi contraddizione. La frase della pace che viene sulla casa (v. 1 3) appartiene di nuovo all'altro discorso (Le. 1 0,6). Segue poi (v. 1 4) la conclusione del primo brano (Mc. 6, I I ) dove la menzione della città e la parola greca per «polvere» sono dovute alla tradizione usata in Le. I o, I 1 alla quale vengono aggiunte la minaccia finale che appare ·

Mt.

Io, I - 1 6.

La missione dei discep oli

22 3

in Le. 1 0, 1 2, ampliata con la metafora delle pecore tra i lupi (Le. Io,J ), e una parola peculiare a Matteo. Mc. 6, 1 2 e 3 0, partenza e ritorno dei discepoli, non vengono ripresi (cf. a 1 1,1 ) . 1-16. Matteo non racconta mai l'istituzione del gruppo dei dodici. Si limita ora a darlo semplicemente per scontato qui (vv . 2 ss.) dove ap­ pare per la prima volta, nonostante abbia narrato solo la chiamata di cinque discepoli (4,I 8-22; 9,9) . Nella loro parola Gesù continua a per­ correre il mondo. La loro autorità è «data» loro da lui. Non si tratta né dell'autorità derivata dello scriba, che può solo ripetere e interpre­ tare, né di quella diretta dell'ispirato da Dio. Non è certo che Matteo chiami già «apostoli» (in greco = inviati) i dodici perché una traduzio­ ne siriaca legge al v. 2 «discepoli»; tuttavia il termine «apostoli» si tro­ va in Le. 6, I J al medesimo posto (cf. Mc. 6,3 0 ed excursus prima di Mc. 6,7- I J, Mc. , pp. I OJ ss.). Per Matteo i dodici sono il prototipo di tutti gli apostoli itineranti del suo tempo, come fanno già capire chia­ ramente le istruzioni che seguono (v. a 8,23 ) . L'aggiunta «come pri­ mo» riguardante Pietro si può certamente riferire soltanto alla posi­ zione particolare occupata da questi nell'elenco, non a un verbo di chiamata o di invio. Pietro occupa quindi una posizione di rilievo nel­ la comunità di Matteo, senza che ciò debba implicare alcuna particola­ re dignità o addirittura una carica (cf. le considerazioni conclusive a I 6, I 3 -20) Il fatto che il « gabelliere>> che lavora per i romani venga men­ zionato accanto allo «zelota» Simone (vv. 3-4 ) che combatte contro di loro (cf. a Mc. 3, 1 8 ) sottolinea come Gesù non si faccia imprigionare in alcuno schema preconfezionato. L'istruzione di evitare i territori sia dei pagani sia dei samaritani (vv. 5-6) contraddice non solo Atti 8, 5 .26, ma anche Mt. 28, I 8 -2o. Anche se a monte ci fosse stata una fra­ se aramaica di questo tenore: «Non andate ai pagani e non mettete piede nella provincia di Samaria», la rudezza del divieto è strana. La «via» che porta a un insediamento pagano va altrimenti evitata soltan­ to in occasione di feste idolatriche e anche in questo caso solo se non porta in alcun altro luogo (Str.-Bill. al v. 5 A). Accogliendo questo det­ to Matteo vuole far capire che non è Dio ad abbandonare Israele, ma che la missione ai pagani diventa possibile soltanto dopo che Israele ha detto no a Gesù (cf. intr. ai capp. 2 I -2 5 e a I 2, I 5 -2 1 ; 27,2 5; inoltre /s. 49, 5 s.; Atti I 3,46 s.; 28,23 -2 8 ; Rom. 9- 1 I ; Gv. I o, I 6) . Che Dio vo­ glia pascolare le sue pecore smarrite, cercare quelle disperse e inviare .

224

Mt.

IO,I-16. La missione dei discepoli

il suo servo quale pastore è detto già in Ez. 34, I 6-23 (cf. anche a I 5 , 24). A questo proposito Matteo precisa che la comunità etnicocristia­ na non prende semplicemente il posto d'Israele (v. a 2 I ,43). Si fa nota­ re il significato di Gesù per tutte le nazioni certo già in 2, 1 ss.; 4, I 5 ( ?); I 2, I 8 -2 I ; soprattutto in 8, I I ss.; I 5,2 I ss., ma la salvezza è stata offerta da Gesù esclusivamente a Israele (cf. a I 5 ,24) fino al momento in cui questo ha detto definitivamente di no a tale offerta ( 2 7,2 5 ). A questo proposito Matteo sa che la medesima sventura incombe sempre sulla sua comunità se non rimane fedele (cf. intr. ai capp. 2 I -2 5 e a 1 9,28). I samaritani vengono rifiutati anche da rabbi (ma si comporta diversa­ mente rabbi Aqiba, morto nel I 3 5 d.C., Str.-Bill. al v. 5 B I ) e da Sir. 5 0,2 5 s. a causa di influenze pagane e di un culto sviluppatosi indipen­ dentemente dal resto del giudaismo (cf. Esd. 4, I - 5 ) . Probabilmente si tratta di israeliti che non erano stati in esilio, ma avevano convissuto con l'occupante pagano mescolandosi con esso (diversa la storia nar­ rata in 2 Re I 7,24 ss.). Le pecore perdute d'Israele sono quelle che ap­ parterranno al nuovo popolo di cui parla 2 I ,3 I s.43. Si parla della pro­ clamazione soltanto a questo punto (v. 7), mentre il potere di guarire era stato già menzionato al v. 1 . In verità le due attività vanno insieme (capp. 5 -7/8 -9). Non si pensa a una proclamazione senza un potere che la confermi come non si pensa a successi miracolosi senza la paro­ la che faccia capire che cosa sta succedendo. Si dice che il regno di Dio si sarebbe avvicinato: sarebbe così vicino che la salvezza o il giudizio incombono già sugli uomini (vv. 1 2- 1 4). Manca l'esplicito appello al ravvedimento (4, I 7), forse perché i discepoli, a differenza di Gesù (e del Battista: 3 ,2 ), sono solidali con i peccatori o forse perché prima di ogni altra cosa si deve mettere in risalto l'offerta della salvezza. A que­ sto punto l'attività dei discepoli viene vista contigua al massimo a quella di Gesù, anzi il versetto che nomina le clamorose risuscitazioni di morti e guarigioni di lebbrosi è già formulato esattamente a misura di I I , 5 : infatti le guarigioni di ciechi, zoppi e sordi sono raggruppate nella prima parte solo perché non è necessario usare ogni volta un verbo diverso. La disposizione di passare gratuitamente anche agli al­ tri il dono ricevuto gratuitamente è importante nel cristianesimo pri­ mitivo (2 Cor. I I ,7; cf. I Cor. 9,3- I 8; inoltre cf. a Mc. 6, I o). Lo dimo­ strano anche le frequenti esortazioni all'ospitalità (Rom. I 2, I 3; I Tim. 3,2; Tit. I ,8; Ebr. I 3,2; I Pt. 4,9) che qui si dà altrettanto per scontata. Così proprio la povertà consente al discepolo anche la libertà di accet-

Mt.

IO, I - 1 6.

La missione dei discepoli

22 5

tare doni (vv. I O- I I ). La rinuncia di Paolo a una ricompensa mostra quanto fosse per lui importante che il suo messaggio restasse credibile ( I Cor. 9, 1 2; I Tess. 2,9; Fil. 4, 1 0- I 7). Passi come I Cor. 9, 1 4; I Tim. 5 , 1 8 (cf. già Num. I 8,3 1 e Deut. 2 5 ,4 = I Cor. 9,9) fanno vedere quan­ to fossero importanti per il primo cristianesimo tali precise disposi­ zioni. Rinunciare persino a sandali e bastone in un paese dove ci sono serpenti è quasi impraticabile; forse tale rinuncia risale a una disposi­ zione rituale relativa al cortile del tempio, ma è più probabile che rap­ presenti una dimostrazione di quanto i discepoli siano inermi e pacifi­ ci. Che essi non si debbano prima «procurare» tutto ciò dovrebbe rap­ presentare la forma più antica del logion (v. intr. a Mc. 6,7- I 3). Quan­ to sia ritenuta concreta l'efficacia della parola lo mostra l'idea della «pace>> che scende su di una casa con il saluto, in sé normale, «pace a questa casa>> (così Le. Io, 5 }, e vi rimane. Tuttavia non si tratta di un procedimento magico: solo dove il saluto viene accolto nel suo senso pieno - questo vuoi dire Matteo con la sua tipica espressione >. È abbastanza certo che il detto ven­ ne originariamente pronunciato in un momento quando la fine sem­ brava molto vicina e la missione era limitata alla Palestina; va dunque giudicato alla stregua dei vv. 5 s. (v. sopra). Il problema che questa at­ tesa imminente non si sia avverata è stato sentito come tale solo in epoca moderna (cf. a Mc. 9, 1 ). Nella chiesa antica neanche gruppi che negavano la divinità di Gesù si sono mai appellati a questo o a simili detti di Gesù. Ma come ha interpretato questa parola la comunità nel­ la quale la missione ai pagani era già diventata una realtà ? L'accosta­ mento di «sinagoghe» e «governatori e re» (v. 1 7) fa pensare in verità tanto alla testimonianza verso la comunità giudaica presente in tutto l'impero romano quanto alla missione ai pagani che a sua volta ser­ ve da testimonianza per Israele (Rom. I 1 , 1 1 ss.). Entrambe le attività avranno portato alla persecuzione, soprattutto da parte giudaica. Al­ lora il v. 2 3 significa che non finiranno né la testimonianza a Israele né la persecuzione di città in città, ovunque abitino giudei. Diversamen­ te dal paragone tra maestro e discepolo (v. 24) quello tra padrone e schiavo rimanda al titolo onorifico dei profeti dell'Antico Testamento quali «servi di Dio», forse rimanda addirittura al servo di Dio escato­ logico (/s. 5 3). Più che mai possibile soltanto in ambito giudaico è l'in­ sulto «Beelzebul»; tanto più che a monte c'è un gioco di parole in quanto Beelzebul significa «padrone di casa» (v. 2 5 ). Se i discepoli di Gesù sono dunque i suoi coinquilini, i suoi familiari, è logico che essi ricevano le medesime ingiurie che sono già toccate al padrone di casa.

2 30

Mt. 10,26-33 · Discepolato confessante

L'accusa di essere Beelzebul mostra probabilmente che nella comuni­ tà continuano guarigioni ed esorcismi carismatici (v. a 9,3 5 ) e che quin­ di essa viene attaccata per questo come era capitato allo stesso Gesù. Perché l'argomento della persecuzione non viene trattato nel discor­ so apocalittico (24,4 ss.), bensì qui, sebbene si riprenda il versetto di Mieh. 7,6 che riguarda la fine dei tempi e si aggiunga anche un detto sulla venuta del Figlio dell'uomo ? Poiché il tenore del testo coincide con grande approssimazione con Marco si deve pensare che Matteo ha volutamente ordinato la materia in maniera diversa per chiarire che la persecuzione fa parte della vita del discepolo (cf. a Le. 2 I , I 2). Es­ senziale è il concetto della comunione di destino tra Gesù e i suoi di­ scepoli. La medesima idea appare in tutt'altra maniera in Rom. 6, I ss. collegata con il battesimo o in Gv. I 5 , 1 ss. con la parola della vite e dei tralci dove al v. 20 viene ugualmente riferito alla persecuzione che at­ tende i discepoli il detto su padrone e servo (Mt. I0,24). Forse tale idea ci fa capire oggi nel modo più facile il significato di Gesù per i suoi di­ scepoli. Chi osa stare con Gesù viene coinvolto in un destino che as­ somiglierà sempre di nuovo al suo. L'appartenenza a lui nella soffe­ renza e nelle offese è una caratteristica centrale della sequela del disce­ polo. In tutto questo Gesù rimane sempre il maestro, il padrone di ca­ sa, i discepoli i suoi servi e i suoi familiari. Anzi è solo l'unicità della sua via che permette che altri facciano un altro po' di strada in sua compagnia. Questa è sicuramente un'esperienza che può fare soltanto chi cerca di farsi portare da Gesù nell'esperienza dello Spirito che vie­ ne dal Padre (v. 20). Discepolato confessante, Io,26-3 3 (cf. Le. 1 2,2-9) 26 Così non abbiate quindi paura di loro. Poiché non c'è nulla di nascosto che non sarà rivelato e nulla di segreto che non sarà conosciuto. 27 Ciò che vi dico al buio, ditelo alla luce e ciò che vi viene sussurrato nell' orec­ chio proclamatelo dai tetti. 28 E non abbiate timore di coloro che uccido­ no il corpo, ma non possono uccidere l'anima. Ma temete piuttosto chi può distruggere corpo e anima nell'inferno. 29 Non si possono forse comprare due passeri per un soldo? E neppure uno solo di loro cade in terra senza il Padre vostro. 30 Ma quanto a voi persino i capelli del capo sono tutti con­ tati! 3 1 Così non abbiate timore: valete molto più dei passeri, voi ! 3 2 Ora chiunque mi confesserà davanti agli uomini, anch'io lo confesserò davanti al

Mt.

1o,26-33· Discepolato confessante

23 I

Padre mio in cielo. 33 Ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio in cielo. Tutto il brano si trova in Le. I 2,2-9 nel medesimo ordine, anche se il tenore è certamente un po' differente. Si tratta quindi di una compi­ lazione di parole contro la paura che circolava in diverse versioni pri­ ma che Matteo e Luca l'accogliessero nei loro vangeli. Fino a questo punto le pericopi che coincidono con Luca, senza trovarsi in Marco o apparendovi diverse, seguono in Matteo più o meno il medesimo or­ dine. Ciò vale appunto anche per I I ,2 I -27; 1 2,22-4 5 . Le eccezioni (8, I I s. I 9-22 e parti del discorso della montagna) erano spiegabili. La nostra pericope varia invece, rispetto al parallelo lucano, sia nell' ordi­ ne sia nel tenore del testo. Probabilmente essa è stata usata anche se­ paratamente, oltre a Q, nella catechesi ed è stata poi ripresa in questa forma da Matteo (o da Luca). 26-33. Il primo detto si trova in forma simile in Mc. 4,22 (v. ad loc. ) ed era una volta un riferimento a pasqua o al giudizio, dove tutto ciò che è nascosto verrà alla luce, oppure una parola di conforto per chi era preso dal dubbio la quale gli ricordava che il nascondimento del regno di Dio avrebbe un giorno lasciato il passo a una gloriosa rivela­ zione. Oltre a Le. 8, I 7 = Mc. 4,22 Le. I 2,2 conosce il nostro logion in una versione affine a Mt. I o,z6. Luca interpreta probabilmente il detto come parola di giudizio rivolta ai farisei (cf. I 2, I e il nuovo inizio in 1 2,4a). In Matteo le cose stanno diversamente. Mediante la sua intro­ duzione Matteo collega questo detto con i precedenti e lo legge come esortazione a confessare Gesù senza paura (cf. a I I ,27)· Perciò al v. 27 egli cambia anche la forma passiva (Le. I 2,3 : «sarà ascoltato nella lu­ ce ... sarà proclamato sui tetti»), che come la forma parallela del v. 26 pensa in origine all'arrivo del giudizio o della rivelazione, formulando il detto come discorso diretto rivolto ai discepoli: a differenza dei di­ scorsi di Gesù nella limitata cerchia dei discepoli, la loro proclamazio­ ne dovrà essere pubblica. Nel Vangelo di Tommaso appaiono due ver­ sioni del medesimo detto ( 5 .6): una si riferisce al giudizio, davanti al quale nulla può restare celato, l'altra al progresso della conoscenza re­ ligiosa nel singolo. Anche il detto successivo (v. 28) è tramandato in forma diversa; solo Matteo distingue l' «anima» dal corpo. Poiché Lu­ ca cancella anche in 9,24 s.; Atti 2,27.3 I l'idea di un'anima che soprav­ vive alla morte, egli è certamente intervenuto anche qui sul testo. Vi-

232

Mt.

10,26-33· Discepolato confessante

ceversa Luca ha conservato una locuzione tipica di Q: «Sì, vi dico ... » . Nel detto sui passeri varia l'indicazione del prezzo; forse tra la forma più antica di Matteo e quella più giovane di Luca c'è la grande svaluta­ zione dell'argento sotto Nero ne; oppure i passeri costano meno se comprati a dozzine. Sotto Domiziano il controllo dei prezzi fissò un prezzo massimo di circa 5 Pfennig il pezzo. La conclusione più gene­ rale in Luca dovrebbe rappresentare un'attenuazione più recente del­ l' affermazione urtante che attribuisce alla volontà di Dio anche la sofferenza e la morte. Al momento di utilizzare il detto Matteo ha ag­ giunto, a differenza di Luca, in prima e ultima posizione, per dare ri­ salto al contrasto, rispettivamente «quanto a voi» e «voi» (vv . 30-3 I ) . Il detto sui capelli interrompe il contesto ed è certo un'aggiunta esem­ plificativa successiva, inserita tuttavia già nella raccolta che sta alla ba­ se di Matteo e di Luca. Anche i rabbi sanno che la misericordia di Dio abbraccia persino un nido di uccelli, ma contestano, a differenza di Gesù, che se ne possa trarre una conclusione riguardante gli uomini i quali sono obbligati all'ubbidienza (Str.-Bill. 1 1 1 , 398 s.). Per contro il detto sulla confessione del Figlio dell'uomo (vv. 3 2-3 3 ) presenta di nuovo una complessa storia della tradizione (cf. a Mc. 8,3 8). Probabil­ mente l' «io» diretto in Matteo è un tentativo di confermare in maniera più chiara l'identificazione di Gesù con il Figlio dell'uomo a venire del quale parlò già I o,2 3 . A dire il vero la cosa è controversa. Sarebbe possibile che in origine entrambi i detti fossero formulati al passivo come Le. I 2,9 così che una tradizione inserì a chiarimento «io», l'altra «Figlio dell'uomo», oppure addirittura che già Gesù abbia detto «Ìo». Matteo stesso avrà inserito il riferimento che gli è caro al «Padre mio in cielo», perché gli angeli di Dio che vengono menzionati in Luca ap­ paiono anche in Mc. 8,3 8 e sono tipici del Figlio dell'uomo. In tutto il brano Matteo vuole dunque dire una parola di conforto alla comunità dei discepoli che deve confessare Gesù davanti agli uomini che le sono in gran parte ostili (vv. 26 s.). Così Matteo presen­ ta Gesù che esorta direttamente i suoi discepoli a diffondere pubbli­ camente la loro proclamazione. Il v. 26, che in origine era una esorta­ zione alla prudenza, viene abilmente trasformato nel suo contrario. Vengono posti limiti alla paura degli uomini. Sentenze simili si trova­ no nei rabbi: la morte che può dare un re di carne e sangue non è una morte eterna, ma lo è quella che dà il re dei re: egli uccide per questo

Mt. 10,26-3 3 · Discep olato

confessante

233

eone e per quello a venire. Nella formulazione di Matteo si potrebbe percepire la distinzione greca tra un'anima immortale e un corpo mor­ tale, una concezione che ha fatto breccia anche nel giudaismo elleni­ stico (Sap. 1 6, 1 3 - I 5; 4 Macc. 1 3, 1 3- 1 5; 1 4,6 ) , se non si dicesse nella se­ conda metà del versetto (v. 2 8b) che corpo e anima possono essere en­ trambi ·distrutti nell'inferno. Nell'Antico Testamento tanto «carne» quanto «anima» indicano sempre l'uomo nella sua interezza, solo sot­ to aspetti diversi. Ciò vale in larga misura anche per il Nuovo Testa­ mento nel quale si può avere talvolta il termine «corpo», che manca in ebraico, al posto della parola «carne». Se «carne» denota soprattutto l'uomo nella sua dipendenza da Dio, assoggettato alla malattia e alla morte, «corpo» lo denota nella sua apparenza esteriore. «Anima» va di regola tradotta «vita», perché il termine denota l'uomo quale essere vivente, aperto a diverse possibilità. «Corpo» e «vita» sono solo due aspetti, non due parti dell'uomo, come dimostra 6,2 5 (v. ad loc. e a Mc. 8,3 5). Qui dunque si vuole dire questo: gli uomini non possono .uccidere la vita stessa, la vera vita; soltanto Dio può annientare il cor­ po e la vita che gli è stata data. Certamente qui si sottintende Dio: se­ condo la credenza giudaica solo lui condanna, mai il diavolo. Proba­ bilmente Matteo non può immaginarsi, come non possono né il testi­ mone veterotestamentario né, quasi mai, quello neotestamentario, una vita senza corpo. Ma la morte del corpo terreno non è la fine della vita · .perché Dio le donerà un nuovo corpo che vivrà nel regno di Dio o verrà gettato nell'inferno. Resta oscuro fino a che punto idee giudeo­ ellenistiche abbiano avuto un'influenza linguistica, e forse anche so­ stanziale, già sulla formulazione del logion, e se Matteo parli di «an­ nientamento» o di «perdizione» (il termine può avere entrambi i si­ gnificati), se voglia cioè indicare una fine o uno stato eterno di predi­ zione nell'inferno. Maestri giudaici, ad esempio, pensano (già ai tempi di Gesù !) che dopo dodici mesi il corpo e l'anima si disfacessero nel­ l'inferno (Str.-Bill. IV, 1 1 8o-8 1 ). Ma Matteo non è in primo luogo in­ teressato a dipingere la condizione dopo la morte, bensì all' esortazio­ ne a non aver paura in questa vita perché si deve aver paura di uno soltanto: Dio stesso. Il timore di Dio equivale però alla fiducia in lui (Sal. 3 3, 1 8; cf. a Mc. 4,4 1 ) ; esso non è altro che il totale orientamento di una vita umana verso colui che, come spiega Matteo, vuole essere per i suoi figli un padre. Paura non è quindi terrore, che spesso è irra­ zionale, ma un guardarsi, meditato e ragionevole, da ciò che solo è re-

Z 34

Mt.

I O,J4-39· Discepolato alPombra della croce

almente nefasto e, al contempo, un volgersi, sempre meditato e ragio­ nevole, verso colui che solo concede salvezza e soccorso. In questa vi­ sione è sottinteso che Dio abbia nella sua mano anche la disgrazia, la caduta del passero o, appunto, l'uccisione del discepolo. Le afferma­ zioni assumono un'importanza estrema perché Matteo fa ora parlare Gesù di Dio quale padre suo. In questo modo diventa chiaro che i di­ scepoli diventano figli di Dio (v. 29) mediante lui, il figlio, perché egli permette loro di partecipare alla propria comunione con il Padre (cf. excursus a 5 ,9) Gesù non è solo un esempio e un modello passato, ma è colui mediante il quale ogni comportamento dei discepoli, tanto la loro sofferenza e fedeltà quanto il loro fallimento, riceve il carattere dell'eternità e sarà un giorno presente davanti a Dio stesso (cf. a Mc. 8, 3 8). Con ciò si fa già capire che quel timore di Dio che permette di non avere paura degli uomini vive della morte e risurrezione di Gesù perché lì diventa chiaro per tutte le età che coloro che uccidono il cor­ po non possono separare da Di� stesso e dalla vera vita. .

La forza di questo brano consiste nel non tracciare un quadro illu­ sorio di un Dio sdolcinato. I passeri cadono in terra e i discepoli ve n­ gono uccisi e Gesù non dice che si tratta di piccolezze. Ma ciò che questi detti affermano è che Dio è Dio, dunque il fatto che egli sta so­ pra fortuna e disgrazia, soccorso e abbandono, salvezza e perdizione e tiene tutto ciò nelle sue mani, mani che Gesù dice essere quelle del Pa­ dre. Egli può dirlo perché egli stesso lo invoca quale padre e lo fa in tutta la sua vita e morte. Perciò egli sa anche, e può dirlo con autorità ai suoi discepoli, che dietro la morte del corpo Dio aspetta, con la pie­ nezza della sua vita, il discepolo che ha difeso la causa di Gesù. Discepolato all'ombra della croce, 10,34-3 9 (cf. Le. 1 2, 5 1 - 5 3; 14,26 s.; 1 7,33; Mc. 8, 34 s.) 34 Non pensate che sia venuto a portare pace sulla terra. Non sono venuto a portare pace, bensì la spada. 3 5 Giacché sono venuto a mettere l'uomo «contro suo padre e la figlia contro sua madre e la nuora contro la suoce­ ra», 36 e «i suoi familiari saranno i nemici dell'uomo». 37 Chi ama p adre e madre più di me non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me. 38 E chi non prende la propria croce e mi segue non è degno di me. 39 Chi trova la propria vita la perderà e chi perde la propria vita a causa mia la troverà. 3 5·36 Mich. 7,6.

Mt. 10,34-39·

Discepolato all'ombra della croce

23 5

Di nuovo si trovano riuniti qui tre detti che in Luca sono collocati in tre passi diversi e presentano un dettato abbastanza differente. Il primo e il secondo detto sono tenuti insieme dalle parole «padre e madre», mentre la seconda metà del secondo logion è già unito con il terzo in Mc. 8,34 s. La formula «sono venuto» (v. a I I , I 9 intr.) si tro­ va tre volte in Mt. I0,34 s., in Le. 1 2, 5 I - 5 3 solo una volta e qui si usa un verbo greco diverso, caro a Luca. Tuttavia il medesimo verbo usa­ to in Matteo si trova anche in Le. 1 2,49 («sono venuto ad accendere un fuoco»). Il v. 34b potrebbe risalire a Gesù; tuttavia la sentenza è stata ampliata già prima di Matteo e di Luca certamente con una do­ manda sul tipo di Le. 1 2, 5 I a e Matteo l'ha ulteriormente sviluppata (cf� a 5 , I 7 ) . Per contro l'espressione lucana «separazione» sembra un attenuamento rispetto alla «spada» matteana. La citazione dell'Antico Testamento (Mich. 7,6 ) non coincide esattamente, in nessuno dei due vangeli, né col testo ebraico né con quello greco. In Luca manca l'ulti­ ma piccola frase; altrimenti egli ha già una versione più studiata che in un versetto intermedio calcola giustamente che si tratta di cinque per­ sone poiché la madre e la suocera sono un'unica medesima persona. Nel detto successivo Le. I 4,26 ha probabilmente conservato il verbo aramaico «odiare», mentre Matteo rende a senso, più giustamente, «amare più di me» . Persino altre due espressioni, «essere degno» (Mat­ teo) e «essere discepolo» (Luca), potrebbero risalire a due verbi ara­ maici quasi omofoni. Soltanto in Luca sono inserite nell'elenco anche moglie e sorelle. Un detto simile di Gesù si trova in 1 9,29 = Mc. 1 0,29 s. (v. ad loc. ). I vv. 38 e 39 sono paralleli a Mc. 8,3 4 s. (per la discussio­ ne delle diverse forme del detto cf. Mc. , pp. 1 43 s.). L'espressione « es­ sere degno» è cara a Matteo. Al v. 39 «trova» non è pertinente; si trat­ ta solo di un adeguamento pedante all'espressione «troverà la sua vi­ ta». «Per causa mia» manca nella forma di Le. I 7, 3 3 e di Cv. 1 2,2 5 ) . La mancanza di qualsiasi compromesso con la quale si esige qui la seque­ la è un segno della proclamazione di Gesù e proprio la mancanza di qualsiasi riferimento alla sua persona è tipica di lui (v. a Mc. 8,3 5 ) . Per il resto il detto è stato adeguato da Luca al linguaggio dell'Antico Te­ stamento greco e da Giovanni al contrasto greco tra «questo mondo» e «vita eterna». 34-39. Il messia viene atteso fin da fs. 9, 5 s.; I I , I ss. quale principe di pace. Dove si parla di guerra, sono i pagani che vengono combattuti

2 36

Mt. 1 0,34-39·

Discepolato all'ombra della croce

e vinti da lui affinché Israele possa trovare una pace eterna (Ps. Sal. I 7, 2 1 ss.). Se necessario basta già «il soffio della tua bocca» (4 Esd. I 3,Io s.) oppure egli arriva solo quando le battaglie sono terminate (rabbi; anche 4QFlor I , I O- I 3 ?). Anche nella letteratura giudaica che si occu­ pa della fine dei tempi la lite all'interno delle famiglie viene associata a battaglie mondiali (Iub. 23, 1 4 ss.), tuttavia il tutto quale premessa del regno messianico di pace. Poiché anche in Luca il detto è ancora asso­ ciato a frasi apocalittiche sr vede che qui non si tratta soltanto di sin­ goli che devono venire educati a una fiducia in Dio che possa prende­ re su di sé, con stoica indifferenza, tutte le avversità della vita, bensì che si pensa a un atto di Dio che scuote tutto un mondo (la «terra» !). Rispetto alle attese giudaiche è però nuovo che sia lo stesso messia a portare simili litigi. In Matteo questo aspetto è messo ancora più net­ tamente in risalto perché il detto è inserito nel suo discorso missiona­ rio: proprio la confessione di appartenere a Gesù può dividere le fa­ miglie. Se la spada sia solo una metafora di tale separazione, come in­ tende Le. 1 2,5 I (cf. Ebr. 4, 1 2) oppure - cosa più probabile - sia già un simbolo di persecuzione e martirio (v. 28), in ogni caso si tratta di quella strana presenza del regno di Dio di cui parla Mt. 1 I , I 2 . Nella lotta e nelle difficoltà, quando i discepoli apparentemente abbandona­ ti da Dio sono consegnati al mondo che combatte contro di lui, il re­ gno di Dio si fa strada. Il regno di Dio non è stato ancora mai la pace dei falsi profeti che gridano «pace, pace ! » mentre avidità e malvagità devastano la terra trasformando la buona creazione di Dio nel suo contrario (Ger. 6, 1 4 ecc.); ma non è neanche la «guerra santa» degli uomini religiosi che con il potente appoggio di Dio scendono in cam­ po per vincere i loro oppressori. La spada non è nel pugno dei disce­ poli, ma in quello dei loro nemici ! Ma essi sanno: è Gesù stesso che la porta; soccombendo e testimoniando così per lui, noi vinceremo - con la vittoria che egli stesso ha conseguito sulla croce (vv . 3 8 s.). Per quanto Gesù disponga i discepoli anche a un rapporto positivo con la famiglia ( 5 ,27 ss.; I 9, 1 ss.), con il padre e la madre ( 1 5,3 ss.), pure è al­ trettanto chiaro che questi rapporti non possano mai ostacolare l'ub­ bidienza verso la pretesa di Dio (cf. a 8,2 1 s.). Il verbo «amare» non è perciò quello usato per indicare l'amore del prossimo, ma piuttosto quello che·denota il legame familiare. In questo senso a Qumran si lo­ da anche Levi che si separò da padre e madre per amore del sacerdo­ zio (Deut. 3 3,8- I 1; 4QTest I 5 - I 7). Così l'invito alla confessione, anzi

Mt.

I O�O- I I , I .

La presenza di Dio nei discepoli

23 7

alla disponibilità a rinunciare pienamente a se stessi, è pronunciato con una urgenza estrema (v. 3 8). Diversamente da 1 6,2 1 ss. = Mc. 8,3 1 ss. e da Gv. 1 2,24 ss. il detto qui non è ancora unito alla via crucis di Gesù stesso, perché il primo annuncio della passjone verrà solo dopo la confessione di Pietro. Tuttavia per Matteo questo nesso (cf. anche vv 24 s.) è dato dalla parola «croce» (v. a Mc. 8,34). La forma para­ dossale dell'ultimo detto (v. 39) è espressa nella maniera più netta in Le. 1 7,3 3 dove manca la frase «per causa mia» . Tuttavia là essa si trova nel contesto della fuga all'avvicinarsi del giudizio universale, mentre negli altri passi è collegata, sicuramente a ragione, con l'appello di Ge­ sù alla sequela (anche in Gv. 1 2,2 5). Il principio singolare che l'uomo trovi la vita proprio facendone dono ad altri, nella spensieratezza che non vuole trattenerla a tutti i costi, anzi nella stessa apertura alla sof­ ferenza e alla morte, vale tuttavia soltanto quando egl i è a conoscenza del segreto del regno di Dio che in Gesù è diventato persona. .

La presenza di Dio nei discepoli, 10,40- 1 1 , 1 (cf. Mc. 9,3 7.4 1 ) Chi accoglie voi accoglie me e chi accoglie m e accoglie colui che m i ha mandato. 41 Chi accoglie un profeta per il nome di profeta riceverà la ri­ compensa di un profeta; e chi accoglie un giusto per il nome di giusto rice­ verà la ricompensa di un giusto. 42 E chi dà da bere anche solo un bicchie­ re di acqua fresca a uno di q u es ti piccoli per il nome di discepolo, amen, vi dico: Egli non perderà la sua ricompensa. II 1 E avvenne, quando Gesù ebbe finito di istruire i suoi dodici disce­ poli, se ne andò via da lì, per insegnare e proclamare nelle loro città. 40

Alla fine del discorso Matteo ritorna alla situazione dell'invio in missione. La prima parola è affine a Mc. 9,3 7 dove però si parla, come in Mt. 1 8, 5 , di accogliere un bambino, non un discepolo. L'ultimo det­ to corrisponde a Mc. 9,4 1 piuttosto esattamente. Si può dimostrare che in Mt. 1 0,42 si ha la forma più antica e che questa era collegata già prima di Marco con Mt. 1 0,40 = Mc. 9,37, probabilmente nella formu­ lazione «uno di questi piccoli» che qui venne correttamente riferita ai discepoli, lì invece ai bambini (v. intr. a Mc. 9,4 1 - 50 e sopra, pp. 1 70 s., excursus a 7, 1 3 -23 [ 5]). La perifrasi «colui che mi ha mandato» per indicare Dio si trova tanto in Mc. 9,37 = Le. 9,48 quanto nel detto di Le. 1 0, 1 6 riferito ai discepoli. Si tratta di un modo di dire tipicamente

23 8

Mt. I 0,40- I I, I . La presenza di Dio nei discepoli

giovanneo (cf. anche il parallelo in Gv. 1 3,20), con la differenza che lì viene usato per il participio un verbo greco sempre diverso. L'ipoteti­ ca forma originaria del detto del v. 40 potrebbe benissimo risalire a Ge­ sù. Ciò potrebbe esser vero anche per il detto del v. 42, dove la preci­ sazione del motivo, «per il nome di discepolo», potrebbe essere stata certamente aggregata in un secondo tempo. Il v. 4 I non è stato colle­ gato dali' inizio con il v. 42, come mostra già il fatto che la «ricompen­ sa» promessa nel .v. 42 = Mc. 9,4 1 è specificata come «ricompensa di un profeta» e «ricompensa di un giusto»; se non fosse come si è detto, si sarebbe dovuto parlare anche di una «ricompensa di un discepolo». Tutte le espressioni importante sono state prese dai vv 40 («accoglie­ re») e 42 («per il nome di ... », «ricompensa»). Così il versetto è stato quasi sicuramente costruito in un secondo tempo, quando nella co­ munità c'erano oltre ai missionari veri e propri anche profeti e giusti itineranti (v. sopra, excursus a 7, I 3-23 ; inoltre I J, I 7; 23,34 s.). .

Come ai vv 1 2 s. (v. ad loc. ) si afferma qui che con l'in­ viato di Gesù entra nella casa di chi lo accoglie anche Gesù stesso e con lui Dio. A questo proposito non si sottolinea affatto quanto viene fatto: già un semplice sorso di acqua non verrà dimenticato agli occhi di Dio (v. a Mc. 9,4 I ) . Dietro a tutte queste sentenze, ma soprattutto dietro a quella di mezzo (v. 4 I ), si può intravedere ancora la chiesa nella quale vive Matteo: missionari, profeti e giusti itineranti che pro­ babilmente insegnano con autorità i comandamenti di Dio e l'inter­ pretazione di Gesù, passano di comunità in comunità, spesso insultati e perseguitati, dipendenti sempre dall'ospitalità che viene loro offerta, portando con sé la vivente parola di Dio che è impressa nella loro vita (cf. excursus a 7, I 3 -23 ) . Il detto finale corrisponde a 7,28; tuttavia qui Matteo sottolinea come si tratti di una istruzione destinata ai dodici discepoli. A differenza di Mc. 6, I 2.3o; Le. 9, I o ( I O, I 7) qui non si dice assolutamente niente dell'attuazione di questa missione. Naturalmen­ te anche Matteo pensa che i discepoli abbiano ubbidito, ma lui è inte­ ressato unicamente al fatto che l'autorità conferita quella volta ai do­ dici e le esperienze da loro fatte con essa valgono ancora oggi per tutti i discepoli di Gesù (cf. a 8,23 ) . 1 0,40-I I , I .

.

Con queste parole Matteo conclude dunque l'intero discorso con­ ferendogli l'autorità di disposizioni di Gesù per la sua comunità. È sor-

Mt. 1 1 ,2-6. La presenza delle promesse

2 39

prendente quanto poco le discussioni sulla dottrina, il culto, l' orga­ nizzazione della comunità siano riuscite a insinuarsi nel discorso (cf. anche a I 8 , 1 ss.). Ciò non dipende soltanto dalla fedeltà alla situazione nella quale questo discorso è collocato in Matteo; infatti sono state in­ serite senza problemi anche parole che valgono solo per la situazione della comunità di un periodo successivo (ad es. vv. 1 7-2 5). Più impor­ tante è che la chiesa continui a essere ancora concepita come schiera di discepoli, quale comunità in cammino costantemente pronta a rendere testimonianza per Gesù, ma anche in possesso dell'autorità per le guarigioni e la proclamazione profetica. La presenza delle promesse, 1 1,.1-6 (cf. Le. 7, 1 8-23) 2 Ma quando Giovanni udì in prigione le opere del messia, gli mandò un messaggio attraverso i suoi discepoli 3 e gli fece dire: Sei tu il Ventu ro o dobbiamo aspettare un altro ? 4 E Gesù rispose e disse loro: Ritornate e ri­ ferite a Giovanni che cosa udite e vedete. 5 Ciechi vedono e zoppi cammi­ nano, lebbrosi diventano puri e sordomuti odono e morti risorgono e «po­ veri ricevono la lieta notizia», 6 e beato è chiunque non inciampi su di me e cada.

J.6 fs. 3 5, 5

s.;

29, 1 8 s.; 6 1 , 1 .

1 I ,2- I 9 coincide quasi alla lettera con Le. 7, 1 8 ss. per quanto riguar­ da le parole di Gesù. A quanto sembra, si riprende così di nuovo l'or­ dine di Q che dalle parole del Battista e dalla tentazione di Gesù ha portato al discorso della pianura ovvero della montagna e al colloquio con il centurione di Cafarnao. L'introduzione è matteana, soprattutto l'insolita espressione «opere del messia» (v. a 1 I , 1 9 intr.); essa è molto più breve di quella di Luca, ma coincide col terzo vangelo per quanto riguarda la domanda del Battista. Luca parla di due discepoli di Gio­ vanni e omette il riferimento alla prigionia di questi, ma ne ha comun­ que parlato già in 3,20. Nel v. 4 si ha prima il verbo sentire sebbene al v. 5 il messaggio sia menzionato alla fine: in questo modo è accentuato ancora di più. Evidentemente la pericope è inserita a questo punto perché con essa viene spiegato quanto accada tanto con Gesù stesso (capp. 5 -7 e 8 s.) quanto nella sua comunità (cap. I o) (cf. intr. a 4, 1 71 1 ,Jo ). I miracoli riguardanti lebbrosi e morti che mancano in Isaia sono stati forse aggiunti in Q in considerazione degli atti riferiti da Gesù. Essi sono tipici miracoli profetici ( 1 Re 1 7, 1 7-24; 2 Re 4, 1 8- 3 7;

240

Mt.

1 1,2.-6. La presenza delle promesse

5 ). Così il detto potrebbe risalire a una comunità che vedeva in Gesù il profeta degli ultimi tempi corroborando questa sua visione con detti di Gesù come 1 2,2 8. Ciò è importante per l'interpretazione dell' Anti­ co Testamento che vi si manifesta (v. sotto). Resta ancora più dubbio se l'occasione del detto sia storica. Avrebbe mai potuto porre affatto una domanda del genere il Battista che ha aspettato (cf. a Mc. 1,7 s.) il giudice che veniva con il fuoco e la tempesta, probabilmente Dio stes­ so ? Viceversa seguaci del Battista, che avevano (in un primo momen­ to) visto in Giovanni il messia, ponevano davvero questa domanda an­ cora ai tempi di Matteo e a loro si facevano notare le opere dello Spiri­ to che si compivano nella comu nità. Tuttavia anche dopo 3,I I il Batti­ sta si è riferito in maniera indeterminata al «Venturo», lasciando così ancora in larga misura incerto se costui sia Dio stesso (Mal. 3 , 1 ; Zacc. I 4, 5 ) che verrà per il giudizio oppure un'altra figura che porterà, per incarico di Dio, l'età finale (Sal. I I 8,26 = Mc. I 1 , 1 o; Dan. 7, 1 3 = Mc. 1 3,26; I 4,62; Abac. 2,3 = Ebr. I0,37; Sal. 40,8 = Ebr. 1 0,7; cf. ancora a Mc. 1 ,7 s.). Se il Battista ha visto in Gesù, in occasione del suo battesi­ mo, qualcosa che gli suggerisse l'adempimento della sua speranza an­ cora imprecisata nel Venturo, la sua domanda sarebbe pensabile anche storicamente. Infatti non è facilmente immaginabile che la comunità avesse inventato il dubbio di Giovanni che per lei costituiva proprio il testimone principale per Gesù. Una sola cosa è tuttavia certa, cioè che la domanda del Battista deve essere più antica di Q perché Q vede Ge­ sù e Giovanni dalla stessa parte. .1-6. Singolare è il costrutto «attraverso i suoi discepoli» (v. 2 ) che probabilmente va spiegato con l'aramaico. Più importante è la formu­ lazione «opere del messia» (v. a I 1 , 1 9 intr.). Così parla la comunità ponendo così tutto quanto è stato raccontato fin qui sotto questo tito­ lo che esprime la somma pretesa. Ma così si deve anche intendere, se­ condo Matteo, la domanda del Battista. La pochezza di Gesù che può portare i suoi messaggeri in carcere e viene lì sofferta molto concre­ tamente, induce effettivamente in dubbio. La comunità ha dunque pre­ so molto seriamente il dubbio chiaro che poneva interrogativi. Anzi nel Nuovo Testamento viene messa seriamente in discussione proprio la sicurezza sia della mancanza di fede sia dell'ortodossia per vedere se in essa ci sia ancora un'apertura per la fede (cf. a Mc. 8,29. 3 3 e conci. a Mc. 4,4 1 ). Infatti la fede non è semplice accettazione di un dogma, ma

Mt.

1 1 ,2-6. La presenza delle promesse

24 1

vita vissuta con Dio, poiché può vivere soltanto come qualcosa che cresce e diminuisce, in esperienze che la rendono più forte o anche la conducono nel dubbio e nella tentazione. La risposta di Gesù è singo­ lare (vv. 4- 5). Non ci si aspettava che il messia compisse miracoli. In verità la domanda del Battista riguarda il «Venturo», pensando forse con questa espressione a Elia redivivo (cf. al v. 1 0 e intr. a Mc. 9,9- 1 3). In quel caso sarebbe logico aspettarsi miracoli e profeti apparsi ai tem­ pi di Gesù hanno anche promesso miracoli ai loro seguaci. Ma la ri­ sposta di Gesù va anche oltre tutto ciò giacché riprende le parole di fs. 3 5 , 5 s. (cf. 29, 1 8 s.). Nei suoi atti il tempo finale annunciato dal profe­ ta è dunque già arrivato. Va notata qui l'assenza della punizione dei popoli associata alle promesse in fs. 34; 6 1 , 5 -7 (cf. 29, 1 5.20). La gua­ rigione di lebbrosi (cf. solo Num. 1 2, 1 0 ss.) e le risurrezioni dei morti vanno oltre le promesse profetiche e le attese giudaiche (ma v. sopra). Inaudito è l'accento posto sull'indizio maggiore che viene addotto da Gesù: la proclamazione della gioia ai poveri (cf. 5 ,3 ss.). In verità non hanno capito ciò tutti i copisti che più tardi hanno spostato questa promessa dalla fine all'inizio del detto. Ma per Gesù l'elemento più decisivo è proprio quello meno vistoso, quello ambiguo. Certamente i suoi miracoli sono segni dell'autorità (v. a 9,3 5 ed excursus a Mc. 4,3 5 4 1 ; anche Gv. 5,36; 1 0,2 5 . 3 8; 1 4, 1 1 ; 2 Cor. 1 2, 1 2, ecc.). Ma essi non sono mai univoci: provocano tanto la fede quanto il dubbio quanto il totale rifiuto. Diventa così chiaro che i suoi atti si aprono veramente soltanto a colui che può udire, come dice esplicitamente il detto con­ clusivo (v. 6). La risposta di Gesù non toglie quindi la fede a colui che pone la domanda, ma invece lo invita a credere perché la fede deve sempre essere la risposta che l'uomo dà a se stesso e non può mai esse­ re la ripetizione pappagallesca di frasi fatte. Mentre per Giovanni l'avvicinarsi della morte fa crescere il dubbio, Gesù si appresta ad af­ frontare ben presto ( 1 2, 1 4), consapevolmente, il medesimo cammino. Se la comunità ha conservato il detto di Gesù dei vv. 4-6 lo ha fatto probabilmente per dare una risposta alle domande che le continuava­ no a venir poste dalla comunità del Battista. Con queste parole la co­ munità vuole aiutare coloro che consideravano con una certa apertu­ ra, ma ancora incerti il suo messaggio a prendere una decisione, come avviene ancor oggi quando si usa questo passo in una predica. A que­ sto proposito i vv. 5 s. sono importanti per la lettura dell'Antico Te-

242

Mt.

1 1 ,7- 1 9.

La presenza oltremodo strana del regno di Dio

stamento. Questo non viene citato letteralmente; dunque non si può argomentare citando passi dell'Antico Testamento. Perciò chi inter­ roga non viene né schiacciato né persuaso né convinto con prove in­ confutabili. Egli viene preso così tanto sul serio nelle sue domande che queste possono essere soddisfatte solo dal miracolo della sua ri­ sposta di fede e non da una spiegazione formulata per lui da un'altra persona. > e intendere «si apre la strada a forza» . Il termi­ ne tradotto «violenti>> è molto raro; si può arrivare al suddetto signifi­ cato solo per analogia con altre parole greche di formazione simile; queste, éome tre passi di età cristiana nei quali il nostro termine viene usato, confermano tutte un senso deteriore. Il verbo tradotto qui «im­ padronirsi» significa letteralmente «rapinare» e in Matteo ricorre an­ cora solo in I J, 1 9 con il diavolo per soggetto. È praticamente escluso che si possa interpretare il verbo in bonam partem nel senso di una fe­ de appassionata che lotta per forzarne i tempi come esclusa è anche l'interpretazione che il regno viene «portato avanti con potenza» da Dio. L'interpretazione di Albert Schweitzer che Gesù stesso volesse forzare i tempi della venuta del regno di Dio prima suscitando un movimento popolare poi mediante la sua passione (v. intr. a 1 0,23) si adatterebbe certamente a tentativi dell'ortodossia giudaica più intran­ sigente e soprattutto degli zeloti (v. intr. a 4 , 1 1 I, fine), ma non certo al discorso della montagna o a detti come Mt. I 1 ,27-29 e neanche a tutto il cammino di Gesù sul quale la croce non è un mezzo estremo per costringere il regno a venire. Sarebbe al massimo possibile che gli avversari di Gesù abbiano definito «violenti» lui e i suoi discepoli ri­ tenendo che essi si spingevano in territori che a parer loro erano riser­ vati all'ubbidienza della legge. Ma allora Gesù avrebbe dovuto pro­ nunciare questo detto, per così dire, tra virgolette e chi lo avrebbe ca-

Mt.

I 1 ,7- 1 9 . La presenza oltremodo strana de] regno di Dio

247

pito ? Tutto sembra quindi indicare che Gesù dichiari qui effettiva­ mente che il regno di Dio è presente, ma che è fatto oggetto di violen­ za e calpestato dagli uomini. La presenza del regno, dalla quale ci si aspettava vittoria e trionfo e soluzione di tutti i problemi, sta già sotto il segno della croce: questa presenza significa contestazione, violenza, sofferenza. Ma che significa «dai tempi di Giovanni in poi>> ? Il v. 1 3 sembra contare Giovanni ancora tra i profeti quando, a differenza di Le. I 6, I 6, nomina la «legge» solo dopo i profeti e la rende soggetto del predicato «profetizzare» . In questo caso il regno di Dio comincerebbe solo dopo Giovanni. Ma di solito Matteo usa l'espressione «da ... in poi» nel senso di «a partire da ... (incluso) in poi», includendo cioè, nel caso concreto, il Battista (23,3 5; 1 , 1 7; 2, 1 6; 27,4 5). A questa lettura si adatta l'osservazione che nei vv . 1 8 s. Gesù si associa al Battista (cf. 2 I ,J I s.), che al v. 9 gli riconosce di essere «più di un profeta» e che l'evangelista stesso pone fianco a fianco Giovanni e Gesù, distinguen­ doli al contempo chiaramente quali, rispettivamente, precursore e com­ pitare (v. a 3,2). Ma il v. 1 1 non vede le cose diversamente ? La con­ traddizione va certamente risolta nel senso che regno di Dio denota un evento che inizia con Giovanni, si preannuncia soprattutto nel­ l' opposizione al Battista, nel suo arresto e nella sua esecuzione, diven­ ta presente nell'opera di Gesù, nella sua proclamazione e nel suo com­ portamento, fino alla sua passione e morte, per colui che ha orecchi per udire (v. I 5) e occhi per vedere, finché non si compirà nella gloria a venire, visibile a tutti (cf. I J , I ss.). Tanto per Gesù quanto per Mat­ teo sono dunque importanti entrambi i momenti: che con il Battista inizia già l'opera del regno di Dio e che solo Gesù stesso lo rende pre­ sente per gli uomini che possono ascoltarlo. Una visione simile si ma­ nifesta però anche nella comunità che pone il Battista all'inizio dei suoi «simboli» (Atti I O,J 7; I 3,24), che fa iniziare tutti e quattro i van­ geli con lui e che interpreta il destino di Gesù e dei suoi discepoli con la categoria della persecuzione dei profeti (cf. I 4, 5 e 2 I ,26 con 2 I ,46; inoltre 5 , 1 2; 23 ,29-3 6 e 2 I ,J 6 s.). 14-1 5· L'interpretazione del Battista quale Elia redivivo è già pre­ supposta dal v. Io e viene anche espressa in Mc. 9, 1 3 (v. ad loc. ). Mc. 9, 4 e ancor più Gv. I ,2 I mostrano che questa concezione non era uni­ versalmente nota nella prima comunità. Ma neppure Mt. I I , I 4 do­ vrebbe servire a speculazioni sul tempo della fine, ma solo alle affer­ mazioni che con lui è apparsa la nuova realtà, è iniziata la grande scol-

248

Mt.

1 1 ,7- 1 9.

La presenza oltremodo strana del regno di Dio

ta di Dio. È tipico di Matteo che questa conoscenza dipenda dalla «volontà» dell'ascoltatore. Con l'incitamento, che segue sempre la pe­ ricope sulla quale si vuole richiamare l'attenzione (aggiunta anche in Mt. I 3,4 3; cf. ancora Apoc. 2,7 ecc.; I 3 ,9 ), questa interpretazione viene sottolineata ulteriormente: forse perché essa era diventata importante nei riguardi dei discepoli del Battista che vedevano nel loro maestro una figura messianica; forse anche perché l'invito al ravvedimento nei versetti seguenti viene distinto dalle affermazioni sul Battista, assu­ mendo così una importanza ancora maggiore. 16-19. Se non ci fossero i vv. 1 8 s. l'annessa parabola (di Gesù ?) po­ trebbe voler dire al massimo, in termini generici, che i contemporanei di Gesù «si sono chiamati fuori» e si sono quindi giocati l'offerta di Dio. È difficile che si tratti di due partiti che spingono uno in una di­ rezione uno nell'altra, così che non riescono a mettersi d'accordo. L'applicazione della parabola mostra che gli stessi ragazzi propongo­ no prima una cosa, poi l'altra, senza incontrare consenso. Naturalmen­ te si capirà che Giovanni ha offerto la via dell'ascesi, Gesù la via della libertà, ma il popolo si è rifiutato di incamminarsi per l'una e per l'al­ tra. Se si prendesse l'introduzione del v. 1 6 alla lettera, allora i ragazzi che invitano a giocare non sarebbero Giovanni e Gesù, ma gli uomini « di questa generazione». Allora si potrebbe pensare che essi volessero restare seduti facendo la comoda parte degli spettatori, mentre gli altri avrebbero dovuto danzare alla loro musica ed eseguire scatenati riti funebri sulle note della loro melodia. Allora si vorrebbe dire che essi si sarebbero aspettati che Giovanni danzasse e Gesù intonasse i la­ menti, mentre loro, comodamente seduti da una parte come spettatori critici, avrebbero constatato come le loro aspettative non fossero state soddisfatte. Ma poiché le introduzioni delle parabole sono spesso ine­ satte (cf., ad es., a 1 3,4 5 ), entrambe le spiegazioni sono possibili, con una certa prevalenza della prima. Che a Gesù si rimproverasse pro­ prio il fatto di mangiare e bere (v. 1 9) mostra con quanta forza il suo no a tutte le prestazioni religiose e la sua partecipazione alla mensa dei pubblicani abbia colpito gli uomini dell'epoca (cf. Le. I 5 , 1 s.). La cor­ relazione tra «Figlio dell'uomo» e «questa generazione» ricorre molto spesso (Mc. 8,38; cf. a Mt. 1 2,39 s.). In primo luogo si pensa alla gene­ razione che vive ai giorni del Figlio dell'uomo; ma l'accento è posto sulla contrapposizione tra gli uomini come tali e lui, il Figlio dell'uo­ mo che essi non capiscono («uomo» e «Figlio dell'uomo» al v. 1 9 co-

Mt.

1 1 ,7- 19.

La presenza oltremodo strana del regno di Dio

249

me in 9,6.8; Mc. 2,27 s.; 9,3 I ). Difficile è l'ultima breve sentenza nella quale appare improvvisamente la sapienza di Dio (v. I 9c). Di per sé la sentenza si riferisce a entrambi, a Giovanni e a Gesù. Tipico di Gesù è proprio il modo in cui l'attività del Battista viene associata alla pro­ pria, come anche sia il riserbo verso ogni titolo onorifico sia la co­ scienza della propria missione che nella parola e negli atti che si verifi­ cano nel presente vede all'opera la stessa sapienza di Dio. Ciò vale an­ cora anche per la versione di Luca secondo la quale i «figli», cioè co­ loro che la capiscono, «danno ragione)) alla Sapienza, secondo l'acce­ zione del verbo «giustificare)) presente anche in Le. 7,29; Rom. 3,4 s.; 1 Tim . 3, I 6. Per sua natura la fede significa dare ragione a Dio, lasciar fare a Dio. Per la maggior parte degli uomini vale tuttavia ciò che già Hen. aeth. 42,2 dice della Sapienza: «La Sapienza venne per stabilire la propria dimora tra i figli degli uomini, ma non trovò casa)) (simile Sir. 24,6 ss.). Ma Matteo parla delle «opere» e interpreta quindi la senten­ za alla luce del v. 2. Per lui, dunque, l'opera della sapienza di Dio è identica con l'opera di Gesù (v. excursus a 23,34-39). Singolare è la preposizione locale «a, contro)>; si è voluto già tradurre «al contrario di)) (dei suoi figli, gli israeliti: Le. 7,3 5) oppure «davanti (alle loro ope­ re)))' supponendo un'influenza dell'aramaico. Tuttavia la medesima preposizione si trova anche nel testo greco di Is. 4 5,2 5 col significato «da, mediante». Nel . passo appena esaminato spicca soprattutto il detto enigmatico della presenza del regno di Dio oggetto di violenza, odio e opposizio­ ne. In verità si dovrebbe esser stati pronti a una cosa del genere fin dal v. 2 e quanto segue è l'invito di Gesù a non immaginarsi di poter stare seduti da un lato quali spettatori neutrali. Chi cerca come stella polare un rammollito e una banderuola perché costui lo lascia in pace e sod­ disfa tutti i suoi desideri ha già sbagliato ad andare dal Battista. Ma chi si fa afferrare dall'appello di Gesù scoprirà tuttavia che Giovanni è più grande di tutti i profeti, perché con lui inizia il nuovo mondo di Dio e che il più piccolo in quel regno di Dio che continua (v. I 2: «fino ad ora») a essere aggredito, combattuto, frenato dagli uomini sarà più grande di lui.

Le conseguenze deJI'incredulità,

l I,.Z.0-.1 4

(cf. Le. 10, 1 2- 1 5 )

20 Allora cominciò a rimproverare le città nelle quali era avvenuta l a mag­ gior parte delle sue opere potenti perché non si erano ravvedute: 2 1 Guai a te, Corazin ! Guai a te, Betsaida! Perché se fossero avvenute a Ti ro e a Si­ clone le opere potenti che sono avvenute in voi, esse si sarebbero da lungo tempo ravvedute, con sacco e cenere! 22 Eppure vi dico: Il giorno del giu­ dizio la sorte di Tiro e Sidone sarà più sopportabile della vostra. 23 E tu, Cafarnao ! Non sarai innalzata fino al cielo ? Sarai precipitata giù nel regno dei morti ! Perché se fossero avvenute a Sodoma le opere po tenti che sono avvenute in te essa esisterebbe ancor oggi. 24 Eppure vi dico: Il giorno del giudizio la sorte della terra di Sodoma sarà più sopportabile della tua. 13 Is.

I 4, I 3 .

I 5.

I vv. 2 I - 2 3 a si trovano q uasi alla lettera anche in Le. 1 o, I 3- 1 5 . Viene così seguita ancora la fonte Q che determina Matteo sin da I I ,2 . Infat­ ti in Luca tra 7, 1 8 -3 5 = Mt. I 1 ,2- 1 9 e il nostro passo si trova in verità molto materiale di Marco e della fonte particolare di Luca, ma per quanto riguarda la tradizione di Q c'è soltanto la pericope sulla seque­ la (Le. 9, 5 7-60), già usata in Mt. 8,I 9-22 per illustrare l'episodio della tempesta sedata, e il discorso missionario immediatamente successivo che venne elaborato insieme a quello di Marco in Mt. I 0,7- 1 6. Anche la continuazione diretta del nostro brano di Q si trova poi in Mt. 1 I , 2 5 -2 7; Luca ha inserito nel frammezzo solo l a notizia redazionale del ritorno dei settanta. In Q i nostri versetti si trovavano quindi in ap­ pendice al discorso missionario, più precisamente al detto su Sodoma di Le. I O, I 2 = Mt. I O, I 5 · Si può dimostrare che Matteo li ha trovati in quella posizione. Mentre Le. I O, I 2 recita «in quel giorno» e Le. I0, 1 4 «nel giudizio», Matteo combina i due elementi scrivendo tanto al v. 2 2 quanto a l v . 2 4 «nel giorno del giudizio». M a soprattutto nella maledi­ zione su Cafarnao egli ha aggiunto al v. 23b una proposizione dipen­ dente che è p erfe t ta mente analoga a quelle riguardanti Corazin e Bet­ saida, solo che adesso l'interpolazione viene riferita a Sodoma perché Matteo vi aggiunge il detto che in Luca si trovava già al v. 1 2 (mante­ nendo «vi dico» invece che cambiare in «ti dico» !). Vale a dire che la minaccia generica di Gesù (Mt. 1 0, 1 5 ) viene esplicitamente riferita a Cafarnao in relazione con la parola contro la città conservata dalla tradizione (v. 2 3a). I vv. 2 1 s. possono benissimo essere parole di Ge­ sù, come sembra suggerire il fatto che Corazin non sia mai menzio­ nata altrove mentre a Betsaida si accenna solo marginalmente. A dire

Mt. 1 1 ,2 5-30. La presenza della salvezza

25 I

il vero ci si sarebbe aspettati la parola contro Cafarnao piuttosto verso la fine del ministero di Gesù il quale lascia la Galilea solo in Mt. r 9, I . Ma poiché Matteo e Luca collocano il detto in posti diversi, non s i sa comunque nulla di dove e quando esso fu effettivamente pronunciato . .zo-.14. L'introduzione esce dalla penna di Matteo (v. 20). Egli sotto­ linea dunque che gli atti miracolosi di Gesù dovreh bero naturalmente condurre al ravvedimento, ribadendo il medesimo concetto ancora una volta applicando ora la maledizione di Gesù contro la città che rifiuta la proclamazione dei discepoli di Gesù a Cafarnao che non ha capito nel modo giusto gli atti di Gesù (v. a 9,3 5 e I 1 , 5 s.). Tiro e Sidone (vv . .2. 1 -22) sono esempi ammonitori di città pagane (/s. 23; Ez. 26-28; Gl. 4,4}, ma lì l'opera di Gesù sarebbe capita meglio (cf. 1 2,4 1 s.; 8, I 1 s.). Il sacco invece dell'abito e la cenere sul capo sono segni di cordoglio penitenziale (Dan. 9,3). Tanto più la maledizione vale per Cafarnao (vv . 23 -24) che è la città di Gesù in modo particolare (9, 1 ). L'invettiva di /s. 1 4, 1 3 - 1 5 diretta originariamente contro Nabucodonosor (cf. Ez. 26,2o; anche 28,2.8) è stata forse ripresa a questo punto perché gli abi­ tanti di Cafarnao si vantavano di avere come concittadino il famoso profeta Gesù. Sia che il primo emistichio (v. 2 3 b) venga letto come fra­ se �nterrogativa o dichiarativa negativa, esso presuppone in ogni caso l'idea che Cafarnao potrebbe essere innalzata fino al cielo. Tanto più ·terribile è la sorte che le viene minacciata che in Matteo viene ancor più accentuata mediante il riferimento a Sodoma (v. a 1 0, 1 5 ). Nel con­ testo di Luca il detto serve a consolare i discepoli respinti, Matteo lo pone in un discorso di giudizio ( r 1 , 1 6-27). La presenza della salvezza, 1 1,.1 5-30 (cf.

Le.

1 0,2 1 s.)

2 5 Quella volta Gesù prese la parola e disse: Lode a te, Padre, Signore del cie­

lo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai colti, ma le hai rivelate ai semplici. 26 Sì, Padre, perché così ti è piaciuto. 27 Tutto mi è stato consegnato da mio Padr é. E nessuno conosce il figlio eccetto il Padre. E nessuno conosce il Padre eccetto il figlio e colui al quale il figlio vuole rivelare ciò. 28 Venite qui, vicino a me, voi tutti che siete affaticati e schiacciati dai pesi, e io vi farò riposare. 29 Indossate il mio giogo e imparate da me, poi­ ché sono mite e umile di cuore. Così troverete riposo per le vostre anime. 30 Infatti il mio giogo si porta facilmente e il mio carico è leggero. 28-30 Sir. 5 1,23

ss.;

24, 19. 29 Ger. 6,1 6.

252

Mt. I I,2 5 -30.

La presenza della salvezza

Qui s�no raccolti insieme tre detti i primi due dei quali appaiono quasi alla lettera in Le. 1 0,2 1 s. (cf. a Mt. I 1 ,20-24); in questo caso è persino comune ai due evangeli l'introduzione «in quell'ora», sebbene Le. 1 0,2 I la formuli in stile lucano. Il terzo detto, l'invito del salvato­ re, manca in Luca. Nel Vangelo di Tommaso esso è riportato da solo, il che fa presumere che fosse tramandato isolato e che sia stato unito agli altri due solo da Matteo o da un suo precursore. È tuttavia diffici­ le che anche i primi due detti siano stati sempre insieme sin dal princi­ pio: infatti nel primo Dio viene invocato direttamente, nel secondo si parla di lui in 3 a pers. Inoltre il primo logion si rivolge certo al Padre come fa spesso Gesù, ma non dice nulla della particolare attività di Gesù come fa il secondo. Inoltre neanche la consegna di «tutto» (v. 27) può riferirsi alla rivelazione del v. 2 5 . Forse il v. 27 è una successi­ va continuazione e interpretazione dei vv. 2 5 s. Oppure i due logia so­ no stati messi insieme soltanto perché contengono le due parole «pa­ dre» e «rivelare» ? A ciò si aggiunge che il v. 2 5 e i vv. 28-30 hanno pa­ ralleli prossimi in Sir. 5 1 , dunque nella letteratura sapienziale, mentre ciò non è vero per il v. 2 7. In verità è possibile scorgere anche in Sir. 5 1 la sequenza ringraziamento al Padre (vv. 1 - 1 2), rivelazione della Sa­ pienza (vv. I 3 -22), invito (vv. 23 -30). Inoltre è comune a tutti e tre i detti l'interesse per i destinatari della rivelazione, gli «incapaci» e «so­ vraccarichi». Ciò potrebbe aver indotto scribi cristiani che studiavano gli scritti sapienziali, Matteo o i suoi predecessori, a riunire i tre logia. A questo proposito è tipico che l'identificazione di Gesù con la Sa­ pienza appaia chiaramente in Matteo per primo (v. ai vv. 28-3 0). Resta incerto il primo contesto dei detti. Il pronome dimostrativo «queste cose» (v. 2 5) deve essersi riferito una volta a qualcosa di ben preciso. Ancora più difficile è decidere se le parole risalgano proprio a Gesù. Sicuramente lo sfondo veterotestamentario-giudaico è palese (v. sot­ to) mentre il differenziamento rispetto alla scienza scribale nel primo e nel terzo detto potrebbe essere compatibile con una parola di Gesù, mostrando anche una certa affinità con l'appello salvifico ai poveri (5, 3 ss.). V a confrontato anche Dan. 2 dove sono menzionati i «sapien­ ti». Più difficile è, nel detto di mezzo, il rapporto speculare tra «Pa­ dre» e «figlio», con l'uso assoluto dei due termini (v. sotto). I

2 5-.16. L'inizio ricorda la preghiera di quell'altro Gesù che in Sir. 5 I , comincia: «Ti lodo, signore e re. . . ». Solo che questo Gesù loda Dio

Mt. r r,2s-3o. La presenza della salvezza

2 53

in un certo senso per il proprio fallimento. Il celare i misteri di Dio viene in verità sottolineato notevolmente nella setta giudaica di Qum­ ran: «Tu hai celato la fonte della conoscenza... » ( r QH I J,2 5 s.); « ... na­ sconde e sigilla il suo segreto perché non sia considerato né conosciu­ to» ( 1 QH I 6, I o s.); esso è noto solo ai membri del gruppo che prati­ cano «la discrezione riguardo ai misteri della conoscenza>> ( r QS 4,6). Tali concetti sono già prefìgurati nell'Antico Testamento (ls. 29, 1 4 = 1 Cor. 1 , 1 9; Sal. 8,3 = Mt. 2 1 , 1 6; Sal. 1 9,8; 1 1 6,6; I I 9, 1 3o; Sap. 1 0,2 1; cf. /s. 5 3, 1 ) e sono ripresi da Paolo (1 Cor. 1 ,26) e Giovanni ( 1 , 10 ss.). Lo �fondo è indubbiamente quello della riflessione sapienziale giudaica tipica di Q. Certamente la sentenza negativa, che secondo lo stile se­ mitico è unita solo con la congiunzione «e», va ben oltre: la promessa non è data ai sapienti e agli scribi, ma agli ) è certamente una metafora per una luce vicina a spegnersi, per l, altra immagine è più logico pensare a una canna incrinata, rotta, ma non spezzata, piut­ tosto che al bastone spezzato quale segno della condanna a morte, che era forse l'idea origi n ari a che una volta l'Antico Testamento voleva trasmettere. È notevole come tutto ciò, nonostante il linguaggio total­ mente diverso e la diversa impronta teologica, ricordi la proclamazio­ ne paolina della g i ust i z ia di Dio che trionferà sulla terra tra tutti i po­ poli. Dietro a entrambe le concezioni c'è la ) corrisponde a Mt. 5 , I 1 . Per contro la costruzione di .

.

.

.

268

Mt. 1 2,22-37.

L,induramento degli uomini

Le. I 2, r o (prima proposizione con «ognuno che ... », seconda proposi­ zione con participio e «ma>> aggiunto) è adattata ai versetti precedenti (che in origine non gli erano collegati) che parlano della confessione o del rinnegamento (imperdonabile) del Figlio dell'uomo. .12-30. Con il suo avverbio preferito, «allora», ma soprattutto con la scelta del verbò « guarire>> («egli lo guarÌ» invece di «il demone fu scac­ ciato») Matteo aggancia deliberatamente questa guarigione (v. 22) con l'atto di Gesù descritto al v. I 5, al quale si riferisce la citazione del ser­ vo di Dio. Ciò diventa ancora più evidente mediante l'aggiunta della domanda che agita la folla di popolo (v. 2 3), poiché «figlio di ·Davide» vuoi dire naturalmente il re promesso per gli ultimi tempi che in Ez. 34,23; 3 7,2 5 viene descritto quale servo di Dio. Con le sue opere Gesù si dimostra dunque il servo di Dio lungamente atteso, il «figlio» pro­ messo a Davide al quale, secondo 2 Sam. 7, I 2 ss., Dio stesso avrebbe fatto da padre. Il popolo va fuori di sé, perde il controllo, come viene detto con un verbo usato solo qui in Matteo, perché non si fida più della sua precedente incredulità. Si può far fronte a questa situazione solo con l'accusa di stregoneria, un'accusa che viene levata contro Ge­ sù anche da fonti giudaiche. Secondo Matteo qui essa è diretta esplici­ tamente alla confessione che Gesù è il figlio di Davide. Il discorso sul regno riferito sia in Mc. 3 ,24 sia in Le. I 1 , 1 7 (Q) viene ulteriormente ampliato in Matteo con l'inserimento della città tra gli esempi del re­ gno e della casa. Beelzebul è quindi classificato nella categoria dei «re­ gni », è cioè pensato come un potere governante nei confronti del qua­ le l'opera di Dio in Gesù si manifesta parimenti come potere, come «regno di Dio», che entra inevitabilmente in guerra con esso. Questo scontro viene sottolineato con la potente immagine dell'espulsione di Satana (v. 26). Anche nel giudaismo si praticavano esorcismi (Atti 1 9, 1 3 ; Giuseppe, Ant. 8,4 5 -49; cf. Beli. 7, 1 8 5); «figli» (v. 27) denota l'ap­ partenenza a un gruppo (come in 8, 1 2 ecc.), qui dunque i discepoli dei farisei; in Le. 1 1 , 1 9 invece, data la diversa introduzione (Le. 1 1 , 1 5 ), semplicemente gli israeliti. Il detto che segue (v. 28) contiene una delle affermazioni più sorprendenti: il regno di Dio è già arrivato improvvi­ samente su coloro che sono testimoni degli atti di Gesù. Il medesimo verbo deriota in .I Tess. 2, 1 6 qualcosa che è già arrivata su qualcuno e in I Tess. 4, 1 5 addirittura uno che precede un altro, in entrambi i casi in un contesto apocalittico. Il v. 28 indica dunque qualcosa di più di

Mt. 1 2,22-37· L'induramento degli uomini

2. 69

una semplice vicinanza (4, I 7). L'espressione «regno di Dio>> non viene qui corretta, come altre volte, in «regno dei cieli»: ciò indica che per Matteo il detto ha già una sua forma stabile. Già le beatitudini ( 5 ,J ss.), le antitesi («ma io vi dico ... »: 5,2 I ss.), l'indicazione del compi­ mento delle promesse di Isaia (I I ,4) o l'avvenuta remissione dei pec­ cati (9,2) avevano testimoniato la presenza del regno. Essa era stata proclamata già prima in I I , I 2, tuttavia sotto l'aspetto della presenza dell'ostilità e dell'oppressione, come la raffigureranno più avanti ( I 3, I ss.) le parabole dell'apparentemente inutile lavoro del contadino o della minutezza del seme di senape. Nel nostro versetto viene raffigu­ rato più chiaramente che in qualsiasi altro passo l'arrivo improvviso del regno di Dio. A motivo dei vv. I 8 e 3 I s. Matteo fa riferimento al­ lo «Spirito», mentre Luca, nel quale il primo passo manca del tutto e il secondo apparirà solo in Le. I 2,Io, contiene (Le. I I ,2o) l'incisiva espressione più originaria «il dito di Dio>> (Es. 8, I 5; Sal. 8,7). Dio, dunque, già allunga, in un certo senso, il dito fuori dalla sua segreta separatezza così che ciò che verrà solo in futuro irrompe già nel pre­ sente. Proprio questa è per Matteo l'opera dello «Spirito» che è stato promesso al v. I 8 e dal bestemmiare contro il quale egli mette poi ( vv. 3 2 s.) in guardia. In questo modo Matteo sottolinea l'importanza delle opere carismatiche di Gesù (v. a 9,3 5). Ciò viene messo in evidenza (v. 29) con la metafora della lotta del più forte contro il forte (v. a Mc. 3,27) e con il detto finale (v. 30) che invita con estrema urgenza al de­ cidere per Gesù. Ci sono tempi nei quali non si può più restare n eu­ trali. Il nostro testo va oltre Mc. 9,40 («chi non è contro noi è per noi»), dove tuttavia si tratta soltanto di unirsi alla schiera dei discepoli e non, come qui, della confessione di fede in Gesù nel cui . nome con­ fessa di credere addirittura l'anonimo esorcista «esterno» di Mc. 9,3 8 s. L'apertura ecumenica (Mc. 9,40) e l'assoluta esigenza di una chiara confessione di fede in Gesù (Mt. I 2,JO) sono dunque perfettamente compatibili. J I -3 7· Il peccato perdonabile contro il Figlio dell'uomo (vv. 3 I -3 2) indica certamente in origine il rifiuto per ignoranza (Atti 3, I 7) del Ge­ sù terreno che è chiamato Figlio dell'uomo anche in 8,20; 9,6; 1 I , I 9; I 2,8; I 6, I 3. Dalla vita terrena di Gesù viene distinto il tempo successi­ vo alla pentecoste nel quale opera lo Spirito (Gv. 7,39) così che sol­ tanto la cosciente opposizione a esso è imperdonabile. Oppure il det­ to risale alla visione di Gesù quale portatore e inviato della Sapienza

270

Mt. 1 2,22-37· L'induramento degli uomini

in Q (v. excursus a 23,34-39) ? Si è parlato anche in 1 1, 1 9 (v. ad loc. ) del Figlio dell'uomo come di colui che ha reso giustizia alla Sapienza. In questo caso il passo vorrebbe dire che si potrebbe addirittura di­ sprezzare l'inviato senza essere perduti definitivamente, ma non si potrebbe disprezzare la sapienza di Dio che l'ha mandato (anche in Sap. 9, 1 o. 1 7 la Sapienza sta in parallelismo con lo spirito di Dio). Per Matteo nessuna delle due spiegazioni è più ipotizzabile: per lui Gesù è identico con la Sapienza e il Figlio dell 'uomo è già il giudice universa­ le glorificato, non semplicemente il Gesù terreno ( 1 2,40; 1 3 ,3 7·4 1; 1 6, 27 s.; 1 9,28; 24,27 ss.; 2 5 ,3 1 ; 26,64). Allora si vuole probabilmente dire che la mancanza di fede è perdonabile quando si pone di fronte sol­ tanto a un racconto sul Figlio dell'uomo, ma non lo è più quando av­ vengono le grandi opere dello Spirito descritte al v. 28. Poiché a que­ sto proposito pensa sempre alle opere di Cristo che continuano a veri­ ficarsi nella comunità, Matteo ha anche evitato di riferire espressa­ mente l'invettiva di Gesù ai suoi oppositori del momento, come fa in­ vece Mc. 3 .30. La buona formulazione greca «o ... o ... » (v. 33) sottoli­ nea la necessità della decisione. Non si tratta, qui, di singole buone azioni da compiere o cattive da evitare, ma di una guarigione che parte dalla radice e può essere testimoniata soltanto dal frutto. L'ammoni­ mento circa questa malvagità che parte dall'intimo è sottolineato con forza dall'invettiva della genia di serpenti. Poiché Matteo riferisce que­ sta imprecazione ai farisei in 3,7 (contro Luca; cf. a I I, I J ) e in 23,3 3 (insieme con i sadducei) e qui ai vv 3 2.34.3 6 parla di discorsi malvagi, certamente egli mira a colpire la loro polemica contro la proclamazio­ ne di Cristo. Questa lettura è più verosimile dell'ipotesi che Matteo volesse cautelarsi contro i falsi profeti che si richiamavano sì allo Spi­ rito santo (v. 32), ma poi producevano un frutto marcio e facevano di­ scorsi maligni (vv. 3 3 -37). Con il riferimento al cuore si sottolinea una volta di più che le parole pronunciate verso l'esterno sono coerenti alla natura più profonda dell'uomo e ne rendono testimonianza (cf. a 7, 1 6- 1 8). Il medesimo concetto è espresso con la figura del «tesoro» che uno può possedere (v. 3 5 ). Nei due ultimi versetti (vv 36-3 7) Mat­ teo parla espressamente, com'è tipico di lui, del giudizio finale nel quale tanto la giustificazione quanto la condanna di una persona av­ vengono sulla base delle sue parole. La parola «inutile», «oziosa)), non denota una qualsiasi parola totalmente neutra, bensì la parola abietta, in ultima analisi empia (cf. Sir. 23,1 5 [ms S] e l'uso di «folle» per indi.

.

Mt. 11,38-42 . Il segno

di Dio

2.71

care l'empio in Sal. 14, 1 ; Giud. 1 9, 23 ecc.). Nel contesto Matteo riferi­ sce certamente questa parola all'offesa contro lo Spirito. Tutta quanta la sezione è dominata dalla parola di Gesù sull 'im­ provviso arrivo del regno di Dio. Non sono le guarigioni e gli esorci­ smi a costituire la straordinarietà, ma certo la precisa consapevolezza di Gesù sul «dito» di Dio che è all'opera in quegli atti. Questo regno irrompe non nella decisione degli uomini per Dio, neanche nella loro proclamazione, bensì nel potere che in Gesù si rivolge all'uomo e lo sana. Con ciò il futuro del regno non è annullato, anzi! È proprio il regno futuro che irrompe qui e senza la prospettiva dell'adempimento futuro le promesse sarebbero vane. Ma chi scorse già il regno di Dio nella guarigione di due o anche di venti malati psichici deve o essere pazzo oppure agire e parlare attingendo a un potere che sa che un giorno Dio convaliderà i suoi segni e manterrà le sue promesse. Chi si fa dire questa parola di Gesù ne vivrà. Come ai guariti non si chiede prima che cosa credano e che cosa ritengano possibile o impossibile, così gli alti e bassi della fede non influiscono sulla effettiva presenza del regno. In verità questa certezza è accompagnata dall'avvertimento forse più severo di tutto il Nuovo Testamento (vv. 3 1 s.) e Matteo ha collegato quella e questo nel v. 28 scegliendo la parola > non sarebbe del tutto esatto (tuttavia cf. anche «dopo tre giorni» : Mt. 27,63; Mc. 8 ,3 1 ecc.), è estremamente improbabile. Simili spiegazioni vengono spesso aggiunte, ad esempio anche nella traduzione dell'Antico Testamento nella lingua volgare o nelle sue citazioni nel Nuovo Testamento. La formulazione di Mc. 8, 1 1 s. (v. ad loe. ) è probabilmente una riduzione della versione di Q perché non si sapeva più che cosa fosse il segno di Giona. Non esiste alcuna contraddizione sostanziale perché anche se­ condo Q non è questo che gli interroganti intendono per segno.

274

Mt. 1 2,38-42. Il segno di Dio

3 8-42. «Segno>> (v. 3 8) non è semplicemente sinonimo di miracolo; nei primi tre vangeli (in Gv. 2, 1 I; Atti 2,4 r ; Rom. I 5 , I 9; Ebr. 2,4 è di­ verso) il segno non è riferito mai alle guarigioni e ad atti meravigliosi; soltanto Gesù stesso (Le. 2,34; cf. I 2) oppure eventi apocalittici (Mt. 24,3·30) sono «segni>>. Ciò che gli avversari vogliono dire è una prova inconfutabile, un evento, «dal cielo>> (Mt. 1 6, 1 ; Mc. 8,I I ; Le. I I , I 6). Proprio con questa richiesta essi dimostrano di essere una generazio­ ne malvagia (v. 39): l'articolo indeterminativo serve forse a estendere questo giudizio oltre il tempo di Gesù. Essi sono «adulteri>> nel senso dell'Antico Testamento che definisce l'idolatria adulterio nei confron­ ti di Dio (Ger. 1 3,27; fs. 5 7,3 ss.; Os. 1 -3). Ci sono dunque certamente dimostrazioni concrete del potere di Gesù e dell'intervento di Dio. Ma come significherebbe la fine dell'amore se un marito non si accon­ tentasse più della quotidiana esperienza dell'amore della moglie, ma esigesse delle prove, così la richiesta ·di un tale segno significa la fine della fede. lovero quando si richiedono garanzie non si può più avere fiducia. Con questa pretesa si rende Dio un oggetto che potremmo controllare. Ma che cosa è il segno di Giona ? È il segno che Giona dà o il segno che egli stesso rappresenta? Luca si limita a spiegare che questo segno sarebbe stato lo stesso Figlio dell'uomo. Allora si deve certamente intendere come Le. I 1 ,32 = Mt. I 2,41 : come la predicazio­ ne penitenziale di Giona fu il segno di Dio per i niniviti, così lo è il Fi­ glio dell'uomo che chiama questa generazione al ravvedimento; solo che quelli ascoltandola si pentirono e ravvedettero, questa invece no. Se il v. 4 I appartenesse fin dal principio al racconto, si dovrebbe pen­ sare al Figlio dell'uomo che affronterà questa generazione nel giudi­ zio, anche se il verbo greco al futuro («sarà»: Le. 1 I ,Jo) non può dare alcuna indicazione circa la forma verbale del testo aramaico soggia­ cente nel quale, probabilmente, non c'era alcun verbo. Tuttavia si de­ ve supporre che almeno Q, dove il detto dei niniviti viene dopo, pen­ sasse già al giudizio finale nel quale Gesù sarebbe apparso come il «se­ gno» apocalittico da loro preteso, ma per condannarli (cf. I O,J J). Mat­ teo (v. 40) pensa a Giona che incontrò i niniviti dopo esser stato tre giorni prigioniero nel ventre del pesce: egli è immagine del Figlio del­ l'uomo. Certo non si parla né del salvataggio di Giona né della risut:­ rezione di Gesù; tuttavia già la limitazione del riposo sepolcrale a tre giorni indica che Matteo pensa certamente a colui che si farà incontro a questa generazione quale Risorto (cf. a 1 2,3 2). I niniviti (Gion. 3 , 5 ) e

Mt. Il.,.ct.J-4 5 · La ricaduta

27 5

la regina del paese del sud (1 Re r o, I - 1 J; 2 Cron. 9, 1 - 1 2) sono pagani. In origine questo aspetto è stato sicuramente sottolineato, in verità più a vergogna d'Israele (come in 3,9; I I ,2 1 -24) che a lode dei pagani (co­ me in 8, 5 - 1 3). I verbi «si presenteranno ... si alzerà>> (vv. 41 .42) potreb­ bero essere tradotti anche «risorgeranno ... risusciterà», tuttavia non è probabile che si pensi a questo aspetto particolare. Due volte viene quindi constatato: «qui c'è più di Giona ... più di Salomone». Come al v. 6 si parla genericamente di un avvenimento più grande, non di colui che è più grande. Che ora ci si trovi davanti a qualcosa di più grande non solo del tempio e del suo sommo sacerdote (v. 6), bensì del profe­ ta e del re eletto da Dio appare a colui che può credere, ma non viene detto direttamente. Anche in Giuseppe (Ant. I 3,299) si trova l'associa­ zione degli uffici di re, sommo sacerdote e profeta quale onore ecce­ zionale di un re d'Israele: ma vi manca qualsiasi accenno a un «più». Così questi versetti vogliono aiutare la fede a essere fede. Invero quando volesse garanzie, non potrebbe più imparare a confidare in Dio. Perciò la fede viene messa in guardia: proprio perché Gesù fu qui e con la parola e gli atti invitò, come Giona a Ninive, al ravvedimento, il giudizio finale di Dio si compirà. Così il passo è un ultimo avverti­ mento a guardarsi da una sicurezza che si rifiuta ·d i comprendere questo evento e insieme un'ultima parola di incoraggiamento: nelle parole e negli atti di Gesù il regno di Dio è veramente già qui, si avvi­ cina all'uomo e aspetta la sua fede. La ricaduta,

1 .1,43-4 5

(cf. Le. 1 I ,24-26)

43 Ma quando lo spirito impuro esce dall'uomo, esso vaga per luoghi aridi, cerca riposo e non lo trova. 44 Allora dice: Voglio ritornare a casa mia, dalla quale sono andato via. E viene e la trova vuota, rassettata e fatta bella. 4'5 Allora va fuori e prende con sé altri sette spiriti che sono peggiori di lui ed essi entrano e vi fissano la loro dimora. E la fine di quest'uomo è peg­ giore dell'inizio. Così succederà anche a questa generazione malvagia.

43-4 5. Esclusa l'ultima breve sentenza si trova un testo quasi uguale alla lettera in Le. I 1 ,24-26. La pericope proviene dunque da Q e Mat­ teo si è limitato a renderla più lineare. La domanda di un segno che in Le. 1 1 , 1 6 interrompe la discussione su Beelzebul è stata spostata da Matt�o alla fine di questa disputa. In questo modo sia nella discussio-

276

Mt. 1 2,46-50. La vera famiglia di Gesù

ne su Beelzebul ( I 2,24-30) sia nella richiesta di un segno ( 1 2,3 8-42) domanda e risposta si susseguono immediatamente. Il passo che in Q si trova frammezzo (Le. I r,24-26) viene riportato adesso, come mo­ stra l'aggiunta finale, quale ammonimento conclusivo a «questa gene­ razione malvagia» (v. al v. 3 9). Ciò che secondo il v. 43 succede a un singolo individuo per �1atteo è tipico di tutta una generazione. Ci so­ no momenti nei quali la tentazione dell'apostasia si moltiplica per mille. L'uscita del demone è descritta con grande vivacità (cf. 8,3 2). Il deserto è la sua patria (Lev. 1 6,8 . I o,26). Il passo di G/. 2,20 è stato ri­ ferito dai rabbi alla cacciata di Satana. Probabilmente si deve intendere il v. 44 alla luce dell'uso linguistico semitico: «Quando il demone vie­ ·n e e la trova vuota... , allora . » . Così la parabola censura un ravvedi­ mento a metà. Un cuore che si è solo liberato dei suoi pesi senza che vi sia entrato colui che desidera essere il suo Signore non è immune da un nuovo assalto dei demoni. Qui non si pensa agli esorcismi com­ piuti da Gesù, ma alle esperienze fatte con le conversioni apparenti. Paolo, ad esempio, ha capito che la sua devozione alla legge lo faceva sì essere «irreprensibile» rispetto alle richieste della legge, ma lo ha portato, in compenso, a una fiducia arrogante nella sua «propria giu­ stizia» che era peggiore dei vizi comuni (Fil. 3,6-9 ). In Matteo la riflessione non è stata portata così avanti, ma egli vede che il pericolo maggiore nel rifiutare Gesù consiste nell'impedirgli così di prendere possesso del cuore dell'uomo, come mostra l'ultima breve sentenza. Si può togliere l'aria da un vaso riempiendolo, ad esempio, con un liqui­ do. Così Gesù si differenzia dai farisei (v. 27) perché con lui il regno stesso viene e riempie i cuori. .

.

La vera famiglia di Gesù, 12,46- so (cf. Mc. 3,3 1 -3 5; Le. 8, 1 9-2 1 ) Mentre stava ancora parlando alla gente, ecco: sua madre e i suoi fratelli stavano in piedi di fuori e cercavano di parlargli. (47) 48 Ma egli rispose a colui che gli diceva: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli ? 49 E stese la mano sui suoi discepoli e dice: Ecco: mia madre e i miei fratelli! 5 0 Poiché chiunque faccia la volontà del Padre mio in cielo, quegli mi è fratello e so­ rella e madre. 46

Con questa pericope Matteo ritorna alla narrazione di Marco che in I 2,J I -J 7 era stata ampliata e nei vv. 3 8-45 integrata con materiale di

Mt. 1 2,46-so. La vera famiglia di Gesù

2 77

Q. Interessanti sono alcune concordanze minori con Luca contro Mar­ co nei vv. 46-48a, soprattutto le omissioni. Ma nei manoscritti più an­ tichi manca proprio il v. 47 nel quale sono concentrate quasi tutte que­ ste concordanze, che potrebbero dunque essersi verificate anche nel corso della copiatura per assimilazione a Luca (o del testo di Luca a Matteo ). In entrambi manca l'accusa della famiglia di Gesù che egli sa­ rebbe impazzito (Mc. J,2 I ). 46- 50. Il legame di questa pericope con la precedente è reso qui più stretto rispetto a Marco grazie all'introduzione. Matteo vuole dunque dire, da un lato, che nemmeno i legami di parentela con Gesù bastano a separare dalla «generazione malvagia>>; dall'altro, vuole mostrare l'esempio contrario, la vera famiglia di Gesù (v. 4 8 ). Gesù stesso pone, senza esplicita sollecitazione altrui, la domanda didattica di chi costi­ tuisca quindi la sua famiglia. A differenza di Mc. 3,34 s. (v. ad loc. e re­ lativa intr.) Gesù indica non più tutti quanti i presenti, ma solo i suoi discepoli. La sua famiglia sono dunque loro, non, ad esempio, tutQ coloro cui capita di ascoltarne la parola. In questo senso parlano an­ che Rom. 8,29; Ebr. 2, I I dei fratelli di Gesù, per la verità non delle so­ relle e della madre. Discepoli sono, come fa capire il «poiché>> aggiun­ to da Matteo, tutti coloro che fanno la volontà di Dio (v. s o). Ciò vie­ ne accentuato in maniera ancora più particolare perché Matteo non parla più di Dio, bensì del «Padre mio in cielo» . Poiché in Gesù è qui il Figlio di Dio, adesso c'è la schiera di coloro che imparano a fare la volontà del Padre, separandosi così, in quanto famiglia di Dio, dalla generazione malvagia. lnvero non si separano per divorziarne defini­ tivamente, ma per agire in essa da lievito, come diranno le parabole se­ guenti {specialmente I 3,3 3; cf. i detti sui discepoli in 5,1 J - I 6). Ci si rallegrerà per il più ardito detto di Mc. 3,34 riconoscendo che Matteo ne ha ristretta successivamente la portata ai discepoli in senso stretto. Ma si dovrà accettare l'invito di Matteo a prendere molto sul serio la necessità di fare la volontà del Padre. Non nel senso di conce­ pire il discepolato come ritiro nel chiuso di una setta o di un conven­ to, come pensavano molti farisei e l'ordine di Qumran, ma nel senso che in date circostanze si deve separare da padre e madre proprio per amore del mondo che secondo la volontà di Dio ha bisogno del servi­ zio dei discepoli (v. a 1 0, 3 7; 8,2 1 s.).

La parabola del contadino che tribola, (cf. Mc. 4, 1 -9; Le. 8,4-8)

I J , I -9

1 Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette sulla sponda del lago. 2 E gran­ di folle si radunarono atto rn o a lui. Così salì su di una barca e (vi) si sedet­ te e tutta la folla stava in piedi sulla riva 3 Ed egli parlò loro a lungo in pa­ rabole e disse: Ecco: il seminatore uscì per seminare. 4 E mentre seminava, un po' cadde sulla strada e gli uccelli arrivarono e lo mangiarono. 5 Un altro po' cadde invece sul terreno roccioso, dove non c'era molta terra, e germogliò subito perché non aveva un terreno profondo. 6 Ma appena il sole si alzò appassì e non avendo radice si s.eccò. 7 Un altro po' cadde invece tra i rovi e i rovi crebbero e lo so ffocarono . 8 Un altro po' cadde sulla terra buona e portò frutto: uno cento volte, un altro sessanta volte, un altro trenta volte. 9 Chi ha orecchi, oda! .

Per la struttura del capitolo cf. intr. a I 2, I - I 6,I 2. Per il significato della scelta di Gesù di parlare in parabole cf. a Mc. 3,2 3 e 4, 1 -9 intr. 1-z. Ancora una volta si vedono i segni della dipendenza di Matteo da Marco. Qui Matteo fa uscire Gesù «di casa» sebbene in 1 2,46 egli stia ancora parlando alla gente e non sia mai entrato in una casa. In Mc. 3,20 s. lo si diceva, ma Matteo omise la dura accusa dei parenti di Gesù pur avendo ripreso la frase «stavano di fuori in piedi» (v. 46) di Mc. 3,3 1 e ora riprenda in un secondo tempo che Gesù si era fermato in una casa. È più logico che in Matteo la barca faccia la sua comparsa solo a questo punto (v. intr. a 1 2, 1 5 s.). La parabola è raccontata so­ stanzialmente come in Marco, salvo variazioni e tagli di poco peso. Sullo sfondo dei brani precedenti si mette tuttavia in maggior eviden­ za in che notevole misura la parabola rifletta il destino di Gesù stesso, l'insuccesso del suo messaggio e dei suoi atti, ma anche lo scopo buo­ no di Dio in tutto ciò. Il fine divino viene descritto qui con un linguag­ gio semplice e vivace, senza i colori fantastici della fine imminente. La natura del discorso in parabole, (cf. Mc. 4, I o- 1 3; Le. 8 ,9 s.)

I J , I 0- 1 7

Io E i discepoli si avvicinarono e gli dissero: Perché parli loro in I 1 Ma egli rispose e disse: A voi è dato di conoscere i segreti del

parabole ? regno dei cieli; ma a quelli non è dato. 1 2 Poiché a chi ha già, gli sarà dato, ed egli avrà sovrabbondanza. Ma chi non ha, a lui sarà tolto anche ciò che ha.

Mt. I J, I0- 1 7. La natura del

discorso in parabole

279

I 3 Perciò parlo loro in parabole: infatti «vedendo non vedono e udendo non odono né capiscono». 14 E per loro si adempie la profezia di Isaia che recita: «Udendo udirete senza capi re e vedendo vedrete senza distinguere. 1 5 Po ic hé il cuore di questo popolo è indurato e con i loro o re cc hi odono male e hanno chiuso i loro occhi per non vedere con gli occhi né udire con gl i orecchi né capire con il cuore né convertirsi p erché io li sanassi». 1 6 Ma beati i vostri occhi pe rc hé vedono, e i vostri orecchi perché od o ­ no ! 17 Poiché, amen, vi dico: Molti profeti e giusti d esideraro no vedere ciò che voi vedete e non l'hanno visto; e di udire ciò che voi udite e non l'han­ no udito. 13

Ger.

5,2. 1 . 14 s.

fs. 6,9 s.

10-1 7. Per contro Matteo ha notevolmente ampliato il brano inter­ medio che già nella forma di Marco sollevava gravi problemi. Per pri­ ma cosa la domanda è posta in maniera più precisa e, più esplicita­ mente che in Marco, dai discepoli che «si avvicinano» (cf. a 8,2). Essi non chiedono più quale sia il significato della parabola: in Matteo essi sono coloro che comprendono e quindi non hanno più bisogno di farlo. Soltanto per coloro che sono indurati e non capiscono («a loro>> : vv. I O. I J ) vale l a forma del parlare per parabole, che secondo Matteo ha funzione di velamento. Non si dice neanche più che Gesù si trovi solo con i discepoli (Mc. 4, 1 o). Matteo pensa forse a una conversazio­ ne privata in barca, al largo ? Matteo conosce la risposta di Gesù in una forma diversa che viene usata anche in Le. 8, 1 o. Il plurale «segre­ ti>> e il verbo «conoscere» dipendono certamente dalla comunità che pensava alla conoscenza di diversi particolari del piano di Dio, spe­ cialmente per quanto riguardava l'evento finale. Matteo stesso penserà piuttosto ai temi trattati nelle parabole, tra i quali, tuttavia, il giudizio finale assume per lui una posizione centrale. La consapevolezza che per la comunità esista un solo segreto, cioè Gesù Cristo stesso (v. a Mc. 4, I o- 1 2, fine), non è più serbata dunque con chiarezza. Poiché Matteo aggiunge, contro Marco e Luca, una congiunzione che spesso funge solo da due punti, ma può anche significare «perché», si po­ trebbe forse tradurre il v. I I così: «Perché a voi è dato ... ». Il detto iso­ lato della strana giustizia di Dio che, come recita una massima giudai­ ca, non riempie il vaso vuoto, bensì quello pieno, è riportato da Mat­ teo con l'aggiunta «e ne avrà in eccesso» (cf. 2 5,29 intr.) forse proprio perché sta pensando qui all'immagine del vaso. Ma neanche qui si di­ mentica che anche ciò che i discepoli «hanno» è già dono di Dio (v.

280

Mt.

I J , I 0- 1 7.

La natura del discorso in parabole

I I ). In Marco il detto sta non prima di 4,2 5 insieme con altri tre che sono già apparsi in Mt. 5,1 5 ; 1 0 , 2 6 e 7,2 . Diversamente da Marco, do­ po l'interruzione del v. 1 2 Matteo deve ripetere le parole della doman­ da (v. 1 ob). Il cambiamento decisivo è però quello di «affinché» (Mc. 4, I 2) in «perché» (ma cf. ai vv. I 4 s.). Dunque non è intenzione di Dio indurare gli uomini, bensì, al contrario, Gesù parla in parabole perché gli uomini sono già indurati. Con ciò si dice anche che l'induramento è già una realtà, non che si verificherà solo in seguito (cf. al v. 36). Il detto viene riportato abbreviato (vv. I 4- 1 5) perché è subito seguito, dopo un'esplicita introduzione, dalla citazione di Isaia che riproduce alla lettera il testo della Bibbia greca (e di Atti 28,26 s.). In Gv. I 2,40 questa citazione appare in una forma che, come il testo ebraico, ricon­ duce l'accecamento all'opera di Dio. Tra le citazioni di adempimento che vengono messe in risalto con una introduzione (che nel nostro ca­ so ·è invero costruita diversamente) questa è l'unica che venga messa in bocca a Gesù (v. excursus a 1,I 8-2 5). Anche la perfetta coincidenza con la Bibbia greca può essere constatata al massimo solo in 1 ,23. Si è pertanto ipotizzato che si tratti di un'aggiunta postmatteana. Tuttavia con questa citazione si dice che il piano di .Dio si compie ancora per­ sino nella loro cecità come, ad esempio, l'opera umana e il disegno di Dio si combinano a incastro anche nel caso di Giuda (v. a Mc. 1 4, Io). Non è tuttavia escluso che la congiunzione che secondo il suo uso co­ mune viene tradotta «affinché (essi) non . . . » (v. I 5) fosse intesa diver­ samente. Essa può anche significare «se (essi) per caso non... », così che si potrebbe leggere: «nel caso essi non ... ancora . . . ». Questa lettura sot­ tolineerebbe la decisione e la responsabilità umana in maniera molto forte. Per Matteo è di importanza decisiva il macarismo indirizzato ai discepoli. Come ha sviluppato ampiamente l'invettiva contro coloro che sono indurati e mostrato come essa sia radicata nella Scrittura, così deve adesso in maniera ancora più vistosa distinguere i discepoli da tutto quello. La situazione in Matteo è totalmente diversa da quella di Mc. 4 , 1 3 , dove con la loro incomprensione i discepoli sono fonda­ mentalmente accomunati con tutti gli altri, o addirittura da Mc. 8, 1 8, dove si dice degli stessi discepoli ciò che qui vale per coloro che resta­ no esclusi (v. ad loc. ). Matteo distingue costantemente i discepoli, visti come coloro che capiscono, dall'Israele che non vuole riconoscere Gesù ( 1 4,3 3 vicino a Mc. 6, 52; Mt. I J, 5 I ; 1 6, 1 2; 1 7, 1 3 ; 20,20). Essi so­ no sì di poca fede (6,30 s.; 8,26; 14,3 1 ; 1 6,8; 1 7,20), ma mai increduli o

Mt.

IJ,I8-2J. La spiegazione dei quattro tipi di terreno della p arabola

28 I

totalmente ignoranti (cf. a I 5 , I 6; 1 7,4. 8 s. I 7.23 ). L'unica difficoltà è decidere chi appartenga, secondo Matteo, alla cerchia di coloro che sono indurati. Da un lato il popolo è distinto, in maniera positiva, dai suoi capi - in verità solo fino a 2 7,2 5 (v. ad loc. ) ; dall'altro già in 2 1 ,4 3 e 22,9 si fa chiaro riferimento alla fine d'Israele quale popolo di Dio (cf. a I 3,34-3 6a). Probabilmente Matteo vuoi dire che l'Israele ufficia­ le ha rifiutato Gesù, il che non esclude che una serie di israeliti, ad esempio i discepoli, appartengano al popolo di Dio che produce frut­ to (cf. a 8, I I s.; 2 I ,43; 23,39). Ciò unisce la schiera dei discepoli molto più forte con la comunità (v. a 8,2 3), mentre in Marco l'ottusità dei di­ scepoli dipende dal fatto che Gesù non è ancora morto e risorto, cioè non si può ancora vedere che cosa significhi la sequela. Ciò comporta a sua volta la conseguenza che la situazione del tempo in cui vive l' evan­ gelista influenza anche la sua descrizione degli oppositori di Gesù. Da un lato non è affatto tutto Israele che ha rifiutato Gesù, in particolare non l'ha fatto il popolo incolto, disprezzato dagli scribi, bensì le guide ufficiali. Dall'altro l'Israele organizzato nella sinagoga si è già separa­ to ufficialmente dalla comunità di Gesù. Il testo greco del v. 1 6 distin­ gue in maniera particolare i discepoli dagli altri (letteralmente: ): i discepoli fanno dunque parte di q u el popolo che in 2 1 ,4 3 è descritto con i medesimi termini. Chiaman­ do la parabola «parabola del seminatore» (v. 1 8) e la parola (Mc. 4, 1 5) «parola del regno» (v. 1 9; cf. excursus a 7, 1 3 -23 [3]) Matteo sottolinea maggiormente il ruolo di Gesù quale araldo dell'annuncio del regno. L'interpretazione che viene presentata qui non scioglie in realtà oscuri misteri: dice cose semplicissime. Ciò è un segreto solo perché i più non si aspettano che la parola creatrice di Dio entri ora in scena, efficace e rivoluzionaria, nella semplice parabola di Gesù e li attenda. La coesistenza di grano e zizzania, 1 3,�4-30 Egli espose loro un'altra parabola e disse: Il regno dei cieli venne para­ gonato a un uomo che aveva seminato seme scelto sul suo campo arato. 2 5 Ma mentre le persone dormivano, venne il suo nemico e seminò zizzania

.14

Mt. I J,24-JO. La coesistenza di grano e zizzania

283

frammezzo al grano e si dileguò. 2 6 Ma quando il seme germogliò e formò il frutto ecco che c'era anche la zizzania. 27 Allora gli schiavi del proprie­ tario si avvicinarono e gli dissero: Padrone, non hai seminato seme scelto sul tuo campo ? Dove ha preso la zizzania? 28 Ma egli disse loro : Un nemi­ co ha fatto ciò. Ma gli schiavi gli dissero: Vuoi allora che andiamo là e la raccogliamo ? 29 Ma egli dice: No! affinché raccogliendo la zizzania non estirpiate insieme anche il grano. 30 Lasciate che entrambe crescano insie­ me fino al raccolto; e al momento della mietitura dirò ai falcettatori: racco­ gliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; ma il grano racco­ glietelo nel mio granaio.

Il fatto che Matteo abbia appena sottolineato la resa del frutto mo­ stra come non possa riprendere la parabola del seme che cresce senza l'aiuto del contadino (Mc. 4,26-29). Al suo posto pone un'altra para­ bola che gli viene da una tradizione particolare. lnvero di norma Mat­ teo riprende le introduzioni alle parabole di Marco e di Q alla lettera. Poiché probabilmente ha preso le parabole del tesoro, della perla e della rete da pesca da una tradizione non solo orale (v. intr. a 1 2, 1 - 1 6, 1 2), si può ipotizzare che la medesima cosa sia vera per le quattro pa­ �;abole della zizzania, del servo impietoso, dell'abito da nozze e delle vergini, che sono introdotte tutte con la medesima formula: «Il regno dei cieli fu paragonato (o: «sarà paragonato», se è chiaro il riferimento escatologico) a un uomo (a un funzionario del re, a dieci vergini) il quale (le quali) . . . ». Tutte queste parabole sono storie elaborate con una certa ampiezza che trattano del fallimento di coloro che sono stati già chiamati a far parte della comunità; un problema, questo, che sem­ bra essere più tipico di un certo filone della tradizione che di Matteo stesso (cf. conci. a I J,J6-4J). Il fenomeno totalmente incomprensibile della presenza del male in seno alla comunità (v. le considerazioni finali a questa parabola) viene messo in risalto anche nelle restanti tre parabole mediante la domanda «come hai fatto ad entrare ?» (22, 1 2), il rapporto tra le varie somme di denaro ( 1 8,2 3 ss.) o mediante la «stol­ tezza>> attribuita alle cinque vergini (2 5,2; v. ad loc.). Matteo ha collo­ cato ciascuna parabola sempre dove gli erano necessarie per il loro con­ tenuto. La nostra parabola contiene tratti interessanti, soprattutto quello del nemico che di notte semina la zizzania. In verità Gesù può descri­ vere l'insuccesso del seminatore come ampio, il raccolto abbondante come straordinario, il comportamento del padre verso il figlio perdu-

284

Mt.

1 3,24-3 0.

La coesistenza di grano e zizzania

tO COme COffi111DVente: ma in tutti questi casi si tratta pur sempre GÌ cose che capitano, anche se qui capitano al massimo grado. Poiché nel caso della parabola del seminatore è solo l'interpretazione successiva che introduce la figura del diavolo (I 3, I 9 ), anche nel nostro brano potrebbe essere stata la comunità stessa ad aver inserito i vv 2 5 .27. 2 8a. Poiché Matteo aggiunge in diversi posti la descrizione del giudi­ zio oppure la rende molto più vivace (cf. ai vv 42. 50), sarebbe anche pensabile che il v. 30 sia, parzialmente o totalmente, un ampliamento posteriore (cf. «falcettatori» invece di e gli «animali della pianura)> si menziona anche la «moltitudine dei popoli>) che «dimora nella sua ombra». Q non ha colto questo velato riferimento alla moltitudine dei popoli, sottoline­ ando invece il particolare della nidificazione sotto o tra i suoi rami nominata nei passi di Ezechiele e di Daniele e anche in uno scritto giudaico (v. a Mc. 4,30-3 2). Anche i qumraniti parlano dell'eterna pian­ tagione di Dio che al presente è ancora celata ( 1 QH 1 6,4-9). In Q l'ar­ busto di senape viene detto «albero»: si tratta di un adattamento ai passi dell'Antico Testamento, giacché esiste sì un raro albero di sena­ pe, ma nessuno lo seminerebbe mai nel campo arato. Già Q ha asso­ ciato a questa parabola l'altra del lievito dall'identica struttura. «Tre staia)) vengono nominate anche in Gen. 1 8,6: una quantità sufficiente per 1 00 persone. Il Vangelo di Tommaso contiene entrambe le parabo­ le, ma separate (20 e 96), conservando l'allusione biblica agli uccelli, ma non quella alle tre staia. La testimonianza del Vangelo di Tomma­ so e il fatto che Marco ne contenga soltanto una e in Q la seconda ri­ ceva una nuova introduzione suggeriscono che le due parabole furono dapprima tramandate separatamente, venendo poi riunite solo nella comunità. Ciò spiega anche la curiosa formulazione che un uomo pren­ da un solo (sic!) semino di senape e vada a seminario nel proprio cam­ po arato. Si · tratta di un'eco del v. 3 3a, ma sottolinea al contempo l'at­ to finalizzato di Dio. In Q si sottolinea dunque la «crescita» fino a di­ ventare «albero» (Le. I J, I 9); in Mc. 4,3 1 s. (Mt. 1 3 ,32) il contrasto tra «più piccolo di tutti ... » e «più grande di tutte ... », che manca in Q. Mat­ teo collega entrambi i momenti. 3 1 -3 3 . Rispetto a Marco il senso non è cambiato affatto. Ma mentre

Mt. 1 3,34-36a. La separazione dal popolo

287

nella parabola del chicco di senape viene sottolineato il contrasto tra l'inizio modesto e la fine maestosa, la parabola del lievito mette in ri­ salto che il regno di Dio permea il mondo e opera lì, fertile e stimolan­ te (cf. a 5 , 1 3 ). çiò ha un effetto rebound sulla formulazione della pri­ ma parabola dove ora si menziona esplicitamente la «crescita» (ma cf. Mc. 4,3 2). Forse è sentito il contrasto con i sogni giudaici di un regno di Dio che irrompe improvvisamente e miracolosamente. L' espressio­ ne «nascose)) (v. 3 3) potrebbe ricordare la presenza nascosta del regno (v. a I I , I 2 ) , sebbene in greco essa non sia così insolita come in tede­ sco. Forse Gesù ha ripreso volutamente· la metafora della massa di lievito ritualmente impura che si getta via prima della pasqua (v. a Mc. 8 , 1 5), un'immagine che nel giudaismo è per lo più usata in senso ne� gativo. Anche l'albero (v. 3 2) rappresenta nei due passi profetici succi­ tati un regno pagano, ma invero anche Israele in Ez. I 7,2 3. Con que­ sto effetto straniante si vuole forse far notare all'ascoltatore: le cose stanno dunque così col regno di Dio? Usando quell'immagine Gesù ha forse pensato alla schiera dei propri .discepoli, ai pubblicarti e ai roz­ zi pescatori che secondo i canoni farisaici erano mondani e impuri ? In ogni caso le due parabole dicono che a partire da Gesù il campo non è più vuoto, la massa sta fermentando, anche se non si vede nulla di tutto questo o quel che si può vedere è solo ambiguo. Non è lecito falsificare queste affermazioni capovolgendone il significato per leg­ gervi l'annuncio di una chiesa che gradualmente raggiunge la maggio­ ranza o di una cristianità che in silenzio trasforma tutto il mondo. Il nascondimento del regno sotto l'aspetto dell'insuccesso e dell'oppres­ sione ( 1 I , I 2) non viene rimosso prima che Dio stesso faccia venire un giorno il suo regno eterno sulla terra. La separazione dal popolo, 1 3,34-36a ciò Gesù disse in parabole alla folla e senza parabola non disse lo­ 3 5 affinché si adempisse ciò che è detto mediante il profeta Isaia, dove recita: «Aprirò la mia bocca in parabole, griderò ciò che fu nascosto fin dal principio)). 36a Allora mandò via il popolo e rientrò in casa. 34 Tutto

ro niente, 35

Sal. 78,2.

34-36a. Matteo segue Marco: il v. 34 corrisponde a Mc. 4,3 4; soprat­ tutto solo a posteriori i vv . 3 1 -3 3 sembrano parabole molto affini (v. intr. a I 2, I - I 6, I 2). Nella sostanza Matteo si differertzia comunque da

288

Mt. 1 3,36b-43· La spiegazione della parabola del grano e della zizzania

Marco. L'affermazione che Gesù avrebbe parlato agli uomini in para­ bole «così come potevano udire la parola>> viene omessa; il «popolo>>, come Matteo aggiunge di nuovo (cf. r 3,2), secondo lui non capisce proprio le parabole. Non si dice neanche più che Gesù abbia regolar­ mente spiegato le parabole ai discepoli. I discepoli capiscono le para­ bole e solo in casi particolari chiedono m a ggi o ri ragguagli (cf. al v. 1 8): così al v. 36 dove Gesù resta in «casa», tra le mura che separano lui e il suo gruppo dal «pop o lo » . «Tutto ciò» si riferisce adesso a quanto è stato detto dal v. 3 in avanti e non, come in Marco, a tutta la procla­ mazione di Gesù che solo con l'annuncio della passione (Mc. 8,3 1 .3 2a) diventa rivelazione diretta, non più solo per metafore. In Matteo, in­ fatti, si ha prima il discorso della montagna che in quanto esortazione etica deve essere universalmente comprensibile. La citazione di adem­ pimento aggiunta da Matteo (v. 3 5 ) è tratta da un salmo. I Salmi sono stati spesso attribuiti a ·profeti, così Asaf è considerato un profeta (2 Cron. 29,30). Alcuni manoscritti nominano addirittura Isaia (cf. v. 1 4). La citazione parla della rivelazione di cose fin qui celate che avviene certamente sotto forma di proclamazione: in questo caso la compren­ sione dipende dal corretto ascolto. In maniera simile il gruppo di Qum­ ran parlava del suo «Maestro di giustizia» ( 1 QpHab 7, 1 - 5 ). Per Mat­ teo nella citazione è contenuto un accenno alla separazione di Gesù dal popolo e dalla schiera dei discepoli che si va delineando e che si manifesta (v. 36a) nel rientro di Gesù in casa. La spiegazione della parabola del grano e della zizzania, IJ,36b-43 E i suoi discepoli gli si avvicinarono e dissero: Spiegaci la parabola della zizzania nel campo. 37 Ma egli rispose e disse: Quello che semina il seme sano è il Figlio dell'uomo; 38 ma il campo arato è il mondo; il seme sano, questo sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del Maligno; 39 il ne­ mico che l'ha seminata è il diavolo; la mietitura è il compimento del corso del mondo; i falcettatori sorio gli angeli. 40 Ora come la zizzania verrà rac­ colta e bruciata nel fuoco, così avverrà anche al compimento del corso del mondo. 4 1 Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli ed essi raccoglieran­ no, togliendoli via dal suo regno, «tutti coloro che fecero inciampare e ca­ dere e p raticaron o l'iniquità», 42 ed essi verranno gettati nella fossa del fuoco. Qua ci sarà pianto e stridor di d enti. 43 Allora i giusti splenderanno «come il sole nel regno del Padre loro». Chi ha orecchi, oda! 36b

41

Sof.

I ,J . 4 3

Giud.

s,J I ; Dan. I 2,J .

Mt. 1 3,3 6b-4 3.

La spiegazione della parabola del grano e della zizzania

289

Si recupera ora l'interpretazione che, dunque, non appartiene fin dal principio alla parabola. Infatti essa manca parimenti anche nel Vange­ lo di Tommaso. Certamente la cornice, il v. 36 e sicuramente l'ultima frase del v. 43 (cf. 1 1 , 1 5; I 3,9) sono opera di Matteo, come indica già la sua locuzione tipica «i suoi discepoli si avvicinarono e dissero» (v. 36b; v. a 8,2). Chiaramente matteani sono i vv . 40-43 (v. sotto). I vv. 37-39 contengono una rubrica di interpretazioni del tipo che si trova anche nelle parabole rabbiniche. Questa potrebbe essere prematteana. Tuttavia la frase «la mietitura è il compimento del corso del mondo>>, che per la verità manca in un antico manoscritto, mostra caratteristi­ che linguistiche matteane. (v. al v. 39). Ciò vale probabilmente anche per la ripresa con «questo sono» (cf. I 3,20.22.2 3) e l'espressione «figli del regno», giacché l'uso assoluto di «regno» appare quasi unicamente in Matteo (cf. 8, 1 2 con 8, I I = Le. I 3 ,28). 36h-43. È significativo che Matteo chiami la parabola solo con il no­ me della zizzania (v. 36b): il suo interesse è focalizzato su questa. La spiegazione intende il tutto - in modo assolutamente diverso da Gesù, ma per questo aspetto esattamente alla maniera dei rabbi - come alle­ goria nella quale le diverse immagini avvolte dal mistero diventano comprensibili solo con la giusta soluzione (ad es. Dan. 2,43). Per l'iden­ tificazione della raccolta con il giudizio cf. a Mt. 9,37 s. È quasi ovvio che il seminatore sia Gesù, il nemico il diavolo. Qui il Figlio dell'uo­ mo è il Gesù all'opera sulla terra; solo col v. 2 I diventa il futuro giudi­ ce universale. Il campo arato è il mondo, oggetto del compito missio­ nario, nel quale vivono i «figli del regno» e, per opera del diavolo, i «figli del Maligno». Come al v. 1 9 si deve pensare al «Maligno», cioè al diavolo, non al «Male», sebbene «figli», in quanto mera denotazio­ ne di appartenenza (v. a 8, I 2), potrebbe anche essere riferito al «Ma­ le». La frase «compimento del corso degli avvenimenti del mondo» (v. 39) che appare in questa forma solo in Mt. I 3,39 s.49; 24,3; 28,20 è conforme al pensiero giudaico dell'epoca tutto orientato verso la fine del mondo. E essenziale che il mondo corra verso un traguardo fissato da Dio: esso deve quindi essere compreso a partire dal suo futuro. A partire dal v. 40 la spiegazione è dominata dall'immagine del falò del­ l'erba infestante (v. al v. 3 6), cioè dalla descrizione del giudizio. Dopo di ciò il Figlio dell'uomo manda i suoi angeli per eseguire la condanna decretata per i malvagi, non per portare a casa gli eletti come in 24,3 I .

290

Mt. 1 3,3 6b-43· La spiegazione della parabola del grano e della zizzania

La �s trana formulazione con gli «scandali>> (così alla lettera il v. 4 I b), cioè coloro che «praticano l'iniquità>>, è comprensibile solo alla luce del testo ebraico di Sof I ,3 . Naturalmente ciò non prova che lo scrit­ tore abbia conosciuto l'ebraico: l'espressione potrebbe provenire dal linguaggio della comunità. La seconda locuzione è in ogni caso una delle preferite di Matteo (v. a 7,2 3), proprio come quella del regno del Figlio dell'uomo. Anche in Mt. I 6,28 (simile 20,2 1 ) si trova «il suo (= del Figlio dell'uomo) regno>> invece di «regno di Dio». Poiché lì si tratta del regno definitivo che viene al ritorno del Figlio dell'uomo, non è dunque possibile distinguerlo, in quanto regno intramondano, da un «regno del Padre>> che verrà solo più tardi (v. 43). L'espressione «fossa del fuoco» o «fornace» viene da Dan 3,6, ma è attestata anche in 4 Esd. 7,3 6 con riferimento all'inferno. Matteana è anche la frase col pianto e lo stridor di denti (cf. a 8,I 2). Lo splendore dei giusti è cer­ tamente ripreso da Dan. I 2,J (cf. Sir. s o,7; Hen. aeth. 3 9,7; I 04,2) do­ ve è riferito ai sapienti (Mt. 2 3,34); tuttavia anche il termine «giusti» si trova nel contesto di Dan. I 2,3 . L'invito a udire mostra che anche la spiegazione non basta a svelare il segreto: anch� essa invita alla fede, non a una mera presa di conoscenza. .

Matteo orienta tutto verso il giudizio che è, in primo luogo, giudi­ zio punitivo, in verità sullo sfondo dei giusti che splendono come il sole. Se i vv 37-39 dovessero costituire lo strato più antico, questo conterrebbe ancora la compresenza di figli del regno e figli del diavo­ lo. La spiegazione globale, in particolare i versetti nei quali compaio­ no più palesi le peculiarità linguistiche di Matteo, è tuttavia orientata unicamente verso il giudizio sui «senza legge». Fin da I 2,46 Matteo si mostra interessato a distinguere i discepoli (v. a 1 2,49) dalla folla (cf. I J, I O. I 6. I 8 s.). Che cosa vuole dire con ciò ? I vv I 8,23 ss. e 2 5 , 1 ss. racchiudono nel concetto di «regno dei cieli» la comunità nella quale ci sono quelli che sono chiamati, ma falliscono e un giorno saranno giudicati (cf. 22, 1 1 ss.; 2 5 , I 4 ss.). Anche i pesci pescati nel lago con la rete, nella quale vengono a trovarsi pesci buoni e cattivi (vv. 47 s.), so­ no certamente un'immagine della comunità. Allora ciò vale anche per la nostra parabola, almeno fin dal momento in cui fu associata a quella (v. ai vv. 47- 50). Nella prospettiva della semina «il mondo» è il luogo della missione della comunità (v. 3 8); nella prospettiva del giudizio futuro al centro c'è solo ancora «il regno del Figlio dell'uomo», la co.

.

Mt. 1 3,44-46. Le parabole della grande gioia

29 1

munità e il suo compimento nel futuro di Dio. Questo regno abbrac­ cia invero tutto quanto il mondo in quanto Gesù viene proclamato ovunque. Nel suo stadio più antico la parabola (di Gesù?) potrebbe aver messo in guardia da uno zelo che vuole dividere umanamente be­ ne e male. La più intensa accentuazione del giudizio la fece diventare un ammonimento per quei membri della comunità che non rimango­ no fedeli alla loro vocazione. È difficile dire se Matteo, che in 2 5,3 I 3 2 parla del giudizio su tutte le nazioni, pensi qui a un giudizio uni­ versale nel quale da un lato siano condannati membri della comunità e dall'altro vengano trovate persone che compirono la volontà di Gesù (1 2, 50; 2 5,34-40) anche stando fuori della comunità. Comunque sia, Matteo sembra interessato a distinguere la schiera dei discepoli dal mondo dei peccatori ( I 8, 1 7). Le parabole della grande gioia, 1 3,44-46 44 Con il regno dei cieli va come con un tesoro che fu sepolto nel campo.

Lo trovò un tale e lo nascose; e nella sua gioia va e vende tutto ciò che ha e compra quel campo. 4 5 Di nuovo con il regno dei cieli va come con un mercante che cercava belle perle. 46 Appena trovò una perla di gran valore, andò, vendette tutto ciò che aveva, e la comprò. -

Le parabole presentano l'identica struttura di quelle ai vv. 3 I -3 3 (v. intr. a I 2, I - I 6, I 2). Il loro linguaggio reca l'impronta della sapienza che è considerata un tesoro (Prov. 2,4; 8 , 1 8-2 I ; !s. 3 3,6) e una perla (Prov. 3,1 4 s.; 8, I I ; Giob. 28, 1 7 s.). Nel Vangelo di Tommaso esse sono tra­ mandate separatamente ( 1 09 e 76): la prima come parabola dell' occa­ sione perduta con un figlio che vende il campo ereditato senza sapere che il padre vi aveva nascosto un tesoro; la seconda viene narrata in maniera più semplice: il mercante vende tutta la merce che aveva sul carro per acquistare, sicuramente per il piacere di possederla, una per­ la. Le diverse introduzioni in Matteo, secondo le quali il regno dei cieli viene paragonato prima al tesoro, poi al mercante (non alla perla! ), ri­ velano forse una tradizione ancora separata; tuttavia nel Vangelo di Tommaso il termine di paragone è entrambe le volte la persona. Non si è certo in presenza di due significati diversi, così che per la seconda parabola si debba pensare a Dio che cerca l'uomo. 44-46. L' «uomo)) (v. 44) è un operaio giornaliero al quale il campo non appartiene. Qui non si discute se il suo atto, probabilmente inec-

292

Mt.

1 3,47- 5 0.

La parabola dei pesci

buoni e di quelli inservibili

cepibile sotto il profilo legale, sia o meno moralmente giusto. Il fatto­ re di Le. 1 6, 1 -8 o il giudice di Le. 1 8,r-8 vengono esplicitamente de­ scrìtti come furfanti e sono proprio per questo un esempio efficace e incisivo: se persino uno di tal fatta reagisce in questa maniera, quanto più dovrebbe farlo il discepolo! Ciò che qui convince è l'inaudita sco­ perta, che supera tutto il resto, davanti alla quale si prende e si abban­ dona tutto il resto senza tante storie. Determinante è che lui, per la grande «gioia» che lo riempie, non può più fare diversamente. Lo stesso vuoi dire la seconda parabola. Anche qui (vv 4 5 -46) il tratto piuttosto esagerato della vendita di «tutto ciò che aveva» serve a de­ scrivere lo splendore unico della perla e il corrispondente gesto del­ l'uomo provocato da siffatta bellezza. Si tratta così di due parabole sulla grande gioia del regno dei cieli. I reali motori che mettono in marcia e determinano tutta l'azione sono il tesoro e la perla, cioè pro­ prio ciò che, visto dall'esterno, viene «trovato» in maniera puramente passiva. È da loro che emana tutta l'energia. Il bracciante trova il teso­ ro prima che il campo sia affatto suo e anche del mercante si dice che egli avrebbe «trovato» la perla. Tuttavia entrambe le parabole conclu­ dono « .-. e lofla comprÒ>>, e in tutti e due i casi non si tratta di persone estremamente ricche alle quali non avrebbe fatto né caldo né freddo il pagamento del prezzo di acquisto. Dall'azione del regno dei cieli flui­ sce l'azione degli uomini così come l'invito di Gesù ha quale conse­ guenza quasi ovvia l'abbandono della barca, della famiglia e dell'uffi­ cio della gabella (4, 1 8 -22; 9,9). Così il regno dei cieli, che secondo i vv. 3 2 e 3 8 abbraccerà l'intero mondo, è al contempo faccenda del singolo attraverso la cui decisione esso opera nel mondo. .



·

La parabola dei pesci buoni e di quelli inservibili, 1 3,47-50 Di nuovo con il regno dei cieli va come con una rete che fu gettata nel la­ go e trascinò insieme (pesci) di o gni specie. 48 E quando fu piena la tiraro­ no a riva e si sedettero e selezionarono i buoni nei canestri, ma gettarono fuori gli inservibili. 49 Così sarà al compimento del corso del mondo: gli an­ geli usciran no e selezioneranno i malvagi dalia schiera dei giusti so e li get­ teranno nella fossa del fuoco. Là ci sarà pianto e stridor di denti.

47

La parabola che segue presenta la medesima struttura, solo che Mat­ teo aggiunge un'altra spiegazione che sottolinea il giudizio sui malva­ gi. I vv. 49a. 5o coincidono alla lettera con i vv 4ob.42, mentre il v. 49b .

Mt. I J,47- 50.

La parabola dei pesci buoni e di quelli inservibili

293

corrisponde sostanzialmente in maniera esatta al v. 41. Con questa nota vengono concluse le parabole, dunque è su essa che Matteo pone l'accento. Questa non può essere la morale originaria della parabola, giacché il giudizio in sé è dato così tanto per scontato dall'ascoltatore dell'epoca che non ci sarebbe stato bisogno di alcuna parabola per ri­ chiamarglielo alla mente. Forse un tempo la parabola era costituita soltanto dal primo versetto ? Invero dovrebbe esserci stata allora an­ che una frase del tipo «buoni e cattivi» e la costruzione sintattica dei vv. 47 s. corrisponde a quella del v. 44 (3 1 .3 3 ·4 5 s.). Ma anche se il ri­ ferimento alla selezione fosse stato presente sin dal principio, l' accen­ to era posto certamente sulla compresenza di pesci buoni e cattivi nel­ la medesima rete. La parabola si svolge dunque in larga misura paral­ lela a quella della zizzania; è possibile che nella tradizione si trovasse vicina a una versione ridotta di quella parabola che Matteo avrebbe poi sostituito con quella più elaborata. Come in quella, il regno di Dio viene descritto in origine come la coesistenza di bene e di male che l'uomo non può risolvere a favore di una «chiesa pura». Si mette così in guardia dallo zelo impaziente con il quale l'uomo vuole compiere lui stesso il giudizio di Dio. Ancora una volta il Vangelo di Tommaso (8) vede la storia diversamente: il pescatore getta via tutti i pesci pic­ coli e si tiene solo alcuni grossi pesci. Questa è un'interpretazione ar­ tificiosa che travisa il significato e mal si adatta all'immagine. Essa mostra come le parabole di Gesù continuino a crescere e in questo pro­ cesso si influenzino a vicenda (cf. l'unica splendida perla del v. 46). 47-49. La rete è una rete a strascico che viene tirata a riva e solo al­ lora si vede che cosa ha preso. Il riferimento a pesci «di ogni genere» è necessario per la conclusione, ma non vuole affatto alludere all'uni­ versalità della comunità di Gesù come probabilmente fa Gv. 2 1 , 1 I . I pesci «inservibili » (v. 48) sono quelli non commestibili, soprattutto quelli vietati dalla legge. È dubbio che sullo sfondo ci sia l'idea dei di­ scepoli pescatori di uomini (4, 19 ) In quel caso si sottolinea la «cattu­ ra» che immette nel regno di Dio, qui la compresenza di buoni e catti­ vi. Anche perciò i pescatori vengono paragonati più avanti (v. 49) agli angeli del giudizio, non ai discepoli. In verità le due cose sono coordi­ nate tra di loro. Come fa Gesù con le sue parabole, così anche i disce­ poli raccolgono con la loro proclamazione. Ma quando essi raccolgo­ no per il regno di Dio essi raccolgono anche per la selezione futura. Essendone a conoscenza, con la loro proclamazione es si vogliono of.

294

Mt.

I J,54- 5 8 .

Gesù respinto dai concittadini

frire all'uomo la possibilità di decidere bene. Questo è anche il senso delle parabole di Gesù. Conclusione,

1 3, 5 1 - 5 3

Avete capito tutte queste cose? Gli dicono: Sì. 5 z M a egli dice loro: Perciò ogni scriba che divenne discepolo per il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. 53 E avvenne che quando Gesù ebbe finite queste parabole se ne andò da quel luogo. 51

5 1 - 5 3 . Le parole conclusive di Matteo sono istruttive: tutto dipende dalla «comprensione» (v. ai vv . r 8-23 ). Quando si parla di uno scriba che divenne discepolo per il regno dei cieli, Matteo ne vede evidente­ mente nei discepoli i prototipi (cf. a r 6, r 9;. 1 8, 1 8). Già secondo Sir. 39,3 lo scriba è colui che «ricerca il senso segreto dei proverbi e si oc­ cupa degli enigmi delle parabole>>. Forse Matteo vuole addirittura di­ re: «poiché», cioè perché avete capito ci sono ora siffatti scribi. Con una metafora Matteo sottolinea ciò che veramente gli stava a cuore in 5 , 1 7-48. Il bravo scriba ha imparato da Gesù a vedere insieme il vec­ chio e il nuovo (c f. Sap. 8,8): la legge di Dio e la nuova interpretazione proclamata e applicata da Gesù in tutto il suo comportamento. O si pensa addirittura all'insegnamento di Gesù e alla nuova interpretazio­ ne mediante le decisioni «scribali» della comunità dei discepoli ( 1 6, 1 9; I 8 , 1 8)? Comunqu e stiano le cose, è chiaro che per Matteo tutto il di­ scorso con le parabole è una pièce didattica sul regno di Dio. Un simi­ le scriba invero non è più un «rab(bi)», cioè un «grande», bensì è un «discepolo» del regno dei cieli, cioè uno che per tutta la vita rimane {cf. 2 J , I o) uno «scolaro» (in greco «scolaro» e «discepolo» sono una stessa parola). Per la fine dell a pericope (v. 5 3 ) cf. a 7,28.

Gesù respinto dai concittadini, (cf. Mc. 6, r -6; Le. 4, r 6-3o)

1 3, 54- 5 8

54 E giunse nella sua città natale e li ammaestrava nella loro sinagoga, così che essi si stupirono grandemente e dissero: Da dove ha costui questa sa­ pienza e le opere potenti? 5 5 Non è questi il figlio del falegname? La ma­ dre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo e Giuseppe e Simone e Giuda ? 56 E le sorelle non sono tutte fra di noi? Da dove gli viene dunque

Mt. 14, 1 - 1 2. Il destino del Battista

29 S

tutto ciò? 5 7 E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: Un profeta non è mai disprezzato se non nella propria città e in casa propria. 5 8 E a causa della loro incredulità lì non fece molte opere potenti. 54-58. Poiché le storie di Mc. 4,3 5 - 5,43 sono già raccontate, viene ora questa pericope che segue essenzialmente Marco. Matteo si limita ad abbreviare il testo marciano, omettendo, ad esempio, la menzione dei discepoli per lasciare al centro della scena soltanto Gesù. Matteo pensa forse, conformemente alla forma verbale greca scelta, che Gesù abbia continuato a insegnare per un periodo di tempo prolungato ? È importante che proprio lui descriva Gesù, senza remore, quale «figlio del falegname (o del carpentiere: v. a Mc. 6,3 )» (cf. a 1 , 1 6). Forse Mat­ teo pensa che gli abitanti di Nazaret proprio non sappiano ciò che i lettori sanno sin da 1 , 1 8-2 5 . Tra i fratelli di Gesù compare un Giusep­ pe (invece di Giosè: Mc. 6,3) e Simone viene nominato prima di Giu­ da. La ripresa della domanda meravigliata del v. 54b mostra che per Matteo è importante l'autorità di Gesù che si manifesta nell'insegna­ mento e nelle opere potenti. Perciò egli limita anche la notizia di Mar­ co che Gesù non abbia potuto compiere nemmeno un solo atto poten­ te omettendo «neanche un solo» e «potere» e collegando direttamente (v. 5 8) la proposizione con la frase «a motivo della loro incredulità» che in Marco si trova in un altro contesto. Di regola simili correzioni sono avvenute involontariamente; tuttavia esse tradiscono il punto nel quale l'evangelista si è trovato a disagio con la sua tradizione. Il destino del Battista segno premonitore del destino di Gesù, 1 4, 1 - 1 2. (cf. Mc. 6, 14-29; Le. 9,7-9) 1 Fu allora che il tetrarca Erode ebbe notizia di Gesù 2 e disse ai suoi servi: Questi è Giovanni Battista! Egli stesso è risorto dai morti e perciò le po­ tenze operano in lui. 3 Infatti Erode fece arrestare, incatenare e gettare in carcere Giovanni a causa di Erodiade, moglie di suo fratello. 4 Perché Giovanni gli aveva det­ to: Non ti è lecito averla. 5 E per quanto desiderasse farlo uccidere, temeva però il popolo, giacché essi lo consideravano un profeta. 6 Ma al comple­ anno di Erode la figlia di Erodiade danzò in mezzo ai convitati suscitando il gradimento di Erode. 7 Per questa ragione egli le promise con giuramen­ to di concederle qualsiasi cosa avesse desiderato. 8 Ma, istigata dalla madre, lei disse: Offrimi qui, su di un piatto, la testa di Giovanni Battista. 9 E il re fu rattristato; tuttavia a causa del giuramento e degli invitati diede ordine

296

Mt.

I � r -1 2.

Il destino del Battista

di dargli el a.

ro E m and ò a decap itare G io van n i in prigione. I I E la sua te­ sta fu portata su di un piatto e data alla ragazz a e lei la p ortò alla madre. 1 2 E i suo i discep ol i vennero lì e p resero il suo cadavere e lo seppellirono e venn ero e informarono Gesù .

Anche qui Matteo segue Marco, invero abbreviando di nuovo note­ volmente. Poiché manca la missione dei dodici (Mc. 6,6- I 3) che è stata già narrata al cap. I o, la storia della morte del Battista viene a trovarsi direttamente vicino all'episodio del rifiuto di Gesù a Nazaret. In que­ sto modo il destino del Battista viene avvicinato ancora di più a quello di Gesù: ciò che al v. 5 viene detto di Giovanni verrà detto, esattamen­ te uguale, di Gesù in 2 1 ,46. Alla fine Matteo mostra anche i discepoli di Giovanni che vanno a «riferire>> a Gesù (così dice Mc. 6,30 dei di­ scepoli di Gesù e della loro esperienza). Una serie di passi (9, I 4; Atti I 9, I ss.; I Gv. s ,6 ss.) rivela l'esistenza di una tensione abbastanza for­ te tra discepoli del Battista e comù.nità di Gesù; tuttavia ci sono stati probabilmente anche gruppi di discepoli di Giovanni che sono con­ fluiti nella comunità e forse la pratica generale del battesimo in questa è dovuta proprio al loro ingresso. Più difficile è un altro punto. In Marco la storia è frapposta tra invio e ritorno dei discepoli per riem­ pire lo spazio intermedio; essa riprende quindi un avvenimento ve­ rificatosi già molto tempo prima. Naturalmente Erode può ritenere che Gesù sia Giovanni risuscitato solo se questi è già morto; anzi, in questo caso, Erode non può aver sentito parlare affatto di un'attività di Gesù prima dell'esecuzione del Battista. Per contro Matteo spiega con la notizia dell'esecuzione di Giovanni il ritiro di Gesù nel deserto, narrato in Mc. 6,3 2 subito dopo la storia della morte del Battista. Poi­ ché il v. I si riallaccia alla pericope precedente («in quel tempo ... ») an­ che il giudizio di Erode non permette di essere spostato in un passato ancora più lontano. Matteo non si è dunque reso conto che in Marco la storia viene ricuperata. Inoltre Gesù si trova ancora a Nazaret (Mt. 1 3, 5 8) da dove non è possibile allontanarsi «in barca». L'indicazione del mezzo di trasporto andava bene in Marco perché nel frattempo Gesù andò girando per la Galilea (Mc. 6,6), mandò i discepoli in mis­ sione e li fece ritornare a sé. 1- I 2. Si trovano cambiamenti caratteristici anche nei particolari. Erode viene detto «tetrarca>> per evitare che lo si confondesse con il padre (2, I ). Più avanti (v. 9) Matteo riprende da Marco il titolo di «re», che in sé non è esatto. Matteo tralascia le ipotesi del popolo e

Mt.

I4, I J-2 I .

Il potere di Gesù dà da mangiare ai cinquemila

297

racconta solo l'opinione di Erode (v. 2), tuttavia quasi con le medesi­ me parole usate in Mc. 6, 1 4 per riferire (secondo i migliori manoscrit­ ti) la voce del popolo. Che Erode «voleva ucciderlo>> eppure «temeva» di farlo corri�ponde, nelle parole, a quanto si legge in �1arco, dove pe­ rò la volontà di uccidere Giovanni è attribuita a Erodiade, mentre Erode «.temeva>> (= rispettava) il Battista, non il popo]o (cf. 2 1 ,26). Mat­ teo omette quindi sia la simpatia di Erode per Giovanni sia i suoi co1loqui con lui (Mc. 6,2o). Nel nostro passo (vv. 6-7) i fatti che portano all'esecuzione vengono narrati con maggiore sobrietà e senza partico­ lari di colore. Secondo la lezione più probabile l'inizio del v. 6 è molto insolito e va certamente spiegato con l'utilizzo della formulazione mar­ ciana che nel contesto di Marco è invece corretta. Sorprende la del re, espressa in verità debolmente (v. 9), perché egli, a diffe­ renza di quanto si legge in Marco, voleva già da tempo uccidere il Bat­ tista. Il v. IO legge letteralmente: «egli decapitò Giovanni>>; il predica­ to si adatta molto meglio al boia, che Marco aveva avuto cura di men­ zionare in precedenza, anche se dopo il «mandò là» si deve natural­ mente intendere «lo fece decapitare» (v. I o) . Il resoconto dei discepoli di Giovanni (v. I 2 ) è il nesso che unisce questa storia al v. 1 3. A Matteo interessa avvicinare al massimo i destini di Giovanni e Gesù (v. a 3 ,2). Con il v. 5 egli bolla esplicitamente questa esecuzione come uccisione di un profeta, mentre Mc. 6, 20 si limita a parlare di «Un uomo giusto e santo». In 23,29 ss. Gesù accuserà Israele per le sue uccisioni di profeti, ponendo se stesso nel numero di questi profeti. In 1 7, 1 2 Gesù dirà apertamente, come Matteo aggiunge, di dover percor­ rere la via del Battista. Ciò che si intuisce già in Marco è indicato con tratti ancora molto più decisi in Matteo: il cammino del Battista verso il martirio sarà anche il cammino di Gesù; e che ai suoi discepoli non andrà diversamente fu detto in 5, I 2; 1 o, I 7 ss. 34 ss. Il potere di Gesù dà da mangiare ai cinquemila, (cf. Mc. 6,3 1 -44; Le. 9, 1 0- 1 7)

I 4,I J-.1 I

in barca, da solo in una loca­ lità isolata. E la folla lo udì e lo seguì a piedi fuori dalle città. 14 E quando egli sbarcò, vide una gran moltitudine e ne ebbe comp assione e guarì i loro 1 3 Ma quando Gesù udì ciò, si allontanò da lì

malati. 1 5 Ma appena si fece sera, i discepoli gli si avvicinarono e dissero: Il posto è isolato e l'ora è già avanzata: congeda la folla affinché vadano ai villaggi e si comprino da mangiare. 1 6 Ma Gesù disse loro: Non c'è biso-

298

Mt.

14,1 3-2.1. ll potere di Gesù dà da mangiare ai cinquemila

gno che se ne vadano: date voi loro da mangiare! 1 7 Ma essi gli dissero: Qui non abbiamo che cinque pani e due pesci ! 18 Ma egli disse: Portate­ meli qu i ! 19 Ed egli ordi nò che la folla si mettesse a sed ere sull'erba e prese i cinque pani e i due pesci, alzò lo sguardo al cielo, p ro nu nciò la benedizio­ ne, spezzò e diede i pani ai discep ol i , ma i discepoli alla folla. zo E mangia­ rono tutti e furono sazi. E s i raccolsero gli avanzi del pane, dodici cesti pieni. 21 Ma coloro che mangiarono erano circa ci nq uemila persone, senza contare donne e bambini.

1 3-2 1 . Si prosegue con il racconto di Marco. In Mc. 6,3 I il ritiro nel deserto era giustificato con la necessità di concedere un periodo di ri­ poso ai discepoli di ritorno dalla missione, qui è invece conseguenza del pericolo costituito da Erode (v. sopra, al v. I 3). In Marco manca il particolare delle folle che «lo seguirono» che invece si trova anche in Le. 9, r I e Gv. 6,2. La frase deve essersi unita ben presto a questa sto­ ria durante la narrazione. Il detto delle pecore senza pastore (Mc. 6, 3 4 b) già usato in 9,3 ? viene omesso sia qui sia in Luca. La pietà per il popolo (v. I 4) porta Gesù a compiere le guarigioni, che precedono an­ che la seconda moltiplicazione dei pani in I 5,29-3 I (Mc. 7,3 1 -3 7), non a insegnare, come in Marco: un ulteriore segno di come questo aspet­ to dell'attività di Gesù sia importante per Matteo. «Ma appena si fece sera» (v. I 5 ) è una variazione stilistica rispetto a Marco, senza che Mat­ teo si sia accorto che la medesima indicazione viene ripetuta al v. 23 = Mc. 6,47, sebbene nel frattempo la gente abbia mangiato e sia stata con­ gedata e i discepoli stiano navigando sul lago, lontani da riva «molti stadi» (v. 24). La domanda assurda dei discepoli di Mc. 6,3 7b-3 8 viene omessa come in Luca, ma invece si aggiunge espressamente che sono i discepoli a dare il pane alla gente (v. 1 9). Poiché nonostante la men­ zione dei pesci al momento della benedizione si parla solamente della distribuzione del pane e, al contrario di quanto avviene in Marco, non vengono ricordati nemmeno al v. 20, è probabile che il racconto sia qui condizionato su questo punto dall'analogia con la cena della co­ munità. I versetti conclusivi (vv. 2o-2 I ) sono stilisticamente diversi da Marco, ma ritornano quasi alla lettera in I 5 ,3 7 s. Ciò vale soprattutto per l'aggiunta «senza contare le donne e i bambini>>, che ha la funzio­ ne di rendere l'evento ancora maggiore, mentre in Mc. 6,44 e Gv. 6, I o non è chiaro, come nella nostra lingua, s e l'espressione «cinquemila uomini» implichi che si trattasse di cinquemila persone di sesso ma­ schile (cf. Mt. 14,3 5 dove si dice letteralmente «gli uomini» in senso

Mt.

14,22-36.

La poca fede dell'uomo

299

stretto, i maschi). Il testo più stringato mette ancor più in risalto il ruolo dominante di Gesù; p arimenti le aggiunte «non è necessario che se ne vadano» (v. 1 6) e « po rtat eli (= i pani) qui da me» (v. 1 8) sottoli­ neano che tutto dipende dalle sue indicazioni. L'aggiustamento molto forte alla cena fa il paio con quanto osservato in 8,2 3: la storia di Gesù e della schiera dei suoi discepoli diventa immagine della comunità fu­ tura. Ma p rop rio in questo modo si sottolinea che si tratta di un pasto che sazia realmente, al momento del quale gli affamati «non hanno bi­ sogno di andare via» per comprare il cibo perché i discepoli «danno loro da mangiare)). Il collegamento immediato (v. 1 3 ) con la morte del Battista (v. sopra) contiene forse un riferimento a quanto verrà procla­ mato nella cena, alla passione. La poca fede dell 'uo mo davanti al potere di Gesù che cammina sul l ago, 1 4,.1.1-36 (cf. Mc. 6,4 5 - 5 2) 22 Ed egli spinse i discepoli a salire in barca e a dirigersi prima di lui verso l'altra riva, così da dargli il tempo di congedare la folla. 23 E appena ebbe congedata la folla, egli salì su di un monte, tutto solo, per pregare. Ma quando si fece sera egli stava lì, da solo. 24 La barca, invece, già lontana di molti stadi dalla terraferma, era ostacolata dalle onde, perché essi andavano controvento. 25 Ma la quarta vigilia della notte egli li raggiunse e cammi­ nava sul lago. 26 Ma quando i discepoli lo videro camminare sul lago si spaventarono a morte e dissero che era un fantasma e gridarono dalla pau­ ra. 27 Ma Gesù parlò subito loro e disse: State tranquilli , sono io! Non abbiate paura! . 28 Ma Pietro gli rispose e disse: Signore, se sei proprio tu, ordinami di venire da te sull'acqua! 29 Ma egli disse: Vieni ! E Pietro scese dalla barca e camminò sull'acqua e andò verso Gesù. 30 Ma quando vide il vento si im­ paurì e cominciò ad affondare e gridò: Signore, aiutami! 31 Ma subito Ge­ sù stese la mano e lo afferrò e gli dice: Povero di fede, perché hai dubitato ? 32 E quando essi salirono nella barca il vento cessò. 33 Ma coloro che era­ no nella barca si prostrarono davanti a lui e dissero: Tu sei davvero il Fi­ glio di Dio ! 34 Ed essi finirono la traversata e giunsero nella regione di Gennezaret. 3 5 E la gente di quel luogo lo riconobbe e mandò ad avvertire tutti i din­ torni e gli portarono tutti i malati 36 e lo pregavano di poter toccare alme­ no la nappa della sua veste. E tutti coloro che la toccarono furono guariti.

.13



.18-3 1.

Dapprima Matteo segue Marco quasi parola per parola.

300

Mt.

14,Z1-36. La poca fede dell'uomo

Che Gesù rimase solo viene detto già al v. 2 3 , mentre Marco riprende questo particolare più tardi. Gv. 6, I 5 coincide con Matteo per l_a po­ sizione, con Marco per il dettato. La novità riguarda l'inserimento dell'episodio di Pietro che cammina sulle acque (vv 28-3 I ). La scena esce dalla penna di Matteo, certamente sulla base di una tradizione orale, come indicano le molte espressioni tipiche del suo stile. Così i vv 28 s. parlano delle «acque>> invece che del «mare» (come v. 2 5 = Mc. 6,48). Si nota la medesima sostituzione in Mt. 8,32c rispetto a Mc. 5 , I 3 . Per quanto riguarda il contenuto, l'interesse di Matteo si mani­ festa nel vedere il potere unico di Gesù come qualcosa che continua a vivere nella comunità (cf. a I o, I ). L'episodio è saldamente addentella­ to con l'altro racconto: invece di «egli salì nella barca» (Mc. 6, 5 I ) si legge ora: «essi salirono nella barca»; «sono io» (v. 27) viene ripreso: «se sei tu» (v. 28) e «tu sei ... (v. 3 3); il vento menzionato nei vv 24 e 3 2 ha una parte importante anche nel v. 30; la paura dei discepoli (vv 26 s.) riemerge come paura di Pietro (v. 3 0). Diventa così evidente co­ me Pietro serva ancora una volta da esempio per mostrare che cosa si­ gnifichi il discepolato nella barca della chiesa. Tuttavia l'interpolazio­ ne ritarda ora, rispetto a Marco, il momento in cui Gesù sale nella bar­ ca e la tempesta si placa. Non sarebbe impossibile che dietro a questa storia ci fosse una volta un racconto pasquale, forse quella prima ap­ parizione del Risorto a Pietro che non è descritta in alcun luogo ( 1 Cor. I h 5 ; Le. 24,34). Secondo Gv. 2 I ,7 s . Pietro s i precipita i n acqua verso il Gesù risorto e cammina nel (non sul) lago andandogli incon­ tro. Questo evento è stato forse trasformato in un episodio della vita terrena di Gesù? Ci potrebbe forse essere un'indicazione in questo senso nel modo in cui Matteo cambia il commento di Marco sul cuore indurato dei discepoli (Mc. 6, 5 2) nella notizia opposta che essi si pro­ strarono adoranti davanti a Gesù (v. a 8,2) e confessarono che egli era il Figlio di Dio. Ciò svaluta in realtà la confessione di Pietro in I 6, r 6, ma andava benissimo in una storia di pasqua. 24-36. La notizia (vv 34-36) che riassume l'attività di Gesù a Gen­ nezaret ségue parimenti il testo di Marco, solo che qui viene notevol­ mente abbreviato. Mc. 6, 5 5 (e I ,34; ma 1 ,3 2 sì) non dice che vennero portati «tutti» i malati. Si dice lo stesso in Mt. 4,24 e similmente in 8, 1 6, sembra essere un tratto importante per Matteo, certamente come immagine della comunità che presenta al Signore tutte le sue necessità. .

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.

.

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Mt. 1 4,11-36. La poca fede dell'uomo

301

1.4-3 3. Alcuni manoscritti fanno arrivare la barca «a metà lago>> co­ me Marco, altri la fanno allontanare da riva «molti stadi ( 1 stadio = 200 m circa): la sostanza non cambia (v. 24). Che «la barca» (non «lo­ ro» come in Mc. 6,48) sia ostacolata «dalle onde» (Mc. 6,48: «nella tra­ versata>>) corrisponde alla lettera a 8,24. Qui come lì essa è immagine della chiesa. Il grido di Pietro fa riscontro a quello dei discepoli in 8, 2 5 ; la sua scarsa fede al loro essere poveri di fede (8,26). Anche qui Matteo vede probabilmente la barca quale immagine della comunità. Viene omesso che Gesù «voleva oltrepassare» (Mc. 6,48): egli viene in aiuto dei discepoli. La loro paura viene accentuata: essi non sono privi di fede, ma poveri di fede, come ne è esempio lampante Pietro. Questi sollecita addirittura un ordine del «Signore» (v. 2 8). Matteo usa volen­ tieri il verbo «ordinare»: lo aggiunge in 8, 1 8; 1 4, 1 9 (Gesù); 1 4,9 (Ero­ de); 27, 5 8 (Pilato). Nel nostro passo serve a sottolineare che tutto di­ pende dall'ordine di Gesù, che è importante che il discepolo non in­ traprenda nulla di spettacolare di propria iniziativa (v. 29). La risposta di Gesù è di una sola parola (v. 29), ma basta perché Pietro osi tutto e si lanci nella sua impresa temeraria. Ma appena alla parola del suo Si­ gnore si affianca la realtà della tempesta e delle onde coprendola, egli affo nda e non può far altro che gridare aiuto al suo Signore (v. 30). ·proprio a questo grido viene concesso aiuto (v. 3 1 ); invero ciò avviene con Gesù che lo giudica segno di «poca fede» e di «dubbio». La paro­ la «dubbio», in tedesco Zweifel, deriva da «due» (zwei): essa indica che chi dubita non è più in condizione di avere un unico punto di ri­ ferimento, in questo caso la parola di Gesù, ma è diventato «duplice». Similmente il verbo greco denota l'avviarsi in due direzioni, come se si volesse imboccare contemporaneamente due vie diverse; il verbo gre­ co tradotto «dubitare>> in 2 1 ,2 1 (v. ad loc. ) denota la mente ambigua, che ha pensieri divisi su due linee diverse; per Giac. 1 ,8 «dubitare» si­ gnifica essere di «animo doppio»: chi dubita si porta in petto due ani­ me - una che vuole andare da una parte, I' altra che vuole andare da quella opposta. Quando la fede vive orientata fermamente verso la pa­ rola di Gesù vedrà certo realisticament� tempesta e onde, ma resterà comunque orientata, attraverso onde e tempesta, unicamente sull'assi­ curazione datale da Gesù. A questa fede, dice Matteo, tutto è promes­ so; ma quando il suo sguardo vaga incerto tra il comandamento del suo Signore e tutti gli altri possibili fatti reali e pericoli, essa diventa «piccola». Ma non si tratta semplicemente di «fede e coraggio imberbe

302

Mt.

1 4,22-36. La. poca fede dell'uomo

che affrontano una impresa difficilissima», come Goethe lesse in que­ sta storia, ma della fede che è orientata, ferma e decisa, verso la parola di Gesù e che, in sostanza, raggiunge la sua piena maturità proprio dove Pietro fallisce. Infatti solo a questo punto essa non ha altra risor­ sa che guardare verso il suo Signore e aspettare l'aiuto che viene da lui. Questa è dunque la vera fede: non la grandiosa impresa ecceziona­ le di un uomo particolarmente religioso, bensì l'orientamento univo­ co, unidirezionale verso il Signore, verso il suo ordine e il suo soccor­ so. Un atteggiamento del genere può essere semplicemente una scelta obbligata in una situazione critica perché non c'è nient'altro su cui poter fare affidamento: sì, una simile fede è più facile trovarla in un momento così che quando si chiede a Gesù una indicazione che ri­ chiede una fede particolare. Colpisce che i discepoli vedano per la prima volta in Gesù il Figlio di Dio e si inchinino davanti a lui dopo che il vento si è placato (v. 33). Il miracolo dimostra forse per Matteo che Gesù è il Figlio di Dio? Ma qualcosa del genere era stato già nar­ rato in 8,26 s. e la risuscitazione di un morto era stata ancora più stu­ pefacente. Piuttosto la confessione che Gesù è il Figlio di Dio appare qui perché la barca simboleggia la comunità che confessa la sua fede in Gesù. In maniera ancora più chiara che in 8,23 -27 il maestro e i disce­ poli stanno faccia a faccia e vengono sottolineati entrambi i momenti: la potenza di Gesù e il dubbio della comunità. Così la storia è pro­ messa per l'ubbidienza della comunità e invito a una fede sempre nuo­ va che con la preghiera «Signore, salva! >> si orienta verso la potenza del Signore. Così la cosa determinante è l'invito di Gesù alla sequela, la sua parola sovrana alla fede, il suo soccorso efficace davanti al falli­ mento dei suoi discepoli dubbiosi e poveri di fede. Così si concluderà il vangelo: ai discepoli paralizzati dal dubbio (28, 1 7) vengono donati l'incitamento ad andare pieni di fede in tutto il mondo e l'assicurazio­ ne della presenza del loro Signore «fino al compimento del corso del mondo» . Pietro non viene dunque ritratto quale gigantesco eroe della fede, ma quale rappresentante dei discepoli in assoluto (v. a 1 5 , 1 5). I paralleli non vanno quindi cercati tanto nei passi dell'Antico Testa­ mento dove si parla di Dio o della Sapienza che si muovono sull'acqua (v. a Mc. 6,4 5 - 5 2), quanto piuttosto nei Salmi� dove si parla della sal­ vezza del salmista dalle acque del pericolo, come Sal. I 8, r 7: «Egli mi ha afferrato, mi ha tratto fuori dalle grandi acque»; 69,2 s.: «Salvami, Dio, (dalle acque)»; 1 44,7: «Allunga la tua mano giù dall'alto, tirami

Mt.

Ij,I-2.0.

n problema della legge

303

fuori, salvami dalle grandi acque». Espressioni simili si trovano anche in scrittori greci e latini. Il problema della legge, 1 5,1-20 (cf. Mc. 7, 1 -2 3 ) 1 Allora farisei e scribi venuti da Gerusalemme affrontarono Gesù e disse­ ro: 2 Per quale ragione i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi ? Poiché non si lavano le mani prima di mettersi a tavola. 3 Ma egli rispose e disse loro: Perché trasgredite anche voi il comandamento di Dio per rispetto della vostra tradizione? 4 Poiché Dio ha detto: «Onora padre e madre» e: «Chi insulta padre o madre, sarà messo a morte». 5 Voi invece dite: Chi dice a padre o madre: Ciò che ti dovrebbe tornare utile da parte mia è destinato a offerta, 6 è esentato dall'onorare il padre o la madre: e in questo modo per rispettare la vostra tradizione avete abrogato la parola di Dio. - 7 Ipocriti! Con ragione ha profetizzato di voi Isaia, dove recita: 8 «Questo popolo mi onora con le labbra; ma il loro cuore è lontano da md 9 Ma mi adorano invano e ciò che essi insegnano è comandamento di uo­ mini». Io Ed egli invitò la folla ad avvicinarsi e disse loro: Udite e com­ prendete! 1 1 Non ciò che entra nella bocca rende l'uomo impuro, bensì ciò che dalla bocca esce, questo sì che rende l'uomo impuro! I 2 Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e gli dissero: Sai che i farisei . appena sentirono la parola si scandalizzarono? 1 3 Ma egli rispose e disse: Ogni pianta che il Padre mio celeste non ha piantata verrà estirpata. I4 La­ sciateli fare, sono guide cieche di ciechi. Ma quando un cieco guida un al­ tro cieco entrambi cadranno nel fosso. 1 5 Ma Pietro rispose e gli disse: Spiegaci la parabola! I6 Ma egli disse: Anche voi continuate a non capire? I7 Non vi rendete conto che tutto ciò che entra nella bocca va nella pancia e viene eliminato nella fogna? I 8 Ma ciò che esce dalla bocca viene dal cuore e rende l'uomo impuro. I9 Giac­ ché dal cuore vengono pensieri cattivi: omicidi, adultèri, meretricio, furti, false testimonianze, bestemmie. 20 Queste sono le cose che rendono l'uo­ mo impuro. Ma mangiare con le mani sporche non rende certo l'uomo im­ puro. 4 Es. 20, 1 2: 2 1 , 1 7; Deut. 5 , 1 6. 8-9 fs.

29,1 3·

1 8 Giac. 3,6. 19 Rom. 1 ,2.8 ss.

Questo discorso si trova anche in Marco a questo posto. Le va­ riazioni sono istruttive. Per prima cosa Matteo omette le spiegazioni relative alle usanze giudaiche (Mc. 7,2-4) e il nome preciso della prassi criticata al v. 5 (qorban, Mc. 7, 1 1 ) : evidentemente si tratta di cose che la sua comunità conosce bene (cf. anche a 26,2). Nel v. 5 si riporta for­ se una formula attenuata: «Maledetto, se qualche cosa di utile ti verrà 1-1 1.

3 04

Mt. 1 5,1-20.

Il problema della legge

da me! ». In secondo luogo Matteo attenua il contrasto con la devo­ zione giudaica senza invero volerne prendere le difese. Che nel caso particolare del lavaggio delle mani prescritto da Lev. 22,4-7 solo per i sacerdoti i discepoli «trasgrediscono la tradizione degli antichi» è una formulazione meno forte di quella di Mc. 7, 5 : perché «non vivono se­ condo» essa? Anche il v. 20 limita poi nuovamente tutto il discorso a questo particolare. Forse al tempo dell'evangelista i cristiani e i giudei si distinguono (in Siria ?) per questa prassi del lavacro delle mani. In Matteo mancano anche il riferimento (Mc. 7,4) alle «molte altre cose» richieste dai precetti giudaici e le frasi relative alla «tradizione degli uomini» (Mc. 7,8) e alle «mani impure» (Mc. 7, 5). Al v. I I entrambi gli emistichi si riferiscono soltanto alla « bocca» e al v. I9 la «falsa testi­ monianza» prende il posto di una serie di altri vizi (Mc. 7,22). Con questa sostituzione e con una diversa sequenza si ottiene anche un adattamento ai dieci comandamenti. Matteo pensa dunque in primo luogo al parlare che rende l'uomo impuro. I vv. 1 8 (aggiunta) e 1 9 ( = Mc. 7,2 1 ) mostrano che neanche qui egli si dimentica come le parole vengano dal cuore, sebbene nel nostro passo manchi Mc. 7, 1 9a. Infine Matteo si limita a scrivere «non ciò che entra» (v. I I ) invece di «nulla che entri» (Mc. 7, 1 5), evita la formulazione più aspra («non può ren­ dere impuro»: Mc. 7, r 8) e la battuta ironica del gabinetto che provve­ derà esso a purificare i cibi impuri (Mc. 7, 1 9). Matteo sottolinea dun­ que costantemente la differenza tra mera osservanza di norme rituali e peccati di lingua nel senso della maldicenza a danno di altri. Egli non mette in discussione altri comandamenti della legge; tuttavia non avreb­ be potuto scrivere il v. r 1 se avesse considerate ancora vincolanti le norme alimentari dell'Antico Testamento. Che la purità interiore è determinante, non quella esteriore, rimane tuttavia un principio scon­ volgente per l'epoca. 1 2.-2.0. In terzo luogo Matteo acuisce il contrasto con i farisei (vv. I2). Egli plasma la storia dandole una forma stilistica più netta e tra­ sformandola così in una disputa vera e propria, del tipo di quelle che si sono certamente tenute spesso tra scribi farisaici e cristiani dopo il 70 d.C. Perciò Matteo fa rispondere subito (v. 3 ) Gesù con una altra domanda che contiene un'accusa ancora più grave contro gli interro­ ganti (in Marco si ha lo stesso, ma solo al v. 8). Essi stessi violano il comandamento, come afferma il v. 4, dove il legislatore è «Dio» stesso (non « Mosè»: Mc. 7,10). Ciò mostra come i dieci comandamenti resti-

Mt. 1 5 ,1-.10. Il problema della legge

305

no per Matteo legge di Dio e non vengano sostituiti, sebbene possano essere compresi veramente soltanto alla luce delle parole di Gesù in­ terpretate da Pietro (v. I 5; v. sotto). Solo la prova della violazione del comandamento di onorare i genitori, che al v. 6 viene citato ancora una volta espressamente, porta all'accusa (vv 7-9) che Marco ha inve­ ce messo all'inizio. Così la disputa si chiude con l'autorità della Scrit­ tura che decide il dibattito. Al v. 7 la parola «ipocriti! » (v. a 6,2) è sot­ tolineata con ancora maggior forza che in Marco. Soprattutto Matteo distingue i discepoli nettamente dai farisei (vv I 2- 14) mediante l'in­ terpolazione di un dialogo con Gesù. Così facendo egli si espone in­ vero a qualche fraintendimento. Nella domanda successiva di Pietro (v. 1 5) il termine «parabola» di Mc. 7, 1 7 si riferisce sì giustamente al detto immediatamente precedente su ciò che entra e ciò che esce dal­ l'uomo; ma non è più così in Mt. I 5 , I 5 dove lo si dovette necessaria­ mente riferire ai vv . 1 3 - 1 4. La domanda dei discepoli, introdotta in ti­ pico stile matteano (v. a 8,2), serve a inserire due detti uno dei quali (v. 14) è tramandato anche in Le. 6,39 e quindi era sicuramente noto co­ me logion isolato. Il fariseo o il giudeo osservante della legge in gene­ re (Rom. 2, 1 9 s.) era convinto che Israele fosse l'unico tra tutti i popo­ li a non essere cieco perché possedeva la legge. Ma Gesù contesta loro proprio questo possesso: che essi abbiano i rotoli della legge nelle si­ nagoghe, che li possano anche leggere e commentare non garantisce che essi li capiscano. In questo senso sono ciechi, sebbene pensino di poter fare da guida ad altri ciechi (cf. a 2J, 1 6.24). L'immagine della piantagione (v. I J ) dice in realtà che l'uomo non è ciò che fa o rag­ giunge, ma è la pianta che Dio ha scelto di piantare. Ma questa imma­ gine fu usata spesso per Israele (/s. 60,2 1 ; anche 5, 1 I ss.; Ger. 45,4; Sal. 1,3) o come autodefinizione di determinati gruppi che si considerava­ no il vero Israele (Ps. Sal. 1 4,3 s.; Iub. I , I 6; 7,J4; I QS 8,5; I I ,8; 1 QH I4, 1 5 - I 7; I 5, 1 o. I 8 s.; 1 6,4 ss.; 18,[2 5 s.]J I ; CD 1 ,7; Hen. aeth. 1o, r 6). È difficile sferrare un attacco più duro alla fede d'Israele nella propria elezione: Israele e la sua classe dirigente farisaica non sono la vigna piantata da Dio, ma una sterpaglia incolta! Invece dei discepoli (Mc. 7, I 7) in Matteo è Pietro che chiede a Gesù il significato della sua meta­ fora. In 2 1 ,20 si ha lo scambio inverso e in 2 8,7 Pietro non viene più nominato. Questo scambio mostra come Pietro sia fondamentalmente il rappresentante di tutti i discepoli (v. conci. a I 6, I J -20). Ma in questa funzione egli assume un particolare risalto quando si tratta della nuo.

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Mt. 1 5, 1 -20. Il problema della legge

va comprensione della legge nella comunità di Cristo (I 6, I 9; I 7 ,24; 1 8,2 I ): invero appare in questa veste come colui che a sua volta deve interrogare Gesù, dunque può soltanto esporre la sua volontà. Che i discepoli vengano detti ottusi (v. r6) è un'eccezione; tuttavia Matteo ha trasformato l'affermazione in una proposizione interrogativa, atte­ nuandola: «Continuate a essere ottusi ?». Di regola essi dovrebbero dunque comprendere. Ciò mostra come Matteo stia scrivendo in un'epoca e in una situa­ zione diverse da quelle di Marco. La comunità di Gesù e il giudaismo guidato dai farisei sono già separati. Così Matteo li distingue più net­ tamente tra di loro. D'altra parte la comunità di Gesù, nella quale vi­ vono anche molti giudei, sa di essere UI)ita con Israele, con la sua sto­ ria e la sua legge. Come si deve quindi capire e accogliere questa storia e questa legge per adempiere la vera volontà di Dio ? La risposta è data dal riconoscimento che Dio non ha mai voluto sacrifici o ubbidienza rituale per se stesso, bensì l'ubbidienza dell'uomo a favore di altri uo­ mini. Perciò Gesù insorge, a loro difesa, contro l'usanza di consegnare al tempio ciò che spetterebbe ai genitori o contro le norme alimentari che proteggono solo dalla contaminazione o in favore di coloro che sarebbero messi in pericolo dalle chiacchiere perfide o da chi semina discordia. Questo principio distingue la comunità di Gesù da quella d'impronta farisaica (cf. a 9, I 3) che fa concorrenza, non solo nella prassi, ma anche nella dottrina, ai dieci comandamenti addirittura con controcomandamenti (i vv. 5.6a sono ora formulati in stile legale!). Da un lato con la riduzione ai dieci comandamenti (v. I 9) la rispo­ sta è diventata più chiara: solo il comportamento contrario alla buona volontà di Dio rende impuri. D'altra parte l'uomo con la sua condotta ritorna più prepotentemente al centro della scena. Gesù ha puntato l'in­ dice contro la colpa del cuore che non può essere cancellata con la correttezza rituale. La comunità che sta dietro Marco ha probabil­ mente aggiunto i diversi vizi che vengono dal cuore, destando così l'impressione che sia possibile proteggersi da essi vivendq una vita eti­ camente corretta. Contro un simile equivoco Marco stesso ha sottoli­ neato la totale cecità dei discepoli per l'opera di Dio in Gesù (v. a Mc. 7, 1 -23). Pensa Matteo che la legge ben capita e spiegata secondo la vo­ lontà di Gesù potrebbe rendere innocenti ? Probabilmente Matteo è primariamente interessato a ciò che la sua comunità ha in comune con

Mt. 1 5 ,2 1-28. Il legame di .Gesù con Israele

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Israele e chi sa che solo il comandamento dell'amore perfetto adempie la legge non può né ignorare la radicalità di Gesù né dimenticare che è possibile solo per Dio ciò che è impossibile per gli uomini ( 1 9, 1 9.26). Il legame di Gesù con Israele, 1 5,2 1-28 (cf. Mc. 7,24-30) 21 E Gesù andò via da lì e si ritirò in direzione del territorio di Tiro e Sido­ ne. 22 Ed ecco: una donna cananea venne da quella regione e gridò: Abbi pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è crudelmente tormentata da un demone! 23 Ma lui non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvici­ narono e lo pregarono: Mandala via, perché ci viene dietro gridando. 24 Ma egli rispose e disse: Io sono stato mandato soltan.to alle pecore perdute del­ la casa d'Israele. 25 Ma lei venne e si prostrò davanti a lui e disse: Signore, aiutami! 26 Ma lui rispose e disse: Non è giusto prendere il pane dei figli e gettarlo ai cuccioli. 27 Ma lei disse: Certo, Signore! Ma anche i cuccioli si nutrono dei pezzi di pane che cadono dalla tavola dei loro padroni. 28 Al­ lora Gesù rispose e le disse: Donna, la tua fede è grande! Ti avvenga come vuoi! E da quel momento sua figlia fu guarita.

Pur coincidendo nella sostanza, la storia è formulata abbastanza di­ versamente da Marco e ampliata con un inserimento. Sola la parola di Gesù è praticamente tramandata del tutto letteralmente uguale, la ri­ sposta della donna lo è in larga parte. Il detto del v. 24 è un logion iso­ lato che è facile distaccare (cf. a 1 o,6). Probabilmente Matteo ha volu­ to rendere con esso più chiara la sua comprensione della storia, giac­ ché anche in altri passi egli ha aggiunto di suo le frasi tipiche «avvici­ narsi e dire» (v. a 28, 1 8 intr.), «non rispondere parola» (22,46), «figlio di Davide» (v. a 1 2,23; 2 1,9). Le pecore perdute non sono solo un gruppo, ad esempio i farisei, bensì tutto Israele; infatti Ge s ù è proprio mandato «soltanto» a loro (cf. 1 o,6), L'invocazione «abbi pietà di me, (mio) signore, figlio di Davide» si ritrova in questa forma soltanto in Mt. 20,30 s. (in Mc. 1 0,47 s. senza «signore» e con una diversa costru­ zione). Il tentativo dei discepoli di spingere Gesù a scacciare la donna è descritto in maniera simile in 1 4, 1 5 . Matteo pensa forse a discepoli che anche al suo tempo la pensano nel medesimo modo ? Per il resto egli abbrevia notevolmente. In questo modo il rifiuto di Gesù diventa ancora più duro; ora si omette che si dovrebbe «dapprima» (Mc. 7,27) badare ai figli. Allo stesso tempo la risposta della donna diventa anco­ ra p iù umile: lei parla addirittura della tavola «dei padroni». I «pezzi di pane» servono per pulire le mani. Anche il versetto finale con il ri-

308

Mt.

15,29-39· La potenza di Gesù che dà da mangiare ai quattromila

ferimento alla fede della donna e alla guarigione avvenuta è formulato da Matteo (cf. 8, 1 3): egli ha quindi inteso la storia nel medesimo senso di quella del centurione di Cafarnao (v. intr. ad loc. verso la fine). � 1 -.18. I sensibili interventi nella storia mostrano quanto essa sia importante per Matteo. Con «Tiro e Sidone)) (invece della sola Tiro) e «cananea» (invece che «siro-fenicia») Matteo ha ripreso espressioni dell'Antico Testamento (v. 2 1 ) che_denotano i pagani separati dal po­ polo di Dio. Come in 10,5 s.23 a Matteo interessa molto ribadire che non è Dio che ha rotto il patto con Israele; Gesù ha diretto tutto il suo ministero al popolo di Dio e si è concentrato unicamente su di esso. Se si intende il v. 22 nel senso che la donna «uscì da quella regione», allora Gesù non ha messo neanche piede «nel» territorio delle città pagane, ma si è solo mosso «in quella direzione» - entrambe le letture sono possibili in greco. Dio è dunque restato fedele al suo patto con Israele (v. 2 3), solo che Israele lo ha largamente disatteso. Viceversa nel caso di questa pagana avviene ciò che i discepoli non si aspettavano: essa ottiene guarigione e salvezza grazie alla sua «grande>> fede (cf. 1 7, 20) che vede in Gesù il Signore e il figlio di Davide, dunque il messia. No n si pongono condizioni legali. Il grido della fede, che assomiglia a quello di Pietro ( 1 4,30; cf. Sal. 22,20 ecc.), è sufficiente: «Signore, aiu­ tami! ». Così Matteo sottolinea sia la fedeltà di Dio verso Israele sia il miracolo della fede della pagana. La potenza di Gesù che dà da mangiare ai quattromila, 1 5,.19-39 (cf. Mc. 7,3 1 -8,9 )

G esù andò via di lì e giunse al lago della Galilea. E salì su un monte e ivi si sedette. 30 E una grande folla lo raggiunse portando con sé zoppi, ciechi, storpi, sordomuti e molti altri (malati) e li deposero ai suoi piedi. 31 Ed egli li guarì, così che la moltitudine si stupì vedendo come i muti par­ lassero, gli storpi si raddrizzassero e gli zoppi camminassero e i ciechi ve­ dessero. E lodarono il Dio d'Israele. 32 Ma Gesù chiamò a sé i discepoli e disse: Questa gente mi fa pena! In­ fatti sono già tre giorni che non si muovono da vicino a me e non hanno niente da mangiare. E non voglio mandarli via affamati, affinché non sven­ gano per strada. 33 E i discepoli gli dissero: Dove andiamo a prendere, in questo lu ogo deserto, tanti pani da poter sfamare così tante persone ? 34 E Gesù disse toro: Quanti pani avete ? Ma essi dissero: Sette, e un paio di pe­ sci, piccoli. 3 5 Ed egli ordinò alla folla di sedersi p er terra, 36 e prese i set29 E

Mt. 1 5,29- 39. La potenza di Gesù che dà da mangiare ai quattromila

3 09

te pani e i pesci e disse il ringraziamento, li spezzò e li diede ai discepoli, ma i discepoli alla moltitudine. 37 E tutti mangiarono e si saziarono e por­ tarono via i resti del pane, sette cesti pieni. 3 8 Ma coloro che mangiarono erano quattromila uomini, senza contare le donne e i bambini. 39 E quan­ do egli ebbe congedato la moltitudine, salì in barca e giunse nella regione di Magadan.

Matteo inizia riprendendo Mc. 7,3 I, invero senza ripetere quell'itinerario quasi impensabile (v. ad loc. ), tralasciando però la guarigione di un sordomuto narrata da Marco, forse perché aveva do­ vuto narrarne una così già in 9,32 s. e perché i gesti di Gesù che pote­ vano sembrare magici gli hanno creato difficoltà (cf. a 9,23-2 5 ). A cau­ sa di Mt. 9,27- 34 e per ragioni di sostanza viene tralasciato anche Mc. 8,22-26 che viene sostituito con un racconto riepilogativo di guari­ gioni di Gesù che introduce al contempo (vv. 3 0-3 1 ) «il popolo» di cui parla il v. 3 2. Se già dietro a Mc. 7,3 7 (v. ad loc. ) si nascondeva una reminiscenza di Is. 3 5, 5 s., il riferimento diventa più evidente qui· con la menzione di zoppi e ciechi che vanno ad aggiungersi ai sordomuti (v. 30). Per il contrasto tra i guariti (v. 30) che lodano «il Dio d'Israe­ le» (v. 3 1) e coloro che onorano solo con le labbra (vv. 8 s.) il modello potrebbe essere /s. 29,13 . 1 8 s. 23 e per Gesù che si trova sul «monte», ai cui «piedi» vengono adagiati i malati il modello potrebbe essere l'immagine dei messaggeri di gioia di /s. 5 2,7 (che anche i rabbi riferi­ scono al messia e agli ultimi tempi: Str.-Bill. 111, I o; IV, 9 5 2). Per la verità anche Gv. 6,3 racconta che prima della moltiplicazione dei pani Gesù sarebbe salito su di un monte. Di nuovo la folla si stupisce (v. 3 I ), distinguendosi così dai farisei (vv. 1-20). Come i quattromila ven­ gano saziati è raccontato quasi come in Marco, ma un po' più in bre­ ve. I pesci (v. 34) vengono inseriti subito all'inizio, ma non si parla più, invece, della loro benedizione e distribuzione. Sebbene la distri­ buzione del v. 36 si riferisca sia al pane sia ai pesci, l'espressione ripre­ sa da Marco «spezzò e diede» mostra che il narratore pensa soltanto al pane. Che la distribuzione alla gente sia fatta dai discepoli viene detto con le medesime parole di I 4, I 9 e anche l'indicazione in crescendo del numero delle persone (v. 3 8) corrisponde alla lettera a I4,2 1 (v. ad loc. ). Omettendo (v. 3 2) il nuovo inizio di Mc. 8 , 1 Matteo situa la sce­ na sulle rive del Lago di Galilea (v. 29). Sebbene là ci sia anche una popolazione pagana, difficilmente Matteo pensa a una contrapposizio­ ne con il territorio giudaico dove avvenne la prima moltiplicazione 29-39.

310

Mt. 1 6,1- 12. La richiesta disegni

dei pani (v. a Mc. 8, I .J). La sconosciuta Dalmanuta (Mc. 8, 1 0) viene sostituita (v. 39) con l'altrettanto ignota M a gadan. Il gruppo dei discepoli lontano e distinto da farisei e sadducei, _16, 1 - 1 2 (cf. Mc. 8, 1 0-2 1 [Mt. I 2,38-4o; Le. I 1 , 1 6.29 s.; I 2, I]) 1 E i farisei e .sadducei si avvicinarono; lo pregarono subdolamente di far vedere loro un segno dal cielo. 2 �ta egli rispose e disse loro: [Quando si fa sera voi dite: Domani farà bello, il cielo è rosso; 3 e di mattina: Oggi fa­ rà brutto, il cielo è rosso e coperto. Sapete come giudicare l'aspetto del cie­ lo, ma non siete in grado (di giudicare) i segni del tempo?] 4 Una genera­ zione malvagia e adultera richiede un segno, ma non le verrà dato alcun se­ gno se non quello del profeta Giona. E li lasciò e se ne andò via. 5 E quando i discepoli arrivarono sull'altra riva, si erano dimenticati di prendere con sé p�ni. 6 Ma Gesù disse loro: State attenti e guardatevi dal lievito dei farisei e sadducei. 7 Allora essi presero a discuterne tra di loro e dissero: ... perché non ci siamo portati il p an e! 8 Ma Gesù se ne accorse e disse: Ma che discutete tra di voi, poveri di fede: perché non avete pane? 9 Non capite ancora e non vi ricordate dei cinque pani dei cinquemila e di quante ceste (di avanzi) raccoglieste Io né dei sette pani dei quattromila e di quanti cestini raccoglieste? I 1 Come mai non capite che non mi riferivo al pane dicendo: Guardatevi dal lievito dei farisei e sadducei? I 2 Allora essi compt:'esero davvero che non aveva detto loro di guardarsi dal lievito, ma dall'insegnamento dei farisei e sadducei. 1 - 1 .1. Matteo segue sì ancora Marco, ma per lui I 5,39 = Mc. 8, I o si­ gnifica evidentemente che Gesù passa da solo in barca sull'altra spon­ da dove incontra i farisei e sadducei. Questi ultimi sono un'aggiunta rispetto a Marco (e a M t. 1 2,3 8) sia qui sia al v. 6; ai vv. 1 1 s. sono en­ trambi aggiunti (cf. J,7- I O intr.). Ne consegue che le parole di Mc. 8, 1 3 riappaiono sì quasi tutte, ma assumono adesso un significato diver­ so. «Egli li lasciò e se ne andò via» (v. 4) si riferisce a Gesù, «sulla spon­ da opposta» (Mc. 8,1 3) si riferisce ora solo ai discepoli (v. 5) che quindi arrivano in un secondo tempo là dove Gesù già si trova. Ciò significa che non si tratta più di due traversate di Gesù (Mc. 8, I o. 1 3), ma di una sola, e che il dialogo sul lievito dei farisei non avviene più a bordo della barca (Mc. 8, I 4), bensì a terra, dopo che i discepoli hanno raggiunto G e sù . Il detto sul segno di Giona insieme con l'introduzio­ ne (v. 2a) coinc id e alla lettera con 1 2,39 (esclusa l'aggiunta «del profe­ ta»); manca tuttavia l'interpretazione riferita a sepoltura e risurrezio-

Mt.

t6,1-1 2. La richiesta di segni

3I I

ne di Gesù ( 1 2,40). I versetti interpolati (vv. 2b-3 ) relativi al segno «del cielo», non «dal cielo», come richiesto, mancano nei manoscritti

più antichi. Essi sono stati certamente integrati più tardi alla luce di Le. 1 2, 54- 56. Come in 8,26; 1 4,29-3 3 Matteo aggiunge sì l'accusa di scarsa fede, ma estende il duro giudizio ai discepoli che non compren­ dono (Mc. 8, 1 8; cf. a Mt. 1 3 , 1 6 s. 1 9). Si ha invece la ripetizione dell'av­ vertimento a guardarsi dai farisei e sadducei ( vv. 1 1 - 1 2) e si constata che i discepoli adesso avrebbero capito che Gesù voleva metterli in guardia dalla «dottrina» dei farisei e sadducei. Con ciò non è invero rimasto più posto per la guarigione del cieco che Mc. 8,22-26 raffigura simbolicamente, come gli occhi dei discepoli di Gesù si sarebbero aperti per la prima volta mediante la sua rivelazione a Cesarea di Filippo (cf. a I 5,29-3 1 ). Come indica il triplice avvertimento, a Matteo interessa la netta se­ parazione dei discepoli di Gesù dalla dottrina dei farisei e sadducei, cioè dal giudaismo istituzionalizzato così come lo vede davanti a sé. Il giudizio di Matteo si manifesta nell'episodio della pretesa di un segno: la schiera dei discepoli deve guardarsi da una devozione sicura di sé che pretende garanzie, quando Dio sceglie di manifestarsi in maniera diversa e inattesa facendo breccia nelle concezioni fisse del loro siste­ ma. In caso contrario essa non sarà in grado di seguirlo e di restare aperta per l'azione di Dio sempre nuova e spesso inattesa. La sezione che segue viene già preparata con le parole «capire» e ((insegnamento» (vv. 1 I s.).

Parte quarta

Il cammino verso la passione (16,1 3-20,J4)

Anche in questa parte Matteo segue in tutto la struttura di Marco, ma aggiunge una tradizione particolare nell'episodio della confessione di Pietro e in 1 7,24- r 8,J 5 trasforma uno spunto in Marco in un vero e proprio ordinamento della comunità (cf. prima di 1 8,r). Inoltre, poco prima dell'ultimo annuncio della passione, Matteo illustra con la pa­ rabola degli operai a gio rn ata (2o, 1 - r 6) il detto tramandato in Marco degli ultimi che saranno primi e dei primi che saranno ultimi. Per quan­ to riguarda i particolari, vanno notate le caratteristiche aggiunte, o mis. . stont e vanaztont. .

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La rivelazione di Dio nella confessione di Pietro che Gesù è il Cristo, I6, IJ-20 (cf. Mc. 8,27-30; Le. 9,1 8-2 1) r 3 E Gesù arrivò nei dintorni di Cesarea di Filippo e interrogò i suoi di­ scepoli e disse: Per la gente, il Figlio dell'uomo chi è? 14 Ma essi dissero: Per alcuni, Giovanni Battista; per altri, Elia; per altri ancora, Geremia o uno dei profeti. r 5 Egli dice loro: Ma per voi, chi dite allora che io sia? 16 Si­ mon Pietro rispose e disse: Tu sei il messia, il figlio del Dio vivente. 17 Gesù rispose e gli disse: Salvezza a te, Simone bar Giona, perché car­ ne e sangue non ti ha rivelato ciò, bensì il Padre mio in cielo. r 8 E io allora ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia comunità e le porte dell'Ade non la sopraffaranno. 19 Ti darò le chiavi del regno dei cieli e ciò che leghi sulla terra sarà legato in cielo e ciò che sciogli sulla terra sarà sciolto in cielo. 20 Poi ordinò ai discepoli di non dire a nessuno che lui è il messia.

18 Sap. 1 6,1 3 (Giob. J 8, 1 7).

Diversamente da quanto si legga in Mc. 8,27 Gesù parla qui di sé quale Figlio dell'uomo; tuttavia non si tratta che di una anticipazione del titolo di Figlio dell'uomo presente nell'annuncio della passione di Mc. 8,3 1 (= Mt. 16,2 1 dove il titolo non appare più). Il macarismo di Pietro, il detto sull'edificazione della comunità e sull'affidamento del-

Mt. 1 6, I 3-20. La confessione di Pietro che Gesù è il Cristo

3I3

l'ufficio delle chiavi sono tutte aggiunte. Che siano tramandate solo da Matteo non ne prova l'inautenticità - anche la parabola del fariseo e del pubblicano si trova solo in Luca. Molti elementi fanno credere che i detti risalgano, come minimo, alla comunità di lingua aramaica: la forma «bar (= figlio di) Giona>>; l'espressione giudaica ), persino quando si trasforma in «pietra d'in­ ciampo)> (v. al v. 23). In questo senso gli apostoli e i profeti (del Nuo­ vo Testamento) sono la pietra angolare sulla quale la chiesa resta fon­ data (Ef 2,2o; cf. Apoc. 2 1 , 1 4). Il termine greco significa « roccia», solo eccezionalmente «pietra>) (v. al v. 23). Con una raffigurazione diffusa nell'Oriente antico, Israele si è immaginato la terra come una monta­ gna cava emergente dall'oceano primordiale, più tardi come chiave di volta che Dio ha inserito nella struttura del cosmo per rinchiudervi sotto i flutti del mare primigenio. In particolare la roccia del tempio è stata considerata la chiusura del mondo sotterraneo a partire dalla quale il resto del mondo venne poi esteso tutt'intorno. In questa sua funzione la roccia del tempio viene anche chiamata porta del cielo. Così fs. 2 8, 1 6 parla della pietra angolare che Dio pone in Sion, sgor­ gando dalla quale il diritto di Dio spazza via come «fiume impetuoso» il male, e contro la quale si spezza il patto dei nemici con «morte e inferno)>. Ma quando Dio diventa pietra d'inciampo i nemici invado­ no Israele (fs. 8,7 s. 1 4). La testimonianza più importante è quella di un inno di Qumran (rQH 1 4,2 3-28): «Le sue onde e tutti i suoi mara­ si infuriano contro di me ... Mugghiano le acque primordiali ... e la mia anima arriva vicino alle porte dell'Ade»; tuttavia il salmi sta viene mes­ so in salvo nella ·città munita, con fondamenta costruite da Dio sulla roccia, con «porte blindate che non permettono di entrare e chiavi­ stelli solidi che non si spezzano» . In questo passo si trovano raccolte tutte insieme le immagini delle acque primordiali, delle porte inferna­ li, della città fondata sulla roccia e solidi chiavistelli che tengono fuori

Mt.

I6,13-20. La confessione di Pietro che Gesù è il Cristo

319

il pericolo. 4QFlor 1,6 s . mostra inoltre, probabilmente, l'applicazio­ ne dell'immagine della casa di Dio alla comunità dei giusti della legge, sebbene continui a esserle associata l'attesa di un tempio escatologico. 4QpPsa3 7 3( 2 ), 1 6 parla dell'edificazione di una comunità per mezzo del Maestro di Giustizia. Una sentenza giudaica che chiama Abramo roccia sulla quale Dio vuole edificare il mondo contiene il termine gre­ co petra (roccia) come esotismo: è dunque forse solo un'eco del no­ stro detto o una polemica formulazione alternativa. Alle «porte del­ l' Ade» (non dell'inferno) viene convocato il re sconfitto da Dio (/s. 38,1o); Dio conduce giù fino a esse e di nuovo su da esse (Sap. 16,3; cf. 3 Mace. 5 , 5 1 ; Ps. Sal. 1 6,2; 1 QH 1 4,24). Esse possono venire facilmen­ te personificate, così che non è necessario ipotizzare un testo aramai­ co originale «i guardiani dell'Ade» . Si è supposto che il detto fosse ri­ ferito una volta non alla chiesa, bensì a Pietro e gli avrebbe promesso che non sarebbe morto prima dell'apparizione di Gesù per il giudizio universale (Gv. 2 1 ,23). Traduzioni siriache leggono effettivamente «te» invece di «essa»; ma nei testi più antichi il pronome è di ge­ nere femminile e si riferisce a «Sion» ( = la chiesa); solo più tardi Sio n è stato confuso con Simone. Il detto afferma quindi chiaramente che la morte con tutto il suo potere non potrà mai eliminare la comunità. Sebbene Matteo separi piuttosto il riferimento a morte e risurrezione di Gesù dal nostro passo (v. al v. 21) , pure il linguaggio pasquale è percepibile: Rom. 6,9 dice del Risorto che la morte non ha alcun pote­ re su di lui; secondo Apoc. 1, 1 8 a lui sono consegnate le chiavi della morte e dell'Ade, ma anche la chiave di Davide (Apoc. 3,7 =Is. 22,22 ) . 1 9-20. Come quest'ultima espressione è stata riferita da parte giu­ daica agli scribi deportati a Babilonia, così anche secondo Mt. 23, 1 3 le «chiavi del regno dei cieli» sono consegnate agli scribi: a loro viene contrapposto qui Pietro. Egli non è quindi il portiere del cielo, ma l'amministratore del regno dei cieli sulla terra. Ciò viene descritto più in dettaglio con «legare e sciogliere». Poiché !s. 22,22 non basta a spiegare nemmeno una ipotetica forma aramaica originale, il detto de­ ve aver inteso, fin dal principio, un'autorità analoga a quella degli scribi. «Legare» e «sciogliere» indica nel contesto scribale l'autorità dogmatica che dichiara un comandamento obbligatorio o non obbli­ gatorio, dice cioè, ad esempio, che il divieto di lavorare di sabato è sciolto per il sacerdote nell'esercizio delle sue funzioni, mentre leghe­ rebbe il non sacerdote. Legata a questa è l'autorità disciplinare che

3 20

Mt. r6,IJ-20. La confessione di Pietro che Gesù è il

Cristo

«lega» una persona se ha violato un comandamento valido per lei, op­ pure la «scioglie» in caso contrario; a questo proposito tutto ciò che il «tribunale inferiore)) delibera viene confermato anche da quello «su­ periore», cioè da Dio stesso. Giuseppe (Beli. r , I r I ) dice dei farisei che essi esiliano e richiamano, sciolgono e legano. Per Matteo c'è però una sola giusta interpretazione della legge, quella di Gesù. Essa è accessibi­ le alla comunità mediante la tradizione di Pietro ed è stata applicata ai suoi problemi pratici. Probabilmente qui si pensa dunque in primo luogo all'autorità di magistero; a questo riguardo si dice che al cospet­ to di Dio vale ciò che è stato dichiarato lecito o vietato nella comunità dalla tradizione di Pietro. Tuttavia la formulazione dell'essere sciolto o legato in cielo fa pensare già qui che in questo modo si voglia inten­ dere al contempo l'autorità di dichiarare innocente il peccatore oppu­ re, quando questi non vuole ascoltare, di > nel senso atten.uato che hanno i nostri tE< Che Dio ti protegga! », «me ne guardi Dio ! », «Dio non voglia! >>. Improbabile è la traduzione: «Dio ti pro­ teggerà da ciò». In Marco manca anche l'accusa di Gesù (v. 23) relati­ va all' «inciampo>> (skandalon: v. a Mc. 6,3). Ora nella comunità primi­ tiva i detti sulla «pietra eletta>> che viene posta come pietra angolare per Sion (/s. 28,1 6), ma può anche diventare «pietra d'inciampo» (pe­ tra skandalou) (ls. 8, 1 4 s.) hanno un ruolo notevole. Essi vengono com­ binati, indipendentemente l'uno dall'altro, sia in Rom. 9,3 3 sia in 1 Pt. 2,6-8 (cf. ancora Sal. 1 1 8,22 s. in Mt. 2 I,42). Anche altrove citazioni e metafore vengono applicate ora a Gesù ora al discepolo (cf. 1 Cor. J, I I e 1 Pt. 2,6 con Mt. r 6, I 8; Ebr. 1 , 5 con 2 Cor. 6, 1 8 e Apoc. 2 I ,7; Apoc. 2,26 con 19, 1 5 ; Gv. 1 2,38 con Rom. r o, 1 6; Gv. 8, 1 2 con Mt. 5 , 1 4; cf. la conci. a Mt. 1 8,ro- r 4). Così, probabilmente, l'immagine del v. r 8 si è portata dietro quella del v. 2 3, come anche Cristo è entrambe le cose, fondamento e pietra d'inciampo. La duplice natura della comunità di Gesù viene dunque allo scoper­ to già in Pietro. Essa è eletta da Dio, dotata per grazia di una nuova conoscenza, in cammino verso il regno dei cieli oppure continua a vi­ vere nella tentazione, addirittura sotto la minaccia del giudizio. Non le sono date dottrine profonde sugli «abissi di Satana>> (Apoc. 2,24); li prova sulla propria pelle con la sua disubbidienza, soprattutto con la sua resistenza a una teologia, meglio a una prassi della croce: è lì che li deve superare. Come Pietro viene richiamato alla sequela nella quale deve imparare a pensare i pensieri di Dio, così la comunità. Ancora una volta Pietro rappresenta esemplarmente tutti i discepoli. Con ciò si è impostata una teologia della croce come essa appare in Paolo, sviluppata in tutealtra maniera. La sequela di Gesù, 16,24-28 (cf. Mc. 8,34-9, 1; Le. 9,23-27) 24 Allora Gesù disse ai suoi discepoli: Se uno vuole venirmi dietro, rinne­ ghi se stesso e si addossi la propria croce e mi segua. 2 5 Poiché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perde la vita per causa mia, la tro­ verà. 26 Infatti che servirebbe a un uomo guadagnare il mondo intero, ma

·

Mt.

16,24-.28. La sequela di Gesù

32 3

perdere la propria vita? O che darà quell'uomo come compenso per la propria vita? 27 Poiché il Figlio dell'uomo verrà nella gloria del Padre suo insieme con i suoi angeli e allora «compenserà ciascuno secondo le sue azio ni ». 28 Amen, vi dico: Tra coloro che si trovano qui ce ne sono alcuni che non assaggeranno la morte finché non avran no visto il Figlio dell'uo­ mo venire nel suo regno. 17 Sal.

62, 1 3; Prov. 24, 1 2.

24-28. Qui Matteo segue quasi alla lettera Marco, con la differenza che qui (v. 24) non si tratta di un discorso alla moltitudine, ma di un insegnamento rivolto ai soli discepoli. Per Matteo solo il discepolo si decide per la sequela, separandosi in questo modo dalla massa della gente, mentre Marco sottolinea l'invito rivolto a tutti, così che solo più tardi si vedrà chi è ubbidiente e chi non lo è. In questa maniera in Matteo il detto è collegato più strettamente con il «ritorna dietro di me» del v. 2 3 : tentazione e nuova sequela si rinnovano continuamente anche nella vita del discepolo. Matteo (v. 2 5 ) parla di «trovare>> (inve­ ce di «salvare») la vita perché conosce il detto anche nella forma di I o, 3 8 s. Egli pensa allo stupore per la realtà di vita piena nel regno che viene. Anche il verbo al futuro «che darà quell'uomo ... ?» invece che al presente, come in Marco, indica verso quel momento (v. 26). Perciò anche il versetto seguente è unito direttamente con un > (v. a 8,2) e già l'aggiunta «se tu vuoi>> mostra che essi non sono affatto inin­ telligenti come afferma il versetto omesso di Mc. 9,6. Anche la nuvola (v. 5) viene definita «nuvola luminosa» (Apoc. 1 4, I 4): non si tratta di una nuvola naturale, ma rivela e insieme nasconde la presenza stessa di Dio. La voce di Dio viene evidenziata con la locuzione biblica « ed ecco» (v. a 8,2). Con maggiore precisione di Marco la voce ripete alla lettera le parole risuonate al battesimo di Gesù (3, I 7), ma aggiunge (come in Mc. 9,7): «ascoltatelo ! » (cf. Deut. I 8, I 5). Per Matteo questo ascolto riguarda l'insegnamento etico di Gesù (come in 28, 1 9 s.), non certo, ad esempio, il precedente annuncio della passione che è invece esplicitamente richiamato in Le. 9,3 1 . Soltanto in Matteo la reazione . dei discepoli (vv. 6-7; cf. Mc. 9,6) viene descritta con tratti veterotesta­ mentari (/s. 6, 5 ; Ez. 2, 1 ; Dan. 8, 1 7; 1 0,9 s. 1 5 - I 9; Apoc. 1 , 1 7; cf. Hen. aeth. 1 4, 1 4.24 s.). Matteo non cerca quindi di adeguare la narrazione alle storie di Mosè, bensì certamente a quei passi dell'Antico Testa­ mento che toccano il mistero della fine e della risurrezione. Nell' Anti­ co Testamento si trova spesso che gli uomini vengano meno davanti alla grandezza di Dio e si gridi loro: «Non temete! »; ma generalmente ciò avviene nel contesto di esperienze di Dio profetiche o apocalitti­ che, cioè riferite alla prossima trasmutazione cosmica. Il verbo «alza­ tevi» viene usato esattamente così negli episodi di risuscitamento di morti (ad es. 9,2 5 ) e in senso traslato anche per le guarigioni (8, I 5) e nel breve inno battesimale di Ef 5 , I 4. Anche in 8,3; 9,29 si dice che

326

Mt.

1 7,10- 1 3 .

Il ritorno di Elia e il Figlio dell'uomo sofferente

malati o morti vengano «toccati>>. Solo in occasione dell'apparizione del Risorto (28, 1 8) si dice una volta che Gesù si «avvicinò» (v. a 8,2): come qui anche lì egli si avvicina ai discepoli nelle vesti di Signore della morte che li fa alzare e restituisce loro la vera vita. Con questa scena Matteo vuole forse ra ffigurare proletticamente ciò che un gior­ no accadrà al discepolo quando il Signore gli si avvicinerà da risorto e lo risusciterà. I discepoli (v. 8) sollev ano gli occhi e «guardano>>, non soltanto «attorn o » (Mc. 9, 8 ) , perc h é a differenza della scena di Marco, essi sono caduti a terra. lnvero la «visione» svanisce di nuovo, come scrive Matteo con una espressione che denota una visione (Dan. 2, I 9; Apoc. 1 0, 1 7, ecc.); ma, come in 28,2o, Gesù stesso rimane (Matteo sot­ tolinea questo particolare). Matteo usa anche con maggiore precisione la terminologia giudaica dicendo che Gesù «sarà risuscitato» e non · che «risorgerà» (Mc. 9,9). Lo stesso avviene in I 6,2 1 ; 1 7,23 ; 20, 1 9; egli evita il verbo (solo in 9,9; 26,62; in Marco I 6 volte) anche nell'uso corrente di «alzarsi». Ancora una volta (cf. a I 3,r6 s.) si omette il ver­ setto (Mc. 9, 10) che sottolinea l'incomprensione dei discepoli. Come mostra l'interpolazione dei vv. 6 s., Matteo è interessato so­ prattutto a ciò c h e succede ai discep oli che qui rappresentano tutti i discepoli futuri. Questo prostrarsi al suolo e «venire risuscitati» da Gesù, ma anche l'introduzione del simbolismo della luce punta in ma­ niera più netta di quanto non avvenga in Marco verso l'evento della risurrezione, quando colui che è il Signore della vita e della morte «si avvicinerà» e li «toccherà», togliendo loro definitivamente ogni timo­ re e concedendo la vita. Il ritorno di Elia e il Figlio dell'uomo sofferente, 17,10-13 (cf. Mc. 9,9- 1 3 ) ro E i discepoli lo interrogarono e dissero: Perché gli scribi dicono allora che debba venire prima Elia? 1 I Ma egli rispose e disse: Invero «Elia)) vie­ ne e «ristabilirà ogni cosa». 12 Ma vi dico: Elia è già venuto e non l'hanno riconosciuto, ma gli hanno fatto ciò che hanno voluto. Così anche il Figlio dell'uomo patirà per mano loro. I 3 Allora i discepoli capirono che aveva parlato loro di Giovanni Battista. II

Mal. 3,22 s.

1 1 - 1 3 . Il dialogo condotto scendendo dal monte viene costruito con maggiore chiarezza (cf. a Mc. 9,9- I 3 ) . Il futuro del verbo, «ristabilirà

Mt.

17,14-21 . La guarigione del giovane epilettico

3 27

ogni cosa» (Mc. 9, I 2 ha il presente), corrisponde alla Bibbia greca, ma a dire il vero nei manoscritti non è certissimo. Questo futuro lasce­ rebbe supporre che il Battista (v. I 3) avrebbe ancora fatto ciò·. Tutta­ via Matteo pensa certamente che quanto «su di lui>> (come Gen. 40, 1 4 LXX; Dan. I 1 ,7 LXX, i n u n manoscritto) è stato fatto (v. 1 2) h a im­ pedito che ciò avvenisse. Ma soprattutto avviene una trasposizione: dapprima si dice che Elia è già venuto, ma, come Matteo aggiunge a chiarimento, non è stato riconosciuto; solo dopo si parla della soffe­ renza del Figlio dell'uomo in analogia con la sofferenza di Elia. Segue immediatamente l'esplicita comunicazione (come già in I I , I 4) della soluzione dell'enigma, cioè che Giovanni Battista è l'Elia ritornato; al­ lo stesso tempo si afferma che i discepoli lo avevano capito, al contra­ rio di coloro che «non lo hanno riconosciuto» . In questo modo si ot­ tiene la contrapposizione tra la dottrina degli scribi e la chiara com­ prensione dei discepoli di Gesù. La guarigione del giovane epilettico e l'ammaestramento dei discepoli, 17, I 4-.1 1 (cf. Mc. 9, I 4-29; Le. 9,3 7-43)

I4 E quando raggiunsero la folla, un uomo gli si avvicinò, cadde in ginoc­ chio davanti a lui I 5 e disse: Signore, abbi pietà di mio figlio! Giacché è epilettico e soffre grandemente: infatti spesso cade nel fuoco e spesso nel­ l'acqua. 16 E lo portai ai tuoi discepoli, ma non poterono guarirlo. 17 Ma Gesù rispose e disse: Generazione incredula e perversa, quanto ancora do­ vrò stare tra di voi ? Ancora per quanto dovrò sopportarvi ? Portatemelo qua! I 8 E Gesù lo minacciò e il demone uscì da lui e da quel momento il ragazzo fu guarito - I9 Allora i discepoli si avvicinarono a Gesù, in di­ sparte, e dissero: Per quale ragione non siamo stati capaci di scacciarlo? 20 Ma egli disse loro: Per la vostra poca fede. Poiché, amen, vi dico: Se ave­ te una fede come un granello di senape, direte a questa montagna: Spostati da qua a laggiù e si sposterà. E nulla vi sarà impossibile! [21 Ma questo ge­ nere esce solo con la preghiera e il digiuno.] .

14-2 1 . Come in 8,28-34 e 9, 1 8-26 si hanno qui, rispetto a Marco, drastici tagli. Le abbreviazioni coincidono in larga parte con il testo di Luca, ma invero non nelle formulazioni, fatta eccezione per il v. I 6 («non poterono») e il v. I 7 («ma Gesù rispose e disse: O generazione incredula e perversa»). Per quanto riguarda Mc. 9, I 4-29 è stato ipotiz­ zato che il passo risultasse dall'elaborazione di due forme della stessa storia; il testo di Matteo e in linea di massima anche quello di Luca

3 28

Mt. I 7,1 4-2 1 . La guari gione del giovane e p ilettico

corrisponderebbe abbastanza precisamente alla prima versione di que­ sto racconto. Evidentemente la storia continuò dunque a essere narra­ ta anche in questa forma più breve. Il v. 1 8 indica che Matteo ha cono­ sciuto la versione marciana. Solo in Marco la minaccia di Gesù è in­ fatti rivolta giustamente contro il demone che t=' evangelista ha già men­ zionato prima e che uscirà subito dopo, mentre in Matteo essa è diret­ ta di fatto contro il malato. La guarigione viene descritta molto breve­ mente con parole che ricordano 8,13 ( v . ad loc.). La fede dell' «uomo», come scrive Matteo il quale predilige questo termine che si adatta a ogni lettore, viene raffigurata con la genuflessione, l'apostrofe «Signo­ re» (cf. a 8,2) e l'invocazione «abbi pietà» aggiunta anche in 1 5,22 (cf. 9,27). La malattia, descritta minuziosamente da Marco, viene definita molto brevemente, secondo la concezione medica antica, «mal lunati­ co» (così solo Matteo, anche in 4,24): Si menziona ugualmente l'inca­ pacità dei discepoli (v. 1 6), ma non la loro discussione con gli scribi. Sebbene costoro non vengano più nominati (Mc. 9, I 4), lo sfogo di Gesù (v. I 7) è diretto certamente, nell'intenzione di Matteo, contro tutto il popolo, non contro i discepoli che infatti raggiungono Gesù solo al v. 1 9 (cf. a I 3 , I 6 s.). Tuttavia Matteo integra l'esclamazione di Gesù secondo il tenore dell'accusa mosaica nei confronti d'Israele ag­ giungendo «generazione perversa» (Deut. 3 2,5). In maniera più netta di quanto non faccia Marco, Matteo considera la storia solo un esem­ pio per un insegnamento sulla fede. Perciò tutto è concentrato sulla esperienza di fede dei discepoli: si omettono l'incredulità degli scribi e il magnifico dialogo sulla fede del Padre che è minata sul nascere dal­ l'incredulità (Mc. 9,22-24). Ai discepoli che gli «si avvicinano» (v. 1 9; v. a 8,2) Gesù rimprovera la loro «poca fede» (v. 20; alcuni manoscrit­ ti, rifacendosi al v. I 7, leggono «incredulità»). Sebbene in Matteo i di­ scepoli fondamentalmente credano, la loro fede si fa incerta quando è sottoposta a una sollecitazione superiore alle proprie forze, così che essa comincia a guardare in qua e in là, messa com'è tra Gesù e la sol­ lecitazione o pericolo che le si avvicinano (v. a I 4,3 I e a Mc. I r ,23). La storia si avvia ora verso il detto conclusivo di Gesù sulla fede come un granel di senape che si trova simile in Mc. I I ,22 s. = Mt. 2 I ,2 I. Qui si dovrebbe avere la forma più antica (v. a Mc. I 1 ,23) che anche Paolo ha conosciuta ( 1 Cor. I 3,2). Paralleli giudaici parlano solo della sagacia che sposta le montagne con la quale gli scribi sanno interpretare sot­ tilmente, spaccando i capelli, le parole della legge. Il paragone con il

Mt. 1 7,22 s. Secondo annuncio della passione

3 29

«granello di senape>) si trova anche in Le. 1 7,6 mentre il riferimento alla «montagna» in Mc. 1 1 ,23; in entrambi questi ultimi passi è poi no­ minato il >, come formula Matteo in voluto contrasto con il v. 1 6, usando il medesimo verbo. Ancora una volta per Matteo la fede include molto decisamente il potere di compiere guarigioni carismatiche (cf. excursus a 7, 1 3-23 [2]). Forse egli pensa addirittura che la poca fede di quella volta abbia lasciato il passo a una fede più grande dopo la promessa del Risorto (28,2o); tuttavia anche Matteo parla della tentazione cui è esposta la comunità (v. a I J,4 I ss.; capp. 2 1 -2 5). Ha forse omesso Mc. 9, 1 4b- 1 6 perché ai suoi giorni il dialogo tra farisei e discepoli di Gesù è interrotto ? Secondo annuncio della passione, I 7,22 s. (cf. Mc. 9,30-32; Le. 9,43-4 5) 2 2 Ma quando si radunarono in Galilea Gesù disse loro: Il Figlio dell'uomo verrà consegnato nelle mani degli uomini z 3 e lo uccideranno e il terzo gior­ no verrà risuscitato. Ed essi furono profondamente rattristati.

330

Mt. 1 7,24-2.7. La questione della tassa per il tempio

12-2 3· La seconda predizione della passione è abbreviata nella parte introduttiva {v. 22). Si omette il particolare che Gesù voleva restare nascosto (Mc. 9,30). Non si dice chi sia il sogget�o di «radunarsi»; pro­ babilmente si tratta dei discepoli che sono stati nominati prima. L'in­ dicazione «in Galilea» che non si adatta al contesto di Matteo viene da Mc. 9,3 0. O si dovrebbe pensare ad attese messianiche del popolo (cf. Le. 9,43; Gv. 6, 1 5) in contrapposizione delle quaJi Gesù ha formulato l'annuncio della passione ? Luca conosce questa pr edizion e in una sin­ golare forma abbreviata che potrebbe risalire allo stesso Gesù ed esse­ re la forma originaria dell'annuncio della passione che venne più tardi elaborato ulterior�ente: «Il Figlio dell'uomo verrà consegnato nelle mani degli uomini (in aramaico: dei figli degli uomini>>). Questa forma sembra influenzare il testo di Matteo; la forma verbale (letteralmente: « è in procinto di essere consegnato») concorda con Le. 9,44 contro Marco. Invece la predizione della risurrezione che manca in Le. 9,44 è riprodotta (v. 23) secondo la forma di 1 6,2 1 e la formulazione di pu­ gno di Matteo «furono profondamente rattristati» si trova anche nella parabola di 1 8,3 1 . Mentre Mc. 9,3 2 recita: e descrive la de­ cisione definitiva di Dio (v. 14). La medesima costruzione appare nella pericope immediatamente successiva (I 8, I 5 - 1 8) che regola la procedu­ ra della comunità quando uno dei suoi membri sia caduto in peccato. Probabilmente la comunità ha definito con queste e simili sentenze il diritto in base al quale lo Spirito di Dio stabilisce l'ordinamento della comunità (cf. a 5 , I 9 intr.). Poiché il v. I7 parla di pagani e pubblicani com'era possibile solo in comunità strettamente giudeocristiane, ma non in Matteo stesso (cf. 2 1 ,3 2.43; 28,I 9), almeno questo versetto risa­ le alla tradizione. Solo il detto tradizionale di 5,46 s. offre un reale pa­ rallelo. Paolo, in quanto ex fariseo, può sì parlare una volta in termini negativi del vivere alla maniera pagana, ma non dei pagani stessi e per 3 Gv. 7 i pagani sono già i non cristiani. La regola nominata ai vv. I 5 e 22 corrisponde a quella di Le. 1 7,3 s. che segue direttamente il detto sullo scandalizzare (vv. 6 s. = Le. 1 7, 1 s.). Matteo sviluppa dunque la regola tramandata anche in Le. 1 7,3 s., ne riprende la seconda metà ai vv. 2 I s. illustrandola con la parabola del servo perfido che egli collega chiaramente al tema del v. 2 1 mediante il versetto conclusivo (v. 3 5 ). È quindi possibile osservare quanto segue. 1. Con 1 7,24-27 Matteo colloca tutto il capitolo sotto il tema della fedeltà al giudaismo e della nuova libertà della comunità di Gesù. 2. Matteo pone ciascuna delle due parabole, quella della pecora smarrita e quella del servo perfido che non vuole perdonare, in una chiara cornice mediante il rispettivo tema tradizionale (v. I o : «uno di questi piccoli»; v. 2 I : perdono del fratello) e un detto conclusivo che riprendeva il tema alla lettera (v. 1 4 e v. 3 5). 3· I logia di Gesù raccolti in L e. I 7, 1 -4, dove sono collegati con il detto ripreso dal contesto marciano da Matteo qui al v. 6, si tro­ vano ai vv. 7. 1 5.2 1 . Lo schema è quindi dato dapprima da Marco, ma viene continuato con i logia di Gesù collegati in Q con il primo detto (Le. I 7, 1 -4). 4 · Tanto nella parabola della pecora smarrita quanto nel regolamento relativo alla procedura da seguire con il fratello che ha peccato si ritrova lo schema di proposizioni condizionali seguite da una sentenza con la formula «amen, vi dico» che descrive la decisione di Dio valida per l'eternità. CD I J ,9 s. mostra che entrambi i temi so­ no sostanzialmente contigui: anche in quell'ordinamento il dovere del-

Mt.

I 8, I - s .

Essere fanciulli

33 5

l'ispettore di prendersi cura dei traviati come fa un pastore con il suo gregge è strettamente collegato con il compito di «sciogliere tutte le catene che li legano)) (cf. qui v. r 8b). A chi va attribuita la paternità degli ampliamenti del materiale tra­ dizionale preesistente ? Il dibattito sulla tassa del tempio dovrebbe es­ sere stato inserito da Matteo, come suggeriscono ragioni di stile. An­ che le cornici nelle quali vengono sistemate le due parabole vanno at­ tribuite a Matteo, come si può dimostrare esaminando i vv . 21 e 3 5 (v. ad loc. ). Certamente il tema del v. 2 1 gli è stato fornito dal detto di Le. 1 7,4 e al v. I o dal logion di Mc. 9,42 o Le. 1 7,2 (= r 8,6). Che una certa somiglianza della costruzione (v. a 5 , 1 9) permetta di argomentare una origine prematteana dei vv. 3- 5 . 1 2 s. r 5 - 1 8 è molto dubbio. La funzio­ ne delle proposizioni condizionali è molto diversa. Quantomeno la co­ struzione dei vv. 1 - 5 (v. ad loc. ) risale a Matteo. Allora è meglio sup­ porre che Matteo abbia formulato di suo pugno la parabola dei vv. 1 2 s., già fissa nelle linee principali, e abbia forse anche integrato le regole vigenti nella sua comunità (vv. 1 5 - 1 7) mediante il principio d el v. 1 8. La parabola del debitore proviene dalla tradizione particolare (v. ad loc. ), ma viene unita da Matteo ai vv. 2 1 s.

In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù e dissero: Chi è dun­ que il più grande nel regno dei cieli? 2 E Gesù chiamò a sé un bambino e lo fece stare ritto in mezzo a loro 3 e disse: Amen, vi dico: se non tornate indietro e diventate come i fanciulli, non entrerete mai nel regno dei cieli. 4 Chi d unqu e si abbasserà al liyello di questo bambino sarà lui il più gran­ de nel regno dei ci eli . 5 E chiunque accoglierà un simile fanciullo per il mio nome accoglie me stesso. 1

Dopo aver inserito l'episodio del tributo per il tempio Matteo ri­ torna al testo di Marco, rimodulando però la pericope: omette il prin­ cipio che il maggiore debba essere il servo di tutti (Mc. 9,3 5), che ap­ pare di nuovo in Mc. 10,43 = Mt. 20,26 s., e al suo posto inserisce i vv. 3 e 4 (v. sopra). In questo modo si ha un vero dialogo secondo lo schema che si trova anche nelle trasformazioni delle storie di miracolo compiute da Matteo (v. 8, 1 -4 intr.): una introduzione presenta colui che pone la domanda che viene esposta in discorso diretto; la risposta di Gesù avviene mediante un gesto che contiene un insegnamento

3 36

Mt. 1 8,1-5. Essere fanciulli

(nelle storie di miracoli, ad esempio, mediante una guarigione) e un insegnamento direttamente riferito alla domanda (cf. vv. I b.4b: «il più grande nel regno dei cieli)>). Il primo dei detti che vengono inseriti ex novo esiste in quattro versioni: Mt. 1 8, 3 ; Mc. I o, r s ; Gv. J , J · 5 · Comu­ ne a tutti è l'introduzione «amen, vi (ti) dico, se (chi) non ... )> e la for­ mulazione «non entrare nel regno di Dio (dei cieli))> (fatta eccezione per Gv. 3,3 : v. sotto). Poiché Giovanni non parla mai, salvo che in 3,3 . 5 , del regno di Dio, l'espressione proviene certamente da un detto a lui già noto, cioè dal v. 5 . Gv. 3,3 è dunque la riformulazione gio­ vannea che parla solo della nascita dall'alto e della > si trova solo in Gv. 1 I , 56 e sei volte in Mat­ teo ( 1 7,2 5 ; 2 1,28; inserito di nuovo in 22, I 7.42; 26,66). È anche più facilmente comprensibile il passaggio da «nel deserto>>, cioè la steppa con scarsa erba (Le. I 5 ,4), a «sui monti>> (Mt. I 8, I 2 ), che non il per­ corso inverso. In Le. I 5,6 la descrizione della gioia fa parte del raccon­ to della parabola, mentre in Mt. I 8, I 3 suona come una sentenza di da : scalica che ne voglia formulare il significato. Il diverso orientamento della parabola in Matteo è soprattutto visibile nel v. 14 dove la sua in­ terpretazione non riprende la gioia di Dio quale punto focale della pa­ rabola, come fa Luca (I 5,7), ma parla con tono monitorio della (v. 1 6) e l'esatta analogia tra quan­ to avviene «sulla terra» e quanto avviene «in cielo» lega il v. 1 9 al v. 1 8. Il collegamento dovrebbe essere stato stabilito già prima di Matteo perché egli di solito non compone sulla base della catena terminologi­ ca. Forse si tratta nuovamente di un detto con la formula «amen, vi dico», ma in alcuni manoscritti manca l'amen (come in 1 9,24 vicino a

1 9,2J ). 1 9-20. Mentre nella comunità giudaica servono almeno dieci uomi­ ni perché si possa pregare insieme, simili regole sono abrogate per i discepoli di Gesù: si promette l'esaudimento già alla preghiera comu­ ne di due persone (cf. 2 I ,22 [alla fine di 2 1 ,2 1 si ha il medesimo verbo greco di 1 8, 1 9]). Nel contesto ciò significa che quello che la comunità lega o scioglie verrà confermato da Dio. «Una qualsiasi faccenda» si­ gnifica certamente come in 1 Cor. 6, 1 una «lite» tra membri della co­ munità. L'autorità della parola della comunità è dunque l'autorità del­ la sua preghiera. In verità si dà per scontato, come in 7,7- 1 I (v. ad loc. ) , che si preghi secondo la volontà di Dio, come Gesù ha insegnato ai suoi discepoli con il Padrenostro. Ancora più importante è la pro­ messa della presenza di Gesù (v. 20). Gesù parla come se fosse già asceso in cielo: infatti i suoi discepoli sono riuniti nel suo «nome». Il nome di Gesù (cf. a 6,9) è come un potere che aleggia sulla comunità

Mt. I 8,� I-3 S · Il pericolo di perdere la grazia

3 49

ed è spesso direttamente associato alla potenza dello Spirito (1 Cor. 6, 1 1; cf. 5,4; Atti 4,7 s.). Nel suo nome si proclama e vengono cacciati demoni (7 ,22 ), nel suo nome si battezza (v. a 28, 1 9 ), lo si pronuncia nella professione di fede (24,9; Atti 4, 1 7 s.; E br. 1 3, r 5 ). Qui parla quindi il Glorificato (cf. 28,20). Nella situazione in esame non ha al­ cun ruolo né l'istituzione né la dimensione della comunità né il luogo sacro o la benedizione di un incaricato né il successo visibile nel mon­ do. Unicamente la presenza di Cristo separa la comunità dal mondo. Conoscono la potenza di questa presenza di Cristo tanto il libro degli Atti (ad es. Atti 4,9- 1 2) quanto le lettere di Paolo (ad es. I Cor. 5,J s.), tanto Giovanni (ad es. Gv. 1 4, 1 2- 1 4) quanto l'Apocalisse (ad es. Apoc. 2 , 1 ) . Ciò costituisce l'adempimento escatologico di og ni anelito del­ l'Antico Testamento: alla presenza dello Sconosciuto è subentrata ora la presenza del Conosciuto, di colui che pu ò essere chiamato con un nome, la presenza di Gesù Cristo stesso. Così Gesù occupa ora il po­ sto della legge, della quale si dice in una sentenza giudaica: «Se due siedono insieme e tra di loro ci sono parole della legge, allora la Pre­ senza (di Dio) dimora tra di loro». Se l'ultimo versetto del vangelo promette questa presenza di Gesù a coloro che osservano i suoi co­ mandamenti, qui si vede chiaramente come la preghiera vada posta al centro di questi comandamenti. Il pericolo di perdere la grazia, I 8,2. 1 -3 5 (cf. Le. 1 7,4) 2 1 Allora Pietro si avvicinò e gli disse: Signore, quante volte mio fratello

potrebbe peccare contro di me e io dovrei (ancora) perdonarlo ? Fino a set­ te volte? 22 Gesù gli dice: No n fino a sette volte, ti dico, bensì fino a set­ tanta volte sette. - 2 3 Perciò il regno dei cieli venne paragonato a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24 E quando cominciò a fare i conti gli fu portato uno che gli doveva diecimila talenti. 2 5 Ma poiché non era in grado di pagare il padrone ordinò che fosse venduto insieme con la moglie e i figli e ogni suo avere e saldare così il conto. 26 Allora il servo si prostrò ai suoi piedi e disse: Abbi pazienza con me e ti pagherò t ut to ! 27 Allora il padrone ebbe pietà di quel servo e lo lasciò andare libero e gli rimise (anche) il debito. 28 Allora quel servo uscì fuori e s'imbatté in uno dei suoi conservi che gli doveva cento denari e lo afferrò e lo strinse al collo stroz­ zandolo e disse: Quando hai un debito pagalo! 29 Allora il conservo si prostrò, lo implorò e disse: Abbi pazienza con me e ti pagherò! 30 Ma egli non volle, ma si incamminò e lo gettò in prigione finché non avesse pagato

3 50

Mt.

1 8,2. 1 -3 5 · Il pericolo

di perdere la grazia

il debito. 31 Ora qu ando i suoi conservi videro ciò che avvenne, si risenti­ ro no e an darono e riferirono al padrone tutto ciò che era successo. 32 Al­ lora il p adro ne co nvocò quel tale e gli disse: Servo malvagio, io ti ho rimes­ so quell'enorme debito perché mi avevi i mpl o rato ; 33 non avresti dovuto avere anche tu pietà del tuo conservo come io l'ho avuta di te? 34 E il pa­ drone si adirò e lo consegnò agli aguzzini finché non avesse saldato tutto quanto il debito. 3 5 Così vi farà anche il Padre mio celeste se non perdona­ te di tutto cuore ciascuno il proprio fratello.

Ai vv. 2 1 s. segue una variante del secondo dei detti uniti in Le. 1 7,3 Il detto è presente, in forma più ampia, anche nel Vangelo dei Na­ zarei ( 1 5 ): fondendo le forme di Matteo e Luca esso è diventato anco­ ra p iù netto: si deve perdonare fino a 70 volte 7 (Matteo) nel medesi­ mo giorno (Luca). Dopo le osservazioni minuziose al v. 1 5 nei yv. 1 620 il tema deve essere ·ripreso ex novo. Così Matteo, com'è tipico del suo stile, fa avvicinare Pietro (cf. a 8,2). Entrambi i momenti sono qui nuovamente visibili: dove si tratta di questioni dottrinali Pietro passa in primo piano (cf. a 1 6, 1 9 e 1 8, r 8); ma Pietro stesso è un «discente>> e dipende dalle istruzioni di Gesù. Egli chiede quante volte si debba «perdonare il fratello». Con la medesima frase Matteo fa terminare anche la parabola che egli introduce dunque per illustrare la risposta di Gesù. Sia l'introduzione (vv. 2 I s. = Le. 1 7,4) sia la parabola sono materiale tradizionale prematteano; anzi nella parabola non si parla neanche di un perdono ripetuto, così che qui non è del tutto pertinen­ te. È una parabola ampia ed elaborata che Matteo conosce forse dalla tradizione particolare (cf. a 1 3,24-30). Il punto della parabola viene messo in evidenza con espedienti stilistici: il v. 26 è quasi identico alla lettera con il v. 29; la chiusa del v. 30 è formulata come quella del v. 3 4; «uno» (accentuato) ... che gl i «doveva» (v. 28) richiama il v. 24: «Un (accentuato) debitore» . Poiché la situazione tra padrone e servo corrisponde così esattamente a quella tra servo e conservo, il modo di agire del servo diventa così incomprensibile mentre diventa così com­ prensibile la punizione corrispondente a quel comportamento decre­ tata alla fine dal padrone. Per il v. 23a v. sopra, p. 283. � I -3 5· Diversamente da quanto avvenuto fin qui, ora si parla del peccato commesso contro l'interrogante (v. 2 I ) . Pietro ha imparato alla scuola di Gesù che il perdono deve prendere il posto della rivalsa; eppure egli continua a chiedere quali siano i limiti (cf. a 5,2 I -48). Egli è dunque lontano solo quantitativamente, non sostanzialmente, dal s.

Mt. 1 8,2 1 - 3 5 · ll pericolo di perdere la grazia

35I

principio giudaico che si dovesse perdonare una, due e tre volte, ma non quattro volte (tuttavia qui si tratta del perdono divino). Anche Pietro continua a parlare di numeri, invero arrivando già fino a sette (v. 22). Ma la risposta di Gesù toglie qualsiasi limite, sia che si traduca 70 x 7 volte sia 70 + 7 volte. Il tenore ricorda il canto di vendetta di Lamec (Gen. 4,23 s.) che vuole esercitare la vendetta un altrettanto numero di volte. Il mondo che porta impresso il peccato di Adamo viene guarito media.nte il discepolo di Gesù. In verità ciò vale solo per la versione matteana che viene palesemente adattata all'Antico Testa­ mento greco. Qui, a differenza di Le. I 7,4, non si parla neanche del ravvedimento del fratello. Test. Gad 6 consiglia il perdono persino nei riguardi dell'insolente. L'uomo non finisce quindi mai di amare (Rom. I J ,8 a) . Dio appare nelle vesti di un re, come spesso nelle parabole giu­ daiche (v. 23); tuttavia si esagera consapevolmente perché gli atti di Dio superano immensamente ogni atto umano. La somma di denaro supera i 50 milioni di denari: si pensi che I denaro era il normale sala­ rio giornaliero di un lavoratore (v. a 20,2) e che tutte le entrate annuali di Erode ammontavano a soli 900 talenti, mentre il gettito delle impo­ ste di Galilea e Perea insieme era di 200 talenti: allora si ha una chiara idea dell'enormità del debito, una cifra q�asi impensabile anche per l'amministratore di una intera provincia. Si usano la cifra più alta in assoluto utilizzata per i conteggi e la più grande unità monetaria cir­ colante nell'area mediorientale (v. 24). Che il servo «venga portato>> davanti al padrone potrebbe significare che fosse già in carcere perché si era scoperto che era un truffatore. La vendita non solo del debitore, ma persino di tutta la sua famiglia non è diritto israelitico; si sa tutta­ via che re pagani seguissero tale prassi (2 R e 4, I : i figli, ma non la mo­ glie; cf. /s. 5o, I; Am. 2,6; 8,6; Neem. 5, 1 - 1 3). Il diritto giudaico proteg­ ge notevolmente e autorizza la vendita solo in caso di furto (v. 2 5). Il gesto del debitore che si getta in ginocchio mostra la sua disperazione (v. 26) e ancora più la promessa inadempibile di una restituzione tota­ le della somma dovuta. La compassione (v. a 20,34) del padrone è inaudita: non solo gli concede una proroga, ma gli condona completa­ mente il debito. Interessante è il termine tradotto con «debito» che propriamente significa «prestito» : forse perché tutto ciò che l'uomo ha gli è stato dato in prestito da Dio (v. 2 7) ? Ma forse il termine è stato usato in aramaico in senso più generale. Il debito del conservo è I j 5oo ooo di quanto è stato appena condonato al servo. Perciò la frase

3 52

Mt. 1 8,z 1 -3 5 . 1 1 pericolo di perdere la grazia

moralmente corretta e giuridicamente ineccepibile, «se hai dei debiti, pagali», suona vuota e grottesca (v. 28). E di nuovo si svolge la mede­ sima scena di prima (v. 29). Ma diversa è la reazione del servo (v. 30). Dopo tutto quello che è successo in precedenza è una reazione inaudi­ ta e veramente sconvolgente. In Palestina non è comune la carcerazio­ ne per debiti, ma lo è certamente in altri paesi del bacino del Mediter­ raneo. La seria preoccupazione degli altri servi è comprensibile (v. 3 1 ); in 1 7,23 è descritta con le medesime parole la r"eazione della co­ munità di Gesù. La conseguenza inevitabile non può essere altro che la sentenza di condanna del re. Questa è presentata sotto forma di do­ manda così che il colpevole stesso e con lui gli ascoltatori della para­ bola devono dare la risposta (vv. 3 1 -3 2). Anche la tortura è malvista in Israele, ma la si conosce dai paesi confinanti e persino dalla corte di Erode. La frase finale mostra la disperazione: come potrebbe mai ri­ pagare l'enorme somma del suo debito {v. 34) ? Qui la formulazione è perfettamente analoga a quella del servo nei riguardi del suo conservo (v. 3 0). Se la parabola della zizzania, che per la forma è notevolmente affine alla nostra, era già caratterizzata da tratti eccezionali che suggeriscono come il regno di Dio vada oltre tutte le immagini umane, più che mai ciò è vero qui. L'atto misericordioso di Dio, inimmaginabile e in con­ traddizione con ogni diritto umano, è messo in tale risalto che l' ascol­ tatore può solo restare stupito, anzi infervorarsi per esso. Così incom­ prensibilmente grande è la benevolenza di Dio verso l'uomo, la sua strana giustizia che ristabilisce l'uomo e non lo distrugge. Quando la benignità di Dio si manifesta viva nella proclamazione di Gesù e in tutta la sua opera e riplasma il mondo, ciò può essere paragonato solo alla creazione. Tuttavia sarebbe altrettanto inimmaginabile che l'uo­ mo non vivesse di questo, ma incontrando il prossimo potesse gettare via tutto ciò che gli è appena capitato. Paolo parla della giustizia di Dio in termini non diversi: è una giustizia che in maniera totalmente incomprensibile per la mente umana rende l'uomo peccatore figlio di Dio, ma così vuole anche vivere in lui e dare la propria impronta a tutto il suo comportamento verso il prossimo (Fil. 2, 1 - 1 3; Rom. 1 2, 1 ; 2 Cor. 8,7-9; cf. excursus a 5 ,6). Così una parabola conclude questo capitolo I 8 nel quale con colori sgargianti e pennellate quasi troppo pesanti si dice che la comunità può vivere, e invero deve vivere, sol-

Mt.

19, 1 - 1 .2.

La vita nel matrimonio

3 53

tanto della inconcepibilmente grande grazia di Dio. Quanto a Matteo egli sottolinea di proprio pugno, con l'ultima sentenza, solo l'ammo­ nizione alla comunità e la minaccia del giudizio universale che vale anche per essa se non dovesse vivere come comunità che perdona. In tutto il capitolo Matteo mira soltanto ad aiutare la comunità a vivere realmente come comunità. La giustizia della comunità dovrebbe esse­ re più grande di quella dei farisei ( 5 ,20); non lo sarà se ci si limita a proclamare la libertà dalla legge ( 1 7,24-27). Soltanto q uando i] c uo re è diventato nuovo e l'uomo è ritornato come bambino egli vive da di­ scepolo di Gesù ( r 8,3). Matteo sa il pericolo nel quale vivono proprio i piccoli di Gesù; alcuni si sono già perduti. Così Matteo può solo mettere in guardia dal dare scandalo, esortare a non abbandonare lo smarrito, fare avere ogni aiuto e impegnarsi al massimo per colui che si è reso colpevole, al fine di ricuperarlo; ma tutto questo va fatto sen­ za mai portare rancore quando si è stati personalmente insultati o danneggiati, trasmettendo ad altri il perdono che sgorga dal g ran de perdono di Dio del quale viviamo. Infatti dove il grande perdono ri­ cevuto non viene realmente vissuto esso deperisce per il mancato uti­ lizzo e si spegne. La formula «con tutto il cuore)> (v. 3 5) che appare nel comandamento dell'amore verso Dio (22,3 7) è già stata riferita an­ che al comportamento verso gli uomini in Iub. 3 5, 1 3 ecc. La vita nel matrimonio, 1 9, 1 - 1 1. (cf. Mc. I O, I - 1 2 ) 1

E avvenne, quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, lasciò la Galilea e giunse nella regione della Giudea, di là del Giordano. 2 E grandi folle lo seguirono ed egli li guarì là. 3 E farisei si fecero avanti, lo misero alla prova e dissero: È lecito mandare via la moglie per qualsiasi causa? 4 Ma egli ri­ spose e disse: Non avete letto che fin dall'inizio il creatore «li ha fatti ma­ schio e femmina» 5 e disse: «Perciò un uomo lascerà suo padre e sua ma­ dre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne» ? 6 Dunque non sono più due, ma una sola carne. Ora ciò che Dio ha unito in coppia l'uomo non divida. 7 Allora gli dicono: Ma perché mai Mosè ha comanda­ to «di dare una lettera di ripudio e di mandare via» ? 8 Egli dice loro: Mosè vi ha permesso di mandare via le vostre mogli a causa della vostra durezza di cuore. Ma al principio non è stato così. 9 Ma io vi dico: Chi manda via la moglie, salvo che per fornicazione, e ne sposa un'altra, commette adul­ terio. Io Allora i suoi discepoli gli dicono: Se la faccenda tra marito e moglie è messa così, allora non conviene sposarsi. 1 1 Ma egli disse loro: N on tutti

3 S4

Mt. 19, 1 - 1 2. La vita nel matrimonio

comprendono questa parola, ma solo coloro ai quali è dato. 1 2 Poiché ci sono eunuchi che sono nati così dal grembo materno e ci sono eunuchi che sono stati resi eunuchi dagli uomini e ci sono eunuchi che hanno fatto se stessi eunuchi a motivo del regno dei cieli. Chi può capirlo, lo capisca. 4 Gen.

1,17. S

Gen.

2,24; Ef. 5,3 I . 7 Deut. 2.4, 1 . 8 s. cf. 5 ,3 1 s.; Mal. 2,1 S ·

1 -9. La formula all'inizio mostra che Matteo ha inteso il cap. 1 8 come una unità; essa si trova sempre alla conclusione di unità discor­ sive maggiori (cf. a 7,28). Già con l'indicazione topografica Matteo ritorna al racconto di Marco, in verità omettendo la congiunzione «e» tra «Giudea» e «di là del Giordano>>, così che si potrebbe credere che ci fosse stata una Giudea transgiordana che invece non esisteva (v. I ) . L'ordine delle due regioni era già invertito in Marco così che Matteo voleva forse correggere l'itinerario e dire che Gesù era andato in Giu­ dea, precisamente di là del Giordano. Quanto alle folle (v. 2) egli non si limita a dire come Marco che accorsero, ma dice che seguì Gesù. Matteo distingue dunque il popolo dalle autorità che rifiutarono Ge­ sù; solo in 27,2 5 (v. ad loc. ) il popolo si schiera dalla parte delle sue guide. Infine Matteo sostituisce all'insegnamento di Gesù le sue gua­ rigioni, un'attività che è per lui estremamente importante. Il dialogo sul matrimonio (vv. 3-9) coincide in larga parte eol testo di Marco, ma è articolato in modo nuovo risultando ora conforme allo schema di una disputa giudaica. La riorganizzazione comporta anche un cam­ biamento del contenuto. Che i farisei vogliono ora mettere Gesù alla prova è detto subito all'inizio del v. 3, senza aspettare la fine come in Marco. Se è lecito tradurre come si è fatto sopra, la domanda dei fari­ sei è una tipica interrogazione sulla legge come quelle che animavano al tempo i dibattiti tra i capiscuola Hillel e Shammai: se cioè fosse suf­ ficiente «una qualsiasi causa» per ripudiare la moglie (cf. a Mc. 1 0,2). Allora la domanda non sarebbe più, come in Marco, se sia lecito di­ vorziare affatto; che lo si possa fare è dato già per scontato. Tuttavia l'espressione significa forse, come quando è costruita con una nega­ zione (24,22), «per qualche causa», così che Matteo non sarebbe so­ stanzialmente diverso da Marco. Ma in ogni caso l'insegnamento di Gesù si trova subito al principio: la legge dell'Antico Testamento ri­ mane valida, solo che va capita nel senso dell'interpretazione di Gesù. Tuttavia essa contiene il radicale rifiuto del divorzio motivato con Gen. I ,2 7 e 2,24 (che Matteo integra seguendo la Bibbia greca). Il di­ battito prosegue nella giusta forma, contrapponendo Scrittura a Scrit-

Mt. 19, 1 - 1 2. La vita nel matrimonio

355

tura e gli avversari oppongono il comandamento della lettera di ripu­ dio (v. 7 ) . Gesù non lo nega, ma lo definisce una mera concessione in considerazione della loro durezza di cuore. Quella concessione non valeva «fin dal principio», come si ribadisce ripetendo il termine del v. 4· A questo punto si ha anche in Marco la frase «dal principio» ! Men­ tre in Marco gli oppositori chiedono due volte di sapere che cosa sia ancora «lecito» e Gesù chiede che cosa sia «comandato», in Matteo si ha la situazione inversa: gli avversari calano la briscola del «comanda­ mento» di Mosè (v. 7) mentre Gesù lo stima una semplice , una concessione e così lo svaluta (v. 8). L>argomento che ciò che è precedente annulli ciò che è successivo in caso di contraddizione è usato anche in Gal. J, I 7 e giudeocristiani hanno dichiarato che tutti i comandamenti emanati dopo l'episodio del vitello d'oro (Es. 3 2) sa­ rebbero nulli (Didascalia 6, 1 6, I = Const. Apost. 6,20, I; Ps. Clero., Ree. I ,J 5 s.). La disputa si chiude (v. 9) come in Mc. I O, I I con aggiunta l'introduzione «ma io vi dico» che richiama 5,22 anche se l' «io» non è così accentuato come in quel passo dove si contrapponeva al coman­ damento dell'Antico Testamento. Mc. I O, I 2 viene omesso perché nel giudaismo è impossibile per la donna ripudiare il marito. Per contro viene ammesso il divorzio in caso di fornicazione (secondo uno dei migliori manoscritti il tenore è letteralmente identico a 5,32: v. ad loc. ); in questo modo si ristabilisce fondamentalmente la tradizione più severa degli scribi della scuola di Shammai. Strutturato come disputa il dialogo risulta molto più logico: al ri­ chiamo alla storia della creazione con il quale Gesù attacca le premes­ se altrui già alla radice, i farisei controbattono con un altro passo della Scrittura che Gesù definisce una mera concessione. A dire il vero l' ar­ gomentazione è più debole che in Marco. Soprattutto l'ammissione, aggiunta da Matteo, del divorzio in caso di fornicazione è un ritorno alla prassi e alla comprensione degli avversari di Gesù. Viceversa il contrasto diventa più netto in quanto gli oppositori partono già dal presupposto che la possibilità di divorziare sia ovvia mentre questo è proprio ciò che Gesù contesta. 10-1�. L'annesso dialogo con i discepoli si trova soltanto in Matteo. Secondo Mc. I o, I o essi si troverebbero all'interno della casa; tuttavia Matteo ha omesso questo versetto così che per lui Gesù si trova certo da qualche parte in cammino e solo i vv. I I s. sono messi in evidenza in quanto ammaestramento dei discepoli. Il detto di Gesù viene defi-

3 56

Mt.

19, 1 - ! .2. . La vita

nel matrimonio

nito due volte un mistero di Dio che deve essere donato da Dio al­ l'uomo perché questi non sarebbe in grado di capirlo da solo. Il v. I I andrebbe meglio alla fine e si è pensato se Matteo non abbia spostato in avanti questo detto sostituendo lo, al contempo, con l'attuale frase conclusiva (v. 1 2d) per rendere chiaro fin dall'inizio che il detto vale unicamente per i discepoli. Mediante la domanda dei discepoli (v. I o) Matteo unisce comunque, secondo il modello di I 9,2 5 , questi versetti con_la pericope precedente; inoltre la parola tradotta «faccenda>> è la stessa usata al v. 3 nel senso di «causa>>. In questo modo, all'obbligo del matrimonio, cui il giudeo osservante non poteva praticamente sot­ trarsi (ma cf. Sap. J , I J s.), si contrappone, per casi particolari, il celi­ bato. Singolare è il termine spregiativo «eunuchi)). Essi sono esclusi dal popolo di Dio aricora più severamente dei pubblicani: la legge di Dio vieta loro espressamente l'accesso alla comunità (Deut. 23, 1 ). Un animale castrato non è utilizzabile nemmeno per il sacrificio (Lev. 22, 24). Gesù interviene quindi in favore di coloro che erano disprezzati da tutti e considerati inesistenti. È possibile che i suoi avversari abbia­ no chiamato lo stesso Gesù e forse anche alcuni dei suoi discepoli con questo nome a motivo del loro stato di celibi. Anche un rabbi giudai­ co celibe· si è difeso così: «Che devo fare? La mia anima è dedicata alla legge: possa il mondo essere mantenuto in vita da altri! >> {Str.-Bill. al v. r 2 C). Il v. 1 2 c va certamente inteso come una metafora molto for­ te, sconvolgente (cf. ad es. 5,3 9) . Anche se fosse ancora immaginabile che Gesù o la sua comunità avessero avuto notizia di automutilazioni praticate presso altre popolazioni, sarebbe tuttavia impensabile un consiglio inteso alla lettera. Il detto riprende dunque l'espressione di­ spregiativa e spiega, contrariamente alla legge mosaica, che potrebbe essere benissimo volontà di Dio chiamare al suo servizio persone non adatte al matrimonio, anzi che ci sarebbero uomini che proprio per amore di Dio sarebbero pronti a entrare nella schiera dei celibi (cf. an­ cora a 5,32 verso la fine). Totalmente diverso sarebbe il senso se «que­ sta parola>> (v. r 1 ) si riferisse a quanto precede (vv. r -9). In questo ca­ so il detto vorrebbe dire: se altri possono sopportare persino mutila­ zioni o automutilazioni, quanto più dovreste essere capaci voi di re­ stare fedeli al coniuge! Tuttavia tale lettura è estremamente improba­ bile perché questo significato dovrebbe essere ripetuto almeno in una· frase conclusiva.

Mt. 19, 1 3- 1 5 . Il regno dei cieli appartiene ai bambini

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L'intero brano indica quanto poco Gesù sia rigidamente legalistico. Egli può parlare tanto del mistero del matrimonio indissolubile quan­ to del mistero del celibato, ed entrambi i detti possono essere veramen­ te di Gesù. Egli non pretende né il matrimonio né il celibato in gene­ rale; ma entrambi possono diventare il luogo dove servire Dio. Ad al­ cuni uomini è pertanto «dato» di vedere il senso del celibato. Si è mol­ to vicini, qui, al concetto paolino di carisma. Infatti, per quanto Paolo, a differenza del giudaismo ufficiale, valuti moltissimo il celibato, pure, a differenza dei monaci di Qumran, non pensa minimamente di im­ porlo: esso è un carisma, un dono particolare fatto a determinate per-· sone (1 Cor. 7,7). Non si parla affatto, dunque, di una doppia morale. Manca anche qualsiasi riferimento a un ideale di povertà o al significa­ to dell'ascesi (v. a 1 9,2 1 ). Gesù condivide con tutto il suo popolo il sì deciso alla buona creazione di Dio, nella quale è fondato anche il ma­ trimonio, anche se dal regno dei cieli, cioè dal futuro mondo di Dio, può essere gettata luce sul celibato. Mentre in generale l'uomo testi­ monia il suo sì alla creazione di Dio col matrimonio e con la nascita dei figli, alcuni vengono chiamati fuori dal gruppo per far ricordare al contempo la fine e il fine della creazione, il nuovo mondo di Dio nel quale non ci si sposerà ne ci si mariterà più (22,30). Il regno dei cieli appartiene ai bambini, 1 9,1 3-1 5 (cf. Mc. 1 0, 1 3 - 1 6; Le. 8, 1 5 - 1 7) 1 3 Allora gli furono portati bambini, affinché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li rimproverarono. 14 Ma Gesù disse: Lasciate sta­ t;e i bambini e non impeditegli di venire da me: a tali appartiene infatti il regno dei cieli. 1 5 E impose loro le mani e andò via di là.

Il piccolo episodio viene narrato più sobriamente che in Marco sebbene i cambiamenti nel testo siano minimi. Gesù non deve soltanto «toccare» i bambini, ma imporre loro le mani e pregare per loro. Matteo intende quindi la benedizione quale potente intercessione. Forse egli pensa alla benedizione dei bambini fatta in Palestina dagli anziani il giorno dell'espiazione; probabilmente un uso popolare vie­ ne qui cristianizzato. Vengono omessi sia lo sdegno di Gesù verso i discepoli sia la scena di Gesù che abbraccia i bambini sia anche il detto già riportato in 1 8,3 sull'animo infantile con cui si guarda al regno di Dio (Mc. 1 0, 1 5); ma l'espressione «tali», cioè «a quelli come loro», « a

358

Mt.

19,16-Jo. Seguire

Gesù liberi dai beni

persone di questo genere>>, ricorda che essere bambini risp etto a Dio non d ipende semplicemente dall'età, bensì dal dono di poter i n contra­ re Dio senza pretese e senza ris e rv e come «uno di ques ti piccoli». Seguire Gesù liberi dai beni, I9,16-3o (cf. Mc. I 0, 1 7-3 1 ; Le. 1 8, I 8-3o) 16 Ed ecco: uno gli si avvicinò e disse: Maestro, che devo fare di buono per poter ricevere la vita eterna? 17 Ma egli gli disse: Perché mi interroghi sul bene? Uno solo è il Buono! Ma se vuoi entrare nella vita, osserva i coman­ damenti. 18 Quello gli dice: Quali? Ma Gesù disse: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, 19 onora pa­ dre e madre)). E: «ama il tuo prossimo come te stesso>>. 20 Il giovane gli di­ ce: Tutto ciò l'ho osservato! Che altro mi manca? 2r Gesù gli disse: Se vuoi essere perfetto va' e vendi ciò che possiedi e da' il denaro ai poveri: così avrai un tesoro in cielo; poi vieni, seguimi ! 22 Ma quando il giovane sentì questa parola, si allontanò triste: infatti aveva molti beni. 23 Ma Gesù disse ai suoi discepoli: Amen, vi dico: un ricco entrerà diffi­ cilmente nel regno dei cieli. 24 Vi ripeto: è più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco nel regno di Dio. · 2 5 Ma quando i disce­ poli sentirono ciò rimasero molto perplessi e dissero: Chi dunque può es:­ sere salvato ? 26 Ma Gesù li guardò fissi e disse loro: Per gli uomini questo è impossibile, ma «per Dio tutto è possibile». 27 Allora Pietro si alzò e gli disse: Ecco: noi abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa ce ne verrà? 28 Ma Gesù disse loro: Amen, vi dico: Voi, voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Fi­ glio dell'uomo siederà sul trono della sua gloria, siederete anche voi su do­ dici troni e giudicherete le dodici tribù d'Israele. 29 E chiunque abbandoni per il mio nome case o fratelli o sorelle o padre o madre o figli o campi lo riceverà moltiplicato per cento ed erediterà la vita eterna. 30 Ma molti pri­ mi saranno ultimi e ultimi primi. 18

s.

Es. 20, 1 2 - 1 6; Deut. 5 , 1 6-2o; Lev.

1 9, 1 8. z6 1 8, 1 4.

Anche qui Matteo segue Marco, con variazioni tipiche. Nuova è la promessa ai d iscepoli che es s i siederanno su dodici tro n i (v. 2 5 ) . La medesima promessa si trova, in forma più ampia, in Le. 22,28 -30. Me­ diante il verbo « segui re >> Matteo collega il detto col v. 27 (cf. s , r J . I 4; 1 0, 1 7.26; I 1 ,2.20; I 5 , 1 4). In questo modo i dodici vengono distinti dai «chiunque . . . » (v. 29). Anche il riferimento al Figlio dell'uomo che sie­ de· sul trono della gloria, non consono al ruolo origin a rio di Gesù quale testi mon e in giudizio (v. excursus a Mc. 8,27-3 3), dovrebbe es-

Mt.

1 9, 1 6-Jo. Seguire Gesù liberi dai beni

3 59

sere opera di Matteo. Manca in Le. 22,30; ma in 2 5 ,3 I Matteo presenta praticamente la medesima formulazione del nostro v. 28a, entrambe le volte con una costruzione diversa («troni» al genitivo invece che al­ l'accusativo, cf. Le. 22,30) dal v. 28b che coincide sostanzialmente con Le. 22,30. Matteo ha presentato anche in 1 3 ,4 I il Figlio dell'uomo nel suo ruolo escatologico; in 24,3 .27.3 7· 39 con un particolare riferimento all' «apparizione» di Gesù ovvero del Figlio dell'uomo; in 1 6,27 e 24, 3 r ha trasformato gli angeli che accompagnano l'apparizione nei angeli. Il termine «palingenesi>>, «rinascita», tradisce un'influenza gre­ ca. Manca in Le. 22,30 che invece parla del «regno» che Dio avrebbe «lasciato in eredità» a Gesù e del banchetto apparecchiato in esso. Questa descrizione indica che sullo sfondo c'è la teologia giudaica del patto poiché in greco il verbo «lasciare in eredità» viene dalla mede­ sima radice di «patto». Il fine è la ricostituzione delle dodici tribù nel regno di Dio raffigurato come un banchetto (cf. fs. 2 5,6-8). Tuttavia soltanto Matteo menziona esplicitamente i dodici. Prescindendo dal­ l'espressione testualmente incerta «mio regno», tali immagini potreb­ bero risalire a Gesù proprio perché si riferiscono non a una comunità particolare, separata, ma a tutto Israele quale popolo del patto ricon­ quistato a Dio. L'introduzione con il riferimento alla «perseveranza» (cf. Le. 8 , 1 s; Atti 14,22; I 1 ,23; I 3,43) nelle «prove» (Atti 20, I 9; Le. 4, I 3; 8, 1 3 ) dovrebbe invero essere lucana e rimane anche dubbio se vi fossero collegate sin dall'inizio le immagini del banchetto e del giudi­ zio, due cose che in ogni caso non si possono fare contemporanea­ mente. Tuttavia si deve osservare quanto si è detto alla fine dell'intro­ duzione a Mc. 14,22-2 5 in merito a Le. 22, 1 5 - 1 8 .2 5 -30 (Mc., pp. 24 5 s.). Tuttavia Matteo ha ripreso soltanto l'idea del trono dei dodici di­ scepoli. Probabilmente è una reminiscenza del nostro detto anche Ap oc. 3,2 I dove si promette a tutti i credenti di sedere sul trono di Cristo, così come egli siederà con Dio sul suo trono. È molto improbabile che esso rappresentasse la forma originaria del logion, così come è sta­ to ipotizzato, perché l'idea figurata è già molto offuscata anche se si. mantiene ancora il parallelismo tra il dono di Gesù ai discepoli e il do­ no del Padre a Gesù (Le. 22,29). In Test. Iob 4,6 s.; 33 si trovano come in Luca la perseveranza nelle prove e troni per ricompensa, tuttavia si tratta di una rielaborazione cristiana di una tradizione giudaica. Resta dunque molto incerto se questa fosse prelucana.

360

Mt. 1 9, 1 6-Jo. Seguire Gesù liberi dai beni

I6-Jo. La rielaborazione matteana si coglie subito, fin dall'inizio, non tanto dal biblico «ed ecco>> e dall' «avvicinarsi >> dell'interrogante (v. a 8,2), quanto dalla nuova forma della domanda (v. 1 6). Matteo evi­ ta l'appellativo marciano «buon maestro» e lo sostituisce con «mae­ stro, che dovrei fare di buono ?>> (la differenza in greco è « maestro, che cosa di buono ... » invece di «maestro buono, che cosa... »). In que­ sto modo Matteo evita la difficoltà che Gesù sembri non ammettere, secondo Mc. 1 o, 1 8, di essere buono. Analogamente si segnala la rispo­ sta di Gesù che può essere spiegata solo come trasformazione della versione marciana: «Perché mi interroghi in merito al bene ?» (invece di «perché mi chiami buono ?»). Fin da A m. 5,4.6. 1 4 s.; Mich. 6,8 il giudeo sa che l'uomo non solo deve evitare il peccato, ma deve anche fare il bene; questo principio è ripreso anche dalla comunità di Gesù (Rom. 1 2,2; Gal. 6, I o; cf. Mt. 7, 1 I s.; 1 2,3 5 ). Anche l'indicazione che solo uno è buono, Dio stesso, ha un senso in Marco, ma non in Mat­ teo: infatti non c'è alcuna contraddizione tra il fare il bene, cioè ap­ punto la volontà di Dio, e il fatto che solo Dio stesso sia buono. Per­ tanto Matteo, nonostante la sua nota tendenza ad abbreviare, è co­ stretto questa volta · a riprendere ciò che sta a cuore all'interrogante: «Se vuoi entrare nella vita... » (v. I 7). In questo modo si chiede al con­ tempo quanto siano serie le sue intenzioni (cf. v. 2 I ). Matteo dice espressamente che il giovane debba «osservare» i comandamenti (così si dice spesso in Giovanni): è questo che interessa all'evangelista. Quan­ do il ricco domanda ancora una volta, cosa che non avviene in Marco, a quali comandamenti Gesù si riferisca (v. I 8), si ha forse un'allusione al fatto che il giovane stia pensando a qualcosa di più sublime dei dieci comandamenti: oppure li si vuole distinguere nettamente dai precetti rituali? Il comandamento «non sottrarre nulla» (Mc. I0, 1 9), che non rientra tra i dieci, viene omesso, e al suo posto viene aggiunto (v. I 9) il comandamento dell'amore del prossimo (Lev. I 9, 1 8; v. a 5 , 1 8), come avviene anche in catechismi giudaici (Stendahl; cf. Did. I s.). Soltanto in Matteo, e soltanto al punto nel quale l'interrogante dice in Marco di aver osservato i comandamenti sin dalla sua «giovinezza», la sua fi­ gura appare quella di un giovane (v. 20). Anche a questo punto la ver­ sione matteana è una trasformazione di quella marciana. Mentre se­ condo Mc. I o,2 I Gesù gli dice che gli manca ancora qualcosa, qui è il giovane stesso che chiede che cosa gli manchi ancora (v. 20). Si omette la reazione emotiva di Gesù che secondo Marco guardò quell'uomo

Mt.

1 9, 1 6-Jo. Seguire Gesù liberi dai beni

361

con affetto. Invece d i ciò, Matteo pone tutto quanto segue sotto la premessa «se vuoi essere perfetto» (v. 2 I ). Soprattutto questa frase ha dato luogo all'equivoco che in seno alla cerchia dei discepoli di Gesù ci fosse un livello ancora superiore, la perfezione, che non sarebbe in­ vero necessario alla salvezza, ma che poteva aspettarsi una ricompen­ sa particolare (cf. excursus al discorso della montagna dopo 7,29 [a, I ]; v. sopra, p. I 82). Questo malinteso è stato anche favorito dai prece­ denti vv I O- I 2 che venivano letti come elogio del rifiuto ascetico del matrimonio. Questa lettura corrisponderebbe più o meno alla regola della comunità monastica di Qumran dove, al momento di · entrare nella comunità, il novizio doveva liberarsi di ogni suo avere. Ma se­ condo 5,48 (v. ad loc. ) la perfezione è quel «più» che secondo 5,20 Gesù si aspetta da ogni discepolo, cioè l'amore del prossimo. Lo si impara e lo si pratica nella sequela di Gesù. Così anche la domanda del giovane, che altro gli mancasse, mostra allora, come indica chiara­ mente soprattutto la continuazione ai vv 2 3 s., che tutto continua a girare attorno all'unica questione, quella che riguarda la vita e non già una posizione particolare nella vita eterna. Come Gesù non ha preteso da tutti di seguirlo letteralmente abbandonando famiglia e beni, così non ha permesso che coloro che lo seguivano in senso proprio venis­ sero a costituire una classe superiore rispetto agli altri. Si può soltanto dire che ad alcuni viene richiesta e donata una particolare forma di servizio che conferisce a loro una maggiore responsabilità e un'attività più piena. Il detto di Gesù sui ricchi (v. 23) viene introdotto solo in Matteo con la formula «amen, vi dico: ... » (cf. a 5 , I 8 intr.). Si tralascia­ no lo sgomento dei discepoli e la ripetizione del detto (Mc. 10,24); per il resto si abbrevia leggermente, col risultato che il cammello «entra» attraverso la cruna dell'ago come il ricco nel regno dei cieli (Mc. I 0,2 5 : «passa attraverso») (vv 24-26). Nuova è tuttavia l'esplicita domanda sulla ricompensa (v. 27) e il riferimento a quanto viene promesso ai dodici in particolare: sedere sui dodici troni (v. 28). Ciò corrisponde alla domanda dei discepoli in I 8, I (v. ad loc. ) su chi fosse il maggiore nel regno dei cieli, domanda che Matteo interpreta in senso positivo. A loro verrà affidata la reggenza sull'Israele escatologico che si è ri­ costituito nella sua integrità. E Giuda? Matteo risolve il problema come Atti I ,2 I s. ? Le. 22,30 ha omesso forse il numero «dodici» (pri­ ma di «troni») perché nel suo vangelo Giuda viene smascherato pro­ prio poco prima? Sicuramente non si deve pensare a una istituzione .

.

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3 62

Mt.

1 9, 1 6-3o. Seguire Gesù liberi dai beni

permanente della comunità. Già Giacomo che muore martire (Atti I 2, 2 ) non è stato più sostituito. « Giudicare>> può significare, come nel ca­ so dei giudici d'Israele, guidare costantemente per un certo periodo. Diversamente da Luca, Matteo dovrebbe tuttavia pensare effettiva­ mente al giudizio all'inizio del nuovo eone: infatti non parla di un tro­ no eterno di Gesù; ciò gli risulterebbe difficile perché in questo modo sarebbe messo in pericolo il troneggiare dell'unico Dio che un giorno sarà « tutto in tutti» (I Cor. 1 5,2 8). Il trono del Figlio dell'uomo è la scranna del giudice (2 5 ,J I ; cf. 1 6,27; 1 3,4 1 ) e l'idea di giudici a latere è attestata in I Cor. 6,2 (cf. Dan. 7,22; Sap. 3 ,8). L'origine dell'immagine di dodici troni è forse semplicemente il pensiero che coloro che nella sequela hanno condiviso il destino di Gesù lo faranno un giorno an­ che al compimento finale. Forse c'è un'influenza di Dan. 7,9 perché alcuni rabbi sostenevano che i troni ivi menzionati fossero destinati ai grandi d'Israele. In Apoc. 20,4 si pensa forse ad anziani celesti, dunque a potenze angeliche. L'esempio più prossimo è di Filone che in un passo rappresenta i dodici patriarchi come celesti reggenti cosmici (Quaest. Ex. 2, 1 14; similmente Test. lud. 2 5; in entrambi i casi non si possono escludere influenze cristiane). L'idea di una «palingenesi» o «rinascita» risale alla filosofia greca stoica che si aspettava una confla­ grazione cosmica alla quale sarebbe seguito, ciclicamente, un nuovo universo. Scrittori giudaici di lingua greca usano il termine per indica­ re la ricostituzione d'Israele dopo un periodo di tribolazione (Giu­ seppe) oppure la rigenerazione della terra dopo il diluvio (Filone). Non esiste un termine aramaico o ebraico per esprimere tale concetto. Matteo ha dunque preso il termine dall'uso linguistico del giudaismo di lingua greca forse per anticipare già il riferimento al veniente eone (Mc. I O,Jo). Difficilmente il termine include consapevolmente l'idea di una nuova creazione (così 1 QS 4,2 5 ) poiché Matteo parla sì della fi­ ne del presente eone (v. a 24,3), ma mai della fine del mondo. Il rap­ porto con la nuova nascita dell'individuo ( Tit. 3, 5 ) si è fatto strada so­ lo lentamente ed è ancora assente nel giudaismo di questo periodo. Molto affine è Le. 1 2, 8 (cf. Mt. 1 0,3 2 ), un passo nel quale l' «io» del Gesù terreno e il «Figlio dell'uomo» vengono distinti formalmente, ma sono sostanzialmente identici. Ciò che viene promesso in partico­ lare ai dodici vale similmente per tutti i seguaci di Gesù (v. 29). Diver­ samente da Marco, la promessa per la stagione terrena viene omessa e riferita soltanto alla vita eterna. La formulazione «a causa del mio no-

Mt. 2o, I - I 6. La strana giustizia di Dio

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me» riunisce ancora meglio, rispetto a Marco, i compagni di viaggio del Gesù terreno con i discepoli dopo pasqua. Ciò che quelli fanno è tipico anche di questi (cf. a 4, 1 7). È sorprendente come Matteo inserisca l'amore del prossimo tra i dieci comandamenti e così intenda l'invito a seguire Gesù come tiroci­ nio proprio in questo amore del prossimo. L'amore del prossimo è il compimento dei comandamenti che dà accesso al regno dei cieli (v. a 5,20). Poiché si può . imparare solo nella sequela di Gesù che cosa si­ gnifichi amore del prossimo e che cosa, quindi, adempimento dei co­ mandamenti, le viene promessa una ricompensa così ricca per il tempo nel quale Israele raggiungerà la sua meta e vivrà quale nuovo popolo dalle dodici tribù sotto la reggenza di Cristo e dei suoi dodici disce­ poli. Anche se quest'ultimo aspetto rappresenta un'idea che ci è di­ ventata estranea, pure con essa si esprime ciò che Gesù probabilmente volle dire con la scelta dei dodici (cf. excursus a Mc. 6,7- 1 3): Dio ri­ mane fedele alla sua opera; la storia non è un caos spaventoso e senza senso. Ciò significa che tutta la sofferenza e tutte le lotte, tutte le spe­ ranze e tutti gli scoramenti non sono caduti in oblio, ma troveranno il loro compimento. In verità, come già nell'Antico Testamento e più che mai nella venuta di Gesù, questo adempimento continuerà ad ap­ parire sorprendentemente sempre diverso da ciò che gli uomini si so­ no aspettati.

La strana giustizia di Dio, 20, 1 - 1 6 I Infatti con il regno dei cieli succede come con un padrone di casa che uscì appena fatto giorno per ingaggiare braccianti per la sua vigna. 2 E concor­ dò con gli operai un denaro per tutta la giornata e li mandò nella sua vigna. 3 E alla terza ora uscì e vide altri che stavano senza far niente al mercato 4 e di ss e loro: Andate anche voi alla vigna e vi darò ciò che è giusto. 5 Ed essi andarono lì. Uscì ancora alla sesta e poi alla nona ora e fece la stessa cosa. 6 Ma aU'undicesima ora egli uscì e trovò altri che stavano là e dice loro: Perché state qui tutto il giorno senza far niente? 7 Essi gli dicono: Nessu­ no ci ha ingaggiati. Gli dice: Andate anche voi nella vigna. 8 Ma quando si fece sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e pa­ ga loro il salario e comincia dagli ultimi fino ad arrivare ai primi. 9 E ven­ nero quelli dell'undicesima ora e ricevettero un denaro ciascuno. Io E ven­ nero i primi credendo di ricevere di più: e anche essi ricevettero un dena­ ro ciascuno. 1 I Ma appena lo ricevettero mormorarono contro il padrone

3 64

Mt .20, 1 - 1 6. La strana giustizia di Dio .

1 2 e dissero: Questi ultimi hann o lavorato appe na un'ora sola e tu li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il pes o e il cal o re della giornata. 1 3 Ma egl i rispose a uno di loro e di s se: Amico, non ti faccio torto. Non ti sei accordato con me per un den aro ? • 4 Pren di ciò che è tuo e · vattene. Ma è mi a volontà dare a anche quest'ultimo tanto quanto a te. 1 5 Non posso fare ciò che voglio con quello che è rnio ? O il tuo occhio è cattivo p erché io sono buono ? 16 Così gli �ltimi saranno prim i e i primi ultimi. If

cf. 6,.2.3.

La parabola viene inserita per illustrare l'ultimo versetto (I 9,30) sebbene in origine significasse qualcosa di sostanzial niente molto di­ verso. Ci si può chiedere se questo detto fosse unito alla parabola già nella tradizione (2o, 1 6). Tuttavia anche in 1 8,I4.3 5 Matteo stesso ha posto in una nuova formulazione, alla fine di una parabola inserita nel corpo della narrazione, il detto che aveva offerto lo spunto per l'inse­ rimento. Con l'ordine inverso rispetto a 1 9,30, nominando cioè prima gli «ultimi», si vuole forse manifestare una particolare intenzione. Si deve quindi dapprima chiedere che cosa voglia dire la parabole in sé e solo dopo che cosa voglia dire Matteo con essa. 1- 16. Il racconto è scandito sul ritmo del giorno lavorativo palesti­

nese (v. I ). «Il tempo del lavoro dura dai primi raggi del sole fino al sorgere delle stelle», si legge nei rabbi e lo stesso dice anche Sal. Io4, 22 s. Il lavoro non è idealizzato - il peso della giornata e il caldo vento del sud vengono nominati al v. 1 2 e così è appunto. Anche la paga giornaliera (v. 2) è quella normale (Tob. 5 , 1 5 e nei rabbi) e viene fissa­ ta nella terminologia del diritto del lavoro del tempo. Le formalità vengono descritte esplicitamente affinché nessuno possa dubitare che qui non si sia operato con la massima correttezza. Richiesta e offerta si regolano al mercato: i disoccupati fanno parte del panorama della Palestina dell'epoca (vv. 3 ss.). Con il secondo gruppo il datore di la­ voro non si impegna a corrispondere una somma precisa, ma generi­ camente quanto è giusto. La procedura si ripete ancora due volte, ma si riporta il breve dialogo solo nel caso degli operai ingaggiati poco prima che la giornata lavorativa finisse (vv. 6-8). Evidentemente è qui . che cade P ac ce nto. No n è affatto impossibile che si assumano ancora operai così tardi, ad esempio nel caso di una vendemmia particolar­ mente abbondante poco prima della stagione delle piogge con le sue gelate notturne, ma è comunque molto insolito. Anche a loro non vie-

Mt. 1.0, 1 - 1 6. La strana giustizia di Dio

365

n e promesso nulla. I n tal modo questo gruppo viene posto in partico­ lare evidenza. Non si dice che la loro spiegazione fosse una scusa e basta; a dire il vero, evidentemente non stavano ancora lì né alla sesta né alla nona ora. Resta però aperto se si siano presentati al lavoro così tardi per colpa loro o no. La paga, che secondo Le_v. I 9, I 3 e Deut. 24, I 5 deve avvenire la sera stessa per evitare che i poveri vivano tra gli stenti, comincia dagli ultimi arrivati. Ciò è necessario semplicemente per il racconto perché altrimenti i primi non potrebbero vedere quan­ to ricevono gli ultimi (v. 8). I vv. I 1 s. escludono che questi avrebbero avuto comunque diritto all'intera paga giornaliera, come si ipotizzò in passato con riferimento a una sentenza rabbinica, in verità poco chiara {Str.-Bill. al v. 8), e al diritto romano del lavoro, che comunque non avrebbe avuto validità in Palestina. L'intera paga è totale sorpresa e causa di scandalo (vv. r o- 1 2). Questo fatto manda in collera quelli che non solo avevano lavorato dodici volte tanto, ma avevano anche do­ vuto sopportare l'afa di tutte quelle ore. Essi si indignano perché il padrone «ha resi uguali a loro» coloro che sono arrivati soltanto al­ l'ultimo momento. Se non avessero visto ciò, essi sarebbero tornati a casa contenti con la loro paga giornaliera. Il padrone era evidentemen­ te presente alla paga (v. I 3), altrimenti si dovrebbe supporre che i pri­ mi operai si sarebbero recati, incolleriti, a casa sua per costringerlo a dar loro le spiegazioni del caso. Mentre i braccianti tralasciano qual­ siasi appellativo, più che mai qualsiasi titolo di cortesia, il padrone si rivolge a uno di loro come si fa appunto con qualcuno di cui non si conosca il nome, ma con il quale si ha un qualche tipo di rapporto: «amico», e gli fa notare l'ineccepibile situazione legale. Che egli dia agli ultimi altrettanto ha come fondamento unico la sua volontà, della quale egli non deve rendere conto a nessuno (v. 1 4): «con ciò çhe è SUO» oppure «sui suoi terreni» egli puÒ fare ciò che gli piaccia (v. I 5). La parabola si chiude con il contrasto tra l' «occhio cattivo» (così let­ teralmente; v. a 6,23) dell'operaio scontento e la bontà del padrone. Qui si dovrebbe dunque avere il vero punto della parabola. In veri­ tà, già al v. r o tutte le consuetudini sono infrante, già lì la sorpresa è l'inattesa bontà del padrone. Ma la parabola non si chiude qui. Si po­ trebbe dunque certamente dire che la parabola liquidi il concetto di salario proprio usandolo. Ma questo non è ancora l'aspetto decisivo. Infatti non si polcmizza contro il concetto di salario. In un certo sen­ so la bontà di Dio è fissata proprio nell'immagine della paga. Che i la-

3 66

Mt. 2o,r-r6. La strana giustizia di Dio

voratori vengano ingaggiati e così ricevano ciò di cui hanno bisogno loro e la loro famigl ia è già un bene per loro e che essi si aspettino il denaro pattuito non è sbagliato. Tutto va storto solo quando si co­ minciano a fare i paragoni. Perciò ai vv. 1 1 - I 5 si concede tanto spazio alla contestazione e alla replica. Anche su questo punto la parabola ri­ mane aperta: se gli scontenti si facciano convincere dal padrone impa­ rando a vederne la bontà oppure no, non viene più raccontato. Que­ sto è dunque }>interrogativo con il quale Gesù congeda i suoi ascolta­ tori: se essi riescano a imparare da lui a guardare con gli occhi di Dio e non più con il proprio «occhio cattivo» . Che Dio voglia servirsi del­ l'uomo, che egli veda ciò che fa e non lo dimentichi, che gli assicuri addirittura una ricompensa, è già espressione della sua bontà. Ma l'uo­ mo che si presenta con il proprio concetto di giustizia non lo può ca­ pire. Né la bontà di Dio né le sue opere vengono valutate come loro spetta quando quella viene misurata secondo queste. Chi non ha capi­ to che Dio dona molto di più del giusto salario non ha neanche capito che la rimunerazione di Dio è espressione della sua bontà. Una parabola giudaica in un elogio funebre del 3 2 5 d.C. narra di un re che invita un operaio particolarmente bravo a fare una passeggiata di varie ore, pagandogli la sera, tra i mugugni degli altri lavoratori, la paga piena perché in due ore avrebbe fatto più lavoro che gli altri in tutta la giornata. Se l'oratore ha conosciuto la parabola di Gesù egli se ne è servito per insegnare proprio il contrario, cioè l'esatto trattamen­ to in base al merito che, in verità, all'uomo non è sempre evidente. Inoltre questa parabola giudaica è una esposizione di Ecci. h I 2: «Dol­ ce è il sonno del lavoratore, sia che mangi molto o poco)); essa si pre­ senta, cioè, come commento di una parola della Scrittura valida sem­ pre e ovunque. Ma nel momento della narrazione della parabola di Gesù la strana giustizia di Dio che ne è l'oggetto avviene. Essa si compie mediante le parole di Gesù che raccontano la storia: pubbli­ cani e prostitute gli si avvicinano e trovano accesso nel regno di Dio. Questo fatto è concreto tanto quanto il denaro della parabola, anche nella quale non ci si ferma al sentimento interiore del padrone. Così questa parabola si avvicina moltissimo a quella dei due figli dei quali il prodigo perduto partecipa al banchetto, mentre resta in sospeso se quello corretto, il maggiore, trovi ancora la strada per entrare nella sa­ la dove si festeggia (Le. 1 5 , 1 1 -32); ma si avV-icina anche a quella che

Mt. 20, I- I 6.

La strana giustizia di Dio

3 67

Paolo chiama la giustizia di Dio. Essa vede e compensa generosamen­ te la buona opera dell'uomo (Mt. 2o, I ob; Le. I 5,3 I ; Rom. 2,6 s.). Ma questa giustizia è così strana che la si perde se l'uomo la reclama per sé con leggerezza, come un suo diritto ovvio, confrontando il proprio curriculum con quello degli altri e non concentra così lo sguardo sulla bontà del Signore davanti alla quale tutto quello che egli ha fatto e meritato svanisce (Mt. 20, I 2- I 5; Le. I 5,29 s.3 2; Fil. 3,8 s.). Così pro­ prio l'incomprensibile bontà di Dio diventa uno scandalo per colui che non vuole liberarsi dei suoi concetti umani di merito e giustizia. Non si tratta di quanto e di quanto a lungo uno abbia lavorato; si trat­ ta solo di una cosa: che fu reclutato e ha udito la chiamata. 16. Matteo ha posto la parabola come tra parentesi: ha aperto e chiuso con il detto dei primi e degli ultimi. In I 9,3 0 il logion dice che coloro che qui possiedono tutto un giorno potrebbero trovarsi dietro a coloro che adesso rinunciano a tutto e seguono Gesù. Il medesimo detto si trova in Le. I 3,30 dopo l'annuncio del giudizio su Israele e la promessa ai pagani. N ella tradizione il detto descrive dunque il fatto che i ricchi sulla terra nel giudizio possono essere perduti e viceversa. In 20, 1 6 Matteo fa risaltare con esso un solo particolare, cioè che la paga comincia con gli ultimi arrivati. Certamente egli non vuole dire soltanto che un giorno i discepoli riceveranno la loro paga, mentre Israele no. Ciò non collimerebbe con la parabola, dove a tutti viene versata la medesima paga, né con il brano seguente che parla del cam­ mino verso la passione e del rifiuto di qualsiasi desiderio di ricom­ pensa straordinaria (20, 1 7-28). Probabilmente Matteo vuoi dire che i discepoli diventano davvero da ultimi primi, ma che potrebbero anche ridiventare da primi ultimi se non riconoscono la bontà di Dio, se non riuscissero a gioire di cuore per i «piccoli» che Dio chiama, se dunque non vivessero come comunità così come ha intimato il cap. I 8. Alcuni manoscritti aggiungono alla fine il detto ripreso da 22, I 4: «Molti sono chiamati, ma pochi eletti». Con questa conclusione si esprimerebbe soltanto l'avvertimento e la fine della parabola si trasformerebbe da domanda lasciata in sospeso già quasi in sentenza di condanna per i molti. In questo modo la parabola non è più un invito a capire la grandezza della bontà di Dio, ma è solo un avvertimento a non ri­ schiare di perderla. Nonostante il tono indubbiamente monitorio, Matteo stesso lascia l'interrogativo ancora aperto e al v. r 6 pone persi­ no al primo posto l'inattesa bontà che è toccata agli ultimi.

3 68

'Mt.

2o, I 7- 1 9.

li terzo annuncio della passione

In bocca a Gesù la parabola mette in guardia dal «mugugnare>> (an­ che in Le. 5,30; Gv. 6,4 1 ss.; 1 Cor. 10, 10) che protesta con tono accu­ satorio, ad esempio a proposito di pubblicani e prostitute: «Li hai messi al nostro stesso livello». Nella comunità ciò è diventato, ai tem­ pi di Matteo, già quasi ovvio giacché anche i pagani sono già entrati in essa. Ma ciò si ripete in maniera simile nel disprezzo dei «piccoli» ( 1 8, r o) !asciandoli andare per la loro strada ( 1 8,14) e rispetto ai quali non si era abbastanza perseveranti nel perdono ( 1 8 , 2 1 . 3 2 s.). Così il racconto di Gesù parla in una maniera del tutto nuova e che lo faccia è segno che si tratta di una buona parabola. Il terzo annuncio della passione, 20,1 7- 1 9 (cf. Mc. 1 0,32-34; Le. 1 8,3 1 -34) I 7 Mentre Gesù si accingeva a salire verso Gerusalemme, prese i discepoli vicino a sé, da soli, e strada facendo disse loro: 1 8 Ecco: saliamo a Gerusa­ lemme e il Figlio dell'uomo verrà consegnato ai sommi sacerdoti e agli seri­ bi ed essi lo condanneranno a morte I 9 e lo consegneranno ai pagani affin­ ché lo scherniscano, flagellino e crocifiggano e il terzo giorno egli verrà ri­ suscitato.

I 7- I 9· Il terzo annuncio della passione viene narrato come in Mar­ co, invero senza l'introduzione che ha lì e che per Marco è molto im­ portante (v. intr. a Mc. 1 0,3 2-34). So l o che ciò avvenne «lungo il cam­ mino» - come Marco anche Matteo potrebbe già pensare alla via cru­ cis - viene ripreso, con diversa collocazione, da Marco (v. 1 7). L'an­ nuncio della risuscitazione (v. a 17,9) il terzo giorno (v. 1 9), non dopo tre giorni, coincide con 1 6,2 1 e 1 7,23 . È significativo che Matteo sosti­ tuisca «uccidere>> con «crocifiggere»: negli annunci della passione que­ sto verbo appare solo qui (e in 26,2). Mentre l'antica professione di fe­ de parla della morte ( 1 Cor. 1 5 ,3; cf. Rom. 6, 1 0 e anche 1 Pt. 3, 1 8; Atti 3 , 1 5 accanto a 4, 10 e spec. 5,3o), per Paolo il tipo di morte è diventato importante per ragioni teologiche: colui che «è appeso al tronco» (Gal. 3 , 1 3; cf. Atti 5,30) è infatti colui che secondo Deut. 2 1 , 23 è stato ma­ ledetto da Dio. Perciò Gesù ha realmente preso il posto del peccatore maledetto da Dio, è dunque diventato solidale fino alla fine con lui e ha ricuperato per lui il posto al cospetto di Dio. È dubbio che Matteo pensi a questo; forse egli menziona il tipo di morte perché è tipica­ mente romano e qui sono nominati i pagani (= i romani) (ma cf. 26,2).

La vera grandezza, 20,2o-z8 (cf. Mc. I 0,3 5-4 5) 20 Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo insieme con i figli e gli si prostrò davanti per implorare qualcosa da lui. 2 1 Ma egli le disse: Che vuoi ? Lei gli dice: Di' che questi miei due figli siedano nel tuo regno uno alla tua destra e uno alla tua sinistra. 22 Ma Gesù rispose e disse: Non sapete che cosa chiedete! Potete bere il calice che dovrò bere ? Essi gli dico­ no: Lo possiamo. 23 Dice loro: Sì, berrete il mio calice: ma non ho il dirit­ to di dare il posto alla mia destra o alla mia sinistra; essi spettano a coloro per i quali il Padre mio li ha preparati. 24 E appena i dieci udirono ciò si risentirono per i due fratelli. 2 5 Ma Gesù li fece avvicinare e disse: Sapete che i capi delle nazioni esercitano un potere assoluto su di esse e che i potenti usano la violenza contro di esse. 26 Ma tra voi non è così. E quello di voi che desidera diventare grande do­ vrà essere vostro servitore; 27 e chi vuole essere il primo tra di voi, dovrà essere lo schiavo di tutti: 28 come del resto anche il Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, bensì per servire e dare la propria vita in riscatto per molti.

zo-28. Salvo l'inizio, questa storia segue il racconto di Marco quasi alla lettera. Con il suo tipico «allora» Matteo unisce questa storia an­ cora più strettamente con l'annuncio della passione. Anche avvicinarsi e prostrarsi davanti a Gesù sono tratti tipici di Matteo (v. a 8,2). La differenza più importante è tuttavia che la richiesta è avanzata dalla madre, non dai discepoli stessi (v. 20 ). Ciò mostra che anche donne hanno seguito Gesù (Le. 8, 1 ss.; Mc. 1 5,40 s. = Mt. 27, 5 5 s.), anche se i nomi rimangono incerto (cf. a 27, 5 6 e intr. a Mc. 1 6, 1 -8). In Mt. 27, 5 6 «la madre dei figli d i Zebedeo)) è identificata con Salame (Mc. 1 5,40). I discepoli vengono quindi scusati (v. a I J, I 6 s.), mentre la madre si al­ linea ad altre madri d'Israele ( 1 Sam. 1; 2 Mace. 7; cf. Le. 1,39 ss.). Che Matteo fosse urtato perché qui non si teneva conto della posizione particolare di Pietro? Una certa rivalità tra Pietro e il discepolo predi­ letto, col quale s'intende probabilmente Giovanni, si manifesta in Gv. 2 1 ,2 1 ss. (cf. Gv. 1 3,23 -26; 1 8, 1 5 ss.; 1 9,26 s.; 20,4.8; 2 1 ,7). Forse Mat­ teo (v. 2 1 ) sostituisce «gloria» (Mc. I0,37) con «tuo regno)) (cf. 1 3 ,4 1 ; 1 6,28) perché a motivo dell'immagine seguente pensa piuttosto ai po­ sti d'onore al banchetto che a troni come in 1 9,28. Il fatto che Gesù non risponda alla madre, ma ai due discepoli (v. 22) mostra come Matteo abbia sì corretto all'inizio il testo di Marco, ma p oi lo abbia preso immutato. Si omette l'immagine del battesimo di morte, forse

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Mt. 20,29- 34· La sequela dei ciechi

perché Giovanni non ha patito il martirio insieme con Giacomo (v. intr. a Mc. I O,J 5 -4 5 ). Per partecipare del calice della passione non è necessario morire martiri (cf. Apoc. I ,9 ) Se �1atteo scrive «vostro ser­ vitore>> invece di «schiavo di tutti >> (Mc. 1 0,44) egli pensa allora al ser­ vizio fraterno che un membro della comunità deve all'altro, come ha esposto il cap. I 8. Il detto relativo al Figlio dell'uomo venuto per ser­ vire non viene in realtà usato da motivazione, come in Mc. I 0,4 5 («in­ fatti» ), ma da modello («come»), a dire il vero come esempio che solo rende affatto possibile la sequela per questo cammino. In ogni caso si sottolinea con forza che il cammino è lo stesso. Tanto in questo tratto quanto nella piccola variazione al v. 27 si ve­ de che cosa rappresenti per Matteo la particolarità di questa pericope. È la conclusione di tutto il periodo nel quale i discepoli devono impa­ rare che cosa significhi vivere nella comunità. Il cap. I 8 ha evidenziato come la comunità viva quale gruppo di fratelli libero, non governato da membri della comunità preposti ad esso, tenuto insieme solo dal servizio fraterno assegnato a tutti e dall'autorità dello spirito profeti­ co e dell'attività carismatica di compiere guarigioni. L'indole della schiera di discepoli di Gesù è dunque l'indole dello stesso Gesù e se­ condo Matteo deve anche restare sempre tale. La sua vita e la sua mor­ te sono però unificate dall'unico concetto del servizio. In alcuni ma­ noscritti si trova un'appendice al v. 2 8 : «Ma voi cercate di crescere dal piccolo alla (vera) grandezza e dall'essere grandi all'essere minimi». In altri manoscritti si nega quest'ultimo passaggio: «e non dal (preteso) esser grandi all'esser piccoli (venire umiliati)» e si prosegue con la pa­ rabola di coloro che invitati a un pranzo cercano i posti migliori, cioè una versione parallela di Le. I 4,8- 1 o. Il materiale della parabola ha dunque vagato per secoli ed è stato collegato, mediante una nuova in­ troduzione, ad altre parole di Gesù. A dire il vero ciò sembra consi­ gliare un metodo per poter raggiungere la vera grandezza, cioè quello dell'umiliazione di sé, risultando così molto più conforme agli inse­ gnamenti rabbinici che alla parola e al ministero di Gesù. .

·

La sequela dei ciechi, 20,29-34 (cf. Mc. I o, 46- 5 2; Le. 1 8,3 5 -43)

E quando uscirono da Gerico lo seguì una grande folla. 30 Ed ecco: due ciechi stavano seduti sul ciglio della strada. E quando udirono che Gesù sarebbe passato di lì gridaro no : Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide!

29

Mt. 20,29-34. La sequela dei ciechi

J7I

3 1 Ma la gente li rimproverò p erch é tacessero .. Ma essi grid arono ancora, molto più forte: Signore, abbi pietà di noi, figlio di Davide! ! 32 E Gesù si fermò e li lasciò gridare e disse: Che volete che vi facc ia ? ·33 Gli dissero: Si­ gnore, che i nostri occhi siano ape rti ! 34 E Gesù ebbe compassione e toccò i loro occhi e immediatamente divennero vedenti e lo seguirono.

Anche l'ultima storia prima dell'ingresso in Gerusalemme viene narrata più o meno come in Marco, invero con una notevole coinci­ denza con 9,37-3 1 (v. ad loc. ). Come in quella storia si tratta anche qui di due ciechi: forse perché qui l'affermazione cristologica deve essere messa in particolare rilievo dai titoli «Signore» e «figlio di Davide» e dal grido «abbi pietà di noi» e simili dichiarazioni omologiche devono essere pronunciate dalla bocca di due testimoni ? Come in 9,2 7-3 1 il primo versetto parla di «sequela» e l'ultimo di «apertura di occhi>>; ma entrambe le espressioni compaiono anche in altri punti del racconto. Determinate frasi sono quindi fisse, sebbene l'evangelista formuli an­ cora con ampia libertà. Inoltre in 20,29-32 e 34b si nota, diversamente da 9,27-3 1 , l'influenza della tradizione marciana. Mancano parole ca­ ratterizzanti come si legge in 2 r , 2 5 e 2 I ,32 (qui formulazione matteana): così l a prima parabola è colle­ gata con la questione dell'autorità. Che Israele perderà il «regno di Dio» (di solito Marteo dice sempre «regno dei cieli» !) è detto in 2 I ,3 I e viene nuovamente ripreso così da Matteo stesso in 2 1 ,43; inoltre sia

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Mt. 2 1 - 2 5 . I giorni in Gerusalemme

in 2 I ,28 sia in 2 1 ,33 si parla di «vigna» . In questo modo vengono col­ legate la prima e la seconda parabola. Che Dio «mandò i suoi servi» e «mandò ancora un'altra volta altri servi» è formulato in 2 I ,34·36 in maniera letteralmente identica in 22,3.4, legando così la seconda e la terza parabola. Più importanti sono i giunti sostanziali. La pericope relativa alla questione dell'autorità lascia tutto volutamente aperto: l'attacco pianificato a Gesù si trasforma viceversa improvvisamente in un interrogatorio dei capi d'Israele che termina con una domanda aperta (2 I ,27). La prima parabola è il fondamentale verdetto di colpe­ volezza: essi non hanno riconosciuto ciò che «pubblicani e prostitu­ te» hanno c;�pitd (2 1,32). La seconda parabola presenta l'infliggimento della pena formulata dagli stessi ascoltatori (2 1 ,4 I ) e ripresa così da Gesù (2 1 ,43): i pagani subentreranno a Israele. Infine nella terza para­ bola viene raffigurata l'esecuzione della pena (22,7). Tuttavia non si è ancora raggiunto il culmine giacché l'intero sviluppo tende a qualco­ s'altro, cioè all'ammonizione della comunità sulla quale pende proprio questo castigo se non si comporta diversamente da Israel e (i2,1 1 - 14). Che l'evangelista pensi effettivamente in questi termini è confermato dalla ripetizione del medesimo schema. Le dispute di 22, 1 5 -46, in par­ ticolare l'ultima relativa al figlio di Davide, rappresentano l'interroga­ torio d'Israele che finisce parimenti con una domanda aperta (22,45 s. ) . Nella grande invettiva (23, 1 -32) si ha il verdetto di colpevolezza e in 23,3 3 -36 l'infliggimento della pena: tutto il sangue innocente versa­ to ricadrà su di loro. In 23,3 7-24,2 è descritta l'esecuzione della pena: insieme con Gesù Dio stesso abbandona la città e la distruzione del · tempio - che sta già alle spalle di Matteo - ne è la dimostrazione pale­ se. Ma ancora una volta questa non è la fine. È vero che in 24,3 ss. la venuta del Figlio dell 'uomo viene chiaramente distinta da questi even­ ti e descritta anche come il trionfale ingresso del liberatore della sua comunità dai popoli che alzano forte la voce del loro cordoglio (v. a 24,30 s.): ma come nei profeti (Am. 5, 1 8; Ger. 6, 1 4 s.) l'accento princi­ pale è posto sull'ammonizione immediatamente seguente della comu­ nità, cui potrebbe capitare esattamente la medesima sorte degli «ipo­ criti)) di 2 3, I 3 ss. ( 24, I I s. 3 7-2 5 ,46; cf. a 24, 5 I ). Così il cap. 24 finisce come il primo iter processuale in 22, I 4· Esattamente così M atteo ha ripetuto la minaccia del castigo rivolta a Israele (3,8. I o; 8, 1 2) quale ammonizione alla comunità (7, 1 9; I 3,42 ecc.). Da 24,27 fino a 2 5,3 1 la venuta del Figlio dell'uomo - giudice racchiude tutto come tra paren-

Mt. 2 I , I - I 1. L'ingresso a Gerusalemme

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tesi. Perciò la presunzione dei cristiani rispetto ai giudei (Rom. 1 1 , 1 724) è altrettanto impossibile di quella dei giudei rispetto ai pagani (Rom. 2, 1 7-29) o dei religiosi verso i meno religiosi (Rom. 14, 1 0 s.). L'ingresso a Gerusalemme, 2 I , I - I I (cf. Mc. I I , I - I o; Le. I9,29-3 8)

E quando giunsero in vicinanza di Gerusalemme, a Bedage sul Monte degli Ulivi, allora Gesù mandò due discepoli 2 e disse loro: Entrate nel vil­ laggio che è davanti a voi e troverete subito un'asina legata e un puledro vi­ cino a essa; scioglieteli e portatemeli. 3 E se qualcuno vi dice qualcosa, dite così: Il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà. 4 Ma ciò avvenne affin­ ché si compisse ciò che è detto mediante il profeta, dove recita: 5 «Dite alla figlia di Si o n: Ecco: il tuo re viene a te, mite, cavalcando un asino e un pu­ ledro, figlio della bestia da soma». 6 I discepoli andarono e fecero come Ge­ sù aveva loro ordinato. 7 E portarono l'asina e il puledro e vi sistemarono sopra le loro vesti ed egli vi si sedette sopra. 8 E la grande folla stese le vesti sulla strada, ma altri tagliarono fronde dagli alberi e le sparsero sul cammino. 9 Ma i gruppi che precedevano e seguivano gridarono: Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osan­ na negli altissimi! Io E quando entrò in Gerusalemme tutta la città cominciò ad agitarsi e disse: Chi è costui? I I Ma la gente disse: Questi è il profeta Gesù, di Na­ zaret in Galilea. I

5 /s.

62, u; Zacc. 9,9. 9 9,27; 20, 30 s.; 2 1 , 1 5; Sal. 1 1 8,25.26.

I - I 1. Al v. I Matteo tralascia l'improbabile indicazione topografica (Mc. I I , I ) e il particolare che nessuno fosse ancora montato sul pule­ dro (Mc. I I ,2), mentre al v. 3 omette «lo rimanderà subito» (Mc. I I ,

JC) così che non s i dice più che Gesù avrebbe rimandato subito indie­

tro l'asino dopo averlo usato, bensì, probabilmente, che il proprieta­ rio, ascoltate le parole dei discepoli, metterà subito il suo animale a di­ sposizione di Gesù. In questo modo si sottolinea con forza l'elemento sovrano dell'ordine di Gesù: tutto serve al re che entra. Parimenti Matteo elimina Mc. I 1 ,4-6a che descrive come tutto ciò che Gesù ave­ va meravigliosamente previsto sia andato perfettamente a compimen­ to; per contro sottolinea con una formula fissa l'ubbidienza assoluta dei discepoli. L'aspetto più sorprendente è la menzione di un'asina e del suo puledrino al v. 2, ma particolarmente al v. 7· Ora Matteo ha inserito ai vv. 4 s. come citazione di compimento Zacc. 9,9 (cf. excur-

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Mt. 21,1-1 1 . L'ingresso a Gerusalemme

sus a I , I 8-2 5 [2 ]). Là si parla effettivamente, in senso letterale, di un'a­ sina e («e» solo nei LXX) di un puledro (così anche in Gen. 49, I I ); ma solo perché spesso l'ebraico esprime due volte la medesima cosa (cf., ad es., Sal. 2, 1 - 5; J J , I O- I 2; anche Num. 2 I ,28; Deut. 3 2,2; 1 Sam. 2,6 s.; /s. 47, I). Matteo ha dunque reso esplicita l'allusione di Marco al passo profeti co, sottolineandone al contempo l'adempimento lettera­ le, sebbene non ci si possa facilmente immaginare come Gesù potreb­ be cavalcare entrambi gli animali: forse uno dopo l'altro ? Una cosa si­ mile è avvenuta in 27,34 (v. a Mc. 1 5,23) e Gv. 19,23 s. (v. a Mc. I 5,24). La citazione inserita chiama Gesù «re». Matteo cambia di conseguen­ za l'acclamazione al v. 9 che non è più diretta al «regno di Davide», ma come già in 20,30 s. personalmente a Gesù in quanto «figlio di Da­ vide», più precisamente a colui che viene «umile>>. Forse Matteo ha addirittura omesso volutamente gli aggettivi «giusto e vittorioso» del­ la citazione. Già Ps. Sal. I 7,3 3 sa che il messia non fa affidamento su cavallo e cavaliere o su balzelli bellici; più che mai ciò è vero per il re di pace di fs. I 1 , 1 ss. (cf. 42, I ss.). Ma quanto viene detto qui va ben oltre tutto ciò. Colui che già nei suoi macarismi ha assicurato la sal­ vezza ai miseri e ai minimi, sta egli stesso sulla soglia della sua storia di passione. L'oracolo del Trito-Isaia (/s. 62, 1 I), dove si parla pari­ menti della «figlia di Sion», ha preso il posto dell'inizio di Zacc. 9,9 al principio del v. 5· Forse perché si è citato a memoria, forse perché in quell'oracolo si sottolinea particolarmente l'arrivo consolante delle promesse per la città di Dio, immaginata come una donna. Ciò sareb­ be conforme ai metodi ermeneutici rabbinici secondo i quali un passo nel quale ricorre la medesima parola ne spiega un altro. Probabilmen­ te anche nella liturgia della comunità i due passi sono stati fusi, come avvenuto, ad esempio, per i diversi testi dell'istituzione della cena nel­ le nostre liturgie eucaristiche. Si racconta esplicitamente dell' agitazio­ ne che prese tutta Gerusalemme (v. Io; cf. v. s a; Rut I , I 9),. forse per un voluto richiamo al panico di 2,3 . Matteo ama sottolineare che tutta Gerusalemme o tutto Israele vengono toccati dall'evento di Gesù. In verità neanche la folla che giubila e accompagna Gesù riesce ad andare oltre la testimonianza che egli sia un profeta. O si vuole forse intende­ re «il profeta» promesso in Deut. I 8, I 8 ? Matteo sottolinea dunque con maggior forza il carattere di colui che ha definito se stesso umile ( I 1 ,29 s.) e che così è il re promesso per tutti i piccoli, i poveri e gli umili che si aspettano ogni cosa da Dio ( 5 ,

Mt. 2 1 , 1 2-22. Il giudizio di Dio su] culto d'Israde

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3-5 ) . In questo modo l'evangelista introduce la storia della passione. A questa appartiene anche l'ubbidienza dei discepoli che seguono alla lettera le istruzioni di Gesù, contribuendo così al compimento della promessa. Il giudizio di Dio sul culto d'Israele, .1 1 , 1 2-2.1 (cf. Mc. I I , I I -2 5; Le. I 9,4 5 -48) 1 2 E Gesù entrò nel tempio e spinse fuori tutti i mercanti e compratori nel tempio e rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di co­ lombe 1 3 e disse loro: Sta scritto: «La mia casa si chiamerà casa di preghie­ ra», ma voi la trasformate in una «caverna di ladroni». - 14 E ciechi e zop­ pi gli si avvicinarono nel tempio ed egli li guarì. 1 5 Ma quando i sommi sa­ cerdoti e gli scribi videro le cose meravigliose che faceva e i ragazzi che nel tempio gridavano: Osanna al figlio di Davide! si infuriarono 16 e gli disse­ ro: Ma senti che cosa dicono questi qua? E Gesù dice loro: Certo! Non avete mai letto: «Dalla bocca di ragazzi e di lattanti ti sei procurato lo­ de» ? 17 E li lasciò e uscì dalla città dirigendosi verso Betania e rimase lì per la notte. 1 8 Ma quando la mattina presto stava ritornando in città, ebbe fame. 19 Allora vide un unico fico lungo la strada: gli si avvicinò e non vi trovò altro che foglie; e gli dice: No n cresca mai più frutto su di te, per l'eternità! E il fico si seccò di colpo. 20 E quando i suoi discepoli videro ciò si mera­ vigliarono e dissero: Come ha fatto il fico a seccarsi di colpo ? 21 Ma Gesù rispose e disse loro: Amen vi dico: se avete fede e non dubitate, non farete solo questo con il fico, bensì anche se diceste a questo monte: Alzati e get­ tati nel lago! così avverrà. 22 E tutto ciò che chiedete in preghiera, se avete fede, lo riceverete. IJ fs.

s 6,7; Ger. 7,1 1 . 1 5 Sal. 1 1 8,15 . 16 Sal. 8,3 (LXX).

L'aspetto più sorprendente è lo spostamento di questi fatti allo stesso giorno dell'ingresso in Gerusalemme. Secondo Marco essi sono avvenuti il giorno successivo, dopo una notte passata a Betania. La contraddizione è irresolubile. Probabilmente Matteo ha voluto deli­ neare una successione dei fatti più logica (v. intr. a Mc. I I, I - I 1 e a I 1 , I 2-26). Il lasso d i tempo tra l'entrata in Gerusalemme e l a domanda sull'autorità si riduce così a soli due giorni invece dei tre di Marco. Mentre questi distingue «i venditori c i compratori », vedendo cioè due gruppi distinti, i mercanti c i pellegrini, Mattco li unisce in un unico gruppo; forse egli pensa soprattutto ai mercanti, sottolineando

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Mt. 2 1 , 1 2-22. Il giudizio di Dio sul culto d'Israele

quindi con maggior forza la critica a una prassi che tendeva al profit­ to. L'incomprensibile divieto di trasportare un recipiente attraverso il tempio (Mc. 1 I , I 6) è omesso; l'aggiunta dei vv. 1 4- I 6 e l'omissione del riferimento ai pagani (Mc. I I , r 7) fa cadere l'accento altrove. Se in Mc. r I , I 7 la citazione biblica indicava ciò che secondo il piano di Dio ver­ rà, in Mt. 2 I, I 3 si evidenzia solo ciò che dovrebbe essere, ma che è ro­ vinato dal culto d'Israele. Ev. Naz. 2 5 parla a questo punto dei raggi degli occhi di Gesù davanti ai quali tutti fuggono. Anche il difficile inciso di Mc. I 1 , 1 3 (> è unico e Matteo altrove non parla mai di > sono immagini per il Signore del giudizio univer­ sale e per l'età della salvezza (cf. a 1 8,23 ; Mc. 2, 1 9; anche Apoc. 1 9,9) chiunque capisce che si tratta del giudizio finale e dell'età della salvez­ za che ci si può giocare se non ci si prepara per essa (cf. 2 5 . 1 - 1 o). Che si tratti della festa nuziale approntata per il «figlio» fa capire ancora più chiaramente che si pensa al compimento finale arrivato con Gesù. Forse questi tratti sono dunque penetrati anche nella parabola dell'in­ vito al banchetto solo al momento dell'unione delle due parabole. A dire il vero c'è una parabola giudaica nella quale i due motivi sono congiunti. Rabbi Johanan (morto verso l'So d.C.) avrebbe raccontato di un re che invitò i suoi servi a pranzo. I saggi si ripuliscono mentre gli stolti andarono al lavoro. Quando furono chiamati improvvisa­ mente a tavola, questi ultimi si presentarono coi loro abiti da lavoro. Più tardi la storia fu abbellita: chi doveva dare la calce sarebbe andato alla sua calce, il vasaio alla sua argilla, il fabbro alla sua fucina, il lavan­ daio alle sue vasche, e il re alla fine avrebbe detto: «Essi non avrebbe­ ro dovuto mangiare alla tavola del re». Questa parabola ricorda sia quella delle dieci vergini sia quella dell'abito nuziale. Ciò sta a dimo­ strare come simili immagini furono riprese da (giudeo)cristiani e giu­ dei ed elaborate ulteriormente, si influenzarono anche reciprocamen­ te, senza che sia più possibile stabilire come e dove nei particolari. Il plurale «servi» (v. 3) risale sicuramente all'evangelista; fa il paio con 2 1 ,34-3 6 (v. intr. ai capp. 2 I -2 5 ) e va spiegato, tanto lì quanto qui, quale raffigurazione della storia della salvezza culminante nella di­ struzione di Gerusalemme. Se si prende alla lettera l'espressione greca «gli invitati», ciò significherebbe che gli ospiti sarebbero stati invitati

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Mt. 2.2., I - 14. La parabola del rifiuto dell'invito di Dio

già prima, come racconta anche Le. 1 4, 1 6. È tuttavia possibile che Matteo usi il termine secondo la sensibilità linguistica semitica nel senso di «persone da invitare)). In ogni caso al v. 4 si narra di un se­ condo invito. Poiché con questo secondo invito si è chiaramente già al rifiuto definitivo, si nomina infatti anche la tavola apparecchiata, Mat­ teo pensa a questo punto già ai discepoli che invitano nel nome di Ge­ sù. In 2 1 ,3 6 ciò non era davvero possibile perché la parabola culmina­ va con l'invio e l'uccisione del figlio. Ma qui si tratta fin dal principio delle «nozze>> del «figlio>> del «re>> (cf. anche a 2 3,34). La cattiva vo­ lontà degli invitati (già al v. 3) e la pazienza del re vengono in questo modo sottolineate energicamente. In Le. 1 4, 1 8-20 si spiega che gli in­ vitati non hanno accolto l'invito solo perché per loro sono più impor­ tanti altre cose; forse si propongono anche di andare più tardi, una volta terminate le loro faccende. In Matteo, al contrario, l'invito viene declinato già al v. 3 senza indicazione dei motivi e il v. 5 dice sempli­ cemente che, avendo comunque deciso di non aderire all'invi to, conti­ nuano a badare ai propri affari. Anche qui Matteo delinea dunque un no di principio e netto. Che oltre a questi invitati che si negano e van­ no dietro alle loro normali occupazioni ce ne siano ancora «altri>> (v. 6) che addirittura uccidono i servi (come in 2 r , 3 5 !) non si capisce pro­ prio, nell'economia di questa parabola, né ha un parallelo in Luca. Solo Giuseppe racconta qualcosa di simile risalente ai tempi del re Ezechia (An t. 9,26 5 ). Il v. 7 è analogo a questo episodio. Qui la storia si fa del tutto incomprensibile, ma ricorda il giudizio punitivo di Dio (/s. 5,24 s.). L'ira dell'ospite si trova sì in entrambi gli evangelisti, ma non è più immaginabile che con le sue truppe il re non si limiti a ucci­ dere gli invitati, ma incendi anche «la loro città» (non «le loro città)) !) e faccia tutto questo mentre il cibo già pronto aspetta i nuovi invitan­ di. Inoltre questi primi invitati sono semplici cittadini che comprano un campo o cinque paia di buoi, non di principi che governano intere città. Inoltre dopo questa punizione il giudizio del re (v. 8) è irrilevan­ te. I vv. 6 s. sono dunque una chiara interpolazione nella storia che in origine passava direttamente dal v. 5 all'ira del re (v. 7a) e al v. 8. Qui gli eventi del 70 d.C., quando le truppe romane espugnarono e i ncen­ diarono Gerusalemme, hanno colorato il linguaggio della parabola. Non si ha un preciso riferimento alla distruzione del tempio nel 70 d.C., ma si parla solo della città sicuramente perché la vendetta del «re» contro la «città» degli assassini rappresenta un elemento classico

Mt. 22, 1 - 14. La parabola del rifiuto dell'invito di Dio

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di molte storie orientali. Nella versione lucana il servo esce due volte, prima in città poi in campagna, per portare il nuovo invito: probabil­ mente un'allusione alla missione ai giudei e alla missione ai pagani. In Matteo (vv. 8 - I o) i servi vanno fuori una sola volta ai crocicchi per invitare «cattivi e buoni» (vv. I o. I 4 ! ) . In entrambi gli evangelisti la ca­ sa dell'ospite risulta così piena di invitati. La parabola dell'abito da nozze (vv. I I - I 4 ), preceduta forse dall'in­ troduzione del v. 2, è un chiaro monito alla comunità. Nella parabola del banchetto i vv. 6 s. poterono essere inseriti solo dopo che la para­ bola narrasse di un re, dunque probabilmente solo dopo l'avvenuta aggregazione con i vv. I I - I 4· Poiché tutta l'organizzazione dei capp. 2 I -2 5 (v. la relativa introduzione) mira all'ammonizione della comu­ nità, di certo Matteo stesso ha unito le due parabole o ha addirittura composto lui stesso la seconda inserendo al contempo il riferimento al giudizio che già si era abbattuto su Gerusalemme quale esempio de­ terrente per la comunità. Sicura è la sua paternità del v. I 3 b e dell'e­ spressione « le tenebre di fuori» (cf. 2 5 ,30; 8, I 2; anche I J,42. 5 o) . La parabola del banchetto si è certamente chiusa un tempo come il v. I o, solo che non si faceva riferimento a una sala delle nozze. Forse in origine si riferiva al contrasto tra i farisei e il «popolo della terra)> da loro disprezzato, ma poi venne ben presto applicata alla contrapposi­ zione tra giudei e pagani. Non appena ciò fu avvenuto il prossimo passo venne quasi da sé e si indicarono (vv. 6-7) , come in 23,3 4-36, la persecuzione dei messaggeri di Gesù e il giudizio di Dio. Una terza forma della parabola si trova nel Vangelo di Tommaso ( 64 ) . Come in Luca, non si parla né di re né di nozze. L'invito è più b.reve, per contro le scuse sono narrate più minuziosamente. Tra le scuse si hanno crediti da ricuperare presso mercanti, acquisto della ca­ sa e affitti da riscuotere perché il narratore non vive più in una situa­ zione rurale (Le. 1 4, 1 8 s.), ma urbana. Certo, anche qui il servo viene mandato nelle strade a diffondere l'invito, ma il punto della parabola è ora il monito a guardarsi dalle faccende finanziarie che escludono dal regno dei cieli. Anche questa forma, notevolmente variata, della para­ bola testimonia che Luca è il più vicino alla forma originaria, prescin­ dendo dal duplice secondo invito. La parabola risalirà a Gesù stesso. 1 - 10. Matteo inserisce anche la nostra parabola a questo punto per­ ché mostra il rifiuto di Gesù da parte d'Israele e allo stesso tempo av-

390

Mt

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.2l, I - I 4 .

La parabola del rifiuto dell'invito di Dio

verte la comunità di non fare lo stesso d'Israele. Grazie alla ristruttu­ razione della storia il carattere gioioso assume un maggiore risalto: si tratta del banchetto nuziale di un re (v. 2; cf. a 2 5 , 1 ) ! Il verbo «invita­ re» significa anche . 38 Q u es to è il sommo e primo coman­ damento. 39 Il secondo è simile a e ss o : «Amerai il tuo prossimo come te stesso » 40 In questi due comandamenti è appesa tutta la legge e i profeti. .

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Deut. 6, s . 39 Lev. 1 9, 1 8. -40 cf. Rom.

1 3, 8 - I o .

34-40. Lo scriba di Mc. 1 2,28 non deve appartenere necessariamente ai farisei (v. a Mc. 1 ,22). Matteo li nomina espressamente e lo fa par­ lando addirittura di una loro assemblea ufficiale (v. al v. 1 5). Inoltre egli altera il testo di Mc. I 2,28: non è più lo scriba a lodare la buona ri­ sposta di Gesù ai sadducei, trovando così il coraggio di porre la sua domanda, ma sono i farisei a constatare, con non celata soddisfazione, come Gesù abbia chiuso la bocca ai loro avversari. Matteo coincide con Luca nell'espressione «esperto della legge» (qui un fariseo!), e «nella legge», nella caratterizzazione della domanda come tentazione, nell'appellativo «maestro>>, nella mancanza della risposta finale dello scriba e in particolari del v. 37· In verità in Luca è la controparte che dà a priori la risposta venendo lodato per essa. Questa importante storia è stata forse narrata oralmente in varianti e usata, ad esempio, nel catechismo così che questa forma influenzò entrambi gli evange­ listi ? Importante per la sostanza è la svalutazione della domanda, che in Marco è ancora sincera, a subdolo trucco (v. 3 5 ) Analogamente Matteo omette la lode dello scriba che accetta la risposta di Gesù e la fa propria (Mc. 1 2,3 2-34) e sposta la frase finale al v. 46 (v. ad loc.). Matteo non può più immaginarsi che uno scriba giudaico possa porre con sincerità una domanda e dare una risposta che Gesù loda. I fronti sono già chiaramente delineati e il dialogo aperto è stato interrotto (v. 40). Nella citazione del v. 3 7 Marco è un po' più aderente alla tradu­ zione greca; forse la forma che ha Matteo era corrente nella sua comu­ nità. Ha tralasciato l'inizio (Mc. 1 2,29) perché rappresenta il vero cre­ do del giudaismo e viene pronunciato giornalmente da ogni pio giu­ deo ? Egli pone esplicitamente il comandamento dell'amore del prossi­ mo sullo stesso piano del comandamento dell'amore di Dio, aggiun­ gendo che «tutta la legge e i profeti» «sono appesi» a questi due co­ mandamenti (v. a 5 , 1 8), intendendo forse come una porta al cardine. Allora la giustizia nel suo complesso dipende dall'adempimento di que­ st'unico comandamento. E ciò non significa soltanto, come dicevano i rabbi, che tutti i singoli comandamenti essenziali, che devono essere osservati tutti quanti, dipendano da questo «piccolissimo passo del­ la Scrittura» e ne possano venire derivati. Addirittura l'avversario do·

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Mt. 22.,4 1 -46. La domanda di Gesù ai farisei sul figlio di Davide

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manda letteralmente quale sia un «grande» comandamento (vv. 36.3 8). Solo la risposta di Gesù fa capire chiaramente che con ciò s'intende «il grande e primo», cioè il «sommo» comandamento. A ciò si aggiunge che solo Matteo inserisce il termine > - distingue i discepoli di Gesù, ma anche il popolo (v. a 27,2 5), dagli «scribi e farisei» (v. a 22.34). I vv. 2 s. non hanno paralleli, ma non sono composizione di Matteo stes­ so, giacché contraddicono alla sua visione ( 1 5 ,3 ss.; I 6, I I s.; 5 ,2 1 -48; v. sotto). Essi provengono da un periodo nel quale la comunità si sfor­ zava ancora di vivere severamente nell'osservanza giudaica della legge. L'aggiunta «e i farisei» è esatta solo per il periodo successivo al 7o d.C. - prima di quella data essi non hanno una vera e propria autorità di magistero -; tuttavia potrebbe essere di mano di Matteo. Viceversa questi versetti non sarebbero più possibili dopo 1'8 5 d.C. circa, quan.

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Mt.

23,1 -39·

Contro il fariseismo

giudaico e cristiano

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do la maledizione degli eretici, in particolare dei cristiani, fu senten­ ziata dal giudaismo venendo ripetuta nella sinagoga a ogni riunione di culto. Il v. 4 si trova anche in Le. I 1 ,46 in una invettiva che rappresen­ ta un parallelo ai vv I J ss. (v. sotto), sia pure in una forma molto di­ versa; solo le espressioni più vivaci sono rimaste impresse in forma stabile: i «fardelli» ben legati che «essi stessi>> non toccano «neanche con un dito». Al confronto dei vv. 2 s. l'insegnamento degli scribi è giudicato più criticamente: caricano di pesi gli uomini oltre le loro forze (così anche Atti 1 5, 1 0). Ancora diversa è la posizione del v. 5a. Qui non si rimprovera loro di non fare le opere della legge, bensì di fare tutto il possibile, ma solo per la propria gloria. Poiché è formula­ to quasi identico all'introduzione matteana di 6, I, il versetto sarà ope­ ra di Matteo cui serve per introdurre i versetti ripresi da Marco. Forse anche i particolari del v. 5 b sono frutto dell'osservazione quotidiana di Matteo; essi illustrano con maggior precisione che cosa Mc. 1 2,3 8 potrebbe intendere per «lunghe vesti». Nei vv . 6b.7a l'ordine coincide con quello di Le. 1 1 ,43 : ciò significa che la seconda metà di questo detto è stata tramandata anche fuori di Marco e accolta nell'invettiva lucana (v. sopra). Il verbo «amare>> del v. 6, che manca in Marco, è sì sostituito con un altro in Le. I I ,43, ma compare in Le. 20,46 quando Luca presenta il detto di nuovo e questa volta con un tenore del tutto identico a quello di Marco. Ciò mostra come questi detti siano stati ripetuti oralmente con varie differenze e riprodotti dagli evangelisti ora in questa ora in quell'altra forma. 8- 1 0. La fine del v. 7 serve di transizione ai vv. 8- 10. In questo mo­ do Matteo ha unito tra di loro due diverse serie di logia. Col v. 8 ini­ zia un monito ai discepoli che mira meno al confronto col giudaismo che all'ordinamento della propria comunità. In verità la serie non è unitaria. Al v. 8 «rabbi» viene tradotto «maestro» nella seconda metà, mentre nei vv 9- I o si usa solo la traduzione. Il primo detto potrebbe risalire a Gesù e affermare che Dio è l'unico maestro d'Israele (Ger. J I ,J4), forse addirittura nella forma: « ... poiché uno solo è grande (= rab[bi]): Dio». Questa potrebbe essere la ragione per cui si parla di «fratelli>> e non di «discepoli» (nel senso proprio di scolari). Anche il secondo detto (v. 9) potrebbe essere di Gesù, ma, come mostra la di­ versa formulazione, in origine sarebbe stato pronunciato in una situa­ zione diversa, cioè come avvertimento a non richiamarsi ad Abramo quale padre d'Israele e sentirsi così al sicuro (cf. 3 ,9) invece di affidarsi .

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Mt. 23, 1-39. Contro il fariseismo giudaico

e

cristiano

veramente al Dio vivente quale unico padre. Il detto ha una formula­ zione strana: non c'è «nessuno», ma solo «non>>, risultando incom­ prensibile nella forma: «Nessuno tra di voi dovrete chiamare vostro padre>>. Se il detto avesse recitato in origine «non dovrete chiamare Abramo vostro padre», si spiegherebbe allora perché solo in questo versetto si direbbe «vostro padre>>. Dopo pasqua i due logia associati sarebbero stati applicati alla nuova situazione della comunità (cf. 1 Tess. 4,8 s.; 1 Gv. 2,27) e i�terpretati mediante un terzo detto di nuova formulazione quale chiaro ammonimento contro ogni desiderio di ti­ toli. La forma attuale è certamente nata nella comunità, giacché l'uso assoluto «il messia ( = il Cristo)» manca nel giudaismo dell'epoca e il titolo di Cristo entrò nell'uso solo dopo pasqua. In bocca di Gesù es­ so appare soltanto in Mc. 9,4 I dove tuttavia Mt. I 0,42 offre la forma più antica; in I 2,3 5 senza diretto riferimento a Gesù; in I 3,2 I s. con ri­ ferimento ai falsi maestri del periodo postpasquale e in Le. 24,46 dopo pasqua; persino in Giovanni appare una sola volta (Gv. I 7,3). Inoltre i versetti già presuppongono che i cristiani si fregino di questi titoli (cf. I 3 , 5 2; 2 3,34). Deve quindi esserci qualcosa che somigli a una regola della comunità formulata dai profeti cristiani nel nome del Cristo glorificato (v. excursus a 7, I 3 -23 [2]). Questa regola è in netta opposi­ zione al riconoscimento dell'autorità di magistero dei rabbi giudaici ai vv. 2 s. Matteo stesso aggiunge nei vv. I I s. due detti citati spesso: il v. I I (cf. intr. a Mc. 9,3 3 -3 7) nella forma adeguata a 20,26 (e forse a Le. 22,26); il v. I 2 nella forma adeguata a I 8,4 (v. ad loc. ) e particolarmen­ te a Le. I4, 1 1 ; I 8, I 4. Matteo amplia pertanto i detti nel senso di una regola di umiltà generalmente valida. In questo modo egli interpreta la tradizione precedente ponendola in una cornice molto più ampia. Una evoluzione simile avviene in 5,20 per 5 , 1 8 s.; in 5,23 s. per 5 ,2 1 s.; in 6, I 4 s. per 6,9- 1 3; in I 8, 1 8 s. per I 8, 1 5 - I 8, ecc. 1 3 -3 3. Con il v. 1 3 inizia una serie di sette invettive (senza il v. I 4; v. ad loe. ). Mc. I 2,3 8 -4o non conosce ancora alcuna invettiva; Le. I I , 3 8 - 5 2 n e conosce sei, ma qui l'ordine e spesso anche i l tenore sono totalmente diversi. Le. I I ,43 e 46 presentano, ad esempio, due invetti­ ve che Matteo (con Marco) conosce ancora in una forma senza il «guai»; viceversa il nostro v. 2 5 ha un «guai» che manca ancora in Le. r l ,39. Detti contro i farisei sono stati dunque raccolti e combinati in maniera diversa a formare serie di invettive di cui le settenarie sem­ brano essere state le preferite. Luca ha effettivamente sette detti, an-

Mt.

23, 1 -39· Contro il fariseismo giudaico e cristiano

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che se introduce il primo senza il «guai» e mediante un inserimento tra il quarto e il quinto separa artificialmente tre invettive contro i fa­ risei da tre contro gli scribi. La serie di Mt. 23, 1 3 -3 3 contiene un chia­ ro detto secondario ai vv. 1 6-22 che completa la serie settenaria. La prima invettiva (v. I J) è formulata diversamente in Le. 1 1 ,52: gli esper­ ti della legge hanno tolto dalla porta «la chiave della conoscenza>> (v. a Mt. I I ,2 5); solo le conseguenze sono descritte in maniera simile_ a Matteo. Con il riferimento al regno di Dio Matteo dovrebbe cogliere meglio il tenore originario. In un papiro si ha il detto nella forma di Luca, ma in opposizione al comandamento di Gesù di essere accorti come serpenti. Il v. 14 manca in tutti gli antichi manoscritti ed è stato integrato solo da copisti con l'invettiva di Mc. 1 2,40. Singolare è la terza invettiva (vv. 1 6-22). Solo qui manca la formula «scribi e farisei ipocriti>>; la parte seguente è eccezionalmente lunga e corrisponde, ma con una formulazione diversa, a quanto detto in ( I 5 , I 4 e) 5,3 3 - 3 7· I vv. 1 6- 1 9 sono strutturati secondo uno schema parallelo: non ha senso ritenere vincolante il giuramento per la cosa minore e non vincolante quello per la cosa maggiore. Un parere simile si trova nei rabbi più se­ veri e in CD I 6,7 s. I vv. 20 e 2 I ripetono esplicitamente, ma in ordine inverso, la decisione già presa in forma interrogativa. La conclusione del v. 2 I subisce già l'influenza del v. 22, così che si parla di colui che vi abita invece che «di ciò che vi si trova dentro>>, Il v. 22 riprende precisamente 5,34 argomentando però in maniera diversa: anche giu­ ramenti apparentemente innocui implicano già Dio. Qui si coglie an­ cora il suono della voce di Gesù: non si può evitare Dio. L'espressione «pazzo>> del v. 17 è invece quella criticata da Gesù (5,22). Il tempio è ancora presupposto e non viene contestato: si è ancora prima del 70 d.C. Nella quarta invettiva solo il primo elemento della terna di cose da evitare e della terna di cose da fare coincide sempre in Matteo e in Luca: «pagare la decima sulla menta» e non fare «il diritto»; coincide anche il principio che si debba fare ciò senza tralasciare il resto. Quando Luca nomina «ogni tipo di verdura» rovina il punto saliente che elenca una serie di ridicole quisquilie; inoltre cristianizza la terna diritto-misericordia-fede nota al giudaismo con l'aggiunta dell' «amo­ re di Dio». Ancora oltre vanno alcuni manoscritti di Luca che cancel­ lano l'affermazione di «non tralasciare» la decima perché non è più praticata nella comunità. Il detto proviene anch'esso dal giudeocristia­ nesimo di prima del 70 d.C. quando ancora si offriva la decima al tem-

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Mt. 23, 1 -39· Contro il fariseismo giudaico e cristiano

pio e la giurisdizione civile era in mano giudaica. In questo detto si difende il più rigido legalismo farisaico (v. sotto), a patto che non sia­ no dimenticati i comandamenti più importanti. Al · v. 24, introdotta come al v. 1 6 (= 1 5, 1 4) con «cieca guida di ciechi», viene aggiunta una efficace metafora; nella quinta invettiva, introdotto da «fariseo cieco» (al sing. !), viene aggiunto un consiglio per migliorare (v. 26). Un simi­ le consiglio non ha paralleli altrove, ma ricorda Le. I 1 ,4 I dove appare p oco prima (v. 39) il medesimo rimprovero di 23,2 5, ma senza il «guai». E difficile determinare la forma primitiva del detto. Le. I 1 ,39 contrap­ pone all' «esterno della coppa» il «vostro intimo», giacché il riferimen­ to all'intim� della coppa è quasi impossibile. Poiché tutti i passi rabbi­ nici insistono solo sulla pulizia della parte interna, in origine il detto contestava sicuramente una pulizia che riguardava solo cose esteriori come le stoviglie, ma non l'intimo dell'uomo, il cuore. Questa lettura è anche confortata dal riferimento al creatore che ha fatto tanto «il fuori» quanto «il dentro» (Le. I I ,40). Ili verità già Luca non ha più capito bene il detto perché al v. 4 I ritorna a parlare dell'interno della coppa, cioè il suo contenuto, consigliando di darlo via in elemosine per diventare puro. Meno che mai pensa al cuore Matteo che si riferi­ sce al contenuto impuro, cioè ottenuto in modo illegittimo agli occhi di Dio, di coppa e piatto. Anche la sua aggiunta al v. 26 non si adatta all'invettiva perché essa conta ancora su un miglioramento. La forma dell'invettiva successiva (vv. 27 s.) è molto lontana da Le. 1 1 ,44. Poi­ ché la frase «ma dentro traboccano di ... » appare alla lettera al v. 2 5 e l'opposizione di interno ed esterno del fariseo appare alla lettera in Le. 1 1 ,39 s., la comunità ha certo trasformato un modo di dire figurato, «sepolcri imbiancati», in un'invettiva e lo ha fatto finché continuava a essere ancora ovvia l'idea che il contatto con le ossa dei morti rendes­ se impuri. Il v. 28 potrebbe essere interpretazione matteana, sebbene i termini «interno» ed «esterno» qui usati, e anche la loro applicazione, siano diversi da quelli del v. 26. L'ultima invettiva (vv. 29-3 2) deduce in maniera sottilissima che quanti vogliono prendere le distanze dai torti commessi dai loro padri proprio facendo così ammettono di es­ serne i figli, dunque di condividerne la colpa, mentre Le. I 1 ,47 s., dove non si ha un'invettiva, dice semplicemente: «Gli uni hanno ucciso, gli altri costruiscono le tombe (dimostrandosi così loro complici)». An­ che qui Luca pare conservare la forma più antica. Il v. 3 3 è certamente la conclusione matteana del discorso con le invettive, ricordando 3,7.

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34-36. I vv. 34-36 corrispondono a Le. I 1 ,49- 5 I dove però si tratta di una sentenza della Sapienza di Dio. Ariche il nostro detto dovrebbe esserlo stato in origine. Lo dimostra già quel «a lo�o>> (Le. 1 I ,49) che è fuor di luogo in un discorso di Gesù rivolto al popolo; soprattutto la coordinazione per mezzo di «perciò» ha un senso solo in Luca che prosegue: « ... disse la Sapienza di Dio». Soltanto così si può capire il detto anche in Matteo (v. la traduzione proposta). In una sentenza sa­ pienziale stanno bene anche i «sapienti e scribi» che altrimenti in Mat­ teo non sono mai associati (v. sotto, excursus ai vv. 34-39). Il detto corrisponde formalmente a un oracolo di sventura dell'Antico Testa­ mento che anche lì segue spesso un'invettiva (cf. fs. 5 , 1 8-24; anche 8 Io) come qui deve essere successo già in Q. I l passato del verbo, «la Sapienza disse» (Le. 1 1,49), indica che non è che Gesù si sia considera­ to in origine lui stesso la Sapienza, ma si vuole fare riferimento a una più antica parola della Sapienza con la quale essa si presentò in veste di oratrice (prima della creazione: Sap. 7,27; I O, I ss. ?) rimirando tutto il corso futuro della storia della salvezza. In Q è stato sicuramente aggiunto il riferimento a «questa generazione» perché ora Gesù veni­ va visto quale ultimo inviato, la sua morte quale definitiva ricapitola­ zione dei destini di tutti gli inviati della Sapienza di Dio. Luca ha po­ sto a fian co dei profeti dell'Antico Testamento gli apostoli e ha inclu­ so la storia che continuava dopo la morte di Gesù. Matteo fa invece parlare così Gesù quale Sapienza incarnata, cambiando di conseguen­ za il futuro («manderÒ») in un presente («vi mando ... »). Per Matteo tutte e tre le categorie sono inviati del Nuovo Testamento. Nel v. 3 4b si riflettono esperienze cristiane, come mostra soprattutto il verbo «crocifiggere». Fuori del Nuovo Testamento non si trova una simile unione tra la Sapienza personificata e il destino violento dei profeti. 37-39. Il detto rivolto a Gerusalemme si trova uguale quasi alla let­ tera in Le. 1 3,34 s. e proviene quindi da Q. Si trovano i medesimi ter­ mini significativi della pericope precedente: inviare, profeti, uccidere. Potrebbe essere questo motivo linguistico che ha suggerito a Matteo di collocare il detto in questo contesto. Ma probabilmente anch'esso fu in origine una sentenza della Sapienza: si riferisce molto meglio a lei che a Gesù la frase «quante volte», giacché sia per Matteo sia per Luca questa è la prima volta che Gesù, prescindendo dalle storie del­ l'infanzia, venne a Gerusalemme. Alla Sapienza, che tanto in greco quanto in ebraico e aramaico è di genere femminile, si adatt3:no l'im-

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magine dell'uccello che, come la nostra parola «chioccia», è in greco di genere femminile, e quindi del «raccogliere sotto le ali». Anche l'uscita finale dalla città si adatta alla figura della Sapienza (v. sotto, excursus ai vv 34-39). Bar. 4, r dice che la Sapienza sarebbe la legge di Dio e in 4, 1 2 fa poi intonare a Gerusalemme un lamento funebre: «Sono rimasta sola a causa dei peccati dei miei figli, perché si sono al­ lontanati dalla legge di Dio». Qui si è molto vicini al lamento che i fi­ gli di Gerusalemme hanno rifiutato la Sapienza e la città resterà perciò sola e abbandonata (A1t. 23,3 7 s.). Infine Matteo usa di solito per Ge­ rusalemme una diversa forma greca del nome; quella usata qui risale quindi certamente alla tradizione. Certamente qui si ripensa all'invio dei messi in retrospettiva, mentre i vv. 34-36 lo considerano solo in prospettiva; tuttavia i vv. 3 5 e 36 corrispondono in larga misura alla retrospettiva del v. 3 7 e alla prospettiva del giudizio imminente del v. 3 8 . Il nesso tra i due detti non è· quindi molto stretto, ma l'affinità so­ stanziale è palese. Entrambi i detti potrebbero essere affini ed essere stati uniti già in Q con le invettive; infatti il primo (Mt. 23,34 ss. = Le. 1 1 , 4 9 ss.) compare anche nel corrispondente discorso di Luca. Luca dovette inserire solo successivamente il secondo detto perché per lui il discorso delle invettive non viene pronunciato a Gerusalemme. Una serie di indizi indicano un ambiente giudaico quale luogo di prove­ nienza del primo detto: «a lei» (non «a te>> come tradotto), l' espressio­ ne avverbiale usata qui per dire «come» ricorre spesso nell'Antico Te­ stamento greco e la lapidazione, che è la maniera giudaica di eseguire la pena capitale, mentre Gesù, come si sa, non fu lapidato. Gesù po­ trebbe aver ripreso una simile sentenza della Sapienza e averla poi ri­ ferita di fatto a Dio stesso che vuole raccogliere Israele sotto le pro­ prie ali. Ma è più verosimile che la comunità, con ragione, abbia visto raffigurato in questi detti il destino di Gesù (v. sotto, excursus ai vv 34-39). Almeno il v. 3 9 fu aggregato quando si riferì il detto a Gesù; infatti negli scritti giudaici non si allude mai a un ritorno della sapien­ za insieme con il messia. Lo stesso Matteo aggiunse ancora «infatti» e «da questo momento in poi>>: con entrambe queste espressioni egli di­ ce esplicitamente che il giudizio del v. 39 si compie adesso con l'uscita di Gesù dal tempio. «Da ora in poi>> Dio sarà dove due o tre saranno riuniti nel nome di Gesù ( 1 8,20) e osservano i suoi comandamenti in tutte le nazioni della terra (28,2o). Il v. 39b (= 2 1 ,9) deve riferirsi al ri­ torno di Gesù, non, ad esempio, all'entrata in Gerusalemme. .

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1-7. Già nel versetto introduttivo Matteo mostra di volere, da un la­ to, rivolgersi al popolo, cioè fare opera missionaria per Gesù nel qua­ dro della controversia tra il giudaismo del tempo, dominato totalmen­ te dai farisei, e la comunità di Gesù e, dall'altro, parlare ai discepoli, cioè esortare la comunità a comportarsi in modo giusto, adeguato a Gesù (similmente Le. 20,4 5; cf. a Mt. 5, 1 ). La pretesa dei farisei dell'e­ poca di detenere la cattedra di Mosè (v. 2), significa che Mosè è consi­ derato un maestro e che può essere capito soltanto nell'interpretazio­ ne di farisei e scribi. Ciò non viene contestato (v. 3); al contrario si esorta a seguire questo insegnamento della legge. Solo che si rimpro­ vera ai maestri farisaici di non vivere essi stessi secondo la loro dottri­ na. Ciò contraddice in verità a 5,2 I ss. o I 5, I ss., dove si attacca non il comportamento dei farisei, ma la loro dottrina ( 1 5, 5 -9). Più che mai vive coerentemente con la sua dottrina il fariseo descritto da Gesù nella parabola di Le. I 8, 1 - 1 4 il quale fa anche più di quello che la legge richiede. A questo punto si sente la voce di un giudeocristianesimo ortodosso che vuole inserirsi nell'ordine determinato dalla dottrina dei farisei, dando però importanza primaria alla prassi (un po' come avviene per i rabbi). Matteo può accogliere queste sentenze perché le interpreta nel senso di 5, I 7-20 (v. ad loc. ) . Lo dimostra l'inserimento del v. 4· I fardelli pesanti sono i molti comandamenti singoli: qui si sente dunque la voce di un giudaismo riformista o di un gruppo giu­ deocristiano per i quali la legge letta alla farisea ha cessato di essere gioia e dono di Dio, ma è diventata un peso opprimente. I monaci di Qumran o i farisei coerenti, che prendevano particolarmente sul serio la legge, hanno spesso provocato presso i contemporanei un senso di disperazione simile a quello del giovane Lutero. Perciò si cercava un principio fondamentale che ricapitolasse tutti i singoli comandamenti, che rendesse possibile vivere in fedeltà alla legge, senza presupporre la conoscenza di tutti i singoli comandamenti e della loro interpretazio­ ne possibile solo al teologo. negli scritti giudaici del tempo (4 Esdra) si coglie tale anelito. Nella comunità di Gesù il nuovo approccio di Gesù (v. a 5,2 I ss.) porta già prima di Paolo alla conoscenza che l'ub­ bidienza d'Israele verso i comandamenti di Dio è qualcosa di grande e distingue Israele dai pagani, ma non rende ancora giusti agli occhi di Dio. Secondo Gal. 2, I 5 s. è questo che anche Paolo presuppone al co­ spetto di Pietro (cf. anche Giac. 2, 1 o). Con la seconda metà del detto si vuoi probabilmente dire, per analogia con paralleli giudaici, che i

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maestri della legge non si attengono essi stessi a essa e non che essi non siano in grado di aiutare altri a farlo. Al v. 5 si presuppone, diver­ samente dal v. J, che essi facciano opere. Ciò che è sbagliato è che so­ no dirette a ottenere la lode degli uomini. Qui è lo stesso Matteo che parla, come fece in 6, I (v. ad loc.). Ciò mostra la sua capacità di unire nei vv. 2 s.4.6 s. tradizioni diversissime: con le loro numerose norme caricano sulle spalle degli uomi ni pesi enormi e per quanto si possa lodare la serietà dimostrata nei riguardi della legge, con tutto ciò essi ancora non fanno quel che Dio vuole con la sua legge. Essi sono sem­ pre orientati verso .1' osservanza perfetta di tutti i comandamenti affin­ ché si possa notare la loro ubbidienza invece di cercare veramente Dio il quale richiede un adempimento che non sia semplicemente verifica­ bile. Una concezione simile si può cogliere sullo sfondo di Rom. 2,28 ss. (cf. a 6, I). Matteo menziona nappe e fìlatterie invece dei lunghi abi­ ti (Mc. 1 2,3 8) perché egli non rimprovera ai farisei la vanità, ma un'os­ servanza assolutamente esatta di ispirazione religiosa che privilegia la visibilità, la verificabilità da parte degli uomini, che induce dunque a intendere l'ubbidienza come una prestazione misurabile e valutabile umanamente. Si legavano con strisce di cuoio alla parte superiore del braccio sinistro, vicino al cuore, e attorno alla fronte piccoli astucci nei quali si conservava il testo di Es. I J , I - I 6; Deut. 6,4-9; I r , r 3 -2 I perché in Deut. 6,8 è scritto che ci si doveva legare alle mani e attorno alla fronte i comandamenti di Dio. Essi sono stati spesso indossati co­ me amuleti, che è poi il significato del termine greco «filatterio» . An­ che le nappe della veste sono prescritte secondo Num. I s ,3 8-4o per servire da segni che ricordano i comandamenti di Dio. Le diverse scuole hanno disputato tra di loro sulla loro lunghezza. A questo pro­ posito il nostro versetto non critica questa usanza, ma solo la motiva­ zione dietro al desiderio di farsi notare per la particolare larghezza delle strisce di cuoio o per la lunghezza delle nappe o delle frange. Un rimprovero simile stava già in Mc. I 2,3 8 s. che si ritrova poi anche co­ me invettiva nel discorso lucano contro i farisei (Le. I I ,43). Che Mat­ teo rimproveri il desiderio di titoli onorifici per stabilire un legame tra l'accusa contro i farisei e il monito rivolto alla propria comunità mo­ stra come l'evangelista intenda l'ordinamento della comunità cristiana una testimonianza della differenza essenziale tra la schiera dei disce­ poli di Gesù e il giudaismo farisaico. 8-1 �. La comunità cristiana è sostanzialmente una fratellanza· (v. 8).

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L'autorità di Dio quale suo padre e di Gesù quale suo ·maestro non tollera concorrenti in alcuna circostanza (vv. 9- 1 0 ) . Si deve rendere testimonianza della sua unicità mediante la rinuncia totale a titoli onorifici la quale non cerchi più di appropriarsi di quanto è riservato a Dio e a Cristo. Ciò va assolutamente d'accordo con un giusto senso dell'onore che si deve all'età ( 1 5,4-6), anche se non con un uso di «pa­ dre» o «presbitero» = «anziano» quale titolo onorifico. «Rab(bi)>> si­ gnifica in origine «(mio) grande» e al tempo di Gesù non era affatto un titolo riservato al «maestro». È tipico di Matteo e della sua tradi­ zione che venga messa in risalto soltanto questa funzione. L'epiteto onorifico di «padre» non era frequente, ma comunque attestato da 2 Re 2, I 2; 6,2 1 ; I J, I 4; Atti 7,2; 22, I e altri esempi contemporanei. Que­ sto titolo non deve essere neanche usato per i della storia della salvezza: i discepoli di Gesù non devono vivere nel passato. A questo proposito (vv. I 1 - 1 2) Matteo chiarisce (v. intr.) che la rinuncia ai titoli non basta finché non vale l'unica scala dei gradi di servizio della co­ munità: colui che serve con più energia ed è quindi chiaramente sul gradino più basso ai propri occhi e a quelli del suo prossimo, nella scala di Dio sta al livello più alto (cf. Ez. 2 I ,3 1 ; Giob. 22,29; Prov. 29, 23). Dietro a Matteo c'è quindi una comunità che non conosce altra gerarchia che questa paradossale scala dei valori di Dio (cf. a I 8,4 ed excursus a 7, I 3 -2 3 [ 5 ]), una scala che vale anche per gli scribi cristiani ( I 3, 5 2; 23,34: v. ad loc. ). 1 3-2 2. La prima invettiva (v. I J) ha per oggetto il potere delle chiavi dello scriba (v. a I 6, 1 9). Qui il regno di Dio è visto come una stanza nella quale si può entrare. Forse un tempo si pensava a coloro che so­ stenevano che l'entrata nella comunità cristiana fosse incompatibile col giudaismo e dunque ostacolarono la missione cristiana. Per Mat­ teo stesso il regno di Dio è di solito futuro (v. a I J ,4 I ). Egli vuole dunque dire che la via dell'osservanza farisaica della legge non condu­ ce al futuro regno di Dio. Per l'epiteto «ipocrita>> cf. a 6,2. Il v. I 5 è prova di un'intensa missione giudaica che di solito non ci si aspetta affatto. Proselito è chi aderisce totalmente al giudaismo e con la cir­ concisione si assume l'impegno di osservare tutti i comandamenti. Le testimonianze di scrittori greci mostrano come il giudaismo abbia at­ tratto molti; lo attestano anche i «timorati di Dio» (Atti 1 0,2.22; I J , I 6. 26; I 7,4. I 7; I 8,7), simpatizzanti che visitano più o meno regolarmente la sinagoga senza avere aderito pienamente al giudaismo. La missione

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cristiana che non esigeva la circoncisione e l'osservanza, praticamente . impossibile fuori della Palestina, dei comandamenti rituali dovette es­ ser sentita come concorrenza. Questa situazione potrebbe stare a mon­ t e del nostro versetto con i pagani convertiti che potrebbero essersi dimostrati spesso più fanatici dei missionari che li avevano convertiti. Forse si dovrebbe addirittura tradurre (v. a 5, r 8}. Può essere vissuta solo con la fede in colui che non solo interpreta con autorità la legge di Dio in maniera nuova, ma l'ha vissuta quale messia dell'umil­ tà e coinvolge così i suoi discepoli nell'adempimento (v. retrospettiva [5]). Con il legalismo scrupoloso il povero non ottiene ancora il suo «diritto», ma al massimo la carità. Nel legalismo non vive ancora la «misericordia» che vede realmente il prossimo, non è infine «fede» che si aspetta tutto da Dio. Con il legalismo Dio viene preso nella rete della scrupolosa osservanza di determinate norme così che non può più incontrare l'uomo quale Dio vivente con i suoi doni sempre nuo­ vi, ma anche con le sue sempre nuove richieste. In questo detto si av­ verte l'eco della lotta della comunità con il problema del legalismo. Se il detto originario ha considerato del tutto giusto la rigida applicazio­ ne farisaica della decima, ma insieme fatto notare l'esistenza di co­ mandamenti più importanti, già in Matteo, nel contesto dell'intero vangelo, cade su di esso una nuova luce che proviene dalla visione molto più radicale di Gesù. Luca offre un'altra lettura ancora diversa nella quale l'amore di Dio diventa esortazione all'elemosina (Le. I 1 , 4 1 ). Infine s i arriverà anche a cancellare l a frase che non si deve tra­ scurare nemmeno la decima (v. sopra}. 2 s-33· L'inizio del v. 2 5 si riferisce alla pulizia di recipienti, il segui­ to non è chiaro. Matteo vuoi dire che cibi e bevande sono procurati con l'ingiustizia e l'avidità. Ciò che è dentro bicchiere e piatto non appartiene in realtà a coloro che ne godono. A motivo del loro gran mangiare e bere altri soffrono fame e sete. Agli occhi di Dio sono «puri» quei bicchieri e quei piatti il cui contenuto è stato guadagnato secondo giustizia, non quelli che sono stati lavati secondo le regole religiose (v. 26). Ma forse il testo risente già anche della lettura meta-

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forica che vede il fariseo stesso come un « recipiente» il cui interno non è a posto. A dire il vero questo pensiero è espresso in Matteo solo nell'invettiva seguente (v. 27). Le tombe venivano regolarmente im­ biancate prima della pasqua per mettere in guardia i numerosi pelle­ grini dal pericolo di contaminarsi passandovi distrattamente vicino. Importante è solo il contrasto tra l'apparenza esteriore, dalla quale mette in guardia già 6, 1 ss., e la sporcizia interiore (v. 2 8). Ipocrisia e iniquità (v. a 6,2 e 7,2 3), che qui sono sentite come sinonime, rappre­ sentano un compendio, .tipicamente matteano, di tutto ciò che Dio rifiuta. In origine la polemica può essere stata ancora più aspra: come una tomba imbiancata appare linda, ma contamina chi vi passi sopra, così il contatto con il fariseo e la sua dottrina, per quanto possano ap­ parire grandiosi, separa da Dio colui che ha rapporti con loro. La tomba di Davide viene ricordata in A tti 2,29; anche scritti giudaici parlano di tombe alle quali cominciò allora una sorta di culto dei santi (vv. 29-30). Ma non mancarono voci che ammonivano: «Non si co­ struiscono sepolcri per i giusti; infatti le loro parole sono i loro monu­ menti funebri». Si narrano martìri di profeti, ad esempio un segamen­ to di Isaia e una lapidazione di Geremia di cui l'Antico Testamento non sa ancora niente (ma cf. al v. 3 7), mentre ne sono informati Ebr. 1 1 ,36-3 8 (v. ad loc.) e scritti giudaici. Per i «giusti» cf. excursus a 7, 1 3 2 3 (4). Ancora una volta viene fustigata la fuga da Dio che vuole la­ sciarsi alle spalle una storia irrisolta e prendere le distanze dalle azioni dei padri. Proprio il fatto che non se ne voglia sapere niente mostra quanto sia malvagio questo passato dal quale si proviene e che non si supera semplicemente fuggendone (v. 3 1 ). O si critica soltanto l'este­ riorità della loro religiosità che edifica monumenti? Dietro al detto potrebbe nascondersi un gioco di parole ebraico, di quelli in cui si di­ lettavano gli scribi del tempo: bonim significa «costruttori» o «testi­ moni», banim «figli» e la parola che significa «monumento sepolcra­ le>> è affine a «vita, anima-sangue» . Forse Matteo vuole addirittura di­ re che proprio con giustificandosi in tal modo essi mostrano la mede­ sima durezza di cuore che i profeti hanno invano cercato di scalfi re con i loro padri. Se al v. 3 2 si deve leggere un imperativo, non si può non coglierne l'ironia: avanti, completate il peccato dei vostri padri facendo ancora quello che loro hanno tralasciato (vv. 34 s.)! Il riepilo­ go taglia qualsiasi via di fuga nello stile dell'annuncio del giudizio di Giovanni.

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34-39. Così sarebbe aperta la porta per il ravvedimento. Ciò sareb­ be particolarmente sottolineato se fosse lecito collegare il «perciò» (v. 3 4a) direttamente con il detto. Ma probabih;nente si deve invece legge­ re: «Perciò (sta scritto) .. . ». Tuttavia anche così Matteo vede uno stret­ to legame tra le due parti. Nel resto del v. 34 Matteo pensa a profeti, sapienti e scribi cristiani. Non parlando né di apostoli né di anziani Matteo mostra di venire da una comunità con un diverso ordinamento nella quale la proclamazione prende forma secondo i moduli corren­ ti del giudaismo: esposizione della Scrittura e raccolta di sentenze sa­ pienziali. La novità, ma solo parziale, è che sono nuovamente sorti profeti per annunciare le disposizioni di Dio direttamente nella nuova età (cf. excursus a 7, I 3 -23). Costoro sono mandati tutti da Gesù per invitare Israele al ravvedimento. Ma la possibilità viene sprecata, gli inviati di Gesù vengono perseguitati. Così il giudizio di Dio è diven­ tato inevitabile e sarà un giudizio che concluderà definitivamente tut­ ta la storia precedente. Matteo pensa forse addirittura a 27,2 5 . Per an­ tica concezione il sangue versato grida finché non viene vendicato (Gen. 4, I o; Giob. I 6, I 8; /s. 26,2 I ; Ez. 24,7 s.). Che venga menzionato il primo omicidio della Bibbia è chiaro. Per Zaccaria è quasi sicuro che si pensi a 2 Cron. 24,20-22, cioè all'ultimo omicidio menzionato nell'Antico Testamento. Nel testo ebraico la vittima si chiama Zacca­ ria ed è un sacerdote, così che l'uccisione nel cortile del tempio (2 Cron. 24,2 I !) si adatta bene alle circostanze. A dire il vero quasi tutte le tra­ duzioni greche lo chiamano Azaria; soprattutto, costui è figlio di Joja­ da, mentre Zaccaria, figlio di Barachia, è il profeta del libro omonimo che non risulta, stando ai testi, sia stato assassinato. Poiché Le. I I, 5 I ha semplicemente «dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria», in Matteo è avvenuto quasi sicuramente uno scambio di persone. Ciò è molto più naturale dell'ipotesi, avanza.ta in passato, che si tratti di un altro Zaccaria, figlio di un certo Baruc, ucciso nel 67-68 d.C. (v. 3 5 ) . Con «questa generazione>> Matteo intende riferirsi alla generazione che è vissuta al tempo della passione di Gesù e ha ancora vissuto la di­ struzione di Gerusalemme oppure interpreta la frase alla luce di 27,2 5 e intende tutto l'Israele che ha rifiutato Gesù (v. a 24,34) ? L'immagine dell'uccello che protegge con le ali è applicata nell'Antico Testamento a Dio (Deut. 3 2, I I ; /s. 3 I ,5; Sal. 36,8). Anche di un convertito al giu­ daismo si diceva di averlo portato «sotto le ali della shekinah ( = della presenza di Dio)». Gesù appare dunque qui al posto stesso di Dio (v.

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sopra, intr. ai vv 37-39). Così si vuol dire che Dio diventa concreto, reale sulla terra e che ciò avviene in Gesù. Già che Dio non si limiti a· imporre di andare da lui, ma prenda egli stesso l'iniziativa e voglia raccogliere i suoi, più che mai che questa sua azione «è diventata car­ ne» in Gesù (Gv. 1 , 1 4) è il miracolo della grazia. Infatti anche l'Antico Testamento attende questa riunione solo negli ultimi giorni (Sal. ro2, 23; 1 06,47; I 47,2; /s. 5 2, 1 2 LXX; 2 Macc. 1 ,27; cf. Mt. 24,3 I ). Israele uccide i messi di Dio (Ger. 7,23,2 5). Così ci si deve aspettare la morte di Gesù (non uno scandalo come in 1 Cor. 1 ,23 !). Non è sostanzial­ mente rilevante se la «casa>) sia la città o il tempio (v. 38). In ogni caso la coordinazione con «infatti)> indica che Matteo voglia dire: con la partenza di Gesù Dio ha abbandonato la sua dimora (v. 39). Si è così adempiuto ciò che i profeti hanno annunciato quale giudizio di Dio (Ger. 1 2,7; cf. Ez. 8,6; I 1 ,23; Hen. aeth. 89, 5 6; Bar. syr. 8,2; 5 Esd. r, 3 3). Solo il ritorno d i Gesù (v. excursus dopo 2 5,46) porrà fine al pe­ riodo della lontananza di Dio. A rigor di termini sarebbero i farisei e gli scribi che ne avrebbero salutato festosi il ritorno, ma questa con­ clusione è così staccata dal discorso ai farisei, che Gesù sta ora annun­ ciando a tutta Gerusalemme (v. 3 7) che Dio abbandonerà la città fin­ ché essa non andrà incontro, festante e osannante, a colui che ritorna. Forse con queste parole si allude a voce bassissima a qualcosa del ge­ nere di Rom. I I ,26: il definitivo ritorno in patria di tutti. In verità non si dice se allora tutti o solo alcuni di loro andranno cantando incontro a colui che ritorna; inoltre 2 r ,9 indica che nella propria stoltezza si può giubilare così, senza sapere che cosa si faccia. Così il v. 39 dice si­ curamente: proprio colui che è stato rifiutato verrà in veste di giudice; in questa prospettiva la sua morte si trasformerà in salvezza per i suoi che hanno portato avanti la sua missione (v. 34). Uno sguardo retrospettivo mostra con quale abilità Matteo abbia intrecciato tradizioni molto diverse unificandole. Dal pieno ricono­ scimento della dottrina farisaica alla quale manca solo il fare (vv. 2 s.) oppure proprio l'osservanza dei comandamenti più importanti (vv 23 s.) passando per la lagnanza che le richieste dei farisei siano pesanti e irrealizzabili (v. 4) e il rimprovero che essi stessi fanno sì cose buone, ma solo per apparire agli occhi degli uomini (vv 5-7) fino alla più ra­ dicale rimostranza nei confronti di un legalismo ridicolo (vv r 6-22) o meramente esteriore (vv. 2 5-28) e fino all'accusa di chiudere a chiave, per sé e per tutti coloro che li seguono, il regno di Dio (vv. I 3. 1 5) e .

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perciò di essere i veri assassini dei profeti (vv. 29-32), non c'è sfuma­ tura della polemica che manchi nella composizione di Matteo. Se quin­ di si vuole trovare materiale per una polemica contro i teologi non è necessario cercare fuori della Bibbia. Si deve capire l'asprezza di que­ sto discorso di giudizio dapprima nel quadro della situazione ai tempi di Matteo. La giovane comunità che è perseguitata dal giudaismo e minacciata con la fustigazione e la crocifissione (v. 34) deve difendersi per non soccombere. Viceversa essa incontra un giudaismo che dopo la catastrofe del 70 d.C. può sopravvivere soltanto se conduce la pro­ pria vita religiosa particolare con ferrea disciplina. Da un punto di vi­ sta umano il giudaismo è sopravvissuto solo perché la classe scribale farisaica ha ingabbiato la vita in tutti i suoi aspetti in precetti severissi­ mi, conservando così l'antica tradizione. Al contrario il nuovo movi­ mento di Gesù che aveva sperimentato la presenza dello Spirito, il ri­ torno della profezia, la grande liberazione che gli permetteva di ama­ re, non poteva che separarsi nettamente da questo atteggiamento. Il conflitto fu davvero inevitabile. Ciò che attraversa come un filo rosso tutto il discorso è l'avvertimento, che non si può non cogliere, a non "fuggire da Dio, a non «aggirare» Dio. Questa fuga è un pericolo con­ creto dovunque si serva sì Dio con la massima serietà, ma pure in que­ sto modo lo si voglia «manipolare». Proprio perché si desidera essere sicuri di non allontanarsi né da lui né dalla sua volontà si cerca di ren­ derlo disponibile, comunicabile attraverso dogmi e regole. In questo modo si elude il Dio vivente che continuamente, anche attraverso la nostra perfetta disciplina, vuole dire la sua parola nuova e si aspetta da noi altre e maggiori cose. Accuse simili sono state espresse anche nel giudaismo del tempo, a dire il vero contro singole figure e pratiche, non contro il sistema stesso. Per quanto si debba concedere che qui venga tracciata un'immagine molto unilaterale e quindi falsa della pie­ tà farisaica, pure anche Matteo vuole chiamare, come quelle voci alza­ te in seno al giudaismo, alla conoscenza di sé e al ravvedimento. Che l'evangelista voglia rivolgersi proprio qui anche alla propria comunità risulta chiaro dall'interpolazione dei vv. 8- 1 2, ma soprattutto dalla con­ tinuazione nei capp. 24 s. (v. intr. ai capp. 2 1 -2 5). Così anche questo discorso va letto nel contesto di tutto quanto il vangelo e delle dure parole dirette al proprio indirizzo. In caso contrario questo discorso diverrebbe un giudizio molto poco cristiano sugli altri.

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Gesù, Sapienza di Dio

Gesù, Sapienza di Dio. Fin da quando nel giudaismo si immaginò Dio lontano sul suo trono in cielo e non si parlò più della sua diretta apparizione sulla terra, si cominciò a parlare frequentemente della Sa­ pienza di Dio. La si immaginò come una persona (già in Prov. 8,22 ss.; 9, I ss.; cf. Prov. 9,3 con Mt. 23,24) sebbene, di fatto, non si volesse in­ tendere altro che l'opera saggia di Dio sulla terra. Sir. 24,4- 1 7 narra come la Sapienza fosse uscita da Dio, avesse invano vagato per tutti i popoli cercando un luogo ove stabilirsi e infine fosse accolta a Gerusa­ lemme. Hen. aeth. 42 narra al contrario che se ne sarebbe ritornata delusa in cielo. Invece che della Sapienza si poté parlare anche del Lo­ gos o Parola di Dio. Ciò facilitò la sua identificazione con la Legge · (Sir. 24,23; Bar. 4, 1 ). Queste concezioni aiutarono il primo c �istiane­ simo a comprendere la venuta di Gesù dal Padre, il suo ministero sulla terra e il suo ritorno al Padre quale opera saggia e ricca di benedizioni di Dio stesso (cf. Gv. 1 , I ss.; anche 1 Cor. 8,6; Col. I , 1 5 con Prov. 8,22 s.; Sir. 24, I4 ecc.). Già in Q Gesù è visto quale inviato della Sapienza (v. a I I ,2 5; I 2,32; 23,34-38, intr.) insieme con il Battista (v. intr. a I I, 1 9c). Tra i primi tre evangelisti è solo Matteo, tuttavia, che identifica Gesù proprio con la Sapienza. Quella che in Le. I I ,49 è parola della Sapienza in Mt. 2 3,34 diventa parola di Gesù stesso e soltanto in Mat­ teo la partenza della Sapienza, cioè della presenza di Dio sulla terra, che era stata minacciata, viene identificata con la partenza di Gesù dal tempio (v. sopra, al v. 39). Secondo Le. 7,3 1 -3 5 la Sapienza di Dio si rivela nel ministero del Battista e di Gesù; entrambi vengono visti per­ fettamente paralleli quali portatori della Sapienza e vengono ricono­ sciuti dai «figli>> di lei. Per contro nelle opere di Gesù Matteo vede le «opere» della Sapienza, fa coincidere dunque la Sapienza e Gesù (v. a 1 1 , 1 9). Mentre i vv. Mt. I I ,2 5 -27, dove Gesù è solo portatore della sa­ pienza di Dio e la rivela agli uomini, hanno i loro paralleli in Luca, i vv . 28-30, nei quali Gesù fa proprio l'invito della Sapienza assumen­ done egli stesso il ruolo, si trovano solo in Matteo. lnvero Matteo non parla mai come Giovanni o Paolo della permanenza di Gesù presso il padre prima della nascita (v. retrospettiva [ I ]); tuttavia egli condivide con loro la consapevolezza che in Gesù è diventata realtà fisica l'opera propria, saggia e salutare di Dio sulla terra. Soprattutto, partendo da qui, si apre la possibilità di venire a capo del problema della legge. Se in Gesù, in un certo senso, sono diventate carne Sapienza, Parola e Legge, allora sicuramente non si parla nemmeno di poter abbandona-

Mt. 24, 1 - 3 . Il giudizio di Dio su Israele

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re la legge ( 5, I 7 s.). Al contrario, solo in Gesù diventa manifesto che cosa la legge voglia veramente (5,20.2 I -48; r 1 ,28 -30) e in questa sua funzione Gesù non è soltanto maestro, ma anche vero compitare, cioè facitore della legge. Così, allora, anche i suoi discepoli sono i giusti scribi dell'età giunta a compimento i quali interpretano e fanno la vo­ lontà di Dio ( 5 , I J - r 6; I 3 , 5 2; 23,34; cf. a 27,3 - I o intr.). Il giudizio di Dio su Israele, 24,1 -3 (cf. Mc. I 3 , 1 -3; Le. 2 1, 5 -7)

E Gesù uscì dal tempio e se ne andò via. E i s�oi discepoli gli si avvicina­ rono per fargli notare gli edifici del tempio. 2 Ma egli rispose e disse loro: Non vedete tutto questo ? Amen, vi dico: qui non resterà una pietra sull'al-: tra che non venga abbattuta. 3 Ma quando si sedette sul Monte degli Ulivi, i discepoli gli si avvicina­ rono, in disparte, e .dissero: Dicci, quando sarà? E qual è il segno della tua venuta e del compimento dell'età del mondo? 1

L'introduzione al discorso sulla fine del mondo segue Marco, ma Matteo ha tralasciato la storia dell'obolo · della vedova (Mc. 1 2,4 1 -44) per legare strettamente 24, 1 s. con il cap. 2 3. In questo modo la par­ tenza di Gesù dal tempio si collega direttamente a 23,3 8 s. (v. ad loc.). Che tutti quanti i discepoli, e non uno solo come in Marco, «si avvi­ cinino» a Gesù (v. a 8,2) mostra plasticamente come gli uni si siano stretti a lui, gli altri l'abbiano abbandonato. L'espressione più concisa «tutto ciò» è matteana come ai vv. 8 . 3 3; 23,36. La distruzione del tem­ pio rappresenta per Matteo il giudizio di Dio sulla Gerusalemme che uccide i profeti, come sottolinea ancora l'introduzione «amen, vi di­ co)) . In questo evento si avverano gli annunci del giudizio pronunciati da Gesù in 23,34-JS. Tuttavia già in 23,39 si era fatto riferimento al­ l'ultima venuta di Gesù. Il v. 3 viene riplasmato da Matteo in maniera caratteristica. Ancora una volta sono tutti i discepoli che «si avvicina­ no)) a Gesù. L'espressione «in disparte)) non si riferisce più soltanto ai quattro che secondo Marco vengono separati dagli altri, bensì a tutta la schiera dei discepoli, dunque alla comunità di Gesù che viene sepa­ rata dal popolo. A differenza di Marco, Matteo non menziona più il tempio e, soprattutto, traccia una netta divisione tra la domanda: «Quando sarà?)), che si riferisce certamente ancora alla distruzione del tempio, e la domanda molto più importante che ora recita, diversa­ mente da Marco: «e quale sarà il segno della tua venuta e del compi-

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mento del corso del mondo ?». Matteo separa qui n di chiaramente dalla «parusia» del Figlio dell'uomo, premessa del giudizio finale su tutto il mondo, il giudizio sull'Israele che ha rifiutato Gesù, giudizio che di­ venta visibile nella distruzione del tempio il 70 d.C. La comunità di Gesù, che è raffigurata con i di scep oli che si stringono attorno a Gesù, vive nell'intervallo tra questi due eventi. Per il termine «venuta» cf. excursus dopo 2 5 ,4 6 . La concezione di un «completamento» e di un decorso dell'età del mondo che si affretta verso la sua fine, proviene da Dan. I 2,4 . I 3 e, in genere, dall'apocalittica giudaica il cui pensiero era totalmente orientato verso il veniente mondo di Dio. La venuta del giudice universale, 2.4,4-36 (cf. Mc. 1 3 ,4-3 2; Le. 2 Ì . 8 -3 3) 4 E Gesù rispose e disse loro: State attenti perché nessuno vi seduca. 5 Poi­ ché molti verranno nel mio nome e diranno: Sono io il messia! - e sedur­ ranno molti. 6 M a voi sentirete di guerre e di voci di guerra: attenti, non vi spaventate! Poiché « d eve accadere», ma la fine non c'è ancora. 7 Infatti >. Forse si presuppone già la dottrina giudaica del messia che vive nascosto fino al giorno in cui prenderà il potere (cf. Cv. 7,27). Fanatici di tutti i tempi vogliono_ continuamente stabilire concretamente il regno di Dio identificandolo con un qualche programma, generalmente rivoluzio­ nario. Anche Gesù sa che il futuro regno di Dio irrompe già qui nella vita, spesso in maniera rivoluzionaria; ma non si può mai identificare semplicemente con il regno di Dio ciò che avviene momentaneamente qua o là. Il regno di Dio resta sempre il metro critico che misura tutti i tentativi effimeri e non tollera alcun fanatismo che diventa sempre più cieco agli aspetti che non si adattano più alla signoria definitiva di Dio. Così il v. 26 avverte soprattutto a guardarsi da un'adesione pre­ cipitosa e acritica. Con l'immagine del lampo si sottolinea inoltre che la venuta di Gesù sarà universale; si pensa appunto non al fulmine, ma al lampo che secondo l' antiça concezione illuminava nel medesimo istante tutta quanta la terra, da est a ovest. Così sarà allora «nel suo giorno>> (Le. 1 7,24) la «presenza>> di Gesù. Egli apparirà con divina il­ limitatezza quale Signore e giudice di tutto il mondo. Non è del tutto certo che l'immagine voglia anche esprimere la subitaneità della sua venuta, anche se è probabile che sia così. In questo modo si affermano due cose: la signoria di Dio sarà universale; non è la faccenda priva­ ta di alcune anime pie, ma ha una dimensione cosmica e porterà a una

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nuova creazione del mondo. In secondo luogo sarà improvvisa, dun­ que non la si potrà mai ammirare a distanza di sicurezza, come se si fosse sicuri che non potrebbe irrompere oggi nella nostra vita. Più dif­ ficile è l'ultimo logion degli avvoltoi che divorano le carogne (v. 2 8). In Luca ha una collocazione diversa (Le. 1 7,3 7), nel contesto del giu­ dizio nel quale uno viene preso e l'altro lasciato. Anche qui il detto dovrebbe indicare che non ha senso cercare di conoscere il luogo dove apparirà il Figlio dell'uomo. In Africa, ad esempio, si può osservare che quando i leoni hanno sbranato un'antilope, tutti gli alberi intorno si coprono di avvoltoi poggiati sui rami, così che non c'è da chiedere dove si trovi la preda uccisa. Probabilmente l'immagine è stata formu­ lata in origine nel contesto di un annuncio del giudizio. Allo stolto curioso che a distanza di sicurezza si informa sul quando e il dove, potrebbe accadere lo stesso che alla malcapitata vittima dei leoni: il giudizio potrebbe piombargli addosso così da non poter più chiedere dove esso sia programmato (cf. Apoc. r 9, I 7). �9-3 1 . L'apparizione del Figlio dell'uomo viene di nuovo descritta in maniera parallela a quella di Marco, ma sempre con interessanti va­ riazioni. Matteo sottolinea che la parusia arriverà «subito>> dopo quel­ la tribolazione; per il resto omette spesso il frequente «subito» di Mar­ co. L'unico esempio al contrario è Mt. 27,48 ; nel materiale particolare «subito» si trova soltanto in 1 4,3 r ; 2 5 , 1 5; 4,22 (v. ad loc. ). Qui esso sostituisce la locuzione avverbiale indeterminata di Marco «in quei giorni» che altrimenti piace a Matteo il quale l'inserisce di suo quando non vuole dare un'indicazione di tempo più precisa (ad es. 3, I). Da un lato Matteo mette dunque in guardia dai falsi profeti che sostengono che Cristo sia già venuto, dall'altra rafforza la speranza in una venuta imminente. Che cos'è il «segno del Figlio dell'uomo» che «appare in cielo» ? Si dovrebbe intendere forse «il segno, cioè il Figlio dell'uo­ mo», così che non ci sarebbe alcuna distinzione tra il segno e l'appari­ zione stessa? Questa lettura potrebbe andare bene con il v. 3 e I 2,39 (dove tuttavia Matteo pensa alla risurrezione, non alla parusia di Ge­ sù!), ma è quasi impensabile perché solo più tardi si parla della visione del Figlio dell'uomo e perché, poi, Matteo avrebbe cambiato senza voler dire qualcosa di diverso ? La chiesa ha pensato ben presto all'ap­ parizione della croce in cielo. Quando in Did. 1 6,6 si parla del «segno dell'allargamento» si vuole probabilmente indicare l'apertura o lo «srotolamento» del cielo, non certo le braccia distese di colui che è ?

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appeso alla croce. Ma Apoc. Petr. aeth. 1 dice chiaramente: «Proceden­ do la mia croce davanti al mio volto». Così è stato dunque inteso il nostro versetto all'epoca. Anche in una interpolazione cristiana della Apoc. El. (32) si parla del «segno della croce». Verso la metà del II se­ colo nella cosiddetta Ep. Ap. si legge: «Procedendo la mia croce (nel testo copto: il segno della croce) davanti a me>> ( 1 6); in Ev. Petr. (39) la mattina di pasqua uscirono dal sepolcro tre uomini, due angeli e Gesù, seguiti da una croce. Il nostro testo non contiene tuttavia il mi­ nimo accenno alla croce. Probabilmente la spiegazione è molto più semplice. Matteo nomina anche la grande tromba (v. 3 1 ) che secondo I Tess. 4, 1 6; 1 Cor. 1 5, 5 2 fa parte dello scenario dellà venuta di Cristo e che già in /s. 27,1 3 è collegata con il giorno del Signore. Ora fs. 1 8,3 legge: « come quando un segnale (campale) viene issato sul monte, come quando lo squillo della tromba viene sentito»; Ger. 4,2 I : «Per quanto tempo ancora devo vedere segllali (campali) e sentire squilli di trombe ?»; Ger. 6, 1 : «Da' fiato alla tromba a Tekoa e alza un segnale (campale) su Bet Acharma !»; Ger. 5 1 ,27: « Issate un segnale (campale) sulla terra, date fiato alle trombe tra i popoli ! » . In tutti questi passi, con l'eccezione di Ger. 4,2 I, dove il traduttore ha preso un abbaglio, si hanno i medesimi termini «segnale (campale)» e «tromba» usati in Mt. 24,30 s. Anche nelle preghiere liturgiche giudaiche i nostri termini ricorrono tanto nella decima delle Diciotto benedizioni recitate rego­ larmente già nel I sec. d.C. quanto nella moderna liturgia di capodan­ no, dal tenore quasi identico: «Soffia nella grande tromba per la nostra libertà, issa il segnale campale per raccogliere i nostri dispersi e radu­ naci dai quattro angoli della terra». Anche a Qumran «trombe» ( 1 QM 2, 1 5 -3, 1 I ) e «insegne» ( 1 QM J,1 2-4, 1 7) hanno un ruolo notevole. En­ trambe le parole appartengono dunque alla Bibbia della comunità di Gesù e Matteo non vuoi dire altro che quando il messia verrà per con­ quistare definitivamente la terra al regno di Dio, la sua insegna verrà issata e la tromba squillerà. Già Matteo penserà difficilmente a han­ diere realmente sventolanti o a trombe veramente squillanti in cielo, ma vuole soltanto dire che la vittoria definitiva di Dio arriva a un po­ polo in grave difficoltà con la carica di un esercito liberatore. Forse si vuole addirittura alludere al fatto che l'avvenimento finale va oltre ,qualsiasi descrizione fatta con parole razionali e si può esprimere col simbolo della bandiera e col suono della musica. Ancora più interes­ sante è l'inserimento di una citazione di Zacc. 1 2 , 1 0 (v. 30). Il testo •••

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ebraico recita: «Essi riguarderanno a colui che essi trafissero e lo pian­ geranno come si fa cordoglio per il figlio unico . . >> . Questo testo è sta­ to scoperto presto dalla comunità e riferito alla morte del �figlio uni­ co» di Dio, così in Cv. I 9 , 3 7 dove «trafiggere» indica il colpo di lan­ cia. Ma poiché Zacc. 1 2, I O- I 4 parla del lamento di tutte le tribù dei popoli della terra, vi si vide ben presto il lamento del mondo all'inizio del giudizio, come in Apoc. I ,7 dove la citazione di Zaccaria viene as­ sociata con Dan. 7, 1 3 . La medesima combinazione appare, in ordine inverso, in Mt. 24,30, notando però che la citazione di Daniele si trova già in Mc. I 3,26. A questo proposito in Apoc. I ,7; Mc. 1 3,26 e Mt. 24, 30 il verbo greco (in Mt. 24, 30 si ha: kopsontai... kai opsontai). È dunque possibile che i due passi dell'Antico Testamento fossero stati combinati già prima di Jv1arco nell'istruzione biblica orale della comunità creando in questa sede la rima tra i primi due verbi. Nella traduzione greca di Zacc. 1 2,IO che ci è pervenuta c'è ancora un terzo verbo. Ciò potrebbe spiegare come mai Mc. 1 3,26 e Apoc. 1 ,7 siano introdotti con la frase «essi vedranno» e come mai in Apoc. I ,7 compaia il particolare della perforazione, pre­ sente anche in Zacc. I 2, I o, che qui viene certamente riferita ai chiodi della crocifissione. Tali testi biblici furono spesso trasmessi oralmen­ te. Lo si capisce perché Mc. 1 4,62 e Apoc. I ,7 (secondo la maggior par­ te dei manoscritti) hanno «con le nuvole» come in un manoscritto di Dan. 7, I 3; per contro in Mt. 24,30 e in un manoscritto di Apoc. r ,7 si ha «sulle nuvole» come nella tradizione più attendibile di Dan. 7, 1 3; infine Mc. I J,26 legge «nelle nuvole». Un esemplare completo della Bibbia (scritto a mano!) costava una fortuna ed era molto raro. Il ve­ scovo Melitone, ad esempio, dovette viaggiare da Sardi fino in Palesti­ na per trovarne uno. Ad ogni modo per Matteo è importante l'idea del giudizio e quindi del grande spavento che prende tutti i popoli al­ l'apparizione del Figlio dell'uomo, mentre per Marco a questo punto l'interesse centrale riguarda solo il ritorno in patria degli eletti. In ve­ rità questo momento della riunione costituisce la consolante conclu­ sione anche per Matteo (cf. a 23,37). 32-36. La parabola del fico viene riportata letteralmente, con mini­ me varianti, come in Mc. 1 3,28-3 2. Ora Matteo scrive già al v. 3 3 «tut­ te queste cose» (invece del semplice «ciò», Mc. I 3,29) così che la frase dovrebbe voler dire in realtà la stessa cosa del v. 34· Forse egli vuole .

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riferirle entrambe solo ai segni premonitori (cf. v. 8) e quindi eludere la difficoltà che la venuta di Cristo fosse attesa ancora per la durata della prima generazione cristiana (cf. a Afe. I J,J O). Ma poiché si trova la medesima variazione anche altrove (v. al v. 2), essa difficilmente n a sconde volutamente u n a nuova interpretazione. È i nvec e più facile che Matteo riferisca l'espressione «questa generazione» al giudaismo che rifiuta Gesù (v. a 23,36). Il v. 3 5 manca in uno dei manoscritti più antichi; ma poiché a questo punto Matteo riproduce, per così dire, alla lettera Marco che contiene il versetto in parola, la mancanza va sicura­ mente attribuita all'errore di un copista. Al v. 36 una serie di mano­ scritti ha omesso «neanche il figlio» perché in tempi più tardi la non conoscenza di Gesù dist urbava . ­

L'esortazione a vegliare, �4,3 7- 5 1 (cf Mc. 1 3,3 5 ; Le. 1 7,26-3 6; 1 2,39-46 ) .

37 Infatti, come i giorni di Noè, così sarà anche la venuta del Figlio dell'uo­ mo. 38 Infatti come in quei giorni prima del diluvio mangiarono e bevette­ ro, si sposarono e si maritarono fino al giorno che Noè entrò nell'arca, 39 e non se ne accorsero finché il diluvio venne e li trascinò tutti via, così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. 40 Allora due saranno in campagna: uno verrà preso e uno lasciato. 41 Due macineranno al mulino: una verrà presa e una lasciata. 42 Così vegliate adesso ! Poiché non sapete quale gior­ no il vostro Signore verrà. 43 Ma capite questo: se il p adrone di casa sapes­ se in che veglia della notte il ladro viene, allora starebbe sveglio e non la­ scerebbe che gli entrasse in casa scavando il muro. 44 Perciò siate pronti anche voi ! Perché il Figlio dell'uomo viene a un'ora che non vi aspettate. 4 5 Chi è dunque il fedele e saggio servo che il padrone ha messo a capo della sua servitù perché dia loro i viveri a tempo giusto ? 46 Beato il servo che alla sua venuta il padrone trova che lo sta facendo ! 47 Amen, vi dico: lo metterà a capo di tutto ciò che ha. 48 Ma se il servo è malvagio dirà in cuor suo: Ci vuole ancora tanto prima che il mio padrone venga! 49 e co­ mincia a battere i suoi conservi, mangia e beve con gli ubriaconi, so allora il padrone di quel servo verrà un giorno che non si aspetta e a un'ora che non conosce, 5 1 lo squarterà e gli darà la ricompensa che si 'merita tra gli ipocriti. Lì sarà il pianto e lo stridor di denti. 38 Gen. 7,7. 43 1 Tess. 5,2. ·

La conclusione del discorso è rimodellata. La parabola finale di Mar­ co compare in una forma molto più ampia solo in Mt. 2 5, I 3 -30 e sol-

tanto in 24,42 si nota una reminiscenza della conclusione marciana. Per i.l resto Matteo mette qui insieme brevi parabole e riferimenti di tipo parabolico che in Luca si trovano in due distinti discorsi apoca­ littici e che per la sostanza fanno già parte integrante, secondo Matteo, delle parabole del cap. 2 5 . Mc. 1 3,37 non serve più perché Mt. 24, 1 fa già essere presenti tutti i discepoli e non solo quattro di loro. Il paragone della venuta di Cristo (v. excursus dopo 2 5,46) con il diluvio universale è ampliato in Luca con un secondo paragone con i giorni di Lot. Questo secondo paragone è stato certamente aggregato in un secondo tempo perché in Le. 1 7,3 I si mette in guardia dal girarsi indietro ( = Mt. 24, I 7 s.) e questo fece ricordare la moglie di Lot che essendosi girata si trasformò in una colonna di sale. Per i contempora­ nei di Noè è infatti tipica, secondo i rabbi, la spensieratezza con la quale «si mangia, si beve, ci si sposa e ci si marita>> incuranti del giu­ dizio di Dio; Hen. aeth. 6 5, I o; I o6, 1 8 aggiunge · anche ingiustizia ed empietà. Agli abitanti di Sodoma e Gomorra si rimprovera invece non la leggerezza, ma un delitto orribile e abominevole (Gen. 1 9,4-9; Iub. 1 6, 5 ss.; 20, 5; Sap. 1 0,7). D'altra parte anche in 2 Pt. 2,5 -7 (simile già Sap. 1 0,4.6; 3 Mace. 2,4 s.; anche Sir. 1 6,7 s.; Test. Neph. 3,4 s.; Filone, Vit. Mos. 2,263 , 5 2 ss. [Iub. 20, 5]) i giusti Noè e Lot e le punizioni del diluvio e della pioggia di fuoco sono collegati, mentre 1 Pt. 3,20 men­ ziona solo Noè. La costruzione in Matteo è chiara: si mostra «come ... così ... » prima in una forma più generale, poi in forma più minuziosa. Per contro Luca inizia con il primo detto generale ( r 7,26), ma deve poi presentare in un versetto indipendente i particolari, molto in bre­ ve, riguardanti Noè. Nel secondo esempio comincia al contrario, cioè con le informazioni sui tempi di Lot che poi crescono diventando una deforme proposizione comparativa («come») per poi richiamare, un po' come Matteo, ancora una volta, con una proposizione introdotta da «COSÌ», la venuta del Figlio dell'uomo. Soltanto il termine «paro­ sia» dovrebbe essere stato introdotto anche nei vv. 3 7·39 da Matteo come in 24,3 .2 7 per il semplice fatto che la formulazione originaria «ai giorni (di Noè ovvero del Figlio dell'uomo)» riecheggia ancora nel v. 3 8a. Tanto in Mt. 24,40 quanto in Le. 1 7,3 4 s. alla venuta del Figlio dell'uomo è unito il detto della divisione che avviene con il giudizio: uno viene preso, l'altro lasciato. In entrambi i vangeli si tratta nel pri­ mo esempio di due uomini, nel secondo di due donne; per contro in Matteo i due uomini sono nei campi, cosa che si adatta molto bene al-

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l'esempio delle donne occupate a macinare il grano; secondo Luca essi dormono «quella notte», il che presuppone già l'idea che Cristo verrà di notte. Questa idea potrebbe risalire a parabole come Mc. 1 3 , 3 5 ; Mt. 24,4 3 oppure a un'attesa, già attestata anche in ambito giudaico, del­ l' arrivo della salvezza finale la notte di pasqua. L'esortazione a ve­ gliare che si trova in Marco perché non si conosce il gior�o (in Marco come in Mt. 24,43 Q: l'ora) della venuta del «vostro Signore)) (in Mar­ co: del padrone di casa) pòrta alla parabola del ladro. Tutta la perico­ pe dei vv. 42- 5 1 si trova anche in Le. 1 2,39-48 dove segue a una para­ bola lontanamente imparentata con Mt. 2 5 , 1 -13 (v. ad loe. ) e all'av­ vertimento a guardarsi dall'accumulare tesori che Matteo ha inserito nel discorso della montagna (Mt. 6, 1 9-2 1 = Le. 1 2,3 3 s.). Probabil­ mente quel monito era già unito in Q a Le. I 2,39 ss. perché in entram­ bi i passi si parla di «ladro» � (secondo il testo conservato in Matteo) di «scavare)). Matteo avrebbe dunque accolto il detto sull'accumulare tesori, come anche molti altri, nel suo discorso della montagna. La pa­ rabola del ladro (v. 43) coincide quasi alla lettera con Le. 1 2, 39 s., solo che Matteo inserisce il verbo «vegliare>> al v. 4 3 per stringere il nesso col v. 42. Anche la parabola del servo buono o cattivo ( vv. 4 5 - 5 1 ) co­ incide in larga misura nei due vangeli, soltanto che in Luca il servo è diventato un amministratore (Le. I 2,42; per contro «servo» ai vv. 43 ·4 5 ·46! ) che sovrintende agli altri servi. A dire il vero in questa for­ ma il premio della promozione ad amministratore generale del patri­ monio del padrone non si adatta più alla storia. Probabilmente Luca pensa ai dirigenti della comunità la cui responsabilità è maggiore di quella dei normali membri della comunità e ha pertanto inserito tra le due parabole che già in Q stavano insieme la domanda di Pietro (Le. 1 2,4 1 ). In Matteo il «servo)) sta invece (nonostante il v. 45) sullo stesso piano dei «conservi» (v. 49). L'espressione «ipocriti» (v. a 6,2) e la mi­ naccia con «urla e digrignar di denti» (v. a 8, 1 2) sono di mano di Mat­ teo. Un'evoluzione di questa parabola si trova in Ev. Naz. 1 8 . Qui il servo malvagio è stato inserito nella parabola dei tre servi (Mt. 2 5, 1430) così che ora uno moltiplica il talento affidatogli, l'altro lo sotterra, il più cattivo lo dissipa con prostitute e suonatrici di flauto. Ciò sta a indicare quanto a lungo la materia di queste parabole abbia continua­ to ad accrescersi e sia stata rinarrata in tutte le possibili nuove combi­ naztont.

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3 7-5 1 . Il paragone con il tempo di Noè vede la perdizione dell'uo­ mo non tanto in un'abissale malvagità come Gen. 6, 1 ss. quanto nella spensieratezza che non pensa a un giudizio che viene (vv. 3 7-39). Ciò che egli fa, mangiare bere sposarsi, non è moralmente contestabile; ma l'uomo lo fa senza tener conto della realtà di Dio, appunto del fatto che gli vada incontro. Questa è la funesta «incoscienza». La differenza con l'apocalittica giudaica, nella quale la storia della caduta degli an­ geli (Gen. 6, 1 -4) stimolò la fantasia e fu intesa quale origine di tutto ciò che è demoniaco, è vistosa. Non vengono ammonite persone par­ ticolarmente scellerate, ma persone rispettabili che hanno dimenticato la realtà di Dio. Ciò significa che la parabola è diretta contro gli ascol­ tatori stessi, non contro gli altri malvagi. Con l'immagine di due cop­ pie di persone tra le quali il giudizio cala dividendole (vv. 40-4 1 ) Mat­ teo dà a tutto il discorso, a differenza di Marco e Luca, il carattere di un avvertimento a non dimenticare il giudizio dal quale nessuno è al riparo. Anche se due sono impegnati nel medesimo lavoro, uno viene preso, l'altro respinto. Il giudizio di Dio verrà così anche sulla sua co­ munità. Matteo parla del «giorno» (v. 42), non più dell'ora (di notte), sebbene questa indicazione sarebbe stata più adatta a quanto segue, perché non vuole sottolineare che Cristo potrebbe venire in ogni mo­ mento, bensì che ciascuno dovrebbe sempre orientare la propria vita verso il giorno del giudizio, senza tener conto di quanto tempo, poco o tanto, lo separi da esso (cf. intr. a Mc. I J,28-37). Poiché il v. 42 non è più, come in Marco, parte di una parabola, «Signore» non è più sol­ tanto un'immagine per Gesù, bensì titolo onorifico (v. a 8,2). Anche la parabola del padrone di casa e del ladro (vv. 43 -44) sottolinea non l'a­ spetto gioioso della venuta di Cristo, ma quello di giudizio. Secondo I Tess. 5,2-4 il giorno del Signore viene come un ladro per i non creden­ ti, ma non per i credenti che sono preparati per quel momento (cf. 2 Pt. 3 , 1 o). Apoc. 3,3 e 1 6, 1 5 sono i primi passi nei quali l'immagine del ladro viene applicata a Gesù stesso che viene per il giudizio. Probabil­ mente la forma conservata in I Tess. 5,2-4 è la più antica. Per il giorno del giudizio l'immagine del ladro è adatta. Se essa risale proprio a Ge­ sù, allora non c'è possibilità di fraintendimento: si tratterà del giudi­ zio del Dio che incontra l'uomo negli atti e nella proclamazione di Gesù. Viceversa non si può ascoltare Gesù e ricevere i suoi doni senza cercare in lui Dio stesso e attendere la venuta di Dio stesso. Ma pre­ sentandosi dopo la morte di Gesù il pericolo di dimenticare questo

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nesso, fu necessario dire esplicitamente che «il giorno · del Signore» non apparirà quale giudice altro Dio che quello che ha già parlato in Gesù. Così la parabola, che in origine mirava in termini generali al giorno del giudizio, riceve una «puntualizzazione cristologica» : Gesù prende il posto del «giorno>>. Anche in questa storia non è un com­ portamento immor�le, ma una leggerezza che porta il padrone di casa alla rovina. «Vegliare>> non indica più la gioiosa costanza che aspetta di ora in ora l'arrivo improvviso della gloria futura; è l'opposto di una vita che non si aspetta più sul serio l'arrivo della sventura, simile a quella che, fuor di parabola, fu impressa nella memoria con l'esempio della generazione del diluvio. Più che mai r'ultima parabola chiama il lettore non tanto a essere pronto di ora in ora, quanto a comportarsi in maniera degna del suo Signore, soprattutto nei confronti dei «con­ servi», per tutto l'intervallo che lo separa dalla sua venuta. Che questa venuta sia più o meno imminente è importante solo nella misura in cui la seconda ipotesi potrebbe portare alla trascuratezza che non si aspet­ tava proprio più il giudizio (v. 48; cf. 2 5 , 5 . 1 9; 2 Pt. 3,4.9)· Il Nuovo Testamento non parla come Filone di una ebbrezza di Dio; solo Ef 5 , 1 8 si avvicina a quest'uso del termine. Di solito «essere ebbro» (v. 49) è immagine di una vita sfrenata che non pensa più «sobriamente» alla responsabilità che ha agli occhi di Dio (cf. 1 Tess. 5 ,6-8; Le. 2 I ,34; I Cor. 1 5 ,34; I Pt. 1 , 1 3; 5,8; fs. 28, 1 ss.; Gl. 1 ,5). Ancora una volta il punto è il riferimento a] giudizio che verrà di sicuro (v. 5 0) che sepa­ rerà i «servi» (v. a 1 0,24) buoni da quelli cattivi. La saggezza lodata non è intelligenza, ma la capacità di giudicare giustamente la realtà, cioè qui la venuta di Dio. (v. a 2 5,2). Così anche l'Antico Testamento parla di saggi e di stolti e vuole dire devoti ed empi. Il vero realista è colui che tiene conto di Dio (cf. 7,24; Io, I 6; 2 5,2 ss.; Le. 1 6,8). Che proprio qui si esorti a una saggia sobrietà che non asservisce la ragio­ ne, ma la usa, non è affatto secondario. L'unica variazione di un certo peso rispetto al testo di Luca è la nuova formulazione del compito, «distribuire loro cibo a tempo debito» (v. 4 5 ). Poiché questa riformu­ lazione coincide quasi perfettamente con Sal. 1 04,27 si è forse pensato eh� nella sua vita il credente è un responsabile amministratore di ·Dio. Proprio per questo il pericolo del fallimento, che lo rimetterebbe sullo stesso piano degli «ipocriti» di 22, 1 8 e 2 3, 1 3 ss., è tanto più opprimen­ te (v. intr. ai capp. 2 1 -2 5). L'espressione «dare la sua parte presso ... » e l'immagine dello squartamento si trovano anche in 1 QS 2, 1 6 s.; in

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questo passo esse risalgono sicuramente a Sal. 3 7 dove al pio viene da­ to il paese mentre l'empio viene invece «tagliato via>> «da mezzo a>> es­ so ( I QS 2, 1 6). Si interpreta «squartare>> troppo alla lettera (cf. Atti 1, I 8) oppure si tratta del tipo di pena in vigore in Persia (Str.-Bill.)? L'esagerata punizione minacciata, che s'incontra già nella parabola di Q, in Matteo viene resa ancora più tremenda con il riferimento agli «urli e stridor di denti» (v. 5 I ) che allude alla dannazione nell'ultimo giudizio (cf. a 8,I 2). Tuttavia, contrariamente a quanto si ha nella pa­ rabola precedente, la dannazione del servo malvagio è preceduta dalla lode e dalla grande ricompensa del servitore saggio e fedele. N o n si narra neanche semplicemente di due servi, come se si potesse distin­ guere così facilmente tra buono e cattivo, ad esempio tra credente e non credente o tra cristiano e giudeo. Si tratta di un unico e stesso ser­ vo al quale sono sempre aperte le due possibilità. Se per Gesù la para­ boia è in primo luogo promessa e quindi, in quanto tale, anche primo ammonimento,Jv1atteo calca questo secondo aspetto parlando già al v. 48 (contro Le. I 2,4 5) del servo «cattivo», mette dunque in guardia la comunità dal seguirne l'esempio. Tuttavia anche in lui la vita del di­ scepolo riceve in entrambe le direzioni il suo senso e la sua profondità dalla venuta del Signore che è insieme promessa e ammonimento. Se si .riguarda a tutto il cap. 24, è importante la sua vicinanza con il cap. 23. Come si è annunciato con tono duro e incalzante il giudizio al giudaismo farisaico in quel capitolo, così esso viene annunciato nel nostro, con pari durezza e insistenza, alla comunità di Gesù. Questa parità di trattamento viene sottolineata ancora di più da Matteo quan­ do abbandona il «cattivo servo» del «Signore», dunque il cattivo di­ scepolo di Gesù, al medesimo destino degli «ipocriti». Non è la perse­ cuzione da parte delle autorità giudaiche o pagane il segno della tribo­ lazione finale - quella fa parte dell'esperienza quotidiana del discepo­ lo -, ma la seduzione a vivere dimentichi del comandamento di Dio, così come lo ha spiegato Gesù, cioè non praticand � l'amore. Tuttavia una vita così sarebbe uno stato di ebbrezza che non vedrebbe più la realtà, più precisamente la realtà del giudizio di Dio. Affinché il disce­ polo non si perda insieme con il mondo in questa ubriacatura e alla venuta di Cristo non sia in grado di intonare soltanto un lamento, con il suo discorso sulla fine dei tempi Gesù lo ha messo in guardia dal giudizio che verrà.

La parabola della giusta veglia, z s, I - 1 3 I Allora il regno dei cieli sarà paragonato a dieci ragazze che presero le lo­ ro lampad e e uscirono a incontrare lo sposo e la sposa. 2 Ora cin que di lo ­ ro erano stolte e cinque sagge. 3 Le stolte presero sì le lampade, ma non si portarono dietro l'olio; 4 le sagge invece presero insieme con le lampade anche l'olio in brocche. 5 Ma poiché lo sposo tardava furono prese dal sonno e s i addormentarono. 6 Ma a mezza notte si alzò un grido: Guarda! Lo sposo! Su, andategl i i ncontro! 7 Allo ra tutte le ragazze si alzarono e si­ stemarono le loro lam p ade. 8 Ma le stolte dissero alle sagge: Dateci un po' del vostro olio poiché le nostre lampade si stanno spegnendo. 9 Ma Le sag ­ ge risposero e dissero: Niente affatto ! Non baste rà comunque per no i e per voi. Andate piuttosto dai bottegai e co mpratevelo. 10 Ma appena si allon­ tanarono per comprarlo, arrivò lo sposo; e quelle che erano pronte entra­ rono con lui per la festa nuziale e la porta fu chiusa. 1 1 Subito dopo giun­ sero anche le altre ragazze e dissero: Signore, signore, ap ric i ! 1 2 Ma egli ri­ spose e disse: Amen, vi dico: non vi conosco. I 3 V egli ate ora, poiché non sapete né giorno né ora.

La parabola si trova solo in Matteo, sebbene alcune sue frasi risuo­ nino anche in Luca (Mt. 2 5 , 1 0- 1 2; cf. Le. 1 3 ,2 5) e l'avvertimento a ve­ gliare alla fine del discorso di Marco (Mc. r 3,33 -37) le sia affine nella sostanza. Forse un tempo appartenne a una pa rtic olar e raccolta di pa­ rabole (v. intr. a I J,24-30). Poiché Le. 1 3,2 5 ha l'aspetto di un fram­ mento, nel quale il «padrone di casa» è già una metafora fissa, è più facile che sia stata la nostra parabola a lasciare segni su quel detto che viceversa; cf. lo sviluppo da Mc. 2, 1 9 a 2,20 o da Mc. 1 3,3 5 a Mt. 24,42. Che la parabola risalga o meno a Gesù dipende dall'appartenenza o meno alla parabola fin dall'inizio del particolare del ritardo dell'arrivo dello sposo fino a mezzanotte e dalla sua effettiva importanza per l'economia della parabola. Se le cose stanno così veramente, allora la parabola non può essere che nata nella comunità che già si era accorta che Gesù non sarebbe apparso per i l giudizio universale così presto come essa aveva pensato in un primo tempo. In caso contrario la para­ bola, forse senza i vv. 5 s., potrebbe essere ricondotta a Gesù. Infatti secondo il v. I essa parla del regno dei cieli, non della venuta del Fi­ glio dell'uomo, come interpreta Matteo per mezzo del v. 1 3 (v. sotto) e del suo tipico «allora>> al v. 1 che lega il nostro brano a 24,44- 5 1 . Con lo sposo, che in Is. 62, 5 è immagine per Dio, si farebbe riferimen­ to alla salvezza finale di Dio in maniera non dissimile da Mc. 2, 1 9·

Mt. 2 5, I - I 3 . La parabola della giusta veglia

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Inoltre la comunità non appare ancora come sposa (Apoc. 2 I ,9; 22, 1 7; Cor. I 1 ,2; Ef. 5,2 5 -27), ma sotto l'immagine degli invitati alle nozze come nel detto di Gesù in Mc. 2, 1 9a. In verità le ragazze stanno già più vicino alla «sposa» e comunque non solo Mc. 2,20, ma anche Mat­ teo ha identificato lo sposo con Gesù mediante la frase di 2 5 , r 1 s. che richiama 5, I 8 e 7,22 s. Alla fine del XIX secolo, nelle vicinanze di Be­ tlemme, per i cortei nuziali notturni si usavano ancora fiaccole, cioè bastoni avvolti in cima con stracci imbevuti di olio di oliva, con le quali le ragazze intrecciavano danze finché non si spegnessero. Il ter­ mine usato nella nostra parabola (v. I ) denota quasi sempre la fiaccola, in Gv.. I 8,3 addirittura per distinguerla dalla lampada. Se qui si voles­ sero indicare le fiaccole, le ragazze le avrebbero accese solo al v . 7, considerato che possono ardere solo per circa r 5 minuti. All'ultimo minuto si deve ancora versare olio sugli stracci per farle ardere almeno sino alla fine della danza delle fiaccole. In questo caso tutto il v. 1 sa­ rebbe ancora una descrizione generale della situazione. Le dieci ragaz­ ze attendono presso la sposa e accendono le fiaccole appena arriva lo sposo per accoglierlo ed eseguire la danza. In questa forma la parabola potrebbe risalire a Gesù ed esortare a essere pronti per il magnifico invito di Dio. Solo l'esperienza del lungo tempo fino alla venuta di Gesù avrebbe portato nella comunità all'ulteriore abbellimento dci · vv. 5 s. Ciò non è impossibile, ma si dovrebbe comunque rendere allora il v. 8: «Le nostre fiaccole si spegneranno troppo presto». Inoltre è dif­ ficilmente immaginabile che versare di nuovo olio su di uno straccio ben imbevuto di olio fosse una faccenda così complicata che le cinque stolte non tentassero nemmeno di riaccendere le loro fiaccole oppure, se era prassi normale rimettere l'olio sulle fiaccole, è poco verosimile che non si siano portate dietro la riserva di olio. Poiché il termine gre­ co in Gdt. I 0,22 e in tutti i frammenti di papiri che sono stati trovati, probabilmente anche in Atti 20,8 e in una traduzione greca di Dan. 5 , 5 significa «lampada», un passo rabbinico parla anche di lampade, cioè di ciotole di rame riempite di olio e brandelli di abiti e fissate su bastoni, che si portavano precedendo la sposa, nella parabola odierna si deve come minimo pensare certamente, secondo il v. 8, a lampade che stanno per spegnersi perché lo sposo ritardava così tanto. Allora è la comunità che, forse sulla base di una parabola simile di Gesù, si domandò che cosa significasse allora attendere la venuta di Gesù dopo che erano già passati diversi decenni, ed è il Signore glorificato che le

2

43 2

Mt.

2 5 , 1 - 1 3.

La parabola della giusta veglia

dà la risposta. Il versetto finale è formulato ricordando Mc. I 3 ,3 5 (Mt. 24,42) e presenta una combinazione di « giorno>> (Mt. 24,42) e «ora» (Mt. 24,44; cf. Mc. I J ,J 5)· Il v. I J non appartiene in origine alla para­ bola perché non ne coglie il punto (v. sotto). 1 - 1 3. «Allora», cioè alla venuta di Gesù (24,5 0}, si vedranno i fatti che adesso sono ancora nascosti (verbo al futuro, cf. a I 3 ,43). Il regno di Dio stesso andrebbe naturalmente paragonato con il banchetto, non con le dieci ragazze; si deve quindi intendere: «Col regno di Dio succede come con dieci ragazze>> (cf. a Mc. 4, 26). Il banchetto è per Gesù la metafora più tipica per la piena comunione con Dio nel regno a venire (cf. 8, I I ; 22, I - I 4; Le. 1 2,37; Lh i 5-24; 1 5,2 3 s.; 22,30; Mt. 26, 29; Atti 1 0,41; anche /s. 2 5 ,6-8). L'occasione più naturale per un ban­ chetto è una festa nuziale che anche in Gesù appare quale immagine del tempo compiuto (v. intr. a Mc. 2, I 8-22). La seconda metà del v. I potrebbe essere intesa anche come una soprascritta riassuntiva. Ma probabilmente è già l'inizio del racconto che continua direttamente nel v. 2. Allora esse attendono dunque, probabilmente nelle vicinanze della casa della sposa, con lampade accese, l'arrivo dello sposo. Di nuovo la saggezza e la stoltezza non sono sinonime di grande o scarsa intelligenza (cf. a 24,4 5 e 5,22). Forse il narratore sente ancora il ter­ mine ebraico soggiacente che significa «veggente» o «con occhi aper­ ti». Le sagge sono quelle che hanno gli occhi aperti per ciò che viene e non vivono semplicemente alla giornata. Esse si provvedono di olio in caso di emergenza e non pensano soltanto all'immediato presente (vv. 3 -4). La venuta dello sposo viene differita di molto: è insolito, ma non impossibile. Qui la realtà ha improntato l'immagine. «Dormire» viene usato sì come immagine per la mancanza di prontezza ( 1 Tess. 5,6; Rom. 1 3, 1 I ; Ef 5 , 1 4); ma qui ha solo un ruolo secondario - anche le ragazze sagge dormono - e serve a far capire come mai non si accor­ gano che le loro lampade si stiano spegnendo. L'indicazione della mez­ zanotte (v. 6} serve solo a descrivere la lunghezza dell'attesa, anche se ci potrebbe essere un'influenza di detti come Mc. I 3,3 5 . Il grido non è il grido di dolore di Mt. 24,30, ma nel contesto della parabola il grido di gioia di quelle che si accorgono che l'atteso finalmente arriva. Il fat­ to che le ragazze «sistemino le loro lampade» (v. 7) e si rendano conto che stanno per spegnersi presuppone che le lampade siano già accese, anche se si deve sistemare lo stoppino e rabboccare l'olio. Il suggeri-

Mt.

2_5 , 1 - 1 3 .

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43 3

mento di andare al negozio perché la riserva di olio non è sufficiente per tutte non è ironico, visto che viene accolto (vv. 9 - 1 0). In un villag­ gio si riesce a trovare qualcosa anche a mezzanotte perché tutti sono rimasti in piedi in occasione di una simile festa. Non si deve interpre­ tare allegoricamente né il rifiuto delle savie di dare del loro olio né la possibilità di rifornirsi in un negozio. L'unica cosa importante per la storia è che le stolte non sono presenti al momento giusto. t'. da aspet­ tarsi che la porta venga chiusa; tuttavia il grido del Signore e il suo du­ ro rifiuto sono già determinati dalla realtà in sé: il giudizio di Dio sarà così netto e irrevocabile (vv 1 1 - 1 2). In chiusura (v. 1 3) si dà un am­ monimento generico a vegliare. lovero nella parabola la veglia (al con­ trario del sonno) non ha alcun ruolo (v. al v. 5), mentre lo ha la pre­ parazione a una lunga attesa. Ma «vegliare>> è già usato quale espres­ sione metaforica per indicare questa prontezza che non salta il tempo, ma certo vive nel presente già in funzione del futuro. In origine la motivazione diceva che il «giorno)) potrebbe venire molto prima di quanto si pensasse; va inteso così ancora 24,42 nel contesto con i vv. 37-4 1 e vv 43 - 5 1 . Infatti il servo cattivo conta su di una lunga assenza del padrone (v. 48). Ma oggi il detto dice che si deve essere pronti an­ che ad affrontare una lunga attesa, resistendo fedeli. .

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Nel v. 1 3 si mostra che cosa voglia la parabola. È segno di una buo­ na comprensione della parabola che la medesima immagine porti a di­ verse conclusioni in situazioni diverse (cf. a Mc. 3 ,23 e 4, 1 J-20). Quan­ do Gesù invita a vegliare esorta i suoi discepoli a prendere la realtà di Dio così seriamente che essi aspettano già ora, in ogni momento, il suo arrivo nella loro vita proprio perché sanno che un giorno arriverà definitivamente nel regno di Dio. Ma se ciò si trasforma in fanatismo che abbandona ogni lavoro terreno perché tanto nello spazio di pochi mesi -arriverà la fine del mondo (2 Tess. 2,2; J,I r s.), oppure in noncu­ ranza, perché tanto la fine non è ancora arrivata e non si può vivere per decenni nell'ardente attesa della fine imminente, il medesimo invi­ to dice il contrario: non si deve tenere stretta fino allo spasimo questa attesa imminente, ma si deve certamente restare fedeli per decenni e anche per secoli. Ed è lo stesso Signore che dà alla sua comunità il medesimo monito: «Vegliate! >> anche se esso racchiude in sé per gli uni questo e per gli altri quel messaggio (cf. intr. a Mc. 1 J,28-37).

La parabola dell'agire responsabile verso Dio, (cf. Mc. I 3,34; Le. 1 9, 1 r - 2 7)

2 5, 14-30

I4 Infatti (è) come quando un uomo che voleva partire per un viaggio chia­ mò i suoi servi e affidò loro ciò che aveva. I 5 E a uno diede cinque talenti, all'altro due, al terzo uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. I6 Su­ bito colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò e ne guadagnò altri cin­ que. I 7 Così anche colui che ne aveva ricevuti due ne guadagnò altri due. I 8 Ma colui che ne aveva ricevuto uno solo andò, fece una buca nel terreno e nascose il denaro del suo padrone. 19 Ma dopo molto tempo il padrone di questi servi torna e fa i conti con loro. 20 Allora si avvicinò quello che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque e disse: Padrone, mi hai affidato cinque talenti; ecco qui, ne ho guadagnati altri cinque. 2I Il pa­ drone gli disse: Bravo, onesto e fedele servitore! Sei stato fedele su poca cosa, ti costituirò su molto: entra nella gioia del tuo padrone ! 22 Allora si avvicinò quello (che aveva) due talenti ·e disse: Padrone, mi hai affidato due talenti; ecco qui, ne ho guadagnati altri due. 2 3 Il padrone gli disse: Bravo, onesto e fedele servitore! Sei stato fedele su poca cosa, ti costituirò su mol­ to; entra nella gioia del tuo padrone! 24 Ma si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un solo talento e disse: Padrone, ti conoscevo, che sei un uomo duro; mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25 E ebbi paura, andai e nascos i il tuo talento nella terra. Ecco: qua hai quel­ lo che è tuo. 26 Ma il padrone gli rispose e gli disse: Servo cattivo e pigro! Sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso ? 27 Allora avresti dovuto depositare il mio denaro presso i banchieri così che al mio ritorno a casa avrei ricevuto di nuovo il mio e in più gli interes­ si. 28 Perciò prendetegli il talento c datelo a quello che ha dieci talenti. 29 Perché a chiunque ha, sarà dato e avrà sovrabbondanza; ma a colui che non ha gli verrà tolto anche quello che ha. 30 E gettate il servo inutile nelle tenebre di fuori: lì ci sarà pianto e stridor di denti.

Dopo che il v. I 3 era stato formulato ricordando la conclusione del discorso apocalittico di Marco ( 1 3 ,3 5 ), ora è Mc. I 3 ,34 che impronta l'introduzione di questa parabola (v. I 4). In entrambi gli evangelisti il detto rimane inconcluso e avrebbe veramente bisogno di una integra­ zione del tipo «con il regno di Dio succede come . . . » . Matteo ha unito ancora più forte i vv. I 3 e I4 con il suo «allora» . Egli intende quindi la parabola nel senso del v. 1 3 (cf. intr. a 24,3 7- 5 1 ). Nella sua forma mat­ teana la parabola è, nel complesso, facilmente comprensibile. Sorpren­ dente è la grossa somma che viene affidata ai servi (v. a 1 8,24), così che anche l'ultimo riceve cento volte di più dei servi di Luca. Nel corso

Mt. 25,14-30. La parabola dell'agire responsabile verso Dio

43 S

della tradizione la somma è stata fatta certamente lievitare per sottoli­ neare la grandezza del dono di Dio ·come in I 8,2 3 ss. Anche l'affida­ mento di somme differenti secondo la «forza» di ciascun servo è, ri­ spetto all'uniformità delle somme in Luca, ùno sviluppo successivo dettato dal pensiero dei doni diversi di Dio. Solo la precisazione ( as­ sente in Luca) che il padrone ritorna «dopo lungo tempo» (v. 1 9) po­ trebbe essere determinata dall'esperienza della comunità. Tanto l' ag­ giunta «entra nella gioia del tuo Signore» ai vv. 2 1 e 23 quanto l'espul­ sione del servo «nella tenebra di fuori dove c'è lamento e stridor di denti» (v. 30), che non hanno paralleli in Luca, sono ampliamenti che non rientrano nell'economia della parabola e fanno riferimento al giu­ dizio universale. Ciò vale anche per il contrasto tra «poco» e «tanto» (v. 29) poiché i 10 talenti del v. 20 sono già superiori all'intero capitale distribuito all'inizio. La formulazione nel v. 3ob è opera di Matteo stesso (v. a 8, 1 2). Il v. 30 dovette anche venire subito dopo il v. 28, ma è comunque un doppione: la punizione dell'inferno (v. 30) si va ad ag­ giungere alla punizione terrena (v. 28) che nella parabola è comprensi­ bile. La sentenza che si trova frammezzo (v. 29) è un detto isolato tra­ mandato in forma simile in Mc. 4,2 5 e Ev. Thom. 4 1 . Esso è stato già unito alla parabola prima di Matteo e di Luca, come mostra Le. 1 9,26; soltanto l'aggiunta «e ne avrà in esubero» è caratteristica per Matteo e per la sua tradizione (anche Mt. 1 3 , 1 2). Probabilmente si deve solo al­ l'inserimento di questo detto, con la sua affermazione che a chi ha sa­ rà dato ancora di più, che non solo si tolgano al servo cattivo i suoi soldi, ma li si diano a colui che. ha trafficato di più (v. 28). Soprattutto in Luca questo dono supplementare è ridicolmente piccolo rispetto al governo di dieci città già concesso in precedenza. L'obiezione di Le. 19,2 5 che costui avrebbe già 1 o mine dovrebbe sottolineare ancora l'aspetto sorprendente di questa massima di Dio. Il singolare partico­ lare fornito da Luca che quel padrone sarebbe un nobile che vada a farsi eleggere re e poi, come viene riferito con un verbo tipicamente lucano, «ritorni» per massacrare i suoi nemici, è sicuramente un accre­ scimento verificatosi quando la parabola venne riferita direttamente alla venuta di Cristo e ci si ricordò degli avvenimenti legati all'ascesa al trono di Archelao (4 a.C.) che andò a farsi incoronare a Roma e si vendicò crudelmente dei giudei che avevano presentato un formale esposto contro di lui. Inoltre il servo che sbaglia tutto viene dipinto con tinte ancora più cupe. Mentre, infatti, colui che sotterra subito il

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Mt. 25,14-30. La parabola dèll'agire responsabile verso Dio

bene affidatogli (Mt. 2 5 , 1 8 .2 5 ) non è più, secondo il diritto rabbinico, responsabile civilmente perché ha fatto la cosa più sicura che si possa pensare, viene punito colui che lo lega soltanto in un panno (Le. I 9, 20; Str.-Bill. ai vv I4 ss.). La parabola ha poi assunto in Ev. Naz. I 8 una forma chiaramente moralistica (v. a 2 4, 5 I intr.). .

1 4-30. Per questa parabola è importante la piuttosto lunga assenza

del padrone perché in questo modo è possibile l'affidamento nell'in­ tervallo di una reale responsabilità ai servi (v. I 4). Matteo sottolinea anche che dotazione e compito sono proporzionati alle forze di cia­ scun servo (v. I 5 ) In questa suddivisione anche a chi riceve di meno toccano comunque 1 o ooo denari (cf. a 20,2): il padrone ha una gran­ dissima fiducia nei suoi servi. Due dei tre servi rischiano un po', nel caso peggiore addirittura la perdita dell'intera dotazione, perché san­ no che ciò che il padrone ha affidato loro deve lavorare, diventare vi­ vo, generare qualcosa di nuovo (vv r 6- 1 7). Il terzo pensa solo all'as­ soluta sicurezza (v. 1 8). Le cose restano così per molto tempo e il di­ verso modo di agire dei servi non sembra comportare alcuna conse­ guenza. Ma pure il giorno della responsabilità arriva (v. I 9). Il primo parla di ciò che ha guadagnato con la dotazione del padrone (in Luca l'espressione è ancora più bella: ciò che la dotazione del padrone ha guadagnato!) e viene premiato non, ad esempio, con una ricca pensio­ ne, ma con un incarico ancora maggiore (cf. 24,47). Così suona anche una sentenza giudaica: «Il premio per l'osservanza dei comandamenti è (dell'altra) osservanza dei comandamenti» (Str.-Bill. a 5 , I 9 A). Il ri­ ferimento alla gioia riguarda invero già la gioia escatologica che Cristo donerà ai suoi discepoli (vv 2 1 . 2 3). La scena si ripete analoga per il secondo servo (v. 22). Il terzo servo mostra già con le sue parole di non essere tanto interessato al suo padrone, quanto a salvare la pro­ pria pelle (v. 24). Questo servo non è né crudele né trascurato come il suo omologo di Le. 1 9,20; non pensa né che il suo padrone non ritor­ nerà tanto presto (24,48) né che sarebbe tornato dopo poco (2 5,3 - 5 ). Ma è una persona che non si mette in gioco, che non può rischiare la sua tranquillità per il padrone. Proprio per questo è un servo cattivo, perché la pigrizia nel servire questo padrone è una malvagità. Tutto sommato, il padrone avrebbe anche potuto concedergli che non fosse in grado di svolgere questo lavoro: ma avrebbe almeno potuto lasciare che altri lavorassero con la sua dotazione (v. 2 7). Il talento gli viene .

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Mt. 25,14-30. La p arabola dell'agire responsabile verso Dio

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pertanto tolto (v. 28). Con un detto usato anche altrove in un diverso contesto si descrive la strana giustizia di Dio: dove la sua dote ha già portato frutto a essa si aggiunge il dono straordinariamente generoso di Dio; dove è rimasta infruttuosa si perde del tutto. Ciò significa che la dote di Dio non può mai essere una proprietà inerte: deve vivere e fruttare. L'ultimo versetto (v. 30) abbandona la parabola e indica, di là del servo che non fa fruttare la sua dotazione, in direzione del giudi­ zio di Dio. La parabola che è ancora riconoscibile dietro il testo dei due evan­ gelisti e che, prescindendo dai tratti secondari menzionati nell'intro­ duzione, corrisponde in larga misura alla versione matteana, può be­ nissimo risalire a Gesù per il quale l'accento cadeva sulla dote di Dio data all'uomo che bisogna mettere a frutto adesso perché nel giudizio avvenire di Dio sarà perduto colui che vuole mettere se "stesso al sicu­ ro invece di valorizzare per il regno di Dio le doti donategli da Dio. Troverà la propria vita chi è pronto a metterla in gioco e a rischiarla, non chi cercherà di tenersela stretta (Mc. 8,3 5). Chi, per eccesso di ti­ more, si preoccupa della propria esistenza e non si accorge che così facendo lascia inutilizzata la dote del suo Signore, anzi pensa persino di aver ragione e accusa, come i braccianti di 20, 1 2 o il fratello mag­ giore di Le. 1 5,29 s., il Signore di essere ingiusto, ha fallito come il ter­ zo servo. La parabola di Gesù potrebbe essersi conclusa con il v. 27. La lontananza del padrone aveva quella volta l'unica funzione di illu­ strare l'azione dei servi condotta sotto la propria responsabilità e con la propria iniziativa. La parabola dovrebbe aver dunque avuto come bersaglio che sono interessati unicamente alla propria integrità e sicu­ rezza, a sussistere nel giudizio invece che alle cose di Dio che vuole produrre risultati nel mondo. Gesù afferma dunque che una religiosi­ tà che si preoccupa soltanto di non fare niente di sbagliato per potere un giorno dimostrarsi giusto davanti al giudice, non coglie affatto la volontà di Dio. Già Q ha aggiunto quale interpretazione il detto che sarà dato a chi ha (v. 29 = Le. r 9,26). Per Q è quindi importante sotto­ lineare il giudizio in base al comportamento dell'uomo (cf. Mt. 1 6,27). Anche qui il punto della storia era ancora l'incarico affidato da Dio di mettere a frutto la sua dotazione, di non cercare, timorosi, di mettersi al sicuro, ma di mettere se stessi in gioco per lui. Naturalmente per la comunità la proclamazione e tutta la vita e morte di Gesù costituivano

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Mt. 1 5,3 1 -46. Il giudizio universale

ora la norma secondo la quale essa comprendeva questo compito e in base alla quale un giorno Dio avrebbe giudicato. Non è chiaro quanto presto essa abbia visto nel padrone della parabola proprio il Cristo morto che un giorno sarebbe riapparso. Di sicuro Luca ha sottolinea­ to il tempo dell'assenza del Signore e chiarito con 1 9, 1 r come leggesse la parabola: i cristiani sanno che il tempo fino alla venuta di Cristo sa­ rà lungo. Ma mediante la proclamazione di Gesù essi conoscono esat­ tamente quale sia la volontà di Dio per questo intervallo rispetto al quale si ha l'unico ordine esplicito in Le. I 9, 1 3b. Perciò la loro re­ sponsabilità, di cui un. giorno dovranno rendere conto, è tanto più grande. Anche per Matteo la parabola è chiaramente orientata verso Cristo e la sua venuta, come mostra già la sua collocazione tra 2 5, 1 - I 3 e 2 5,3 r -46. Matteo ha calcato notevolmente il profilo del giudice uni­ versale che destina alla gioia eterna (vv. 2 1 e 23, alla fine) o alla con­ danna (v. 30). Egli ha inoltre aggiunto che i primi due servi sono «fe­ deli» (in greco = «credenti>> ), il terzo invece «inutile» e «pigro» . . A proposito di pigrizia, ci si deve chiedere se scavare una buca non ri­ chiedésse più lavoro di una passeggiata fino in banca. Il suo «timore» (anche Le. 1 9,2 1 ) potrebbe aver fatto ricordare a Matteo passi come 8,26; 1 4,30 s. All'evangelista interessa quindi sottolineare che il cre­ dente non solo ascolta, ma traduce in pratica quanto ha sentito. In que­ sto senso egli collega all'inizio con «allora» questa parabola all'invito a vegliare perché nessuno sa il giorno o l'ora. Non si deve forzare il testo nel senso di vedere sottolineato ai vv 1 - 1 2 più l'aspetto religioso contemplativo e ai vv 1 4-30 l'aspetto etico dinamico. Entrambe le pa­ rabole vogliono mettere la comunità in guardia dall'illusione di ritene­ re di essere salvata in ogni caso. Proprio essa deve restare consapevole, giorno per giorno, del proprio compito, perché non sa quando dovrà rendere conto della propria responsabilità. .

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Il giudizio universale, 2 5,3 I -46 3 1 Ma qu ando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, allora si siederà sul trono della sua gloria 32 e tutti i popoli saranno ri­ uniti al suo cospetto. Ed egli li dividerà uno dall'altro, come il pastore le pecore dagli arieti, 33 e porrà le pecore alla sua destra, ma gli arieti alla sua sinistra. 34 Allora il re dirà a quelli alla sua destra: Avvicinatevi, benedetti del Padre mio, ereditate il regno che vi è preparato fin dalla fondazione del mondo. 3 5 Poiché ho avuto fame, e mi avete dato da mangiare. Ho avuto

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sete, e mi avete dato da bere. Sono stato uno straniero, e mi accoglieste; 36 sono stato nudo e mi avete rivestito. Sono stato malato e mi avete visita­ to. Sono stato in prigione e veniste da me. 37 Allora i giusti gli ris ponde­ ranno e diranno: Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare o assetato e ti abbiamo dato da bere ? 3 8 Quando ti ab­ biamo visto straniero e ti accogliemmo o nudo e ti rivestimmo ? 3 9 Quan­ do ti abbiamo visto malato o in prigione e venimmo da te? 40 E il re rispon­ derà loro e dirà: Amen, vi dico: Proprio come avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, così avete fatto a me 41 Allora parlerà anche a quelli alla sua sinistra: Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno che è pre­ parato per il diavolo e i suoi angeli. 42 Poiché sono stato affamato, e non mi avete dato da mangiare. Ho avuto sete, e non mi avete dato da bere. 43 So­ no stato uno straniero, e non mi accoglieste; nudo, e non mi avete rivestito; malato e in prigione, e non mi avete visitato. 44 Allora anch'essi risponde­ ranno e diranno: Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o come uno straniero o nudo o malato o in prigione e non ti abbiamo servi­ to? 4 5 Allora risponderà loro e dirà: Amen, vi dico: Proprio come non avete fatto a uno di questi minimi, così non avete fatto neanche a me. 46 E >, «re Jahvé». La descrizione potrebbe quindi risalire addirittura a una fonte giudaica? In uno scrit­ to giudaico si legge: «Figli miei, quando avete dato da mangiare ai po­ veri, io ne tengo conto come se aveste dato da mangiare a me stesso» (Midrash Tann. a Deut. I 5,9). ln verità il nostro testo va ben oltre per­ ché non c'è un «come se>>. Ciò rimanda direttamente a Gesù; la descri­ zione venne poi sicuramente molto presto applicata a Cristo quale giudice. Infatti anche nel giudaismo il messia può apparire occasionai­ mente quale re (Zacc. 9,9 = Mt. 2 1 ,5 ; Sal. 89, 1 9.28; Ps. Sal. 1 7,3 2; forse anche Ez. 3 7, 1 1 .24; per il Nuovo Testamento v. sotto). Che egli eser­ citi l'autorità regale di Dio è detto in Mich. 5�1 ; r Cron. 1 7, I 4; cf. 1 QSb 5 ,20 s. Anche la promessa di 2 Sam. 7, I 2 ss. che valeva per il re d'Israele in carica pro tempore (cf. Sal. 2,7; 89,2 1 .27 s.) ai tempi di Ge­ sù veniva riferita al messia (Atti 1 3 ,3 3; Apoc. 1 , 5 ecc.). Ez. 34, 1 7 ss. po­ trebbe aver fornito il modello per la nostra pericope. In verità in Ez. 34,24 si parla solo di «principe», non di re; inoltre la separazione è tra pecore deboli e pecore forti, che difficilmente significa tra pecore e arieti (Ez. 34, 1 7 ?) e il centro della pericope è la promessa dell'unico pastore che sostituisce i pastori incapaci. 3 1-46. L'introduzione (v. 3 r ) non vuoi dire niente di nuovo: ogni pa­ rola è già apparsa prima. Richiamando queste attese già ben note, essa vuole soltanto precisare a che si riferisca quanto segue. «Tutti i popo­ li» (v. 3 2) non può denotare soltanto gli etnicocristiani, bensì realmen­ te l'intera umanità. · Essi vengono «riuniti» o, più esattamente, «ra�u-

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nati», come legge il testo usando un verbo tipico del linguaggio della pastorizia e tipico anche di Matteo. Probabilmente si pensa alla sepa­ razione tra pecore e capre; sebbene possa significare anche > . Così sembra preferibile intendere nel secondo senso. Anche la precisazione «di questi», in re­ altà superflua, potrebbe indicare una sensibilità linguistica semitica. All'altro gruppo viene comunicata la sentenza che li condanna al fuo­ co eterno (v. a 5 ,22). L'aggiunta «per il diavolo e i suoi angeli» signifi­ ca come in Apoc. r 9,20 s.; 20,9 s. che solo essi rimangono tra le fiamme in eterno, mentre i condannati vengono consumati da esse (ma cf. v. 46 e a r o,2 8)? Una lezione, non certo originaria, dice che il «Padre» avrebbe preparato questo fuoco; tuttavia già la formulazione con il verbo al passivo lo presuppone comunque (v. 4 1 ). Qui si riporta solo la sentenza, non la sua esecuzione e i tormenti dell'inferno. Anche i condannati sono totalmente sorpresi: non sono consapevoli di alcuna colpa. Forse si può persino osservare che i primi parlano soltanto di «andare da lui»; i secondi, «più religiosamente» di «servire» (v. 44). Così vengono condannati non per aver fatto il male, ma per aver man­ cato di fare il bene. Nel versetto finale si sottolinea ancora la separa­ zione, con una reminiscenza di Dan. l2,2. Anche se si potrebbe inten­ dere la «punizione eterna» nel senso che il loro annientamento resti irrevocabile in eterno, il parallelismo con «vita eterna» suggerisce piut­ tosto l'idea di un tormento che duri in eterno. È possibile che la para­ bola originaria parlasse solo di annientamento, Matteo invece già di tormento (v. 46). È chiaro che coloro che vengono giudicati non sono solo i cristiani, ma gli uomini in generale. Ma in base a quale criterio si decide? I

Mt.

2 5 ,3 1 -46.

Il giudizio universale

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«miei minimi fratelli» sono inviati di Gesù? L'affinità con «i minimi» di I 0,42; I 8,6- 1 4 salta effettivamente agli occhi e la formulazione «uno di questi ... » è in entrambi i passi la stessa. Inoltre proprio Matteo spiega che i discepoli di Gesù sono suoi fratelli ( I 2,49; 28, Io). Questo fatto potrebbe spiegare anche la visita in carcere, un gesto che va oltre i paralleli giudaici: coloro che vengono imprigionati per la loro predi­ cazione vengono visitati dai membri della comunità conquistati di re­ cente (2 Tim. I , I 6 s. ecc.); situazioni di bisogno analoghe vengono elencate in 2 Cor. I I ,23.27.30 dove si descrive il ministero missionario di Paolo. Allora il criterio per l'approvazione o riprovazione in giu­ dizio sarebbe la risposta degli uomini, sì o no, alla loro proclamazione universale, risposta che si manifesta soprattutto nel comportamento pratico nei loro confronti. Questa lettura è del tutto possibile. A suo sfavore gioca che in Matteo (come in Mc. 9,42; Le. 1 7,2) si parli di «questi piccoli» (I I, I I : «i più piccoli»): perché mai sarebbe stata scelta una diversa espressione, visto che manca anche qualsiasi riferimento particolarmente chiaro ai messi di Gesù ? Inoltre Mt. I o, 1 4 ha sottoli­ neato con forza le «parole» degli inviati di Gesù, mentre Le. 9,4 s.; 1 o, 7 s. sono interessati unicamente all'accoglienza ospitale riservata loro. E proprio Matteo avrebbe limitato le opere di amore decisive per l'esi­ to del giudizio a quelle rese ai discepoli, lui che ha trasformato il co­ mandamento di amare i nemici in un'antitesi che condanna una simile distinzione ( 5 ,43-48)? Non è impossibile, ma per lo meno Matteo stes­ so formulerà la sentenza del giudice in termini sicuramente più ampi. Si deve dunque pensare a un puro senso di solidarietà con il pros­ simo perché Gesù stesso ci incontra e ci attende in ogni povero, pro­ fugo ed emarginato ? Effettivamente tanto Matteo quanto Paolo (Rom. 2,6. I 3 s.) insistono molto che la volontà di Dio non venga solo ascol­ tata, ma anche soprattutto fatta. Che proprio quelli che, sicuri di sé, siano convinti di aver fatto tutto non lo facciano sono di nuovo sia Matteo (20, 1 I s.) sia Paolo (Rom. I0,2 s.; Fil. 3,4-6) a saperlo; che vice­ versa chi è veramente ubbidiente non registri la propria opera tanto Matteo (6,3 .7) quanto Paolo (Fil. 3,7) l'hanno imparato da Gesù. In verità ciò non è «soltanto» un senso di umanità. Come si potrebbe vedere e amare il « minimo fratello» senza aver imparato prima a vede­ re e amare Gesù ? Matteo stesso è comunque convinto che solo stando vicini a Gesù si può imparare a compiere la legge dell'amore del pros­ simo (v. retrospettiva [3]). Solo chi ha ricevuto l'infinito perdono ( 1 8,

444

Il ritorno di Cristo

cf. ancora a 9,2.9 s. 1 3; I 1 ,28-3o) impara a vivere del perdono e così incontrare l'altro perdonando ( 1 8,28-3 5 ). Perciò è importante tanto ascoltare la parola quanto dimostrarsi ospitali concretamente se nel giudizio non si vuole andare incontro a una sorte peggiore di quella di Sodoma e Gomorra ( 1 0, 1 4 s.). Ma mentre la parabola di 20, 1 - 1 6 riba­ disce, contro il fronte della giustizia delle opere, che la ricompensa di Dio non si orienta sulla base del lavoro fatto dall'uomo, ma rimane puro dono, la nostra pericope sottolinea, contro il fronte di una «fe­ de» puramente intellettuale o emotiva, che solo l'azione dell'amore conterà davanti al tribunale di Dio. Questo aspetto viene sottolineato con tanta forza che l'accettazione del messaggio verbale non viene neanche nominata. Se si può dunque dire che, come nel caso del !a­ drone in croce (Le. 23,42 s.), ci sia una fede genuina, anche se non giunta a pienezza, che consiste nel solo grido di aiuto lanciato con fe­ de, si potrà allora dire anche che c'è una fede genuina, anche se non giunta a pienezza, che consiste nel fare la volontà di Dio verso i pove­ ri e i minimi, senza sapere necessariamente quale sia la sorgente della quale vive. In che grande misura ogni gesto d'amore tragga la sua vita soltanto dal fatto che Gesù Cristo stesso ci avvicini nel povero diven­ terà chiaro a tutti soltanto nel giudizio finale. Queste sono le due af­ fermazioni estreme del N uovo Testamento che da un lato proteggono dalla giustizia delle opere, dall'altra dalla giustizia della dogmatica; che rendono dunque impossibile sia insistere solo sull'azione concreta disprezzando quelli che «corrono in chiesa» o la prassi della medita­ zione silenziosa e della preghiera sia, viceversa, sminuire l'importanza di qualsiasi aiuto «terreno>> finché non sarà al contempo resa una pro­ fessione di fede. Su entrambi i fronti, al discepolo di Gesù non è con­ sentito che diventi essenziale la preoccupazione per la propria perfe­ zione, per lo sviluppo della propria personalità, ma deve esserlo sem­ pre e solo la sua vita per il prossimo. Così la nettezza del giudizio che mette tutti in discussione serve proprio a far crescere la grazia di Dio. Chi ne è a conoscenza può sempre rivolgersi ogni volta a colui che promette la pace agli oppressi e dichiara beati i poveri, preparando così la propria comunità a essere ciò per altri ( 1 1 ,2 5 ss.; 5,3 ss.2 1 ss.). i7;

a

Il ritorno di Cristo. M �tteo ha volutamente posto le ultime tre pa­

rabole (24,4 5-2 5,30) e il discorso apocalittico (2 5,3 1 -46) nel contesto della descrizione della «parusia» di Gesù (Mt. 24,30 s.). Il termine

Il ritorno di Cristo

44 5

«parusia» manca nel giudaismo ed è tipicamente greco. Significa pro­ priamente «presenza», poi anche l'improvviso verificarsi della presen­ za, dunque la «venuta», l' «arrivo». Così il termine viene usato in pa­ piri che narrano la visita di un sovrano. Nel Nuovo Testamento «pa­ rusia>> compare dapprima in Paolo, si trova 4 volte in Mt. 24 e poi in Giac. 5,7 s.; 2 Pt. 1 , 1 6; 3,4. 1 2; 1 Gv. 2,28; denota sempre la venuta esca­ tologica di Gesù, mai la sua nascita. L'espressione «ritorno» che si usa normalmente non è esatta; per il Nuovo Testamento l'unica e vera «venuta>> di Gesù è quella alla fine del mondo. Gesù ha senza dubbio aspettato una definitiva irruzione del regno di Dio e un giudizio fi­ nale. Egli si è anzi fatto battezzare da Giovanni Battista, dal quale si è sì distinto per la prassi del digiuno (v. intr. a Mc. 2,1 8 -22 ) , ma non ha mai rifiutato la sua proclamazione orientata sugli eventi della fine imminente e sulla venuta del giudice, anche se in lui, diversamente da Giovanni, il momento determinante è che il regno di Dio vuole ir­ rompere già adesso nella vita dell'uomo (cf. excursus a Mc. 1 , 1 5 ) . Tut­ tavia Gesù non ha mai parlato della propria venuta alla fine dei tempi. Mc. I 3,24-27 è ripreso dalla traduzione greca dell'Antico Testamento e almeno l'ultimo versetto non è esattamente così nella Bibbia ebraica. Questi detti, dunque, non sono stati certamente pronunciati da Gesù in questa forma. Mc. 8,3 8 (v. ad loc. ) parla, nella forma più antica, di Gesù quale testimonio, comunque decisivo ai fini del giudizio (cf. ex­ cursus sul Figlio dell'uomo, Mc. , pp. I 3 6 ss., a Mc. 8,27-3 3; per qui p. I 3 9) . Quella che potrebbe essere forse veramente un'autentica parola di Gesù è Mc. 14,62 dove, tuttavia, in origine ci si riferiva probabil­ mente all'esaltazione di Gesù presso Dio (v. ad loc. ) . Ma si è visto an­ che in Mt. 2 5 , I 4-30.J I -46 che probabilmente in origine si trattava del giudizio di Dio, non della venuta di Gesù. N ella stragrande maggio­ ranza delle parabole o dei detti che parlano del futuro giudizio di Dio non si fa mai alcun riferimento alla venuta di Gesù (Mc. 2, I 8-22; 3,2830; 4, 1 -9; 8,3 5-37; 9,42-48; I O, I 7-3 1 ; Mt. 5,2 I s.; 6, I - I 8; 7, 1 - 5 .24-27; 8,1 r s.; 1 0, 1 5; I 1,20-24; 1 2,42; I 3,24-30 [diversamente al v. 4 1 ] .47- 5 0; 1 8, I 8 .23-3 5 ; 20, 1 - 1 6; 22, I - 1 4; Le. 1 2, I 6-2 1 . 5 7- 59; I J, I -9; 1 5, I - I 6,9. 1 93 I; 1 8,9- 14 ) . In sé l'idea del ritorno di una persona che era stata innal­ zata presso Dio non era al tempo insolita (Mc. 9, 1 1 s.; cf. 6, 14- 1 6; an­ che il gruppo di Qumran ha forse atteso per la fine dei giorni il ri­ torno del suo Maestro: CD 6, 1 0 s.). Tuttavia non si parla mai della nuova venuta, ma sempre della sua venuta. Neanche i relativamente

446

Il ritorno di Cristo

scarsi riferimenti a un ritorno sono mai collegati con le predizioni del­ la sua morte e risurrezione. Ma se il Gesù che viveva sulla terra avesse parlato del suo ritorno, egli avrebbe necessariamente dovuto dire al contempo che sarebbe morto, risorto e ritornato. Eppure quando im­ parò a parlare della venuta di Gesù per il giudizio la comunità non ha detto fondamentalmente niente di diverso da lui. Per Gesù è naturale che il giudizio di Dio avverrà secondo le norme fissate dalla sua pro­ clamazione e da tutto il suo comportamento. Infatti in Gesù Dio di­ venta reale per l'uomo; ma ciò significa che il Dio che lo incontrerà nel giudizio finale avrà le sembianze di Gesù. Così il detto che nel giudizio di Dio .Gesù sarà il testimone a difesa o a cari�o dell'uomo, decidendo così il giudizio stesso (Mc. 8,3 8; v. excursus sul Figlio del­ l'uomo a Mc. 8,27-3 3), potrebbe sicuramente risalire a Gesù stesso. Ciò che deciderà è se l'uomo si fece mostrare da lui Dio e se permise che egli determinasse la sua vita. Così Gesù lo incontrerà di nuovo al giudizio di Dio. Che l'attesa di Dio quale giudice divenga l'attesa di Gesù in veste di giudice può essere notata anche in paolo (Rom. I 4, I o / 2 Cor. 5 , I o; entrambi insieme in 1 Cor. 4,4 s.). Chi prende sul serio che in Gesù Dio stesso incontra l'uomo non riesce semplicemente più a pensare a due persone distinte tra di loro che stiano vicine, fianco a fianco, come due individui umani; egli comprende che Dio è una cosa sola con Gesù Cristo. Ciò vuole certamente dire anche Giovanni quan­ do dice che Dio e la Parola sono uno (Gv. 1, I ) e che uno sono il Padre e il figlio (Gv. I o,JO); oppure Paolo quando nel compimento finale fa allineare perfettamente Gesù Cristo a Dio affinché questi divenga «ogni cosa in tutti >> (1 Cor. I 5,28). Solo per il periodo dell'uomo pec­ catore che si è allontanato da Dio è dunque vero, per Paolo e Giovan­ ni, che in Gesù Dio esce, in un certo senso, da se stesso e incontra l'uomo che si è alienato da lui. L'affermazione che un giorno il figlio si sottoporrà totalmente a Dio ribadisce la verità che in lui non s'in­ contra nessun altro che Dio. L'altra sentenza che egli è mandato quale salvatore e giudice ribadisce la verità che Dio è sempre l'altro che sta faccia a faccia con l'uomo e non si dissolve mai nell'esperienza del­ l'amore o della responsabilità (cf. excursus «Padre, Figlio e Spirito santo» a 28, 1 9).

Parte sesta

Passione e risurrezione di Gesù (capp . 26�28)

Anche nella storia della passione Matteo segue nell'essenziale Marco. Tuttavia si constata che la narrazione orale rappresenta una corrente della tradizione che scorre a fianco di Marco e talora si impone contro di lui. Si hanno coincidenze minori con Luca (Mt. 26,68.75; 27, 5 8 s.; 28,8; cf. la notizia della fine di Giuda in Mt. 27,3 - I O con Atti 1 , 1 6-2o), ma soprattutto concordanze sostanziali con Giovanni (Mt. 26,2. 3· 7 s. 1 5 .2 5 . 5 2; 27,27.29.3 7· 5 7,6o; 28,9). A ciò si aggiungono interpolazioni: alcune sono frutto dello studio profondo dell'Antico Testamento da parte della comunità, come è vero soprattutto per le storie di Giuda {26, 1 5 ; 27,3- 1 0); altre, come l'episod�o delle sentinelle del sepolcro, ri­ velano un'evoluzione o una risposta polemica agli attacchi giudaici al­ la credibilità della risurrezione, ma presuppongono una forma ancora più antica della storia della passione che non sapeva ancora nulla del­ l'unzione fatta dalle donne (così anche Gv. 20, 1 ; v. intr. a 28, 1 -4). Al­ tro materiale è antico, probabilmente più antico e attendibile della forma marciana: così il nome Gesù Barabba (27, 1 6 s. ?), il manto scar­ latto (27,28), la forma del grido «elì» (27,47) e il detto sul tempio (26, 6 1 ). Infine va tenuta d'occhio soprattutto l'influenza del testo di Mar­ co anche dove manchi una formulazione esattamente parallela (v. a 27, I 5·32- 50· 5 5 .6o). Anche qui si vede l'interesse teologico di Matteo. La superiorità di Gesù viene sottolineata: la sua parola si compie (26,2; cf. 27,63; 28,6 e a 26,24); si sottomette spontaneamente a Dio e affronta la passione {26,42; cf. a 26, r s. 5o). In maniera quasi giovannea egli sa che il suo tempo è venuto ( 26, I 8; cf. a 26, I o). Il titolo di Cristo appare già in 27, 1 7.22. D'altra parte esso viene omesso in 27,42, ma probabilmen­ te solo perché Matteo sa ancora perfettamente che Cristo e re sono praticamente sinonimi. La croce non è sentita più come un mistero di difficile soluzione, la risurrezione si preannuncia già prima di avvenire (27, 5 2 s.); la passione è il passo verso l'elevazione al trono del Signore universale (cf. a 26,64. 1 2. 1 8 . 5o; 27,5 3); la visione giovannea (Gv. 3 , 1 4 s.; 1 2,28.3 2 ecc.; anche Le. 9, 5 1 ) appare già tra l e righe. Così anche il

448

Mt.

26,1-5. Il complotto mortale

contrasto tra Gesù di Nazaret e Gesù Barabba viene presentato in to­ ni molto forti per mettere in risalto l'idea della sofferenza vicari a ( 2 7, I 5 -23). Il suo dolore scuote la terra e fa sorgere i morti, segnala dun­ que la fine di questo mondo e l'inizio del nuovo mondo di Dio. Que­ sto trapasso epocale è strettamente congiunto con lo squarcio che si apre nella cortina del tempio, simbolo della fine del culto giudaico (27, 5 I - 5 3 ). Per Matteo, dunque, la passione è insieme il conflitto decisivo con il giudaismo. La grande massa che, al contrario delle autorità, se­ guiva con entusiasmo Gesù si schiera ora dalla parte dei suoi gover­ nanti e si assume la responsabilità per la morte di Gesù (27,24 s.). Il dubbio circa la risurrezione di Gesù, che secondo l'opinione di Mat­ teo è un dato di fatto evidente per tutti, nasce solo da una volontà ne­ gativa (28, I I - I 5). Infine la passione viene raffigurata come il cammino del giusto sofferente che costituisce non solo il modello per il cammi­ no dei suoi discepoli, ma allo stesso tempo anche la possibilità della loro sequela (cf. a 26,42. 52. 54; 27,43). La storia della passione e con es­ sa il vangelo si chiudono con l'intronizzazione di Gesù quale Signore universale e con il mandato ai suoi discepoli di invitare tutti i popoli all'ubbidienza verso i comandamenti di Gesù (28, I 8-2o). Tutto ciò non è elaborato teologicamente; il grande riserbo, anzi la ritrosia della storia della passione non viene abbandonata. Solo gli avvenimenti stes­ si narrati con parole scarne devono di regola esprimere che cosa Mat­ teo vorrebbe comunicare. Cronaca e proclamazione sono ancora in larga misura una cosa sola. Il complotto mortale, 26,1-5 (cf. Mc. I 4, 1 s.; Le. 22, I s.) 1

avvenne che quando ebbe finito tutte queste parole Gesù disse ai suoi discepoli: 2 Sapete che fra due giorni è pasqua e il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso. - 3 Allora si riunirono i sommi sacerdo­ ti e gli anziani del popolo nella residenza del sommo sacerdote, di nome Caiafa, 4 e deliberarono di prendere Gesù con l'inganno e di ucciderlo. 5 Ma dissero: N on durante la festa affinché non si verifichino disordini nel popolo. E

1 - 5. La breve nota di Mc. I 4, I viene molto ampliata. Subito all'inizio della storia della passione Matteo vuole far capire come andrà a finire. La solita formula che conclude tutti i grandi discorsi (v. a 7,2 8) viene ampliata: «tutte queste parole» (così anche Deut. 3 I, 1 LXX). Inoltre

Mt. �6,6- 1 3 . L'unzione per la morte

449

non si dà alcuna informazione sui suoi movimenti successivi. Il tempo dell'insegnamento, e con esso quello della decisione pro o contro lui, è finito. Ora viene il tempo della sofferenza di Gesù. Ciò che in esso succede lo capiscono solo i suoi discepoli ai quali viene rivolto il detto seguente. Il riferimento agli «azimi» (Mc. 1 4, 1 ) viene omesso (cf. 1 5, 1 20 intr.}, ma cf. v. 1 7. Soprattutto ciò che in Marco era una semplice indicazione cronologica diventa in Matteo una parola di Gesù stesso, assumendo così una rilevanza maggiore (cf. al v. 27). Proprio a pasqua il Figlio dell'uomo verrà consegnato per la crocifissione. A chi, non è detto. È possibile che già Matteo pensi alla morte di Gesù quale sacri­ ficio dell'agnello pasquale. Questo concetto è sicuramente dimostra­ bile in Paolo ( I Cor. 5,7), molto probabilmente in Giovanni ( r 9,3 6; cf. Es. 1 2,46; Num. 9, 1 2 e Gv. 1 ,29.36; v. inoltre a Mc. 1 5 ,2 5 .42 e intr. a Mc. 14, 1 2- 1 6}. Il pieno impatto del titolo di Figlio dell'uomo unito con il tradizionale discorso dell'immolazione (Ro m. 4,2 5 in un'antica formula; I Cor. 1 1 ,23; Mc. 9,3 I [v. ad loc.]; I O,J J ; I 4,4 1 ; Le. 9,44; 24,7; Atti 2 I , I I ) e con il riferimento matteano alla crocifissione (v. a Mt. 20, 1 9) vuole sottolineare che Gesù stesso mette in moto l'intero evento della passione con la sua parola (v. 2). Lo stretto nesso tra parola di Gesù e riunione delle autorità viene sottolineato con il tipico «allora» di Matteo (v. 3). A differenza di Marco qui si nominano gli anziani del popolo (invero il genitivo manca in un antico manoscritto), ma non gl i scribi: forse Matteo vuole già preparare la scena per l'assunzione di responsabilità per la morte di Gesù da parte del popolo (27,2 5 ). Tutta­ via il popolo sta sempre ancora dalla parte di Gesù così da doversi te­ mere addirittura una rivolta (v. 5 = Mc. I 4, 2 ) . Oltre Marco, Matteo conosce anche il nome di Caiafa (anche in 26, 5 7 = Gv. I 8, I J). Gv. I I , 49 non solo concorda a questo punto con Matteo, ma anche per quan­ to riguarda la notizia di una vera riunione di consiglio delle autorità che in verità avviene là già prima dell'entrata di Gesù a Gerusalemme. La residenza del sommo sacerdote che verrà ricordata più avanti (26, 5 8) appare già qui quale sede della riunione. L'unzione per la morte, z6,6- 1 3 (cf. Mc. 1 4,3-9; Le. 7,36- 5 0)

Ma mentre Gesù si trovava a Betania, in casa di Simone il Lebbroso, 7 gli si avvicinò una donna che aveva un'anfo retta di alabastro con mirra pre­ ziosa e la versò sul suo capo, giacché era seduto a tavola. 8 Ma quando i 6

450

Mt. 26,14- 1 6. Il tradimento di Giuda

discepoli videro ciò si indignarono e dissero: Perché questo spreco ? 9 Lo si poteva vendere caro e dare ai poveri. 10 Ma Gesù se ne accorse e disse loro: Perché date fastidio alla donna? Ha fatto un'opera buona per me! 1 1 Infatti i poveri li avete sempre con voi, ma me non mi avete sempre. 12 Infatti versandomi questa mirra sul corpo ha compiuto un preparativo per la mia sepoltura. 1 3 Amen, vi dico: In tu tto il mondo, ovunque questo messaggio di gioia sarà proclamato, sarà detto anche quello che lei ha fatto, . a sua memona. 6-1 3. La storia dell'unzione viene un po' abbreviata. Che Gesù sia seduto a tavola viene detto solo al v. 7 perché in greco è grammatical­ mente quasi impossibile dipanare la matassa delle informazioni situa­ zionali di Mc. 1 4, 3 . Invece si ha il tratto caratteristico della persona che «si avvicina» (v. a 8,2). L'aggettivo greco per dire « prezioso» è di­ verso da quello usato i n Mc. 1 4,3 . Gv. 1 2,3 presenta una combinazio­ ne dei due termini. Secondo Matteo sono i discepoli che si indignano, ma certamente non sgridano duramente la donna come fanno «alcuni» in Mc. 1 4,4 s.; in Gv. 1 2 ;4 s. è Giuda (v. 8). Poiché si dice che Gesù se ne accorse, Matteo si immagina evidentemente che i discepoli abbiano parlato solo tra di loro (come dice Mc. 1 4,4): si sottolinea la sua anni­ scienza (cf. a 9,4). Viene omessa la difficile frase messa immediata­ mente dopo l'unzione (v. 1 4). Soprattutto al pari di Gv. 1 2,6 si descri­ ve Giuda come particolarmente venale: egli vuole vendere Gesù in senso stretto (diversamente Mc. 1 4, 1 I; v. ad loc. ). Ciò che in Marco viene narrato in discorso indiretto si è trasformato in discorso diretto (cf. Mc. 1 4, 1 s. e al v. 27). Si menziona la somma: la comunità ha trova­ to l'importo nella sua Bibbia, che per essa ha già scritto in anticipo la storia di Gesù, e precisamente nel profeta che ha già influito sulla nar­ razione in 2 1 ,4 s. (Zacc. 1 I , 1 2; cf. a 27,3 - I O). Alcuni manoscritti non molto buoni leggono «statere» o «statere d'argento»; è difficile deci­ dere se si tratti della dizione originaria o di un successivo adattamento al passo profetico. In ogni caso si tratta di una somma ridicola; secon­ do Es. 2 1 ,3 2 è il risarcimento per uno schiavo altrui ucciso da un pro­ prio bue. Al tempo di Gesù la somma valeva circa 1/1 0 di quell'impor­ to. Per il resto, il verbo «pagare» (sic in Zacc. 1 I , I 2) p u ò significare anche «offrire» (come qui). Con «da allora in poi>> (v. 16) si sottolinea ancora una volta che il pagamento proposto è il vero motivo del tra­ dimento. La preparazione per l'ultima cena, 26,-1 7-20 (cf. Mc. 1 4, 1 2- 1 7; Le. 22,7- 1 3) 1 7 Ma il primo giorno degli azimi i discepoli si avvicinarono a Gesù e dis­ sero: Dove vuoi che ti prepari amo per mangiare l'agnello pasquale? 18 Ma egli disse: Andate in città dal tal dei tali e ditegli: Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino, voglio celebrare la pasqua insieme con i miei discepoli a ca­ sa tua. 19 E i discepoli fecero come Gesù aveva comandato loro e prepara­ rono la pasqua. 20 Ma quando si fece sera egli si sedette insieme con i do­ dici discepoli a tavola.

1 7-.10. Abbreviando il racconto di Marco il senso viene notevolmen­ te alterato. Si tralascia il miracolo della prescienza di Gesù e dell' adem­ pimento letterale (v. I 8). I discepoli vengono inviati «dal tal dei tali» (come in Rut 4, 1 ; 1 Sam. 2 I ,J; 2 Re 6,8), una persona di loro cono­ scenza; e mentre Mc. 1 4, 1 6 racconta che essi avevano trovato tutto co­ me Gesù aveva predetto, Matteo mette in risalto l'ubbidienza dei di­ scepoli che fecero tutto secondo il mandato di Gesù (v. 19; cf. a I ,24;

452

Mt

.

.26,.2 I - .2 J . L'indicazione del traditore durante la cena

2 1 ,6). A ciò fa riscontro l'atteggiamento iniziale (v. 1 7) dei discepoli che si avvicinino (v. a 8,2) a Gesù pieni di timore reverenziale, volen­ do preparare espressamente per lui () la pasqua. Viene ripreso da Marco il regale «il Maestro dice»; ma poi segue subito la frase «il mio tempo è vicino» (cf. Apoc. 1,3; 22, 1 0). Il termine greco denota il mo­ mento determinato (da Dio): in questo modo la morte e risurrezione di Gesù vengono comprese come l'evento escatologico esattamente predeterminato da Dio. L'espressione «celebrare la pasqua>> è vetero­ testamentaria (Gios. 5 , 1 0 ecc.); ma di fatto per Matteo non si tratta più della pasqua giudaica, bensì già dell'apogeo prefissato da Dio, la pri­ ma pasqua del nuovo patto. La confusione creata da Mc. I 4, I 7 con due discepoli mandati avanti .che vengono poi seguiti da Gesù «insie­ me con i dodici», viene eliminata. Si dice soltanto che Gesù sta seduto a tavola «con i dodici», i quali probabilmente erano stati tutti mandati avanti (cf. a 24, 1 .3 ). L'indicazione del traditore durante la cena, �6,l. I-.1 J (cf. Mc. I 4, 1 8-2 1 ; Le. 22, 1 4.2 1 -23) 2 r E me ntre mangiavano egli disse: Amen, vi dico: Uno di voi mi conse­ gnerà. 22 Ed essi furono sconvolti e cominciarono a dire, uno dopo l'altro: Non sono per caso io, Signore? 2 3 Ma egli rispose e disse: Colui che mette con me la mano nel piatto, lui mi consegnerà. 24 Sì, il Figlio dell'uomo morirà, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo mediante il quale il Figlio dell'uomo verrà consegnato! Sarebbe meglio per lui che non fosse nato ! 25 Ma Giuda, quello che lo consegnò, si alzò e disse: Non sono per caso io, rabbi ? Egli gli dice: Tu l'hai detto.

.1 1 -1. 5· Mentre gli altri discepoli si rivolgono a Gesù chiamandolo «Signore», secondo Matteo Giuda lo chiama semplicemente «rabbi» {vv. 2 5 .49) come i non credenti (v. a 8,2). Probabilmente anche ai tem­ pi di Matteo era ancora su questo che si dividevano i cristiani e i giu­ dei simpatizzanti, ma non cristiani (vv. 22.2 5 ). Mentre in Marco si di­ ce soltanto che uno che prende il cibo dalla stessa scodella di Gesù lo avrebbe tradito, Matteo parla di colui che ha appena messo la mano nella scodella. Questa è un'indicazione più chiara di Giuda; Gv. 1 3,26 s. non lascia più spazio a equivoci: Gesù stesso intinge il boccone e lo dà a Giuda. In entrambi i vangeli Giuda è chiamato «colui che lo tra­ disce / che lo avrebbe tradito» (v. 2 5 e 27,3; Gv. 6,7 1; I 2,4). Anche se in

Mt. 26,26-29. Le promesse dell'ultima cena .

453

maniera meno chiara d i Giovanni, pure già i n Matteo il ruolo d i Gesù è messo in evidenza. Con la propria parola egli, per così dire, dà il via a ciò che deve accadere e l'invettiva (v. 24) ripresa da Marco viene ad avere un peso ancora maggiore perché era stato detto, a mo' di avver­ timento, qualcosa di simile già in Mt. r 8,6 s. Il v. 2 5 va oltre Marco: Gesù chiama Giuda, in maniera definitiva e inequivocabile, traditore. Le promesse dell'ultima cena, 26,26-29 (cf. Mc. 1 4,22-2 5 ; Le. 22, 1 5-2o; I Cor. I 1 ,23-2 5 ) 26 Ma mentre mangiavano, Gesù prese u n pane, disse la benedizione, lo

ruppe e lo diede ai suoi discepoli e disse: Prendete, mangiate, questo è mi o corpo. 27 E prese un calice, disse il r-ingraziamento, e (lo) diede a loro e disse: Bevete tutti da questo, 28 poiché questo è mio «sangue del patto» che viene versato per molti, per il perdono dei peccati. 29 Ma vi dico: Da ora in poi non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, quando lo berrò nuovo, insieme con voi, nel regno di mio Padre . .18 Es. 24,8; Zacc.

9, 1 1 ;

Ger. 3 1 ,3 1 ss.

26-29. Poiché dopo l'aggiunta al v. 2 5 Gesù non è il solo a parlare, è necessario introdurre «Gesù» quale soggetto nel testo di Marco (v. 26}. Nella liturgia le vere parole dell'istituzione sono state un po' am­ pliate. Al «prendete» si affianca un «mangiate» che è l'esatto riscontro parallelo al «bevete» che accompagna il calice (v. 27). Così ha sicura­ mente invitato a mangiare e bere colui che nella comunità di Matteo distribuiva pane e vino ai suoi fratelli. Il secondo invito è un interes­ sante esempio di come nasca una nuova parola di Gesù. Salvo che per il cambiamento di «bevvero» in «bevete» (in greco il tempo del verbo non cambia) il versetto è letteralmente uguale a Mc. 1 4,23, solo che la proposizione narrativa si è trasformata in un detto di Gesù (così an­ che in 26,2.39.42; nel caso di altri 26, 1 5 .66; 27,2 1 ). Qui la trasforma­ zione avvenne per le esigenze della celebrazione della cena nella quale colui che distribuisce sta direttamente di fronte a colui che riceve e gli parla. Mangiare e bere diventano così l'ubbidiente esecuzione dell'in­ vito di Gesù che viene motivato con la nuova aggiunta di un «poiché.» prima del riferimento al sangue del patto (v. 28). L'aggiunta «per il perdono dei peccati» Matteo l'ha omessa a proposito del battesimo di Giovanni (Mc. 1 ,4); nella storia del paralitico, invece, egli ha invece parlato non solo dell'autorità di Gesù di rimettere i peccati, ma anche

4 54

Mt.

26,30- 3 5 · La promessa

di Gesù e l'infedeltà dei discepoli

di quella della comunità (9,8). Anche la preposizione (invece che in terra) è un modo di dire biblico (ad es. Gen. 1 7,3 · 1 7). La prima pre­ ghiera riassume in una sola richiesta le due di Marco, che l'ora passi senza che nulla succeda e che il calice venga portato oltre (così lette­ ralmente) lui (v. 3 9). Manca l'espressione aramaica abba: probabil­ mente non è più usata nella comunità di Matteo a differenza di quelle paoline (Rom. 8, I 5; Gal. 4,6; v. a Mc. 14,36). Si omette il rimprovero rivolto a Pietro, «Simone, dormi ?! » (Mc. 1 4,37) e le parole seguenti, al plurale, sono dirette a tutti i discepoli, non soltanto a Pietro (v. 40). La veglia alla quale vengono esortati i discepoli ( v. 4 I ) ha per Matteo un'importanza particolare alla luce del senso dichiaratamente traslato di 24,42 e 2 5, I 3 . La seconda preghiera viene formulata in maniera nuova (v. 42). Diversamente dalla prima, essa comincia subito con la rassegnazione alla volontà di Dio e sfocia nella terza richiesta del Pa­ drenostro ripetuta alla lettera ( 6, I o). Così Gesù che resiste e supera la tentazione diventa modello e fondamento di ogni preghiera nella co­ munità. «Questo» può riferirsi in greco al calice, ma il pronome è la­ sciato certo volutamente indefinito così da potersi riferire a ogni cosa che Dio imponga all'uomo. Al v. 43 viene omesso il riferimento all'incomprensione dei disce­ poli (Mc. I 4,40) che ricorda molto le parole, omesse anch'esse, su Pie­ tro nella storia della trasfigurazione (Mc. 9,6; cf. anche a Mt. 1 3, 1 6 s.). Al suo posto Matteo fa riferimento a una terza preghiera, che in Mar­ co può essere solo dedotta, che dunque serve solo a rendere la narra­ zione più armonica (v. 44). « La medesima parola» che Gesù dice ades­ so, come in Mc. 1 4,39 già la seconda volta, non è più la richiesta che gli sia risparmiata la morte, ma la resa alla volontà di Dio. Con (v. a 8,2) viene messa ancora in rilievo questa prontezza di Gesù che dimostra come la tentazione sia stata superata (v. 45). Che l'inversione dell'ordine delle parole di Marco («si è avvicinato colui che mi conse­ gna) sia analoga alla frase «si è avvicinato il regno dei cieli» {3 ,2; 4, 1 7; 1 0,7) è del tutto casuale (v. 46). Matteo descrive dunque come nel corso della sua preghiera Gesù riesca a strappare a se stesso il sì alla volontà di Dio e in questa lotta cerchi la comunione dei suoi discepoli perché vuole aiutarli a provare

Mt. 26�7-5 6. L,arresto di Gesù

457

praticamente, andandogli dietro anche una volta, la richiesta del P a­ drenostro che si trova soltanto in questo vangelo.

47 E mentre stava ancora parlando, ecco: arrivò lì Giuda, uno dei dodici, e

con lui una numerosa masnada con spade e mazze, da parte dei sommi sa­ cerdoti e anziani del popolo. 48 Ma .colui che lo consegnò aveva dato loro un segno e detto: Quello che bacerò, è lu i; prendetelo. 49 E subito, come giunse, si avvicinò a Gesù e disse: Salve, rabbi! e lo baciò. 50 Ma Gesù gli disse: Amico mio, (avvenga) ciò per cui sei qui ! Allora si avvicina�ono, mi­ sero le mani su Gesù e lo arrestarono. 5 1 Ed ecco: uno di coloro che stava­ no con Gesù stese la mano, trasse la spada e tirò un fendente in direzione del servo del sommo sacerdote e gli staccò l 'orecchio . 52 Allora Gesù gli disse: Rinfodera la spada poiché tutti coloro che prendono la spada mori­ ranno di spada. 53 O pensi che non potrei invocare l'aiuto di mio Padre ed egli mi farebbe affiancare in questo istante da più di dodici legioni di ange­ li ? 54 Ma come sarebbero allora adempiute le Scritture che le cose devono andare così? 5 5 In quella medesima ora Gesù disse alle folle: Per catturar­ mi siete usciti con spade e mazze, come contro un bandito. Ogni giorno se­ devo nel tempio e insegnavo e non mi avete arrestato. 56 Ma tutto ciò è av­ venuto affinché siano adempiuti gli scritti dei profeti. Allora tutti i disce­ poli lo abbandonarono e fuggirono. 47-56. Il racconto segue Marco. La nuova presentazione di Giuda, che indica come un tempo la storia venisse narrata senza collegamento con i vv. 1 4.25, è ripresa da Marco (v. 47). Di nuovo gli anziani ven­ gono definiti «anziani del popolo» e gli scribi omessi (v. a 26,3). Nella scena del saluto (v. 49) Matteo aggiunge (come in 28,9) il saluto co­ mune in greco. Nuova è la domanda di Gesù (v. 5 0). In questo modo è lui che dà il via all'azione. Forse Marco ha tralasciato questa domanda p e rc hé enigmatica, mentre continuò a essere tràdita o ral m e n te . Si po ­ trebbe tradurla: «Sei venuto per questo ?))' ma più probabilmente si ha un modo di dire abbreviato per il quale esistono diversi paralleli: «Ciò per cui sei venuto, che avvenga)). Allora la frase sarebbe espressione della preparazione di Gesù per quanto sta per venire, anzi è quasi un ordine che mette in moto gli eventi successivi. Con «ed ecco)) (v. a 8, 2) viene messo in risalto l'episodio del colpo di spada (v. 5 r ) . Anche «stese la mano)) è un'espressione biblica (Gen. 22, 10; Giud. 3 ,2 1 ; I 5 , 1 5 ; 1 Sam. 1 7,49). Non è neanche uno qualsiasi che s i difende per il

458

Mt. 26,47- 56. L'arresto di Gesù

suo maestro, ma un discepolo di Gesù (cf. similmente 26,2 ). Soprat­ tutto con il suo caratteristico «allora» Matteo aggiunge un detto fon­ damentale di Gesù. Esso ordina a Pietro di rimettere la spada nel fo­ dero (così anche Gv. 1 8, 1 1 ). Una conferma dell'uso della spada non può certo essere letta in questa sentenza, come pensa Lutero. Al con­ trario Gesù si attiene al proprio insegnamento, diventando così un modello per i suoi discepoli che devono rinunciare alla violenza e preferire di subire un torto ( 5,39), poiché il ricorrere alla spada non può veramente proteggerli, ma solo provocare una reazione violenta alla quale essi alla fine soccomberanno. A questo proposito Gesù non è soltanto un modello che starebbe, più o meno, sul loro stesso piano; egli potrebbe infatti disporre di quella potenza che segnerebbe la fine definitiva di tutte le altre, ma egli rinuncia proprio a essa (cf. 4, I - 1 I ). Questa rinuncia viene motivata con il riferimento alla Scrittura che «deve avvenire». Con la medesima formula Apoc. I , I parla dell'evento finale che deve svolgersi secondo la volontà di Dio. Così la passione di Gesù si allinea con gli avvenimenti che. devono avvenire secondo il piano e il volere di Dio affinché il suo regno della perfezione possa venire (v. 54). Il nuovo inizio «in quell'ora» mostra ancora la «cucitu­ ra» tra l'interpolazione e il testo di Marco al quale Matteo ora ritorna (v. 5 5 ). L'attività didattica di Gesù viene sottolineata con la sua posi­ zione seduta perché Matteo sa ancora che il maestro giudaico insegna stando seduto. Anche il riferimento marciano alla Scrittura viene raf­ forzato in Matteo (v. 5 6) con una formula che ricorda le sue citazioni (v. excursus a I , I 8-2 5). Come spesso in quelle citazioni, Matteo preci­ sa che si tratta degli scritti profetici: la Scrittura come legge vale anco­ ra, ma nella misura in cui è profetica, ha trovato il suo adempimento in Gesù. Si omette lo strano episodio del giovane che fugge via nudo (Mc. 1 4 , 5 I s.). Si sottolinea invece che erano tutti «discepoli» quelli che abbandonarono Gesù e fuggirono. Mediante l'interpolazione matteana il racconto dell'arresto di Gesù

è diventato una presa di posizione fondamentale riguardo all'uso della

forza (v. excursus dopo 7,29 [c,2]). Di là della sentenza del discorso della montagna Gesù appare colui che sostiene il proprio insegnamen­ to con il fatto concreto della sua sofferenza. Così viene dato il motivo che solo rende possibile l'ubbidienza: il comportamento proprio di Gesù o, in ultima analisi, di Dio. Ciò che l'uomo continua a pretende-

Mt. 26,5 7-75 · La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro

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re sempre da Dio, che mandi legioni angeliche visibili o invisibili e distrugga con la potenza celeste tutto il male, Dio lo nega. Il suo cam­ mino attraverso la storia, come lo insegna la Scrittura e come esso «deve avvenire», no n è tale che ogni opposizione venga stroncata, ma è raffigurata nel cammino di Gesù verso la croce. Che i desi d eri avan­ zati in preghiera dagli uomini non possano mai mettersi d'accordo su dove vada trovato il male da annientare, ma si rivolgano a vicenda gli uni contro gli altri, volendo ciascuno far prevalere la p ropria preghie­ ra sull'altro, è molto importante, ma non risolve ancora la questione più difficile. Questa è risolta soltanto quando si capisce che per prin­ cipio Dio non si impone con la violenza, ma cerca fede. Ma la fede de­ ve essere libera al pari dell'amore che non si fa mai estorcere, ma che muore quando viene estorto. Perciò la vera fede nasce dove Dio è de­ bole in massimo grado, alla croce di Gesù. Per quanto proprio Mat­ teo, ad esempio nei suoi racconti di guarigione, possa narrare che ci sono anche preghiere esaudite secondo il desiderio di chi prega le quali possono aiutare la fede ancora debole e in boccio, egli sa tuttavia anche che si arriva al reale e libero amore per Dio solo dove Dio non dimostra più la propria potenza, ma si consegna, fino a salire sulla croce, al sì o al no dell'uomo pronunciati liberamente. La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro, 26,57-75 (cf. Mc. 1 4, 5 3 -72; Le. 22, 54-7 1 ; Gv. . 1 8, 1 2-27) 57 Ma coloro che avevano arrestato Gesù lo portarono via, da Caiafa, il som­ mo sacerdote, dove si erano riuniti gli scribi e gli anziani. 58 Ma Pietro lo seguì da lontano, fin dentro il cortile del sommo sacerdote, ed entrò e si mise a sedere tra i servitori, per vedere come sarebbe andata a finire. 59 E i sommi sacerdoti e tutto il consiglio cercarono una falsa testimo­ nianza contro Gesù per metterlo a morte 6o e non ne trovarono alcuna, sebbene si presentassero molti falsi testimoni. Ma alla fine vennero due 61 e dissero: Costui ha detto: Posso demolire il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni. 62 E il sommo sacerdote si alzò e gli d isse: Non rispondi nien­ te? Che cosa testimoniano questi contro di te ? 63 Ma Gesù tacque. E il sommo sacerdote gli disse: Ti scongiuro per il Dio vivente che tu ci dica se sei il messia, il Figlio di Dio. 64 Gesù gli dice: Tu l 'hai detto. Ma io vi dico: Da ora in poi vedrete «il Figlio dell'uomo sedere alla destra della Potenza e venire sulle nuvole del cielo» . 65 Allora il sommo sacerdote si strappò le vesti e disse: Ha bestemmiato! A che ci servono più i testimoni? Ecco:

460

Mt. 26, 5 7-75. La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro

adesso avete sentito la bestemmia! 66 Qual è il vostro parere? Ma essi ri­ sposero e dissero: È reo di morte. 67 Allora gli sputarono in faccia e lo colpirono con pugni; ma altri gli diedero legnate 68 e dissero: Indovina per noi, messia! Chi è che ti colpì ? 69 Ma Pietro stava seduto fuori nel cortile e una serva gli si avvicinò e disse: Anche tu eri con Gesù, il Galileo. 70 Ma egli negò davanti a tutti e disse: Non so di che parli . 7r Ma come uscì nell'atrio della porta un'altra lo vide e disse a coloro che stavano lì: Questo stava con Gesù, il Naz areno . 72 Ma di nuovo egli negò e giurò anche: Non conosco quell'uomo. 73 E poco dopo si avvicin arono quelli che stavano intorno e dissero a Pietro: Davvero anche tu sei uno di loro , perché la tua parlata ti tradisce! 74 Allo­ ra egli cominciò a i m precare e a giurare: Non conosco quell 'uomo! E subi­ to il gallo cantò . 75 E Pi etro si ricordò della parol a di Gesù, come gli disse: Prima che il gallo canti mi rinnegherai tre volte. E uscì fuori e pianse amaramente . 64 Dan.

7, 1 3; Sal. 1 I o, r .

57-75. I cambiamenti rispetto a Marco sono minimi, ma interessan­ ti. Come al v. 3 (v. ad loc. ) appare il nome Caiafa. La menzione degli scribi e degli anziani (questa volta senza «del popolo») si attiene a Marco più di quanto non abbia fatto il v. 3; tuttavia si omettono «tutti i sommi sacerdoti» (v. 5 7). Matteo si immagina probabilmente che i consiglieri siano già riuniti e aspettino Gesù. Che Pietro volesse scal­ darsi è riferito da Mc. 14, 54 e Gv. 1 8, 1 8, ma non da Matteo né da Luca (v. 5 8). Il termine greco può significare sia « residenza, palazzo>> sia «cortile>>; ma secondo il v. 69 Pietro sta seduto fuori, nel cortile. Fin dall'inizio Matteo fa capire che le autorità si propongono di ottenere una «falsa» testimonianza che o tt emper i alla forma del processo e sia sufficiente per una condanna a morte (v. 59). Diversamente da Marco egli riporta la notizia di «due>> (v. 6o) le cui testimonianze coincideva­ no, e dunque erano vere (v. 6 1 ). Il detto della demolizione e ricostru­ zione del te m pio non è pertanto una falsa accusa (Mc. 1 4, 5 7· 59), ma una corretta ripetizione dell'affermazione di Gesù (v. 6 1 ). Poiché in Matteo Zaccaria svolge un ruolo notevole (2 r , 5 ; 24,30 s.; 2 5,3 1 ; 26, 1 5 . 3 1 ; 2 7,9 ), l'evangelista pensa forse al « Germoglio» messianico pro. messo in Zacc. 6, 1 2 che edificherà il nuovo tempio atteso fin da Ez. 40 ss. Tuttavia in Matteo il detto è privo dell'aggiunta tipica per il pensie­ ro ellenistico «fatto con mani / non fatto con mani», il che rimanda a una forma più originaria (cf. a Mc. 1 4,5 8). Per contro Matteo ha certa­ mente aggiunto che Gesù avrebbe soltanto detto di poterlo fare, non

Mt. .z.6, 5 7-75 · La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro

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che l'avrebbe fatto. In questo modo Matteo sottolinea la sua autorità divina senza trasformare Gesù in una specie di rivoluzionario contra­ rio al tempio e al sacerdozio. Poiché di solito Matteo abbrevia consi­ derevolmente, è singolare che aggiunga nella domanda del sommo sa­ cerdote la formula di spergiuro con l'appello al Dio viyente (cf. 1 6, 1 6}. Evidentemente per lui la decisione viene presa con la domanda se Ge­ sù sia il messia e il Figlio di Dio (v. a 1 6, 1 6). Poiché una simile formu­ la di spergiuro era solita, salvo casi particolari, soltanto per il giura­ mento dei testimoni, si potrebbe già avere sullo sfondo l'idea di Gesù quale testimone (di sangue) per Dio davanti a tutto il mondo ( 1 Tim. 6, 1 3). Matteo formula il sì di Gesù con «tu l'hai detto» (v. 64} e non come in Marco, «lo sono>>, certamente perché in questo modo Gesù fa ricadere la responsabilità dello scongiuro sull'interrogante e da parte sua non se l'assume ( 5 ,3 3 -37; 23 , 1 6-22). Difficilmente si può leggere nella variazione che il titolo di messia varrebbe solo per Israele, ma che con la glorificazione di Gesù inizierebbe un'epoca nuova. Ma po­ trebbe certamente esservi sottinteso che il sommo sacerdote non sa­ pesse affatto quel che diceva. Anche in 27, 1 I = Mc. I 5,2 la medesima formulazione va intesa in senso elusivo. Solo Gesù svela nel detto se­ guente il segreto più riposto, come si mette in ulteriore risalto me­ diante l'aggiunta «ma vi dico». Egli è colui che siede sul trono alla de­ stra ·di Dio, precisamente «a cominciare da questo momento» (v. 64). La frase è una delle preferite di Matteo (vv. I 6. 1 9); non è pertanto ne­ cessario pensare a un termine greco raro che significa «esattamente, certamente», sebbene «a partire da ora» non vada d'accordo con la se­ conda parte del versetto. Per Matteo è appunto già il glorificato colui che verrà presto «sulle nuvole del cielo»; in questa citazione Matteo sostituisce il «con» le nuvole di Mc. I4,62 con il «SU» le nuvole di Dan. 7, I 3. «Da ora in poi» essi vedranno ancora soltanto il Figlio del­ l'uomo trionfante al quale è dato ogni potere in cielo e sulla terra (28, 1 8) e che ritornerà per il giudizio (2 5 ,3 r ) . Così, in una maniera che ri­ echeggia già timidamente Giovanni, il momento in cui l'innalzato sie­ de sul trono alla destra di Dio viene a collimare con la passione di Ge­ sù (cf. intr. ai capp. 26-28). Solo Matteo tramanda (v. 6 5) il giudizio del sommo sacerdote che decreta la morte di Gesù« «Ha bestemmia­ to! » . In questa scena Gesù ha evitato di fate, contrariamente al som­ mo sacerdote (v. 63) e a Pietro (vv. 70.72.74), qualsiasi giuramento. Soltanto in Matteo il verdetto di condanna a morte è formulato in di-

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Mt. 26,57-75. La confessione di Gesù e il rinnegamento di Pietro

scorso diretto (v. 66; cf. al v. 27). Invece omette di dire che «tutti» abbiano votato in questo senso (cf. Gv. 7, 50 s. e a Mt. 27, 1 ). Nella strin­ gatezza del resoconto sembrerebbe quasi che i sinedriti stessi abbiano sputato su Gesù e lo abbiano colpito coi pugni (v. 67). Il raggruppa­ mento resta oscuro, mentre secondo Mc. 14,6 5 solo gli sgherri lo col­ piscono in faccia. La concentrazione del testo di Marco riduce lo «spu­ targli addosso e coprirgli la faccia» (Mc. 1 4,6 5) in «sputargli in faccia» (v. 67). In questo modo il v. 68 resta invero oscuro: tranne l'aggiunta «Cristo», esso coincide perfettamente con Le. 22,64 e spiega il singo­ larmente brusco «indovina! » (Mc. 1 4,6 5 ). Matteo si immagina forse che Gesù conoscesse i nomi di coloro che lo bastonavano ? Il primo rinnegamento di Pietro è narrato più brevemente (v. 69) . Qui Gesù viene chiamato «il Galileo», una designazione dispregiativa che forse serviva a bollarlo quale potenziale rivoluzionario (cf. Atti 5,37; anche 1 , 1 1 ; 2,7 e Giustino, Dia/. I o8,J). Il rinnegamento accade ora «davanti a tutti» (v. 70), ma invece in una forma che elude ancora la decisione. Secondo Matteo un'altra serva, per Marco sempre la medesima, pone la seconda domanda (v. 7 1 ). Diversamente da Marco, Pietro si è ora spostato in una zona buia, nell'atrio di una porta, e già adesso giura, contrariamente all'insegnamento di Gesù (cf. al v. 65), e così rinnega chiaramente Gesù stesso. L'accusa di essere un galileo (Mc. 14,70) vie­ ne spiegata da Matteo con la parlata di Pietro che tradiva la sua possi­ bile appartenenza ai seguaci di Gesù (v. 73). In Matteo si calca il gesto di Pietro che si maledice da solo: con questa maledizione Pietro si è staccato dalla comunione con Gesù; l'accusa di essere stato «con Ge­ SÙ» (Mc. 1 4,67) viene ripetuta in Matteo (vv. 69.7 1 ; cf. a 26,29.36.3 8. 40). A proposito di questa dissociazione da Gesù, secondo 26,3 5 Pie­ tro ha parlato, ·con maggiore forza rispetto alla versione marciana, di voler morire «con Gesù». Per il canto del gallo cf. al v. 34· Le parole che narrano il suo pianto amaro (v. 7 5 ) accentuano con forza il penti­ mento di Pietro (cf. /s. 22,4; 3 3,7). Esse coincidono alla lettera con Le. 22,62; tuttavia il versetto è testualmente incerto. Senza cambiare nulla di essenziale, Matteo mette in evidenza l'au­ torità divina di colui che poteva demolire il tempio e costruirlo di nuovo e la cui passione è il cammino verso l'elevazione al trono, così che coloro che lo condannano lo incontreranno ancora solo nelle vesti di Signore universale e futuro giudice. Nascosto proprio sotto il man­ to dell'assoluta debolezza del Nazareno fallito avviene il giudizio di

Mt. 2.7,3- IO. La fine di Giuda

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Dio che salva il mondo e colui che si oppone a ogni violenza e accon­ sente a farsi assassinare, sarà insediato quale Signore del mondo. In Giovanni questo concetto diventerà il centro della descrizione della passione. Allo stesso tempo Gesù diventa, con un'intensità ancora su­ periore a quella di Marco, il modello positivo per l'esortazione della comunità, Pietro il modello negativo per metterla in guardia, giacché da essa viene continuamente pretesa la franchezza nel confessare la sua fede (Atti 2,29; 4,3 I ; Fil. 1 ,2 o; Ef. 6, 1 9) . La consegna a Pilato, 27,1 s. (cf. Mc. 1 5,1 ; Le. 23, 1 ) 1 Ma quando si fece mattina, sul presto, tutti i sommi sacerdoti e gli anzia­ ni del popolo presero una decisione contro Gesù per ucciderlo. z E lo fece­ ro incatenare, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato, il governatore.

1 -2. A differenza di 26,66 (v. ad loc. ) qui sono presenti alla riunione «tutti» (aggiunto rispetto a Marco) i sommi sacerdoti; inoltre gli an­ ziani sono di nuovo definiti «del popolo», mentre gli scribi vengono omessi (v. a 26,3). Più importante è che Matteo probabilmente non parli di una (nuova?) consultazione come Mc. I 5, 1 , bensì di un verdet­ to di condanna a morte che viene emesso sul far del giorno, come vie­ ne detto con una formulazione che riecheggia un modo di dire latino. Ad ogni modo Matteo sembra pensare a una continuazione immedia­ ta di quanto narrato ai· vv. 66-68; infatti è inverosimile, considerato il v. 59 (tutto il tribunale), che tutti i sinedriti fossero convenuti solo a questo punto. Il titolo dato a Pilato non è quello corrente; esso si ri­ ferisce al suo potere militare (v. 2). La fine di Giuda, 27,3-10 3

Allora, quando Giuda, colui che lo aveva consegnato, vide che egli era con­ dannato, fu preso da rimorso e riportò le trenta monete d'argento ai som­ mi sacerdoti e agli anziani 4 e disse: Ho peccato, poiché ho consegnato san­ gue innocente. s Ma essi dissero: Che c'importa? Sono affari tuoi! Ed egli gettò il denaro nella casa del tempio e fuggì via e andò e s'impiccò. 6 Ma i sommi sacerdoti presero il denaro e dissero: Non è lecito metterlo nel te­ soro del tempio perché è denaro di sangue. 7 Ma essi raggiunsero una de­ cisione e comprarono con esso il Campo del Vasaio per seppellirvi gli stra­ nieri. 8 Perciò fino al giorno d'oggi questo campo si chiama Campo di San­ gue. 9 Allora fu adempiuto ciò che è detto mediante il profeta Geremia, do-

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Mt. 27,3- IO. Là fine di Giuda

ve recita: «E presi le trenta monete d"' argento, il prezzo di acquisto che era stato calcolato dai figli d'Israele per colui che era stato valutato, I o e fu da­ to per il campo del vasaio, come il Signore mi ha ordinato». 9 Zacc. 1 1 , 1 2 s . ; Ger. 1 8,2 s . ; 19, 1 - 1 5.

La fine · di Giuda viene tramandata in tre varianti. Oltre al nostro testo ci sono Atti I , I 8-20 e il racconto di Papia (fr. 3, metà del n sec. d.C.). Gli Atti degli Apostoli narrano che Giuda sarebbe caduto pie­ gato in avanti così violentemente da spezzarsi a metà, così che tutte le sue interiora si dispersero in giro. Da questo fatto avrebbe preso no­ me il luogo dell'incidente, noto da quel giorno come Campo di San­ gue. Questa strana descrizione è f�rse dovuta all'influenza della rap­ presentazione della fine dell'empio in Sap. 4, I 9: « Dopo di questo di­ venteranno un orribile cadavere... perché egli ( = Dio) li precipiterà... capovolti in avanti». Anche Matteo parla del Campo di Sangue, ma il nome viene spiegato diversamente: è il campo che è stato comprato con il denaro di sangue che Giuda aveva restituito. Il racconto più fantastico è quello di Papia: Giuda sarebbe stato colpito da idropisia e diventato così grosso e sformato da non poter passare neanche dove un carro poteva transitare senza problemi; i suoi occhi sarebbero stati coperti da una massa carnosa così grande che divenne cieco e nemme­ no un medico con i suoi ferri sarebbe riuscito ad arrivare a essi. Egli sarebbe poi morto tra atroci dolori e il luogo dove morì divenne deso­ lato e puzzerebbe ancora così tanto che la gente per passare da quelle parti doveva turarsi il naso. Si può ancora dimostrare come questa leggenda sia nata. Atti I ,2o si richiama infatti a due passi biblici, il primo dei quali è Sal. I 09,8 («un altro riceverà il suo ufficio»). Se la comunità lesse un po"' più avanti, trovò scritto che la maledizione era entrata nell'interno delle sue ossa come acqua (v. 1 8; cf. Num. 5,22) e intese queste parole alla lettera. L'altro passo era Sal. 69,2 5 («la sua dimora sarà desolata e nessuno abiterà più in essa>>). La comunità rife­ rì questo passo al campo dove Giuda era morto e si immaginò la situa­ zione così come la descrive Papia verso la fine. Due versetti prima, in questo stesso salmo, è scritto che i suoi occhi sarebbero stati così oscurati che non avrebbe più potuto vedere. Di nuovo la comunità si immaginò concretamente la scena. La proposta di intendere in Atti I, 18 «in avanti>> (prenes) come «gonfiato» (da pimpremi, gonfiarsi) è lin­ guisticamente poco realizzabile; tuttavia la reminiscenza potrebbe ave­ re ancora contribuito a formare la storia di Papia.

Mt. 27,}- 10. La fine di Giuda

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Luca e Matteo sono dunque ancora informati dell'esistenza di un campo fuori Gerusalemme che si chiamava Campo di Sangue e veniva collegato con Giuda. Il passo successivo fu la scoperta di Zacc. 1 1 , 1 2 dove si trovò descritto con maggior precisione il prezzo del sangue pagato a Giuda secondo Mc. I4, I I : «trenta monete d'argento» (M t. 26, I 5 ). N el versetto seguente del testo ebraico si leggeva: «lo ( = questo denaro) gettai nel tempio»; dunque la faccenda doveva aver provocato rimorso a Giuda che avrebbe restituito il prezzo della vergogna (v. 5 ) . In greco la forma verbale di «gettare» e di «prendere» è identica sia per la r a singolare sia per la 3 a plurale, così che il predicato verbale po­ teva essere riferito tanto a Giuda quanto ai sacerdoti. I vv. 9b. r o sono una traduzione autonoma della fine di Zacc. I I , I 3 solo che nel profeta la piccola frase relativa al prezzo di acquisto precede la frase «io presi (o: essi presero) le trenta monete d'argento». Dove misero questo de­ naro ? Il testo originario di Zaccaria lesse sicuramente: «nel tesoro del tempio». Forse il suggerimento respinto di mettere il denaro nel teso­ ro del tempio (v. 6) risale ancora a un testo che ha conservato questo senso originario. A causa di un minimo errore nello scrivere una lette­ ra già nel testo ebraico, «nel tesoro del tempio» si trasformò in «per il vasaio». Ciò fece ricordare la casa del vasaio nella quale Geremia do­ vette recarsi per ordine di Dio ( Ger. 1 8,2 ss.) e richiamò in mente l'al­ tra storia secondo la quale il profeta dovette comprare un «campo» per sette sicli e dieci «monete d'argento» e «mettere» il contratto in un vaso (Ger. 32,6 ss.). Poiché Bibbie complete erano estremamente rare (v. a 24,30), erano disponibili estratti di passi importanti e si co­ nosceva il resto più o meno a memoria. Così è facile che diverse cita­ zioni bibliche si confondano e si può capire come infine la comunità abbia riferito a Geremia tutta la citazione dei vv. 9b. Io. Così, più o meno, stava scritto, per quanto ci si ricordava, nel profeta Geremia e così deve dunque essere accaduto quella volta dopo la morte di Giu­ da. La frase finale, «come il Signore mi ha ordinato», proviene ancora una volta da un passo diverso, precisamente da Es. 9, I 2 dove la sesta piaga viene descritta con le pustole causate dalla fuliggine. Questo nesso potrebbe essere stato provocato dalla forma della citazione di Zaccaria nell'Antico Testamento greco. Infatti questo non ha più po­ tuto capire l'espressione già corrotta in ebraico «per il vasaio» e ha tradotto «nella fornace». Secondo i metodi ermeneutici dell'epoca for­ nace e fuliggine poterono venire associate e così poté venire anche ac-

466

Mt. 27,3-1 0. La fine di Giuda

colta la citazione dell'ordine del Signore. Poiché il singolare nome di Campo di Sangue era stato spiegato con la storia di Giuda, la comuni­ tà escogitò che prima dell'acquisto questo campo si chiamasse ancora Campo del Vasaio (vv. 7 s.). Così, nell'essenziale, tutta la storia è nata dall'Antico Testamento letto come profezia. Il passo di Gen. 3 7,2 8 se­ condo il quale Giuda (in greco: Iudas) ha venduto il fratello per venti monete d'argento non è stato, a quanto risulti, sfruttato. La storia è cresciuta dunque passando per diverse fasi, a mano a mano che forme greche ed ebraiche del testo facevano sentire la loro influenza. Matteo ha già trovato la storia essenzialmente come la riporta; il Campo del Vasaio non ha infatti a�cun ruolo nel suo vangelo. 3 - 1 0. L'introduzione con «allora>> e la denominazione di Giuda so­ no tipiche di Matteo (v. 3). Egli collega quindi il rimorso del traditore con la condanna a morte sentenziata dal Gran Consiglio come aveva trovato già in Marco il pentimento di Pietro collegato con il processo davanti al Gran Consiglio. Cronologicamente la storia non può essere collocata a questo punto perché il Gran Consiglio è in viaggio con Gesù per andare da Pilato. Dal punto di vista giuridico il processo contro Gesù doveva essere riesaminato, mentre si doveva processare Giuda per false dichiarazioni (v. 4). Ma ciò viene negato a entrambi. L'atrio è ancora accessibile al pubblico, visto che Giuda può andare a gettare le monete nel tempio? Forse questo gesto corrisponde a una usanza giudaica per annullare una transazione. O è soltanto la ripeti­ zione della profezia (v. sopra, intr. al v. 5 ) ? Giuda, colui che ha tradito il figlio di Davide, si impicca come Ahitofel che ha tradito Davide (2 Sam. 1 7,23) ed esegue così egli stesso il giudizio che il Gran Consiglio gli ha negato. Quanti hanno appena condannato Gesù contro ogni legge, che non hanno tenuto alcun conto dell'autodenuncia di Giuda, ora procedono osservando scrupolosamente la norma di Deut. 2 3,1 8, dove in realtà si tratta solo della mercede di una prostituta e di un ma­ nigoldo (vv. 6-8). Il denaro impuro è impiegato per qualcosa d'impu­ ro, un cimitero per gli stranieri, presumibilmente pagani. La citazione mista dalla quale è nata tutta la storia (vv. 9. 10) viene introdotta da Matteo alla fine con la sua particolare formula (v. excursus a 1 , 1 8 -2 5 ).

Il brano mostra dunque come leggende siano nate già al tempo del Nuovo Testamento. Ma con ciò non si è ancora detto la cosa più im-

Mt.

27, 1 I- 26.

La condanna del re dei giudei

467

portante: questa è l'ultima volta che Matteo ricorre alla sua formula dell'adempimento della Scrittura. Ciò dimostra quanto sia importante per lui questo avvenimento, evidentemente perché proprio mediante esso il discepolo di Gesù viene messo in guardia dal castigo che in­ combe su di lui se lascia la sequela di Gesù. In questo scenario si con­ trappongono nettamente il destino di Giuda con il suo rimorso e il destino di Pietro con il suo pentimento, del quale si era appena parla­ to. Forse con questo contrasto forte si vuole persino dire che proprio colui che vuole rimediare da solo fino a eseguire su di sé la sentenza, non trova la salvezza, mentre colui che scoppia in un pianto amaro e basta e non si attende niente di più né da se stesso né dalle sue inizia­ tive, ma può soltanto ricordarsi ancora della parola dettagli in passato dal suo Signore, resta nella salvezza. La condanna del re dei giudei, 27,1 1 -26 (cf. Mc. 1 5 ,2- 1 5 ; Le. 23,2- 5 . 1 7-2 5) I I Ma Gesù comparve davanti al governatore. E il governatore lo interrogò e disse: Tu sei il re dei giudei ? Ma Gesù disse: Tu lo dici. I 2 E quando fu accusato dai sommi sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. I 3 Allora Pilato gli dice: Non senti che accuse pesanti ti muovono ? 14 E Gesù non gli diede risposta neanche a una sola accusa, così che il governatore si me­ ravigliò molto. 1 5 Ma in occasione della festa il governatore aveva l'abitudine di liberare per il popolo un prigioniero, uno solo, quello che esso volesse. I 6 Quella volta avevano un prigioniero molto noto che si chiamava Gesù Barabba. 17 Essendo ora il popolo radunato, Pilato disse loro: Chi volete che vi libe­ ri, Gesù Barabba o Gesù, il cosiddetto messia? I 8 Infatti sapeva che lo ave­ vano consegnato per invidia. - I 9 Ma mentre stava seduto sulla scranna, sua moglie gli mandò a dire: N o n aver niente a che fare con quel giusto, poiché oggi ho sofferto molto in sogno a causa sua. - 20 Ma i sommi sa­ cerdoti e gli anziani convinsero il popolo a chiedere Barabba e a mandare Gesù a morte. 2I Ma il governatore rispose e disse loro: Chi tra questi due dovrò liberarvi? Essi dissero: Barabba! 22 Pilato disse loro: Che devo allo­ ra fare con Gesù, il cosiddetto messia? Tutti gli dissero: Sia crocifisso! 2 3 Ma egli disse: Che ha fatto mai di male? Essi urlarono ancora molto più forte: Sia crocifisso! 24 Ma vedendo che non .otteneva nulla, anzi che il tu­ multo aumentava ancora, prese dell'acqua e si lavò le mani davanti al po­ polo e disse: Io sono innocente di questo sangue: sbrigatevela voi! 2 5 E tutto il popolo rispose e disse: Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri fi-

46 8

Mt. .17, I I- 2.6. La condanna del re dei giudei

gli! 26 Allora liberò loro Barabba, ma fece flagellare Gesù e lo consegnò per la crocifissione. A questo punto Matteo si differenzia più del solito da Marco. Evi­ dentemente la scena dell'interrogatorio davanti a Pilato è stata molto elaborata nella tradizione. In Giovanni è stato spostato in questo epi­ sodio I' ecce homo («ecco qua l'uomo ! ») e il decisivo dibattito sul re­ gno di Gesù (v. a 2 5,3 3). Tra le cinque piccole scene in cui è articolato il nostro brano, la prima, quella dell'accusa, è la più vicina al raccon­ to di Marco. Tuttavia Pilato viene nominato con il suo titolo ufficiale (vv . 2. I I . I 4 s. 2 1 . 2 7; 2 8, I 4; mai in Marco). Il confronto con Barabba è volutamente ampliato. Nella terza scena l'obiezione della moglie di Pilato viene narrata ex novo. La condanna di Gesù segue di nuovo il testo di Marco, mentre nell'ultima scena solo Matteo racconta l' episo­ dio del governatore che si lava le mani. Non è più possibile decidere se dietro a ciò ci sia qualcosa di più di abbellimenti della storia della passione tramandati oralmente. Peculiarità linguistiche nei vv 24 s. in­ dicano una paternità matteana delle formulazioni. .

1 1 - 14. L'interpolazione della pericope sulla morte di Giuda rende necessario che si rifaccia il nome di Gesù (v. I 1). Il titolo «re dei giu­ dei» ( == Mc. I 5,2) corrisponde ora in bocca dell'occidentale al medesi­ mo titolo in bocca dell'orientale all'inizio del vangelo (Mt. 2,2). L'ag­ giunta degli «anziani» (v. 1 2) avviene per motivi sostanziali perché co­ sì i rappresentanti del popolo partecipano già alla fase accusatoria (v. a 26,3) e agli stessi motivi è dovuto soprattutto il forte risalto dato al si­ lenzio di Gesù (vv I 2 e 1 4). Per questo aspetto Matteo ha probabil­ mente avuto in mente il modello del servo di Dio sofferente di /s. 5 J , 7. Anche lo stupore del governatore viene reso più forte con un «mol­ to» (cf. /s. 5 2, I 5 ?). 1 5-26. Il confronto con Barabba viene plasmato con maggiore liber­ tà. La liberazione di un prigioniero in occasione della pasqua viene presentata in maniera più chiara che in Marco come usanza consolida­ ta e il termine «popolo» (Mc. I 5,8) appare già al v. I 5 . Strana è la for­ mulazione «avevano ... un prigioniero» . Il soggetto è il popolo, appena nominato, che aveva la scelta tra lui e Gesù, oppure sono sottintesi i romani ? Non si nomina il reato commesso da Barabba; invece lo si descrive come «un noto (o: famigerato) prigioniero detenuto in cu­ stodi� preventiva» e quindi ancora in attesa di processo (v. I 6). Viene .

Mt.

27, n-26.

La condanna del re dei giudei

469

omessa la richiesta popolare; è Pilato che prende l'iniziativa. Secondo Matteo (v. 1 7) Barabba (= figlio di Abba) si chiamerebbe anche Gesù, se dovessero avere ragione i pochi manoscritti che leggono così. Poi­ ché si deve supporre che sarebbe stato più logico togliere che aggiun­ gere il nome di Gesù, divenuto più tardi nome sacro, in questo verset­ to matteano si è forse cristallizzata la memoria più antica. A favore di questa ipotesi si può notare come Gesù venga espressamente chiamato «il cosiddetto Cristo» (vv. 1 7.22; non al v. 20); egli viene dunque di­ stinto da un altro Gesù, precisamente da «Gesù il (l'articolo si trova anche in manoscritti che non contengono più il nome Gesù) Barab­ ba». Si trovano così di fronte Gesù, il figlio di Abba, e Gesù, il cosid­ detto messia, per usare le parole di Pilato e già la prima domanda del governatore è formulata in termini di un chiaro aut aut (v. 1 7). A dif­ ferenza da Marco, è tutto il popolo che gli ha consegnato Gesù, non solo i sommi sacerdoti (v. 1 8). Matteo riporta, come Gv .. 1 9, 1 3, che Pilato siede sulla scranna del giudice - il gesto rende più netto il con­ trasto tra la sua autorità istituzionale e la sua impotenza di fatto (v. 1 9). Gli scavi archeologici hanno portato alla luce un «lastricato» co­ me quello nominato da Giovanni, ma sicuramente non è del tempo di Gesù. Tuttavia la localizzazione nel palazzo alla periferia ovest della città è di gran lunga più probabile. La testimonianza della moglie del governatore accentua ancora di più l'aspetto grottesco della decisione contro Gesù e a favore di Barabba. L'espressione «in sogno» è tipica delle storie della nascita ( 1,20; 2, 1 2. I J . 1 9.22). Come in quelle, anche in questa esperienza Matteo coglie l'intervento di Dio a favore di Gesù. Essendo pagana, la donna parla solo di «quel giusto», confermando comunque così l'innocenza di Gesù. In diverse leggende si ha una scena simile ed è possibile che in questo quadretto si sia cristallizzata la convinzione dell'innocenza di Gesù nutrita dalla comunità. Più tar­ di si darà alla donna anche un nome, Procula Claudia; nella chiesa or­ todossa e in quella copta essa è stata addirittura fatta santa. Nei cosid­ detti Atti di Pilato si raccontano gli sforzi lunghi e inutili del governa­ tore per dissuadere i giudei dal loro piano; infine lo stesso Pilato di­ venterà un santo cristiano. Ancora una volta (v. 20) si formula espres­ samente un aut aut: la scelta di Barabba comporta la morte di Gesù. Parimenti, secondo Matteo, Pilato chiede ancora una volta che cosa decidano: «Quale dei due ... ?». La risposta del popolo è esplicita (v. 2 1 ). Solo allora segue la domanda sul destino di Gesù (v. 22), nuova-

470

Mt. 27,1 1-26. La condanna del re dei giudei

mente chiamato «il cosiddetto Cristo)> . Il grido «dovrà essere crocifis­ so! » invece di «crocifiggilo! » (Mc. 1 5 , 1 3 ) è formulato così forse incon­ sciamente, perché Pilato non esegue la sentenza in prima persona o forse perché in questa forma si sente maggiormente l'eco della confes­ sione di fede in Gesù «il crocifisso» (28,5). Si sottolinea ancora una volta (v. 22) che «tutti» gridano così e la scelta del tempo del verbo nel v. 23 indica che lo fanno ripetutamente. Secondo Deut. 2 I ,6 s. i capi di una città nel cui ambito un uomo è stato ucciso prendono le distanze da questo crimine col rito del lavaggio delle mani. Poiché Sal. 26,6; 73, 1 3 indicano che l'espressione è quasi proverbiale e poiché la si ritrova anche tra i greci, sarebbe in sé immaginabile che Pilato abbia agito co­ sì. Tuttavia non è concepibile che egli avrebbe d � mostrato pubblica­ mente la sua propria illegale decisione e l 'impotenza di Roma davanti alle pressioni del popolo sottomesso. Il gesto rientra dunque nella ri­ levabile tendenza generale a scusare i romani e ad addebitare invece ogni colpa ai giudei. Già in Luca il lettore non iniziato deve avere l'im­ pressione, leggendo Le. 2 3 ,2 5 s., che siano stati i giudei a crocifiggere Gesù; in particolare perché i soldati romani si «aggregano» solo al v. 3 6. Giustino fa dire a un giudeo: «Noi l'abbiamo crocifisso». Nel Vangelo di Pietro 1' ordine di crocifiggere Gesù parte da Erode, Pilato deve richiedere a Erode il cadavere di Gesù e sono i giudei, non i ro­ mani, che consegnano a Giuseppe la salma per la sepoltura. Che la pa­ gana riceva la rivelazione di Dio mentre il popolo di Dio la rifiuta, è in linea col cap. 2, con la confessione del centurione sotto la croce (v. 5 4) e con quella dell'altro centurione a Cafarnao (8, ro). Tutto il peso di questo rifiuto è contenuto nella sentenza con cui «tutto il popolo» (v. 2 5 ), nello spirito di una formula giuridica (Gios. 2, I 9) prevista per il caso di un torto, invoca che ricada su di loro e sui loro discendenti il sangue di Gesù. Per indicare coloro che pronunciano questa formula esecratoria Matteo usa per «popolo» il sostantivo più solenne che nel­ la storia della passione appare solo qui e al v. 64 e che viene usato per distinguere il popolo di Dio dalle nazioni pagane (cf. a 2 I ,4 3 ) . Lo stes­ so termine ricorre nelle citazioni che parlano della sua cecità nei con­ fronti di Gesù ( I J, I s; I s,8). Tuttavia ai vv. 2 0 e 24 si ha il medesimo sostantivo che denota di solito la folla che segue Gesù (4,2 5; 8, I ; I 2, 1 5; I 4, I J; 1 9,2; 20,29), prova meraviglia per lui e lo loda (7,28; 9,8.3 3; 1 2,23; 1 5,30 s.; 2 1 . 8 s. 1 1 ), della quale avevano fin qui avuto timore Erode ( 1 4, 5 ) e le autorità giudaiche (2 I ,26.46; cf. anche a 3,7- I o intr.).

Mt. 27,27-3 1 . Il re dei giudei alla berlina

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Ma ora lo stesso popolo del patto di Dio invoca Dio di far venire su di esso il giudizio: così terribile è la cecità (v. a I J , I 6 s.). Il versetto è sopportabile solo perché insiste continuamente nel mettere in guardia la comunità dal percorrere il medesimo cammino e si aspetta seria­ mente che anche essa potrebbe cadere sotto il giudizio di Dio (cf. intr. ai capp. 2 1 -2 5). Ebr. 1 2,24 parla in altri termini del sangue di Gesù. Forse persino Matteo spera a un adempimento nel senso di 26,28: che su loro venga sì il sangue di Gesù, ma quello della riconciliazione, non quello di 23,3 5 . Nella seconda metà del v. 26, che per il resto segue alla lettera Marco, egli inverte l'ordine degli elementi della proposi­ zione così da mettere all'inizio «ma GesÙ» che viene a trovarsi in que­ sto modo a contatto diretto con «Barabba» . Così, di nuovo, il confronto tra i due Gesù è posto alla fine, in posi­ zione accentuata. Esso costituisce il vero centro di questa contrappo­ sizione. Tuttavia qui non si accentua tanto l'idea di Gesù che soffre per il peccatore, anzi per il criminale, sebbene anche essa abbia la sua influenza sulla formulazione, quanto l'incomprensibile scelta del cie­ co popolo del patto di Dio. Il raggio di luce in questa storia è rappre­ sentato dalla rivelazione di Dio alla donna pagana e la recettività di quésta. Essa permette già di immaginare perché Gesù debba percorre­ re il suo pesante cammino in silenzio, come il servo di Dio di Isaia al quale Matteo ha fatto esplicito e forte riferimento in I 2, 1 7 ss. Coloro, nessuno dei quali se l'è aspettato, vengono inseriti in questo patto me­ diante il cammino doloroso di Gesù e si aprono al Dio che li cerca. Ciò che fecero presagire già i magi pagani, ai quali Dio apparve pari­ menti «in sogno» (2, 1 2), diventa manifesto: Dio è qui proprio per co­ loro che ancora non lo conoscono. Questa è la sua sorprendente fe­ deltà al patto. Con ciò non è detto tutto, ma forse aiuta a vedere che esiste una sofferenza vicaria che apre per molti una nuova via, senza che questa sofferenza venga necessariamente formulata nella forma linguistica del sacrificio espiatorio. Il re dei giudei alla berlina, .17,.17-3 1 (cf. Mc. 1 5 , 1 6-2oa)

27 Allora i soldati del governatore portarono Gesù nel pretorio e raduna­ rono tutta la coorte contro di lui 28 e lo denudarono e lo avvolsero in un manto rosso porpora 29 e intrecciarono una corona di spini e gliela posero _

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Mt. 27,3 2 - 3 7. La crocifissione di Gesù

sul capo e gli misero nella destra una canna e si inginocchiarono davanti a lui e lo schernirono dicendo: Salve, re dei giudei! 30 E gli sputarono ad­ dosso e presero la canna e lo colpirono sulla testa. 3 1 E quando lo ebbero deriso gli tolsero di dosso il mantello e gli rimisero le sue vesti e lo porta­ rono via alla crocifissione. .17-3 1 . Nella scena della berlina Matteo si attiene in tutto a Marco. Il mantello scarlatto viene chiamato «clamide>> (v. 28), un termine che probabilmente rivela un buon ricordo storico, denotando l'abolla del littore, cioè della «polizia militare». La precisazione che essi mettono la corona spinosa sul capo di Gesù è comune a Matteo e a Giovanni ( 19,2 ) ; il versetto di Zacc. 6, I I che si trova in una pericope messianica (cf. Ebr. I 0,2 I ) potrebbe addirittura aver influenzato la formulazione. Solo Matteo parla della canna, che sembra uno scettro regale , ma serve anche per colpire l'inerme prigioniero (così anche in Mc. I 5 , I 9). La genuflessione, che in Mc. I 5 , I 9 non appare in tutti i manoscritti, è rac­ contata già prima così che si ha una più chiara separazione tra derisio­ ne e maltrattamenti e le due fasi vengono narrate consecutivamente. La crocifissione di Gesù, 27,3 2-37 (cf. Mc. 1 5,2ob-26; Le. 2J,26.3 3-3 5 · 36-38) 32 Ma come uscirono trovarono un uomo di Cirene che si chiamava Simo­ ne. Costrinsero costui a portargli la croce. 3 3 E giunsero a un luogo chia­ mato Golgota, vale a dire Luogo del Tes chio. 34 Allora gli «diedero)) vino «da bere)), mischiato con «fiele)); e come l'assaggiò non volle bere. 3 5 Ma quando lo ebbero crocifisso «si divisero a sorte i suoi vestiti». 36 E si se­ dettero e gli montarono lì la guardia. 3 7 E sul suo capo inchiodarono il ti­ tolo del reato: Questi è Gesù, il re dei giudei. 34 Sal. 69 2 2 . 3 5 Sal. 22, 1 9. ,

3.1-37. Simone di Cirene, che la comunità di Matteo non conosce più, viene nominato più brevemente che in Marco (v. 3 2). Mc. I 5,36 = Mt. 27,48 racconta di una bevanda acetata che viene porta a Gesù che è già sulla croce (v. 34). In questo particolare la comunità ha visto il compimento di Sal. 69,22. Ma poiché lì, nell'emistichio parallelo (v. a 2 I ,2. 7), si parla anche di una bevanda contenente fiele, Matteo ha pre­ sunto che ciò sia avvenuto in occasione della prima offerta di una be­ vanda. Pertanto, in chiara reminiscenza del salmo, ha sostituito il vino anestetizzante, che vi�ne offerto per pietà verso il giustiziando (Mc.

Mt.

27,3 8-44. Il dileggio di Gesù in croce

4 73

1 5,23; v. ad loc. ), con la bevanda a base di fiele offertagli in segno di scherno che Gesù rifiuta dopo averla assaggiata ed essersi accorto della maligna intenzione. Il procedimento è dunque lo stesso di quello osservato in 2 1 ,7. Anche Ev. Petr. 16 fa dire a uno spettatore: «Dategli da bere fiele e aceto! ». Matteo pone qu i n di la crocifissione soprattutto sotto il segno della derisione. La crocifissione non viene mai indicata con un verbo principale di forma finita, ma sempre con un participio, il che corrisponde a una nostra proposizione dipendente. In base agli scavi più recenti è abbastanza certo che il palo principale della croce restava eretto, come la forca medievale, e che il crocifisso veniva in­ chiodato non per il palmo delle mani, ma per i polsi e con un unico chiodo per i talloni, posti p arallela m ent e. In aggiunta (v. 3 6) Matte o racconta che i soldati avrebbero montato la guardia al crocifisso, pro­ babilmente per sventare eventuali tentativi di liberare il condannato. Difficilmente si vuole qui sottolineare come in Gv. 1 9,33 s. (v. al v. 49) la realtà della morte di Gesù contro speculazioni secondo le quali l'io di Gesù aveva già lasciato il corpo e «fu innalzato su» in cielo (Ev. Petr. 1 9; cf. già 1 Gv. 4,2 s.; 5,6). Nell'iscrizione sulla croce è stato ag­ giunto il nome di Gesù come in Gv. 1 9, 1 9 e così anche che sono solo i soldati che la fissano (per scherno ?) alla croce. Il dileggio di Gesù in croce, 2.7,3 8-44 (cf. Mc. 1 f,2.7-3 2) 38 Allora vengono crocifissi con lui due ladroni, uno alla destra e uno alla sinistra. 39 E i passanti l'insultavano, «scuotendo la testa» 40 e dicevano: Ehi tu, che demolisci il tempio e lo costruisci in tre giorni, aiuta te stesso, se sei il Figlio di Dio, e scendi giù dalla croce! 41 Parimenti lo dileggiavano anche i sommi sacerdoti insieme con gli scribi e gli anziani e dicevano: 42 Ha aiutato altri, non può aiutare se stesso! Egli è il re d'Israele: che scen­ da ora giù dalla croce e allora gli crederemo! 43 «Ha confidato in Dio: lo salvi lui ora, se si compiace in lui». Giacché ha detto: Sono Figlio di Dio. 44 Allo stesso modo lo insultavano anche i ladroni che erano crocifissi in­ sieme con lui.

39 Sal. 22,8; 109,25. 43 Sal. 22,9.

38-44. Tra coloro che dileggiano Gesù crocifisso vengono aggiunti gli «anziani» (v. 4 1 ; cf. 26,3; 27, 1 2.20). La derisione viene formulata soprattutto sulla falsariga della domanda del Tentatore (4,3 .6): «Se sei il Figlio di Dio ... ». Alla parola del salmo della sofferenza (22,8) che ri-

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Mt. 2.7� 5 - 54. La morte di Gesù come rivelazione di Dio

echeggia già in Mc. 1 5,29 = Mt. 27,39 si affianca ora il versetto succes­ sivo: «Ha confidato in Dio: lo liberi adesso, se si compiace in lui». Il verbo «confidare» non proviene però direttamente dal salmo, bensì da Sap. 2, 1 7-20 dove il giusto schernito da tutti si definisce Figlio di Dio (senza articolo come qui) e servo di Dio e dove poi si dice: «Se il giu­ sto è Figlio di Dio, che egli si prenda cura dei suoi e lo liberi dalla ma­ no del suo avversario». Il passo parla del giusto in generale, ma è qui estremamente vicino a quello che si na rra di Gesù (cf. il rapimento del giusto in cielo e il suo ruolo nel giudizio finale: Sap. 4,7. 1 0. 1 6; 5 , 1 - 5 ). In maniera più forte che in Marco Gesù è dunque visto qui nell'imma­ gine del giusto sofferente esposto al dileggio. A questo proposito, con la sua vita egli ha fatto esattamente ciò che ora gli viene rinfacciato per scherno, ha cioè «confidato in Dio>) osservando così il primo coman­ damento. Che egli lo faccia tanto più con la sua morte, non lo capi­ scono certo gli schernitori. Essi no n vogliono confidare in Dio, perciò esigono la prova di Dio e la esigono «adesso>), cioè nel momento in cui essi lo ritèngono necessario. Perciò essi sono ciechi e non vedono che proprio qui, dove essi lo ritengono assente, Dio è presente come non lo è stato mai sulla terra, in nessun luogo né tempo. La morte di Gesù come rivelazione di Dio, .2. 7,4 5-54 (cf. Mc. 1 5,3 3-39; Le. 23,44-47)

Ma a partire dall'ora sesta su tutto il paese si fece una tenebra fino al­ l' ora nona. 46 Ma verso l'ora nona Gesù gridò a gran voce e disse: «Elì, elì, lamà sabactanì ! ». Vale a dire: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbando­ nato ! » . 47 Ma quando alcuni di coloro che stavano là lo udirono, dissero: Quello chiama Elia. 48 E subito uno di loro corse, prese una spugna, l'im­ bevette di «aceto», l'infilò su di una canna e lo «dissetò». 49 Ma gli altri dis­ sero: Fermo ! Vogliamo vedere se Elia viene ad aiutarlo. 5 0 Ma Gesù gridò di nuovo a gran voce e rese lo spirito. 5 I Ed Ecco: la cortina del tempio si spaccò in due pezzi, dali' alto fino in basso, 5 2 e la terra tremò e le rocce si spaccarono e le tombe si aprirono e furono risuscitati molti corpi dei santi che si erano addormentati 53 e dopo la sua risurrezione uscirono dalle tom­ be e vennero nella città santa e apparvero a molti. 54 Ma il centurione e la sua pattuglia che montavano di guardia a Gesù si spaventarono molto poi­ ché videro il terremoto e ciò che accadde e dissero: Veramente costui è sta­ to Figlio di Dio. 45

46 Sal. 22,2. 48

SaL 69,22.

Mt

.

.27,4 5 - 5 4·

La morte di Gesù come rivelazione di Dio

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4 5-54. Di nuovo Matteo segue Marco molto da vicino. L'indicazio­ ne dell'ora che manca al v. 36 (Mc. I 5,2 5) viene accolta qui probabil­ mente perché indica l'esatto adempimento di Am. 8,9 (v. intr. a Mc. I 5 , 3 3-39). I l grido di Gesù, «Elì, elì» è riprodotto i n ebraico (o aramaico: 4Q243 ?); questa è autentica tradizione, perché soltanto così è possibi­ le lo scambio con Elia, mentre non lo è nella forma aramaica di Mar­ co, eloi. Anche la traduzione è formulata diversamente, in parte ricor­ dando l'Antico Testamento greco. Probabilmente Matteo ha cono­ sciuto nella sua comunità le due sentenze in questa forma. La bevanda acetata, forse vino acidulo da soldati, pensata in origine come gesto di pietà, diventa un gesto di scherno per le parole delle sentinelle che la accompagnano. Secondo Matteo non è chi offre a Gesù la spugna per dissetarlo, ma i suoi commilitoni che gli gridano così (v. 49). Ciò ha per conseguenza che la frase «!asciatemi fare» (Mc. 1 5,36) viene cam­ biata in «fermo ! », vuole cioè impedire al soldato di fare ciò che sta fa­ cendo invece che essere lui, viceversa, come in Marco, a esortare gli al­ tri a lasciarglielo fare. Lo scherno è probabilmente accentuato in Mat­ teo mediante il verbo «liberare» (v. 49) che sostituisce il «tirare giù» di Mc. I 5 ,3 6; è lo stesso dileggio rivolto al Figlio di Dio ai vv. 40.42. In alcuni manoscritti è inserito a questo punto il colpo di lancia di Gv. 19,34 (cf. al v. 3 6); in tali manoscritti l'ordine di uscita dei liquidi è in­ vertito rispetto a Giovanni: «acqua e sangue», un sicuro adattamento alla successione dei sacramenti che sono così simboleggiati, battesimo ed eucarestia (cf. 1 Gv. 5 ,6). A differenza di Giovanni, qui Gesù è pe­ rò ancora vivo. Probabilmente il riferimento all' «altro» che avrebbe perforato Gesù su di un fianco è stata· aggiunta a margine da un lettore perché al v. 48 si parlava di «uno» che gli dava da bere. Anche la morte di Gesù viene formulata un po' diversamente (v. 50): Gesù non «emet­ te» più un gran grido (Mc. 1 5 ,3 7), ma il proprio spirito. In questo modo è rafforzata ancora di più l'impressione, già presente in Marco, che Gesù non lasci fino all'ultimo colui che lo ha apparentemente ab­ bandonato, indicando in tal modo che nonostante ogni ·apparenza Dio è comunque presente. Nelle sue mani, come si legge più esplicitamen­ te in Le. 23,46, · Gesù «rimette» il proprio spirito (v. 50). Secondo Ev. Petr. 1 9 «la sua forza)) lascia Gesù, il che viene interpretato come as­ sunzione di Gesù in cielo (nonostante quanto osservato a 28, 5 -7 intr.). Nuovi sono i segni che seguono alla sua morte (v. 5 1 ). L'evento esca­ tologico che si è verificato con la morte di Gesù invisibile per gli

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Mt. 27,45- 54. La morte di Gesù come rivelazione di Dio

astanti, che lo dileggiano, e per i discepoli, che non sono presenti, di­ venta visibile simbolicamente: Dio irrompe con il suo nuovo mondo in questo vecchio mondo, come già in 1 Re 1 9, I I la sua teofania fa tremare la terra mentre le rocce dell'Horeb si spaccano. In Mc. I s,JO fu usato il medesimo verbo per descrivere lo spaccarsi della cortina del tempio e questo fenomeno viene messo in maggior risalto con la locuzione «ed ecco» (v. a 8,2). Mentre gli uomini, sprezzanti e incerti, stanno ancora nei paraggi della croce, non toccati da quanto avviene, persino le rocce sussultano e si sgretolano. E non è finito: si aprono tombe e uomini vengono risuscitati. Scrittori latini e greci conoscono i terremoti, anzi persino l'apparizione di defunti, come effetti collate­ rali di grandi avvenimenti: ma qui si parla di risurrezione (v. 5 2). La formulazione richiama alla memoria persino il grande capitolo della risurrezione di Ez. 37 (v. 1 2) , che nel libro del profeta ha solo la fun­ zione di raffigurare il ritorno d'Israele alla vita, ma che fu usato nel fregio di una sinagoga di un periodo più tardo per illustrare la risurre­ zione (con una montagna spaccata come in Mt. 27, 5 2 ! ). Tre volte si sottintende con la forma passiva dei verbi che Dio stesso è all'opera. Gerusalemme con il ·M onte degli Ulivi è il luogo dove un giorno do­ vrebbe cominciare la risurrezione; qui si raccolgono le ossa di tutti gli israeliti dovunque essi possano essere sepolti. Perciò i giudei illustri si fanno seppellire lì per essere i primi a partecipare alla risurrezione (cf. v. 6o). I «santi» nella Bibbia sono tutti membri del popolo di Dio, qui sono i pii d'Israele morti prima di Gesù. In verità questi sarebbero un numero immenso, così che forse sullo sfondo c'è l'attesa, che talora si riscontra nel giudaismo, di una risurrezione particolare per i patriar­ chi e i martiri giudaici. Ignazio, Magn. 9,2 pensa ai profeti; i cosiddetti Atti di Pilato ai patriarchi. Essi camminano per la città e appaiono a molti quali segni evidenti contro il loro dileggio e la loro incredulità. Molto interessante è l'osservazione «dopo la sua risurrezione» (v. 5 3 ). Matteo non può aver scritto una cosa del genere, altrimenti la nota sa­ rebbe dovuta apparire già al v. 5 2. Inoltre Matteo avrebbe raccontato questi avvenimenti nel cap. 28, ad esempio nel contesto del grande «terremoto» di 28,2. Poiché secondo il v. 5 4 le sentinelle vedono i se­ gni meravigliosi, non si può pensare semplicemente a una anticipazio­ ne di un fatto successivo. O qui il testo recitava in origine «dopo la lo­ ro risurrezione», come leggono alcuni manoscritti, invero molto spo­ radici e comunque tardi, oppure l'osservazione è stata inserita solo in

Mt.

27t45-54· La morte di Gesù come rivelazio ne di Dio

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un secondo momento. In questo, molto più probabile, caso si tratta di una correzione. Gesù è il primo di tutti i risuscitati ( 1 Cor. 1 5,20; Rom. 8,29; Col. I , I 8), dunque non è possibile che ci siano morti che risorga­ no prima di lui. Infatti l'idea che direttamente dopo la sua morte Gesù sarebbe disceso agli inferi e vi avrebbe liberato i pii dell'Antico Testa­ mento per la risurrezione ( 1 Pt. J, I 9; 4,6) può essere difficilmente at­ tribuita a Matteo né potrebbe comunque risolvere il problema della risurrezione di Gesù per primo. Si è anche ipotizzato che un tempo la morte di Gesù sia stata concepita come un rapimento presso Dio di­ rettamente dalla croce, un po' come avvenne a Enoc e a Elia (Gen. 5, 24; 2 Re 2, I I; cf. a Mt. 27,36. s o; inoltre intr. ai capp. 26-28), ma Mat­ teo non ne avrebbe avuto più cognizione. Si tratta di speculazioni sen­ za concreti punti di appoggio. La confessione sul Figlio di Dio viene ripresa da Mc. I 5,39; ma da un lato tutto il corpo di guardia si unisce a essa, dall'altro, soprattutto, ciò che essi «vedono» dopo l'interpola­ zione dei vv. 5 2 s. non è più la morte niente affatto spettacolare di Ge­ sù, bensì appunto il potente terremoto con le sue conseguenze. Stan­ do così le cose, la confessione matteana perde molto di peso rispetto a quella marciana. Ci si potrebbe addirittura chiedere come mai, davanti a segni meravigliosi così lampanti, non parli nel medesimo modo tutta Gerusalemme. Una considerazione che ha già fatto l'autore del Vange­ lo di Pietro (v. ai vv. 62-66). Matteo ha sì ripreso da Marco tutti i particolari della passione fino all'invocazione nel momento dell'abbandono di Dio e al grido che Gesù emette nell'istante della morte. Nulla di tutto ciò viene sminui­ to. La nota particolare di questa morte è di fatto l'aver sofferto fino in fondo l'abbandono di Dio. Ma a differenza di Marco, in Matteo si in­ travede già la vittoria di Dio che è stata ottenuta in quella morte. Non solo le tenebre, ma il terremoto, le tombe spalancate e i morti che van­ no girando per ogni dove mostrano che ciò che è accaduto qui è vera­ mente, in senso stretto, lo sconvolgimento del mondo. La morte è sta­ ta già privata del suo potere e il corso del mondo è stato interrotto e ciò non è legato al corso irreversibile del tempo: Dio, Signore anche del tempo, fa abbracciare dalla vita che si verifica qui anche persone morte già da moltissimo tempo. Così la domanda che sorge da questa descrizione matteana non è se ancora un altro paio di eventi bizzarri siano credibili o no, ma piuttosto se possiamo seguire l'evangelista co-

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Mt. 27,5 5-6 1 . Il seppellimento di Gesù

sì da poter vedere nella morte di Gesù l'evento che ha segnato il capo­ volgimento del mondo, evento dal quale traggono vita tutti coloro che, prima e dopo questo giorno, hanno sperimentato Dio come colui che si volge verso loro e li chiama, e se noi siamo convinti, insieme con l'evangelista, che questo fatto sia più decisivo e forte di tutte le forze della nanira e della storia che muovono il mondo. Il seppellimento di Gesù, 27,5 5-61 (cf. Mc. 1 5,40-47; Le. 23,49- 56) 5 5 Ma c'erano lì molte donne che guardavano da lontano; erano quelle che avevano seguito Gesù dalla Galilea e lo avevano servito. 56 Tra di loro c'era­ no Maria di Magdala e Maria, figlia di Giacomo e madre di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. 57 Ma poiché si era fatta sera, venne un uomo ricco di Arimatea, di no­ me Giuseppe, che era anche diventato discepolo di Gesù. 5 8 Questi andò da Pilato e chiese la salma di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse data. 59 E Giuseppe prese il cadavere e lo avvolse in un lenzuolo di lino pulito 6o e lo pose nella propria tomba nuova che aveva fatto scavare nella roccia e rotolò una grossa pietra davanti all'entrata della tomba. 61 Ma c'era lì Maria di Magdala e l'altra Maria e si sedettero di fronte alla tomba.

5 5-61 . Come per Marco, così anche secondo Matteo sono solo donne testimoni della crocifissione di Gesù. Solo che Matteo parla già all'inizio di «molte» donne, mentre Mc. I 5 ,4 I solo più avanti di «mol­ te altre» (v. 5 5). La conseguenza è che ora si dice che tutto il gruppo delle donne lo avrebbe seguito, in verità «dalla Galilea» (Matteo) e non «in Galilea» (Marco), così che, a rigar di termini, le donne si sa­ rebbero aggregate solo per il viaggio a Gerusalemme. La terza donna (v. s 6) è la «madre dei figli di Zebedeo» in Matteo, Salome in Mc. I 5' 40. Potrebbe trattarsi della medesima donna. Anche in Mt. 2 6,37, ad esempio, Matteo scrive «figli di Zebedeo» invece di « Giacomo e Gio­ vanni» (Mc. 14,3 3; per il loro nome cf. a Mc. r 6, r intr.). Giuseppe di Arimatea (v. 57) viene definito «ricco»; secondo /s. 5 3 ,9 il servo di Dio trova sepoltura presso i ricchi. Giuseppe viene detto discepolo di Gesù come in Gv. I 9,3 8, mentre Marco afferma più cautamente che aspettava il regno di Dio. Il seppellimento stesso è raccontato con maggiore brevità, riecheggiando Luca nei particolari. Si sottolinea che il lenzuolo era pulito e, come in Gv. I 9,4 I, la tomba nuova (cf. Le. 23,5 3). Entrambi questi particolari mostrano che Gesù riceve la degna

Mt. 27,62-66. Il tentativo di impedire la risurrezione

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sepoltura che gli spetta anche se si occupano di lui soltanto alcune donne e un unico discepolo rimasto fino a questo momento nell'om­ bra (vv. 5 8 -6o). Soltanto da Matteo si viene a sapere chiaramente che si tratta di una tomba di proprietà di Giuseppe di Arimatea (cf. al v. 5 2); manca invece il particolare conservato dagli altri evangelisti che sarebbe stato Giuseppe in persona a tirare giù dalla croce il corpo senza vita di Gesù. Si anticipa già qui il particolare ripreso da Mc. 1 6,4 delle dimensioni della pietra tombale. L'espressione abbreviata, «l'al­ tra Maria», aggiusta la discordanza di Marco con la prima menzione delle donne ( q ui al v. 5 6). Va notato il singolare «c'era»: si tratta forse di un residuo che conserva ancora la memoria che solo Maria Madda­ lena fosse rimasta davanti al sepolcro (Cv. 20, 1 s.; v. intr. a Mc. 1 6, 1 -8) ? Il tentativo di impedir.e la risurrezione, .17,6.1-66

62 Ma il giorno seguente, che viene dopo il giorno della preparazione, si ri­ unirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei 63 e dissero: Signore, ci sovviene che quell'impostore ha detto, quando ancora viveva: Sarò risusci­ tato dopo tre giorni. 64 O rdina dunque che fino al terzo giorno la tomba sia sorvegliata a vista affinché i discepoli non vengano e lo trafughi no e di­ cano al popolo: Fu risuscitato dai morti ! E l'ultima truffa sarebbe peggiore della prima. 65 Pilato disse loro: Vi concedo un corpo di guardia; andate, prendete le vostre misure, il meglio che potete. 66 Ma essi andarono sul posto e insieme con le sentinelle presero le loro misure di sicurezza per la tomba e sigillarono la pietra. Fatto storico è l'accusa che i discepoli di Gesù avrebbero trafugato la salma. Secondo Mt. 28, 1 5 essa veniva ancora sollevata al tempo del­ l'evangelista e Giustino la conferma, anzi racconta di missionari giu­ daici che la spargevano per ogni dove. Probabilmente si ebbe una vera e propria antipropaganda giudaica contro il messaggio cristiano della risurrezione. La comunità volle controbattere questa accusa. Ciò po­ trebbe spiegare la nascita di questa storia. Naturalmente essa non è semplicemente inventata. Da un lato i non cristiani hanno pensato a come si potrebbe spiegare la tomba aperta e hanno ipotizzato la sot­ trazione di cadavere; dall'altro i cristiani si chiesero come mai gli altri potessero cadere vittima di un'affermazione così assurda e ipotizza­ rono un complotto giudaico contro l'indubbia risurrezione di Gesù. L'ipotesi si trasformò piano piano in una diceria e da lì nacque il rac­ conto ritenuto vero. Tuttavia possono essere intervenuti anche altri

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Mt.

.27,6.2-66. Il tentativo di impedire la risurrezione

fattori. Ci sono molti racconti sulla liberazione di uomini devoti da prigioni strettamente sorvegliate ed ermeticamente chiuse, nelle quali è generalmente un angelo che apre le porte sbarrate (cf. Atti 1 2,3- 1 0). Verso i1 1oo a.C., ad esempio, lo scrittore giudaico Artapano racconta di Mosè che il faraone lo avrebbe preso prigioniero, ma tutte le porte della sua prigione si sarebbero aperte da sole e le guardie sarebbero in parte morte e in parte cadute in un sonno profondo dal quale si sareb­ bero risvegliate solo più tardi con le armi spezzate. Sarebbe pensabile che il racconto della discesa dell'angelo che rotolò via la pietra di 28,24 (v. ad loc. , intr.), un brano che appare come un corpo estraneo nel testo, contenesse insieme con 27,62-66 e 2 8, 1 1 - 1 5 un antico resoconto della pasqua nel quale dovrebbe essere stata descritta anche la risurre­ zione stessa. Da questo racconto potrebbe dipendere il Vangelo di Pie­ tro (v. sotto). Contro tale ipotesi vale tuttavia la considerazione che allora Matteo avrebbe conosciuto una descrizione della risurrezione, ma non l'avrebbe utilizzata e che ·p ersino il Vangelo di Pietro sarebbe stato ancora più cauto. A ciò si aggiunge che il termine greco «guar­ dia» usato in 27,6 5 e 28, 1 1 è sì diverso, ma in 28,4 è lo stesso di 27,36. Ciò indica che la tradizione (orale ?) non presupponeva in 28,2 s. sen­ tinelle di guardia alla tomba, ma voleva soltanto rendere evidente il rotolamento della pietra (Mc. 1 6,3 s.). Matteo avrebbe dunque, sulla base dei suddetti modelli, stabilito mediante il v. 4 il collegamento con la guardia della tomba, già nota secondo la sua tradizione, e allo stesso tempo avrebbe fatto sedere l'angelo sulla pietra (28,2) per operare la transizione al racconto di Marco (28,5 ss.). La storia divenne ben pre­ sto popolare. Un'aggiunta giudeocristiana a Test. Lev. 1 6,3 usa per Gesù il termine offensivo di «seduttore>> come in Mt. 27,63. Soprat­ tutto il Vangelo di Pietro ne mostra l'ulteriore crescita esuberante. Qui si ha già il nome del comandante della guardia e si descrive come «scribi, farisei e anziani» insieme con i soldati rotolino la grande pie­ tra davanti alla tomba, la sigillino per sicurezza con sette sigilli, la sor­ veglino con le sentinelle, e tutte queste misure di sicurezza vengano controllate da tutti gli abitanti di Gerusalemme e dintorni. Ora Atti 1 0,4 1 s. riassume ciò che vale per tutti i racconti della risurrezione: Gesù è apparso soltanto a credenti. Questa è la consapevole rinuncia a una prova della risurrezione da dare ove manchi la fede. Con le prove la fede muore come l'amore genuino finisce quando esige prove del­ l' amore dell'altro. Un Dio che dovesse prima dimostrare all'uomo di

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27,62-66. Il tentativo di impedire la risurrezione

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esistere non sarebbe più Dio. Perciò ci possono certamente essere se­ gni della risurrezione che il credente accoglie con gratitudine, ma mai prove che dovrebbero persuadere l'incredulità e smascherarla come pura malevolenza. Così la nostra storia è il primo passo su di una stra­ da che va in direzione opposta alla testimonianza biblica. 6.2.-66. È difficilmente credibile che le autorità giudaiche si rechino da Pilato proprio il sabato che è definito stranamente il giorno dopo il «giorno della preparazione» (Mc. I 5,42). Secondo Cv. 1 8,28 essi, per pura paura di contaminarsi, non osano nemmeno entrare nel suo pa­ lazzo il giorno prima. L'appellativo «signore>> (v. a 8,2) è diretto qui a Pilato (v. 63). La formulazione «dopo tre giorni)>, che di solito Matteo corregge regolarmente in «il terzo giorno», mostra che il racconto è pervenuto a Matteo dalla tradizione. Forse nell'intenzione di Matteo si deve pensare a 1 2,40 dove i farisei, non certo i sommi sacerdoti, era­ no presenti quali ascoltatori, o addirittura a 2 6 ,6 I (Cv. 2,20 s.). L'obie­ zione è stata evidentemente avanzata da parte giudaica a Matteo ( 2 8, I 5 ) ; essa indica che non si contesta il fatto della tomba vuota, ma certo la sua spiegazione (v. 64). «l (non: i suoi) discepoli» è uso linguistico della comunità più tarda. L'osservazione di Pilato che essi avrebbe­ ro dovuto prendere le misure di sicurezza «meglio che potevano)> suona ironica (v. 65 ). Si sente subito quanto sia ridicola fin dall'inizio tutta questa impresa. Anche la fossa dei leoni venne sigillata (Dan. 6, I 8). L'arte ecclesiastica ha messo in relazione reciproca i due eventi; è difficile dire con sicurezza se l'abbia fatto già Matteo (v. 66). La storia presenta grosse difficoltà perché cerca di fare qualcosa che la materia stessa le vieta di fare: dimostrare in maniera oggettiva per i non credenti la risurrezione di Gesù. In un certo senso le domande che pongono i moderni seguono binari paralleli. Oltre ogni dubbio storico non c'è più, in verità, la tomba vuota, ma certatnente il fatto che una serie di persone era convinta di aver visto il Risorto ( 1 Cor. I 5,5-8) e in seguito a questo fatto alcuni fuggiaschi terrorizzati si tra­ sformarono in una schiera di messaggeri che proclamavano, piena­ mente convinti e incuranti di ogni pericolo, questo Signore risorto e in poche decine di anni conquistarono per lui uomini in tutto il mon­ do allora conosciuto. Anche oggi non viene contestato questo fatto, ma la sua spiegazione. A dire il vero l'uomo moderno non sarebbe co­ sì ingenuo da attribuire ai discepoli la sottrazione di cadavere: essi

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Mt.

28, r - ro.

La vittoria di Dio

avrebbero lasciato Gerusalemme in fretta e furia solo per fare, poche ore dopo, una bravata decisamente audace. Ma egli può vedere in ciò che è successo loro una visione e audizione da s pieg a re in termini di psicologia dell'inconscio, un fenomeno alla base del quale non sareb­ be necessario ci fosse altro che una convinzione nascosta nell'incon­ scio che Gesù, che aveva già convinto i discepoli quando era terreno, non potesse essere definitivamente morto. Una volta di più la fede può sperimentare la realtà del Risorto solo facendosi prendere da lui nella sequela. La fede sa comunque qualcosa di ciò che si può pe rs i n o cogliere ancora in questa storia in sé sbagliata: anche attraverso questi versetti risuona infatti ancora l'eco della risata di Dio che passa e ir­ rompe in tombe barricate, sigillate e custodite militarmente, incurante di tutte le misure e le manipolazioni degli uomini (Sal. 2,4). La

vittoria di Dio, 28,1 -10 (cf. Mc. 16, 1 -8; Le. 2 4,1-1 1)

r Il sabato tardi, all'alba del primo giorno della settimana, venne Maria di Magdala e l'altra Maria a controllare il sepolcro. 2 Ed ecco: si verificò una gran scossa di terremoto. Poiché un angelo del Signore scese giù dal cielo, si avvicinò e rotolò via la pietra e vi si sedette sopra. 3 Ma il suo aspetto era come il lampo e la sua veste bianca come neve. 4 Le sentinelle tremaro­ no per paura di lui e divennero come se fossero morte. 5 Ma l'angelo si al­ zò e disse alle donne: N o n temete voi! So che cercate Gesù il crocifisso; 6 egli non è qui poiché fu risuscitato, come ha detto. Venite, guardate il po­ sto dove egli è stato disteso. 7 E correte e dite ai suoi discepoli: Egli è stato risuscitato dai morti ed ecco: vi precede in Galilea; lì lo vedrete. Ecco: ve l'ho detto. 8 Ed esse si allontanarono velocemente dalla tomba, con timore e grande gioia, e corsero per annunciarlo ai suoi discepoli. 9 E d ecco: Gesù venne loro incontro e disse: Salve! Ma esse si avvicinarono e afferrarono i suoi piedi e si prostrarono davanti a lui. ro Allora Gesù dice loro: Non te­ mete! Andate, annunciate ai miei fratelli .di andare in Galilea e che lì mi ve­ dranno.

Mentre il messaggio angelico coincide in larga misura con il testo di Marco, l'introduzione e la conclusione della pericope se ne differen­ ziano notevolmente. La prima rivela uno stadio più tardo dello svi­ luppo. In verità non si descrive ancora, come nel Vangelo di Pietro, la risurrezione stessa. In esso vengono nominati testimoni che vedono come la pietra rotoli via da sola mentre due uomini scendono giù dal cielo aperto e abbandonano la tomba in compagnia di un ter�o il cui

Mt. 28, r - 1 o. La vittoria di

Dio

48 3

capo si erge già fin dentro il cielo, seguito da una croce imponente. Ma anche per Matteo la tomba era sigillata e guardata a vista; così de­ ve avvenire un miracolo perché le donne possano vedere la tomba aperta. A dire il vero, le due tradizioni, quella delle sentinelle e quella delle donne, non sono del tutto compatibili perché tutto quello che è narrato nei vv. 5- I o dovrebbe essere avvenuto mentre le guardie gia­ cevano prive di sensi (v. a 27,62-66 intr.). La conclusione contiene ora l'esecuzione dell'ordine angelico (vv. 8 - I o). Questo era necessario perché secondo Matteo i discepoli si sono recati effettivarnent� in Galilea in seguito a quest'ordine. Per la questione storica cf. excursus a Mc. 1 6, 1 -8. Questa conclusione coincide nella sostanza, e in parte an­ che nella formulazione, con Le. 24,9. Non si sa se l'incontro con le donne fosse narrato eventualmente in forma simile nella conclusione originaria del vangelo di Marco (v. ad loc. ). La ripetizione dell'ordine sarebbe più facilmente comprensibile dopo Mc. 1 6,8. D'altra parte al­ cune peculiarità linguistiche indicano che Matteo ha come minimo rie­ laborato il materiale. Singolari sono certi contatti con la tradizione giovannea dove, invero, una sola Maria va al sepolcro. Come in Mat­ teo, neanche in Giovanni si parla dell'unzione del cadavere (v. al v. 1 ); Gesù incontra la donna, anche se non in cammino come in Mt. 28, I o (nonostante Gv. 20,2 ); essa viene inviata d a lui «ai suoi fratelli» (così altrimenti solo in Mt. 28, 1 0). Sia che questa espressione dipenda da Sal. 22, un salmo così importante per la storia della passione, dove il v. 2 3 recita «annuncerò il tuo nome ai miei fratelli», oppure dall'idea di Gesù quale primogenito di molti fratelli (Rom. 8,29; Ebr. 2, I 1 ), in ogni caso l'espressione ha le radici già nella comunità prematteana e preg1ovannea. I - I o. È molto singolare che Matteo sposti l'andata delle donne alla sera del sabato. Per il giudeo, per il quale il giorno comincia di sera, questa è l'alba del primo giorno della settimana (v. I ) . Per coloro che sono cresciuti nell'ambiente culturale greco-romano questo sarebbe il mattino seguente. Le. 2 J, 54 usa il medesimo verbo per indicare la sera del venerdì. Forse in origine si diceva soltanto che la· risurrezione sa­ rebbe avvenuta dopo la fine del sabato oppure all'alba del primo gior­ no della settimana, così che per il giudeo si sarebbe trattato del sabato sera, per i non giudei di domenica mattina. Il tentativo di tradurre «più tardi del sabato» è grammaticalmente impossibile, prescindendo

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Mt.

z8, 1 - 10. La vittoria di Dio

dal fatto che nessuno si sarebbe espresso in maniera così ridicola. Al massimo si potrebbe tradurre «dopo la conclusione del sabato>>, il che equivarrebbe a dire di nuovo «sabato sera>>. Matteo data quindi pro­ babilmente l'andata alla tomba il sabato sera, mentre la risurrezione di Gesù si sarebbe verificata nella notte tra il nostro sabato e domenica. Il numero e i nomi delle donne sono adattati a 27,6 I (v. ad loc. ). Le donne sono dunque due, non tre come in Mc. 1 6, 1 . Si evita inoltre la difficoltà che esse vogliano ancora ungere la salma di Gesù (Mc. I 6 , I } nonostante il sepolcro fosse reso inaccessibile, come avevano osserva­ to, dalla grossa pietra e nonostante fosse passato un giorno con la sua temperatura orientale, calda anche all'altezza di Gerusalemme. Con­ siderando poi anche i soldati di guardia al sepolcro, presupposti da Matteo, l'unzione sarebbe 's tata proprio impossibile. Invece (v. 2) le donne diventano ora testimoni, certo non della risurrezione stessa, ma pur sempre degli avvenimenti concomitanti che vengono messi ancora in rilievo con la formula «ed ecco» (v. a 8,2). La forte scossa di terre­ moto ricorda le teofanie di Es. I 9, I 8 e 1 Re I 9, 1 I s. oppure di Sal. I I 4, 7: «Davanti al Signore (= Gesù per i cristiani) trema, o terra, ... >>. An­ che qui è l'apparizione del Signore nel suo angelo che ha tale effetto. Il periodo _successivo inizia infatti con «poiché», indica quindi la cau­ sa del sisma (v. 2b). Adesso è soprattutto «l'angelo del Signore» (così an·cora solo in I ,20.24; 2, I 3. 1 9; Le. I , I I ; 2,9 e Atti) che rotola via la pietra e vi si siede sopra come un vincitore. Il narratore pensa forse che così è ora aperta la via per la risurrezione di Gesù che tuttavia non è visibile per alcuno ? L'angelo viene descritto più minuziosamente che in Marco. «Bianco come neve» è «l'Antico» (cioè Dio) in Dan. 7,9 e anche il Cristo glorificato secondo Apoc. I , 1 4 che viene inoltre de­ scritto con tratti presi dalla descrizione dell'angelo di Dan. ro, 5 s. Da Dan. I o,6 proviene anche il tratto non ripreso in Apoc. r , 1 4 del volto come un lampo. Una descrizione simile si ha in Le. 24,4 e già in Le. 9,29 nella storia della trasfigurazione (cf. ancora Mt. 24,27). Tutto ri­ chiama quindi alla memoria i segni che vengono solitamente attesi per la venuta del Signore alla fine del mondo e all'arrivo del regno di Dio. Probabilmente si pensa che l'uscita, non descritta, di Gesù dalla tom­ ba sia avvenuta mentre le guardie erano svenute (v. 4); il loro «terre­ moto» viene descritto con il medesimo verbo usato per la terra in 27, 5 I (similmente in 28,2). Il lato grottesco di questa guardia montata al­ la tomba consiste nel fatto che coloro che volevano tenere prigioniero

Mt. 28, 1 - r o. La vittoria di Dio

48 S

il morto cadono essi stessi giù come morti davanti a lui, il vivente. Il ruolo del giovane (così Mc. r 6, s ), che solo in Matteo viene chiamato espressamente «angelo>>, viene non solo rinforzato dal v. 2, ma anche dal suo discorso. Egli «sa» che cosa le donne vogliano e il suo ordine le fa correre dai discepoli: «Io ve l'ho detto>> (non Gesù come in Mc. 1 6,7). In seguito a uno spostamento delle parole, «crocifisso» e (v. I 8). Nella tradizione si trattava, come indica il v. I 8b, di una apparizione dal cielo simile a quella avuta anche da Paolo e come probabilmente venivano generalmente immaginate nei primi tempi le apparizioni, poi­ ché 1 Cor. 1 5 , 5 - 8 non fa distinzione di sorta tra l'esperienza di Paolo e quella dei testimoni di pasqua prima di lui. La risurrezione era dun­ que concepita in termini di innalzamento dalla tomba al cielo. Il luogo dell'apparizione, in particolare il monte (v. 1 6) che Matteo non ha menzionato precedentemente, forse anche la duplice reazione qei te­ stimoni erano certamente elementi tràditi sin dali 'inizio. A dire il vero si volle vedere nel tema del dubbio un'aggiunta recente che mostrava già la problematica della comunità; a questo punto sarebbero state an­ che tralasciate tutte le prove che assicurassero la realtà del Risorto e si

Mt. 28,1 6-20. La presenza del Risono nella sua comunità

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sarebbe fatto riferimento unicamente alla parola. Ma ciò dipende piut­ tosto dal fatto che in origine il Risorto parlava dal cielo. La formula­ zione è degna di nota. Essa legge letteralmente: «Ma quelli . . . » oppure, nel caso fossero state già nominate altre persone, «ma gli altri dubita­ rono». Ciò significa dunque o che tutti i discepoli dubitarono, sebbe­ ne adorassero, o che insieme agli undici ci fossero altre persone che dubitarono. Entrambe le ipotesi sono difficilmente immaginabili, per quanto attraente potrebbe apparire la prima dal punto di vista teologi­ co e potrebbe ricordare passi come Giud. 6, I 1 -24; I 3 ,8 -2 3. Potrebbe esserci a monte un racconto che parlava solo del dubbio dei discepoli ? Sarebbe pensabile che Matteo abbia aggiunto la scena dell'adorazione (come in 8,2; 1 4,3 3 ecc.); egli stesso avrebbe allora inteso dire che al­ cuni degli undici adorarono, altri invece dubitarono. Allora proprio il tema del dubbio (v. conci.) sarebbe radicato saldamente nella tradizio­ ne storica. I discepoli hanno atteso tutt'altro che l'apparizione di Ge­ sù crocifisso. Per quanto riguarda il discorso di Gesù, il detto iniziale e quello finale (vv. I 8b e 2ob) appartennero molto probabilmente alla forma primaria del racconto, forse escludendo la frase «compimento del corso del mondo» che in 24,3 è una correzione dovuta all'evange­ lista. La risurrezione rappresenta quindi l'inizio della sua signoria. Es­ sa dura fino al compimento del corso del mondo che segna l'arrivo del regno di Dio. Così vedono le cose anche Mc. 1 4, 62 = Mt. 26,64 e 1 Cor. 1 5,24-28 dove la venuta con le nuvole del cielo ovvero la definiti­ va sottomissione del figlio al Padre subentra a questa signoria. Anche altrove ci sono indicazioni di questo nesso tra innalzamento di Gesù (alla risurrezione) e adempimento escatologico. Questa dovrebbe es­ sere la più antica comprensione della pasqua così come corrisponde all'esperienza dei primi testimoni della risurrezione: colui che è stato disprezzato da tutto il mondo e martoriato a morte è stato innalzato da Dio alla signoria celeste e ritornerà un giorno, quando comincerà il regno di Dio. 1 9a. No n è del tutto certo quanto presto sia stata collegata con tut­ to ciò l'idea della proclamazione a tutto il mondo e dell'affermazione di questa signoria (v. 19a). Negli inni più tardi della comunità che so­ no caratterizzati da questa concezione dell'elevazione al cielo entram­ bi questi motivi sono collegati; 1 Tim. 3, I 6; anche nell'appendice non paolina aggiunta successivamente in Rom 1 6,26; anche in Col. 1 ,23. 2 7; Ef. 3,6. Di certo i testimoni della risurrezione, probabilmente fin .

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dal primo giorno (così Gal. 1 , 1 6), hanno inteso l'incontro con il loro Signore anche come mandato a proclamare ad altri la sua risurrezione. Altrettanto certo è che la comunità primitiva sia arrivata a far vera­ mente propria l'idea della missione alle genti solo al prezzo di lunghe e dure battaglie. Che anche i pagani venissero chiamati alla salvezza era in realtà naturale date le parole e il comportamento di Gesù (8,I I ; I 5 ,2 1 -2 8), anzi considerando persino l a prassi dei farisei (23, 1 5). Ciò era conforme anche all'attesa profetica che vedeva le nazioni confluire negli ultimi giorni, dirigendosi verso Sion. Come mostra l'esempio · della missione farisaica, ciò non escluse che si andasse da loro: ma solo per invitare i pagani a farsi circoncidere e a diventare membri d'Israe­ le. Il v. I 9a non sarebbe quindi impossibile per i primi tempi dopo pa­ squa e proprio che intere nazioni diventassero discepoli di Gesù po­ trebbe indicare la presenza di simili speranze escatologiche. Così an­ che prima di Paolo e contemporaneamente a lui discepoli di Gesù so­ no usciti per andare nelle nazioni; le comunità di Antiochia di Siria e di Roma sono nate senza la sua opera. Ma sono stati i giudei di lingua greca di Gerusalemme che, dissentendo dalla comunità primitiva in senso stretto, si recarono in Samaria e Siria e l'idea della missione ai pagani compare solo relativamente tardi nei passi suddetti e inoltre ancora senza alcun nesso con l'esaltazione di Gesù in Mc. 1 3, 1 0 = Mt. 24, I 4. Nel primissimo tempo si dovrebbe dunque pensare al massimo a un annuncio, quasi una mera comunicazione della risurrezione di Gesù che inducesse i pagani ad aderire all'Israele escatologico e così a iniziare il pellegrinaggio verso il Sion degli ultimi tempi. Tuttavia qui non si parla affatto della proclamazione a Israele. 1 9h. Non si sa da dove provenga il battesimo. L'ipotesi più vero­ simile è che esso sia stato portato in dote da un nutrito gruppo di di­ scepoli di Giovanni che dopo pasqua si unirono alla comunità. Co­ munque sia, ovunque nel Nuovo Testamento si presuppone che tutti siano battezzati. Fatta eccezione per il nostro passo, nel resto del Nuovo Testamento si parla sempre di battesimo per/su il nome di Ge­ sù o nel nome di Gesù (Atti 2,J 8; 8, 1 6; 1 0,48; Rom. 6,J; I Cor. I , I J . I s; 6, 1 I; cf. 1 0,2), così che almeno l'aggiunta del triplice nome rappresen­ ta uno sviluppo successivo. Ora, il padre della chiesa Eusebio cita re­ golarmente (2 1 volte), prima del concilio di Nicea (3 2 5 d.C.), il nostro detto in una forma più breve: «Andate e rendete discepoli tutti i po­ poli nel mio nome ammaestrandoli ... >> . In questa formulazione non è

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chiaro se «nel mio nome>> si riferisca al verbo precedente o a quello seguente. Giustino motiva il battesimo nel triplice nome richiaman­ dosi a Isaia e alla tradizione apostolica, ma senza citare mai il nostro passo. Tuttavia non c'è dubbio che sia stato Matteo stesso a scrivere così come leggono concordemente tutti i manoscritti. Infatti già alla fine del 1 secolo la Didachè, scritto che ha subito indubbiamente la forte influenza di Matteo o della sua tradizione, attesta (7, 1 .3) la me­ desima prassi battesimale, ma allo stesso tempo, per la verità, presenta anche (9, 5) la forma più antica del battesimo per il nome di Gesù. Pas­ si come quelli che verranno citati più avanti nell'excursus «Padre, Fi­ glio e Spirito santo>> mostrano con quanta facilità avvenne l'amplia­ mento del nome di Gesù a quello di Padre, Figlio e Spirito santo. Così Matteo attesterà con il v. 1 9 la prassi battesimale della sua comunità (siriaca?), che per tale ragione non deve ancora essere necessariamente la prassi seguita anche in altre comunità, ad esempio in Palestina o in Asia Minore. È molto incerto che Eusebio abbia conosciuto ancora, per tradizione orale, uno stadio precedente di Mt. 28, 1 9. Una forma abbreviata del nostro versetto è tanto possibile quanto lo è la forma abbreviata dei dieci comandamenti usata spesso anche ai giorni nostri. 16-2.0. La forma attuale del racconto (vv. 1 6-2o) presenta una suc­ cessione logica di narrazione, dichiarazione dell'autorità, comando e motivazione di questo comando, simile a quella che si riscontra nella cosiddetta «formula del messaggero)) di 2 Cron. 3 6,23 . Per la compren­ sione di Matteo e della sua comunità cf. sotto, conci. 1 6-2.0. I discepoli appaiono come «gli undici)), il che è storicamente esatto, mentre in 1 Cor. 1 5, 5 il numero pieno di «dodici» implica in sé l'idea dell'adempimento di tutte le promesse( 1 9,28 ; Le. .22,30; Apoc. 2 1 , 1 4; cf. excursus a Mc. 6,7- 1 3). Questa cifra rappresenta (cf. a 1 0,2) tutti «i fratelli)) di Gesù (v. 1 0). Fin dall'Antico Testamento (Sinai e Horeb !) il monte è già il luogo della rivelazione divina ( 5 , 1 ; 14,23; 1 7, 1 ) . La Galilea, la regione dove operò il Gesù terreno (!), viene ancora una volta messa in evidenza. L'adorazione (v. 1 7), espressa con un verbo caro a Matteo (v. a 8,2), è caratteristica per questo racconto di un'apparizione; essa è il riscontro del diritto di Gesù secondo il v. 1 8. Per la comprensione del dubbio cf. a 1 4,3 I . L'espressione matteana «si avvicinò)) suggerisce l'idea che Gesù venga in aiuto ai dubbiosi. La formulazione del primo detto di Gesù ricorda Da n . 7, 14 LXX dove

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del Figlio dell'uomo si dice: «E gli fu dato il potere e tutti i popol i ... e tutta la gloria, per servirlo». Ciò mostra che l'esaltazione di Gesù av­ venuta a pasqua viene vista alla luce delle attese escatologiche. A dire il vero mancano altri motivi presenti in Dan. 7 e la venuta del Figlio dell'uomo con le nuvole del cielo ( 24,30; 26,64) , promessa prima in Dan. 7, I 3, ancora non si vede, così che il riferimento a Daniele non è del tutto certo. Si deve tUttavia osservare che non viene attribuito a Gesù alcun nuovo titolo, ad esempio kyrios, «Signore))' come avviene nell'inno di Fil. 2,9- 1 I messo in forma scritta già una. ventina di anni prima. Per la comprensione matteana v. sotto, conci. Cielo e terra rap­ presenta l'antica formula onnicomprensiva dell'Antico Testamento che appare anche in 6, r o nella richiesta del Padrenostro peculiare della comunità di Matteo. Controversa è l'intensità dell'accento che cade su «andate)). Certamente il verbo principale è « rendete discepoli)) al qua­ le è subordinato tutto quanto precede e segue (letteralmente il greco re­ cita: «andando ... battezzando ... ammaestrando ... ))). L'espressione «an­ date)) potrebbe dunque venire da una fase semitica precedente del det­ to, giacché l'uso linguistico semitico indica con il verbo «andare, av­ viarsi)) semplicemente l'inizio di un'azione (cf. 9, 1 3 ) . Ma poiché Mat­ teo descrive con questo verbo la partenza dei discepoli per la missione ordinata loro da Gesù { I o,6 s.) e il tema del cammino e del camminare è per lui comunque carico di significato, probabilmente per Matteo il mandato di Gesù di andare in tutto il mondo è essenziale. Anzi l'unio­ ne di un participio in questo tempo verbale con il verbo principale nella medesima forma è tipico di Matteo, così che potrebbe averlo ag­ giunto addirittura lui stesso. Alle nazioni si era già fatto riferimento in Mc. I J, I O = Mt. 24, I 4, ma anche in 1 0, 1 8 . Ora, come nell'inno di 1 Tim. 3, I 6, vengono collegate insieme la signoria universale di Cristo e il discepolato mondiale. Per il battesimo e la triplicità del nome v. so­ pra. L'idea del nome quale segno della presenza è già ampiamente dif­ fusa nell'Antico Testamento. Dove viene invocato il nome di Dio, do­ ve il nome del re viene proclamato, là diventa presente, insieme con la sua potenza o il suo aiuto, colui il cui nome è stato chiamato. La for­ mula «perfsu il nome)) può essere però spiegata solo in base all'uso linguistico greco dove viene usata nel linguaggio commerciale e conta­ bile nel senso della nostra espressione «(versare) sul conto))' ma dove si può anche dire che soldati giurano «perfsu il nome ... )) oppure che opere spurie sono scritte «perfsu il nome (ad esempio di Paolo))).

Padre, Figlio e Spirito santo

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Padre, Figlio e Spirito s anto appaiono qui consecutivamente. Que­ sta serie è preparata da passi come I Cor. I 2,4-6; 2 Cor. I J , I 3; ricorda inoltre Gv. I4, I 6 s.; I Gv. 5,5 s.; I Pt. I ,2; Apoc. I,4 s. dove i sette spi­ riti sono lo Spirito di Dio mandato alle sette comunità, ecc. Affini so­ no anche racconti come la storia del battesimo di_ Gesù nella quale Dio manda al figlio lo Spirito santo. Tuttavia il nostro passo va ben oltre tutto ciò perché tutti e tre sono uniti insieme in un unico nome che ora è quello che importa. A ciò non è naturalmente ancora colle­ gata alcuna elaborata dottrina trinitaria. Come lo Spirito santo viene dato dal Padre (in 3, I 6 Matteo aggiunge «di Dio»; in I o,2o «il Padre vostro»), così il Figlio è colui che è mandato da lui ( I o,4o), l'Inviato che rivela il Padre ( I 1 , 2 7) . Come lì, anche qui gli è «dato>> dal Padre ogni potere. Dietro la triplice formula c'è il convincimento che Dio stesso sia presente tanto nel Figlio quanto nello Spirito e che, per la precisione, non lo sia né in misura ridotta né in qualità diversa. In questa formula c'è qualcosa di ancora più profondo. La comunità ha capito che, una volta incontrato Dio, non lo si può vedere in sé e per sé, ad esempio addirittura quale sommo essere o principio della natu­ ra, ma solo come colui che agisce, ci è vicino, ci cerca. Se si parlasse semplicemente di Dio in sé e per sé, dell' «unico Dio» arido, intellet­ tualmente astratto, non si sarebbe ancora capito chi Dio sia realmente. Per quanto sia giusto che egli è quel Dio unico che già Israele confessa (Mc. 1 2,29 non ripetuto da Matteo; ma cf. Mc. I o, 1 8 = Mt. 1 9, 1 7), egli continua tuttavia a essere frainteso finché non si capisca che egli ci viene incontro e ci cerca con il suo amore. Giovanni esprime questo concetto dicendo che Dio è amore oppure che Dio è lo Spirito ( I Gv. 4,8. I 6; Gv. 4,24). Ma con queste affermazioni non si vuole intendere, ad esempio, il nostro amore o il nostro spirito umano che si potrebbe­ ro allora chiamare Dio solo in seconda battuta. Perciò la comunità ha parlato dopo e oltre Matteo del Figlio che era presso il Padre già pri­ ma della creazione. Con ciò essa voleva parimenti dire che Dio non è mai il Dio isolato in se stesso, in un certo senso inerte, una sorta di principio o di essere supremo. Ma in questo modo essa sottolineò particolarmente che egli già fin da ogni eternità è colui che si apre nella benevolenza, nella ricerca, nell'amore. Dio è dunque già in se stesso interessamento e amore e l'amore palese in Gesù di Nazaret, tanto più tutto ciò che di amorevole avviene tra gli uomini provie­ ne dall'evento primigenio dell'amore, da Dio. Per dirla in termini più

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moderni, l'accostamento delle tre maniere nelle quali Dio ci incontra lo descrive quale soggetto dell'interessamento e dell'amore che abbrac­ cia il mondo da ogni eternità fino a ogni eternità. Da un lato, dunque, Dio viene difeso dall'equivoco che lo conoscessimo già in sé e per sé e che mediante Gesù si sia acquisita soltanto qualche conoscenza ag­ giuntiva a suo riguardo oppure che avessimo l'idea che un Dio in ori­ gine insensibile si sia trasformato, solo in seguito aH'avvento del pec­ cato, in un Dio che ama. Dall'altro egli viene protetto dal fraintendi­ mento che egli non sia altro che la contingente esperienza dell'amore o del dovere oppure perfettamente identico con ciò che nell'uomo potrebbe essere dichiarato amore o responsabilità e che in seguito po­ trebbe venire definito Dio. Così vengono sottolineati entrambi gli aspetti: nel Figlio e nello Spirito Dio viene nella sua integrità a noi ep­ pure, allo stesso tempo, egli resta comunque colui che ci sta di fronte quale Signore. Secondo uno dei più famosi logici matematici dell'età moderna, Whitehead, la dottrina della Trinità è una delle conquiste maggiori del pensiero umano (cf. ancora excursus dopo 2 5 ,46). 2.0. Per Matteo è importante l'insegnamento e l'osservanza di (Le. 24,36 [cf. I 5]; Gv. 20, 1 9.26; 2 1 ,4). Colui che siede sul trono in cielo viene improvvisamente scorto dai discepoli perché egli si apre loro. Che egli venga a loro sulla terra è aggiunto solo dall'evangelista. Perciò si parla anche solo qui dell'adorazione dei discepoli, della pro­ clamazione del potere conferito a Gesù quale Signore universale, della sua presenza presso i discepoli e della fine del mondo nella quale tutto ciò verrà portato a compimento secondo il fine stabilito da Dio. Vice­ versa mancano i riferimenti alla realtà della sua presenza fisica che si trovano in quasi tutti gli altri racconti (Le. 24,3 9; Gv. 20,20.27; cf. 2 1 , 6) come la comunione conviviale (Le. 24,30.4 1 s.; Atti 1 ,4; 1 0,4 1 ; Gv. 2 1 ,9 s. 1 3) e lo scomparire alla fine (Le. 24,J 1 . 5 1 ; Atti 1 ,9; Mc. 1 6, 1 9). Gesù rimane certo presso i suoi discepoli fino alla fine del mondo. Per­ ciò anche l'invio (Le. 24,47 s.; Atti 1 ,8; Gv. 20,2 1 ; Mc. 1 6, 1 5) è conce­ pito diversamente. Ai discepoli non viene né conferito lo Spirito (Le. 24,49; Atti 1 ,4.8; Gv. 20,22 s.) né essi vengono esortati a predicare. In verità essi dovrebbero uscire nel mondo, ma per rendere i popoli di­ scepoli e insegnare i comandamenti di Gesù. Si tratta. di qualcosa di diverso dalla benedizione di Le. 24, 50 e anche da ciò che più è affine al nostro testo, le promesse di doni carismatici (Mc. 1 6, 1 7 s.). Gesù ri­ mane a fianco dei suoi discepoli e si afferma tra tutti i popoli non con la nuova proclamazione della comunità postpasquale, bensì con i co­ mandamenti da lui insegnati durante il ministero terreno, affinché Dio divenga già qui il Signore, finché un giorno stabilirà il proprio regno in eterno. Così, in sostanza, non si parla tanto di missione quanto del­ la comunità che vive nel discepolato, che certo per sua natura significa essere in cammino. Mentre i verbi «proclamare» ed «evangelizzare» passano, rispetto a Marco, in secondo piano in tutto il vangelo di Mat­ teo e il termine «evangelo» viene a significare più chiaramente e in maniera specifica il messaggio proclamato direttamente da Gesù (v. excursus a 7, I 3 -2 3 [3]), il loro posto è preso da termini come discepo­ lato, osservanza (dei comandamenti), andare. In vece dello Spirito in­ controllabile, Matteo parla della presenza di Gesù. Così il battesimo non è tanto un rito del conferimento della salvezza: «per la remissione dei peccati» è detto in occasione della cena che accompagna i discepoli per tutta la vita (26,28), non già del battesimo. Questo è piuttosto l'inizio di una vita nell'ubbidienza nella quale i discepoli rimangono, per tutta la vita, maestri e insieme scolari del regno di Dio (cf. 1 3, 5 2).

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lnvero alla fedeltà è promessa la salvezza. Così Matteo congeda i suoi lettori indicando loro colui che non abbandona i suoi discepoli fino al compimento finale. La promessa dell'inizio è stata mantenuta: l'Ema­ nuele (Dio-con-noi: 1 ,23) è qua e ciò che era stato promesso ad Abra­ mo per la sua progenie ( 1 , 1 ss.) è diventato realtà in lui: è diventato una benedizione per tutti i popoli. Volendo, si può parlare dell'eleva­ zione al trono di Gesù, a patto però che sia chiaro che l'interesse pri­ mario del racconto è il mandato ai discepoli, cioè alla comunità. Se si riconosce che la prima comunità si è immaginata la risurrezione di Gesù come glorificazione, diventa chiara anche la differenza con il salmo dell'intronizzazione nel quale doveva necessariamente compa­ rire il riconoscimento del nuovo Signore dell'universo da parte di tutti i popoli (Fil. 2, 1 0 s.; 1 Tim. 3 , 1 6). Mt. 28,1 8-20 va inteso come diretti­ va e assicurazione che colui che era asceso al trono dava ai suoi disce­ poli in tutto il mondo per l'intervallo tra il suo ministero terreno e il compimento del corso del mondo.

Retrosp ettiva

1 . Una delle più singolari reinterpretazioni si manifesta nell'episodio della confessione di Pietro. Il titolo di Figlio d eli 'uomo con il quale Mc. 8,3 I collega l'elemento decisivo, cioè passione morte e risurrezio­ ne di Gesù, è sì appropriato per il giudice escatologico (2 5,3 I ), ma per Matteo rimane ambiguo, come mostra r 6,3 1. Solo gli appel lativi, per lui sostanzialmente sinonimi, Cristo e Figlio di Dio, esprimono real­ mente chi Gesù sia. Perciò la sentenza di Pietro viene lodata quale di­ retta rivelazione di Dio { I 6, I 6 s.). In verità la comprensione della mes­ sianicità di Gesù è già messa al riparo, mediante l'accoglimento della storia della tentazione {4, I ss.), dal fraintendimento che egli sia un ri­ voluzionario, e il rimprovero di Pietro, che non può capire la via della passione, immediatamente successivo alla sua confessione, viene mes­ so da Matteo, rispetto a Marco, ancora più in evidenza (v. a I 6,23). La via di Gesù è quella del messia umile (I I ,28) e mite (2 I , 5). In che sen­ so, dunque, egli è il Cristo ? La riorganizzazione del materiale nei ca pp. 5 - I I , singolare dopo l'aderenza allo schema di Marco nei capp. 3 s. e I 2-28, deve avere per Matteo una grande importanza (v. intr. a 4, I 7- 1 I ,3o). Effettivamente nei capp. 5 -7 e 8 s. Gesù viene presentato come il messia della parola e dell'azione. La sua dignità messianica consiste dunque soprattutto nel­ l'insegnamento e nelle guarigioni. Sicuramente questa associazione è orientata verso la predizione profetica di I 1 , 5 (v. sotto, punto 2). L'in­ serimento del discorso missionario ai discepoli nel cap. ro mostra però che l'autorità di Gesù nella parola e negli atti continua a operare nei discepoli ( I o, 1 .7). Egli è dunque il messia perché crea per tutti coloro che lo seguono la possibilità di compiere la volontà di Dio con la pa­ rola e con i fatti. Così sta allora al centro del vangelo ( 1 2, 1 5-2 I ; cf. a 27, I 4) la raffigurazione del servo di Dio che predica silenziosamente e opera quale guaritore carismatico e la sua vita itinerante potrebbe es­ sere intesa quale anticipazione della via dei suoi discepoli (v. excursus a I , I 8-2 5 [3]). Matteo trovò probabilmente l'accesso concettuale a que-

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Retrospettiva

sta affermazione perché identifica Gesù con la figura della Sapienza, già nota al giudaismo, o del Logos (v. excursus a 23,34-39). Rispetto a Paolo e a Giovanni, dove la medesima identificazione serve a descri­ vere la vita del Figlio di Dio in cielo già prima della sua nascita, quella di Matteo è un'affermazione più semplice sia che rappresenti ora uno stadio ancora precoce della riflessione teologica sia che Matteo limiti uno sviluppo per lui eccessivo della dottrina a ciò che per un giudeo poteva essere affermato senza problemi. In ogni caso per lui è impor­ tante che l' «evangelo» predicato dopo pasqua non sia diverso da quel­ lo annunciato dal Gesù terreno (v. excursus a 7, 1 3 -23 [3]). Una cristo­ logia che vedesse in lui soltanto il kyrios («Signore») glorificato (Fil. 2,9- 1 1 ; 1 Cor. 1 2,3) p�r Matteo è sospetta. Perciò questo titolo manca in 28,1 8-20, per quanto sarebbe logico trovarcelo, e appare in 7,22 sul­ la bocca dei falsi profeti, mentre il cortese appellativo «signore>> rivol­ to al Gesù terreno è costantemente un segno della fede. Questi è dun­ que il precursore che apre la nuova via per i suoi discepoli. Perciò il vangelo chiude affermando che il Gesù glorificato continuerà a essere presente nei suoi comandamenti, annunciati dai suoi discepoli a quel mondo che egli si conquisterà (v. a 28,20). Perciò viene messa così tanto in risalto la fede che permette di compiere le opere potenti (v. a 1 4,3 1 ; 1 7,20; 2 1 ,2 1 s.). Perciò anche i discepoli non sono più, come in Marco, ciechi alla pari di tutti gli altri uomini, ma sono fondamental­ mente coloro che comprendono (cf. ad es. I J,I6 s.; 1 4,3 3 ; 1 6, 1 7; 1 8, 1 ; 20,20 con il corrispondente testo di Marco).

2. In che rapporto sta allora la comunità con Israele ? 1 1 ,2-6 dichia­ ra che Gesù compie le predizioni dei profeti. Già molto tempo prima di Matteo l'Antico Testamento è stato visto come il libro che descrisse in anticipo il destino di Gesù e dei suoi discepoli. Deve essere addirit­ tura esistita una vera scienza scribale cristiana che ha raccolto e com­ binato tra di loro tali riferimenti (v. a 27,3 - 1 0 intr.). Così anche i pa­ ralleli tra il racconto dell'infanzia di Gesù e la storia di Mosè sono stati scoperti già prima di Matteo (v. a 2, 1 - 1 2 intr.). ·Egli stesso ha in­ terpretato in maniera nuova il destino del Gesù perseguitato serven­ dosi delle citazioni profetiche, particolarmente abbondanti a questo riguardo, e vedendovi il decorso della predeterminata volontà- di Dio (v. excursus a 1 , 1 8-2 5). Già l'accoglimento delle storie dell'infanzia, ma soprattutto della genealogia che le precede, la quale mostra addi-

Israele e la comunità

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rittura la regolarità matematica· della storia di Dio che porta da Abra­ mo (non da Adamo, come Le. J,J 8) a Gesù, indicano che per Matteo l'Antico Testamento si adempie nella storia di Gesù� La storia della salvezza di Dio non è dunque interrotta. Ciò significa per lui che Dio resta fedele a Israele. Questa fedeltà arriva a tal punto che Dio, come sottolinea il solo Matteo, manda Gesù unicamente a Israele (I o, 5 s.; 1 5 ,24). Certo già la collocazione delle taglienti parole del Battista sul Dio che può far sorgere dalle pietre figli ad Abramo (3,7 ss.) dopo che la storia di Gesù ha preso inizio con Abramo ( I , I ) mostra già che es­ sere figli di Abramo non rappresenta alcuna garanzia per un popolo che non ascolta. Così la rielaborazione matteana dei discorsi di Gesù a Gerusalemme (v. intr. ai capp. 2 I -2 5 ) raffigura proprio in due riprese la lotta di Dio per Israele e il no del popolo a lui. Soltanto dopo che tutto Israele ha rifiutato l'offerta di Dio (27,2 5; ma v. lì e a I J, I J) si apre la via alla chiamata dei popoli che in I 2,2 r ; 2 8, I 9 appare il vero scopo dell'azione salvifica di Dio (v. 1 , 5 s.; 2, 1 ; 4, 1 5 ; 8 , I I ; 2 5 ,3 1 s. e a I,J). Ma anche qui si continua a insistere che la comunità non prende semplicemente il posto d'Israele. La parola consacrata, riservata a Israe­ le, per «popolo» non viene applicata alla comunità sebbene essa sia una «nazione» che porta i frutti che Dio aveva atteso invano da Israele (v. a 2 1,43). A dire il vero questa storia della salvezza ovvero della per­ dizione non interessa di per sé Matteo. Già la tradizione prematteana parlava del ripudio d'Israele e dell'elezione dei popoli (Mc. I 2, I - I 2; Le. I 4, r 6-23). Lo stesso Marco mise in evidenza persino più energica­ mente di Matteo il giudizio di Dio sul culto d'Israele racchiudendo la purificazione del tempio nella cornice della maledizione del fico e la conclusione della parabola del convito in Luca, «nessuno di quegli in­ vitati assaggerà il mio cibo», è molto più dura del riferimento mattea­ no alla distruzione di Gerusalemme (22,7) che forse lascia aperta una porta alla speranza una volta passato il giudizio (v. a 23,39; 27,2 5 ). Già prima di Matteo sono state usate categorie della storia della salvezza per questa evoluzione. Per l'evangelista stesso è però decisivo che tut­ to ciò serva di monito per la comunità. Anche se i discepoli di Gesù sono in linea di principio coloro che capiscono (v. sopra, punto 1 ), pure essi continuano a essere anche uomini dalla fede piccola e quindi esposti alla tentazione ( 1 4,30 s.). Proprio· nel passo in cui i discepoli vengono lodati e distinti da coloro che non comprendono ( r j , I J - 1 7) segue la parabola della zizzania con la quale Matteo ha sostituito quel-

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Retrospettiva

la parabola che si aspetta tutto da Dio e descrive il ruolo dell'uomo soprattutto nell'immagine di colui che dorme ( I 3,24-30; Mc. 4,26-29). A quella parabola probabilmente lo stesso Matteo ha contribuito con il severo avvertimento a guardarsi dal giudizio inserito nell'interpreta­ zione della medesima ( 1 J,40-43; cf. 49 s.). Quanto ci tenga a mettere in guardia la comunità dal giudizio risulta evidente dalla ripetizione frequente nelle parole dirette alla comunità ( I J,42. 50; 22, I 3; 24, 5 1 ; 2 5,30) della frase sul pianto e lo stridor d i denti ripresa d a Q , dove pe­ rò si riferisce a Israele (8, 1 2). Soprattutto l'intera struttura dei capitoli 2 1 -2 5 (v. la relativa intr.) mira a questa ammonizione. Il rilievo dato ai farisei nelle dispute di Gerusalemme (v. a 22, I 5) e la storia della guar­ dia alla tomba (v. a 28, I 5) dimostrano quanto Matteo sia ancora coin­ volto nel confronto col giudaismo. A questo proposito, come suggeri­ sce la collocazione del problema del tributo al tempio all'inizio del suo «ordinamento comunitario>> ( I 7,24-27; v. ad loc. ), Matteo tiene veramente molto a che la comunità costituisca per Israele un motivo non di caduta, ma se possibile di salvezza. Si nota il medesimo atteg­ giamento anche nella costante distinzione, prima di 27,2 5 (v. ad loc. ), tra il popolo giudaico, ancora aperto, e le sue autorità. Nel dibattito sulla tassa per il tempio è sottolineata la fondamen­ tale libertà dei figli di Dio in entrambi i sensi: essi sono liberi dall' ob­ bligo di pagarla, ma anche liberi di pagarla, per amore degli altri. Si po­ ne così il problema della legge. Già prima di Matteo la critica di Gesù alla legge è stata fortemente attenuata. Lo si nota tanto in Q quanto nella tradizione catechetica della comunità. Neanche uno iota della leg­ ge dovrà cadere ( 5, 1 8 = Le. 1 6, 1 7)· Ciò che è sbagliato nella religiosità giudaica è solo il voler fare bella figura agli occhi degli uomini ( 6,26. 1 6- I 8; 2 3, 5 ). Lo scribalismo farisaico andrebbe bene, se solo si agisse di conseguenza (23 ,2 s.). Matteo può riproporre queste sentenze per­ ché secondo la sua comprensione Gesù non ha abolito la legge, ma l'ha adempiuta. Ciò che egli propone è in verità nuovo, ma è una in­ terpretazione che porta la legge a compimento. Così il «ma io)) di Ge­ sù può persino contrapporsi alla legge del Sinai, come sottolinea pro­ prio Matteo che riversa nello stampo delle antitesi quanto è già detto in Q ( 5 ,2 I -48). Ma lo può fare soltanto perché unicamente nell'inse­ gnamento e nella vita di Gesù e della sua comunità avviene veramente ciò che Dio vuole nella legge. In Gesù si è infatti fatta carne (v. sopra, 3·

La comunità come schiera di discepoli

5OI

punto I , ed excursus a 23,34-39) la Sapienza di Dio che spesso è stata identificata con la Legge (Sir. 24,2 3; Bar. 4, 1 ecc.). La soluzione consi­ ste in questo: il comandamento dell'amore racchiude in sé tutta la leg­ ge e i profeti (v. a 5, I 8 ed excursus dopo 7,29 [b,6]). Sulla base di que­ sto comandamento saranno un giorno giudicate tutte le nazioni (2 5 , 3 I -46). Ciò significa che i l comandamento della misericordia i n qua­ lunque caso è superiore a quello del sabato, come mette in chiaro Matteo con la sua interpolazione in I 2, I . 7: quando però non è in que­ stione quel comandamento, il sabato va assolutamente osservato (v. a 24,20 ). Perciò Matteo orienta anche tutto il discorso della montagna che proclama, inquadrato tra 5 , 1 7 e 7, 1 2, il comandamento dell'amore quale adempimento della legge, mediante la sua nuova interpretazio­ ne della conclusione del discorso quale attacco ai falsi profeti la cui «iniquità» (anomia) consiste appunto nel trascurare l'amore (v. a 7, 1 3 23 intr.; 24, 1 I s.). Così il pensiero sapienziale ha aiutato ad ap n re a tutti i popoli, con la parola di Gesù, la volontà di Dio contenuta nella legge. 4· In questa prospettiva la comunità è vista quale schiera di discepoli nella quale Gesù continua a vivere perché essa insegna e osserva i suoi comandamenti (28, I 9 s.). Pertanto Matteo colloca le istruzioni per la vita della comunità dove già nel testo di Marco appariva la cura per «questi piccoli». Questa premura è legata come nessun'altra cosa al cuore della comunità. Perciò Matteo, in maniera simile a quanto ha fatto per la parabola della zizzania, ha interpretato una parabola di Ge­ sù che parlava dell'amore di Dio che va alla ricerca e soccorre, quale monito alla comunità ad andare dietro a ogni fratello in pericolo come il pastore fa con l'unica pecora ( I 8, I o- I 4) e ha tramandato le regole in vigore nella propria comunità per questi casi ( I 8, 1 5-1 8). Perciò egli legge la parabola del servo spietato, come si vede dalle parole conclu­ sive, quale severo ammonimento a non mettere in pericolo la comu­ nione fraterna con la mancanza di disponibilità a perdonare settanta volte sette. Perciò l'unico suo commento al Padrenostro consiste nel mettere seriamente in guardia dall'inconciliabilità (6, 1 4 s.). Perciò nel­ la parabola che assegna la paga piena anche ai lavoratori dell'ultim' ora Matteo pone l'accento primario sull'avvertimento a non invidiare (20, 1 - 1 6). Questo aspetto è per l'evangelista così serio da applicare adesso a colui che mette in pericolo uno «di questi piccoli» persino un

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Retrospettiva

misterioso detto sulle doglie degli ultimi tempi. Con tale veemenza Gesù interviene a loro favore! Soltanto una comunità che vive nell'a­ more è, come dice la prima pericope del discorso della montagna inse­ rita, rispetto a Q, da Matteo, sale luce e città posta sul monte per tutti coloro che stanno di fuori e con le sue buone opere indica al mondo il Padre in cielo ( 5, 1 3 - 1 6). A questo proposito l'inserimento del cap. I O tra la descrizione d i Gesù nei capp. 5-9 e la citazione di adempimento di 1 1 ,2-6 (v. sopra, I ) mostra che queste buone opere consistono nel fatto che, come Gesù stesso, discepoli continuino a proclamare il di­ ritto di Dio e guariscano con potere ( 1 o, I -7; cf. excursus a 7, I 3 -23 [2 e 7]). Forse Matteo vuole volutamente descrivere anche lo stesso Gesù quale precursore di siffatti carismatici (v. sopra, I ) . Ma è essenziale, come ribadiscono la conclusione del discorso della montagna (v. so­ pra, 3) e il discorso sull' «evangelo>> (v. sopra, I ), che in tutto ciò non venga dimenticato l'insegnamento di Gesù. Questo insegnamento è dato alla comunità soprattutto mediante Pietro che non solo ha tra­ mandato le parole di Gesù, ma le ha anche interpretate per il periodo dopo pasqua (v. a 1 6, 1 9). Tuttavia, sebbene la sua posizione all'inizio della tradizione rimanga unica, Pietro rappresenta esemplarmente tut­ ti i discepoli di Gesù ai quali è dato il medesimo incarico e la medesi­ ma promessa ( I 8, I 8}. Tra di loro vale unicamente la gerarchia para­ dossale di 1 8,4 e 2 3 , 1 I s. Così non compaiono mai guide della comu­ nità insediate in maniera particolare né altri incaricati di uffici; anzi viene esplicitamente rifiutata una gerarchia istituzionalizzata (23,8-Io; v. a 23,7). L'autorità della parola e degli atti avviene e non è istituzio­ nalizzata. Eppure Matteo resta evangelo. Nonostante alcuni spunti, non è schiavo della casistica, cioè del tentativo di stabilire esattamente, me­ diante precetti sempre più minuziosi, validi per ogni singolo caso possibile, che cosa si debba fare per risultare ubbidienti. Proprio Matteo ha messo in evidenza che la sequela è un tutto coeso, che ri­ chiede molto più dell'osservanza di regole sia pure strettissime: richie­ de un cuore integro e indiviso. Perciò la promessa «Dio con noi» ( 1 , 22) s i compie nell' «io con voi» detto dal Risorto (28,2o). Ciò non si­ gnifica che si riesca a evitare tutte le tempeste. Proprio Matteo vede nella barca minacciata dalle onde il simbolo della comunità (v. a 8,23 e 1 4,24) e nella persecuziqne la situazione normale, e non solo escatolo5.

Gesù salvezza dei «piccoli»

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gica, della comunità {v. a r o, 1 7-2 5 conci.; 5 , 1 0). Ma tale discepolato è inteso in Matteo quale dono. Per quanto egli avvicini il Battista a Gesù e faccia annunciare a questo il medesimo messaggio di quello (3,2), Giovanni resta il precursore che prepara la strada {3,3 ), mentre con quel messaggio (4, 1 7) Gesù è la luce stessa che splende per coloro che nella Galilea dei pagani giacciono nelle tenebre (4, 1 5 s.). Proprio Mat­ teo ha cercato di tener presente con i macarismi che aprono il discorso della montagna che questa dichiarazione di beatitudine non è sempli­ cemente una parola di sapienza valida per ogni stagione, ma è l'assicu­ razione autorevole di Gesù e quindi proclamazione del tempo ultimo che sta già diventando realtà (v. a 5,3- 1 2). L'autorità dei discepoli esi­ ste soltanto nella partecipazione alla sua autorità (9, 1 - 8; I 0, 1 .7.24 s. con l'immagine della famiglia). Così è soltanto il cammino che Gesù stesso percorre a creare per la comunità la possibilità di vivere nel di­ scepolato (v. sopra, punto 1 ). Perciò anche il «segreto messianico)) è interpretato in maniera del tutto diversa da Marco. Esso non significa più che Gesù non fu capito da nessuno prima della sua passione e ri­ surrezione. Secondo Matteo esso significa che egli ha operato quale servo di Dio, in totale silenzio, per la salvezza dei deboli (v. a 1 2, I 5-2 1 cond.). Anche se ha ripreso l'interpretazione della morte di Gesù quale riscatto per molti (20,2 8) senza farne il centro della sua teologia, pure solo la liturgia eucaristica della sua comunità contiene l'aggiunta «per la remissione dei peccati)) ( 26,2 8; cf. I ,2 1 ) e se egli lega il perdono di Dio al perdono costante e ripetuto verso il fratello, se necessario settanta volte sette { I 8,22.3 5; anche 6, 1 2. 14 s.), egli pensa certamente al perdono di Dio che si rinnova di continuo e la cui ricchezza e ab­ bondanza può essere descritta soltanto con immagini al limite dell'im­ maginabile (v. a I 8,24). Così, allora, il carattere di dono e di grazia che impronta tale discepolato è sottolineato anche dall'aggiunta della nuo­ va beatitudine dei discepoli ( I 3 , 1 6 s.) e dall'invito salvifico che pro­ mette ai piccoli, ai travagliati e aggravati il giogo buono e il carico leg­ gero ( 1 I ,28-3o). Tutto ciò viene espresso nella maniera più toccante nel nome del discepolo di Gesù tipicamente matteano, anche se non coniato da lui (Mc. 9,42): uno di questi miei piccoli. Così proprio la co­ munità che corre il pericolo della piccola fede può farsi indirizzare, volta dopo volta, con animo semplice, lontano dalla doppiezza del dubbio, a colui che solo le viene in aiuto: Gesù, che è vero Figlio di Dio ( 1 4,3 1 -33) e rimane al suo fianco fino alla fine del mondo (28,20).

Bibliografia

Commenti scientifici

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Schniewind, J., Das Evangelium nach Matthaus (NTD 2 ) , 111968 (tr. it. Il Van­ gelo di Matteo, 1973). Schmid, J., Das Evangelium nach Matthaus (RNT 1), 5 1 965 (tr. it. L 'evangelo secondo Matteo, 1957). Stendahl, K., Matthew in: Peake 's Commentary on the Bible, 1962, 769-798. Minear, P.S., Matthew, 1 982. Beasley-Murray, G.R., Matthew, 1 984. Schnackenburg, R., Matthausevangelium, I98 5 . Monografie

Davies, W.D., The Setting of the Sermon on the Mount, 1963. Trilling, W., Das wahre Israel. Studien zur Theologie des Matthausevange­ liums, 3 1 964 (tr. it. Il vero Israele. Studi sulla teologia del vangelo di Mat­ teo, 1 99 2 ) . Hummel, R., Die Auseinandersetzung zwischen Kirche und]udentum im Mat­ thausevangelium, 2 I 966. Haenchen, E., Der Weg ]esu, 2 1968 . Bornkamm, G. - Barth, G. - Held, H.J., Oberlieferung und Auslegung im Mat­ thausevangelium, 6 I 970. Strecker, G., Der Weg der Gerechtigkeit. Untersuchungen zur Theologie des Matthi:ius, 3 I 97 1 . Stendahl, K., The School of St. Matthew and its Use of the Old Testament, 2 1 968 . Suggs, M.J., Wisdom, Christology and Law in Matthew 's Gospel, 1970. Schweizer, E., Matthaus und seine Gemeinde (SBS 7 1 ), 1974 (tr. it. Matteo e la sua comunità, 1987).

5 06

Bibliografia

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Maier, J., Die Texte vom Toten Meer I (traduzione) II (note), 1 960. Lohse, E., Die Texte aus Qumran, Hebraisch und Deutsch, 2 I 97 I . Sue anche le traduzioni di 4QDib (a CD I 5 , I 5 - 1 7) in Leipoldt, J. - Grundmann, W., Umwelt des Urchristentums 1 ( 1 965) 263 n. 22 1, e di 4Q243 : NtSt 20, 39 1 394· [Garcfa Martfnez, F., Testi di Qumran, ed. it. a.c. di C. Martone, 1 996]. Apocrifi e pseudepigrafi

Kautzsch, E., Die Apokryphen und Pseudepigraphen des Alten Testaments, 2 voli., 2 192 1 . Riessler, P., Altjudisches Schrifttum ausserhalb der Bibel, 1 928. Hennecke, E. - Schneemelcher, W., Neutestamentliche Apokryphen I, 3 1959; II, 3 I 964. Dà anche pratico accesso ai Padri apostolici. [Sacchi, P. (ed.), Apocrifi dell'Antico Testamento I, 1 98 1; n, 1989; III, 1 999; IV, 2000; v, 1 997]. [Erbetta, M., Gli Apocrifi del Nuovo Testamento I/ I, 1975; 1j2, 198 I ; II, 1966; III, 1 98 I ]. Sui problemi toccati nell'introduzione si vedano introduzione e bibliografia in Schweizer, Il vangelo di Marco, 1 999· L'uso di una sinossi è quasi indispensabile. Pratiche sono quelle di C.H.

Peisker che segue il testo della Bibbia di Zurigo C0197o) e di J. Schmid che se­ gue il testo del N.T. di Regensburg (5 1 968). Ringrazio la Fondazione per la ricerca scientifica presso l'Università di Zu­ rigo per il contributo a un viaggio di studio in Palestina.

Indice analitico a cura

di Gotthold Holzhey

Poiché nomi e concetti presenti nel testo biblico possono essere ricercati in dizionari biblici disponibili in gran numero, in questo indice analitico sono stati accolti unicamente quei lem­ mi che nel commento al testo sono stati trattati specificamente. I numeri rinviano quindi al­ l'esegesi delle pericopi corrispondenti. Per evitare ripetizioni e tuttavia offrire nel modo più completo possibile concetti tra loro intimamente legati da più relazioni, sono state inserite le opportune indicazioni con la freccia in avanti o indietro (� �) . I particolari excursus inseriti nelle singole esegesi sono contraddistinti dalla lettera E. abbandonato da Dio (Gesù), 4,6; concl. a 27, 45-54 Abramo, 1 , 1 ss.; conci. a 1 , 1 - 1 7; 3,9; 23,8- 1 0 adempimento � comandamenti, � giustizia, � legge, � promesse, � Scritture, adempimento delle adorazione, 6,9 di Gesù, 2, I - r 2; 2, 1 ; 8,2; 28, 1 6-20; 2 8, 1 6 adulterio, 1 , 1 8; intr. a 5,2 1 -48; 5,27-30; 5,28 ss.; 7,28 s. E « Discorso della montagna» [a, 5]; 1 2,39; 19,9 afflitti, gli, s,3- 1 2 E [5]; 9, 1 5 albero, intr. a 7, 1 3-23; 7, 1 6- 1 8; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b,4]; 1 2,J3-J 5; I J, 3 1 ss. alleanza di Dio, 5,48; 7,7.8; 1 9, 1 6-3o; 26,28 con Israele, 3,9. r 5 E; 5,9 E; 5 , I 3; 6,9; 1 5,25. 26; intr. a 1 9, 1 6-30 amen, 5 , 1 8; 5,26; intr. a 6, 1 - 1 8; intr. a l cap. 1 8; I 8,J4i I 8, 1 2. 1 3i 1 8, 1 9 s.; 19,24 amore, comandamento dell'amore, 4,2-4 E; conci. a 5,43-48; 6,24; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [c,3]; 1 0,37; conci. a r 5 , 1 20; 24, 1 2.22; conci. a 26,47- 56; retrospet­ tiva [4] di Dio, 5,48; 7,7- 1 2; conci. a 1 1,25 -30; 28, 19 E verso Dio, 5, 1 8; s ,2o; 22,39; 24, 1 2 verso i fratelli � fratelli, amore per i verso il nemico, intr. a 5,2 1 -48; 5,43-48.43 ss.; 7,2 8 s. E «Discorso della montagna» [b,6; C,4] di Gesù (� fratelli, amore per i), 5 ,9; conci. a 5,43-48; 7,2 1 -23; 7,28 s. E «Discorso

della montagna» [b,6]; 25 ,37.36; concl. a 2 5,3 1 -46; retrospettiva [3] e fede � verso il prossimo � prossimo, amore del angelo [potenze angeliche], 1,2o; 2, 1 3; intr. a 4, 1 - 1 1; 4,5 -7. 1 r ; 6, r o; 1 0, 32 · 33; 1 r , 1 o; 1 3, 47 ss.; I 6,27; r 8, ro; I 9,28; intr. a 2 5,3 1 -46; 28,2 ss. anima, 6,2 5 ; 1 0,27; 1 0,28 anomia, 7,2 1 -23; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b,6]; 1 3,36b-43; 24, 1 2; retrospettiva [3] anziani [ufficio degli] (presbiteri), intr. a 7, 1 3 -23 E [6]; 2J,8- I O del popolo, 26,47; 27, 1 apostasia � fede apostoli, intr. 7, I 3-23 E [ 1 ]; 1 0,2; r 6, 1 8 ascensione [assunzione in cielo] di Gesù, 5 , 5 ascesi, intr. a 7, 1 3-23 E [7] avversario di Gesù c� sommo sacerdote, � giudei, � farisei, � scribi), intr. a 1 2, 1 - 1 6, 1 2; 1 2,3 1 · 3 2; I 3, 1 6; 2 1,45 battesimo, 3,8; 6, 1 6; intr. a 7,1 3-23 E [7]; intr. a 1 4, 1 - 1 2; r 8,3 .4; conci. a I 8, I -5; 27,49; 28, I 9b; conci. a 28, 1 6-20 di Giovanni, 3,I r; conci. a 3 , I 3 - 1 7 d i Gesù ad opera d i Giovanni, 3 , 1 I ss. 1 3 ss.; 3, 1 5 E ; intr. a I I ,2-6; 1 2, 1 8; 2 8, 1 9 E beatitudini di Gesù, 5,3 ss.; 5,J- 1 2 E [ I s ] ; 5 , 3; 5 ,7; conci. a 5,3- 1 2; intr. a 7,7- I 2; conci. a 7,24-27; 7,28 s. E «Discorso della mon­ tagna» [a,6; b, 1 .4]; conci. a 9,27-34; intr. a I I,25-30; I J, I 6. 1 7; COnci. a 1 8, 1 - 5 ; 24,5 1 ·

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Indice analitico

Beelzebul, 9, 3 2- 34; I 0,24; I 2,24; I 2,43 ss. bene e male (+-), bontà, 4,2-4 E; intr. a 5,2 I 48 [43-48]; S ,37· 39 ·45; conci. a 5,43-48; intr. a 7,7- 1 2; 7,9- 1 I . I J. I 4; conci. a I 3,36b43; I 3,47 SS .; 16, I 7; 1 9, I 6 S. benedizione, 5,3- I 2 E [ I]; 7,24; IO, I 2. I J; 1 9, 1 3 ss. beni [mancanza di] (� mammona, � ricchez­ za), 6,20.24 libertà dai, 6, I9-34; intr. a 6, I 9- 34; 6,34; I 9, I 6-3o; I9, I 6 ss. bestemmia (� bestemmia contro Dio), I 2,3 r . J 2; 26,63 contro Gesù, I 2,3 I . 3 2 contro lo Spirito, I 2,3 1 . 32; 1 2,36.37 bestemmia contro Dio (� bestemmia), intr. a 5,2 I -48; 9, I SS. 9 bontà [di Dio], 3 , I 3 E; 5,46; 6, r 8.2 5; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b,2]; I 2,91 4; conci. a r 8,2 1 -J 5; 20,I 5 buona novella � evangelo casa (-e) (fig.), le due, 7,24 ss.; conci. a 7,2427 celibato, intr. a 7, I 3-23 E [7]; I 9, 1 0- 1 2; conci. a I 9, 1 - 1 2 cena, ultima, J , I ss.; 6, 1 1 ; 7,6; conci. a I O, I 1 6; I 4, I 9 ss.; 26,27; 27,49; conci. a 28, 1620 chiamata, 22,3; 22, I I - I4 chiavi [potere delle], I 6, I 9; 2 J, I 3 della conoscenza, 2 3, I 3 del regno dei cieli, I 6, I 7- 1 9. 19 della morte e dell'Ade, I 6, 1 8 chiesa (� comunità), conci. a 4, 1 - I I ; conci. a 5, I 3- 16; conci. a I 0,42- 1 1 , 1 ; conci. a 1 3, )6b-43; 1 3,47; 1 6, 1 7-I 9. 1 8 in senso figurato: barca, 8,23; 1 4,28-3 I .24. 33; retrospettiva [5] cieco, cecità (interiore), 9,27 ss.; 9,32-34; I J, 1 4. 1 5 ; I 5, I 4; conci. a I 5, I - I o; 20,29 ss.; 2 I , I4; 23,26 cielo, 5,5; 5,9 E; 5, I 8; intr. a 5,2 1 -48 [3 3-37]; I 6, r 6 nuovo, 5,6 e terra, 28, I 8 circoncisione, 5,32; 7,6; IO, I; 23, I 5 del cuore, intr. a 6, I - I 8; 7,28 s. E «Discor­ so della montagna» [b,3] citazioni della Scrittura nel vangelo di Mat­ . teo � Scritture, adempimento delle

colpa (-e), 5 ,26; 6,1 2; intr. a 7, I-6; 1 8, I 8 E; I 8,24.27 perdono della, 6, I 2; 1 8, 1 8 E comandamenti di Dio [i dieci], 5,2 1 -48.2 1 . 28.33; 7,8; 7,28 s. E «Discorso della mon­ tagna» [b,2]; I 5,2-8. 1 9; conci. a I 5,1 -20; conci. a 19, I 6-3o adempimento/osservanza dei, 5 ,43; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b,6]; 8, 22; I 9, I 7 ss.; 23,4; conci. a 23, I -39; 28, 20; retrospettiva [ 4] di Gesù, 5 , I 9; intr. a 7, I 3-23 E [3.6] ; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a,2]; 28,20 comandamento, sommo, 2 2,J4 ss. comunione con Dio, 5,8; 5,9 E; 6, I J; 8, 5 ss. 20 ss.; 9, I4 ss.; 2 5 , I tra gli uomini, 7,28 s . E «Discorso della montagna» [b,6]; retrospettiva [4] comunità di Dio e Gesù Cristo (� discepo­ lato, � chiesa), 1 6, I 7- 1 9; 1 8, I 6. I 9 s.; conci. a I 8,2 I -3 5 ; conci. a 20,20-28; intr. ai capp. 2 I-25; 2 I ,45; conci. a 22, I - I 4; 23,8-1 0; conci. a 23, I -39; retrospettiva [2· 3·4·51 comunità, capo della (� ufficio), intr. a 7, I J2J E [6]; I 8, r 2 s.; I 8, 1 6 s.; 24,4 5 - 5 1 confessare, confessione, 1 0,26-33; 1 0,26 a Dio e Cristo, 4, 1 - I I; 6,9; 7,2 1 -23; 10,32. J J; 10,28; 1 0,34; 1 2,30; I4,28-3 1 ; I6, I 3 di Gesù, 26,57-7 5; 26, 5 7 ss. 20 di Pietro, I 6, I 3-20. I 7- I 9; retrospettiva [I] conoscere, conoscenza (� conoscenza di Dio), 9, I ss.; I 1 ,27; 1 3, 1 r conversione � ravvedimento, appello al rav­ vedimento corpo, 6,22-23.25; 10,28 e anima, I o,28 creatore, creazione [di Dio], I , I 8; I ,2 3 E; 3, 9; 5,5; 5 ,9 E ; intr. a 5,2 I -48 [43-48]; 5,45 s.; 6, I 0.2 5 ; I 2, 1 2; conci. a I 8,2 I - 3 5 ; conci. a I 9, I - I 2; I9,28 Cristo, figura di, nel vangelo di Matteo, conci. a 8, 5 - I 3; 1 I, 1 I; conci. a I I,2 5 -30 croce [crocifissione] di Gesù Cristo (morte di croce), 4, 1 - I 1 .6; 5 ,22; 7,28 s. E «Discor­ so della montagna» [a,b ]; 1 0,23; 10,34 ss. 3 8; 1 1 , I 2; 1 2,4 1 .42; I 6, r 6; conci. a I 6,2 I 2 J ; 1 7,27; 20, 1 9; 23,34-36; 24,30 s.; 26,2; conci. a 26,47- 56; 27,22.24; 27,32-37; 27, 32 ss.; 27,36; 27,38-44; 27,38 ss.

Indice analitico [croce] discepolato all'ombra della, 10,34-39; I O, 34 SS. teologia della, 1 r ,8; I 6,2 I -23 culto (--+ sacrificio), 5,2 3; 6, 1 1 ; conci. a 1 1, I 8; 2 I , I 2 ss.; 2 I , I 2-22 cuore, 5,8. 1 2.22.28; conci. a 5,43-48; intr. a 6, I 9-34; 6,2 I ; 7, I 6- I 8; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a,5 ; b, 1 .3; c,4]; I 2,J4; I 2,43 ss.; conci. a 1 5 , I - I o; I 5,I9; conci. a I 8,2 I -J 5 Davide [figlio di], I, I ss.; I 2, 5 Gesù, 1 ,2o; conci. a 2, I 3-23; intr. a -� I 71 1 ,30; 9,27 ss.; 1 2,22 ss.; 1 5 ,22-24; 10,29 ss.; 2 1 ,9. 1 4; 22,4 I -46; 22,4 1 ss. demone (-i), 4,2 5; 8,28 ss.; 1 2,22-24; I 2,43 ss. cacciata dei, intr. a 7, 1 3-23 [2 I -23]; intr. a 7, I 3-23 E [7]; conci. a 7, I 3 -23; 8, I 6 s.28 ss.; 9,3 2-34; I0,24; 1 2,22 ss.; conci. a I 2, desiderio, 4,2-4 E; 5,28 2 2-37 diavolo --+ Satana digiuno, 4,2-4; 6, I - I 8; 6, 1 . 1 6 s.; conci. a 6,91 3; 7,2 8 s. E «Discorso della montagna» [b, 1 . 3]; 9, I 4 ss.; I 7,2I Dio, conoscenza di (-+ conoscere), 7,7.8; 1 1, 26 Dio, questione di, 3, I 3. I 6. 1 7; 4,2-4 E; conci. a 4, I - I r; 6,22-23; 9, I 4 ss.; conci. a I o,2633; 1 I ,27; conci. a I 1,25-30; conci. a 23, I 39; 28, 19 E discepoli [discepolato] di Gesù (comunità, gruppo dei discepoli), intr. a 4, I 7- I I,2o; intr. a 4,23-2 5; 4, 1 8.25; 5 , I s.I 2. I 3 ss.; 5, I 3; conci. a 5 , I J - I 6; 5,2o; conci. a 5 , 1 7-20; conci. a 5 ,43··48; 7, I 3-23; intr. a 7, I 3 ss.; intr. a 7, 1 3-23 E [ 1 . 5]; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a, 1 . 2; b,3; c,2]; 8, 1 8 ss. 23; 9,9; I O, l SS. I I S. l 6 S. 17 SS.23; 1 0,26-33; 10,28; I0,34; I 0,4 1 ; conci. a I I ,2-6; concl. . a 1 1,2 5 -30; I 2,50; I J, I O SS.I 6. I 7; I 3,3 I SS.; 14,28-3 1 ; conci. a I 6, I - I 2; conci. a I 6, I J 2o; intr. al cap. 1 8; I 8, I 5 s.; I 8, 1 8 E; intr. a 1 9, 1 6-30; I 9,2 I ; conci. a 20,20-28; intr. a l i , 1 2-22; 2 2,4; concl. a 2 2, I - 1 4; conci. a 23, 1 -39 E; conci. al cap. 24; conci. a 27,3 - I o; 18, 1 6; 28, I 9; conci. a 18, 1 6-20; retrospet­ tiva [5] vocazione, 4, I 7 ss.; 9,9; I 3,48 invio, intr. a 7, I 3-23 E [ I ]; 9,3 5 ss.; intr. a I O, I - I 6; I o,8 ss.; I0,4 I; conci. a 2 8, I 6-2o ·

5 09

[discepoli] ubbidienza dei, 1 ,1 8-25 E [2.3] ali·ombra della croce +sofferenza dei � persecuzione dei +rapporto con Dio e Gesù, conci. a 5 ,.4348; 6, r o; I 0,2o; r o,26-3 3; conci. a I0, 1 724; 1 2,46 ss.; I J, 1 6. I 7; l 5,16; I 6,24; 26, 30-3 5; retrospettiva [I ] rapporto con i l popolo, r 3,36a; conci. a 1 3,36b-43; 1 6, I - 1 2; conci. a r 6, I - 1 2 di Giovanni -+ Giovanni Battista, discepo­ li di disciplina ecclesiale, conci. a 7, 1 -6; 1 8, 1 8 discorso (--+ parola), 1 2,J 3-3 5 ; 1 2,34i 1 5, 1 9 di Gesù [--+ montagna, discorso della], intr. a 4-, I 7- I 1 ,30; 4. 23; 7,2 8 s.; 24-,4 ss.; 2 5 , 3 1 ss. disputa -+ farisei, -+ sadducei, -+ scribi divorzio, 5 , 1 8; intr. a 5,2 I -48; 5,3 1 s.; I9,3 SS. donna (-e), 5,28.3 1 s.; conci. a 5,.43-48; 20,20; 17, 5 5 ss.; 2 8,8- r o; 28,1 s. dubbio, I4 , J I SS.JJ dubitare di Gesù, I I ,J.6; 1 1 ,4. 5; conci. a 1 1,1-6 elemosina, intr. a 6, r - 1 8; 6,I s.; conci. a 6,9IJ elezione, 1 , 3 . 5 ·6; 3,9; 1 1 ,26 ss.; conci. a 1 6,1 I ­ l 3; 2 2 , 1 1 - I 4; retrospettiva [2 ] Elia, 3,1 ss.; I I , I 2- I 5 . 1 0. I 4; I 6, 1 4; I 7,J. IO­ I J. I I ; 27,46 Emmanuele, 1 , 1 8-25 E [ 1 .2.3]; 1,23; 1 ,13 E; conci. a 2, I 3-23 empi, empietà, 6,2; I 2,J6·J7; 24,45 eresia [eretico], 7, I 5; 24, I 2 Erode il Grande, 1 , 1 8; 1 , 23 E; intr. a 2,1 - 1 2; 2, 1 ss. I 6 ss. e Gesù, conci. a 2, I - I 2. 1 6 Erode, tetrarca, intr. a I 4, I - 1 2; 14,I ss. esaltazione di Gesù, 8, 1 7; conci. a 2 5,3 I -46 E; 26,63; conci. a 26,5 7-75; 28, 1 8; 28, 1 8. 10; 28,I 8; conci. a 28, 1 6-20; retrospct. ( 1 J espiatrice, morte, di Gesù, 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a,6] espiazione, 5,23; conci. a 5,3 8-42 espiazione, sacrificio di, 26,28; concl. a 27, I I -26 evangelo [buona novella], 4,23 ss.; intr. a 7, 1 3 -23 E [3]; 7,2 8 s.; I 1,4. 5; conci. a 1 1,2-6; conci. a 2 8, r 6-2o; retrospettiva [ 1 .4. 5J

5 Io

Indice analitico

fame [affamati] J,3- 1 2 E [s]; s,6; 6, 1 I famiglia, 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a,4]; 1 0,37 di Gesù, vera, u�6- so fare, opere, azione, 3,8; 6,4.26; conci. a 7, 1 -6; 7, I 6- 1 8; intr. a 7, 1 3-23; 7,28 s. E «Discor­ so della montagna» [a,5,6.7; b,J]; I 3 , I 4. I 5; 1 3, I 8 ss.; conci. a 1 5, I -2o; I 6,27 di Dio, 1 3,24 di Gesù (-+ parole), intr. a 4,I 7- 1 1,Jo; conci. a 4,23-28; conci. a 5,3- 1 2; conci. a 8,5- 1 3; I 1 ,4. 5; I I , I 9C; I 2,28; 1 2,3 1 . 3 2; conci. a I 2,3 8-42; retrospettiva [ 1 ] e udire, 7,24; conci. a 7,24-27; 7,28 s.; e insegnare � conci. a 2 5 ,3 I -46 messia dell'a. � parola e � farisei, fariseismo, Ìntr. a J,7- I O; 5,3; 5,20; conci. a 5,1 7-20; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b, 5.6; c,2 ]; conci. a 23,I -39; retrospettiva [2.3] avversari di Gesù, intr. a 4, 1 7- 1 I, Jo; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [c, 1 ]; 9, 9 SS. I J • 1 4·32-J4; I 2,22-24; 1 2,4 1 .42; I 5, 1-8; I 6, I - I 2; I 6, I SS. I 7- I 9j 1 9,3 SS.; 2 I , 4 5; 2 2 , I 5 SS. 3 4 SS.; 22,4 1 SS.j COnci. a 22, 4 I -46; 2J, I ss.; 23,1 ss. fede, 4, 5; 5,3; 5,8; 5,9 E; conci. a 6,9-IJ; conci. a 6, 1 9-34; 7,28 s.; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a,3 .7; b, r .2; c,2.4.5]; 8,5 ss.; 9,27 ss.; I 1,3.6 ·4· 5; conci. a r 1,2-6; I r , 1 9c; 1 I , 2 5 ; conci. a 1 2,22-37; I 2,39; conci. a u, 38-42; conci. a 2 I,28-3 2; concl. a 22, I - I 4i 23,23; 23,24i 24,45; conci. a 25 ,3 I -46; conci. a 26,47- 56; intr. a 27,62-66; conci. a 27,62-66; conci. a 28, r - r o; conci. a 28, I l ­ I 5; retrospettiva [ 1 ] i n Dio e Gesù Cristo, I,2J E; 5,4 5; 6,26 ss.; conci. a 6, 19-34; 7,2 1 -23; intr. a 8,1 -4; 8, 5 ss.; 9,22; conci. a 9,27-34; I 4,3 I ss.; conci. a 7, 1 4-2 1 ; r 8,6 libertà della, 7,28 s. E «Discorso della mon­ tagna» [c,4] apostasia (ricaduta) [-+ incredulità], 7,6; 1 2,4 3 ss.; 24,9 s. · e amore, 7,28 s. E «Discorso della monta­ gna» [c,6] e guarigione, 8,5- I o; 9, 1 ss. I 8 ss.; conci. a 1 2,22-37; 1 5 ,22-24; 1 7, I 4 ss.; conci. a I 7, 14-2 I ; I 8,6; 2 I ,2 r .2 2

[fede] e miracoli � fede, fiducia (in Dio), conci. a 5,43-48; 6,26; 7,28 s. E «Discorso della montagna>> [h, I ]; 1 2,39; 2 7,) 8 ss. fede, poca, essere di poca · fede, 8,26 s.; I 4J 22-36.24 s.J I ; r 6,4. 5; 1 7, 1 9 s.; retrospetti­ va [5] fico, intr. ai capp. 2 1 -25; 2 1 ,2 1 .21; 24,3 2-36 figli, I 2,2 7 di Dio (discepoli/cristiani), 5,9 E ; 5,45; intr:. a 5,2 1 -48 [43-48]; 1 3 ,39; conc i. a I J, J6b-43; conci. a 1 7,24-27 del demonio, 1 3,38 s.; conci. a I 3,36b-43 figli di Dio ( -+ figlio), 5,9 E figlio, I 2, I 7-2 1 . I 8 di Dio (Gesù Cristo), intr. [4]; I , I 8; I ,2J E; intr. a 2,1 3-23; conci. a 2, 1 3-23; 3,I 7; intr. a 4, I - I r ; 4,2-4.4; conci. a 4, 1 - I r ; intr . a 4, 1 7-I 1,30; 4,2 5; 5,9 E ; 1 4,28-J I . JJj 1 6, 1 7-19. 1 6; 1 7,27; 22, I I - 1 4j 24,30j 26,67; 27,3 8 ss.; 28, 1 9 E; retrospettiva [l] figlio, essere, 1 r , r 6- 1 9; intr. al cap. I 8; r 8, I-5; r 8,2 ss.; 1 8,3.� r 8 ,4; 1 8,6; 1 9, I 3 ss. r 3 - I 5; 2 I , I 2-22 di Dio (-+ figli di Dio), 3,9; 5,9 E; r 1 , 1 9 C di Abramo, 3,9 accogliere, 1 8, 5 Figlio dell'uomo: Gesù (-+ soffrire, -+ giudi­ ce), 8,20; 9, I ss.; I O,J2.J Jj I I, I 6- I 9j I 1 , 1 6; 1 1 ,27; 1 2,3 1 .3 2; 1 3,37 ss.; I 6, I J.28 s.; intr. a I 9, I 6 - 3o; 24,4 ss.26-28; 24,43; 26,2; re­ trospettiva [ 1 ] figliolanza divina -+ figlio d i Dio, -+ figli di Dio fine, attesa della, tempo finale [attesa del tempo futuro] (-+ ritorno di Gesù), 3, 12; s ,3- 1 2 E [ r . s ]; 5,3; 5,� 5,5; 5,6; conci. a . 5,3 - 1 2; 5, I 8; 6, 10. 1 I . I J.JJ; 7, 1 5.2 1 -23; 7, 28 s. E «Discorso della montagna� [a,4; b, 6]; 8,24; 9, I 3; 10, 1 7 ss.; 1 0,23; conci. a ro, 1 7-24; I O,J4i 1 1,2-6.4·5 · 1 0.27; 1 2,23; I J, I I . . 39; r 6, I 4. 1 8; 1 7,6.7; 1 8,6; conci. a I 9, 1 - 1 2; 1 9,28; 24,4 ss.; conci. al cap. 24; conci. a 2 5 , 3 I -46 E ; 26,29.54; 28,) . 1 9a; 28, r 8; conci. a fonte Q -+ Q 28, 1 6-20 fornicazione, I , I 8; 5,28.32; 1 9,9 fratello, fratelli, fratellanza, 5 ,26.47; 6,9- I 3; 7,1 -6; intr. a 7, I -6.3-4; I 8,1 5 - I 8; I 8, I 5 ss.; 1 8, 1 8 E; 2J,8- I O ·

Indice [fratello, -i] d i Gesù, 1 2,50; 1 3, 5 5 respo nsabi li tà per i , I S,ro- 14; 1 8,10 ss.; r 8, I 2 s.; r 8, 1 8 E; retrospettiva [4] fratell i , amore per i, 7,28 s. E «Discorso del ­ la montagna>> [c,1]; 1 8,14; 1 8, 1 5; 1 8,1 8 E; r etro sp e tt iva [4] fru tto (- i ), J,8; i nt r. a 7, 1 3-23; 7, 1 5-20. 1 6- 1 8; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b,4]; 1 2,3 3-35; 1 2,33 s.; I J, 1 8 ss .; 2 1 t43 futuro, attesa del � fine, attesa della

Galilea (dei pag ani) , galil ei , 4, r 3; conci. a 4, 1 2- 16; 4,23 ; conci. a 4,23-25; 26,69.73; 28, 6; retro sp ett i va [ 5 ] gen erazion e, «questa», 1 1,19c; 1 2,3 8·43 ss.46 ss.; 1 7, 1 7; 24,3 2-36 Gerusalemme, intr. a 5,2 1 -48 [33-37] Gesù a, intr. ai capp. 2 1 -25; 2 1, 1 - 1 1; .2 1, 1 ss.; 27, 5 2 s. parola di G esù a, 23,3 7-39 destino, distruzione, int r. [5]; intr. a 4, 11 1 ; conci. a 4,1 - 1 r ; 10, 1 7; r6, 17- 1 9; 22,7; 23,3 7 ss.; 2},1 -39; retrospettiva [2] Giacomo, 1 7,2 ss.; 1 9,28 gioia, 6, 1 7 s.; 7,28 s. E « D iscorso della mon­ tagna » [b, 1 ]; 1 3,44 ss .; conci. a 22, 1 - 14; 25, 2 1 ; 28,8 di Dio, r 8, r 2 Giona, segno di, 1 2,38-40; 1 2,3 8 ss.39; 1 6,4. 5·17 e Ge sù, 1 2,}8-4o; 1 2.40 giorno del Signo re, 7,21 -23; 24,43.44; 2 5, 1 3 della responsab ilità +Giovanni Bat t ist a, J , I ss.7 ss. 8; 4, 1 2 ss.; in tr. a I I ,2-6; 1 1, 1 2- 1 5 . 1 6- 1 9, 1 1 . 1 3; 14, 1 - 1 2; 14, : r ss.; 1 7, 1 1 ; 28, 1 9b e Gesù, J,l ss . 1 3 ss.; concl. a J, I J- 1 7; intr. a 4, I 7- 1 1 ,Jo; 4, 1 7 ss.; intr. a 1 1 ,2-6; 1 r ,7 SS. I J . I 8. 1 9; conci. a 1 1 ,7- 1 9; 1 2,3 3-35; 14,1 - 1 2; intr. a I4, 1 - 1 2; concl. a 1 4, 1 - 1 2; 2 1 ,3 2; ret rospettiva [5] battes i mo +Giovanni Battista, discepoli di, J, I 4. I 5; intr. a 4, I 7- 1 I , Jo; 9, I 4; intr. a 1 I,2-6; 2 8, 1 9b e co mu ni tà di Gesù, 14, 1 - 1 2 Giuda Iscariota, 26, 14- 1 6; 26, 14 ss. 2 1 ss.; 27, 3- I0.3 ss.; conci. a 27,3 -10 giudei [giudaismo] (Israele), 2, 19.20; J,7- 10; 4,2-4.8-1 0; 5 ,3; 5, 1 3 SS.; I J, I 6. 1 7; I 5, I 3; 2 1 , 43 ·

analitico

SII

·. elezione, destino, rifi u to , 1,2. 1 1 ; 8,5 ss.; ro,

5-6; 1 5 , 1 3; 1 9,28; intr. ai capp. 2 1 -25; .21..4 3; conci. a 22,1 -1� 24, 1 -3; 27,2 5 . 5 2 ;

retrospettiva [2]

popolo dell'alleanza � alleanza e pagani [paganesimo], 8,5 ss. 1 1 - 1 2.28 ss.; 10,1; 10,5-6; I O,J4; 1 2,4 L 42 ; 1 5,2 5 .26; 1 6, 1 8; intr. ai capp. 2 1 -25; 2 1 ,3 2; concL a 2 1,28-32; 22, 1 1 - 14; conci. a 22, 1-1� 2J,4-i 27,24 s. e Gesù, intr. a 4, 1 7- 1 r,Jo; I J,16. 1 7; 1 5, 1 5; 1 5,2 I -28.2 5 . 26; intr. ai capp. 2 1 - 2 5 ; 2 1 , 33-46; retrospett iva [2] e comunità (chiesa) di Gesù Cristo, I 5 ,2; conci. a I S, I -20; r 6, 1 7-19; 17,24.25; 1 7, 24; conci. a 1 7,24-27; intr. al cap. r 8; 1 8, 4-i intr. ai capp . 2 1 -2 5 ; c onci. a 22..4 1 -46; 13, 1 -7; 23, 1 5; co nci. a 23, 1 -3 9; retro­ spett iva [2] e samaritani, 1 o, 5 -6 giud ei, missione ai, 22,8-10 giudeocristiani [giudeocristianesimo], 7,6 giudicare, giudice, 5,3; 7, 1 -2; 7,28 s. E «Discorso della m on tagn a» [c,3] in modo falso, 7, 1 -6; conci. a 7, r -6 .Dio, in tr . a 1 1 ,2-6; intr. a 25,3 1-46; conci. a 2 5,3 r -46 E Gesù Cri sto (� mondo, giu dic e del), 3, 1 2; 1 1,27; 1 2,J I .J2; 14,27; 24t43 · 44; i nt r. a 25,3 1 -46; co ncl . a 25,3 1-46 E; conci. a 26,57-7 5; retrospettiva [1] giudice del mondo: C risto ( � giudice), I J, 37; 24,4-36; 24,4 ss.; 24.43 .44; in tr. a 2 5 , 1 1 3 ; conci. a 2 5 , 1 4-30 giudizio, 5,22.39; intr. a 7,1 -6; conci. a 27,310 d i Dio, J, I 2. 1 5 E ; 5,� 5 ,7; 5,19; in tr. a 5, 2 1 -48 [23 -26]; 5,22 ss.29. 30; 6, I 2; concl. a 7, I -6; in tr. a 7, 1 3-23 [I J]; int r. a 7, I J- · 23 E [2]; 7,2 I -23; 7,2 5 ; 7,28 s . E «Di­ scorso della mon tagna » [a,6]; ro,7; Io, 1 2. 1 3; 1 0,27; intr. a 1 1,2-6; 1 I , I o; imr. a 1 1 ,20-24; conci . a 1 2,22-37; 12,4 1 .42; i ntr. a I J,24-3o; conci. a 1 J,24-3o; 1 3,40 ss.; 1 3,47- 50; r 8, 1 8 E; 20, 1 6; intr. ai capp. 2 1 -25; 2 I , 1 2-22; 22, I 1 - 1 4; 23, 1 ss.; 23,37-39; 23,3 5 ss.; 24, 1 ss. 14. 28 ss. J S; 24,3 8; 24,37-39 ss.; 24,45 - 5 1 ; conci. al cap. 24; 25,1 1 . 1 2; conci. a .25,1 4-30; concl. a 25,3 I -46; concl. a 25,

5 I2

Indice analitico

3 1 -46 E; 26,57-75; 5 7,2 5; retrospettiva [l.J] ultimo, 3, 1 2; intr. a 7, 1 3-23 [ 1 3]; intr. a 7, 1 3-23 E [4]; 7, 16- 1 8; 9,3 5 ss.; 1 2,J5.36; intr. a 1 ),24-30; conci. a 1 3,36b-43; 1 6, 27; conci. a 1 8,2 1 -3 5; 22, 1 1 - 1 4 giudizio finale (--+ giudizio d i Dio, --+ giudi­ zio universale), 5,29.30; intr. a 6, 1 - I 8; 7, 1 2 ; 8,28 ss.; conci. a 1 2,3 8-42; I 2,4 1 .42; 24, 1 ss.; 24,3 7-39; conci. a 25,3 1 -46 E giudizio universale (� giudizio finale), 1 3,40 ss .; intr. a 25,3 1 -46; 2 5,3 1 ss. giuramento ( --+ giurare), 5,33-37; 5,33 ss.; 7, 28 s. E «Discorso della montagna» [c,4] giurare (� giuramento), intr. a 5,2 1 -48; intr. a 5,2 1 -48 [3 3 -37]; 5,34. 3 5 ss.; conci. a 5, 3 3-37; conci. a 5,43-48; 7,28 s. E «Discor­ so della montagna» [c,4]; 23, 1 6- 1 9; 2J, I 622; 26,6) .65 Giuseppe, padre di Gesù, I , I 8; r,r 8 ss.; 1 ,23 E; intr. a 2, 1 3-23; 2, 14; conci. a 2, 1 3·- 23 giusti, 5,3; intr. a 7, I 3-23 E [ 1 .4- 5]; intr. a 1 0,40- 1 1 , 1 ; 1 3, I 7; I 3,43; COnci. a I 3,36b43; I 8, 1 0 e ingiusti, 5,45; intr. a 7, I -6 giustificazione, I I , I 9C giustizia, J, I 5 E; 5 ,6; s, r o; 5 ,2o; conci. a 5, I 7-2o; 5,22.39; conci. a 5 ,43-48; 6, I ; intr. a 6, 1 - 1 8; I 2,43 ss.; I 8, 1 8 E; I 8,25; 20, 1 5; 2),23; di Dio, I ,3.5.6; 3,I4. I 5 ; J , I 5 E; 5 ,6; 5 , 1 9; conci. a 5 , I 7-2o; 6,33; conci. a 7, I -6; 7, 7.8; intr. a 7, I 3-23 E [2]; 1 I ,26; I 2, I 9. 20; conci. a I 8,2 I -3 5 ; 20, 1 - 1 6; 20, I6 SS. 1 5; 2 5,28.29; retrospettiva [4] davanti a Dio, conci. a 5,43-48; intr. a 6,I ­ I8 di Gesù, conci. a 4, 1 - 1 1 nuova (migliore), intr. a 4, I 7- 1 I ,Jo; intr. a 5,2 I -48; conci. a 6,9- I 3; I 8,2 -I -3 5; 23,24 dei farisei e degli scribi, 5,20 compimento della, 3,1 3 ss.; 3, I 5 E via della, 3,I ss.; conci. a 2 I ,28-32 gloria di Dio e di Gesù Cristo, 5,6; 5,8. 14. 1 5; 6, 1 I . I J; intr. a 25,3 1 -46 grazia [di Dio], J, r 5 E; intr. a 5,2 1 -48 [43-48 ] ; conci. a s ,43-48; 6,9; 7,28 s.; 7,28 s. E «Di­ scorso della montagna» [b,6]; 1 1,26; I 8, u s.; conci. a 1 8,2 I-3 5; conci. a 22, I - I 4; 23, 3 7; 24,22 perdita della, 1 8,2 I -3 5 ; I 8,2 1 .22

«guai», s ,J; S,.)-1 2 E [I]; 7,24 guarigioni, intr. a 7, 1 )-23 [2 I -23]; intr. a 8, 5 - I 3; 8, I 4 SS.; 10,24; 1 2,9- I 4 di Gesù, intr. a 4J I 7- I I , Jo; 4,23 s.; 8, 1 ss.; conci. a 8, 5-r 3; 8, I 4 ss.; 9, I 8 ss.; 9,27 ss.32-34; conci. a 9,27-34; Io,8; 1 I ,4. 5 ; 1 2, 1 5 ss.; I 2,22-Jo; concl. a I 2,22-37; 14, 14.34-36; 1 5,29 ss.; 1 7, 14-2 1 . 14 ss.; 19, 2; intr. a 2 1 , 1 2.-2.2; 2 I , 14; conci. a 26,4756 per opera degli apostoli (discepoli), intr. a 7, I 3 -23 E [7]; conci. a 7, I 3-23; 1 0,8 e fede +incapaci, immaturità, intr. a 1 1,25-30; 1 1,25; conci. a I 1,25 -30 incredulità, 4,6; 5,45; 1 1 ,3; intr. a n , I o-24; I I , I 0-24; 1 2,J I .J2; 1 7,20; I 8,6; 24,45 ; intr. a 27,62-66; conci. a 27,62-66; conci. a 28, 1 1-IS a Nazaret, 1 3,56 induramento, 1 2,22-37; IJ, IO. I J. I J ss.; 1 4, 28-J I inferno, intr. a 5,2 1 -48 [2 I]; 5,22.29.30; 7, 1 ). I 4; 10,28; 1 3,42 ingiustizia, intr. a I ),24-30; 24,3 8 insegnamento (predicazione), intr. a 7, 1 3-23 E [7]; 7, I J . 1 4 di Gesù, 4,2 3; 5, I 7; intr. a 7, 1 3-23 E [3]; cond . a 7,24-27; I J, p ss. 56; r 6,2 I -23; 1 8, 1 8; 2 1 ,23-27; conci. a 26,47- 56; 28, 20; retrospettiva [1 .4] e mettere in pratica, 5 , I 7; 5, I 8; conci. a 5 , 1 7-20 intercessione, 5,44; I 9,1 3 ss. ipocrisia, ipocrita, intr. a 6, 1 - 1 8; 6,2. 5; 7,3.4; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b,3]; 1 5 ,2-8; 22, 1 5 ss.; 24,4 5-5 1 ; 24,4 5 ira [giudizio d'ira], collera, intr. a 5 ,2I-48; 5, 22 di Dio, ),7- I 0,7 Israele --+ giudei ·

ladro, 6,2 r; 24t4 3; 24,4 3 · 44 legare e sciogliere --+ potere legge [di Dio] (Mosè), intr. [5]; intr. a 3,1 5 E; intr. a 4, I 7- 1 1 ,30; 5,2 ss.; 5, I J; 5,32 · 43; 6, 1 . 10; conci. a 7, 1 3-23; 1 1 ,28-Jo; 1 2, 1 ss.9 ss.; I J, p ss.; 1 5 , 1 -20; 1 5,2-8; 1 9,4-6; 23, 1 7; 23,2 ss.; 23,24; concl. a 23, 1 -39 E

Indice analitico [legge ] e/o profeti, 5, 1 7; 5, 1 8; intr. a 7,7- 1 2; 7, 1 2; intr. a 7, 1 3 - 23 ( 2 I -23 ) ; 1 1, 1 3; 22, 37-39 libertà di Gesù (del cristiano) da, 1, 1 9; 5, 1 7; 5, I 8; 5 , 1 9; intr. a 7, I 3 -23 E [7]; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b,2.3. 4. 5 .6]; 1 2, 1 ss.; intr. a 1 2,9- I 4; 1 2,43 ss.; I 5, 1 -2o; concl. a 1 5, 1 -20; 1 8, 1 8; I 9,4-6; 22,3 7-39; concl. a 23, 1 -39 E; retrospet­ tiva [3] adempimento della (da pane di Gesù), 5, 7.7-20; 5 , I 7; 5, I 8; 5,1 7-20; 7,28 s. E «Di­ scorso della montagna» [c, 1 ]; I 2,7; 1 1, 26.28-30; 1 8,2o; 22,37-39; conci. a 23,I39 E; retrospettiva [3] libertà dalla, conci. a 1 8,2 1 - 3 5 liberazione, J, I 5 E dal Maligno, conci. a 6,9- I 3 libertà, 4,2-4 E; concl. a 1 2, 1-8; intr. a 1 2,9- I 4 dai beni +dalla legge +dalle preoccupazioni +­ della fede +Logo�, 1 1,27; concl. a 23,1 -39 E; retrospetti­ va [I] lucerna, luce, intr. a 5, I 3- 1 6; 5, 1 3 SS.; 7,28 S. E «Discorso della montagna» [b,6] Gesù è la, 5, 1 5 e tenebre, 6,22-23 maestro (rabbi): Gesù, 5,1 s.; 8,2 1 ; I 9, I 6; 23, 8- I O d i Israele: Dio, 23,8- I o maggiori, essere maggiore, intr. al cap. I 8; I 8, I ss.; I 8,3.4; I 8,4; I 9,28; 20,2o-28; 20, 20; conci. a 20,2.0-2 8 male (Maligno), mali, malvagità, 4,2-4 E; 5, 37 · 3 9; 6, q ; 7,9- I 1 . 1 2; intr. a 7, 1 3-23 E [7]; 7, I 3 . 14; I 2,J4; 1 3 , I 8 SS.; intr. a I J,24-30i I J, I 8 ss.; 1 3,27 s.; conci. a 1 3,24-30; I 3,3 7; concl. a 26,47- 5 6 lotta contro il, 7,28 s. E «Discorso della montagna» [c,2] maledizioni, 5,3- 1 2 E [I]; 5,4; 23, 1 3 ss. di Gesù contro farisei e scribi, 23,I 3 ss.; 23, I 3-33; 23,37-39 mammona (-+ beni), 6,24; 7,28 s. E «Discor­ · so della montagna» [c,4] mani, imposizione delle, I 9,1 3 ss. mani, lavare le, 1 5,2; 27,24

5I3

mano, 5,29.30; 6,3 recidere, 1 8,8.9 martire, martirio, intr. a 7,1 3-23 E [4]; 20,.22 matrimonio, 5,28.32; conci. a 5t43-48; 7,.28 s. E «Discorso della montagna» [a,4? c,4]; I 9, 1 ss.; concl. a 1 9, 1 - 1 2 Matteo, vangelo di, intr. [ I -7]; retrospettiva [ 1 - 5] . .caratteristiche, intento, intr. [ 1 .2.4· 5]; intr. a 7, I 3 -23 E [1-7]; retrospettiva [5] autore, d ata e luogo della composizione, intr. [4. 5 ]; 9,9 figura di Cristo nel +­ concetto di chiesa nel � significato di Gesù per il mondo (nazioni e pagani), intr. [s]; I ,J.5 .6; intr. a l.,I1 2; 2,2; conci. a 2., 1 - I 2; conci. a 2, 1 3 -23; 5, I 6; concl. a 8, 5 - 1 3; I0, 5 -6; 1 2,2 1 .30; conci. a 1 3 ,36b-43; I 3,45 .46.47; 2.8,1 9; 28, 1 9a

adempi mento delle Scritture [citazioni dell'A.T.] -+ Scritture, adempimento delle problemi relativi alle fonti, intr. [2] e in­ troduzioni a tutte le parti rapporto con gli altri vangeli, intr. [ 1 .2.3. 5] e intr. a tutte le parti rapporto con Paolo +storia della redazione e della tradizione, intr. [3.6]; I , I - 1 8 E [ 1 . 2] commenti e monografie, intr. [7, appendi­ ce] messaggeri di Dio e di Gesù, 9,3 � ss.; I o, 1 7 persecuzione dei � messia, attesa del , 1 ,23; intr. a 2, 1 - 1 2; 2,2. ss.; 3,I 1 s.; J , I 5 E; 4,8- 1o. 5 ; 5,4; 5,9; concl. a 5,3- 1 2; 6, 10; I O,J4; intr. a 1 1 ,2-6. I O; 1 2, · 1 9.20; 1 .2,23; 1 7,22 s.; concl. a 22, 1 - 1 4; 24, 23-25.26-28; 24,30; intr. a 25,3 1 -46; 2.6,63 Messia: Gesù, 3, I 2; conel. a 4, I - 1 1 ; intr. a 4, I 7-I I ,Jo; intr. a 4,23-2 5; 5,22; 6, 1 o; 9,27 ss .; intr. a 1 1 ,2-6.2; 23,8- 1o; 27, 1 7.2.2; re­ trospettiva [ 1 ] · mistero del, I 0,23; 1 2,3 r ; retrospettiva [ 5 ] . della parola e dell'azione, intr. a 4, 1 7- I I , 30; intr. a 4,23-25; 7,28 s . E «Discorso della montagna>> [b,6]; 9,3 5 ss.; retro­ spettiva [I] miracoli, intr. a 7, I 3 -23 [2 1 -23]; intr. a 7, 1 3 23 E [2]; 1 1 ,4. 5

5 I4

Indice analitico

[miracoli ] di Gesù, 4,5; conci. a 4, 1 - I I ; intr. a 4, 1 7- I I , 20; intr. a 8, 1 -4; 9, 1 8 ss.3 5 ss.; r 1 ,4. 5 ·2o ss.; I 2,22-24; I 3, 5 6; 1 7,27 nel nome di Gesù, 7,2 1 -23; intr. a 9, I 8-26 e fede, 4,6; conci. a 8, 5-1 3; conci. a 9, I 826 e segni +misericordia, 5 ,7.9 E; 7,28 s. E « D iscorso del­ la montagna» [a,6]; 9, 1 3.27-34; 1 2, 1 ss.9 s.; 2 3,2 3; 2 3,24; retrosp ettiva [3] di Dio, 5 ,7; intr. a 5,2 I -48 (43-48]; 7,7.8; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b 3.6]; conci. a 1 8,2 I -3 5 di Dio e di Gesù, 5,7.40; IO,JO.J I ; 1 8,27; 20,29 ss.; 23,23 missione (-+ pagani, missione ai) [incarico missionario, ufficio missionario], 1 0,23; intr. a 1 0,40- I I ,I ; 28, 19; 28, r 9a giudaica, 23,I 5 missione [coscienza della propria] di Gesù, 1 ,23 E; I I , I 6- I 9; I I , I 9 dei discepoli di Gesù +mistero (-i) di Dio (-+ messia, -+ regno di Dio ), 1 1,25; 19, I 0- 1 2 mondo (-+ terra), 5 , 1 3 - 1 6 e chiesa +montagna, 4, 5 . 10; intr. a 4,23-2 5 ; I S,.29 ss.; I 7,20; 28, I 6 montagna, discorso della, d i Gesù, intr. a 4, 1 7- I I ,JO; intr. a 4,23-2 5 ; 5 , I s.; 7,28 s.; 7, 28 s. E «Discorso della montagna» [a, I -7; b, I -7; c, I -6]; I 3,35; retrospettiva [4. 5] aspetto ecumenico, 7,28 s. E «Discorso della montagna» lc,6] . «consigli» evangelici, 7,28 E «Discorso della montagna» [a, r ] morte, 8,22; conci. a I o,26-33 e vita, 6,27; intr. a 7, 1 3-23 E [7]; 8,22; conci. a 1 7, I -9 vittoria di Dio sulla, I 6,28; 17,6.7 di Gesù (-+ crocifissione), conci. a 4, 1 - 1 1 ; concl. a 7,24-27; IO,J 2.JJ; I I , I J; 1 2,2 1 ; I 6, I 8. 2 I ; I 7,22; 20, 1 9; 23,34-36; 24,30; conci. a 2 5 , I 4-30; conci. a 25 ,3 I -46 E; 26, I ss.; 26, I 7 ss.28; 27, 1 s.9. 1 o; 27,45 54; 27,45 ss.; conci. a 27,4 5 - 5 7 Mosè, I , I 8-2 5 E [3]; I 7,2 s.; 23,2 legge di +e Gesù, intr. a 2, I - I 2; conci. a 2, 1 - 1 2; conci. a 2, 1 3-23; 4,5 -7.8; conci. a 4,1 - 1 I ·

nazareno, nazoreo : Gesù, 1, 1 8; intr. a 2, 1 3-23 Nazaret, 1 ,23 E; intr. a 2, 1 3-23; 2,23; 4, 1 3 ; I 3, 5 5 nemico, amore per il -+ amore nome, 6,9 di Dio, 5 ,22; 6,9; 28, 1 9 d i Gesù [imposizione del nome], I,2 1 .23 E; 1, 1 8-25 E [ 3] ; 1 ,2 1; 6,9; r 8, z o; 1 9,29 riunirsi nel, 23,37-39 occhio, 5,29.30; 6,22-23; 2o, r 5 per occh io, 5,3 8 d i Dio, 20,1 5 strappare 1 8,8.9 odio, 5,2 I -48.2 1 .43; conci. a 5.43-4 8 ; 24J 9I 4·9 opere, 3,8; conci. a 7,1 -6. 1 5 -20 buone e cattive, 5, I 3 - 1 6; 5 , 1 6; 6, 1 .20; 20, I 5; retrospe ttiv a [4] di Dio e di G esù -+ fare opere, giustizia delle, con cl. a l 5,J 1 -46 ordinamento ecclesiastico, intr. a 7,1 3-23 E [7] siriaco, 7,28 s. E «Discorso della monta­ gna» [b,7); 1 6, 1 7- 1 9 pace, saluto d i pace, 5,9; I O, I 2. I J; conci. a I O, I - I 6; 1 0,34; concl. a I I ,2 5 - 30; 28,9 procurare la, 5,9; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a,6] e guerra, 7,28 s. E «Discorso della monta­ gna» [c,2] Padre, 7,9- 1 1 ; 23,8- I o Dio, 5 ,9 E ; 6,4.8 s.; conci. a 6,9- 1 3; 7,9- u ; 7,2 I -23; 7,28 s. E «Discorso della mon­ tagna» [b, 1); Io,2o.26-33; i nt r. a 1 I ,2 5 30; conci. a I I ,2 5 -3o; conci. a I 8, I - 5 ; 2 1 ,28-32; 23,8- I o; 2 8, I 9 E nei cieli, 5 , 1 3 - 1 6; 5,16; intr. à 6, 1 -18; 6,8 S. 26; conci. a 6, 1 9-34; intr. a 7, 1 3-23 [2 1 23); I 0,3 2.33; conci. a 1 2,46- so . e Figlio [Dio e Gesù Cristo], unità, 4.4; 4, 2-4; 4,25; 10,32·33; 1 1,26; conci. a 1 1, 2 5-30; conci. a 2 5,3 I -46 E e Figlio e Spirito santo (-+ Trinit à di Dio), 28, 1 9 E Padrenostro -+ preghiera (di Gesù) pagani [ paganesimo] ( -+ Gal i lea ), conci. a 4, 1 2- 1 6; 4,23; 6,7. 32; 7,6; 8,5- r o; intr. a 1 0, I - I 6; 1 0, 5-6; 1 5,23.28; intr. al cap. 1 8

Indice analitico [pagani] e gi udei (Israele) � gi udei pagani, missione ai (-+ missione), 7,6; 8,2 8 ss.; 10,5-6; 22,8- I o pane, 6, 1 I ; 1 5,29 ss. quotidiano, 6, 1 1 nell'ultima cena, 26,27 Paolo [lettere di], rap po rto con il vangelo di Matteo, 1,23 E; 3,1 5 E; 5,9 E; 5, 1 8; 5,2o; conci. a 5,1 7-20; 5,22.45; conci. a 5 ,43-48; intr. a 6, I - 1 8; intr. a 7, 1 3 -23 E [6.7]; 7, 1 520; conci. a 7,24-27; 7,28 s. E «Dis corso della mo n tagn a» [b,J.6]; 8, 5 5 ss.; 1 2, 1 9.20; 1 2,43 ss.; 1 7,20; r 8, 1 9 E; co nci. a 1 8,2 I -3 5 ; conci . a 19, 1 - 1 2; 20, 1 5 . 1 9; 22,3; 22, 1 1 - 14; 13�; conci. a 2 5,3 1 -46; concl. a 2 5 ,3 I -46 E; 26,2; 28, 1 8 ; retrospettiva [r ] p arab ole d i Gesù, in tr. a I 2, I - 1 6, I 2; I 3, 1 -9; intr. a I 3,24- 30; intr. a I J ,J I -3 3; 1 3,34 ss. 44 ss.47 ss.; I 8,2 1. 22 ; I 9, 1 6 ss.; 20, 1 ss.; 2 1 , 28-32 · 3 3-46 · 3 3 ss .; 22, 1 ss.; 2 2, I r - I 4; 25,1IJ.r ss. 14-J0. 1 4 ss.; conci. a 2 5, 1 4-30 natura e interpretazione del l e, I J, I o- 1 7. 1 0 ss. 1 8 ss.34a; intr. a I 3,36 ss. p ss.; conci. a 2 0, I - I 6; conci. a 2 1 ,28-32 parola (-e), 5 , 1 8 ; 6,9- 1 3; 1 2, )6.37 udire e mettere in pratica, conci. a s , J - 1 2; conci. a 7,24-.2.7; conci. a 2 5 , 1 4-30 di Dio, 7,I -6.6.z8 s.; conci. a ro, 1 - 1 6; 13, I8 ss.; concl. a 23 , I - 3 9 E incarnazione della: Gesù, 1,23 E di Gesù [-+ messia, discorsi di Gesù], intr. (4); 5,3; 5,2J .29. 30; COnci. a 5,4 3 -4 8; conci. a 7,24-27; 7,28 s.; 7,2 8 s. E «Di­ scorso della montagna» [a,2; b,r .3; c, 1]; conci. a 8,5 - 1 3 ; 8,I 6; 9,22; conci. a I O, I ­ I 6; I 1 , 1 9c; conci. a 1 2,22-3 7; concl. a 1 2, parusia -+ rit or no 3 8-42 ; I 4, 3 1 pasqu a [agnello pasquale], cena pasq uale, 26, 2; 26, I 7 ss. passion e di Gesù (-+ soffrire), intr. a 4-J I - I I ; 4,6; intr . a r6, 1 3-20,34; I 6,2 1 s s. ; intr. ai capp . 26-28; conci. a 26,57-75 pasto, banchetto, 6, I r; 7,7.8; 2 5 , 1 ultimo, 26, 1 7-20; 26, I 7 ss.2 1 ss.26 ss. escatologico, 8, I I - I 2; intr. a 1 9, I 6-30 pastore, Dio e Gesù Cristo, 10, 5 - (); 1 8, 1 2 s. e gregge, I 8, I 2 s. comunità, capo della � paura, mancanza di paura, I 0, 26-J J . 29-J I ; 1 0,28; 14,28-3 1 ; 1 7,6.7; 28, 8 . 1 0

SI5

peccati, peccat ori, peccaminosità, 1 , 2 I ; 5.4; 6, 1 6; 7,2 8 s. E .: Dis corso della montagna� (a ,6; b I ]; 8, 17; 9, I SS.9 ss.; 1 2,3 I . J l.; J 8,I 5 s.; r 8 , 1 8 E; r 8,2 1 ; 2o, I 9 contro l o Spirit o santo, 1 2,3 1 . 3 2 peccati, confessione dei, I 8, I 8 E peccati , remissione dei (-+ perdono ) , 1 ,2. r ss.; J,l SS.; 9, 9 ; I 2, J I . J2.; 1 8, 1 8; I 8, I 8 E; 1 8,2 1 ss.; conci. a 2 8, 1 I -2o; retrosp ettiva [4. 5] ad opera del p otere di Gesù, 6, I l; 9, 1 ss.;

26,28 pecora (-e), 7, 1 3-23; 7, 1 5 ; ],I J-23 E [7]; 1 0, 5-6; 1 0, 1 6; I 5 ,2 2 - 2 4; r 8, I 2. I J; 2 5,3 3 perdono, J, I 5 E; 5 ·9 E; s,J2; intr. a 6, I - I 8; 6, 1 2; 7,2 8 s. E .: Discorso della montagna» [b, r]; i ntr. al cap. 1 8; r 8, 1 8 E; I 8,2. I di Dio, 6, r4; conci. a 1 8,2 I -3 5 tra gli uomini, 6 , 1 2. 14.; 7,2 8 s. E «Discorso del l a montagna» [b,6] disponibilità al, 6, 1 2.; con ci . a I 8,2 1 - 3 5 della colpa � del peccato � p erdut i, essere p erduto, r 8, r 2 s.; 24,37- 3 9 p erfezion e, intr. a s,2 I -48 [43-48]; 5,3 3-37; conci. a 5,33-37; 5,48; intr. a ], I J - 2 3 E [7]; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [b, r ; c,s]; 1 9,2 I persecuzione, 5 , I O s.; 5,1 1 ; 5 , 1 3; 5,44.47; 7,28 s. E « D iscorso della m ontagna » [a,6; c,2.]; 24, I4; retrospettiva [s] dei discepoli , 5,1 1 . 1 2; ], I J-2); intr. a 7, 1 3 ss.; 10, 1 7 ss.; I 0,34 della comunità di Gesù (cristiani ), s , r r; 7, I 5; 8,24? 1 0, 1 6.4 I ; conci. a I O, I ] -2� 22, 1 1 - 14; conci. a 23,1 -39; c oncl . a 25,3 1 46 pesce ( -i ), 6, u ; 1 3 .4 7-so; I 5 ,29 ss. p i anto e s t rid or di denti, 8,5 ss. ; 1 3.42; 24,4 5 5 I ; 24,5 I p i ccoli, essere piccolo, 7, I 3-23 E [5]; intr. a I0,40- I 1 , 1 ; 1 1 , 1 1 . 2 5 s.; i nt r. al cap. I 8; 1 8, 4; I 8,7; I 8, I 2. 1 3; I 8, Io; r 8, 1 2 s.; concl. a 1 8,2 1 -3 5; 1 9, I 3 ss.; 20, 1 6; conci. a 2o,2o2.8; intr. a 2 1 , 1 .2.-22; conci. a 2 5,3 1 -46; re­ t rospetti va [4· 5] piede, recidere, 1 8,8.9 pietà (devozione), retta e fals a, 6, I - I 8; 6, 1 6. I 6- I 8; 6, 1 ss.; 7,28 s. E « Disc orso della mo ntagna » [b,5]; conci. a I 3,24-30 Pietro [Simone, roccia, bar Giona], intr. [5];

5I6

Indice analitico

4, 1 8; intr. a 7,1 3-23 E [ 1 .6); conci. a 7,2427; 8, 1 4 ss.; 10,2; 1 4,28-3 1 .28 s.33; I 5, I 5; I 6, I 7- 1 9. 1 7 s . I 9; conci. a I 6, I 3 -2o; I 6,2 I 2 5; I 7, I SS.24; I 8, I 8; I 8,2 1 .22; I 8,2 I s.; 20, l i ; conci. a 27,3 - I o; retrospettiva [4] confessione di, � rinnegamento di Gesù, 26,30 ss.; 26,5 7 ss. Pilato, 7,28 s. E «Discorso della montagna» [c,2]; 27, I s.; intr. a 27, I I -26; 27,I I ss. pochezza di Gesù, J , I 5 E; 1 1,3 popolo di Dio, Israele (�), I ,2 1 ; 1 3, I 6. I 7; 27, I I -26.2 5; retrospettiva [2] nuovo (� comunità, � chiesa), 2 1 ,43 potere, conci. a I 6, 1 3-20 di Dio, 5,3; conci. a 5,3- I 2; conci. a 5,43� 48; conci. a 8,5 - 1 3; 9,3 5 ss. di Gesù, 1 , 1 8-25 E [ 2]; 5,3- I 2 E [5]; 5,3; conci. a 5,3- I 2; conci. a 5,43-48; 6, 1o; intr. a 7, 1 3-23 E [3]; 7,28 s.; 8,5 ss. 1 7.20 S.28 ss.; 9, 1 SS. I 8-26; I0,7; I O, I 2. I J.24; n,4. 5; conci. a 1 2,22-37; 1 2,39; 1 3,56; I 4, I J-2 I .22-J6 · 3 3; I s,29-39.29 ss.; 1 6, 1 7- 1 9; I 8,2o; intr. ai capp. 2 I -25; 2 I ,2327; conci. a 22,4 1 -46; conci. a 26, 57-75; 26,6 I ; 28, I 9 E; retrospettiva [ 1 . 5] dei discepoli (di legare e di sciogliere), 7, I 3-23 E I ; 10,2-4 · 7; I O, I 2. I 3; I I , I ; I 6, I 7- 1 9. I 9; I 8, 1 8; I 8, I 8 E; retrospettiva [5] per la comunità, 9,3 5 ss. potere, potenze, 4,2-4 E; conci. a 4, I - I I di Dio, 6,9 s.; 7,28 s.; 28, 1 9 E . di Gesù, 4,9; conci. a 4, I - I I; 8,3 s.; 28,20 diaboliche, 4,2-4 E poveri, povertà, 5,3; 5,4; 5, 1 8; 6,2; 7,28 s. E «Discorso della montagna» [a,4]; 1 1 ,4. 5; conci. a I 1 ,2-6; intr. a I I ,2 5-30; 1 1,25 s.; conci. a I I,25-30; 2o, I 6; 2 5 ,40; conci. a 25, 3 I -40 parteggiamento di Dio per i, 5,3- 1 2; 5t3I2 E [ 1 - 5 ] predestinazione di Dio, 7,I J . I 4 pregare ( � preghiera), intr. a 6,I - I 8; 6,1 . 5 ss.; conci. a 6,9- 1 3; 7,7- 1 2; 7,7. 8; 7,28 s . E «Discorso della montagna» [b, 1 . 6] preghiera (� pregare), 4, 5; 5,4; 5,44; 6, 5 ss.; 6, 5 . 8; 6,6.8 ss.; conci. a 6,9- 1 3; 7,7- 1 2; 7,7.8. 1 2; 7,28 s. E