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Italian Pages 563/569 [569] Year 2015
4 Commenti a testi latini e greci per l’insegnamento universitario collana diretta da gianfranco lotito
volumi pubblicati
1. carlotta scantamburlo, Svetonio, Vita di Cesare. Introduzione, traduzione e commento 2. francesco bracci, Plinio il Giovane, Epistole, Libro X. Introduzione, traduzione e commento 3. pierpaolo campana, Il ciclo di Gellio nel liber catulliano. Per una nuova lettura di Catull. 74, 80, 88, 89, 90, 91, 116
antonino pittà
M. Terenzio Varrone, de vita populi Romani Introduzione e commento
Varro, Marcus Terentius De vita populi romani / M. Terenzio Varrone ; introduzione e commento [di] Antonino Pittà. - Pisa : Pisa university press, 2015. - (Commenti a testi latini e greci per l’insegnamento universitario ; 4) 878.01 (22.) I. Pittà, Antonino 1. Varrone, Marco Terenzio - De vita populi romani CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa
Progetto grafico, editing e impaginazione David Nieri © Copyright 2015 by Pisa University Press srl Società con socio unico Università di Pisa Capitale Sociale Euro 20.000,00 i.v. - Partita IVA 02047370503 Sede legale: Lungarno Pacinotti 43/44 - 56126, Pisa Tel. + 39 050 2212056 Fax + 39 050 2212945 e-mail: [email protected] Membro Coordinamento University Press Italiane ISBN 978-88-6741-437-6 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org
Indice
Introduzione Il de vita populi Romani: datazione e argomento Le fonti dei frammenti del de vita Nonio Marcello come fonte: la “lex Lindsay” L’ordine dei frammenti del de vita in base alla “lex Lindsay” Le serie “sicure” Le serie “fuori posto” La sezione sui recipienti La sezione sul vino Prospetto dell’ordine dei frammenti
7 12 20 30 30 39 46 53 61
Commento Libro I Frammenti dal contesto incerto
67 230
Libro II Struttura del l. 2 Frammenti dal contesto incerto
234 234 332
Libro III Struttura del l. 3
350 350
Libro IV Struttura del l. 4
440 440
Fragmenta libri incerti
497
Appendice Varrone e Lucrezio (con cenni sulla datazione delle Menippeae)
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Bibliografia
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Indice dei passi citati
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Indice dei termini e delle forme notevoli
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Ringraziamenti
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Introduzione
Il de vita populi Romani: datazione e argomento Il de vita populi Romani fu composto da Varrone probabilmente nel 43 a.C. e dedicato ad Attico1. Quanto al titolo dell’opera e al numero di libri, questi ci sono testimoniati dal catalogo delle opere varroniane redatto da San Girolamo2, dove il de vita è menzionato subito di seguito alle antiquitates (scripsit igitur Varro: XLV3 libros antiquitatum; IIII de vita populi Romani). Il nome del dedicatario ci è fornito da Carisio (ars 1, 161.25-28 B.), che usa la formula ad Atticum. È comunemente ammesso che si tratti di T. Pomponio Attico, il celebre amico di Cicerone, che era in buoni rapporti anche col Reatino4. Ancor più che sull’identità del dedicatario, i tentativi di datare l’opera si basano sul contenuto di alcuni frammenti: diverse citazioni tratte dal quarto libro, infatti, si riferiscono alla guerra civile fra Cesare e Pompeo; ne consegue che la composizione del de vita deve essere successiva allo scoppio del bellum civile, cioè al 49 a.C.5. La stessa dedica ad Attico fornisce un termine ante quem: poiché Attico muore nel 32, l’ope-
Cfr. Riposati 1939, pp. 81-87; Cardauns 2001, pp. 61-62. Ep. 33.2 (ad Paulam). 3 L’indicazione del numero dei libri delle antiquitates fornita da Girolamo è errata, essendo quarantuno il numero corretto. 4 Vedi Della Corte 1954, pp. 147-192. 5 I fr. 116-118 R. (427-429 S.) si riferiscono a eventi bellici verificatisi a conflitto iniziato e il fr. 120 R. = 431 S. (ita huius belli horribilis finis facta) lascia pensare che Varrone abbia assistito al termine dello scontro (prove che porterebbero a datare l’opera a dopo il 44). Va detto che nel fr. 120 non è specificato in modo esplicito quale sia il “bellum horribile” cui ci si riferisce; tuttavia il periodo che fornisce l’inquadramento cronologico al quarto libro (a cui è attribuito il nostro frammento) è proprio quello della fine della repubblica, cosa che potrebbe favorire l’identificazione con la guerra fra Cesare e Pompeo. Ancora, va detto che il raro sintagma “bellum horribile” è significativamente usato da Cicerone proprio in riferimento alla minaccia di una guerra civile (Cat. 2.15: dum modo a vobis huius horribilis belli ac nefarii periculum depellatur). 1 2
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ra deve essere stata composta prima di questa data6. Volendo procedere a una datazione più precisa, un fattore spinge a datare con buona probabilità l’opera al 43 a.C. Il de vita, infatti, presenta numerosi punti di contatto con un’altra opera di Varrone, il de gente populi Romani7. Il de gente è databile con sicurezza al 43, poiché Varrone, nello stilare una cronologia che, partendo dall’età mitica, giungesse fino ai suoi giorni, impiega come termine di riferimento l’anno del consolato di Irzio e Pansa (fr. 20). Poiché il de gente e il de vita si rifanno alla stessa fonte (il βίος Ἑλλάδος di Dicearco), è verosimile immaginare che siano state concepite e realizzate nello stesso periodo, così da comporre una sorta di dittico. Per questo ipotizzo per il de vita (che concettualmente segue il de gente) una datazione agli anni 43-42 a.C. Come ho detto, tanto per il de gente che per il de vita Varrone prende come modello l’opera di Dicearco8 intitolata βίος Ἑλλάδος, di cui purtroppo restano frustuli troppo esigui perché si possa tentare di ricostruirne l’assetto9. Vi sono tuttavia dei punti sicuri: l’opera, in tre libri, era aperta da una trattazione sulle origini del genere umano e sul progresso che aveva condotto, tramite la scoperta della pastorizia e dell’allevamento, dallo stato di natura a quello di civiltà (fr. 49 Wehrli). A questa parte seguiva un computo cronologico volto a illustrare quante generazioni intercorrevano dai primordi mitici dell’umanità fino alla formazione della civiltà greca (fr. 58 W.). È verosimile che in questa sezione Dicearco accennasse ai contributi recati dalle culture orientali in campo civile e scientifico (fr. 57 W.). Conclusa questa sezione introduttiva, si ritiene che Dicearco passasse all’illustrazione della “vita della Grecia” in senso proprio, vale a dire procedesse a una rassegna di tipo antiquario ed enciclopedico volta a chiarire le origini dei fenomeni culturali fondamentali per la civiltà greca. Purtroppo, disponiamo di pochissimi frammenti tratti da questa sezione, che pure doveva costituire la parte più corposa dell’opera. L’unico dato ipotizzabile con Meno probabile mi sembra l’accostamento fra la pubblicazione da parte di Attico, forse nel 47, del liber annalis e la composizione del de vita. 7 Sul de gente, vedi Fraccaro 1907 (in particolare pp. 69-82). 8 La consultazione da parte di Varrone dell’opera di Dicearco è “dichiarata” a r.r. 1, 2.16, auctore doctissimo homine Dicaearcho, qui Graeciae vita qualis fuerit ab initio nobis ita ostendit. 9 I contributi principali per la ricostruzione dell’opera restano la discussione di Müller in FHG II 227-241, la voce della RE (V, 1 548.31-550.8) e la trattazione di Wehrli 1944, pp. 56-64. Sui punti di contatto con il de vita populi Romani, vedi Ax 2000, pp. 337-369. 6
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una certa sicurezza è che lo spettro dei temi trattati fosse notevolmente ampio: Dicearco, infatti, discuteva tanto dell’etimologia e della nascita delle principali istituzioni civili (fr. 52 W.), quanto di questioni letterarie (il fr. 63 W. discute l’impiego che Euripide avrebbe fatto della Medea di Neofrone), così come restano frammenti relativi alla musica (fr. 60 W., sulle nacchere) o alla spiegazione di proverbi (fr. 59 W.). La Kulturgeschichte di Dicearco, dunque, doveva abbracciare i molteplici aspetti caratterizzanti la civiltà greca (per usare le parole di Müller, p. 228: «vitam Graeciae, id est civitatum historiam, hominum in vita publica et privata mores et instituta, artium literarumque [sic] momenta praecipua, et horum omnium progressus et conversiones»). Infine, un ulteriore indizio utile per la ricostruzione dell’assetto dell’opera è fornito dal fatto che un frammento riferibile con certezza al terzo libro parla di Filippo di Macedonia e di Dario III (fr. 64 W.). Sulla base di questa informazione si può sostenere che Dicearco spingesse la propria trattazione fino all’età a lui contemporanea; dato che questa era descritta nell’ultimo libro, mentre nel primo si trovava la sezione sui primordi della civiltà, si può inoltre ipotizzare che Dicearco esaminasse le varie forme della civiltà greca seguendo l’ordine in cui esse erano apparse e che quindi disponesse la materia dell’opera, lungo i tre libri, anche in base a un criterio cronologico. Del resto, come si vedrà ben presto, questo criterio è scrupolosamente adottato in due opere che prendono il βίος Ἑλλάδος come modello: un’opera omonima attribuita a un Giasone (probabilmente conosciuta da Varrone e impiegata come fonte per il suo de vita10) e, appunto, il de vita populi Romani. Date queste indicazioni preliminari sul βίος Ἑλλάδος di Dicearco, passerei a indicare la modalità specifica in cui Varrone impiega il suo modello. Il Reatino,
Dell’opera di Giasone resta soltanto un frammento, per cui è difficile individuare particolari punti di contatto, per il contenuto, con il de vita di Varrone. Tuttavia, la voce della Suda (p. 605 A. 52-53) dedicata a Giasone fornisce due informazioni interessanti: il suo βίος Ἑλλάδος era in quattro libri, esattamente come il de vita, e la materia dell’opera era disposta in base a un criterio cronologico (il primo libro trattava τὴν ἀρχαιολογίαν Ἑλλάδος, il secondo il periodo successivo alle guerre persiane, il terzo l’età di Alessandro Magno e il quarto quella ellenistica), con un procedimento molto simile a quello adottato da Varrone nel de vita per esporre le vicende romane dalla monarchia fino ai suoi giorni. Questi punti di contatto fra le due opere potrebbero suggerire che Varrone abbia in effetti considerato anche l’opera di Giasone come modello per un’organizzazione più razionale degli argomenti, per quanto l’esiguità dei dati in nostro possesso non autorizzi a trarre altre conclusioni.
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sulla base di quanto ipotizzabile a partire dai frammenti in nostro possesso, sceglie di dividere le due parti che costituiscono la trattazione del peripatetico (la sezione cronografica sulla “preistoria” e l’esposizione vera e propria dei costumi greci), assegnando a ciascuna di esse un’opera distinta. Alla parte introduttiva, volta a illustrare il succedersi delle varie genealogie dall’età mitica fino a Romolo11, è deputato il de gente, mentre alla descrizione delle origini delle istituzioni romane e della loro evoluzione nel tempo sono dedicati i quattro libri del de vita. Per questo motivo le due opere andrebbero considerate come l’una il necessario complemento dell’altra ed è probabile che siano state progettate e composte insieme. Venendo finalmente al de vita, si è già detto che in quest’opera Varrone discute delle origini delle istituzioni e dei costumi caratterizzanti la civiltà romana, soffermandosi anche sugli aspetti più minuti della vita quotidiana (come l’alimentazione, l’abbigliamento, la suppellettile domestica). È probabile che molto del materiale che confluisce nel de vita derivi dalle ricerche compiute per la stesura delle antiquitates. Sappiamo infatti che Varrone tende a riproporre nelle opere minori la materia già trattata nelle maggiori, pur con aggiunte, tagli, revisioni, aggiornamenti e, talvolta, cambiando del tutto la propria posizione su determinate questioni; ora, il de vita potrebbe essere inteso come una sorta di appendice alle antiquitates, dove ritornano all’incirca gli stessi argomenti dell’opera enciclopedica, ma in forma abbreviata e con un particolare taglio storico-narrativo, diverso dalla distribuzione “per temi” della materia che caratterizza le antiquita Nel de gente, in base a quanto ricostruibile sulla base degli ampi stralci dell’opera riportati da Agostino, Varrone passava in rassegna le varie generazioni che si erano succedute dal diluvio fino a Romolo. L’opera si componeva sostanzialmente di lunghe serie di genealogie, di cui l’autore forniva la datazione. L’elenco, inoltre, dei re e degli eroi che costituivano ciascuna genealogia era arricchito da digressioni a marcato carattere evemeristico e da una serie di sincronismi, per cui il de gente, a tratti, diventava una vera e propria cronologia. Procedendo dall’età mitica fino alla fondazione di Roma, Varrone intendeva mostrare gli apporti forniti dalle varie genealogie (quelle dei re assiri, pelasgici, argivi, ateniesi, albani…) alla “stirpe romana” e vedere quali costumi e cerimonie i Romani avessero tratto dagli altri popoli (fr. 37 Fraccaro: ut Varro docet in libris de gente populi Romani, in quibus dicit quid a quaque traxerint gente per imitationem). Va detto, tuttavia, che, se Varrone nel de gente sembra riprendere dal βίος Ἑλλάδος soprattutto l’impostazione metodologica e la struttura generale, per quanto riguarda singoli aspetti del contenuto, aggiorna Dicearco tramite la consultazione di opere di contemporanei: ad esempio, la cronologia adottata non è quella del filosofo peripatetico, ma quella di Castore di Rodi; cfr. Fraccaro 1907, pp. 82-111).
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tes. Ancora, numerosi frammenti sono di carattere grammaticale e rivelano un notevole interesse per le questioni linguistiche. Varrone, nel passare in rassegna i nomi delle bevande, degli abiti, degli utensili, degli ambienti della casa dei primi Romani, si preoccupa di discuterne anche l’etimologia. È difficile sottrarsi alla tentazione di ipotizzare, quindi, che nel de vita sia confluita anche parte del materiale raccolto da Varrone per il de lingua Latina, la cui stesura del resto precede di poco la composizione della nostra opera. Non a caso, alcuni frammenti del de vita (come quelli sulle bevande o gli utensili) trovano precisi riscontri nelle sezioni tematiche del quinto libro del de lingua Latina che trattano degli stessi argomenti. Varrone, quindi, nel de vita, oltre al modello costituito da Dicearco, tiene anche conto dei risultati delle proprie indagini e del metodo seguito nelle sue opere maggiori. Un’altra caratteristica rintracciabile nei frammenti del de vita che sembrerebbe attribuibile alla personalità di Varrone è una certa tendenza a inserire nella trattazione tirate retoriche dai toni moraleggianti. Va pur detto che, per quanto una posa da moralista nostalgico sia ben compatibile con le modalità in cui Varrone ama presentarsi, forse qualche spunto in tal senso poteva essere già presente nell’opera di Dicearco. Del βίος Ἑλλάδος è rimasto troppo poco perché la cosa si possa dimostrare, tuttavia accenti di critica moralistica al presente non mancano, ad esempio, nel frammento sull’età dell’oro (fr. 49 W.) o in quello sulle figlie di Agesilao (fr. 65 W.). In ogni caso, il gran numero di frammenti del de vita di carattere polemico che ci è stato tramandato dimostra come Varrone abbia senza dubbio accentuato queste caratteristiche di critica al presente che poteva trovare in Dicearco, mostrando lo stesso atteggiamento ostentato, ad esempio, in alcuni frammenti delle Menippeae. Per quanto riguarda la struttura dell’opera, in questo capitolo introduttivo mi limiterei a indicare a grandi linee ciò che i pochi frammenti che ne restano permettono di individuare a proposito di ciascun libro (l’organizzazione della materia e il succedersi delle varie sezioni saranno discussi in dettaglio nel capitolo relativo all’ordine dei frammenti). Il primo libro è quello di cui rimangono più frammenti, contenenti soprattutto la descrizione di alimenti, vestiti, utensili ed edifici propri della Roma delle origini. Al secondo libro risalgono frammenti dedicati in particolare all’illustrazione delle etimologie di varie magistrature, ma anche ad altri argomenti, come i riti nuziali. Eterogenea appare la natura del terzo libro, i cui frammenti trattano tanto dell’organizzazione dell’esercito, quanto dei riti funebri. Infine, del quarto libro rimangono soprattutto frammen11
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ti caratterizzati dalla critica sarcastica al proprio tempo e alla degenerazione dei costumi nell’epoca delle guerre civili12. Va detto, inoltre, che la trattazione di un determinato tema poteva non essere limitata a un solo libro, come si evince, ad esempio, dal fatto che l’organizzazione dell’esercito è argomento di frammenti sia del secondo (fr. 75-77 R.) sia del terzo libro (fr. 86-93 R.) e i riti nuziali sono descritti in citazioni sia dal primo (fr. 25 R.), sia dal secondo libro (fr. 78-79 R.). La presenza di numerose citazioni concernenti eventi storici permette poi di risalire al taglio cronologico dato da Varrone a ciascun libro: se ne ricava che il primo libro era tutto dedicato all’età monarchica, il secondo si occupava del periodo che andava dall’istituzione della Repubblica fino allo scontro con Pirro, il terzo della fase delle guerre puniche e della conquista del Mediterraneo e, infine, il quarto considerava le guerre civili, fino a giungere all’età dell’autore. Come si proverà in seguito, il primo libro aveva una struttura leggermente diversa da quella degli altri libri: Varrone lo apriva con una sorta di sunto storico delle vicende di tutta l’età monarchica, cui seguiva una trattazione “per temi” degli aspetti più arcaici della civiltà romana. Negli altri libri, invece, la presentazione del materiale antiquario era alternata al racconto degli eventi storici, in modo da affrontare i vari riti e costumi romani seguendo l’ordine cronologico in cui essi erano stati istituiti e indicare il modo in cui essi erano cambiati in seguito al mutare delle condizioni storico-politiche.
Le fonti dei frammenti del de vita La fonte principale per i frammenti del de vita populi Romani è costituita dal grammatico africano Nonio Marcello, che possedeva sicuramente una propria copia dell’opera da cui trae abbondanti citazioni. Prima di esaminare in dettaglio il metodo di lavoro di Nonio e l’importanza rappresentata dalla sua testimonianza ai fini di una ricostruzione del de vita, vorrei fornire qualche accenno sulle fonti extranoniane dei frammenti. Presso autori diversi da Nonio Marcello (fonte della maggior parte dei frammenti) si riscontrano solo cinque menzioni dell’opera, delle quali soltanto una (quella di Asconio Pediano) sembra derivare da una consultazione di prima mano13. L’aspetto topico della laudatio temporis acti era senza dubbio presente in questo libro, ma non va sottolineato con l’insistenza eccessiva di Riposati (cfr. pp. 231-245). 13 Cfr. Della Corte 1939, p. 188. 12
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A queste vanno aggiunti dei passi (che saranno meglio discussi in seguito) di Plinio il Vecchio, che potrebbero essere fatti risalire con buona probabilità a Varrone e forse proprio al de vita (ma il fatto che Plinio non indichi la sua fonte per queste sezioni impone comunque di procedere con una certa cautela nell’attribuzione). Infine, c’è un brano delle noctes Atticae dove è riportata una notizia coincidente con quanto detto in un frammento citato da Nonio e dove Gellio sembra alludere, con una perifrasi, al titolo de vita populi Romani. In breve, a parte il caso di Nonio, che sicuramente consulta per lettura diretta una sua copia del de vita, la conoscenza di prima mano dell’opera è ipotizzabile con buona probabilità anche per Asconio, Plinio e Gellio. Per quanto riguarda invece le menzioni dell’opera in altri autori, è altamente probabile che Carisio, la scoliastica virgiliana ed Isidoro di Siviglia citino il de vita di seconda mano (Prisciano, poi, potrebbe derivare a sua volta da Nonio). Si può dunque ipotizzare che, almeno fino al termine del II sec. d.C. il de vita populi Romani avesse ancora una discreta circolazione. Certo, lo scarso numero di menzioni del de vita al di fuori di Nonio lascia anche intendere che la fortuna di quest’opera fosse comunque inferiore a quella delle antiquitates; una spiegazione di questo fenomeno potrebbe risiedere nel fatto che il de vita offriva in sostanza la stessa dottrina delle antiquitates, ma con meno abbondanza di notizie, data la minore estensione, e con un impianto, quello storico-cronologico, che si prestava molto meno alla consultazione pratica rispetto alla suddivisione “per temi” del materiale adottata nell’opera maggiore; per questi motivi, non è impossibile che la letteratura erudita accordasse la preferenza alle antiquitates (forse nella forma più pratica di epitome14), rispetto alla nostra operetta antiquaria. Dopo il II sec., le probabilità che qualcuno consultasse il de vita di prima mano calano drasticamente; tuttavia, forse per tramite del dubius sermo di Plinio e di Aspro (vedi infra), varie citazioni dell’opera vengono trasmesse a opere grammaticali ed esegetiche. Nel frattempo, per un processo sorprendente (ma purtroppo impossibile da ricostruire), una copia integra15 del de vita giunge a Nonio Marcello, nel IV sec. d.C. e Un’epitome in nove libri delle antiquitates, curata da Varrone stesso, è citata nel catalogo fornito da Girolamo (cfr. supra). 15 Rimane una certa sproporzione fra il numero delle citazioni dal primo libro dell’opera (55), nettamente superiore, e quello dei frammenti tratti dai restanti tre libri (l. 2: 24; l. 3: 23; l. 4: 16). Non mi spingerei, su queste basi, a suggerire, come implicitamente fa Salvadore 2004, p. 6, la possibilità che persino Nonio conoscesse il de vita solo di seconda mano e si servisse di una lista di citazioni stralciate da un’altra fonte, che, per qualche ragione a noi ignota, prediligeva il 14
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in una zona periferica dell’impero come la cittadina di Thubursicum Numidarum. La cosa sarebbe ancora più sbalorditiva se ammettessimo, con Salvadore 2004, pp. 5-6, che la copia dell’opera posseduta da Nonio (o da lui reperita nella biblioteca della sua città), fosse l’unica rimasta al suo tempo in tutto il mondo romano. Ovviamente, questa posizione è affascinante, ma anche troppo estrema per poter essere pacificamente accolta. Tuttavia, è innegabile che la biblioteca di Nonio contenesse un numero incredibile di testi arcaici e di preziose rarità (pensiamo, ad esempio, ai frammenti dell’atellana letteraria o a quelli delle Menippeae di Varrone): un tesoro di cui sarebbe bello, se solo fosse possibile, conoscere le affascinanti dinamiche di acquisizione. A prescindere dalla questione, insolubile, di come Nonio sia potuto venire in possesso del de vita, resta il fatto che il grammatico africano lo cita secondo una modalità compatibile solo con l’ipotesi di una consultazione di prima mano. Alla conoscenza del de vita da parte di Nonio e all’utilizzo del de compendiosa doctrina come fonte per la ricostruzione dell’opera sarà dedicato il seguito del capitolo. Prima di affrontare le questioni noniane, vorrei dare un breve prospetto delle fonti che citano frammenti esplicitamente attribuiti al de vita. Nel de compendiosa doctrina Nonio cita pericopi dal de vita populi Romani 123 volte. Poiché alcuni frammenti sono riportati dal grammatico in più lemmi16, il numero effettivo dei frammenti ricostruibile a partire dalla testimonianza di Nonio non è 123, ma si riduce a 12017. Si tratta di citazioni letterali18, primo libro. In assenza di prove contrarie, credo che la soluzione più prudente ed economica sia ipotizzare che Nonio leggesse direttamente il de vita e spiegare la sovrabbondanza di frammenti dal primo libro col fatto che qui il grammatico trovasse più esempi di costrutti insoliti adatti alla costituzione di lemmi nel suo dizionario (del resto, il primo libro trattava della fase più arcaica della storia romana ed è presumibile che vi si potesse trovare un maggior numero di attestazioni di termini desueti o di note etimologiche, proprio il tipo di informazione che interessava a Nonio). 16 Il fr. 79 R. (= 389 S.) è riportato sia a p. 268.19-21 che a p. 468.6-9; il fr. 112 R. (= 415 S.) è citato sia a p. 861.14-16 che a p. 862.19-22; il fr. 125(b) R. (= 432 S.) sia a p. 794.6-795.36 che a p. 872.8-873.15; il fr. 110 R. (= 442 S.) sia a p. 93.8-11 che a p. 212.24-29. 17 Nel caso dei frr. 36(a) R. (= 311 S.) e 48 R. (= 332 S.) è possibile che la voce di Nonio contenga più citazioni di quelle individuate da Riposati e Salvadore. Quando dico che i frammenti dal de vita ricavabili da Nonio sono 120, includo nel computo anche queste citazioni “in più”. 18 Solo i fr. 25 e 27 R. (= 304 e 301 S.) potrebbero essere delle parafrasi del testo di Varrone e non delle pericopi esatte. Comunque, anche qualora si accertasse che si tratta di riassunti, ciò non costituirebbe un argomento per negarne la provenienza da una lettura diretta del de vita da parte di Nonio.
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corredate puntualmente dell’indicazione del libro di appartenenza di ciascun frammento. Oltre a Nonio, anche altri autori o citano il de vita o potrebbero averlo adoperato come fonte. Partirei da Asconio Pediano (in Pis. 13), che riporta il fr. 96 R. (= 409 S.), con indicazione dell’opera e del libro (Varro quoque in libro III de vita populi Romani). Asconio è la fonte cronologicamente più vicina a Varrone: tale vicinanza renderebbe plausibile l’ipotesi che conoscesse il de vita ancora di prima mano. Ciò pare confermato dal modo in cui Asconio riporta il frammento: invece di citare una determinata pericope, riassume un’intera sezione tematica (quam (sc. populus Romanus) gratus fuerit erga bene meritos) del terzo libro del de vita. Questo dato si accorda con il sospetto che Asconio potesse avere presente tutto il contesto della notizia che riporta e, quindi, consultare di prima mano il de vita (o almeno il terzo libro). Un altro autore per cui si può sospettare una conoscenza diretta del de vita, per quanto egli non menzioni mai esplicitamente quest’opera, è Plinio. A n. h. 14, 87-97, infatti, l’erudito sviluppa una lunga sezione sull’introduzione del vino a Roma e sul pregio che era attribuito a questa bevanda durante il periodo monarchico e per gran parte di quello repubblicano. Al cap. 96 Plinio cita letteralmente un passo desunto da un’opera di Varrone (quibus vinis auctoritas fuerit sua iuventa, M. Varro his verbis tradit: (cit.) hactenus Varro). Ora, una frase contenuta all’interno di questa citazione coincide perfettamente con un frammento riportato da Nonio (fr. 125b R.): su queste basi, Riposati ipotizza che Plinio conoscesse il de vita di prima mano e, di conseguenza, stampa la citazione del cap. 96 come un vero e proprio frammento. Questa attribuzione è stata negata da Della Corte 1939 nella sua recensione all’edizione di Riposati. Della Corte, infatti, pensa che tutta la sezione pliniana sulle origini del vino derivi sì da Varrone, ma nega che provenga con certezza dal de vita. Secondo lui, invece, qui Plinio attingerebbe materiale dalle antiquitates; la coincidenza con il frammento citato da Nonio, poi, si spiegherebbe ricorrendo alla teoria dei “doppioni varroniani” (Varrone avrebbe ripetuto nel de vita, in modo piuttosto fedele, quanto detto nel passo delle antiquitates usato da Plinio; il cap. 96, dunque, andrebbe riportato solo come luogo parallelo, ma non come un frammento sicuro del de vita). Della Corte prova a basare il suo discorso su di una prova di tipo cronologico; tuttavia, proprio su questo punto tutto il suo ragionamento si dimostra fallace. Plinio riporta la notizia che l’importazione di vini greci a Roma sarebbe iniziata nel 54 a.C. Della Corte, partendo da questo dato, prova a sostenere che 15
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Plinio avesse presente un passo delle antiquitates (composte a partire dal 55) e non del de vita, di undici anni posteriore al termine indicato nel brano. Ma un discorso del genere non è sostenibile. Innanzi tutto, la frase di Plinio (che dà un termine di avvio) potrebbe essere usata per dare un termine post quem (che, in questo caso, si accorda altrettanto bene con il de vita che con le antiquitates), ma non autorizza in alcun modo a dedurre che il passo di Varrone ivi citato risalga proprio al 54 e non a qualche anno dopo. Inoltre, ed è questo il punto di maggior importanza, vi sono altre allusioni cronologiche all’interno della stessa sezione sul pregio del vino (al cap. 97) che rimandano a eventi degli anni 47-45 a.C. (poiché le antiquitates erano probabilmente concluse nel 47, si vede come questi dati bastino a smentire l’ipotesi di Della Corte). Si parla infatti della prima dittatura di Cesare, dei suoi trionfi dopo le guerre civili e del secondo trionfo spagnolo (anche se in quest’ultimo caso potrebbe esserci stata una confusione da parte di Plinio, che parla di “terzo consolato” di Cesare a proposito di un evento che si è svolto in realtà durante il suo quarto consolato, vedi Aragosti 1984, p. 241). Questi riferimenti a fatti del 47-46 e probabilmente anche del 45 avvicinano molto la datazione dell’opera varroniana cui Plinio attinge al 43, l’anno di pubblicazione del de vita populi Romani (dove, tra l’altro, la narrazione della guerra civile occupava gran parte del quarto libro). Si può dunque ipotizzare, contro Della Corte, che Plinio conoscesse il de vita di prima mano e che, anche in altri casi in cui delle notizie riportate da alcuni passi di Plinio coincidono con quanto detto in frammenti del de vita trasmessi da Nonio, Plinio potesse attingere all’operetta varroniana. Una situazione del genere è ipotizzabile (anche se non può essere sostenuta su basi certe) a proposito di alcuni excursus antiquari (cito quelli, rilevanti ai fini del presente commento, sulle origini del pane, n. h. 31, 89, e dei fornai, n. h. 18, 107-10819) in cui, analogamente a quanto fatto a 14, 87-97, Plinio data l’introduzione a Roma di un determinato prodotto e sostiene questa datazione facendo ricorso a exempla storici, a citazioni di versi tratti dalle commedie plautine o a notizie desunte da eruditi del periodo repubblicano. Come si vede, si tratta di una serie di caratteristiche (soprattutto il ricorso a Plauto e la ricerca nelle fonti di prove a sostegno del dato antiquario) proprie del meto-
Per la tendenza di Varrone a dedicare excursus, nelle proprie opere, alla storia dell’introduzione di un dato fenomeno a Roma, vedi ad esempio la digressione sui barbieri a r.r. 2, 11.10, sfruttata anche da Plin. n. h. 7, 211). 19
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do di indagine di Varrone; inoltre, alcune notizie riportate all’interno di queste digressioni pliniane coincidono in modo impressionante con il contenuto di alcuni frammenti del de vita (come il fr. 32a R.). Pur non potendo sostenere con certezza che anche questi luoghi pliniani derivino dal de vita (mancano infatti le indicazioni cronologiche di 14, 97, per cui, in questi casi, non si può escludere che la fonte di Plinio siano davvero le antiquitates), la cosa può comunque essere almeno sospettata. Di conseguenza, pur non spingendomi a stampare alcuni paralleli pliniani come frammenti sicuri (come fa invece Riposati), credo che comunque meritino di essere messi in giusto risalto, in sede di commento, per il loro valore. In ogni caso, la citazione di 14, 96 rende altamente probabile che Plinio abbia impiegato il de vita come fonte per la sua naturalis historia. A questo punto, sarebbe un’ipotesi attraente pensare che lo stesso Plinio si fosse servito del de vita anche nella stesura della sua opera grammaticale, il dubius sermo. Da questo punto deriverebbe poi un’ulteriore proposta, volta a chiarire un piccolo mistero. Carisio (p. 126 K. = 161.25-28 B.) è infatti la fonte che, nel tramandare il fr. 1 R. (= 283 S.), fornisce le indicazioni più precise sul de vita. Oltre al titolo dell’opera e all’indicazione del libro, il grammatico riporta (ed è l’unica fonte antica a farlo) anche il nome del dedicatario (Varro ad Atticum de vita populi Romani libro I). Come mai Carisio, che del de vita riporta solo poche parole, quasi certamente attinte di seconda mano, è però in possesso di informazioni così dettagliate sull’opera? Una probabile spiegazione potrebbe essere nel fatto che Plinio, che si è visto conosceva il de vita, ne citava delle pericopi anche nel dubius sermo (corredandole dell’indicazione Varro ad Atticum de vita populi Romani, la stessa presente in Carisio); parte di questo materiale, in seguito, potrebbe essere stato trasmesso, tramite una fonte intermedia come Giulio Romano, fino a Carisio. Infatti, la sezione all’interno della quale Carisio cita il frammento (de analogia, ut ait Romanus, corrispondente alle pp. 149-187 B.) è desunta da Romano (cfr. p. 150.3 B., cuius rei rectam interim differamus, contenti paucis, quae exempli gratia Gaius Iulius Romanus sub eodem titulo exposuit) e consiste in un elenco di casi di oscillazione nella declinazione di alcuni termini, proprio il tipo di problema esaminato dal dubius sermo di Plinio. Non a caso, Plinio (per l’esattezza il sesto libro del dubius sermo) viene citato da Romano-Carisio più di settanta volte come autorità all’interno di questa sezione. Plinio poteva appunto riportare nel sesto libro del dubius sermo citazioni dal de vita, alcune delle quali, tramite Romano, possono essere giunte a Carisio 17
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(sulla questione della dipendenza di Romano da Plinio e di Carisio da Romano, vedi Schenkeveld 2004, pp. 22-53; in particolare pp. 39-42). Dopo Plinio, si può sospettare che anche Gellio abbia consultato direttamente il de vita. L’erudito (a 10, 23.1-2), riportando un passo in gran parte coincidente con un frammento del de vita trasmesso da Nonio (Riposati considera il luogo gelliano come un vero e proprio frammento, il fr. 38a; Salvadore, invece, lo pone semplicemente in apparato come parallelo), non indica espressamente l’opera cui attinge, ma impiega una formula allusiva che sembra riferirsi proprio al de vita populi Romani (qui de victu atque cultu populi Romani scripserunt). Considerata la vicinanza del passo di Gellio da un lato con la citazione trasmessa da Nonio (fr. 334 S.), dall’altro con una frase presente nell’excursus pliniano sul vino sopra discusso, che si è detto derivare dal de vita, la probabilità che la notizia riportata a n.A. 10, 23 sia desunta dal de vita aumenta notevolmente. Passerei ora a parlare degli autori che citano il de vita di seconda mano. Innanzi tutto, uno stesso frammento (fr. 58 R. = 324 S.), oltre che da Nonio (p. 877.18-19), è citato anche dagli scholia Veronensia (in ecl. 7.33), con indicazione dell’opera e del libro (Varro de vita populi Romani libro I), da Prisciano (inst. gramm. 4, 78), che pure segnala opera e libro (Varro de vita populi Romani libro I) e dal Servio Danielino (in ecl. 7.33), che si limita alla menzione dell’opera (Varro de vita populi Romani). Trascurando il caso di Prisciano, che con buona probabilità deriva da Nonio (vedi Bertini 1975, pp. 91-92), gli scholia e il Servio Dan. meritano un po’ di attenzione. Le due fonti riportano sostanzialmente la stessa frase di Varrone, ma, mentre gli scholia lo fanno citando il luogo per intero e nella sua forma corretta (come conferma il confronto con Nonio), il Servio Dan. interviene sul luogo varroniano, modificando l’ordine di alcune parole per adattare la citazione alla sua nota. Certo, non è possibile dire se entrambi attingano a una stessa fonte oppure no. Si può comunque sostenere quasi con certezza che Servio Dan. citi Varrone di seconda mano, forse da una fonte in cui la pericope del de vita (come farebbe sospettare la caduta di parte del testo nella citazione di Servio) era già riportata in forma in parte corrotta. Questo dato porterebbe a pensare che la fonte che ha fatto da tramite fra Varrone e il Servio Dan. non sia la stessa che ha trasmesso il frammento del de vita agli scholia, che lo riportano nella sua forma completa e corretta. Si potrebbe ipotizzare che la fonte degli scholia per l’intera discussione (che include anche la citazione del frammento del de vita) sul significato e sul genere del termine “sinum” sia Aspro, che viene 18
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citato come autorità all’inizio dello scolio. Il Servio Danielino (in. Aen. 1, 727), poi, riporta anche un altro frammento del de vita (fr. 107 R. = 441 S.), con l’indicazione dell’opera (Varro de vita p. R.). Anche Isidoro di Siviglia (etym. 20, 11.9) tramanda un frammento (fr. 30 R. = 443 S.) con la sola indicazione dell’opera (ut ait Varro de vita populi Romani). Nel caso di Isidoro è del tutto improbabile che potesse conoscere il de vita di prima mano, ma purtroppo non è neanche possibile risalire alla fonte precisa cui avrebbe attinto. Piuttosto è interessante notare come, nello stendere la voce delle etymologiae, Isidoro abbia impiegato anche del suo materiale precedente, per l’esattezza una nota del de differentiis in compare la stessa citazione dal de vita (anche altri passi del de differentiis potrebbero risalire, in ultima analisi, al de vita, cfr. fr. 36b R.; tutta la questione è esaminata più in dettaglio nel commento). Poiché, però, Isidoro tende a riportare, nel de differentiis e nelle etymologiae, la stessa informazione, ma espressa in termini leggermente diversi, il suo caso pone problemi un po’ diversi da quelli delle altre fonti. Il punto decisivo, infatti, sarebbe in primo luogo capire quanto, nella citazione di Isidoro dal de vita, sia fedele al testo di Varrone e quanto sia frutto del suo personale rimaneggiamento e, in secondo luogo, se vada accolta la forma del de differentiis o quella delle etymologiae. Purtroppo, non è affatto facile risolvere queste questioni, per cui, come si vedrà meglio nel commento, ho seguito una linea piuttosto scettica (stampando come materiale certamente varroniano solo i punti in cui le citazioni del de differentiis e delle etymologiae non si discostano). Alle fonti fin qui elencate, Riposati aggiunge altri brani (da Valerio Massimo, Servio, Plutarco) che trattano gli stessi argomenti di alcuni frammenti attribuiti con certezza al de vita. Salvadore, con più equilibrio, esita a presentare questi testi come frammenti sicuri del de vita, ma li considera solo come dei paralleli utili per un confronto. Già Della Corte 1939, pp. 182-186 critica queste attribuzioni un po’ troppo avventate, proposte solo sulla base del contenuto, di passi che non presentano spesso alcuna indicazione di autore e opera o, al massimo, si limitano a un generico Varro. In effetti, i brani raccolti da Riposati (spesso già individuati da Kettner) sono utilissimi per un discorso sulla dottrina varroniana, ma non abbiamo prove che le notizie in essi contenute derivino proprio dal de vita piuttosto che dalle antiquitates e, anzi, spesso non è neanche sicuro che dipendano proprio da Varrone e non da un altro erudito. Di conseguenza, nella mia edizione ho preferito accogliere soltanto i frammenti sicuramente tratti dal de vita. 19
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Nonio Marcello come fonte: la “lex Lindsay” Nonio Marcello20, originario della cittadina africana di Thubursicum Numidarum, visse probabilmente nel IV sec. d.C. Cittadino di condizione agiata, grammatico e retore (scrisse anche un’ampollosa epistula de peregrinando a studiis), compose il dizionario in venti libri21 de compendiosa doctrina. Per quanto riguarda la struttura dell’opera, i ll. 2-4 hanno una disposizione dei lemmi in ordine alfabetico, i ll. 1 e 5-20 no. Ancora, i ll. 1-12 trattano argomenti di tipo linguistico-grammaticale (particolari usi linguistici, costrutti anomali, termini rari, casi di sinonimia ecc.), mentre i ll. 13-20 hanno un’impostazione di tipo tecnico-antiquario (sono comunemente designati come «sachlich»), essendo dedicati allo studio dei nomi di oggetti di uso quotidiano. Oltre che per il contenuto, esistono differenze anche di estensione fra i vari libri: il l. 4 da solo occupa un terzo del dizionario, mentre i ll. 5-20 sono tutti di dimensioni assai ridotte, fino al caso limite dell’ultimo libro, costituito solo da poche righe di testo. Infine, l’assenza di una praefatio, varie tracce di mancata revisione (come la presenza di lemmi identici all’interno di uno stesso libro), la mancanza di citazioni nel l. 20 e il fatto che gli ultimi libri mostrino evidenti indizi di una certa fretta compositiva sono dati che portano a sospettare che l’opera sia rimasta incompiuta. Il valore di questa compilazione eterogenea, più che Poche informazioni sulla sua persona si ricavano dall’inscriptio della sua opera Nonii Marcelli peripatetici Tubursicensis de conpendiosa doctrina [per litteras] ad filium e da un’epigrafe di età costantiniana proveniente da Thubursicum (CIL VIII 4878), dove si parla di un Nonius Marcellus Herculius finanziatore di un restauro della piazza della città (non è detto che si tratti del nostro Nonio, potrebbe anche essere il nonno, il padre o il nipote). I termini post quem e ante quem sono Gellio, che Nonio conosce e cita spesso, e Prisciano, il primo a citare Nonio per nome (quindi Nonio va collocato fra II e VI sec. d.C.). La questione della datazione di Nonio è stata ridiscussa di recente. Infatti Keyser 1994 (pp. 369-389), sulla base di indizi non del tutto sicuri, propone di datare Nonio al II sec. e di considerarlo un contemporaneo e collega di Gellio (cosa che spiegherebbe come potesse possedere tanti testi arcaici rarissimi). Deufert 2001 (pp. 137-149) riesamina e critica gli argomenti presentati da Keyser e difende la datazione tradizionale al IV sec. Questa posizione mi sembra convincente, anche perché vi sono caratteristiche dell’opera noniana che si possono spiegare solo ipotizzandone la composizione in un’epoca tarda e, oltre agli indizi forniti da Deufert, se ne possono trovare altri (particolari usi linguistici; il fatto che Nonio si riferisca a Gellio impiegando la formula in antiquis, cfr. p. 97.25) che testimoniano a favore della datazione tradizionale. 21 In realtà i libri sono diciannove, in quanto il l. 16 (de genere calciamentorum) è perduto o, addirittura, non è mai stato composto. 20
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al dizionario in sé, va attribuito alla copiosa messe di frammenti che essa contiene. Il de compendiosa doctrina, infatti, riporta un numero impressionante di citazioni da un largo numero di autori latini, soprattutto di età repubblicana, tanto da essere una vera e propria “miniera” di frammenti. Ancora, un tratto ulteriore fornisce a questo dizionario uno statuto speciale come fonte: dalle citazioni di Nonio non si possono trarre soltanto i frammenti, ma, in alcuni casi, anche indizi sul modo di ordinarli. Infatti gli studi sul metodo di lavoro di Nonio, culminati nell’opera critica del Lindsay, hanno mostrato che, nel glossario noniano, tendono a susseguirsi serie di citazioni tratte da uno stesso autore e che le varie serie ricorrono nello stesso ordine in ogni libro del de compendiosa doctrina. Ancora, si è visto, esaminando le serie tratte da autori giunti fino a noi per tradizione manoscritta, che in Nonio le citazioni all’interno di ciascuna serie si succedono nello stesso ordine in cui ricorrono nell’opera del dato autore. Estendendo per analogia questo fatto anche alle serie di citazioni tratte da opere per noi perdute, si avrebbe un utile criterio per ordinarne i frammenti: supporre che questi, nella fonte, seguissero lo stesso ordine in cui sono citati da Nonio. Quindi, in presenza di frammenti tratti da una stessa serie, un editore dovrebbe pubblicarli nell’ordine in cui sono testimoniati da Nonio. A questa intuizione è stato dato il nome di “lex Lindsay”, in omaggio al filologo che ne ha dato la più chiara e decisa formulazione (Lindsay 1901, p. 3: «if it can be established that Nonius’ quotations from authors, whose whole works we possess, follow a definite and unvarying order in his pages, corresponding to the order in which the passages quoted occur in these autors’ works, we may surely infer ‘from the known to the unknown’ that his citations from these lost authors observe a similar sequence. We thus get a clue to the place occupied by each passage quoted from Accius or Sisenna in the particular tragedy or book of history in which Nonius found it»). Prima di vedere in quali casi e a che condizioni la “lex Lindsay” possa essere applicata ai frammenti del de vita citati da Nonio, vorrei esporre nel modo più sintetico possibile le linee guida di questa teoria. La teoria di Lindsay è esposta in modo sistematico nello studio Nonius Marcellus’ Dictionary of Republican Latin del 1901. In questo saggio il filologo scozzese riprende una serie di osservazioni e intuizioni già avanzate da alcuni predecessori22 e le perfeziona, inquadrandole in un sistema coerente. Sono Il primo a notare la presenza in Nonio di serie di citazioni tratte da uno stesso autore è Schneidewin (GGA 105 [1843], p. 697). Il primo a considerare l’ordine in cui le citazioni 22
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sostanzialmente due i progressi rappresentati dal lavoro di Lindsay: questi è il primo a sottoporre ad analisi tutto il de compendiosa doctrina, non singoli libri o singole sezioni, classificando la posizione di ogni citazione lista per lista, e a sostenere con forza che il grosso del materiale citato da Nonio, anche il più peregrino, derivi da lettura diretta degli autori e sia, quindi, di prima mano (mentre, precedentemente a Lindsay, si riteneva che Nonio leggesse davvero solo Virgilio e qualcosa di Varrone23). L’intuizione di Lindsay si lascia apprezzare innanzi tutto per la sua semplicità: nella stesura di ciascuno dei suoi libri (o di ciascuna delle sezioni alfabetiche dei ll. 2-4) Nonio ha consultato sempre le stesse opere e sempre nello stesso ordine, sfogliandole ogni volta dall’inizio alla fine e traentratte da uno stesso autore si succedono all’interno di una serie è Hertz (Opuscula Gelliana, Berlin 1886), che passa in rassegna i punti in cui Nonio deriva da Gellio e giunge alla conclusione che i loci noniani derivati da Gellio si susseguono nello stesso ordine dei capitoli delle noctes Atticae cui attinge Nonio. Importantissimi sono i due studi, apparsi sulla stessa raccolta, di Riese e Schottmüller 1864-1867. Riese esamina una sezione alfabetica del secondo libro e scopre che al suo interno le serie di autori si susseguono nello stesso ordine in cui si presentano nel libro primo. Di qui, il filologo passa già a determinare alcune delle liste usate da Nonio e il loro ordine. Schottmüller esamina minutamente la struttura del primo libro del de compendiosa doctrina giungendo all’importante conclusione che non soltanto una sua parte (come crede Riese), ma l’intero libro è tutto composto a partire da serie di autori. Serie che Schottmüller è il primo a elencare sistematicamente: lo studioso giunge a identificare trentasette Reihen, ciascuna tratta da un dato autore, che si susseguono in ordine nel primo libro e che tendono a tornare all’incirca nello stesso ordine anche in altri libri e in altre parti del dizionario. Inoltre, Schottmüller è anche il primo a separare in modo netto le citazioni primarie (Stammcitate), che danno origine ai lemmi, da quelle secondarie (Anhängselcitate), aggiunte come esempi in più all’interno di una voce. Schottmüller è anche il primo a notare che le citazioni secondarie all’interno di uno stesso lemma tendono a rispettare l’ordine delle serie degli autori. Molte delle osservazioni di Riese e Schottmüller vengono ripetute nella dissertazione di Schmidt 1868. Costui è più rigoroso nel dividere le varie serie e nel definire i limiti di ciascuna di esse, segnandone scrupolosamente i punti di inizio e di fine. Schmidt è anche il primo a notare esplicitamente come le stesse serie ricorrano nella stessa successione non solo nel primo e nel secondo libro, ma in tutti i libri del dizionario. Alcune debolezze teoriche di questi primi studi, come la tendenza eccessiva a considerare il materiale noniano di seconda mano (posizione che sarà del tutto rifiutata e superata da Lindsay), sono già criticate da Froehde 1890. Sulla storia degli studi noniani in generale, vedi Strzelecki 19362, coll. 888-890; Della Corte 1954, pp. 323-328; Cadoni 1987, pp. 5-7. 23 Significativamente, non è mai stata messa in discussione la conoscenza diretta da parte di Nonio del de vita populi Romani (cfr. Schmidt 1868, pp. 131-132; Froehde 1890, pp. 47-49).
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done lemmi e citazioni. Così si spiega il ricorrere delle stesse serie in tutti i libri e il fatto che le citazioni di uno stesso autore si susseguano nell’ordine in cui compaiono nell’opera di quell’autore. Lindsay (pp. 7-10) identifica appunto i volumi24 (in totale quarantuno25), che Nonio avrebbe consultato di volta in volta, traendone i lemmi per ogni libro o sezione alfabetica e le citazioni secondarie per ogni lemma. Secondo Lindsay, una volta stabilito l’argomento del libro che intendeva comporre, Nonio avrebbe sfogliato tutti i quarantuno volumi, ogni volta dall’inizio alla fine e sempre nello stesso ordine. Man mano che sfogliava i suoi volumi, il compilatore annotava tutte le voci che potessero servire al suo scopo o riguardassero il tema del libro o della sezione che andava stendendo. In questo modo Nonio avrebbe raccolto dai volumi tutte le citazioni utili per ciascun libro, segnandole nell’ordine preciso in cui gli erano capitate fra le mani26. Sarebbe questo il motivo per cui, in base a quanto possiamo constatare dalle citazioni tratte dalle opere per noi conservate, le citazioni in Nonio seguono lo stesso ordine in cui si succedono nella fonte. Nonio avrebbe seguito questo metodo meccanico nella stesura di tutti i suoi libri (e, di volta in volta, di ciascuna Come evidenziato da Churchill White 1980, ci sono indizi che rendono plausibile l’ipotesi che Nonio non consultasse ogni volta di nuovo i suoi volumi, ma che li avesse letti solo una volta, segnando tutte le citazioni utili per la stesura del dizionario su delle liste, e che poi avesse lavorato solo con le liste, scorse di volta in volta nello stesso ordine. 25 Vanno immaginati soprattutto come vere e proprie edizioni dei vari autori. Lindsay, tuttavia, ammette anche la consultazione da parte di Nonio di fonti di tipo grammaticale, che chiama, con termine un po’ vago, “glossari”. In effetti, troviamo in Nonio dei punti in cui le citazioni sono confuse e non possono essere inquadrate in alcuna serie. Lindsay fa risalire queste sezioni caotiche di testo appunto ai vari glossari. Sembrerebbe un semplice escamotage, ma vi sono prove a sostegno dell’ipotesi di Lindsay. In particolare, i punti in cui le citazioni sono così confuse da far pensare all’impiego di un glossario occupano sempre la stessa posizione in tutti i libri del de compendiosa doctrina. Di fatto, le serie che dovrebbero risalire ai glossari sono precedute e seguite sempre dalle stesse liste e occupano sempre lo stesso posto, di modo che anche i glossari sembrano rispettare scrupolosamente la “lex Lindsay”. Il problema dei glossari sarà ripreso nel corso di questo lavoro, in quanto, come vedremo, si è tentato di far risalire alcuni frammenti del de vita citati da Nonio a glossari, piuttosto che alla lettura diretta del volume dell’opera varroniana posseduto dal grammatico. 26 Lindsay 1901, p. 3 e, soprattutto, p. 35: «the mechanical regularity with which Nonius composed his dictionary, going through one list after another of words which he had culled from various authors and entering in each book the suitable words from each list in the occurrences in each author’s pages». 24
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sezione alfabetica dei ll. 2-4). In questo modo, avrebbe raccolto tutte le citazioni primarie presenti nei libri non alfabetici. Per quanto riguarda i libri con i lemmi disposti in ordine alfabetico, questi sono divisi in sezioni alfabetiche (la sezione A di ciascun libro racchiude tutti i lemmi inizianti per A, la sezione B tutti quelli inizianti per B, e via di seguito). Nonio ha composto ciascuna di queste sezioni con lo stesso metodo seguito nella stesura dei libri non alfabetici: ogni sezione alfabetica andrebbe quindi considerata come un libro a sé del de compendiosa doctrina (ad esempio, la sezione A del l. 4 sarebbe del tutto equivalente al l. 1 o al l. 5)27. La prova di questo risiede nel fatto che, all’interno delle singole sezioni, le serie di autori si succedono nello stesso ordine e con la stessa regolarità che mostrano nei libri non alfabetici. Infine Lindsay esamina l’ordine che le citazioni secondarie assumono in ciascun lemma, constatando che queste, nella maggioranza dei casi, sono tratte dai volumi della biblioteca di Nonio e, fatto ancora più sorprendente, seguono esattamente l’ordine di successione dei volumi stessi. Appunto, dove il lemma è fornito di citazioni secondarie («extra-quotations», per usare la formula di Lindsay), queste presentano lo stesso ordine che hanno le citazioni primarie in ciascun libro. Quindi Nonio ha tratto le secondarie dalle stesse liste da cui provengono le primarie e, nel raccogliere le secondarie da aggiungere a ciascun lemma, ha operato seguendo il solito ordine e con la consueta meccanicità28, così che anche queste citazioni si presentano proprio nell’ordine progressivo previsto dalla “lex”. Riassumendo, in Nonio le citazioni primarie dei libri non alfabetici e di ciascuna sezione alfabetica dei ll. 2-4 e le citazioni secon27 Una tale teoria presuppone che i ll. 2-4 siano stati pianificati da Nonio stesso secondo una divisione per rubriche alfabetiche e che Nonio abbia realizzato ogni sezione seguendo il suo metodo di lavoro abituale. I tentativi (cfr. Lindsay, p. 2) di attribuire l’ordinamento alfabetico di questi libri a un editore tardoantico, che avrebbe pubblicato il dizionario dopo la morte di Nonio, disponendo i lemmi di questi libri in ordine alfabetico, o, ancora peggio, a un revisore medievale, sono contraddetti dal fatto che nelle sezioni alfabetiche la “lex” sia seguita in modo ancora più rigoroso di quanto normalmente avvenga nei libri non alfabetici. 28 Possiamo immaginare una procedura di questo tipo: Nonio trova nella lista corrispondente a un dato volume una citazione adatta alla costituzione di un lemma (la citazione primaria, appunto). Una volta imbastito il lemma, fornito di questa citazione, Nonio scorrerebbe le sue quarantuno liste dalla prima all’ultima, in cerca di citazioni che possano fornire altri esempi per il dato lemma o servire per illustrare meglio il concetto linguistico lì discusso. Poiché Nonio, in questa fase, continua a consultare le liste nell’ordine consueto, ne consegue che anche le citazioni secondarie assumano la successione postulata dalla “lex Lindsay”.
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darie di ogni lemma tendono ad essere tratte sempre dagli stessi autori, consultati sempre nello stesso ordine e, quando all’interno di una stessa serie si trovano più citazioni secondarie tratte da una stessa opera, queste si seguono nell’ordine in cui compaiono nell’opera stessa29 (se invece vi si trovano una citazione primaria e una secondaria tratte dalla stessa opera, non è detto che il loro ordine rispetti quello in cui comparivano nell’opera di partenza: Nonio le ha infatti tratte consultando le stesse liste in due momenti diversi). Se ciò può essere verificato sperimentalmente considerando la successione dei frammenti in serie tratti da autori conservati come Plauto, Cicerone o Sallustio, può anche essere esteso per analogia (come accennavo sopra) alle serie di frammenti tratti da opere per noi perdute (come il de vita populi Romani), con la conseguenza che, in presenza di una serie sicura, dovremmo pubblicare i frammenti nell’ordine in cui sono citati da Nonio.
Tuttavia, vi sono dei lemmi che talvolta spezzano irrimediabilmente l’ordine di una serie e la cui posizione anomala non può essere in alcun modo spiegata con la procedura meccanica di compilazione seguita da Nonio. Lindsay stesso tenta di giustificare queste eccezioni di volta in volta con varie ipotesi (inserzione di un verso virgiliano adatto al contesto, che, essendo citato a memoria e non tratto dalle liste, sfuggirebbe ovviamente alla “lex”; casi di “posizione esegetica”, in cui Nonio inserirebbe un lemma tratto regolarmente da una lista non al suo posto, ma altrove, dove trovasse attinenza col lemma precedente; su queste e altre ipotesi cfr. Lindsay 1901 passim e Della Corte 1954, pp. 355-360). Alcune anomalie nell’ordine delle citazioni, poi, possono essere spiegate come semplici sviste commesse da Nonio nel maneggiare le sue liste (cfr. Churchill White 1980, pp. 119-121 e pp. 129-130). Infine, va tenuto conto che anche per il de compendiosa doctrina, come per tutte le opere che abbiano avuto una tradizione manoscritta, va considerata l’eventualità che siano state commesse inversioni da parte dei copisti. Mi sono soffermato sulla questione perché la posizione anomala di alcune citazioni è forse il problema maggiore della filologia noniana e soprattutto perché alcuni studiosi hanno provato, sulla base di queste eccezioni, a negare in toto la validità della “lex Lindsay”. È questa la conclusione in particolare di Cadoni 1987, che approda a posizioni di scetticismo quasi totale. Già Strzelecki, mosso dall’intento di fornire una spiegazione ad alcune citazioni anomale, aveva proposto delle modifiche alla “lex”, esposte in più contributi: Strzelecki 1932-1933; 19362. La teoria di Strzelecki, sebbene presentata dall’autore come un semplice aggiornamento di quella di Lindsay, ne mina del tutto l’impianto teorico e, qualora venisse accolta, renderebbe inapplicabile la “lex”. Comunque, gli argomenti forniti da Strzelecki sono troppo deboli e, in generale, le sue ipotesi creano molti più problemi di quanti ne risolvano. Su tutta la questione, cfr. Churchill White 1980, pp. 140-191. 29
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Esposte le linee generali della teoria di Lindsay, vediamo in che casi la “lex” possa essere applicata ai frammenti del de vita e con quali risultati. Secondo la ricostruzione di Lindsay, quest’opera, insieme al Catus vel de liberis educandis, costituiva l’ultimo dei volumi sfogliati da Nonio, il quarantunesimo. Infatti, le citazioni da quest’opera tendono a occupare l’ultima posizione all’interno di ogni libro non alfabetico, di ogni sezione alfabetica dei ll. 2-4 e delle serie di citazioni secondarie di alcuni lemmi (vi sono tuttavia dei casi, che saranno esaminati a parte, di citazioni “fuori posto”). Poiché la “lex” si può applicare solo a serie di citazioni, e non a citazioni isolate, in presenza di quest’ultime gli unici criteri per ipotizzare un ordine saranno il contenuto dei frammenti stessi e l’ingenium dell’editore. Per quanto riguarda le serie di citazioni, attenendosi nel modo più rigoroso alla teoria lindsayana, si incontrerebbero serie “regolari” (vale a dire sicuramente estratte dal volume 41 di Nonio e a cui si possa applicare la “lex” senza riserve) soltanto in due casi: 1. nel caso delle citazioni primarie, quando se ne trovino serie non perturbate al termine di un libro non alfabetico o di una sezione alfabetica dei ll. 2-4; 2. nel caso delle citazioni secondarie, quando se ne trovi una serie al termine di uno stesso lemma30. Diversi frammenti del de vita citati da Nonio rispettano l’una o l’altra di queste condizioni, per cui è effettivamente possibile applicare a essi la “lex Lindsay” e tentare di ricostruirne l’ordine in base a un criterio oggettivo. Purtroppo, vi sono anche casi in cui non è in alcun modo possibile applicare la “lex” alle citazioni riportate da Nonio, come quando un libro è chiuso da un’unica citazione primaria; fatto che in sé conferma la validità della “lex”, ma che non può essere di alcun aiuto, in quanto la “lex” è applicabile solo a serie di citazioni, non a frammenti isolati. Ugualmente, vi sono lemmi chiusi da un’unica citazione secondaria tratta dal de vita: anche in questo caso non si può trarre alcun indizio sulla posizione del dato frammento rispetto agli altri. Una situazione particolare è quella delle citazioni tradite in serie e tratte da libri diversi dello Cfr. Salvadore 2004, pp. 8-9: «Se la situazione è effettivamente questa, possiamo allora essere ragionevolmente certi che i frammenti in successione dei libri de vita populi Romani andranno in linea di massima editi con lo stesso ordine che essi presentano in Nonio, a condizione che si trovino al termine di ciascun libro o al termine delle sezioni alfabetiche nei ll. 2, 3, 4 se sono citazioni primarie, o che si trovino raggruppati nella trattazione del medesimo lemma se citazioni secondarie». 30
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stesso testo (si può ipotizzare, ad esempio, una serie composta da due frammenti, derivanti l’uno dal primo libro, l’altro dal secondo della stessa opera). In casi del genere non occorre certo applicare la “lex” per risalire all’ordine esatto dei frammenti, in quanto questo è già sufficientemente fornito dall’indicazione del libro; ciò non toglie, tuttavia, che queste occorrenze costituiscano prove preziosissime dell’effettivo funzionamento della “lex” e della sua validità, in quanto permettono di risalire all’ordine di alcuni frammenti grazie a fattori esterni alla “lex” e, riscontrando in che misura l’ordine fornito da Nonio rispetti la progressione dei libri, di poter testare la “lex” su basi positive (come per le citazioni di Plauto, Lucrezio, Virgilio…). È evidente che, qualora venisse provata l’assenza di serie invertite (dove cioè si trovi al primo posto il frammento tratto dal libro che Nonio dovrebbe consultare dopo), si disporrebbe di un argomento forte per estendere l’applicazione della “lex”, per analogia, anche alle serie costituite da frammenti tratti dallo stesso libro. Infine (questo è il punto più problematico), vi sono casi in cui citazioni dal de vita compaiono all’interno delle liste “sbagliate” senza che si possa fornire alcuna giustificazione del fatto. Si è tentato di fornire una risposta a questo problema; purtroppo, nessuna delle soluzioni proposte è esente dal sospetto e da una certa macchinosità (anche la tesi generalmente accolta, quella di Lindsay, che le serie anomale provengano dai glossari, presenta, come vedremo, un punto debole). Schmidt è il predecessore che ha proposto la spiegazione più vicina a quella di Lindsay. Secondo lui, Nonio ha effettivamente consultato il de vita, di prima mano, al termine di ogni libro o sezione. Di conseguenza, le serie di frammenti che occupano questa posizione andrebbero edite secondo l’ordine fornito da Nonio. Per quanto riguarda, invece, le citazioni anomale, Schmidt non le fa derivare dalla copia del de vita utilizzata da Nonio, ma tenta di attribuirle a fonti grammaticali. La difficoltà principale di questa posizione è quella di dover attribuire citazioni da una stessa opera ora al volume costituito dall’opera stessa, ora a una fonte di tipo diverso. Lo stesso problema è posto dalla ricostruzione di Lindsay, che fa derivare le citazioni “fuori posto” non dal volume quarantuno, ma da fonti diverse, che indica genericamente col nome di «glossari»31. Questa scelta permette, in effetti, di “far tornare le cose” nella maggior parte dei casi e di fornire una lettura del testo di Nonio Su tutta la questione, cfr. Salvadore 2004, pp. 13-14 e nota 22.
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che non contraddica la “lex Lindsay”. Tuttavia, presenta anche le sue debolezze. Oltre al ragionevole sospetto che si tratti di un semplice escamotage, va tenuta in conto la difficoltà che inevitabilmente si presenta ogni volta ci si trovi nella necessità di dover postulare fonti glossariali. Il problema consisterebbe nel fatto che Nonio avrebbe attinto frammenti di una stessa opera ora da un glossario, ora dalla lettura dell’opera stessa. Vi sono altri casi di opere lette da Nonio, ma presenti anche in alcuni suoi glossari, che vengono quindi citate ora da una fonte, ora da un’altra; per cui, almeno in linea teorica, non sarebbe impossibile ammettere l’esistenza di un glossario contenente anche citazioni dal de vita. Va però detto che casi del genere si riscontrano per autori “di scuola” come Plauto, Terenzio o Virgilio, mentre sarebbe, se non impossibile, almeno difficile l’esistenza di un glossario in cui si trovassero citazioni di un’opera rara come il de vita populi Romani, che sembra essere stata conosciuta nella sua interezza quasi soltanto da Nonio. Credo che occorra soffermarsi in dettaglio sui punti dubbi della ricostruzione di Lindsay, in quanto, se questa venisse accolta, si dovrebbe rinunciare ad applicare la “lex” a un’ampia parte dei frammenti traditi da Nonio32. Argomenti contro l’ipotesi di Lindsay si possono rintracciare considerando l’effettiva situazione testuale di Nonio: di fatto, come si vedrà in seguito dall’analisi dei singoli casi, vi sono serie attribuite da Lindsay a glossari che seguono del tutto la “lex” (ossia in cui i frammenti si succedono in un ordine che sappiamo, in base ad argomenti diversi dalla “lex”, essere quello giusto). Ad esempio, in alcune di queste serie l’indicazione del numero dei libri ci permette di risalire con certezza all’ordine dei frammenti: ebbene, vi sono casi in cui una serie “fuori posto” presenta frammenti tratti da libri diversi del de vita e traditi da Nonio nella successione corretta. Significativamente, non si verifica mai il caso inverso (ossia, non troviamo alcuna serie in cui, per esempio,
Lasciando da parte il caso delle citazioni isolate “fuori posto”, a cui la “lex” non si potrebbe comunque applicare, va tenuto conto del fatto che, accogliendo l’attribuzione ai glossari delle citazioni dalla posizione anomala, non si potrebbe usare la “lex” neanche nel caso in cui si trovassero frammenti “fuori posto” citati in serie. Infatti, poiché non disponiamo di basi per conoscere la struttura e il metodo di composizione del glossario (ossia non possiamo in alcun modo sapere se anche il glossario seguisse una specie di “lex Lindsay”; ed è probabile che non lo facesse), nulla ci autorizzerebbe a stampare dei frammenti citati in serie “fuori posto” nell’ordine dato da Nonio. 32
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un frammento del quarto libro venga prima di uno del terzo). In un caso33, poi, Lindsay attribuisce a un glossario una serie che non solo presenta frammenti del de vita in successione, ma ha anche una citazione del Catus: questo glossario così verrebbe paradossalmente ad avere la medesima struttura del volume 41 di Nonio! Dato che, quindi, l’ordine di alcune serie “anomale” è senza dubbio esatto e vi sono indizi che provano che alcune di esse sono tratte comunque dalla lista quarantuno, non mancano le basi per estendere, per analogia, queste considerazioni anche alle altre serie “fuori posto”. Come controprova, non vi è alcun caso in cui si possa provare in base a criteri oggettivi (come l’indicazione del libro o dati cronologici ricavabili dal contenuto) che l’ordine fornito da Nonio in alcune serie “anomale” sia sicuramente sbagliato. Direi, alla luce di questi fatti, che attribuire serie di citazioni del de vita a fonti estranee a quella che Lindsay chiama lista 41 sarebbe davvero problematico e che la soluzione migliore rimane ammettere che Nonio non abbia conosciuto l’opera se non per lettura diretta. Nei casi in cui troviamo serie “fuori posto”, dunque, sarebbe preferibile ipotizzare che Nonio le abbia tratte comunque dalla lettura diretta e che siano state inserite in altri contesti per motivi che a noi sfuggono. Questa ipotesi deve affrontare, certo, la difficoltà di dover motivare il perché dello spostamento in altri contesti di alcune serie. Dico subito, infatti, che nella quasi totalità dei casi queste inserzioni non si possono spiegare. Tuttavia, la teoria di Lindsay (che alcune serie derivino da una fonte diversa dall’esemplare del de vita consultato da Nonio) presenta delle difficoltà ancora maggiori34. Suggerirei quindi di considerare come tratte dalla lettura diretta del de vita anche le serie “fuori posto”. Necessaria conseguenza di questa presa di posizione è il fatto che la “lex” possa essere applicata anche a questo tipo di serie. Non avendo infatti alcuna prova
Vedi Lindsay 1901, p. 54. Ad esempio, si dovrebbe postulare che citazioni da quest’opera così rara fossero presenti in più volumi: Lindsay non attribuisce le serie anomale a un unico testo, ma, di volta in volta, a questo o quel glossario; ne consegue che Nonio avrebbe tratto citazioni dal de vita non solo dalla sua copia personale dell’opera, ma anche da almeno tre diversi glossari. È ben difficile, a questo punto, chiarire come questi filoni, quasi gli unici a conoscere il de vita, abbiano fatto a confluire tutti proprio a Thubursicum nel IV sec. Ancora più inspiegabile sarebbe il fatto che spesso le serie tratte, secondo Lindsay, dai glossari seguano l’ordine corretto (ossia “rispettino la ‘lex’”), per non parlare del caso, del tutto inverosimile, del glossario costruito come il volume 41. 33
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che l’ordine dei frammenti in certe serie “fuori posto” sia errato o invertito, credo che la “lex” vada applicata anche a queste serie, fino a prova contraria. Le ultime due edizioni dei frammenti del de vita populi Romani sono entrambe successive alla pubblicazione del Nonius Marcellus’ Dictionary. Di queste, quella di Benedetto Riposati, nonostante le parole di lode dell’editore per la scoperta di Lindsay (definita «grande verità», cfr. p. 76), non tiene in alcun conto la “lex”, con la conseguenza che Riposati finisce per ordinare i frammenti in base a un proprio criterio soggettivo e alla propria idea dell’opera varroniana, tralasciando anche i casi in cui le serie noniane ci forniscono un ordine sicuro dei frammenti e rendono un testo dal senso migliore e dal contenuto più organico rispetto quello fornito dalla ricostruzione dell’editore. La recente edizione di Marcello Salvadore, invece, si attiene scrupolosamente alla “lex Lindsay” e riordina i frammenti in modo tale da adeguarne la successioni, in un gran numero di casi possibili, alle serie di Nonio35. Nel capitolo successivo vorrei appunto considerare tutti i casi in cui la “lex” può essere applicata a citazioni dal de vita e dare un prospetto generale dei criteri seguiti da me nell’ordinarne i frammenti
L’ordine dei frammenti del de vita in base alla “lex Lindsay” Le serie “sicure” Nel capitolo precedente, in cui sono state esposte le linee generali della “lex Lindsay”, sono stati anche indicati i criteri in base ai quali una serie di citazioni riportate da Nonio può essere definita “sicura”. Ricapitolando, possiamo dire che frammenti citati in serie da Nonio siano riportati dal grammatico esattamente nello stesso ordine in cui essi comparivano nel de vita in questi due casi: 1. citazioni primarie in serie al termine di un libro non alfabetico o di una sezione alfabetica dei ll. 2-4; 2. citazioni secondarie in serie al termine di un lemma. Vi sono invece tre casi in cui la “lex” non può essere applicata (con la conseguenza che l’ordine dei frammenti potrà essere ipotizzato soltanto sulla base del contenuto):
Già Terzaghi e Klotz, nella loro recensione all’edizione di Riposati, propongono un diverso ordine per alcune serie di frammenti. Il contributo maggiore, in tal senso, prima dell’edizione di Salvadore, è costituito da Della Corte 1954 (soprattutto pp. 374-377).
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1. citazioni primarie isolate; 2. citazioni secondarie isolate; 3. due citazioni, una primaria e una secondaria, all’interno dello stesso lemma36. Fatte queste precisazioni preliminari, passerei a indicare le serie sicure di frammenti citati da Nonio. Queste sono le seguenti (per brevità, riporto per ciascun frammento prima la numerazione Riposati e poi quella Salvadore): frr. 84/394 – 126/43937; 104/410 – 98a/413 – 97/42038; 17/291 – 11/29239; 73/399 – 122/435 – 128/43640; 13/293 – 24/303 – 85/ 39741; (27/301 – 25/304) – 7/290 – 34/314 – 77/381 – 64/382 – 72/
Poiché, secondo la teoria di Lindsay, la stesura di un lemma (sulla base di una citazione primaria) e l’aggiunta ad esso delle citazioni secondarie avvengono in due momenti distinti, ciascuno dei quali prevede una consultazione da parte di Nonio delle sue liste ripartendo dall’inizio, non è affatto detto che, se in un lemma si trovano una citazione primaria e una secondaria tratte dalla stessa opera, la primaria vi comparisse prima della secondaria. Nulla infatti esclude la possibilità che Nonio, dopo aver creato il lemma sulla base di una citazione, avesse poi trovato nelle sue liste e aggiunto al lemma, come citazione secondaria, un altro frammento tratto dalla stessa opera, ma che vi compariva prima della citazione primaria su cui era stato costruito il lemma. Quindi, in questi casi, sarebbe più prudente considerare le due citazioni alla stregua di una primaria e una secondaria isolate. Salvadore (vedi infra) non segue questo criterio. 37 Le due citazioni primarie (pp. 107.1-5 e 108.10-12) chiudono regolarmente la sezione A del l. 2 del de compendiosa doctrina. 38 Le tre citazioni primarie (pp. 240.17-19; 240.20-26; 241.27-28) chiudono regolarmente la sezione P del l. 2. 39 Le due citazioni primarie (p. 278.17-21 e 278.22-23) chiudono regolarmente la sezione V del l. 2. 40 Queste tre citazioni primarie (p. 745.20-24, 745.25-26 e 745.2-4) dovrebbero chiudere regolarmente il l. 6 di Nonio. La loro serie è considerata regolare da Lindsay 1901 (p. 23) e da Salvadore, che ne accoglie l’ordine nella sua edizione. Volendo essere pignoli, lascerebbe qualche dubbio sull’assoluta regolarità della serie il fatto che, nel l. 6 così come esso è tradito, queste tre citazioni sono seguite da altri cinque lemmi. Tuttavia, questa anomalia non riguarda i tre frammenti del de vita, ma appunto i cinque lemmi che li seguono. Anche Lindsay considera questi come inseriti da altre liste, mentre non giudica perturbato l’ordine dei nostri tre frammenti, che ritiene regolarmente estratti dalla lista 41. La “lex”, quindi, va applicata anche in questo caso. 41 Le tre citazioni primarie (p. 793.6-8, 793.9-12 e 793.13-14) chiudono regolarmente il l. 8 di Nonio. 36
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39342; 45/329 – 47/331 – (48/332)43; 56/313 – 52a/320 – 55/321 – 58c/ La serie è costituita da citazioni primarie in successione (pp. 851.21-25, 852.8-16, 852.1721, 853.28-1, 853.2-8, 853.9-12 e 853.13-16) che regolarmente chiudono il l. 12 di Nonio. Si potrebbe quindi applicare la lex e stampare i frammenti nell’ordine in cui questi sono citati da Nonio (vale a dire, accettare la serie 27 – 25 – 7 – 34 – 77 – 64 – 72). Tuttavia, le prime due citazioni sono state considerate a parte dagli editori per due ragioni: in primo luogo, i frr. 27 e 25, piuttosto che delle citazioni letterali (come il resto dei frammenti riportati da Nonio), sembrano delle parafrasi di luoghi tratti dal de vita (cfr. Riposati 1939, pp. 131; 286287; Salvadore 2004, p. 12); in secondo luogo, fra il lemma dove è citato il fr. 27 e quello che riporta il fr. 25 i codici di Nonio “inseriscono” due lemmi estranei, con citazioni da Sallustio ed Omero (“DEINSVPER” e “SIFILARE”). Su queste basi, Salvadore pensa che il gruppo di citazioni 27 – Sallustio – Omero – 25 sia estratto da un glossario (la lista 38b), dove il testo di Varrone non era citato, ma solo parafrasato, e che i frammenti tratti dal de vita vero e proprio (lista 41) inizino solo col fr. 7. Pertanto Salvadore applica la “lex” solo ai frammenti dal 7 al 72, mentre, pur adottando l’ordine di Nonio (che invece Riposati inverte), considera i frr. 27 e 25 a sé. Tuttavia, credo che le due difficoltà sopra proposte possano essere superate e che quindi le “lex” possa applicarsi a tutta la serie nel suo complesso. Innanzi tutto, il fatto che i frr. 27 e 25 siano delle parafrasi non basta a dimostrare che provengano da un glossario. Anzi, proprio questo fattore potrebbe essere una prova del fatto che qui Nonio sta consultando direttamente il de vita. Infatti, soprattutto il fr. 25 si presenta come il riassunto di una pagina piuttosto ampia dell’opera varroniana: è probabile che Nonio, volendo riportare per intero il contenuto della sezione che trattava di un arcano rito nuziale, abbia scelto di sintetizzare l’intero luogo, in modo da salvare tutte le informazioni che voleva. Viceversa, è più difficile pensare a un glossario che non solo citasse brani dal de vita, opera rarissima, ma che fosse motivato anche dagli stessi interessi antiquari di Nonio e, soprattutto, riportasse un ampio riassunto di interi brani, dove la formula di un glossario richiederebbe piuttosto dei lemmi rapidi e scarni, composti da definizioni e esempi. Insomma, questo glossario sarebbe stranamente (e troppo) simile all’opera di Nonio stesso. Ritengo dunque più economico pensare che Nonio, sfogliando il proprio volume del de vita avesse trovato i frr. 27 e 25 in quest’ordine e prima del fr. 7. Entrambi i frammenti descrivono dei riti e, quindi, sono interessanti più per il contenuto che per la forma: non dovendo citarne le parole precise (come nel caso dei frammenti riportati come esempi di anomalie grammaticali), Nonio potrebbe aver scelto di parafrasarli, lasciandoli però (ed è questo che ci interessa) nell’ordine in cui li leggeva. Quanto alle due citazioni “inserite”, il problema riguarda loro, non i frammenti del de vita. Nelle note precedenti sono già stati discussi casi simili e si è visto che non possono inficiare la “lex”. 43 Il fr. 45 e il fr. 47 sono due citazioni primarie in serie (p. 870.20-22 e 870.23-25), che regolarmente chiudono il l. 14 di Nonio. Il fr. 47 e il fr. 48 (p. 870.5-27), invece, pur essendo all’interno dello stesso lemma, sono citazioni di tipo diverso (una primaria e una secondaria). Ne consegue che la “lex” non potrebbe applicarsi al fr. 48, che quindi va considerato citazione 42
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324 – 59/325 – 113/416; 39/315 – 40/316 – 43/317 – 41/318 – 42/31944; 105/411 – 106/41245. Vorrei adesso indicare, serie per serie, i libri del de vita da cui sono tratti i frammenti riportati: 1. 84 > l. 2 – 126 > l. 4 2. 104 > l. 3 – 98a > l. 346 – 97 > l. 3 3. 17 > l. 1 – 11 > l. 1 4. 73 > l. 2 – 122 > l. 4 – 128 > l. 4 5. 13 > l. 1 – 24 > l. 1 – 85 > l. 2 6. (27 > l. 1 – 25 > l. 1) – 7 > l. 1 – 34 > l. 1 – 77 > l. 2 – 64 > l. 2 – 72 > l. 2 7. 45 > l. 1 – 47 > l. 1 – 48 (?) > l. 1 8. 56 > l. 1 – 52a > l. 1 – 55 > l. 1 – 58c > l. 1 – 59 > l. 1 – 113 > l. 3 9. 39 > l. 1 – 40 > l. 1 – 43 > l. 1 – 41 > l. 1 – 42 > l. 1 10. 105 > l. 3 – 106 > l. 3 Il primo risultato notevole che emerge da questo spoglio è che l’indicazione dei libri conferma la validità della “lex”. Infatti, le serie composte da frammenti provenienti da libri diversi del de vita populi Romani mostrano senza eccezioni che questi sono stati tratti seguendo l’ordine in cui comparivano nel testo di
isolata e non si può dire in che rapporto sia rispetto ai frr. 45 e 47. Il contenuto, purtroppo, non ci permette di pronunciarci (infatti i tre frammenti potrebbero appartenere tutti alla stessa sezione, quella sui vestiti, ma il fr. 48 non offre particolari appigli per essere posizionato rispetto agli altri). Seguo quindi, pur dubitanter, l’ordine dato da Salvadore. Questo potrebbe trovare un piccolo riscontro (ma è tutto molto incerto) nel senso generale: il fr. 47, infatti, parla di capi d’abbigliamento che gli antichi (probabilmente Varrone si riferiva alle donne) non conoscevano, mentre il fr. 48 dimostra che gli uomini non potevano aver preso dalle “matres familias” un dato costume (non specificato). Ora, l’idea di Salvadore è che appunto il costume di cui parla il fr. 48 fosse quello di indossare gli abiti citati nel fr. 47. In questo modo, l’ordine 47 – 48 sarebbe giustificato dal contenuto dei frammenti, sebbene è evidente che vi sono troppi punti oscuri per poter accettare senza esitazione questa ipotesi. 44 Questa serie e la precedente saranno discusse in dettaglio in due capitoli a parte, vedi infra. 45 Le due citazioni principali (p. 882.30-32 e p. 882.1-5) chiudono regolarmente il l. 17 di Nonio. 46 I codici di Nonio attribuiscono il frammento al libro quarto, ma l’episodio delle guerre puniche che vi è narrato avrebbe più senso se inserito nel contesto del terzo libro del de vita, che appunto comprendeva il periodo delle guerre contro Cartagine. L’attribuzione al terzo libro risale a Kettner ed è accolta, oltre che da Riposati e Salvadore, già da Thilo e Lindsay.
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Varrone. L’ordine dei libri, infatti, è sempre regolarmente progressivo, mentre non si danno casi in cui Nonio, dati due frammenti, citi per primo il frammento tratto da un libro successivo a quello da cui è tratto l’altro. L’indicazione dei libri, invece, ci conferma che Nonio ha citato i frammenti nell’ordine in cui li ha trovati. Questo è evidente nelle serie 1), 4), 5), 6), 8). Il secondo punto fondamentale di questa indagine è che, estendendo per analogia quanto verificabile nel caso di frammenti provenienti da libri diversi, possiamo ipotizzare che lo stesso discorso valga anche per le serie di frammenti tratti dallo stesso libro del de vita populi Romani. Questo implica che le serie 3), 7) e 9), nonché parte delle serie 5), 6) e 8), per il primo libro, la serie 6) per il secondo, le serie 2) e 10) per il terzo e la serie 4) per il quarto, forniscono preziosissime informazioni sull’ordine che gli argomenti occupavano all’interno di ciascun libro del de vita. Ciò permette di delineare con un buon grado di probabilità la struttura dell’opera (soprattutto nel caso del l. 1) e di individuare le diverse sezioni argomentative in cui il libro si suddivideva. Ovviamente, questo discorso non si limita ai dati forniti dalle serie “sicure”, ma, una volta identificato a grandi linee l’ordine in cui i vari argomenti erano trattati all’interno di un libro, potremmo anche disporre di un criterio per posizionare alcune citazioni isolate e per verificare l’attendibilità delle serie “fuori posto” (che, anticipo, ne viene spesso confermata). Partirei dalla serie 5), che fornisce alcune informazioni fondamentali sull’ordine dei frammenti. La serie presenta due frammenti di diverso argomento: il primo (fr. 13 R.) si occupa della datazione di un monumento e dell’aspetto degli antichi templi, mentre il secondo (fr. 24 R.) è di grande interesse, in quanto costituisce la formula di apertura della sezione del l. 1 dedicata agli aspetti materiali della vita domestica: Varrone dichiara di voler discutere primum de re familiari ac partibus; secundo de victuis consuetudine primigenia; tertio de disciplinis priscis necessariis vitae. Sulla base della successione 13 – 24, si possono dunque trarre due conclusioni: a) Varrone, nel l. 1 del de vita trattava prima del culto e poi della cultura materiale; b) i frammenti riconducibili al blocco tematico “res familiaris” (vale a dire quelli sulle parti della casa, l’alimentazione, il vestiario…) potrebbero essere collocati, con buona probabilità, dopo il fr. 24 e, di conseguenza, dopo gli altri frammenti sul culto. Purtroppo, la divisione della materia proposta nel fr. 24 non è del tutto perspicua, per cui non possiamo dire, sulla base del solo fr. 24, quale fosse l’ordine delle diverse sezioni tematiche all’interno del capitolo 34
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sulla “res familiaris”. Per fortuna, la “lex” ci soccorre in qualche caso. È quanto avviene a proposito delle serie 8) e 9), dedicate rispettivamente ai contenitori e alle bevande. Già sappiamo che i frammenti qui citati, tutti concernenti aspetti di vita quotidiana, vanno collocati dopo il fr. 24; inoltre, la “lex” ci permette di individuare la struttura di ciascuna sottosezione e di capire in che ordine Varrone discutesse i vari tipi di vasi e bevande. Per ora mi limito a questi cenni, dal momento che la questione sarà approfondita in seguito. Dopo il fr. 24 andranno posti anche i frammenti relativi all’abbigliamento, ad esempio quelli della serie 7), anche se, mentre sappiamo che la sezione sulle bevande precedeva quella sui vasi (vedi infra), non abbiamo prove per decidere se Varrone parlasse dell’abbigliamento prima o dopo il blocco su cibo e suppellettile domestica. Per comodità, ho quindi scelto di seguire Salvadore e di raccogliere le citazioni sul vestiario dopo quelle su bevande e vasellame (per quanto, ripeto, si potrebbe adottare anche l’ordine inverso). Si è detto che la sezione sul culto veniva prima di quella sulla realtà domestica. Questo fattore permette di confermare la validità dell’ordine fornito dalla serie 6): un’analisi del contenuto dei frammenti, infatti, prova che i frr. 27 R. e 25 R. sono perfettamente al loro posto prima dei frr. 7 R. e 34 R. Il fr. 27 tratta infatti della presenza di “pueri glabri” all’apertura dei “ludi” ed è probabilmente riconducibile alla trattazione del regno di Romolo, mentre il fr. 25 espone un antico rito nuziale e potrebbe quindi essere inserito nella categoria “culto”. Il fr. 34 tratta invece delle antiche teglie per la cottura del pane e dunque può essere pienamente inserito nella sezione sulla “res familiaris”. Quindi anche la nostra serie conferma l’ordine, già incontrato, (Romolo – culto – vita quotidiana). Mi sembra questo un motivo per accogliere senza dubbi l’ordine dato da Nonio. Includendo, poi, anche il fr. 7, dove si parla delle dimore dei re Anco Marzio e Tullo Ostilio (forse anche di Tarquinio Prisco), si può ipotizzare che il l. 1 del de vita offrisse questa struttura: dopo una sezione sul culto, forse connessa a una breve esposizione del regno di Numa (come farebbe sospettare la successione 25 – 7), Varrone procedeva trattando del regno dei suoi successori47 e, una vol-
47 Non si può escludere, in linea teorica, che il fr. 7 R. comparisse, piuttosto che nell’ambito della trattazione del regno dei successori di Numa, all’interno di una sezione in cui era indicato il luogo in cui sorgevano le dimore di tutti i re. Se le cose stessero così, questa sezione non doveva comparire necessariamente in connessione con la trattazione dei regni di Anco, Tullo
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ta concluso il racconto delle vicende della monarchia, passava a discutere della “res familiaris”. Ora, Salvadore (pp. 14-15) dice esplicitamente che le serie autorizzano a supporre questo ordine di temi: età regia > oggetti (frr. 7 – 34) e religione > matrimonio, bevande, oggetti, vestiti (frr. 13 – 24). Con l’inclusione del tema “matrimonio” fra quelli componenti la trattazione della “res familiaris”, Salvadore giustifica la sua scelta di staccare i frr. 27 e 25 dalla serie e di spostarli dopo il fr. 24. Salvadore, infatti, sulla base dell’idea che Varrone, dicendo “de re familiari”, intendesse anche il matrimonio, pone, dopo il fr. 24/303, il nostro fr. 25/304 e una citazione isolata (fr. 26/305) sempre relativa a riti nuziali. Tuttavia, è ben difficile che la denominazione “res familiaris” possa riferirsi al matrimonio, dal momento che l’espressione è tecnica per indicare l’insieme dei beni materiali di una “familia” (si veda la chiara definizione che ne dà il ThLL VI, 1 248.46: “possessio”) e quindi si addice bene alle sezioni sulla suppellettile domestica, male a quella sul matrimonio. Quindi, dal momento che il contenuto del fr. 24 non prova che dopo si parlasse del matrimonio, non si può affatto escludere che il fr. 25 venisse prima del 24. Viceversa, anche altre serie provano che Varrone trattava prima della religione e poi della “res familiaris”: ciò mostra che l’ordine dato da Nonio per la serie 7) è quello giusto e non va stravolto. Sulla base di quanto detto, proporrei di ipotizzare per il primo libro del de vita una struttura leggermente diversa rispetto a quella avanzata da Riposati e Salvadore. Entrambi gli studiosi, infatti, pur concordando sul fatto che le sezioni sull’età regia e sul culto precedessero la parte del primo libro sulla “res familiaris”, tendono a considerare il blocco sui re e quello sui culti e riti più antichi come due unità distinte. Riposati, di conseguenza, pensa che Varrone fornisse prima un sunto delle vicende dei sette re e poi trattasse di religione, matrimonio e calendario (pp. 91-137). Anche Salvadore propone la successione tematica: età regia > antica religione (successione in effetti rispettata nel suo ordinamento dei frammenti: Salvadore stampa prima tutti quelli riferibili con buona probabilità e Tarquinio Prisco, ma poteva anche avere sede nell’ambito di una rassegna (posta al termine della trattazione della monarchia?) in cui erano riassunti dati come la durata del regno e il luogo di abitazione di ciascuno dei sette re di Roma (così lascerebbe intendere anche il confronto col parallelo di Solino, 1.22). Comunque, anche questa ricostruzione si accorderebbe con l’ordine qui fornito da Nonio: il frammento sulle abitazioni dei re, posto in chiusura del riassunto delle vicende dell’età monarchica, verrebbe infatti dopo la discussione dei regni di Romolo e Numa e prima della sezione sulla “res familiaris”.
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alle vicende dei vari re di Roma e poi quelli relativi a diversi riti religiosi; l’unica eccezione è costituita dai frr. 14/294 – 15/295, che, pur descrivendo l’aspetto dei templi antichi, sono stampati fra i frammenti relativi al regno di Servio Tullio e un frammento forse concernente la fine del regno di Tarquinio il Superbo). Inoltre, Salvadore svincola i frammenti sul matrimonio da quelli sul culto in generale e li posiziona dopo il fr. 24 (cfr. supra). Ora, io suggerirei di adottare un ordinamento della materia differente. Discutendo la serie 7), infatti, si è ipotizzato che Varrone, parlando, all’interno della sezione sulla monarchia, del regno di Numa, vi avesse legato un’ampia digressione sul culto, per poi passare a trattare del regno dei re successivi. Questo stato di cose sarebbe testimoniato dalla successione fornita da Nonio, che riporta i frr. 27 e 25 (relativi a riti di vario genere) prima del fr. 7, dove si menzionano i re Tullo Ostilio e Anco Marzio (per quanto è probabile che il fr. 7, piuttosto che seguire immediatamente la sezione su Numa, chiudesse tutta la parte del primo libro del de vita relativa all’età monarchica, vedi n. 47). Poiché in questo caso l’ordine dato da Nonio sembra contraddire la successione età regia > religione ipotizzata da Salvadore (che infatti sposta i frr. 27 e 25, attribuendoli a un glossario), mi sembra più economico tentare di armonizzare il dato con l’ipotesi da me avanzata che Varrone parlasse prima del regno di Romolo e poi di quello di Numa. A questo punto, sulla base della connessione tradizionale fra il secondo re e l’istituzione della religione romana, Varrone avrebbe potuto aprire un’ampia sezione sul culto e sul calendario, da cui Nonio riporta numerosi estratti. Conclusa questa, l’autore avrebbe continuato il discorso sulla monarchia passando a esporre brevemente le caratteristiche del regno dei successori di Numa (sicuramente di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo), fino alla sezione conclusiva in cui erano riassunti tratti della vita di ciascun re. In base a questo prospetto, ho scelto di ordinare i frammenti stampando tutti quelli del primo libro relativi alla religione e a riti vari dopo i frammenti sul regno di Romolo e prima di quelli sul regno di Servio Tullio e di Tarquinio. Per quanto riguarda, infine, la serie 3), questa è composta da due citazioni entrambe relative al regno di Servio Tullio. In assenza della “lex”, i due frammenti potrebbero essere indifferentemente stampati sia nell’ordine dato da Nonio che in quello inverso. Tuttavia, poiché si tratta di una serie sicura, accolgo l’ordine fornito dal grammatico. Il discorso fin qui condotto a proposito del primo libro può essere applicato anche agli altri libri del de vita. Per quanto riguarda il l. 2, la serie 7) presenta in 37
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successione tre frammenti che trattano rispettivamente di disciplina militare (il fr. 77), di un episodio legato alle guerre contro Pirro (il fr. 64) e della comparsa a Roma delle prime botteghe di cambiavalute (il fr. 72). Su questa base possiamo ipotizzare che Varrone, nel corso del libro, percorresse in ordine cronologico la storia della repubblica (poiché le guerre puniche sono trattate nel l. 3, il frammento su Pirro doveva comparire verso la fine del l. 2; allo stesso modo, il fr. 72, che accenna a un accrescersi della ricchezza generale, si può spiegare in riferimento ai mutamenti del modo di vivere in seguito alle frequenti vittorie romane). Quanto al fr. 77, possiamo connetterlo con gli altri frammenti del l. 2 relativi a istituzioni civili e militari. Sull’ordine degli argomenti del libro terzo, ci informa in parte la serie 2). Purtroppo, gli indizi sono troppo labili per poter ricostruire ampie sezioni. In ogni caso, il fr. 104 parla di un rito funebre, mentre i frr. 98a e 97 alludono a un episodio di una delle guerre puniche e all’offerta di una “corona aurea pondo ducentum” inviata dai Romani a Delfi come ringraziamento per il buon esito di una guerra48. Poiché la successione logica dei frammenti 98a – 97 è confermata anche dal contenuto (il primo si spiegherebbe meglio in riferimento a vicende della prima guerra punica, il secondo sembra invece alludere a un episodio della seconda), anche in questo caso il senso dei frammenti conferma la validità della “lex”. La serie 10), invece, fornisce due frammenti entrambi relativi al funerale romano. Sebbene la serie non fornisca elementi per stabilire che posizione occupasse la trattazione dei riti funebri all’interno del l. 3, va detto che il contenuto delle citazioni sembra confermare la correttezza dell’ordine dato da Nonio (il fr. 106 è una sorta di precisazione e approfondimento di quanto detto nel fr. 105, per cui l’ordine 105 – 106 è altamente probabile). Infine, nella serie 4), tratta dal quarto libro del de vita, un frammento dedicato alla critica della corruzione politica ne precede uno in cui viene attaccato il lusso privato. Tuttavia, questa serie non autorizza a dedurre che, nel l. 4, una sezione dedicata al biasimo del malcostume politico ne precedesse necessariamente una sulla degenerazione morale: i due motivi potevano infatti alternarsi all’interno di un’unica sezione moralistica (per il problema, vedi l’introduzione al l. 4). Sulla base di Liv. 28, 45.12, che parla di una coronam auream ducentum pondo inviata a Delfi da Scipione, è quasi certo che la guerra in questione sia la seconda punica.
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Questi i dati finora ricostruibili sulla base delle serie “sicure”. Possiamo quindi passare alla discussione di quelle “fuori posto”. Le serie “fuori posto” Si è detto nel capitolo precedente che il de vita populi Romani (lista 41) dovrebbe costituire l’ultimo volume consultato da Nonio. Ne consegue che le citazioni primarie da quest’opera dovrebbero trovarsi solo al termine di un libro non alfabetico o di una sezione di un libro alfabetico. Tuttavia, come sopra accennato, si trovano casi di citazioni primarie in serie dal de vita all’interno di un libro o di una sezione alfabetica. Queste serie, che per comodità chiamiamo “fuori posto” sono spiegate da Lindsay e da Salvadore come derivanti non dalla copia di Nonio del de vita (cioè non dalla lista 41), ma da un glossario. Abbiamo già detto che l’ipotesi del glossario è antieconomica e che supporre più fonti per i frammenti del de vita crea più problemi di quanti ne risolva. Si è quindi ipotizzato che le serie “fuori posto” siano state regolarmente estratte da Nonio dalla sua copia del de vita e che siano state inserite, in un secondo tempo e per ragioni a noi ignote, in una posizione diversa da quella che avrebbero dovuto occupare. Tuttavia, dato che questa “traslazione” di blocchi di citazioni non intaccherebbe l’ordine delle citazioni all’interno di ciascun blocco, si è detto che, con un certo grado di probabilità, potremmo accogliere l’ordine fornito dalle serie “fuori posto” allo stesso modo in cui accettiamo la testimonianza delle serie “sicure”. Ricapitolando i motivi alla base di questa scelta, si è detto che la “lex” può essere applicata anche alle serie “fuori posto” per quattro motivi. Innanzi tutto, quando i frammenti che compongono serie “fuori posto” provengono da libri diversi, l’ordine dei libri è sempre progressivo. Viceversa, non si ha nessun caso in cui la serie “fuori posto” vada invertita sulla base dell’indicazione del libro di provenienza delle citazioni. In secondo luogo, alcune delle serie “fuori posto” confermano la successione degli argomenti che abbiamo ricostruito, partendo dalle serie “sicure”, per alcuni libri del de vita. In ogni caso, il contenuto delle serie “fuori posto” non è mai tale, per i frammenti del de vita, da imporre con motivi cogenti di invertire l’ordine dato da Nonio (perciò, dato che tanto l’ordine dato da Nonio quanto quello inverso spesso sono ugualmente legittimi, in questo caso sarebbe più economico seguire l’ordine tradito). In terzo luogo, quando la sezione “fuori posto” che Lindsay attribuisce a un glossario comprende non solo frammenti dal de vita, ma anche citazioni tratte da altre opere, spesso l’ordi39
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ne di queste conferma la successione delle liste di Nonio. Ci troviamo, dunque, nel caso di dover pensare a glossari che leggessero esattamente le stesse opere a disposizione di Nonio e nello stesso ordine! È evidente che, piuttosto che ipotizzare una simile situazione, è preferibile pensare a blocchi regolari di citazioni finiti “fuori posto” al momento della stesura (del resto incompiuta e priva di ultima mano) del de compendiosa doctrina. Infine, resta il fatto che Salvadore oscilla nel valutare le serie “fuori posto”, dato che in alcuni casi segue alla lettera le indicazioni di Lindsay e inverte i frammenti tratti da serie “fuori posto” perché li considera provenienti da un glossario, in altri mantiene la successione tradita. Date queste ragioni, ritengo più semplice applicare la “lex” a tutte le serie “fuori posto”. Queste sono le seguenti: 18/297 – 68/38349; 10/289 – 4/28450; 70/385 – 86/40251; 92/418 – 102/42352; 15/295 – 14/29453; 87/403 – 103/42454; 129/440 – 116/42755; 81/390 – 76/38756; 57/322 – 53/32757. Come si è fatto per le serie “sicure”, darei un prospetto dei libri di provenienza delle citazioni trasmesse dalle serie “fuori posto”: 1. 18 > l. 1 – 68 > l. 2 2. 10 > l. 1 – 4 > l. 1 3. 70 > l. 2 – 86 > l. 3 4. 92 > l. 3 – 102 > l. 358 Citati da Nonio a p. 35.27-30 e p. 35.1-4. Citati da Nonio a p. 63.29-31 e p. 63.1-7. 51 Citati da Nonio a pp. 79.1-3 e p. 80.4-7. Non è escluso che prima del fr. 70, nella serie, vada incluso anche il fr. 65 (vedi la discussione alle pp. 342-343). 52 Citati da Nonio a p. 217.10-13 e p. 217.14-16. 53 Citati da Nonio a p. 162.14-17 e p. 162.18-20. 54 Citati da Nonio a p. 837.5-11 e p. 837.14-16. 55 Citati da Nonio a p. 844.11-13 e p. 844.14-17. 56 Citati da Nonio a p. 848.11-15 e p. 848.16-18. 57 Citati da Nonio a p. 872.3-6 e p. 872.7-9. Questa serie, come si vedrà in seguito, svolge un ruolo fondamentale nella ricostruzione della sezione del primo libro del de vita sui recipienti. Salvadore (p. 16), infatti, in questo caso accetta l’ordine fornito da Nonio, sebbene in altri casi inverta i frammenti delle serie “fuori posto” tratti da uno stesso libro ritenendo che la “lex” non si possa applicare ad essi. 58 L’attribuzione al l. 3 è data dal correttore F3 (Lupo di Ferrières, che equivale a un ramo indipendente della tradizione), mentre il codice L e la famiglia BA (rappresentanti dell’altro 49 50
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5. 6. 7. 8. 9.
15 > l. 1 – 14 > l. 1 8759 > l. 3 – 103 > l. 3 129 > l. 4 – 116 > l. 4 81 > l. 2 – 76 > l. 2 57 > l. 1 – 53 > l. 1 Per prima cosa, notiamo che due serie, la serie 1) e la serie 3), sono costituite da frammenti provenienti da libri diversi del de vita populi Romani: in questo caso, l’indicazione dei libri conferma che l’ordine dato da Nonio è quello esatto. Avendo due occorrenze in cui una serie “fuori posto” presenta senza dubbio i frammenti nella corretta successione, mentre non si riscontrano casi in cui Nonio, in una serie “fuori posto”, inverta l’ordine dei libri di provenienza delle citazioni, riterrei preferibile estendere questo discorso per analogia anche alle serie “fuori posto” formate da frammenti tratti dallo stesso libro. Secondo questa ricostruzione, quindi, anche le serie “fuori posto” derivano dalla lista 41 di Nonio e i frammenti che le compongono sono stati estratti da questa fonte esattamente secondo lo stesso criterio con cui sono state ricavate le serie “sicure”. L’ipotesi di Lindsay (seguito da Salvadore) che invece queste serie derivino da un glossario, oltre ad essere indimostrabile in modo positivo, non permetterebbe neanche, a rigor di logica, di pronunciarsi sull’ordine dei frammenti. Infatti, se la “lex” non può applicarsi alle serie “fuori posto”, ne consegue che l’unico criterio possibile per ordinare i frammenti così trasmessi sarebbe quello del contenuto. Purtroppo, nessuna delle nostre serie “fuori posto” tramanda fram-
ramo di tradizione) attribuiscono il frammento al l. 4. Poiché lo stato del frammento è corrotto, per ora non mi pronuncio sulla questione (che forse potrebbe essere risolta sulla base di una correzione al testo che propongo, vedi comm. ad loc.). In ogni caso, resta il fatto che accogliendo l’attribuzione al quarto, l’indicazione dei libri conferma che la serie, pur “fuori posto”, rispetta la lex, mentre, accogliendo quella al terzo, i due frammenti non presentano elementi tali da smentire che l’ordine dato sia quello corretto. 59 Due codici di Nonio (E, P) attribuiscono il frammento al quarto libro del de vita. Vi sono buoni motivi per accogliere l’attribuzione al terzo fornita del resto della tradizione: innanzi tutto, il frammento discute l’etimologia di alcuni gradi militari e, in base al contenuto dei frammenti rimastici del l. 3, sappiamo che l’organizzazione dell’esercito era uno dei temi principali di questo libro; inoltre, se accettassimo l’attribuzione al quarto libro, ci troveremmo di fronte a una vistosa eccezione alla “lex”, avendo una serie “invertita”, con un frammento del quarto libro citato prima di uno del terzo (il fr. 103, appunto).
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menti del de vita dal contenuto tale da permettere di preferire un ordine rispetto all’altro, mentre, in tutti i casi di frammenti tratti da uno stesso libro, in base al solo contenuto delle citazioni sia l’ordine di Nonio che quello inverso sarebbero ugualmente legittimi. Poiché dunque non possiamo adottare, sulla base del contenuto, un ordine rispetto all’altro, riterrei più economico seguire l’ordine di Nonio che, almeno, in due casi su nove è confermato dall’indicazione del libro di provenienza. Quanto alla scelta di Salvadore di invertire talvolta60 l’ordine dato da Nonio sulla base del fatto che le serie “fuori posto” deriverebbero da un glossario, questa è ingiustificata: infatti, ammettendo che queste provengano davvero da un glossario, ciò renderebbe inapplicabile ad esse la “lex Lindsay”, ma non proverebbe assolutamente nulla circa l’ordine dei frammenti. Se le citazioni date in serie “fuori posto” da Nonio derivano da un glossario, non si può dire che nel de vita fossero necessariamente nell’ordine tradito, ma neanche che il glossario le avesse senz’altro invertite. Quindi, in assenza di elementi validi contro la scelta di mantenere l’ordine tradito, io lo accoglierei anche per queste serie. Nel discutere le serie “sicure”, si è visto che una parte del primo libro del de vita era dedicata al culto e alla religione degli antichi. A questo tema si riconnettono i frammenti riportati in due serie “fuori posto”, la 2) e la 5). Salvadore inverte l’ordine dato da Nonio per entrambe le serie. In realtà, il contenuto dei frammenti non autorizza a compiere questa scelta, per cui riterrei più prudente stamparli comunque nella successione tradita. Ciò non toglie che tentativi, come quello di Della Corte61, di difendere l’ordine noniano della serie 2)62 anche sulla base del contenuto rischino di apparire altrettanto ingiustificati. Della Corte, infatti, vuole individuare una successione logica fra i due frammenti: “in un periodo di grande miseria” (fr. 10), sarebbe stato introdotto a Roma il culto della dea Panda e, presso il suo tempio, sarebbe stato istituito il diritto d’asilo (fr. 4). Ora, il testo dei frammenti non ci autorizza in alcun modo a trarre deduzioni del genere: non è detto quale sia il “testimonium” della “paupertas” del fr. 10 e A proposito delle serie 2), 5), 7) e 8). Della Corte 1939, p. 189 e 1954, p. 374. 62 Per facilitare la comprensione della discussione, riporto il testo (nella forma stampata da me) dei due frammenti in questione: fr. 10/289, pecuniaque erat parva: ab eo paupertas dicta. cuius paupertatis magnum testimonium est; fr. 4/284, hanc deam Aelius putat esse Cererem; sed quod in asylum qui confugisset panis daretur, esse nomen fictum a pane dando, pandere, quod est aperire, . 60 61
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va ammessa la possibilità che fra i due frammenti ci fosse molto materiale per noi perduto (e che quindi le due citazioni non si riferiscano necessariamente allo stesso contesto, come crede Della Corte). Sul contenuto del fr. 4 siamo troppo poco informati per poterci permettere di sostenere una tale posizione. Infatti il frammento di Nonio è l’unica fonte sull’istituzione dell’“asylum Cereris”, di cui non sappiamo altro oltre a quello che ci viene detto nel frammento stesso e nel lemma con cui Nonio introduce la citazione: pandere Varro existimat ea causa dici, quod qui ope indigerent et ad asylum Cereris confugissent panis daretur; pandere ergo quasi panem dare et quod numquam fanum talibus clauderetur63. Ancora, ho dei dubbi che la “paupertas” del fr. 10 sia la “miseria” di cui parla Della Corte (che più che “paupertas” si sarebbe dovuta chiamare “inopia”,
Per quanto riguarda il contenuto, Salvadore 2004 (pp. 11 e 46-47) propone, contro l’interpretazione vulgata, di riferire il fr. 4 a un episodio narrato da Livio (1, 8.5): Romolo, per fronteggiare la penuria di uomini e accrescere il numero dei cittadini della Roma primitiva (adiciendae multitudinis causa), aveva offerto asilo a chiunque volesse unirsi, senza distinzione, alla neonata città. Se si accettasse questa identificazione, tutt’altro che sicura, dell’“asylum” citato nel frammento con l’“asylum Romuli”, avremmo un motivo in più per dubitare della proposta di Della Corte, in quanto l’“asylum Romuli” era stato appunto istituito per ovviare al problema della mancanza di popolazione, non a quello della povertà. Tuttavia, la supposizione di Salvadore non è affatto confermata dal testo del frammento, dove non vi è alcun accenno all’“asylum Romuli” e, soprattutto, è detto chiaramente che l’“asylum” era destinato a “qui ope indigerent”. Credo dunque che in questo caso l’interpretazione di Salvadore vada respinta, poiché forzerebbe troppo il testo. Il fatto che non ci sia un’altra fonte oltre a questo frammento sull’“asylum Cereris” non mi sembra infatti sufficiente per negare l’esistenza dell’“asylum” stesso e dire che, in realtà, Varrone si riferisse all’“asylum Romuli”, come se questo fosse l’unico “asylum” di cui siamo a conoscenza. Vi sono invece numerose attestazioni che testimoniano l’esistenza di un “asylum” in teoria presso qualunque tempio e anche fuori da Roma (cfr. ThLL II 990.77-991.30). Soprattutto, credo vada sottolineato come il verbo “confugere” sia il termine tecnico e giuridico per indicare l’atto di chiedere il diritto d’asilo presso un tempio (oltre al nostro frammento, vedi Cic. Verr. II 1.85; Mela 1, 117; Ampel. 16.4; Ulp. dig. 21.1.17.12; il verbo “confugere” si usa anche in contesti in cui il riferimento all’“asylum” è metaforico, come Hist. Aug. Hel. 2.3; Aur. Vict. Caes. 23.1). Dobbiamo quindi ipotizzare l’esistenza di un “asylum” presso il tempio di Cerere, un istituto analogo a quelli presenti, appunto, presso altri templi e santuari, senza dover fare necessariamente riferimento all’“asylum Romuli”. Del resto, lo stesso Salvadore, in un contributo di alcuni anni precedente all’edizione, mostra molta più cautela (cfr. Salvadore 1978, p. 290). Cfr. anche RE II, 2 coll. 1881-1886 (ma riguarda soprattutto l’ἄσυλον greco).
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considerato che i destinatari dell’“asylum” erano “qui ope indigerent”) e a cui si sarebbe tentato di porre un rimedio appunto con l’istituzione dell’“asylum”. Considerato, invece, l’atteggiamento letterario da laudator temporis acti proprio di Varrone, suggerirei di intendere la “paupertas” del fr. 10 come la semplicità di vita propria della Roma arcaica64, di cui Varrone forniva un “magnum testimonium”; una cosa ben diversa, dunque, dalla effettiva povertà degli “indigentes” che trovavano rifugio all’“asylum Cereris”. Tuttavia, tali prove che il fr. 4 non sia la continuazione diretta del fr. 10 non costituiscono in alcun modo un motivo per asserire che il fr. 4 venisse prima del 10 e per invertire l’ordine dato da Nonio. Di culto parlano anche i frammenti della serie 5). La situazione in cui sono traditi è particolare: all’interno della sezione P del l. 2 di Nonio, fra una serie di citazioni tratte dal de oratore di Cicerone (37) e un’altra di citazioni derivate dagli Academica dello stesso (39), si frappongono tre lemmi “anomali”, che Lindsay, per far tornare le cose, attribuisce al glossario costituente il volume 3865. Il problema è che le tre citazioni sono appunto i due frammenti del de vita che costituiscono la serie 5) e un frammento dal Catus (lemma “PLVMARIVM”). Ci troviamo così nella situazione assurda di avere un glossario esattamente con la stessa struttura del volume 41 di Nonio! Stando così le cose, è decisamente più probabile che le tre citazioni costituiscano una piccola serie regolarmente estratta dall’ultima lista e inserita qui per una svista materiale o per motivi che a noi sfuggono. In questo caso, potremmo applicare la “lex” e pubblicare i due frammenti nell’ordine dato da Nonio. Per quanto riguarda il contenuto, i due frammenti sembrano riferirsi a uno stesso contesto, ossia appartenere a una sezione dedicata alla semplicità della religione arcaica. Infatti, tanto Riposati che Salvadore stampano i due frammenti l’uno contiguo all’altro. Tuttavia, entrambi gli editori non accolgono l’ordine fornito da Nonio e pubblicano i frammenti nella successione inversa66. Della Corte (come prima di lui 64 A sostegno di una tale interpretazione, si veda il fr. 14 R. (= 294 S.): ut in cetero cultu quae sunt, consentanea, quod sunt paupertina, sine elegantia ac cum castimonia. 65 Lo stesso Lindsay mostra di credere poco a questa soluzione, marcando il numero della lista con un punto interrogativo (cfr. Lindsay 1901, p. 54). 66 Riposati compie questa scelta soprattutto su basi contenutistiche (il fr. 14, che parla in generale della semplicità dei costumi degli antichi in campo religioso, dovrebbe fare da introduzione al fr. 15, che descrive la semplicità dei primi templi). Salvadore, invece, non applica la “lex” a questi frammenti «semplicemente perché non sarebbero stati desunti dalla fonte 41.VARRO V» (Salvadore 1978, p. 14). Considerati i dubbi dello stesso Lindsay sull’effet-
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Terzaghi67), invece, propone di stampare i frammenti nell’ordine 15 – 14. Io, per motivi di prudenza, mi adeguerei a questa scelta, tanto più che il testo dei frammenti non ci autorizza a invertirne l’ordine. Anzi, forse il loro contenuto inviterebbe a mantenere l’ordine 15 – 14 piuttosto che a invertirlo. Varrone, infatti, partendo da un confronto fra il lusso delle statue di culto dei suoi tempi e l’essenzialità di quelle antiche (fr. 15), poteva passare a trattare della semplicità non solo dei templi, ma, in generale, anche “in cetero cultu” (fr. 14), di ogni aspetto della religiosità arcaica. Passando al l. 2 del de vita, merita di essere discussa la serie 8). Questa serie è composta da due frammenti relativi il primo (fr. 81) a un rito da compiere in occasione della nascita di un figlio, il secondo (fr. 76) all’impiego del “caduceus” come insegna militare. L’ordine fornito da Nonio (e suggerito da Della Corte) è invertito già da Riposati e ancora da Salvadore. Credo che la ragione di questa inversione risieda nella convinzione che, nel l. 2, Varrone trattasse prima dell’esercito e poi dei riti. Si tratta di una ricostruzione possibile, ma non giustificata da alcun dato positivo: l’unica serie “sicura”68 riferibile a frammenti del l. 2, infatti, non presenta citazioni relative ai riti nuziali e quindi non prova affatto che Varrone discutesse delle insegne militari prima che del rituale. Un altro motivo che potrebbe essere alla base dell’inversione compiuta da Riposati e Salvadore consiste nella volontà di legare il fr. 76 al fr. 75 (= 386 S.), sui feziali (di cui il “caduceus” era l’insegna) e il fr. 81 al fr. 80 (= 391 S.), dedicato sempre ai sacrifici di ringraziamento da compiere in occasione della nascita di un figlio. Sebbene questi abbinamenti siano sensati, resta il fatto che la “lex” non prova affatto che il fr. 75 precedesse il fr. 80 (e, di conseguenza, non può dimostrare nemmeno che il fr. 76 venisse prima del frammento 81). Il fr. 75 (vedi infra) e il fr. 80, infatti, sono citazioni isolate. Quindi, neanche il riscontro con questi frammenti basta a provare che l’ordine tematico fosse “esercito – culto”, mentre la nostra serie, per quanto “fuori posto”, costituisce comunque una base per dire che Varrone parlasse prima dei riti e poi dell’esercito. In conclusione, per i motivi testé esposti io stamperei i frammenti in quest’ordine: 81 – 80 – 75 – 76 R. (= 390 – 391 – 386 – 387)69. tiva provenienza di queste citazioni e il fatto che questa fonte diversa presenterebbe paradossalmente proprio la struttura della lista 41, non condivido a pieno una scelta del genere. 67 Nella recensione all’edizione di Riposati pubblicata in «Leonardo» 1940, pp. 9-14. 68 Si tratta della serie 6). 69 In teoria, anche l’ordine 80 – 81 – 76 – 75 sarebbe ugualmente valido. Io ho scelto di adottare l’altro per mantenere l’ordine 81 – 80 e 75 – 76 scelto da Salvadore.
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Anche i frammenti della serie 7), tratta dal l. 4 del de vita, vengono invertiti da Salvadore. Poiché in questo caso il contenuto delle citazioni (soprattutto la prima molto lacera) non permette davvero di precisarsi in alcun modo, preferirei non intervenire e accogliere anche qui l’ordine dato da Nonio. Concluderei il discorso con una serie “apparente”, quella che riguarda i frammenti 75/386 e 93/419. Si tratta infatti di due citazioni tradite l’una di seguito all’altra all’interno di uno stesso lemma (a p. 850.21-25 e 850.26-29), ma di tipo diverso (una primaria e l’altra secondaria). La “lex Lindsay”, quindi, non potrebbe essere applicata a questi due frammenti. Per fortuna, essi appartengono a due libri diversi del de vita, per cui possiamo ordinarli lo stesso grazie all’indicazione del libro. Passerei ora alla ricostruzione, sulla base di alcune serie “sicure”, di due sezioni importanti del de vita, quella relativa ai recipienti e quella sulle bevande. La sezione sui recipienti La ricostruzione di questa sezione si basa su due serie70: a) 57/322 – 53/327 b) 56/313 – 52(a)/320 – 55/321 – 58c/324 – 59/32571 Per esigenze di chiarezza, le riporto nella loro interezza (secondo il mio testo): a) p. 872.3-6; fr. 57 R., 322 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma CVPAS ET TINAS: antiquissimi in conviviis utres vini primo, postea tinas ponebant, id est oris longi cum operculo, aut cupas, tertio amphoras.
La seconda serie, che chiude il l. 15 di Nonio (de genere vasorum vel poculorum) è sicura, mentre la prima si trova “fuori posto”, motivo per cui Lindsay (p. 33) e la Rychlewska (p. 136) la attribuiscono al quarto glossario (35b). Tuttavia, è improbabile che la serie derivi da un glossario piuttosto che dalla lettura diretta del de vita. In questo caso, poi, lo stesso contenuto delle citazioni suggerisce che l’ordine tradito sia quello esatto: il fr. 57 tratta dei recipienti da vino più antichi, quelli adoperati dagli “antiquissimi”, mentre il fr. 53 tratta di contenitori di diverso tipo, caratterizzandoli per il loro materiale, ma non per la loro antichità. È dunque probabile che il fr. 57, sugli “antiquissimi”, venisse prima del fr. 53. Salvadore, infatti, segue a ragione un suggerimento di Della Corte e stampa i frammenti nell’ordine dato da Nonio. 71 Chiude la serie il fr. 113 R. (= 416 S.), che appartiene al l. 3 e quindi non ci interessa ai fini della ricostruzione della sezione sulla suppellettile. Tuttavia, la sua posizione al termine della serie è un elemento importantissimo che conferma la validità della “lex” e quindi autorizza ad applicarla ai frammenti sui recipienti. 70
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p. 872.7-9; fr. 53 R., 327 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma VRNVLA: item ex aere, ut urnulas, aquales, matulas, sic creterras b) p. 876.1-3; fr. 56 R., 313 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma CALPAR: quod, antequam nomen dolii prolatum, cum etiam id genus vasorum calpar diceretur, id vinum calpar appellatum72. p. 877.4-6; fr. 52(a) R., 320 S.; citazione primaria (dal l. 1); apre il lemma TRVLLEVM: itaque ea sibi modo ponere ac suspendere quae utilitas postularet: trulleum, matellionem, pelvim, nassiternam, non quae luxuriae causa essent parata. p. 877.7-11; fr. 52(b) R., 326 S.; citazione secondaria73 (dal l. 1); chiude il Salvadore stampa il testo così come esso è tradito (il contenuto sarebbe che, poiché prima che venisse coniato il termine “dolium” il “dolium” si chiamava “calpar”, veniva chiamato “calpar” anche il vino che vi era contenuto). Riposati, invece, basandosi sulla congettura di Kettner “antequam novum doliis promtum”, corregge “nomen dolii” in “novum doliis”. All’origine della correzione è il confronto con il lemma di Paolo Diacono (p. 57.16 L.): calpar vinum novum, quod ex dolio demitur sacrificii causa, antequam gustetur. Il testo di Kettner e Riposati cambia abbastanza il contenuto del frammento (poiché il contenitore in cui era il vino novello si chiamava “calpar”, anche il vino stesso, per tutto il tempo in cui si trovava nel “calpar”, era detto “calpar”). Io seguirei Salvadore, in quanto il testo tradito del frammento sarebbe tutt’altro che inaccettabile e la presenza di una notizia parallela sul “calpar” non mi sembra un motivo sufficiente per alterare il contenuto del fr. 56. Inoltre, ammettere che questo frammento trattasse di un contenitore e non del vino violerebbe il dato della “lex Lindsay” secondo cui, nel l. 1, la trattazione vera e propria dei vasi da vino veniva dopo una parte introduttiva sulla suppellettile da cucina in generale, di cui restano tracce nel fr. 52(a). Sulla questione, cfr. Salvadore 2004, p. 17. 73 Pur derivando dallo stesso lemma, i frr. 320 e 326 sono due citazioni di diverso tipo (una primaria e una secondaria), per cui a rigor di logica non si potrebbe applicare loro la “lex”. Riposati non considera questo fattore e li pubblica come se costituissero un unico frammento (il fr. 52). Salvadore, al contrario, pur distinguendo le due citazioni, dichiara a torto (p. 16) che il fr. 320 debba precedere il fr. 326 in base alla “lex”. Venendo a un esame del contenuto dei due frammenti, il primo di essi tratta di una serie di oggetti (fra cui il “trulleum”, motivo della citazione) che potevano trovarsi appesi al soffitto di un’antica cucina romana, mentre nel secondo il “trulleum” è menzionato solo in secondo piano, all’interno di una descrizione di recipienti per acqua dove il vero soggetto del discorso è un altro oggetto, l’“urceolus”. Per esigenze di chiarezza, ho preferito distinguere anche in Riposati i due frammenti e indicarne uno con 52(a) e l’altro con 52(b). L’impossibilità di applicare la “lex” comporta che non possiamo dire a priori se il fr. 52(b) seguisse o precedesse il fr. 52(a), né in che rapporti fosse rispetto agli altri frammenti della serie che include anche il fr. 52(a). L’unico indizio disponibile sulla sua posizione è dato dal contenuto stesso del frammento: il fr. 52(b) tratta infatti di un recipiente per acqua. Poiché, sulla base della serie b), possiamo ipotizzare che Varrone 72
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lemma TRVLLEVM: urceolum aquae manale vocamus, quod eo aqua in trulleum effundatur. unde manalis lapis appellatur in pontificalibus sacris, qui tunc movetur cum pluviae exoptantur74. p. 877.12-14; fr. 55 R., 321 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma ARMILLVM: etiamnunc pocula quae vocant capulas ac capides, quod est poculi genus, item armillum, quod est urceoli genus vinarii. p. 877.18-19; fr. 58c R., 324 S.75; citazione primaria76 (dal l. 1); fonte del lemma SINVM ET GALEOLA: ubi erat vinum in mensa positum, aut galeolam aut sinum.
trattasse in generale la suppellettile impiegata nel lavoro domestico prima di esaminare in dettaglio i singoli contenitori, forse la collocazione più prudente per il frammento resterebbe dopo il fr. 52(a). Questa scelta, tuttavia, è indipendente dall’ordine in cui Nonio cita i frammenti, ma dipende soltanto dal loro contenuto. 74 Riposati pubblica anche il seguito del lemma noniano come frammento di Varrone: ita apud antiquissimos manale sacrum vocari quis non noverit? unde nomen illius. Salvadore attribuisce queste parole a Nonio. Io concordo col secondo editore: il contenuto di questa pericope non aggiunge nulla al frammento di Varrone, di cui sembra essere una mera parafrasi. Anche la forma interrogativa inviterebbe al sospetto. Soprattutto, una formula come “apud antiquissimos” è molto più appropriata al discorso di Nonio che a quello di Varrone (il riferimento agli “antiqui” come auctoritates da cui trarre citazioni e notizie è frequente e programmatico nel de compendiosa doctrina). 75 Questo frammento è citato anche negli scholia Veronensia ad ecl. 7.33 (con indicazione di opera e libro e nella forma più completa: cebant, ubi erat vinum in mensa positum, aut galeolam aut sinum. tria enim haec similia sunt, pro quibus nunc on ponitur; “” e “” sono integrati dal Danielino), nel DServ. ad ecl. 7.33 e da Prisciano inst. gramm. 2.262 (in forma ridotta). Riposati stampa tutte e quattro le versioni del frammento, marcandole come 58a, 58b, 58c e 58d; Salvadore stampa solo la versione degli scholia (58a R.) e mette le altre tre in apparato. 76 La citazione compare al secondo posto all’interno del lemma (dopo una da Virgilio), ma è quella primaria. Infatti, il lemma è “SINVM et GALEOLA”. Ebbene, questi due tipi di vasi sono menzionati entrambi nel nostro frammento, mentre nei versi di Virgilio (ecl. 7.33-34) è citato solo il “sinum”. Appare quindi certo che la fonte per il lemma sia Varrone, non Virgilio, e che i versi del secondo siano stati aggiunti come extra-quotation (va notato che gli scholia Veronensia citano lo stesso frammento a proposito dello stesso verso di Virgilio: Nonio avrebbe potuto trovare la stessa associazione anche nel suo volume, ad esempio leggendo il verso di Virgilio in una nota a margine nel suo esemplare del de vita). Lindsay (p. 33), a ragione, considera primaria la citazione dal de vita; mentre la Rychlewska (p. 137) la presenta come secondaria.
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p. 877-878.20-23; fr. 59 R., 325 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma LEPESTAE: ut fere habent aeneum illi, qui venditant oleum. lepestae etiamnunc Sabinorum fanis pauperioribus plerisque aut fictiles sunt aut aeneae.
Sulla base di queste due serie, si possono già delineare due punti di riferimento. Innanzi tutto, nella serie a) un frammento relativo a vasi per vino ne precede uno in cui si parla di alcuni contenitori di bronzo. È quindi ipotizzabile che Varrone sviluppasse due sezioni, la prima dedicata alla descrizione della tipologia dei contenitori (il fr. 57 tratta appunto di vasi da tavola), la seconda al materiale in cui questi erano realizzati (il fr. 53 offre un elenco di recipienti di bronzo). Poiché questa serie è “fuori posto”, dobbiamo vedere se questo ordine tematico è confermato da una serie sicura sempre relativa ai recipienti. È esattamente il caso della serie b), che, essendo una serie sicura, da un lato fornisce maggiori indicazioni sulla successione delle sezioni sui vasi, dall’altro offre un riscontro positivo in grado di confermare che l’ordine della serie a) è quello giusto. La serie b), in dettaglio, è aperta da un frammento su un tipo di vino, seguito da una serie di citazioni tutte relative a contenitori. Ciò ci fornisce l’informazione che nel de vita la parte sulle bevande veniva prima di quella sui contenitori. Il seguito della serie, poi, indica come a una sezione introduttiva sulla suppellettile da cucina, testimoniata dal fr. 52(a), seguisse la parte sui “vasa vinaria” (rappresentata dai frr. 55 e 58c). La serie è poi conclusa da un frammento su un recipiente in bronzo, il cui nome è stato omesso dal taglio operato da Nonio. Anche in questo caso, quindi, la serie è conclusa da un frammento dedicato al tema del materiale dei recipienti (il fatto che nel fr. 59 siano citate le “lepestae” non implica che il frammento riguardasse questo tipo di vaso e che quindi facesse ancora parte della sezione sui “vasa vinaria”; a ben guardare, il fr. 59 non descrive in alcun modo la “lepesta”, che è citata solo in quanto esempio di “aeneum vas” ancora reperibile ai tempi di Varrone, mentre il tema principale della citazione è la questione del materiale dei vasi). La testimonianza incrociata delle due serie, quindi, porta a ipotizzare il seguente ordine di argomenti in questa sezione del l. 1: VINO – SUPPELLETTILE DOMESTICA – “VASA VINARIA” – MATERIALE DEI VASI
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A questo punto, appoggiandoci allo schema sopra fornito, possiamo tentare di posizionare altri frammenti tramandati da Nonio come citazioni isolate e che, quindi, non potrebbero essere ordinati secondo la “lex”. Si tratta del fr. 54 R. (= 323 S.) e del fr. 51 R. (= 328 S.). Il fr. 54 (item erant vasa vinaria: sini, cymbia, culignae, paterae, guti, sextarii, simpuvium77) fornisce un elenco di “vasa vinaria”, fra cui il “sinus” di cui parla anche il fr. 58c. Poiché è probabile che Varrone, dopo aver elencato i vari recipienti all’inizio di una sezione tematica, passasse poi a descriverli in dettaglio singolarmente, potremmo appunto ipotizzare che il fr. 54 precedesse il fr. 58c (è quello che fa Salvadore, come si evince dalla numerazione 323 – 324): nel fr. 54 sono citati i diversi recipienti per vino, fra cui il “sinus”, che costituisce poi l’oggetto del fr. 58c. Se questa ipotesi è vera, avremmo un indizio preziosissimo per “intersecare” le due serie date da Nonio: infatti anche il fr. 57 descrive alcuni recipienti per vino, per l’esattezza, quelli usati dagli “antiquissimi”. Poiché la descrizione dei contenitori più arcaici presumibilmente precedeva quella degli oggetti comuni al tempo di Varrone, potremmo inferire che il fr. 57 venisse prima del fr. 54. Questo ci porterebbe ad avere la successione 57/322 – 54/323 – 58c/324. Meno sicuro è il passo ulteriore compiuto da Salvadore, che interseca e unifica le due serie, facendo precedere anche i frr. 52(a)/320 e 55/321 al fr. 57/32278. Infatti, in base alla “lex” possiamo solo dire che il fr. 57 precedesse il fr. 53 (dedicato a un altro tema) e, in base al contenuto, possiamo solo ipotizzare che precedesse il fr. 54 (che a sua volta potrebbe con una certa probabilità precedere il fr. 58c). Tuttavia, il ragionamento sopra condotto non
Adotto la punteggiatura di Riposati (“guti, sextarii”), dove Salvadore stampa “guti sextarii”. Con il testo di Riposati “guti” e “sextarii” sono da intendere come due diversi tipi di recipiente; mentre con il testo dato da Salvadore “sextarii” sarebbe un aggetivo riferito a “guti”. La soluzione di Salvadore implicherebbe l’esistenza di “guti” (dei bicchieri; cfr. ThLL VI, 2 2378.11-38) dalla capacità di un “sextarius” (quasi mezzo litro, misura eccessiva per una semplice tazza). Oltre a questa stranezza a livello del contenuto, il testo di Salvadore presenterebbe un aggettivo “sextarius, -a, -um” non altrove attestato dal significato di “dalla misura di un sextarius”. Al contrario, anche Catone parla di un recipiente da olio con questo nome: agr. 13.3 “sextarium olearium”. Quindi, preferirei difendere il testo “guti, sextarii” (punteggiatura adottata anche dal Thesaurus). 78 Il fr. 54 verrebbe prima del fr. 58c, ma il fr. 57 verrebbe prima del fr. 54, quindi il fr. 57 dovrebbe precedere il fr. 58c ed essere preceduto dai frr. 52a e 55, che secondo la “lex Lindsay” vengono prima del fr. 58c. 77
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implica affatto che il fr. 57 debba immediatamente precedere il fr. 54 e quindi essere necessariamente preceduto dai fr. 52(a) e 55 (che secondo la “lex” precedono di sicuro il fr. 58c). Se la successione 52(a) – 57 è resa probabile dal contenuto dei frammenti (il 52(a) tratta ancora di suppellettile domestica in generale, mentre il fr. 57 è esclusivamente dedicato ai “vasa vinaria”), non si può affatto dire lo stesso a proposito del fr. 55. Anzi, il fatto che il fr. 57 parli dei bicchieri da vino usati dagli “antiquissimi”, mentre il fr. 55 parla di quelli usati “etiamnunc” ai tempi di Varrone, credo possa valere come prova del fatto che l’ordine più probabile sia 57 – 55 (in questo inverto l’ordine dato da Salvadore). Anche adottando l’ordine 57 – 55, la successione sopra individuata (57 – 54 – 58c) resterebbe del tutto valida. In conclusione, inserendo nella serie anche il fr. 54, la sezione del l. 1 che stiamo tentando di ricostruire assumerebbe la seguente facies: dopo una sezione sugli utensili da cucina (fr. 52a), Varrone passava alla descrizione dei recipienti da vino, prima quelli usati dagli “antiquissimi” (fr. 57), poi quelli sopravvissuti fino al suo tempo (fr. 55). Seguiva poi (come indicato dallo stilema “item”, che marca il passaggio a una nuova sezione) l’elenco dei “vasa vinaria” in senso proprio (fr. 54), alcuni dei quali erano poi descritti in dettaglio, come il “sinus” (fr. 58c). Infine, chiusa la sezione sui “vasa vinaria”, si apriva quella relativa ai materiali in cui i vasi erano realizzati (frr. 53 e 5979). Alla sezione sui recipienti da cucina sono riconducibili due citazioni: il fr. 52(a) (che sappiamo seguiva il fr. 56) e il fr. 52(b), che, contrariamente a quanto sostenuto da Riposati, va considerato alla stregua di una citazione isolata. Il problema è appunto stabilire in che ordine questa citazione vada posta rispetto ai frammenti sui recipienti da vino e sul materiale. Salvadore decide di stampare il fr. 52(b) dopo i frammenti sui “vasa vinaria”, in modo da attribuire alla sezione sui recipienti all’incirca questa articolazione: sezione introduttiva sulla suppellettile domestica (fr. 52a) – “vasa vinaria” (frr. 55 – 57 – 54 – 58c – 59) – “vasa aquaria” (fr. 52b) – materiale (fr. 53) – “vasa escaria” (fr. 51). Tuttavia, questo Faccio precedere il fr. 53 al fr. 59, in quanto il primo fornisce un elenco di vasi in bronzo ed è naturale che questo fosse posto in apertura di una sezione. Il fr. 59, che forse faceva parte di una discussione su recipienti di cui era difficile individuare il materiale originario (bronzo o ceramica?), si spiegherebbe meglio come contributo successivo al discorso aperto dal fr. 53. Salvadore, invece, stampa il fr. 59 prima del fr. 53, in quanto considera il primo ancora relativo alla “lepesta” e quindi lo inserisce all’interno della sezione sui “vasa vinaria”, non nell’ambito della discussione sul materiale. 79
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creerebbe una difficoltà a livello del contenuto, in quanto due frammenti relativi a recipienti per acqua si troverebbero sia prima sia dopo la sezione sui “vasa vinaria”. Da un lato, questo fenomeno appare sospetto, dall’altro, è difficile stabilire una netta demarcazione fra la suppellettile domestica del fr. 52(a) e i “vasa aquaria” del fr. 52(b). Ritengo dunque più economico pensare che anche il fr. 52(b) potesse trovare posto nella sezione introduttiva da cui è tratto il fr. 52(a), in cui sono citati in effetti recipienti, come la “nassiterna” (l’equivalente del nostro annaffiatoio) esclusivamente per acqua. Piuttosto che duplicare, quindi, la trattazione dei “vasa aquaria”, penserei a un blocco unitario posto prima della sezione sui vasi da vino80. Di conseguenza, stamperei il fr. 52(b) dopo il fr. 52(a) e prima del fr. 57. Infine, resta un’ultima citazione isolata, il fr. 51 R. (= 328 S.), che fornisce un elenco di “vasa escaria”. Purtroppo, si tratta dell’unico frammento pervenutoci sui recipienti da cibo e, di conseguenza, non possiamo dire se precedesse o seguisse la sezione, sopra ricostruita, sui contenitori di bevande. Salvadore ipotizza che, nel l. 1, questa sezione chiudesse quella sui recipienti e quindi stampa il fr. 51 al termine di tutta la serie (cioè dopo il fr. 53, che secondo lui sarebbe l’ultimo relativo a vasi per bevande). Tuttavia, non c’è alcun elemento che supporti questa ipotesi: nulla vieta che Varrone avesse discusso i contenitori da cibo in una apposita sezione (di cui resta il solo fr. 51) posta prima di quella sui recipienti per bevande. Quindi, in linea teorica il fr. 51 potrebbe anche essere posizionato prima della serie sui “vasa vinaria” (cioè prima del fr. 57). Ancora, la prima serie (aperta dal fr. 56/313) prova che la sezione sulle bevande veniva prima di quella sui contenitori. Possiamo dunque ipotizzare che Varrone disponesse la materia nel seguente ordine: cibo – vino81 – introduzione sulla suppellettile domestica – recipienti da cibo – recipienti da vino – materiale. Questa disposizione ordinerebbe i frammenti sui recipienti in modo parallelo all’organizzazione Del resto, tanto il fr. 52(a) quanto il fr. 52(b) non trattano di vasi propriamente da tavola (come sono invece i “vasa vinaria” degli altri frammenti), bensì di contenitori per acqua da impiegare in generale nei lavori domestici, come innaffiatoi e mestoli. Le due citazioni, dunque, sono accomunate dal fatto di descrivere contenitori di uso non alimentare. Ciò sarebbe una conferma all’ipotesi che Varrone trattasse prima questo tipo di suppellettile, per poi passare a discutere del vasellame propriamente da tavola (“vasa escaria” e “vinaria”). 81 Salvadore (vedi infra) sembra ammettere che Varrone, nel l. 1, trattasse prima del cibo e poi delle bevande. 80
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della materia supposta per i frammenti sugli alimenti: se Varrone trattava prima del cibo e poi del vino, è plausibile che presentasse anche i “vasa escaria” prima di quelli “vinaria”. In tal caso, il fr. 51 andrebbe stampato fra il fr. 52(b) e il fr. 57. In conclusione, l’ordine finale dei frammenti sui recipienti sarebbe82: 52(a) – 52(b) – 51 – 57 – 55 – 54 – 58c – 53 – 59 = 320 – 326 – 328 – 322 – 321 – 323 – 324 – 327 – 325 La sezione sul vino La discussione precedente ha dimostrato che il fr. 56 R. (= 313 S.), dove era discussa l’etimologia di un tipo di vino novello, il “calpar”83, precedeva la sezione relativa ai “vasa vinaria”. Possiamo quindi dedurre che Varrone, nel primo libro del de vita, facesse precedere alla parte relativa ai contenitori una sezione in cui erano descritte le più antiche bevande. Di conseguenza, Salvadore inserisce dopo il fr. 56/313 una serie di frammenti, il cui ordine è pressoché sicuro, tutti riguardanti le bevande alcoliche il cui consumo era permesso alle donne, cui era interdetto bere vino. Le citazioni sono le seguenti (in questo caso, le riporto secondo il testo di Salvadore, in quanto è quello che riproduce meglio la divisione fra lemmi data dal testo di Nonio): – p. 884.9-12; fr. 40 R., 316 S.; citazione secondaria (dal l. 1); chiude il lemma MVRRINA: †tu autem mur[mu]rina†; loram dicebant in vindemia, cum expressissent acinis mustum et folliculos in dolium coniecissent. – p. 884-885.14-17; fr. 39 R., 315 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma LORA: antiquae mulieres maiores natu bibebant loram aut sapam aut defretum aut passum , quam murrinam quidem Plautus appellare solet. – p. 885.18-22; fr. 43 R., 317 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma SAPA: sapam appellabant quod de musto ad mediam partem decoxerant; defretum, si ex duabus partibus ad tertiam redegerant defervefaciendo. Sottolineo i frammenti sul cui ordine mi discosto da Salvadore. Questo secondo il testo tradito, difeso da Salvadore. Riposati, accogliendo la congettura di Kettner, considera il frammento relativo non al vino, ma a un tipo di botte e, di conseguenza, lo ascrive alla sezione sui “vasa vinaria” (tra l’altro, con una vistosa infrazione della “lex Lindsay”). 82 83
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antonino pittà
– p. 885.23-24; fr. 41 R., 318 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma PASSVM: passum nominabant, si in vindemia uvam diutius coctam legerent eamque passi essent in sole aduri. – p. 885.25-1; fr. 42 R., 319 S.; citazione primaria (dal l. 1); costituisce il lemma MVRIOLAM: vino addito lora, passum vocare coeperunt; muriolam nominabant, quod ex uvis expressum erat passum et ad folliculos reiculos et vinacia ea dicebant sapam. Come si vede, il testo di queste citazioni è spesso corrotto e problematico. Poiché per ora ci interessa il problema dell’ordine delle citazioni e non il loro testo (che sarà discusso in sede di commento), ho riportato i frammenti così come li stampa Salvadore. Il loro contenuto è tale da permetterci di ricostruire l’ordine delle citazioni anche senza fare ricorso alla “lex Lindsay”. Questa, comunque, si applica alla perfezione nel nostro caso e il risultato notevole dell’analisi è che i frammenti sono citati da Nonio nella stessa successione che un editore adotterebbe nell’ordinarli in base al loro contenuto. In altre parole, ci troviamo nella fortunata condizione di poter disporre di una prova ulteriore a favore della validità della “lex”. Esaminiamo meglio i nostri dati. Partirei dalla serie di citazioni primarie: queste sono tradite l’una di seguito all’altra, derivano dalla lista 41 e chiudono il l. 18 di Nonio (de generibus ciborum vel potionum). Applicando la “lex”, ne consegue che il loro ordine sarà 39 – 43 – 41 – 42 R. (ossia 315 – 317 – 318 – 319 S.). Il fr. 40 R., in quanto citazione secondaria isolata, non si presterebbe all’applicazione della “lex” e andrebbe, in linea teorica, considerato a parte. Tuttavia, il fr. 39 (il primo della serie di primarie) consiste nella frase di apertura di questa sezione del primo libro del de vita. Ora, se vediamo l’argomento dei frammenti successivi, noteremo che ciascuno di essi descrive una delle bevande citate nel fr. 39 nello stesso ordine in cui queste sono menzionate nel frammento: il fr. 43 tratta della “sapa” e del “defretum”, il fr. 41 del “passum”, il fr. 42 della “murrina/ muriola”. Mancherebbe una menzione della “lora”; ma questa è fornita proprio dal fr. 40 (la citazione secondaria), che così viene a inserirsi dopo il fr. 39 e prima del fr. 4384. Quindi, sia applicando la “lex” che attenendosi al solo contenuto dei frammenti, l’unica conclusione possibile è che l’ordine da dare ad essi sia L’ordine 40 – 43 – 41 era stato suggerito già da Terzaghi nella sua recensione all’edizione di Riposati (in «Leonardo» 1940, p. 40). 84
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39 – 40 – 43 – 41 – 42 R. (ossia 315 – 316 – 317 – 318 – 319 S.). Riposati ignora totalmente la “lex”, mentre Salvadore vi si adegua del tutto, come si evince dalla sua numerazione. Credo, in conclusione, che non possano sussistere dubbi sull’esattezza di questa successione. Vi sono, tuttavia, due scelte di Salvadore meno condivisibili. Innanzi tutto, egli posiziona fra il fr. 56/313 e il fr. 39/315 una citazione85 (il fr. 34/314) relativa agli antichi metodi di cottura del pane. Questo frammento, a livello tematico viene chiaramente a interrompere la sezione sulle bevande con un argomento estraneo. Avremmo infatti un frammento sulla forma del forno incastonato fra una citazione sul vino novello e una serie di citazioni relative a bevande semialcoliche. Questa inserzione suona ancora più strana se si tiene conto che lo stesso Salvadore ipotizza che, nel primo libro, la sezione sul pane e sui cereali (cui dovrebbe appartenere il fr. 34) venisse prima di quella sulle bevande alcoliche. Infatti, l’editore pubblica prima del fr. 56 tutta una serie di citazioni86 che si riferiscono all’etimologia del termine “panis” (fr. 309/33), a un tipo di focaccia di farro (fr. 310/35); all’etimologia di “adoreum” e “far” (frr. 311/36a e 312/36c)87. Staccare il frammento sul forno da questo blocco tematico e inserirlo nell’ambito di una discussione sul vino è quindi ingiustificato. Di conseguenza, proporrei di sistemare il fr. 34 R. (= 314 S.) fra quelli riconducibili alla sezione su pane e cereali che precedeva il fr. 56 R. (= 313 S.). Il frammento è citato all’interno di una serie sicura. Tuttavia, questo non ci è di molto aiuto. L’applicazione della “lex”, infatti, ci dice che il nostro frammento veniva dopo altri dove si tratta di riti religiosi e delle dimore dei re di Roma. Questo fattore non fa che confermare la notizia che Varrone, nel l. 1, trattasse prima gli antichi culti e le vicende dell’età monarchica e poi aprisse la sezione sulla “res familiaris” (che comprendeva anche la parte sul pane), ma non ci dice in che rapporto il frammento sul forno fosse con gli altri frammenti di argomento analogo. 86 Nonio (a p. 223.14-15) riporta un altro frammento (fr. 32a/340) relativo ai fornai e all’etimologia del termine “pistor”. In quanto citazione secondaria isolata, non può essere ordinata secondo la “lex”. Tuttavia, credo che non sia fuori luogo legare questo frammento agli altri sulla produzione del pane, come fa giustamente Riposati (mentre Salvadore lo relega fra i fragmenta incertae sedis). Infatti, in assenza del criterio della “lex”, il frammento può essere ordinato solo sulla base del contenuto e questo, nel nostro caso, è del tutto affine a quello dei frammenti sui cereali (in particolare, si vedano i frr. 309, 311 e 312, che, esattamente come il fr. 340, forniscono delle etimologie). 87 Le citazioni sono tutte isolate e quindi possono essere raggruppate solo in base al contenuto. 85
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In secondo luogo, alla serie 39 – 40 – 43 – 41 – 42 potrebbero riferirsi altre due citazioni isolate (frr. 38h/334 e 37/335), che Salvadore invece stampa a parte, come se appartenessero a tutt’altro contesto. Ci sono tuttavia vari indizi che spingerebbero a legare questi due frammenti alla serie sulle bevande: cercherò di argomentare brevemente la mia posizione. Il fr. 39 elenca i derivati dolci o analcolici dell’uva che le donne, cui era interdetto il consumo del vino vero e proprio, potevano sorbire. Al divieto di bere vino la tradizione collega due notizie, che trovano riscontro anche nei nostri frammenti del de vita: l’episodio di Metennio88, assolto da Romolo per aver ucciso la moglie, sorpresa a bere del vino, e l’istituzione dello “ius osculi”, in base al quale i parenti avevano il diritto di baciare sulla bocca le donne di famiglia per scoprire, dal loro alito, se avessero bevuto di nascosto89. L’exemplum di Metennio, in particolare, è messo da Plinio in relazione con la descrizione delle bevande concesse alle donne: l’erudito, facendo il nome di Varrone, lo racconta inserendolo appunto nel mezzo di un excursus sui “dulcia” e “deuteria” (derivati del vino del tipo di quelli descritti da Varrone nella serie sulle bevande). Per di più, Plinio conclude la sezione proprio con un riferimento allo “ius osculi” (n. h. 14, 88-90): M. Varro auctor est Mezentium Etruriae regem auxilium Rutulis contra Latinos tulisse vini mercede quod tum in Latino agro fuisset. non licebat id feminis Romae bibere. invenimus inter exempla Egnati Metenni uxorem, quod vinum bibisset e dolio, interfectam fusti a marito eumque caedis a Romulo absolutum. Fabius Pictor in annalibus suis scripsit matronam, quod loculos in quibus erant claves cellae vinariae resignavisset, a suis inedia mori coactam. Cato ideo propinquos feminis osculum dare, ut scirent an temetum olerent. hoc tum nomen vino erat, unde et temulentia appellata. Venendo a Varrone, Nonio riporta il primo frammento da discutere (fr. 38h R. = 334 S.) che probabilmente concerneva questo episodio: quantopere abstemias mulieres voluerint esse, vel ex uno exemplo pote videri. Nonio, nel suo taglio, non ci fornisce l’indicazione dell’exemplum. Tuttavia, abbiamo buone probabilità per pensare che qui Varrone si riferisse proprio a Metennio. C’è infatti un
Oltre che da Plinio (n. h. 14, 89), l’episodio è trattato anche in Val. Max. 6, 3.9; Serv. ad Aen. 1, 737 e Tert. apol. 6.25. Al divieto di bere vino (senza riferimento a Metennio) si riferiscono Cic. rep. 4, 6, Dion. Hal. ant. Rom. 2, 25.6 e Val. Max. 2, 1.5. 89 Sullo “ius osculi”, oltre a Plinio, vedi il passo citato di Tertulliano, Polyb. 6, 11.4 e Plut. aitia Rom. 6. 88
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passo parallelo di Gellio (10, 23) che sembra derivare da questa sezione del de vita: qui de victu atque cultu populi Romani scripserunt mulieres Romae atque in Latio aetatem abstemias egisse, hoc est vino semper, quod ‘temetum’ prisca lingua appellabatur, abstinuisse dicunt, institutumque ut cognatis osculum ferrent deprehendendi causa, ut odor indicium faceret, si bibissent. bibere autem solitas ferunt loream, passum, murrinam et quae id genus sapiant potu dulcia. Vari sono gli elementi che accomunano questo brano ai nostri frammenti del de vita: la presenza del termine “abstemias”, lo stesso alla base della citazione del fr. 38h, e soprattutto la menzione delle bevande il cui consumo era concesso alle donne (le stesse della serie 39-4390). Ancora, la parafrasi che apre il passo (qui de victu atque cultu populi Romani scripserunt) sembra una forte allusione proprio al titolo de vita populi Romani91. Esaminiamo in parallelo il passo sopra riportato di Plinio: anche qui troviamo, come in Gellio, il riferimento al divieto di bere vino e allo “ius osculi” e l’informazione che il vino era anticamente detto “temetum”, con in più la menzione di Metennio. Ricapitolando, Gellio consulta quasi sicuramente il de vita, di cui parafrasa il titolo e da cui trae, nell’ordine, le seguenti informazioni: 1. la notizia sul divieto di bere vino; 2. l’etimologia92 del termine “abstemius” (l’interesse di Varrone per i problemi etimologici è ben noto e la citazione di Nonio riporta il fr. 38h proprio alla voce “ABSTEMIVS”); 3. un riferimento allo “ius osculi” e 4. l’elenco delle Mancano la “sapa” e il “defretum”, ma, se ammettiamo che qui Gellio dipenda da Varrone, la cosa è facilmente spiegabile con il fatto che Gellio, riassumendo il de vita, tendesse a tralasciare alcune informazioni (e infatti non riporta l’exemplum di Metennio). 91 Nel fr. 24 la sezione del primo libro dedicata agli antichi alimenti è indicata proprio con le parole “de victuis consuetudine primigenia”: il fatto che Gellio dica “de victu” potrebbe essere un ulteriore elemento per sostenere che stia adoperando proprio questa sezione del de vita come fonte. Resta comunque una piccola difficoltà nel fatto che non si vede il motivo per cui Gellio, in genere precisissimo nell’indicare l’opera e l’autore da cui attinge, in questo caso avrebbe adombrato il de vita populi Romani di Varrone sotto un’allusione ricercata. Va pur detto che anche a 13, 2.1 Gellio potrebbe alludere al de poetis di Varrone con la perifrasi: quibus otium et studium fuit vitas atque aetates doctorum hominum quaerere ac memoriae tradere (ma l’identificazione è controversa, cfr. Dahlmann 1963, p. 49, n. 1). 92 Per “abstemius” si proponevano due etimologie: una da “abstineo” (paretimologia) e una (quella corretta, cfr. Ernout-Meillet, p. 1200) da “temetum” (abstemius = abs temeto). Gellio, in modo un po’ criptico, allude a entrambe con la frase: vino semper, quod prisca lingua temetum appellabatur, abstinuisse. Cfr. ThLL I 188.52-189.14. 90
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antonino pittà
bevande concesse alle donne. Plinio, parallelamente, riporta, in un passo che si apre con la menzione di Varrone come fonte, la stessa notizia sul divieto di bere vino, l’esempio di Metennio, quello dello “ius osculi” (riferito però a Catone93) e l’informazione che il vino era detto “temetum”. Da questo confronto risulta che Gellio e Plinio riportano sostanzialmente le stesse notizie in un contesto molto simile: cosa che farebbe pensare a una fonte comune. Ora, Plinio nomina esplicitamente Varrone, ma non specifica da quale opera del Reatino attinge. Gellio, invece, non menziona Varrone, ma lo lascia intendere con un’allusione che rinvia al de vita populi Romani. Gellio si discosta da Plinio soltanto nel non citare la vicenda della moglie di Metennio: tuttavia, il fr. 38h, dove un exemplum è esplicitamente menzionato (ed è difficile pensare a un episodio diverso da quello di Metennio), lascia intendere che questa si trovasse in Varrone. Questi dati confermano la supposizione che Varone sia qui la fonte comune di Gellio e Plinio. A questo punto, incrociando i paralleli in nostro possesso e quanto ipotizzabile a partire dai frammenti trasmessi, possiamo anche tentare di ricostruire l’assetto di tutta la sezione del de vita sulle bevande94. Varrone doveva aprire la trattazione dando la notizia principale (alle donne era vietato bere vino: non a caso sia Plinio sia Gellio aprono la discussione con questo dato). A questo punto, è verosimile che Varrone fornisse la notizia antiquaria che il nome antico del vino era “temetum” (accordo Gellio-Plinio) e a questa collegasse la discussione sull’etimologia di “abstemius” (cui accennerebbe Gellio). Quindi, avremmo il nostro fr. 38h, che forniva un exemplum di quanto i Romani tenessero a che le donne fossero “abstemiae” (come si è detto, sulla base di Plinio, possiamo sospettare che l’exemplum fosse quello di Metennio). A tale esempio poteva seguire l’accenno allo “ius osculi” (accordo di Plinio e Gellio; forse fr. 37, cfr. infra). Infine, la trattazione doveva chiudersi con l’elenco delle bevande concesse alle donne (Gellio e fr. 39-43). Sulla base della ricostruzione proposta, ritengo sensata la scelta editoriale di Riposati, che stampa “in parallelo” il frammento del de vita citato da Non credo che questo possa essere un argomento forte per negare la dipendenza, in questo punto, di Plinio da Varrone: data la tendenza a citare sempre la fonte più remota, può darsi benissimo che Plinio trovasse Catone citato in Varrone a proposito dello “ius osculi” e che quindi indicasse come fonte su quella particolare notizia non più Varrone, ma Catone stesso. 94 La mia ipotesi di ricostruzione è condotta soprattutto sulla base del passo di Gellio, che a differenza di Plinio deriva senza dubbio dal de vita e che sembra riprodurne in maniera più fedele la successione degli argomenti. 93
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Nonio (come 38h), il passo di Gellio (come 38a) e quello di Plinio (38b), perché dal loro confronto sinottico si possa risalire, almeno in via ipotetica, al contesto varroniano originario95. Non condivido del tutto, invece, la scelta di Salvadore di pubblicare il fr. 38h isolato e di mettere i passi di Plinio e Gellio in apparato: infatti così non si distingue il materiale probabilmente tratto da Varrone dai luoghi che, senza derivare necessariamente dal Reatino, riportano notizie simili. Inoltre, si è visto che possiamo usare il passo di Gellio (che, essendo un riassunto della nostra sezione del de vita, dovrebbe riportarne gli argomenti così come si succedevano in Varrone) per dare al fr. 38h (citazione secondaria isolata, quindi non ordinabile in base alla “lex Lindsay”) una posizione, anche se solo ipotetica, nella serie dei frammenti del de vita. Appunto, poiché in Gellio la menzione del termine “abstemiae” viene prima dell’elenco dei “potu dulcia”, è ipotizzabile che il fr. 38h precedesse la serie 39-43. In questo caso, l’ordine da me proposto coincide con quello di Riposati. Salvadore, come si è detto, probabilmente dubitando che l’exemplum del fr. 38h sia quello di Metennio, pone invece il frammento dopo la serie sulle bevande e, addirittura, dopo quelle sulla suppellettile domestica e sugli indumenti (considerandolo, quindi, come una sorta di frammento isolato). Ma i punti interessanti non sono finiti: abbiamo detto, sulla base dell’accordo di Gellio e Plinio, che Varrone poteva fare un accenno anche allo “ius osculi”. Ora, Nonio tramanda un frammento, sempre del primo libro del de vita, concernente proprio l’etimologia del termine “osculum” (fr. 37 R. = 335 S., ideoque hoc ab ore dicitur osculum, non a suavitate, unde, quod suave sit, savium). È forte la tentazione di collegare questo frammento alla trattazione dello “ius osculi” e quindi alla nostra sezione. Varrone, dopo aver specificato che era necessario che l’“osculum” venisse dato in bocca, così da poterne cogliere l’alito più o meno vinoso, avrebbe potuto aggiungere la nota erudita che appunto da tale caratteristica (“ideo”) questo tipo di bacio aveva tratto il suo nome. Si tratta ovviamente di una semplice ipotesi, basata sull’accordo fra Gellio e Plinio e sul fatto che il fr. 37 avrebbe, in questa collocazione, una sua razionalità. Gli altri paralleli (38c, d, e, f ), che Riposati riporta come sicuramente derivati da Varrone, in realtà hanno valore solo come paralleli, ma sono inutili (o comunque meno validi dei brani di Plinio e Gellio), per la ricostruzione del de vita. Infatti, i passi di Valerio Massimo e quello di Servio divergono in parte dalla versione ricostruibile dall’accordo Varrone-Plinio-Gellio, per cui è ipotizzabile che attingessero a un’altra fonte; mentre il passo di Tertulliano è probabilmente un semplice riassunto del luogo di Plinio. 95
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È quanto immagina Riposati, che infatti stampa il fr. 37 a stretto contatto col fr. 38h (tuttavia, in base al parallelo di Gellio, che riporta prima l’etimologia di “abstemius” e poi parla dello “ius osculi”, sarebbe preferibile porre i frammenti nella successione 38h – 3796). Tenendo conto anche del fr. 37, l’ordine risultante dei frammenti secondo la mia ricostruzione sarebbe: 38h – 37 – 39 – 40 – 43 – 41 – 42 R. (= 334 – 335 – 315 – 316 – 317 – 318 – 319 S.). Ancora, a questa serie (tutta relativa al tema “le donne e il vino”) potremmo far precedere il fr. 56 R. (= 313 S.), mentre il frammento sul forno (34 R. = 314 S.) andrebbe staccato dalla serie sulle bevande e inserito fra i frammenti relativi al pane e ai cereali. Infine, poiché secondo la “lex” la sezione sul vino precedeva quella sui contenitori, possiamo far seguire alla serie sopra citata quella sui vasi di cui si è parlato nel capitolo precedente. Il risultato finale di queste indagini porta a ipotizzare questo ordine per i frammenti del l. 1 attinenti a cibi, bevande e recipienti: 32a – 34 – 33 – 35 – 36a – 36c – 56 – 38h – 37 – 39 – 40 – 43 – 41 – 42 – 52(a) – 52(b) – 51 – 57 – 55 – 54 – 58c – 53 – 59 = 340 – 314 – 309 – 310 – 311 – 312 – 313 – 334 – 335 – 315 – 316 – 317 – 318 – 319 – 320 – 326 – 328 – 322 – 321 – 323 – 324 – 327 – 325 In base all’ordine proposto, si può ipotizzare che Varrone disponesse la propria materia secondo questo criterio: prima doveva trattare i modi in cui gli antichi cuocevano e impastavano il pane (frr. 32, 33, 35, 36a, 36c, 34), per poi passare a discutere delle bevande (frr. 56 – 42) e della suppellettile domestica (frr. 51 – 59). A loro volta, le sezioni sulle bevande e sui recipienti erano divise in sottosezioni. La prima doveva avere una parte dedicata al vino (di cui resta il fr. 56), cui seguivano la notizia che il consumo di questa bevanda era vietato alle donne, notizia confermata dall’exemplum di Metennio (fr. 38h) e dall’istituzione dello “ius osculi” (fr. 37), e l’elenco delle bevande permesse alle donne (frr. 39-42). La sezione sulla suppellettile domestica, invece, poteva essere aperta
Ordine scelto anche da Salvadore (334 – 335). Il fr. 37, essendo citazione primaria isolata, non si può ordinare secondo la “lex”. L’editore, tuttavia, sgancia questi due frammenti dalla serie sulle bevande. 96
60
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da un’introduzione moraleggiante dove Varrone criticava il vasellame degli antichi, povero e semplice, ma funzionale, contrapponendolo ai servizi, preziosi e superflui, dei suoi tempi quae luxuriae causa essent parata (fr. 52a). Seguiva la descrizione di questo tipo di recipienti di uso domestico (fr. 52b), dei “vasa escaria” (fr. 51), dei “vasa vinaria”, da quelli più antichi (fr. 57) fino a quelli ancora in uso al tempo di Varrone (frr. 55, 54, 58c). La sezione era chiusa da una discussione relativa al materiale in cui i contenitori erano realizzati (frr. 53, 59). Prospetto dell’ordine dei frammenti In questa tabella propongo un prospetto rapido di tutti i frammenti del de vita che saranno commentati in questo lavoro. Come si è detto, il fulcro su cui poggia l’intera ricostruzione è costituito dalla “lex Lindsay”, che è stata seguita nell’ordinare i frammenti cui può essere applicata (a tale operazione si prestano soprattutto i frammenti dal l. 1). Nei casi in cui la “lex” viene meno e i frammenti possono essere collocati solo in virtù delle notizie che riportano, ho cercato di inserirli all’interno delle sezioni ad essi vicine per contenuto e di adottare di volta in volta l’ordine che fornisse una successione sensata. Infine, di fronte a citazioni isolate dal contenuto dubbio o difficilmente identificabile, mi adeguo alla scelta di Salvadore, stampandole in una sorta di appendice al termine di ciascun libro. Seguo Salvadore anche nell’ordine dei frammenti di cui è incerto il libro di provenienza. Pittà
Riposati
Salvadore
1
1
283
2
5
285
Libro I a) Proemio b) Parte prima: la monarchia b. 1) Regno di Romolo: costituzione Regno di Romolo: situazione economica
3
10
289
Regno di Romolo (?): istituzione dei ludi*
4
27
301
5
23
302
Introduzione moraleggiante
6
15
295
Semplicità del culto antico
7
14
294
Nota “archeologica”
8
13
293
b. 2) Regno di Numa: digressione sul culto
61
antonino pittà
Istituzioni legate ai templi: l’asylum†
9
4
284
Riti nuziali
10
25
304
11
26
305
Regno di Numa: il calendario
12
18
297
Etimologia di Februarius (?)
13
22
298
Riti di maggio
14
19
299
Riti di giugno
15
21
300
b. 3) Regno di Tullo Ostilio: l’episodio di Metto Fufezio
16
6
286
b. 4) Regno di Servio Tullio: discussione su una statua del re
17
17
291
Regno di Servio Tullio: le riforme
18
8
287
19
9
288
Regno di Servio Tullio: prime forme di monetazione
20
11
292
b. 5) Caduta dei re: Lucrezia
21
12
296
b. 6) Sunto sulle dimore dei re
22
7
290
Partizione della materia
23
24
303
c.1) La casa romana
24
28
307
25
29
308
26
60
337
I mugnai
27
32(a)
340
Il forno
28
34
314
Etimologia di panis
29
33
309
Preparazioni a base di pane
30
35
310
Digressione sulla natura dell’adoreum
31
36(a)
311
Etimologia di adoreum
32
36(c)
312
Il calpar
33
56
313
Le bevande concesse alle donne: l’exemplum di Metennio
34
38(h)
334
Lo ius osculi
35
37
335
c) Parte seconda: la vita quotidiana
Il torum c.2) L’alimentazione: pane e cereali
c.3) L’alimentazione: il vino
62
m. terenzio varrone, de vita populi romani
Elenco delle bevande
36
39
315
La lora
37
40
316
La sapa e il defretum
38
43
317
Il passum
39
41
318
La muriola
40
42
319
41
52(a)
320
42
52(b)
326
Vasa escaria
43
51
328
Vasa vinaria: i più antichi
44
57
322
Vasa vinaria: le coppe
45
55
321
Altri vasa vinaria
46
54
323
47
58(c)
324
Vasi in bronzo
48
53
327
Vasi in bronzo: un esempio
49
59
325
La toga
50
44
306
Subucula e indusium
51
45
329
Caltula
52
46
330
Capi assenti in età arcaica
53
47
331
c.4) I recipienti La suppellettile domestica
c.5) L’abbigliamento
54
48
332
54(a)
-
-
Vesti da lutto
55
49
333
Tenuta dei bambini
56
50
336
d) Frammenti dal contesto incerto
57
3
338
58
2
339
59
78
388
60
79
389
61
81
390
62
80
391
Libro II
‡
a.1) Riti nuziali (dall’episodio della lex Canuleia?) a.2) Riti per la nascita di un bambino
63
antonino pittà
b) Presa di Roma da parte dei Galli
63
61
378
64
62
379
65
66
395
66
67
396
d) Cariche pubbliche: consoli e pretori
67
68
383
Cariche pubbliche: censori
68
69
384
Cariche pubbliche: il Senato
69
70
385
Le elezioni
70
71
392
e) L’esercito
71
77
381
L’esercito: i feziali
72
75
386
73
76
387
c) Lotte civili a Roma (?)
f ) Le Forche Caudine e l’exemplum di Decio Mure
74
63
380
g) La guerra contro Pirro
75
64
382
h) Sviluppo economico
76
72
393
77
73
399
78
83
401
79
84
394
80
85
397
81
65
398
82
74
400
La leva
83
86
402
Gli accensi
84
87
403
Gli optiones
85
88
404
I rorarii
86
89
405
L’armamento
87
90
406
88
91
417
89
92
418
90
93
419
i) Usi conviviali l) frammenti dal contesto incerto
Libro III
§
a) L’esercito
Diritto militare
64
m. terenzio varrone, de vita populi romani
b) I riti funebri
91
104
410
92
105
411
93
106
412
94
103
424
c) Sezione storica Introduzione della moneta (269 a.C) Prima guerra punica?
95
98(a)
413
Prima guerra punica: battaglia delle Egadi (242 a.C.)
96
100
414
Seconda guerra punica: Canne (216 a.C.)
97
94
407
Seconda guerra punica: Fabio Massimo
98
95
408
Seconda guerra punica: altri episodi
99
96
409
Seconda guerra punica: le prime vittorie
100
97
420
Campagne nel Mediterraneo (Flaminino?)
101
102
423
L’eredità di Attalo III (133 a.C.)
102
112
415
Altre vicende belliche
103
113
416
Le navi
104
99
421
Il trionfo
105
101(b)
422
a) Introduzione apologetica
106
124
438
b) Una questione linguistica
107
129
440
c.1) I Gracchi
108
114
425
c.2) La guerra sociale (?)
109
115
426
c.3) Scontro fra Cesare e Pompeo
110
117
428
111
116
427
112
118
429
113
119
430
114
120
431
115
121
434
116
122
435
117
123
437
d) altro
Libro IV
c) Le guerre civili
d) Digressione sulla corruzione
65
antonino pittà
e) Digressione contro il lusso
118
125(b)
432
119
128
436
120
126
439
f ) Altro
121
127
433
Fragmenta libri incerti
122
107
441
123
30(a)
443
124
110
442
Il frammento potrebbe anche appartenere alla descrizione dei riti compiuti all’inaugurazione dei “ludi” e, di conseguenza, essere inserito nella successiva sezione sul culto. † Data l’impossibilità di identificare con certezza l’“asylum” del frammento con l’“asylum Romuli” (cfr. supra), preferisco inserire la citazione all’interno della sezione più generale sul culto. ‡ Mentre per il l. 1 l’applicazione della “lex Lindsay” dimostra che la sezione storica sulla monarchia precedeva quella adibita alla descrizione degli oggetti di uso comune, nel caso del l. 2 le serie indicano che il racconto degli eventi storici e le sezioni propriamente antiquarie si alternavano nel corso del libro. Infatti, il fr. 77 R. (sull’esercito), precede il fr. 64 R. (forse relativo alla guerra contro Pirro). Di conseguenza, nell’ordinare i frammenti “storiografici” di questo libro ho deciso di rispettare l’ordine cronologico dei fatti, pur dovendo, in mancanza del supporto della “lex”, presentare la struttura del libro e l’articolazione dei temi solo come semplice ipotesi. Per questo motivo, ho ritenuto preferibile scostarmi poco dall’ordine fornito da Salvadore. § Dalla “lex Lindsay” si ricava che nel l. 3 le sezioni dedicate all’esercito e ai riti funebri precedevano la parte “storiografica” sulla conquista del Mediterraneo. Poiché la “lex” non può essere applicata a citazioni tratte dalle sezioni tematiche, per queste ho stabilito di adottare l’ordine di Salvadore. Per quanto riguarda la parte storica, ho ordinato i frammenti in base alla cronologia (dove individuabile) delle vicende descritte. *
66
Commento
Libro I 1 (= 1 R.; 283 S.) neque ille Callicles, quaternum digitum tabellis nobilis cum esset factus, tamen in pingendo ascendere potuit ad Euphranoris altitudinem 1: pinguendo N, corr. N1; 2: eufranonis N, Eufranoris N1 Char. ars GLK I p. 126.25 (= 161.1 B.): digitum pro digitorum; Varro ad Atticum de vita p. R. libro I.
né il celebre Callicle, per quanto avesse ottenuto rinomanza grazie alle sue piccole tavole da quattro dita per lato, poté tuttavia raggiungere in pittura le vette di Eufranore Argomento del frammento è il confronto fra due pittori di ineguale valore: Callicle, nonostante la perizia mostrata nella realizzazione di tavole di piccole dimensioni, non riuscì a raggiungere la gloria di Eufranore. Riposati (p. 93) attribuisce il frammento a una sezione proemiale del de vita, dove Varrone avrebbe esaltato la superiorità nel campo della ricerca erudita di Attico, il dedicatario dell’opera, paragonando questi a Eufranore e se stesso a Callicle. L’ipotesi di Riposati, per quanto intrigante, tende a ricostruire un intero contesto sulla base di una citazione che, di per sé, offre ben pochi appigli a un’operazione del genere. Sulla base del contenuto del frammento, infatti, l’unico punto ricavabile è che Varrone, in una sezione del l. 1 del de vita, parlasse di due persone che, in un dato campo, non avevano raggiunto gli stessi risultati e lo stesso successo e citasse, quindi, casi di coppie di artisti che, analogamente, pur operando nello stesso campo, non avevano raggiunto lo stesso livello: uno di questi esempi era costituito dalla coppia Callice/Eufranore; il “neque” che apre la citazione lascia poi intendere che Varrone ne citasse prima almeno un altro. Tuttavia, non c’è alcun motivo per ritenere che le due persone messe a confronto fossero Varrone ed Attico; anzi, non si può neanche sostenere con certezza che fossero paragonati 67
antonino pittà
a Callicle ed Eufranore due scrittori, poiché il discorso poteva essere limitato al campo delle arti figurative. Per prudenza, preferirei quindi astenermi dal tentare di individuare i referenti del paragone. Salvadore non segue Riposati nella ricostruzione del contesto, ma ne accoglie l’attribuzione del frammento al proemio del de vita, in base a un’analogia (p. 45) con l’inizio delle antiquitates rerum humanarum, la cui frase di apertura è riportata da Gellio (13, 17.3): Praxiteles, qui propter artificium egregium nemini est paulum modo humaniori ignotus. Salvadore ipotizza che aprire un’opera con il riferimento a un artista fosse una consuetudine nella scrittura di Varrone e che, come le antiquitates, anche il de vita iniziasse con una sezione in qualche modo connessa con la storia dell’arte; di conseguenza, considera il frammento come la frase di apertura dell’opera (“ut videtur, hoc fragmento incipit liber I. Etiam alibi Varro artificis alicuius nomine opus suum incipit”). Non escluderei, in linea teorica, il primo punto, vale a dire che, analogamente al caso delle antiquitates, anche all’inizio del de vita potesse esserci un riferimento al mondo delle arti figurative, dove trovava posto questo frammento, anche se l’accostamento fra le due opere compiuto da Salvadore mi sembra troppo meccanico. Ancora più problematica sarebbe l’idea di considerare la citazione come l’effettiva frase di apertura del de vita, già soltanto per il fatto che il “neque” lascia intendere che prima della sezione trasmessa da Carisio ci fosse dell’altro testo, che non si può dire quanto fosse esteso. In conclusione, preferirei mantenermi su posizioni più moderate e limitarmi a dire che il frammento fosse compreso all’interno di una sezione in cui Varrone citava casi di artisti (non si può dire se appartenenti a diverse branche del sapere o esclusivamente a quello delle belle arti) che avevano riscosso impari successo. Che questa sezione potesse comparire nella parte introduttiva dell’opera è suggerito, più che dal parallelo con le antiquitates (che costituisce un dato interessante di confronto, ma non può essere usato per stabilire una sorta di legge), da altri fattori. Il contenuto presenta caratteri anomali rispetto agli altri frammenti del l. 1 del de vita: non è riconducibile a nessuna delle due trattazioni principali del primo libro, vale a dire la descrizione dell’età monarchica e l’esposizione di elementi di vita quotidiana, ma fornisce un exemplum che potrebbe essere inquadrato piuttosto nell’ambito di un discorso generale o di una dichiarazione di metodo. Ancora, la menzione di artisti greci (in questo il suggerimento di Salvadore mi sembra calzante) potrebbe spiegarsi come motivata dall’intenzione di sfoggiare cultura ed erudizione in un punto delicato come le prime battute dell’opera (ma 68
m. terenzio varrone, de vita populi romani
ciò non comporta che il frammento dovesse costituire proprio la frase di apertura del de vita). Anche il tono alto e artificioso della scrittura si accorda con una destinazione proemiale: il frammento infatti si segnala per l’impiego, ricercato, del termine “altitudo” in senso metaforico (cfr. ThLL I 1767.63-83; casi di uso metaforico di “altitudo” si riscontrano anche in Cicerone e Sallustio, ma il frammento del de vita costituisce l’unica attestazione, per l’età classica, in cui il termine abbia esattamente il valore di “altezza spirituale”, vedi Sblendorio Cugusi 1991, pp. 54-59). Per quanto riguarda l’impiego traslato di “ascendere” (vedi ThLL I 757.45-83), cfr. l’uso analogo di “adsurgere” in Val. Max. 8, 11 estr. 5, sempre a proposito di Eufranore: quod summi artificis Euphranoris manus senserunt: nam cum Athenis xii deos pingeret Neptuni imaginem quam poterat excellentissimis maiestatis coloribus complexus est […] sed omni impetu cogitationis in superiore opere absumpto posteriores eius conatus adsurgere quo tendebant nequiverunt (vedi ThLL I 938.74-939.15). Sul piano della lingua, una particolarità è costituita anche dalla terminazione del genitivo plurale della seconda declinazione in “-um” nel termine “digitum” (che costituisce difatti il motivo della citazione del frammento da parte di Carisio); per la forma, si veda NW II 329-330 (nel caso di “quaternum”, invece, l’uscita in “-um” è regolare, in quanto si tratta di un aggettivo distributivo; la forma normale del sintagma sarebbe stata “quaternum digitorum”, cfr. Plin. n. h. 21, 21 e 33, 61, mentre Columella (11, 57) presenta una forma analogica “quaternorum digitorum”). Le fonti antiche attribuiscono a un artista di nome Callicle sia sculture sia pitture (in particolare, miniature). Riposati considera il Callicle scultore e il Callicle miniaturista la stessa persona (p. 93: “fu, fra gli artisti minori, veramente più celebre come artefice di statue che come pittore”); anche Salvadore mantiene questa identificazione, dato che riporta in apparato alla voce “de Callicle” passi relativi sia al pittore sia allo scultore. Tuttavia, non è detto che i due Callicle siano la stessa persona: già Overbeck 1868, p. 341 distingue fra Callicle di Megara (lo scultore) e il Callicle miniaturista, noto solo dal fr. del de vita e da un passo di Plinio (n. h. 35, 114): parva et Callicles fecit. Jahn 1870, p. 267 ipotizza che qui Plinio abbia per fonte proprio Varrone, citato al cap. 113; l’idea è altamente probabile, anche perché tutta la sezione costituita dai capp. 112-114 presenta un’ordinata classificazione “per genere” dei pittori che si spiegherebbe bene come frutto dello spirito sistematico varroniano (vedi anche Croisille 1985, pp. 222223). Tuttavia, nessun elemento autorizza a pensare che Plinio desumesse queste 69
antonino pittà
informazioni proprio dal de vita, dove l’accenno a Callicle è rapidissimo, mentre è più plausibile che Varrone fornisse in una sezione delle antiquitates la classificazione degli artisti seguita da Plinio (sull’importanza di Varrone come storico dell’arte e fonte per i libri “artistici” della naturalis historia, vedi Manzo 1978; per l’uso di esempi tratti dalla storia dell’arte per chiarire concetti di teoria linguistica, vedi l. L. 9, 12 e 18). La distinzione fra i due artisti è operata anche da Sillig 1827, pp.121-22.; Pfuhl 1923, p. 917; Ferri 2000, p. 224. Molto più ampie le informazioni in nostro possesso su Eufranore; si veda in proposito l’ampia trattazione di Palagia 1980 e Gall-Wolkenhauer 2008, p. 73, n. 17. 2 (= 5 R.; 285 S.) † sed quod ea et propter talem mixtura inmoderata exaquiscunt, itaque quod temperatura moderatur in Romuli vita triplicis civitates † 1-2: sed quod ea et propter talem mixtura inmoderata exaquiscunt itaque quod temperatura moderatur in Romuli vita triplicis civitates codd., locum desperatum putavi praeeunte Lindsay; sed quod ea et propter talem mixturam immoderatam (misturam immoderatam ed. princ.) exacescunt, ita quoque temperatur a moderatur in Romuli civitate triplicis civitatis Quicherat; sed quod ea et propter talem mixturam moderata exaciscunt, ita quoque temperatur[a] moderatur in Romuli vita triplicis civitatis Kettner (temperatur[a] moderatur Roth fortasse recte); sed propterea quod talei mixtura moderata exaugescunt, ita quoque temperatur moderatura triplici vita in Romuli civitatei Müller; sed quod ea et propter talem mixturam inmoderatam exacescunt, itaque quod temperatura moderatur in Romuli vita triplicis civitatis Riposati; sed quod ut ea propter talem mixturam inmoderatam exaquiscunt, ita quae [quod] temperatura moderatur, in Romuli vita triplicis civitatis e.g. La Penna 1976; sed quod ea, et propter talem mixturam moderata, exaquiscunt itaque quod temperatur moderatura in Romuli vita triplicis civitatis Salvadore; sed quod ea, et propter talem mixturam moderata, exaquiscunt, ita quoque temperatur moderatura in Romuli vita triplicis civitatis dubitanter proposuerim Non. p. 787.25-28: MIXTVRA ET MODERATVRA. Varro de vita populi Romani lib. I. 1: et] pro ed. princ.
Nonio riporta al lemma “MIXTVRA et MODERATVRA” una stringa sicuramente corrotta. Dal momento che nessuna delle correzioni proposte fornisce un testo del tutto soddisfacente e il senso generale dell’enunciato resta oscuro, 70
m. terenzio varrone, de vita populi romani
preferisco (seguendo una scelta già di Lindsay) stampare il testo tradito fra croci. Per lo stesso motivo, di questo frammento non è fornita una traduzione. Innanzi tutto, non vi è perfetto accordo fra il lemma di Nonio e il contenuto della citazione: mentre il termine “mixtura” compare effettivamente in entrambe, la pericope tratta dal de vita non contiene al suo interno il sostantivo “moderatura”. Pensare che in origine la voce noniana comprendesse due citazioni (questa dal de vita per chiosare il termine “mixtura” e un’altra, poi caduta per vicende di tradizione, volta a illustrare “moderatura”) è antieconomico e improbabile, in quanto la presenza del verbo “moderatur” (così vicino a “moderatura”) nel frammento e l’ampiezza della citazione sono indizi a favore dell’ipotesi che Nonio leggesse i vocaboli “mixtura” e “moderatura” nell’ambito della stessa frase. A questo punto, o va ipotizzato che la corruttela della citazione del de vita abbia anche coinvolto l’originario “moderatura”, o va pensato che a corrompersi sia stato il lemma di Nonio (come già sospetta l’editio princeps, che corregge la voce in “MIXTVRA pro MODERATVRA”; contro questo intervento si può tuttavia osservare che è ben difficile che Nonio potesse glossare un termine piuttosto comune come “mixtura” con una voce rara e ricercata quale “moderatura”). Pensando a un guasto nel lemma, si dovrebbe supporre che la forma originaria di questo recitasse soltanto “MIXTVRA” (o, al limite, “MIXTVRA et TEMPERATVRA”, poi corrottosi in “MIXTVRA et MODERATVRA” per influsso della citazione) e lasciare a testo il tradito “temperatura moderatur”. A questa posizione si può obiettare il fatto, di grande importanza, che Nonio cita il frammento nel libro del de compendiosa doctrina intitolato de mutata declinatione. Ora, il termine “mixtura” in sé è piuttosto comune e non presenta alcuna particolarità notevole per cui meriti di essere riportato fra i casi di “declinatio mutata”, mentre il termine “moderatura” sarebbe una variante rarissima (qualora se ne ammettesse la presenza nel frammento, costituirebbe l’unica attestazione rimasta del termine) del normale “moderatio” (o dell’ancora più comune “modus”) ed, in tal modo, si presterebbe benissimo ad essere citato da Nonio nel libro del suo glossario destinato alla raccolta degli allotropi. Tenendo dunque conto del luogo in cui il frammento è riportato, non si possono avere dubbi sul fatto che Varrone, nella pericope citata, impiegasse “moderatura”; altrimenti, l’inserimento della citazione nel libro de mutata declinatione non avrebbe senso (è questo il motivo anche della correzione del lemma proposta della princeps in “MIXTVRA pro MODERATVRA”, che, oltre ad essere discutibile per le ragioni sopra esposte, è resa improbabile anche dal fatto che “mixtura” e 71
antonino pittà
“moderatura” possono essere considerati al massimo come dei sinonimi, non come degli allotropi di uno stesso termine). Verrebbe da chiedersi come mai Nonio, interessato a “moderatura”, abbia deciso di inserire nella citazione e nel lemma anche “mixtura”. Una risposta potrebbe risiedere nel fatto che il grammatico, notando che in una sezione di testo piuttosto ridotta comparivano a breve distanza sia il termine “moderatura” (motivo della citazione) sia un vocabolo (“mixtura”) che poteva comunque risultare interessante (tanto più che Varrone sembra adoperarlo in senso traslato), abbia pensato di riportare tutta la pericope, così da racchiudere nell’ambito di un’unica citazione due usi linguistici particolari. Una volta assodato che “moderatura” con buona probabilità doveva comparire nel frammento del de vita, prende valore l’ipotesi che a corrompersi non sia stato il lemma di Nonio, ma piuttosto il testo della citazione. Del resto, tutta la pericope riportata da Nonio è profondamente corrotta: nella situazione disperata del testo, sarebbe quindi lecito avere dei dubbi sul nesso “temperatura moderatur”. Roth, difatti, seguito da Kettner, Müller e Salvadore, propone di correggere “temperatura moderatur” in “temperatur moderatura”. L’intervento è intelligente, permette di sanare la discrepanza fra lemma e citazione e si accorda con l’uso di Nonio di indicare in lemma due termini interessanti che riscontra in un’unica citazioni separandoli con “et” (cfr. fr. 67, CONSVLVM et PRAETORVM proprietas, quod consulant et praeeant populis, auctoritate Varronis ostenditur, de vita populi Romani lib. II:). Ritengo che forse questa di Roth sia l’unica correzione proposta al frammento che abbia un buon margine di probabilità; purtroppo, lo stato corrotto del resto della citazione impone di procedere con grande cautela (di conseguenza, ho preferito non intervenire sul testo stampato fra cruces, per quanto la proposta di Roth non mi dispiaccia). Venendo a un’analisi del contenuto generale del frammento, si nota come questo sia divisibile in due parti. Nella prima si parla di qualcosa (è impossibile individuare il referente preciso, in quanto Varrone impiega un generico “ea”) che, per essere stato mescolato secondo proporzioni sbagliate (o nonostante sia stato mescolato bene, a seconda di come si interviene nel testo), deperisce (si corrompe liquefacendosi, mantenendo il testo tradito “exaquiscunt”, o inacidisce, accogliendo la correzione di Quicherat “exacescunt”); nella seconda viene paragonata alla situazione descritta nella prima parte la condizione di un elemento “regolato da proporzione” che deve avere qualche rapporto con il regno di Romolo. Purtroppo, lo stato monco e incerto del testo, soprattutto per la seconda 72
m. terenzio varrone, de vita populi romani
parte, rende davvero difficile individuare di cosa si stia esattamente parlando. In base all’espressione “in Romuli vita triplicis civitatis” (in realtà i codici hanno “civitates”, mentre “civitatis” è correzione accolta, a partire dalla princeps, da tutti gli editori successivi) si è tentato di riferire il frammento di Varrone all’istituzione delle tre tribù dei Tities, Ramnes e Luceres (così ritengono Riposati, pp. 96-99 e, con qualche dubbio, Salvadore, pp. 47-48), per quanto il testo “in Romuli vita triplicis civitatis” sia dubbio e presenti delle difficoltà interpretative forse insormontabili. In generale, la sintassi dell’intera seconda parte del frammento è contorta e problematica e presenta in linea di massima tre problemi, che purtroppo tendono anche a intersecarsi: 1) “quod” (ammesso che sia sano) va inteso come un pronome relativo o come una congiunzione causale? Il raffronto con la prima parte del frammento, dove “quod” è una congiunzione e il soggetto della frase è “ea”, porterebbe a pensare che, per parallelismo, Varrone impiegasse una congiunzione causale anche nel seguito. Tuttavia, se si intende il secondo “quod” come una congiunzione, sorge il problema di individuare quale sia il soggetto della frase, operazione, lo si vedrà a breve, tutt’altro che agevole. Se invece si prendesse “quod” per un relativo, sarebbe comunque difficile individuare bene la struttura sintattica del periodo e il senso preciso del discorso. 2) Dato il nesso “temperatur moderatura” (anche se non si accettasse la correzione di Roth e si stampasse “temperatura moderatur”, il problema si proporrebbe negli stessi termini), “moderatura” è un ablativo (complemento di causa efficiente di “temperatur”) o un nominativo (soggetto della frase qualora “quod” fosse inteso come congiunzione)? 3) Il doppio genitivo presente nella pericope “in Romuli vita triplicis civitatis” non è affatto chiaro. Se i due genitivi vengono riferiti entrambi a “vita” (“nel periodo di vita della triplice cittadinanza di Romolo”), da un lato la sintassi risulta durissima, dall’altro l’ordo verborum non si accorda con l’interpretazione che si darebbe del passo. Oppure, si potrebbe pensare che “triplicis civitatis” si riferisca a “moderatura” (la misurata composizione della triplice cittadinanza) e che “in Romuli vita” costituisca un’espressione a sé; tuttavia, con un testo del genere, il termine “moderatura” sarebbe posto a notevole distanza dal suo correlato “triplicis civitatis”, così da avere un anacoluto quasi intollerabile. Infine, una terza ipotesi sarebbe supporre che “triplicis civitatis” sia in realtà slegato da “in Romuli vita” e si riferisca a un termine (ad es. “status”) posto nella parte di frammento tagliata fuori da Nonio. Si tratta di una possibilità non escludibile, ma nemmeno dimostrabile. 73
antonino pittà
A questo punto, vorrei proporre un breve prospetto di tutte le possibili traduzioni che si potrebbero dare della seconda parte del frammento in base a come ci si pone di fronte alle tre difficoltà appena esposte. Il fatto che, purtroppo, gli editori del de vita non abbiano finora fornito una traduzione del passo, non permette di risalire alla loro posizione in proposito. Prendendo “quod” come congiunzione, il soggetto della frase potrebbe essere “moderatură”, per cui il senso del frammento verrebbe ad essere (in base a come si intende “triplicis civitatis”) o “e così poiché viene equilibrata la giusta misura nel periodo di vita della triplice cittadinanza di Romolo” o “e così poiché la misurata composizione della triplice cittadinanza viene equilibrata durante la vita di Romolo”. Supponendo invece la presenza di uno “status” nel seguito del brano e prendendo “moderaturā” come l’ablativo retto da “temperatur”, si avrebbe “e così poiché durante la vita di Romolo della triplice cittadinanza è equilibrata da una giusta misura”. Prendendo invece “quod” come un relativo, questo sarebbe il soggetto della frase, per cui le possibili traduzioni sarebbero o “e così l’elemento che è equilibrato da giusta misura nel periodo di vita della triplice cittadinanza di Romolo”, o (legando “triplicis civitatis” a “moderatura”) “e così l’elemento che durante la vita di Romolo è equilibrato dalla misurata composizione della triplice cittadinanza”, o addirittura (legando “triplicis civitatis” a “quod”) “e così l’elemento della triplice cittadinanza che durante la vita di Romolo è equilibrato da giusta misura”. Ovviamente, in base a questa interpretazione di “quod” si dovrebbe poi supporre la presenza di un verbo reggente, parallelo al precedente “exaquiscunt” (potrebbe essere ad esempio qualcosa come “si sviluppa”, per contrasto con la frase precedente: l’elemento ben regolato non va a male, ma diventa florido; purtroppo, è impossibile andare oltre queste suggestioni). Né si può tacere il fatto che lo stesso “quod” è in parte sospetto e che già Quicherat interviene sul nesso “itaque quod” correggendolo in “ita quoque”. In effetti, poiché il frammento ha l’aria di un paragone fra la situazione descritta nella prima frase e quella cui allude la seconda, la connessione fra le due parti sarebbe più naturale per mezzo di un “ita” piuttosto che con “itaque” e, d’altro canto, il passaggio da “ita quoque” a “ita quequo”, poi rabberciato in “itaque quod”, è facilissimo. Purtroppo, il seguito del frammento è così oscuro da far dubitare anche di un intervento così semplice. Come ho detto, nessuno degli editori precedenti traduce o commenta in modo chiaro questa frase, per cui risulta difficile comprendere come la inten74
m. terenzio varrone, de vita populi romani
dessero e in che rapporti la ponessero con la prima parte del frammento. In ogni caso, si può dire che tutti (con l’eccezione di Salvadore, vedi infra) concordino nell’attribuirle un senso positivo, contrapposto a quello negativo espresso nella prima parte della citazione. Passando a un’analisi della prima parte, i codici hanno “et propter talem micstura inmoderata”. Quicherat interviene correggendo in “mixturam inmoderatam” (e il successivo “itaque” in “ita quoque”): di conseguenza, tutta la prima parte assume un senso negativo (“poiché quelle cose, anche a causa di una tale commistione squilibrata, inacidiscono, così …”; il filologo interviene in modo estremamaente massiccio anche sul seguito, dandone di fatto una riscrittura totale). La correzione “mixturam inmoderatam” di Quicherat è accolta anche da Riposati e da La Penna. Non si può però intendere bene la posizione del primo, che non la chiarisce adeguatamente nel commento, mentre il secondo, cercando di costruire un’opposizione fra le cose che vanno a male per l’errata miscela menzionate nella prima parte e quelle che fioriscono per la giusta misura probabilmente citate nella seconda, propone un numero eccessivo di integrazioni exempli gratia, dando un testo in ultima analisi lontanissimo da quello tradito da Nonio. Müller, al contrario, fra le vistose corrrezioni apportate al passo, modifica anche la prima parte, in modo da darle un senso completamente positivo (stampa infatti “mixtura moderata” ed “exaugescunt”): “ma, poiché regolate da tale mescolanza crescono, ugualmente nella città di Romolo la vita è regolata da un triplice freno”. L’intervento di Müller consiste però in una riscrittura del frammento troppo massiccia per poter essere accolta (l’editore interviene in ampia misura anche sul seguito: “ita quoque temperatur moderatura triplici vita in Romuli civitatei”). Inoltre, la spiegazione del passo che Müller propone in apparato (“dicit Varro civitatem Romanam temperari magistratuum imperio, quod regi sit instar, auctoritate patrum, suffragiis populi”) lascia poi intendere che lui considerasse “Romuli civitatem” come un semplice equivalente di “Romam”. Difatti, Müller propone del frammento una lettura molto “polibiana” decisamente anacronistica per il primo libro del de vita: l’ordinamento descritto nel frammento, secondo la sua interpretazione, sarebbe quello della Roma repubblicana, non di quella monarchica, e si troverebbe così fuori posto in un libro dedicato agli albori della civiltà romana fino alla caduta dei re (si potrebbe certo pensare che il frammento appartenesse a un excursus sulla “costituzione” romana, in cui Varrone trattava realtà posteriori al periodo monarchico, ma si tratterebbe di 75
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una soluzione di comodo, per giunta non dimostrabile sulla base delle poche parole, corrotte, della citazione). Infine, Müller congettura per motivi paleografici due forme di ablativo in “-ei” (“talei”, “civitatei”), sebbene questa forma sia attestata solo in ambito epigrafico (vedi KS, p. 325) ed è improbabile che Varrone la adoperasse in un’opera letteraria (Müller propone, a torto, di restituire un ablativo “civitatei” anche al fr. 106). La soluzione forse migliore è quella proposta da Kettner (adottata poi da Salvadore): partendo da “et propter talem mixtura inmoderata”, Kettner considera il prefisso “in-” di “inmoderata” come un banale errore di lettura da carolina generatosi a partire da una “m”; così corregge il testo in “et propter talem mixturam moderata”. Il testo di Kettner è l’unico a dare un pieno senso al tradito “et”, che viene ad assumere una sfumatura concessiva, mentre nel testo proposto dagli altri “et” sarebbe una zeppa ingiustificata. Seguendo Kettner, la prima parte del frammento viene ad assumere questo significato: “ma poiché quelle cose, anche se equilibrate a causa di una tale mescolanza, si disfano, così…”. Si noti che, seguendo l’interpretazione di Kettner, cambierebbe l’intento generale del frammento: non si tratterebbe più di contrapporre l’ordine frutto di una misurata commistione degli elementi civili proprio della “costituzione di Romolo” a un caso in cui cose mescolate male vanno incontro alla rovina (è questa la lettura di La Penna e, pare, di Riposati), né di presentare due esempi in cui la giusta proporzione determina conseguenze positive (come sarebbe col testo di Müller), bensì di porre due casi analoghi in cui, nonostante la giusta misura, sorgono ugualmente degli squilibri. Come ho già detto sopra, la “triplex civitas” è stata intesa da tutti gli editori come un’allusione alle tre componenti della Roma romulea (Tities, Ramnes e Luceres); la proposta di per sé non sarebbe impossibile, ma va sempre tenuto conto che si basa su di un testo dubbio e a tratti intraducibile. Salvadore, inoltre, partendo dalla nota “in Romuli vita”, sospetta che qui Varrone volesse dire che il “trium populorum consensus” (p. 47), che aveva retto finché Romolo era in vita, avrebbe iniziato a venir meno e corrompersi dopo la morte del re. Salvadore, però, mantiene la seconda parte del frammento nella forma tradita (lascia “itaque quod”); in questo modo, tutte le difficoltà sintattiche sopra esposte rimangono irrisolte e l’assenza di una traduzione non permette di capire come lo studioso intenda il passo. Inoltre, qui Varrone adopera sempre il presente (“temperatur”), mentre, se avesse voluto contrapporre due fasi (una, quando Romolo era 76
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ra vivo, in cui la “mixtura” della cittadinanza funzionava; un’altra, dopo la sua morte, in cui la concordia sociale viene meno), avrebbe dovuto impiegare tempi verbali diversi (e comunque sarebbe stato più naturale trovare in questa frase un verbo al passato). In ogni caso, il testo che Salvadore stampa non si accorda in tutto con la sua interpretazione del frammento, poiché la sua seconda parte resterebbe di difficile comprensione. Credo infatti che, data l’estrema durezza che il periodo assumerebbe se si connettesse “triplicis civitatis” a “vita” o a “moderatura”, vada integrato un termine che regga il genitivo. Volendo seguire il suggerimento di Salvadore, forse si potrebbe pensare a un testo del genere: “sed quod ea, et propter talem mixturam moderata, exaquiscunt, ita quae [quod] temperatur moderaturā in Romuli vita triplicis civitatis ” (“ma poiché quelle cose, anche se equilibrate a causa di una tale mescolanza, vanno a male, così quella mescolanza delle tre parti della cittadinanza che, durante la vita di Romolo, viene bilanciata dalla giusta misura, dopo la sua morte…”). Si tratta ovviamente di una proposta del tutto exempli gratia, che presenta una sintassi ancora troppo confusa (con il relativo “quae” posto a grande distanza dal termine cui si riferisce) e che non oserei mai mettere a testo. Oppure, per intervenire in modo più leggero sul testo, recuperando la correzione “ita quoque” di Quicherat e pensando non tanto a un venir meno della concordia dopo la morte di Romolo, quanto ad alcune tensioni sorte già durante la sua vita, si potrebbe in alternativa proporre qualcosa come: “sed quod ea, et propter talem mixturam moderata, exaquiscunt, ita quoque temperatur moderatura in Romuli vita triplicis civitatis ” (“ma poiché quelle cose, anche se equilibrate a causa di una tale mescolanza, vanno a male, così anche la condizione delle tre parti della cittadinanza, durante la vita di Romolo, è sì bilanciata dalla giusta misura, ma…”). Anche in questo caso si tratta di una semplice proposta che ipotizzo nel tentativo di chiarire un frammento purtroppo ancora disperato. Lasciando da parte i problemi posti dal testo del frammento, si può almeno sospettare che Varrone vi impieghi un uso traslato, in senso politico, dei termini “mixtura” e “moderatura”: nella citazione questi vocaboli sembrano difatti assumere il senso di “mescolanza” ed “equilibrata composizione” delle diverse compenenti sociali di una “civitas”. Un uso del genere potrebbe essere un retaggio del pensiero greco: si pensi al discorso polibiano sulle costituzioni e sull’ordinamento politico di Roma, considerato vincente proprio grazie alla costituzione “mista” della città e all’equilibrio garantito dalla reciproca limitazione dei poteri 77
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esercitata da consoli, senato e comizi (cfr. Polyb. 6, 3-18; sul complesso tema vedi Wallbank 1957, vol. I, pp. 639-641; sui pregi della costituzione mista, cfr. Arist. Pol. 1297a.6: ὅσῳ δ̕ἂν ἄμεινον ἡ πολιτεία μιχθῇ, τοσούτῳ μονιμοτέρα). Per quanto riguarda il primo termine, sebbene il verbo greco μιχθῇ sia molto vicino a “mixtura” (vedi ThLL VIII 1194.32), io sospetto che “mixtura”, impiegato in senso traslato col significato di “equilibrata mescolanza”, sia piuttosto un calco latino del termine κρᾶσις, usato in greco nella stessa accezione (cfr. Thuc. 8, 97.2, μετρία γὰρ ἥ (sc. la costituzione di Teramene) τε ἐς τοὺς ὀλίγους καὶ τοὺς πολλοὺς ξύγκρασις ἐγένετο). Anche i glossari latini tendono a tradurre “mixtum” con κρᾶσις (GL II 354.45, cfr. ThLL VIII 1194.73-83). Più complesso è il discorso relativo a “moderatura”: come ho detto sopra, il termine, in questa forma, sarebbe attestato unicamente in questo frammento. Tuttavia, vi sono numerose attestazioni di un impiego di “moderatio” nel senso di “convenientia, aequatio, medietas” (vedi ThLL VIII 1207.83-1208.43). Ciò nonostante, è difficile individuare un corrispettivo greco di “moderatio”: alcuni glossari bilingui traducono il termine con συμμετρία (GL II 442.18), ma si tratta solo di una suggestione. Allo stesso modo, non si può sostenere con certezza che il “moderatura” di Varrone abbia qualche rapporto con il termine ἁρμογή (“accordo”, “arrangiamento misurato”) adoperato da Polibio (6, 18.1) per definire la costituzione romana. Mi limiterei dunque a suggerire che, come per “mixtura”, anche il concetto di una “moderatura” delle forze politiche potrebbe essere giunto a Varrone attraverso la mediazione del pensiero greco, ma non saprei proporre un equivalente geco preciso di “moderatura”. In ogni caso, uno spoglio dei glossari mostra che “moderatio” poteva essere chiosato con “temperantia” (GL IV 258.48) e “moderate” con “temperate” (GL V 414.12): Varrone dunque, nel coniare l’espressione “temperatur moderatura” non devia dalla sua consueta attenzione alla proprietas dei vocaboli. 3 (= 10 R.; 289 S.) pecuniaque erat parva: ab eo paupertas dicta. cuius paupertatis magnum testimonium est 1: pecunia quia Müller; pecunia quae Kettner | paupertatis secl. Müller Non. p. 63.29-31: PAVPERTAS dicta est a pecunia parva. Varro de vita populi Romani lib. I 78
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e il denaro era scarso: da ciò deriva il termine “povertà” (paupertas). Di questa povertà costituisce una notevole testimonianza (il fatto che…) Il frammento fungeva da introduzione a un exemplum storico, escluso dal taglio di Nonio. Nella mia ricostruzione, ipotizzo che la pericope citata fosse seguita da un “quod” dichiarativo; sarebbe tuttavia possibile anche prendere “cuius paupertatis magnum testimonium est” come una frase completa (“di questa povertà esiste una notevole testimonianza:”). Se si accogliesse questa seconda ipotesi, si dovrebbe intervenire sull’interpunzione ponendo due punti dopo “testimonium est”. Purtroppo il frustulo in nostro possesso è troppo esiguo perché si possa decidere fra le due posizioni. In ogni caso, qualunque sia la ricostruzione adottata, è certo che alla frase trasmessa da Nonio seguisse un exemplum. Il fatto che il fr. 3 sia citato all’interno di una serie prima del fr. 9, relativo al culto, rende possibile l’ipotesi che l’exemplum si riferisse a una situazione antecedente il regno di Numa. Nel riferire la scarsità di mezzi dei tempi di Romolo, testimoniata appunto dalla vicenda introdotta dal frammento, Varrone inserisce anche una nota di carattere etimologico, che connette il termine “paupertas” all’aggettivo “parvus”, cfr. l.L. 5, 92: pauper a paulo lare (vedi anche l’apparato di Fedeli 1994 a Prop. 4, 1.23). Eccessiva l’idea di Della Corte 1939, p. 189 e 1954, p. 374, secondo la quale questo frammento e il fr. 9 sarebbero strettamente connessi e il fr. 9 (sull’istituzione di un asylum) costituirebbe l’“exemplum paupertatis” del fr. 3 (per la discussione del problema, si veda l’introduzione). Piuttosto, non si può escludere che il fr. 3, invece di riferirsi al regno di Romolo, potesse comparire nell’ambito della digressione sulla semplicità del culto antico (nel gruppo dei frr. 6, 7, 8) 4 (= 27 R., 301 S.) Non. p. 851.21-25: quod ludis pueri praesules essent GLABRI ac depilis propter aetatem, quos antiqui Romani ludios appellabant ut est in lib. I Varronis de vita populi Romani, ideo Plautus in Aulularia (401): “tu istum gallum, si sapis, / glabriorem reddes mihi quam vulsus ludiust”. 2: ludios scripsi; lydios codd., edd. 3: sapis] satis codd.; 4: reddis Non. | ludiust Lindsay (ad Plaut.); lydius Non.
il fatto che i fanciulli che compivano le danze di inaugurazione dei giochi fossero, per la giovane età, imberbi e glabri (gli antichi Romani li chiamavano ludii, 79
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come è spiegato nel primo libro del de vita populi Romani di Varrone) è il motivo per cui Plauto scrive nell’Aulularia: “se ci tieni a te, questo galletto me lo spennerai meglio di un ludius depilato”. La forma anomala in cui Nonio riporta questo frammento ha fatto pensare che si tratti, più che della citazione letterale di un passo dal de vita, della parafrasi di un luogo più esteso (così Salvadore, pp. 11-12). Tuttavia, anche accogliendo l’idea che qui Nonio stia parafrasando, non citando Varrone, ciò non basta a provare l’ipotesi di Salvadore che il frammento non derivi da consultazione diretta del de vita, ma provenga da un glossario. Nonio, infatti, non avrebbe dovuto necessariamente attingere da una fonte diversa dalla sua copia del de vita una parafrasi già operata dall’autore di un glossario, ma potrebbe anche aver trovato, sfogliando l’opera vera e propria, un discorso ampio, ma interessante, e averlo riassunto nella forma tradita per adattarlo alle dimensioni di un lemma. Del resto, la connessione del dato antiquario e di quello linguistico e l’uso di Plauto come autorità sono elementi tipicamente varroniani (cfr. fr. 36 e Deufert 2002, pp. 129-130), che rimandano a una pericope forse decurtata o rimontata, ma genuina nell’andamento del discorso. Il fr. è primo di una serie e precede il fr. 10. Poiché ho inserito le citazioni relativi ai riti nuziali (fra cui il fr. 10) nell’ambito della digressione sul culto connessa al regno di Numa, attribuisco il fr. 4 al periodo romuleo (su tutta la questione, si veda la discussione condotta nel commento al fr. 5). In favore di questa attribuzione si può citare il fatto che l’istituzione di alcuni “ludi”, connessi alla festa dei Consualia, era datata al regno di Romolo (vedi Salvadore 2004, pp. 61-62). Proprio alla descrizione di uno dei giochi compiuti nei Consualia è probabilmente dedicato il fr. 5, una citazione isolata che possiamo legare a questo frammento. Varrone, parlando del regno di Romolo, avrebbe potuto far risalire a questo re l’istituzione dei primi “ludi”, per poi passare a una digressione in cui erano date notizie sul loro svolgimento e la loro organizzazione e, infine, sulle origini di alcuni termini propri del lessico dei giochi. Nel frammento in questione si parla dei fanciulli addetti a compiere la danza di inaugurazione dei giochi. Il termine tecnico per indicare questo ruolo era “praesultator” o appunto “praesul” (cfr. ThLL IX 947.65-70; sull’importanza attribuita alla buona riuscita della danza si veda l’episodio dello schiavo fustigato nel Circo e considerato dagli dei come un “praesultator” di cattivo auspicio narrato da Cic. div. 2, 136; Liv. 2, 36 e Arn. 4, 37). Varrone si serve di un passo di Plauto come fonte per la notizia che come “praesules” venivano scelti 80
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“pueri” ancora imberbi. Piuttosto come chiosa necessaria all’intelligenza del testo di Plauto, dove non si parla di “pueri”, ma si adopera il termine “ludius”, che come notizia principale, Varrone aggiunge la nota che i “pueri praesules” erano appunto chiamati “ludii”. I codici di Nonio, in realtà, presentano l’ortografia “lydios” e “lydius” (accolta da Riposati e Salvadore e da Lindsay come editore di Nonio; lo stesso Lindsay, però, da editore di Plauto sceglie di adottare la grafia arcaica “ludius”). Poiché è improbabile che Plauto adoperasse una grafia (e una pronuncia) diversa da “ludius” (vedi LHS I 290.2; Traina 1963, pp. 44-45 e, soprattutto, il gioco di parole presente in Bacch. 129 non omnis aetas, Lude, ludo convenit; la grafia “Lude”, rispetto al tradito “Lyde”, è restaurata da Questa) e tutta la nota di Varrone è volta a chiosare proprio il verso plautino, correggerei la grafia data da Nonio in “ludios” (intervento proposto anche da ThLL VII, 2 1769.30-35). Il passaggio da “ludius” a “lydius” potrebbe essersi verificato nella tradizione manoscritta noniana per un banale scambio fra V ed Y in carolina, o a causa dell’oscillazione (nel latino scritto come in quello parlato) fra le forme “ludius”, “lydius” e “lidius” (senza contare le possibili confusioni che potevano derivare dall’esistenza anche di una forma “ludio, -onis”), o, infine, per un fenomeno di normalizzazione della forma arcaica “ludius” in “lydius” (sentita più “greca” e più classica). La possibilità che nel frammento si leggesse “ludios” non concerne soltanto una semplice questione di storia della lingua, dal momento che, accettando “ludios”, si smentirebbe anche una nutrita serie di interpretazioni che sono state date del nostro passo (vedi infra). Come ho detto, l’informazione che i “pueri praesules” fossero detti “ludii” è subordinata alla citazione di Plauto, mentre il tema principale del frammento è il fatto che questi “pueri” fossero impuberi. Ancora, di “ludius” non viene indicata l’etimologia, ma ne è fornito soltanto il significato. Questi fattori smentiscono l’ipotesi di Weinreich 1969 (vedi anche Bernstein 1998, pp. 119-126) in base alla quale il frammento, dove si legge (adottando il testo tradito) “lydios”, potrebbe essere usato come testimonianza sulle origini dell’arte scenica a Roma e costituirebbe una prova della derivazione del termine “ludius” (attore) da “Lydius” (il che dovrebbe essere, secondo Weinreich, anche una conferma del fatto che Varrone attribuisse l’introduzione di forme teatrali a Roma agli Etruschi, considerati di origine lidia). Questa “storia del teatro” è riportata da Tertulliano (spect. 5.2) all’interno di un’ampia digressione che potrebbe derivare dalle antiquitates rerum divinarum per tramite di Svetonio (cfr. spect. 5.3: positum est apud Suetonium Tranquillum vel a quibus Tranquillus accepit; il passo di Tertulliano che cito di seguito è fatto 81
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derivare da Varrone sulla base del fatto che Agostino (civ. 4, 1) dice che Varrone trattava i “ludi” nell’ambito delle “res divinae”; inoltre, il rimando a Timeo ivi contenuto si può spiegare bene presupponendo Varrone come fonte, dato che proprio Varrone trasmette il maggior numero di frammenti latini dello storico greco; su tutta la questione, vedi J. H. Waszink 1979, pp. 227-229): Extant auctores multi, qui super ista re commentarios ediderunt. Ab his ludorum origo sic traditur: Lydos ex Asia transvenas in Etruria consedisse Timaeus refert duce Tyrrheno, qui fratri suo cesserat regni contentione. Igitur in Etruria inter ceteros ritus superstitionum suarum spectacula quoque religionis nomine instituunt. Inde Romani arcessitos artifices mutuantur itemque enuntiationem, ut ludii a Lydis vocarentur. Tuttavia, come nota Waszink 1979 (p. 229, n. 9) non si può rintracciare nel testo riportato da Nonio un’esplicita affermazione di Varrone che connetta “ludius” a “Lydius”: «moreover, Nonius’ words do not imply at all that Varro himself subscribed to this derivation from Lydius: they only say that, according to Varro, the ancient Romans called Lydii the boys who were ludi praesules». L’ipotesi di Weinreich è ulteriormente complicata dal fatto che, nel seguito dello stesso passo di Tertulliano, a Varrone è esplicitamente attribuita una diversa etimologia di “ludius”: Sed etsi Varro ludios a ludo, id est a lusu, interpretatur, sicut et lupercos ludios appellabant, quod ludendo discurrant, tamen eum lusum iuvenum et diebus festis et templis et religionibus reputat (cfr. Isid. et. 18, 16.2). Weinreich è portato dunque a pensare che il frammento del de vita sia in contraddizione con il brano di Tertulliano e che tale discrasia si possa sanare pensando che Varrone nelle antiquitates avesse cambiato idea rispetto all’etimologia precedentemente proposta nel de vita. Questa considerazione è smentita dal dato cronologico, poiché il de vita è posteriore alle antiquitates. In ogni caso, non si può parlare di un ripensamento da parte di Varrone per il semplice fatto che questi, nel frammento del de vita, non si pronuncia affatto su una derivazione di “ludius” da “Lydius” (vedi anche Bernstein 1998, p. 125). Sarebbe dunque più prudente attenersi al semplice testo del frammento e pensare che Varrone, nella parte dell’opera dedicata all’organizzazione dei “ludi” e alle figure ad essi connesse, parlasse dell’età dei “pueri praesules” nei termini riferiti dal frammento. In linea teorica, nell’ambito di questa sezione potevano anche trovare spazio accenni alle origini etrusche dell’arte scenica, ma dubito possano essere rintracciate proprio nella pericope riportata da Nonio. Inoltre, se nella citazione riportata da Nonio la grafia accolta da Varrone era “ludios” (come è altamente probabile), nel frammento del de 82
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vita verrebbe meno ogni riferimento alla “Lydia”. Questo dato non farebbe che smentire ulteriormente la posizione di Weinreich: se questi attribuiva al Varrone del de vita l’etimologia “ludius a Lydio” sulla sola base dell’ortografia “lydios”, una volta ammesso che “lydios” possa essere un errore della tradizione noniana e che la forma originaria usata nel frammento fosse “ludios”, nulla autorizza più a pensare che Varrone in questa sede mettesse il termine “ludius” in connessione con la “Lydia” e che nel de vita si discostasse dall’etimologia “ludius a ludo” delle antiquitates. Le considerazioni fin qui condotte non solo smentiscono l’ipotesi di Weinreich, ma pongono anche in dubbio l’ipotesi di Salvadore (p. 60) che il fr. 4 si riferisse all’episodio della chiamata di “ludiones” dall’Etruria in seguito a una pestilenza narrato da Liv. 7, 2. Innanzi tutto, si tratta di una vicenda molto più tarda rispetto all’età monarchica, cui era dedicato il primo libro del de vita. D’altro canto, anche supponendo che Varrone, entro la digressione sui “ludi”, si riferisse a eventi più tardi rispetto al regno di Romolo, bisognerebbe pensare, per far tornare la proposta di Salvadore, che Varrone dicesse che il termine “ludius” derivava da “Lydius” a causa degli Etruschi chiamati a Roma per la pestilenza. Tuttavia, il frammento riportato da Nonio, per i motivi sopra esposti, non potrebbe in alcun modo adattarsi a questa ricostruzione. Per quanto riguarda l’aspetto formale, è interessante la forma di nominativo plurale “depilis”. Nominativi plurali della terza declinazione uscenti in “-is” (vedi NW I 381-383; KS I 332-333; Prop. 4, 6.49; 4, 9.8 e l’apparato di Fedeli 1994 ad loc.) sono attestati anche in altri frammenti del de vita (56; 80; 111); è da notare che Nonio non cita nessuno di questi tre frammenti a causa del nominativo in “-is”, il che potrebbe essere un lieve indizio del fatto che nel de vita tali forme erano così comuni da non costituire motivo di interesse o stupore nel grammatico. In effetti, questa uscita analogica del nominativo plurale è nota a Varrone, che a l. L. 8, 66 ne parla come di una forma comune nell’uso del suo tempo: nam sine reprehensione vulgo alii dicunt in singulari ‘hac ovi’ et ‘avi’, alii ‘hac ove’ et ‘ave’; in multitudinis ‘hae puppis, restis’ et ‘hae puppes, restes’. Anche in un frammento delle Menippeae si legge (fr. 44 A.) quod non solum innubae fiunt communis, set etiam veteres repuerascunt et multi pueri puellascunt (vedi anche l. L. 5, 1.5, non mediocris enim tenebrae in silva ubi haec captanda97; 5, 21, eae partis … maxime Vedi NW II 61.
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teruntur). Dal momento, quindi, che Varrone riconosce l’esistenza di nominativi plurali in “-is” e li impiega altrove, non possiamo escludere che, anche nel de vita, accanto alle forme regolari, usasse a volte plurali di questo tipo. 5 (= 23 R.; 302 S.) etiam pellis bubulas oleo perfusas percurrebant ibique cernuabant. a quo ille versus vetus est in carminibus: ‘íbi pastores lúdos faciunt córiis Consuália’ (= FPL, inc. vers. 13) 1: pertusas codd., corr. ed. Ald.; 2: ibi] sibi L | Consualia fortasse delendum Non. 30.29-31.10: CERNVVS dicitur proprie inclinatus, quasi quod terram cernat. […] Varro de vita populi Romani lib. I.
inoltre correvano su pelli di bove cosparse d’olio e lì facevano una capriola. Da questo fatto deriva l’antico verso che si trova nelle formule: “lì i pastori con pelli di cuoio compiono dei giochi, i Consualia”. Come si è accennato nel commento al frammento precedente, l’argomento di questa citazione sembra essere la descrizione di un particolare gioco che si svolgeva nell’ambito della festa dei Consualia, la cui istituzione era attribuita al re Romolo. In realtà, proprio il riferimento ai Consualia presente nel brano non sfugge al sospetto di essere una corruttela (vedi infra), per cui suggerirei di procedere con una certa prudenza nel considerare il rito qui descritto come sicuramente riferibile a questa festività. In ogni caso, a prescindere dalla menzione dei Consualia, è certo che nel frammento si parla di un “ludus”, che, per il suo carattere rustico e semplice, potrebbe in effetti essere attribuito alle fasi più arcaiche della storia di Roma. Si tratta di una prova di destrezza: i giocatori dovevano correre e fare una capriola su pelli bovine cosparse d’olio, in modo da renderle scivolose e aumentare così la difficoltà del gioco (qualcosa di simile all’ἀσκωλιασμός descritto da Verg. georg. 2, 383-384; vedi Mynors 1990, p. 150 ed Erren 2003, p. 475; per una prova di abilità simile, cf. GLF (Varro) fr. 410 Fun.). Come nel fr. 4, Varrone sostiene il dato erudito con la citazione di una fonte: in questo caso si tratterebbe di un documento preletterario, un verso tratto da dei misteriosi “carmina” in cui si alluderebbe a questo rito. Il primo problema posto dal frammento riguarda la sua posizione. Se si legasse, per affinità di contenuto, il fr. 5 al fr. 4, si potrebbe applicare ad esso la “lex 84
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Lindsay” e sostenere con buona probabilità che i frr. 4 e 5 comparivano, nel primo libro del de vita, prima del fr. 10 (e quindi della sezione sui riti nuziali, probabilmente connessa al regno di Numa). Tuttavia, questo dato non basta a chiarire se il fr. 5 comparisse nell’ambito della trattazione del regno di Romolo, oppure se facesse parte già della sezione su Numa, ma venisse prima della trattazione dei riti nuziali. Come si vede, la “lex” si accorderebbe con entrambe le possibilità: nel primo caso, l’ordine 5 – 10 rispecchierebbe il fatto che la sezione su Romolo veniva evidentemente prima di quella su Numa; nel secondo caso, si dovrebbe pensare che, all’interno della parte su Numa, la sottosezione contenente il fr. 5 precedesse quella cui appartiene il fr. 10. Ora, diversi frammenti del primo libro del de vita (frr. 13; 14; 15) trattano delle festività che avevano luogo nei vari periodi dell’anno e dei riti che vi si compivano. Riposati e Salvadore legano il fr. 5 a queste citazioni sulle feste: in base a questa ipotesi, poiché il fr. 13 parla dei riti compiuti a febbraio, il fr. 14 di una festa di maggio e il fr. 15 delle calende di giugno, il gruppo costituito dai frr. 4 e 5, dove si accennerebbe ai Consualia (festa che aveva luogo il 21 agosto e il 15 settembre, vedi RE IV, 1 1111.39-1112.49; su questa festa si veda anche l’elenco di testimonianze antiche riportato da Salvadore 2004, pp. 6162), andrebbe stampato dopo il fr. 15. Qualora si accogliesse questa posizione, andrebbero apportate delle modifiche alla struttura che ho ipotizzato per il primo libro nell’introduzione e all’ordine dei frammenti lì suggerito. Volendo seguire l’idea di Salvadore e inserire il fr. 5 nell’elenco delle feste, andrebbe ipotizzata, per la prima parte del libro, questa struttura: dopo il proemio (fr. 1), verrebbe la sezione sul regno di Romolo (rappresentata dal solo fr. 2 e forse dal fr. 3), cui seguirebbe quella su Numa. Questa, a sua volta, sarebbe divisa in due sottosezioni: culto e calendario. Mentre, nella mia ipotesi di ricostruzione, la sezione sul culto (costituita dai frr. 6; 7; 8; 9; 10; 11) verrebbe prima di quella sul calendario (comprendente l’elenco delle feste mese per mese = frr. 12; 13; 14; 15), seguendo la proposta di Salvadore, per mantenere l’indicazione della “lex” secondo cui i frr. 4 – 5 – 10 devono comparire in questo ordine, bisognerebbe far precedere la sezione sul calendario (frr. 12; 13; 14; 15; 4; 5) a quella sul culto (frr. 6; 7; 8; 9; 10; 11). Si tratta certo di una possibilità, alternativa a quella proposta da me, degna di essere segnalata; tuttavia, vi sono due elementi che porterebbero a dubitare che i frr. 4 e 5 fossero sullo stesso piano delle altre citazioni (frr. 13; 14; 15) sulle feste (una volta messo in dubbio questo punto, si intende che anche la proposta di Salvadore risulterebbe meno sicura). Il primo punto dubbio è costituito dal fatto 85
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che non è del tutto sicuro che il fr. 5 riguardi i Consualia: come si dirà a breve, sospetto infatti che la menzione di questa festa nel frammento possa essere dovuta a una corruttela. Ma anche volendo prendere per sicuro il fatto che i frr. 4 e 5 trattassero dei Consualia, resterebbe un punto in cui si differenziano notevolmente dai frammenti sulle feste. Nei frr. 13, 14 e 15, infatti, Varrone parla di riti che si compiono ancora ai suoi tempi nel corso delle feste citate: difatti, impiega sempre il tempo presente. Nei frammenti 4 e 5, invece, Varrone parla al passato e impiega l’imperfetto. Di qui il mio sospetto che, mentre le citazioni sulle feste possono appartenere a una sezione in cui Varrone passava rapidamente in rassegna le festività annuali, mese per mese, indicando per sommi capi cosa si fa in ciascuna di esse, i frr. 4 e 5 avessero la loro sede in una parte in cui Varrone, con taglio antiquario, raccontava come si svolgevano i primi, semplici “ludi” della storia di Roma. Questo spiegherebbe la differenza di impiego dei tempi verbali: dove Varrone adotta un taglio descrittivo, impiega il presente; dove predilige uno stile narrativo, usa il passato. Come accennato già nel commento al fr. 4, la sede più appropriata per questa discussione sui primi “ludi” sarebbe la trattazione del regno di Romolo. A questo re, infatti, si attribuiva l’istituzione dei primi giochi nel circo, proprio in occasione dei Consualia. Dunque, se il fr. 5 parlava dei Consualia, sarebbe naturale collegarlo alla figura del re che aveva istituito questa festa; se invece si limitava a presentare un gioco arcaico, il carattere rustico ed elementare di questo gioco si accorderebbe bene alle origini di Roma e, quindi, non smentirebbe l’ipotesi di legare il fr. 5 alla parte su Romolo. Per questo motivo, ho preferito inserire anche i frr. 4 e 5 nella sezione sul primo re, ipotizzando che Varrone, dopo aver fornito la notizia che a Romolo si attribuiva l’introduzione dei primi “ludi” a Roma, procedesse a una sorta di excursus in cui erano descritti i riti d’inaugurazione dei giochi che venivano fatti risalire a Romolo (come la danza dei “pueri praesules”, vedi fr. 4) e i numeri previsti dai giochi più antichi (come la corsa sulle pelli del fr. 5). Passando a un’analisi del contenuto del frammento, in realtà una menzione dei Consualia si trova soltanto nel “versus vetus” che Varrone dice di citare da alcuni “carmina”. La prima difficoltà è data dal fatto che è impossibile determinare la natura esatta di questi “carmina”: Varrone si sta riferendo a opere di poesia o piuttosto a formule sacrali impiegate in qualche cerimonia? Il contenuto del “verso” si accorderebbe meglio con l’ipotesi che si tratti di parte di un formulario (ho seguito questa interpretazione anche nella mia traduzione), ma, d’altro canto, il fatto che la pericope possa essere scandita, pur con qualche difficoltà, come un 86
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settenario trocaico non esclude la possibilità che Varrone stia davvero citando un componimento metrico preletterario (come crede Blänsdorf, che include la citazione fra i “versiculi populares”). Purtroppo gli scarni dati forniti dal frammento non danno abbastanza dati per chiarire la questione e i commentatori trascurano questo punto. I problemi posti dall’espressione, ambigua, “in carminibus” sono poi acuiti dal fatto che è difficile intendere bene la sintassi e lo schema metrico del verso stesso. Infatti, seguendo la lettura che ne dà Brunetti (l’unico a tentare una traduzione del frammento), si dovrebbe intendere “Consualia” come apposizione di “ludos”: il verso reciterebbe dunque: “lì i pastori compiono dei giochi con delle pelli, i Consualia”. Tuttavia, una costruzione sintattica del genere è piuttosto dura e il senso appare debole: la pericope “ibi pastores ludos faciunt coriis” costituisce una frase in sé compiuta, mentre “Consualia” non sfugge all’impressione di essere una giustapposizione mal connessa con quanto precede (si potrebbe pensare che il “verso” riportato da Varrone fosse in realtà composto da due frasi indipendenti, la prima delle quali si chiudeva con “coriis” e la seconda iniziava con “Consualia” e continuava nel seguito: “ibi pastores ludos faciunt coriis. Consualia …”; ma sarebbe soltanto una scappatoia, per giunta improbabile). Sul piano sintattico, si è dunque visto che “Consualia” pone dei problemi. Passando a un’analisi metrica del verso, questo può effettivamente essere scandito come un settenario trocaico (così lo scandisce Blänsdorf 2011, p. 414). Tuttavia, la scansione è piuttosto difficile, in quanto la prima parte richiederebbe numerose soluzioni, e il risultato risulta goffo e traballante. In particolare, anche sul piano della metrica il termine “Consualia” si stacca da quanto precede: infatti, la pericope “ibi pastores ludos faciunt coriis” ha un innegabile andamento anapestico (ĭbĭ pāstōrēs lūdōs făcĭūnt cŏrĭīs), interrotto dal successivo “Cōnsŭālĭă”, che ha in effetti una struttura trocaica. Sebbene, come ho detto, la stringa risultante potrebbe anche essere scandita come un settenario, la discrepanza, anche metrica, fra “Consualia” e quanto precede è cospicua. L’unione di questi due fattori mi porta a sospettare che “Consualia” sia una glossa a “ludos” entrata successivamente a testo98. Pensando che il verso citato da Varrone consistesse soltanto in “ibi pastores ludos faciunt coriis” si avrebbe in effetti un’unità compiuta di senso perfettamente corrispondente a
Va detto che il nesso “ludos … Consualia” di per sé non sarebbe privo di attestazioni in Varrone: vedi il fr. 32 Fraccaro del de gente populi Romani, “ludos Olympia fecerat”. Tuttavia, nel fr. 5 rimane problematico l’iperbato che divide “Consualia” da “ludos”. 98
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quanto detto nel frammento e dotata di una propria uniforme tessitura ritmica (sarebbe composta da una serie di anapesti). Un lettore abbastanza dotto potrebbe aver chiosato “ludos” con “Consualia” (per poter compiere un intervento del genere, l’interpolatore doveva essere ancora piuttosto antico; forse questo fatto spiegherebbe come mai l’interpolazione fosse presente nell’archetipo e da qui si sia trasmessa a tutta la tradizione noniana99); la glossa sarebbe poi stata inserita a testo (probabilmente l’errore è stato facilitato dalla considerazione che si sarebbe così ottenuta una stringa che, apparentemente, poteva essere scandita come un verso). Per questo motivo, propongo in apparato l’espunzione di “Consualia”, sebbene, per riguardo alla difficoltà del problema metrico e alla natura erudita della glossa, abbia preferito stampare il testo tradito. In ogni caso, poiché si può sospettare della genuinità di “Consualia”, sorgono dei dubbi sul fatto che il fr. 5 parlasse di questa festa. Di conseguenza, una volta messo in discussione che il fr. 5 riguardasse i Consualia, anche la proposta di Salvadore di inserirlo fra quelli relativi alle feste diventa problematica. Ancora più difficile, a questo punto, sarebbe la proposta di Salvadore (p. 61) che il frammento riguardasse il ratto delle Sabine, avvenuto appunto nel corso dei primi Consualia (del resto, se il fr. 5 parlasse del ratto delle Sabine, andrebbe ragionevolmente legato al regno di Romolo, non alla sezione sulle feste; Salvadore, invece, sembra ipotizzare che Varrone parlasse dei Consualia nella parte sul calendario e, partendo dalla menzione di questa festa, procedesse a discutere del ratto, il che presupporrebbe un’improbabile “digressione nella digressione”). Viceversa, l’inserimento di questa citazione nel contesto del regno di Romolo resterebbe valido anche qualora si slegasse il fr. 5 dai Consualia: i frr. 4 e 5, infatti, discuterebbero comunque l’organizzazione dei giochi più antichi (che fossero i Consualia o no) e dei “ludi” istituiti dal fondatore. Per quanto riguarda la prima parte del frammento, di più semplice comprensione, questa può essere raffrontata con una nota di Servio (ad Aen. 10, 894) che potrebbe risalire a Varrone: cernuus equus dicitur qui cadit in faciem, quasi in eam partem cadens qua cernimus: unde et pueri quos in ludis videmus ea parte, qua cernunt, stantes, cernuli vocantur, ut etiam Varro in ludis theatralibus docet. Non sono pervenute notizie circa un’opera di Varrone intitolata de ludis theatralibus (per quanto si sa che compose tre opere intitolate de actionibus scaenicis, de actis Né si può escludere che l’aggiunta fosse presente già nella copia del de vita consultata da Nonio, nella forma di nota a margine. 99
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scaenicis e de scaenicis originibus; Servio potrebbe risalire, in teoria, anche a una di queste), per cui, basandosi sul fatto che Varrone trattava i ludi nella parte delle antiquitates relativa alle “res divinae” (vedi fr. 4), a partire da Cichorius la notizia riferita da Servio è stata attribuita alle antiquitates (l’attribuzione è accolta con qualche dubbio anche da Cardauns 1976, p. 179, sulla base del fatto che il decimo libro delle antiquitates rerum divinarum era anche noto col titolo di de scaenicis originibus). Tralasciando la difficile questione della fonte della nota (complicata dal fatto che Varrone avrebbe potuto riportare la stessa notizia in più opere), resta il dato che il parallelo di Servio rimanda alla figura dei “pueri praesules” già descritti nel fr. 4. Va detto che il fr. 5 e il brano di Servio non sono del tutto sovrapponibili: nel frammento, si parla di un gioco che prevedeva delle vere e proprie capriole, mentre Servio sembra dire che erano detti “cernuli” i “pueri” che, nei “ludi”, davano prove di destrezza tenendosi in equilibrio sulla testa (questo secondo l’interpretazione data dal Salmasius della difficile frase di Servio “ea parte qua cernunt stantes”: “cernui pueri in ludis dicebantur qui capite in solo sistebant pedibus in aerem erectis”; del resto, non si può escludere che in questa parte della nota Servio fraintendesse Varrone). Comunque, il riscontro col brano di Servio fornirebbe un elemento in più per legare il fr. 4 al fr. 5. Varrone, nella sezione sui “ludi” presente nella parte su Romolo, poteva appunto dire che i “pueri praesules” erano detti “ludii”, perché imberbi (vedi fr. 4) o “cernuli”, perché nella loro danza inaugurale, “cernuabant” come descritto nel fr. 5. Si tratta ovviamente di una semplice ipotesi, che tuttavia vorrei proporre come ricostruzione finale del contesto dei frr. 4 e 5. 6 (= 15 R.; 295 S.) quid inter hos Ioves intersit et eos, qui ex marmore, ebore, auro nunc fiunt, potes animadvertere et horum temporum divitias et illorum paupertates 1: anima advere L (corr. L3); animo advertere BA; 2: horum] orbi La.c. Non. p. 239.14-17: PAVPERTATES nove positum numero plurali. Varro de vita populi Romani lib. I 1: Varro] vero (ex numero) La.c. | I F3; XI BA; om. La.c.
che differenza intercorra fra queste statue di Giove antiche e quelle che oggi si fanno in marmo, avorio, oro, lo si può notare (confrontando) il lusso di questi tempi e le ristrettezze di quelli 89
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Dopo aver riassunto i punti salienti del regno di Romolo, arricchendo la trattazione con excursus eruditi, come quello sui “ludi”, è probabile che Varrone procedesse a narrare dell’opera del suo successore, Numa. Non sono pervenuti frammenti dove compaia esplicitamente il nome di questo re o che si riferiscano con certezza al suo operato; tuttavia, sono state tramandate numerose citazioni attinenti alla sfera del culto, del calendario e dei riti connessi alle varie stagioni dell’anno. La mia ipotesi è che Varrone legasse alla figura di Numa una trattazione piuttosto ampia sulle pratiche religiose e devozionali più arcaiche, in ambito tanto pubblico (templi e feste), quanto privato (riti familiari, usi nuziali). Questa idea trova un riscontro positivo nelle “lex Lindsay”, dal momento che un frammento relativo a riti nuziali (fr. 10) è citato in serie prima di un frammento dove si parla dei successori di Numa, Tullo Ostilio e Anco Marzio (fr. 17): ciò porta a sospettare che la digressione sul culto si posizionasse prima del sunto dell’operato di questi due re, vale a dire proprio nell’ambito della sezione sul regno di Numa, che, non a caso, sarebbe la sede più adatta ad accogliere una trattazione relativa alla religione arcaica. L’intera sezione poteva essere aperta da una parte introduttiva occupata da un confronto polemico fra la semplicità del culto antico e il lusso ostentato nelle pratiche compiute al tempo dell’autore. Attribuirei a un contesto del genere il frammento, dove è sviluppato un paragone moralistico fra le antiche statue degli dei realizzate in materiale povero (presumibilmente la terracotta, in quanto il tema degli “dei in terracotta” era topico nell’ambito della critica moralistica al lusso, vedi Prop. 4, 1.5-6, fictilibus crevere deis haec aurea templa / nec fuit opprobrio facta sine arte casa; Ov. fast. 1, 201-202, Iuppiter angusta vix totus stabat in aede / inque Iovis dextra fictile fulmen erat100; Iuv. 11.116: fictilis et nullo violatus Iuppiter auro; cfr. Liv. 34, 4.4; Sen. cons. Helv. 10.7; Maltby 2002 ad Tib. 1, 1.37100 L’intera digressione di Ovidio (fast. 1, 191-208) sulla semplicità degli antichi costumi offre interessanti punti di contatto con il discorso condotto da Varrone nei frammenti relativi al culto arcaico. Anche il seguito della sezione (vv. 209-223: confronto fra la povertà del periodo monarchico e la sete di ricchezze dell’età contemporanea) si avvicina, per il tono e l’impiego di motivi topici, ai frammenti del de vita (77; 115-120) più marcati in senso moralistico. L’ipotesi che Ovidio potesse aver tratto l’ispirazione per questo excursus proprio da Varrone è stata avanzata da Green 2004, p. 98: «Ovid may have been particularly influenced by Varro’s antiquarian works, in which past and present Rome appear to have been regularly juxtaposed to the detriment of the latter». Per una digressione simile sulla semplicità delle antiche offerte, vedi anche fast. 1, 337-346.
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38, pp. 135-136; per l’immagine, analoga, di statue di legno, vedi Tib. 1, 10.1920, cfr. Plin. 34, 34, lignea potius aut fictilia deorum simulacra in delubris dicata usque ad devictam Asiam, unde luxuria) e quelle in materiale prezioso dei tempi di Varrone, che alla diversità di fattura dei simulacri fa corrispondere lo squilibrio, appunto, fra la ricchezza dell’età a lui contemporanea e le ristrettezze della Roma passata (per un passo molto vicino al frammento, vedi Plin. n. h. 35, 157158101, a proposito delle statue di dei in terracotta, hae enim tum effigies deorum erant lautissimae, nec paenitet nos illorum qui tales eos coluere102; aurum enim et argentum ne diis quidem conficiebant. Durant etiamnum plerisque in locis talia simulacra … sanctiora auro, certe innocentiora. In sacris quidem etiam inter has opes hodie non murrinis crystallinisve, sed fictilibus prolibatur simpulis; per l’ultima parte del passo di Plinio, cfr. fr. 49). Per esplicitare questo contrasto, ho supplito a senso una forma verbale come “conferendo” agli oggetti “et horum temporum divitias et illorum paupertates”103, privati del verbo reggente dal taglio compiuto da Nonio (si potrebbe, in teoria, anche pensare a un infinito “conferre”: “si può notare che differenza intercorra … e confrontare le ricchezze di questi tempi con le ristrettezze di quelle”, anche se con questa soluzione il primo “et” servirebbe a congiungere “animadvertere” e “conferre” e si perderebbe il parallelismo “et horum temporum divitias et illorum paupertates”). La movenza stilistica con cui si apre il frammento (introduzione del tema che sarà discusso e commentato per mezzo di una interrogativa indiretta) si riscontra anche in altri frammenti del de vita (24; 34; 75; 89). La frequenza con cui questo stilema ricorre nei nostri frammenti, che pur costituiscono una minima parte dell’opera, lascia intendere che un uso del genere dell’interrogativa indiretta dovesse essere sfruttato piuttosto spesso da Varrone nel de vita. Una certa enfasi retorica, oltre che dalla sintassi arzigogolata, è conferita anche dall’asindeto “marmore, ebore, auro”, dove l’accumulo di materie preziose è sottolineato dalla climax ascendente che le dispone in ordine di valore; a questa profusione di lusso doveva contrapporsi, nel periodo precedente il frammento, la semplice descrizione delle
101 Per gran parte della sezione sulla ceramoplastica (parr. 154-158) Varrone è esplicitamente presentato da Plinio come la sua fonte principale. 102 Si noti che Plinio, esattamente come Varrone in questo frammento, non parla di statue, ma di veri e propri “dei di terracotta”. 103 Anche Bessone 2008, p. 52, n. 61 sembra ipotizzare una soluzione del genere.
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essenziali statue arcaiche (a cui si riferisce il deittico “hos” che apre il frammento). La contrapposizione fra i due tipi di statua, prima, e le due epoche, poi, è marcata, nella costruzione della frase, da una serie di parallelismi che coinvolgono i dimostrativi (“inter hos … et eos”; “et horum … et illorum”), le indicazioni temporali (“nunc … horum temporum”) e gli oggetti del verbo tagliato (“divitias … paupertates”), in modo analogo a quanto si verifica in un altro passo varroniano dedicato alla contrapposizione polemica fra generazioni diverse: r.r. 1, 13.6-7, si potius ad anticorum diligentiam quam ad horum luxuriam derigas aedificationem. Illi enim faciebant ad fructum rationem, hi faciunt ad libidines indomitas. Itaque illorum villae rusticae erant maioris preti quam urbanae, quae nunc sunt pleraque contra. Illic laudabatur villa, si habebat culinam rusticam bonam … nunc contra villam urbanam quam maximam ac politissimam habeant dant operam (per la critica all’edificazione di dimore di lusso, vedi anche fr. 120). Anche l’impiego di “paupertates” al plurale, che per la sua rarità costituisce il motivo della citazione da parte di Nonio, innalza il livello della scrittura. Questa abbondanza di mezzi retorici si accorda all’ipotesi di attribuire il frammento a una sezione introduttiva, dove è presumibile che l’impiego di artifici stilistici fosse maggiore rispetto alle parti dell’opera dedicate all’esposizione del materiale erudito. 7 (= 14 R.; 294 S.) ut in cetero cultu quae sunt, consentanea, quod sunt paupertina, sine elegantia ac cum castimonia 1: e.g. suppleverim | ut inciter ocultuque L, corr. Scaliger | sunt, sic distinxit Kettner, edd. Non. p. 239.18-20: PAVPERTINVM. Varro de vita populi Romani lib. I.
conformi a …, come ciò che riguarda il resto del culto, poiché sono di modesta fattura, senza ricercatezza e con semplicità Il discorso sulla semplicità del culto dei tempi antichi, avviato nel fr. 6, prosegue in questa citazione, purtroppo tradita in modo estremamente mutilo. Anche qui si parla di qualcosa di “paupertinum” (cfr. le “paupertates” del fr. precedente); il senso di questa espressione è specificato e rafforzato nel seguito del frammento, dove si dice che si tratta di oggetti realizzati senza ricercatezza e con moderazione. Il taglio compiuto da Nonio comporta vari problemi. In primo luogo, manca il re92
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ferente degli aggettivi “consentanea” e “paupertina”, per cui non si può sapere con certezza di che tipo di suppellettile Varrone parlasse. Ciò produce un’ulteriore difficoltà riguardo la punteggiatura: va considerato come una parentetica l’intero inciso “ut in cetero cultu quae sunt” (in tal caso sarebbe corretta l’interpunzione data da Kettner e accolta da tutti gli editori) oppure la parentesi è costituita dalle sole parole “ut in cetero cultu” e “quae sunt consentanea” è una relativa a sé (il che porterebbe a interpungere “ut in cetero cultu, quae sunt consentanea”)? Si può tentare di fornire una risposta a questo problema soltanto dopo aver affrontato una nuova difficoltà: anche l’aggettivo “consentanea” è privo di un referente (è detto che gli oggetti di cui si parla, come il resto del culto, sono “conformi a” qualcosa, che è stato tagliato fuori dal frammento). Per tentare una possibile ricostruzione del contesto originario, disponiamo di due punti di partenza: a) occorre un dativo che sia retto da “consentanea”; b) il presente “quod sunt paupertina” lascia intendere che qui Varrone stesse parlando non tanto di oggetti in uso nel passato, quanto di qualcosa che fosse sopravvissuto ancora al suo tempo e avesse conservato l’aspetto modesto dell’arredo arcaico. Ipotizzo quindi che qui Varrone accennasse a tracce dell’antica semplicità mantenutesi ancora nel culto dei suoi tempi, piuttosto che esaltasse la “castimonia” del passato, contrapponendola al presente. Una movenza simile si riscontra in un altro frammento del de vita: fr. 49, lepestae etiamnunc Sabinorum fanis pauperioribus plerisque aut fictiles sunt aut aeneae, che terremo presente nel nostro tentativo di ricostruzione (cfr. anche il passo di Plinio citato nel commento al frammento precedente). L’inciso “ut in cetero cultu”, poi, fa pensare che Varrone discutesse di uno specifico tipo di oggetti, definiti “paupertina” così come il resto del culto. Sulla base del fr. 49, suggerirei che gli oggetti in questione fossero i vasi utilizzati nel servizio sacro; essendo questi di ceramica, denunciavano nel loro aspetto la propria semplicità. Integrerei pertanto un “fictilia” (l’uso sostantivato di “fictile” per indicare un vaso è comune, cfr. ThLL VI, 1 647.80-648.10; notevole è il fatto che spesso il termine sia impiegato proprio per indicare la suppellettile povera per antonomasia o in contrasto con oggetti preziosi: Tib. 1, 1.39, adsitis, divi, neu vos e paupere mensa / dona neve e puris spernite fictilibus; Flor. 1, 35.14 (= 1, 18.22), cum Curius fictilia sua Samnitico praeferret auro), che considero connesso a “consentanea”. Per quanto riguarda questo attributo, lo riferirei a un dativo del tipo “priscae simplicitati”. Nel frammento si parlerebbe di “fictilia” ancora usati nel culto al tempo di Varrone, che costituiscono una testimonianza, come in generale tutti gli aspetti della religione, 93
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dell’antica semplicità. Propongo dunque, exempli gratia, un contesto del genere: “in sacris etiamnunc habent fictilia, priscae simplicitati, ut in cetero cultu quae sunt consentanea”. Partendo da questa proposta, sorge la questione dell’interpunzione. Ora fra il testo risultante dalla soluzione di Kettner (“in sacris etiamnunc habent fictilia, priscae simplicitati, ut in cetero cultu quae sunt, consentanea, quod sunt…”) e quello che si avrebbe adottando un’interpunzione diversa (“in sacris etiamnunc habent fictilia, priscae simplicitati, ut in cetero cultu, quae sunt consentanea, quod sunt”), la seconda soluzione presenta un iperbato eccessivamente duro (“fictilia … quae sunt”), per cui preferisco mantenere l’interpunzione vulgata, pur proponendo la mia integrazione. Il senso risultante del frammento sarebbe: “tuttora impiegano nelle cerimonie vasi di terraccotta, conformi, come gli altri aspetti del culto, all’antica semplicità, poiché sono di modesta fattura…”. 8 (= 13 R.; 293 S.) haec aedis, quae nunc est, multis annis post facta sit, namque omnia regiis temporibus delubra parva facta 1: quae ed. 1471; quo codd. (quod E1P) | facta sit] factast Müller | namque omnia regiis scripsi (namque Numae regis vel namque omnia Numae regis Müller); in que (-quae) omnia regis LAABACA; in qua omnia regis DA; quia omnia regiis Scaliger, Rip.; utique omnia regis Lindsay, Sal. Non. p. 792.6-8: AEDIS nominativo singularis. Varro de vita populi Romani lib. I. 1: singularis L; singulari cett.
(poiché) il tempio che sorge adesso è stato realizzato molti anni dopo, e infatti tutti i delubra risalenti all’epoca dei re furono costruiti di piccole dimensioni Nel frammento Varrone affronta una questione antiquaria: la datazione di un tempio. L’autore specifica che l’edificio (probabilmente ricondotto da altri studiosi al tempo di Numa), nella forma visibile al suo tempo, non poteva risalire al periodo monarchico, in quanto di dimensioni troppo ampie. Data l’esiguità del frammento, preferirei non pronunciarmi su quale dovesse essere il tempio in questione. Passerei piuttosto all’analisi dei vari problemi testuali del passo. Il primo punto riguarda il tradito “quo”, corretto in “quae” nell’edizione di Nonio del 1471 e accolto da tutti gli editori. Con “quo” la forma sarebbe un po’ diversa, ma l’argomento di Varrone resterebbe all’incirca lo stesso: “il tempio, lì dove esso sorge 94
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ora, non può essere quello di Numa, perché ha un delubrum troppo grande”. Ma, intendendo così, bisognerebbe dare a “quo” il senso di uno stato in luogo: sebbene uno scambio del genere fra “quo” e “ubi” sia possibile nella prosa tecnica meno sorvegliata (cfr. HLS II 652-653) e forse si riscontri anche in un altro frammento del de vita (vedi fr. 62, dove, tuttavia, il punto è controverso e viene proposto un intervento proprio per risolvere questa difficoltà), in questo caso la costruzione risulterebbe eccessivamente dura, poiché il verbo “est” implica con forza la necessità di uno stato in luogo (oscillazioni come quella attestata in Cato agr. 10, dolia, quo vinaceos condat, X e agr. 11, dolia, ubi vinaceos condat, XX sono legittimate dal fatto che il verbo “condere” ammette sia la costruzione con “in” + abl. che quella con “in” + acc., vedi ThLL IV 148.35 e 149.27; nel caso di “esse”, invece, lo scambio fra “quo” e “ubi” sarebbe ingiustificato). Inoltre, senza “quae”, “haec” si troverebbe ad essere un termine isolato, privo di un referente specifico. La correzione in “quae” è autorizzata anche dal parallelo di l. L. 5, 158 (passo sempre relativo alla datazione di edifici sacri, dove ricorre anche la stessa forma del nominativo “aedis”104), ibi sacellum Iovis Iunonis Minervae, et id antiquius quam aedis quae in Capitolio facta. In base a questi tre motivi, ho accolto l’intervento dell’edizione quattrocentesca. Un intervento superfluo è invece quello di Müller, che muta “facta sit” in “factast”. Il fatto che manchi il contesto del frammento impone cautela: non possiamo escludere che la proposizione dipendesse da un “cum” tagliato dalla citazione, per cui sarebbe prudente mantenere il congiuntivo tradito (sulla tendenza di Müller a intervenire in casi in cui una subordinata dipenderebbe da un’altra subordinata, cfr. fr. 63). Il frammento è diviso in due parti: nella prima è detto che il tempio di cui si parla non può essere stato realizzato che molti anni dopo l’età monarchica; la seconda presenta i motivi in base ai quali Varrone argomenta questo giudizio (i “delubra” risalenti a quel periodo sono tutti di piccole dimensioni105; da qui si intende per contrasto che l’edificio discusso doveva essere piuttosto ampio). Fra le due parti occorre una congiunzione di raccordo, dove i codici tramandano un “inque” che non dà senso. Rispetto alle correzioni accolte dalle ultime edizioni (“quia” dello Scaligero, stampata da Riposati, e “utique” di Lindsay, messa a testo
Per la forma “aedis” invece di “aedes”, causa della citazione del frammento da parte di Nonio, vedi ThLL I 907.46-66. 105 Per una descrizione poetica dei templi di età monarchica, vedi Ov. fast. 6, 261-262. 104
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da Salvadore), rivaluterei la proposta di Müller “namque”, in quanto da un lato restituisce il testo paleograficamente più vicino al tradito “inque”, dall’altro fornisce un nesso logico che connette in maniera efficace i due enunciati del frammento (il tempio è stato realizzato molto tempo dopo l’età di Numa, e infatti i “delubra” risalenti a quel periodo sono tutti piccoli). Stando alla nostra ricostruzione del de vita, il frammento trovava posto nell’ambito di una digressione sul culto connessa al racconto del regno di Numa. La “lex Lindsay” sembra confermare questa ipotesi: il frammento veniva sicuramente prima della trattazione relativa alla vita quotidiana che costituiva la seconda parte del l. 1, in quanto è citato in serie prima del fr. 23, che appartiene all’introduzione della sezione sulla “res familiaris”. La citazione, quindi, va inquadrata nella parte dove erano riassunte le vicende dei re di Roma; ora, fra i sette re in questione, Numa è per l’appunto quello a cui sarebbe più naturale connettere un’informazione relativa a un tempio. Questo dato si accorda alla nostra ipotesi che Varrone legasse alla trattazione del regno di Numa un’ampia digressione sul culto (vedi introduzione). Un punto che merita di essere discusso riguarda il testo tradito “regis temporibus”, che reca notevoli difficoltà nella sintassi: il termine “regis” isolato, privo di una indicazione specifica che chiarisca di quale re si tratti o almeno di un dimostrativo che lo regga (“eius regis”, ad es.), risulta particolarmente duro. La strada seguita da Müller, che integra un “Numae”, non permette di risolvere il problema, in quanto rischia di essere una banalizzazione o comunque un intervento superfluo. Si dovrebbe pensare, per far tornare la sintassi, alla presenza di una menzione del nome di Numa nella parte del frammento tagliata fuori dalla citazione di Nonio (ad esempio, ipotizzando un contesto come “quidam templum Iovis Statoris Numae tribuunt, cum haec aedis, quae nunc est, multis annis post facta sit…”), in tal caso, Varrone avrebbe, per brevità, evitato di ripetere due volte a breve distanza lo stesso nome. Tuttavia, anche supponendo una situazione del genere, l’espressione “regis temporibus” resterebbe dura e si avverte la necessità almeno di un deittico che connetta “regis” alla precedente menzione di Numa. Cercando altri casi di uso antonomastico di “rex”, il parallelo più vicino che sia riuscito a trovare è l. L. 5, 49: secundae regionis Esquili[n]ae. alii has scripserunt ab excubiis regis dictae, alii ab eo quod excultae a rege Tullio essent. Ma, a ben guardare, la situazione è differente rispetto al fr. 8: è vero che nel brano dal de lingua Latina si adopera un semplice “regis” come sostituto del nome di Servio Tullio, ma va anche notato che subito dopo Varrone addirittura ripete 96
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“rex” dove sarebbe bastato il nome del re o anche solo un pronome. Il passo dal de lingua Latina, in ultima analisi, piuttosto che provare che Varrone potesse scrivere “regis temporibus”, sembra dunque suggerire che un’indicazione come “regis Numae” o “huius regis” ci vorrebbe! Ciò portrebbe a stampare la bella correzione dello Scaligero “regiis temporibus” (accolta da Riposati). A questo intervento si può tuttavia obiettare che con “regiis temporibus” il frammento verrebbe a coprire un arco temporale eccessivo, includendo tutto il periodo monarchico. Estendere il discorso all’età monarchica nel complesso comporterebbe una difficoltà sul piano dei contenuti, poiché agli ultimi re è attribuita dalle fonti la realizzazione di un piano urbanistico di notevole impegno e di edifici sacri già di notevoli dimensioni: la menzione di “delubra parva” non si adatterebbe bene a tutto il periodo (vedi L. Mueller, in «Jahrbücher für classische Philologie» 13, p. 788: «keineswegs alle Tempel der Königzeit klein waren») Con “regis temporibus”, invece, il discorso resterebbe circoscritto al regno di Numa e sarebbe logicamente coerente. A questa obiezione si può controbattere ricordando che “aedis” e “delubrum” non esprimono esattamente la stessa cosa: mentre il primo termine designa l’edificio templare in senso proprio, il secondo indica uno spazio pavimentato consacrato a una divinità e antistante il tempio (vedi Castagnoli 1984; in particolare pp. 3-4, dove il fr. 8 è presentato proprio come attestazione di “una contrapposizione tra delubrum e aedes”). Ora, Varrone poteva appunto dire non che tutti i templi dell’età monarchica fossero di piccole dimensioni (ve ne erano anche di monumentali, infatti), ma che tutti i “delubra” connessi ai santuari (a prescindere dalle dimensioni di questi ultimi) erano piccoli. Evidentemente, l’edificio “datato” nel frammento era fornito di un ampio “delubrum”: una caratteristica che Varrone non voleva far risalire all’età monarchica. Pur senza poter giungere a risultati definitivi, direi quindi che insistendo sulla differenza fra “aedis” e “delubrum” si possa aggirare la critica mossa all’intervento “regiis temporibus”, che senza dubbio sana una testo dalla sintassi durissima. 9 (= 4 R.; 284 S.) hanc deam Aelius putat esse Cererem, sed, quod in asylum qui confugisset panis daretur, esse nomen fictum a pane dando, pandere, quod est aperire, 1: Aelius Carrio; melius codd. | confugissent ed. princ., Müller | panis Müller; 2: factum Popma; 2-3: a pane dando pandere quod est aperire codd.; a pane dando, (suppl. Mariotti) pandere, quod est aperire, Sal. (talibus Nonio tribui); a pane dando pandere, quod est aperire, Kettner dub. in app.; a pane dando pandere, quod est aperire, Rip.; a pane dando; et quod numquam fanum talibus clauderetur pandere quod est aperire Müller; a pane dando pandere, quod est aperire, Salvadore 1978 Non. p. 63.1-7: PANDERE Varro existimat ea causa dici, quod qui ope indigerent et ad asylum Cereris confugissent panis daretur; ‘pandere’ ergo quasi ‘panem dare’ et quod numquam fanum talibus clauderetur: de vita populi Romani lib. I: 2: panis Müller; 3: tabulis L; tabulis numquam A
Elio Stilone ritiene che questa dea sia Cerere, ma che, poiché a chi si fosse rifugiato presso l’asilo era data una pagnotta, il suo nome (Panda) sia stato coniato a partire da “dare il pane” (panem dare); del verbo pandere, che significa “aprire”, La pericope riportata da Nonio è estratta da una sezione in cui Varrone presentava un’etimologia di Elio Stilone e ne discuteva l’opinione. L’argomento dibattuto consisteva nell’origine di un’istituzione di tipo assistenziale presso un tempio, un asylum dove era offerto ricetto ai fuggiaschi, a cui era dato del pane per sfamarsi. L’inizio del frammento mostra che la questione verteva sulla natura della divinità che presiedeva all’asylum. Il parere di Stilone (da cui probabilmente Varrone dissentiva) era che la dea in questione fosse Cerere: “hanc deam Aelius (la correzione è sicura) putat esse Cererem”. Tuttavia, il “sed” che segue nella citazione mostra che questa identificazione presentava delle difficoltà o comunque dei punti che necessitavano di un chiarimento. Il fatto che la parte di testo che segue “sed” sia ancora in discorso indiretto prova che nella proposizione aperta da “sed” era ancora riferito il discorso di Stilone, che qui rispondeva a una obiezione. L’identificazione con Cerere poneva quindi una difficoltà; quale? L’ipotesi più probabile è che il punto dubbio consistesse nel fatto che la dea presso il cui tempio sorgeva l’asylum doveva avere un nome diverso da Cerere e non doveva essere identificata da tutti con questa divinità. Già Kettner nella sua edizione e, in modo ancora più esplicito Mommsen (che si spinge a correggere il tradito “hanc deam” in “Pandam”; un intervento 98
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non necessario, in quanto Varrone poteva nominare Panda nel testo immediatamente precedente e riferirsi ad essa, nel nostro frammento, con la semplice menzione “hanc deam”) ritengono che la dea dall’identità dibattuta fosse Panda, sulla base del seguito del frammento, da cui si ricava che il nome della divinità doveva avere un rapporto etimologico con “panem dare”. Se le cose stanno così, tutta la prima parte del frammento (da “hanc deam” a “fictum”) doveva essere dedicata all’esposizione dell’opinione di Stilone su questo problema: secondo l’erudito, la dea Panda era Cerere, ma era stata chiamata così “a pane dando”. Come nota Salvadore 1978, il “nomen fictum” dunque sarebbe quello della dea e questa prima parte del frammento non avrebbe molto a che vedere con il seguito, dove è fornita un’etimologia non più di “Panda”, ma di “pandere”. Un’ulteriore prova a favore di questa ipotesi è data dal fatto che in un passo di Arnobio che potrebbe derivare da Varrone (vedi Salvadore 1978, p. 289) viene fornita un’etimologia diversa per Panda (4, 3: et quod Tito Tatio, Capitolium capiat collem, viam pandere atque aperire permissum est, dea Panda est appellata vel Pantica). Il parere di Varrone sull’etimologia di Panda era diverso da quello riportato nel frammento: ciò spinge ad attribuire a Stilone l’intero discorso fino a “fictum”, che viene così a costituire un blocco coerente (per sottolineare il fatto che “sed” è usato per articolare il discorso di Stilone, non per contrapporgli una posizione diversa, adotto una punteggiatura meno forte di quella di Lindsay, che stampa “Cererem; sed”). Questa è la ricostruzione di Salvadore; prima di lui l’interpretazione corrente (si veda la traduzione di Brunetti, p. 922) non distingueva fra le due parti del frammento (quella sulla dea e, come vedremo, quella su “pandere”) e di conseguenza riferiva “esse nomen fictum” non a quanto precede, ma al successivo “pandere”. Il senso dato era “Elio ritiene che questa dea fosse Cerere, ma, poiché ai fuggiaschi era data una pagnotta, da ‘dare il pane’ è stato coniato il verbo pandere”. In questo modo si accoglie il testo esattamente come è tradito da Nonio, ma si crea uno scompenso logico di una certa portata. Infatti non si comprende più il senso esatto del “sed”, in quanto l’etimologia di “pandere” non si contrappone all’identificazione con Cerere né la chiarisce. Infatti, pur dando questa lettura, Kettner e Riposati sono costretti a inserire nel discorso una menzione di Panda che giustifichi il “sed” e permetta di chiudere la discussione: per questo integrano “ideoque a pandendo Pandam dictam (o “dictam Pandam”)” alla fine del frammento. Questa soluzione non soddisfa, in quanto introduce un passaggio 99
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logico non giustificato dal testo di Nonio, e presenta un testo dove le varie informazioni non sono connesse in maniera coerente (in particolare, il “sed” resta poco chiaro). La soluzione migliore al problema viene da Mariotti: posto che la prima parte del frammento riguardava Panda e che il “nomen fictum” era quello della dea, la successiva sezione sull’etimologia di “pandere” va considerata come un’aggiunta dotta. Stilone, di cui Varrone continuerebbe a citare il discorso, dopo aver riportato l’etimologia che faceva risalire Panda a “panem dare”, poteva arricchire l’esposizione con una sorta di rimando, aggiungendo che “panem dare” era l’etimologia non solo di Panda, ma anche di “pandere”. La cesura fra le due parti, però, non è riconoscibile nel testo tradito, dove a “esse nomen fictum” segue direttamente “pandere, quod est aperire”. Per questo Mariotti ipotizza che nell’archetipo sia stata saltata la giuntura che permetteva la transizione fra una parte e l’altra e, di conseguenza, integra e.g. “unde etiam” fra “fictum” e “pandere”. La soluzione di Mariotti, semplice ed economica, permette di dare all’intero frammento un andamento chiaro e sensato: l’opinione di Stilone è finalmente restituita in tutto il suo logico svolgimento. Salvadore mette in rilievo anche un altro punto: partendo dalla frase di Nonio che introduce la citazione, si deduce che nel testo che il grammatico aveva davanti doveva trovarsi anche un’altra indicazione, adombrata dalle parole di Nonio “quod numquam fanum talibus clauderetur”. Infatti fa parte del metodo di lavoro usuale di Nonio non aggiungere nel lemma nulla che non fosse detto nei testi citati. Se quindi troviamo nel lemma un accenno al fatto che il tempio non era mai chiuso, è più che probabile che questa informazione fosse presente nel brano del de vita riassunto dal grammatico nella voce del dizionario. La notizia che il tempio “non venisse mai chiuso” rimanda logicamente alla nozione di “aprire”: per questo motivo, Salvadore propone di estrarre dal lemma di Nonio la pericope “quod numquam fanum talibus clauderetur” e di integrarla dopo “aperire”. La proposta è sensata, trova riscontro nel metodo di Nonio e fornisce al frammento una conclusione valida (da “panem dare” deriva anche “pandere”, che significa “aprire” perché il tempio era sempre aperto). Presupponendo un testo del genere, si comprende anche l’origine del testo di Nonio, che per esigenze di brevità, nel parafrasare tutto il brano, oltre ad attribuire al Reatino un discorso di Stilone solo riportato da Varrone, tralascia il fatto che l’etimologia “a pane dando” fosse in realtà riferita prima a Panda che a “pandere”, ma, interessato alla sola etimologia di “pandere”, riassume il succo della 100
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prima parte del frammento in “pandere ergo quasi panem dare” e vi aggiunge, per mezzo di un semplice “et”, il contenuto della seconda parte. Il fatto, poi, che la voce di Nonio e la citazione fossero per gran parte identici può essere la causa della caduta di “quod fanum … clauderetur” dal testo di Varrone: un copista, trovandosi a ricopiare di seguito due pericopi quasi uguali, poteva facilmente tralasciare una parte del testo coincidente (forse si potrebbe spiegare in questo modo anche la perdita del raccordo fra “fictum” e “pandere”). L’unico punto in cui mi discosterei da Salvadore riguarda la necessità di accogliere “talibus” nell’integrazione. Infatti con “talibus” si creerebbe uno scompenso fra il restante testo del frammento, dove Varrone usa sempre il singolare, e la sua parte finale, in cui si troverebbe appunto un riferimento ai supplici al plurale. Mi sembra piuttosto che “talibus” vada attribuito a Nonio, che nella sua parafrasi usa appunto il plurale (“qui ope indigerent et ad asylum Cereris confugissent”). Varrone, al contrario, interessato all’etimologia di “pandere”, poteva riferire nel de vita soltanto che il tempio era sempre aperto, lasciando sottintesa la notizia, del resto scontata, che lo era per i supplici. Quindi, preferirei integrare soltanto “quod fanum numquam clauderetur”. Sul piano della lingua, il frammento presenta una struttura sintattica interessante, con l’ellissi dell’antecedente del relativo: “in asylum qui confugisset panis daretur”. Non vi è alcun bisogno di intervenire normalizzando la sintassi, come fa Müller, e oscurando così un costrutto di sapore varroniano (vedi Lindsay in CR 16, p. 50). Su questa costruzione del relativo (attestata anche in altri autori del periodo repubblicano, vedi Cic. Tusc. 5, 20: Xerxes … praemium proposuit, qui invenisset novam voluptatem … nos vellem praemio elicere possemus, qui nobis aliquid attulisset, quo hoc firmius crederemus; [Caes.] b. Alex. 17.3, praemiis[que] magnis propositis qui primus insulam cepisset), cfr. HLS II 55-56, a; Löfsted 1936, pp. 142-144; Krumbiegel 1892, pp. 42 sgg. L’esiguità della porzione di testo riportata e la perdita dell’intero contesto non permettono di capire a quale asylum Varrone si stia riferendo. L’ipotesi che si tratti dell’asylum fondato da Romolo per raccogliere i cittadini della nascente Roma (cfr. Liv. 1, 8) è smentita da diversi fattori. In primo luogo, si tratterebbe di due istituti dalle finalità completamente diverse: quello di Romolo, dal carattere leggendario, sarebbe stato fondato per ovviare a un problema demografico, adiciendae multitudinis causa, mentre l’asylum del frammento forniva un elementare sostegno a “qui ope indigerent”; le caratteristiche dei due asyla 101
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appaiono diverse e non sovrapponibili. Ancora, una volta smentito il rapporto di dipendenza fra questo frammento e il fr. 3 ipotizzato da Della Corte (cfr. supra), viene meno ogni base per attribuire con sicurezza questa citazione alla parte del de vita che trattava il regno di Romolo. Al contrario, la “lex Lindsay” piuttosto proverebbe che il fr. 9 veniva dopo un frammento (fr. 3) forse riferibile all’età di Romolo e quindi porterebbe a supporre che fosse inquadrato nell’ambito della sezione sul regno di Numa. Lo stesso contenuto della citazione rimanda a una discussione sull’identità della dea che presiedeva a un santuario (argomento che poteva a ragione essere discusso in una digressione sul culto arcaico come quella ipotizzata per la sezione del de vita su Numa): Varrone poteva citare, nella rassegna dei templi risalenti all’età di Numa (cfr. fr. 8), anche quello di Panda e fornire la notizia che presso questo tempio esisteva un asylum; a questo punto, poteva servirsi della menzione dell’asylum non tanto per discutere delle caratteristiche dell’asylum stesso, quanto per riferire l’etimologia di Stilone. In questo modo, il frammento verrebbe a inserirsi organicamente nella parte sul culto pubblico connessa alla figura di Numa. Il percorso inverso (Varrone partiva dall’asylum di Romolo, poi passava a parlare di quello analogo su Panda e riferiva l’opinione di Stilone sulla dea) si potrebbe anche immaginare, ma presupporrebbe una serie di trapassi troppo ardui e non riuscirebbe comunque a legare bene la discussione sull’asylum di Romolo alla controversia su Panda. Si potrebbe tentare di salvare i due dati presupponendo che l’asylum fondato da Romolo fosse stato in seguito (al tempo di Numa?) associato al tempio di Panda; tuttavia questa ricostruzione avrebbe ben pochi dati su cui fondarsi (la notizia di Dion. antiq. Rom. 2, 15.4 secondo cui nell’asylum Romuli sorgeva un tempio, di cui lo stesso Dionigi ignora la divinità, ναὸν ἐπὶ τούτῳ κατασκευασάμενος, ὅτῳ δὲ ἄρα θεῶν ἢ δαιμόνων οὐκ ἔχω τὸ σαφὲς εἰπεῖν, non basta a provare che questo fosse il tempio di Panda del frammento). Direi quindi che sarebbe prudente rinunciare a vedere nel frammento un riferimento all’asylum di Romolo e pensare piuttosto che esistesse un asylum presso il tempio di Panda, di cui resterebbe traccia in questo frammento (è questo il parere di Salvadore 1978, p. 290: «possiamo quindi senz’altro pensare a un altro asylum, diverso dal romuleo … un asylum che mi sembra doversi considerare sotto la protezione di quella dea che Stilone identificava con Cerere, cioè Panda»; lo studioso, tuttavia, nell’edizione (pp. 46-47) ripropone l’identificazione con l’asylum Romuli, che pure aveva criticato nell’articolo di alcuni anni prima). Quanto alla menzione nel lemma di un “asylum 102
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Cereris”, il sospetto che si tratti di un’espressione dovuta al tentativo di Nonio di sintetizzare il contenuto del frammento è troppo forte perché si possa usare questa citazione come testimonianza per affermare l’esistenza di un asylum presso il tempio di Cerere, Libero e Libera (si veda, oltre alla bibliografia riportata da Salvadore 1978 ad loc., Spaeth 1996; pp. 84-86). Anche l’ultima, dettagliata analisi del frammento (Derlien 2003, pp. 181-187) giunge a questa conclusione: la citazione non fornisce punti sicuri per dimostrare che Varrone parlasse di un asylum Cereris, questa espressione può essere dovuta a un banale fraintendimento di Nonio e l’unico dato ricavabile dal frammento è la connessione di un asylum col tempio di una divinità, Panda, dall’identità incerta e discussa. 10 (= 25 R.; 304 S.) Non. p. 852.8-16: NVBENTES veteri lege romana asses III ad maritum venientes solere pervehere atque unum, quem in manu tenerent, tamquam emendi causa marito dare, alium, quem in pede haberent, in foco Larium familiarium ponere, tertium, in sacciperione condidissent, compito vicinali solere reservare. inde Vergilius georg. lib. I: ‘teque sibi generum Tethys emat omnibus undis’. quos ritus Varro lib. I de vita populi Romani diligentissime percucurrit 2: solebant ed. princ.; solitae Müller | pervehere codd., edd. plerique; perferre Müller (ferre ed. princ.) | ad unum quemquem La.c.; ad unum quem Lp.c.; 3: daret LAA; darent BA; 4: quem add. edd.; in sacciperio quem Vetter | condidisset codd., corr. ed. 1483; 4: solere secl. Müller; 5: reservare Lindsay (“fortasse” in app.), Rip.; resenare codd. (†resenare† Sal.); sacrare Kettner; resonare Vetter; resignare Heinec; rezonare Haubold; 6: percurrit CA
secondo l’antica legge romana, le spose, al momento di trasferirsi in casa del marito, solevano recare tre assi: davano il primo, che avevano in mano, al marito, come per comprarlo; ponevano il secondo, che tenevano su un piede, nel focolare dei Lari domestici; il terzo, che avevano riposto in un borsello, solevano tenerlo da parte come offerta agli dei compitali del crocicchio vicino (alla casa dello sposo) La digressione sul culto connessa alle vicende del regno di Numa poteva essere a sua volta articolata in varie sezioni, ciascuna delle quali era dedicata a un diverso aspetto della pratica religiosa. Dopo aver discusso questioni relative al culto 103
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pubblico (templi e divinità), è probabile che Varrone procedesse a trattare i riti più antichi attestati nell’ambito del culto privato. In particolare, abbiamo delle citazioni tratte dal primo libro del de vita concernenti alcuni riti da compiere in occasione del matrimonio. Fa parte di questo gruppo il fr. 10, che è citato in serie prima del fr. 22 (posto probabilmente al termine dell’intera sezione sulla monarchia); ciò fornisce un elemento positivo su cui basare l’ipotesi che Varrone trattasse anche questo genere di argomenti nella parte storica del primo libro del de vita e non in quella sulla “res familiaris” (anche in questo caso, poi, il contesto più adatto a un argomento del genere sarebbe il regno di Numa). La citazione presenta un rito nuziale arcaico; l’indicazione “veteri lege Romana” farebbe pensare a un’usanza già desueta ai tempi di Varrone, quando ormai non se ne comprendeva più appieno il senso (si veda la discussione sulla formula “emendi causa”). Il frammento costituisce l’unica testimonianza rimasta sul rito dei tre assi, in quanto mancano riferimenti a questa pratica in altre fonti né si possono individuare testimonianze parallele che concordino del tutto con quanto detto da Varrone. Ciò implicherebbe la necessità, nel tentativo di chiarirne il contenuto, di attenersi al testo e di non aggiungere materiale estraneo al contenuto della citazione. Purtroppo, tre ordini di difficoltà rendono complessa la restituzione del senso esatto: in primo luogo, il testo in alcuni punti è corrotto, forse in modo disperato; in secondo luogo, come si è detto, il rituale descritto presenta delle “stranezze” che ne fanno un unicum, a volte di difficile comprensione, con la conseguenza che le notizie di Varrone non possono essere chiarite tramite l’ausilio di paralleli; infine, le parole di Nonio “quos ritus Varro … diligentissime percucurrit” lasciano intendere che la trattazione in Varrone fosse più ampia, chiara e dettagliata, mentre il frammento a noi pervenuto potrebbe essere una sintesi di Nonio, che sì riassume i punti cardine del brano che aveva davanti agli occhi, ma di necessità tralascia qualche elemento, magari prezioso, senza contare che potrebbe anche aver commesso qualche fraintendimento (si veda il discorso fatto sull’ “asylum Cereris” del fr. 9). Il fatto che la citazione sia costituita da una parafrasi, tuttavia, non credo autorizzi a ritenere che Nonio abbia derivato il frammento da un glossario (Lindsay 1901, seguito da Salvadore, che slega il fr. 10 dalla sezione sui re e lo inserisce fra i frammenti relativi alla “res familiaris”, ipotizza si tratti della lista 28b), piuttosto che dal de vita stesso. Direi invece che la modalità di citazione non lascia dubbi sul fatto che Nonio avesse a disposizione l’intero brano di Varrone e potesse leggerlo in tutti i suoi dettagli, per poi 104
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riassumerlo con l’aggiunta che nell’originale l’argomento era trattato con una certa ampiezza, come farebbe supporre il “diligentissime”. Ora, immaginare che un glossario riportasse l’intera sezione di Varrone sul rito e che Nonio abbia trovato la descrizione della pratica in questa fonte glossariale e l’abbia riassunta partendo da lì sarebbe complesso e antieconomico. Si può ipotizzare che Nonio trovasse nel glossario già il riassunto esattamente nella forma tradita e che abbia riportato la voce così come questa compariva nel glossario, senza mutarla di una parola. Un processo del genere non sarebbe impossibile, ma sarebbe comunque macchinoso, dal momento che si dovrebbe postulare una fonte di Nonio che operasse sostanzialmente come Nonio stesso, quando sarebbe più economico pensare che Nonio avesse trovato la descrizione del rito dei tre assi nella sua copia del de vita e, dato che non era interessato a un singolo aspetto linguistico della sezione, ma all’intero rito, avesse deciso di riassumere tutto il discorso. Del resto, l’accenno a georg. 1, 31 ha la forma normale di una delle tante citazioni secondarie da Virgilio con cui Nonio suole arricchire le voci del suo dizionario: anche questo dato, che costituisce una traccia dell’intervento di Nonio sul testo, potrebbe essere usato per smentire l’ipotesi che la voce sia stata passivamente ripresa da un glossario. Dopo aver chiarito questo punto, passerei all’analisi del contenuto della citazione. Il frammento parla di un rito in base al quale la sposa, all’atto di trasferirsi nella casa dello sposo, doveva recare con sé tre assi. Ciò è detto nella prima parte del frammento, che non presenta particolari difficoltà testuali. Qualche problema ha posto il tradito “solere”, che rende la sintassi confusa, in quanto non è retto da alcuna proposizione e non si connette bene a “quos ritus Varro diligentissime percucurrit”, tuttavia gli interventi proposti non sfuggono al rischio di essere delle normalizzazioni; la forma si potrebbe spiegare o col fatto che la parte del de vita stralciata da Nonio costituisse una infinitiva (ad es., “traditur veteri lege Romana…”) e che il grammatico ne avesse mantenuto la struttura sintattica (in favore di questa ipotesi andrebbe anche il fatto che nelle secondarie è usato il congiuntivo), o, come presume la Fayer (Fayer 2005, vol. II, p. 543), ipotizzando che si trattasse di un infinito storico. Superflua è anche la correzione di Müller del tradito “pervehere” in “perferre”: non solo l’uso di “pervehere” è giustificato (cfr. ThLL 1842.9-10: “active vel passive, saepe fere i.q. perferre”), ma il rito descritto da Varrone, in cui la donna si fa quasi “veicolo” degli assi (“in manu tenerent”, “in pede haberent”), potrebbe giustificare la scelta di “pervehere”. 105
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Le tre monete, conservate dalla sposa in tre luoghi diversi, avevano tre diverse destinazioni; purtroppo, la finalità precisa delle tre offerte risulta oscura ed è impossibile andare oltre il dato che ciascun asse costituiva una sorta di dono propiziatorio. Il primo asse era portato in mano e consegnato al marito “tamquam emendi causa”. L’espressione farebbe pensare a un riferimento alla pratica matrimoniale della coemptio; tuttavia, i dati in nostro possesso sul matrimonio per coemptio descrivono un rito del tutto diverso da quello presentato qui da Nonio, in cui era il marito, tramite un atto di compera simbolica, ad “acquistare” la manus sulla moglie (vedi Gaius inst. 1, 113: emit vir mulierem, cuius in manum convenit). Si è cercato di ovviare alla discontinuità fra il rito descritto nel fr. 10 e la nozione comune di coemptio seguendo tre diverse strade. Riposati (p. 137, come Kaser 1971, I 77) pensa che il rito alluda a una forma di “primitiva compera della donna” in seguito evolutasi fino ad assumere le forme della coemptio tradizionale. Questa posizione non trova riscontro nel testo tradito, dove è detto l’esatto contrario; non a caso, la proposta di Riposati è stata respinta da più autori (cfr. Salvadore 1981, pp. 41-42; Fasce 1984, p. 102). La seconda posizione è quella di chi svincola l’offerta dell’asse dalla coemptio e pensa che si tratti di un corrispettivo simbolico della dote (Rossbach 1853, pp. 375-376, seguito da Salvadore 1981). Questa ipotesi è respinta dalla Fasce (p. 100: «non c’è ragione per cui questa (la dote) venga espressa in forma simbolica»). In effetti, il testo di Nonio non autorizza a procedere all’identificazione supposta fra asse e dote, ma parla soltanto di un asse dato dalla donna al marito. La Fasce, dunque, propone una terza spiegazione al problema e pensa che in realtà il frammento descriva davvero il rito originario della coemptio, ipotizzando che l’espressione vaga e non troppo chiara adottata da Nonio “tamquam emendi causa” sia dovuta al fatto che ai suoi tempi il significato primigenio della coemptio si era perduto e, di conseguenza, il grammatico avrebbe frainteso il senso del rito descritto da Varrone. Come esempio di un fraintendimento del genere la Fasce (p. 103) rimanda al caso di Servio che, commentando lo stesso verso di Virgilio (georg. 1, 31) citato anche da Nonio, riporta questa informazione: quod autem ait ‘emat’ ad antiquum pertinet ritum, quo se maritus et uxor invicem coemebant: poiché la coemptio non prevede affatto che la compera sia reciproca, si può ipotizzare che Servio abbia inteso male la propria fonte; in modo analogo, anche Nonio avrebbe potuto non comprendere del tutto il testo di Varrone che stava parafrasando (a prescindere dall’ipotesi della Fasce, è evidente che il rito descritto da Servio e quello del fr. 10 sono del 106
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tutto diversi, per cui esiterei a presentare, come fa Salvadore 2004, p. 63, il primo come passo parallelo utile a chiarire il frammento). La Fasce (pp. 103-106) ritiene dunque che il frammento descriva una forma molto antica di coemptio, in cui la donna aveva una parte attiva e offriva al marito l’asse come offerta in cambio della quale riceveva i diritti giuridici che ricavava entrando sotto la sua manus; Nonio (o forse già Varrone) avrebbe frainteso il senso originario di questo rito e avrebbe interpretato l’offerta come una compera vera e propria. Gran parte del discorso della Fasce resta sul piano delle ipotesi, né il riferimento a passi come Paul. p. 4.30-31 L., emere enim antiqui dicebant pro accipere basta a dimostrare che l’asse dato dalla sposa costituiva un’offerta in cambio della quale questa riceveva particolari diritti. Come si vede, tutte e tre le soluzioni avanzate si espongono al rischio di aggiungere qualcosa che non è detto nel testo del frammento o non vi trova un preciso riscontro: Riposati ne dà una lettura distorta; Salvadore vi legge un riferimento alla dote non autorizzato sulla base del solo “emendi causa”; la Fasce, pur formulando l’ipotesi condivisibile che il dono dell’asse consistesse in una sorta di offerta, interpreta poi il frammento in modo eccessivamente libero. Se, sulla base del discorso precedentemente condotto, il frammento era collocato nell’ambito del regno di Numa, sarebbe naturale rintracciarvi la menzione di una pratica connessa al mondo del culto piuttosto che a quello del diritto privato. Sospetto che Varrone citasse questo rito all’interno di una rassegna dei riti nuziali la cui istituzione si faceva risalire ai tempi più remoti, piuttosto che in riferimento alla pratica della coemptio. Del resto, il frammento dice che due su tre degli assi recati dalla sposa erano destinati come offerta ai Lari, il che costituisce una prova a favore del carattere esclusivamente sacrale di questo rito. Sulla base di queste considerazioni proporrei quindi di seguire parte del suggerimento della Fasce e di vedere nel dono del primo asse un’offerta di carattere propiziatorio, proprio come la consegna delle altre due monete. Inoltre, poiché gli altri due assi spettano ai Lari protettori rispettivamente del focolare e dell’incrocio, avanzerei l’ipotesi che anche l’asse dato al marito fosse volto a ottenere non una “prestazione” da parte sua, nella qualità di paterfamilias (così pensa la Fasce), quanto la protezione da parte del suo genius. Avanzo questa proposta come tentativo di dare al frammento un senso più coerente e di risolvere le difficoltà presentate qualora si tentasse di leggervi un riferimento alla coemptio. Nel culto privato, il genius del paterfamilias, infatti, poteva rivestire il ruolo di protettore dell’intero nucleo familiare, tanto da venire a confondersi con il Lar familiaris (vedi De Marchi 1886, p. 74). La con107
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segna dell’asse al marito si potrebbe quindi interpretare come un’offerta volta a garantirsi il favore del suo genius, che costituiva la prima divinità protettrice del nucleo familiare in cui la sposa entrava. In questo modo si comprenderebbe bene il senso tutto religioso dell’uso descritto (causa del suo inserimento all’interno della sezione su Numa) e non ci sarebbero più discrepanze fra la prima parte e il seguito del frammento. Anzi, si verrebbe a creare una sorta di climax in cui al dono di ciascun asse corrisponderebbe una divinità dal “campo di influenza” via via più ampio: la sposa, entrando nella nuova casa, recava le sue offerte prima al genius del marito (che potrebbe anche essere identificato col Lar familiaris), poi ai Lares del focolare e infine a quelli del compitum, in modo da propiziarsi le divinità protettrici dell’intero isolato. Se questa ipotesi è giusta, l’intera citazione verrebbe ad avere una sua logicità e, da un lato, si risolverebbe il problema della coemptio; dall’altro, si sfuggirebbe alle incertezze di chi pensa che l’asse dato al marito fosse un’offerta, ma non riesce a spiegarne la finalità (cfr. Astolfi 2006, p. 226, n. 19, dove si dice che la donna offriva l’asse al marito «per onorarlo e averne la benevolenza»; la stessa interpretazione compare nella dissertazione di J.L. Sebesta, “sacris rite paratis”, p. 7). Resterebbe da spiegare la genesi di “tamquam emendi causa”. Forse non è nel torto la Fasce quando pensa a una sorta di fraintendimento: Varrone, nel descrivere un rito dai tratti oscuri già per lui, trovando la menzione dell’asse dato dalla sposa al marito, avrebbe potuto non comprendere il senso del gesto e interpretarlo come una forma di compera oppure aver tentato di razionalizzare il dato erudito per mezzo di una spiegazione del tipo di “emendi causa”. Nonio, a sua volta, può aver sintetizzato questo discorso di Varrone semplificandolo ulteriormente, fino a ridurlo ai termini, laconici e poco chiari, in cui si presenta il fr. 10. Una volta affrontato il caso del primo asse, passiamo all’esame del seguito del frammento. Un secondo asse, come si è detto, era offerto ai Lari del focolare. Questo era recato “in pede”: l’espressione è piuttosto strana e purtroppo gli studiosi del frammento tendono a riportarla senza darne una traduzione. Le possibili interpretazioni sono due: o la donna effettivamente poneva l’asse sul proprio piede e col piede lo depositava nel focolare oppure recava l’asse in una scarpa (così intende Sebesta). Sulla base del parallelismo fra “quem in pede haberent” e “quem in manu tenerent” e considerando il carattere sacrale e arcano del gesto, che non escluderebbe anche un certo grado di stranezza, adotterei piuttosto la prima lettura. Il terzo asse era portato in un borsello. I codici riportano una stringa dove la sintassi è sconnessa: “tertium in sacciperione condidissent”. Il confronto con il 108
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resto del frammento, dove ricorrono le strutture “unum, quem” e “alium, quem”, indica la necessità di integrare un relativo. La maggior parte degli editori integra dunque un “quem” immediatamente dopo “tertium”, così da costruire un parallelismo perfetto con le parti relative agli altri due assi. Tuttavia una difficoltà potrebbe essere posta anche dal termine “sacciperione”. La parola, adattamento del greco σακκοπήρα, dovrebbe indicare un piccolo borsello portamonete; il problema è che se ne trovano soltanto due attestazioni nel latino classico: in questo frammento, nella forma “sacciperio, -onis”, e in Plaut. rud. 548, nella forma “sacciperium, -ii”. La teoria comune, presente già nel Forcellini, è che si tratti di un prestito per cui entrambe le declinazioni sono valide: di conseguenza, il testo dato da Nonio è stato accolto senza difficoltà da tutti gli editori, che interpretano “sacciperio” come un allomorfo di “sacciperium” testimoniato da Plauto e come tale da conservare. L’unico ad avere dei dubbi sul testo tradito è stato Vetter 1960 (p. 91), che ha proposto di correggerlo in “in sacciperio quem condidissent”. La proposta di Vetter ha il pregio di motivare la caduta del relativo nel caso del terzo asse: un “quem”, corrottosi, sarebbe stato accorpato alla parola precedente in modo da creare una desinenza fittizia e da dare origine alla parola “sacciperione”. D’altro canto, l’intervento si espone a due obiezioni. In primo luogo, rischia di dare alla forma “sacciperium”, comunque attestata una sola volta, un valore normativo e di cancellare ogni traccia della variante “sacciperio” di cui si sarebbe servito Varrone. Si è visto che nel de vita, a livello di lingua, sono conservate forme particolari e interessanti (“quaternum”, “aedis”, i nominativi plurali della terza in “-is”); il sospetto che fra queste vada annoverata anche “sacciperio” impone cautela nell’intervenire sul testo. In secondo luogo, con il testo di Vetter verrebbe meno il parallelismo rispetto alle frasi dedicate agli altri due assi (“unum, quem in manu tenerent” e “alium, quem in pede haberent”, ma “tertium, in sacciperio quem condidissent”). Il terzo asse veniva depositato presso l’edicola dei Lari al crocicchio vicino la casa dello sposo. Il senso di questa parte del frammento è chiaro, ma il verbo che dovrebbe designare l’azione è stato tramandato in modo corrotto. I codici riportano una parola senza senso, “resenare”, che Salvadore stampa fra croci. Fra i vari tentativi di restituzione, forse la correzione di Kettner “sacrare” fornisce il senso migliore, ma è troppo lontana paleograficamente dal testo tradito. Altre proposte, come quella di Vetter “facere resonare”, danno un testo sì vicino al tradito “resenare”, ma dal contenuto improbabile: secondo l’ipotesi di Vetter, la donna faceva tintinnare la moneta nel borsello per conciliarsi il favore degli dei negli 109
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acquisti che avrebbe compiuto nel quartiere. Adotto quindi, come già Riposati, la correzione di Lindsay “reservare”, che è vicina al testo tradito e restituisce un ottimo senso: il terzo asse era tenuto da parte nel borsello come offerta per il crocicchio (per il costrutto, cfr. Verg. ecl. 2.42: quos tibi servo). Quanto al senso del dono dell’asse, l’ipotesi più semplice è che si trattasse anche in questo caso di un’offerta propiziatoria volta a ottenere il favore di tutte le divinità protettrici del quartiere. Rossbach (al luogo sopra citato) pensa che, oltre al significato religioso intrinseco, il dono dell’asse avesse anche una finalità di tipo “amministrativo”: gli assi depositati presso l’edicola potevano essere impiegati per avere una sorta di registro dei matrimoni. Lo studioso rimanda a Dion. ant. Rom. 4, 15.5, dove si dice che Servio Tullio, per risalire al numero esatto dei cittadini maggiorenni, richiedeva che i giovani depositassero una moneta nel tempio di Iuventas il giorno in cui assumevano la toga virile. Tuttavia, per quanto la cosa non si possa escludere anche per il fr. 10, resta il fatto che la “lex Lindsay” prova come Varrone, nel primo libro del de vita, trattasse delle vicende dei re seguendo un ordine cronologico: è dunque improbabile che un’allusione a una riforma serviana comparisse in un frammento appartenente alla sezione su Numa. 11 (= 26 R.; 305 S.) qui primus uxorem ducebat, duabus culcitis ac duobus toralibus [plagulis] cum strasset 1: duobus toralibus scripsi; duabus toribus F3CADA; duabus toris BA; duabus oris L | plagulis glossam ex Non. p. 862.19-22 putavi delevique | duabus toros plagulis Popma, Rip.; duabus tribus plagulis Lindsay, Sal.; duabus tori plagulis Müller Non. p. 121.3-122.6: CVLCITA. Varro Quinquatribus […] idem de vita populi Romani lib. I.
il primo che prendeva moglie, dopo aver preparato il letto con due materassi e due coperte Il frammento costituisce una citazione isolata tratta dalla descrizione di un rito nuziale. Per il contenuto, l’ho dunque accorpato al frammento precedente (come del resto fanno anche Riposati e Salvadore). È ipotizzabile che il passo si riferisca al rito particolare che doveva compiere chi, fra i membri di un gruppo familiare, si sposasse per primo. Costui, dopo aver preparato il talamo nuziale (o, 110
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meno probabilmente, la lettiga destinata a trasportare la sposa nella nuova casa), doveva compiere altre operazioni che il taglio operato da Nonio impedisce di sapere. La citazione presenta non poche difficoltà: oltre ai disagi causati dalla sua brevità e incompletezza e dalla mancanza di un contesto più ampio, il testo tradito è anche corrotto. Si può provare piuttosto agevolmente che la lezione dell’archetipo fosse “toribus plagulis”: “plagulis” è presente in tutta la tradizione e la lezione “toribus” è testimoniata dal ramo BA e dal correttore F3 (che costituisce un ramo da solo contro tutti gli altri). Quanto alle lezioni del codice L (“oris”) e del ramo CADA (“toris”), si tratta di tentativi grossolani di rabberciare il testo. “Toribus” è una vox nihili: finora sono state avanzate due proposte per correggerla. Il Popma congettura “toros”; l’intervento, che fornisce a “strasset” un oggetto, darebbe un testo sensato (“duabus culcitis ac duabus toros plagulis cum strasset”, “dopo aver preparato il letti con due materassi e due coperte”), ma si espone a due obiezioni: a) la sintassi avrebbe un iperbato piuttosto duro; b) non si capirebbe come mai “toros” (la cosa che più banalmente dovrebbe dipendere da “strasset”) abbia potuto essere frainteso e corrotto in un “toribus” del tutto privo di senso. Ancora più debole è la congettura di Lindsay “tribus” (dopo aver preparato [sc. un letto] con due materassi e due, tre coperte). Anche in questo caso la sintassi del brano sarebbe disastrosa. Inoltre, non si capirebbe il motivo dell’approssimazione “duabus, tribus” da parte di Varrone, che, a senso, avrebbe piuttosto dovuto marcare il fatto che il letto nuziale fosse “a due piazze” col parallelismo “duabus culcitis ac duabus … plagulis”. Ancora, da un “toribus” si capirebbe un tentativo di normalizzazione in “tribus”; viceversa, non vedo come si possa spiegare il passaggio “tribus” > “toribus”. Lo stesso problema è posto dalla congettura di Müller “duabus tori plagulis” (con due coperte del letto?), che non migliora molto il senso e non sfugge all’impressione di essere solo un tentativo di far quadrare il testo. Cercando di avanzare un’ipotesi che permetta di spiegare meglio l’origine dell’errore “toribus” nell’archetipo, propongo di pensare che la lezione genuina fosse in origine “toralibus”. “Toral” (o “torale”) significa appunto “copriletto” ed è voce conosciuta da Varrone, che la usa anche nel fr. 26 del de vita; la correzione “toralibus” è dunque appoggiata dall’usus varroniano. Con il testo “duabus culcitis ac duabus toralibus plagulis cum strasset”, “plagulis” sarebbe evidentemente di troppo. La mia ipotesi è che possa trattarsi di una glossa a “toralibus” entrata erroneamente nel testo. Ciò si può spiegare supponendo che il modello dell’archetipo avesse “duabus culcitis ac duobus toralibus cum 111
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strasset”, con la glossa interlineare “plagulis” per “toralibus”. L’archetipo, appunto, avrebbe potuto corrompere il testo in “toribus” (errore passato poi al resto della tradizione noniana e ulteriormente corrottosi) e inserire “plagulis” a testo, così da trasmetterlo a tutte le copie successive. Da dove poteva provenire la glossa “plagulis” ? Poiché “plagula” era il termine tecnico per indicare le cortine di un baldacchino o di una lettiga da passeggio (vedi Daremberg-Saglio III 1005), si può immaginare, ad esempio, che un lettore, di fronte alla parola arcaica “toralibus”, di cui non era in grado di comprendere l’esatto significato, l’abbia glossata con un a lui più familiare “plagulis”. Credo tuttavia che la spiegazione più semplice sia pensare che la glossa derivi da un altro lemma dello stesso dizionario di Nonio. Questi, infatti, riporta “plagula” nel senso di “coperta” anche a p. 602.7-13 (plaga, aliquando pars lecti, aliquando omnis. Pacuvius Atalanta: ‘etsi metuo picta de plaga pallam’; ut sit plaga quem nunc dicimus clavum. Varro Prometheo: ‘eburneis lectis et plagis sigillatis’. Afranius: ‘pallam fac cito, / Demea, et plagulam de lecto; pellis demitte ordine’) e, soprattutto, glossa “toral” proprio con “plagula” a p. 862.19-22 (Plagae, grande linteum tegmen quod nunc torale vel lectuariam sindonem dicimus; quarum diminutivum est plagulae. Varro de vita populi Romani lib. III: ‘clamides, plagae, vasa aurea’). Sospetto dunque che un lettore abbastanza antico (precedente all’archetipo) sulla base del lemma PLAGAE di Nonio avesse chiosato il “toralibus” del nostro frammento in “plagulis” (poi, come si è detto, entrato erroneamente nel testo). Ovviamente, la mia proposta comporta la necessità di modificare il tradito “duabus” (che potrebbe essere un rabberciamento successivo all’introduzione nel testo della glossa “plagulis”) in “duobus”. Per quanto riguarda l’oggetto di “strasset”, è possibile che qualcosa come “lectos” o “toros” fosse nella parte immediatamente successiva al taglio operato da Nonio (e la sintassi, con “cum strasset ”, sarebbe molto più piana di “duabus toros plagulis cum strasset” di Popma). 12 (= 18 R., 297 S.) itaque calendis calabantur, id est vocabantur; et ab eo calendae appellatae, quod est tractum a Graecis, qui καλεῖν vocare dixerunt 1: calebantur DA Non. p. 35.27-30: CALENDARVM vocabulum proprium Varro conplexus est de vita populi Romani lib. I. 112
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e così alle calende (le none) calabantur, ossia “venivano annunciate”. Da ciò le calende hanno tratto il loro nome, derivato dal greco, dove “chiamare” si dice καλεῖν. Al regno di Numa era ricondotta anche l’introduzione del calendario. Ipotizzo dunque che, dopo aver parlato delle forme rituali più antiche in ambito pubblico e privato, Varrone passasse a una trattazione sulle origini del calendario romano, sull’etimologia di giorni e mesi e sulle pratiche rituali istituite da Numa per ciascun mese. In quest’ambito si inserisce appunto il frammento relativo all’etimologia del termine “calendae”. Il termine viene fatto derivare dall’atto del pontefice di annunciare dopo quanti giorni sarebbero state le nonae del mese in questione (che, a seconda del mese, potevano cadere il quinto o il settimo giorno a partire dalle calende). L’etimologia (corretta, vedi Ernout - Meillet pp. 156-157) è presentata negli stessi termini anche a l. L. 6, 27 (primi dies mensium nominati kalendae, quod his diebus calantur eius mensis nonae a pontificibus, quintanae an septimanae sint futurae) ed è abbondantemente attestata anche in altri autori (vedi Salvadore 2004, pp. 56-57). Dal verbo arcaico “calare” (“annunciare solennemente”) sarebbe stata chiamata “Curia Calabra” la sede in cui veniva pubblicamente annunciato il giorno delle none: vedi l. L. 5, 13, multa societas verborum, nec vinalia sine vino expediri nec Curia Calabra sine calatione potest aperiri, l. L. 6, 27 (seguito della citazione sopra riportata): in Capitolio in Curia Calabra sic dicto quinquies ‘kalo Iuno Covella’, septies dicto ‘kalo Iuno Covella’; Serv. ad Aen. 8, 654; Macr. Sat. 1, 15.9-11. 13 (= 22 R.; 298 S.) in eorum enim sacris, liba cum sunt facta, incernere solent farris semine ac dicere se ea februare, id est pura facere 1: incernere Quicherat, Lindsay, Sal.; incerni codd., Rip., Funaioli | solere Funaioli, Rip. | semina Riccoboni, Mercier, Brunetti | dicunt Müller Non. 17-20: FEBRVARE positum pro purgare et purefacere. Varro de vita populi Romani lib. I.
infatti nei loro (= dei Lupercali) riti, una volta preparate le focacce, sogliono cospargerle di semi di farro e dire di “febbrarle” (ea februare), vale a dire “purificarle” 113
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Dopo aver presentato l’etimologia dei giorni, Varrone poteva passare a fornire informazioni sull’origine dei nomi dei mesi. Nel frammento in questione è adombrata quella di febbraio (“Februarius”). Varrone connette il nome del mese al verbo “februare”, che significa “purificare”, poiché a febbraio avevano luogo i riti di purificazione della città compiuti dai Luperci (cfr. l. L. 6, 13; 34 e Ov. fast. 2, 19, februa Romani dixere piamina patres; sull’etimologia di “febbraio” e sui Lupercalia, vedi Salvadore 2004, pp. 57-58 e Carafa 2006, in particolare pp. 484-485). Se il contenuto del frammento è chiaro, qualche dubbio potrebbe venire dal testo. Partiamo da “dicere se ea februare”: l’infinito “dicere” può essere retto soltanto da “solent” e il soggetto del verbo deve essere lo stesso del verbo reggente. Nell’infinitiva “se ea februare”, è chiaro che “se” si riferisce al soggetto di “dicere” e che l’oggetto “ea” si riferisce a “liba”. Si parla dunque di uomini che “dicono di purificare le focacce”; l’atto di purificazione va ricercato in un’azione che deve essere descritta nella prima parte del frammento. Qui il testo tradito recita “liba cum sunt facta, incerni solent farris semine”, il che darebbe un senso assurdo, in quanto si direbbe che gli uomini si cospargono di semi di farro, quando è evidente che dovrebbe essere il contrario (gli uomini cospargono di farro i “liba” e dicono di purificarli in questo modo; su “incerno”, vedi ThLL VII, 1 876.3-10). Adotto quindi, come Lindsay e Salvadore, la correzione “incernere” di Quicherat, che restituisce al testo la sua logicità con un intervento minimo: “una volta che le focacce sono pronte, usano cospargerle di farro e dicono di purificarle”. L’unica difficoltà posta dalla congettura consiste nel fatto che “incerni” potrebbe essere considerato difficilior rispetto a “incernere”. Tuttavia, i tentativi di mantenere “incerni” impongono poi di intervenire su altri punti della citazione e nessuno dei risultati ottenuti ha la coerenza o l’attendibilità del testo di Quicherat. Funaioli (seguito da Riposati) interviene su “solent”, che cambia in “solere”: in questo modo il verbo verrebbe riferito non più al soggetto di “dicere”, ma a “liba” e il senso sarebbe “le focacce, una volta pronte, sogliono essere cosparse di farro”. Tuttavia, questa lettura, che slega “dicere” da “solent” e intende “incerni solere” e “dicere” come operazioni aventi due diversi soggetti, porterebbe ad avere un cambio di soggetto repentino, di una durezza quasi intollerabile: “le focacce si sogliono cospargere di farro e (gli uomini) dicono di purificarle così”. Ancora, adottando il testo di Funaioli, “solere” e “dicere” andrebbero intesi come infiniti storici, il che è smentito dalla consecutio nella subordinata “liba cum sunt facta”, che impone che il verbo della reggente sia al presente. Anche la 114
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correzione “semina” di Riccoboni comporta varie difficoltà, a partire dal cambio improvviso di soggetto. A questo problema, che condivide con la proposta di Funaioli, la congettura “semina” aggiunge il fatto che, con un testo del genere, molto sarebbe sottinteso e andrebbe integrato a senso. Infatti, dicendo “le focacce sono cosparse di semi di farro” la frase sarebbe in sé chiara e conclusa, mentre, dicendo (come Riccoboni) “semi di farro vengono sparsi”, il testo non darebbe l’informazione più importante, e cioè dove fossero sparsi questi semi. È vero che si potrebbe rispondere agevolmente a questa domanda in base alla precedente menzione dei “liba”, ma ciò non toglie che il testo di Riccoboni sia duro, contorto ed ellittico. Preferisco quindi adottare il testo di Quicherat, per quanto possa sembrare facilior, dato che i tentativi di mantenere “incerni” portano ad avere un testo ancora più problematico. Per quanto riguarda l’espressione “in eorum sacris”, considererei “eorum” come neutro plurale riferito a Lupercalia. Nell’ambito di questa festa, infatti, erano compiuti i riti di purificazione da cui Varrone fa derivare il nome di febbraio. Il rito descritto nel frammento comparirebbe appunto fra i “sacra” propri di questa festa. Sarebbe certo possibile anche intenderlo come maschile: “eorum (lupercorum)”. Questa soluzione, però, mi convince di meno, in quanto porrebbe dei problemi sul piano sintattico: se “eorum” si riferisce ai luperci e sono costoro a cospargere di farro le focacce e a dire di purificarle, il testo dovrebbe essere piuttosto “in suis sacris”. Preferisco dunque intendere “eorum (Lupercalium)” e considerare “solent” come un plurale generico (come dire “si usa”). 14 (= 19 R.; 299 S.) quibus temporibus in sacris fabam iactant noctu ac dicunt se Lemurios domo extra ianuam eicere 1: lemures ed. princ.; 2: elicere Müller Non. p. 197.13-16: LEMVRES, larvae nocturnae et terrificationes imaginum et bestiarum. Varro de vita populi Romani lib. I.
in questo periodo dell’anno, fra gli altri riti, gettano via nottetempo delle fave e dicono di scacciare i fantasmi via di casa, fuori dalla porta Con questo frammento prosegue l’elenco dei mesi e la trattazione delle cerimonie che si svolgevano durante ciascuno di essi. Dopo febbraio è la volta di maggio: il 115
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frammento si riferisce infatti a una pratica propria della ricorrenza dei Lemuria, che si teneva il 9, 11 e 13 maggio (vedi RE XII, 2 1931.25-1933.9). Il rito di cui parla Varrone è descritto, in termini molto simili e con più abbondanza di particolari, anche da Ov. fast. 5, 419-444. Dal confronto con Ovidio risulta che le fave impiegate in questo rito notturno dovevano essere nere e che il paterfamilias doveva gettarle alle proprie spalle senza voltarsi. Come è detto nel frammento, il fine del rito era allontanare i Lemures, anime vaganti di defunti che potevano spaventare i vivi o essere loro di cattivo auspicio. Il frammento in proposito reca una forma attestata soltanto qui: “Lemurios”. La forma in sé è problematica per la sua unicità e in più non si accorda con la voce di Nonio, dove il lemma è costituito dal termine “Lemures” (cfr. Ov. fast. 5, 483, mox etiam lemures animas dixere silentum), non “Lemurii”. La correzione dell’editio princeps risolverebbe senza dubbio queste due difficoltà (è infatti accolta nel ThLL VII, 2 1138.58-60). Io esito a mettere l’intervento a testo, però, perché, da un lato, c’è il rischio che si tratti di una normalizzazione, che potrebbe cancellare una forma interessante dal punto di vista linguistico attestata solo qui, dall’altro, “Lemurios” è certamente difficilior rispetto a “Lemures”. Forse la soluzione più economica è ipotizzare che appunto il frammento testimoni una forma “Lemurii”, forse costruita analogicamente su “Lemuria”, che Nonio, interessato in questo caso più al contenuto del frammento che alla sua forma, ha glossato con “Lemures” nel lemma. 15 (= 21 R.; 300 S.) quod calendis Iuniis et publice et privatim fabatam pultem dis mactant 1: mactat codd., corr. Mercier Non. p. 539.27-34: MACTARE est inmolare […] Varro de vita populi Romani lib. I.
(per) il fatto che alle calende di giugno offrono agli dei, in cerimonie tanto pubbliche quanto private, una farinata di fave Seguendo l’ordine dei mesi, si arriva a giugno. Il rito prescritto per le calende di questo mese prevede l’offerta agli dei di una farinata di fave (ottenuta impastando fave e farro con del lardo: la “ricetta” è fornita da Ov. fast. 6, 169-170, pinguia cur illis gustentur larda Kalendis, / mixtaque cum calido sit faba farre, rogas?, vedi Littlewood 2006, pp. 52-53). Sul rito in sé rimando ai paralleli e alla bibliografia forniti da Salvadore 2004, pp. 59-60. Vorrei sottolineare, invece, sul piano della 116
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lingua, l’impiego del verbo “mactare” nel senso di “compiere una libagione”, un uso che ritorna anche al fr. 62 (cfr. ThLL VIII 22.14-20). Di “puls fabata” si parla anche in un passo di Plinio dedicato alle fave (n. h. 18, 118-119), dove Varrone è indicato come fonte. Questo passo è stampato da Riposati come un vero e proprio frammento del de vita, che Plinio avrebbe tratto all’incirca dalla stessa sezione da cui deriverebbe anche la citazione di Nonio. Tuttavia, una posizione del genere rischia di essere eccessiva: anche ammettendo che il passo di Plinio derivi da Varrone, non vi è alcun motivo specifico per cui debba essere tratto proprio dal de vita e non da un’altra opera di carattere antiquario. Inoltre, il contenuto del passo di Plinio non si armonizza del tutto con il contesto che è stato ipotizzato per il nostro frammento: vi si parla sì dell’impiego delle fave in alcune cerimonie, ma sono fornite anche altre informazioni, come un ampio discorso sui motivi che portano i Pitagorici a vietarne il consumo, che difficilmente potevano trovare spazio all’interno della trattazione sui mesi. Preferirei dunque riportare il brano soltanto come passo parallelo (come fa Salvadore) senza presentarlo come un frammento sicuro del de vita. Ipotizzerei piuttosto che anche in questo caso, come nel fr. 13, la descrizione del rito fosse connessa a un discorso etimologico e che la menzione della farinata non sia dovuta tanto al fatto che Varrone, nella sezione stralciata da Nonio, si occupasse delle caratteristiche di questo legume, quanto al fatto che il Reatino volesse fornire una spiegazione sul perché le calende di giugno fossero dette “fabariae” (vedi la nota di Macr. Sat. 1, 12.33, kalendae Iuniae fabariae vulgo vocantur, quia hoc mense adultae fabae divinis rebus adhibentur). 16 (= 6 R., 286 S.) Mettum Fufetium propter perfidiam interemit, poene imperiosius quam humanius; nam equis ad curriculum ex utraque parte deligatum distraxit 1: Mettium Mercier, Rip.; 2: deligatum DA, Kettner, Riccoboni; diligatum cett., Rip., Sal. Non. p. 443.17-22: DISTRAHERE, dividere, diffindere […] Varro de vita pop. Rom. lib. I. diffundere codd., corr. Passerat
Mandò a morte Metto Fufezio per tradimento, in modo quasi più adatto a un tiranno che conforme a umanità; infatti lo smembrò con i cavalli, avendolo legato a un carro alle due estremità
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Conclusa la sezione su Numa, Varrone passava a trattare dei suoi successori. Il frammento in questione si riferisce a un episodio del regno di Tullo Ostilio: il capo albano Metto Fufezio, formalmente alleato di Tullo, in battaglia adotta una condotta ambigua, ritirandosi dalla lotta su di un colle e prestando soccorso ai Romani solo quando la loro vittoria è ormai certa; il re punisce questo atto di tradimento sottoponendo Metto al crudele supplizio descritto nella citazione. La pena consiste in questo: Fufezio viene legato alle due estremità a due carri incitati in direzione opposta, così da esserne smembrato. Varrone accenna in modo piuttosto rapido alla vicenda, tanto che la dinamica del supplizio sarebbe poco chiara, se non venisse riferita da altre fonti in maniera meno sintetica. L’episodio (su cui si veda la voce “Fufetius” in RE VII, 1 197.40-198.50) è raccontato principalmente da Liv. 1, 27-28, che conclude la narrazione (28.10) con un giudizio negativo sulla crudeltà della pena simile a quello dato da Varrone nel frammento: primum ultimumque illud supplicium, apud Romanos, exempli parum memoris legum humanarum fuit; in aliis, gloriari licet nulli gentium mitiores placuisse poenas. All’elenco delle altre fonti che trattano della morte di Fufezio riportato da Salvadore 2004, p. 49 (la più vicina al fr. 16 è costituita da Flor. 1, 11.9 = 1, 3.8: itaque hoste victo ruptorem foederis Mettum Fufetium religatum inter duos currus pernicibus equis distrahit; Bessone 2008, p. 58, n. 88, ipotizza che la fonte di Floro sia proprio il de vita106), si possono aggiungere Dionigi di Alicarnasso (ant. Rom. 3, 23-30), che fornisce una versione singolarmente ampia dell’episodio, arricchita da lunghi discorsi di difesa di Fufezio; alcuni frammenti degli annales di Ennio che potrebbero descrivere lo strazio del corpo di Fufezio (120; 124; 125-26 S., si veda anche il commento di Skutsch ad loc., pp. 276-279; questi versi di Ennio potrebbero anche aver ispirato Verg. Aen. 8, 642-645); Ampel. 39.2 e Claud. Gild. 254-255. Meritano di essere citati anche due distici della terza elegia del l. 1 dei tristia di Ovidio (vv. 73-76): dividor haut aliter, quam si mea membra relinquam, / et pars abrumpi corpore visa suo est. / sic doluit Mettus tunc, cum in contraria versos / ultores habuit proditionis equos. La situazione è complicata dal fatto che l’autenticità dei vv. 75-76 è stata messa in discussione (già Heinsius propone di espungerli; fra i moderni, soltanto Owen non respinge il distico107), sia per
Il confronto con il passo di Floro invita anche a non modificare la forma tradita del nome “Mettum” in “Mettium” (intervento di Mercier accolto da Riposati). 107 L’interpolazione troverebbe la sua genesi nella menzione metaforica delle membra lacera106
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motivi metrici (vedi il comm. ad loc. di Luck 1968, p. 44), sia perché il riferimento al cruento supplizio di Fufezio, nel contesto di questa elegia, è parso contrario al decorum e anomalo in un componimento in cui Ovidio propone raffronti fra la propria condizione e celebri vicende del mito greco, ma non allude mai a leggende romane108. In ogni caso, la presenza di questa interpolazione in Ovidio potrebbe dimostrare la fortuna, anche scolastica, dell’exemplum di Fufezio. Allo stesso exemplum Ovidio allude anche a Ib. 279-280, vel tua, ne poenae genus hoc cognoverit unus, / viscera diversis scissa ferantur equis (vedi il comm. di La Penna 1957, p. 57). Dal punto di vista linguistico, si noti l’impiego del verbo “distraxit”, dove il prefisso “dis-” esprime con forza il concetto della divisione in due direzioni opposte (cfr. ThLL V 1541.15-27). Un po’ di attenzione merita anche il termine “deligatum”. Si può dire che l’archetipo di Nonio avesse “diligatum”, dato che questa forma è tradita da due famiglie di codici e da uno dei due rami in cui si divide la terza; tuttavia, “deligo, -as” è l’unica forma del verbo ammessa (vedi ThLL V 450.68-70): per questo motivo adotto la lezione del gruppo DA “deligatum”, stampata anche da Kettner, contro “diligatum”, accolta da Riposati e Salvadore. Ipotizzerei che la lezione “diligatum” sia sorta da un banale errore da capitale (confusione fra E ed I) o per influsso del vicino “distraxit” e dall’archetipo si sia trasmessa al resto della tradizione (il capostipite del gruppo DA potrebbe aver corretto il testo per congettura). te: Ovidio dice che per lui separarsi da Roma equivale a vedersi strappata una parte di sé; l’interpolatore potrebbe non aver resistito alla tentazione di arricchire il testo con la menzione di un celebre esempio di “membra abrupta” (questa volta in senso concreto) che lui conosceva. La forma dell’interpolazione potrebbe essere stata modellata su Ib. 338: ultores rapiant turpe cadaver equi (relativo alla morte di Ippolito). 108 A ciò va aggiunto che i codici trasmettono concordemente la lezione “Priamus” invece di “Mettus” (correzione congetturale non attribuibile a un autore preciso, ma presente nelle prime edizioni a stampa): uno scambio, come dice Luck, «nicht leicht zu erklären». Una possibile soluzione sarebbe supporre che, a uno stadio alto di tradizione, un correttore ignaro della vicenda di Fufezio, leggendo di “equos ultores proditionis”, possa aver pensato al corpo di Ettore trascinato dal carro di Achille (in questo caso, i cavalli del carro potevano sembrare dei “vendicatori” del tradimento con cui Paride aveva sottratto la moglie al suo ospite greco) e al dolore provato da Priamo nel vedere il corpo straziato del figlio: il correttore avrebbe perciò potuto modificare “Mettus”, nel testo già interpolato, in “Priamus” e trasmettere così la lezione “Priamus” a tutta la nostra tradizione.
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Il periodo presenta una struttura sintattica piuttosto contorta. Sebbene il verbo “deligo” ammetta la costruzione sia col dativo, sia con “ad” e accusativo (vedi ThLL V 450.69-451.24), nel frammento è quasi certo che “deligatum” vada unito a “ad curriculum” (così intende il Thesaurus; del resto, se lo si legasse a “equis” sarebbe difficile dare un senso a “ad curriculum”); “equis” andrà dunque inteso non come dativo, ma come un ablativo di mezzo retto da “distraxit” (“lo lacerò coi cavalli”): interpretazione peraltro confermata dal confronto con la descrizione di Floro, “pernicibus equis distrahit”. Come si vede, il complemento “equis” è separato dal verbo cui si riferisce da una notevole distanza, una durezza stilistica difficile da spiegare (si può supporre, come pura ipotesi, che Varrone abbia voluto mettere in risalto il termine “equis” per sottolineare la particolarità della pena escogitata). Un’altra durezza è data dal modo estremamente sintetico con cui Varrone accenna all’episodio: Fufezio, secondo la tradizione, viene legato infatti a due carri, cosa che si può sì dedurre a senso dall’espressione “ad curriculum ex utraque parte deligatum” (se il carro fosse uno solo; Fufezio non potrebbe esservi legato alle due estremità), ma solo a fatica. Penserei dunque che Varrone, nel citare l’exemplum di Fufezio con una frase tanto concisa da non risultare del tutto perspicua a una prima lettura, presupponesse che il lettore conoscesse già bene l’episodio in questione, così da poter sottintendere quanto omesso dal rapido racconto dell’autore. 17 (= 17 R.; 291 S.) et a quibusdam dicitur esse Virginis Fortunae ab eo, quod duabus undulatis togis est opertum, proinde ut non reges nostri et undulatas et praetextatas togas soliti sint habere 1: quibusdam BA; quibus L | adeo L; ideo Müller dubitanter | duabus edd.; duobus codd. | toxis L; 2: nostri eundulatis corr. ed. princ.; nostrei undulatas Müller Non. p. 278.17-21: VNDVLATVM, nove positum purum. Varro de vita populi Romani lib. I.
e alcuni sostengono che (la statua) sia della Fortuna Vergine per questo motivo, perché è coperta da due toghe undulatae, come se non fosse stato costume abituale dei nostri re portare toghe sia undulatae sia preteste! Seguendo l’ordine cronologico dei re, si giunge a Servio Tullio. Il frammento riguarda una controversia erudita circa l’identità di una statua posta nel tempio 120
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della Fortuna. Si discuteva, infatti, se l’immagine in questione rappresentasse la dea Fortuna o fosse un ritratto di Servio Tullio (vedi Papini 2006). Varie fonti parlano di questo simulacrum o signum (è probabile che Varrone adoperasse uno di questi due termini, poiché nella parte del frammento conservata si legge “opertum”), attribuendolo ora alla Fortuna, ora a Servio (vedi Salvadore 2004, pp. 52-53). Varrone si inserisce nel dibattito, confutando gli argomenti di ignoti eruditi che ritenevano di poter dimostrare che la statua fosse della Fortuna per il fatto che era ricoperta da due toghe undulatae. Egli ne critica l’argomento con una punta di ironia sprezzante: i re sogliono portare toghe sia undulatae sia preteste, quindi la statua potrebbe benissimo essere anche di Servio. Se il senso del frammento è chiaro, meno evidente è il parere proprio di Varrone sulla questione: sulla base di questa citazione, infatti, si può dire soltanto che Varrone rifiutava questo particolare argomento di chi negava l’identificazione del soggetto della statua con Servio, ma mancano elementi sicuri per stabilire se il Reatino credesse davvero che si trattasse del re o se invece attribuisse la statua alla Fortuna, ma fornendo argomenti diversi da quello “smontato” nel frammento. Comunque, il riscontro con un passo di Plinio (vedi infra) in cui si parla ugualmente di una “toga undulata” appartenuta a Servio Tullio e consevata presso il tempio della Fortuna, lascerebbe propendere per l’ipotesi che Varrone in effetti credesse che la statua fosse di Servio (anche se, in assenza di elementi decisivi, preferisco non pronunciarmi definitavamente sulla questione). Il frammento è citato da Nonio per l’opposizione fra toga pretesta e toga undulata. Il senso di quest’ultima espressione non è del tutto chiaro. L’interpretazione logicamente più scontata porterebbe a intendere la toga undulata come una toga dalle pieghe ampie e voluminose (così interpreta OLD 2092); tuttavia, in questo frammento, il fatto che Varrone la presenti in contrasto con la pretesta lascia pensare piuttosto che la toga undulata fosse una toga “semplice”, non orlata di porpora. Ciò si ricava anche dal lemma, pur anomalo, “undulatum, nove positum purum”. L’opposizione fra toga pura (senza lista di porpora) e toga praetexta (orlata di porpora), infatti, è canonica (vedi OLD 1524, 9.a); Nonio segnala il fatto che Varrone, nella pericope citata, abbia impiegato, in modo originale (“nove”), il nesso toga undulata come corrispettivo del normale toga pura. Quanto alla discrepanza fra il lemma, dove il termine “undulatum” è posto al neutro, e la citazione, dove si parla di “togae undulatae”, quello di presentare il lemma al neutro, a prescindere dal genere che esso 121
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avrà nella citazione, è un uso attestato anche altrove in Nonio (il fenomeno ricorre anche al fr. 91). Infine, vale la pena di spendere qualche parola a proposito di un interessante parallelo fornito da Plinio. Questi interrompe il discorso sulle varietà di lana e le caratteristiche di diverse razze di pecora con un excursus di carattere storicoantiquario (n. h. 8, 194-197) in cui si data l’introduzione a Roma di alcune tipologie di abito, se ne segue l’evoluzione nel tempo e si discute di alcune vesti che si riteneva fossero state indossate dai re. Tutta la sezione, che si apre con la menzione di Varrone, presenta notevolissimi tratti varroniani (datazione del momento a partire dal quale dati abiti furono diffusi a Roma; uso di dati “archeologici” – è proprio il caso della “toga” di Servio che discuterò a breve – come prove a sostegno di una data teoria antiquaria; riferimento al parere di altri eruditi o storici, tutti precedenti a Varrone; indizi di una consultazione approfondita di fonti greche che si può attribuire soltanto a Varrone; presenza di un tono di critica moralistica, come nella chiusa del cap. 197), analoghi a quelli riscontrabili nelle digressioni pliniane sulle origini del vino e del pane per cui è stata ipotizzata una derivazione sicuramente da Varrone e forse proprio dal de vita (vedi introduzione). Se è quasi certo che Plinio dipendeva da Varrone per questo excursus, resta più difficile decidere se attingesse proprio al de vita o piuttosto alle antiquitates o a un’altra opera del Reatino. A favore di un’attribuzione al de vita sarebbe la somiglianza, a livello di struttura, di questo brano con la digressione sul vino (n. h. 14, 89-97), che è tratta con buona probabilità dal de vita. Tuttavia, è assodato che Varrone tendesse a ripetere in più opere non solo le stesse informazioni, ma anche la struttura di particolari sezioni. Ancora, la digressione sulle vesti antiche presenta alcuni elementi che farebbero pensare piuttosto a una dipendenza dalle antiquitates: vi si parla molto della Roma delle origini, ma l’ottica non è limitata ad essa, mentre sono riportate molte informazioni relative al mondo greco e asiatico e all’invenzione di alcuni tipi di veste fuori dall’Italia. Ciò farebbe pensare, piuttosto che alla sezione su Servio del de vita, a una parte delle antiquitates rerum humanarum comprendente un elenco di diversi tipi di abito e un sunto della loro storia. Inoltre, all’interno della digressione è presente un riferimento cronologico (al cap. 196 è citato un libello contro Catone Uticense composto da Q. Cecilio Metello Pio Scipione nel 56 a.C.) che, pur non andando contro una possibile attribuzione al de vita, si accorda meglio con la data di composizione delle antiquitates. Infine, va tenuto conto del fatto che Plinio, pur dipendendo 122
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da Varrone per la maggior parte del materiale di questo capitolo, ha comunque aggiunto qualcosa di suo e aggiornato la trattazione (lo dimostra il riferimento alla morte di Seiano contenuto al cap. 197). In ogni caso, c’è un’informazione, in questo excursus in gran parte tratto da Varrone, che merita di essere messa in particolare risalto: cap. 194, lanam in colu et fuso Tanaquilis, quae eadem Gaia Caecilia vocata est, in templo Sancus durasse prodente se auctor est M. Varro factamque ab ea togam regiam undulatam in aede Fortunae, qua Ser. Tullius fuerat usus. Come si vede, qui si parla di una toga, indossata da Servio in vita, che era conservata nel tempio della Fortuna (probabilmente “indosso” alla statua dalla dubbia identità, che Varrone sembrerebbe credere fosse di Servio). Dando una scorsa al seguito del passo, si trova l’interessante notizia che la toga undulata un tempo era ritenuta un abito raffinatissimo (cap. 195: undulata vestis prima e lautissimis fuit), ma che in seguito fu soppiantata dall’introduzione di fogge d’abito sempre più raffinate (si veda l’analoga “storia del vestiario” costituita dai frr. 50-56 de de vita). La praetexta è citata soltanto a una certa distanza, fra i tipi d’abito introdotti a Roma dagli Etruschi. Quindi anche in Plinio (come nel frammento) toga undulata e toga praetexta sono presentate come due tipologie diverse di veste (il riferimento, al cap. 197, a delle “Servi Tulli praetextae” ancora visibili al tempo della caduta di Seiano non è in contraddizione con questo dato, in quanto si tratta di una notizia che Plinio non può desumere da Varrone, come prova la menzione di Seiano) e la consonanza con quanto detto nel frammento è impressionante. Ritengo quindi che questo brano di Plinio meriti di essere messo in particolare risalto fra i luoghi paralleli. Certo, non possiamo spingerci a stamparlo, come fa Riposati, come un frammento sicuro dal de vita. Per i motivi sopra esposti, infatti, è più probabile che qui Plinio dipenda dalle antiquitates. Inoltre, è improbabile che, nel de vita, alla discussione sull’identità della statua di Servio potesse essere collegata tutta questa sezione sugli abiti. Direi piuttosto che, trattando della “toga undulata” di cui era ricoperta la statua di Servio (o della Fortuna), Varrone potesse citare anche nel de vita (come prova a favore dell’attribuzione della statua a Servio?) il fuso di Tanaquilla con cui si diceva che la “toga” fosse stata realizzata. Questa menzione poteva essere condotta in termini simili a quelli dell’opera varroniana cui Plinio attinge per il suo excursus. Purtroppo la mancanza di un più ampio contesto non permettere di procedere oltre nella ricostruzione del frammento.
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18 (= 8 R.; 287 S.) et extra urbem in regiones XXVI, agros viritim liberis adtribuit 1: Servius rex, cum divisisset spatium urbis (vel in urbe) in regiones IV e.g. supplevi collato Suet. Aug. 30.1 “spatium urbis in regiones vicosque divisit” | in BA, om. L Non. p. 61.3-62.9: VIRITIM dictum est separatim et per singulos viros […] Varro de vita populi Romani lib. I.
e quello extraurbano in ventisei, assegnò del terreno a ciascun cittadino di condizione libera Varrone prosegue il discorso sul regno di Servio Tullio, venendo a trattare delle sue riforme. Le dimensioni ridotte e lo stato mutilo della citazione non permettono di identificare, almeno in prima battuta, il contenuto esatto del frammento. Vi si parla di qualcosa, verosimilmente del territorio, posto “extra urbem” e diviso in ventisei “regiones”. Il confronto con Dion. ant. Rom. 4, 14-15 autorizza a credere che la citazione si riferisca all’istituzione, da parte di Servio Tullio, delle ventisei tribù rustiche, che, nell’ordinamento censitario, venivano ad affiancarsi alle quattro tribù urbane (vedi 4, 14.1, ὁ δὲ Τύλλιος ἐπειδὴ τοὺς ἑπτὰ λόφους ἑνὶ τείχει περιέλαβεν, εἰς τέτταρας μοίρας διελὼν τὴν πόλιν … τετράφυλον ἐποίησε τὴν πόλιν εἶναι, τρίφυλον οὖσαν τέως e 4, 15.1, διεῖλε δὲ καὶ τὴν χώραν ἅπασαν, ὡς μὲν Φάβιός φησιν, εἰς μοίρας ἕξ τε καὶ εἴκοσιν, ἃς καὶ αὐτὰς καλεῖ φυλὰς καὶ τὰς ἀστικὰς προστιθεὶς αὐταῖς τέτταρας, ὡς δὲ Οὐεννώνιος ἱστόρηκεν, εἰς μίαν τε καὶ τριάκοντα). L’uso del termine “regio” per indicare un distretto o una divisione amministrativa del territorio è legittimo (cfr. OLD 1600 b). Inoltre, il fatto che la citazione si apra con un “et”, lascia intendere che il discorso non fosse limitato alle sole tribù rustiche, ma che nella parte precedente, tagliata fuori da Nonio, Varrone potesse menzionare anche le quattro tribù urbane. Ciò trova un riscontro nella mancanza di un verbo che regga “in regiones” (il verbo “adtribuit”, presente nel seguito della citazione, non si può in alcun modo connettere a “in regiones”, ma ha un proprio oggetto, “agros”); questo doveva trovarsi nella parte non riportata da Nonio, in cui va supposto si trovasse sia una menzione delle tribù urbane sia, appunto, un verbo che chiarisse l’azione di Servio e reggesse 124
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il costrutto “in regiones”. Il parallelo di Dionigi “διεῖλε … εἰς μοίρας” porterebbe a sospettare che Varrone impiegasse il verbo “divido” (cfr. la lettura della Ammannati quadrupertito divisit nel “papiro di Servio Tullio”, vedi infra): la costruzione di “divido” con “in” e accusativo è normale (vedi ThLL V, 1 1601.801602.11) ed è sostenuta da un ottimo parallelo, Suet. Aug. 30.1, spatium urbis in regiones vicosque divisit (cfr. Cic. div. 1, 31, cumque [sc. Attus Navius] in quattuor partis vineam divisisset). Per quanto le “regiones” istituite da Augusto fossero delle unità amministrative diverse dalle tribù attribuite a Servio Tullio, credo che, come formulazione, il passo di Svetonio rappresenti quanto di più vicino si possa immaginare a quella che poteva essere la forma della parte perduta del frammento. Infatti, oltre a impiegare la costruzione di “divido” di cui si è parlato sopra, Svetonio presenta il nesso “spatium urbis” che, se immaginato nella prima parte del frammento, verrebbe a porsi in opposizione a “(spatium) extra urbem” e permetterebbe di riunire, nel giro di un’unica frase, la menzione sia delle tribù rustiche sia di quelle urbane (io intendo “extra urbem” come una sorta di attributo: la sintassi risultante è un po’ dura, ma del tutto compatibile con lo stile varroniano; al limite, si potrebbe integrare, invece di uno “spatium urbis” ricalcato su Svetonio, un più piano “spatium in urbe”). Per questi motivi, propongo l’integrazione e. g. . In alternativa, partendo dal fatto che il codice L non ha “in”, il prof. Stagni mi suggerisce che si potrebbe anche integrare “ et extra urbem regiones XXVI”. Il senso immediato del seguito del frammento è chiaro: Servio Tullio procedette all’assegnazione di un appezzamento di terreno a testa ai cittadini. La formulazione con cui è espresso il concetto, “agros viritim liberis adtribuit”, è canonica: l’avverbio arcaico “viritim”, causa della citazione del frammento da parte di Nonio, è di uso tecnico in riferimento all’atto di distribuire terre, denaro o bottino (vedi OLD 2073; cfr. Liv. 1, 46.1, agro capto ex hostibus viritim diviso; Cic. rep. 2, 26, agros quos bello Romulus ceperat (sc. Numa) divisit viritim civibus; Cato, hist. fr. 133, praeda … viritim divisa). Varrone, però, si discosta dalla formula tradizionale adoperando un verbo diverso da “divido”. Si può ipotizzare che ciò sia dovuto in parte al fatto che “divido” poteva comparire nella parte immediatamente precedente del frammento; in tal caso, Varrone avrebbe potuto voler variare la costruzione. Inoltre, anche in un frammento delle Menippeae, Varrone impiega “adtribuo” in un senso simile e in connessione all’avverbio “particulatim”, 125
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che costituisce un equivalente di “viritim”: fr. 17 A., terra culturae causa attributa olim particulatim hominibus; si può dunque ipotizzare che l’uso di “adtribuo” in nessi del genere fosse una caratteristica propria dello stile di Varrone. Un problema è posto dall’individuazione dell’episodio preciso cui si riferiscano queste parole. Stando a quanto riportato da Nonio, infatti, tutto induce a credere che Varrone accostasse questa distribuzione di terreno all’istituzione delle centurie. Viceversa, sia Livio sia Dionigi (che tuttavia attingono a due filoni storiografici opposti sulla figura del re, presentato da Dionigi nei suoi tratti filopopolari, da Livio come una figura filosenatoria) parlano di una distribuzione del terreno compiuta da Servio, ma non la presentano come una delle riforme connesse all’istituzione dell’ordinamento centuriato, bensì come un mezzo “demagogico” che Servio avrebbe adoperato per procacciarsi il favore della plebe in occasione della sua salita al potere (Dionigi) o per garantirsi così il successo nella problematica “elezione ritardata” (Livio), vale a dire all’assemblea che Servio avrebbe convocato al termine del proprio regno per ratificare la validità della propria successione al trono (sulla complessa questione di questa “elezione” anomala, vedi Gabba 1961; Ridley 1975; Fraschetti 1994). Ancora, pur nella presentazione dello stesso fatto, Dionigi e Livio mostrano delle discrepanze: Dionigi (ant. Rom. 4, 9.8-9; 10.3) parla di una distribuzione di terreno sottratto ai maggiorenti della città e concesso alle fasce meno abbienti della popolazione, mentre Livio (1, 46.1) descrive un provvedimento meno radicale, che prevedeva la distribuzione di terreno sottratto ai nemici (anche se, nel seguito del racconto, Tarquinio rinfaccia a Servio un provvedimento simile a quello descritto da Dionigi, cfr. 1, 47.11, fautorem infimi generis hominum ex quo ipse sit, odio alienae honestatis ereptum primoribus agrum sordidissimo cuique divisisse). Non si può dire a quale di queste due versioni aderisse Varrone, che parla genericamente di “agros”, senza specificarne la provenienza. Il vero punto problematico è che, nel frammento, si trovano così accostati due episodi diversi (la distribuzione di terre ai cittadini per ottenerne l’appoggio alle elezioni e l’istituzione delle tribù), avvenuti in due fasi distinte del regno di Tullio. Va comunque notato che, poiché la distribuzione di terre è connessa all’elezione ritardata, tradizionalmente collocata verso la fine del regno di Servio e quindi quando le sue riforme erano già state attuate, Varrone presenta i due fatti nel loro giusto ordine cronologico (secondo la successione di eventi adottata anche da Livio; Dionigi fa invece risalire la distribuzione a una fase precedente le riforme, ma anche lui riconosce l’esistenza di un’assemblea convocata al termine del regno 126
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di Servio al fine di ratificarne il potere, vedi ant. Rom. 4, 37). Credo che l’unica spiegazione possibile dell’anomalia causata dalla giustapposizione dei due episodi vada ricercata nell’estrema sinteticità con cui Varrone tendeva ad accennare a episodi storici nelle sezioni “storiografiche” del de vita (cfr. fr. 74). Dovendo riassumere in poche battute i complessi provvedimenti del re riformatore, Varrone poteva accostare vicende diverse nel giro di un’unica frase, in base a criteri di tipo analogico. Si potrebbe ipotizzare che, volendo trattare delle innovazioni di Servio sul piano della distribuzione del territorio, Varrone avesse accostato la menzione di due provvedimenti in sé diversissimi e irrelati, ma accomunati dal fatto di riguardare, in qualche modo, l’“ager publicus” (comunque non può essere esclusa la possibilità di una mera distrazione da parte del Reatino, che avrebbe connesso la distribuzione del terreno, di cui aveva notizia, all’istituzione delle tribù, senza notare che si trattava di due cose del tutto diverse). Purtroppo l’assenza di un ampio contesto impedisce di procedere a ipotesi ulteriori: temo che la posizione più prudente sia quella di accettare il testo dato, tenendo conto della particolare conflazione di due episodi che esso presenta. Per questo motivo, direi che sarebbe auspicabile una presentazione dei paralleli più selettiva di quella data da Salvadore 2004 a p. 50: lo studioso, infatti, cita il brano di Dionigi sulle tribù e quello di Livio sulla distribuzione del terreno sullo stesso piano, come se presentassero la stessa vicenda, mentre tralascia i luoghi di Dionigi dove si parla della distribuzione. Nel regesto delle fonti parallele, Salvadore propone anche un confronto con il cosiddetto “papiro di Servio Tullio”; per una nuova edizione e analisi di questo problematico testo rinvio al recentissimo studio di Ammannati 2011. 19 (= 9 R.; 288 S.) , quibus erant pecuniae satis, [locupletis,] adsiduos, contrarios proletarios. adsiduo neminem vindicem voluerunt nisi locupletem 1: supplevi e.g. | erat Müller | locupletis, adsiduos codd., edd.; locupletis delevi; 2: adsiduo neminem vindicem voluerunt nisi locupletem Otto (adsiduo neminem vindicem voluerunt nisi adsiduum id est locupletem Turnebus); adsiduo neminem vindice voluerunt locupleti codd., Rip.; del. Kettner; adsiduo vindicem esse, proletario neminem vindicem voluerunt Quicherat; adsiduo neminem vindicem voluerunt Lindsay, Sal. Non. p. 93.18-94.24: PROLETARI dicti sunt plebei, qui nihil rei publicae exhibeant, sed tantum prolem sufficiant […] Varro de vita populi Romani lib. I. 127
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quelli che avevano abbastanza denaro, li chiamavano adsidui; quelli che versavano nella condizione opposta, “proletari”. Decretarono che per un adsiduus nessuno potesse fare da garante se non un ricco. Anche questo frammento, come il precedente, potrebbe riguardare le riforme serviane. In particolare, la definizione dello statuto giuridico della categoria degli “adsidui” che vi è contenuta fa pensare che la citazione derivi da una sezione del de vita dove erano discusse la “costituzione timocratica” di Servio e la sua divisione della popolazione su base censitaria. Per quanto riguarda la prima parte del testo, va presupposto che, nella pericope non citata da Nonio, vi fosse un verbo che reggesse i successivi accusativi “adsiduos” e “proletarios”. Ho scelto di integrare “appellabant” rifacendomi all’uso di Varrone (cfr. fr. 4, quos antiqui Romani ludios appellabant; fr. 12, et ab eo calendae appellatae; fr. 26, segestria appellabant; fr. 33, id vinum calpar appellatum; fr. 38, sapam appellabant; fr. 42, manalis lapis appellatur; fr. 68, censores appellarunt; fr. 69, curia appellatur; fr. 71, stipendium appellabatur; fr. 83, tum appellatus est dilectus; fr. 85, a quo optiones … appellati; fr. 86, rorarii appellati; fr. 104, navis codicarias appellamus). Rifacendosi alla più antica terminologia giuridica, Varrone riferisce la notizia che i primi Romani chiamavano “adsidui” i cittadini che avevano abbastanza denaro (su “locupletis”, vedi infra), “proletarii” quelli che si trovavano nella condizione opposta. I codici riportano la lezione “quibus erant pecuniae satis”, con “pecuniae” nominativo plurale e “satis” avverbio. Müller corregge “erant” in “erat”, intendendo “satis” come soggetto e “pecuniae” come genitivo di quantità. L’intervento è superfluo e rischia di normalizzare il testo. Il seguito del frammento è tradito dai codici nella forma “adsiduo neminem vindicem voluerunt locupleti”, che non dà senso, dal momento che “locupleti” è chiaramente fuori posto. Riposati mantiene questo testo, di cui però non dà una traduzione e che commenta, di fatto, come se “locupleti” non ci fosse (vedi p. 106). L’ipotesi più ovvia è che “locupleti” sia una glossa interlineare ad “adsiduo” scambiata per un’indicazione di integrazione ed entrata erroneamente a testo. Ciò porterebbe a espungere “locupleti”, soluzione proposta da Quicherat e adottata da Lindsay e Salvadore. Tuttavia, questo intervento va scartato, in quanto il testo risultante darebbe un’informazione in contrasto con quello che sappiamo da altre fonti sullo statuto giuridico degli “adsidui”. Col testo, “adsiduo 128
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neminem vindicem voluerunt”, risulterebbe che un “adsiduus” non potesse assolutamente avere alcun garante. Invece, la norma prevedeva che un “adsiduus” potesse avere come garante solo un altro “adsiduus”, mentre a un “proletarius” poteva fare da garante chiunque. Questo dato è confermato da un frammento delle leges XII tabularum riportato da Gell. 16, 10.5, adsiduo vindex adsiduus esto; proletario civi quis volet vindex esto (vedi il commento di Bruns 1909-1912, p. 18; i codici di Gellio hanno “proletario cui quis volet” (Fγ) o “proletario iam civi cui quis volet” (δ), la soluzione che cito è quella di Marshall. Certo, anche così “civi” resta un’indicazione pleonastica rispetto a “proletario”; forse si potrebbe tentare una proposta, sulla base del testo “cui quis”, come “proletario cuivis quis volet vindex esto”: “cuivis quis”, una volta corrottosi per un semplice errore in “cui quis quis”, si sarà ridotto a “cui quis” per aplografia) e da Cic. top. 10, cum lex assiduo vindicem assiduum esse iubeat, locupletem iubet locupleti; is est enim assiduus, ut ait L. Aelius, appellatus ab aere dando (dopo “lex” parte dei codici dei “topica” riporta la pericope “Aelia Sentia”: poiché questa legge, che non ha nulla a che vedere con gli “adsidui”, fu presentata nel 4 d.C. e quindi, per ovvi motivi cronologici, non poteva essere nota a Cicerone, si considera l’aggiunta come una certa interpolazione, dovuta forse alla menzione “L. Aelius” presente nel seguito immediato; su tutta la questione vedi Reinhardt 2003, p. 212). Soprattutto il parallelo di Cicerone presenta numerosi caratteri interessanti, che potrebbero essere di grande utilità nella ricostruzione del frammento: indica che “adsiduus” e “locuples” sono termini equivalenti (cfr. Mommsen 1887, vol. III, 1, pp. 237238) e, concordando con le “dodici tavole”, mostra con certezza quale doveva essere la norma riguardo agli “adsidui”, offrendo un indizio su cui basarsi per la correzione del testo di Varrone. Per i motivi esposti, il testo dato da Salvadore non può essere accolto (per quale motivo si dovrebbe negare un garante proprio ai cittadini più abbienti, che così verrebbero a trovarsi in una posizione inferiore a quella dei “proletarii”? Quicherat, del resto, non si limita a espungere “locupleti”, ma interviene anche sul resto del frammento in modo da ottenere un testo in accordo con la testimonianza di Cicerone). L’integrazione proposta dal Turnebus negli “adversaria”, per quanto troppo estesa, restituirebbe per il frammento il contenuto richiesto: “adsiduo neminem vindicem voluerunt nisi adsiduum id est locupletem”. Partendo da questa proposta, adotterei la soluzione, simile, ma più economica e verosimile sul piano paleografico, di Otto, che corregge “locupleti” in “nisi locupletem” (né Riposati, né Salvadore la menzionano in appara129
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to). L’errore si sarebbe generato per una semplice svista grafica: “nisi”, abbreviato con una “n” fornita di un titulus o di una “s” sovrascritta, poteva cadere dopo “voluerunt” (volueruntn > voluerunt), mentre un “locupletem”, corrottosi in “locuplete” per la perdita di un compendio di nasale, poteva passare a “locupleti” per influsso del vicino “adsiduo”. Il parallelo di Cicerone assicura che “locuples” è un equivalente perfetto di “adsiduus” (il passo, nei topica, è citato appunto come esempio della strategia oratoria che mira a chiarire un concetto riformulandolo con sinonimi più comuni), quindi non è necessario integrare un “nisi adsiduum” (come fa il Turnebus), ma è sufficiente adottare la correzione “nisi locupletem”. Del resto, “locuples” si potrebbe glossare ugualmente bene con la definizione “cui sunt pecuniae satis”: avendo presente la prima parte del frammento (fino a “proletarios”), in cui si dice che “quibus erant pecuniae satis” erano detti “adsidui”, la seconda parte, che afferma che un “adsiduus” poteva avere come garante soltanto un ricco (“locuples”), sarebbe del tutto chiara anche senza la necessità di ripetere una seconda volta che “locuples” equivale ad “adsiduus”. La discussione di questo punto permette di tornare indietro e riesaminare la prima parte della citazione. Il passo dai topica, infatti, chiarisce senza possibilità di dubbio che, dei termini “adsiduus” e “locuples”, “locuples” è glossa di “adsiduus” (in quanto Cicerone parafrasa “assiduo assiduum” con “locupleti locupletem” e fa capire che così si rende la frase più chiara all’ascoltatore). Ora, adottando il testo tradito “locupletis, adsiduos” la situazione sarebbe capovolta. Varrone si troverebbe a dire che gli antichi Romani chiamavano chi aveva abbastanza soldi “locupletis, adsiduos”. Il testo, in questa forma, è strano, in quanto sembrerebbe che sia “adsiduos” glossa di “locupletis”, mentre è sicuramente il contrario (del resto, anche volendo ammettere questa stranezza, il testo sarebbe particolarmente farraginoso, in quanto darebbe l’impressione di ripetere due volte la stessa informazione: provando a tradurre alla lettera si avrebbe “ chi aveva abbastanza denaro (cioè i ricchi) ricchi, adsidui”, dove il fatto che gli “adsidui” erano i cittadini danarosi è appunto ripetuto inutilmente). Credo che una facile soluzione a questo problema possa essere l’espunzione del “locupletis” fuori posto, come di una glossa a “quibus erant pecuniae satis” (forse influenzata anche dal vicino “nisi locupletem”) entrata a testo dall’interlinea. Combinando i due interventi proposti, dunque, il senso finale del frammento è “chiamavano adsidui quelli che avevano abbastanza denaro; per un adsiduus non vollero alcun garante se non un ricco”. 130
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Concluderei con un ultimo accenno al parallelo di Cicerone, che si rivela interessante anche per altri motivi. Innanzi tutto, vi si trova una menzione di Elio Stilone, comune maestro di Varrone e Cicerone (sebbene sia stata proposta anche un’identificazione di “L. Aelius” con il giurista Sesto Elio, autore di un commento alle “dodici tavole”, non c’è motivo di dubitare che si tratti di Stilone, autore anche lui di studi sulle “dodici tavole”, come attesta lo stesso Cicerone, de or. 1, 193; si veda Reinhardt 2003, pp. 208-213). Cicerone, nel passo citato, oltre a spiegare il significato di “adsiduus” ne dà anche l’etimologia, attribuendola a Stilone. Questo aspetto del metodo di Stilone (illustrare un’istituzione risalendo all’origine del suo nome), che si riscontra anche nel fr. 9, per l’etimologia di Panda, deve essersi trasmesso dal maestro all’allievo Varrone, che ne ha fatto forse l’aspetto più evidente del suo metodo di ricerca antiquaria. La citazione di Nonio è troppo ridotta perché si possa dire se anche Varrone fornisse, in questa sezione del de vita, l’etimologia stiloniana adsiduus ab aere dando (che Cicerone riporta anche a rep. 2, 40, cfr. Gell. 16, 10.15); certo, la cosa non si può escludere ed è anzi resa probabile dal confronto col parallelo dei topica. Infine, questo parallelo fornisce un ultimo indizio prezioso: vi si legge “appellatus”, il che conferma la mia integrazione “appellabant” all’inizio del frammento. 20 (= 11 R.; 292 S.) aut bovem aut ovem aut verbecem habet signum 1: vit bovem La.c. Non. p. 278.22-23: VERBECEM. Varro de vita populi Romani lib. I.
riporta come contrassegno o un bue o una pecora o un castrone Il frammento si riferisce con buona probabilità alle prime rudimentali forme di monetazione in uso a Roma: rozzi blocchi di metallo marcati con un contrassegno che riproduceva le sembianze di un animale (per il “vervex”, un agnello castrato, vedi l. L. 5, 98). Il termine “signum” è tecnico per indicare la marca che conferisce valore a un pezzo coniato dalla zecca (cfr. OLD 1759.1) ed “aes signatum” è la definizione canonica per il denaro (in contrasto con “aes grave”, ossia i lingotti, ed “aes factum”, vale a dire i manufatti artistici di bronzo lavorato). Di queste antichissime forme di moneta, espressione di una civiltà ancora pastorale, Varrone parla anche a rust. 2, 1.9, aes antiquissimum quod est flatum pecore est 131
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notatum. Plinio aggiunge che questo tipo primitivo di monetazione risaliva al re Servio Tullio (di qui la mia scelta di inserire la citazione fra i frammenti connessi alle vicende di questo re): n. h. 18, 12, Servius rex ovium boumque effigie primus aes signavit; 33, 43, Servius rex primus signavit aes. Antea rudi usos Romae Timaeus tradit. Signatum est nota pecudum, unde et pecunia appellata. Dopo questi precedenti in età monarchica, un conio vero e proprio di monete in metallo prezioso sarebbe attestato a Roma solo a partire dal 269 a.C. (cfr. fr. 94): vedi Plin. n. h. 33, 42, populus Romanus ne argento quidem signato ante Pyrrhum regem devictum usus est; 44, argentum signatum anno urbis CCCCLXXXV, Q. Ogulnio C. Fabio coss., quinque annis ante primum Punicum bellum. Anche l’unico frammento rimasto di un’opera storica di Varrone, gli annalium libri tres (cfr. Peter 1883, p. XXXVIII e p. 24; Dahlmann 1935, col. 1248), è dedicato a questo argomento: nummum argenteum flatum primum a Servio Tullio dicunt. is IIII scripulis maior fuit quam nunc est (citato da Carisio, pp. 133.25-134.2 B.). Il frammento, nonostante il suo interesse, è omesso sia da Riposati sia da Salvadore. Sospetto che l’omissione sia dovuta al fatto di vedere una sorta di contraddizione fra questo luogo varroniano e il frammento del de vita: in un’opera sarebbe datata già all’epoca di Servio Tullio la coniazione di monete in argento, nell’altra a quest’epoca si attribuirebbero solo forme di monetazione rudimentali, mentre la data della coniazione verebbe spostata al 269. A ben guardare, fra i due passi non vi è alcuna contraddizione: Varrone, nel luogo degli annales, non dice di credere che le prime monete siano state coniate al tempo di Servio Tullio, ma riporta l’opinione di altri (“dicunt”), che non è affatto detto lui condividesse. Per questo motivo, è da respingere l’idea di Nenci 1968 (pp. 22-23, n. 59) secondo cui il passo degli annales sarebbe l’«unica voce discorde della tradizione». Nenci si spinge al punto di negare l’attribuzione del frammento a Varrone: «l’attribuzione della notizia a Varrone attraverso l’ambiguo “idem” è errata. Né il Reatino, né l’Atacino risulta abbiano scritto annales». Nessuno di questi argomenti è valido. Innanzi tutto, tenendo conto del contesto in cui il frammento è citato (scriptulum, quod nunc vulgus sine t dicit, Varro in Plutotoryne dixit. idem in annali) “idem” non è affatto ambiguo, in quanto non può che riferirsi a “Varro”, di cui Carisio menziona anche una Menippea. In secondo luogo, degli annalium libri tres sono riportati nel catalogo delle opere varroniane stilato da San Girolamo (vedi introduzione). Infine, pensare a Varrone Atacino per un brano di prosa è del tutto ingiustificato. 132
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21 (= 12 R., 296 S.) cum interea in lucubrando faceret iuxta ancillas lanam 1: facere AA Non. p. 504.34-2: IVXTA [est] coniunctim. Varro de vita populi Romani lib. I. 1: est L
mentre, nel frattempo, (Lucrezia) vegliando filava la lana fianco a fianco alle ancelle Nonostante il frammento sia ridotto a un frustulo minuto, presenta abbastanza elementi perché se ne possa ricostruire il contesto con un buon margine di probabilità. Vi si parla di una donna intenta a filare la lana (per l’espressione “lanam facere”, cfr. ThLL VII, 2 912.80-913.5.), vegliando di notte e sedendo accanto alle ancelle; la presenza dell’avverbio “interea”, inoltre, suggerisce che questa donna venisse contrapposta a qualcun altro che, “nel frattempo”, fosse dedito a una diversa occupazione. Tutti questi elementi, nel loro insieme, rimandano all’episodio dell’innamoramento di Sesto Tarquinio per Lucrezia, la moglie di Collatino, il cui esito tragico determinerà la fine della monarchia (vedi RE XIII, 2 1692.52-1695.22). Il racconto di Livio dell’episodio fornisce il riscontro più vicino (1, 56): mentre i Romani sono impegnati nell’assedio di Ardea, sorge un contrasto fra i membri dello stato maggiore sul valore delle rispettive mogli; si decide dunque di tornare nottetempo a Roma per spiarne il comportamento e avere una prova della loro virtù e quo cum primis se intendentibus tenebris pervenissent, pergunt inde Collatiam, ubi Lucretiam haudquaquam ut regias nurus quas in convivio luxuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem inveniunt. Inoltre, si può supporre che anche Varrone proponesse un contrasto fra Lucrezia e le “regiae nurus”, di cui resterebbe traccia in “interea” (il che mi porta a dare al “cum” e congiuntivo del frammento un valore avversativo: la moglie di Tarquinio beveva, mentre intanto Lucrezia filava); lo stesso contrasto ritorna anche in Dio 2, 11.14-15, τὰς μὲν ἄλλας ἐν πότῳ τινὶ εὖρον, Λουκρητίαν δὲ τὴν τοῦ Κολλατίνου γυναῖκα ἐριουργοῦσαν κατέλαβον. Una conferma ulteriore si ha dal confronto con la versione dell’episodio data da Ov. fast. 2, 723766, in particolare 739-744, ecce nurum regis fusis per colla coronis / inveniunt posito pervigilare mero. / inde cito passu petitur Lucretia, cuius / ante torum cala133
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thi lanaque mollis erat. / lumen ad exiguum famulae data pensa trahebant / inter quas tenui sic ait illa sono. 22 (= 7 R.; 290 S.) Tullum Hostilium in Veliis, ubi nunc est aedis deum Penatium; Ancum in Palatio; ad portam Mugionis secundum viam sub sinistra 1: Velis corr. ed. princ.; 2: supplevi collato Solin. 1.22, praeeunte Ziolkowski | Mugiones corr. ed. princ. | via corr. ed. princ. Non. p. 852.17-21: SECVNDVM non solum numeri est ordinis vel prosperum, quod plerumque positum legimus, sed etiam iuxta. Varro de vita populi Romani lib. I. 1: est et Quicherat; est codd.; et ed. Ald.
(dicono che) Tullo Ostilio (abitasse) alla Velia, dove ora sorge il tempio degli dei Penati; Anco sul Palatino, … Tarquinio presso la porta Mugonia lungo la strada sulla sinistra Il frammento fornisce l’indicazione dei quartieri dove diversi re di Roma avevano posto la propria residenza109. Lo stesso argomento è trattato in un passo di Solino (1.21-24), la cui vicinanza al frammento è così marcata da indurre a credere che, se non proprio il de vita, comunque un’opera di Varrone ne costituisca la fonte (l’intera sezione iniziale dei “collectanea” di Solino, dedicata alla città di Roma, ha un carattere marcatamente varroniano, trattando questioni antiquarie come le origini del nome “Roma” o la data di fondazione della città; inoltre, Varrone è esplicitamente citato come fonte a 1.17, ut adfirmat Varro auctor diligentissimus; di qui l’ipotesi di Samter 1891, pp. 21-31, che Varrone costituisca la fonte principale di Solino, per questi primi capitoli, forse per tramite di Svetonio): ceteri reges quibus locis habitaverunt dicemus … Tullus Hostilius in Velia, Data la menzione, nell’ambito di un’unica frase, di tre re diversi, sospetto che il frammento trovasse posto in una sezione conclusiva del resoconto storico relativo all’età monarchica, in cui Varrone poteva esaminare “in parallelo” caratteristiche di tutti e sette i re di Roma (ad esempio, avrebbe potuto fornire dei “ritratti” dei vari re, con un procedimento simile a quello delle hebdomades, o descrivere in modo sinottico le caratteristiche fisiche, i costumi, la durata del regno e le abitudini che la tradizione attribuiva ai vari sovrani; fra questi dati poteva rientrare anche la notizia della sede delle loro abitazioni).
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ubi postea deum Penatium aedes facta est … Ancus Marcius in summa sacra via, ubi aedes Larum est … Tarquinius Priscus ad Mugoniam portam supra summam novam viam. Per quanto riguarda l’abitazione di Tullo Ostilio, i due testi sono perfettamente sovrapponibili, in quanto concordano non solo nell’indicazione del quartiere (la Velia), ma anche nella precisazione che in seguito in quel luogo sarebbe sorto il tempio dei Penati (“ubi nunc est aedis deum Penatium”; “ubi postea deum Penatium aedes facta est”). Varrone e Solino si discostano invece per quanto riguarda l’abitazione di Anco Marzio: stando al testo riportato da Nonio, questo re abitava “sul Palatino, presso la porta Mugonia”, mentre Solino dice che Anco abitava “alla sommità della via sacra, presso il tempio dei Lari”, mentre attribuisce la residenza presso la porta Mugonia a un altro re, Tarquinio Prisco. Ora, un rapido controllo permette di appurare che l’indicazione fornita da Varrone coincide con quella data da Solino per quanto riguarda il re Anco: il tempio dei Lari, infatti, sorgeva proprio nel tratto della via sacra che fungeva da tramite fra il Campidoglio e il Palatino, alle pendici di questo colle (vedi Cecamore 2003, p. 39, n. 126); “in Palatino” e “in summa sacra via, ubi aedes Larum est”, dunque, possono designare la stessa posizione (cfr. Cecamore 2003, p. 96). Infine abbiamo la problematica menzione di un’abitazione presso la porta Mugonia. Secondo il testo di Nonio, questa indicazione si riferirebbe ancora alla dimora di Anco; almeno a livello teorico, questa identificazione potrebbe essere valida, in quanto si è detto che il tempio dei Lari probabilmente sorgeva ai piedi del Palatino proprio nella zona antistante la porta Mugonia (per la cui localizzazione, si veda la piantina riportata in Cecamore 2003, p. 36). Tuttavia, Solino attribuisce questa posizione alla casa non di Anco, ma di Tarquinio Prisco. Sia Varrone che Solino, poi, concordano sul fatto che l’abitazione sorgesse nei pressi della porta lungo una strada, che Solino precisa essere la parte iniziale della via nova. Ciò crea uno scompenso fra le due testimonianze parallele, in quanto la stessa informazione vi viene riferita, di fatto, a due re diversi. Di qui la mia proposta di presupporre una lacuna nel testo, dovuta a un errore meccanico (si tratta pur sempre di un elenco in cui qualche elemento potrebbe essere saltato con una certa facilità) o a una semplice disattenzione di Nonio (interessato all’uso di “secundum” come preposizione locale piuttosto che alla notizia antiquaria riportata nel frammento), dove potevano trovare posto indicazioni più precise riguardo alla dimora di Anco e, soprattutto, la menzione di Tarquinio. L’ipotesi che il testo di Varrone sia stato troncato da una lacuna è espressa anche da Ziol135
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kowski 1989, p. 237. Per questo motivo ho deciso di integrare “Tarquinium” prima di “ad portam”, di modo che le testimonianze di Varrone e Solino vengano a coincidere: dei tre re, Tullo viveva sulla Velia, nel luogo poi occupato dal tempio dei Penati; Anco alle falde del Palatino, forse presso il tempio dei Lari, ossia immediatamente prima la porta Mugonia (questo è detto da Solino e poteva essere detto da Varrone nella porzione di testo perduta); Tarquinio subito dopo la porta Mugonia, lungo il tratto iniziale della via nova. Per quanto riguarda la lingua, segnalerei la forma “aedis” impiegata qui da Varrone, come anche nel fr. 8. Sono interessanti per l’onomastica anche le forme dei nomi dei quartieri e della porta: mentre in Solino si trovano quelle correnti “Velia” e “porta Mugonia”, Varrone adopera le varianti più rare, ma proprie del suo usus, “Veliae” (cfr. l. L. 5, 54) e “porta Mugionis” (cfr. l. L. 5, 164). Infine, preferirei, per motivi di prudenza, attenermi al testo tradito e pensare che qui Varrone trattasse esclusivamente delle abitazioni dei re, senza seguire la proposta di Salvadore 2004, p. 52, secondo cui il brano del de vita da cui deriva il frammento avrebbe potuto trattare anche dei quartieri aggiunti da ciascun re alla città. Ciò non sarebbe affatto impossibile in linea teorica (Varrone poteva infatti segnalare che ciascun re “ampliavit” la città e si insediò nel quartiere da lui aggiunto), tuttavia, non può essere dimostrato in alcun modo con certezza. 23 (= 24 R.; 303 S.) primum de re familiari ac partibus; secundo de victuis consuetudine primigenia; tertio de disciplinis priscis necessariis vitae 1: ac partibus Mercier; ab partibus codd. (ad p. Paris. 7666); a partubus Kettner | secunde de CA | primigenia om. CA Non. p. 792.9-12: VICTVIS, pro victus. Varro de vita populi Romani lib. I.
per prima cosa (tratterò) del patrimonio familiare e delle sue parti; in secondo luogo, dell’originario costume di vita; in terzo luogo, delle antiche norme necessarie alla vita Conclusa la sezione sulle imprese dei re di Roma, Varrone passa alla seconda parte del primo libro del de vita, dedicata alla “res familiaris”. In base ai frammenti pervenuti di questa parte, si può dire che Varrone discutesse determinati aspetti della vita quotidiana, quali la forma delle abitazioni, l’alimentazione, 136
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la suppellettile domestica e l’abbigliamento. Nell’ambito di questa trattazione erano descritti gli oggetti e gli alimenti più antichi, di cui era spesso fornita anche l’etimologia. Il frammento in questione doveva appartenere al “punto di svolta” fra la parte storica sulla monarchia e la successiva sezione più propriamente antiquaria. Varrone vi fornisce una partizione della materia che avrebbe trattato nel seguito del lavoro. Purtroppo, è difficile comprendere esattamente cosa Varrone intendesse con i tre “campi” designati e ancora più arduo è attribuire precisamente i frammenti ascrivibili a questa parte a una delle tre sezioni qui delineate. Infatti, l’unico punto certo fornito dal frammento è che, a partire dal punto dell’opera in cui esso compariva, Varrone avrebbe parlato di “res familiaris”, ambito nel quale possiamo far rientrare appunto i numerosi frammenti che discutono della vita quotidiana nella fase più arcaica della storia di Roma. Tuttavia, già l’indicazione “ac partibus” non è del tutto chiara: l’ipotesi più sensata è che le “partes” siano i diversi aspetti della cultura materiale (mobilio, bevande, cibo, abiti…) che Varrone doveva trattare in altrettante sezioni (la cui successione si può in parte recuperare applicando la “lex Lindsay”, vedi introduzione), ma non è possibile fondare questa ricostruzione su basi sicure. Certo, è difficile pensare che nell’ambito della “res familiaris” rientrasse anche l’analisi di riti nuziali (così pensa Salvadore, che infatti stampa dopo questo frammento i frr. 10 e 11, che io invece ho inserito nel contesto della digressione sul culto connessa al regno di Numa). Con “res familiaris”, infatti, non si può genericamente intendere ciò che abbia a che vedere con la vita della “familia” (come appunto il matrimonio), ma l’espressione ha il senso preciso di “patrimonio familiare” (cfr. ThLL VI 248.46-249.53). Per questo preferisco attribuire a questa sezione soltanto i frammenti in cui si parla di oggetti o alimenti, vale a dire di beni materiali che potevano essere considerati patrimonio di una “familia” e quindi “res familiaris”. Ancora più difficile è capire cosa Varrone volesse intendere con “victuis consuetudo primigenia” e “disciplinae priscae necessariae vitae”, data l’estrema genericità di questa formulazione. A senso si potrebbe attribuire alla prima espressione il significato di “antico costume abituale di vita”: Varrone descriverebbe il modo in cui i Romani più antichi usavano condurre la propria vita quotidiana (forse non si può escludere nell’uso dell’aggettivo “primigenia” un riferimento al metodo varroniano di illustrare le caratteristiche di un oggetto fornendone l’etimologia; “primigenius” infatti è di uso tecnico per indicare 137
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il senso “originario” di una parola, vedi OLD 1456.2). Quanto alle “antiche norme necessarie alla vita”, dare un senso preciso a questa espressione è quasi impossibile: Varrone potrebbe riferirsi ad alcune regole di comportamento proprie degli antichi (come il divieto per le donne di bere vino o determinati usi conviviali), ma l’espressione non permette di andare oltre nella ricostruzione. In generale, non si può stabilire un confine netto fra la “consuetudo primigenia” e le “disciplinae priscae”; bisogna rassegnarsi ad accontentarsi di dire che in questa sezione Varrone esaminava aspetti di vita quotidiana risalenti alla fase più antica della storia di Roma. L’attenzione quasi maniacale per una partizione ordinata della materia è un aspetto proprio del metodo di Varrone. Per un confronto con un passo vicino al fr. 23, vedi l. L. 5, 105, quae manu facta sunt dicam, de victu, de vestitu, de instrumento; vedi anche il celebre frammento in cui è esposta l’organizzazione tematica delle antiquitates rerum humanarum (l. 20, fr. 1 Mirsch): et ea, quae ad mortalis pertinent, quadrifariam dispertierim: in homines, in loca, in tempora, in res (cfr. Aug. civ. 6, 3, vedi anche il commento di Ranucci 1972, pp. 111-113). Il frammento è citato da Nonio a causa di una particolarità linguistica, la forma di genitivo singolare della quarta declinazione in “-uis” (“victuis”; cfr. NW I 536-537). Questa forma del genitivo costituisce una caratteristica della lingua di Varrone e ricorre anche in altri frammenti del de vita (fr. 74, “pro exercituis salute”; fr. 80, “eius graduis aetatis”; fr. 98, “senatuis”), delle Menippeae (fr. 26, candidum lacte papilla cum fluit, signum putant / partuis; fr. 295, utrum fructuis an delectationis causa?”; fr. 522, perrexit in interioris partis domuis posticae), del logistorico Catus vel de liberis educandis (fr. 8, anuis enim ut sanguis deterior, sic lac; fr. 34, “quaestuis causa”; fr. 35, “rituis nostri”) e a r. r. 1, 2.19, eius enim salivam esse fructuis venenum. 24 (= 28 R.; 307 S.) qua fini sit antica et postica. in postica parte erat colina, dicta ab eo quod ibi colebant ignem. locupletiorum domus quam fuerint angustiis paupertinis coactae, ipsa nomina declarant 1: erant BA | colina BA; culina L; 2: vel locupletiorem dub. Müller Non. p. 77.14-78.22: CVLINAM veteres coquinam dixerunt, non ut nunc vulgus putat. 1: culinam F3CADA; colinam LBA, Lindsay | veteres dixerunt, non coquinam ut Lipsius
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fin dove siano l’ingresso e il retro della casa. Nella parte della casa che dava sul retro c’era la cucina (colina), così detta dal fatto che lì provvedevano (colebant) al focolare. Gli stessi termini rivelano dunque in che misere ristrettezze siano state costrette le dimore dei più ricchi. La seconda parte del de vita, dove erano discussi aspetti di vita quotidiana e cultura materiale, comprendeva una sezione dedicata al tema della casa romana. I frammenti rimasti di questa sezione mostrano che Varrone proponeva una ricostruzione dell’aspetto delle dimore di età regia, descriveva le forme degli arredi più antichi e forniva l’etimologia dei nomi delle parti della casa e di alcuni tipi di mobilio. Il frammento è dedicato a due particolari stanze, dette “antica” e “postica”. I due aggettivi “anticus, -a, -um” e “posticus, -a, -um” derivano da “ante” (cfr. ThLL II 168.4-21) e “post” (cfr. OLD 1413) e il loro senso primario è quello di “posto sul davanti” e “posto sul retro” (vedi Paul. p. 244 L., ea quae ante nos sunt antica et quae post nos sunt postica dicuntur). Il contesto del frammento induce a ritenere che, in questo caso, i termini stiano a indicare le due parti della casa in corrispondenza con l’ingresso sul davanti e quello sul retro. Apuleio (met. 2, 23; 9, 2) conferma che la porta sul retro era detta “postica” (vedi Hor. ep. 1, 5.31); Varrone, tuttavia, dice che nella “postica” si trovava la cucina: riterrei dunque che nel frammento “postica” (e di conseguenza anche “antica”) non possano essere intesi semplicemente come l’accesso principale e quello sul retro, ma piuttosto come delle stanze o serie di stanze poste nella parte frontale e in quella posteriore della casa. Parlando di “antica” e “postica”, Varrone sottintenderebbe un “domus” (di qui l’interpretazione dei termini come “parte della casa sul davanti = vestibolo d’ingresso” e “parte della casa sul retro”); del resto, il nesso “postica domus” ricorre anche in un frammento delle Menippeae: fr. 522 A. (perrexit in interioris partis domuis posticae, ut ait Plautus, ‘penitissimae’). Anche un confronto con l. L. 7, 7, dove sono definite “antica” e “postica” due facciate opposte di un tempio, conferma che Varrone intendeva, con queste parole, non tanto le porte d’accesso sul davanti e sul retro, quante le parti dell’edificio poste alle sue estremità. Per quanto riguarda la prima parte del frammento, purtroppo il taglio operato da Nonio e l’assenza del contesto impedisce di comprendere il senso preciso della proposizione “qua fini sit antica e postica”. Il nesso “qua fini” è una formula dal significato codificato di “fin dove” (vedi ThLL VI, 1 7979.23-41); in accordo con questo dato, il Thesaurus parafrasa, dando un’interpretazione forse troppo minu139
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ziosa, ma nel complesso convincente, il brano di Varrone in questi termini: “intra quos fines porrigatur”. Tuttavia, una volta tradotto il brano con “fin dove siano la parte anteriore e quella posteriore della casa”, resta il problema di ipotizzare un contesto in cui questa proposizione potesse essere inserita. Purtroppo, non si può andare oltre la proposta di semplici ipotesi. Credo che la possibilità più economica sia questa: Varrone definiva “domus antica” e “domus postica” le parti della casa rispettivamente sul davanti e sul retro dell’edificio. A questo punto sorgeva un problema: fin dove queste parti si estendevano? Vanno limitate ai soli accessi o estese fino a includere il vestibolo e altre stanze (come la cucina)? Varrone avrebbe dunque introdotto la discussione di questa questione per mezzo della interrogativa indiretta citata da Nonio in apertura del frammento (con una movenza del tipo “dirò fin dove si estendano…”). Ora, il fatto che nella “postica” ci fosse la cucina, potrebbe essere una prova che la “postica” non era soltanto un ingresso, ma costituiva una serie di stanze; per questo motivo, Varrone avrebbe potuto inserire nella discussione la menzione della cucina con la nota di carattere etimologico che costituisce il seguito del frammento. Una seconda soluzione, che ritengo più difficoltosa, in quanto richiederebbe la necessità di integrare molto a senso e di ipotizzare un congiuntivo per attrazione modale, sarebbe quella di intendere “qua fini …” non come una interrogativa indiretta, ma come un’indicazione locale: Varrone poteva parlare di una parte della casa (l’atrium?) che si estendeva “fin dove subentravano l’antica e la postica”. Come si vede, entrambe le soluzioni fin qui prospettate presentano vari punti incerti, soprattutto a causa dello stato frammentario del testo e dell’assenza del contesto. Si potrebbe ancora tentare una terza strada, intendendo “qua fini” non come un nesso unico (“fin dove”), ma nel senso di “con quale finalità”. Varrone, secondo questa lettura, si sarebbe posto non tanto il problema di quali parti della casa si potessero definire “antica” e “postica”, quanto la domanda “che finalità avevano l’antica e la postica, quale era la loro funzione?”. In questo modo, avrebbe anche più senso la menzione del fatto che nella “postica” si trovasse la cucina (perché ospitare il focolare era appunto la finalità della “postica”), ma si dovrebbe dare a “qua fini” (un nesso quasi formulare) una traduzione più letterale. Il seguito è più scorrevole: nella “postica” aveva sede la cucina, di cui Varrone riporta l’etimologia, che riconduce a “colere ignem”, occuparsi del focolare che vi si trovava. Il termine ammette le due grafie “culina” e “colina” (cfr. ThLL IV 1287.72-75), come si vede dall’oscillazione nella tradizione manoscritta del frammento. Io ritengo che l’archetipo avesse come lemma “culinam”: questa le140
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zione è testimoniata dall’autorevole correttore F3 ed è giustificata dal fatto che a Nonio non interessa tanto l’etimologia di “culina/colina”, quanto il fatto che, anticamente, si diceva “culina” e non “coquina”, come invece era costume dire ai suoi tempi (“ut nunc vulgus putat”). Come controprova, nelle prime due citazioni riportate da Nonio (da una Menippea e da Plauto) tutti i codici tramandano concordemente “culina”. Passando invece al frammento del de vita, sospetto che qui la forma impiegata da Varrone fosse “colina”. Dico questo perché con la grafia “colina” avrebbe più senso l’etimologia proposta “colina a colendo” (l’etimologia esatta di “culina” è ignota; anche Ernout - Meillet considera “colina” come una grafia adottata per fornire una paretimologia al termine, vedi p. 277). Per rimarcare la presunta derivazione da “colo”, Varrone avrebbe potuto scegliere di adottare la forma “colina”, proprio come fa anche DServ. ad Aen. 3, 134: focum autem dictum a fotu, ut colinam ab eo quod ignis colatur. Il fatto che nella citazione dal de vita si leggesse “colina”, mentre il lemma e le due citazioni precedenti avevano “culina”, potrebbe spiegare le oscillazioni nei nostri codici nel darne la grafia (i copisti avrebbero potuto intervenire volendo uniformare lemma e citazioni). Alla parte erudita segue un commento moraleggiante: l’etimologia dei termini più antichi relativi alla suddivisione della casa rivela quanto semplici fossero le abitazioni dei primi Romani. Poiché, inoltre, un’abitazione dotata di più ambienti è comunque indice di un certo benessere, Varrone ha modo di rendere retoricamente ancora più vistoso questo motivo: le antiche case, di cui si può ricostruire un aspetto tanto modesto, erano per giunta quelle dei più ricchi (da ciò si può dunque arguire quanto essenziali dovessero essere le dimore dei poveri). Sul modulo retorico con cui è sviluppata questa chiusa, cfr. fr. 6 (che ha in comune con il nostro passo anche l’impiego di “paupertates” al plurale; cfr. “angustiis paupertinis”). Per il raro aggettivo “paupertinus” (vedi ThLL X, 1 856.23-43), cfr. fr. 7. 25 (= 29 R.; 308 S.) ad focum hieme ac frigoribus cenitabant; aestivo tempore in loco propatulo: rure in chorte; in urbe in tabulino, quod Maenianum possumus intelligere tabulis fabricatum 1: hiemem L; 2: tabulono L Non. p. 117.11-18: CHORTES sunt villarum intra maceriam spatia. Varro Papia Papae […] idem de vita populi Romani lib. I. 141
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d’inverno e quando faceva freddo, solevano cenare accanto al focolare; d’estate all’aperto: in campagna nel cortile, in città nel tabulinum, che possiamo intendere fosse un porticato realizzato con assi Anche questo frammento descrive la semplicità dei costumi di vita degli antichi; in particolare, si riferisce al modo in cui essi solevano consumare i pasti. D’inverno, si accontentavano di mangiare accanto al focolare, mentre, d’estate, non avevano ritegno a farlo all’aperto, in campagna, nel cortile della “villa” (“aia” è il senso primario di “cohors”, vedi ThLL III 1550.55-1551.16), in città, nel “tabulinum”. La menzione di questa parte della casa evidentemente comportava una difficoltà: l’antico “tabulinum” non poteva essere inteso, per l’età monarchica, come la sala centrale della “domus” romana, posta fra l’atrio e il peristilio, che più tardi avrebbe assunto questo nome, in quanto questa identificazione avrebbe smentito il punto principale del discorso di Varrone, il fatto che si mangiasse in uno spazio aperto, “in loco propatulo”. Varrone, dunque, prova a ricostruire l’aspetto e la natura del “tabulinum” arcaico e, insistendo sulla derivazione da “tabula” (anche Fest. p. 490.28 fa derivare “tablinum” da “tabula”, ma in modo diverso, dalle tavolette contenenti i resoconti delle spese che erano conservate in questa stanza; anche Ernout - Meillet, p. 1187, accolgono questa etimologia), ipotizza che si trattasse di una sorta di portico realizzato con assi (una “veranda”, si potrebbe dire). Il senso è chiarito dal termine “Maenianum”, che sta a indicare un soppalco di legno sorretto da colonne e aggettante dalla parete di un edificio, sul quale si poteva camminare e che poteva offrire un luogo di sosta nel loggiato sottostante (vedi Perin, Onomasticon totius Latinitatis, p. 176; Forcellini IV, pp.12-13; OLD 1060); esso prendeva nome dal censore Gaio Menio, cui si attribuiva la costruzione, nel 384 a.C., di un primo porticato del genere (vedi Fest. p. 120.1). Dal punto di vista linguistico, è interessante la forma “rure”, dove sarebbe normale il locativo “ruri”. Questa forma (vedi NW II 648-649) ritorna anche altrove nell’opera di Varrone110: r. r. 1, 37.3, numquam rure audisti…?; 3, 3.5, non enim solum augures Romani ad auspicia primum pararunt pullos, sed etiam patres familiae rure (passo notevole anche per l’analogico “patres familiae”); 9.2, gallinae villaticae sunt quas deinceps rure habent in villis. Significativamente, spesso “rure” è contrapposto, in Varrone, proprio a “in urbe” (r. r. 1, 22.6, instrumentum et su Ciò non toglie che anche in Varrone si trovino attestazioni di “ruri”, vedi ad es. il fr. 27.
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pellectilem rusticam omnem oportet habere scriptam in urbe et rure dominum; 3, 4.2, quo genere macellarii et in urbe quidam habent loca clausa et rure maxime conducta in Sabinis; 7.11 antequam aedificas rure magnum, condiscas hic in urbe cotidie lucrum assem semissem condere in loculos; vedi anche Hor. ep. 1, 14.10. rure ego viventem, tu dicis in urbe beatum), tanto che si può sospettare che “rure … in urbe” fosse la formulazione normale (“ruri” potrebbe essere passato a “rure” per analogia con “in urbe” ed, a questo punto, l’espressione si sarebbe canonizzata). Per quanto riguarda “in loco propatulo”, Varrone adopera la forma piena del sintagma, ma è più comune la forma idiomatica “in propatulo” (vedi ThLL X, 2 1951.16-26) che dal significato di “all’aperto” può anche passare ad assumere quello di “sotto gli occhi di tutti” (vedi ThLL X, 2 1951.27-38). Salvadore 2004 (p. 65) presenta come contraddittorio (“aliter”) rispetto al nostro frammento Col. 12, praef. 2: tum etiam, cum victus et cultus humanus non, uti feris, in propatulo ac silvestribus locis, sed domi sub tecto adcurandus erat. In realtà il brano di Columella esprime un contenuto ben diverso da quello del frammento del de vita: Varrone dice che gli antichi solevano mangiare all’aperto e presenta questo dato come prova dell’estrema semplicità dei tempi antichi, mentre Columella indica come segno del passaggio alla civiltà il fatto di occuparsi al chiuso, non all’aperto come gli animali, della preparazione e della custodia del cibo, ma non si può certo dire che condanni la pratica di pranzare all’aperto. Preferirei quindi non accentuare il contrasto fra i due brani. Va segnalato anche l’uso espressivo del frequentativo “cenito” (vedi ThLL III 783.20-40), che dà al testo una patina stilistica arcaica e, d’altro canto, suggerisce che l’uso di mangiare all’aperto costituiva una pratica comune e diffusa. Resta da discutere il contesto del frammento. Poiché la menzione del “tabulinum” non costituisce l’informazione principale della citazione, dubito che il frammento fosse inserito nell’ambito di una discussione sull’origine di questa parte della casa. Sospetto piuttosto che il frammento trovasse posto nel contesto di una discussione sul modo in cui solevano consumare i pasti gli antichi Romani quando ancora non si era diffuso il costume di mangiare sdraiati e ancora non esisteva il “triclinium”. Ovviamente si tratta di un’ipotesi indimostrabile, ma mi sembra che sia quella che meglio possa dare a questo frammento una posizione coerente all’interno della sezione sulla casa antica. A questa ricostruzione del modo antico di mangiare poteva essere connessa anche l’informazione, contenuta in un frammento del de vita tradito senza l’indicazione del libro (fr. 123), 143
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che i primi Romani non pranzavano distesi, ma solevano sedere tutti assieme, mentre in un secondo momento gli uomini avrebbero iniziato a mangiare sdraiati e le donne sarebbero rimaste sedute. Per questo motivo propongo (seguendo Riposati) che la sede originaria del fr. 123 potesse essere in questa parte del l. 1. Quanto al parallelo di Val. Max. 2, 5.5, fuit etiam illa simplicitas antiquorum in cibo capiendo humanitatis simul et continentiae certissima index: nam maximis viris prandere et cenare in propatulo verecundiae non erat, non è detto che derivi con certezza da Varrone (Valerio Massimo potrebbe anche aver attinto l’exemplum da un’altra fonte o sfruttare un motivo comune) e, anche ammettendo questo, non si può dimostrare che provenga dal de vita. Per questo preferisco citarlo soltanto come parallelo (come Salvadore) e non stamparlo come un frammento (come Riposati). Certo, è pur vero che Valerio Massimo altrove (1, 1.2: feminae cum viris cubantibus sedentes cenitabant) riporta la stessa informazione del fr. 123 e impiega il verbo “cenito”, presente in questo frammento e amato da Varrone. Poiché ho ipotizzato che il fr. 123 potesse trovarsi nello stesso contesto del fr. 25, non si può escludere che Valerio traesse le due notizie dalla stessa fonte e che questa fosse il de vita. Però, questo non si può neanche dimostrare: potrebbe anche darsi il caso che le due notizie siano giunte a Valerio da due fonti diverse o entrambe da una fonte diversa da Varrone o da un’opera di Varrone diversa dal de vita, dove era presentato all’incirca lo stesso materiale (del resto, Valerio usa “cenito” in un contesto simile a quello del fr. 123, non del fr. 25). Per questi motivi, preferirei citare anche questo secondo luogo di Valerio Massimo soltanto come parallelo e non pubblicarlo come frammento del de vita. 26 (= 60 R., 337 S.) quod fronde lecticam struebant, ex ea herba torta torum appellatum. hoc quod inicitur etiam nunc toral dicitur; lecticam qui involvebant, segestria appellabant 1: quo Onions; qua Kettner | struerant L | quod fronde lecticam struebant, ex ea herba scripsi; quod frontem lecticae struebant, ex ea herba codd., Rip., Sal.; qui fronde lecticas struebant, ex ea herba Madvig; quod fronde lecticae struebantur, ab eo herba Müller; 2: torium L Non. p. 17.12-15: TORORVM et TORALIVM designator est Varro de vita populi Romani lib. I. 1: TORORVM et Müller; torialim et codd. (om. DA) | torialium LBA; TORALIVM Onions
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poiché (gli antichi Romani) realizzavano la stuoia con delle fronde, da questo vimine piegato (herba torta) il torum ha preso il suo nome. Ciò che gli si pone sopra si chiama tuttora toral; chiamavano segestria ciò con cui avvolgevano il letto Il frammento è inseribile nel contesto di una sezione dedicata al mobilio e alla suppellettile domestica. Varrone fornisce l’etimologia del termine “torum” (la citazione attesta una rara forma al neutro, mentre il genere normale sarebbe il maschile, vedi OLD 1952) e riporta i termini arcaici impiegati per designare alcuni tipi di coperte. Nel frammento con “lectica” non va intesa una portantina (la “lettiga” vera e propria), ma il termine andrebbe preso come un sinonimo di “lectus” (vedi ThLL VII, 2 1080.29-39). In particolare, con “lectica” si indicavano le stuoie di vimine intrecciato adoperate dai soldati come materassi da campo; Varrone, nel capitolo dedicato o alla parte della casa dove aveva sede il “torus” o al mobilio in quanto tale, avrebbe appunto potuto descrivere la forma del “torus” più arcaico, una semplice stuoia di vimine, per poi procedere a darne l’etimologia e a fornire le note aggiuntive che compongono questo frammento. Una conferma viene da l. L. 5, 166, dove non solo è ripetuta la notizia che la “lectica” era realizzata con vimine, ma è anche presente un rimando alla forma delle brande in uso ancora ai tempi di Varrone negli accampamenti: lectica, quod legebant unde eam facerent stramenta atque herbam, ut etiamnunc fit in castris. Per il modello più antico di letto, dunque, Varrone ricostruiva questa forma essenziale, in accordo con la semplicità e gli scarsi mezzi dell’età monarchica. A questo punto, una volta detto che il letto era realizzato intrecciando erba essiccata, Varrone fa derivare da questa pratica anche il termine “torum”, che trarrebbe la sua origine da “herba torta” (cfr. l. L. 5, 168, torus a torto; Serv. ad Aen. 5, 388, torus a tortis dictus est herbis). La sezione, ricapitolando, seguirebbe dunque questo sviluppo logico: nella parte perduta del frammento, Varrone avrebbe detto che il letto, per gli antichi Romani, era una semplice stuoia di vimini (una “lectica” appunto, come quella descritta nel de lingua Latina e ancora in uso ai suoi tempi presso i soldati); nella parte immediatamente successiva, corrispondente alla citazione riportata da Nonio, Varrone avrebbe usato il fatto che la “lectica” venisse realizzata “ex herba torta” per fornire l’etimologia di “torum” e, da “torum”, sarebbe passato a illustrare il significato anche dei termini “toral” (lo stesso passaggio logico, ma da “toral(e)” a “torus”, si ha anche a l. L. 5, 168) e “segestria”. 145
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Venendo a esaminare la forma del frammento, il testo tradito non offre un senso particolarmente perspicuo e si connette male al seguito. I codici recitano infatti “quod frontem lecticae struebant”, che fornisce un dato strano: Varrone direbbe che gli antichi Romani intrecciavano soltanto la testata del letto, mentre il senso richiederebbe piuttosto che tutta la “lectica”, in quanto stuoia di vimini, fosse realizzata con erba intrecciata. In generale, la menzione “frontem lecticae” è problematica anche perché tutto sembra suggerire che questa forma arcaica di “torum” consistesse in una sorta di tappeto, in una semplice stuoia da appoggiare al terreno per stendercisi sopra, non in un letto vero e proprio; in altri termini, è improbabile che l’oggetto di cui parla qui Varrone fosse dotato di una testata. Infine, “struebant” di per sé non basta a indicare il fatto che la testata del letto fosse realizzata con vimine. Il verbo, infatti, indicherebbe soltanto il fatto che la testata veniva “costruita” mettendo qualcosa insieme, ma non fornirebbe specifiche indicazione sul fatto che venisse usato del vimine come materiale per questa operazione. Eppure, una menzione del materiale doveva esserci, in quanto il seguito recita “ex ea herba torta”: di questa “herba”, dunque, si doveva parlare nella causale dove era presentato l’etimo della parola “torum”. Tuttavia, adottando il testo tradito (accolto da Riposati e Salvadore), manca nella prima parte un termine preciso a cui possa riferirsi la menzione, marcata per giunta dal deittico “ea”, dell’“herba torta”. Per questo motivo ritengo sia da accogliere la proposta di Madvig di correggere “frontem” in “fronde”: in questo modo, si eliminerebbe la menzione di “frontem”, che non dà senso, e si fornirebbe il referente che manca al successivo “ex ea herba torta”. Manterrei tuttavia il tradito “quod”, in quanto è necessario avere una causale che fornisca la spiegazione dell’etimologia (così come non accetterei gli interventi, eccessivi, di Müller, che modifica anche la seconda parte della frase). Quanto al resto, Madvig propone “lecticas struebant”, mentre Müller ha “lecticae struebantur”. La seconda soluzione sarebbe forse paleograficamente più vicina al testo tradito (si sarebbe passati da “struebantur” a “struebant” per la perdita di un compendio; a questo punto, “fronde” si sarebbe corrotto in “frontem” per fornire un oggetto al verbo e “lecticae” sarebbe stato preso per genitivo), ma la costruzione “quod … struebant, torum appellatum” è legittima (vedi fr. 24, colina, dicta ab eo quod ibi colebant ignem; fr. 29, haec vocabula a pastu sunt, quod esse pascere dicebant; fr. 104, quod antiqui pluris tabulas coniunctas codices dicebant, a quo … navis codicarias appellamus). Adotterei quindi il testo “quod fronde … struebant”, dove il verbo necessita di un oggetto. Madvig propone “lecticas”; tuttavia, il fatto 146
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che nel seguito del frammento si trovi “torum” e “lecticam” mi farebbe propendere per l’ipotesi che anche l’etimologia avesse il termine al singolare: scelgo dunque di stampare “quod fronde lecticam struebant” (l’errore “lecticae” si sarebbe generato, piuttosto che per confusione grafica, come rabberciamento una volta che “fronde” si fosse corrotto in “frontem”: per dare un senso al testo, si sarebbe dovuto intervenire su uno dei due accusativi “frontem lecticam” e così sarebbe sorta la lezione corrotta “frontem lecticae”). Il frammento prosegue illustrando due tipi di coperte: il “toral”, una sorta di “coprimaterasso” che era posto immediatamente sulla stuoia, e i “segestria”, delle coperte vere e proprie. Per quanto riguarda il “toral” (o “torale”, vedi OLD 1949), cfr. fr. 11 e l. L. 5, 167. Per “segestria”, l. L. 5, 166 offre un parallelo perfetto, dove peraltro ritorna il riferimento etimologico al vimine (per quanto in realtà il termine non abbia nulla a che vedere con “seges”, ma sia un prestito dal greco, vedi OLD 1727; Ernout - Meillet 1080): qui lecticam involvebant, quod fere stramenta erant e segete, segestria appellarunt, ut etiamnunc in castris. 27 (= 32a R.; 340 S.) nec pistoris nomen erat, nisi eius qui ruri far pinsebat. nominati ita eo quod pisunt 1: nisi eius qui ed. 1480; qui nisi eius codd. | tar L | fortasse pisebat | nominativa (nomina tua BA) quod eo codd., corr. Lindsay; nominati ab eo quod ed. 1480; 2: pisunt codd., Sal.; pinsunt Lindsay, Rip. Non. p. 223.12-15: PINSERE, tundere vel molere. Varro […] idem de vita populi Romani lib. I
il termine pistor si applicava soltanto a chi in campagna pestava il farro. Sono stati chiamati così appunto perché pestano (pisunt) La parte del de vita dedicata alla “res familiaris” comprendeva, oltre alla descrizione delle parti della casa e del mobilio, anche una sezione relativa all’alimentazione. In particolare, diverse citazioni riportate da Nonio parlano del pane e della sua preparazione e forniscono l’etimologia del nome di alcuni cereali. Il frammento in questione discute il termine “pistor” ed è inseribile nel contesto di una trattazione dei modi più antichi di ottenere la farina e realizzare il pane. Parlando, ancora una volta, della semplicità dei tempi antichi, Varrone 147
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sce il fatto che i primi Romani non conoscevano altro “pistor” se non chi, in campagna, in una fase in cui ancora non era stata introdotta la mola, riduceva il farro in farina battendone i chicchi con un pestello (come descritto da Serv. ad Aen. 1, 179). Appunto da “pestare” (“pinsere/pisere”) deriverebbe il termine “pistor” che designava l’addetto a questa operazione (la derivazione di “pistor” da “pinso” è corretta, cfr. ThLL X, 1 2217.18-21; per le fonti antiche diverse da Varrone che riportano la stessa etimologia, vedi ThLL X, 1 2217.22-27 e Salvadore 2004, p. 82). Resta da discutere se debba essere accolta la forma arcaica del verbo “pisunt” (vedi ThLL X, 1 2178.10-16), lezione attestata dalla maggior parte dei codici di Nonio (Lindsay in proposito è poco preciso, vedi infra), o se questa vada corretta in “pinsunt” con influsso nasale, che sarebbe la forma divenuta successivamente normale del verbo (così fanno Lindsay e Riposati). Vari motivi inducono a conservare “pisunt” (scelta di Salvadore): oltre al carattere di maggiore antichità di questa forma e al fatto che si adatta meglio a illustrare l’etimologia di “pistor”, “pisunt” è attestato anche altrove in Varrone, a l. L. 5, 138, pilum quod eo far pisunt, a quo ubi id fit dictum pistrinum (vedi anche r. r. 1, 63, far, quod in spicis condideris per messem et ad usus cibatus expedire velis, promendum hieme, ut in pistrino pisetur ac torreatur, dove è impiegato il frequentativo “piso, -as”). Mantenendo “pisunt”, dunque, si seguirebbe l’uso varroniano, senza contare che la forma “pinsunt” rischierebbe di essere una normalizzazione e quindi una lectio facilior (il fatto che alcuni codici, purtroppo non specificati da Lindsay, abbiano “pinsunt” potrebbe essere spiegato anche con la volontà di un copista di uniformare il testo del frammento al lemma “pinsere” di Nonio, il che rende ancora più probabile che “pinsunt” sia una banalizzazione). Infine, Plinio il Vecchio, riportando un passo che potrebbe derivare con buona probabilità da Varrone, anche se non si può sostenere con certezza che provenga proprio dal de vita, dice pistoresque tantum eos, qui far pisebant (vedi infra)111. Si può ipotizzare che il passo di Varrone, oltre a fornire un dato antiquario, fosse anche venato da una nota di moralismo: l’autore avrebbe potuto contrapporre in modo polemico l’essenzialità del mondo romano arcaico, in cui l’unico “pistor” noto era questa specie di mugnaio e il termine non era ancora giunto a designare il fornaio, al lusso dei suoi tempi, in cui era abituale circondarsi di schiere di “pistores dulciarii” dediti alla confezione di manicaretti. Lo stesso discorso è Per questo sarei tentato di adottare anche nel frammento la forma “pisebat”.
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ipotizzabile per un frammento delle Menippeae quasi identico al nostro (e infatti citato da Nonio nella stessa voce): fr. 527, nec pistorem ullum nossent, nisi eum qui in pistrino pinseret far (i codici hanno “pinseret farinam”; oltre alla correzione di “farinam” in “far” di Gataker, forse, per i motivi appena espressi, sarebbe opportuno adottare anche quella di “pinseret” in “piseret”). Il contesto più ampio in cui inquadrare il motivo è fornito da un passo di Plinio, una sezione erudita sulle origini della produzione del pane a Roma che interrompe la trattazione sulla coltura dei diversi tipi di cereali: n. h. 18, 107-108, pistores Romae non fuere ad Persicum usque bellum annis ab urbe condita super DLXXX. ipsi panem faciebant Quirites, mulierumque id opus maxime erat, sic etiam nunc in plurimis gentium. artoptas iam Plautus appellat in fabula, quam ‘Aululariam’ scripsit (v. 400), magna ob id concertatione eruditorum, an is versus poetae sit illius, certumque fit Atei Capitonis sententia cos tum panem lautioribus coquere solitos, pistoresque tantum eos, qui far pisebant, nominatos. nec cocos vero habebant in servitiis, eosque ex macello conducebant. Questo blocco esamina proprio la questione ipotizzata per il nostro frammento (come si faceva il pane a Roma quando ancora non c’erano i fornai?) e presenta indubbiamente molti caratteri varroniani: il fenomeno non è soltanto presentato, ma anche datato; la ricostruzione antiquaria è supportata da prove desunte dalle fonti letterarie; la discussione filologica sull’autenticità di un verso dell’Aulularia ben si adatta a Varrone, autore di quaestiones Plautinae e grandissimo studioso di Plauto (vedi Aragosti 2009, pp. 42-47); così come la menzione di Capitone (tribuno della plebe nel 55 a.C., quindi contemporaneo di Varrone) è in accordo con l’uso del Reatino di citare come autorità un erudito suo predecessore o a lui contemporaneo (vedi fr. 9). Inoltre, questa sezione sul pane è vicinissima, per forma, struttura e conduzione del discorso, all’analogo excursus sul valore del vino presso gli antichi Romani riportato a n. h. 14, 87-97, che Plinio dice esplicitamente di aver tratto da Varrone e che vari motivi inducono a ritenere derivi proprio dal de vita (vedi introduzione e fr. 118). Anche per Plin. 18, 107-108 ipotizzerei la provenienza da Varrone. Tuttavia, non sono sicuro che derivi dal de vita, in quanto il fatto che il fr. 27 si trovi pressoché in forma identica anche in una Menippea permette in questo caso di avere un esempio indubitabile di “doppione varroniano”. Ora, se questo discorso sui “pistores” era sicuramente detto da Varrone nella stessa forma almeno in due opere diverse, non si può escludere che fosse ripetuto anche altrove (ad esempio, nelle antiquitates). Di conseguenza, sostenere che in questo caso Plinio derivi con certezza dal de vita 149
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sarebbe imprudente. Per questo preferisco non stampare, come Riposati, il luogo di Plinio come un frammento del de vita, ma mi limito a presentarlo come un semplice parallelo, per quanto preziosissimo. 28 (= 34 R.; 314 S.) cocula, qui coquebant panem, primum sub cinere, postea in forno – cuius [utriusque] vocabulum a formo ductum, id est a caldore 1: coquebant DA; cocebat (coq-) cett. | primum om. CADA | cinerem codd., corr. Paris. 7666; 1-2: cuius – caldore dubitanter Varroni tribui; Nonio trib. Quicherat, Rip., Sal.; secl. Müller | utriusque fort. secl. Lindsay | a BA, om. rell. | forno codd., corr. Passerat (cfr. Non. lemm.) | dictum CADA Non. p. 852.24-853.2: FORNVM et FORNACES dicuntur a formo quod est calido: inde forcipes, quod candens teneant ferrum […] Varro de vita populi Romani lib. I (cit.) 1: forno codd., corr. Passerat
(erano chiamati) cocula i recipienti con cui cuocevano il pane, in un primo tempo sotto la cenere (del focolare), in seguito, nel forno – termine che deriva da formus, che significa “calore” Anche questo frammento riguarda la produzione del pane. Varrone parla di un particolare tipo di teglie impiegate per la cottura dell’impasto del pane dette “cocula” (cfr. Paul. p. 34.24 L., cocula vasa aenea, coctionibus apta). Alla nota linguistica si accompagna un’informazione di carattere antiquario: prima dell’introduzione del forno, il pane, adagiato nei “cocula”, veniva cotto “sub cinere” (“al testo”), cioè era posto al di sotto di una tegola di ceramica che veniva ricoperta a sua volta con la cenere calda del focolare. Questa interpretazione è confermata da Ov. fast. 6, 313-317 (vedi Frazer 1929, vol. IV, p. 230 e Littlewood 2006, pp. 100-101), sola prius furnis torrebant farra coloni / (et Fornacali sunt sua sacra deae): / subpositum cineri panem focus ipse parabat, / strataque erat tepido tegula quassa solo. / inde focum servat pistor, dove non solo il concetto è espresso in termini più chiari rispetto a quanto faccia Varrone con “sub cinere”, ma, tramite la contrapposizione “prius … inde”, è resa anche la stessa successione (che si riscontra nel frammento: “primum … postea”) fra una prima fase, in cui non si adoperava ancora il forno per la cottura del pane e non esistevano i “pistores” (cfr. fr. 27), e un secondo periodo, in cui l’uso del forno diventa comune; sull’introduzione 150
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dei forni a Roma, cfr. Ov. fast. 2, 521-526. Lo stesso processo di evoluzione dei metodi di cottura del pane è presentato anche da Seneca all’interno di un quadro storico sul progresso della civiltà (ep. 90.23; Seneca indica Posidonio come la propria fonte per questo excursus): (aliquis) tum farinam aqua sparsit et adsidua tractatione perdomuit finxitque panem, quem primo cinis calidus et fervens testa percoxit, deinde furni paulatim reperti. Per lo strumentale “qui”, cfr. fr. 26 e l. L. 5, 21, hinc in messi tritura, quod tum frumentum teritur, et trivolum, qui teritur. Resterebbe una questione sul contesto del frammento. Io lo lego alle altre citazioni relative all’alimentazione e alla lavorazione dei cereali; anche se il contenuto del frammento riguarda i recipienti in cui il pane veniva cotto piuttosto che il pane in sé. Si potrebbe dunque anche ipotizzare che il frammento, nel de vita, non comparisse all’interno della sezione sugli alimenti, bensì nell’ambito della trattazione dei diversi tipi di contenitori (in particolare, dei “vasa escaria”). Pur segnalando questa possibilità alternativa, preferisco tuttavia collocarlo dopo il fr. 28, in quanto il discorso sull’evoluzione dei modi di cottura del pane si può accostare bene a quello compiuto nell’altro frammento sulle antiche mansioni dei “pistores”. Questo tipo di informazioni, infatti, si spiegherebbe bene nel contesto di una sezione sul progresso dell’alimentazione a Roma, mentre costituirebbe un’aggiunta fuori luogo in una sezione il cui argomento principale non fosse tanto “il pane”, quanto “i recipienti”. Il modo in cui la citazione è riportata merita un po’ di attenzione. Nonio, nella definizione, dice che i termini “fornus” (accolgo la variante grafica “fornus”112 rispetto a “furnus”, in quanto si adatterebbe meglio alla derivazione “a formo” proposta da Nonio e probabilmente anche da Varrone113; più problematico è il fatto che Nonio qui dia l’unica attestazione nota di “fornum” al neutro: poiché nel frammento citato il termine non compare al nominativo, preferisco pensare a una confusione da parte di Nonio stesso, che potrebbe aver erroneamente tratto dal testo “in forno” una inesistente forma “fornum”, piuttosto che postulare una corruttela del verbo “dicuntur”, da correggere in “dicunt”) e “fornaces” derivano dall’aggettivo arcaico “formus, -a, -um”, che avrebbe il significato di “caldo” (intendo la glossa noniana “a formo quod est calido” prendendo “quod est” come un equivalente di “id est”: “da formus cioè calidus”; pertanto, ho deciso di non porre una virgola dopo “formo”, come fa Lindsay, il che indurrebbe a prendere “quod est Vedi ThLL VI, 1 1622.14-17. Cfr. il caso analogo di “colina” al fr. 24.
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calido” come una relativa a sé e quindi a pensare a una corruttela del testo a partire da qualcosa come “a formo, quod est calidum” o “a formo, quod est a calido”). La nota di Nonio prosegue riportando la notizia che da “formus” deriva anche il termine “forcipes” e citando un verso di Virgilio (Aen. 8, 453) come prova a favore di questa etimologia. Di seguito, è finalmente trasmesso il frammento dal de vita. Ora, il punto problematico sta nella questione se si debba limitare la citazione di Varrone alla frase “cocula, qui coquebant panem, primum sub cinere, postea in forno” (come fanno Riposati e Salvadore, sulla scorta di Quicherat) oppure se vada considerata come appartenente al frammento anche la nota successiva “cuius utriusque vocabulum a formo ductum, id est a caldore”. Attribuendo questa frase a Nonio (come fanno i più recenti editori), sorgono diverse difficoltà: da un lato, il grammatico ripeterebbe esattamente la stessa cosa in termini molto simili a breve distanza; dall’altro, non si capirebbe per quale motivo dovesse citare un frammento del de vita dove si leggerebbe soltanto “in forno”, ma non vi sarebbe traccia dell’etimologia “a formo” cui è dedicato il lemma. Questo dato va contro il metodo di lavoro abituale di Nonio, che evita in genere di aggiungere proprio materiale, ma si limita a parafrasare in modo pedissequo quanto legge nelle fonti che cita. In questo caso, pensando che l’ultima frase sia di Nonio e non di Varrone, si dovrebbe postulare che il grammatico avesse trovato in qualche fonte (una nota di commento al verso di Virgilio citato, che andrebbe dunque considerato come una citazione primaria?) l’etimologia di “fornus” e “forcipes” da “formus”, avesse deciso di costruire, sulla base di questa notizia, una voce del proprio glossario e poi, dopo aver riscontrato nei suoi appunti il frammento del de vita (che sarebbe quindi una citazione secondaria), avesse deciso di inserirlo (in modo piuttosto maldestro) nella voce. Tutto questo processo, pur non impossibile, resta piuttosto complesso e non riesce a spiegare né il perché della inutile ripetizione “a formo quod est calido” – “a formo ductum, id est a caldore”, né come mai soltanto qui Nonio mostri tanta indipendenza nel maneggiare il proprio materiale. Ritengo che tutto diventerebbe molto più semplice, chiaro e conforme al metodo di lavoro di Nonio se si attribuisse anche l’ultima frase a Varrone. Se il frammento dal de vita conteneva l’etimologia di “fornus” da “formus”, Nonio si sarebbe limitato a parafrasare quanto leggeva nella citazione varroniana (commettendo qualche errore di grammatica, come “fornum”, o qualche durezza sintattica, come nel caso di “id est a caldore” reso con “quod est calido”, vedi supra): in questo modo si spiegherebbe agevolmente come mai la stessa informazione sia duplica152
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ta. Per quanto riguarda “et fornaces”, sebbene sia possibile pensare che il testo di Varrone consultato da Nonio avesse una menzione anche delle fornaci (qualcosa come “in forno – cuius … vocabulum a formo ductum, id est a caldore, unde et fornaces”), preferisco supporre che si tratti di un’aggiunta di Nonio stesso che, partendo dall’etimologia varroniana, potrebbe aver pensato che questa potesse valere, come per “fornus”, anche per “fornaces”. Secondo questa ricostruzione, poi, la notizia che da “formus” deriva anche il termine “forcipes” sarebbe un’aggiunta di Nonio apposta in un secondo momento (una sorta di citazione secondaria), forse presa da una nota di commento posta a margine del verso di Virgilio citato (nel volume di Virgilio consultato da Nonio) dove era segnalata questa etimologia. Si può sospettare che le cose siano andate così dal fatto che tutta la frase “inde forcipes – massam” sembra interrompere, come un inserto posteriore, la forma originaria del lemma, logicamente sensata: “fornum et fornaces dicuntur a formo, quod est calido, Varro de vita populi Romani lib. I: (cit.)”. In accordo con questa ipotesi il frammento del de vita corrisponderebbe alla citazione: “cocula, qui coquebant panem, primum sub cinere, postea in forno – cuius utriusque vocabulum a formo ductum, id est a caldore”. Come si vede, ancora non torna tutto, ma un problema è posto da “utriusque”. Innanzi tutto, non è chiaro a cosa esso si riferisca (a “fornus” e “fornaces” o a “fornus” e “forcipes”? E, in ogni caso, se “utriusque” fosse testo di Varrone, ciò non sarebbe in contrasto con la nostra ipotesi che sia “et fornaces” sia il discorso sul termine “forcipes” siano aggiunte di Nonio alla parte della voce derivata da Varrone?). Sospetto che proprio la presenza di “utriusque” sia stata la causa dell’attribuzione, a partire da Quicherat, dell’ultima frase a Nonio e non a Varrone (Müller addirittura la espunge). Tenuto conto, però, di tutti gli altri problemi che comporterebbe l’attribuzione a Nonio (vedi supra), ritengo più economico considerare la frase parte del frammento di Varrone e pensare che “utriusque” sia una corruttela. In questa direzione va appunto la proposta di Lindsay (in apparato) di espungere “utriusque” come glossa. Questa mi sembra la soluzione migliore: un interpolatore, o vedendo il lemma “FORNVM et FORNACES” o notando che nella voce si parlava sia di “fornus” sia di “forcipes”, avrebbe potuto aggiungere “utriusque” per far tornare, a suo parere, le cose. Che “utriusque” sia un’interpolazione è suggerito anche dal fatto che ingarbuglia la sintassi: mentre “cuius vocabulum a formo ductum” si capisce (“cuius (sc. forni)” sarebbe un genitivo di denominazione; per un esempio analogo in Varrone, cfr. l. L. 5, 155, Rostra, cuius id vocabulum, ex hostibus capta fixa sunt rostra (“i 153
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Rostra, la cui etimologia è questa…”); il confronto, ovviamente, costituisce anche una buona prova a favore dell’attribuzione dell’ultima parte del frammento a Varrone e non a Nonio), “il termine ‘forno’ è derivato da formus”, con “cuius utriusque vocabulum” il testo non torna più (sarebbe più normale qualcosa come “utriusque vocabuli nomen a formo ductum”, senza “cuius”; e comunque il senso di “utriusque” non sarebbe chiaro). Per questo motivo accolgo il suggerimento di Lindsay e lo espungo. In alternativa, si potrebbe anche pensare che “utriusque” sia l’esito corrotto di una parola presente nel testo di Varrone, ad esempio “utique”. Tuttavia, non nego che, con il testo “cuius utique vocabulum”, l’avverbio sarebbe piuttosto superfluo e non sfuggirebbe al sospetto di essere una zeppa. Per quanto riguarda l’etimologia proposta da Varrone, questa fa derivare “fornus” da “formus”, un aggettivo arcaico ben attestato che ha appunto il significato di “caldo” e da cui un’ampia tradizione grammaticale fa derivare, oltre ai termini presenti nella voce noniana “fornus”, “fornaces” e “forcipes”, anche il termine “forma” (vedi ThLL VI, 1 1117.67-78; cfr. Paul. p. 73 L., forma significat modo faciem cuiusque rei, modo calidam; Paul. p. 74 L., forcipes dicuntur quod his forma id est calida capiantur; GL V 22.3, fornum: calidum). Questi paralleli, inoltre, autorizzano ad accogliere la correzione di Quicherat “formo”, dove i codici hanno la banalizzazione “forno”. In particolare, l’espressione di Varrone “a formo … id est a caldore” trova un interessante riscontro in Don. ad Ter. Phorm. 107: fornum veteres ignem et calorem quendam quasi fervorem dixerunt, et ideo fornaces, forcipes, formam et formosos, ex quibus amoris ignis exsolvitur (cfr. ad Ter. Phorm. 108, bene ‘extinguerent’, quia forma calor … et forma ab igne et calore dicta est). La vicinanza con il nostro frammento è innegabile; inoltre, vi sono due fattori che meritano di essere segnalati. Per prima cosa, “fornum” non è tradito uniformemente da tutti i codici: stando a Wessner, R presenta una lezione strana, complicata da un segno di abbreviazione (for’um), mentre O ha “formam” e V “forma fornum”. In secondo luogo, la nota di Donato si riferisce ai vv. 107-108 del Phormio, dove compare il termine “forma”: nella sua spiegazione il grammatico ripete più volte che il vocabolo “forma” (bellezza) è connesso al concetto di “calore” e che la volontà di giocare con l’etimologia di “forma” avrebbe spinto Terenzio a usare il verbo “extinguerent” (adatto appunto a un oggetto come “fuoco” o “calore”). Ora, credo che questi due dati da un lato e il confronto col frammento del de vita dall’altro portino a sospettare che in Donato “fornum” vada corretto in “formum”. Infatti è “formus”, non “fornus”, l’arcaico sinonimo di “calor”, senza 154
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contare che la nota donatiana è volta a commentare il termine “forma”, mentre nel passo di Terenzio glossato non c’è alcuna menzione di forni. Con “formum” tutto il passo acquisterebbe maggior senso: dovendo chiarire perché Terenzio abbia scritto “formam extinguerent”, Donato avrebbe ricondotto il termine “formam” all’aggettivo “formus = calidus” e avrebbe citato (come del resto anche Nonio) gli altri vocaboli che tradizionalmente si facevano derivare da “formus” (“fornaces”, “forcipes”, “fomosus”). Tracce dell’originaria lezione “formum” sarebbero rimaste in alcuni codici: O la banalizza in “forma” (probabilmente per influsso del lemma), mentre R la corrompe in una forma strana, forse frutto di un uso scorretto dei compendi (formum > forūm > for’um), ma che comunque rinvia a “formum” (forma rara che poteva essere fraintesa) piuttosto che a “fornum” (voce comune, che non avrebbe motivi particolari di corrompersi). Quanto a V, la compresenza di “forma” e “fornum” potrebbe essere dovuta o a un intervento del copista (“forma” potrebbe essere lo scioglimento di una delle lettere con cui è abbreviato il lemma: dato che il termine “forma”, oggetto della discussione dell’intera nota, nel lemma compare abbreviato con una semplice F., un copista potrebbe aver sciolto questa abbreviazione per rendere più chiaro il legame fra lemma e glossa) o anche a contaminazione. 29 (= 33 R.; 309 S.) pastillos et panes; haec vocabula a pastu sunt, quod esse pascere dicebant 1: hae L | a pastu sunt (vel a pastu) Müller; pastus codd., Lindsay, Rip., Sal. | esset codd., corr. Müller Non. p. 88.24-27: PANIS proprietatem a pascendo putant veteres aestimandam. Varro de vita populi Romani lib. I aestimandum codd., corr. edd.
pagnotte (pastillos) e pani; questi termini derivano da pastus (cibo), poiché usavano il verbo pascere per dire “mangiare” Nel discutere i due frammenti precedenti, che si è detto potevano appartenere a una sezione sul tema “come sono cambiati gli usi alimentari dei Romani dall’età monarchica ad oggi” (analoga a quelle sul pane e sul vino presenti in Plinio, vedi supra), ho ipotizzato che questa parte fosse una sorta di introduzione all’analisi specifica del tema “pane e cereali”. Per questo motivo, ho stampato i due frammen155
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ti a carattere storico-antiquario prima di una serie di citazioni (aperte da questo frammento), che forniscono l’etimologia di alcuni tipi di vivande e cereali. Ovviamente, a livello teorico è altrettanto possibile che Varrone prima desse l’etimologia di termini come “panis” ed “adoreum” e poi passasse alla digressione sui modi antichi di fare il pane. In tal caso, l’ordine ipotizzabile per le due sezioni sarebbe l’inverso rispetto a quello da me proposto e i frr. 27 e 28 andrebbero stampati dopo quelli che, nella mia numerazione, sono i frr. 29, 30, 31 e 32. Poiché non vi sono motivi specifici a favore o contro una delle due soluzioni, le presento entrambe. Il frammento fornisce l’etimologia del termine “panis” e del suo diminutivo “pastillus”, che vengono ricondotti al verbo “pascere”, a sua volta glossato con “esse”. La derivazione proposta da Varrone è corretta per quanto riguarda “pastus” (vedi Ernout - Meillet p. 860), mentre è controverso se “panis” derivi da “pasco”, sebbene il diminutivo “pastillus” induca a credere che la forma originaria di “panis” fosse in effetti “pasnis” (vedi Ernout - Meillet p. 849). Il testo tradito dai codici “vocabula pastus” e accolto da Riposati e Salvadore mi sembra francamente intraducibile. Infatti, pur tentando di assegnare un senso a questo testo («pastilli e panes sono nomi di cibo, cioè termini per indicare il cibo, poiché…»), la struttura logica della frase sarebbe traballante e l’espressione risulterebbe dura. Per questo accolgo la congettura di Müller “a pastu sunt” (“a” si sarebbe perso per una banale aplografia, da “vocabulaapastu”, mentre “sunt”, compendiato con una “s” con titulus, sarebbe stato aggregato a “pastu” e preso per parte della desinenza di un genitivo). In questo modo il discorso avrebbe un andamento coerente: “pastilli” e “panes” derivano dal termine “pastus”, che a sua volta viene da “pascere”, equivalente arcaico del più comune “esse”. 30 (= 35 R.; 310 S.) proinde ut elixum panem ex farre et aqua frigida fingebant 1: ferre La.c. Non. p. 86.6-12: LIXARVM proprietas haec est, quod officium sustineant militibus aquae vehendae; lixam namque aquam veteres vocaverunt; unde elixum dicimus aqua coctum. lixa etiam cinis dicitur vel umor cineri mixtus; nam etiamnunc id genus lexivum vocatur. Varro de vita populi Romani lib. I. 3: lix etiam codd., corr. Müller
così come dalla farina e dall’acqua fredda davano forma al pane detto elixus 156
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Il frammento, nonostante l’apparente semplicità, pone diversi problemi di difficile soluzione. Varrone sta probabilmente parlando delle diverse forme di pane che venivano impastate dagli antichi Romani. Poiché la citazione è aperta da “proinde ut”, presuppone necessariamente un riferimento a qualcosa escluso dal taglio di Nonio. In base al contesto, si può supporre che la parte perduta del frammento menzionasse o un tipo di pagnotte che venivano impastate “così come si fa con il pane elixus” o una miscela di farina e acqua analoga a quella adoperata per la pasta di questo tipo di pane (la perdita del contesto impedisce di decidere fra le due ipotesi). La difficoltà principale del passo consiste nel capire cosa esattamente fosse il pane “elixus”. Il termine “elixus”, infatti, ha sempre il significato di “bollito in acqua calda” (vedi ThLL V 394.10-73; cfr. l’italiano “lesso” e il lemma di Nonio, “aqua coctum”), il che si concilia male con quanto detto nel frammento, dove si parla di “farre et aqua frigida”. Dunque il sintagma “ex farre et aqua frigida” non può essere legato a “elixum” (il che porterebbe all’assurdo di avere un pane bollito in acqua fredda), ma va riferito a “fingebant” e considerato una sorta di attributo di “panem”. Così si ottiene un senso accettabile (“impastavano il pane elixus con farro e acqua fredda”), anche se è necessaria una piccola precisazione. “Fingo”, infatti, è impiegato come verbo tecnico per indicare non tanto l’atto di impastare, quanto l’operazione con cui la pasta di pane, una volta pronta e lievitata, viene divisa e plasmata in forma di pagnotte (vedi ThLL VI, 1 770.64771.32): nelle ricette di vari tipi di focacce date da Cato agr. 76-84 “fingo” è sempre usato in questa accezione e l’atto di “fingere” è logicamente sempre posto dopo quello di impastare; si veda anche il brano di Seneca citato per il fr. 28, “finxitque panem”. Certo, è possibile che Varrone, per motivi di sintesi, considerasse come un tutt’uno le due operazioni e con “fingebant ex farre et aqua” intendesse, in modo conciso, “impastavano farina di farro e acqua fredda e ne traevano forme di pane”. Tornando alla questione principale, si pone la domanda: cos’era il pane “elixus”? Poiché non ci sono fonti parallele che parlino di questo alimento, si possono proporre delle ipotesi solo sulla base della scarna citazione di Nonio. Ora, stando all’uso comune di “elixus”, per “panis elixus” si dovrebbe intendere, a senso, o una zuppa di pane raffermo bollito, una sorta di “pancotto”, o una pasta di pane cotta “a bagnomaria” in forme immerse nell’acqua bollente, come indicato in una ricetta di Catone (agr. 81: id indito in irneam fictilem, eam demittito 157
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in aulam aheneam aquae calidae plenam. ita coquito ad ignem: ubi coctum erit, irneam confringito). Seguendo questa ipotesi, si dovrebbe ipotizzare la caduta nel seguito del frammento di qualcosa che chiarisse il processo in base al quale l’impasto di farro e acqua veniva cotto fino a ottenere il “panis elixus”: il testo potrebbe essere qualcosa come “elixum panem ex farre et aqua frigida fingebant . La soluzione sarebbe ardita, ma ritengo che volendo intendere “elixum panem” come “pane cotto” sia necessario integrare il testo in modo più o meno massiccio. Una seconda soluzione potrebbe venire interpretando il testo in modo del tutto diverso. Varie fonti grammaticali (fra cui Nonio stesso in questo lemma) dicono infatti che “lixa” era un termine arcaico per dire “acqua” (vedi ThLL VII 1551, 12-18). Purtroppo disponiamo soltanto di questa informazione, ma non è pervenuto alcun passo in cui si trovi effettivamente il termine “lixa” in questo senso (come dice il Thesaurus, “exempla desunt”). Ciò nonostante, credo che l’informazione possa servire come base per supporre che “elixus” in origine potesse avere il significato generico di “fatto con acqua”, oltre a quello specifico di “cotto nell’acqua”, poi divenuto l’unico ammesso. Il senso di “panis elixus” dunque, potrebbe essere quello di “pane impastato esclusivamente con farro e acqua”, senza l’aggiunta di alcun altro ingrediente (penso soprattutto al sale; d’altro canto, Plinio, n. h. 18, 105, parla di pane impastato con uova o latte come di un prodotto “da barbari”, non originario della cultura romana: anche Varrone avrebbe potuto dire che il pane dei primi Romani era realizzato soltanto con acqua e farina). Il pane “elixus” di cui parla Varrone potrebbe essere dunque una sorta di “pane sciapo”, impastato senza sale (di ἄρτος ἄναλος parla anche Arist. probl. 21.5). Un indizio a favore di questa ricostruzione si potrebbe celare in un passo di Plinio dove a Varrone è esplicitamente attribuita la notizia che gli antichi Romani usavano il sale come “companatico”: n. h. 31, 89, Varro etiam pulmentarii vice usos veteres auctor est et salem cum pane esitasse eos proverbio apparet (tutto il paragrafo 89, dedicato all’introduzione a Roma del sale e al valore che esso aveva nei tempi più antichi, è vicinissimo alle analoghe digressioni pliniane su vino e pane, per cui si è ipotizzata una provenienza da Varrone e forse proprio dal de vita, vedi frr. 26 e 118). Ora, se gli antichi condivano il pane col sale, potrebbe risultarne che il pane non comprendeva il sale nell’impasto; quindi la mia interpretazione di “elixus” come “fatto solo di acqua e farina” verrebbe in parte confermata. Questa proposta potrebbe forse chiarire meglio delle altre il 158
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senso del frammento, per quanto vada riconosciuto che si fonda, purtroppo, su di un elemento negativo (l’assenza di una menzione del sale nel frammento) e che quindi non può costituire una soluzione sicura. Una terza ipotesi (che tuttavia ritengo essere la meno probabile di tutte) potrebbe considerare il pane “elixus” del frammento di Varrone come un qualcosa di simile al pane “aquaticus” di cui parla Plinio a n. h. 18, 105 (così detto “quoniam aqua trahitur ad tenuem et spongiosam inanitatem”). Una tale identificazione darebbe senza dubbio un testo sensato: il pane “elixus” (che potremmo tradurre a questo punto come “annacquato”) era lavorato con molta acqua fino a diventare particolarmente morbido e poroso. Il problema è che Plinio dice che questo tipo di pane era stato introdotto a Roma “da non molto tempo” (“non pridem”) e che era stato inventato e diffuso tra i Romani dai Parti. Entrambi i dati rendono perciò improbabile che il pane “elixus” di Varrone e quello “aquaticus” di Plinio siano la stessa cosa: per quanto il “non pridem” poteva trovarsi già nella fonte usata da Plinio e quindi non riferirsi ai suoi tempi, è comunque impossibile alzare la datazione dell’introduzione di questo tipo di pane fino all’età monarchica (periodo coperto dal primo libro del de vita); inoltre, poiché il regno dei Parti ebbe la sua fondazione nel 253 a.C., non si possono attribuire all’epoca dei re di Roma scambi fra i Romani e un popolo che allora ancora non esisteva. 31 (= 36a R.; 311 S.) a farre; quod adoreum est, quo scelerati uti non debeant, non triticum, sed far. hoc quoque idem adsignificat quod qui indigni sunt qui vivant nefarii vocantur 1: a farre Nonio trib. Kettner, Müller, Sal.(?); Varroni trib. Lindsay, Rip.; dubitanter Varroni tribui (sed possis et a farre quod Nonio tribuere) | adhorreum La.c.; ad reum CA | quo F3 (ex in quo) DA; in quo LBACA; id quo Onions, Lindsay, Rip., Sal.; 2: hoc quoque … vocantur (vocentur Müller) Varroni tribui (praeeunte Sal. qui qui indigni sunt qui vivant nefarii vocantur Varroni tribuit); Nonio tribuerunt edd. Non. p. 82.5-9: NEFARII proprietatem in lib. I de vita populi Romani Varro patefecit: 1: patefecit F3CADA; patefacit LBA
(il termine nefarius deriva) da “farro” poiché l’adoreum, il cui consumo è interdetto a chi ha commesso un delitto, non è il frumento, ma il farro. Indica la stessa cosa anche questo, il fatto che sono detti nefarii gli uomini indegni di vivere
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Il frammento fornisce una particolare etimologia del termine “nefarius” (che è in realtà un derivato di “fas”, vedi Ernout - Meillet p. 387), associato da Varrone a “far”: l’aggettivo trarrebbe la sua origine dal fatto che alle persone bollate come “nefarii” era vietato l’uso dell’adoreum (un tipo di farro, vedi Paul. p. 3.19 L.); questa derivazione è proposta anche da Isidoro (et. 10, 188; diff. 83 Codoñer, nefarius, ut Varro aestimat, non dignus farre; Riposati stampa questo passo come un frammento del de vita, scelta forse eccesiva, dato che potrebbe derivare anche da un’altra opera linguistica o antiquaria del Reatino). Se il contenuto della citazione è chiaro, alcuni punti del testo meritano di essere discussi. Il primo problema riguarda l’individuazione del punto esatto in cui termina la voce di Nonio e inizia la citazione da Varrone. Lindsay e Riposati considerano le parole “nefarii proprietatem in lib. I de vita populi Romani Varro patefecit” come di Nonio e attribuiscono a Varrone già “a farre”. Kettner, invece, seguito da Müller, attribuisce anche “a farre” a Nonio e considera testo varroniano solo la stringa che va da “quod” a “far” (non è chiara la posizione di Salvadore, che, stampando il fr. 311 (p. 66), sembra seguire questa seconda scelta, ma, dando il testo del fr. 312, adotta una punteggiatura che invece avrebbe senso soltanto attribuendo “a farre” a Varrone). Fra le due posizioni, preferisco, pur con qualche riserva, adottare quella di Lindsay e Riposati. Escludendo “a farre” dal frammento, infatti, la causale che costituisce la citazione sarebbe priva di un referente, mentre il discorso ivi condotto sembra richiedere proprio la presenza di “a farre” (ovviamente questo discorso è valido solo attribuendo con certezza “quod” a Varrone; qualora si considerasse anche “quod” testo noniano, questa osservazione non avrebbe più senso). Con “a farre” tutto il frammento acquista una sua logicità: “nefarius” viene da “farro”, perché l’adoreum, che il “nefarius” non può mangiare, è appunto il farro. Che poi il lemma di Nonio debba finire con “patefecit” sarebbe provato dal fatto che molte voci noniane sono costruite così, sempre chiuse dal verbo che indica l’azione dell’autore (ad esempio: p. 35.11-12, fidei proprietatem exemplo manifestavit M. Tullius de republica lib. IV (cit.); p. 35.27-28, calendarum vocabulum proprium Varro complexus est, de vita populi Romani lib. I (cit.); p. 35.31-32, consulum et praetorum proprietas, quod consulant et praeeant populis, auctoritate Varronis ostenditur, de vita populi Romani lib. II (cit.); p. 42.22, mediocritatem medium dici voluit M. Tullius de officiis lib. I (cit.); p. 43.1-2, modestiam a modo dictam M. Tullius auctor est de officiis lib. I (cit.)). Non si può tuttavia negare che in alcuni dei passi sopra ripor160
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tati (CONSVLUM et PRAETORVM; MODESTIAM) la parafrasi di Nonio anticipa l’etimologia che sarà poi espressa nella citazione: questo dato potrebbe dunque anche capovolgere il nostro ragionamento ed essere usato per dire che “a farre” non faccia parte del frammento, ma che appartenga ancora alla frase introduttiva di Nonio. Tenuto conto di questa anomalia, come seconda possibilità si potrebbe anche ipotizzare che qui Nonio stia parafrasando un luogo più ampio di Varrone e che gli vada attribuita non solo la stringa “a farre”, ma anche “quod” (a quanto mi risulta, questa seconda proposta non è stata finora avanzata da nessun editore). In questo modo, il frammento di Varrone partirebbe dal termine “adoreum” e verrebbe a dire “l’adoreum, che non può essere consumato da un nefarius, non è il frumento, ma il grano”, mentre tutto il contesto di questa citazione sarebbe riassunto da Nonio con le parole “nefarii proprietatem in lib. I de vita populi Romani Varro patefecit a farre quod (cit.)”. In linea teorica nulla si oppone anche a questa possibilità. Comunque, va ammesso che neanche questa proposta si sottrae ad alcune difficoltà. In primo luogo, la sintassi resta anomala, in quanto sarebbe molto più normale un ordo “nefarii proprietatem a farre … Varro patefecit, quod” (cfr. “modestiam a modo dictam”). In secondo luogo, se si attribuisce a Varrone l’ultima parte della voce “NEFARII” (da “hoc quoque idem adsignificat” a “vocantur”, vedi infra), il rimando “hoc quoque” richiederebbe una causale anche nel testo di Varrone immediatamente precedente, altrimenti tutta la frase non sarebbe comprensibile. A questo punto, se dobbiamo in ogni caso integrare a senso un “nefarius a farre vocatus, quod” prima di “adoreum”, tanto vale accogliere quello che già è a testo e attribuire “a farre quod” a Varrone. Un’altra questione riguarda la correzione di Onions “id quo”, accolta da tutti gli editori successivi, dove i codici hanno o “quo” o “in quo”. Lindsay sospetta che l’archetipo avesse corrotto il giusto “id quo” in “iquo” e che questa forma sia a sua volta degenerata in “in quo”, lezione dei codici noniani (“quo” in DA sarebbe una ulteriore corruttela, mentre l’espunzione di “in” compiuta da F3 potrebbe essere un intervento congetturale di Lupo di Ferrières). Ora, ritengo che questa ricostruzione sia eccessivamente macchinosa e considero più economico supporre un processo differente: l’archetipo poteva avere “quo”, corrottosi in “in quo” (forse come tentativo di normalizzare la sintassi dura del frammento) nel capostipite delle tre famiglie costituite da L, dal gruppo BA e dai gruppi CADA, che infatti tramandano “in quo” (“quo” dei codici di DA si può spiegare pensando che 161
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il padre dei codici di questo sottogruppo o avesse omesso “in” per una svista o lo avesse espunto per congettura). F3, che risale a un ramo indipendente della tradizione, avrebbe invece potuto trovare “quo” nel codice da lui consultato e quindi espunto “in” da F. Preferisco dunque pensare che la lezione dell’archetipo fosse “quo”, non un ipotetico “iquo”. A questo punto, va discusso se si possa accogliere il testo tradito “quo” (“in quo”, del resto, non dà senso) o se esso vada emendato. Ora, il testo di Onions, accolto da Lindsay, Riposati e Salvadore, presenta, a mio parere, una certa durezza. Con “quod adoreum est id quo scelerati uti non debeant non triticum, sed far” si viene infatti a creare un testo dalla sintassi contorta, dove non si comprende se “est” debba reggere “id” o “far”. Infatti, a una prima lettura di questo testo, verrebbe normale intendere “adoreum est id quo …” e tradurre “adoreum è ciò che gli scellerati non possono consumare”, ma questo dato si scontra col successivo “non triticum, sed far”. Anche la struttura argomentativa del passo richiederebbe che “adoreum est” sia legato piuttosto a “non triticum, sed far”, poiché solo così si spiega la derivazione di “nefarius” da “far” (a Varrone non importa dire che l’adoreum è il cereale che il “nefarius” non può usare, ma che l’adoreum è il farro, perché così si può spiegare l’etimologia “nefarius a farre”). L’unico modo di rendere accettabile questo testo sarebbe prendere tutto il blocco “id quo scelerati uti non debeant” come una parentetica (il senso sarebbe “nefarius deriva da farro perché l’adoreum – ciò che gli scellerati non devono consumare – non è il grano, ma il farro”). Deduco dall’interpunzione adottata dagli editori che accolgono “id quo” che essi abbiano inteso il frammento in questo senso. Tuttavia, in una parentetica del genere “id” sarebbe superfluo (è nell’uso di Varrone omettere il prolettico di un relativo, vedi fr. 9, “in asylum qui confugisset panis daretur”), per cui riterrei più consono allo stile varroniano il testo, “quod adoreum est – quo scelerati uti non debeant – non triticum, sed far”. Per questi motivi ho scelto di non accogliere la correzione “id quo”, ma di mantenere “quo” di F3. Del resto, “quo” potrebbe anche essere inteso come un relativo riferito ad “adoreum”, senza dover presupporre un altro termine (“id”) che lo regga. Interpretando il testo in questo modo, si otterrebbe forse il discorso logicamente più coerente (“l’adoreum, che gli scellerati non devono consumare, non è il grano, ma il farro”). L’unico punto debole di questa lettura è posto dalla posizione di “est”, che starebbe meglio dopo “non”, in modo che “adoreum” e “quo” siano a stretto contatto (“adoreum, quo scelerati…, non est triticum”). Ora, preferirei non intervenire trasponendo “est”, il che sarebbe una totale ri162
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scrittura del frammento, ma considererei la sintassi un po’ dura della frase come una delle tante scabrosità dello stile varroniano, comunque più tollerabile rispetto al testo che si avrebbe adottando “id quo”. Dopo la citazione del fr. 31, il lemma “nefarii” prosegue con la nota “hoc quoque … vocantur”. Gli editori fino a Salvadore considerano questa frase come un commento aggiuntivo di Nonio al fr. 31 e, di conseguenza, la escludono dal testo del frammento del de vita. Salvadore, invece, propone di intendere come varroniane le parole “qui indigni sint qui vivant nefarii vocantur”. Presumo che alla base di questa attribuzione sia la lettura di “idem” come di un nominativo maschile, riferito a senso a “Varro”. Il lemma noniano, secondo questa proposta, direbbe “Varrone ha chiarito l’etimologia di ‘nefarius’ da farro, perché gli scellerati non devono consumare l’adoreum, che è il farro; lo stesso Varrone esprime anche questo concetto, che ‘le persone indegne di vivere sono dette nefarii’”. Tuttavia credo che la struttura della frase non permetta di interpretare “idem” in questo senso. Riterrei piuttosto che “idem” vada inteso come un accusativo neutro retto da “adsignificat” (il soggetto sarebbe la dichiarativa che segue, anticipata da “hoc” epesegetico). Conseguentemente, tradurrei: “indica la stessa cosa (cioè quanto detto prima, che nefarius deriva da far ecc.) anche questo, il fatto che le persone indegne di vivere sono dette nefarii”. Credo che solo così la frase possa essere connessa in modo logico con quanto precede: viene presentato un ulteriore argomento a favore dell’etimologia proposta nel fr. 31, un dato che appunto “idem adsignificat”, indica la stessa cosa. Del resto, il senso proprio di “adsignifico” (vedi ThLL II 889.76-890.14) è quello di “essere una prova di”, per cui l’interpretazione secondo cui andrebbe inteso “idem (Varro) adsignificat” non è del tutto illegittima. Questa lettura del testo, lungi dal negare l’attribuzione della nota a Varrone, potrebbe costituire la base per considerare tutta la pericope “hoc quoque … vocantur” (e non soltanto “qui indigni sunt qui vivant nefarii vocantur”) come varroniana. La frase costituirebbe dunque non tanto una nota di Nonio in cui è fornita una prova in più della derivazione “nefarius a farre” desunta da un altro luogo del de vita, quanto la semplice prosecuzione del fr. 31. Varrone, dopo aver detto che “nefarius” deriva da “far” perché l’“adoreum” è il farro, poteva aggiungere una seconda prova a favore della sua etimologia, espressa appunto nella pericope “hoc quoque … vocantur”, che presenta un andamento sintattico abbastanza “varroniano”. Propongo dunque di stampare anche questa porzione del lemma noniano come un frammento del de vita, dando di “idem” la lettura sopra presentata. 163
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32 (= 36c R.; 312 S.) (Non. p. 82.9-10) adoreum quoque ab eo dictum putat (sc. Varro) quod cibi ora, id est principium, sit far 1: adhorreum La.c.
Varrone ritiene che il termine adoreum venga anche dal fatto che il farro sia il limite, vale a dire il punto di partenza dell’alimentazione (cibi ora) Subito dopo il lemma “nefarii”, Nonio riporta una nuova voce: “adoreum”. Questo lemma va considerato alla stregua di una citazione secondaria del lemma precedente, in quanto si riconnette al discorso sull’adoreum con l’aggiunta di una nota linguistica che fornisce l’etimologia del termine (in realtà di origine non romana, vedi Ernout- Meillet, p. 16). Che questa frase sia una prosecuzione di quanto precede è confermato dal fatto che Nonio, limitandosi a un semplice “putat”, dà per scontata la fonte dell’informazione (pratica del tutto anomala in Nonio, che si comprende solo pensando che la frase faccia tutt’uno col discorso precedente e che quindi il soggetto di “putat” non possa essere altri che “Varro in lib. I de vita populi Romani”). Nella citazione precedente è detto che l’adoreum è il farro; Nonio a questo punto fornisce una sorta di rimando a un altro passo dell’opera in cui l’identificazione col farro era motivata da Varrone anche su basi linguistiche. Poiché a una nota del genere non può essere in alcun modo applicata la “lex Lindsay”, non è detto che il fr. 32 seguisse necessariamente il fr. 31 (Varrone avrebbe potuto dare l’etimologia di adoreum prima del punto del de vita da dove è tratto il fr. 31, ma Nonio potrebbe aver segnato questa frase come rimando nella scheda corrispondente al fr. 31 e, di conseguenza, invertito l’ordine di presentazione dei frammenti); per comodità, in assenza di prove decisive a favore di un ordine o dell’altro, mantengo quello tradizionalmente adottato dagli editori. Ancora resta difficile capire se la frase in questione sia una citazione fedele dal de vita o una parafrasi di Nonio. Non credo si possa escludere che sia una parafrasi; tuttavia, poiché Nonio, quando riassume o parafrasa un testo, tende a discostarsi pochissimo dalla fonte, seguo gli editori precedenti e stampo tutta la sezione come frammento. Venendo al contenuto, Varrone dice che il farro è detto “adoreum” perché rappresenta il “limite del cibo” (“cibi ora”). Il senso esatto di “cibi ora” è difficile da rendere, anche perché il gioco di parole fra “ora” ed “adoreum” è intraduci164
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bile in italiano e l’etimologia proposta è debole e poco perspicua già in latino. Un confronto con Isid. et. 17, 3.6, ador quondam appellatum ab edendo, quia eo primo usi sunt homines, potrebbe indurre a supporre che il senso di “cibi ora” sia quello di “punto di partenza dell’alimentazione” (su questo valore di “ora”, vedi OLD 1262 1.a), a meno che non si voglia intendere l’espressione come “la base dell’alimentazione”, vale a dire il cibo più semplice ed essenziale per eccellenza. 33 (= 56 R., 313 S.) quod, antequam nomen dolii prolatum, cum etiam id genus vasorum calpar diceretur, id vinum calpar appellatum 1: antequam novum doliis promtum Kettner; antequam novum doliis prolatum Rip. Non. p. 876.28-3: CALPAR nomine antiquo dolium. Varro de vita populi Romani lib. I 1: fort. CALPE Lindsay
il fatto che, poiché, prima che venisse coniato il termine dolium, anche quel tipo di recipienti era detto calpar, fu chiamato calpar quel tipo di vino Alla sezione sugli alimenti seguiva una su diversi tipi di bevande (ricostruibile nella sua articolazione interna grazie alla “lex Lindsay”, vedi introduzione). I frammenti superstiti di questa parte del de vita riguardano tutti bevande alcoliche. Questa citazione, nello specifico, fornisce l’etimologia di una particolare qualità di vino novello, il “calpar”. Il senso dell’intero frammento varia a seconda che si accolga o meno la congettura “novum doliis” di Kettner (seguito da Riposati). Punto di partenza di questo intervento è la volontà di uniformare il contenuto del frammento a quanto detto in una voce di Paul. (p. 57.16 L.): calpar vinum novum, quod ex dolio demitur sacrificii causa antequam gustetur. Correggendo “nomen dolii” in “novum doliis”, la prima parte del frammento verrebbe a coincidere con l’informazione riferita da Festo e il senso risultante del brano sarebbe che il vino, fintanto che restasse nel “dolium”, era detto “calpar” poiché questo era il nome anche del recipiente. Tuttavia, esaminando il testo tradito a prescindere dalla nota di Festo, non vi è alcun motivo per dubitare della genuinità di “nomen dolii”, che anzi si spiega benissimo nel contesto di un discorso di carattere linguistico-antiquario sull’origine di un termine (del resto, la definizione di Nonio “calpar nomine antiquo dolium” si spiega solo presupponendo il testo tradito, dove è detto che 165
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“calpar” era il nome della botte prima che venisse coniato il termine “dolium”). Viceversa, proprio la menzione dell’atto di spillare il vino dalla botte sarebbe a mio dire fuori luogo in un discorso del genere (anche perché non si vede per quale motivo il vino dovrebbe chiamarsi “calpar” prima di venire spillato, mentre lo stesso Festo dice una cosa diversa, e cioè che era detto “calpar” anche dopo essere stato attinto dalla botte e manteneva questo nome finché veniva adoperato per le libagioni senza essere bevuto). Ritengo dunque che il testo tradito vada mantenuto e che fornisca un senso più piano e logico di quello che si avrebbe con la congettura di Kettner: poiché, prima che venisse escogitato il termine “dolium” (su quest’uso di “profero”, vedi ThLL X 1686.20-30), il “dolium” si chiamava “calpar” (“id genus vasorum” si riferisce sicuramente a “dolium”), venne detto “calpar” anche il vino che vi era contenuto. Sulla difesa del testo tradito, cfr. introduzione e Salvadore 2004, p. 17. Resta da discutere quale potesse essere il contesto della citazione. Poiché il frammento è costituito da una dichiarativa introdotta da “quod”, non poteva stare a sé ma faceva parte di un periodo più ampio, che ovviamente è impossibile ricostruire nel suo sviluppo. Si possono invece avanzare delle ipotesi sulla sezione in cui il frammento aveva sede. Esso è citato da Nonio nel l. 15 (de genere vasorum vel poculorum), in una serie dove compare prima di diversi frammenti relativi ai recipienti. Ora, se lo si posiziona nella sezione del de vita sulle bevande, il fatto che preceda frammenti sui vasi indicherebbe che Varrone trattava, nel de vita, prima delle bevande e poi della suppellettile domestica. Se invece si considera anche questo frammento come facente parte della sezione sui recipienti, allora andrebbe stampato sì prima dei frammenti sui vasi, ma dopo quelli sulle bevande (i frr. 36-37-38-39-40, secondo la mia numerazione) e anzi lo stesso ordine di trattazione bevande – suppellettile domestica potrebbe essere messo in discussione. Sta tutto nel decidere se il contesto originario del frammento fosse una trattazione del “calpar” in quanto vino oppure in quanto vaso. Sebbene la presenza del lemma nel libro de genere vasorum et poculorum e la definizione di Nonio “calpar nomine antiquo dolium” potrebbero far pensare che il frammento avesse la sua sede nell’ambito della sezione sui recipienti, ritengo che vi siano maggiori elementi a favore dell’ipotesi che lo colloca entro la sezione sulle bevande. Infatti, l’espressione di Nonio “id vinum” si capirebbe soltanto in riferimento a una precedente descrizione del vino novello cui seguiva la nota etimologica riportata dal grammatico. Altrimenti, si perderebbe il senso del deittico “id”, 166
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in quanto mancherebbe un termine preciso cui esso possa riferirsi. Ancora, tutta la menzione del “dolium” è motivata soltanto dal fine di fornire un’etimologia per “calpar”, ma resta una nota accessoria, mentre il tema principale del frammento resta il vino. Questi due dati spingono dunque ad attribuire la citazione alla sezione sulle bevande. Se, invece, il frammento provenisse dalla sezione sui recipienti, la menzione del vino sarebbe, con questo testo, fuori posto (se Varrone avesse voluto parlare del “calpar” vaso, avrebbe piuttosto dovuto dire che questo prendeva nome dal “calpar” vino che vi era contenuto, mentre il frammento dice esattamente l’opposto, ossia che il “calpar” vino prese il nome dal “calpar” vaso). Se questa frase compariva nella sezione del de vita sulle bevande, come mai Nonio la cita nel libro sui nomi dei vasi e la correda di un lemma dove non è menzionato un “vinum”, ma un “dolium” ? Credo si possa rispondere facilmente a questa domanda considerando cosa interessasse davvero al grammatico. Poiché Nonio predilige l’informazione linguistica in quanto tale a una riproduzione esatta del contesto da cui ha tratto una citazione, si capisce per quale motivo di questo frammento abbia voluto mettere in risalto la parte in cui si diceva che “calpar” era l’antico nome del “dolium”, piuttosto che la trattazione del “calpar” vino in sé. Ciò non impedisce, però, che la sede da cui il frammento è stato tratto fosse proprio la discussione sul “calpar” vino (Nonio, leggendo questa parte della sezione sulle bevande, ha appunto estratto la frase in cui era segnata questa nota linguistica in quanto particolarmente adatta a fornire il tipo di informazioni selezionate per il suo glossario). Per questa serie di ragioni, ho scelto di stampare il fr. 33 come il primo di quelli sulle bevande. 34 (= 38h R.; 334 S.) quantopere abstemias mulieres voluerint esse, vel ex uno exemplo pote videri 1: pote L, Lindsay, Sal.; potest BA, Rip. Non. p. 96.20-1: ABSTEMIVS […] Varro de vita populi romani lib. I.
quanto abbiano tenuto a che le donne non bevessero vino, lo si può vedere anche da una sola vicenda esemplare Dopo aver esaminato i diversi tipi di vino, fra cui il “calpar” del frammento precedente, Varrone passava a un argomento particolare: il divieto di consumare vino imposto alle donne dagli antichi Romani. Nonio riporta numerosi fram167
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menti riconducibili a questa sezione, la cui struttura può essere ricostruita nelle sue linee principali dal confronto fra le citazioni dal de vita e due brani in autori posteriori a Varrone (Plin. n. h. 14, 89 e Gell. 10, 23.1). Ho già accennato alla questione nell’introduzione; qui vorrei approfondirla. In Plinio i paragrafi 87-97 del l. 14 sono sede di un ampio excursus di tipo antiquario dove sono presentate prove del valore che era attribuito al vino dagli antichi Romani. Plinio riporta diversi esempi e dati da cui si dovrebbe dedurre che il vino a Roma era un prodotto di lusso fino al tardo periodo repubblicano. Plinio menziona espliciatamente Varrone come propria fonte al p. 88 e tutta la sezione mostra difatti vistosi tratti varroniani: vengono citati e discussi pareri di diversi storici ed eruditi, nessuno dei quali posteriore a Varrone; si procede all’analisi contenutistica di alcuni versi di Plauto (argomento prettamente varroniano); è proposta una datazione per fenomeni come l’introduzione dei vini greci a Roma (punto che accomuna questo excursus a un altro capitolo di Plinio forse derivato dal de vita, quello dove è datata la comparsa di fornai a Roma; vedi fr. 27); le indicazioni cronologiche presenti nel passo non rimandano a un periodo posteriore alla morte di Varrone. Anzi, proprio il riferimento a eventi degli anni 49-46 (dittatura e trionfi di Cesare) contenuto nel cap. 97 avvicina molto l’indicazione cronologica pià tarda presente nel brano alla data di composizione del de vita (43 a.C.). Come conferma, al cap. 96 è riportato alla lettera un passo tratto da un’opera (non specificata da Plinio, che cita solo “Varro”) del Reatino, che contiene al suo interno una frase che coincide con una citazione dal quarto libro del de vita tramandata da Nonio (vedi fr. 118). Quindi, soprattutto sulla base di questi ultimi due fattori, ipotizzerei che l’intera digressione sul consumo del vino nella Roma arcaica non solo derivi da Varrone, ma abbia anche ottime probabilità di provenire proprio dal de vita (come già sospettato da Riposati, che tuttavia considera come derivato dal de vita soltanto il cap. 96 e trascura di esaminare l’intero excursus). Plinio inserisce questa sezione a metà di una trattazione dei “deuteria”, vale a dire dei surrogati del vino, elemento che tornerà utile a breve. Fra le varie informazioni, riporta anche questo dato: M. Varro auctor est Mezentium Etruriae regem auxilium Rutulis contra Latinos tulisse vini mercede quod tum in Latino agro fuisset. non licebat id feminis Romae bibere. invenimus inter exempla Egnati Metenni uxorem, quod vinum bibisset e dolio, interfectam fusti a marito eumque caede absolutum. Fabius Pictor in annalibus suis scripsit matronam, quod loculos 168
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in quibus erant claves cellae vinariae resignavisset, a suis inedia mori coactam, Cato ideo propinquos feminis osculum dare, ut scirent an temetum olerent. hoc tum nomen vino erat, unde et temulentia appellata. Gellio, a sua volta, attribuisce a una fonte espressa tramite la perifrasi “qui de victu atque cultu populi Romani scripserunt” una serie di informazioni molto simili a quelle riportate nel brano appena citato: qui de victu atque cultu populi Romani scripserunt mulieres Romae atque in Latio aetatem abstemias egisse, hoc est vino semper, quod ‘temetum’ prisca lingua appellabatur, abstinuisse dicunt, institutumque ut cognatis osculum ferrent deprehendendi causa, ut odor indicium faceret, si bibissent. bibere autem solitas ferunt loream, passum, murrinam et quae id genus sapiant potu dulcia. Ci sono buone probabilità che anche questo brano derivi dal de vita non tanto per la parafrasi che ricorda il titolo de vita populi Romani, quanto perché l’ultima frase coincide quasi del tutto con il fr. 36 (antiquae mulieres maiores natu bibebant loram aut sapam aut defretum aut passum … quam murrinam quidem Plautus appellari putat). Sia Plinio sia Gellio dunque, in due punti che sembrano dipendere dal de vita, parlano del divieto di bere vino imposto alle donne. Entrambi parlano anche dello “ius osculi” (il diritto che avevano i parenti a baciare le donne per verificare se il loro alito sapesse di vino) e a questa informazione connettono una nota etimologica sul fatto che il termine arcaico per “vino” era “temetum”, da cui derivano i termini “temulentia” (Plinio) e “abstemius” (Gellio; si noti che “abstemias” ricorre anche nel presente frammento). Inoltre, Gellio elenca le bevande il cui consumo era permesso anche alle donne (i “dulcia” o “deuteria”), mentre Plinio inserisce l’intera sezione come digressione proprio all’interno del discorso sui modi di produzione di questo genere di bevande (è difficile pensare che il collegamento fra trattazione dei “dulcia” e “abstinentia” delle donne sia casuale, come vorrebbe far credere Plinio, che apre la digressione con le parole “verum inter haec subit mentem…”; ritengo molto più probabile che la connessione fra i due dati si trovasse già nella fonte di Plinio, che, per i motivi sopra esposti, potrebbe essere il de vita). A questo punto, va considerato che il nostro frammento parla di una vicenda esemplare che dovrebbe illustrare quanto gli antichi Romani tenessero acché le loro mogli non bevessero vino: il taglio compiuto da Nonio non permette di leggere l’episodio, ma sulla base del raffronto col passo di Plinio si può ipotizzare con buona probabilità che si trattasse della storia della moglie di Egnazio Metennio. 169
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Unendo questi dati, propongo la seguente ricostruzione di questa parte del de vita: Varrone, conclusa la sezione sul vino (che includeva il frammento sul “calpar”), apriva una nuova sezione dicendo che le donne non potevano berlo (sia Plinio sia Gellio partono da questo dato). Alla definizione del tema, poteva seguire una nota linguistica in cui si diceva che “temetum” era il nome arcaico del vino (accordo Plinio-Gellio) e che da “temetum” deriva “abstemius”. Il fr. 34 potrebbe inserirsi a questo punto: dopo aver chiarito cosa intendessero gli antichi con l’aggettivo “abstemius”, Varrone poteva citare l’“exemplum” di quanto i Romani volessero che le loro donne fossero tali. Come si è detto, presumo che si trattasse della vicenda di Metennio (presente solo in Plinio). Al racconto dell’episodio doveva strettamente connettersi la menzione dello “ius osculi” (Plinio e Gellio), che poteva a sua volta dare adito a una nota linguistica sull’etimologia di “osculum” (vedi fr. 35). Infine, con l’elenco delle bevande che le donne potevano bere, Varrone passava dalla parte introduttiva alla sezione vera e propria in cui erano descritti l’aspetto e i modi di produzione di queste bevande. In accordo con la ricostruzione qui proposta, ho ipotizzato per i frr. 34 e 35 una posizione all’interno del discorso sulle bevande, discostandomi da Salvadore, che invece li pubblica come blocco a sé, a notevole distanza dalla serie di frammenti sui “potu dulcia” (i frr. 36-40, in base alla mia numerazione). Venendo al frammento, segnalo la presenza anche qui dello stilema, presente in numerosi frammenti rimasti del de vita, per cui il tema del discorso è menzionato tramite un’interrogativa indiretta (vedi fr. 6). La derivazione di “abstemius” da “temetum” (“abs temeto” = “senza vino”) è corretta (vedi Ernout - Meillet p. 1200). Delle due varianti “pote” e “potest” (stampata da Riposati), accolgo la prima, in quanto lectio difficilior. Per quanto riguarda l’exemplum di Metennio (o Mecennio, le fonti oscillano nell’ortografia, vedi RE V, 2 1997.60-1998.18), darei rilievo soprattutto al parallelo di Plinio, in quanto, come si è detto, le probabilità che derivi dal de vita sono molto alte. La vicenda si trova anche in altre fonti (scrupolosamente riportate da Salvadore 2004 a pp. 78-79). Alcuni di questi paralleli sono stampati da Riposati come veri e propri frammenti del de vita (nell’ordine, oltre ai già citati brani di Plinio e Gellio, Val. Max. 6, 3.9 = fr. 38c R.; Val. Max. 2, 1.5 = fr. 38d R.; Serv. ad Aen. 1, 737 = fr. 38e R.; Tert. apol. 6.25 = fr. 38f R.; Plut. quaest. Rom. 6 = fr. 38g R.). Segnalerei anche un gustoso verso (forse di Rabirio, vedi Blänsdorf 2011, p. 300) dove si parla di una bevitrice di nome Metennia e si scherza sulla 170
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mancata corrispondenza fra il suo nome e i suoi costumi: abstemium merulenta fugit Metennia nomen (Blänsdorf stampa “Mettenia”; io proporrei piuttosto di correggere il tradito “Metenia” in “Metennia”, o al limite “Mecennia”). In generale, nel caso dei paralleli ritengo sia comunque doveroso distinguere fra i passi di Plinio e Gellio, che quasi certamente derivano dal de vita, e gli altri luoghi, che servono solo come riscontri contenutistici (vi si parla del divieto di bere vino imposto alle donne ed a questa notizia vengono riferite in alcuni la pratica dello “ius osculi”, in altri la vicenda di Metennio), ma non possono essere in alcun modo attribuiti con certezza al de vita. 35 (= 37 R.; 335 S.) ideoque hoc ab ore dicitur osculum, non a suavitate, unde, quod suave sit, savium 1: suave Mercier, Kettner (unde savium, quod suave sit savium); simile codd., Lindsay, Rip., Sal. | est Rip. | saviunt codd. Non. p. 685.15-686.18: OSCVLVM et SAVIVM his intellectibus discernuntur, quod ab ore osculum, savium a suavitate dicitur. Varro de vita populi Romani lib. I. 2: lib. I Roth; I E; ł LG; om. HP
perciò questo tipo di bacio prende il nome di osculum da bocca (os), non dalla dolcezza (suavitas), da dove trae il nome il savium, perché è dolce Nella ricostruzione di questa parte del de vita, ho ipotizzato una menzione dello “ius osculi” (vedi fr. 34). Una citazione isolata di Nonio riporta per l’appunto l’etimologia del termine “osculum”. Per quanto non vi siano dati che impongano di connettere necessariamente questa frase con lo “ius osculi”, ritengo che comunque la proposta di legare il fr. 35 alla sezione sul divieto di bere vino non sia del tutto fuori luogo. La pericope citata da Nonio lascia appunto intendere che nella parte immediatamente precedente si parlasse di un bacio “da dare in bocca”, come si deduce dalle parole “hoc ab ore dicitur osculum”. La mia ipotesi è che Varrone dicesse che i parenti avevano la facoltà di baciare in bocca (cfr. Plutarco: τῷ στόματι φιλοῦσιν) le donne della famiglia per verificare se il loro alito sapesse di vino e che perciò (“ideo”) questo bacio è detto “osculum” da “os” (bocca). Credo che il senso di “ideo”, che costituisce il legame con quanto precedeva, non possa essere chiarito in modo altrettanto logico presupponendo un contesto diverso. 171
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Il seguito del frammento propone una distinzione fra diversi tipi di bacio. Se con “osculum” si indica il bacio, privo di connotazioni erotiche, che si scambia fra parenti, con “savium” si intende un bacio appassionato, da amanti (cfr. Don. ad Ter. eun. 456: oscula officiorum sunt … savia libidinum vel amorum). Appunto, Varrone (come in l. L. 6, 76) fa derivare “osculum” da “os” (etimologia corretta, vedi Ernout - Meillet pp. 833-834, anche se l’osculum non è propriamente detto così perché si dà in bocca, ma perché la bocca, nel dare il bacio, si restringe e diventa appunto una “boccuccia”), non da “suavitas” da cui (“unde”) fa invece derivare il termine “savium”, ossia l’altro tipo di bacio (anche questa etimologia è ritenuta corretta: “savium” deriverebbe da un’originaria forma “suavium”, vedi Ernout - Meillet p. 1053). Varrone motiva anche l’etimologia di “savium” da “suavitas” in una causale che i codici riportano in una forma che, sebbene sia accolta da Riposati e Salvadore, ritengo senza dubbio corrotta: “quod simile sit”. Si vede che, come causale, la frase non riesce a motivare in alcun modo la derivazione “savium a suavitate”; d’altro canto, è ben difficile riuscire a dare a “simile” un significato sensato (intentendo “perché è simile a una cosa dolce” bisognerebbe sottintendere troppo e comunque la frase resterebbe traballante). Seguendo una strada diversa e prendendo “quod simile sit” come una proposizione relativa (“non da suavitas, da cui deriva savium, che è un tipo di bacio simile”), si avrebbe invece la difficoltà che il “savium” non è affatto “simile” all’“osculum”, ma al contrario sono due tipi di baci l’uno agli antipodi dell’altro (l’“osculum” è il tipo di bacio più pudico, il “savium” quello più erotico). Ritengo che queste difficoltà siano agevolmente risolte dalla correzione di Mercier “suave”, che dà un ottimo senso e restituisce un testo chiaro e coerente: “savium” deriva da “suavitas” perché è “suave”. L’errore si comprende tenendo conto che “suave” e “simile”, in una scrittura minuscola, potrebbero davvero essere scritti allo stesso modo (entrambe le parole sarebbero composte da sei tratti verticali più o meno identici compresi fra la “s” e la “e”: “s ιι ιι ιι e” (suave) potrebbe essere facilmente scambiato con “s ι ιιι ι ι e” (simile). Per quanto riguarda la distinzione fra i tipi di bacio, aggiungerei ai paralleli riportati da Salvadore (pp. 79-80) lo scolio del Terenzio Bembino al v. 456 dell’Eunuchus (ed. Mountford 1934; cfr. la nota di Donato allo stesso verso citata sopra): inter savium, osculum et basium hoc interest quod savium meretricibus tum quod causa suavitatis datur, basium autem circa pudica matrimonia, oscula circa liberos vel parentes; nam et Vrg ‘oscula libavit natae’. 172
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36 (= 39 R.; 315 S.) antiquae mulieres maiores natu bibebant loram aut sapam aut defretum aut passum , quam murrinam quidem Plautus appellari putat, tam, vinum murrinam’ 1: maiores om. CADA | lauram PE1; loream Müller, Rip. | sapam Aldus; samiam codd. | defritum BA; defrutum Iunius, Voigt, Müller; 1-2: aut passum, André (coll. Non. p. 884.10), Maggiulli (vide comm.); 2: aut muriolam suppl. Bücheler, Voigt, Wessner, Rip. (aut moriolam), Sal. | murrinam DA; murmurinam cett. | quidem Plautus appellari putat LAA (quidam PE), Wessner, Rip.; quidem Plautus appellare putat G (= BA); quidem Plautus appellari prole CA (appellare prole Lugd., Bamb.); Plautus appellari solet DA (appellare solet Paris. 7665, Oxon.), Lindsay (“fuerat in arch. polet”), Sal., Maggiulli; quidam Plautum appellare putant Aldus, Voigt, Müller; quidem Plautus appellare putatur Bücheler; quidem Plautus appellare solet, Lindsay 1906 (coll. Non. p. 884.10); 3: tam vinum murrinam suppl. Wessner (coll. Plin. n.h. 14, 92-93 et Non. p. 884.10), Rip. (prob. Aragosti) Non. p. 884.14-885.17: LORA, confectae potionis genus, grandaevis aptum. Varro de vita populi Romani lib. I: 1: LOREA Müller
anticamente le donne, a una certa età, usavano bere la lora (acquerello), o la sapa, o il defretum (due tipi di mosto cotto), o il passum (vino passito), o la muriola, proprio quella bevanda che Plauto ritiene si chiami murrina, per quanto lui stesso dica nell’Acharistione: ‘pane e polenta, vino murrina’ Il frammento costituisce la parte introduttiva della sezione in cui erano discusse le bevande “semi-alcoliche” il cui consumo era concesso alle donne. Sull’ordine delle citazioni appartenenti a questa sezione rimando all’introduzione, dove la questione è esaminata in dettaglio. In sede di commento, vorrei invece sottoporre a disamina i numerosi problemi testuali che interessano questi frammenti. Nel fr. 36 sono elencati i nomi delle varie bevande che sono descritte singolarmente nel seguito della trattazione. La menzione della “lora” corrisponde, difatti, al fr. 37 (cit. secondaria del lemma “murrina” di Nonio); quella della “sapa” e del “defretum” al fr. 38 (lemma “sapa”); quella del “passum” al fr. 39 (lemma “passum”). Il fatto che la serie dei lemmi in Nonio sia chiusa dalla voce dedicata alla descrizione (fr. 40) di un’ultima bevanda, la “muriola”, ha spinto gli editori a 173
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integrare una menzione anche della “muriola” all’interno dell’elenco di bevande posto al fr. 36. Per questo motivo, Bücheler, seguito da Voigt, Wessner, Riposati e Salvadore, integra nel frammento dopo “passum”. L’intervento è giustificato anche dal fatto che “passum” non può essere concordato col relativo “quam” che lo segue, ma va supposto che, nella citazione di Nonio, sia caduto un termine femminile fra “passum” e “quam” (considerato che il frammento è composto da un elenco di termini tutti introdotti da “aut”, è facile comprendere come uno di essi potesse essere omesso in fase di copiatura). Inoltre, l’integrazione fornirebbe un testo in cui la “muriola” viene identificata con la “murrina”. Questo dato permette di chiarire un’apparente anomalia nella pratica di Nonio, che appunto riporta frammenti dove sono descritti i metodi di produzione di tutte le bevande citate nel fr. 36 fuorché della “murrina”. Verrebbe da chiedersi come mai Nonio non abbia riportato anche la descrizione della “murrina”. Ora, presupponendo l’identificazione di questa con la “muriola”, si comprende agevolmente che in realtà una trattazione a sé della “murrina” nel de vita non c’era, in quanto la descrizione della “muriola” (fr. 40) era, per Varrone, applicabile anche alla “murrina”. Nonio avrebbe appunto trovato il termine “murrina” nel passo corrispondente al fr. 36 (il perché questa citazione sia alla voce “lora”, mentre il lemma “murrina” contiene il fr. 37, sarà discusso a breve), dove era indicata la corrispondenza di questa bevanda con la “muriola”; in seguito, avrebbe riscontrato la descrizione della “muriola-murrina” nel punto da cui è tratto il fr. 40, ma non avrebbe potuto imbattersi in alcuna trattazione della “murrina” in quanto tale. L’identificazione della “murrina” con la “muriola”, poi, si riscontra anche in una nota del de verborum significatu che potrebbe rimandare, per l’estrema somiglianza col testo del fr. 36, se non proprio al de vita, almeno a Varrone: Paul. p. 131.1 L., murrina genus potionis, quae Graece dicitur νέκταρ. hanc mulieres vocabant muriolam (sui diversi significati del termine “murrina”, cfr. ThLL VIII 1683.48-1684.8). Come ho detto, Nonio riporta il fr. 36 alla voce “lora”. Questo si capisce, in quanto la prima bevanda menzionata nell’elenco è appunto la “lora”. Più difficile da spiegare è invece come mai alla voce noniana “murrina” non sia connessa un’esposizione di questa bevanda (che con buona probabilità, per le ragioni sopra espresse, nel de vita mancava del tutto), bensì una trattazione del modo in cui veniva fatta la “lora”. Per rispondere a questo problema, occorre dunque tener conto del modo in cui i codici tramandano l’inizio del fr. 37. Come si vedrà, a 174
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seconda di come si interpreti la situazione testuale del fr. 37 e si tenti di risolvere il problema, cambierà anche l’interpretazione del fr. 36. Procedendo a un esame dettagliato della questione, i codici noniani riportano all’inizio del fr. 37, prima della descrizione della “lora”, una stringa corrotta che non dà senso: “tu autem murmurina”. Se l’ipotesi che dietro la vox nihili “murmurina” si celi una menzione della “murrina” è quasi scontata, ben più difficile è giustificare il senso del sintagma “tu autem murrina”, che non si può in alcun modo riferire al seguito del frammento. La proposta che meglio riesce a chiarire la situazione è quella di Wessner 1906, che riferisce queste parole al fr. 36 e spiega la loro presenza all’inizio del lemma “murrina” ipotizzando che il testo varroniano sia stato erroneamente tagliato da Nonio e poi sia andato incontro a ulteriori corruttele. Secondo Wessner, i frr. 36 e 37 costituivano insieme un’unica sezione di testo, che sarebbe stata tagliata da Nonio in modo da ottenere due lemmi (“lora” e “murrina”, ossia i frr. 36 e 37). Wessner ipotizza che il testo originario di Varrone avesse una frase introduttiva composta dall’elenco del fr. 36, che proseguiva fino alla pericope poi corrottasi in “tu autem murmurina”. A questo punto la frase terminava e, con “loram dicebant”, iniziava un nuovo periodo (quello costituito dal grosso del fr. 37 e dedicato alla descrizione della “lora”). Quindi, la stringa problematica che apre il fr. 37 non va considerata come l’inizio di questo frammento (e di conseguenza non va presa come parte di un discorso sulla “lora”), ma andrebbe interpretata come l’esito corrotto della sezione introduttiva che apriva il fr. 36. Sulla base di questa ipotesi, Wessner cerca di ricostruire lo stato originario del testo di Varrone partendo dalle tracce fornite dalla tradizione manoscritta di Nonio. Il primo punto che va considerato è la relativa in cui è indicata l’equivalenza fra “muriola” e “murrina”. Questa è tramandata in modo diverso dalle varie famiglie di codici noniani. La prima famiglia (L e gruppo AA) ha “Plautus appellari putat”; la seconda (gruppo BA, per questo libro testimoniato dal solo codice G) “Plautus appellare putat”; la terza si divide, in quanto il gruppo CA ha “Plautus appellari prole” e il gruppo DA “Plautus appellari solet”. Come si vede, l’accordo di due famiglie su tre induce a pensare che l’archetipo avesse “appellari”; per la stessa ragione, andrebbe ipotizzato che la lezione d’archetipo fosse “putat”. Per questo motivo, ho scelto di accogliere il testo “quam murrinam quidem Plautus appellari putat”, mentre Lindsay (e Salvadore), stampando “quam murrinam quidem Plautus appellare solet”, di fatto accolgono il testo peggio testimoniato (“ap175
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pellare”, oltre ad essere facilior, è tradito da una sola famiglia contro due; quanto a “solet”, non si può escludere che si tratti di un tentativo di rabberciare il testo corrotto che si trovava nel modello: il fatto che parte di questa famiglia abbia un testo senza senso (“prole”) mi sembra confermi questo sospetto). Lindsay tenta di giustificare la sua scelta di stampare “solet” ipotizzando che l’archetipo avesse un “polet” (corruzione di “solet”), riadattato come “putat” da due famiglie (che avrebbero dovuto farlo indipendentemente; cosa improbabile, dato che “putat” non è esattamente la prima congettura che verrebbe in mente avendo davanti un “polet”), letto come “prole” dal gruppo CA e corretto esattamente per congettura da DA. Come si vede, il processo è macchinoso e improbabile (quanto ad “appellare”, è difficile credere che non si tratti di un errore del solo G e, a maggior ragione, ritengo imprudente accogliere questa variante). Ma se il testo corretto è “appellari putat”, da dove proviene la lezione “solet/prole” della terza famiglia? Wessner pensa che parte del testo di Varrone sia caduta (forse già per un taglio erroneo compiuto da Nonio), ma che sia rimasta traccia di questa parte omessa in una nota a margine presente nell’archetipo, dove era riportata l’ultima parola della pericope perduta. Secondo Wessner, dunque, l’archetipo aveva, dopo “putat”, una nota a margine composta dal termine “polēt” (ultimo residuo del testo perduto). Delle tre famiglie, i progenitori delle prime due avrebbero semplicemente tralasciato la nota, mentre il capostipite della terza avrebbe interpretato la nota come una correzione a “putat”, per cui il testo sarebbe diventato “appellari polet” (poi passato ad “appellari prole” in CA e “appellari solet” in DA). Ora, Wessner cerca di ricostruire, sulla base di questo “polet”, come potesse essere questo rigo presente in Varrone e poi perdutosi. Il punto di partenza della ricostruzione è costituito da un passo di Plinio (n. h. 14, 92-93), dove è riferito un dibattito erudito sulla natura della “murrina”: questa bevanda va considerata come un succedaneo del vino (un “dulce”) o come un vino vero e proprio? Plinio cita i pareri di diversi eruditi e impiega, come testimonianze a favore delle due posizioni, versi plautini. La pratica di rifarsi a Plauto come autorità e di illustrare un dato antiquario per mezzo di una fonte letteraria rimanda senza dubbio a Varrone (cfr. fr. 27); il sospetto che questi possa essere la fonte di Plinio per la sezione è poi confermato dal fatto che il brano appartiene alla digressione sull’introduzione del vino a Roma di cui si è già parlato (vedi fr. 34) e che con buona probabilità deriva proprio dal de vita populi Romani. Varrone cercava dunque di risolvere la controversia (che aveva 176
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anche conseguenze sul piano legale, in quanto la “murrina” poteva essere bevuta da donne, se era riconosciuta come “dulce”, ma, qualora fosse stata considerata un vino, il suo consumo si sarebbe dovuto vietare) risalendo alla posizione di Plauto (che oscilla, in quanto nel Persa (v. 88) presenta la “murrina” come un vino, nello Pseudolus (v. 740) come un “dulce”), di alcuni giuristi (Scevola e Ateio Capitone) e del suo maestro Elio Stilone (tutto il brano è attentamente analizzato da Aragosti 2009, p. 77, n. 181). Fra le testimonianze citate è incluso un verso di una commedia attribuita a Plauto, l’Acharistio, che recita: panem et polentam, vinum, murrinam (Aragosti adotta questa punteggiatura, considerando “vinum” e “murrinam” come due bevande distinte coordinate per asindeto; Wessner invece, nella sua proposta di integrazione del fr. 36, sceglie la punteggiatura “vinum murrinam”, in accordo con la sua ricostruzione del contenuto del frammento varroniano, vedi infra). Partendo da questo verso, Wessner propone di intervenire sul testo del fr. 36. Ricapitolando quanto detto sopra, si è ipotizzato: a) che dopo “quam murrinam quidem Plautus appellari putat” sia caduto del testo, di cui resterebbe parte dell’ultima parola in “polet”, presente nell’archetipo come nota a margine; b) che la parte di testo successiva a “polet” sia stata, per il grossolano taglio di Nonio, aggregata all’inizio del fr. 37 e si sia corrotta in “tu autem murmurina”. Unendo i due dati e confrontando Plinio, Wessner suppone che “polet / tu autem murmurina” sia l’esito corrotto del verso dell’Acharistio: “polentam, vinum murrinam”. Il testo consultato da Nonio avrebbe avuto la parola “polentam” in corrispondenza di un salto di rigo (“polen / tam”); Nonio, guidato dall’occhio avrebbe meccanicamente deciso di far finire la citazione corrispondente al fr. 36 a “polen” (riportandola alla voce “lora”, poiché la “lora” è la prima bevanda che si legge in questa pericope) e di far iniziare il fr. 37 da “tam vinum murrinam” (e infatti il testo corrotto corrispondente a “tam vinum murrinam” apre la citazione riportata alla voce “murrina”, anche se il seguito del frammento non descrive la “murrina”, ma la “lora”). Nella parte precedente del fr. 36 è proposta un’identificazione della “murrina” con la “muriola”. Il verso dell’Acharistio però, letto in scriptio continua e senza punteggiatura, poteva anche essere inteso legando “murrinam” a “vinum” (non “panem et polentam, vinum, murrinam”, bensì “panem et polentam, vinum murrinam”). Poteva dunque sembrare che qui Plauto non presentasse più la “murrina” come un “dulce”, ma come un “vinum”. Wessner pensa dunque che Varrone riferisse in un inciso questa presunta contraddizione 177
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plautina. Per questo propone di integrare: “quamquam ipse in Acharistione ait: panem et polentam, vinum murrinam”. La pagina che Nonio aveva sotto gli occhi avrebbe così avuto questa organizzazione (le due righe ipotizzate da Wessner hanno all’incirca le stesse dimensioni, in quanto contano la prima 39 caratteri, la seconda 41): … passum quam quidem murrinam Plautus appellari putat,
tam, vinum murrinam’ …
Nonio, procedendo allo spoglio del de vita, avrebbe deciso di tagliare il testo all’altezza di “quamquam”, riportando la frase fino a “polen” sotto la voce “lora” (fr. 36), il testo da “tam vinum” in poi al lemma “murrina” (fr. 37). Il fatto che il fr. 37 sia una citazione secondaria potrebbe confermare che qui Nonio abbia proceduto con una certa fretta e scarsa attenzione per il contesto: andando in cerca di una menzione della “murrina” per corredare il suo lemma, Nonio avrebbe potuto notare che il rigo iniziava con la parola “murrina”, senza considerare quanto precedeva e, forse prendendo “tam” per un avverbio, intendere “tam vinum murrinam loram dicebant” come “tanto chiamavano lora il vino murrina”, in modo da fraintendere anche il seguito del frammento e di riferire il discorso relativo alla produzione della “lora” a quella della “murrina”. Come conseguenza di questo taglio, si sarebbe perso anche il senso della frase precedente, di modo che Nonio si sarebbe limitato a copiare meccanicamente l’altra parte della frase, fino a “polen”, alla voce “lora” (fr. 36). Certo, se si può comprendere come abbia fatto “tam vinum murrinam” ad essere aggregato all’inizio della frase precedente, resta difficile spiegare perché mai Nonio avrebbe deciso di riportare, alla voce “lora”, un testo monco, che si chiudeva con una parola senza senso (“polen”). Credo che una spiegazione si possa ipotizzare considerando che questi frammenti sono riportati negli ultimi libri del de compendiosa doctrina, vale a dire nella parte del glossario quasi sicuramente rimasta incompiuta e priva di una mano finale. Poiché questi libri costituiscono un abbozzo, che Nonio avrebbe dovuto in seguito arricchire, correggere e perfezionare, si può forse pensare che questa maldestra divisione del testo varroniano fra i due lemmi corrispondesse a una fase ancora provvisoria del lavoro di Nonio, che, se ne avesse avuto il modo, avrebbe riesaminato con più attenzione la cosa ed eliminato l’incongruenza. 178
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A questo punto, dobbiamo pensare che un editore antico dell’opera di Nonio trovasse al lemma “lora” un testo che, così tronco, non funzionava. Avrebbe dunque potuto considerare il testo fin dove questo aveva un senso compiuto (ossia fino a “putat”), atetizzando “quamquam ipse in Acharistione ait panem et polen” con puntini di espunzione o con un frego. Questo tipo di intervento sarebbe stato poi frainteso dai successivi copisti, che avrebbero ridotto tutta la parte espunta alla sola nota marginale “polet”, che, passata all’archetipo, sarebbe stata presa come variante di “putat” e avrebbe generato le lezioni “prole” e “solet” nei codici della terza famiglia. Ho così riportato la complessa serie di ragionamenti alla base della proposta di Wessner. Si tratta certamente di un intervento massiccio e coraggioso, di cui forse si potrebbe sospettare proprio perché sarebbe “troppo bello per essere vero”. Tuttavia, nessuna delle proposte alternative riesce a fornire un testo migliore e ad armonizzare tanti elementi. Per completezza, vorrei riportare gli altri interventi avanzati dai filologi. Bücheler 1856, oltre all’integrazione “aut muriolam”, propone anche di accogliere per il fr. 36 il testo tradito e di correggere l’inizio del fr. 37 in “tum autem murrinam”. Il testo risultante (“tum autem murrinam loram dicebant” = “al tempo di Plauto (“tum”) chiamavano murrina la lora”) implica un’identificazione priva di paralleli fra “lora” e “murrina”, che sono sempre presentate come due bevande distinte (si vedano le fonti parallele riportate da Salvadore 2004 alle pp. 68-69). Inoltre, la formulazione “tum autem murrinam loram dicebant” sarebbe anomala, in quanto in tutti i frammenti sulle bevande le definizioni hanno sempre la stessa struttura (nome della bevanda all’accusativo in apertura di frase + verbum dicendi); soltanto il fr. 37 comporterebbe una vistosa eccezione alla norma. Lindsay 1906 ipotizza che la forma originaria del fr. 36 fosse: “loram aut sapam aut defretum aut passum, quam murrinam quidem Plautus appellare solet, tum autem muriolam (= “… o il “passum”, proprio quella che Plauto suole chiamare “murrina”, ma che allora (da intendere “durante l’età monarchica”) si chiamava “muriola”)”. La proposta non sarebbe del tutto male a livello di senso: la “muriola”, cfr. fr. 40, potrebbe in effetti essere una forma di “passum” secondario; si integrerebbe nel fr. 36 la menzione della “muriola” che manca e il riferimento a Plauto riguarderebbe non tanto la questione della natura della “murrina” quanto fornirebbe una precisazione cronologica (quella che ai tempi di Plauto era detta “murrina”, al tempo dei re si chiamava “muriola”). Tuttavia, non mancano gravi 179
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obiezioni a questo intervento: oltre alla durezza della sintassi (con l’attrazione del relativo “quam” riferito a “murrina” e non a “passum”), anche l’identificazione fra “passum” e “murrina/muriola” è smentita dagli stessi frr. 39 e 40, dove le due bevande sono chiaramente considerate distinte e si dice che erano realizzate secondo due ricette diverse. Ancora, Lindsay ipotizza una serie eccessiva di passaggi (alcuni francamente inverosimili o addirittura in contraddizione con la stessa “lex Lindsay”) per spiegare la corruttela di “tum autem muriolam” in “tu autem murmurina” (anche la scelta di stampare “appellare solet” è opinabile, vedi supra). Maggiulli 1986 (pp. 116-119), riprendendo una proposta di André 1951, propone questo testo: “loram aut sapam, aut defretum, aut passum, , quam murrinam quidem Plautus appellare solet”. Tuttavia, con questa soluzione il senso non migliora (“tum autem” crea una contrapposizione immotivata fra la “muriola” e le altre bevande dell’elenco) e la sintassi è piuttosto dura (perché coordinare tutte le bevande con “aut” e mettere l’ultima in risalto con un nesso pesante come “tum autem” ?). Salvadore, da ultimo, ipotizza che il fr. 36 e il fr. 37 non fossero proprio contigui (come presuppongono tutti gli interventi sopra menzionati). Pensa dunque che “tu autem murrina (facile correzione di “murmurina”)” non debba essere considerato necessariamente corrotto, ma potrebbe essere la parte finale del testo di Varrone escluso dal taglio di Nonio. Di conseguenza, stampa “tu autem murrina” fra cruces e propone in apparato di ipotizzare una lacuna prima di “tu” (“*** tu autem murrina”). Per quanto in linea teorica l’idea di Salvadore non possa essere negata, resta comunque una soluzione “disperata”. Poiché dunque nessuna delle altre proposte è soddisfacente quanto quella di Wessner, ho scelto di mettere questa a testo, pur segnalando quanto sia ardita. 37 (= 40 R.; 316 S.) loram dicebant in vindemia cum expressissent acinis mustum et folliculos in dolium coniecissent 1: tu (tum Iunius, Kettner) autem murmurina (murrhina Aldus; murrina Kettner) ante loram habent codd.; tu autem murrina Lindsay (in ed.); tum autem murrinam Bücheler, Voigt; † tu autem mur[mu]rina † Sal. in textu (“an *** tu autem murrina?” in app.) | loream Rip. | dicebam DA; 2: eoque aquam addidissent suppl. Müller coll. Varr. rust. 1, 54.3 (prob. Wessner), Rip. 180
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Non. p. 884.7-12: MVRRINA, potio confecta. […] Varro de vita populi Romani lib. I: 1: murruna codd., corr. ed. 1471
chiamavano lora (la bevanda ottenuta) quando durante la vendemmia avevano spremuto il mosto dagli acini, avevano raccolto i raspi in una botte e vi avevano aggiunto dell’acqua Dopo aver elencato le bevande il cui consumo era concesso alle donne, Varrone procede dando una descrizione del modo in cui ciascuna di esse era prodotta (per una descrizione più dettagliata delle singole bevande, si veda soprattutto Maggiulli 1986, pp. 109-119; le fonti antiche principali sullo stesso tema sono Plin. n. h. 14, 80-92 e Col. 12, 39-40). Il frammento tratta della “lora” (per quanto riguarda la prima parte della citazione, rimando alla discussione svolta al fr. 36). La “lora” era un derivato dell’uva a bassissima gradazione alcolica, molto leggero e poco pregiato (stando a Plin. n. h. 14, 86, rientrava fra i “vina operaria”, ossia fra le bevande date agli schiavi), usato, più che come bevanda, come addensante nella preparazione di conserve (vedi fr. 40). Come si legge nel frammento, una volta che era stato ottenuto il mosto “di prima spremitura”, i raspi e le vinacce rimasti sul fondo del torchio erano raccolti, ravvivati con acqua e pressati di nuovo (cfr. Plinio: decima parte aquae addita quam musti expressa sit et ita nocte ac die madefactis vinaceis rursusque prelo subiectis; cfr. Col. 12, 40.1), in modo da ottenere questo “acquerello” (vedi anche ThLL VII, 2 1675.7-39). Lo stesso processo qui indicato per la produzione della “lora” è descritto, in termini molto simili, da Varrone a r. r. 1, 54.3, expressi acinorum folliculi in dolia coniciuntur eoque aqua additur; ea vocant lora, quod lota acina (il tradito “coniciuntur” viene corretto dagli editori in “coiciuntur”; l’intervento risulta superfluo sulla base del confronto col frammento del de vita e con paralleli come Col. 12, 19.1, partem quartam eius musti, quod in vasa plumbea coniecerunt). Sulla base di questo riscontro Müller ha integrato nel frammento di Varrone “eoque aquam addidissent” (integrazione accolta da Wessner e Riposati, mentre Salvadore non la menziona). Credo che i due luoghi varroniani siano troppo vicini perché si possa dubitare di questo intervento. Farei notare come Varrone si limiti a indicare come era composta la mistura che veniva sottoposta a una seconda torchiatura, ma sottointenda come ovvia l’operazione della torchiatura in sé. All’erudito basta indicare semplicemente che la “lora” era ottenuta da vinacce e acqua, ma tralascia di specificare il passo successivo, che dava per scontato, e cioè che questa bagna 181
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veniva a sua volta torchiata per ottenerne la “lora”. Questo modo di procedere si riscontra anche ai frr. 39 e 40, dove appunto Varrone indica che tipo di ingredienti venivano pressati, ma dà per scontato il fatto che essi venissero torchiati. Specifico questo perché, come si vedrà al fr. 39, sono state proposte correzioni al testo di questi frammenti proprio partendo dal fatto che Varrone non parla espressamente dell’operazione della torchiatura. 38 (= 43 R., 317 S.) sapam appellabant quod de musto ad mediam partem decoxerant; defretum, si ex duabus partibus ad tertiam redegerant defervefaciendo 1: defrutum Iunius, Voigt, Müller Non. p. 885.18-21: SAPA, quod nunc mellacium dicimus, mustum ad mediam partem decoctum. Varro de vita populi Romani lib. I:
chiamavano sapa la parte di mosto che avevano fatto cuocere fino a ridurla alla metà del suo volume originario; (lo chiamavano) defretum se, facendo bollire il mosto, ne avevano ridotto il volume di due terzi, portandolo a un terzo Il frammento descrive due diversi tipi di mosto cotto, la “sapa” (vedi OLD 1690) e il “defretum” (cfr. ThLL V, 1 375.4-44), di cui il secondo era più denso del primo. Il processo di produzione di queste conserve è piuttosto semplice: il mosto viene portato a ebollizione (“defervefaciendo”) e lasciato cuocere finché si restringa ed evapori in parte. Se viene ridotto alla metà del suo volume originario, il risultato è detto “sapa”; se viene lasciato ancora sulla fiamma, finché si riduca a un terzo, si parla di “defretum”. Una ricetta particolarmente dettagliata di “sapa” e “defretum” si trova in Col. 12, 19-21, dove si ritrovano le proporzioni indicate da Varrone (19, nec dubium quin ad dimidiam si quis excoxerit, meliorem sapam facturus sit; 21, mustum quam dulcissimi saporis decoquetur ad tertias et decoctum … defrutum vocatur), mentre Plin. 14, 80 inverte il dato (chiama “sapa” il mosto ridotto a un terzo, “defrutum” quello ridotto a metà); per le altre fonti, vedi Salvadore 2004, pp. 69-70. La costruzione di “decoquo” con “ad” e l’accusativo è canonica per indicare il limite della cottura (vedi ThLL V 202.61-76); anche il raro verbo “defervefacio”, dal significato pressoché identico a “decoquo”, è proprio della prosa tecnica, dove è attestato fin da Catone (vedi ThLL V 321.38-46). 182
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Ritengo valga la pena di soffermarsi sull’espressione “ex duabus partibus ad tertiam redegerant”. Se il senso di “ad tertiam redegerant” è chiaro (“ne avevano ridotto il volume a un terzo”; il confronto col presente frammento conferma anche la correzione a r.r. 1, 64, tum decocunt in ahenis leni igni, duas partes quaad regerunt) e trova riscontro nella ricetta del “defretum” riportata da Columella, nonché in r.r. 1, 2.26, usque qua ad tertiam partem decoxeris, credo tuttavia che sia difficile attribuire un senso preciso a “ex duabus partibus”. Infatti, l’interpretazione più immediata suggerirebbe di intendere il sintagma come una sorta di complemento di provenienza: il mosto era portato da una misura di due terzi a quella di un terzo. Tuttavia, questo presupporrebbe che per la produzione del “defretum” venisse impiegato del mosto in qualche modo già ridotto a due terzi, il che non è indicato da nessuna fonte. Si potrebbe ipotizzare che Varrone, in modo un po’ sintetico, volesse dire che, di tutto il vino raccolto nella vendemmia, solo i due terzi erano destinati alla cottura: il senso dunque sarebbe “se i due terzi del mosto totale erano ridotti per evaporazione a un terzo”. Questa ipotesi si scontra con il fatto che una precisazione del genere non è affatto fornita nella parte del frammento dedicata alla “sapa”, dove si parla esclusivamente di una “parte del mosto ridotta a metà”, senza indicare che questa parte non corrispondeva a tutto il mosto raccolto, ma solo a una sua frazione. Ritengo dunque più prudente attenersi a quello che Varrone dice sicuramente nel frammento, e cioè che la “sapa” era mosto cotto fino alla metà, il “defretum” mosto cotto fino a un terzo. Ora, se il “defretum” era ridotto a un terzo del volume, è evidente che doveva perdere, in ebollizione, i due terzi del suo volume. La mia proposta sarebbe quindi di intendere “ex duabus partibus ad tertiam redegerant” non tanto come “l’avevano ridotto da due terzi a un terzo”, quanto “l’avevano ridotto DI due terzi a un terzo”. Varrone, che, come ho detto, fornisce le ricette di queste bevande con una certa rapidità, avrebbe potuto per esigenze di sintesi rendere il concetto (che sarebbe stato meglio espresso, ad es., con un ablativo assoluto “duabus partibus sublatis”) con la forma non del tutto propria “ex duabus partibus”. Questa lettura è confermata anche dal confronto con r.r. 1, 61.1, dove, nel dare la ricetta della “amurca”, Varrone chiarisce de ea decoquuntur duae partes (se ne riducono i 2/3): nel fr. 39, l’espressione “ex duabus partibus” potrebbe indicare, in modo più conciso, la medesima cosa. In alternativa, si potrebbe sempre supporre che “ex duabus partibus” si riferisca a un termine citato menzionato nel seguito del frammento ed escluso dal 183
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taglio di Nonio: “lo chiamavano defretum se, di due parti di mosto, (una) veniva ridotta per bollitura a un terzo, (l’altra …)”. Certo, si tratterebbe di una soluzione di comodo, del tutto indimostrabile e per giunta viziata dal fatto che le altre fonti parlano semplicemente di mosto ridotto a un terzo, senza alcun accenno a una divisione del mosto in due parti. In conclusione, preferisco dare a “ex duabus partibus” il senso di “di due terzi” (seguendo la seconda delle tre soluzioni proposte), pur segnalando che verrebbe così attribuito alla preposizione “ex” un significato improprio. 39 (= 41 R.; 318 S.) passum nominabant, si in vindemia uvam diutius coctam legerent eamque passi essent in sole aduri 1: passum codd., Lindsay, Sal. (recte: de passo primario loquitur, cfr. Col. 12, 39); passam Müller, Rip. | vindemiam codd.; corr. Bamb.; 2: in sole aduri *** Müller | vino addito lorea passum vocare coeperunt post aduri ex fr. 40 suppl. Rip. (praeeunte Wessner) Non. p. 885.22-24: PASSVM. Varro de vita populi Romani lib. I:
chiamavano passum (il vino che ottenevano), se durante la vendemmia sceglievano l’uva maturata più a lungo e la lasciavano essiccare ai raggi del sole Il frammento fornisce la descrizione della bevanda citata nell’elenco del fr. 36 dopo “sapa” e “defretum”, il “passum”. Con questo termine si designano due prodotti diversi (vedi ThLL X 200.84-202.28): un “passum” primario, ottenuto dalla spremitura di acini essiccati al sole, e diversi tipi di “passum” secondario (miscele di “passum” primario con altri derivati dell’uva e spezie o frutto di una seconda spremitura dei raspi rimasti dalla produzione del “passum” primario). Il fr. 39 tratta senza dubbio del “passum” primario: come nel fr. 37, Varrone si limita a indicare il tipo d’uva che veniva selezionata per realizzare questa bevanda (acini lasciati maturare a lungo e seccare al sole, per accrescerne il contenuto zuccherino), sottointendendo come ovvio il fatto che venisse poi pigiata. Del resto, la ricetta fornita da Col. 12, 39 concorda in tutto con quanto qui detto da Varrone, confermando che la bevanda in questione è il “passum” primario e che le uve selezionate di cui parla il fr. 39 venivano torchiate: uvam praecoquem bene maturam legere … in sole pandere uvas … cum deinde exaruerint … prelo premere 184
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passumque tollere (vedi anche Plin. n. h. 14, 81, quidam ex quacumque dulci, dum praecocta, alba faciunt siccantes sole … tunsasque leniter exprimunt). Di conseguenza, è del tutto ingiustificato l’intervento di Müller (accolto da Riposati), che corregge “passum” in “passam”. Il filologo ritiene che, poiché nel frammento non è espressamente menzionata l’operazione della torchiatura, Varrone non vi parlasse ancora del “passum” bevanda, ma si riferisse alla sola uva passa, il cui uso per la produzione del “passum” sarebbe stato trattato nel seguito del brano. Come si è detto, l’argomento che non si parli di torchiatura non è valido, così come non è affatto economico pensare che Varrone non rispettasse la partizione della materia indicata nel fr. 36 e interrompesse la sezione sulle bevande permesse alle donne con una descrizione dell’uva passa. Per quanto riguarda la struttura sintattica della frase, merita di essere segnalata l’anomalia nella consecutio che vede un’azione anteriore (“uvam diutius coctam legerent”) espressa al congiuntivo imperfetto e una posteriore (“eamque passi essent in sole aduri”) al piucheperfetto (con “legissent” al posto di “legerent” la sintassi sarebbe molto più regolare). Preferirei evitare di correggere il testo tradito, in quanto l’intervento rischierebbe di essere una banalizzazione; tuttavia, se Nonio ha trasmesso la citazione nella sua forma genuina, il motivo che può aver portato Varrone a una scelta così insolita rimane difficile da motivare. Può darsi che Varrone, dopo aver concepito la prima parte della descrizione della produzione del “passum” primario nella forma “passum nominabant, si in vindemia uvam diutius coctam legerent” (se la frase si fermasse qui, sarebbe ineccepibile dal punto di vista sintattico), avesse scritto il seguito cambiando prospettiva, ossia non descrivendo più l’azione rispetto al momento della raccolta dell’uva, ma rispetto a quello della torchiatura: poiché l’atto di far essiccare gli acini al sole precede la loro spremitura, l’uso del piucheperfetto sarebbe giustificato. Con la consueta rapidità, un po’ trascurata, del suo stile, Varrone non si sarebbe preoccupato di segnalare meglio questo salto logico né di appianare la sintassi del brano in una revisione dell’opera, lasciando il testo anomalo che troviamo. In alternativa, si potrebbe anche pensare che la seconda parte del brano esprimesse davvero un’azione anteriore rispetto a “uvam diutius coctam legerent”: Varrone, dopo aver detto che, per realizzare il “passum”, si usava l’uva “cocta” più a lungo, potrebbe aver sentito l’esigenza di specificare cosa intendesse per “diutius coctam”. L’espressione avrebbe anche potuto voler dire “i grappoli d’uva colti per ultimi e quindi lasciati maturare al sole più a lungo degli altri”, concetto 185
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che Varrone potrebbe aver voluto esprimere con la precisazione “eamque passi essent in sole aduri”. Se così fosse, l’azione espressa da questa parte verrebbe effettivamente prima di quella della raccolta dell’uva e la consecutio del brano sarebbe regolare. Tuttavia, il confronto con le fonti parallele sulla produzione del “passum” (vedi supra) porta a preferire l’idea che “eamque passi essent in sole aduri” vada riferito all’essiccazione dell’uva dopo la raccolta, non a una sua maturazione prima della vendemmia. Quindi, in conclusione, preferisco accogliere la lettura vulgata del frammento, pur segnalando la stranezza sintattica del testo tradito. 40 (= 42 R; 319 S.) vino addito lora, passum vocare coeperunt. muriolam nominabant, quom ex uvis expressum erat passum et ad folliculos reiculos et vinacia adiciebant sapam 1: vino addito lora passum (passum iam Bentin) Wessner, Maggiulli (de passo secundario loquitur, cfr. Col. 12, 39; Plin. n. h. 14, 82); vino addito lora passi codd.; vino addito lorae passum Kettner; vino addito loram passi Bücheler; vino addito lorae passi Voigt; vino addito loram passum Müller, Lindsay, Sal. | vocare codd. (vocari L); vocitare Quicherat, Voigt; mutare Müller; potare Popma | moriolam PDA, Rip. | quom Bücheler, Müller (cum André); quod codd., Lindsay, Rip., Sal., Maggiulli; 2: exsuviis codd. (exsuvis Paris. 7666; ex uvi AA) | passum et ad folliculos om. DA | reiculos Müller, Lindsay, Rip., Sal.; reiquos codd. (reliquos cod. N. Fabri) | adiciebant Iunius, Bücheler, Wessner, Voigt, Rip., Maggiulli; ea dicebant codd., Lindsay, Sal.; adiecerant Müller | sapam om. CA, secl. Rip. Non. p. 885.25-1: MVRIOLAM. Varro de vita populi Romani lib. I:
dopo aver aggiunto vino o lora, presero a chiamare passum (la bevanda risultante). Chiamavano muriola (la bevanda ottenuta) quando il passum era stato estratto dagli acini e a questi raspi di scarto e alle vinacce aggiungevano la sapa Nel commento al frammento precedente si è accennato al fatto che, accanto al “passum” primario, esistevano anche diversi tipi di “passum” secondario. Questo veniva realizzato aggiungendo del mosto alle vinacce rimaste sul fondo della pressa come residuo della spremitura del “passum” primario e sottoponendo la mistura così ottenuta a una seconda torchiatura: vedi Col. 12, 39, postea (sc. subito dopo aver raccolto il “passum” primario; questo brano segue immediatamente il passo citato al fr. 39) vinaceos calcare, adiecto recentissimo musto, quod ex 186
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aliis uvis factum fuerit, quas per triduum insolaveris; tum permiscere et subactam brisam (vinaccia) prelo subicere passumque secundarium statim vasis oblitis includere. Un processo simile è descritto anche da Plin. n. h. 14, 82, che però dice di ravvivare i raspi non con mosto, ma con acqua: dein (anche questo brano segue immediatamente quello citato al fr. 39) quantum expressere adiciunt vinaceis aquae puteanae, ut et secundarium passum faciant. Il mio sospetto è che Varrone, dopo aver descritto il “passum” primario nel fr. 39, procedesse nella trattazione aggiungendo che si dava il nome di “passum” anche a un’altra bevanda. A questo punto doveva comparire una rapida descrizione del “passum” secondario, di cui l’inizio del fr. 40 (fino a “vocare coeperunt”) costituirebbe la parte conclusiva. Il punto è che questa pericope è tradita nei codici in forma molto corrotta: “vino addito lora passi vocare coeperunt”. La correzione più immediata è quella di “passi” in “passum” (del Bentin), che fornisce un oggetto a “vocare coeperunt”. In parallelo, sono state avanzate diverse proposte di intervento su “lora”. Per chiarezza, indicherò di seguito le varie soluzioni adottate dagli editori, discutendole singolarmente. Kettner stampa: “vino addito lorae, passum vocare coeperunt” (dopo aver aggiunto del vino alla lora, presero a chiamare passum la bevanda risultante). Questa soluzione comporterebbe un dato anomalo, in quanto non abbiamo alcuna attestazione del fatto che il “passum” fosse una miscela di vino e “lora” e, in generale, sarebbe strana la menzione di un “passum” secondario che non avesse alcun ingrediente riconducibile al “passum” primario. Inoltre, dal punto di vista paleografico, la correzione in “lorae” è meno probabile di altre (ad esempio, “vel lora” o “loram”). Bücheler (1856, vedi fr. 39) propone: “vino addito loram passi vocare coeperunt” (dopo aver aggiunto del vino, presero a chiamare la bevanda risultante lora passi). Si tratta dell’intervento senza dubbio più leggero, ma non è esente da difficoltà: introduce infatti una bevanda, la “lora passi” la cui esistenza non è attestata da alcuna fonte e di cui è difficile comprendere la natura (un vinello ottenuto dal “passum” ?). Voigt 1873 corregge in “ vino addito lorae passi vocitare coeperunt” (aggiunto del vino alla lora passi, presero a chiamare questa bevanda muriola). Questa proposta complica ulteriormente le cose, dal momento che nello stesso fr. 40 si avrebbero due diverse definzioni della medesima bevanda, la “muriola” (tra l’altro, il fr. 40 costituisce l’unica menzione conservata di questo 187
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prodotto nella letteratura latina, per cui manca anche un riscontro esterno che permetta di verificare la validità dell’intervento). Ancora, non si comprende per quale motivo sia caduto proprio il termine “muriola” all’inizio del frammento (dato che questo è riportato da Nonio alla voce “muriola”, a maggior ragione proprio la parola “muriola” si sarebbe dovuta conservare nella citazione). Infine, lo stesso Voigt ammette di non potersi pronunciare sulla natura della “lora passi”; di conseguenza, presumere che la “muriola”, nota solo da questo frammento, consistesse in una miscela di vino e dell’ancor più misteriosa “lora passi” sarebbe quanto meno rischioso (tanto più che nel seguito della citazione è data una ricetta della “muriola” del tutto diversa). Lindsay (seguito da Salvadore) stampa “vino addito loram, passum vocare coeperunt”. Ammetto di avere delle difficoltà a intendere un testo del genere. A senso, lo si potrebbe tradurre “presero a chiamare passum la lora con aggiunta di vino”, ma l’interpunzione “loram, passum” rende la sintassi oscura. Comunque, questa proposta presenta le stesse difficoltà delle precedenti: non vi è alcuna attestazione che il “passum” fosse una miscela di vino e “lora”. La soluzione a mio dire più economica e che meglio tenga conto delle informazioni su queste bevande trasmesse da altre fonti (vedi supra) è quella di Wessner. Si è detto che esisteva un “passum” secondario ottenuto aggiungendo mosto (secondo Columella) o acqua (secondo Plinio) ai raspi rimasti spremendo il “passum” primario e torchiando di nuovo questa mescola. Ora, Wessner propone di correggere il testo tradito in “vino addito lora, passum vocare coeperunt” (“dopo aver aggiunto del vino o della lora, presero a chiamare passum la bevanda risultante”). L’origine dell’errore si spega molto bene ipotizzando che “vel” fosse compendiato: “vino addito ł lora” sarebbe facilmente passato a “vino addito lora” per aplografia di una “l”; a questo punto, una volta guastatasi la sintassi, la corruttela potrebbe essersi estesa a “passum”, fino ad arrivare al testo “lora passi”. Soprattutto, credo che questo sia l’unico intervento in grado di accordare il frammento con quanto sappiamo del “passum” secondario da fonti diverse da Varrone. Ricordiamo che, come conferma la “lex Lindsay”, il fr. 40 veniva dopo la descrizione del “passum” primario. Ora, Varrone avrebbe potuto dire, nella parte precedente il taglio operato da Nonio, che esisteva anche un altro tipo di “passum”, che si otteneva aggiungendo alle vinacce del “passum” primario vino o “lora”. L’inizio del fr. 40 sarebbe appunto l’ultima parte di questa descrizione del “passum” secondario, per cui andrebbe ricostruito a senso un discorso del genere: 188
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“(ai resti del passum primario) aggiunti vino o lora, presero a chiamare passum anche questo”. Quanto all’aggiunta di vino, essa è testimoniata da Columella: in questo, dunque, il frammento di Varrone e la ricetta del de re rustica concorderebbero perfettamente. Una discrepanza si avrebbe circa il fatto che Plinio, dando un’altra ricetta della stessa bevanda, parli di aggiunta di acqua, Varrone di “lora”. Va detto, però, che la “lora” (cfr. fr. 37) era il derivato dell’uva meno alcolico in assoluto e consisteva per lo più in acqua insaporita col mosto: di conseguenza, è possibile ipotizzare che la ricetta che prevedeva l’aggiunta di “lora” fosse una variante un po’ più saporita di quella che richiedeva l’aggiunta di acqua (del resto, l’operazione di aggiungere un liquido era volta a ravvivare i raspi di scarto perché questi potessero essere di nuovo torchiati; si potrebbe dunque ammettere che esistessero diversi tipi di “passum” secondario di diversa qualità a seconda che si usasse, per dare volume ai raspi, vino, “lora” o acqua: lo stesso Columella riporta tre diverse ricette per tre diverse qualità di “passum” secondario, una che prevede l’aggiunta di mosto (al par. 39.2), una che richiede di aggiungere vino invecchaito (al par. 39.3), una terza (al par. 39.4) che prescrive di usare acqua piovana). Come si vede, il testo di Wessner richiede che qualcosa vada supplito a senso; tuttavia, ritengo che questa operazione, sulla scorta del parallelo di Columella, sia piuttosto agevole e che la proposta di Wessner resti la migliore. Wessner, tuttavia, nel tentativo di dare un oggetto alla frase, procede a ulteriori correzioni, che coinvolgono anche il frammento precedente e sono accolte da Riposati. Riposati, dunque, seguendo Wessner e, per giunta, ritenendo che il fr. 39 (41 secondo la sua numerazione) parlasse non ancora del “passum”, ma dell’uva passa (per cui stampa “passam”, vedi fr. 39), lega la prima parte del fr. 40 al frammento precedente e stampa come fr. 40 (42 secondo la sua numerazione) soltanto la parte della citazione relativa alla “muriola” (dove espunge “sapam”). Il testo risultante dei due frammenti viene così ad essere: – fr. 41 R. (= 39): passam nominabant si in vindemia uvam diutius coctam legerent eamque passi essent in sole aduri; vino addito lorea passum vocare coeperunt – fr. 42 R. (= 40): moriolam appellabant quod ex uvis expressum erat passum et ad folliculos reiculos et vinacia adiciebant Tralasciando l’ingiustificato impiego delle grafie “lorea” e “moriola”, in questo modo si interviene in modo eccesivo sul testo. Infatti, non ritengo sia necessario staccare la prima parte del fr. 40 dalla citazione di Nonio in cui essa è riportata e 189
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unirla al fr. 39. Anche la mia ricostruzione ipotizza che la pericope citata da Nonio alla voce “muriola” sia composta da spezzoni di due frasi diverse, relative l’una al “passum”, l’altra alla “muriola”. Tuttavia, non credo che per questo la citazione vada spezzata e, soprattutto, mi sembra difficile ipotizzare la caduta di testo all’interno della citazione di Nonio (fra “coeperunt” e “muriola”), mentre ritengo più economico che Varrone passasse dal “passum” primario a quello secondario nella parte di testo omessa da Nonio che intercorreva fra la fine del fr. 39 e l’inizio del fr. 40. La seconda parte del frammento è dedicata all’illustrazione della “muriola”. Come ho detto, in questo caso va tenuto conto del fatto che la citazione costituisce l’unica fonte rimasta su questa bevanda, per cui, nel procedere all’emendazione del testo tradito (profondamente corrotto) manca la possibilità di confrontare quanto qui detto con altre fonti. I codici riportano il seguente testo: “muriolam nominabant, quod ex uvis expressum erat passum et ad folliculos reiquos et vinacia ea dicebant sapam”. Lindsay e Salvadore riportano la citazione nella forma tradita, con l’unica differenza che accolgono l’ottima congettura di Müller “reiculos” per la vox nihili “reiquos” (“reiculus” è un termine proprio del lessico tecnico dell’agricoltura e dell’allevamento per indicare qualcosa che viene scartato, vedi OLD 1063, e “reiculos” è chiaramente difficilior rispetto alla congettura umanistica “reliquos” riportata da un codice tardo). Il testo stampato da Lindsay e Salvadore reca a mio parere enormi difficoltà sul piano della sintassi e del contenuto: in breve, non vedo come lo si possa tradurre. In particolare, mi sembra che con un testo del genere la stringa “et ad folliculos reiculos” non possa essere legata a nulla: non può esere riferita né a “quod ex uvis expressum erat passum”, né a “et vinacia ea dicebant sapam”, che sono due frasi in sé compiute (così è difficile ipotizzare un parallelismo “et ad folliculos … et vinacia ea”, in quanto “dicebant” si riferirebbe solo a “vinacia”, non a “folliculos”). Come ho detto, la proposizione “ad” non è retta da alcun termine presente nella citazione, per cui è quasi impossibile dare una traduzione del frammento: il tentativo a senso “chiamavano muriola il passum che era stato estratto dagli acini e oltre ai raspi di scarto (?) e chiamavano sapa quelle vinacce” mostra evidentemente tutta la debolezza di questo testo. Inoltre, si avrebbe un’identificazione priva di attestazioni della “sapa” con le vinacce (contra vedi fr. 38). Questo problema è sanato dalla buona congettura dello Iunius (che Wessner definisce «gewiβ richtig») “et vinacia adiciebant”, che dà un ottimo senso e riesce a integrare “ad folliculos reiculos” nella sintassi del brano. 190
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Tenendo conto di queste difficoltà e delle congetture dello Iunius e di Wessner, Riposati propone la forma del testo che ho indicato sopra e che qui, per chiarezza, riporto di nuovo: “moriolam appellabant quod ex uvis expressum erat passum et ad folliculos reiculos et vinacia adiciebant”. Ho già detto che la scelta di adottare la grafia “moriola” è gratuita; questo testo, tuttavia, è segnato da un intervento ancora più ardito. Riposati, infatti, espunge “sapam” al termine della citazione. In questo modo, riesce a dare al brano una sintassi coerente (chiamavano muriola il passum che era stato estratto dagli acini e che aggiungevano ai raspi di scarto e alle vinacce), ma operando l’espunzione di un termine che, data la nostra ignoranza di cosa fosse la “muriola”, non andrebbe eliminato, credo, con tanta perentorietà. Anche la Maggiulli riporta sostanzialmente il testo di Riposati, ma mantiene “sapam” a testo: “muriolam nominabant quod ex uvis expressum erat passum et ad folliculos reiculos et vinacia adiciebant sapam”. Il problema posto da questo testo è che la sintassi, resa accettabile da Riposati con l’espunzione di “sapam”, torna ad essere durissima, in quanto diviene difficile inquadrare “quod” nel discorso. Credo che il contesto escluda che “quod” possa essere inteso come congiunzione causale (il che darebbe un testo privo di alcuna indicazione di un’etimologia: “la chiamavano muriola perché il passum era stato estratto dagli acini e ai raspi di scarto e alle vinacce aggiungevano della sapa”). “Quod” andrebbe quindi inteso come un pronome relativo; ma anche questa soluzione comporta non poche difficoltà. Infatti, per quanto “quod” potrebbe essere legato a “passum”, lasciando “sapam” a testo, non lo si può di certo connettere al seguito della frase (“et ad folliculos …”), che andrebbe quindi inteso come una nuova principale coordinata per polisindeto a “muriolam nominabant” e non come un’altra secondaria retta da “quod” (il senso sarebbe: “chiamavano muriola il passum estratto dagli acini | e aggiungevano della sapa ai raspi di scarto e alle vinacce”). Come si vede, il testo così stabilito presenta un andamento traballante, una maldestra brachilogia. Inoltre, anche sul piano del contenuto lascia a desiderare: vi verrebbe proposta un’identificazione fra la “muriola” e il “passum” spremuto dagli acini (con la conseguenza che la “muriola” finisce per essere del tutto identica a un comune “passum” primario; se così fosse, perché mai Varrone avrebbe dovuto menzionarla come bevanda a sé nel fr. 36 e dedicarle una trattazione a parte, quando poteva rientrare benissimo in quella del fr. 39?), mentre l’operazione descritta nel seguito (l’aggiunta di “sapa” alle vinacce) andrebbe riferita alla produzione di una nuova bevanda sviluppata nella prosecuzione, tagliata fuori, del frammento. 191
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Credo che una buona soluzione a questi problemi sia la correzione di Bücheler (anticipato da Kettner, che integra “quod ”, e seguito da Müller) di “quod” in “quom”. Non solo questo intervento fornirebbe una sintassi accettabile, ma renderebbe anche il contenuto del frammento più in linea con quanto desumibile dalle ricette di Plinio e Columella. In conclusione, per il fr. 40 stamperei questo testo: “vino addito lora passum vocare coeperunt. muriolam nominabant quom ex uvis expressum erat passum et ad folliculos reiculos et vinacia adiciebant sapam” (“dopo aver aggiunto vino o lora, presero a chiamare passum la bevanda risultante. Chiamavano muriola la bevanda ottenuta quando il passum era stato estratto dagli acini e a questi raspi di scarto e alle vinacce aggiungevano la sapa”). Come si è detto più volte, il “passum” secondario si otteneva aggiungendo o vino o acqua (che poteva essere sostituita con la “lora”, come spiega questo frammento) ai raspi rimasti come fondo di spremitura del “passum” primario e pressando una seconda volta questa mistura. Ora, la “muriola” sarebbe un particolare tipo di “passum” secondario dolcissimo, in quanto al posto di mosto o acqua alle vinacce rimaste veniva aggiunta la densa e zuccherina “sapa”. Adottando la correzione “quom” non solo viene descritto esattamente questo processo, ma acquista significato anche l’uso di due tempi verbali diversi per indicare le due fasi successive in cui era realizzata la “muriola” (“expressum erat”, ma “adiciebant”). Si poteva appunto procedere alla preparazione della “muriola” solo dopo che era stato spremuto il “passum” primario; a questo punto, venivano raccolte le vinacce rimaste sul fondo del torchio, erano amalgamate con della “sapa” e torchiate di nuovo (Varrone sottintende questo passaggio, come negli altri frammenti della sezione sulle bevande); il risultato della seconda spremitura era appunto la “muriola”. 41 (= 52a R.; 320 S.) itaque ea sibi modo ponere ac suspendere quae utilitas postularet: trulleum, matellionem, pelvim, nassiternam, non quae luxuriae causa essent parata 1: ea cives modo petere ac suspicere Müller | trulleam CADA; 1-2: matelliorem codd., corr. Bentin; 2: esse codd., corr. Scaliger Non. p. 877.3-6: TRVLLEVM, quo manus perluuntur. Varro de vita populi Romani lib. I. 1: TRVLLEAM CADA | vas quo Müller
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e così avevano a portata di mano e appendevano per uso personale solo quegli oggetti che la praticità richiedesse: il secchio, il catino, la bacinella, l’innaffiatoio, non quelli che fossero stati ricercati per sfarzo Conclusa la sezione sulle bevande, Varrone passava a trattare un nuovo argomento: la suppellettile domestica. Come per la parte sull’alimentazione, si può ricostruire abbastanza bene la struttura e l’articolazione interna di questa sezione grazie a un’attenta applicazione della “lex Lindsay” (su tutta la questione, rimando a quanto detto nell’introduzione). Il frammento in questione potrebbe appartenere a una parte introduttiva in cui era presentata, con un certo tono da laudator temporis acti, la semplicità della suppellettile arcaica, contrapposta all’ostentazione di servizi di lusso propria del tempo di Varrone. Si può ipotizzare questo dal fatto che nella citazione diversi tipi di recipienti vengono soltanto menzionati, senza che ne venga fornita una descrizione più dettagliata, mentre il motivo portante del frammento è costituito dal confronto moralistico fra le due epoche, l’età monarchica e quella contemporanea. Ciò porterebbe appunto a inquadrare la citazione non nel contesto della descrizione antiquaria dei tipi di vasellame più antichi, ma nell’ambito di una sorta di proemio alla trattazione della suppellettile in cui la presentazione della materia di questa parte del de vita poteva essere accompagnata da qualche frase (come quella qui riportata da Nonio) dove erano sfruttati alcuni motivi retorici di critica dei costumi. Il senso della citazione è che nelle case degli antichi Romani erano in bella mostra non corredi di vasellame di lusso esposti per ostentazione, ma i semplici oggetti necessari alla vita quotidiana, posti in un luogo visibile e facilmente raggiungibile perché fossero sempre a portata di mano. Varrone, poi, nomina a titolo di esempio alcuni di questi oggetti. Se il contenuto generale del frammento è chiaro, il testo dà comunque adito a varie piccole questioni che credo valga la pena di affrontare. In primo luogo, “ponere ac suspendere” vanno intesi come infiniti storici o come degli infiniti normali? Poiché le subordinate, nel periodo, hanno il congiuntivo imperfetto e piucheperfetto, la consecutio temporum non smentirebbe l’ipotesi che si possa trattare di infiniti storici (il cui soggetto, qualcosa come “antiqui” o “maiores nostri”, compariva nella parte del frammento tagliata da Nonio). Tuttavia, Varrone nel de vita, quando descrive gli usi degli antichi, tende a usare normalmente l’imperfetto, mentre l’unico caso ipotizzabile, nei fram193
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menti dell’opera, di infinito storico, “solere” nel fr. 10, è dubbio e controverso (vedi comm. ad loc.). Per questo, avrei delle remore a intendere “ponere ac suspendere” come infiniti storici. Una soluzione potrebbe essere ipotizzare che, nella parte di testo tagliata, comparisse un verbo come “solebant” a reggere i due infiniti. Tuttavia, temo che a questa proposta si possano avanzare due obiezioni. Infatti, se “solebant” era posto nella parte precedente alla citazione, si avrebbe un testo dalla sintassi piuttosto dura: “itaque” sembra aprire un nuovo discorso, per cui rispetto a “solebant itaque … ponere ac suspendere” sarebbe molto più normale l’ordo “itaque solebant … ponere ac suspendere”. Credo, però, che integrare “solebant” all’interno della pericope riportata da Nonio sia in questo caso un intervento eccessivo, che equivarrebbe a riscrivere l’intero frammento; d’altro canto, dubito che un verbo reggente di “ponere ac suspendere” potesse comparire prima di “itaque”. Se, viceversa, “solebant” era posto nell’immediato seguito del frammento (dopo “parata”), comunque si avrebbe un testo molto duro, dove il verbo reggente e gli infiniti retti sarebbero posti a grande distanza l’uno dagli altri e separati da una porzione considerevole di testo (“quae utilitas … essent parata”). Come si vede, supporre la presenza di un verbo da cui dipendano i due infiniti comporta delle difficoltà. In conclusione, credo che la soluzione tutto sommato più economica sia quella di pensare che la frase citata da Nonio sia estratta da una parte più ampia tutta al discorso indiretto (un po’ come si è ipotizzato per il fr. 10). Varrone poteva riportare una serie di aneddoti sulla semplicità dell’arredamento antico in forma indiretta (con un verbo come “tradunt” o “accipimus”); all’interno di questa serie si sarebbe trovata appunto anche la frase che costituisce il fr. 41. Del resto, il fatto che la citazione si apra con “itaque” fa proprio pensare che il frammento non rappresentasse un pensiero isolato, ma si connettesse a un discorso precedente. Un’altra questione è posta dal nesso “sibi ponere ac suspendere”. Per spiegare “suspendere” ipotizzerei che qui Varrone stesse pensando alla pratica di appendere gli utensili, per mezzo di ganci, a pertiche sospese al soffitto (come nel tugurio di Enotea descritto nel Satyricon, 135.8); quanto a “ponere”, darei al verbo il significato comune di “porre, collocare” (trattandosi di oggetti, forse sarebbe meglio dire “riporre” o “mettere a posto”). Farei dipendere “sibi” contemporaneamente da entrambi i verbi, dando così al nesso “ponevano e appendevano gli oggetti per sé” quello di “li mettevano sempre a portata di mano per il proprio uso”. Poiché nel seguito del frammento questi oggetti di utilità pratica vengono 194
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contrapposti alla suppellettile acquisita solo “luxuriae causa”, si potrebbe anche pensare a un contrasto implicito fra gli oggetti esposti “sibi” (perché servivano agli antichi per le operazioni quotidiane) e quelli esposti “aliis” (come l’argenteria di lusso, che non ha un’utilità pratica immediata, ma è una pura ostentazione di ricchezza; non va tanto adoprata dal possessore quanto mostrata agli altri). Tuttavia, dato che questo contrasto “sibi / aliis” non è esplicitamente presente nel testo, ma andrebbe sottinteso, preferisco mantenere l’interpretazione più letterale e intendere “sibi ponere ac suspendere” nel senso “posizionavano e appendevano per uso personale”. Per quanto riguarda la parte sulla “utilitas” della suppellettile degli antichi, il parallelo più vicino è rappresentato da r.r. 1, 22.3, ea (sc. instrumenta) si empta erunt potius ad utilitatem quam ob speciem: nell’acquisto di utensili bisogna sempre seguire il criterio della loro utilità, senza badare alla vana apparenza. Propongo quindi di intendere l’espressione “quod utilitas postularet” nel senso di “ciò che la praticità richiedeva”. Non è escluso che Varrone abbia voluto ricalcare la formula sul nesso più ordinario “usus postulat”114, sostituendo a “usus” il sinonimo più ricercato “utilitas” (una scelta del genere si capirebbe bene come impennata stilistica in una sezione proemiale). In particolare, sarebbe interessante il confronto con un passo dove Columella (12, 2.3) parla proprio del modo in cui occorre disporre gli utensili di uso comune (tema del capitolo è appunto instrumentum et supellectilem distribuere, vedi 12, 3.1): tutto il discorso ricorda piuttosto da vicino quanto detto nel frammento del de vita (occorre che gli oggetti siano sempre a portata di mano, così che possano essere subito adoperati quando il bisogno lo richiede), praeparatis igitur receptaculis oportebit suo quidque loco generatim atque etiam specialiter nonnulla disponere, quo facilius, cum quid expostulabit usus, recipere possit (vedi anche 12, 4.3, dove si parla di schiavi che devono essere sempre a disposizione per recare al padrone gli utensili che gli servono, per quos promantur quae usus postulaverit). Sebbene il confronto con r.r. 1, 22.3 inviti a intendere “utilitas” nel fr. 41 nel senso proprio di “utilità, praticità” piuttosto che in quello di “bisogno”, sospetto quindi che, a livello di orecchio, Varrone possa aver forgiato l’espressione “quae utilitas postularet” sul nesso comune “usus postulat” (o espressioni analoghe, proprie, come si è visto, della prosa tecnica). Per “usus postulat” (l’utile del momento richiede che…), vedi Vitr. 6, 4.1; Liv. 34, 6.13; 40, 20.7. 114
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Venendo a un’illustrazione dei recipienti menzionati nel frammento, si tratta per lo più di contenitori adatti al trasporto di liquidi (soprattutto acqua). Il primo oggetto menzionato è il “trulleum” (del termine è attestata anche una variante al maschile, “trulleus”, vedi OLD 1981; in questo frammento e nel successivo fr. 42 il termine è all’accusativo, per cui è difficile dire se Varrone nel de vita adoperasse la forma neutra o quella maschile; farebbero propendere per il neutro il lemma di Nonio “trulleum” e il fatto che nel de lingua Latina (5, 118) Varrone usi il termine “truleum” al nominativo). Si tratta certamente di un contenitore per acqua, di cui Varrone fornisce una descrizione nel passo appena citato del de lingua Latina (dubito si possa giungere a una conclusione sul problema se debba essere accolta la grafia “trulleum” data da Nonio o quella “truleum” presente nel l. L.: “truleum” infatti potrebbe essere tanto la forma effettivamente usata da Varrone e normalizzata nell’ortografia da Nonio, quanto un tic grafico del codex unicus del de lingua Latina; nell’edizione del frammento, ho preferito accogliere “trulleum” poiché le attestazioni del termine in altri autori hanno tutte la grafia con la doppia): trulla a similitudine truae, quae quod magna et haec pusilla, ut truella; hanc Graeci trullan. trua[e] qu e culina in lavatrinam aquam fundunt; trua, quod travolat ea aqua. ab eodem est appellatum truleum: simile enim figura, nisi quod latius est quod concipit aquam, et quod manubrium cavum non est nisi in vinario truleo. Il passo di Varrone parla di alcuni tipi di vasellame che avrebbero la stessa etimologia: la “trua”, la “trulla” e appunto il “trulleum”. Le informazioni qui date sulla “trua” sono in contrasto con quanto sappiamo dalle altre fonti (vedi OLD), che la presentano con certezza come un grosso mestolo da cucina, usato per amalgamare il cibo in cottura (la “trulla”, più piccola, sarebbe invece un mestolo da portata, impiegato per versare una bevanda dal cratere o dalla zuppiera nelle coppe o nei piatti dei singoli commensali). Varrone, invece, parla della “trua” come di un catino usato per scolare l’acqua dalla cucina alla latrina (la “trulla” ne sarebbe l’equivalente di dimensioni più ridotte; in realtà, è più probabile che sia “trua” un derivato da “trulla”, termine preso in prestito dal greco, piuttosto che “trulla” sia un dimutivo di “trua”, come crede Varrone, vedi Ernout - Meillet p. 1244). Tralasciando il problema, insolubile, della discrepanza fra la “trua” bacile di Varrone e quella mestolo delle altre fonti, il passo è interessante per quello che nel seguito è detto del “trulleum”. Varrone propone per questo contenitore la stessa etimologia avanzata per “trua”: il loro nome deriverebbe dal fatto che l’ac196
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qua “vi passa attraverso”. Più importante è la descrizione in sé del “trulleum”, da cui si ricavano le seguenti informazioni: il “trulleum” era simile nell’aspetto alla “trua” (come la intende Varrone), ossia era un piccolo catino; era piuttosto ampio, con un’imboccatura più larga di quella della “trua”; era usato soprattutto come recipiente per acqua e, di norma, non aveva alcun manico (solo il “trulleum” da vino era fornito, stando a Varrone, di un manico cavo, come quello delle nostre tazze). Per quanto riguarda la definizione di Nonio “TRVLLEVM quo manus perluuntur”, sospetto sia frutto di un fraintendimento di Nonio stesso; pertanto, esito a presentare il “trulleum” come un tipo di lavabo (conclusione che si ricaverebbe dal solo lemma di Nonio, ma non dal testo di Varrone), ma preferisco considerarlo una sorta di piccolo secchio. Anche il “matellio” (il cui nome è un derivato da “matula”, cfr. l. L. 5, 119, matellio a matula dictus) era un contenitore per acqua (vedi ThLL VIII 435.1728). Il termine “matula” in sé può riferirsi a diversi tipi di recipiente e indicare tanto una sorta di secchio quanto l’orinale (vedi ThLL VIII 491.76-492.5 e cfr. fr. 48); per quanto riguarda il “matellio”, le scarse attestazioni del termine rimaste concordano nell’indicare che si trattava di un vas aquarium. Non si può pretendere di sapere altro o di risalire al suo aspetto: di certo Varrone (nel brano citato del de lingua Latina) attesta che il “matellio” subì un’evoluzione e, quando ebbe assunto un aspetto troppo diverso da quello della “matula”, fu detto, in riferimento non più alla sua origine, ma alla sua funzione, “aqualis” (cfr. frr. 48 e 60). La “pelvis” (vedi ThLL X, 1 1021.38-1022.65) era un altro recipiente dai diversi usi: si trattava di una sorta di bacinella, usata per recare piccole quantità di acqua o di unguenti (come in Petr. 70.8). La “nassiterna”, infine, era un contenitore usato per spruzzare liquidi, qualcosa di molto simile, dunque, al nostro innaffiatoio (vedi Forcellini IV 227; OLD 1157). 42 (= 52b R.; 326 S.) urceolum aquae manale vocamus, quod eo aqua in trulleum effundatur. unde manalis lapis appellatur in pontificalibus sacris, qui tunc movetur cum pluviae exoptantur 1: aquae manale AA; aquae manalem LBA; aqua manalem CADA; aquimanale Müller; 3: exorantur Müller 197
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Non. p. 877.7-11: et (cit.) ita apud antiquissimos manale sacrum vocari quis non noverit? unde nomen illius. 1: et Kettner; et lib. II Scaliger; eius LBACADA; ius AA | ita – illius Nonio tribuit Sal. fortasse recte | manale AA; manalem rell.
chiamiamo la brocca aquae manale (lett. l’oggetto che fa uscire l’acqua), poiché la si usa per versare l’acqua nel secchio. Per lo stesso motivo nelle cerimonie dei pontefici si chiama manalis lapis la pietra che viene mossa quando si desiderano le piogge La citazione è riportata da Nonio nello stesso lemma dove è citato anche il fr. 41. Come si è detto nell’introduzione, a cui rimando per l’analisi dettagliata del problema, poiché il fr. 41 e il fr. 42 sono citazioni di diverso tipo, in linea teorica non potrebbe essere loro applicata la “lex Lindsay”. Ho scelto dunque di pubblicarli in serie soprattutto sulla base del loro contenuto: commentando il frammento precedente, si è ipotizzato che esso appartenesse a un’introduzione sulla suppellettile domestica. Si è anche visto che lì Varrone menziona una serie di recipienti adoperati nei lavori domestici: in questa categoria rientra anche il tipo di recipiente per acqua (il “trulleum”) citato nel fr. 42. Quindi, ho preferito inquadrare questo frammento nello stesso contesto presupposto per il fr. 41, piuttosto che immaginare (come fa Salvadore) che Varrone prima parlasse della suppellettile domestica in generale (nel fr. 41), poi sviluppasse una lunga sezione sui recipienti per il vino (corrispondente ai frr. 321-325 secondo la sua numerazione) e dopo di questa trattasse dei vasi per acqua (nel fr. 42) e di quelli per alimenti. Alla ricostruzione di Salvadore si può obiettare che, se così fosse, il contesto richiederebbe che Varrone, dopo la discussione dei vasa vinaria e prima di quella dei vasa escaria, parlasse di vasi per acqua da tavola; ma il fr. 42 parla di un vaso non specificamente da tavola, ma dall’impiego più ampio (che quindi si spiegherebbe molto meglio nella stessa sezione del fr. 41). Ancora, Salvadore fa rientrare nella trattazione dei vasa aquaria, oltre al fr. 42, anche il fr. 48, dove però si parla di contenitori sia per acqua sia per vino, in quanto l’argomento del fr. 48 non è tanto la destinazione dei vasi quanto il materiale in cui essi erano realizzati. Dunque, il fr. 42 e il fr. 48 trattano temi diversissimi e non possono essere ricondotti allo stesso contesto. Per questi motivi ho scelto di stampare il fr. 42 subito di seguito al fr. 41 (per una discusione approfondita del problema, vedi introduzione). Nel frammento Varrone parla di una sorta di brocca (detta “aquae manale”) usata per versare l’acqua nel secchio, il “trulleum” (cfr. fr. 41). Da buon 198
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rio, l’autore sfrutta la menzione dell’“aquae manale” per parlare di un oggetto sacro che aveva la stessa etimologia, il “manalis lapis”. Partiamo dall’“aquae manale”. Il nome del recipiente è attestato in questa forma soltanto nel fr. 42, mentre in tutte le altre attestazioni ricorre nella forma “aquamanile” o “aquiminale” (vedi ThLL II 365.33-47). L’ipotesi suggerita dal Thesaurus è che “aquae manale” sia la forma arcaica originaria del termine, dalla cui evoluzione fonetica sarebbero derivate le altre grafie (del resto riscontrabili tutte in testi molto tardi). Esiterei perciò ad accogliere la correzione di Müller “aquimanale”, che da un lato corre il rischio di normalizzare il testo di Varrone, dall’altro restituisce una forma non attestata (in quanto le grafie testimoniate sono “aquimanile”, “aquiminale” o addirittura “aquiminarium”, ma non vi sono attestazioni di “aquimanale”). Il frammento lascia intendere che Varrone riconducesse l’etimologia del termine al verbo “manare”. Di sicuro (vedi infra) da “manare” si faceva derivare “manalis lapis”: poiché l’“unde” del frammento lascia intendere che Varrone considerasse identica l’etimologia di “aquae manale” e “manalis lapis”, è presumibile che connettesse anche “aquae manale” a “manare”. Nella prima parte del frammento, in verità, manca una menzione esplicita del verbo “manare”; tuttavia, Varrone dice a chiari termini che la brocca è detta “aquae manale” perché è usata per versare l’acqua nel “trulleum”. Ora, questo concetto si potrebbe rendere in altre parole dicendo che, per mezzo dell’“aquae manale” l’acqua “manabat” nel “trulleum”. Di conseguenza, credo che si possa dire che Varrone, nella prima parte del fr. 42, in qualche modo alludesse all’etimologia “manale a manando”, la stessa etimologia poi proposta per spiegare anche la derivazione di “manalis lapis”. A questo punto sorgerebbe un problema: Bömer 1937 infatti critica la derivazione di “aquae manale” da “manare” e, di conseguenza, conclude che la vera etimologia del termine per noi è destinata a restare sconosciuta. Infatti, Bömer nota che, siccome nel derivato “aquiminale” opererebbe l’apofonia latina, la “a” di “aquae mănale” deve essere breve e dunque non può derivare da “mānare”. Bömer nega anche che “aquae manale” possa derivare da “mănus”, in quanto l’oggetto descritto da Varrone sarebbe del tutto diverso da una bacinella per lavare le mani. Ora, una prima strada per tentare di risolvere questo problema sarebbe negare che, nel frammento di Varrone, il recipiente in questione si chiami “aquae manale”. Il testo del frammento, in effetti, si potrebbe anche leggere legando “aquae” a “urceolum” e considerando solo “manale” come il nome del recipiente 199
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(“chiamavano manale una piccola brocca d’acqua, perché…”). Questo sarebbe legittimo e, isolando “mānale”, permetterebbe di spiegare bene l’origine del termine da “manare”. Tuttavia, temo che una lettura del genere, per quanto possibile, sia un po’ forzata, in quanto l’aggettivo “manalis” è impiegato solo in riferimento o al “manalis lapis” o a un “fons manalis”, mentre non vi è alcuna attestazione di un recipiente detto “manale” e basta (vedi ThLL VIII 250.60-84). La soluzione, quindi, andrebbe cercata considerando “aquae manale” come il vero nome di questo vaso. Ora, credo che le due obiezioni di Bömer possano essere in parte ridimensionate. Partirei dalla seconda (quella contro l’ipotesi di una derivazione da “mănus”): in realtà, l’unica fonte a connettere l’“aquae manale” con l’atto di lavarsi le mani (e a presentare dunque questo recipiente come una sorta di lavabo) è proprio il lemma di Nonio (vedi fr. 41) “TRVLLEVM quo manus perluuntur”. Non escluderei che questa sia frutto di un fraintendimento di Nonio stesso, che, trovando nel nostro frammento una menzione dell’“aquae manale” connessa al “trulleum”, potrebbe aver commesso una sorta di autoschediasma e, in assenza del supporto di una buona fonte antiquaria, che gli indicasse la derivazione di “manale” da “manare”, avrebbe potuto riferirlo ingenuamente a “manus” e pensare, di conseguenza, che il “trulleum” fosse un recipiente per lavarsi le mani. La connessione fra “aquae manale” e “manus” potrebbe dunque essere il frutto di un banale errore di Nonio, indipendente dal vero discorso di Varrone. Per quanto riguarda, invece, il discorso di Bömer sull’apofonia latina, questo sarebbe valido se sapessimo con certezza che l’esito “aquiminale” viene prima di “aquimanile”. Però, questo punto è indimostrabile: di conseguenza, la forma “aquiminale” potrebbe non derivare, per apofonia latina, da “aquae manale”, bensì provenire per metatesi da “aquimanile”. In tal caso, tutto il ragionamento di Bömer verrebbe invalidato. Ancora, ho detto che la forma “aquiminale” (come quelle analoghe) è attestata in autori molto tardi (nel corpus iuris civilis, in Venanzio Fortunato); dubito quindi che si possa parlare a ragione di apofonia latina (un fenomeno linguistico già conclusosi prima che si avessero le prime attestazioni di latino letterario). Anche ammesso, quindi, che “aquae manale” abbia dato origine ad “aquiminale”, questo deve essere avvenuto in un periodo in cui l’apofonia latina non era più un fenomeno linguistico produttivo e quindi la trasformazione andrà spiegata in base ad altri processi fonetici indipendenti dalla quantità della “a”. In conclusione di tutto questo discorso, presuppongo che nel fr. 42 Varrone alluda a una derivazione da “manare” sia di “aquae manale” sia di “manalis lapis”. 200
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Un’ultima questione riguarda il genere del termine. I codici, infatti, oscillano fra la grafia “manale” e “manalem”. Come si è detto sopra, poiché i probabili esiti del termine sono al neutro (mentre non vi è alcuna attestazione di un recipiente detto “manalis” o di un “aquae manalis” al maschile), il contenuto richiederebbe che nel frammento ci sia la forma al neutro. La grafia “manale” però è tradita soltanto da uno dei due gruppi in cui si dividono i codici della prima famiglia (AA), mentre il resto della tradizione ha “manalem”. Ora, poiché si tratta di uno scambio troppo facile (dipende dalla lettura o meno di un “titulus”), che nel caso specifico poteva anche essere influenzato dal vicino “urceolum” (un copista, a orecchio, potrebbe essere portato a duplicare la “m” e ad autodettarsi “manalem”), considererei l’errore poligenetico e quindi non userei l’accordo della maggior parte della tradizione per sostenere la lezione “manalem” (non accolta da nessun editore). Del resto, una prova della facilità di questo errore è data dal fatto che sia ripetuto da alcuni codici nel seguito, dove si parla di un “sacrum” detto “manale” (quindi è sicuramente richiesto il neutro), ma la maggior parte della tradizione ha “manalem”. Per quanto riguarda il “manalis lapis” (si veda, oltre alla voce del Thesaurus sopra citata, RE XIV, 1 coll. 969-971), si tratta di una pietra sacra, conservata presso il tempio di Marte alla porta Capena, che, in caso di siccità, veniva portata in città su prescrizione dei pontefici per propiziare la pioggia: cfr. Paul. p. 115.6 L., manalem vocabant lapidem etiam petram quandam, quae erat extra portam Capenam iuxta aedem Martis, quam cum propter nimiam siccitatem in urbem pertraxerant, insequebatur pluvia statim, eumque quod aquas manaret manalem lapidem dixere; Serv. ad Aen. 3, 175, MANABAT fluebat. hinc et lapis manalis, quem trahebant pontifices quotiens siccitas erat. Si noti in entrambi i paralleli l’etimologia da “manare” che sarebbe sottintesa anche in questo frammento dal de vita. Infine, il lemma di Nonio, dopo la citazione, presenta ancora una frase: “ita apud antiquissimos manale sacrum vocari quis non noverit? unde nomen illius”. Come ho già detto nell’introduzione, seguo Salvadore nell’attribuire questa pericope non al frammento di Varrone, bensì a Nonio. Il contenuto di questa nota non aggiunge niente a quanto detto nel frammento, ma sembra esserne una mera parafrasi, tra l’altro viziata da alcuni errori, probabilmente dovuti all’incomprensione della fonte da parte di Nonio. Ad esempio, non vi sono altre attestazioni di un “sacrum” detto “manale” e tutta la frase potrebbe essere spiegata come il frutto di un fraintendimento a partire da “manalis lapis appellatur in pontificalibus 201
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sacris”. Ancora, il senso di “unde nomen illius” non è chiaro e, se lo si attribuisse a Varrone, si avrebbero, nel giro dello stesso frammento, due etimologie diverse per lo stesso oggetto. Il fr. 42, infatti, dice chiaramente che “aquae manale” e “manalis lapis” hanno la stessa origine e, a senso, si deduce che questa avesse a che fare col verbo “manare” (la brocca “manat aquam” nel “trulleum”, il “lapis” fa “manare” la pioggia). Ora, l’ultima frase suggerirebbe (se “illius” è riferito a “lapis”) che il nome di “manalis lapis” derivasse non da “manare”, ma dal “sacrum” detto “manale”. Si vede che, se questi due dati comparissero insieme nello stesso frammento, si avrebbe un testo del tutto contraddittorio. A ciò si aggiunga che anche il referente di “illius” non è chiaro: nella mia spiegazione, ho ipotizzato che sia “lapis”, ma potrebbe anche essere “manale sacrum”. Certo, se così fosse, l’“unde” (che sembra un piatto calco dell’“unde” presente nel fr. 42) andrebbe connesso a tutta la spiegazione contenuta nel frammento e si riferirebbe, così, a una porzione di testo troppo lontana perché il discorso possa essere perspicuo. Ritengo quindi che l’ultima frase, dalla formulazione imprecisa e problematica, qualora la si considerasse varroniana, possa essere una sorta di commento aggiuntivo di Nonio. A sostegno di questa ipotesi si potrebbe citare il fatto che la forma interrogativa della frase andrebbe contro lo stile di Varrone (che usa, anche nel de vita, delle domande, ma in punti che richiedono una certa espressività, come tirate moralistiche o resoconti di exempla gloriosi, mentre, nelle sezioni antiquarie, procede a una piana esposizione dei dati). Infine, il riferimento agli “antiquissimi” si spiegherebbe meglio in bocca a Nonio (che compila il de compendiosa doctrina col fine programmatico di raccogliere esempi del modo di parlare delle “antiquissimae auctoritates”), che in un passo di Varrone. Va pur detto che quest’ultima osservazione non può essere presa come una legge, in quanto anche in Varrone si trovano riferimenti agli “antiquissimi” (vedi fr. 44). 43 (= 51 R.; 328 S.) dicuntur enim patellae, salini, acetabula, catini, patenae 1: salinia CADA; salina Quicherat | patenae AABA; patinae cett. Non. p. 875.7-876.12: CATINVS. Varro de re rustica lib. I […] idem de vita populi romani lib. I.
si chiamano infatti padelle, saliere, acetiere, scodelle, tegami
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Il frammento fornisce un elenco di alcuni recipienti atti a contenere del cibo (vasa escaria). Si tratta di una citazione isolata: poiché non vi si può applicare la “lex Lindsay”, manca un dato esterno che dica se la trattazione dei vasi per alimenti, nel de vita, venisse prima o dopo quella dei contenitori per vino. Quindi, a rigor di logica, il frammento potrebbe anche essere posizionato dopo la serie di citazioni sui vasa vinaria che io stampo di seguito al fr. 43. Ho preferito stamparlo prima, però, per rispettare, nella sezione sui recipienti, l’ordine tematico riscontrato in quella sugli alimenti: come lì la trattazione del pane e dei cereali precede quella del vino, così postulo che Varrone, dopo la sezione introduttiva sulla suppellettile domestica in generale e sugli utensili da lavoro, passasse a descrivere i vasi per uso alimentare e, nell’ordine, prima quelli per cibo, poi quelli da vino (per un’analisi più dettagliata della questione, si veda l’introduzione). La “patena” e la “patella” (diminutivo di “patena”) hanno all’incirca la stessa forma: si tratta di pentole basse e piatte usate per cuocere il cibo e, a volte, anche come recipienti di portata per servirlo e mangiarlo (vedi ThLL X, 1 656.31657.41 e 716.37-718.50). Del primo termine sono parimenti diffuse le grafie “patena” e “patina” (cfr. ThLL 716.43-46): io accolgo “patena” in quanto questa grafia è attestata anche a l. L. 5, 120, patenas a patulo dixerunt, ut pusillas, quod his libarent cenam, patellas. Il “salinus” (esiste anche la variante “salinum”) era appunto una saliera (cfr. OLD 1681), così come l’“acetabulum” era un contenitore per aceto (vedi ThLL I 378.12-48). Infine, il “catinus” era un piatto fondo in cui si poteva servire o mangiare del cibo (vedi ThLL III 619.11-65; cfr. l. L. 5, 120, ubi pultem aut iurulenti quid ponebant, a capiendo catinum nominarunt). 44 (= 57 R., 322 S.) antiquissimi in conviviis utres vini primo, postea tinas ponebant, id est oris longi cum operculo, aut cupas, tertio amphoras 1: primo om. CADA | id – longi om. DA | id est oris (mori LBACA; in mori AA) longi Quicherat, Lindsay, Rip., Sal. (oratio recte non procedit; fortasse id est oris longi scribendum); id est modiolos Kettner; id est oris longi vasa Müller; 2: aut Müller; ad codd.; ac Kettner Non. p. 872.3-6: CVPAS et TINAS. Varro de vita populi Romani lib. I. 203
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nei banchetti, arrivato il momento di bere, i Romani più antichi mettevano in tavola dapprima otri di vino, poi delle tinae, vale a dire (un recipiente) dall’ampia imboccatura con un coperchio, o delle botti, in un terzo momento, delle anfore Con questo frammento si apre la serie delle citazioni dedicate ai vasa vinaria (per la cui ricostruzione si veda l’introduzione). Argomento della citazione è il modo in cui il vino veniva portato in tavola presso i Romani delle origini. Varrone dice appunto che gli “antiquissimi” solevano, “in conviviis” (ossia nella parte del banchetto in cui si beveva, l’equivalente del greco συμπόσιον, vedi ThLL VI 881.50-882.13), servire il vino in tre ordini di recipienti. La successione dei tre tipi di vasi in cui era servito il vino è marcata da tre avverbi temporali: “primo”, “postea”, “tertio”. Ora, credo sorga il problema se si debba pensare a tre momenti distinti di uno stesso “convivium” o a tre fasi storiche successive, corrispondenti a una progressiva evoluzione della suppellettile impiegata. A senso, dato che “antiquissimi” sembra il soggetto di tutte e tre le azioni, verrebbe da intendere che qui Varrone stia pensando a un uso seguito dagli “antiquissimi” nel corso dello stesso banchetto, durante il quale era costume che il vino venisse servito in tre tornate, prima in otri, poi in botti o in “tinae”, da ultimo in anfore. Tuttavia, non si può negare che siano presentate in successione tipologie di recipiente sempre più evolute: si passa da rozzi otri in pelle a barilotti coperti, fino ad arrivare alle anfore, ossia ai recipienti che poi sarebbero divenuti canonici per il trasporto e la conservazione del vino. Quindi, piuttosto che pensare a tre fasi distinte di un medesimo convito, sospetto che qui Varrone stia dicendo che nella fase più antica i Romani si servivano di otri, che in un periodo meno remoto passarono ad adottare recipienti più complessi e che, infine, giunsero a impiegare le anfore. Credo che in questo modo il frammento trovi un contenuto molto più logico di quanto sarebbe se si pensasse a tre momenti di uno stesso banchetto (del resto, Varrone stesso nel de vita, ad esempio nel fr. 118, presenta come prova della semplicità arcaica il fatto che il vino, considerato ancora un prodotto di lusso, non venisse servito più di una volta a banchetto; ora, in base alla prima interpretazione il frammento smentirebbe questo dato e attribuirebbe, per paradosso proprio ai Romani più antichi, l’uso di servire il vino per ben tre volte a banchetto). Una difficoltà potrebbe essere nel fatto che forse sarebbe più logico attribuire agli “antiquissimi” solo l’uso degli otri, mentre il passaggio alle “tinae” o alle anfore sarebbe da attribuire a Romani «antiqui ma non troppo». Tuttavia, da un lato si può 204
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ipotizzare che Varrone, adottando una scrittura rapida, dopo aver dato la notizia che gli “antiquissimi” usavano degli otri, abbia trascurato di specificare esplicitamente che gli altri recipienti vennero in periodi più recenti e si sia accontentato di dire “postea”, “tertio”; dall’altro, va pur detto che servire del vino direttamente dall’anfora ha comunque qualcosa di rozzo e di arcaico (l’etichetta più raffinata di epoche più tarde prevedeva infatti che il vino venisse portato in tavola già mescolato nel cratere), per cui, pur trattandosi di una fase successiva a quella in cui si usavano gli otri, questa in cui il vino era servito nelle anfore poteva ancora rientrare nel periodo degli “antiquissimi”. Qualche osservazione merita il recipiente detto “tina”. Innanzi tutto, il frammento costituisce l’unica attestazione del termine al femminile, mentre Paolo Diacono (p. 501.1 L.: tinia vasa vinaria) rimanda a una variante al neutro “tinium” dallo stesso significato. Si tratterebbe di una specie di coppa da portata adatta a servire vino (vedi OLD 1942, «wine jar»), fornita, stando alla descrizione di Varrone, di un’imboccatura piuttosto ampia e di un coperchio. La descrizione di questo è interessata da un problema testuale: i codici, infatti, riportano il testo “morilongi” o “inmorilongi”, che è stato corretto da Quicherat in “oris longi”. L’intervento di Quicherat (accolto da Müller e Riposati; Salvadore stampa nel testo “oris longis”, ma non presenta “longis” come sua congettura nell’apparato, dove invece si legge una nota che farebbe pensare che lui avesse in mente “longi”: sospetto quindi che in realtà anche Salvadore accolga il testo “oris longi” e che “oris longis” sia frutto di un banale refuso di stampa) fornisce in effetti un ottimo senso: si avrebbe un genitivo di qualità che unito alla successiva indicazione “cum operculo”, fornirebbe la necessaria descrizione del recipiente meno noto e comune fra i quattro citati nel frammento (otri, anfore e botti non necessitano di una spiegazione, le “tinae” sì; l’informazione fornita è poi troppo motivata e precisa perché si possano avere dubbi sul fatto che vada attribuita a Varrone: un glossatore non avrebbe potuto conoscere le “tinae” così bene o andare oltre un’indicazione generica come “vasa vinaria”). Le “tinae” sarebbero appunto vasi “dall’ampia imboccatura con un coperchio”. Il problema è che, ciò nonostante, un “vasa” non si legge nel testo, ma va integrato a senso. Non nego che si tratti di un’operazione facile e immediata, tuttavia il testo “tinas ponebant, id est oris longi cum operculo” con “vasa” sottointeso resta, a mio dire, piuttosto duro. Müller avverte questa durezza e infatti propone di integrare “vasa”: “id est oris longi ”. L’integrazione senza dubbio risolverebbe le cose, ma potrebbe anche essere una normaliz205
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zazione del testo. In alternativa, si potrebbe tentare di leggere nella stringa “morilongi” o “inmorilongi” qualcosa di diverso da “oris longi”, ad esempio il nome di un tipo di vaso (le “tinae”, cioè il vaso x con un coperchio): è questa la strada tentata da Kettner, la cui soluzione però non convince; io, personalmente, non sono riuscito a trovare nulla che possa andar bene. Oppure, si potrebbe accogliere “oris longi”, ma tentare di individuare tracce di un sostantivo nella “m” o nel nesso “inm” traditi dai codici. Su questa strada, una possibile proposta potrebbe essere “id est vas oris longi cum operculo” (penso a un errore paleografico da minuscola: la stringa “uιιɾoriɾlongi” (con “a” aperta) poteva anche essere interpretata come “inmoriɾlongi”; il testo, a questo punto, si sarebbe ulteriormente corrotto causando la perdita della “s”): poiché si tratta di una nota esplicativa, quasi di una parentetica, Varrone non era tenuto a rispettare la concordanza con “tinas” e poteva quindi dire che con questo nome si intendeva “un vaso” fatto nel modo poi descritto (“ponevano in tavola le tinae – cioè un tipo di vaso dall’ampia imboccatura con coperchio”). Non nego che “vas” sia comunque una sorta di “zeppa” volta a far quadrare la sintassi del frammento: per questo motivo, pur proponendo l’integrazione dubitanter in apparato, ho preferito non metterla a testo. Infine, il frammento menziona la “cupa”, una sorte di botte fornita di doghe (vedi ThLL IV 1410.60-1411.7). 45 (= 55 R; 321 S.) etiamnunc pocula quae vocant capulas ac capides, quod est poculi genus, item armillum, quod est urceoli genus vinarii 1: quod est poculi genus del. Popma, Kettner, Rip. fortasse recte; retinent Lindsay, Sal. Non. p. 877.12-14: ARMILLVM urceoli genus vinarii. Varro de vita populi Romani lib. I.
(esistono) tuttora le coppe che chiamano capulae e capides (che è un tipo di bicchiere), inoltre l’armillum, che è un tipo di piccola brocca per il vino Restando in tema di vasa vinaria, il frammento presenta un elenco di contenitori da vino. La tipologia dei vasi qui menzionati varia: le “capulae” e “capides” sono da intendere come una specie di bicchieri, dal momento che sono definite “pocula”; mentre l’“armillum” sarebbe piuttosto un piccolo recipiente da portata, poiché è detto “urceolum” e, nel fr. 42, questo termine ha il significato di brocca. 206
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Il primo punto da discutere è se “etiamnunc” vada riferito a un verbo presente nella parte di testo esclusa dal taglio di Nonio o se invece vada riferito a “quae vocant”. Nel primo caso, andrebbe integrato qualcosa come “esistono” o “si adoperano” (“sono tuttora in uso le coppe che chiamano capulae e capides, inoltre l’armillum…”): Varrone parlerebbe di recipienti risalenti all’età monarchica, ma ancora in uso ai suoi tempi ed “etiamnunc” si riferirebbe a tutti i vasi menzionati nell’elenco. Nel secondo caso, l’avverbio andrebbe legato soltanto a “pocula quae vocant capulas ac capides”. Così il frammento sarebbe parte di un elenco in cui Varrone presentava i nomi di diversi boccali: “quelli che tuttora chiamano capulae e capides; di seguito l’armillum…”. Apparentemente, a favore di questa soluzione sarebbe il fatto che con “item” pare aprirsi una nuova voce dell’elenco, distinta da quella relativa a “capulae” e “capides”. Inoltre, mentre le coppe dette “capulae” e “capides” sono soltanto nominate, il frammento presenta una nota esplicativa in cui è chiarito il significato del termine “armillum” ed è specificato che si trattava di un tipo di brocca da vino (“urceolum”), il che porterebbe a pensare che “armillum”, a differenza di “capulae” e “capides”, non fosse più una parola comune ai tempi di Varrone (e quindi “etiamnunc” non potrebbe riferirsi ad esso). Tuttavia, soprattutto il secondo argomento si espone a più critiche: in primo luogo, il ragionamento sarebbe valido solo a patto di espungere come glossa le parole “quod est poculi genus”, altrimenti, anche i termini “capulae” e “capides” sarebbero corredati di una nota esplicativa; inoltre, si potrebbe dire che “capulae” e “capides” erano vocaboli ancora in uso al tempo di Varrone e “armillum” no, solo se fosse sicuro che “etiamnunc” si riferisce a “vocant”, ma proprio questo è il punto in discussione, per cui il ragionamento rischierebbe di essere circolare. Soprattutto, mi lascia perplesso la posizione di “etiamnunc”: se davvero fosse da connettere a “vocant”, sarebbe molto più naturale l’ordo: “pocula quae etiamnunc vocant capulas ac capides”. Poiché invece “etiamnunc” compare nel testo prima di “pocula”, ho preferito optare per la prima ipotesi e pensare che “etiamnunc” sia retto da un verbo non riportato da Nonio e che “pocula quae vocant capulas ac capides” e “armillum” costituiscano due voci di uno stesso elenco. Varrone menzionerebbe, fra i vasi di foggia antica usati ancora al suo tempo, prima quelli “detti capulae e capides”, poi l’“armillum” (e la lista poteva anche continuare). Nell’adottare questa ricostruzione (motivata principalmente dalla posizione di “etiamnunc” nella frase), ho integrato a senso un verbo come “esistono” (considero quindi “pocula” e “armillum” come nominativi). Certo, come accennavo 207
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sopra, si tratterebbe di una semplice proposta exempli gratia, in quanto Varrone avrebbe potuto con la stessa probabilità dire “si adoperano tuttora questi vasi” o “si trovano tuttora”, oppure, prendendo “pocula” e “armillum” come accusativi, “adoperano tuttora”, “hanno tuttora”. Infine, va osservato che l’avverbio “etiamnunc” costituisce una vera e propria marca stilistica della scrittura di Varrone, che lo adopera con regolarità quando vuole indicare al lettore tracce della sopravvivenza di particolari dati antiquari ancora ai suoi tempi: vedi frr. 26 e 49, l. L. 5, 7, 41; 42; 44; 50; 85; 86; 91; 106; 117; 118; 121; 122; 123; 126; 130; 146; 154; 162; 166; 177; 182; 183; 6, 16; 21; 82; 7, 29; 74; 84; 9, 60; r.r. 1, 2.14; 2, 1.5; 1.9; 4.18; 11.5; 3, 1.6 (nei presenti passi troviamo attestazioni tanto di nessi come “etiamnunc dicitur / vocant / appellant”, quanto di espressioni come “etiamnunc fit / utuntur ecc.”; di conseguenza, la questione sopra discussa, se “etiamnunc” nel frammento vada legato a “vocant” oppure a un verbo escluso dalla citazione, non può essere risolta sulla base dell’usus di Varrone, ma va esaminata soltanto tenendo conto del contenuto più probabile del fr. 45). Procedendo a esaminare la pericope (riferita ad “armillum”) “quod est urceoli genus vinarii”, la sua genuinità è confermata dal fatto che Nonio (che, per metodo, di norma non aggiunge suo materiale nelle definizioni, ma tende a riportare pedissequamente le etimologie o le informazioni trovate nei testi che consulta) la riproduce nel lemma “ARMILLVM urceoli genus vinarii”. È infatti verosimile che Nonio abbia trovato questa nota già nel testo di Varrone e abbia deciso di riportarla nel lemma così come la leggeva nel brano del de vita; del resto, se si trattasse di una glossa di Nonio, che leggeva un testo di Varrone che finiva a “armillum”, sarebbe strano che il grammatico avesse adottato l’ordine contorto “urceoli genus vinarii”, piuttosto che un piano “genus urceoli vinarii”. È invece lecito sospettare dell’autenticità della pericope (riferita a “capulas ac capides”) “quod est poculi genus”. Questa nota potrebbe anche essere una glossa entrata a testo, in quanto non fa che ripetere quanto già espresso poche parole prima da “pocula” e sembra essere uno scialbo duplicato della nota (genuina) “quod est urceoli genus vinarii”. Inoltre (sebbene questo elemento non sia determinante) “poculi genus” si accorda anche male col numero dei termini (plurali) cui dovrebbe riferirsi. Non a caso, già Popma (seguito da Lindsay e Riposati) ha proposto l’espunzione di questa frase. Tuttavia, gli argomenti a favore dell’espunzione sono sì condivisibili, ma non cogenti. Si potrebbe infatti, 208
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invertendoli, obiettare che nessun glossatore, in presenza di “pocula” nel testo, avrebbe sentito l’esigenza di apporre una glossa così banale e che, se pure qualcuno avesse deciso di chiosare “capides” con “quod est poculi genus”, allora sarebbe stato più naturale che scrivesse “quae sunt” al posto di un traballante “quod est”. La nota “quod est poculi genus” potrebbe quindi anche essere una ridondanza voluta da Varrone (non troppo dissimile dalla chiosa vicina “quod est urceoli genus vinarii”); per questo motivo, ho preferito evitare di accogliere senza remore l’espunzione, per quanto questa sarebbe giustificata. Venendo a una rapida descrizione dei contenitori qui menzionati, le “capulae” devono essere davvero un tipo di vaso molto antico, in quanto Varrone deplora il fatto che sia caduto in disuso a l. L. 9, 16, nonne inusitatis formis vasorum recentibus e Graecia adlatis obliteratae antiquae consuetudinis sinorum et capul[l] arum species?. Le “capulae” (vedi ThLL III 382.13-21) sono descritte insieme alle “capides” (vedi ThLL III 342.80-343.12) anche a l. L. 5, 121, capid et minores capulae a capiendo, quod ansatae ut prehendi possent, id est capi, da cui si viene a sapere che erano dotate di un manico. L’“armillum” (vedi ThLL II 616.61-68), descritto nel frammento come una sorta di brocca da vino, era usato anche durante le cerimonie (cfr. Paul. p. 212 L.: armillum vas vinarium in sacris dictum quod armo, id est humero, deportetur). 46 (= 54 R., 323 S.) item erant vasa vinaria: sini, cymbia, culignae, paterae, guti, sextarii, simpuvium 1: culignae Lipsius; aquilinae codd. | guti, sextarii dist. Lindsay, Rip.; guti sextarii dist. Sal. Non. p. 875.22-24: CYMBIA […] Varro de vita populi Romani lib. I.
ancora erano vasi da vino: i sini (brocche profonde), i cymbia (coppe a forma di nave), le culignae (bicchieri); le paterae (coppe piatte), i guti (tazze), i sextarii (vasi dalla capacità di un sestante), il simpuvium (coppa per libagioni) Il frammento è occupato da un elenco di nomi di vasa vinaria. La presenza dell’avverbio “item” lascia intendere che Varrone avesse già nominato e descritto, nella parte della sezione sui recipienti immediatamente precedente il frammento, altri tipi di contenitore per vino. Poiché si tratta di una citazione isolata, in teoria non le si potrebbe applicare la “lex Lindsay”. Tuttavia, in base al contenuto si può ipotizzare che venisse dopo i due frammenti precedenti (in cui si parla 209
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spettivamente dei vasi usati dagli “antiquissimi” e dei “pocula” risalenti all’epoca arcaica ma ancora in uso ai tempi di Varrone). Secondo la mia proposta, Varrone, dopo aver esaminato i tipi di vasellame più antichi (probabilmente dividendoli in due sezioni: quelli estinti e quelli ancora comuni al suo tempo), introduceva un nuovo elenco di vasa vinaria, in cui erano presentati, fra gli altri, quelli menzionati in questo spezzone citato da Nonio. È probabile che i recipienti qui nominati fossero descritti in seguito: in effetti, del “sinus” si parla, più in dettaglio, anche nel fr. 47, che, come si ricava dalla “lex”, veniva dopo il fr. 45 (anche per questo motivo ho scelto di stampare il fr. 46 fra i frr. 45 e 47; su tutta la questione si veda anche quanto detto nell’introduzione). Passando a una rassegna dei diversi vasi citati nel frammento, la caratteristica più vistosa del “sinus” sembra essere la sua forma concava: si tratta di una sorta di brocca usata per servire il vino e fornita di una cavità più profonda rispetto a quella delle coppe normali, tanto che proprio da “sinus”, nel senso di “cavità, rientranza” (vedi OLD 1771 8.b), questo recipiente prenderebbe il suo nome. La descrizione più ampia dell’oggetto (dove però è adottata una variante al neutro, “sinum”) si trova a l. L. 5, 123. vas vinarium grandius sinum ab sinu, quod sinum maiorem cavtionem quam pocula habebat. Alcune attestazioni riferiscono che il “sinus” (o “sinum”; sull’alternanza di genere si veda la voce sopra citata dell’OLD) poteva anche essere usato come recipiente per il latte (cfr. Verg. ecl. 7.33; Col. 7, 8.2). Il “cymbium” (vedi ThLL IV 1589.42-65) era un boccale a forma di carena di nave (anche in greco il termine κύμβη e il suo diminutivo κυμβίον hanno il doppio significato sia di “nave” sia di “coppa”, vedi LSJ 1009). Della “culigna” si sa pochissimo, in quanto questo frammento, insieme a Paul. p. 44.13 L., culigna vas potorium, costituisce pressoché l’unica attestazione del termine: non si può dunque dire altro che la “culigna” fosse un tipo di coppa, usata per bere vino (vedi ThLL IV 1287.52-61). Ben nota è invece la “patera”, una sorta di piatto piano impiegato come contenitore per liquidi durante le libagioni (vedi ThLL X, 1 692.38-694.36). Anche il “simpuvium” (o “simpulum”) era un vaso di piccole dimensioni: vedi l. L. 5, 124, qui sumebant (sc. vinum) minutatim, a sumendo simpuvium nominarunt (farei notare che “qui” è uno strumentale (“chiamarono simpuvium da sumere il vaso con cui sumebant il vino goccia a goccia”), per cui la traduzione di Traglia del passo “coloro che prendevano il vino a piccole dosi” è errata) utilizzato nelle cerimonie religiose; cfr. scholia ad Iuv. 3.263. simpuvium vas sacrificiis aptum, in 210
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quo pontifices libare solebant; Paul. p. 87.28 L., simpulum vas parvum non dissimile cyatho, quo vinum in sacrificiis libabatur (vedi anche OLD 1765). Un discorso più lungo merita la pericope “guti, sextarii”. Io ho accolto la punteggiatura data da Lindsay e Riposati, in base alla quale “guti” e “sextarii” vanno presi come due sostantivi indicanti due diversi tipi di recipiente. Salvadore, invece, stampa “guti sextarii”: in questo modo “sextarii” andrebbe inteso come un aggettivo di “guti” dal significato di “dalla misura di un sextarius (unità di misura pari a circa mezzo litro; vedi Forcellini V 487). Poiché i “guti” sono delle ampolle di piccole dimensioni (vedi ThLL VI 2378.11-38 e l. L. 5, 124: qui vinum dabant ut minutatim funderent, a guttis guttum appellarunt; su “qui” vedi supra), adottando la punteggiatura di Salvadore, si dovrebbe postulare l’esistenza di un tipo di boccale capace un “sextarius”, misura che sembra piuttosto eccessiva per una semplice tazza. Inoltre, non abbiamo alcuna attestazione di un aggettivo “sextarius, -a, -um” dal significato di “dalla capacità di un sextarius”, mentre Catone (agr. 13.3) parla di un recipiente per olio con questo nome, sextarium olearium (è un accusativo). Preferirei dunque seguire l’interpunzione di Lindsay e Riposati e intendere “sextarii”, sulla scorta del parallelo di Catone, come il nome di un altro tipo di recipiente (che evidentemente misurava un “sextarius”). 47 (= 58c; 324 S.) cebant, ubi erat vinum in mensa positum, aut galeolam aut sinum. tria enim haec similia sunt, pro quibus nunc on ponitur 1: Lunelli (V non legitur), collato DServ.; suppl. Keil, Hermann; Mai; 2: sunt del. Sal. | suppl. Keil collato DServ.; Mai; Lunelli fortasse recte (V non legitur) Scholia Veronensia ad Verg. ecl. 7.33 (ed. Lunelli): SINVM LACTIS. Asper “sinum est vas vinarium, ut Cicero significat, non, ut quidam, lactarium. Plautus in Curculione: “um”, et respondetur ita “quasi tu lagynam dicas, in qua Chium vinum / solet esse”. ‘Sinum’ ergo vas patulum, e ‘sinus’ vocitatum; hic autem ‘sinum lactis’ vas quodcumque lacte onustum. Varro de vita p. R. lib. I: 4: suppl. Keil, collato DServ. (V non legitur); Hagen; Lunelli dub.
DServ. ad Verg. ecl. 7.33: Varro de vita populi Romani: ‘aut lepestam aut paleolam aut sinum dicebant: tria enim, pro quibus nunc acratoforon dicitur’ 211
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Non. p. 877.15-19: SINVM et GALEOLA, vasa sinuosa. […] Varro de vita populi Romani lib. I: ‘ubi erat vinum in mensam positum aut galeolam aut sinum’ 1: galeolas codd. (galeolos CA); corr. Ald.; 2: galeola codd. | sinum H2; sinu codd.
Prisc. inst. GLK 2, 262: dicitur tamen hoc sinum i producto et significat vas. Varro de vita populi Romani libro I: ‘ubi erat vinum in mensa positum aut galeolam aut sinum’
Chiamavano o lepesta, o galeola, o sinus il recipiente in cui il vino era posto in tavola. Infatti si tratta di tre tipi di vaso simili fra loro, al posto dei quali ormai si pone l’acratophoron (vaso per vino puro) Questo frammento del de vita è citato da più fonti diverse; per evitare di appesantire l’apparato, ho preferito riportare per esteso le citazioni così come esse compaiono nelle quattro fonti che le riportano. Gli scholia Veronensia lo tramandano nella forma più completa, che corrisponde a quella da me stampata (singoli punti dove guasti materiali del manoscritto hanno cancellato parti del testo possono essere agevolmente ricostruiti integrando a partire dalle citazioni dello stesso frammento presenti in fonti diverse dagli scholia, in particolare nel Servio Danielino115). La stessa pericope è riportata anche dal Servio Danielino, ma in una forma abbreviata (ad esempio, l’inciso “ubi erat vinum in mensa positum” viene tagliato e, di conseguenza, è mutata la posizione di “dicebant”) e in parte corrotta (alcune parole, come “similia” sono cadute e il testo risultante non dà senso; allo stesso modo, “galeolam” si è corrotto in “paleolam”). Tuttavia, la citazione di Servio è preziosa, in quanto permette di integrare i termini “lepestam” e “acratophoron” dove il testo degli scholia non è leggibile per guasti materiali. Venendo a Nonio, la possibilità di confrontare la sua citazione con quella di un’altra fonte permette, in questo caso, di saggiarne l’attendibilità. Da questo confronto trova conferma quanto già detto più volte circa il metodo di lavoro del
Per l’edizione e un commento esteso al passo degli scholia, vedi Lunelli 2001, pp. 111-115. Lunelli, soprattutto per ragioni di spazio, preferisce integrare all’inizio della citazione anche l’“aut”, presente nel Danielino, che invece Keil (seguito da Baschera) esclude. Sempre in base al calcolo degli spazi, pur dando l’integrazione finale “acratophoron” per sicura, Lunelli sospetta che questa non basti a coprire la misura di un intero rigo del codice V e ipotizza che la citazione degli scholia potesse chiudersi con “pro quibus nunc unum acratophoron ponitur”: “unum” potrebbe essere stato omesso da Servio, che in effetti sembra tagliare scientemente le parti “superflue” della citazione, per esigenze di brevità. 115
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grammatico: interessato più ai singoli termini che al contenuto, Nonio riporta spezzoni di testo senza badare molto alla sintassi e al contesto generale. Nel caso specifico, ritaglia la stringa “ubi erat vinum in mensa positum aut galeolam aut sinum” (non discuto le banali corruttele “mensam” e “galeola” dei codici noniani, dovute al fraintendimento di compendi o anche a semplice confusione per la presenza di tanti accusativi di fila nella stessa frase), senza particolari riguardi alla struttura del periodo di cui essa fa parte. Tuttavia, proprio per questo motivo Nonio tende a riportare fedelmente gli spezzoni di testo che cita, senza intervenire su di essi, rabberciandoli o riadattandoli, come fa invece il Danielino. La testimonianza di Nonio, così, conferma che “ubi erat vinum in mensa positum” è testo autentico e che, quindi, anche la posizione corretta del verbo “dicebant” è quella data dalla citazione degli scholia. Lascio da parte il caso di Prisciano, che potrebbe derivare da Nonio (così pensa Peruzzi 1997, p. 757) e quindi non è di particolare utilità ai fini di questo discorso. Nel frammento Varrone parla di tre recipienti arcaici adoperati per servire il vino in tavola: il “sinus” (per il quale, vedi fr. 46), la “lepesta” e la “galeola”. L’autore aggiunge che ai suoi tempi questi tre vasi erano ormai stati soppiantati da un altro contenitore, l’“acratophoron”116. Partirei dall’esposizione della “galeola”, attestata soltanto in questo frammento: stando a Nonio, si tratterebbe quasi di un sinonimo di “sinus”. Il grammatico Diomede (GLK I p. 325.30) cita il termine come diminutivo di “galea”: è ipotizzabile quindi che questo tipo di vaso abbia tratto il nome dalla somiglianza con un elmo (del resto, vi sono numerose attestazioni dell’impiego di una “galea” come vaso, vedi ThLL VI, 2 1673.57-66). Anche per la “lepesta” (vedi ThLL VII 1174.77-1175.12; esiste anche una grafia “lepista”, ma, se il termine è un prestito dal greco λαπάστη, l’esito “lepesta”, per apofonia latina, sarebbe l’unico corretto, cfr. Peruzzi 1997, p. 759) la principale fonte di informazioni è Varrone, che ne parla in questo frammento, nel fr. 49 del de vita e a l. L. 5, 123: item dicta [f]lepestae, quae etiamnunc in diebus sacris Sabinis vasa vinaria in mensa deorum sunt posita; apud antiquos scriptores Graecos inveni appellari poculi genus δέπεσταν (si veda la vicinanza
Accettando l’integrazione “unum” di Lunelli, il senso non cambia, ma la formulazione risulterebbe soltanto un po’ più decisa: al posto di “lepesta”, “sinus” e “galeola”, al tempo di Varrone si sarebbe adoperato il solo “acratophoron”. 116
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rispetto alla frase “ubi erat vinum in mensa positum”; per il riferimento all’uso, ancora al tempo di Varrone, delle “lepestae” nei santuari della Sabina, si veda il fr. 49). Che la “lepesta” fosse un tipo di recipiente davvero arcaico è confermato dal fatto che la menziona già Nevio (fr. 31 Blänsdorf ). “Sinus”, “galeola” e “lepesta” sono stati sostituiti successivamente, dice Varrone, dall’ “acratophoron”. Si tratta di un evidente prestito dal greco ἀκρατόφορον, che indicherebbe, in senso stretto, un contenitore semicircolare piuttosto ampio, senza base, usato per recare in tavola il vino non ancora mescolato nel cratere (vedi RE I coll. 1194.57-1195.2). Varrone, l’unico autore ad adoperare questo termine in latino (vedi ThLL I 430.33-39; Cic. fin. 3, 15 cita la parola in tutt’altro contesto, come esempio di vocabolo importato dal greco), lo impiega nel senso più generale di vaso da tavola (cfr. r. r. 1, 8.5, dove si parla di una vigna che ministrat acratophoro vinum). 48 (= 53 R.; 327 S.) item ex aere, ut urnulas, aquales, matulas, sic creterras 1: supplevi collato fr. 49 | urnulas Quicherat; ornale (urnulae) codd. | matulas Quicherat; mutalae CA; mutulae LAABA | sic creterras scripsi; sic ceteras codd.; ac creterras Quicherat; creteras Lindsay, Rip., Sal. Non. p. 872.6-7: VRNVLA est vas aquarium. Varro de vita populi Romani lib. I. 1: aquarum CADA; quarum La.c.
pure di bronzo, come le gavette, le brocche, le bacinelle, così i crateri L’ultima parte della sezione sui recipienti veniva a trattare del materiale in cui questi erano realizzati (sull’intera questione, cfr. introduzione). Questa citazione presenta un elenco di recipienti in bronzo. Come si vede, gran parte dei nomi di questi vasi sono traditi in modo corrotto da Nonio e sono stati restituiti per congettura da Quicherat. La lezione corrotta dei codici “ceteras” (che rimanderebbe alla forma “creterras”) lascia intendere che i nomi di vasi citati nel frammento fossero all’accusativo plurale. È pur vero che “ornale” e “mutulae” farebbero invece pensare piuttosto a dei nominativi (“urnulae” e “matulae”), mentre “aquales”, l’unico vocabolo non corrotto della stringa, potrebbe essere ugualmente nominativo o accusativo. Come risolvere questa discrepanza? Gli editori seguono Quicherat 214
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e stampano i nomi all’accusativo: l’intervento è piuttosto ardito, in quanto si vengono a modificare due termini su tre. Tuttavia, va pur detto che, fra stampare tutti i nomi all’accusativo (correggendo “ornale” in “urnulas” e “mutulae” in “matulas”) e metterli tutti al nominativo (modificando “ceteras” in “creterrae”), la prima posizione (vale a dire quella di Quicherat) resterebbe la più sensata. Infatti sarebbe molto difficile spiegare il passaggio da “creterrae” a “ceteras”, mentre si può ipotizzare che “urnulas” e “matulas”, una volta corrottisi nelle voces nihili “ornalas” e “mutulas”, siano stati ulteriormente ridotti a “ornale” e “matulae” per l’influsso fonico o del vicino “ex aere” o di “aquales”, che a una lettura distratta poteva far pensare a una serie di nominativi. Si tratta certo di una spiegazione un po’ macchinosa, ma comunque meno problematica di un’eventuale proposta che dovrebbe spiegare la corruttela di “creterrae” in “ceteras”. Inoltre, un elemento a favore dell’ipotesi che i termini fossero originariamente tutti all’accusativo è fornito dal riscontro col fr. 49 del de vita (che, oltre ad essere vicinissimo al fr. 48 per contenuto, molto probabilmente lo seguiva a breve distanza nell’ambito della stessa sezione tematica), dove si legge “ut fere habent aeneum illi qui venditant oleum”. È improbabile che Varrone impiegasse, in due punti così vicini, costrutti diversi per dire la stessa cosa. Piuttosto, farei valere il parallelo del fr. 49 per ipotizzare che, nella parte immediatamente precedente la citazione, Varrone impiegasse il verbo “habebant”. Varrone, discutendo il materiale in cui erano realizzati i vasi del periodo arcaico, poteva prima dire che gli antichi Romani “avevano di bronzo le urnulae, gli aquales ecc.” e poi sostenere il dato antiquario con un esempio, quello dei vasi in bronzo dei venditori d’olio e delle “lepestae” bronzee, ancora riscontrabile ai suoi tempi (vedi infra). Una volta chiarito che è più probabile che i nomi dei vasi fossero all’accusativo che al nominativo, si pone un secondo problema. Quicherat, partendo dal tradito “sic ceteras”, congettura “ac creterras”. L’intervento crea delle incongruenze di senso, in quanto “ut” viene isolato e privato di un termine correlato. Probabilmente per ovviare a questa difficoltà, Lindsay (seguito da Riposati e Salvadore), non mette a testo “ac”, ma stampa solo “creteras”, coordinato per asindeto ai nomi degli altri recipienti. Ciò causa un altro problema, in quanto vengono a trovarsi accomunati sotto la stessa voce tre recipienti sicuramente per acqua e un vaso sicuramente per vino. Come si è detto tracciando una proposta di ricostruzione della sezione sui contenitori, Varrone è scrupoloso nel distinguere fra le varie tipologie di contenitore e, in particolare, fra vasa aquaria e vasa 215
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vinaria; per quanto l’argomento di questo frammento sia il materiale dei vasi e non la loro tipologia, questa commistione appare comunque strana. Riesaminando il testo tradito, si vede però che “ut” avrebbe una congiunzione correlata: il “sic” di cui resta traccia nella stringa corrotta “sic ceteras”. Propongo dunque, di stampare il testo “ut urnulas, aquales, matulas, sic creterras”. In questo modo, Varrone, parlando dei vasi di bronzo, opererebbe proprio l’attesa distinzione fra i vasa aquaria, da un lato, e i vasa vinaria, dall’altro, realizzati in questo materiale (non si può escludere che dopo “creterrae” Varrone citasse altri vasi), distinzione marcata dallo stilema “ut … sic”. Così tutto il testo assume una sua logicità e si risolvono i problemi dell’isolamento di “ut” e della disordinata menzione promiscuamente di vasi per acqua e per vino. Dell’“urnula” si sa pochissimo (vedi OLD 2107): Cic. parad. 11 parla di “fictiles urnulas”, da cui si ricava che oltre che di bronzo, come attesta Varrone, questo recipiente poteva anche essere realizzato in terracotta. Che fosse un tipo di vas aquarium è indicato dal fatto che Psiche (in Apul. met. 6, 13) deve adoperare appunto un’“urnula” per raccogliere l’acqua di una fonte custodita da draghi. Del resto, il termine “urna”, di cui “urnula” è il diminutivo, sta a indicare proprio un orcio adatto a contenere liquidi (nel caso dell’“urna”, questi possono variare, in quanto è attestata l’esistenza di “urnae” da acqua, da olio e da vino; tuttavia, il fatto che un’“urna” sia l’attributo iconografico dei fiumi o di figure come le Danaidi o l’Acquario lascia intendere che la sua destinazione primaria fosse quella di recipiente per acqua, cfr. Pl. Pseud. 157, tu qui urnam habes, aquam ingere), vedi OLD 2107.1. Della “matula” e dell’“aqualis” (che sarebbe un nome tardo del “matellio”, stando a l. L. 5, 119: accessit matellio a matula dictus [et dictus], qui, posteaquam longius a figura matulae discessit, et ab aqua aqualis dictus) si è già parlato al fr. 41. Dobbiamo dunque supporre che l’“aqualis” fosse una sorta di brocca impiegata per portare acqua (questo senso è suggerito anche da quanto detto nel fr. 60, cfr. ThLL II 366.5-19). Infine “creterra” (vedi ThLL IV 1108.51-59) è una forma derivata per analogia da “crater, -is” (prestito da κρατήρ), quando l’accusativo greco “cratera” (vedi ThLL IV 1108.40-48) viene inteso come nominativo di un termine della prima declinazione. Si tratta per l’appunto del noto vaso destinato a mescolare vino e acqua (come prova la derivazione da κεράννυμι, cfr. Chantraine, p. 517). Ora, questo vocabolo ammette in latino le due forme “creterra” e “cratera”; la congettura di Quicherat per il tradito “ceteras” è difatti “creterras”. Lindsay, 216
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Riposati e Salvadore, tuttavia, stampano “creteras” (forse ritenendo che così si possa motivare meglio la corruttela “ceteras”). Poiché anche Nonio conosce soltanto la forma “creterra” (si veda il lemma “CRETERRA” a p. 878.23-1) e in un altro frammento del de vita (fr. 103) è impiegata la grafia “creterrae”, preferisco adottare anche io “creterras” di Quicherat, scostandomi così dagli editori che stampano “creteras” al fr. 48, ma “creterrae” al fr. 103. 49 (59 R.; 325 S.) ut fere habent aeneum illi, qui venditant oleum. lepestae etiamnunc Sabinorum fanis pauperioribus plerisque aut fictiles sunt aut aeneae 1: illi qui Müller; aliqui codd. | vendant L | lepestae Rip.; lepistae codd., Sal.; 2: pauperiobus L; pauperibus AA | files LAACA Non. p. 877.20-878.22: LEPISTAE. Varro de vita populi Romani lib. I. 1: LEPISTAE vas aeneum DA
come per lo più i venditori di olio ne hanno uno di bronzo. Tuttora nella maggior parte dei templi più poveri della Sabina le lepestae sono o di terracotta o di bronzo In questo passo prosegue la discussione sul materiale dei vasi. Nel frammento precedente sono stati elencati alcuni recipienti arcaici, sia da acqua sia da vino, che venivano realizzati in bronzo; qui Varrone, con un procedimento “archeologico”, indica alcuni casi di sopravvivenza di vasi antichi in bronzo: si potevano trovare ancora ai suoi tempi (“etiamnunc”; cfr. fr. 45)117 orci bronzei presso la maggior parte dei venditori d’olio e “lepestae” di bronzo in alcuni santuari della Sabina. Come si vede, l’argomento principale della citazione è costituito dal materiale dei vasi: interessato a provare che alcuni contenitori erano anticamente realizzati in bronzo, Varrone riporta due esempi di vasi plasmati con questo materiale accessibili all’esperienza comune dei suoi lettori. A questo punto, ritengo che non si possa dubitare sul fatto che l’autore si stia riferendo a due tipi distinti
Per l’uso di questo stilema, caro a Varrone, vedi r.r. 2, 4.18, huius suis ac porcorum etiam nunc vestigia apparent, quod et simulacra eorum ahenea etiam nunc in publico posita; 3, 1.6, in Sabinis … etiam nunc ita dicunt.
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di vaso: da un lato il contenitore di bronzo adoperato dai venditori d’olio (il nome di questo vaso, al neutro, era probabilmente posto nella parte del frammento tagliata fuori dalla citazione di Nonio; nel frammento è rimasto soltanto l’aggettivo “aeneum” ad esso correalto), dall’altro le “lepestae” ancora visibili in Sabina. Salvadore invece (a p. 16), sostiene che il frammento parlerebbe del materiale usato per le “lepestae dei venditori di olio e dei Sabini”. In base a quanto detto sopra, ritengo improbabile che il recipiente impiegato dai venditori d’olio fosse una “lepesta”. Infatti, il frammento considera senza dubbio come due cose diverse il vaso dei venditori d’olio e le “lepestae” della Sabina. Del resto, lo stesso Salvadore adotta un’interpunzione forte, che divide la parte della citazione relativa ai recipienti usati dai venditori d’olio da quella dove si parla delle “lepestae” sabine (e quindi sembra in realtà considerare le due tipologie di vaso come diverse). Se invece il contenitore di bronzo dei venditori coincidesse con la “lepesta”, l’interpunzione di Salvadore non si spiegherebbe, in quanto isolerebbe due parti relative allo stesso vaso. Venendo a una breve analisi del contenuto, per la “lepesta” rimando a quanto detto al fr. 47. In particolare, citerei di nuovo il parallelo di l. L. 5, 123, lepestae, quae etiamnunc in diebus sacris Sabinis vasa vinaria in mensa deorum sunt posita, che coincide quasi alla lettera con quanto detto in questo frammento118. Inoltre, per i motivi già esposti nel commento al fr. 47, adotterei (come Riposati) la forma “lepestae”, correggendo il “lepistae” tradito dai codici noniani e stampato da Salvadore. Infatti, come spiega Peruzzi (vedi fr. 47), “lepesta” è l’unico esito corretto in latino del greco λαπάστη, mentre la forma “lepista” è una variante fonetica più tarda dello stesso termine, di sicuro non accolta da Varrone, che nel de lingua Latina scrive “lepestae” (del resto, anche le citazioni del fr. 47 riportate dagli scholia Veronensia e da Servio hanno “lepestam”). Riterrei dunque, sulla base di questi dati, che Varrone adoperasse soltanto la forma “lepesta” e che la grafia dei codici di Nonio, per il fr. 49, vada uniformata all’usus varroniano. Mi sembra invece improbabile che Varrone, nella stessa sezione del de vita impiegasse ora la forma “lepesta”, ora quella “lepista”, come lascerebbe intendere Salvadore, che stampa “lepestam” al fr. 47, ma “lepistae” al fr. 49. Attribuirei questa oscillazione, piuttosto che a Varrone, alle diverse fonti dei frammenti: gli scholia Per la formulazione, cfr. Val. Max. 4, 4.11, per … veteris Capitolii humilia tecta et aeternos Vestae focos fictilibus etiam nunc vasis contentos. 118
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Veronensia mantengono il corretto “lepesta”, mentre è possibile che la copia del de vita consultata da Nonio avesse, per un suo errore o semplicemente per un proprio tic ortografico, la forma “lepista” (o, in alternativa, la grafia “lepista” potrebbe essere un errore dell’archetipo di Nonio). Per quanto riguarda “aeneum”, intendo il termine come un aggettivo sostantivato, indicante il materiale, correlato a un termine generico (“vas”) o al nome specifico di un vaso (ad es., “urceolum”) presente nella parte di testo precedente la citazione. 50 (= 44 R.; 306 S.) praeterea quod in lecto togas ante habebant. toga enim olim fuit commune vestimentum et diurnum et nocturnum et muliebre et virile 1: in lecto H3; intellecto cett. | ante om. La.c. | toga enim olim fuit scripsi (ea enim olim fuit Kettner); ante enim olim fuit LAABACA; ante enim olim toga fuit DA (sed praeterea –habebant om. DA), Lindsay, Rip., Sal.; etenim olim toga fuit Müller Non. p. 867.33-868.3: TOGA non solum viri, sed etiam feminae utebantur […] Varro de vita populi romani lib. I.
oltre al fatto che prima avevano le toghe anche sul letto119. La toga infatti un tempo era un abito universale, sia da giorno sia da notte, sia femminile sia maschile Con questo frammento, si passa a una nuova sezione del primo libro del de vita, dedicata all’evoluzione dell’abbigliamento. Varrone, nelle citazioni rimaste provenienti da questa sezione, riferisce quanto l’abbigliamento fosse cambiato dalle fasi più antiche della storia romana: alcuni abiti, ancora esistenti ai suoi tempi, nell’età arcaica avevano forma e finalità diverse; altri non esistevano ancora (e Varrone si interroga sulle cause della loro introduzione); di altri, infine, è rimasta traccia soltanto in ambito rituale. Nello specifico, questo frammento descrive l’abito romano per eccellenza, la “toga”. Nella Roma delle origini, la “toga” non era un capo d’abbigliamento esclusivamente maschile, ma era indossato sia dagli uomini sia dalle donne. Inoltre, mentre in seguito sarebbe diventata l’abito “ufficiale” da indossare nelle grandi Oppure “a letto”, vedi infra.
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occasioni o in contesti di rappresentanza, durante l’età monarchica, stando a questo frammento, la “toga” costituiva l’elemento base del vestiario, in quanto era usata non solo come veste da giorno, ma anche come abito da notte. È quanto Varrone esprime efficacemente con la formulazione martellante “et diurnum et nocturnum et muliebre et virile”. In questo senso, è molto efficace anche la scelta dell’aggettivo “commune”, che può racchiudere entrambi i significati: la “toga” era un “commune vestimentum” in quanto portata promiscuamente da maschi e femmine, ma era anche “commune” in quanto abito informale, buono per tutte le occasioni, sia per il giorno sia per la notte (la pregnanza dell’aggettivo scelto da Varrone è più difficile da rendere in italiano; io ho cercato di suggerirne l’ambivalenza traducendo “commune” con “universale”). La natura arcaica di questo antico utilizzo della “toga” è sottolineata anche dall’impiego della forma ricercata “vestimentum”, propria della commedia (cfr. OLD 2049). La notizia che anticamente la “toga” fosse un capo d’abbigliamento anche femminile ritorna in Serv. ad Aen. 1, 282, et sexus omnis et condicio toga utebatur, sed servi nec colobia nec calceos habebant. togas autem etiam feminas habuisse, cycladum et recini usus ostendit. Quanto alla frase “in lecto togas ante habebant”, non è di immediata comprensione. Sarebbe naturale intenderla nel senso che i Romani indossavano la “toga” anche a letto, dal momento che, come è detto immediatamente dopo, questa era un “vestimentum” anche “nocturnum”. Tuttavia, l’ipotesi di Riposati (p. 160) di interpretare “in lecto” non come “a letto”, bensì come “sul letto” non è affatto disprezzabile. È vero che non abbiamo altre attestazioni di quest’uso della “toga” a mo’ di copriletto (ma, del resto, neanche di un impiego della “toga” come camicia da notte); d’altra parte, la proposta di Riposati potrebbe trovare un certo fondamento nella derivazione di “toga” da “tego”; inoltre, è piuttosto difficile pensare che i Romani dormissero avvolti nelle complesse pieghe di una “toga”, mentre potrebbe darsi che questa, una volta sciolta, potesse servire da coperta di notte così come aveva servito da veste durante il giorno (dunque l’espressione varroniana “vestimentum … et diurnum et nocturnum” potrebbe essere intesa anche in questo senso). Un’ultima difficoltà è posta dalla forma in cui il frammento è tradito. I codici di Nonio, infatti, hanno il testo “ante enim olim fuit commune vestimentum…”. Come si vede, il soggetto di questa frase non può essere lo stesso di “habebant” della frase precedente e il contenuto richiede senza dubbio che il “vestimentum” 220
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in questione sia proprio la “toga”. In effetti, la sottofamiglia DA tramanda un testo dove è presente il termine “toga” (“ante enim olim toga fuit …”), testo accolto da Lindsay, Riposati e Salvadore. Tuttavia, questo testo pone non poche difficoltà. In primo luogo, lo stesso termine “toga” ha tutta l’aria di una glossa: l’evidenza stemmatica mostra che con buona probabilità tutta la tradizione non avesse “toga”, che manca nei due rami della prima famiglia di codici, L e AA; nella seconda, BA, e in un ramo della terza, CA. Soprattutto, dal momento che DA (una redazione abbreviata di Nonio) non copia la pericope precedente (“praeterea … habebant”), è molto probabile che il redattore, nel confezionare una forma tagliata della citazione, abbia sentito l’esigenza di recuperare il termine “toga” dal testo escluso per rendere la frase comprensibile. Alla luce di queste considerazioni, è difficile pensare che indipendentemente tutte e tre le famiglie dei codici noniani abbiano tralasciato “toga”, mentre soltanto un sottogruppo della terza famiglia l’abbia copiato; mi sembra molto più probabile pensare che l’archetipo non avesse “toga” e che nel progenitore di DA il termine sia stato posto per far quadrare un testo mutilato dai tagli del redattore. Ma le difficoltà non finiscono qui. Nel testo di Nonio, anche il nesso “ante enim olim” desta sospetto, in quanto “ante” ed “olim” ripetono pleonasticamente la stessa cosa e, per giunta, “ante” potrebbe essere una duplicazione del vicino “ante” (in “togas ante habebant”) verificatasi per errore meccanico. Questo problema è notato da Kettner e Müller. Müller cerca di risolverlo stampando “etenim olim toga fuit” (testo forse un po’ troppo enfatico), mentre Kettner propone la soluzione a mio parere più equilibrata: stampa infatti “ea enim olim fuit”: in questo modo elimina la difficoltà posta dal pleonasmo “ante … olim”, tiene conto dell’assenza di “toga” nella maggior parte della tradizione e fornisce alla frase un soggetto nella posizione che questo dovrebbe normalmente occupare. Secondo Kettner, “ante” si sarebbe generato per errore paleografico a partire da un fraintendimento di “ea”. Ora, l’unico punto della proposta di Kettner che mi lascia in dubbio è proprio questo. Infatti, va tenuto conto che “ea” si riferirebbe al termine “togas” citato nella frase precedente. Tuttavia, il salto da “togas ante habebant” a “ea enim olim fuit”, con cambio di numero, non è affatto immediato e la sintassi di tutto il brano, con la soluzione di Kettner, sarebbe piuttosto dura. Di qui la mia ipotesi che il testo di Varrone non avesse “ea”, ma “toga”, per cui suppongo che la forma originaria del frammento fosse “in lecto togas ante 221
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habebant. toga enim olim fuit commune vestimentum”. Più che a uno scambio paleografico, penserei a un errore dovuto ad autodettatura: nel ripetere la pericope “togas ante habebant toga”, un copista poteva facilmente scambiare i termini e scrivere “togas ante habebant ante”. Suppongo che così si sia generato il testo trasmesso dall’archetipo a tutta la tradizione “ante enim olim fuit”; quanto a DA, ho già spiegato sopra come suppongo che abbia inserito “toga” a testo. 51 (= 45 R., 329 S.) posteaquam binas tunicas habere coeperunt, instituerunt vocare subuculam et indusium 1: vacare CADA; 2: indussam (indusiam index mg. in BA) codd.; corr. Aldus Non. p. 870.20-22: SVBVCVLA. Varro de vita populi Romani lib. I
una volta che ebbero iniziato a indossare due sottovesti, decisero di chiamarle subucula e indusium Gellio (6, 12.3) riporta la notizia che i primi Romani usavano indossare soltanto la “toga”, senza alcun altro capo di abbigliamento (viri autem Romani primo quidem sine tunicis toga sola amicti fuerunt). Le tuniche, così come le altre fogge d’abito, sarebbero state introdotte in una seconda fase. Il frammento si riferisce, con buona probabilità, proprio al momento a partire dal quale si prese a indossare, sotto la “toga”, due diversi tipi di tunica. Varrone ne indica i nomi, rispettivamente “subucula” e “indusium”. Una descrizione più dettagliata, ma purtroppo non del tutto chiara, di questi due oggetti si trova a l. L. 5, 131: indutui alterum quod subtus, a quo subucula; alterum quod supra, a quo supparus … alterius generis item duo, unum quod foris ac palam, palla, alterum quod intus, a quo intusium. Varrone, in accordo con quanto detto anche nel frammento, parla di due diverse sottovesti, che chiama “subucula” e “supparus”. Attribuisce poi al “supparus” due varianti, una delle quali sarebbe (accogliendo l’integrazione molto probabile di Götz e Schöll) per l’appunto l’“indusium”. La divisione posta nel frammento fra “subucula” e “indusium” viene quindi confermata dal parallelo del de lingua Latina. Ora, il vero problema è nell’intendere cosa siano con esattezza questi capi di vestiario (cosa complicata dal fatto che per l’“indusium” i due brani di Varrone e un lemma di Nonio sono le uniche fonti disponibili, cfr. ThLL VII, 1 1273.35-46). Riposati (p. 161), interpreta il “subtus” di Varrone nel senso di “im222
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mediatamente sotto la toga”: la conseguenza è che la “subucula” verrebbe ad essere una sottoveste posta subito dopo la “toga”, ma non ancora a contatto con il corpo. Direttamente a contatto con il corpo sarebbe invece l’“indusium”, come conferma anche un lemma di Nonio (p. 866.35, indusium est vestimentum quod corpori intra plurimas vestes adhaeret, quasi intusium; ovviamente la derivazione da “intus” è una paretimologia, mentre è probabile che il termine sia un derivato di “induo”, vedi Ernout - Meillet p. 369). Credo che, a questo punto, non possano esserci dubbi sul fatto che l’“indusium” fosse, delle due sottovesti, quella più interna. Mi risulta difficile, invece, pensare alla “subucula” come a una sottoveste intermedia, posta fra la “toga” e l’“indusium”. Se così fosse, infatti, si dovrebbe intendere il brano del de lingua Latina nel senso che la “subucula” era portata sotto la “toga”, mentre il “supparus” era indossato sopra di essa. Ma questo è in palese contrasto con quanto detto dopo, ossia che l’“indusium” era una variante del “supparus”: si è infatti detto che l’“indusium” era l’abito più interno e, in quanto tale, non poteva essere in alcun modo una sopravveste da portare sulla “toga”. Credo che si potrebbe proporre una possibile soluzione intendendo le indicazioni “subtus” e “supra” di Varrone non tanto come “sopra e sotto la toga”, quanto come “nella parte inferiore e superiore del corpo”. In questo modo, il testo verrebbe a dire che i Romani usavano due tuniche, una (la “subucula”) era destinata a coprire la vita e le gambe (che servisse a coprire le gambe si può dedurre anche dal fatto che, come capo di abbigliamento, la “subucula” è tendenzialmente femminile, vedi OLD 1854; anche il fr. 52 parla della “subucula” come di un qualcosa che, analogamente alla “caltula”, era avvolto “al di sotto del seno”, il che concorda con la mia interpretazione di “subtus”), l’altra (l’“indusium”) copriva invece le spalle. Questa interpretazione è avvalorata dal fatto che, nel de lingua Latina, Varrone definisce “supparus” la tunica portata “supra” e il “supparus” era propriamente un tipo di veste femminile senza maniche che dalle spalle ricadeva sul corpo (cfr. OLD 1881). Come varianti del “supparus”, Varrone menziona appunto da un lato la “palla” (una sorta di scialle che veniva posto sulle spalle sopra la toga, vedi anche fr. 92), dall’altro l’“indusium” (che, come si è detto sopra, era una sottoveste posta sotto la toga a contatto con la pelle come una camicia). Credo che solo intendendo “supra” nel modo da me proposto si possa rendere chiaro il passo del de lingua Latina ed evitare la contraddizione secondo cui si direbbe prima che l’“indusium” era indossato sopra la “toga” e poi che lo si portava sotto di essa. Le due tuniche cui accenna Varrone nel frammento vanno dunque intese come le due sottovesti con cui gli 223
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antichi Romani avvolgevano la parte inferiore e quella superiore del loro corpo e su cui facevano ricadere la “toga”. Ricapitolando, secondo Varrone erano usati due tipi di tunica da avvolgere attorno al corpo: il “supparus”, che copriva la parte superiore del corpo, e la “subucula”, che copriva quella inferiore; a ciò aggiunge la specificazione che il “supparus”, se era indossato all’esterno (cioè come uno scialle), prendeva il nome di “palla”, se invece era indossato all’interno (cioè sotto la toga), prendeva il nome di “indusium”. Ciò si accorda con il dato del frammento, che individua appunto due sottovesti, la “subucula” e l’“indusium” 52 (= 46 R., 330 S.) caltula est palliolum praecinctui, quo nudae infra papillas praecinguntur; quo mulieres nunc et eo magis utuntur, postquam subuculis desierunt fr. Nonio trib. Riccobonus, Popma; 1: quo1 ed. 1471; quod codd. Non. p. 880.24-37: CALTVLAM et CROCOTVLAM. utrumque a generibus florum translatum, a calta et a croco. […] sed caltulam Varro de vita populi Romani lib. I palliolum breve voluit haberi: 1: calcatulam La.c.; cautulam CADA; 2: castulam codd.
la caltula è una piccola striscia di stoffa da avvolgere attorno al corpo, di cui le donne si cingono a contatto con la pelle al di sotto del seno; e al giorno d’oggi tanto più ne fanno uso, da quando hanno smesso di usare la subucula Come nel frammento precedente si discuteva il passaggio dall’uso della sola “toga” a quello della “toga” con sotto due tuniche (fra cui la “subucula”), così questa citazione descrive l’abbandono, da parte delle donne, della “subucula” a favore di una sottoveste più elaborata, la “caltula”. La descrizione che Varrone dà di questa veste è piuttosto esaustiva: si trattava di una fascia di stoffa che veniva avvolta al di sotto del seno a stretto contatto con la pelle (intendo così “nudae”). Come spesso avviene per questi capi d’abbigliamento arcaici, il brano di Varrone costituisce pressoché l’unica attestazione del termine (vi sono altre poche menzioni di una “caltula”, ma dove con questo termine è indicato un oggetto diverso, una veste dal colore di un fiore arancione detto “calta”, vedi ThLL III 184.9-20). Per quanto riguarda il dativo “praecinctui”, si veda l’introduzione della sezione relativa al vestiario a l. L. 5, 131: prius deinde utui, tum amictui quae sunt tangam.
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53 (= 47 R., 331 S.) tunicas neque capitia neque strophia neque zonas Non. p. 870.23-25: CAPITIA, capitum tegmina. Varro de vita populi romani lib. I. 1: I om. L; II G
sottovesti, né corsetti, né reggiseni, né cinture Il frammento presenta un elenco di capi d’abbigliamento femminili. Il fatto che siano coordinati con la congiunzione negativa “neque” e un confronto col fr. 54 rendono probabile l’ipotesi che qui Varrone stesse citando degli oggetti che i Romani, nella fase più antica della loro storia, non adoperavano ancora. Poiché si tratta di capi di vestiario prettamente femminili, sospetto che Varrone descrivesse nello specifico gli abiti ancora ignoti alle donne romane dell’età monarchica (vedi quanto detto nell’introduzione sul possibile contesto di questi frammenti). Tenendo conto del contenuto dei frr. 51 e 52, si può ipotizzare che Varrone intendesse dire che le donne delle origini non adoperavano ancora alcun capo al di fuori delle tuniche (si potrebbe quindi tentare una ricostruzione del tipo: “ tunicas, neque capitia, neque strophia neque zonas ”). In alternativa, si potrebbe pensare che anche le “tunicae” figurassero fra i capi sconosciuti alle donne della Roma più antica, il che porterebbe a integrare a senso la citazione con qualcosa come “ tunicas neque capitia neque…”. Ma questa seconda proposta sarebbe in parte smentita dal fatto che la “subucula” descritta nel fr. 51 è definita proprio come “tunica” (quindi le antiche donne romane conoscevano l’uso di “tunicae”). Inoltre, non va dimenticato che, nella citazione di Nonio, un “neque” prima di “tunicas” non c’è. Proporrei quindi di accogliere la prima interpretazione, secondo la quale le tuniche (descritte ai frr. 51 e 52) erano gli unici capi d’abbigliamento noti alle donne del periodo monarchico, ancora ignare di articoli di “intimo” più tardi. Quanto al “capitium”, il termine può assumere almeno tre significati diversi, tutti legati al tema dell’abbigliamento. Il primo è quello di “apertura di un abito da cui fuoriresce la testa (il “collo” di un vestito)”; il secondo è quello di “tunica scollata”; il terzo quello di “cappuccio” (vedi ThLL III 348.62-349.5). In realtà, il terzo significato, attestato solo dal lemma di Nonio (capitum tegmina), sembra da attribuirsi a una incomprensione del grammatico. Infatti i due frammenti del de vita citati da Nonio alla voce “CAPITIA” (frr. 53 e 54) danno dell’oggetto 225
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una descrizione del tutto diversa: questo elenca i “capitia” fra altri capi di “intimo”, mentre il fr. 54 parla dei “capitia” come di qualcosa che copriva il petto e le spalle, non la testa. Infine, va citata la descrizione che Varrone dà dell’oggetto a l. L. 5, 131 (capitium ab eo quod capit pectus, id est, ut antiqui dicebant, comprehendit). Unendo questa descrizione a quanto detto nel fr. 54, penserei che quindi il “capitium” fosse considerato da Varrone come una sorta di tunica stretta usata per avvolgere il petto e le spalle (è all’incirca il secondo significato registrato dal Thesaurus); di conseguenza, ho reso il termine con “corsetto”. Lo “strophium” (grecismo molto attestato, calco di στρόφιον, a sua volta derivato da στρέφω, vedi OLD 1829) era un vero e proprio reggiseno, costituito da una fascia lunga, stretta e rigida da stringere attorno al seno. Le “zonae” (calco dal greco ζώνη, vedi OLD 1225) erano delle semplici cinture. 54 (= 48 R., 332 S.) neque id ab orbita matrum familias institutum, quod eae pectore ac lacertis erant apertis nec capitia habebant 1: ab BA; ad LAA; utrumque agnoscit CA (ab Lugd., Bamb.; ad Paris. 7666) | institutum Müller; instituto L; institutio AA; instituti BA, edd. | hae DA Non. p. 870.25-27: idem in eodem:
né ciò fu istituito nel solco delle madri di famiglia, perché quelle avevano il petto e le braccia scoperti e non facevano uso di corsetti Il contenuto del frammento non è chiaramente individuabile. Varrone parla di un uso (che lui probabilmente non condivideva), di cui cerca di individuare l’origine. Il fatto che il seguito della citazione parli della pratica di avere le braccia scoperte come contraria all’uso criticato, potrebbe spingere a ipotizzare che qui Varrone stesse biasimando l’uso, forse da parte di uomini120, di tuniche dalle maniche lunghe, considerate un simbolo di effeminatezza (cfr. Cic. Cat. 2.22, dove si parla con disprezzo di giovani manicatis ac talaribus tunicis, velis amictos, non togis). A detta dell’autore, tale malcostume non poteva venire dall’esempio (su questo senso di “orbita”, lette-
Questa ipotesi sarebbe rafforzata accettando il testo “instituti”, che però è controverso (vedi infra). 120
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ralmente “solco tracciato da un carro” e, per slittamento semantico, “esempio, via ab antecessoribus trita”, vedi ThLL IX 921.21-49) delle madri di famiglia, che indossavano tuniche senza maniche, avevano petto e braccia liberi e non portavano busto. Venendo a un esame del testo, il frammento è stampato dagli editori nella forma tradita da BA “neque id ab orbita matrum familias instituti”, dove “id” va inteso come un accusativo di relazione retto da “instituti” (“educati a ciò”). Questa costruzione sintattica della frase non è impossibile, ma di certo è piuttosto dura121. Inoltre, la tradizione di “instituti” non è solidissima: la lezione è trasmessa dal solo gruppo BA, mentre il testo di AA “institutio” ha tutta l’aria di essere il frutto di una corruttela da varia lectio. Mi spiego meglio: l’archetipo avrebbe potuto avere “instituto” corretto s.l. in “instituti” da un redattore che avesse voluto eliminare un “instituto” privo di senso e ripristinare un nominativo plurale parallelo al successivo “eae … habebant” (“instituto” si sarebbe mantenuto in L, mentre BA avrebbe accolto la correzione e AA l’avrebbe fraintesa). Müller si rende conto della difficoltà poste dal testo con “instituti” e, difatti, interviene correggendolo in “institutum”, da prendere come soggetto correlato a “id”. La proposta non è disprezzabile: con “id … institutum” la sintassi risulterebbe più piana e il senso sarebbe ottimo (“né questo costume da…”). Ancora, un originario “institutum”, magari abbreviato in “institutũ”, poteva essere facilmente scambiato per “instituto” (la “u” con il compendio per la nasale poteva essere presa per una “o” dalla forma un po’ squadrata). La correzione “institutum” potrebbe essere in parte supportata anche dal confronto con il fr. 55, “cum omnem vestitum … postea institutum ponunt”, che porterebbe a riferire il
“Instituo” regge, come costruzione normale, “ad” con l’accusativo (vedi ThLL VII, 1 1990.6-15), per cui il sintagma “id … instituti” risulterebbe anomalo. Dal momento che i codici noniani presentano una diffrazione di varianti, in quanto alcuni di essi hanno “id ab”, altri “id ad”, si potrebbe in teoria ipotizzare che, a partire da un testo “ad id ab” si sia generata, in fase di copiatura, una confusione fra le due preposizione simili (una delle due potrebbe essere stata saltata e poi inserita in interlineo, determinando ulteriori danni nelle copie successive), che avrebbe poi causato l’oscillazione “ab/ad” dei codici. Il testo corretto del frammento potrebbe dunque essere “neque id ab orbita matrum familias instituti”. Tuttavia, se da un lato l’intervento appianerebbe in parte la sintassi, dall’altro non si può negare che l’impacciato accumulo di monosillabi “ad id ab” risulterebbe piuttosto goffo e cacofonico e l’intera correzione del brano rischierebbe di essere frutto di un razionalismo un po’ pignolo. Infine, non è affatto certo che “instituti” sia il testo sano. 121
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participio di “instituo” nel nostro frammento a un oggetto piuttosto che a delle persone. Ho scelto pertanto di accogliere a testo la correzione di Müller. Per quanto riguarda il contenuto del brano, questa non impone di scostarsi troppo dall’interpretazione vulgata: pur in assenza di un termine esplicitamente maschile (quale sarebbe “instituti”), rimane infatti plausibile che l’“institutum” sgradito a Varrone fosse comunque l’uso da parte degli uomini di capi scollati. 54(a) Non. p. 870.27: haec et capitula appellavit 1: appellant Iunius
(Varrone) ha chiamato questo tipo di veli anche capitula Nonio chiude la voce dove sono riportati i frr. 53 e 54 con questa nota, dove è riferita un’oscillazione nell’uso di Varrone, che chiamerebbe i “capitia” anche “capitula”. Poiché ciò avviene nell’ambito di una voce costituita per intero da citazioni dal de vita, è probabile che Nonio trovasse il termine “capitula” in quest’opera. Pertanto, riporterei “capitula” come una glossa che poteva derivare dal de vita e stampo questa nota di Nonio come un “quasi-frammento” varroniano. 55 (= 49 R.; 333 S.) ex quo mulieres in adversis rebus ac luctibus, cum omnem vestitum delicatiorem ac luxuriosum postea institutum ponunt, ricinia sumunt Non. p. 869.1-7: RICINIVM quod nunc mafurtium dicitur, palliolum femineum breve. 1: RICINIVM AA; ricinum LBADA; rinum CA
da quando le donne indossano il ricinium nelle avversità e durante il lutto, quando smettono di portare ogni abito di quelli più raffinati e vistosi che sono stati inventati in seguito Il frammento parla di una sorta di scialle, il “ricinium”, che le donne portavano sulle spalle (vedi OLD 1653). In particolare, la citazione lo menziona come una veste da lutto; anche un altro frammento del de vita (fr. 92) ripete l’informazione che le donne indossavano dei “ricinia” durante la cerimonia funebre. Nelle parole di Varrone non manca un certo tono di critica moralistica: in occasione del lutto 228
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(o in altre avversità che richiedessero di vestire un tale abito; si pensi all’uso di presentarsi in tribunale, in caso di accusa a proprio carico, vestiti a lutto) le donne depongono le vesti ricercate escogitate o importate nelle fasi successive della storia romana (“postea”) e tornano a indossare il semplice e arcaico “ricinium”. Una difficoltà sintattica è posta dal sintagma “ex quo”: purtroppo il taglio di Nonio impedisce di sapere se “quo” fosse riferito a un termine presente nella parte di testo esclusa o se “ex quo” vada inteso come un unico sintagma. Seguendo la prima ipotesi, Varrone poteva menzionare, nella parte precedente, un costume o un dato antiquario “in base al quale” si spiegava perché le donne adoperassero proprio il “ricinium” in caso di lutto. Tuttavia, il fatto che non sia pervenuto il contesto esatto del frammento rende vano ogni tentativo di risalire a quale potesse essere il termine preciso correlato a “quo”. Per questo, nella traduzione ho scelto di seguire la seconda possibilità e di prendere “ex quo” come un nesso unico, equivalente a una congiunzione. Ora, si potrebbe intendere “ex quo” sia nel senso di “da quando” sia in quello di “dal fatto che”. Tuttavia, qualora si interpretasse “ex quo” come “dal fatto che…” (Varrone, come spesso fa, poteva rintracciare la sopravvivenza di un dato antiquario nel fatto che, ancora ai suoi tempi, in certe occasioni si portava il “ricinium”), rimarrebbe la difficoltà che la forma più normale per rendere un concetto del genere sarebbe stata “ex eo quod”, non “ex quo”. Per questo motivo, darei a “ex quo” piuttosto il senso di “da quando” (cfr. fr. 52, “posteaquam subuculis desierunt”): del testo è giunta una porzione troppo ridotta perché si possa procedere a ricostruzioni, ma si potrebbe almeno ipotizzare che Varrone dicesse, ad esempio, che alcune fogge d’abito arcaico si potevano ancora osservare ai suoi tempi “da quando era invalso l’uso di indossare il ricinium nei lutti”. Senza volersi spingere ulteriormente nel campo delle ipotesi, va comunque detto che, fra le varie interpretazioni di “ex quo”, quella che lo intende come “da quando” dà al frammento una struttura sintattica piana e comporta meno difficoltà delle altre. Sul piano del contenuto, il frammento può essere accostato a Sen. ep. 18.2, nam quod fieri nisi in tumultu et tristi tempore civiatatis non solebat, voluptatis causa ac festorum dierum vestem mutavimus (riguardo il costume di smettere la toga durante i Saturnali). Come “vestem mutare”, anche “vestitum mutare” è formula canonica per dire “indossare l’abito di lutto” (così come, viceversa, per dire “smettere il lutto” si adopera la formula “ad vestitum redire”), vedi OLD 2050 1c.: l’uso di “vestitum” da parte di Varrone nel frammento potrebbe essere motivato proprio dalla volontà di richiamare questa formula. 229
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56 (= 50 R., 336 S.) minoris natu capite aperto erant, capillo pexo vittisque innexis crinibus 1: aperte AAL (ex corr.) | vittisque Popma; utique codd., Lindsay, Rip., Sal. Non. p. 352.15-353.28: APERTVM, nudatum […] Varro de vita pop. Rom. lib. I.
i più giovani portavano il capo scoperto, la chioma ben pettinata e con bende intrecciate ai capelli Il frammento descrive l’acconciatura dei più giovani nei tempi antichi. Costoro non usavano portare copricapo, ma avevano i capelli accuratamente pettinati, come spiega la minuziosa descrizione di Varrone. Proprio la parte relativa ai capelli è interessata da un problema testuale: il testo tradito ha un “utique” che non dà quasi senso (“con la chioma pettinata, in particolare con i capelli intrecciati”?). Accettando, come fanno Lindsay, Riposati e Salvadore (ma non il Thesaurus), “utique”, si avrebbe dunque un testo debolissimo, dove non sarebbe ben chiara la distinzione fra “capillo pexo” e “innexis crinibus”, che sembrerebbero posti sullo stesso piano. Ugualmente, sarebbe difficile attribuire a “utique” un valore preciso (dovrebbe chiarire “capillo pexo” o mettere in risalto “innexis crinibus”? e, soprattutto, sarebbe così essenziale?), né si comprenderebbe il significato di “innexis” (“con capelli intrecciati fra loro”?). Tutti questi problemi sono risolti dalla brillante congettura di Popma “vittisque”. Con “vittisque” tutto il frammento diventa più chiaro e preciso: i tre ablativi assoluti del frammento sono logicamente coordinati e viene eliminato il durissimo “utique”. Con il testo di Popma, “innexis” viene legato a “vittis” e sciolto da “crinibus” (che sarebbe da intendere come un dativo, non più come un ablativo), venendo ad assumere il senso ben più pregnante di “con bende intrecciate ai capelli”. L’intervento del Popma è reso pressoché sicuro anche dal parallelo di Fest. p. 484.32 L.: tutulum vocari aiunt flaminicarum capitis ornamentum, quod fiat vitta purpurea innexa crinibus, et exstructum in altitudinem (vedi anche ThLL VII, 1 1695.20-28). Per la forma “minoris” del nominativo plurale, si veda quanto già osservato al fr. 4; sull’uso di “pexus”, cfr. ThLL X 905.75-906.8. Frammenti dal contesto incerto Riporto di seguito alcuni frammenti che Nonio attribuisce al primo libro del de vita. Poiché a queste citazioni non può essere applicata le “lex Lindsay” ed esse 230
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non presentano, nel contenuto, dati tali da permettere di legarle ai frammenti sopra discussi, ho preferito considerarle a parte. 57 (= 3 R., 338 S.) neque ita ut in singulis rebus diutius moremur, ut dixi, atque enodare subtilius velimus 1: ut in F3BA; om. L Non. p. 21.3-22.19: ENODA significat explana; et quae sit proprietas, manifestum est, hoc est nodis exsolve. […] Varro de vita populi Romani lib. I. 1: et] ex CADA; 2: hoc – exsolve dub. secl. Müller
come ho dichiarato, (procederò) in modo da non trattenermi eccessivamente a lungo sulle singole questioni e non volerle districare con troppa sottigliezza La citazione è tratta da una sezione programmatica in cui Varrone dichiarava il suo modo di procedere nella trattazione della materia. Il metodo enunciato prevede di rinunciare a un’analisi eccessivamente minuziosa dei dati: i vari argomenti verranno esaminati per sommi capi e in modo rapido, senza voler scendere troppo in dettaglio, affrontare tutte le questioni e soffermarsi troppo a lungo su un singolo tema. Se il senso del frammento è chiaro, è meno facile determinarne la posizione. La citazione poteva infatti con la stessa probabilità comparire sia in apertura dell’opera, all’interno di una sezione proemiale in cui erano esposte le linee guida del metodo seguito nella stesura di tutto il de vita (così crede Riposati, p. 94), sia prima di una specifica sezione tematica del primo libro. Nulla infatti prova che questa dichiarazione di metodo dovesse trovarsi proprio in apertura dell’opera, quando avrebbe potuto anche trovarsi all’interno di un cappello introduttivo posto o prima del blocco dedicato al sunto della storia dell’età monarchica, o prima dell’ampia trattazione della “res familiaris”, o anche prima di una delle varie sottosezioni (alimentazione, suppellettile domestica, vestiario…) in cui si divideva questa parte. Per questi motivi, preferisco seguire il parere di Salvadore e stampare il frammento fra quelli “incertae sedis”. A livello formale, l’unico punto rilevante del frammento è costituito dall’uso del verbo “enodo” (motivo difatti della citazione da parte di Nonio). Il verbo, già in latino arcaico, passa dal significato proprio di “eliminare i nodi del legno” o “sciogliere un nodo” a quello traslato di “risolvere una difficoltà, affrontare i nodi 231
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di una questione” (vedi ThLL V 603.69-604.19). Per questo motivo, ho scelto di impiegare nella traduzione il verbo “districare”, così da mantenere la duplicità di significato del verbo latino. 58 (= 2 R.; 339 S.) neque enim obsonium, in totam cenam coemptum ex variis rebus, [cum] coniectum in unam sportam perspicitur 1: in tota cena (caena) codd., corr. Quicherat | cum del. ed. 1476, retinent edd. Non. p. 260.17-261.21: SPORTAS […] Varro de vita populi Romani lib. I. 1: SPORTAS aut ab spartu quasi sparteas aut ab sportando CADA (ex Isid. etym. 20 9.10)
né infatti le varie pietanze di una spesa, composta da prodotti diversi acquistati insieme per una cena completa, si possono distinguere una volta che siano state riposte in un’unica cesta In questa citazione Varrone riprende un esempio tratto dall’esperienza quotidiana che adopera come termine di paragone rispetto a qualcosa. Purtroppo, il taglio operato da Nonio ha escluso il referente del discorso, per cui è del tutto impossibile risalire con certezza al contesto in cui era inserito questo frammento. Riposati (p. 94) ipotizza che anche questa frase, come il fr. 57, facesse parte della sezione proemiale dell’opera e che Varrone impiegasse questo paragone per suggerire al lettore quanto il tempo avesse reso confuse ed evanescenti le memorie antiquarie che lui cercava di esporre nel de vita («fatti e memorie, forse seppellite nell’oblio dei secoli e confuse nella loro origine e nella loro tradizione»). Come si vede, nella pericope citata da Nonio vi sono ben pochi elementi che sostengano questa interpretazione. Si potrebbe certo pensare che il frammento abbia qualcosa a che vedere con un discorso di “poetica”: Varrone avrebbe potuto presentare il proprio lavoro come una “farrago” dove era a volte impossibile distinguere i diversi argomenti trattati, che finivano per intersecarsi e confondersi, come avviene per le diverse pietanze poste nella stessa cesta122. Per quanto 122 Non so fino a che punto possa valere come parallelo utile a sostegno di questa ipotesi il fr. 27 del l. 18 del de lingua Latina: quibus nos in hoc libro, proinde ut nihil intersit, utemur indiscriminatim, promisce. L’ipotesi più probabile sul contenuto del frammento, infatti, è che Varrone menzionasse due termini sinonimi e avvertisse il lettore che, nel seguito del
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questa sia un’ipotesi forse più accettabile di quella di Riposati, resta comunque il fatto che non può essere sostenuta in base a dati sicuri. Ugualmente indimostrabile è l’idea, espressa comunque con notevoli cautele, di La Penna 1976 (p. 400) che il frammento alludesse «alla varietà etnica di Roma alle origini o alla varietà degli elementi culturali in essa confluiti». Preferisco dunque non esprimermi sul contesto del frammento e stamparlo, come Salvadore, fra quelli “incertae sedis”. Il paragone riferito da Varrone è chiaro (anche se una certa sovrabbondanza di espressioni pleonastiche ne rende il dettato un po’ contorto, vedi infra): quando la spesa acquistata per una cena completa (intendo come un complemento di fine il nesso “in totam cenam”, accogliendo, come tutti gli editori, la correzione di Quicherat) e quindi composta da pietanze di diverso genere (poiché destinate a comparire in portate distinte) viene messa tutta insieme nella stessa cesta, non si possono più distinguere le varie pietanze. Nel tratteggiare questa immagine, Varrone seleziona i termini con notevole scrupolo, scegliendo due verbi dove il prefisso chiarisce in modo evidente l’azione: “coemo” fa capire come le vivande siano state acquistate tutte insieme (vedi ThLL III 1411.73-1412.33: “in unum emere, emendo colligere”); allo stesso modo “perspicio” suggerisce l’azione di non limitarsi a guardare una cosa, ma di soffermarsi a esaminarla con attenzione (operazione vanificata dal fatto che le vivande, una volta finite nella stessa “sporta”, non possono più essere distinte). Per quanto riguarda lo stilema “in unam sportam conicere”, cfr. Cato agr. 83, id in unum vas liceto coicere et vinum item in unum vas liceto coicere. Per quanto riguarda la struttura sintattica della frase, gli editori accettano il testo tradito (“neque enim obsonium … cum coniectum in unam sportam perspicitur”), in base al quale si dovrebbe pensare che Varrone abbia sottointeso una copula “cum coniectum (est) in unam sportam”: soluzione non impossibile, data la rapidità dello stile varroniano, ma piuttosto dura. Ancora più complesso sarebbe tentare di salvare il testo tradito pensando a un taglio maldestro di Nonio: “perspicitur” potrebbe non essere il verbo della principale, ma ancora quello della subordinata retta da “cum”, mentre il verbo reggente dell’intero periodo poteva trovarsi nel seguito del frammento, escluso da Nonio (“neque enim obsonium …, cum coniectum in unam sportam perspicitur …, …”). La difficoltà di questa soluzione è evidente: andrebbe infatti postulato un periodo dalla struttura estremamente complessa, con il verbo so, li avrebbe impiegati entrambi indiscriminatamente (un contesto, dunque, ben diverso da quello ipotizzato per il fr. 58).
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reggente a grandissima distanza dal suo soggetto (o oggetto, dal momento che non abbiamo idea di come si potesse articolare il discorso di Varrone) “obsonium”. Forse la soluzione più economica è quella avanzata già dall’edizione di Nonio del 1476: espungere il “cum”, che complica la sintassi e risulta superfluo sul piano del senso. “Cum” potrebbe essere sorto per una sorta di dittografia a partire da “coniectum”, o come tentativo di un copista, a cui sfuggisse l’andamento dell’intera citazione, di dare un ordine al microcontesto con l’introduzione di una congiunzione. Senza “cum” il discorso procederebbe in modo abbastanza logico: l’“obsonium coemptum ex variis rebus” non “perspicitur” se “coniectum in unam sportam”.
Libro II Struttura del l. 2 Mentre appare probabile, stando a quanto si può ricostruire sulla base degli indizi ricavabili dalla “lex Lindsay”, che il primo libro del de vita populi Romani presentasse una netta divisione della materia in due ampie sezioni, la prima di carattere storico-narrativo (esposizione sintetica delle vicende dell’età monarchica), la seconda di natura enciclopedico-erudita (trattazione di tematiche relative alla vita quotidiana), per il secondo libro possiamo ipotizzare una struttura differente. Sebbene, dati il minor numero di citazioni tratte dal l. 2 e l’esistenza di pochissime serie cui possa essere applicata la “lex”, il tentativo di ricostruirne la struttura sia ben più arduo e privo di puntelli rispetto al libro precedente, vi sono indizi che nel l. 2 la parte storica e quella erudita non fossero distinte in modo marcato, ma piuttosto si intersecassero nel corso della trattazione. Ciò si può supporre dal fatto che, in una serie sicura (vedi introduzione), un frammento relativo all’organizzazione dell’esercito (fr. 71 secondo la mia numerazione) precede due frammenti di carattere narrativo (frr. 75 e 76), in cui si parla con buona probabilità di un episodio della guerra contro Pirro e dello sviluppo economico di Roma: la rassegna delle vicende della prima fase della Repubblica, quindi, non precedeva come un blocco a sé stante la parte tematica relativa all’esercito (come avviene nel l. 1 per la trattazione del periodo monarchico), ma la successione dei frammenti in Nonio sembra piuttosto suggerire che la sezione sul diritto militare costituisse una sorta di excursus inserito all’interno di un racconto storico condotto per tutto il l. 2 e che Varrone parlasse dell’esercito prima di affrontare la narrazione della guerra contro Pirro (che veniva plausibilmente trattata verso la fine del libro, dal momento che le guerre puniche sono argomento del l. 3). Per questo libro, ipotiz234
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zo dunque che la parte narrativa si sviluppasse lungo l’intero volume, venendo di volta in volta interrotta da una sezione tematica dal carattere più marcatamente antiquario. Per quanto riguarda il criterio in base al quale Varrone potrebbe aver ordinato il suo sintetico resoconto storico, il confronto con gli altri libri del de vita autorizza a credere che venisse seguita la cronologia degli avvenimenti; di conseguenza, ho ordinato i frammenti relativi a eventi storici in base all’ordine cronologico delle vicende ivi trattate. È plausibile che il libro si aprisse con l’istituzione della Repubblica dopo la cacciata dei Tarquini (nessun frammento del l. 1 lascia intendere che già lì venissero trattate vicende successive alla fine della monarchia, così come la fisionomia del l. 1, dedicato all’esposizione dei riti e dei costumi più antichi della civiltà romana, si accorda meglio con l’ipotesi che questo libro si limitasse a considerare la sola età monarchica), procedendo a delineare le diverse fasi della conquista romana dell’Italia, fino al momento in cui, con lo scontro con Pirro, Roma inizia a presentarsi come una nuova potenza nello scacchiere mediterraneo (la conquista del Mediterraneo sarà descritta nel l. 3). Più problematico è definire come potessero trovare posto, all’interno di questa griglia cronologica, le sezioni tematiche e antiquarie (gli argomenti trattati di cui resti traccia nei frammenti trasmessi sono sostanzialmente tre: riti nuziali o per la nascita di un bambino; cariche pubbliche; gradi dell’esercito e diritto militare). Un indizio relativo all’ordine in cui queste tre sezioni potevano succedersi viene da una serie “fuori posto” (cfr. introduzione) dove un frammento sui riti da compiere in occasione della nascita di un bambino (fr. 61) ne precede uno sulla natura del “caduceus” (fr. 73). Sia Riposati che Salvadore invertono l’ordine della serie noniana, suggerendo in questo modo che la trattazione dell’esercito precedesse quella dei riti domestici. In realtà, come è detto in modo più approfondito nell’introduzione, non possono essere individuati particolari argomenti a favore di questa ricostruzione, che resta una semplice proposta dei due editori. Viceversa, io avanzerei l’idea che la sezione sui riti nuziali fosse connessa da Varrone al racconto dell’approvazione della lex Canuleia, che autorizzava i matrimoni misti fra patrizi e plebei. Se così fosse, sarebbe logico trovare una sezione legata alla narrazione di un episodio del 445 a.C. prima di quella relativa all’esercito, che poteva essere adeguatamente collocata nell’ambito del racconto delle successive campagne belliche, ad esempio le guerre sannitiche, dove, tra l’altro, la tattica manipolare dell’esercito romano aveva contribuito in maniera notevole alla vittoria: pertanto si spiegherebbe bene la volontà, da parte di Varrone, di interrompere a questo punto la narrazione per soffermarsi 235
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sull’organizzazione dell’esercito romano. Pur trattandosi di una semplice ipotesi, credo che una ricostruzione del genere possa fornire un argomento, per quanto solo indiziario, a favore dell’ordine trasmesso da Nonio. Inoltre, se si collegassero le citazioni sui riti domestici alla menzione della lex Canuleia, queste costituirebbero i frammenti relativi agli eventi più antichi (contro l’idea che vuole che l’evento più antico cui accennino i frammenti superstiti del l. 2 sia il sacco di Roma da parte dei Galli del 396 a.C. e in base alla quale nelle edizioni di Riposati e Salvadore le citazioni riferibili all’incendio gallico sono presentate come i primi frammenti del l. 2). In conclusione, per il l. 2 propongo una tale struttura tematica: aperto il libro con il racconto dell’istituzione della Repubblica e delle imprese compiute nei primi decenni del nuovo regime (di questa parte non è rimasto alcun frammento), Varrone poteva spingere la sua narrazione fino all’approvazione della lex Canuleia. A questa poteva connettere la sezione antiquaria sui riti nuziali e della nascita, di cui restano quattro frammenti. Concluso questo excursus, la parte storica proseguiva, toccando episodi come la presa di Roma da parte dei Galli (frr. 63 e 64; probabilmente Varrone seguiva in proposito una versione diversa da quella tradizionale e raccontava che l’intera città fosse stata presa e data alle fiamme, mentre il celebre racconto canonico voleva che almeno il Campidoglio e l’Arx fossero rimasti in mano romana, vedi infra) e i primi casi di lotte civili a Roma (frr. 65 e 66; potrebbe trattarsi delle tensioni fra patrizi e plebei che portarono al voto delle leges Liciniae Sextiae o dell’abuso del potere conferito da cariche quali la dittatura da parte di gentes come i Claudii, ma i frammenti rimasti sono così generici da non permettere identificazioni precise). Preferirei connettere a queste vicende la sezione tematica sull’ordinamento repubblicano e l’origine delle cariche pubbliche (frr. 67-70). Certo, nulla vieterebbe di ipotizzare, per questa parte, una diversa collocazione all’inizio del libro, in connessione con il racconto della nascita della Repubblica (Varrone avrebbe potuto avviare il resoconto della storia repubblicana dopo una sezione introduttiva in cui spiegava a grandi linee le origini e la natura delle diverse parti che componevano questo sistema politico; in tal caso, questi frammenti andrebbero posti in apertura del l. 2, ancora prima di quelli sui riti nuziali). Tuttavia, ho preferito collocare queste citazioni dopo i frammenti sulle lotte civili, in quanto una struttura del genere potrebbe essere più in linea con la forma mentis di Varrone e il tono di pessimismo nostalgico che traspare dalla maggior parte di quanto è sopravvissuto del de vita: l’autore avrebbe potuto voler porre drammaticamente in contrasto l’esposizione astratta e ideale del funzionamento del sistema repubblicano proprio con il racconto dei primi segnali 236
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di crisi e imperfezione mostrati, nel corso della storia di Roma, dal sistema stesso. Una tale mossa mostrerebbe, del resto, una certa consonanza anche con il proposito del de vita populi Romani nel suo complesso, un’opera che, scritta durante la fase terminale dello scontro fra Cesare e Pompeo e pubblicata alla vigilia di una nuova guerra civile, intendeva ripercorrere il cammino della civiltà romana dalle gloriose origini fino alla cupa attualità, proponendo le caratteristiche della Roma più antica come un paradigma morale da recuperare nel presente. Allo stesso modo, la trattazione della nascita e delle funzioni delle diverse cariche come dovrebbero essere, nel l. 2, sarebbe stata messa in maggiore risalto se connessa, per contrasto, al racconto dell’insorgere delle prime irregolarità nella prassi politica. Nella mia ricostruzione, poi, ipotizzo che, conclusa la parte sulle magistrature, Varrone impiegasse la sezione sull’organizzazione dell’esercito (frr. 71-73) come una sorta di introduzione al racconto delle vicende belliche che, a partire dalle guerre sannitiche (fr. 74), avrebbero portato Roma alla conquista di gran parte dell’Italia, vicende in cui proprio la ferrea organizzazione dell’esercito aveva garantito la vittoria. In seguito alla conquista dell’Italia, infine, Roma si pone come una nuova potenza mediterranea: di qui i primi scontri con i vicini regni ellenistici (la guerra contro Pirro, fr. 75) e lo sviluppo economico della città conseguente all’ampliarsi dei traffici e delle risorse (fr. 76; la successione 75 – 76 è assicurata dalla “lex”). La menzione dello scontro fra Roma e le altre potenze mediterranee, inoltre, costituisce un ponte fra il l. 2 e il libro successivo, dedicato proprio alle guerre puniche e alla conquista del regno di Macedonia. Restano esclusi dalla presente ipotesi di ricostruzione alcuni frammenti, per lo più di carattere antiquario, dal contesto incerto o difficili da inquadrare nell’ambito di una determinata sezione: ho preferito dunque presentarli in coda agli altri, a mo’ di appendice. 59 (= 78 R., 388 S.) cum a nova nupta ignis in face adferretur foco eius sumtus, fax ex spinu alba esset et eam puer ingenuus anteferret 1: face edd.; facie codd. | e suppl. Scaliger | cum ante fax add. BA, del. Müller | ex pinu alba BA; ex finu (vel stinu) albae L, ex pinu ablata L2; corr. Scaliger; e spina alba Turnebus; 2: et … anteferret Müller; ut … adferret codd. Non. p. 161.19-25: FAXS pro face. Varro […] idem de vita populi Romani lib. II pro faces Quicherat; fort. pro facula Lindsay (cfr. «Archiv» 9, 1896, p. 377)
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quando il fuoco veniva portato dalla sposa (nella casa dello sposo) su una fiaccola accesa attingendo al focolare della casa di lei, la fiaccola era di biancospino e un fanciullo di condizione libera la reggeva davanti (la sposa) Questo frammento, insieme a quello successivo, è dedicato all’esposizione del cerimoniale praticato in occasione del matrimonio: il fr. 59 descrive le operazioni rituali che la sposa eseguiva entrando nella casa del marito, mentre il fr. 60, viceversa, riferisce quanto veniva compiuto dallo sposo prima di accogliere la futura moglie. Le due citazioni si mostrano del tutto complementari per contenuto (descrivono due momenti molto vicini della cerimonia nuziale, uno “da parte della sposa”, l’altro “da parte dello sposo”) e quasi speculari per la forma: il fr. 60, non a caso aperto dall’avverbio “contra”, ripropone la stessa struttura e gli stessi termini della prima parte del fr. 59, al punto che, sulla base della corrispondenza fra le due citazioni, si può giustificare una correzione al testo tradito del fr. 60. L’evidente somiglianza fra i due frammenti non può essere un fattore casuale, ma è probabile che il fr. 59 e il fr. 60 facessero parte della stessa sezione tematica e comparissero a breve distanza l’uno dall’altro. La vicinanza fra i due passi è poi tale da non rendere impossibile l’ipotesi che addirittura essi potessero fare parte dello stesso periodo, o almeno appartenere a due frasi adiacenti. Nel loro complesso, i due frammenti forniscono informazioni circa il corteo che tradizionalmente, in quella parte del rito nuziale nota come “deductio in manum”, scortava la promessa sposa fino alla casa del futuro marito, alla luce delle fiaccole nuziali (le “faces” descritte nel fr. 59) e il particolare rito lustrale noto con la formula “aqua et igni nubere” (la cui natura resta misteriosa e può essere soltanto supposta a partire da quanto detto nel fr. 60 e nelle poche testimonianze parallele; è certo tuttavia che questa cerimonia aveva luogo nel momento in cui la sposa varcava la soglia della nuova casa e marcava l’ammissione della donna al culto domestico della “familia” in cui era entrata, vedi RE VIII, 2 2133.42-50). Come ho già indicato nel paragrafo introduttivo al l. 2, ipotizzo che questa descrizione dei riti matrimoniali potesse essere collegata da Varrone a un accenno, sviluppato nel corso del riassunto della storia dei primi decenni della Repubblica, all’approvazione della lex Canuleia (vedi Liv. 4, 1-6): dopo aver raccontato come i Romani avessero conquistato il diritto di sposarsi fra concittadini senza preclusioni, Varrone poteva infatti aprire un excursus sulle forme di matrimonio 238
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più antiche e tradizionali, esteso poi fino a includere altri riti domestici, come quelli compiuti per la nascita di un bambino (frr. 61-62). Passando a un’analisi specifica del fr. 59, la citazione riporta tre informazioni: è detto che la sposa, entrando nella dimora del marito, vi recava del fuoco su una fiaccola accesa al proprio focolare; poi Varrone specifica il materiale con cui questa fiaccola era realizzata e dice che veniva portata da un giovane di condizione libera. Come ho già accennato, la prima parte del frammento mostra impressionanti analogie con la forma del fr. 60: proprio il confronto fra i due frammenti rende sicura l’integrazione della preposizione “e” proposta dallo Scaligero. Per quanto riguarda il pronome “eius”, esso va interpretato come “di lei = della sposa” (così RE VIII, 2 2133.20-24): il contenuto richiede che la fiaccola fosse accesa attingendo al focolare della sposa, mentre “e foco eius” non può in alcun modo essere inteso come “dal focolare di lui = dello sposo”, in quanto i riti di competenza del marito sono l’argomento non di questo frammento, ma del successivo fr. 60, dal cui testo si evince che il fuoco offerto dal marito alla sposa non era porto su di una fiaccola, ma su un tizzone. Del resto, il valore simbolico del rito, volto a rappresentare la fusione dei due nuclei familiari, si può cogliere bene solo immaginando che, come la sposa, entrando nella nuova dimora, riceveva dal marito un’offerta del fuoco di questa casa, così da parte sua gli recasse del fuoco attinto al focolare della casa che lei aveva appena abbandonato. Segnalerei infine come degna di nota la forma originaria del participio “sumtus”, costruita con la radice e la terminazione dell’aggettivo verbale (*sum-tos) senza l’inserzione della “p” epentetica (cfr. HLS I 216). La seconda parte del frammento precisa che la fiaccola recata dalla sposa era in legno di biancospino. Non si tratta di una precisazione inutile; Plinio, infatti, specifica che ai suoi tempi il legno di biancospino non era più impiegato per realizzare le fiaccole nuziali (n. h. 16, 75: in eosdem situs [sc. Galliae] comitatur et spina, nuptiarum facibus auspicatissima, quoniam inde fecerint pastores qui rapuerunt Sabinas, ut auctor est Masurius. Nunc facibus carpinus, corylus familiarissimae); la menzione del legno di biancospino da parte di Varrone potrebbe dunque essere volta a sottolineare la particolare antichità del rito qui descritto123. La stessa notizia è riportata anche da Fest. p. 282.22-25 L.: patrimi et matrimi pueri praetextati tres nubentem
È possibile che il biancospino avesse un particolare valore apotropaico, come dimostra il suo impiego anche nelle cerimonie di purificazione della soglia compiute il 1° giugno (vedi Ov. fast. 6, 129-130; 165). 123
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deducunt; unus, qui facem praefert ex spina alba, quia noctu nubebant; duo, qui tenent nubentem. La restituzione del termine “biancospino” è dovuta alla correzione dello Scaligero in “ex spinu alba” del tradito “ex pinu alba”. In questo modo, si ottiene una variante eteroclita della quarta declinazione del più comune “spina alba” (forma adoperata da Festo e Plinio; non a caso, Turnebus propone di correggere “ex pinu” in “e spina”). L’ammissione della forma “spinus, -us” è autorizzata dal fatto che in Virgilio è attestata la variante della seconda declinazione “spinus, -i”: geor. 4, 145, spinos iam pruna ferentis. Correggere “ex pinu” in “e(x) spina” nel nostro frammento, dunque, rischierebbe di normalizzare la grafia di un termine la cui declinazione, come prova il caso di Virgilio, presentava certamente delle oscillazioni, senza contare che sarebbe una proposta paleograficamente più lontana dal testo tradito. Fra la prima e la seconda parte del frammento, i codici della famiglia BA presentano la congiunzione “cum”, mantenuta da Lindsay, Riposati e Salvadore. A livello sintattico, questo “cum” fa difficoltà. Se, infatti, le due proposizioni che compongono la citazione (“cum a nova nupta … sumtus” e “cum fax …”) vanno considerate coordinate per asindeto, la presenza del secondo “cum” è superflua e appesantisce il dettato; se, invece, supponiamo che la proposizione “cum fax …” sia subordinata alla prima (quella che inizia con “cum a nova nupta”), allora il secondo “cum” troverebbe una sua ragion d’essere, ma si avrebbe un periodo dalla struttura contorta, con subordinate di diverso grado dipendenti l’una dall’altra, e di difficile comprensione, in netto contrasto con il dettato limpido e lineare del fr. 60, che pure dovrebbe essere costruito in maniera speculare rispetto al fr. 59 e appartenere allo stesso contesto (qualcosa del tipo: “la deductio avveniva quando la sposa faceva questo e contra il marito quest’altro”). Preferirei di conseguenza accogliere la proposta di espunzione di Müller e pensare che il secondo “cum” sia stato introdotto da parte della tradizione a causa di una meccanica duplicazione del “cum” che apre il frammento (forse si potrebbe anche spiegare l’introduzione di “cum” con un tentativo di rendere meno drastico il cambio di soggetto fra le due parti del periodo, per quanto la precisazione “in face” nella prima parte predisponga il lettore al trapasso e renda naturale il cambio di soggetto da “ignis” a “fax”). Sebbene si tratti di un argomento ex silentio e pertanto non vincolante, menzionerei anche il fatto che Lupo di Ferrières (il correttore F3), che in genere ripristina con grande scrupolo le lezioni che trovava nel suo codex optimus, in questo caso non aggiunge il “cum” assente in L e, di conseguenza, nel suo discendente F (il codice su cui Lupo riporta le sue note di collazione). Prendendo que240
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sto dato con tutte le cautele del caso, resta comunque legittimo il sospetto che, se il “cum” fosse testo genuino trasmessosi nel ramo BA e omesso da L, probabilmente Lupo l’avrebbe trovato nella sua copia e l’avrebbe ripristinato in F; poiché ciò non è avvenuto, si può almeno ipotizzare che il testo sano non avesse “cum” e che questo sia stato aggiunto dal capostipite di BA (redazione che infatti mostra una grande tendenza a intervenire sul testo con congetture e rabberciamenti). Anche l’ultima parte del frammento è stata interessata dagli interventi congetturali di Müller, in questo caso accolti da tutti gli editori successivi. Il testo tradito recita infatti “ut eam puer ingenuus adferret”. L’“ut” a livello sintattico è intollerabile: verrebbe a introdurre una subordinata alla subordinata, rendendo l’intera struttura del periodo precaria e il significato dell’intera frase poco perspicuo (non si vede alcuna correlazione finale fra le notizie qui riportate: la fiaccola non era di biancospino “affinché un giovane di condizione libera potesse portarla”, ma la precisazione che a portare la fiaccola fosse un giovane libero è esattamente sullo stesso piano di quella che informa sul materiale della fiaccola stessa). Su questa base, acquista grande verosimiglianza la correzione di “ut” in “et”, che conferisce al brano una sintassi razionale e restituisce il senso richiesto; l’originario “et” potrebbe essersi perduto per aplografia a partire da “esset et” ed “ut” potrebbe essere entrato a testo come un rabberciamento per reggere il congiuntivo “anteferret”. A proposito di quest’ultimo verbo, i codici lo riportano nella forma “adferret”, che oltre ad essere piuttosto piatta, è anche in parte inappropriata (la fiaccola, durante la processione nuziale, veniva infatti portata davanti la sposa, non verso di essa). La correzione “anteferret” (proposta da Müller sulla base del passo di Festo sopra citato, dove si legge facem praefert ex spina alba) fornisce esattamente il verbo previsto dal contesto, mentre il tradito “adferret” si può spiegare bene come una banalizzazione del più raro e preciso “anteferret”. 60 (= 79 R., 389 S.) contra a novo marito cum ignis e foco in titione ex felici arbore et in aquali aqua adlata esset Non. p. 268.19-21: TITIONEM, fustem ardentem. Varro de vita populi Romani lib. II. 1: ignis Brisson; item codd., edd.; idem Kettner | foco initione L; foco intione G; corr. F2 | felaci codd. hoc loco| etiam qualis qua codd. 241
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Non. p. 468.4-469.9: FELIX, fructuosus, ferax. […] Varro de vita populi Rom. lib. I 1: a om. codd. | ignis] idem codd. | foco initione codd. (foco mitione AA) | et inaequali aqua codd., corr. Iunius
di contro, dopo che da parte del marito erano stati portati del fuoco preso dal focolare su di un tizzone di legno di albero fruttifero e dell’acqua in una brocca Il frammento è citato da Nonio in due diversi luoghi del de compendiosa doctrina. Delle due occorrenze, la seconda è tradita in forma meno corrotta, essendo esente da errori come “felaci” o presentando la stringa “inaequali aqua”, più vicina all’“in aquali aqua” restaurato per congettura dallo Iunius rispetto al modo in cui la stessa porzione di testo è tradita nella prima citazione (“etiam qualis”). Nondimeno, un confronto fra le due attestazioni è necessario, in quanto permette di recuperare dalla prima la preposizione “a”, che nella seconda citazione è omessa, nonché l’avverbio “item” che è stato finora considerato genuino, rispetto alla lezione priva di senso “idem” attestata alla voce “FELIX”. Sulla base di queste considerazioni, Lindsay, Riposati e Salvadore stampano il testo: “contra a novo marito cum item e foco in titione ex felici arbore et in aquali aqua adlata esset”. Ora, anche a una rapida analisi un testo del genere rivela notevoli difficoltà. Tutta la prima parte del frammento, infatti, è priva di un soggetto espresso ed è d’altronde evidente che questo soggetto non può essere l’“aqua” menzionata in seguito. Anche prescindendo dall’ipotesi che il frammento possa alludere al rito noto come “igni et aqua nubere”, è difficile pensare che qualcosa di diverso dal fuoco possa essere attinto a un focolare e portato su di un tizzone. Si avverte dunque la mancanza, nella prima parte del frammento, così come viene stampato, di un riferimento al fuoco, mentre il testo dato presenta l’avverbio “item”, di difficile comprensione nel contesto della citazione. Basta un semplice tentativo di traduzione per rendersi conto che il testo con “item” non fila: l’avverbio non aggiunge nulla al significato della frase e anzi complica le cose (la contrapposizione fra i riti spettanti alla sposa e quelli di competenza dello sposo è già espressa da “contra”, mentre “item” sembra essere soltanto una zeppa priva di senso, tanto che già Kettner esprime dei dubbi sulla sua autenticità), così come, stampando “item”, la prima parte della frase resta senza un soggetto e bisogna comunque integrare a senso una menzione del fuoco. Ne è una prova il fatto che Fayer 2005, p. 539, dovendo dare una traduzione italiana del frammento (che riporta nella forma data da Lindsay) di fatto non traduce “item” e integra tra parentesi un soggetto “il 242
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fuoco”. Sulla base di queste osservazioni, proporrei di accogliere la correzione di “item” (tra l’altro già sospetto per il fatto di essere tradito con alcune oscillazioni, vedi supra) in “ignis” proposta da B. Brisson, nel De ritu nuptiarum liber singularis (p. 47). Con “ignis” abbiamo finalmente il soggetto richiesto dalla prima parte del frammento e il riferimento al fuoco necessario all’intelligenza della frase. Correggendo “item” in “ignis”, il testo viene a presentare una struttura ordinata e razionale, costruita sul parallelismo “cum ignis e foco in titione (adlatus esset) … et in aquali aqua adlata esset”, e si recupera la menzione insieme del fuoco e dell’acqua, ossia dei due elementi necessari al rito descritto dal fr. 60 (cfr. Serv. ad Aen. 4, 167: Varro dicit ‘aqua et igni mariti uxores accipiebant’: unde hodieque et faces praelucent et aqua petita de puro fonte per felicissimum puerum aliquem aut puellam interest nuptiis, de qua nubentibus solebant pedes lavari)124. Ancora più impressionante risulta la coincidenza quasi perfetta che si avrebbe, adottando “ignis”, fra la prima parte del fr. 59 (“cum a nova nupta ignis in face adferretur foco eius sumtus”) e il fr. 60. Per comodità, ho segnato i punti di contatto nella seguente tabella: Fr. 60
Fr. 59
a novo marito
a nova nupta
cum
cum
ignis
ignis
e foco
foco eius sumtus
in titione ex felici arbore
in face
adlatus esset
adferretur
Se il confronto fra i due frammenti, da un lato, fornisce una prova in più a favore della correzione “ignis” nel fr. 60, dall’altro, rende anche sicura l’integrazione della preposizione “e” nel fr. 59 (vedi supra). Nella mia interpretazione, ho costruito il periodo facendo dipendere sia “ignis” sia “aqua” da “adlata esset”, supponendo che Varrone, nel suo stile scarno e disadorno, abbia concordato “ignis” a senso con il predicato di “aqua” invece di ripetere “ignis … adlatus esset et aqua … adlata esset”. Per casi analoghi di concordanza del Si veda anche la presenza di fuoco e acqua nell’epitalamio staziano (sil. 1, 2.3-6, con commento di Pederzani 1995 ad loc.).
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predicato con il genere di un solo soggetto (del tipo di Iust. 1, 7.12: arma et equi adempti), vedi HLS II 435. Si possono rintracciare altre occorrenze in Varrone: r. r. 1, 1.6. itaque Robigo feriae Robigalia, Florae ludi Floralia instituti; 57.1, parietes et solum … loricandi (loricandum Keil); 2, 1.17, hordeum et faba … sit obiciendum; 3, 5.3, tectorio tacta esse levi (sc. oportet) circum ostia ac fenestras (cfr. Luc. 1, 176, hinc leges et plebis scita coactae); l. L. 5, 72, Neptunus … ab nuptu, id est operatione, ut antiqui, a quo nuptiae, nuptus dictus; vedi anche a r. r. 1, 4.3, ibi non modo fructus est incertus, sed etiam colentium vita e il fr. 64 del de vita: id aurum et torques aureae multae relatae Romam atque consecratae. Casi del genere abbondano nel de lingua Latina: vedi, ad esempio, 5, 31, ut omnis natura in caelum et terram divisa est, sic caeli regionibus terra (sc. divisa est) in Asiam et Europam; 5, 123, quod sinum maiorem cavationem (sc. habebat) quam pocula habebant; 5, 180, qui iudicio vicerat, suum sacramentum e sacro auferebat, victi (sc. sacramentum) ad aerarium redibat; 10, 3, simile est quod res plerasque habere videtur easdem quas (sc. habet) illud cuiusque simile. Per quanto riguarda il contenuto del frammento, vi si dice che il marito, presumibilmente in concomitanza con l’ingresso della “nova nupta” nella nuova casa, recava del fuoco su di un tizzone e dell’acqua in una brocca (sull’“aqualis”, cfr. fr. 48). Varrone specifica che il tizzone doveva essere di legno di un albero fruttifero, un elemento che potrebbe avere un valore simbolico, in quanto il legno “felix” del tizzone potrebbe costituire una sorta di “omen” della auspicata fertilità della coppia. La menzione di fuoco e acqua ha portato i commentatori a identificare il rito descritto con la cerimonia nota col nome di “igni et aqua nubere”. Il problema è che, dalle poche informazioni trasmesse in proposito, non possiamo farci un’idea precisa di come questo rito avvenisse, ma sappiamo solo che aveva luogo nel momento in cui la sposa varcava la soglia dell’abitazione del marito e che indicava la sua ammissione al culto privato del nuovo nucleo familiare. Purtroppo, la maggior parte delle fonti si limita a fornire il nudo dato che in questa cerimonia erano impiegati fuoco e acqua e, al massimo, a interrogarsi sul significato simbolico di questi due elementi (Varro l. L. 5, 61: igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua. ideo ea nuptiis in limine adhibentur, quod coniungit hic, et mas ignis, quod ibi semen, quod aqua femina, quod fetus ab eius humore, et horum vinctionis vis Venus; Paul.-Fest. p. 3.1-3 L.: aqua et igni tam interdici solet damnatis, quam accipiunt nuptae, videlicet quia hae duae res humanam vitam maxime continent, cfr. Ov. ars 2, 598: quos faciet iustos ignis et unda viros; fast. 4, 787-792: an, quia cunctarum contraria semina rerum / sunt 244
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duo discordes, ignis et aqua, dei […] an, quod in his vitae causa est, haec perdidit exul / his nova fit coniunx, haec duo magna putant?; DServ. ad Aen. 4, 103: quid est enim aliud dextrae’, quam in manum convenire? quae conventio eo ritu perficitur, ut aqua et igni adhibitis, duobus maximis elementis, natura coniuncta habeatur: quae res ad farreatas nuptias pertinet, quibus flaminem et flaminicam iure pontificio in matrimonium necesse est convenire; Lact. div. inst. 2, 9.21: alterum enim quasi masculinum elementum est, alterum quasi femininum, alterum activum, alterum patibile. ideoque a veteribus institutum est, ut sacramento ignis et aquae nuptiarum foedera sanciantur; solo una rapida menzione del rito si trova in Dion. Hal. ant. Rom. 2, 30.6, dove si racconta che Romolo fece sposare le Sabine rapite κατὰ τοὺς πατρίους ἑκάστης ἐθισμούς, ἐπὶ κοινωνίᾳ πυρὸς καὶ ὕδατος ἐγγυῶν τοὺς γάμους, ὡς καὶ μέχρι τῶν καθ’ ἡμᾶς ἐπιτελοῦνται χρόνων), ma non chiarisce bene in che modo fuoco e acqua venissero adoperati. La descrizione più precisa è forse fornita dalla nota serviana sopra citata, in cui si specifica che, quando i mariti accoglievano le loro spose con acqua e fuoco, l’acqua era usata per lavare i piedi della sposa (ma, d’altro canto, Servio si mostra vago circa l’uso del fuoco e accenna genericamente a delle “faces”, come se confondesse le fiaccole del corteo nuziale con il fuoco impiegato nel rito “aqua et igni”)125. Sembra riferirsi alla stessa pratica anche la notizia di Plutarco (quaest. Rom. 1) che la sposa, durante il rito, doveva toccare fuoco e acqua: τὴν γαμουμένην ἅπτεσθαι πυρὸς καὶ ὕδατος κελεύουσι. Integrando quanto trasmesso da Servio e Plutarco con il contenuto del fr. 60, si può ipotizzare che proprio il fuoco portato dal marito su di un tizzone e l’acqua recata in una brocca fossero il fuoco e l’acqua che la sposa doveva ricevere e toccare secondo la cerimonia “aqua et igni”. Come già accennato a proposito del fr. 59, il fatto che la sposa dovesse recare al marito il fuoco attinto al proprio focolare e a sua volta ricevere dal marito il fuoco tratto dal focolare della casa di lui potrebbe simboleggiare l’unione dei due nuclei familiari per mezzo di un vicendevole scambio di offerte. È forte il sospetto che la fonte ultima delle notizie citate sul matrimonio “aqua et igni” sia proprio Varrone: si vedano, oltre alla coincidenza del contenuto, l’uso ricorrente del verbo “coniungo” e la vicinanza di alcune espressioni (Paul.-Fest.: “hae duae res humanam vitam maxime continent”, DServ.: “aqua et igni adhibitis, duobus maximis elementis”, cfr. l’impiego di “elementum” anche in Lattanzio; Varro apud Serv.: “hodieque”, Dion.: μέχρι τῶν καθ’ ἡμᾶς … χρόνων). 125
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61 (= 81 R.; 390 S.) natus si erat vitalis ac sublatus, ab obstetrice statuebatur in terra, ut auspicaretur rectus esse; dis coniugalibus Pilumno et Picumno in aedibus lectus sternebatur 1: ac sublatus, ab obstetrice dist. Blumenthal (prob. Cardauns); ac sublatus ab obstetrice, sic dist. edd. (ostetrice Sal.); 1-2: terra ut auspicaretur rectus esse Iunius (def. Köves-Zulauf); terra aut auspicaretur rectus esse codd.; terra ut aspiceretur rectus esse Lindsay, Rip., Sal.; terra ut aspiceretur num rectus esset deinde Müller; 2: dis Müller, edd.; diis codd. Non. p. 848.11-15: PILVMNVS et PICVMNVS di praesides auspiciis coniugalibus deputantur. Varro de vita populi romani lib. II. 1: picumnus AA; picuminus LBA; utrumque agnoscit CA (picumnus Lugd., Bamb.; picuminus Paris. 7665)
se il neonato era vitale e riconosciuto come figlio legittimo, veniva tenuto dalla levatrice con i piedi piantati a terra, come augurio perché iniziasse ad essere diritto; in casa veniva offerto un lettisternio agli dei Pilumno e Picumno, protettori delle nozze La citazione, come il successivo fr. 62, parla dei riti da compiere in occasione della nascita di un figlio. Nella mia ipotesi di ricostruzione del l. 2 del de vita, inserisco questi due frammenti nell’ambito della sezione sul matrimonio a cui ho attribuito i precedenti frr. 59 e 60: ho stampato i frr. 61 e 62 di seguito alle due citazioni relative al corteo nuziale supponendo che Varrone, secondo un ordine “cronologico”, trattasse prima del matrimonio e poi della procreazione. La prima questione posta da questo frammento riguarda l’interpunzione della sua prima parte. Müller, Lindsay, Riposati e Salvadore (in questo seguiti da Köves-Zulauf 1990, un contributo dedicato specificatamente ai frr. 61 e 62) interpungono “natus si erat vitalis ac sublatus ab obstetrice, statuebatur in terra”, mentre Blumenthal (in RE XX, 2, 1369.24-30 e nota a pie’ di pag.) propone di interpungere “natus si erat vitalis ac sublatus, ab obstetrice statuebatur in terra”. Per l’esposizione del problema, partirei dall’analisi dell’espressione “vitalis ac sublatus”. Varrone sta qui fornendo le condizioni necessarie a che il rito descritto nel frammento potesse essere messo in atto. La prima era che il bambino non dovesse essere nato morto, come si evince dalla frase “natus si erat vitalis”, che può essere interpretata senza difficoltà come “se il neonato dava segni di vita”. La seconda risulta di più difficile comprensione in quanto il senso della frase varia 246
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in base all’interpunzione adottata. Ponendo la virgola dopo “sublatus”, il senso sarebbe “ed era legittimo”, dando a “sublatus” il significato che il termine assume in riferimento all’atto con cui il pater familias, sollevando (“tollere” è il verbo tradizionalmente impiegato per designare questa operazione) e prendendo in braccio il neonato che era stato deposto ai suoi piedi, lo riconosceva come figlio legittimo. Una volta elencate in questo modo le caratteristiche che il bambino doveva avere perché potesse essere ammesso al rito, l’autore procede alla descrizione della cerimonia vera e propria, in cui la levatrice prendeva il neonato e lo reggeva con i piedi piantati a terra in posizione eretta (cfr. infra). In base a questa interpretazione, “ab obstetrice” sarebbe dunque slegato da “sublatus”, mentre costituirebbe il complemento d’agente del successivo “statuebatur”. Adottando invece l’interpunzione accolta dalla maggior parte degli editori, “ab obstetrice” sarebbe l’agente di “sublatus”, per cui il frammento verrebbe a dire all’incirca “se il neonato era vitale ed era stato sollevato dalla levatrice, era posto in terra ecc.”. Tuttavia un testo del genere, per quanto abbia riscosso una certa fortuna, presenta non poche difficoltà sul piano della sintassi e del contenuto. Innanzi tutto, la frase “natus si erat vitalis ac sublatus ab obstetrice” è segnata da un aspetto sintattico che non può essere riconosciuto come latino corretto. Infatti “erat” deve assumere due valori differenti: nel predicato nominale “erat vitalis” deve fungere da copula, mentre nel caso di “erat sublatus” sarebbe parte della forma verbale del piuccheperfetto passivo. Sebbene nessuno degli editori sembra aver notato il problema, ritengo che già solo questo dato basti come elemento contro l’interpunzione “ab obstetrice,”. In secondo luogo, legando “ab obstetrice” a “sublatus”, si dovrebbe dare al verbo il suo valore concreto di “essere sollevato” e immaginare che, subito dopo il parto, il bambino a un certo punto venisse sollevato dalla nutrice per essere sottoposto al rito descritto dal frammento. Non credo che l’intera operazione, posta in questi termini, sia perspicua: “sublatus ab obstetrice” sarebbe un’espressione troppo vaga e sintetica; in particolare, non è specificato da dove il bambino venisse sollevato dalla levatrice né si può intendere la frase nel senso di “ed era stato fatto nascere”, in quanto un’accezione in tal senso di “tollo” non è attestata (a meno di non pensare che qui Varrone volesse dire “una volta che la levatrice, appena nato il bambino, lo avesse raccolto da terra per presentarlo ai genitori”, una proposta che oggettivamente richiede di sottintendere troppi elementi per essere accettabile). Ma, soprattutto, un’interpretazione del genere ignora il dato, niente affatto trascurabile, che “sublatus”, 247
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impiegato come aggettivo sostantivato, assume il valore tecnico di “figlio legittimo” ed è un’espressione canonica (vedi OLD 1947.2). Questo significato deriva appunto dall’atto di sollevare il neonato con cui il pater familias riconosceva il figlio, per cui il figlio “che fosse stato sollevato” veniva ad essere “il figlio legittimo”. Detto questo, ipotizzare che fosse la levatrice a “tollere” il neonato (come vuole l’interpunzione vulgata) porta ad attribuire, di fatto, alla levatrice un compito che non le spettava. Invece, prendendo “sublatus” come un aggettivo dal significato di “legittimo”, sparirebbe ogni difficoltà. “Erat”, infatti, verrebbe ad essere la copula tanto di “vitalis” quanto di “sublatus” e non avrebbe più quel doppio valore che dà problemi, qualora si adottasse l’altra interpunzione; inoltre, “natus si erat vitalis ac sublatus” potrebbe essere una formula canonica, in sé conclusa, volta a chiarire le due condizioni richieste perché il rito successivamente descritto potesse essere compiuto dalla levatrice (“ab obstetrice”, dunque, va legato a “statuebatur”, non a “sublatus”), una formula che non potrebbe ammettere, dunque, la precisazione “ab obstetrice”. L’obiezione mossa a questo punto da Köves-Zulauf non mi sembra calzante. L’antropologo sostiene che il soggetto delle due azioni di cui parlerebbe il frammento (“tollere natum” e “statuere natum”) deve essere lo stesso e non può che essere la levatrice. Per questo dice che andrebbe accolta la punteggiatura “sublatus ab obstetrice,” per evitare che il lettore pensi che l’agente del “tollere” fosse il pater familias, come potrebbe avvenire col testo “ac sublatus, statuebatur …”. A sostegno della sua tesi (cioè che nel frammento non dovrebbe esserci alcun riferimento al pater), Köves-Zulauf riporta una serie di passi in cui si afferma che al parto assistevano solo le donne, mentre il pater familias ne era escluso. Ora, tutto questo ragionamento non sfugge al sospetto di essere una sorta di petitio principii. Non è affatto detto, infatti, che il testo “natus si erat vitalis ac sublatus,” debba necessariamente richiedere un agente di “sublatus”. Per quanto il senso originario del termine fosse quello di “sublatus a patre familias”, ben presto il termine “sublatus” ha assunto il valore indipendente di “figlio legittimo” (vedi Hor. sat. 2, 5.46-47: si cui praeterea validus male filius in re / praeclara sublatus aletur). Quindi, trovando “vitalis ac sublatus”, il secondo termine non implica per forza la menzione del pater familias come agente del “tollere”, ma l’intera espressione può essere intesa come un binomio dal significato di “figlio nato vivo e legittimo”. Del resto, proprio l’osservazione di Köves-Zulauf che l’agente dello “statuere” non può che essere la levatrice, piuttosto che difendere l’interpunzio248
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ne tradizionale, indica la necessità di legare “ab obstetrice” a “statuebatur” e non a “sublatus”. Va detto, ancora, che l’interpunzione difesa da Köves-Zulauf presenta un’ulteriore difficoltà sintattica circa l’impiego di “ac”. Infatti, prendendo “(erat) sublatus” come una forma verbale, l’intera frase sarebbe sgrammaticata. Capirei infatti un testo come “natus si erat vitalis, simul ac sublatus ab obstetrice, statuebatur in terra”, ma dubito che si possa dare questo senso alla frase “natus si erat vitalis ac sublatus ab obstetrice, statuebatur in terra”, che, a una attenta analisi, si rivela intraducibile. Viceversa, prendendo “vitalis ac sublatus” come un binomio, l’impiego della congiunzione “ac” risulta del tutto logico e regolare. Sulla base di queste considerazioni, propongo dunque di accogliere l’interpunzione “natus si erat vitalis ac sublatus, ab obstetrice statuebatur” (punteggiatura adottata anche da Cardauns 1976, I 71). Il bambino dotato delle caratteristiche tali per poter essere sottoposto al rito, “statuebatur in terra”. Interpreto l’espressione come “era tenuto diritto con i piedi per terra”, piuttosto che semplicemente come “era posto in terra”, dando al verbo “statuo” il significato di “to cause a person stand in a certain position” (OLD 1815.3a). Il seguito della citazione ha posto delle difficoltà interpretative agli editori. Il testo tradito ha “aut auspicaretur rectus esse”, che non può essere in alcun modo legato sintatticamente alla parte precedente del frammento. Pertanto già lo Iunius corregge “aut” in “ut”, facendo di questa porzione di testo una proposizione finale. Il testo “ut auspicaretur rectus esse” è stato accolto da Kettner e da diversi studiosi della religione romana che hanno impiegato il fr. 61 (vedi Köves-Zulauf 1987, p. 164, n. 3). Müller, invece, propone di correggere “auspicaretur” in “aspiceretur” sulla base del confronto con DServ. ad Aen. 10, 76: Varro Pilumnum et Pitumnum (sic) infantium deos esse ait eisque pro puerpera lectum in atrio sterni, dum exploretur an vitalis sit qui natus est (Riposati stampa il passo come un frammento del de vita; in realtà, come avviene in casi analoghi più volte illustrati in questo studio, non è detto che qui il Servio Danielino, o più probabilmente la sua fonte, non possa dipendere anche da una diversa opera di Varrone, in cui lo stesso rito era descritto in termini simili a quelli adoperati nel nostro frammento). La correzione di Müller è stata accettata da Lindsay, Riposati e Salvadore, che stampano il testo “ut aspiceretur rectus esse”. A questa tendenza reagisce Köves-Zulauf 1987, pp. 164-165, che difende la lezione “auspicaretur”. Gli argomenti addotti dallo studioso sono due: “auspicaretur” è difficilior rispetto ad 249
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“aspiceretur” e il testo, con “auspicaretur rectus esse” ha un senso accettabile, che non richiede un intervento congetturale. Al primo punto, sicuramente valido, aggiungerei una precisazione ulteriore. È infatti altamente probabile che Nonio leggesse un testo con “auspicaretur”. Ciò si evince dalle parole con cui il grammatico introduce la citazione: Pilumnus et Picumnus di praesides auspiciis coniugalibus deputantur. Si è detto più volte che Nonio tende a non introdurre proprio materiale nel lemma, ma preferisce sintetizzare, spesso in modo superficiale e impreciso, ciò che di notevole è contenuto nei frammenti che cita. Così, per il fr. 61, Nonio impiega l’aggettivo “coniugalibus” desumendolo dalle parole di Varrone “dis coniugalibus Pilumno et Picumno” (sulla base del raffronto fra lemma e citazione, Müller ha correttamente ripristinato la forma “dis” rispetto al tradito “diis”, vedi anche fr. 62, “dis mactabant”). Ora, conoscendo la scarsissima indipendenza di Nonio rispetto alle proprie fonti, è davvero difficile che abbia adoperato il termine “auspiciis” per propria scelta, mentre è ben più probabile che l’abbia tratto, appunto, da un testo che presentava la lezione “auspicaretur”. Una conferma a questa ipotesi viene dal fatto che la notizia qui data da Nonio è impropria: non abbiamo altre attestazioni del fatto che Pilumno e Picumno fossero divinità addette agli “auspici coniugali” (né si comprende bene cosa mai possano essere questi “auspicia”), mentre il parallelo di DServ. ad Aen. 9, 4 coincide con il nostro frammento nel riferire che Varrone li considerasse “di coniugales”, senza riferimento agli “auspicia”: Varro coniugales deos suspicatur. Il fatto che Nonio parli di inauditi “auspicia coniugalia” è appunto dovuto al fraintendimento che egli ha operato nel sintetizzare il frammento, fondendo due parti relative a due riti distinti e facendo confluire le espressioni “auspicaretur” e “dis coniugalibus” nella formula “auspiciis coniugalibus”. Se dunque, come ho cercato di dimostrare, già Nonio leggeva un testo con “auspicaretur”, non si può considerare questa lezione come un guasto di tradizione. Per sostenere la legittimità della correzione “aspiceretur” bisognerebbe supporre che già la copia del de vita adoperata da Nonio fosse corrotta e che il passaggio da “aspiceretur” a “auspicaretur” si sia verificato prima della citazione da parte del grammatico, una posizione piuttosto complessa e poco economica. Per quanto riguarda il contenuto del frammento, va poi detto che il testo di Lindsay “ut aspiceretur rectus esse” non è esente da difficoltà. Il senso dovrebbe essere “affinché si vedesse che (il neonato) era diritto”: si tratterebbe dunque di 250
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una sorta di controllo del bambino. Ma, sul piano logico, appare strano che per verificare una cosa del genere il neonato dovesse essere posto con i piedi per terra, mentre tutta l’operazione ha piuttosto l’aria di un atto rituale dal significato simbolico, un significato che, col testo dato da Lindsay, non emerge in modo limpido. La stessa costruzione della frase presenta delle durezze: “aspicio” di norma regge l’infinito per indicare un dato oggettivo e evidente (es. Plaut. merc. 220, aspiciet te timidum esse atque exanimatum; cfr. ThLL II 834.19-30), mentre per rendere il senso suggerito da Lindsay sarebbe più logico l’impiego di una interrogativa indiretta. Non a caso, Müller non si limita a correggere “auspicaretur” in “aspiceretur”, ma interviene anche sul seguito e scrive “num rectus esset” (scelta eccessiva, ma logica). Ancora, è vero che il Danielino adopera la frase dum exploretur an vitalis sit qui natus est, ma il confronto fra la nota serviana e il fr. 61 non deve spingersi al punto di modificare il testo di quest’ultimo. Non è detto infatti che il Danielino dipenda dal de vita, quando potrebbe aver attinto a un doppione presente nelle antiquitates; d’altro canto, il Danielino riassume e rielabora il materiale varroniano (che potrebbe conoscere, per giunta, solo di seconda mano) in modo tale che non si può cercare una coincidenza perfetta fra i due passi. Ma anche se la dipendenza del Danielino dal de vita fosse sicura e la sua parafrasi fedele, ciò non autorizzerebbe a intervenire su “auspicaretur”. Le parole “dum exploretur an vitalis sit qui natus est”, infatti, si riferirebbero a quello che Varrone esprime con “natus si erat vitalis ac sublatus”. Non occorre dunque scrivere “ut aspiceretur rectus esse” o “ut aspiceretur num rectus esset”, dal momento che, nel fr. 61, Varrone, quando parla dell’operazione di mettere in piedi il bambino, dice che la verifica se questo fosse vitale era già avvenuta. Del resto, le stesse parole “dum exploretur an vitalis sit” indicano soltanto che si controllava che il bimbo fosse vitale, ma non possono provare l’esistenza di un controllo anche della sua postura. Possiamo dunque supporre che il Danielino, venuto a conoscenza di un brano di dottrina varroniana analogo al fr. 61, abbia riferito la parte relativa al lettisternio e quella corrispondente a “natus si erat vitalis”, tralasciando (perché non la leggeva o perché non la riteneva interessante) quella relativa al rito compiuto dalla levatrice. Se le cose stanno così, il significato dell’atto di tenere il neonato in posizione eretta va indagato a prescindere dalla nota serviana e a partire dal testo “ut auspicaretur rectus esse”. Il verbo “auspicor” può essere costruito con l’infinito nel senso di “iniziare qualcosa con i dovuti auspici” (vedi ThLL II 1551.81-1552.4; 251
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cfr. Köves-Zulauf 1987, p. 164 «mit einem auspicium, zur guten Vorbedeutung anfangen»). Interpretando il testo in questo senso, la finale verrebbe a chiarire il significato dell’operazione compiuta dalla nutrice: il bambino era posto in posizione eretta “come augurio perché iniziasse a essere diritto”. Non si tratterebbe dunque di un controllo della sanità del bambino (questo è difatti già avvenuto nel momento in cui il bimbo è sorretto dalla levatrice), bensì di un atto rituale dal valore propiziatorio: il neonato era posto diritto per terra come auspicium perché venisse su diritto, cfr. Köves-Zulauf 1987, p. 165, «das Kind wird bald nach der Geburt gerade aufgestellt, damit dies ein auspicium sei für sein Geradestehen im ganzen zukünftigen Leben». L’ultima parte del frammento dice che, compiuto questo rito, era offerto un lettisternio agli dei Pilumno e Picumno, una coppia di divinità arcaiche (come dimostrano i loro nomi allitteranti, vedi Blumenthal in RE XX, 2, 1369.19-2) che nel presente frammento vengono definite “di coniugales” (la stessa definizione è riferita a Varrone anche da DServ. ad Aen. 9, 4; vedi supra), per quanto il fr. 61 (così come il parallelo di DServ. ad Aen. 10, 76, dove la notizia che Pilumno fosse una divinità protettrice dei bambini è attribuita, oltre che a Varrone, anche a Calpurnio Pisone Frugi: fr. 44 Peter, Piso Pilumnum dictum, quia pellat mala infantiae) parli piuttosto di riti connessi alla nascita di un bambino che di riti nuziali. L’identificazione della natura originaria di Pilumno e Picumno è resa quasi impossibile dall’esiguità dei dati in nostro possesso: oltre al presente frammento e ai due luoghi citati del Danielino, non abbiamo altre testimonianze circa l’ufficio di protettori del bambino spettante a queste divinità. Ci sarebbe un frammento delle antiquitates rerum divinarum (fr. 111 Cardauns = Aug. civ. 6, 9) in cui il solo dio Pilumno è messo in relazione a un rito di protezione della puerpera, ma si tratta di una cerimonia del tutto diversa da quella descritta nel nostro fr. 61, in cui, per giunta, Pilumno figura piuttosto come divinità agricola che come genio protettore del neonato (del resto, tali oscillazioni della dottrina varroniana non sono infrequenti). Le altre fonti (raccolte in Salvadore 2004, pp. 103-104) oscillano fra l’attribuire a Pilumno e Picumno una originaria natura di divinità belliche (è questa l’ipotesi anche di Blumenthal e Vahlert) o di divinità agricole (come ritiene Köves-Zulauf ). A prescindere dalla questione, in fondo insolubile, delle origini di questa coppia di divinità, si può sostenere che Pilumno e Picumno siano stati, a un certo punto, svincolati dal proprio campo di influenza e adottati come numi tutelari del neonato; perlomeno, Varrone mostra di considerarli tali. 252
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62 (= 80 R.; 391 S.) mensa anteponebatur Herculi ac Iunoni, in qua quae veniebant ad fetam amicae gratulatum dis mactabant 1: mensa LB; mensae cett. | anteponebantur Kettner | Herculi ac Iunoni Köves-Zulauf; eum cullia acuno in codd.; cum culleo ac vino Kettner, Rip.; cum caliculo uno Quicherat; cum culigna ac vino Bentin; cum edulio Onions | in qua quae scripsi; quo quae ed. 1476, Lindsay, Rip., Sal.; quoque codd.; quod quae Kettner; hinc quom quae Müller | fertam AA | ammicae AA; amice L Non. p. 487.9-16: FETVM, onere levatum. […] Varro de vita populi Romani lib. I 1: honore L
era posto un altarino a Ercole e a Giunone, dove le amiche che andavano a visitare la puerpera per farle gli auguri libavano agli dei Prosegue la rassegna dei riti compiuti per la nascita di un figlio: oltre al lettisternio offerto alle misteriose divinità Pilumno e Picumno (fr. 61), era posta una “mensa” (da intendersi ugualmente come un altarino per lettisterni, vedi ThLL VIII 743.30-65) su cui le amiche che facevano visita alla puerpera per congratularsi del lieto evento compivano delle libagioni agli dei. La lezione “mensa” è trasmessa dai codici L e B (testimoni, per il l. 4 di Nonio, della versione integrale del de compendiosa doctrina), mentre i gruppi che tramandano il testo abbreviato di Nonio hanno il plurale “mensae”. Gli editori che, come Kettner, accolgono il plurale, correggono il successivo “anteponebatur” in “anteponebantur”. Tuttavia, la lezione “mensae” è inferiore, in quanto il plurale potrebbe essere stato influenzato dal contesto, in cui si dice espressamente che le libagioni erano offerte a più di un dio (“dis”) e, qualora si accettasse la congettura che io metto a testo (vedi infra), verrebbero menzionati appunto i nomi di due divinità. Questo avrebbe potuto spingere un copista a pensare all’esistenza di almeno due altarini distinti, uno per ciascuna divinità, e a scrivere “mensae” di conseguenza. Ma il fr. 61 prova come un unico “lectus” potesse essere offerto a due divinità; analogamente, in questo frammento l’esistenza di una “mensa” dedicata ad almeno due dei non fa difficoltà. Per quanto riguarda il verbo “mactabant”, il suo senso non è quello corrente di “immolare vittime”, bensì il termine va interpretato come “offrivano una libagione alimentare”. Un’occorrenza di “mactare” in questo senso si ha nello stesso de vita, al fr. 15: “fabatam pultem dis mactabant” (vedi comm. ad loc.). 253
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Il problema principale del frammento è posto dalla porzione di testo che segue immediatamente “anteponebatur”. Il testo tradito presenta la stringa senza senso “eum cullia acuno in”. Già l’ed. princeps di Nonio interviene su “eum”, che corregge in “cum”. Da questa correzione prendono le mosse tutte le congetture successive. Infatti, una volta stabilito il testo “mensa anteponebatur cum”, si è tentato di manipolare la stringa corrotta per ottenere qualcosa che fosse retto dal “cum”. In questa direzione vanno gli interventi di Quicherat (“cum caliculo uno”), di Bentin (“cum culigna ac vino”), di Kettner (“cum culleo ac vino”, correzione accolta anche da Brunetti e da Riposati), di Onions (“cum edulio”). Lindsay considera il luogo disperato, posizione assunta anche da Salvadore, che stampa “mensa anteponebatur cum † cullia acuno † [in]”. Il primo passo da compiere per tentare la restituzione del testo genuino è quello di prescindere dall’idea che un “cum” si sia corrotto in “eum”: l’analisi del problema dovrà dunque partire di nuovo dal testo “eumculliacunoin”. Dando uno sguardo ai luoghi paralleli sui lettisterni posti in occasione della nascita di fanciulli (citati in parte già da Riposati 1939, p. 185), si riscontrano alcuni passi di notevole utilità: a) Philarg. ad ecl. 4.63: hoc est pueris nobilibus editis in atrio domus Iunoni Lucinae lectus ponitur, Herculi mensa (cfr. DServ. ad ecl. 4.62); b) schol. Bern. ad ecl. 4.62: proinde nobilibus pueris editis in atrio domus Iunoni Lucinae lectus, Herculi mensa ponebatur; c) Tert. anim. 39: per totam hebdomadem Iunoni mensa proponitur. Queste testimonianze, in particolare la prima, attestano l’esistenza di lettisterni offerti a Giunone Lucina e a Ercole. Che, in questo caso, “lectus” e “mensa” siano equivalenti si vede dal fatto che il “Iunoni Lucinae lectus” di Filargirio è esattamente la “mensa” di cui parla Tertulliano. Sulla base di questi paralleli, la stringa corrotta EVMCVLLIAACVNOIN può essere corretta in HERCVLI AC IVNONI: l’ottima restituzione è stata avanzata da Köves-Zulauf 1987 (pp. 165-168; a p. 164 lo studioso cita altri paralleli per il lettisternio a Ercole e Giunone Lucina). Per quanto la testimonianza di Filargirio sembri suggerire l’esistenza di due altari, un “lectus” per Giunone e una “mensa” per Ercole, ho già esposto i motivi per cui la lezione “mensa” andrebbe considerata superiore e il testo non andrebbe cambiato in “mensae anteponebantur”. Varrone avrebbe potuto parlare, per esigenze di sintesi (e forse anche di variatio rispetto al “lectus Pilumno e Picumno” del fr. 61, nell’ipotesi che i due frammenti comparissero a breve distanza all’interno della stessa sezione), semplicemente di una “mensa Herculi ac Iunoni”: una tale sinteticità nell’esporre dati antiquari è una caratteristica propria del 254
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de vita, in cui il materiale era presentato in modo rapido e cursorio, al fine di mettere l’interpretazione “storiografica” dei dati eruditi maggiormente in risalto rispetto alla loro esposizione dettagliata (si veda il modo analogo in cui diverse cerimonie sono descritte nell’excursus sul culto del l. 1). Anche Köves-Zulauf (p. 167) pensa all’esistenza di una sola mensa e riporta diversi argomenti di carattere storico-antropologico a sostegno di questa ipotesi. Subito dopo la stringa sopra esaminata, il testo tradito reca il termine “quoque”. Questo è stato emendato già nell’edizione del 1476 in “quo quae”, correzione accolta pressoché da tutti gli editori. Se la correzione di “que” in “quae” è sicura, in quanto solo così può essere fornito il termine correlato a “amicae” necessario per far tornare la sintassi, l’uso di “quo” può risultare duro. Infatti “mactabant” richiederebbe piuttosto un complemento di stato in luogo (offrivano libagioni sulla mensa) che di moto a luogo. Né si può ipotizzare che “quo” si riferisca a “veniebant”, dal momento che questo verbo regge già un suo complemento di moto a luogo: “ad fetam”. D’altro canto, Varrone adopera sempre “quo” ed “eo” in dipendenza da verbi che richiedono il moto a luogo (per “quo”, vedi l. L. 5, 5; 7; 8; 54; 119; 145; 161; 6, 47; 93; 8, 7; 10, 29; 51; r. r. 1, 2.14; 2.25; 4.4; 16.1; 16.3; 29.2; 31.4; 40.6; 41.5; 48.1; 51.2; 57.2; 2, 1.5; 2.8; 4.11; 5.15; 3, 1.6; 2.4; 6.4; 6.5; 7.6; 10.1; 16.21; 16.28; 16.31; ant. rer. hum. 10, fr. 5; VPR frr. 69 e 112, secondo la mia numerazione; l’unico caso che potrebbe sembrare anomalo è l. L. 7, 41 quo legabatur, ma a ben guardare il senso è quello di “a cui era mandato come legato”, per cui l’uso di “quo” è del tutto legittimo; per “eo”, vedi l. L. 5, 5; 33; 43; 138; 148; 155; 6, 21; 7, 80; 9, 56; r. r. 1, 13.4; 63.1; 3, 5.2; 10.4; 10.5; 11.3; 13.3; 16.21; ant. div. fr. 242) e l’unico caso in cui i codici varroniani attesterebbero un possibile uso di “quo” per “ubi” è controverso ed è stato corretto per congettura dagli editori (l. L. 7, 42, ‘olli’ valet dictum ‘illi’ ab ‘olla’ et ‘ollo’, quod alterum comitiis cum recitatur a praecone dicitur ‘olla centuria’, non ‘illa’; alterum apparet in funeribus indictivis, quo dicitur ‘ollus leto datus est’; ma “quo” è stato corretto in “quom” da Müller e in “quod” da Traglia). Si potrebbe tentare di difendere “quo” nel nostro frammento o sottintendendo un senso come “dove le amiche andavano a offrire libagioni”, il che è reso difficile dal fatto che a “mactabant” si può difficilmente dare il valore di “ibant mactatum”, mentre sembra indicare un’azione compiuta in loco; o pensare a una sorta di attrazione esercitata inconsciamente dal vicino “veniebant”. Varrone, nella sua scrittura rapida e disadorna, avrebbe appunto potuto iniziare un di255
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scorso del tipo “quo matronae veniebant ut dis mactarent”, salvo poi perdersi (come fa spesso) con l’aggiunta della nozione che le amiche erano venute a congratularsi con la puerpera e aggiungere da ultimo “dis mactabant” senza rispettare più il legame logico con la parte precedente del frammento. Tuttavia, invece di ipotizzare dinamiche così incerte per mantenere il testo “quo quae”, proporrei, pur dubitanter, una correzione che forse potrebbe appianare la sintassi. Si è visto che tutta una parte del frammento è interessata da vistose corruttele e che la lezione dei codici è “quoque”. Partendo dalla solita stringa “eum cullia acuno in quoque”, forse si può sfruttare la presenza delle lettere “in” per proporre di stampare, piuttosto che “quo quae”, “in qua quae”. Dato il testo “(H)erculi ac Iunoni in qua quae”, la terminazione di “Iunoni” potrebbe essere caduta per una sorta di aplografia; a questo punto, da “erculi ac iuno in qua quae”, il testo, non più comprensibile, si sarebbe ulteriormente corrotto fino a ridursi a “eum cullia acuno in” nella prima parte e ad essere rabberciato in “quoque” nella seconda. Con “mensa anteponebatur … in qua … dis mactabant” il discorso senza dubbio sarebbe più scorrevole, anche se temo che un intervento del genere possa essere la normalizzazione di un’imprecisione forse commessa da Varrone stesso. 63 (= 61 R.; 378 S.) ut noster exercitus ita sit fugatus, ut Galli Romae Capitoli sint potiti neque inde ante sex menses cesserint 1: ut1 secl. Müller | itast Müller | Romae Capitoli Lindsay, Sal. (Romae Capitolii codd.); Romae praeter Capitolium Quicherat, Rip.; Romae nisi Capitoli Popma; Romae [Capitolii] Mercier, Kettner; de Capitolio a Gallis capto vide Skutsch 1953; Skutsch 1978; Horsfall 1981; Richardson 2011; 2: gesserint codd., corr. Lipsius Non. p. 800.18-25: Genetivus pro ablativo. […] Varro de vita populi romani lib. II.
… che il nostro esercito fu volto in fuga a tal punto che i Galli si impadronirono a Roma del Campidoglio, e non se ne andarono di lì prima che fossero trascorsi sei mesi Si è ipotizzato che Varrone, raccontando le vicende relative all’istituzione della lex Canuleia, avesse interrotto la narrazione di eventi storici con un excursus relativo ai riti nuziali, da cui deriverebbero i frr. 59-62. Una volta conclusa questa digressione sul culto domestico, Varrone avrebbe potuto riprendere le fila del 256
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sunto storico, venendo a parlare brevemente della presa di Roma da parte dei Galli (390 a.C.). All’episodio della rotta romana presso il fiume Allia, dell’assedio di Roma, della resa ignominiosa e del successivo recupero del riscatto, celeberrimo e narrato in dettaglio da Liv. 5, 39-55, si riferisce questo frammento, dove Varrone allude, in modo particolarmente rapido e conciso, alla fuga dell’esercito romano dopo la sconfitta e alla presa di Roma da parte dei Galli. Proprio questo punto è risultato problematico agli editori: il testo tradito (accolto da Lindsay e Salvadore) recita infatti “Galli Romae Capitoli sint potiti”. Questo dato, sia che si prenda “Romae” come un locativo (“i Galli si siano impadroniti a Roma del Campidoglio”), sia che lo si intenda come un genitivo retto da “potiti” e coordinato per asindeto a “Capitoli” (“i Galli si siano impadroniti di Roma, del Campidoglio”; questa seconda possibilità darebbe però al testo un andamento meno naturale126), viene a smentire una delle leggende più note della tradizione romana, il fatto, cioè, che i Galli non fossero mai riusciti a espugnare il Campidoglio e l’Arx e che queste due alture fossero rimaste fino all’ultimo delle roccaforti romane. Il fr. 63, invece, suggerirebbe una versione diversa della vicenda, in cui i Galli si sarebbero impadroniti, come del resto della città, anche del Campidoglio. Diversi editori hanno tentato di risolvere questa incongruenza intervenendo sul testo. Purtroppo, tutte le correzioni proposte non sfuggono al sospetto di essere delle normalizzazioni. La prima strada è stata quella di quanti hanno modificato “Capitoli” in “praeter Capitolium” (Quicherat, testo stampato anche da Riposati) o in “nisi Capitoli” (Popma). Ciò allineerebbe senz’altro il contenuto del fr. 63 con i dati della tradizione (cfr. Liv. per. 5, 10.13, cepere urbem praeter Capitolium e Serv. ad Aen. 6, 825, everterunt urbem Romam absque Capitolio), ma, d’altro canto, la lezione “Capitoli” è nettamente difficilior, né si spiega come mai un copista, avendo di fronte un piano (e quasi banale) “praeter Capitolium” abbia sentito l’esigenza di mutarlo in un inaudito “Capitoli”. Una seconda via di affrontare il problema è stata quella di espungere il controverso “Capitoli” come una glossa a “Romae” (così fanno Mercier e Kettner); ma, anche in questo caso, appare davvero inverosimile che uno scontato “Romae” sia stato glossato con un ben più complesso “Capitoli” (un’aggiunta che, peraltro, non solo non chiarisce Ancora più complesso sarebbe intendere “Romae” come genitivo retto da “Capitoli”: “si impadronirono del Campidoglio di Roma”. 126
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nulla, ma complica nettamente le cose). Casomai, se il testo tradito fosse stato “Romae praeter Capitolium”, si sarebbe potuto sospettare che Varrone avesse per brevità scritto soltanto “Galli Romae potiti sint” e che un copista, a cui era noto il mito delle oche del Campidoglio, avesse voluto aggiungere la precisazione scolastica “praeter Capitolium”; ma, dal momento che i codici hanno “Romae Capitoli”, risulta particolarmente difficile valutare “Capitoli” come una glossa. A questo punto, verrebbe da chiedersi se non sia possibile che il testo “Romae Capitoli” fosse genuino127 e che Varrone, sull’incendio gallico, seguisse una versione diversa da quella tradizionale. Skutsch, Horsfall e Richardson, nei contributi da me citati in apparato, individuano appunto, nelle letterature greca e latina, una serie di allusioni o testimonianze che proverebbero l’esistenza di una variante storiografica secondo la quale i Galli avrebbero effettivamente espugnato l’intera città di Roma, Campidoglio incluso. Varrone, nel fr. 63, avrebbe seguito questa versione dei fatti, che, secondo Horsfall, sarebbe anche quella più veritiera: la tradizione “liviana”, che raccontava di una resistenza accanita sul Campidoglio da parte romana, sarebbe stata appunto elaborata per mascherare la dura realtà dei fatti, molto meno eroica e gloriosa per Roma128. Alle testimonianze raccolte dagli studiosi129 si può aggiungere anche un altro luogo varroniano dove sembrerebbe (anche se non necessariamente) adombrata una visione simile: a l. L. 5, 157, fornendo l’etimologia di un toponimo, Varrone dice locus ad Busta Gallica, quod Roma recuperata Gallorum ossa qui possederunt urbem ibi coacervata ac consaepta. È vero che qui la rapidità dello stile potrebbe aver imposto a Varrone di presentare la vicenda dell’incendio gallico solo per rapidi
Per una difesa, pur dubbiosa, di “Romae Capitolii”, vedi McGann 1957, p. 127, n. 4. Anche Bessone 2008, pp. 85-86 ammette questa possibilità, ma preferisce pensare che il racconto del fr. 63, piuttosto che veicolare una versione storiografica alternativa, sia frutto di un riassunto estremamente rapido e semplificato. 129 Richardson 2011, p. 128, n. 73 fornisce l’elenco completo di tutti i luoghi in cui si trovano tracce della versione che attribuisce ai Galli la presa dell’intera città, Campidoglio compreso. Lo studioso considera anche le fonti di un’altra versione, secondo cui i Galli avrebbero tentato l’assalto al Campidoglio, poi sventato dalle celebri oche, impiegando dei cunicoli realizzati da Servio Tullio che conducevano direttamente alla rocca (vedi Cic. div. in Caec. 88; Phil. 3.20; Lyd. mens. 4.114); pare che questa versione tramandasse in modo leggermente diverso dalla tradizione anche il ruolo svolto da Manlio Capitolino nella difesa del colle, vedi Wiseman 1979, pp. 39-40. 127 128
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accenni; tuttavia, le due espressioni da me evidenziate si accordano piuttosto bene con l’idea, espressa nel fr. 63, di una presa da parte dei Galli di tutta Roma130. Propongo dunque di mantenere il testo tradito “Romae Capitoli”, supponendo che Varrone seguisse appunto una versione dell’episodio diversa da quella tradizionale. Varrone, nel fr. 63, accenna all’episodio della battaglia presso l’Allia e dell’incendio gallico in modo particolarmente sintetico e cursorio (un riferimento altrettanto rapido a exempla storici famosi si ha nel fr. 74). La rotta romana è messa in stretta correlazione con la successiva occupazione di Roma, rimasta priva di difensori dopo la disfatta dell’esercito (cfr. l. L. 6, 32, dies Alliensis ab Allia fluvio dictus: nam ibi exercitu nostro fugato Galli obsederunt Romam; il nesso sintattico presente nel fr. 63 è vicino a quello impiegato a r. r. 2. 4.2: eo proelio hostes ita fudit ac fugavit, ut eo Nerva praetor imperator sit appellatus). Risulta difficoltosa la sintassi del brano, in cui abbiamo una consecutiva in dipendenza da un’altra subordinata, che potrebbe essere a sua volta (ma non è detto) una consecutiva. Per quanto in Varrone non sia inconsueto trovare più subordinate dipendenti l’una dall’altra, spesso in modo piuttosto maldestro, non si può negare che il testo “… ut noster exercitus ita sit fugatus, ut…” risulti particolarmente duro e contorto. Müller, infatti, propone di intervenire sulla prima parte del frammento, in modo da eliminare una subordinata e fare della prima parte del periodo una reggente: “noster exercitus itast fugatus, ut…”. È vero che in questo modo risulterebbe tutto più piano; tuttavia, la correzione di Müller potrebbe essere un’operazione troppo scolastica e comportare una normalizzazione del testo, 130 Il passo del de lingua Latina potrebbe costituire una risposta all’obiezione mossa da McGann 1957, secondo cui il fr. 63 e il fr. 64 sarebbero in contraddizione. A McGann sembra strano che il fr. 64 parli del riscatto pagato dai Romani ai Galli, se è vero che il fr. 63 allude a una presa dell’intera città: se infatti tutta Roma era già controllata dai Galli, come avrebbero potuto i Romani patteggiare con i vincitori e trovare un margine di indipendenza sufficiente per racimolare un riscatto? L’osservazione è forse troppo razionalizzante: tenuto conto del carattere estremamente rapido del racconto di Varrone, è possibile che tale contraddizione sfuggisse all’autore stesso. In ogni caso, anche l. L. 5, 157 sembra presentare la stessa concatenazione dei fatti prevista dai frr. 63-64: una presa di tutta la città seguita da una sua totale “riconquista” (nell’ambito della quale poteva trovare spazio una menzione del riscatto). Inoltre, non è del tutto vero che (come sostiene McGann) sia da scartare l’ipotesi che questa versione narrasse che Roma fosse stata riscattata dai Romani rifugiatisi a Veio: anche Lucano (5, 2729, Tarpeia sede perusta / Gallorum facibus Veiosque habitante Camillo / illic Roma fuit; una delle fonti citate da Skutsch) sembra suggerire proprio questo svolgimento dei fatti.
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tanto più che la forma “itast” è una zeppa poco convincente e, data la perdita del contesto, non possiamo provare che “ut noster exercitus ita sit fugatus” sia corrotto né sapere come fosse effettivamente connesso, nel testo completo, alla proposizione principale. Pertanto, pur riscontrando l’effettiva durezza della costruzione della frase, preferirei non intervenire e stampare il testo tradito. Per quanto riguarda il possibile contesto originario e il modo di intendere “ut noster exercitus ita sit fugatus”, possiamo citare almeno tre diverse ipotesi. La prima dipende dallo sviluppo del racconto liviano, dove la catastrofe romana è articolata in tre momenti: 1) i consoli trascurano gli auspici e ingaggiano battaglia (5, 38.1: non deorum saltem si non hominum memores nec auspicato nec litato, instruunt aciem); 2) i Romani perdono e segue la disastrosa ritirata; 3) i Galli marciano su Roma, priva di difensori, e la assediano. Prendendo “ut noster exercitus ita sit fugatus” come una consecutiva, si potrebbe ipotizzare, confrontando Livio, che Varrone dicesse qualcosa come “tale fu l’ira degli dei, che il nostro esercito fu volto in fuga a tal punto che i Galli si impadronirono ecc.”. Credo che una tale ricostruzione del contesto non sia impossibile, sebbene tutto l’andamento della frase mantenga una certa pesantezza. In alternativa, si potrebbe pensare che la proposizione “ut noster exercitus ita sit fugatus” fosse una completiva o una interrogativa indiretta (immaginando dunque un contesto del tipo: “riferirò il fatto che il nostro esercito…” o “dirò come il nostro esercito…”, o anche, nel caso Varrone proponesse varianti alternative alla versione ufficiale, “si discute/ ci si chiede come…”); anche in questo caso, non si esce dal campo delle ipotesi. Pertanto anche nella mia traduzione ho preferito non esprimermi in modo troppo deciso e suggerire sì che il fr. 63 dipendesse da qualcos’altro, senza però specificare esattamente la natura della subordinata. 64 (= 62 R.; 379 S.) auri pondo duo milia acceperunt ex aedibus sacris et matronarum ornamentis; † a quibus † postea id aurum et torques aureae multae relatae Romam atque consecratae 1: acceperint codd., corr. Bentin | et om. BA | post ornamentis lac. stat. Müller; 1-2: ornamentis; a quibus] ornamentis aureis Niebuhr; fort. [a] quibus victis (vel debellatis) Non. p. 338.31-16: TORQVEM generis masculini […] feminini […] Varro de vita populi romani lib. II 260
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2: II Popma, Kettner, Rip. | I codd., Lindsay, Sal. (sed fr. libro II tribuit)
ottennero duemila libbre d’oro ricavate dai depositi dei templi e da una colletta dei gioielli delle matrone; † da loro † in seguito quell’oro e molti collari d’oro furono riportati a Roma e consacrati Come il fr. 63, anche questa citazione sembra riferirsi all’episodio dell’assedio di Roma da parte dei Galli. Dal testo, purtroppo particolarmente sintetico e interessato da una grave corruttela, si ricavano accenni a due episodi riferibili all’ultima parte della vicenda: l’imposizione ai Romani di un gravoso riscatto in cambio della fine dell’assedio e il successivo recupero del riscatto stesso, con l’aggiunta di un discreto bottino, in seguito a una brillante vittoria del dittatore Camillo sui Galli in ritirata. Nella prima parte del frammento è presente un riferimento (“ex … matronarum ornamentis”) al fatto che, non bastando a ciò il tesoro pubblico, le donne romane avessero permesso di raggiungere la quantità d’oro imposta dai Galli offrendo spontaneamente i propri gioielli (vedi Liv. 5, 50: in eo religio civitatis apparuerat quod cum in publico deesset aurum ex quo summa pactae mercedis Gallis confieret, a matronis conlatum acceperant ut sacro auro abstineretur). In realtà, la menzione della colletta delle matrone non basterebbe da sola a determinare che il fr. 64 si riferisca alla storia del riscatto: la tradizione connette infatti anche a un altro episodio, tra l’altro cronologicamente molto vicino all’incendio gallico, un modo analogo di racimolare dell’oro. Si racconta infatti che, dopo la presa di Veio (396 a.C.), per raggiungere la somma di un decimo del bottino totale promessa in voto al santuario di Apollo a Delfi, le donne romane avessero organizzato, allo stesso modo, una raccolta dei loro gioielli; vedi Liv. 5, 25: visum collegio … eius partem decimam Apollini sacram esse … pecunia ex aerario prompta, et tribunis militum consularibus ut aurum ex ea coemerent negotium datum. cuius cum copia non esset, matronae coetibus ad eam rem consultandam habitis communi decreto pollicitae tribunis aurum et omnia ornamenta sua in aerarium detulerunt (Val. Max. 5, 6.8 menziona insieme entrambe le collette come due exempla analoghi). Il fatto che siano tramandati due casi molto simili di “raccolta dei gioielli” ha spinto gli editori a chiedersi se il fr. 64 non possa riferirsi, piuttosto che al riscatto imposto dai Galli, alla raccolta dell’offerta da inviare a Delfi (cfr. Salvadore 2004, p. 92: «fortasse huc pertinet Liv. 5, 25, 8»). Se così fosse, il fr. 64, riferendosi a un avvenimento precedente, se pur di poco, l’incendio gallico, andrebbe stampato 261
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prima del fr. 63131. Tuttavia, vi sono diversi fattori che portano a ritenere di gran lunga più probabile che la colletta di cui parla il fr. 64 sia quella motivata dalla necessità di raccogliere la somma imposta dai Galli. In primo luogo, il frammento parla di oro raccolto “ex aedibus sacris et matronarum ornamentis”. Ora, nel caso della colletta per Apollo, Livio dice che parte del denaro richiesto fu normalmente tratta dall’erario, mentre la menzione dei templi si accorda molto meglio con la situazione di Roma assediata dai Galli: sappiamo infatti che, data la situazione di emergenza, tutto l’oro che era stato possibile raccogliere dai depositi dei diversi templi cittadini era stato riunito nel tempio di Giove Capitolino, divenuto così la sede del fondo comune per la guerra (vedi Liv. 5, 50.8: aurum quod … ex aliis templis inter trepidationem in Iovis cellam conlatum)132. Inoltre, la seconda parte del frammento dice che l’oro in questione fu in seguito recuperato, riportato a Roma e consacrato: è esattamente quanto avvenuto dopo il recupero del riscatto da parte di Camillo, mentre l’oro inviato a Delfi fu sì consacrato, ma presso quel santuario, e non ritornò mai più a Roma. Infine, non trascurerei il fatto che Varrone parli di “torques aureae multae”. Col termine “torques”, infatti, si definisce un particolare tipo di collare proprio dei Celti (è quello portato dalla nota statua del “Galata morente”; si veda anche la tradizione secondo cui il dittatore Tito Manlio avrebbe tratto il cognomen “Torquato” dall’aver sottratto come trofeo una “torques” a un capo gallico che aveva sconfitto in duello, vedi Cic. off. 3, 112 e Liv. 7, 9-10). Suppongo dunque che con l’espressione “id aurum et torques aureae multae” Varrone si riferisca appunto da una parte al riscatto consegnato ai Galli 131 Il fatto che i codici di Nonio attribuiscano il frammento al primo libro del de vita, invece, non costituirebbe un elemento valido per porre il fr. 64 prima del fr. 63. Infatti, abbiamo detto come con grande probabilità il l. 1 fosse esclusivamente dedicato al periodo monarchico. Il fr. 64, anche qualora lo si connettesse al racconto dell’offerta ad Apollo, tratterebbe comunque di un episodio inquadrabile nell’ambito dei primi secoli della Repubblica e andrebbe quindi inserito lo stesso nel secondo libro del de vita (a meno di non pensare a una digressione, all’interno del primo libro, in cui si parlasse di eventi successivi, il che è molto meno economico rispetto ad ammettere che si sia verificato, nell’indicazione del numero, un banalissimo errore di copia come la perdita di un’asta), come correttamente fanno Popma, Kettner, Riposati e Salvadore (che, volendo riprodurre il testo di Lindsay, stampa “lib. I”, ma attribuisce senza dubbi il frammento al secondo libro). 132 Per quanto a questo argomento si possa obiettare la precisazione di Livio che la colletta fu tenuta dalle matrone “ut sacro auro abstineretur”. Va pur detto, d’altra parte, che non va cercata una coincidenza perfetta fra il nostro frammento e il racconto liviano.
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(“id aurum”), dall’altra ai numerosi collari strappati ai nemici uccisi e aggiunti come sovrappiù al bottino. Rimane una piccola incongruenza nel contenuto del fr. 64: Varrone qui si discosta dalla tradizione, secondo la quale il riscatto imposto ai Romani ammontava a mille libbre d’oro, non a duemila, come recita il frammento. Credo che una tale discrepanza non vada sopravvalutata, dal momento che le oscillazioni nelle cifre sono un dato frequente della storiografia antica (cfr. fr. 101, dove Varrone sembra fornire, per il bottino di Flaminino, una somma non attestata altrove). Il problema dell’ammontare del riscatto è discusso già da Plinio il Vecchio (n. h. 33, 14): certe cum a Gallis capta urbe pax emeretur, non plus quam mille pondo effici potuere. nec ignoro MM pondo auri perisse Pompeii tertio consulatu e Capitolini Iovis solio a Camillo ibi condita, et ideo a plerisque existimari MM pondo collata. sed quod accessit ex Gallorum praeda fuit detractumque ab iis in parte captae urbis delubris. Plinio dice che il riscatto non poteva superare le mille libbre d’oro, dal momento che allora Roma era nella totale impossibilità di raccogliere di più. Tuttavia, aggiunge che nel 52 a.C. (terzo consolato di Pompeo) fu sfruttato, nel tesoro del tempio di Giove Capitolino, un deposito di duemila libbre d’oro, che si pensava fosse stato lasciato da Camillo. Plinio suggerisce che questo fatto abbia determinato l’opinione “dei più” che l’ammontare originario del riscatto fosse di duemila libbre. In realtà, precisa l’erudito, questo prova non che il riscatto fosse di duemila libbre, ma solo che, alle mille libbre del riscatto, Camillo, dopo la vittoria sui Galli, aveva aggiunto al bottino finale altre mille libbre, recuperate dalla preda che i Galli avevano raccolto saccheggiando i templi della parte di Roma da loro occupata. Riposati (p. 167, vedi anche p. 250, n. 1) segue alla lettera il resoconto di Plinio e ritiene che in questo modo si possa chiarire la discrepanza del fr. 64 rispetto alle fonti: “senonché lo stesso Plinio scioglie magistralmente la questione: nelle due mila libbre d’oro deve essere inclusa anche la preda aurea che i Romani strapparono ai Galli fugati, i quali, sempre secondo la testimonianza di Plinio [n. h. 33, 15], recavano seco in guerra molte ricchezze”. Questo non è del tutto esatto; nel fr. 64, infatti, a prescindere da quale sia il soggetto di “acceperunt” e il significato esatto da attribuire al verbo, è evidente che la prima parte della citazione si riferisce alla raccolta del riscatto e non al suo recupero (di cui si inizia a parlare soltanto con “postea id aurum”). La spiegazione di Riposati, dunque, pur essendo una discreta parafrasi del brano di Plinio, non chiarisce affatto il problema del nostro frammento, che continuerebbe a stimare a duemila libbre il totale del riscatto. Credo, invece, che il 263
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dato prezioso fornito da Plinio sia un altro, vale a dire la datazione al 52 a.C. (una data, si noti, molto vicina a quella della composizione del de vita) del momento a partire dal quale si sarebbe iniziato a confondere la somma dell’oro recuperato da Camillo con l’ammontare del riscatto. Plinio dice che, in seguito allo sfruttamento del “fondo di Camillo” nel tempio di Giove, “i più” avevano iniziato a credere che il riscatto versato ai Galli fosse di duemila libbre d’oro. Pertanto, sospetto che anche Varrone avesse aderito a tale parere e che, di conseguenza, pochi anni dopo avesse scritto nel de vita che, per pagare il riscatto, dalle riserve dei templi e dalla colletta delle matrone erano state raccolte duemila libbre. Passando all’analisi del testo, purtroppo il taglio operato da Nonio e la probabile presenza di una corruttela rendono molto difficile l’interpretazione del frammento. Per quanto riguarda la prima parte, non è stato trasmesso il soggetto del verbo “acceperunt” e, per giunta, non è agevole integrarlo a senso dal contesto (con la conseguenza che risulta dubbio anche il senso esatto da dare ad “acceperunt”). Il passaggio alla seconda parte è poi marcato da una connessione sintatticamente traballante: il relativo “a quibus”, infatti, dovrebbe, stando alle norme della sintassi, riferirsi a “ornamentis”, ma il contenuto smentisce del tutto questa possibilità (i collari riportati a Roma non possono essere parte dei gioielli raccolti dalle matrone). Si potrebbe tentare di salvare il testo tradito prendendo “a quibus” come un nesso relativo (= ab iis), riferito al soggetto di “acceperunt”. Tuttavia, la difficoltà di individuare con certezza questo soggetto non fa che rendere ancora più problematica e dubbia l’interpretazione di “a quibus”. Müller prova a risolvere la difficoltà postulando una lacuna fra “ornamentis” ed “a quibus”: la porzione di testo caduta avrebbe contenuto il termine cui si riferisce il relativo. Si tratta di una proposta certo nell’ambito del possibile, ma che, invece di appianare le difficoltà, conferma piuttosto lo stato inaccettabile del testo tradito. In particolare un dato rende debole l’ipotesi della lacuna: il fatto che le parole “id aurum” non possano che riferirsi alla vicina espressione “auri pondo duo milia”. Ciò porta a concludere che l’estensione della lacuna supposta da Müller dovesse essere particolarmente ridotta, altrimenti il legame fra “auri pondo duo milia” e “id aurum” si sarebbe affievolito e “id aurum” avrebbe perso la sua carica deittica. Ma se nella lacuna, come ipotizza Müller, doveva trovar posto la menzione di un nuovo soggetto (qualcosa del tipo: “ma i Galli furono battuti dai Romani, dai quali in seguito quell’oro fu riportato a Roma e consacrato”), allora la lacuna avrebbe dovuto avere una certa ampiezza, tale da spezzare senza dubbio la connessione fra “id aurum” 264
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ed “auri pondo duo milia” con l’intromissione di un nuovo discorso. Niebuhr, invece, propone di correggere “a quibus” in “aureis” (coordinando questo aggettivo a “ornamentis”). Anche questa proposta risulta indicativa della difficoltà di “a quibus”, ma non costituisce una soluzione soddisfacente, tanto più che verrebbe a fornire un testo dove, nel giro di poche parole, il termine “aurum” (e derivati) comparirebbe, con notevole pesantezza stilistica, ben quattro volte: “auri pondo duo milia … ornamentis aureis … id aurum et torques aureae”. D’altro canto, ogni tentativo di mantenere il testo tradito è destinato al fallimento, poiché, qualunque sia l’interpretazione della prima parte della frase, la sintassi complessiva del frammento risulta disastrosa. Il miglior modo di rendersene conto è provare a dare una traduzione del frammento. Una prima possibilità è quella di supporre che il soggetto di “acceperunt” siano i Galli (così la pensa Horsfall 1981 e sembra suggerire Riposati 1939, p. 250, n. 1). Il frammento andrebbe dunque inteso così: “i Galli ricevettero in riscatto duemila libbre d’oro; proprio da loro (i Galli) in seguito quest’oro e molti collari furono riportati a Roma e consacrati”. Credo che il mio tentativo di traduzione suggerisca bene la durezza sintattica della frase e la connessione incerta fra le due parti del periodo. Questa lettura risulta tanto più dubbia se si tiene conto che “a quibus” andrebbe inteso come una sorta di ablativo di separazione (l’oro, sottratto a costoro, fu riportato a Roma), elemento che mal si accorda col fatto che, dato il testo “a quibus … relatae Romam atque consecratae”, è davvero difficile, a una prima lettura, non prendere “a quibus” come un complemento di agente. Una seconda strada sarebbe quella (suggerita in parte dalle parole di Livio a matronis conlatum acceperant) di supporre che il soggetto di “acceperunt” fossero i Romani e che il verbo avesse il senso di “ricevettero = ricavarono dalla colletta”. Si potrebbe tentare allora questa traduzione: “i Romani raccolsero duemila libbre d’oro dai fondi dei templi e da una colletta dei gioielli delle matrone; dagli stessi Romani in seguito quell’oro e molti collari aurei furono riportati a Roma e consacrati”. Questa ricostruzione non sarebbe impossibile; tuttavia, da un lato, data la caduta della prima parte del frammento, non si può asserire con certezza che il soggetto dell’azione fossero i Romani; dall’altro, anche così “a quibus” mantiene una sua durezza (tanto che, per far tornare le cose, ho dovuto dare una mia interpretazione del testo, “dagli stessi Romani”, che non coincide esattamente con il nudo “a quibus”). Forse una possibilità (suggeritami dal prof. Stagni) di fornire un testo accettabile sarebbe pensare che, nella stringa “a quibus”, la problematica preposizione 265
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“a” non sia testo genuino e che “a quibus” costituisca parte di un ablativo assoluto corrottosi in fase di copia. Accogliendo l’ipotesi che, nella parte precedente la citazione di Nonio, i Galli fossero menzionati come soggetto di “acceperunt”, Varrone avrebbe potuto scrivere qualcosa come “(Galli) auri duo pondo milia acceperunt ex aedibus sacris et matronarum ornamentis; quibus victis, postea id aurum et torques aureae multae relatae Romam atque consecratae”. L’ablativo assoluto “quibus (sc. Gallis) victis” (o “quibus debellatis”), dopo la caduta della forma verbale, potrebbe essere stato rabberciato in “a quibus”. Considerate le difficoltà del passo, ho preferito tuttavia stampare “a quibus” come testo desperatus e seguire, nella traduzione, la resa più neutra possibile della prima parte del frammento (pertanto non indico il soggetto dell’azione e traduco “acceperunt” con un vago “ottennero”, che potrebbe riferirsi tanto ai Romani, quanto ai Galli), per poi riservare al commento la proposta di questa terza possibile soluzione (“[a] quibus victis”). Per la concordanza “id aurum et torques aureae … relatae Romam atque consecratae”, cfr. fr. 59. 65 (= 66 R.; 395 S.) distractione civium elanguescit bonum proprium civitatis atque aegrotare incipit et consenescit 1: incipiet consenescit AA Non. p. 443.10-16: DISTRAHERE, separare […] Varro de vita pop. Rom. lib. II
a causa della divisione fra cittadini il bene proprio della cittadinanza si indebolisce e inizia ad ammalarsi e invecchia Questo frammento, così come quello da me stampato di seguito, alludono all’insorgere a Roma di divisioni fra i cittadini, causate dal perseguimento degli interessi privati a scapito del bene comune. Il tono di entrambe le citazioni è segnato da un certo moralismo di maniera, mentre l’abbondanza di figure retoriche e lo stile alto del discorso mostrano la ricerca, da parte di Varrone, di dare alla propria scrittura un carattere di solennità. Trattandosi di citazioni isolate, non si può applicare ad esse la “lex Lindsay” (Salvadore, difatti, le pubblica come frammenti incertae sedis). Anche il contenuto è così generale da non permettere l’identificazione precisa dell’episodio cui Varrone si riferisce. In primo luogo, non possiamo 266
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escludere del tutto l’ipotesi che i frr. 65 e 66, nonostante la vicinanza tematica, appartenessero in realtà a due punti del secondo libro distanti fra loro, in cui Varrone ripeteva, partendo da due contesti diversi, le stesse critiche. Tuttavia, data l’insistenza, tanto del fr. 65 quanto del fr. 66, sul particolare della disgregazione della cittadinanza (“distractione civium”; fr. 66: “non in commune spectant, sed suum quisque diversi conmodum focilatur”), ritengo più economico attribuire entrambe le citazioni al medesimo contesto. Anche una volta ammesso questo, resta la difficoltà di ipotizzare a che punto della narrazione della storia repubblicana Varrone potesse inserire la sua tirata contro l’arrivismo della classe politica. La mia ipotesi è che la sede più adatta per una digressione del genere potesse essere il resoconto del periodo di scontri fra patrizi e plebei conclusosi, dopo decenni di tensioni e opposizioni incrociate, con l’istituzione delle leges Liciniae Sextiae (367 a.C.). Pur trattandosi solo di un’ipotesi, credo che, tenendo conto dell’arco cronologico coperto dal secondo libro del de vita, sia difficile individuare un altro evento che si prestasse altrettanto a dare il via a un excursus moraleggiante contro la corruzione (il resto della storia repubblicana trattata nel secondo libro, infatti, offrirebbe piuttosto il destro a discorsi celebrativi della virtù del passato, mentre lo scontro fra patrizi e plebei per il possesso delle cariche pubbliche permette di inserire, anche in una visione idealizzata del passato, considerazioni più smaliziate sulla prassi politica; ovviamente questa lettura richiede di considerare i presenti “elanguescit”, “aegrotare incipit” e “consenescit” come dei presenti storici133). Inoltre, ipotizzando una connessione fra questi frammenti e il racconto 133 Non si può tuttavia escludere la possibilità che i frr. 65-66 appartenessero a una sezione moralistica improntata sul confronto fra la prassi politica della prima età repubblicana e la corruzione dell’età contemporanea a Varrone (è questa l’ipotesi di Bessone 2008, pp. 55-56). Questi, infatti, avrebbe potuto collegare al racconto di un determinato episodio di tensioni civili (le tensioni che portarono alle leges Liciniae Sextiae, ma anche, in teoria, la nota vicenda della secessione sull’Aventino e dell’intervento di Menenio Agrippa) una digressione in cui forniva un ritratto contrastivo della degenerazione politica dei suoi tempi (parlando di conseguenza al presente; in tal caso, il tempo di questi frammenti non sarebbe un presente storico, ma avrebbe un valore pieno di presente). Può anche darsi che questo excursus sul malcostume politico trovasse posto in una sezione proemiale, dove, in modo analogo alla prassi di Sallustio, Varrone apriva il discorso con l’esame di questioni teoriche generali e analizzava l’involuzione della politica romana nel suo insieme, considerandola nel corso di tutta la sua storia. Va però osservato che, mentre nei frammenti del quarto libro relativi alla corruzione politica il processo di degenerazione è presentato come perfettamente compiuto e quasi irri-
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delle prime lotte civili a Roma si potrebbe avanzare un tentativo sensato di ricostruzione della struttura del secondo libro. Supponiamo che Varrone trattasse dello scontro fra patrizi e plebei fino alle leges Licinae Sextiae: ora, solo dopo questa riforma patrizi e plebei hanno accesso a tutte le cariche e, quindi, si può dire che l’ordinamento repubblicano sia giunto, dopo una lunga evoluzione, costata anche lotte e scontri fra cittadini, a compimento. Con questo intendo dire che, a parer mio, difficilmente Varrone avrebbe potuto affrontare un discorso generale sul funzionamento del sistema repubblicano e sulla natura delle cariche pubbliche prima di aver toccato, nel suo racconto, le leges Liciniae Sextiae. Solo dopo aver chiarito con quale processo l’ordinamento repubblicano fosse stato definito in tutti i suoi aspetti, Varrone poteva interrompere il racconto storico e intraprendere un’esposizione di tipo antiquario della natura delle diverse cariche pubbliche e del meccanismo delle elezioni (argomenti dei frr. 67-70). La mia ipotesi, in conclusione, è che la sezione tematica sull’organizzazione dello Stato repubblicano fosse inserita da Varrone dopo il resoconto delle lotte civili (da cui potevano derivare i frr. 65 e 66, sia che si riferissero alle tensioni politiche del IV sec. a.C., con un presente storico, sia che facessero parte di una digressione che, partendo dalla menzione dei primi disordini, poteva spingersi a tracciare un quadro completo della degenerazione politica a Roma, fino a includere il periodo coevo all’autore) e la menzione delle leges Liciniae Sextiae. Credo che in questo modo il gruppo di frammenti sulle istituzioni politiche possa trovare una collocazione più logica rispetto all’ipotesi di Riposati, secondo cui tutta la sezione sulla politica costituirebbe un blocco a sé avulso dal racconto storico. Il frammento parla di un “bonum proprium civitatis” indebolito e quasi estinto dalla divisione dei cittadini. In assenza di contesto, è difficile individuare precisamente cosa Varrone indicasse con “bonum proprium civitatis”. Il Thesaurus (X, 2 2100.69-2101.36) riporta il nostro passo fra gli usi di “proprius” nel senso di “id quo aliquid (-quis) distinguitur a ceteris”: si tratterebbe quindi di quella prerogativa che spetterebbe alla cittadinanza di diritto, di quello stato po-
mediabile (vedi fr. 117), il fr. 65 sembra mostrarlo nel suo inizio, il che forse si spiegherebbe meglio mantenendo l’ipotesi che questi frammenti facessero parte del racconto storico e individuassero, appunto, il primo momento della storia romana in cui l’ambizione personale aveva minacciato la res publica.
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sitivo del cui possesso i cittadini dovrebbero essere orgogliosi e in cui dovrebbero sentirsi realizzati; usi simili di “proprius” in riferimento a prerogative dello Stato si hanno in Cic. leg. agr. 2.9, quare qui possum non esse popularis, cum videam haec omnia, Quirites, pacem externam, libertatem propriam generis ac nominis vestri, otium domesticum, denique omnia quae vobis cara atque ampla sunt in fidem et quodam modo in patrocinium mei consulatus esse conlata?; Phil. 3.29, aliquando, per deos immortalis, p. c., patrium animum virtutemque capiamus, ut aut libertatem propriam Romani et generis et nominis recuperemus aut mortem servituti anteponamus. Il “bonum” che sta morendo a causa della corruzione è la caratteristica che dovrebbe più di tutte incarnare la cittadinanza, così come la ragione è ciò che identifica l’uomo come la sua più intima essenza (vedi Sen. ep. 76.10, quid est in homini proprium? ratio, cfr. Sen. const. 13.5; Tac. hist. 4, 17.5). Questo “bonum civitatis” è paragonato, in modo metaforico, a un organismo che deperisce fino alla decrepitezza per effetto dei mali (fisici nella rappresentazione figurata, politici e morali in senso proprio). Il progresso del male è evidenziato dalla scelta dei verbi: il “bonum” prima si indebolisce (“elanguescit”; per le altre attestazioni di uso traslato di “langueo” e “languesco”, vedi ThLL VII, 2 922.29-49 e ThLL VII, 2 923.54-74), poi questo stato di debolezza diventa cronico (“aegrotare incipit”; l’uso di “aegroto” in senso figurato e in riferimento a oggetti incorporei è raro e prezioso; cfr. ThLL I 955.38-45), fino a raggiungere una vecchiaia prossima alla morte (“consenescit”; il verbo “consenesco” è usato spessissimo in senso figurato proprio per indicare il decadere e il venir meno dello Stato, cfr. ThLL IV 388.41-48; 389.1-24; per la rappresentazione di uno stato ugualmente “malato” a causa della corruzione – iudiciisque corruptis et contaminatis paucorum vitio ac turpitudine – vedi Cic. div. in Caec. 70: hoc remedium est aegrotanti134 ac prope desperatae rei publicae). A livello stilistico, noterei la forza con cui Varrone sottolinea l’aspetto ingressivo delle azioni che descrive, impiegando due forme incoative (“elanguescit” e la perifrasi “aegrotare incipit”), per poi passare all’uso del verbo “consenescit”, che indica con efficacia l’intero processo di decadenza. Di conseguenza, l’immagine del bene comune che passa progressivamente attraverso condizioni sempre più disperate è sottolineata in modo insistito e martellante. Per quanto riguarda il contenuto, in questo frammento si trova un esempio del τόπος che rappresenta uno Stato come un organismo che si sviluppa, cresce, Parte dei codici banalizza in “aegrotae”.
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raggiunge l’ἀκμή e poi decade. Questa visione, tradizionale della storiografia greca, potrebbe essere stata introdotta in ambito latino per tramite di Polibio (cfr. 6, 51.4: παντὸς καὶ σώματος καὶ πολιτείας καὶ πράξεώς ἐστί τις αὔξησις κατὰ φύσιν, μετὰ δὲ ταύτην ἀκμή κἄπειτα φθίσις; altri esempi di questo motivo nella letteratura greca sono riportati da Häussler 1964, pp. 319-320, n. 1; pp. 323-328; anche Cicerone, rep. 2, 3; 21, ripropone la stessa visione organicista, ma, mirando a celebrare l’età degli Scipioni, ferma la propria indagine al momento dell’ἀκμή, che sarebbe stata raggiunta con l’Emiliano, senza parlare del successivo declino; un’applicazione più vasta, ma analoga, di questa teoria è in Vell. 2, 11.3, ut appareat, quemadmodum urbium imperiorumque, ita gentium nunc florere fortunam, nunc senescere, nunc interire). L’aspetto fondamentale è il fatto che questo frammento di Varrone sembra essere la prima attestazione latina della metafora della malattia e della vecchiaia applicata in senso politico alla storia del popolo romano (Bessone 2008, p. 112, definisce Varrone il teorizzatore romano della senectus imperii; oggetivamente Cicerone, nel luogo del de republica sopra citato, dovendo limitare l’ottica, per esigenze di “cornice letteraria”, agli eventi precedenti il 129 a.C., non considera il momento della vecchiaia, che compare per la prima volta proprio in Varrone, vedi Bessone 2008, p. 50). Una metafora che, nella prosa imperiale, trova impiego diffusissimo e viene declinata in varie direzioni. Credo, dunque, che valga la pena di presentare brevemente i punti di maggior contatto fra questi esempi più tardi e il fr. 65 del de vita (che, secondo Bessone, costituirebbe il “caposaldo della teoria biologica applicata alla storia” e la fonte ultima di tutte le trattazioni successive, vedi pp. 49-87135). Una divisione della storia romana in periodi corrispondenti alle età biologiche dell’uomo (un’infanzia, una giovinezza, un’età adulta e una vecchiaia) si trova espressa nel modo più esplicito in quattro passi: in una citazione riportata da Lattanzio (inst. 7, 15.14 sgg.), desunta dall’opera di un Seneca136; in Floro L’idea di Bessone che Varrone abbia introdotto per primo la visione organicistica nella storiografia romana e che le successive interpretazioni “biologiche” dipendano da lui è persuasiva; certo, considerata la teoria dei “doppioni varroniani”, non è detto che proprio il de vita dovesse costituire la fonte di Floro, Seneca, ecc., ma questi potevano attingere anche ad altre opere antiquarie di Varrone o a dottrina varroniana trasmessa da altre fonti. 136 Grazie alla scoperta di frustuli del de vita patris di Seneca Minore in un palinsesto (Vat. Palat. 24), si è recuperata l’informazione che Seneca Padre compose un’opera storica che andava ab initio bellorum civilium … paene usque ad mortis suae diem e che, alla morte dell’au135
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(praef. 4 sgg.); nella vita Cari dell’Historia Augusta (2.1 sgg.) e in Ammiano Marcellino (14, 6.3 sgg.); per un’analisi comparata dei passi, vedi Hartke 1951, pp. 393-402 e Demandt 1965, pp. 118-147; per un confronto col fr. 65 del de vita, vedi Häussler 1964, pp. 321-323; il contributo in assoluto più ricco è costituito dal recente studio di Bessone 2008, che presenta un’analisi dettagliata
tore, non aveva ancora avuto una pubblicazione ufficiale. Su questa base, Angelo Mai ha proposto che il passo citato da Lattanzio fosse tratto da quest’opera e che quindi vada attribuito a Seneca Padre. Questa attribuzione è stata criticata da Klotz 1901. Klotz ritiene la cosa rischiosa, dal momento che, a parte la notizia della loro esistenza, non abbiamo alcuna informazione sulle historiae di Seneca Padre. Ancora, lo studioso nota che, in un’opera che partiva dalle guerre civili e trattava un arco di tempo limitato, un’esposizione e suddivisione di tutta la storia romana presa nel complesso sarebbe stata inutile o comunque non del tutto motivata (anche se si potrebbe ipotizzare la presenza di una sezione introduttiva o di una digressione in cui trovava posto l’enunciazione della visione organicista). Inoltre, Lattanzio, tutte le altre volte che cita un Seneca, si riferisce sempre al filosofo (cfr. Ogilvie 1978, pp. 73-77). In ogni caso, non abbiamo elementi positivi per negare l’attribuzione del brano a Seneca Minore (il fatto che Quint. 10, 1.28 non citi la storiografia fra i generi da lui praticati non è cogente: non è detto, infatti, che il passo riportato da Lattanzio debba appartenere necessariamente a un’opera storica, ma potrebbe anche trovare posto in un discorso speculativo; vedi Klotz p. 430). È vero che non si riesce a rintracciare un passo di tenore analogo nella produzione rimasta di Seneca Minore, ma non si può escludere che Lattanzio stesse consultando una delle numerose opere perdute del filosofo (Häussler 1964, p. 316), come altrove riporta frammenti dalle exhortationes, dal de immatura morte e dai moralis philosophiae libri. Il passo citato da Lattanzio potrebbe anche appartenere a Seneca Figlio. Di recente, però, è intervenuto sulla questione Bessone 2008, pp. 103-114, con un nuovo argomento a favore della attribuzione tradizionale a Seneca Padre: nel de clementia si trovano affermazioni di carattere storiografico inconciliabili con la teoria “biologica” del Seneca di Lattanzio (p. 113: «quanto all’autore, possiamo ormai tranquillamente chiamarlo il retore, una volta appurato che il Seneca di Lattanzio è altro dal filosofo del De Clementia»). Va comunque notato che diverse prese posizione di Seneca nel de clementia sono motivate da intenti panegirici nei confronti di Nerone; di conseguenza, non sorprende che si discostino dalla visione pessimistica del Seneca di Lattanzio, con la sua forzata accettazione del principato come extrema ratio e la sua nostalgia per la vecchia repubblica (cfr. “amissa libertate”). In teoria, non si può escludere che il Figlio, in un contesto meno celebrativo, potesse adottare una visione più pessimistica di quella del de clementia (cosa che limiterebbe in parte l’argomento di Bessone). In conclusione, poiché possediamo tracce troppo labili sull’opera del Padre e argomenti non decisivi a favore di un’attribuzione al Figlio, preferirei considerare la questione ancora aperta e non pronunciarmi in favore dell’una o dell’altra teoria.
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di questi passi e propone di considerare proprio Varrone come la fonte comune di Floro, Seneca in Lattanzio, Ammiano e della vita Cari). Piuttosto che confrontare in dettaglio i passi di questa “quadriga”, preferirei sottolineare come il momento della vecchiaia sia descritto con tratti molto vicini a quelli del fr. 65. A spiccare sono soprattutto due punti di contatto: 1) l’impiego quasi tecnico del verbo “consenesco”; 2) l’indicare, in alcuni casi, proprio nella divisione della cittadinanza la causa della decadenza dello Stato. Il passo più vicino al nostro frammento è quello della vita Cari, dove la vecchiezza di Roma è espressa in questi termini: crevit deinde, victa Carthagine, trans maria missis imperiis, sed socialibus adfecta discordiis, extenuato felicitatis sensu, usque ad Augustum bellis civilibus adfecta consenuit. Oltre all’uso di “consenesco”, spiccano l’immagine della malattia (suggerita dal participio “adfecta”, cfr. Varr. “aegrotare incipit”) che colpisce lo Stato e l’insistenza sulle fratture all’interno della comunità (“socialibus discordiis”, “bellis civilibus”; cfr. Varr. “distractione civium”). Stessa linea di pensiero troviamo nel brano citato da Lattanzio: sublata enim Carthagine … manus suas in totum orbem terra marique porrexit, donec regibus cunctis et nationibus imperio subiugatis cum iam bellorum materia deficeret, viribus suis male uteretur, quibus se ipsa confecit. et haec fuit eius prima senectus, cum bellis lacerata civilibus atque intestino malo pressa … amissa enim libertate … ita consenuit, tamquam sustentare se ipsa non valeret: ritroviamo “cosenuit” e l’enfatica menzione delle discordie civili (ancora, la forte espressione “lacerata” è del tutto analoga a quella suggerita nel frammento dal termine “distractione”). Floro, che enuncia la propria visione in modo programmatico (si quis ergo populum Romanum quasi unum hominem consideret totamque eius aetatem percenseat, ut coeperit, utque adoleverit, ut quasi ad quandam iuventae frugem pervenerit, ut postea velut consenuerit), non individua, però, la causa della rovina nella divisione dei cittadini, ma si riferisce vagamente all’“inertia” degli imperatori (inertia Caesarum quasi consenuit atque decoxit). Infine, il passo di Ammiano è quello per noi meno interessante, dato che vi ritroviamo soltanto l’immagine metaforica della vecchiaia (iamque vergens in senium). Come suggerisce Klotz (p. 441), i punti di contatto fra questi brani (soprattutto quello di “Seneca” e quello di Vopisco) farebbero pensare a una fonte comune di età repubblicana, che avesse visto (e biasimato) le guerre civili. Non si può negare che vedere Varrone dietro questa costruzione sia allettante: infatti, Bessone giunge esattamente a questa conclusione. L’idea che il fr. 65 (che effettivamente costituisce la prima attestazione in ambito latino di un motivo destina272
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to a trovare tanta fortuna) abbia costituito la fonte per Floro, Seneca e gli altri è già di Häussler, che tuttavia si spinge a conclusioni piuttosto estreme. Infatti, lo studioso propone di far coincidere i quattro periodi individuati da Floro con gli archi temporali coperti da ciascuno dei quattro libri del de vita populi Romani. In realtà, come risulta da un calcolo di Häussler stesso, le date non potrebbero coincidere senza qualche forzatura e, inoltre, dobbiamo tener sempre conto dell’assoluta scarsità di basi a nostra disposizione prima di spingerci a delimitare con troppa esattezza l’estensione dei periodi trattati nei singoli libri del de vita. Sulla base di un suggerimento di Dahlmann 1935 (col. 1243), Häussler propone anche di intendere “vita” nel titolo dell’opera varroniana non tanto come “modo di vivere, vita quotidiana”, quanto come “corso della vita” (Lebensgang): la visione organicista, quindi, non sarebbe più solo un tratto rintracciabile in alcuni frammenti, ma diverrebbe il cardine teorico su cui si impernierebbe tutta l’opera, che sarebbe la descrizione dell’andamento della vita del popolo romano dall’infanzia alla vecchiaia. Ora, credo che non ci siano punti solidi su cui fondare questa teoria, che rischia di essere una costruzione grandiosa, ma azzardata. Al contrario, quanto sappiamo del modello di Varrone (il βίος Ἡλλάδος di Dicearco) spinge a intendere “vita” proprio nel senso di “vita quotidiana, modo di vita”. Manterrei quindi un certo distacco dall’ipotesi di Häussler e accoglierei l’interpretazione vulgata del senso del titolo de vita populi Romani, pur seguendo Bessone nella sua proposta che proprio il de vita potesse costituire l’opera di riferimento per la visione organicista della storia romana. A proposito della fortuna di questo motivo, vorrei concludere il discorso citando un passo vicino, per forma e contenuto, ai frr. 65 e 66, ma ignorato dai commentatori. Si tratta dell’ultima parte di un breve sunto della storia del regno macedone fornito da Livio (45, 9.7): tum maximum in terris Macedonum regnum nomenque; inde morte Alexandri distractum in multa regna, dum ad se quisque opes rapiant, laceratis viribus a summo culmine fortunae ad ultimum finem centum quinquaginta annos stetit. Pur nella diversità del contesto, è impressionante vedere come anche qui la decadenza di uno Stato sia rappresentata tramite immagini proprie della medicina (“laceratis viribus”: il regno è come un corpo le cui forze sono dissipate dalla malattia) e come, ancora una volta, la causa di questo stato di cose sia individuata in una disgregazione dello Stato stesso (Livio usa, significativamente, lo stesso verbo di Varrone: “distractum”). Ancora, farei notare come, in Livio, una seconda causa della decadenza sia indicata nella ricerca da parte dei singoli del 273
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proprio vantaggio personale: “ad se quisque opes rapiant”. Si tratta esattamente della situazione descritta nel fr. 66: “suum quisque diversi conmodum focilatur”. Non solo: oltre alla coincidenza di contenuto, spicca in entrambi i casi la durezza della sintassi, che presenta la mancata concordanza fra numero del soggetto e del verbo (“quisque … rapiant” in Livio; “quisque diversi … focilatur” in Varrone). Prima di chiudere il discorso sul frammento, vorrei aggiungere una precisazione a quanto già detto circa l’impiego in senso metaforico del verbo “aegroto”. Un uso di “aegroto” in riferimento a oggetti inanimati si ha in Varrone anche a l. L. 10, 16, dove di una forma di derivazione verbale si dice hoc genere declinatio in communi consuetudine verborum aegrotat (anche se va notato come in questo caso il senso di “aegroto” non sia del tutto paragonabile a quello assunto nel fr. 65; Varrone non dice infatti che questa “declinatio” sta venendo meno, ma piuttosto che è debole o, per usare categorie proprie della linguistica, è “poco produttiva”). Ma un uso analogo di “aegroto” è attestato anche nella requisitoria di Lucrezio contro la passione d’amore: 4, 1124, languent officia atque aegrotat fama vacillans. Il verso di Lucrezio ha in comune con il frammento di Varrone la caratteristica di unire, in connessione con “aegrotat” e ugualmente in senso traslato, anche “languent” (cfr. fr. 65: “elanguescit”). Ora, se, come ho già detto, l’uso di “aegroto” in riferimento a oggetti incorporei è raro, la connessione di “aegroto” con “langueo/ languesco” si trova, di fatto, solo in Lucrezio e nel nostro fr. 65. A questo punto, sappiamo che il de vita populi Romani fu pubblicato con buona probabilità nel 43 a.C. (e comunque sicuramente dopo il 54, dato che frammenti del quarto libro parlano della guerra civile fra Cesare e Pompeo): ne consegue che potremmo supporre che Varrone abbia voluto impreziosire il dettato della sua tirata moralistica con una ricercata struttura poetica presa in prestito da Lucrezio. In questa sede, non posso estendere il discorso alla questione più ampia sui rapporti intertestuali fra Varrone e Lucrezio. Rimando pertanto a quanto detto, riguardo al fr. 65 e ad altri passi varroniani in cui è ravvisabile l’influsso di Lucrezio, nella appendice. 66 (= 67 R.; 396 S.) propter secunda sublato metu non in commune spectant, sed suum quisque diversi commodum focilatur 1: propter secunda Freinsheim; propter secundas, codd., Sal.; propter res secundas Popma, Rip.| communi codd., corr. Iunius | spectent AA | sum La.c.CA; 1-2: diversio CA; 2: focillantur ed. 1471 274
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Non. p. 771.10-12: FOCILATVR. Varro de vita populi romani lib. II 1: FOCILLANTVR ed. 1471
venuta meno la paura a causa della prosperità, non mirano al bene comune, ma ciascuno per suo conto provvede al proprio interesse La citazione, per tono e contenuto, è molto vicina al fr. 65, tanto che, nella discussione di quel frammento, è stata avanzata l’ipotesi che i due passi appartenessero allo stesso contesto. Per la maggior parte delle questioni generali sul frammento, dunque, rimando a quanto già detto in precedenza. Il fr. 66 sembra però distinguersi dal fr. 65 per la presenza del motivo della venuta meno del metus hostilis come causa di corruzione e decadenza morale (“sublato metu”). Sulla base di questo accenno, si è tentato di individuare l’evento storico esatto cui Varrone si riferirebbe. La Penna 1976 (pp. 404-407) crede, con eccessiva perentorietà, che qui si alluda alle lotte civili seguite al venir meno della minaccia punica. A questa posizione Salvadore (p. 109) obietta che le guerre puniche e i tumulti graccani sono argomento del terzo e quarto libro del de vita, mentre il nostro frammento appartiene al secondo, dove era trattata la situazione di Roma all’inizio della Repubblica. Per questo, propone dubitanter di pensare che il fr. 66 si riferisca al momento in cui Roma, sottomesso il Lazio, fu liberata dalla minaccia delle genti vicine: “fortasse ad tempus quo primum finitimae gentes subiectae sunt post reges exactos duo Varronis loci referuntur”. L’obiezione mossa da Salvadore a La Penna non è però del tutto cogente, dal momento che Varrone poteva benissimo, partendo da un episodio del primo periodo repubblicano (sospetto si trattasse dello scontro fra patrizi e plebei, vedi fr. 65), sviluppare una tirata moralistica più generale contro la corruzione e gli abusi commessi nella prassi politica, includendo nel discorso accenni anche all’attualità, o almeno a eventi successivi al periodo strettamente coperto dal secondo libro (un appunto simile alla proposta di Salvadore è avanzato da Bessone 2008, p. 55, n. 77). Inoltre, da un lato l’indicazione fornita da Salvadore è troppo vaga; dall’altro non si può certo parlare, per la Roma delle origini, di una cessazione del metus hostilis con la conquista del Lazio, anzi, proprio a partire da questo momento la città avrebbe dovuto affrontare scontri ben più onerosi e rischiosi come le guerre sannitiche (sicuramente trattate nel secondo libro del de vita, vedi fr. 74) e, ancora in seguito, le guerre puniche. Ritengo pertanto che, dato lo stato frammentario del testo e la mancanza di argomenti forti a favore delle identificazioni proposte, sia del tutto impossibile riferire 275
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il frammento a un evento preciso. Del resto, dato il carattere generale del discorso condotto nei frr. 65 e 66, non è neanche detto che Varrone dovesse necessariamente riferirsi a una vicenda specifica, quando poteva sfruttare luoghi comuni ricorrenti nella critica alla corruzione politica, come quello del metus hostilis, senza troppo riguardo al contesto in cui la digressione era inserita. Venendo alla considerazione degli aspetti formali, l’inizio del frammento è tradito dai codici di Nonio nella forma “propter secundas”. Questa espressione (mantenuta da Salvadore) viene intesa come una forma ellittica del comunissimo nesso “propter res secundas”. Tuttavia, si tratterebbe di un uso isolato nella letteratura latina (cfr. OLD 1721.4 b-c), mentre l’equivalente assoluto di “res secundae” sarebbe, di norma, “secunda” al neutro137. Freinsheim, appunto, propone di correggere “propter secundas” in “propter secunda”: intervento economicissimo (“propter secunda” si è corrotto in “propter secundas” per una banale duplicazione della succesiva “s” di “sublato”), che accolgo a testo. L’integrazione di Popma “propter secundas” (accolta da Riposati), invece, è meno incisiva e rischia di essere una banalizzazione. Particolare è il costrutto che riguarda la mancata concordanza del numero di soggetto, verbo e attributo in “suum quisque commodum diversi focilatur”. Anche se “suum” non è problematico (può riferirsi infatti tanto a un soggetto singolare che a uno plurale), resta la difficoltà del costrutto che vede un attributo plurale “diversi” in dipendenza da un soggetto “quisque” e un predicato “focilatur” singolari. In realtà, dato il carattere collettivizzante del pronome “quisque”, non è del tutto impossibile che questo regga un verbo o un aggettivo plurali (cfr. KS II 22-24; 636, n. 646; OLD 1562.3). In particolare, abbiamo già incontrato una costruzione non dissimile in un passo di Livio riportato nel commento al fr. 65 (dum ad se quisque opes rapiant). Ancora, citerei un passo di Sallustio che, oltre a presentare un caso analogo di mancata concordanza, offre anche un contesto molto vicino a quello del nostro frammento (anche qui si parla di cittadini intenti alla sedizione nella speranza di ottenere un vantaggio personale): Cat. 37.6, deinde multi memores Sullanae victoriae, quod ex gregariis militibus alios senatores Si potrebbe obiettare che, in questo caso, l’aggettivo “secundas” non doveva necessariamente riferirsi al termine “res”, ma poteva anche essere coordinato a un termine di senso omologo a quello di “res” citato nella parte del periodo subito precedente al punto da cui Nonio inizia a citare. Tuttavia, questa possibilità darebbe un ordo verborum (“x propter secundas”) anomalo e oggettivamente duro, senza contare che “secundas” ha tutta l’aria di essere una corruttela da dittografia.
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videbant, alios ita divites ut regio victu atque cultu aetatem agerent, sibi quisque, si in armis foret, ex victoria talia sperabat (vedi anche Sall. hist. 3, fr. 102, hi … se quisque in formam parmae equestris armabat; Liv. 38, 23.11, cetera multitudo sorte decimus quisque ad supplicium lecti e in poesia Pl. Rud. 1252, suam quisque ibant diversi domum). Come si vede, la sintassi presenta notevoli paralleli col fr. 66: a “suum quisque” potremmo far corrispondere “sibi quisque”, in entrambi i casi a “quisque” è correlato un attributo plurale (“memores”, “diversi”), seguito poi da un verbo al singolare (“sperabat”, “focilatur”). Inoltre, la nota di I. Mariotti ad loc. (p. 475) «il singolare fa intravedere lo stato di disgregazione della plebe, intenta solo al particulare» potrebbe suggerire una chiave interpretativa adattabile anche al fr. 66, dove la durezza della forma e della sintassi potrebbe essere ricercata per rendere meglio l’amarezza del contenuto. Da questo discorso dovrebbe essere chiaro che io respingo come una normalizzazione la proposta, avanzata nell’edizione di Nonio del 1471, di correggere “focilatur” in “focilantur”. Questa volontà di innalzare il tono stilistico del brano è marcata anche dalla scelta della voce verbale rara e arcaica “focilatur”, che Varrone rende ancora più ricercata adottando la forma deponente rispetto a quella normale attiva “focilo” (vedi ThLL VI, 1 22-32; proprio questa diatesi anomala è il motivo per cui Nonio cita il passo). Possiamo dunque rilevare come Varrone, in punti della sua opera che si prestavano particolarmente all’amplificazione retorica, amasse usare stilemi artificiosi, inusuali e preziosi sul piano del lessico e della sintassi, al fine di ottenere un dettato sublime e rutilante. Per quanto riguarda il contenuto del frammento, possiamo citare per contrasto il fr. 4 Mirsch del l. 20 delle antiquitates rerum humanarum: neque idonei cives aliquid habent antiquius salute communi (vedi il comm. di Ranucci 1972, pp. 114-115). 67 (= 68 R.; 383 S.) quod idem dicebantur consules et praetores; quod praeirent populo, praetores; quod consulerent senatui, consules 1: quod1 del. Müller; 2: senatui codd., Lindsay, Rip., Sal. (in textu); senatum Popma (collato l. L. 5, 80), Passerat, Lipsius, Kettner, Müller; Boyancé 1939, 294, Sal. (“fortasse recte” in app.) Non. p. 35.31: CONSVLVM et PRAETORVM proprietas, quod consulant et praeeant populis, auctoritate Varronis ostenditur, de vita populi Romani lib. II. 277
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poiché i termini “consoli” e “pretori” designavano gli stessi magistrati: “pretori” in quanto marciavano alla testa del popolo, “consoli” in quanto davano consigli al senato La citazione appartiene a un gruppo di frammenti dedicato all’esposizione dell’etimologia e della natura originaria di diverse cariche pubbliche. Oggetto della discussione è la magistratura più importante, il consolato. Varrone riferisce che, in origine, i magistrati supremi venivano designati parimenti come consoli o come pretori, dal momento che i due termini identificavano la medesima carica (in parte diversa la notizia riportata da Fest. p. 249.16: initio praetores erant, qui nunc consules, et hi bella administrabant: secondo Varrone anticamente “consul” e “praetor” erano sinonimi, mentre Festo lascia intendere che si trattava di due cariche distinte e che in origine i pretori avevano i compiti che poi sarebbero passati ai consoli). Le due denominazioni si riferirebbero a due prerogative differenti dello stesso magistrato, che sarebbe stato detto “pretore” dal fatto di marciare alla testa dell’esercito (“praeire”), “console” a consulendo. La prima etimologia ricorre in Varrone anche a l. L. 5, 80, praetor dictus qui praeiret iure et exercitu e 87, in re militari praetor dictus qui praeiret exercitui (in Cic. leg. 3, 8 si ha una formulazione più generica: praeeundo … praetores). A creare difficoltà è invece l’etimologia varroniana della parola console. Nel presente frammento, stando ai codici di Nonio, viene proposta questa derivazione: “quod consulerent senatui, consules”. I consoli, in base a questo testo, avrebbero preso il loro nome dal fatto di fornire la loro consulenza al senato. Anche nel de lingua Latina (5, 80) Varrone indica l’etimologia “consul a consulendo”, ma in un senso in parte differente da quanto detto nel fr. 67: consul nominatus qui consuleret populum et senatum, ossia “fu chiamato console il magistrato che convocava il popolo e il senato”. Sulla base di questo passo, Popma propone di uniformare il testo del fr. 67 all’etimologia fornita nel de lingua Latina, correggendo “senatui” in “senatum” (la proposta ha incontrato una certa fortuna presso gli editori e lo stesso Salvadore, pur stampando “senatui”, suggerisce in apparato che “senatum” potrebbe essere la lezione corretta). Nella mia edizione, ho preferito (come Lindsay e Riposati) mantenere la lezione dei codici, dal momento che Varrone potrebbe aver proposto due etimologie in parte diverse nelle due opere. Di conseguenza, intervenire sul frammento al fine di omologarne il contenuto al passo parallelo del de lingua Latina potrebbe essere una normalizzazione del testo e cancella278
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re le tracce di una possibile oscillazione nel pensiero varroniano. Tanto più che proprio il luogo in questione del de lingua Latina prosegue proponendo un’etimologia alternativa di “console” molto vicina a quella del fr. 67: nisi illinc potius unde Accius ait in Bruto: ‘qui recte consulat, consul cluat’. L’oscillazione fra le due etimologie “consulere senatum” e “consulere alicui”, dunque, è già presente nel de lingua Latina; se in quest’opera Varrone sembra seguire piuttosto la prima, nel de vita avrebbe potuto invece proporre la seconda (del resto di questa parte del secondo libro si è perduto così tanto che non è prudente escludere che, nella stessa sezione, Varrone potesse presentare anche l’altra etimologia). Per quanto riguarda le attestazioni in altre fonti di una derivazione di “console” da “consulere”, vedi Cic. de orat. 2, 165, si consul est qui consulit patriae; Flor. epit. 1, 9.2: consules … ut consulere civibus suis debere meminissent e Salvadore 2004, pp. 96-97. 68 (= 69 R.; 384 S.) itaque quod hos arbitros instituerunt populi, censores appellarunt: idem enim valet censere et arbitrari 1: id, corr. ed. 1476 Non. p. 836.21-31: CENSERE et ARBITRARI veteres cognatione quadam socia ac similia verba esse voluerunt. […] Varro de vita populi romani lib. II. 1: cognitione LAA
chiamarono dunque “censori” questi magistrati poiché li posero come arbitri del popolo: infatti i verbi censere e arbitrari hanno lo stesso significato Dopo l’etimologia di “console” e “pretore”, Varrone passa a indicare quella del termine “censore”. Secondo lui, il significato originario del nome sarebbe quello di “giudice” (arbiter) del popolo, dal momento che i verbi “censeo” e “arbitror” avrebbero avuto la stessa valenza semantica. L’etimologia qui proposta, con analoga equiparazione di “censeo” e “arbitror” è presente in termini simili anche nel de lingua Latina (5, 81), censor ad cuius censionem, id est arbitrium, censetur populus, e nel fr. 11 Mirsch del l. 20 delle antiquitates rerum humanarum (riportato da Nonio alla stessa voce che include anche il nostro fr. 68; vedi il commento di Ranucci 1972, p. 119), quod verbum censeo et arbitror idem poterat ac valebat, e sembra propria di Varrone; forse sempre da Varrone, tramite fonti intermedie, potrebbe dipendere anche una delle etimologie di “censor” proposta da Isidoro 279
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(et. 9, 4.13): est enim nomen censoris dignitatis iudicialis; censere enim iudicare est. La maggior parte delle fonti antiche, diversamente, tende a far derivare il termine censore da “census”, mettendo dunque l’origine del termine in relazione con il compito assegnato ai censori di provvedere al censimento della popolazione, vedi Liv. 4, 8.7: Papirium Semproniumque … censui agendo populus suffragiis praefecit. Censores ab re appellati sunt (una rassegna interessante di paralleli è data da Salvadore 2004, p. 97). Sul particolare significato di “valeo” qui assunto (“avere valore semantico = significare”), vedi Schad 2007, p. 411.3 (cfr. Cic. off. 2, 13: quaerimus verbum Latinum par Graeco et quod idem valeat e Gell. 13, 1.2, an utrumque idem valere voluerit ‘fatum’ atque ‘naturam’). Lo stilema qui impiegato è stato restaurato per congettura dal Fay anche in un luogo del de lingua Latina (6, 69): spondere est dicere ‘spondeo’, a sponte: nam id valet et a voluntate. 69 (= 70 R.; 385 S.) itaque propter curam locus quoque, quo suam quisque domo senator confert, curia appellata 1: domum codd., corr. Mercier; 1-2: locus … curia appellata scripsi; locus … curia appellatur Popma, Kettner, Lindsay (in textu), Sal.; locus … curiam appellat codd.; locum … curiam appellat (vel -ant) Lindsay (“fortasse” in app.); locum … curiam appellant Rip. Non. p. 79.1-3: CVRIAM a cura dictam Varro designat de vita populi romani lib. II
e così, dal termine cura fu detto curia anche il luogo dove ciascun senatore porta da casa la propria attenzione (cura) Anche in questo frammento, dedicato al termine “curia”, è fornita, come nei frr. 67 e 68, l’etimologia di un’istituzione civile. Per quanto riguarda il testo della citazione, i codici di Nonio, tramandano una costruzione sintatticamente impossibile: “locus … curiam appellat”. Questo testo è stato corretto dagli editori in due modi, o ponendo entrambi i termini al nominativo e volgendo il verbo al passivo (“locus … curia appellatur”, intervento di Popma accolto da Lindsay a testo e da Salvadore), o ponendo “locus” all’accusativo (“locum … curiam appellat (o appellant)”, correzione proposta da Lindsay in apparato e stampata da Riposati). Delle due soluzioni, la prima sarebbe preferibile. Il passaggio, infatti, da “appellatur” ad “appellat” è facilissimo, dal momento che la desinenza 280
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del passivo era abbreviata con un titulus posto sulla t. Una volta frainteso o ignorato il segnale abbreviativo, il testo restante “curia appellat” poteva essere rabberciato in “curiam appellat” da un copista che, attento soltanto al microcontesto, non considerasse il legame sintattico fra “curia” e il precedente “locus” e fosse sviato dal vicino “suam” (riferito logicamente a “cura”, ma che un lettore distratto poteva far concordare con il successivo “curia”), in modo da scrivere, per un errore di dettatura, “suam … curiam” (l’insorgere della forma “curiam appellat” poteva essere motivato anche dall’influsso della chiosa di Nonio curiam … Varro designat). Viceversa, presupporre che il testo corretto fosse “locum … curiam appellat” comporta diversi problemi. Innanzi tutto, il passaggio da “locum” a “locus” sarebbe difficile da spiegare. Oltre alla difficoltà di individuare la genesi dell’errore, lo stesso testo “curiam appellat” non funziona. Infatti non è chiaro quale debba essere il soggetto del verbo: se nelle parole di Nonio “curiam … designat” il soggetto è espressamente indicato (“Varro”), è del tutto improbabile che nel fr. 69 Varrone parlasse di sé in terza persona. Anche supporre un soggetto sottointeso (o tagliato fuori dalla citazione del grammatico) come “populus Romanus” o “antiquitas” è una soluzione poco convincente, in quanto una formula del genere è aliena alla scrittura di Varrone. La proposta dubbiosa di Lindsay di correggere “appellat” in “appellant” (il soggetto sottointeso sarebbe “Romani”) restituirebbe uno stilema proprio di Varrone, ma comunque non del tutto persuasivo in questo contesto. Infatti, dovendo intervenire su “appellat”, la correzione “appellatur” è superiore rispetto ad “appellant” e, in ogni caso, scrivendo “appellant” resta irrisolto il problema di giustificare il passaggio da “locum” a “locus”. Tuttavia, anche il testo “curia appellatur” si presenta anomalo rispetto agli altri frammenti in cui Varrone fornisce l’etimologia di termini legati alla vita pubblica romana. Negli altri passi, infatti, l’origine dei nomi in questione è sempre fornita adoperando un verbo al passato (fr. 67 idem dicebantur consules et praetores; fr. 68, censores appellarunt; fr. 71, stipendium appellabatur; anche il fr. 73, in base alla mia proposta di ricostruzione, avrebbe “verbenarius appellatus”), giustificato dal carattere “narrativo” proprio del de vita populi Romani (dove i dati antiquari venivano “raccontati” piuttosto che esposti; cfr. introduzione), mentre il fr. 69, con “curia appellatur” costituirebbe l’unica eccezione. Per questo accolgo un suggerimento del prof. Ranucci e preferisco correggere il testo in “curia appellata”. In questo modo si restituirebbe uno stilema proprio della scrittura di 281
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Varrone (vedi gli esempi raccolti al fr. 73) e anche il fr. 69 avrebbe, in linea con le altre citazioni di contenuto analogo, un verbo al passato. Il passaggio da “appellata” ad “appellat” potrebbe essersi verificato per un banale errore meccanico, analogo alla perdita del titulus postulata da chi corregge “appellat” in “appellatur”. Una volta ottenuta la stringa “curia appellat”, questa poteva ridursi facilmente a “curiam appellat” in base alle dinamiche sopra descritte. La concordanza “locus … curia appellata” non costituisce un problema, in quanto casi del genere si riscontrano in Varrone (vedi la discussione al fr. 60). Varrone connette l’origine del termine “curia” a “cura”. Questa connessione è data, seppure in termini non del tutto analoghi a quelli del nostro frammento, anche a l. L. 5, 155, curiae duorum generum: nam et ubi curarent sacerdotes res divinas, ut curiae veteres, et ubi senatus humanas, ut curia Hostilia e 6, 46, curiae, ubi senatus rempublicam curat, et illa ubi cura sacrorum publica (cfr. Paul.-Fest. p. 42.16, curia locus est, ubi publicas curas gerebant, interessante anche per la forma “locus ubi” vicina al “locus quo” del frammento). Secondo il testo del fr. 69, la “curia” sarebbe il luogo dove ogni senatore porterebbe da casa la propria “cura”. Questo gioco di parole è piuttosto difficile da rendere, tanto più che il termine “cura” potrebbe intendersi sia nel senso di “attenzione” (alle questioni da dibattere in senato, vedi OLD 473.2), che in quello più tecnico di “amministrazione” (dello Stato, vedi OLD 474.7). Ho preferito accentuare la prima sfumatura di significato, dal momento che il frammento parla di una “cura” propria di ciascun senatore: il senso sarebbe che ogni senatore, recandosi nella “curia”, vi portava da casa la propria preoccupazione per la cosa pubblica e la propria attenzione all’ordine del giorno. Viceversa, pensare alla “curia” come al luogo dove ogni senatore recasse la propria amministrazione dello Stato darebbe un senso inferiore, in quanto l’amministrazione pubblica di qualcosa non è una prerogativa che possa essere “portata da casa” dal senatore, ma è un compito proprio di questa carica a prescindere dal luogo in cui si esercita. Circa il verbo “conferre”, ho preferito seguire il Thesaurus (IV 181.14-15; 26-27) e attribuirgli, nel contesto del frammento, il senso di “transferre” (“mittere aliquid, collocare, portare, dirigere, ducere, proprie et translate”), data la presenza di un complemento di moto a luogo (“quo”) e di uno di moto da luogo (“domo”): Varrone potrebbe voler dire che, recandosi in Curia, ciascun senatore trasferisce le proprie preoccupazioni dall’ambito privato a quello pubblico. Un impiego simile di “confero” potrebbe essere a l. L. 5, 145, in cui la parola “forum” 282
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è fatta derivare da “fero”: quo conferrent suas controversias et quae vendere[ntur] vellent quo ferrent, forum appellarunt (io tradurrei, anche in base al confronto con il fr. 69, “il luogo in cui recavano (per discuterle) le proprie controversie”, sebbene l’uso del plurale e l’assenza di un moto da luogo permetterebbero di intendere la frase anche altrimenti, ossia “il luogo in cui riunivano le proprie controversie”, come lascia intendere il ThLL IV 173.30; 36, o “il luogo dove poter mettere a confronto le loro controversie”, come traduce Traglia, p. 147). L’espressione “domo ferre” (e derivati) è impiegata spesso da Quintiliano in modo quasi idiomatico: vedi inst. 4, 1.20, praeterea detrahenda vel confirmanda opinio, si quam domo videbitur iudex attulisse; 4, 5.4, quia pleraque gratiora sunt, si inventa subito nec domo allata, sed inter dicendum ex re ipsa nata videantur; 5, 13.3, tum accusator praemeditata pleraque domo adfert, patronus etiam inopinatis frequenter occurrit; 13.36, eis itaque plerumque, quae composita domo attulerunt, contenti sine adversario dicunt; 6, 3.33, ne praeparatum et domo adlatum videatur quod dicimus; 10, 6.6, nam ut primum est domo adferre paratam dicendi copiam et certam, ita refutare temporis munera longe stultissimum est; 10, 7.30, multa agentibus accidit ut … quae domo adferunt cogitatione complectantur; 11, 2.46, memoria autem facit etiam prompti ingeni famam, ut illa quae dicimus non domo attulisse, sed ibi protinus sumpsisse videamur. In tutti questi passi il senso dell’espressione è molto simile a quello richiesto dal fr. 69: “portare qualcosa da casa” vuol dire presentarsi al dibattimento processuale con un giudizio elaborato in precedenza o con del materiale già pronto o meditato; allo stesso modo per Varrone la “curia” è il posto in cui i senatori si recano a discutere gli oggetti di pubblica importanza su cui hanno già meditato “a casa”. 70 (= 71 R.; 392 S.) cum in quintum gradum pervenerant atque habebant sexaginta annos, tum denique erant a publicis negotiis liberi atque otiosi. ideo in proverbium quidam putant venisse, ut diceretur sexagenarios de ponte deici oportere, id est quo suffragium non ferant, quod per pontem ferebant 2-4: ideo … ferebant Nonio tribuit Lugli; 2: proverbio codd., corr. ed. 1471; 3: venisse ut AAGCADA; venisse se ut L | ut diceretur ‘sexagenarios de ponte’ id est deici oportere Müller | quo Mommsen; quod codd., edd.; 4: ferebant AAGCADA; ferebat La.c.; ferebatur dub. Müller 283
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Non. p. 842.22-28: SEXAGENARIOS PER PONTEM mittendos male diu popularitas intellexit, cum Varro de vita populi Romani lib. II honestam causam religiosamque patefecerit: 1: non mittendos Müller
una volta che avevano raggiunto il quinto grado d’età e avevano sessant’anni, erano finalmente liberi ed esentati dal prendere parte alla vita politica. Per questo motivo alcuni pensano che sia sorto il detto proverbiale che i sessantenni devono essere gettati giù dal ponte – si intenda: perché non possano più dare quel voto, che davano attraversando il ponte (la passerella che andava attraversata per raggiungere la parte del comitium in cui si votava) Non è del tutto agevole ricostruire il contesto originario da cui deriva questa citazione. Nella prima parte del frammento è detto che, una volta che i cittadini avessero raggiunto l’età di sessanta anni, erano esentati dal partecipare alle incombenze della vita pubblica; nella seconda parte viene attribuita al presunto ritiro dei sessantenni dall’attività politica l’origine di un detto proverbiale (“i sessantenni vanno gettati giù dal ponte”). Per quanto riguarda la prima notizia, Varrone specifica che il superamento della soglia dei sessanta anni coincideva con l’ingresso nell’ultimo “gradus aetatis” dell’uomo, la “senectus” (il dato è confermato come varroniano da Cens. 14.2, Varro quinque gradus aetatis aequabiliter putat esse divisos … in quarto autem adusque sexagensimum annum seniores vocitatos, quod tunc primum senescere corpus inciperet; inde usque ad finem vitae uniuscuiusque quintum gradum factum, in quo qui essent senes appellatos, quod ea aetate corpus iam senio laboraret, che probabilmente qui dipende dalle antiquitates; vedi anche Salvadore 2004, p. 105). Nonostante la menzione del “quintus gradus (aetatis)”, dubito che il frammento del de vita potesse provenire da una trattazione sistematica dei cinque periodi in cui Varrone ripartiva la vita di un uomo (come sembra suggerire Salvadore, che pubblica il frammento dopo i frr. 61 e 62, relativi ai riti del parto, come se Varrone, dopo aver discusso le cerimonie da compiere per la nascita di un bambino, avesse voluto proseguire il discorso elencando le età dell’uomo dalla nascita alla morte; dello stesso parere è anche Lugli 1986, p. 61: “è probabile che le parole di Varrone andassero da cum fino a otiosi e venissero citate da quell’esposizione dei gradus aetatis cui attinse anche Censorino”), in quanto la notizia principale trasmessa dal frammento è che a sessanta anni cessava la partecipazione attiva 284
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alla vita politica, non che a sessanta anni si entrasse nel quinto “gradus aetatis” (del resto, il brano di Censorino non presenta alcuna connessione fra raggiungimento del sessantesimo anno e “otium”). Dal fatto che i cittadini ultrasessantenni fossero esentati dal “negotium” Varrone, stando alla testimonianza di Nonio, faceva poi derivare l’origine del detto “sexagenarios de ponte deicere”. La menzione di questa espressione proverbiale rimanda a un rito romano particolarmente misterioso, la cosiddetta cerimonia degli Argei (vedi infra). Prima di approfondire il discorso sugli Argei, vorrei notare che mi sembra improbabile anche che questo frammento sia tratto da una sezione del secondo libro del de vita in cui Varrone parlava di questa cerimonia. Infatti, l’erudito fornisce la spiegazione dell’origine del detto “sexagenarios de ponte” come aggiunta dotta alla notizia dell’esenzione dal “negotium” per i sessantenni, mentre, se il frammento provenisse da una discussione dettagliata del rito degli Argei, sarebbe stato più logico trovare le informazioni in ordine inverso (ad esempio: “questo rito deriva dal fatto che alle elezioni si diceva di gettare i sessantenni giù dal ponte; questi infatti, una volta raggiunto il quinto grado d’età, erano esentati dalla vita politica”). Infine, va discussa la proposta di Lugli, secondo cui il frammento andrebbe limitato alle parole “cum in quintum gradum pervenerant … liberi atque otiosi”, mentre tutta la parte successiva della citazione (“ideo in proverbium quidam putant venisse … ferebant”) sarebbe da attribuire a Nonio. Questa ipotesi è però smentita dal metodo di lavoro comunemente seguito da Nonio. Si è spesso detto come il grammatico preferisca discostarsi il meno possibile dalle sue fonti e non aggiungere proprio materiale. Seguendo Lugli, bisognerebbe supporre che Nonio trovasse in Varrone soltanto il riferimento al quinto grado d’età e avesse aggiunto da sé la parte sul proverbio “sexagenarios de ponte”. Ma le parole con cui Nonio introduce la citazione SEXAGENARIOS PER PONTEM mittendos male diu popularitas intellexit, cum Varro de vita populi Romani lib. II honestam causam religiosamque patefecerit hanno senso solo supponendo che Nonio trovasse già in Varrone la spiegazione dell’origine del detto e anzi proprio questa spiegazione costituisse il motivo per cui Nonio ha riportato il frammento. Anche le parole “honestam causam religiosamque” si accordano bene con l’ipotesi che Nonio leggesse in Varrone l’interpretazione del “pons” come “passerella elettorale” (vedi infra): questa spiegazione è detta “honestam” in contrasto con l’interpretazione che voleva che i “senes depontani” fossero vittime sacrificali 285
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umane effettivamente gettate dal ponte Sublicio, interpretazione ritenuta errata (e indecorosa per la fama degli antichi) da Nonio, che la attribuisce a una generica “popularitas”. Tenendo conto di questi dati, andrà attribuita a Varrone l’intera citazione. Si potrebbe al limite sospettare, dati lo stile particolarmente sciatto e la sintassi confusa dell’ultima parte, che Nonio avesse tentato di sintetizzare (come sembra avvenire nei frr. 4 e 10) la spiegazione di Varrone, commettendo qualche fraintendimento. Se così fosse, l’ultima parte del frammento potrebbe essere una parafrasi compiuta da Nonio, ma pur sempre di un passo di Varrone in cui era discusso il detto “sexagenarios de ponte” e da cui Nonio trae in blocco il materiale per la sua voce. È comunque strano che Nonio, volendo dedicare una voce al detto “sexagenarios de ponte”, avesse citato alla lettera la prima parte del frammento, ricca di espressioni ridondanti e un po’ pleonastiche e avesse invece scelto di sintetizzare proprio la parte in cui era spiegato il senso della “depontazione”. In ogni caso, non sembra che Lugli contempli la possibilità che l’ultima parte del frammento sia una parafrasi del testo di Varrone compiuta da Nonio, in quanto sostiene che il passo di Varrone da cui deriva Nonio trattava esclusivamente dei gradus aetatis. Escluse le tre ipotesi sopra presentate, forse la soluzione meno problematica sarebbe ammettere che il fr. 70 possa provenire dalla sezione del secondo libro dedicata alle istituzioni politiche della Roma repubblicana. Varrone poteva indicare, in una apposita sezione, quali fossero gli obblighi civili richiesti al cittadino nelle varie fasi della sua vita, fino a giungere alla soglia dei sessant’anni, che segnava la fine del “negotium” (l’avverbio “denique” sembra accordarsi con la mia ipotesi: dopo aver passato in rassegna le numerose incombenze che la repubblica richiedeva al cittadino, fin dalla sua giovane età, dall’impegno bellico alla partecipazione attiva ai comitia, Varrone poteva concludere che a sessant’anni “finalmente” questa trafila si interrompeva). A partire da questo dato, poteva poi arricchire il discorso con l’aggiunta erudita relativa al senso originario del detto “sexagenarios de ponte” (come ho detto sopra, la spiegazione del vero significato di questa espressione non costituisce la notizia principale del frammento, ma solo un’informazione in più rispetto al dato che i sessantenni fossero “a publicis negotiis liberi atque otiosi”), per poi procedere, nel seguito perduto del frammento, a descrivere altri aspetti della vita politica repubblicana. Ho pertanto scelto di pubblicare, come Riposati, il fr. 70 insieme alle altre citazioni attinenti alle magistrature e alle istituzioni civili. 286
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Gran parte del frammento è dedicata all’esposizione dell’origine del detto “secsagenarios de ponte deicere”. Come accennavo, questa espressione sembra rimandare al rito degli Argei. Con questo nome erano designati ventisette fantocci di paglia che il 16 e il 17 Marzo venivano portati in processione per la città e depositati in ventisette edicole sacre sparse nelle quattro regioni di Roma (cfr. l. L. 5, 45: Argeorum sacraria septem et viginti in partis urbi sunt disposita; l’integrazione, altamente probabile, è dello Spengel); da queste edicole venivano poi prelevati il 14 Maggio per essere solennemente gettati, dal pontefice massimo e dal collegio delle Vestali, dal ponte Sublicio nelle acque del Tevere (cfr. l. L. 7, 44, Argei fiunt ex scirpeis, simulacra hominum XXVII; ea quotannis de ponte Sublicio a sacerdotibus publice deici solent in Tiberim; Paul.-Fest. p. 14.22-23, Argeos vocabant scirpeas effigies, quae per virgines Vestales annis singulis iaciebantur in Tiberim; la descrizione più dettagliata della cerimonia si ha in Dion. Hal. ant. Rom., 1, 38.2-3). Già gli antichi mostrano di ignorare molto su questa cerimonia, come si evince dal gran numero di spiegazioni alternative avanzate circa l’origine del rito. Per rendere un’idea della varietà delle invenzioni degli eruditi antichi riguardo agli Argei (per lo più intesi nel senso di “Greci”, come un equivalente di “Argivi”, vedi l. L. 5, 45, Argeos dictos putant a principibus qui cum ercule Argivo venerunt Romam et in Saturnia subsederunt, Paul.-Fest. p. 18.5-6 Argea loca Romae appellantur, quod in his sepulti essent quidam Argivorum inlustres viri), basta vedere le tre versioni date da Ovidio a fast. 5, 621-662: ai vv. 623-632 è riportata la leggenda che, prima dell’arrivo di Ercole nel Lazio, gli Aborigeni gettassero nel Tevere delle vittime umane, che sarebbero state sostituite da fantocci su suggerimento dell’eroe (cfr. Lact. inst. 1, 21.6-8); ai vv. 633-634 è fornita una spiegazione vicina a quella data nel fr. 70 (pertanto la esaminerò in seguito) e ai vv. 635-662 si racconta che gli Argivi giunti nel Lazio al seguito di Ercole e qui insediatisi avrebbero espresso il desiderio di essere gettati nel fiume dopo morti, così che la corrente trascinasse i loro corpi fino in patria, ma sarebbero stati sepolti in Italia e, in sostituzione dei corpi, sarebbero stati abbandonati alla corrente dei fantocci che ne riproducevano le fattezze (questa versione, riportata in modo simile anche da Macr. Sat. 1, 11.47, mostra un tentativo di eliminare il riferimento “scottante” al sacrificio umano e di “moralizzare” il dato antiquario; si vedano le parole di Ovidio ai vv. 623-624, corpora post decies senos qui credidit annos / missa neci sceleris crimine damnat avos). L’idea che gli Argei sostituissero antichi sacrifici umani è stata accolta, fra i moderni, dal Wissowa (vedi RE II, 1 700.10-36; alle coll. 689.13-694.2 Wisso287
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wa riporta una rassegna delle testimonianze antiche sugli Argei e delle spiegazioni proposte per l’origine del rito, anche se non si sofferma sul problema del detto “sexagenarios de ponte”), secondo il quale, in un momento critico delle guerre puniche, sarebbero stati effettivamente gettati nel Tevere ventisette Greci, come offerta espiatoria: la memoria di questo fatto si sarebbe poi mantenuta, in ambito cultuale, nella cerimonia del lancio dei ventisette fantocci. Tuttavia, come è stato giustamente obiettato da Frazer 1929, pp. 82-83, è inverosimile che di un episodio così cruento avvenuto in un periodo della storia romana piuttosto recente non sia rimasta traccia nelle nostre fonti. È strano che Varrone non sembri citare un evento che lo precedeva al massimo di due secoli, mentre le difficoltà mostrate dagli eruditi antichi nel giustificare le origini degli Argei sembrano piuttosto suggerire che questo rito fosse particolarmente arcaico, tanto da sfuggire, nel suo significato fondamentale, già a Varrone e ai suoi contemporanei. Per questo Frazer preferisce ipotizzare che la cerimonia della “depontazione” degli Argei fosse un rito di carattere apotropaico, volto o a placare il Tevere (che poteva essere adirato per l’affronto di essere stato “imbrigliato” da un ponte, il ponte Sublicio da cui gli Argei erano gettati in acqua), o a espellere dalla comunità cittadina gli spiriti negativi, simboleggiati dai fantocci (questa ipotesi è sostenuta dal fatto che Plut. quaest. Rom. 86 definisce il rito τὸν μέγιστον … τῶν καθαρμῶν e che la cerimonia avveniva il giorno successivo ai Lemuria, la festa in cui gli spiriti dei defunti venivano scacciati dal pater familias, vedi fr. 14: la depontazione degli Argei corrisponderebbe all’eliminazione delle forze negative in ambito pubblico, mentre i Lemuria risponderebbero alla stessa finalità, ma in ambito privato). A prescindere dal vero significato della cerimonia, su cui, data la scarsità di dati in nostro possesso, possiamo formulare solo delle ipotesi, un riferimento alla depontazione degli Argei sembra essersi mantenuto nella lingua viva nell’espressione proverbiale “sexagenarios de ponte deicere” (vedi Otto 1890, pp. 320-321). Una voce di Festo (pp. 450.21-452.22), purtroppo in gran parte mutila, è interamente dedicata all’esposizione di questo detto. Sembra che Festo fornisse almeno quattro possibili spiegazioni del rito. In base alle tracce rimaste della prima parte della voce, si può ipotizare con buona probabilità che venisse proposta la leggenda delle vittime umane offerte dagli Aborigeni e sostituite da Ercole con fantocci di paglia (un riferimento agli Aborigeni si può ricavare dal r. 24 “m qui incoluerint”, come integra Müller, per quanto preferirei l’integrazione “m”, dal momento che Roma al tempo di Ercole non era 288
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ancora stata fondata; al r. 25 si parla di un “hominem sexaginta (Lindsay; Müller”)”, presumibilmente la vittima veniva offerta, come detto al r. 26, “Diti patri”; dal r. 27 sembra ricavabile la notizia che a un certo punto gli Aborigeni avessero smesso di compiere tali sacrifici; al r. 28 è quasi certa una menzione di Ercole e il r. 29 parla di “scirpeas hominum ef“, che è la definizione canonica degli Argei). Della seconda spiegazione proposta da Festo restano tracce troppo esigue perché se ne possa tentare una ricostruzione. La terza spiegazione rimanda a un episodio che sarebbe avvenuto al tempo dell’incendio gallico: sunt, qui dicant, post Urbem a Gallis liberatam, ob inopiam cibatus, coeptos sexaginta annorum homines iaci in Tiberim, ex quo numero unus, filii pietate occultatus, saepe profuerit triae consilio, sub persona filii. Id ut sit cognitum, ei iuveni esse ignotum, et sexsagenaris vita concessa. (nel seguito della nota Festo riporta anche un’etimologia alternativa di Argea da arcere). L’aspetto per noi più interessante è che la quarta spiegazione, indicata peraltro da Festo come la più attendibile (sed exploratissimum illud est causae), è la stessa proposta da Varrone nel fr. 70: quo tempore primum per pontem coeperunt comitiis suffragium ferre, iuniores conclamaverunt, ut de ponte deicerentur sexagenari, qui iam nullo publico munere fungerentur, ut ipsi potius sibi quam illi deligerent imperatorem: cuius sententia est etiam Sinnius Capito. Vanam autem opinionem de ponti Tiberino confirmavit Afranius in Repudiato. Per intendere la nota, occorre tenere presente che si chiamava “pons” una sorta di passerella che andava attraversata per raggiungere il settore del comitium in cui si votava (vedi OLD 1402. 2c). Festo dice che, quando si instaurò il costume di recare il proprio voto attraversando il “pons”, i più giovani avrebbero esclamato che i sessantenni dovevano essere gettati giù dal “pons”: l’elezione del comandante in carica spettava infatti a chi prendesse attivamente parte alla vita politica e militare, non ai sessantenni che ne erano ormai esentati. La stessa notizia è riportata anche da Varrone, pur se in forma più stringata, nel fr. 70. È interessante notare come Festo attribuisca questa spiegazione all’erudito, contemporaneo di Varrone, Sinnio Capitone (vedi RE III, A1 245.45-246.32; Festo allude inoltre al passo, per noi perduto, di una commedia di Afranio in cui sembra che si dicesse che il ponte da cui gettare i sessantenni non era il ponte Sublicio), senza essere in ciò contraddetto da Varrone, che riferisce questa giustificazione del detto “sexagenarios de ponte” ad altri (“quidam putant”). Si può dunque ipotizzare che, al tempo di Varrone, alcuni antiquari proponessero di spiegare le origini della depontazione 289
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con la storia riportata nell’ultima parte della nota di Festo e nel fr. 70, una storia volta a eliminare ogni riferimento al dato cruento dell’uccisione dei sessantenni. È tuttavia significativo che lo stesso Varrone, nella Menippea intitolata “Sexagesis”, in un contesto letterario diverso, caratterizzato dalla ricerca dell’espressività corposa, impieghi in modo scherzoso il detto “sexagenarios de ponte deicere” nel suo valore più crudo e concreto. Dagli scarsi resti della satira si può ricostruire che, a un certo punto, il portavoce dell’autore e altri “vecchioni” (per designare i quali è impiegato il prestito etrusco “casnares”) venissero afferrati da interlocutori più giovani, insofferenti al loro rigorismo morale, e gettati nel Tevere: fr. 494 A., vix ecfatus erat, cum more maiorum ultro casnares arripiunt, de ponte in Tiberim deturbant (vedi Cèbe 1998, vol. 12, pp. 1929-1932). Il fr. 493 A., acciti sumus ut depontaremur. murmur fit ferus, inoltre, si segnala per il vivace conio, da parte di Varrone, del verbo “deponto” (ThLL V, 1, 585.40), vicino alla denominazione di “depontani” con cui erano tradizionalmente definiti i vecchi “de ponte deiecti” (vedi Paul.-Fest. p. 66.5, depontani senes appellabantur, qui sexagenarii de ponte deiciebantur). Tornando al fr. 70, il confronto fra i loci paralleli di Festo e Varrone permette di affrontare alcune questioni testuali. Per prima cosa, non c’è motivo di intervenire, come fa Müller, modificando il testo tradito “ut diceretur sexagenarios de ponte deici oportere id est…” in “ut diceretur ‘sexagenarios de ponte’ id est deici oportere…”. Con il testo di Müller, Varrone menzionerebbe la forma più breve del proverbio (“sexagenarios de ponte”) e con “id est” indicherebbe che cosa andrebbe sottinteso a senso all’espressione (“deici oportere”). Tuttavia alcuni usi del proverbio in altri contesti (Cic. Sext. Amer. 100, habeo etiam dicere quem contra morem maiorum minorem annis sexaginta de ponte in Tiberim deiecerit; Macr. Sat. 1, 5.10, tamquam sexagenarios maiores de ponte deicies) provano che la forma canonica dell’espressione fosse appunto “sexagenarios de ponte deicere”. Pertanto, ritengo più probabile che Varrone menzionasse il detto proverbiale per intero (“ut diceretur sexagenarios de ponte deici oportere”) e si servisse di “id est” per introdurre la successiva spiegazione del significato dell’espressione. Problematica è anche la forma assunta da questa nel testo tradito. I codici hanno il testo “quod suffragium non ferant, quod per pontem ferebant”. Sebbene questo testo sia stato accolto da tutti gli editori, credo che ponga delle difficoltà sul piano del senso: una frase del genere, infatti, conferisce al frammento un significato contraddittorio. Si è visto dal brano di Festo che il senso vorrebbe che ai sessantenni 290
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fosse contestato il diritto di voto, dal momento che, non partecipando più alla vita politica, non avevano più i titoli per prendere parte alle decisioni di ordine pubblico. Di conseguenza, andavano “gettati giù dalla passerella elettorale”, in modo che non potessero recarsi a votare. Il testo tradito, invece, direbbe che i sessantenni vanno gettati giù dal ponte “poiché non recano più il voto che prima erano soliti recare”. Ciò è un controsenso: se i sessantenni comunque non possono votare, che motivo ci sarebbe di impedire loro l’accesso alla passerella elettorale? Il confronto con Festo (ut ipsi potius sibi quam illi deligerent imperatorem) suggerisce che il testo richieda non una causale, bensì una finale. Questa potrebbe essere restaurata per mezzo di un piccolo intervento, avanzato da Mommsen ma ignorato dagli editori successivi, correggendo il primo “quod” in “quo”. Avendo “quo suffragium non ferant, quod per pontem ferebant” si otterrebbe una finale del tutto analoga al senso indicato da Festo: i sessantenni vanno gettati giù dal ponte perché non diano più quel voto che solevano dare attraversando il ponte. Per la finale introdotta da “quo” in assenza di un comparativo, vedi KS II, 2, p. 233 (un’attestazione del costrutto potrebbe esserci al fr. 116 ad dominatus quo appellerent, ma purtroppo questo testo è controverso). L’uso del presente congiuntivo “ferant” non andrebbe considerato una violazione della consecutio temporum dal momento che la causale non dipende da “venisse ut diceretur”, ma è retta dall’espressione “sexagenarios de ponte deici oportere”, che, in quanto proverbiale, è “atemporale”. 71 (= 77 R.; 381 S.) stipendium appellabatur quod aes militi semenstre aut annuum dabatur; cui datum non esset propter ignominiam, aere dirutus 1: aes quod DA (cum E1P) | annuum CA (Lugd., Bamb.; annum Paris. 7666), prob. Müller, Rip.; annum LBADA; 2: esset Müller; sit codd. | ignomiam LAA | aere dirutus Müller; aere dirutus esset (est L) codd. Non. p. 853.2-8: AERE DIRVTI appellabantur milites, quibus propter ignominiam stipendium, id est merces menstrualis aut annua, quae esset in nummis aereis, subtrahebatur. Varro de vita populi Romani lib. II: 1: ignomiam LAA; 2: in secl. Müller | aeris CADA; 3: III Popma
si chiamava “stipendio” il soldo di un semestre o di un anno che veniva dato al soldato; il soldato a cui non fosse stato versato come punizione per un comportamento indecoroso era detto aere dirutus 291
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Una volta conclusa la sezione relativa all’amministrazione civile della Roma repubblicana, Varrone avrebbe potuto estendere il discorso anche all’organizzazione dell’esercito e discutere, in modo analogo a quanto fatto per i nomi delle cariche pubbliche, l’etimologia di gradi e istituzioni militari. Sulla base di questa ipotesi, inserisco a questo punto alcuni frammenti dedicati all’illustrazione di voci del lessico tecnico dell’esercito (frr. 71; 72; 73), che presentano, anche sul piano della forma, una struttura molto vicina a quella delle citazioni sull’etimologia delle cariche pubbliche (frr. 67: 68; 69). Un confronto con le citazioni tratte dal terzo libro del de vita parimenti dedicate all’organizzazione militare permette di rilevare una differenza notevole nell’ottica assunta dall’autore da un libro all’altro: mentre nelle citazioni provenienti dal libro terzo sono discussi gli aspetti più tecnici della res militaris (gradi militari, formazione dell’esercito schierato, armamenti), i frammenti del libro secondo mostrano un interesse piuttosto per gli aspetti amministrativi della vita militare (retribuzione dei soldati; procedura di dichiarazione di guerra; statuto degli ambasciatori). L’attenzione per i dati “burocratici” conferma l’ipotesi che il secondo libro fosse in gran parte dedicato all’esposizione della macchina statale repubblicana, nel suo evolversi, e dei meccanismi della vita civile. Il contenuto del frammento è piuttosto semplice: il soldo versato al soldato era detto “stipendium”, mentre il soldato che, per punizione, ne fosse stato privato veniva chiamato “aere dirutus”. Il passaggio logico che porta Varrone, a partire da “stipendium”, a parlare del termine “aere dirutus” è ricavabile dal parallelo di l. L. 5, 181-182 (et hinc dicuntur milites aerarii ab aere, quod stipendia facerent. Hoc ipsum stipendium a stipe dictum, quod aes quoque stipem dicebant; a Ov. fast. 1, 219-220, tu tamen auspicium si sit stipis utile quaeris / curque iuvent nostras aera vetusta manus, “stips” e “aes” sono impiegati come sinonimi): data la derivazione di “stipendium” da “aes” a causa dell’equivalenza di “aes” e “stips”, risulta chiaro perché il soldato privato dello “stipendium” fosse chiamato proprio “aere dirutus” (su questa espressione tecnica vedi OLD 548.b e Salvadore 2004, p. 95; un tentativo di etimologia si ha in Paul. Fest. p. 61.8, dirutum aere militem dicebant antiqui, cui stipendium ignominiae causa non erat datum, quod aes diruebatur in fiscum, non in militis saccum; nonostante la vicinanza alla formulazione del fr. 71, il frammento offre una discussione più ampia e accurata dell’etimo, per cui, pur potendo derivare teoricamente da Varrone, non è detto che sia tratto, come credeva Kettner, proprio dal de 292
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vita138, vedi Riposati 1939, pp. 20-22). Il pari valore di “aes” e “stips” è confermato anche dal fatto che l’espressione “stipendium merere” (= essere sotto le armi) trova un esatto equivalente nella formula “aes/aera merere”, come prova un frammento dal l. 20 delle antiquitates rerum humanarum sempre riportato da Nonio (fr. 7 Mirsch): qui in ordine erat, is aes militare merebat (vedi ThLL VIII, 803.24-33; cfr. anche Ov. am. 1, 9.43-44, impulit ignavum formonsae cura puellae / iussit et in castris aera merere suis; 1, 10.20, non decet imbelles aera merere deos; Iuv. 16.55, signorum comitem castrorumque aera merentem; per la stessa espressione in Varrone, vedi Ranucci 1972, pp. 122-123). Un problema è posto dalla scelta fra la variante “annum” dei codici, accolta da Lindsay e Salvadore, e la correzione “annuum”, stampata da Müller e Riposati (già alcuni codici del gruppo CA hanno “annuum”, ma in questo caso è più probabile che la lezione sia dovuta a una semplice oscillazione grafica “annum/annuum” piuttosto che a un intervento sul testo per congettura o per contaminazione). Con “annum”, l’espressione “semenstre aut annum” risulterebbe difficile da integrare nella sintassi complessiva della citazione, a meno di non intenderla come una sorta di complemento di tempo continuato: “per un semestre o per un anno”. Tuttavia, una lettura del genere sarebbe piuttosto forzata e il testo darebbe il senso richiesto solo a costo di integrare qualcosa come “ semenstre aut annum” o “ semenstre aut annum”, una soluzione poco economica. Considerando la variante “annuum”, invece, si avrebbe una coppia di aggettivi dipendenti da “aes”: “il soldo di un semestre o di un anno”. Nel lessico militare le espressioni “stipendium annuum” e “stipendium seme(n)stre” sono canoniche (vedi, ad esempio, Liv. 8, 2.4, annuo stipendio et trium mensum frumento accepto; 8, 36.11, annuum stipendium darent; 9, 43.6, semestri stipendio; 9, 43.21, tum trium mensium frumento imperato et annuo stipendio; 10, 5.12, pacto annuo stipendio; 40, 41.10, ignominiae causa uti semestre stipendium in eum annum esset ei legioni decretum; 42, 34.9, bis quae annua merebant legiones stipendia feci; 42, 34.11, viginti duo stipendia annua in exercitu emerita habeo; 45, 2.9, dato annuo stipendio; le due formule sono significativamente accostate a 42, 67.5, ducenta
138 Per quanto un’osservazione del genere è sempre limitata dal fatto che Varrone, nel luogo completo del de vita, avrebbe in teoria potuto discutere anche l’etimologia che troviamo in Festo, un’etimologia che Nonio avrebbe potuto escludere dalla citazione per mezzo di un taglio brutale.
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talenta, semestre stipendium, equitatui numerat, cum primo annuum dare constituisset), cosa che rende altamente probabile la presenza di un aggettivo anche nel fr. 71. Del resto, la stessa parafrasi di Nonio, merces menstrualis aut annua, porta a considerare che il grammatico leggesse un testo con due aggettivi (ho spesso detto che Nonio tende, nelle sue voci, a scostarsi il meno possibile dalla forma del testo che cita). Questi due fattori portano ad accogliere la correzione di “annum”, lezione generatasi per banale aplografia, in “annuum”. Per quanto riguarda il testo della frase, accolgo la correzione di Müller “cui datum non esset propter ignominiam, aere dirutus”, dove i codici hanno “cui datum non sit propter ignominiam, aere dirutus esset”, in quanto la forma “datum non sit” viola la consecutio del periodo e il senso richiede che “aere dirutus” non sia una forma verbale, ma un complemento predicativo del soggetto retto da “appellabatur” (cfr. la voce di Nonio: aere diruti appellabantur milites, quibus propter ignominiam stipendium … subtrahebatur). L’errore potrebbe essersi generato, come suppone Müller, una volta che una correzione marginale “esset” (per “sit”) sia entrata a testo fuori posto dopo “dirutus”. 72 (= 75 R.; 386 S.) itaque bella et tarde et magna diligentia suscipiebant, quod bellum nullum nisi pium putabant geri oportere: priusquam indicerent bellum is, a quibus iniurias factas sciebant, faetiales legatos res repetitum mittebant quattuor, quos oratores vocabant 1: bella et tarde LAA; bella tarde DABA (H2E2) CA (Lugd., Bamb., non Paris. 7666) | diligentia Niebuhr; licentia codd.; 3: faetiales, legatos Mommsen | petitum DA Non. p. 850.16-25: FAETIALES apud veteres Romanos erant qui sancto legatorum officio ab his, qui adversum populum Romanum vi aut rapinis aut iniuriis hostili mente conmoverant, pignera facto foedere iure repetebant; nec bella indicebantur, quae tamen pia vocabant, priusquam quid fuisset faetialibus denuntiatum. Varro de vita populi Romani lib. II: 2: is dub. Müller | vi Mercier; qui LAABACA; om. DA; 3: suppl. Müller | pignere AA | facto foedera LAA; facti foederis Müller; 4: tamen pia] etiam pia Müller dub.; tum inpia Lindsay (“vix” in app.) | prius L | a faetialibus Guietus | renuntiatum Müller
e così intraprendevano le guerre solo dopo un certo lasso di tempo e con grande cautela, poiché ritenevano che non bisognasse condurre nessuna guerra che non fosse stata riconosciuta come “pia”: prima di dichiarare guerra a quelli da cui 294
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sapevano di aver ricevuto degli oltraggi, mandavano (loro) quattro feziali, che chiamavano “oratori”, col compito di chiedere soddisfazione La citazione appartiene a una sezione, che ipotizzo facesse parte di una più ampia trattazione delle istituzioni militari repubblicane, in cui Varrone descriveva il cerimoniale seguito dai Romani per dichiarare solennemente guerra. Il frammento si interrompe dopo aver presentato soltanto la prima fase della procedura, l’invio ai nemici di quattro ambasciatori incaricati di chiedere loro soddisfazione dei torti recati al popolo romano139. Da Liv. 1, 32.9 ricaviamo cosa avveniva in seguito a questa ambasciata: se le condizioni proposte non venivano accolte entro trenta giorni, era ufficialmente dichiarata guerra (si non deduntur, quos exposcit, diebus tribus et triginta – tot enim sollemnes sunt – peractis bellum ita indicit, Livio parla di trentatré giorni, ma confonde il rito della testatio, la dichiarazione solenne di guerra, con la cerimonia del lancio di un dardo in territorio nemico, che avveniva effettivamente dopo trentatré giorni, vedi Ogilvie 1965, p. 131; la cifra esatta è riportata da Dion. Hal. ant. Rom. 2, 72.8; una vivace descrizione dell’ultimatum posto ai nemici dai legati si trova in Plaut. Amph. 204-210; anche in Ov. met. 13, 196, Ulisse, nel rievocare la propria ambasceria a Troia, volta a chiedere la restituzione di Elena, presenta se stesso come “orator”). In questo caso ai feziali, gli stessi sacerdoti a cui era stata affidata l’ambasciata, spettava eseguire una serie di riti che segnavano in modo solenne l’apertura delle ostilità (l’origine di queste cerimonie arcaiche, caratterizzate soprattutto dalla pronuncia di particolari formule di giuramento, sembra sfuggire già alle fonti antiche, che, pur datandone l’introduzione all’età monarchica, le attribuiscono ora a Numa, ora a Tullo Ostilio, ora ad Anco; vedi Riposati 1939, p. 178;
139 Mommsen ha proposto di interpungere “faetiales, legatos”, così da presentare “faetiales” e “legatos” come due categorie differenti e modificare l’interpretazione generale del passo: secondo lui, l’ambasciata non era composta da quattro feziali, bensì da alcuni feziali, addetti alle cerimonie religiose di rito, e da quattro legati, cui era affidata la dichiarazione di guerra vera e propria. Questa lettura si basa sull’idea di Mommsen che i feziali non avessero poteri effettivi, ma costituissero soltanto un fossile sacrale, mentre spettava ai legati occuparsi delle trattative diplomatiche “serie”. In realtà, “faetiales legatos” va interpretata come un’unica espressione, dove “legatos” svolge la funzione di un’apposizione. La lettura tradizionale del frammento (che impone di pensare a una missione diplomatica composta da quattro feziali) è efficacemente difesa da Turelli 2011, pp. 222-224.
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sul rito in generale e sulle funzioni dei feziali, vedi Ogilvie 1965, pp. 127-135; sull’espressione “res repetere” e sulla “indictio belli”, vedi Oakley 1997-2005 ad Liv. 7, 32.1-2). Per quanto riguarda il termine “orator” in questa accezione, vedi OLD 1263.1. La guerra che fosse stata dichiarata seguendo questa trafila era definita “bellum iustum”. Che l’aggettivo “pium” adoperato da Varrone nel frammento sia un equivalente di “iustum” è confermato dalla formula riportata da Liv. 1, 32.6, iuste pieque legatus venio verbisque meis fides est e da Cic. rep. 2, 31, (sc. Tullus rex) constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque impium iudicaret; cfr. Liv. 9, 8.6, exsolvamus religione populum, si qua obligavimus, ne quid divini humanique obstet quo minus iustum piumque de integro ineatur bellum; 33, 29.9, iusto pioque bello (cfr. 42, 47.8); 39, 36.11, pro vobis igitur iustum piumque bellum suscepimus; Suet. Galba 10.4, ut nemini dubium esset iustum piumque et faventibus diis bellum suscipi; Flor. 1, 34 (= 2, 19).5 prius … iusta illa et pia cum exteris gentibus bella memorabimus, ut magnitudo crescentis in dies imperii appareat, tum ad illa civium scelera turpesque et impias pugnas revertemur140 (la menzione di “pia bella” a Curt. 6, 3.18 non è del tutto sovrapponibile al fr. 72, in quanto in questo caso il contesto suggerisce di dare all’espressione piuttosto il significato di “guerre combattute per una giusta causa”; lo stesso discorso può valere per Curt. 5, 8.15 e Sil. 15, 162); per converso, vedi Plaut. Amph. 246, foedant et proterunt hostium copias iure iniustas (nel prologo della stessa commedia, Mercurio, presentandosi significativamente come ambasciatore, “orator”, del padre Giove, sembra giocare proprio con il formulario relativo al “bellum iustum”, vedi vv. 32-34, ed. Lindsay: propterea pace advenio et pacem ad vos fero: / iustam rem et facilem esse oratam a vobis volo, / nam iustae ab iustis iustus sum orator datus). Soprattutto dal brano di Cicerone si evince come a “iustum/pium” vada dato il significato di “cosa svolta attenendosi scrupolosamente al cerimoniale” (vedi OLD 986.1): una guerra era considerata “legittima” qualora fosse stata dichiarata seguendo senza errori tutti i riti tradizionalmente previsti dal caso.
Bessone 2008, p. 53, n. 66 a proposito di questo passo di Floro nota: «la ricorrenza di pius potrebbe, con le dovute cautele, ascriversi a reminiscenza varroniana» (vedi anche p. 58, n. 87). Cfr. anche l’espressione “impias pugnas” con “belli horribilis” del fr. 114.
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Un buon parallelo per il contenuto del fr. 72 è dato da l. L. 5, 86, fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum … ex his mittebantur, antequam conciperetur, qui res repeterent. Tuttavia, un confronto fra i due luoghi varroniani lascia emergere il carattere proprio del de vita. Se nel brano del de lingua Latina predomina l’interesse antiquario e le informazioni sono trasmesse per mezzo di una scrittura piana e quasi sciatta, il fr. 72 mostra una evidente enfasi retorica e la descrizione delle funzioni dei feziali è subordinata a intenti di carattere celebrativo. La finalità principale del frammento sembra essere infatti quella di sottolineare con quanto scrupolo gli antichi Romani seguissero le norme prescritte dalla tradizione anche nelle dichiarazioni di guerra e di esaltare questa loro “diligentia”, piuttosto che quella di fornire un resoconto dettagliato del cerimoniale in questione. Questo conferma l’ipotesi che nel de vita, rispetto alle opere dal taglio più marcatamente enciclopedico, il racconto delle vicende storiche e la presentazione di dati antiquari fossero accompagnati da una sorta di commento morale dell’autore. Anche l’abbondanza di artifici stilistici presente nella prima parte della citazione (il dicolon “et tarde et magna diligentia”; la litote “bellum nullum nisi pium”; la resa della perifrastica passiva per mezzo del costrutto “geri oporere”, cfr. fr. 70, sexagenarios de ponte deici oportere) testimonia il carattere maggiormente letterario del de vita rispetto alle antiquitates e alle sezioni antiquarie del de lingua Latina. L’elaborazione formale del frammento, infine, mi porta a sospettare che costituisse la frase di apertura di una sezione dedicata alle funzioni dei feziali e ai riti da loro compiuti. L’enfasi del dettato infatti si presta bene a una presentazione solenne, volta ad attirare l’interesse del lettore sul nuovo argomento, che probabilmente nel seguito sarebbe stato trattato in termini più prosastici. 73 (= 76 R.; 387 S.) Verbatus ferebat verbenam; eidem erat caduceus pacis signum, quam Mercuri virgam possumus aestimare 1: verbenarius appellatus quod scripsi; verbenarius Kettner collato Plin. n. h. 22, 5; verbrunatus (verbrutnatus AA) codd., verbenatus Mercier, edd. | eidem erat Müller, Rip.; id erat codd., Sal.; derat Lindsay (“fortasse” in app.); 2: quam (iam codd., corr. Kettner) Mercuri virgam possumus aestimare Nonio tribui Non. p. 848.16-18: CADVCEVM pacis signum Varro pronuntiat de vita populi Romani lib. II. 297
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era detto “verbenario” poiché recava un ramoscello sacro (verbena); lo stesso aveva anche, come simbolo di pace, il “caduceo”, che possiamo intendere come la verga di Mercurio Anche questa citazione, come il fr. 72, sembra riferirsi ai feziali: stando all’interpretazione vulgata, riguarderebbe il legato designato col nome di “verbenarius”. Si è detto che il fr. 72, come suggerito da alcuni tratti stilistici, sembra costituire l’introduzione a una parte del secondo libro dedicata alle procedure della dichiarazione di guerra e alle funzioni dei feziali. Nell’ambito di questa trattazione Varrone poteva chiarire che ad alcuni legati (come il “pater patratus” o il “verbenatus” citato nel frammento) era dato un titolo determinato, in virtù della natura specifica dei loro compiti. Se il fr. 73 trovava posto in un contesto del genere, è logico pensare che dovesse seguire la frase introduttiva all’intera sezione: per questo motivo, ho collocato il fr. 73 dopo il fr. 72. La ricostruzione del contenuto del frammento dipende da un passo di Plinio (n. h. 22, 5) in cui è detto che fra gli attributi dei legati compariva anche la “verbena” e che, per questo motivo, fra i feziali incaricati della missione diplomatica ve ne era sempre uno detto “verbenarius”: non aliunde (sc. ex ignobilibus herbis) sagmina in remediis publicis fuere et in sacris legationibusque verbenae. Certe utroque nomine idem significatur, hoc est gramen ex arce cum sua terra evolsum, ac semper e legatis, cum ad hostes clarigatumque mitterentur, id est res raptas clare repetitum, unus utique verbenarius vocabatur (cfr. Fest. p. 424.34-426.2 L. sagmina vocantur verbenae, id est herbae purae, quia ex loco sancto arcebantur a consule praetoreve, legatis proficiscentibus ad foedus faciendum bellumque indicendum). La notizia che le “verbenae” (dei ramoscelli colti da piante consacrate e usati come insegne dai sacerdoti, dai supplici e dagli ambasciatori, vedi Daremberg-Saglio vol. 5, p. 736; OLD 2033) fossero recate dai legati ricorre anche in altre fonti (Liv. 30, 43.9; Serv. ad Aen. 12, 120), anche se Plinio costituisce l’unica fonte per la notizia che uno dei componenti della delegazione era detto “verbenarius”. Il confronto fra il fr. 73 e il parallelo di Plinio su questo punto pone un primo problema testuale. I codici di Nonio tramandano infatti il probabile soggetto di “ferebat verbenam” nella forma corrotta “verbrunatus” (nella famiglia AA la stringa è tradita come “verbrutnatus”). Kettner, sulla base di Plinio, corregge la vox nihili tramandata da Nonio in “verbenarius”, mentre Mercier, seguito dagli editori successivi, preferisce restituire la forma “verbenatus”. Sospetto che questa 298
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seconda soluzione abbia riscosso successo per via della sua apparente maggiore vicinanza paleografica rispetto al tradito “verbrunatus” (per quanto non si vede sulla base di quale confusione grafica il gruppo ru si sia potuto generare all’interno della parola “verbenatus”); tuttavia, da un lato, in questo punto il testo di Nonio si mostra così corrotto da non costituire una base affidabile per una congettura esclusivamente paleografica, dall’altro, la stringa “verbrunatus”, a ben guardare, potrebbe suggerire tanto “verbenatus” quanto “verbenarius”. Plinio attesta che uno dei legati era detto “verbenarius”; nel fr. 73 non c’è una menzione esplicita dei legati o dei feziali, ma il riferimento al caduceo e la menzione di un “pacis signum” si accordano bene con l’ipotesi che nella citazione si parlasse di un ambasciatore (sul caduceo come caratteristica di un legato, vedi Paul. p. 44.11; Serv. ad Aen. 1, 297; 4, 242; Liv. 44, 45.1-2, Perseus … oratores cum caduceo ad Paulum misit). Accogliendo la correzione di Kettner, i due passi sarebbero dunque complementari: il legato che “ferebat verbenam” era appunto il “verbenarius” di cui parla Plinio. Viceversa, non abbiamo alcuna attestazione del termine “verbenatus” come titolo di un ambasciatore. L’unica occorrenza sicura del termine (Suet. Cal. 27.2) ha un significato del tutto diverso: si parla di uno sventurato che Caligola avrebbe fatto sfilare per le strade di Roma acconciato come una vittima sacrificale, con fronde e bende consacrate (“verbenatum infulatumque”), per poi farlo precipitare da un burrone. Ciò rende l’intervento di Kettner di gran lunga preferibile rispetto a quello di Mercier. È vero che scrivere “verbenarius” potrebbe apparire una normalizzazione di Varrone sulla base di Plinio: data l’estrema scarsità di notizie in proposito, non possiamo infatti escludere che Varrone definisse “verbenatus” il legato chiamato “verbenarius” da Plinio. Tuttavia va tenuto presente che “verbenatus” è a sua volta una correzione; a questo punto, fra due interventi congetturali, preferisco accogliere quello sostenuto da un buon parallelo rispetto a uno che implicherebbe di dare a una parola un significato non altrove attestato. Inoltre, a favore di “verbenarius” si potrebbe citare anche il fatto che il suffisso -arius è comunemente impiegato nella formazione di termini che definiscano un particolare impiego pubblico o un determinato grado militare (cfr. al fr. 84, il termine “ferentarius” e al fr. 86 “rorarius”). Per questi motivi seguirei Kettner nell’adottare la forma “verbenarius”. Tuttavia, una difficoltà permane anche col testo di Kettner: “verbenarius ferebat verbenam”. In primo luogo, il passaggio da “verbenarius” al tradito “ 299
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natus” non è immediato né facile da spiegare. In secondo luogo, l’andamento qui assunto dal discorso sarebbe anomalo rispetto alle modalità adottate da Varrone negli altri frammenti del de vita di tono analogo. Nelle altre citazioni in cui sono presentate istituzioni e cariche pubbliche o militari, infatti, la descrizione dei compiti propri della carica o del grado in questione è sempre usata per giustificare un’etimologia, vedi frr. 67, 68, 69, 84, 85, 86. È vero che Nonio, interessato soprattutto a riportare citazioni da cui emergesse la proprietas verborum, potrebbe aver selezionato esclusivamente brani del de vita dove erano fornite delle etimologie, in modo da influenzare in parte anche la nostra idea dell’opera. Ciò nonostante, il fr. 73 sarebbe l’unico a dire semplicemente “il verbenarius portava la verbena”, mentre, sulla base del confronto con i frammenti di contenuto simile, si aspetterebbe piuttosto che Varrone articolasse il discorso nella forma “lo chiamavano verbenarius perché portava la verbena”. Anche sul piano paleografico, forse un modo non impossibile di giustificare la genesi della forma “verbrunatus” potrebbe essere pensare alla conflazione di “verbenarius” e di un aggettivo (o un participio perfetto) terminante in –atus. Se le cose sono andate così, allora dovremmo sospettare che fra “verbenarius” e “ferebat verbenam” possa essere caduto qualcosa. Tenendo conto di quanto detto sulle modalità con cui Varrone suole presentare un vocabolo, la mia proposta è che il luogo originale potesse avere un testo come “verbenarius appellatus, quod ferebat verbenam”. “Verbenariusappellatus”, per errori meccanici, potrebbe essersi corrotto fino a diventare “verbrunatus”, mentre “quod” potrebbe essersi perduto o perché abbreviato (in tal caso il compendio, di una sola lettera, sarebbe stato accorpato alla stringa precedente e si sarebbe corrotto con essa) o in seguito al rabberciamento di un copista che, riconoscendo in “verbrunatus” un sostantivo, avesse scritto “verbrunatus ferebat verbenam”. Per la forma del perfetto “appellatus”, con “est” sottointeso, vedi fr. 12, ab eo calendae appellatae; fr. 26, ex ea herba torta torum appellatum; fr. 27, nominati ita eo quod pisunt; fr. 33, id vinum calpar appellatum, fr. 85, a quo optiones … appellati; fr. 86, rorarii appellati (vedi anche la mia proposta di correzione “curia appellata” al fr. 69). La seconda parte del frammento pone una nuova difficoltà: stando al testo tradito, Varrone fornirebbe un’improbabile identificazione della “verbena” col caduceo. I codici di Nonio, dopo “ferebat verbenam”, hanno “id erat caduceus pacis signum”. Comunque si intenda “id”, si pongono dei problemi. Una prima possibilità sarebbe riferire “id” a “pacis signum” e di intendere “erat caduceus” 300
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come un predicato nominale: “questo simbolo di pace (la verbena) era il caduceo”. L’ordo verborum tradito, però, non favorisce questa interpretazione del testo, che richiederebbe piuttosto l’ordo “id pacis signum erat caduceus”. Una seconda strada potrebbe essere riferire “id” a “verbenam” e prendere “pacis signum” come apposizione di “caduceus”, interpretando l’intero passo come “il verbenario … recava la verbena: si trattava del caduceo, un simbolo di pace”. In questo caso, si pone però un problema di concordanza: l’impiego del neutro “id” come correlativo di “verbena” è particolarmente duro e tutta la frase, con i ripetuti cambi di genere del soggetto e dei termini ad esso riferiti, manca di ordine e chiarezza. A prescindere da queste difficoltà di ordine sintattico, entrambe le interpretazioni proposte impongono un’identificazione della “verbena” con il caduceo. Questo dato, sebbene Riposati 1939, p. 179 lo presenti come scontato («Varrone la riteneva simbolo di pace, simile in tutto al caduceo di Mercurio»), non è supportato da alcun parallelo, mentre le fonti attestano che il caduceo e la “verbena”, pur essendo entrambi oggetti distintivi dei legati, erano due cose diverse: con il termine “verbena” si indicava un rametto verdeggiante o una zolla di terra provenienti da una pianta consacrata (vedi supra), mentre il caduceo era il bastoncino circondato da due serpenti, attributo del dio Mercurio (come attesta anche il seguito del frammento) e insegna distintiva degli araldi e dei legati. È vero che tanto la “verbena” quanto il caduceo potevano essere dei ramoscelli, ma mentre la prima manteneva le foglie (cfr. Serv. ad ecl. 8.65, verbenae dicuntur virgulta, quae semper virent), il caduceo, essendo uno scettro, era privo di verzura e levigato. D’altro canto, Nonio stesso sembra negare che Varrone identificasse la “verbena” con il caduceo. Il grammatico, infatti, introduce la citazione dal de vita con le seguenti parole: CADVCEVM pacis signum Varro pronuntiat. Considerato quanto spesso detto sulla scarsa indipendenza di Nonio rispetto alla sua fonte, la voce attesta che egli trovasse interessante, nella frase del de vita che riporta, soprattutto la definizione del caduceo come “pacis signum”. Ora, sebbene un argomento ex silentio non possa essere cogente, mi sembra davvero strano che, se davvero il testo di Varrone identificava il caduceo con la “verbena”, Nonio non abbia segnalato la cosa (con un’aggiunta del tipo “et eum verbenam putat”), contravvenendo al modo in cui abitualmente si comporta in questi casi. Ritengo invece più probabile che Nonio, volendo riportare la parte sul caduceo, che aveva inizialmente attratto la sua attenzione, si sia accorto che nelle immediate vi301
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cinanze della menzione del caduceo compariva un altro termine raro, “verbena” appunto. Per questo motivo, potrebbe aver deciso di estendere la citazione anche alle parole che precedevano “caduceus pacis signum…”, così da racchiudere due voci interessanti nell’ambito di un unico lemma. L’accostamento delle menzioni della “verbena” e del caduceo, se le cose stanno così, sarebbe dunque il risultato di un’operazione “meccanica” da parte di Nonio e, pertanto, l’identificazione dei due oggetti non sarebbe giustificata. Proprio al fine di evitare questa confusione di “verbena” e caduceo, sono state proposte due correzioni al testo. Lindsay propone dubitanter di modificare “id erat” in “derat”: in questo modo il frammento direbbe che un legato “portava la verbena; (gli) mancava (invece) il caduceo, un simbolo di pace…”. Sebbene la correzione “derat” sia ingegnosa, il senso dato dal testo di Lindsay non è affatto soddisfacente. Non si vede infatti per quale motivo Varrone avrebbe dovuto impiegare tante parole per descrivere proprio un oggetto che il legato non aveva. Inoltre, che i legati avessero un caduceo è un dato sicuro, tanto che venivano designati anche col nome di “caduceatores” (vedi Serv. ad Aen. 1, 297; 4, 242). Si potrebbe ipotizzare che Varrone dicesse, nella parte precedente il fr. 73, che tutti i legati portavano il caduceo, tranne il “verbenarius”, che invece “ferebat verbenam”; tuttavia, anche così non si capirebbe per quale motivo la descrizione del caduceo venisse fornita qui e non prima, all’inizio della sezione. Del resto, con “derat caduceus” anche la sintassi è traballante, dal momento che ci vorrebbe un dativo (“ei”, “verbenario”) per indicare a chi mancava il caduceo. Una lettura alternativa potrebbe essere prendere “derat caduceus” in senso assoluto: “mancava il caduceo”, per cui il frammento direbbe “il legato recava la verbena: non si era ancora diffuso il caduceo, simbolo di pace che possiamo identificare con la verga di Mercurio”. Un’ipotesi del genere almeno giustificherebbe la presenza della menzione del caduceo a questo punto, ma, dati lo stato problematico della prima parte del frammento e i dubbi circa il contesto originario della citazione, non può essere sostenuta con sicurezza e presenta troppi punti in cui il testo andrebbe sovrainterpretato. Müller, invece, propone di correggere “id erat” in “eidem erat”: la forma compendiata “eidē” si sarebbe ridotta a “eid” per aplografia e il testo risultante “eiderat” sarebbe stato rabberciato in “id erat”. Questo intervento, semplice ed economico, migliora senza dubbio la sintassi del brano e fornisce un buon legame logico fra la prima e la seconda parte del frammento. Varrone 302
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direbbe che il medesimo legato che “ferebat verbenam”, di cui si parla nella prima parte della citazione, aveva anche il caduceo. Si potrebbe obiettare che “eidem” potrebbe essere un pronome troppo forte e che basterebbe un dimostrativo meno marcato, ad esempio “ei”. Questo potrebbe essere vero qualora si prendesse tutto il frammento come un’unica frase: “verbenarius ferebat verbenam; ei erat caduceus…”. Tuttavia, se si adotta la mia proposta di supplemento “verbenarius ferebat verbenam”, il fr. 73 verrebbe ad essere composto, se non proprio da due frasi, da due blocchi distinti (uno relativo all’etimologia del “verbenarius”, l’altro alla sua funzione) che necessiterebbero di essere collegati da un termine piuttosto marcato, come potrebbe essere appunto “eidem”: “verbenarius ferebat verbenam; eidem (sc. verbenario) erat caduceus…”. Accolgo dunque, come già Riposati, la congettura di Müller a testo. L’ultima parte del frammento fornisce una sorta di Romana interpretatio del termine “caduceus”: Varrone direbbe che questo va identificato con la verga circondata da serpenti propria di Mercurio141. L’identificazione è corretta, forse un po’ scontata. Oltre alla banalità dell’informazione, anche la forma della nota presenta un costrutto, “possumus aestimare”, poco consono all’usus varroniano (i casi di l. L. 8, 10, “colligare possumus” e 9, 41 “dicere possumus” sono falsi paralleli, in quanto in questi passi il verbo “possum” ha un valore tecnico e il senso dell’espressione è “noi parlanti latino ammettiamo queste due possibilità nella coordinazione (a 8, 10) / nella flessione (a 9, 41) delle parole”), nonché l’impiego del verbo “aestimare” che in Varrone non è mai attestato. Per questi due motivi, sospetto che le parole “quam Mercuri virgam possumus aestimare” siano un’aggiunta di Nonio alla citazione dal de vita, che si interrompeva a “pacis signum”: la frase è davvero fiacca e in bocca a Varrone non avrebbe senso. Propongo quindi di far finire il frammento di Varrone a “pacis signum” e di considerare il seguito come parte della voce di Nonio.
È comunque interessante notare che, proprio a causa del caduceo che lo contraddistingue, Mercurio viene presentato da Ov. fast. 5, 665-666, pacis et armorum superis imisque deorum / arbiter proprio come un legato romano.
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74 (= 63 R.; 380 S.) , quibuscum turpe fecerant foedus sine publico consilio, dediderunt hosti. quid quod Decius imperator pro exercituis salute se dis Manibus devovit? 1: e.g. supplevi; 1-2: a quibus ictum turpe fecerant Popma; 2: dederunt codd., corr. Quicherat | hostibus Kettner | quid quod Palmerius | quid quod L; quodquod CA; quotquot BA; quod AADA; 3: pro LAABA; propter CADA | exerciti codd., Rip.; corr. Kettner, quem secutus Havet «Archiv» 1, 1884, 443 Non. p. 779.13-21: EXERCITI vel EXERCITVIS, pro exercitus. […] Varro de vita populi Romani lib. II.
consegnarono al nemico , con i quali avevano stretto un patto vergognoso senza aver prima ottenuto la pubblica autorizzazione. E che dire del fatto che Decio, in qualità di comandante supremo, offrì se stesso in voto agli dei Mani per la salvezza dell’esercito? La citazione presenta dei riferimenti sicuri a due celeberrimi episodi: la consegna ai Sanniti dei consoli che, dopo la sconfitta alle Forche Caudine, avevano accettato condizioni di resa umilianti, senza chiedere l’autorizzazione del senato, e la devotio di Decio Mure. Si tratta di due exempla tradizionali della fedeltà degli antichi Romani alla parola data e del loro spirito di sacrificio per il bene della collettività. Riguardo al contesto del frammento, una possibile soluzione sarebbe pensare che Varrone inserisse questo accenno ad episodi delle guerre sannitiche all’interno del sunto storico che componeva la parte “narrativa” del l. 2. È questa l’idea di Riposati e di Salvadore, che pubblicano il fr. 74 (ed il successivo fr. 75) dopo le citazioni relative all’incendio gallico (frr. 63-64). L’ordinamento dato da questi editori va però in parte corretto, in quanto presuppone due assunti indimostrabili: in primo luogo, che Varrone riassumesse tutte le vicende dall’istituzione della Repubblica allo scontro con Pirro in un’unica sezione narrativa e poi che questo resoconto storico comparisse in apertura del secondo libro (Riposati e Salvadore, infatti, stampano i frammenti in cui si rintracciano allusioni a fatti storici prima di tutte le altre citazioni attribuite da Nonio al secondo libro). Tuttavia, si è detto nel capitolo sulla struttura del l. 2 (vedi supra) che con buona 304
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probabilità, come mostra l’applicazione della “lex Lindsay”, in questo libro la parte narrativa e quella antiquaria non erano distinte e giustapposte, ma si intersecavano, con le varie sezioni antiquarie che interrompevano di volta in volta il racconto storico a mo’ di excursus. Stando così le cose, non è affatto detto che il frammento sulle guerre sannitiche seguisse a breve distanza quelli sull’incendio gallico, ma fra l’uno e gli altri poteva intercorrere uno spazio notevole e Varrone avrebbe potuto toccare una quantità indefinita di altri argomenti. Allo stesso modo, non è scontato che il fr. 75 (probabilmente relativo alla guerra contro Pirro) comparisse subito dopo il fr. 74 o almeno nell’ambito della stessa sezione, poiché, considerato che il racconto storico si sviluppava lungo il corso di tutto il libro, fra le due citazioni poteva intervenire moltissimo materiale diverso. Pur rifiutando l’idea di Riposati e Salvadore di un’ampia sezione storica in apertura del l. 2, rimane valida l’ipotesi che il frammento comparisse comunque nell’ambito di un riassunto di storia romana. Discutendo i frammenti precedenti, si è supposto che Varrone, giunto al racconto dell’istituzione delle leges Liciniae Sextiae, interrompesse la narrazione storica con l’ampia digressione dedicata al funzionamento delle istituzioni repubblicane in ambito civile e militare. Una volta conclusa questa sezione, l’autore poteva riprendere le fila del racconto e passare alla presentazione degli eventi successivi, fra cui le guerre sannitiche, oggetto del fr. 74. Va però notato che il frammento allude agli episodi della consegna dei consoli e del sacrificio di Decio Mure in modo estremamente rapido, forse troppo cursorio anche per una narrazione sintetica: la conoscenza dei fatti da parte del lettore è quasi data per scontata e lo svolgimento delle due vicende è appena accennato. Il fine principale del frammento non sembra tanto quello di raccontare due episodi rilevanti delle guerre sannitiche, quanto quello di sottolinearne agli occhi del lettore la grandezza e l’esemplarità: questo intento è reso evidente dalla mossa retorica con cui l’exemplum di Decio Mure è presentato per mezzo di una sorta di preterizione (“e che dire del fatto che…?”). Queste considerazioni mi portano a pensare che il fr. 74, piuttosto che comparire nell’ambito di un racconto, facesse parte di un punto del l. 2 in cui Varrone si abbandonava a commenti moralistici ed esaltava la virtus degli antichi. Propongo quindi una seconda soluzione circa l’originario contesto del fr. 74. Varrone, una volta conclusa la sezione antiquaria sulle istituzioni pubbliche e sul diritto militare, poteva avviare una tirata retorica in cui erano celebrate la giustizia dell’antico ordinamento e la rettitudine degli antichi Romani, pronti a sacrificare se stessi per il bene 305
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della Repubblica. Nell’ambito di un discorso del genere la menzione degli exempla della deditio dei consoli e di Decio Mure troverebbe una collocazione del tutto naturale. E non solo: se, da un lato, il fr. 74 può costituire un buon elemento per una parte in cui Varrone chiudeva la sezione sull’ordinamento repubblicano con dei commenti moralistici, dall’altro, l’accenno ad episodi delle guerre sannitiche sarebbe anche un buon modo per riprendere le fila del racconto storico e passare al sunto delle vicende di questo scontro. Sospetto dunque che il fr. 74 comparisse nell’ambito di un punto di trapasso, retoricamente elaborato, fra la sezione antiquaria sulle istituzioni e la ripresa della parte narrativa. La prima parte del frammento è tradita dai codici di Nonio nella forma mutila “quibuscum turpe fecerant foedus sine publico consilio dediderunt hosti”. La vicenda adombrata in queste parole andrebbe cercata fra gli episodi salienti della conquista dell’Italia da parte di Roma, in quanto la successiva menzione della devotio di un Decio Mure (potrebbe trattarsi tanto del console del 340 a.C., quanto del figlio omonimo, che si sarebbe votato, come il padre, durante la battaglia di Sentino del 295 a.C.) impone di non pensare a vicende cronologicamente troppo lontane dal periodo compreso fra la prima e la terza guerra sannitica. In particolare, quanto ricavabile dagli scarni resti del frammento si accorda molto bene con le informazioni trasmesse circa un episodio specifico, quello della consegna ai Sanniti dei consoli che avevano trattato con loro una pace ignominiosa dopo la sconfitta subita alle Forche Caudine (321 a.C.; per un racconto dettagliato della vicenda vedi Liv. 9, 3-10). Bloccati in una posizione senza possibilità d’uscita e circondati dai nemici, i consoli Tito Veturio e Spurio Postumio avrebbero accettato le condizioni di resa umilianti proposte dai Sanniti per evitare il completo annullamento dell’esercito. Questa resa ignominiosa (comportava anche l’affronto di dover passare disarmati sotto il giogo) era stata però conclusa dai consoli senza il voto favorevole dei comitia e la ratifica del senato, motivo per cui, una volta ricondotto l’esercito a Roma, lo stesso console Postumio avrebbe sostenuto che la pace con i Sanniti non poteva essere ritenuta legalmente valida e avrebbe esortato i Romani a riprendere le ostilità come se non fosse stato concluso alcun accordo. Tuttavia, avrebbe anche proposto di venire consegnato come ostaggio ai Sanniti, insieme al collega con cui si era arreso, in modo da far ricadere sul proprio capo l’ira dei Sanniti per la violazione dei patti. Questo exemplum di sacrificio personale per il bene della collettività ricorre anche in altri autori (vedi Salvadore 2004, pp. 92-93) in termini molto simili 306
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a quelli del fr. 74; si noti in particolare Cic. off. 3, 109, T. Veturius et Sp. Postumius, cum iterum consules essent, quia … legionibus nostris sub iugum missis pacem cum Samnitibus fecerant, dediti sunt iis; iniussu enim populi senatusque fecerant … atque huius deditionis ipse Postumius qui dedebatur suasor et auctor fuerit e Liv. 9, 8.5, qua (sc. sponsione) tamen, quando iniussu populi facta est, non tenetur populus Romanus, nec quicquam ex ea praeterquam corpora nostra debentur Samnitibus. Dedamur per faetiales nudi vinctique, exsolvamus religione populum; si veda anche 9, 8.11 dove il trattato di resa ai Sanniti è definito tam foedae pacis (9, 8.1, ignominiosae pacis), analogamente all’espressione “turpe foedus” impiegata nel fr. 74 (cfr. Flor. 1, 16.9, consules statim magnifice voluntaria deditione turpitudinem foederis dirimunt; perioch. in Liv. 9, tam deforme foedus). Una volta individuato il probabile oggetto della prima parte del frammento, rimangono le difficoltà poste dallo stato incompleto della citazione. La frase “quibuscum turpe fecerant foedus sine publico consilio dediderunt hosti” manca infatti di un soggetto, di un oggetto e, soprattutto, di un termine riferito al relativo “quibuscum”. Se il soggetto (i Romani) e l’oggetto (i consoli) possono essere facilmente integrati a senso, il referente di “quibuscum” causa dei problemi. Ora, il “turpe foedus” non può essere stato concluso con altri che con i Sanniti, ma i medesimi Sanniti sono anche l’“hostis” cui i consoli furono consegnati. Ciò nonostante, il tentativo di riferire “quibuscum” a “hosti” (avanzato da Canal - Brunetti), intendendo il frammento come “consegnarono (i consoli) al nemico, con cui avevano stretto un patto umiliante”, è di una durezza inaccettabile sul piano della sintassi. È vero che “hostis” potrebbe anche assumere un senso collettivo (“il Nemico” ossia “l’insieme dei nemici”), ma è davvero difficile che potesse essere riferito a un pronome plurale: anche volendo prendere “hostis” come termine collettivo, la concordanza normale sarebbe stata ugualmente “dediderunt hosti, quocum”. Kettner si rende conto del problema e corregge “hosti” in “hostibus”: un intervento troppo normalizzante per poter essere accolto. Preferisco dunque immaginare che, nella parte della frase precedente a “quibuscum” ed esclusa dal taglio di Nonio, comparisse un termine al plurale cui era riferito il pronome relativo. Dal momento che, nel seguito della citazione, la devotio di Decio Mure è indicata in modo particolarmente rapido, quasi ridotta soltanto a un accenno, è probabile che anche l’episodio della deditio dei consoli fosse riferito da Varrone con estrema sinteticità. Per questo ipotizzo che, nella parte del frammento non citata da Nonio, Varrone non fornisse un resoconto dettagliato dei fatti, ma si limi307
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tasse a indicare quali fossero i protagonisti della vicenda (sulla base del confronto con l’allusione a Decio Mure, sospetto infatti che anche alla deditio dei consoli Varrone non dedicasse più di una frase, di cui le parole trasmesse da Nonio costituiscono già una gran parte). Il senso richiede che vadano integrate senz’altro una menzione dei consoli (oggetto di “dediderunt”) e una dei Sanniti (a cui va riferito “quibuscum”) e, come si è detto sopra, ciò dovrebbe avvenire occupando il minor spazio possibile. Fra le varie integrazioni exempli gratia immaginabili, quella che mi sembra possa riunire nel modo più sintetico tutti gli elementi richiesti è “senatus populusque Romanus consules missos adversus Samnites”. In questo modo si fornisce un soggetto, “senatus populusque Romanus”, e un oggetto, “consules missos adversus (o “contra”) Samnites”, al verbo “dediderunt”. Con l’integrazione “missos adversus Samnites” si ottiene anche un termine correlato a “quibuscum”, restaurando una sintassi accettabile; d’altronde, date l’estrema rapidità con cui Varrone accenna agli episodi storici in questo frammento e la possibilità che i due exempla citati nel fr. 74 comparissero nel contesto di una tirata moraleggiante generale e non di un resoconto ordinato delle guerre sannitiche, ritengo probabile che Varrone menzionasse i Sanniti per la prima volta in questa frase e che, di conseguenza, l’integrazione “missos adversus Samnites” non sia solo un modo di puntellare “quibuscum”, ma trovi giustificazione nel fatto che senza di essa probabilmente il lettore non avrebbe mai avuto modo di capire che l’episodio in questione andava attribuito alle guerre sannitiche. Nella seconda parte del frammento Varrone accenna all’episodio della devotio di Decio Mure. L’exemplum di Decio è presentato al lettore per mezzo di un’interrogativa retorica, espendiente che varia il discorso e conferisce al dettato una certa vivacità. Inoltre, l’estrema concisione della frase mette in particolare risalto l’aspetto della vicenda di Decio che sembra maggiormente premere a Varrone, il sacrificio personale per il bene della comunità. Circa il valore esemplare in tal senso delle due vicende, la deditio dei consoli e la devotio di Decio, è interessante notare come queste siano affiancate anche in Livio, quando, nel racconto drammatizzato della consegna dei consoli ai Sanniti, è messo in scena un immaginario dibattito in cui il gesto eroico di Postumio viene equiparato dai suoi contemporanei proprio a quello di Decio (9, 10.3): Postumius in ore erat; eum laudibus ad caelum ferebant, devotioni P. Decii consulis, aliis claris facinoribus aequabant. In questo brano, poiché il confronto, da parte del popolo, fra il sacrificio di Decio e quello dei consoli avviene in un dibattito virtuale che Li308
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vio immagina come avvenuto nel 321 a.C., la cronologia impone di identificare Decio Mure come il console del 340 a.C. che aveva offerto se stesso in sacrificio in cambio della vittoria dell’esercito contro i Latini (vedi Liv. 8, 9). Nel caso del fr. 74, invece, Varrone non fornisce abbastanza elementi per capire se stia alludendo anche lui a questo episodio o piuttosto alla analoga devotio tradizionalmente attribuita al figlio di Decio Mure, che si sarebbe votato agli Dei Mani, seguendo l’esempio del padre, durante la battaglia di Sentino del 295 a.C. (vedi Liv. 10, 28; Salvadore 2004, pp. 93-94 riporta come paralleli tanto passi in cui si parla della devotio di Decio padre quanto passi relativi a quella di Decio figlio, senza operare alcuna distinzione fra i due episodi, ma riunendo tutto il materiale sotto il titolo “de Decii devotione”). Il fatto che Varrone parli della devotio dopo aver accennato alla consegna dei consoli ai Sanniti potrebbe costituire un piccolo indizio, ammesso che Varrone presentasse gli exempla seguendo l’ordine cronologico, a favore dell’identificazione del Decio del frammento con il Decio figlio (mentre è improbabile che si possa trattare di un terzo Decio Mure, nipote del primo, che si sarebbe sacrificato, come il nonno e il padre, durante la battaglia di Ascoli Satriano del 279 a.C., poiché questa vicenda, propria della guerra contro Pirro, sarebbe troppo lontana dall’episodio della deditio dei consoli e rientrerebbe in una fase diversa della storia romana, quella dello scontro non più con i popoli italici, ma con le altre potenze mediterranee). Tuttavia, ritengo che difficilmente Varrone avrebbe potuto aggiungere altro, oltre a quello già detto nella parte di frammento preservata, circa il sacrificio di Decio. La domanda, asciutta e nervosa, è sufficiente per esprimere tutto il significato esemplare della devotio. Sospetto, pertanto, che lo stesso Varrone non avesse alcuna intenzione di suggerire l’identificazione di un Decio in particolare, ma si servisse dell’espressione “Decius imperator” per riferirsi in generale alla vicenda della devotio e al suo significato edificante. A Varrone celebrare il gesto di offrire la propria vita in cambio della salvezza dell’esercito interessava molto di più che indicare con precisione quale dei tre Decii avesse in mente. E non è nemmeno detto che dovesse avere in mente un Decio in particolare, così come, volendo fornire un altro celebre exemplum di valore, avrebbe potuto parlare in generale della morte di Fabio al Cremera, senza riferirsi specificamente a uno solo dei membri della gens Fabia caduti in quella battaglia. Stando al lemma di Nonio, la voce doveva riportare una o più citazioni in cui era attestata la forma del genitivo “exerciti” e una o più citazioni in cui era presente la forma “exercituis”. I codici di Nonio, 309
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tuttavia, presentano due citazioni, una da Accio e il nostro fr. 74, in cui compare esclusivamente la forma “exerciti”. Si potrebbe ipotizzare che, fra la citazione da Accio e il fr. 74, sia caduto del testo e che all’interno di questa lacuna trovasse posto la citazione dove era attestato il genitivo “exercituis”. Questa soluzione è però macchinosa e poco economica, mentre è molto più facile ammettere che Nonio citasse il frammento di Accio per la forma “exerciti” e quello del de vita per “exercituis” e che, per un errore di copia o per un tentativo di “regolarizzazione” del testo, in entrambe le citazioni sia stata posta la forma “exerciti”. Per questo motivo accolgo la correzione di Kettner in “exercituis” del tradito “exerciti” (sostenuta anche con buoni argomenti da Adams 2007, p. 433, n. 8); per un caso analogo (scelta della forma “senatuis” rispetto a “senati”), vedi fr. 98. La forma del genitivo in -uis, inoltre, sembra propria dell’usus varroniano ed è attestata anche in altri frammenti del de vita (frr. 23; 81). 75 (= 64 R.; 382 S.) qua abstinentia viri mulieresque Romanae fuerint, quod a rege munera eorum noluerit nemo accipere 1: quae CA | Romae Müller Non. p. 853.9-12: NEGATIVAS DVAS pro negativa una accipiendas Varro monstravit de vita populi Romani lib. II
(è prova) di quale continenza fossero dotati gli uomini e le donne romane il fatto che nessuno di loro abbia voluto accettare i doni mandati dal re (Pirro) Il frammento si riferisce con buona probabilità all’episodio del rifiuto da parte dei Romani dei ricchi doni inviati dal re Pirro per tramite dell’ambasciatore Cinea, con l’intento di corrompere la cittadinanza e ottenere la cessazione delle ostilità (sulle fonti relative a questa vicenda, vedi Salvadore 2004, pp. 95-96; RE XI, 1 coll. 473.20-476.54). Come nel fr. 74, l’episodio è delineato in modo particolarmente rapido ed è impiegato come exemplum a sostegno di una considerazione moraleggiante. Queste caratteristiche comuni mi portano a sospettare che i due frammenti appartenessero allo stesso contesto. Come si è detto nella discussione del fr. 74, sospetto che Varrone, in un punto del l. 2, sviluppasse un excursus in cui lodava la rettitudine e la virtuosità dei Romani del primo periodo repubblicano. Nell’ambito di questa celebrazione potevano essere menzionate 310
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singole vicende della storia di quel periodo, dal valore esemplare: nel fr. 74 la consegna dei consoli al nemico dopo le Forche Caudine e la devotio di Decio Mure sono presentate come massime testimonianze dello spirito di sacrificio e della dedizione allo Stato degli antichi Romani; analogamente, nel fr. 75 il rifiuto dei doni recati da Cinea è impiegato per illustrare un’altra virtù degli avi, la loro straordinaria “abstinentia” (da intendersi nel senso proprio di “capacità di trattenersi”, di resistere alle tentazioni dell’avidità). Credo che solo ipotizzando un contesto del genere per i frr. 74-75 si possano comprendere le ragioni della loro particolare struttura formale e delle loro numerose affinità. Certo, non è del tutto possibile escludere anche ricostruzioni alternative, ad esempio che i frammenti facessero parte di due sezioni storiche distinte, una dedicata alle guerre sannitiche e una allo scontro con Pirro, o anche che, delle due citazioni, soltanto una appartenesse a un excursus moraleggiante, mentre l’altra trovasse posto in una narrazione storica vera e propria (sul piano delle ipotesi tutto è possibile, anche che in realtà il fr. 74 e il fr. 75 appartenessero a due contesti diversissimi, per noi impossibili da ricostruire, e potessero comparire a notevole distanza l’uno dall’altro). Tuttavia, soluzioni del genere sono rese meno probabili dalla forma estremamente cursoria del riferimento agli episodi, una forma che si accorda bene col loro impiego come exempla nell’ambito di un discorso moralistico, mentre un resoconto storico, pur sintetico, avrebbe dovuto concedere maggior spazio alla narrazione delle vicende e una più ampia presentazione dei dati. L’identificazione del “rex” citato nel frammento con Pirro è pressoché sicura: infatti, a differenza di altri casi celebri di tentatata corruzione di un virtuoso romano (ad esempio, la storia del console Fabrizio), nel riferire l’episodio di Cinea le fonti insistono con particolare enfasi proprio sul fatto che non solo gli uomini, ma addirittura le donne avessero respinto le ricche offerte dell’ambasciatore. La precisazione “viri mulieresque Romanae” del nostro frammento sembra motivata dalla stessa ragione e permette di riferirne con buona probabilità il contenuto alla guerra contro Pirro. Sospetto che anche la particolare concordanza dell’aggettivo, dove sarebbe stata più usuale la iunctura “viri mulieresque Romani”, possa essere dovuta alla volontà di mettere in speciale risalto il ruolo delle donne romane come protagoniste di questo exemplum di continenza. Pertanto, la correzione di Müller “viri mulieresque Romae” rischia di essere una banalizzazione, che tra l’altro, eliminando la menzione enfatica delle donne, cancella proprio l’aspetto caratterizzante dell’episodio di Cinea. 311
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È interessante notare come il riferimento retorico al rifiuto dei doni di Pirro sia sfruttato anche da Livio, che, in un discorso messo in bocca a Catone il Censore in difesa della lex Oppia, impiega esattamente come Varrone l’episodio come exemplum della continenza degli antichi (al tempo della guerra con Pirro, non essendoci “luxuria”, non occorrevano leggi suntuarie, ma erano le donne stesse a limitare spontaneamente i propri consumi), vedi 34, 4.6: patrum nostrorum memoria per legatum Cineam Pyrrhus non virorum modo sed etiam mulierum animos donis temptavit. nondum lex Oppia ad coercendam luxuriam muliebrem lata erat; tamen nulla accepit. Come già notato da Kettner, la figura sintattica che ha indotto Nonio a citare il fr. 75 (il pleonasmo nella negazione “nemo … noluerit”) ricorre anche in un frammento delle Menippeae: fr. 45 A. τρόπων τρόπους qui non modo ignorasse me / clamat, sed omnino omnis heroas negat nescisse142. Su questa particolare forma di negazione, vedi HLS II 802-807 (in particolare p. 805 III A.d per la costruzione con “nolo”, cfr. Sen. clem. 1, 19.3); altre occorrenze in Varrone, spesso oscurate da interventi congetturali, si hanno a rust. 1, 17.3, neque enim si minus CCXL iugera oliveti colas, non (del. Madvig) possis minus uno vilico habere; 3, 2.16, quotus quisque enim est annus, quo non videas epulum aut triumphum aut collegia non epulari? (per la tendenza a normalizzare casi del genere, cfr. Prop. 2, 19.5). In Varrone vi sono anche casi di litoti coordinate con una congiunzione negativa e non affermativa, come richiederebbe il senso: rust. 1, 55.3 nec (ut Politianus) haec non minima causa; 3, 10.2 nec non (del. Victorius) aeque fit mansuetus143. A livello stilistico, segnalerei anche la scelta di introdurre un exemplum per mezzo di un’interrogativa indiretta, per cui cfr. frr. 6, 34 e 89. 76 (= 72 R.; 393 S.) hoc intervallo primum forensis dignitas crevit atque ex tabernis lanienis argentariae factae 1: credit codd., corr. H2 | lanienis La.c., lanignis rell.
O. Skutsch ha proposto una correzione al testo che normalizza il costrutto: “me scisse”. Va detto che in questo caso la proposizione è immediatamente precededuta da nec cum iis libenter congregantur, per cui l’impiego di “nec” potrebbe anche essere dovuto a una forma di attrazione. 142 143
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Non. p. 853.13-17: TABERNAS non vinarias solum, ut nunc dicimus, sed omnes quae sunt popularis usus, auctoritas Romana patefecit. Varro de vita populi Romani lib. II. 2: popularis BA; populares rell.
in questo lasso di tempo per la prima volta crebbe l’importanza del foro e le botteghe dei macellai furono trasformate in banchi di cambiavalute Il frammento descrive l’evolvere delle condizioni di Roma e l’inizio del suo arricchimento, probabilmente in seguito alle conquiste in Italia, prendendo come esempio la trasformazione del foro da semplice mercato di generi di prima necessità a sede di attività economiche rilevanti, quali i banchi di cambiavalute, che testimoniano, per questa fase della storia romana, l’esistenza di una regolare circolazione di monete e di scambi commerciali con il resto del Mediterraneo. Il testo della citazione non pone particolari problemi, mentre complessa è la questione dell’individuazione esatta dell’“intervallum” cui Varrone si riferirebbe (da ciò dipendono anche le ipotesi di collocazione del frammento nell’ambito del l. 2). Kettner propone di individuare i termini del lasso di tempo in cui sarebbe avvenuta la trasformazione delle botteghe dei macellai in banchi di cambio fra il 449 e il 310 a.C., sulla base di due passi di Livio (3, 48.5, dove si dice che il coltello con cui il padre di Virginia uccise la figlia proveniva da una delle botteghe dei macellai che erano nel foro, e 9, 40.16, in cui si menzionano delle botteghe di cambio ivi presenti). In realtà, il secondo passo (ut aurata scuta dominis argentariarum ad forum ornandum dividerentur) merita una discussione più approfondita. In primo luogo, il testo “dominis argentariarum (sc. tabernarum)” è una correzione del Muretus per il tradito “dominis argentariorum”. Per quanto si tratti di un intervento pressoché sicuro, ciò non basta per impiegare questo passo come terminus ante quem per l’introduzione delle “tabernae argentariae” nel foro. Come sospetta Oakley (vedi comm. ad loc.), infatti, Livio potrebbe aver rappresentato il foro del 310 a.C. come quello a lui contemporaneo, pullulante di banchi di cambio, senza tener conto del fatto che Roma non ebbe un proprio conio di denaro in argento prima del 269 a.C. (vedi frr. 20 e 94). Certo, non è esclusa la possibilità che dei banchi di cambio trovassero posto a Roma già prima dell’istituzione di una zecca ufficiale, per gestire le differenti valute straniere circolanti in città a causa dei traffici con i popoli circostanti. Anzi, riterrei probabile che le “tabernae argentariae” potessero essere sorte proprio per rispondere all’esigenza di dover cambiare valute straniere e solo in un secondo tempo fossero state impiegate anche per convertire i 313
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differenti tagli di monete romane. Lo stesso Varrone, nel nostro frammento, avrebbe potuto dire che Roma, espandendosi in seguito alla conquista dell’Italia, aveva esteso i contatti col mondo greco e, come conseguenza di questi scambi, che dovevano aver comportato anche la circolazione di denaro estero in città, aveva visto il sorgere nel foro di banchi di cambio. Quindi, l’esistenza di banchi nel 310 a.C. non può essere smentita, ma, stante il sospetto che Livio abbia “attualizzato” la sua descrizione della Roma repubblicana, non può neanche essere presa come un dato sicuro per la datazione del periodo individuato dal fr. 76. L’unico elemento certo in nostro possesso è il fatto che queste botteghe, note nelle fonti come “tabernae veteres”, erano presenti nel foro prima del 210 a.C., quando vennero distrutte da un incendio e sostituite da un nuovo complesso, quello, appunto, delle “tabernae novae” (vedi Liv. 26, 27.1-5 e 27, 11.16; cfr. nel passo su Virginia ad tabernas, quibus nunc novis est nomen e 26, 27.2, argentariae quae nunc novae appellantur arsere). Le “tabernae” del fr. 76 vennero dunque poste nel foro prima della seconda guerra punica; questo punto conferma l’appartenenza del frammento al l. 2 (in quanto il periodo delle guerre puniche era coperto dal terzo libro del de vita), ma purtroppo non fornisce particolari appigli per la sua collocazione all’interno del secondo libro. Accogliendo per certa la datazione proposta da Kettner, il fr. 76 (dedicato a un evento precedente il 310) andrebbe posto prima del fr. 75 (dove, come si è detto, c’è un riferimento quasi certo a Pirro). Tuttavia, da un lato, come abbiamo visto, il termine identificato da Kettner non è vincolante; dall’altro, il fr. 75 potrebbe appartenere, come anche il fr. 74, piuttosto che a un resoconto storico ordinato, a un excursus moraleggiante sulla virtù dei Romani, dove la presentazione dei vari exempla non doveva necessariamente seguire con esattezza la cronologia. In definitiva, mancano basi per una datazione sicura dell’episodio descritto nel fr. 76 e vi sono diversi motivi per non anteporlo al fr. 75. La mia ipotesi per la collocazione del frammento è che Varrone, dopo aver sviluppato la digressione sulla virtus romana cui potrebbero appartenere i frr. 74 e 75 (magari dicendo che proprio grazie alla loro straordinaria tempra i Romani avevano potuto ottenere il controllo su tutta l’Italia), imprimesse al proprio racconto una svolta e passasse a dire che, nel momento in cui Roma venne ad essere una potenza mediterranea e a scontrarsi con le realtà rivali (prima il mondo greco, con Pirro, poi Cartagine), le condizioni economiche presero a mutare. A questa descrizione dell’evolvere della vita civica, di cui la trasformazione del foro del fr. 76 sarebbe una conseguenza, potevano accompagnarsi considerazioni mo314
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ralistiche: Varrone avrebbe potuto notare che, se in una prima fase all’aumento della ricchezza non seguì la degenarazione dei costumi (vedi fr. 77), ben presto le cose sarebbero cambiate. Propongo dunque di collocare i frr. 76 e 77 nell’ambito di un discorso del genere. L’“intervallum” di cui parla il fr. 76 potrebbe essere, in assenza di altri indizi per una datazione più precisa e accettando la mia ricostruzione, appunto il periodo che sarebbe trascorso fra la sottimissione dell’Italia e i primi scontri con i regni mediterranei. 77 (= 73 R.; 399 S.) nihilo magis propter argenti facti multitudinem †is erat furandum†, quod propter censorum severitatem nihil luxuriosum habere licebat 1: propter1 del. Müller | is erat (miserat BA) furandum] iusserat excuriandum (sc. Senatus Rufinum) Lambeck ( fortasse recte, si nihilo minus scriberetur); manserat in curia (sc. Rufinus) Kettner; oratio recte non procedit: textum corruptum statui; 1-2: quod] quom dub. Müller Non. p. 745.20-24: MVLTITVDO cum sit † numeri populorum †, ut quidam putant, Varro pro multo non absurde etiam scripsit de vita populi Romani lib. II 1: numerus vel populus vel numerus populi vel aliorum animantium Müller; numeri proprie (“fortasse” in app.) | ut om. La.c.; 2: pro om. La.c. | abscripsit La.c.; asscripsit codd., corr. ed. 1476; descripsit ed. princ.
a causa del gran numero di manufatti in argento †costoro non avevano affatto un motivo in più per rubare†, dal momento che a causa della severità dei censori non era lecito possedere alcun oggetto di lusso Il fr. 77 sembra descrivere una fase di crescita economica della città e di aumento della disponibilità a Roma di beni preziosi (in particolare, la citazione menziona opere di argenteria), in cui tuttavia il miglioramento del tenore di vita non causava ancora una degenerazione dei costumi nella “luxuria”, il folle spreco di denaro per accaparrarsi oggetti di lusso. Purtroppo, la prima parte della citazione non offre un testo soddisfacente ed è difficile individuare con esattezza quale potesse essere il senso preciso del frammento. Nella forma tradita, l’espressione è piuttosto fiacca. Varrone sembrerebbe dire che, nonostante l’aumentata disponibilità di opere di argenteria (“propter argenti facti multitudinem”; il senso concessivo della frase sarebbe suggerito dalla forma avverbiale “nihilo magis”), gli antichi Romani non si sen315
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tivano per questo spinti ad accumulare ricchezze, in quanto il vigile controllo dei censori impediva comunque ai singoli il possesso di beni di lusso in eccesso. Tuttavia, la perifrastica “is erat furandum” (per “is” = “eis”, vedi NW II 383-386) si adatta a questa interpretazione soltanto con una certa forzatura: una traduzione letterale del frammento rende evidenti i limiti del testo tradito (“a causa del gran numero di manufatti in argento non per questo costoro dovevano rubare di più”). L’andamento logico della frase (aumenta la ricchezza, ma i cittadini devono moderarsi lo stesso per le limitazioni imposte dai censori) richiederebbe qualcosa come “potevano arricchirsi”, mentre “dovevano rubare” risulta eccessivamente duro e quasi oscuro: sarebbe sensato dire che i censori impedivano ai singoli di possedere beni preziosi in eccesso, ma la menzione del furto inserisce nel frammento un elemento estraneo; i censori, infatti, avrebbero bollato anche il possesso di ricchezze acquisite onestamente, mentre il furto sarebbe stato vietato in ogni caso, a prescindere dalla “multitudo” o meno di “argentum factum”. Del resto, un’interpretazione più libera del brano, tale da fornire un senso accettabile (“l’aumentata disponibilità di beni di lusso non spingeva i cittadini ad accumulare ricchezza in modo illegale, perché i censori…”), non corrisponderebbe del tutto a “is erat furandum” e fornirebbe una lettura eccessivamente lontana dal significato letterale della citazione. A causa della difficoltà posta dalla stringa “is erat furandum”, Lambeck ha proposto di correggere il testo del frammento in “iusserat excuriandum”, pensando che l’intero fr. 77 si riferisse all’espulsione dal Senato di Cornelio Rufino, reo di aver acquistato coppe d’argento per un peso di dieci libbre (vedi infra). Con il testo di Lambeck, tutta la citazione riguarderebbe questa vicenda e il nesso “propter argenti facti multitudinem” esprimerebbe la causa del severo provvedimento (“(il Senato) aveva ordinato che (Rufino) dovesse essere espulso dalla Curia a causa del numero eccessivo di oggetti in argento in suo possesso: per la severità dei censori, infatti, non era concesso a nessuno avere oggetti di lusso”). La proposta di Lambeck non è affatto disprezzabile (fornisce un buon senso, suggerisce un intervento paleograficamente non troppo distante dal testo tradito e ripristina il raro verbo “excurio”, proprio dello stile di Varrone, dal momento che l’unica sua altra attestazione si trova a Men. 221, vedi ThLL V, 2 1291.49-50). Va però detto che la presenza della forma avverbiale “nihilo magis”, dal significato concessivo (la renderei con “ciò nonostante non”), costituisce un’obiezione alla soluzione di Lambeck: il frammento direbbe infatti, con “nihilo magis”, che il Senato, pur volendolo, non 316
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aveva potuto espellere Rufino (alla lettera sarebbe “ciò nonostante non aveva affatto ordinato di espellere Rufino dalla Curia”), quando in realtà è avvenuto esattamente il contrario. Volendo accogliere la proposta di Lambeck, sarebbe dunque opportuno intervenire anche su “nihilo magis” e, pensando a un classico errore polare, correggerlo in “nihilo minus”. Il “nihilo minus” così ripristinato potrebbe riferirsi a un’eventuale menzione di Rufino presente nella parte che precedeva immediatamente la citazione: Varrone avrebbe potuto accennare alla carriera di Rufino prima della sua espulsione dal Senato e concludere con qualcosa del tipo “bis consulatu functum, nihilo minus propter argenti facti multitudinem iusserat excuriandum, quod…”. Ritengo che questa possa essere la soluzione migliore per restituire senso all’intero frammento e per risolvere i problemi posti dalla stringa “is erat furandum”144. Certo, si tratta di un intervento massiccio, che a sua volta richiederebbe di modificare anche “nihilo magis” in “nihilo minus”. D’altra parte, dubito che il tradito “is erat furandum” possa essere difeso, né sono riuscito a trovare soluzioni alternative migliori. In teoria, volendo avanzare proposte diverse, si potrebbero seguire più strade. La prima sarebbe accogliere “is erat” come testo sano (“is” potrebbe riferirsi a un soggetto, come “gli antichi Romani” o “i cittadini”, menzionato nella parte precedente il taglio di Nonio), ma intervenire sulla forma “furandum”, che, come si è visto, non offre un senso accettabile. Pensando che Varrone potesse compiere un discorso moralistico, in cui la semplicità dei tempi arcaici era contrapposta all’ostentazione di suppellettile preziosa propria dei suoi tempi, exempli gratia ipotizzerei qualcosa come “is erat certandum” (o “is erat luctandum”): “non per questo i cittadini dovevano gareggiare per il possesso di un gran numero di oggetti di argenteria, poiché il severo controllo dei censori lo impediva”; una soluzione alternativa, tuttavia molto lontana dal tradito “furandum”, sarebbe “is erat timendum” (gli antichi Romani non dovevano preoccuparsi per l’argenteria: i censori infatti ne vietavano il possesso). Una seconda strada sarebbe ritenere corrotto anche “is” e sospettare che potesse trattarsi dell’esito di un originario “id” riferito a “argenti”. I possibili inter-
Anche Kettner pensa che il frammento riguardi l’espulsione di Rufino e propone di conseguenza di modificare “is erat furandum” in “manserat in curia”: in questo modo, il tradito “nihilo magis” è logicamente giustificato (“ciò nonostante Rufino non era rimasto nella Curia, perché i censori vietavano il possesso di beni di lusso”), ma la soluzione di Kettner, rispetto a quella di Lambeck, è paleograficamente troppo lontana dal testo tradito.
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venti in questa direzione sarebbero numerosi: “id erat emendum” (pensando a una confusione, facile in capitale, fra “e” e “f ”: “nonostante il gran numero di argenteria disponibile, non la si poteva acquistare, perché i censori ne vietavano il possesso”); “id erat curandum” (non ci si poteva preoccupare dell’“argentum factum”); “id erat signandum” (nonostante ci fosse un gran numero di “argentum factum”, non lo si poteva ancora coniare in monete: in effetti, sappiamo dal fr. 94 che il conio di monete in argento si ebbe a Roma solo molto più tardi, durante l’arco cronologico coperto dal terzo, non dal secondo, libro del de vita). Come si vede, vi sono ampie possibilità di intervento sul testo del frammento, ma nessuna di esse si segnala come risolutiva. Per questo, ho preferito stampare la stringa sospetta “is erat furandum” fra croci e segnalare in apparato la mia scelta, fra le varie soluzioni ipotizzabili, a favore di quella di Lambeck. Come si è detto sopra, ipotizzo che il frammento facesse parte della presunta sezione “moralistica” sui costumi dei Romani della Repubblica cui attribuisco anche i frr. 74, 75 e 76; analogamente al fr. 76, anche questo potrebbe alludere all’“abstinentia” degli antichi e alla loro capacità di resistere alla tentazione dell’arricchimento individuale, vuoi per virtù propria (fr. 75), vuoi per il timore dei censori (fr. 77). Purtroppo, le difficoltà testuali appena esaminate rendono difficile stabilire se il fr. 77 potesse riferirsi a un episodio specifico oppure conducesse un discorso più generale sulla semplicità degli antichi costumi. In questo caso, Varrone potrebbe aver voluto contrapporre la prima età repubblicana al periodo a lui contemporaneo (alcune delle proposte exempli gratia che ho suggerito presuppongono un contesto del genere) e dire che allora, “propter censorum severitatem” non erano permessi sprechi e ostentazioni di ricchezza comuni ai suoi tempi. Non è escluso che il discorso potesse proseguire, a partire dalla menzione dei censori, con un accenno alle prime leggi suntuarie, la cui severità, negli anni a venire, sarebbe parsa quasi paradossale (la possibilità di connettere al fr. 77 un discorso sulle leggi suntuarie è suggerita da Salvadore). Con le soluzioni di Lambeck e Kettner, invece, il frammento va riferito a un episodio storico preciso, ossia all’espulsione dal Senato di Cornelio Rufino per il possesso di dieci libbre di coppe d’argento (la vicenda è del 275 a.C.; sull’episodio vedi RE IV, 1 coll. 1422-1424 e, oltre alle fonti riportate da Salvadore 2004, pp. 110-111, Ov. fast. 1, 208 e Sen. vit. beat. 21.3; anche Riposati, che però mantiene il testo tradito, propone di identificare il contenuto del fr. 77 con l’episodio di Rufino). A favore dell’ipotesi che il fr. 77 parlasse di Rufi318
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no è stata indicata la ricorrenza, in diverse fonti dell’episodio della cacciata del senatore, del nesso “argentum factum” presente anche nella nostra citazione: vedi Gell. 4, 8.7, hunc Rufinum postea bis consulatu et dictatura functum censor Fabricius senatu movit ob luxuriae notam, quod decem pondo libras argenti facti haberet; Gell. 17, 21.39 C. Fabricius Luscinus et Q. Aemilius Papus censores Romae fuerunt et P. Cornelium Rufinum, qui bis consul et dictator fuerat, senatu moverunt, causamque isti notae subscripserunt, quod eum comperissent argenti facti cenae gratia decem pondo libras habere; Liv. perioch. 14, 4, Fabricius censor P. Cornelium Rufinum consularem senatu movit, quod is X pondo argenti facti haberet. Tuttavia, la menzione dell’“argentum factum” nel frammento non costituisce un indizio forte a favore di Rufino. Si tratta infatti di un’espressione canonica in latino (vedi ThLL II 522.56-523.32), in cui sussiste una distinzione fra “argentum infectum” (i lingotti di metallo grezzo), “argentum signatum” (il metallo coniato, cioè le monete in argento) e “argentum factum” (il metallo lavorato, ossia oggetti di argenteria). Quando fonti parallele parlano di “argentum factum” a proposito di Rufino, non fanno dunque che impiegare la formula usualmente sfruttata per designare questo tipo di beni. A favore della proposta di Lambeck, segnalerei piuttosto un passo interessante di Tertulliano (apol. 6: illae leges abierunt sumptum et ambitionem comprimentes, quae centum aera non amplius in cenam subscribi iubebant, nec amplius quam unam inferri gallinam et eam non saginatam; quae patricium, quod decem pondo argenti habuisset, pro magno ambitionis titulo senatu submoverunt), in cui l’episodio di Rufino è significativamente messo in relazione proprio con le leggi suntuarie. Se il fr. 77 si riferiva a Rufino, è possibile che proseguisse, come sospetta Salvadore, citando anche le leggi suntuarie: il parallelo di Tertulliano, infatti, prova che, in contesti moralistici, gli exempla di Rufino e dei primi provvedimenti censorii potevano essere accostati. In ogni caso, anche se non si accogliesse l’intervento di Lambeck e si sospendesse il giudizio sulla parte del frammento corrotta, è innegabile che la parte sana contenga un preciso riferimento alla “nota censoria”, che costituiva per i cittadini un deterrente dall’adottare una condotta avida e rapace. Quindi, anche nel caso il fr. 77 avesse avuto un tono più generico e non si fosse riferito a un episodio specifico, può darsi che Varrone, nel seguito del discorso, collegasse comunque alla menzione dei censori un accenno alla cacciata di Rufino dal Senato e alle leggi suntuarie.
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78 (= 83 R.; 401 S.) sic in privatis domibus pueri liberi et puerae ministrabant 1: sig in privatas L Non. p. 229.11-16: PVERAE pro puellae. Varro […] idem de vita populi Romani lib. II.
così nelle dimore private ragazzi e ragazze di condizione libera servivano a tavola Il fr. 78, come il successivo fr. 79, si riferiscono a particolari pratiche conviviali in uso presso gli antichi. È difficile individuare la collocazione esatta delle due citazioni nell’ambito del secondo libro: la “lex Lindsay” non fornisce indicazioni utili in proposito (il fr. 78 è una citazione isolata; il fr. 79 fa parte di una serie di due citazioni, ma precede un frammento del l. 4, per cui non si può dire in alcun modo che posizione occupasse all’interno del suo libro) e il contenuto dei due spezzoni non permette di procedere a ricostruzioni plausibili. Il fr. 78 e il fr. 79, in linea teorica, potevano tanto far parte di un’unica sezione, dedicata agli usi conviviali dei primi Romani145, quanto comparire in contesti diversi, anche a notevole distanza l’uno dall’altro. Anche ammettendo che facessero parte di una stessa sezione, non disponiamo di dati sufficienti per dire in che rapporto questa fosse rispetto alle altre parti tematiche (come quella sulle cariche pubbliche o sull’organizzazione dell’esercito) che si è ipotizzato trovassero posto nel secondo libro.
145 Riposati suppone che i due frammenti appartenessero a una stessa sezione, ma pensa che questa non fosse dedicata agli usi conviviali degli antichi Romani, bensì alle diverse funzioni dei “pueri”: Varrone avrebbe operato una distinzione fra i “pueri liberi”, addetti al servizio durante i banchetti (fr. 78), i “pueri modesti”, incaricati di recitare i carmina convivalia (fr. 79) e, nel seguito perduto della sezione, i “camilli”, impiegati nel servizio sacro. Questa ricostruzione non trova particolari appigli nel testo dei due frammenti ed è resa improbabile anche da diversi fattori. In primo luogo, è difficile che con “pueri liberi” (espressione dal senso generico di “ragazzi di condizione libera”) si potesse identificare una determinata categoria di “pueri” (ed, anche ammesso questo, la menzione nel frammento di “puerae” non meglio specificate contraddice l’ipotesi di Riposati che qui Varrone parlasse di un particolare tipo di “pueri” addetti a compiti specifici). Poi, il senso di “pueri modesti” è controverso (vedi fr. 79), per cui la lettura di Riposati in proposito viene ad essere priva di basi solide. Infine, in entrambi i frammenti la menzione dei “pueri” è un dato accessorio, mentre lo scopo principale della frase è quello di esporre un particolare costume. Ciò rende ardua la prospettiva che i frr. 78 e 79 provengano da una sezione dedicata alle tipologie di “pueri” piuttosto che alle pratiche conviviali.
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Infine, non possiamo dire con certezza se l’ordine esatto sia 78 – 79 o 79 – 78. Per comodità del lettore, ho preferito stamparli di seguito, così da fornire insieme due citazioni dal tema simile. Ho adottato l’ordine 78 – 79 perché (pur con tutte le incertezze e le lacune del caso) il fr. 78 sembra riferirsi alla prima parte del banchetto, quella in cui si mangiava ed era ammessa la presenza di donne (le “puerae” del frammento146), mentre il fr. 79 sembra descrivere un uso proprio della seconda parte del banchetto, quella durante la quale si beveva, a cui partecipavano solo gli uomini. Se Varrone davvero dedicava una sezione ai modi in cui i primi romani banchettavano, è probabile che descrivesse, seguendo la successione comune delle parti della cena, prima quella in cui si mangiava e poi il “convivium”; se invece le due citazioni erano irrelate e comparivano in contesti diversi, in ogni caso l’ordine da me fornito conferisce ai frammenti una successione che sembra rispecchiare quella fra prima parte del banchetto e il successivo “convivium”. Il frammento attesta l’esistenza, nella Roma arcaica, di un costume che prevedeva, probabilmente a fini educativi, che i membri giovani di una “familia” prestassero servizio a tavola durante i banchetti privati (che non si tratti di banchetti pubblici emerge dall’indicazione “in privatis domibus”). Come accennato sopra, il fatto che Varrone menzioni anche delle ragazze (“pueri … et puerae”) lascia supporre che questa pratica trovasse posto nella prima fase del banchetto, alla quale potevano accedere anche le donne. Dalle parole di Varrone si ricava inoltre che i ragazzi impiegati come “camerieri” nell’ambito dei banchetti privati non erano schiavi, ma giovani di condizione libera. Il nesso “pueri liberi”, infatti, va interpretato come un equivalente di “pueri ingenui” (vedi ThLL X, 2 2513.33-53; l’espressione, col significato di “fanciulli di condizione libera” ricorre già in due luoghi plautini, Curc. 36-38, dum te apstineas nupta, vidua, virgine, / iuventute et pueris liberis, ama quidlubet e Poen. 988-989, plurimi ad illum modum / periere pueri liberi; per “puer ingenuus”, cfr. fr. 59 del de vita; Varrone impiega altrove la formula “homo liber” per definire il lavoratore di condizione libera in contrapposizione allo schiavo: rust. 1, 17.2, omnes agri coluntur hominibus servis aut liberis aut utrisque). Insisto su questo punto dal momento che Salvadore (p. 112) correda il frammento di un’ampia rassegna di passi (riportati sotto la voce “de pueris
Per la forma “puera” in Varrone, cfr. Men. 87 A. (citato da Nonio alla stessa voce da cui proviene il fr. 79 dal de vita) e l.L. fr. 38 G.-S. (Char. p. 106.7 B. = GLK I 84.5), Varro cum A ‘puera’ putat dictum; sed Aelius Stilo, magister eius, et Asinius contra. Vedi anche CIL IV 1956b. 146
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nec non de puellis ministris in conviviis”) completamente fuori luogo: in tutti i brani raccolti dall’editore, infatti, il termine “puer” ha il significato di “schiavo” (vedi ThLL X, 2 2517.64-2518.62). Pertanto, sebbene in molti dei passi citati da Salvadore ricorra il nesso “pueri ministrant”147, vi si tratta di un costume diversissimo da quello descritto nel fr. 78: da un lato abbiamo attestazioni del normale impiego di servi e ancelle come camerieri durante il banchetto, dall’altro Varrone parla di un antico costume secondo il quale a servire non erano servi, ma i ragazzi di casa di nascita libera. Soltanto in due dei numerosi passi allegati da Salvadore si parla in effetti di giovani di condizione libera che servono a tavola; ma, a una più attenta analisi, si rivelano entrambi dei falsi paralleli. Il primo caso (Quint. decl. min. 301) presenta una vicenda paradossale, in cui un povero invita a cena un amico ricco e, non avendo schiavi, lo fa servire dalla propria figlia: come si vede, la situazione è quasi antitetica rispetto a quella descritta nel fr. 78 e il fatto che sia una ragazza libera a servire è presentato come del tutto eccezionale, dovuto soltanto alla estrema povertà del protagonista (tanto che, nel seguito della vicenda, il ricco scambia la figlia del suo ospite per una schiava). Nel secondo passo ([Quint.] decl. maior. 6.19), è descritta una situazione ancora più lontana da quella del fr. 78: si dice che un figlio, dovendo accudire la madre cieca e bisognosa di aiuto, le porta il cibo a tavola. È evidente che si tratta anche qui di una situazione eccezionale: lo stesso figlio dice esplicitamente di accudire la madre per affetto, quando potrebbe delegare la cosa anche ad altri (tibi non necessaria filii praesentia fuit: adsidere enim, cibos ministrare, manum porrigere quilibet poterat); non c’è dunque alcuna norma tradizionale che gli imponga di “ministrare”. Citerei invece, con qualche dubbio, un passo della vita di Claudio di Svetonio (32.1), in cui si dice che l’imperatore adhibebat omni cenae et liberos suos cum pueris puellisque nobilibus, qui more veterum ad fulcra lectorum sedentes vescerentur. Non possono esserci dubbi sul fatto che i “pueri” e le “puellae” qui menzionati, appartenenti alla famiglia imperiale e all’alta aristocrazia, fossero di condizione libera. Va però interpretato il senso di “adhibebant”. La lettura comunemente data dai commentatori attribuisce al verbo il significato di “ammettere al banchetto” (cfr. “adhibere in convivium” = “invitare a un banchetto”), per cui Svetonio direbbe che Claudio faceva partecipare a ogni banchetto i propri figli. Tuttavia, “adhibere” Con buona probabilità nel fr. 504 delle Menippeae (qui nobis ministrarunt pueri diebus festis cicer viride) i “pueri” sono schiavi.
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ha anche il significato di “impiegare”. Non escluderei pertanto la possibilità che il brano possa anche essere inteso come “adoperava nel servizio, per ogni banchetto, i propri figli insieme a fanciulli e fanciulle di nobile origine”. Inoltre, il riferimento, nel seguito del passo, al “mos veterum” potrebbe in effetti lasciare intendere che Svetonio potesse avere in mente le antiche pratiche conviviali e, magari, proprio il costume descritto da Varrone nel fr. 78. Va tuttavia osservato che, da un lato, espressioni come “adhibere cenae / convivio” sono formule canoniche, con il significato di “invitare a cena”, dall’altro, stando alla struttura sintattica del passo, è più probabile che Svetonio menzionasse il “mos veterum” in connessione soltanto con il secondo uso da lui riferito (quello di mangiare seduti alle testate dei letti triclinari), e non in riferimento anche alla parte precedente (“adhibebat omni cenae et liberos suos e.q.s.”). Pertanto, pur suggerendo un’interpretazione alternativa del passo, in accordo col contenuto del fr. 78, ritengo più prudente mantenere quella vulgata. Comunque, noterei come la seconda pratica menzionata nel passo di Svetonio trovi un interessante riscontro proprio in un altro frammento del de vita (fr. 124), in cui si dice che i primi Romani mangiavano seduti (vedi anche Cato orig. fr. 119 Peter = Serv. ad Aen. 1, 637: in atriis edebant sedentes) e che solo in un secondo momento gli uomini avrebbero iniziato a consumare il pasto sdraiati, mentre le donne avrebbero continuato a farlo da sedute. Il fr. 124 (con Val. Max. 1, 1.2, feminae cum viris cubantibus sedentes cenitabant) non menziona la posizione assunta dai ragazzi, tuttavia, dal confronto con il brano di Svetonio si può dedurre che anche loro consumassero il pasto seduti come le donne. 79 (= 84 R.; 394 S.) in conviviis pueri modesti ut cantarent carmina antiqua, in quibus laudes erant maiorum et assa voce et cum tibicine 1: in c. suppl. Rip., praeeunte Pirrone qui suppl. | conviis L | modesti] domestici Birt; 2: tubicine codd., corr. Aldus Non. p. 107.1-5: ASSA voce, sola vice linguae tantummodo aut vocis humanae non admixtis aliis musicis esse voluerunt. Varro de vita populi Romani lib. II. 1. assa BA; assas LCADA | sola voce BACADA
che durante i banchetti ragazzi bene educati intonassero antichi canti, che contenevano le lodi degli antenati, sia senza accompagnamento che sulle note di un flauto 323
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Il frammento sembra riferirsi ai nebulosi carmina convivalia. Per la natura di queste primitive forme poetiche della più remota latinità, dipendiamo da una testimonianza di Catone (fr. 118 Peter delle Origines; nessuna delle fonti antiche impiega la definizione carmina convivalia, che è degli studiosi moderni; io la manterrò nel mio discorso per praticità), ricostruibile a partire da tre luoghi di Cicerone: Brut. 75, atque utinam exstarent illa carmina, quae multis saeculis ante suam aetatem in epulis esse cantitata a singulis convivis de clarorum virorum laudibus in Originibus scriptum reliquit Cato; Tusc. 1, 2, sero igitur a nostris poetae vel cogniti vel recepti. quamquam est in Originibus solitos esse in epulis canere convivas ad tibicinem de clarorum hominum virtutibus; Tusc. 4, 3, gravissimus auctor in Originibus dixit Cato morem apud maiores hunc epularum fuisse, ut deinceps qui accubarent canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Dal confronto fra questi brani si ricava innanzi tutto che già Catone doveva avere idee piuttosto vaghe circa questi carmina, che non aveva mai ascoltato direttamente, ma che dice fossero cantati durante i banchetti molte generazioni prima (“multis saeculis ante suam aetatem”). Pur avendo a disposizione soltanto la rielaborazione del brano delle Origines, possiamo ipotizzare che già al tempo di Catone dei carmina, che lui attribuisce a un’era assai remota e su cui fornisce solo indicazioni molto vaghe, non fosse rimasta più alcuna traccia concreta (di sicuro dal passo del Brutus si ricava che così era per il I sec. a.C.). Dai luoghi citati si possono trarre comunque delle informazioni sul modo di esecuzione dei carmina e sul loro contenuto: durante il banchetto, i convitati a turno (“deinceps”; “singulis convivis”) celebravano le imprese di valore degli uomini illustri, con l’accompagnamento del flauto. Alla stessa pratica sembra riferirsi anche Val. Max. 2, 1.10 (passo messo in particolare risalto da Peruzzi 1993, pp. 335-339): maiores natu in conviviis ad tibias egregia superiorum opera carmine comprehensa pangebant, quo ad ea imitanda iuventutem alacriorem redderent. quid hoc splendidius, quid etiam utilius certamine? Pubertas canis suum decus reddebat, defuncta cursu aetas ingredientes actuosam vitam fervoris nutrimentis prosequebatur. Peruzzi sostiene che dal brano si possano ricavare ulteriori informazioni sui carmina: dalla definizione della pratica come “certamen”, infatti, ipotizza che i convitati si sfidassero in una vera e propria tenzone poetica; da ciò sospetta poi che si trattasse di composizioni estemporanee, improvvisate sul momento. Il primo punto è abbastanza condivisibile e sembra confermato dall’indicazione di Cicerone secondo cui i commensali si esibivano a turno; non si può però escludere del tutto il sospetto che Valerio Massimo, 324
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partendo dal dato sicuro che i commensali si succedevano nel canto, possa aver tratteggiato personalmente l’immagine, più efficace a fini retorici, del “certamen” celebrativo. Peruzzi articola il discorso dicendo che, se i convitati si sfidavano in una gara poetica, non potevano riproporre un repertorio canonico, ma dovevano improvvisare sul momento le loro composizioni, così che la vittoria venisse poi assegnata a chi aveva saputo meglio sviluppare il tema (o i temi) da celebrare. Secondo lui, ciò sarebbe indicato anche dall’impiego di “pangebant”, essendo “pango” il verbo proprio della composizione letteraria. Peruzzi aggiunge che doveva trattarsi di componimenti brevi, così da permettere lo scambio di battute fra i commensali e da non imporre sforzi eccessivi all’improvvisatore; anche in questo caso, ritiene di trovare una conferma alla sua ipotesi nell’espressione “carmine comprehensa”, poiché il verbo “comprehendo” si trova spesso con il significato di “riassumere” (i carmina costituirebbero un “riassunto in versi” delle gesta degli antichi). Per quanto riguarda “carmine comprehensa”, ritengo più probabile che l’espressione sia solo un modo ricercato per dire “in versi”; del resto, le attestazioni riportate da Peruzzi a sostegno della sua ipotesi che “carmine comprehensa” veicoli una nozione di brevità non sono valide (in Val. Max 1, praef. e Lucr. 6, 1083 la brevità non è indicata tanto dal verbo “comprehendo”, quanto da marche esplicite come “modico voluminum numero” e “breviter paucis”; quanto a Ov. met. 13, 160-161, plura quidem feci, quam quae comprendere dictis / in promptu mihi sit e trist. 5, 2.27-28, tot premor adversis: quae si comprendere coner, / Icariae numerum dicere coner aquae, il senso richiede di intendere il verbo piuttosto come “raccogliere tutto insieme, elencare” e, d’altro canto, credo neghi decisamente la nozione di brevità, visto che Ovidio parla in entrambi i casi di elenchi che risulterebbero eccessivamente lunghi; infine, in Varro rust. 1, 1.10 Mago Carthaginiensis … qui res dispersas comprenderit libris XXIIX il verbo significa “raccogliere”, non “riassumere” e in Plin. n. h. 19, 185 ut carmine quoque comprehensum reperiam, con la stessa iunctura del passo di Valerio Massimo, Plinio indica solo che l’argomento di botanica da lui discusso è stato trattato anche in componimenti di poesia didascalica, senza per questo implicare che sia stato anche riassunto). Piuttosto il buon senso lascia intendere che, se davvero tutti i commensali dovevano alternarsi nella recitazione dei carmina nell’ambito di un unico banchetto, non potevano recitare pezzi troppo lunghi. Per quanto riguarda l’ipotesi che i carmina fossero improvvisati, essa dipende in primo luogo dall’immagine, fornita da Valerio, di un “certamen” fra i commensali. Ma, come è stato osservato sopra, c’è il rischio che questo dato, assente in Catone/ 325
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Cicerone, possa essere dovuto a una volontà di drammatizzazione da parte di Valerio. La sua testimonianza, inoltre, diverge da quella risalente alle Origines anche per altri aspetti, come l’idea che fossero solo gli anziani a sfidarsi nel canto e che la celebrazione delle imprese virtuose degli avi fosse volta a infondere spirito di emulazione nei presenti: queste “aggiunte” potrebbero tanto essere dovute a un impiego, da parte di Valerio, di una fonte indipendente da Catone e più dettagliata, quanto essere banalmente delle sue invenzioni, volte ad attribuire una finalità didattica ai misteriosi carmina (di cui anche Valerio, come gli altri, doveva sapere ben poco) e a collocarne la recita in un contesto edificante e idealizzato, in cui la Roma più arcaica assume tratti simili a quelli dello Stato ideale platonico (la volontà di contrapporre il mondo romano a quello greco, a tutto vantaggio del primo, è esplicita nell’immediato seguito del brano: quas Athenas, quam scholam, quae alienigena studia huic domesticae disciplinae praetulerim?). Anche la finalità retorica della raccolta di Valerio porta a sospettare che a partire dalle poche nozioni comuni sui carmina (probabilmente ricavate dagli stessi brani di Cicerone sopra citati), egli abbia tracciato questo quadro “romanzato” di indubbia efficacia oratoria. Se le cose stanno così, non possiamo fidarci troppo della sua testimonianza. In secondo luogo, Peruzzi connette l’idea che i carmina fossero improvvisati all’uso del verbo “pangebant”. Va però detto che qui il testo è controverso e che diversi editori pongono “pangebant” addirittura fra croci, a causa dell’anomala costruzione “egregia superiorum opera … pangebant”, quando di norma il verbo “pango” (“comporre”) si riferisce non all’argomento della composizione poetica, ma al suo mezzo (si dice “pangere carmina”, “pangere versus” ecc.), per cui la costruzione regolare sarebbe piuttosto stata “pangebant carmina/versus de egregiis superiorum operibus”. Peruzzi difende efficacemente “pangebant”, dimostrando come “superiorum opera pangebant” sia una forma condensata volta a rendere il dettato più prezioso ed efficace (del resto, la preseza di “carmen” nelle parole immediatamente precedenti “carmine comprehensa” rende superflua una ripetizione del termine in dipendenza da “pangebant”); tuttavia, ritengo poco prudente basare gran parte della propria interpretazione su un punto testuale discusso. In conclusione, il brano di Valerio non aggiunge alcun dato sicuro, sui carmina, a quanto detto nei tre passi di Cicerone148. È probabile che Cic. de or. 3, 197 (illa summa vis [sc. numerorum atque vocis] … non neglecta, ut mihi videtur, a Numa rege doctissimo maioribusque nostris, ut epularum sollemnium
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Veniamo ora al fr. 79. La citazione di Nonio purtroppo è priva del contesto e di tracce che permettano di ipotizzarne uno, così che non ci è permesso di capire meglio se qui Varrone si stesse riferendo davvero ai carmina convivalia o a una pratica differente. Ammettendo l’ipotesi che il fr. 79 parlasse dei carmina (come credono Kettner, Riposati, Salvadore – a quanto si deduce dal suo apparato delle fonti), va riconosciuto che esso presenta notevoli discordanze rispetto alla testimonianza di Cicerone, tanto che Dahlmann 1950, considerando le divergenze fra il fr. 79 e Catone/Cicerone, giunge alla conclusione estrema che in realtà i carmina convivalia non sono mai esistiti e che, per questo motivo, diverse tradizioni ne abbiano dato in parallelo ciascuna una sua rappresentazione. Varrone non dice esplicitamente che fossero i convitati a recitare i carmina, ma che dei “pueri” (non possiamo dire, data la perdita del contesto, se questi giovani partecipassero al banchetto come invitati a pieno titolo o se vi prendessero parte solo in quanto addetti alla recita dei carmina; sull’interpretazione del termine e in particolare dell’aggettivo “modesti” ad esso riferito, vedi infra) recitavano dei “carmina antiqua”, che avevano per oggetto la lode degli antenati, sia senza sia con l’accompagnamento del flauto (poiché “cano” da solo ha il valore di “cantare con l’accompagnamento di uno strumento”, per indicare il canto “a solo”, senza accompagnamento, il latino deve impiegare il costrutto “canere voce” o, come nel nostro frammento “canere assa voce” – proprio questa espressione costituisce il motivo della citazione del passo da parte di Nonio; in modo analogo, per indicare un assolo strumentale senza canto, si usano espressioni come “assae tibiae”, vedi Peruzzi 1993, p. 346). Oltre alla specificazione che i carmina potevano essere recitati anche senza accompagnamento musicale, segnalerei come significativa
fides ac tibiae Saliorumque versus indicant) si riferisca a qualcosa di diverso dai carmina (l’accompagnamento musicale dei banchetti pubblici allestiti in occasione delle feste), come indica anche la menzione, assente nella tradizione sui carmina, della lira (vedi il commento di Winterbottom - Fantham ad loc.). Lo stesso discorso vale per Quint. 1, 10.18, che dipende dal passo del de oratore. Alcuni passi riportati da Salvadore 2004, p. 108, come Cic. leg. 2, 62 e Tac. ann. 3, 5.2, si riferiscono a pratiche del tutto diverse e non possono essere impiegati come fonti sui carmina convivalia. È possibile che ai carmina, come ce li descrive Catone in Cicerone, possa alludere Serv. ad Aen. 1, 641 (veteres enim in conviviis solebant fortia parentum facta narrare); tuttavia, l’assenza del riferimento al flauto e l’uso del verbo “narro”, poco adatto alla poesia, lascia un margine di dubbio sull’ipotesi che Servio qui stia pensando a carmina e non soltanto a discorsi circa le imprese degli antenati tenuti durante i banchetti.
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l’indicazione “carmina antiqua”. Mentre in Catone/Cicerone non è chiarito se i carmina recitati a turno dai commensali appartenessero a un repertorio consolidato di canti sui singoli eroi o se fossero improvvisati sul momento, in Varrone è detto esplicitamente che questi “carmina” erano “antiqua”, cioè risalivano a un periodo precedente, anche di molto, al momento in cui venivano recitati durante il banchetto (si potrebbe anche intendere “antiqua” come antichi rispetto a Varrone, ma contemporanei ai “pueri”, per quanto questa lettura mi sembri meno probabile e credo banalizzi il quadro tracciato dall’autore: è ben più efficace, dal punto di vista letterario e come rappresentazione esemplare, l’immagine dei Romani delle origini, che durante il banchetto recitano composizioni che rimandano a loro volta a un’epoca ancora più remota). Varrone sembra descrivere dunque un costume più vicino a quello presentato in un’ode di Orazio (c. 4, 15.25-32: nosque et profestis lucibus et sacris / inter iocosi munera Liberi / cum prole matronisque nostris / rite deos prius adprecati / virtute functos more patrum duces / Lydis remixto carmine tibiis / Troiamque et Anchisen et almae / progeniem Veneris canemus) che a quello testimoniato da Catone/Cicerone. Partendo da questo dato, Peruzzi propone una propria lettura del frammento (pp. 347-350). Secondo lo studioso, il passo di Varrone descriverebbe una seconda fase nella storia dei carmina, in cui, per un’evoluzione della moda e per l’influsso della cultura greca, all’improvvisazione a turno di canti da parte dei commensali sarebbe stata sostituita la recita di “carmina” appartenenti a un repertorio ormai consolidato, da parte di “pueri” incaricati di allietare in questo modo la cena (p. 349: «per l’affermarsi di nuove mode, i carmina che ciascun commensale improvvisava … erano stati sostituiti da canti in lode degli antichi padri, eseguiti da giovani ad hoc. Canti che facevano parte di un repertorio che si tramandava»). Credo che alcune di queste conclusioni siano eccessive e non trovino adeguato riscontro nel frammento. In primo luogo, il testo della citazione non permette di affermare con certezza che i “pueri” fossero figure diverse dai convitati, assunte esclusivamente per accompagnare il banchetto con i loro canti, ma potrebbe trattarsi anche dei partecipanti più giovani al banchetto. Poi, considerate tutte le obiezioni sopra esposte all’ipotesi che i primi carmina convivalia fossero improvvisati, mi sembra ancora più rischioso costruire, su dati così incerti, addirittura un percorso evolutivo dei carmina, che li avrebbe portati ad assumere la forma qui descritta da Varrone. Peruzzi è portato a questa interpretazione anche da una personalissima lettura che dà del nesso “pueri modesti”. La connotazione “modesti” ha infatti posto 328
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delle difficoltà: dire che i “pueri” fossero “temperanti, ben costumati” (Momigliano 1957, p. 109 propone «well brought-up chidren», fornendo forse la migliore lettura ad oggi) è parsa una precisazione oziosa e un po’ oscura, tanto che Birt ha proposto di correggere il testo in “pueri domestici” (in questo caso, i “ragazzi di casa”, di condizione servile o libera che fossero, sarebbero stati incaricati di cantare i carmina durante il banchetto). Peruzzi sostiene che un banchetto, per giunta nel momento in cui si beveva e si poteva andare incontro a vari eccessi, non sarebbe stato il luogo più adatto a dei “pueri modesti”, cioè rispettosi e pudichi. Per questo, propone di intendere “modesti” come “addetti al modus, ossia alla misura musicale, al ritmo”: l’espressione “pueri modesti” sarebbe una formazione di Varrone equivalente a quella altrove attestata “pueri symphoniaci”, usata appunto per designare i fanciulli (in genere schiavi) che suonavano e cantavano durante i banchetti per allietare il convito. Intendendo “pueri modesti” in questo modo, Peruzzi ha buon gioco nel dire che nel nostro frammento i “pueri” non erano convitati, ma figure subornate ad hoc (forse schiavi) e nel dedurre che il costume descritto da Varrone è diverso da quello attestato per i carmina più antichi. Tuttavia, non abbiamo alcuna attestazione di “modestus” in questo senso, né Peruzzi (che del resto è costretto ad ammettere, pur fra tante affermazioni perentorie: «modestus ha un significato particolare che nessun dizionario registra e che tuttavia è ovvio») è in grado di fornire paralleli adeguati (cita alcuni dei numerosi passi in cui “modus” ha il significato di “accento, misura musicale”, ma non dà alcun parallelo in cui l’aggettivo “modestus” sia in connessione con questo valore di “modus”). Inoltre, sebbene si tratti di un argomento ex silentio e quindi non decisivo, mi sembra strano che Nonio, trovandosi di fronte a un impiego di “modestus” in un senso così raro e particolare, non abbia segnalato la cosa nel suo dizionario (ad esempio fra i casi dei “nove dicta”), ma sia stato spinto a citare il frammento da un ben più banale “assa voce”. Preferirei dunque non attribuire a “modesti” un significato di cui pare non ci sia altra traccia in latino, tanto più che l’assenza di contesto impedisce interpretazioni troppo sicure. Anche l’osservazione secondo cui il convito non sarebbe il luogo adatto a “pueri modesti” è criticabile. In primo luogo, proprio il passo di Valerio Massimo che Peruzzi tiene in particolar conto dice esplicitamente che al banchetto prendevano parte anche i giovani (anzi, i giovanissimi, visto che parla di “pubertas” e di ragazzi che stanno appena iniziando il cammino verso l’età adulta: “ingredientes actuosam vitam”). Ancora, il fatto che un giovane educato partecipasse a un 329
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banchetto e, in quel contesto, dove era lecito, magari si lasciasse un po’ andare non ne avrebbe sminuito la “modestia”. Infine, non possiamo escludere che qui Varrone, come suo solito, abbia voluto fornire dell’antichità un ritratto idealizzato ed esemplare, mostrando come, anche durante il banchetto, i primi Romani mantenessero il decoro e si dedicassero, appunto, solo a forme di svago “educative” come la celebrazione delle glorie avite. Si può citare in proposito il fr. 80: in base a una delle possibili letture, sembra dire che gli “adulescentes” della Roma repubblicana, pur essendo impegnati per la maggior parte nel servizio militare (che poteva costituire una fonte di arroganza e “licentia”), erano “multo praediti pudore et pudicitia”. Come sotto le armi, così anche nei conviti i “pueri” della Roma dei tempi migliori restavano “modesti”. Quanto al fatto che i “carmina” cantati dai “pueri” appartenessero a un repertorio consolidato, questo punto sembra confermato, come si è detto, dall’aggettivo “antiqua”. È però difficile sostenere, come fa Peruzzi, che di questo repertorio facessero parte le composizioni su Romolo e su Coriolano cui sembra alludere Dionigi di Alicarnasso (ant. Rom. 1, 79.10 ὡς ἐν τοῖς πατρίοις ὕμνοις ὑπὸ Ῥωμαίων ἔτι καὶ νῦν ᾄδεται e 8, 62 ᾄδεται καὶ ὑμνεῖται πρὸς πάντων). Come nota Momigliano (p. 111), infatti, questi passi sono troppo vaghi e potrebbero riferirsi anche a invocazioni religiose, non necessariamente a composizioni di poesia eroica su Romolo e Coriolano, senza contare il sospetto che in età augustea potevano circolare pezzi di poesia arcaizzante (come sembra essere stato il carmen Priami citato da Varrone, che Rostagni considerava un esempio di carmen convivale) e che Dionigi potrebbe avere presenti proprio questi falsi arcaici. In conclusione, considerati i numerosi punti dubbi della nostra analisi, ritengo che dal fr. 79 si possano ricavare solo gli elementi esplicitamente presenti nel testo, senza accentuare troppo le divergenze rispetto alla testimonianza di Catone/ Cicerone. Io proporrei due possibilità alternative di interpretazione del frammento, confessando di non potermi decidere a favore dell’una o dell’altra data l’esiguità della citazione e la totale perdita del contesto. Come si è detto, la principale divergenza fra le due tradizioni sta nel fatto che, mentre nelle Origines era specificato che i convitati stessi cantassero i carmina, in Varrone il compito di cantare “carmina antiqua” spettava a dei “pueri modesti”, di cui non è chiarito il ruolo all’interno del banchetto. Ora, se questi erano i convitati più giovani (in tal caso il frammento andrebbe tradotto: “che i ragazzi ben educati presenti nei banchetti cantassero…”), non ci sarebbe in fon330
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do una contraddizione così stridente rispetto alla testimonianza di Catone e, quindi, anche il fr. 79 verrebbe a parlare degli stessi carmina convivalia evocati da Cicerone. Per quanto riguarda, poi, il fatto che la specificazione “carmina antiqua” sembra rimandare a un repertorio consolidato di canti, questo non costituisce un elemento a favore della ricostruzione di Peruzzi. Infatti, nulla nei tre passi di Cicerone sui carmina lascia intendere che queste composizioni fossero improvvisate, ma vi si parla genericamente di “carmina” celebrativi. Quindi, in linea teorica, non è escluso che già i “carmina” recitati a turno dai convitati di cui parla Catone fossero attinti da un repertorio consolidato. Peruzzi, come si è detto, deriva l’idea che invece i “carmina” di Catone fossero improvvisati (e, di conseguenza, che quelli descritti da Varrone fossero di diversa natura) dal passo di Valerio Massimo, a cui però non si può prestare completamente fede. Pertanto, il fr. 79 non può essere considerato con certezza divergente da Catone/Cicerone nemmeno sul punto della natura dei “carmina”. Se, viceversa, dobbiamo pensare che i “pueri modesti” non fossero i convitati, ma giovani appositamente incaricati di recitare “carmina antiqua” (allora il frammento va tradotto “che, durante i banchetti, ragazzi ben educati cantassero…”), ciò non implica la necessità di presupporre, come fa Peruzzi, un’evoluzione nella forma di esecuzione dei carmina convivalia descritti da Catone (il tentativo di scrivere la storia di una forma letteraria di cui non sappiamo quasi nulla rischia inevitabilmente di procedere per obscura ad obscuriora), ma ritengo molto più economico ipotizzare che Varrone non si riferisse ai carmina convivalia menzionati nelle Origines, ma a un altro uso, ugualmente arcaico, vicino a quello descritto da Orazio. Dal momento che si è discusso a lungo sui carmina convivalia, ritengo valga la pena di menzionare la nota teoria del Niebuhr, che, anche per influsso della contemporanea temperie romantica, ipotizzava che proprio questi carmina costituissero non solo l’origine della poesia epica latina (che da essi trarrebbe alcuni suoi tratti peculiari), ma anche di una linea storiografica “plebea” concorrente a quella patrizia, rappesentata dagli annali dei pontefici. Per una ricostruzione della storia di questa teoria, nonché dei suoi precedenti e delle critiche ad essa avanzate, rimando all’attento studio di Momigliano 1957. Per quanto riguarda l’estensione della citazione, costituita da una subordinata, sebbene siano stati avanzati diversi tentativi di integrazione di una reggente, ho ritenuto più prudente evitare di intervenire sul testo e lasciare lo spezzone 331
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così come lo riporta Nonio. Il confronto con Tusc. 4, 3 (morem apud maiores hunc epularum fuisse, ut … cantarent) porterebbe a immaginare, nel contesto immediatamente precedente, qualcosa come “mos erat” (che comunque, a livello sintattico, darebbe un testo non del tutto scorrevole, dato il forte iperbato “mos erat in conviviis pueri modesti ut cantarent”), ma lo stato della tradizione non permette di spingersi ulteriormente nell’indagine. Frammenti dal contesto incerto Seguono tre frammenti, attribuiti da Nonio al secondo libro del de vita, per i quali è estremamente difficile ricostruire il contesto di provenienza ed, in alcuni casi, persino il contenuto esatto della citazione, sia per il taglio operato dalla fonte, sia per lo stato profondamente corrotto del testo. 80 (= 85 R.; 397 S.) multo praediti pudore et pudicitia adulescentis dixerunt, cum maiorem partem eius graduis aetatis stipendia facerent, … 1: multo codd., Lindsay, Sal.; multi Kettner, Rip.| et pudicitia secludendum? | dixerunt AABALp.c. fortasse corruptum dubitanter retinui; dierunt La.c.CA; vixerunt Mercier, Lindsay, Sal.; perierunt Kettner, Rip.; degerunt Lindsay (“fortasse” in app.) | maiorem partem Mercier, edd.; maiore parte Sal. fort. recte; maiore patre codd.; 2: gradui codd., corr. P1 | etate CA; etade La.c.; etadte AABALp.c. Non. p. 792.13-15: GRADVIS pro gradus.
pieni di molto rispetto e moderazione, i giovani dissero che, poiché impiegavano la maggior parte di quel periodo della vita sotto le armi, … Il frammento presenta numerose difficoltà. Il contenuto della frase è difficile da individuare, oltre che per la forma mutila della citazione, per una probabile corruttela testuale che riguarda proprio il verbo principale. Dal momento che non si riesce a capire, se non con un ampio margine di dubbio, cosa dicesse il frammento, avanzare ipotesi sul contesto della citazione e sulla sua posizione rispetto agli altri frammenti del libro risulta quasi impossibile. Dalla citazione si possone estrapolare ben pochi dati sicuri: il soggetto della frase sono degli “adulescentis” (su questa forma del nominativo plurale, cfr. la discussione al fr. 4) ben educati che compiono un’azione (difficile da stabilire 332
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dato lo stato corrotto del testo in questo punto); segue poi una subordinata in cui si accenna al servizio militare. Il “gradus aetatis” menzionato nella seconda parte del frammento è appunto l’“adulescentia” (sulla divisione varroniana della vita umana in cinque periodi, detti “gradus aetatis”, vedi fr. 70). Il primo punto controverso sta nell’individuazione di che cosa potessero fare gli “adulescentis” del frammento: i codici tramandano come predicato il verbo “dixerunt” (corrottosi ulteriormente in “dierunt” in L e nel gruppo CA), che a prima vista sembra non avere attinenza con il resto della frase. La citazione prosegue infatti non con una infinitiva o una dichiarativa, o comunque con qualcosa che possa essere retto da “dixerunt”, ma con un cum narrativo che non si può legare a quanto precede e sembra lasciare “dixerunt” del tutto isolato. D’altra parte, è difficile supporre la presenza di una infinitiva nella parte precedente al taglio operato da Nonio: se così fosse, la sintassi del periodo risulterebbe durissima, con la lunga stringa “multo praediti pudore et pudicitia adulescentis” a dividere “dixerunt” dalla proposizione che dovrebbe reggere. Questo ha portato tutti gli editori a considerare “dixerunt” corrotto e a proporre diverse correzioni. Tuttavia, dobbiamo tener conto del fatto che, anche a prescindere dal verbo, tutto il resto della citazione fornisce pochissimi indizi utili per l’identificazione dell’argomento del frammento, che resta oscuro. Quindi, da un lato, nessuno degli interventi suggeriti dagli editori può basarsi su dati particolarmente solidi, dall’altro, mancano anche motivi per rifiutare con certezza “dixerunt”, a parte l’impressione data da una prima lettura che il verbo “stoni” col resto. Dico questo perché credo che, nel buio in cui brancoliamo a proposito di questo frammento, non si possa escludere l’ipotesi che, dopo “dixerunt”, Varrone introducesse un discorso indiretto di cui la frase “cum maiore … facerent” costituirebbe la prima parte, mentre il seguito sarebbe stato soppresso dal taglio di Nonio. Si potrebbe pensare a una situazione di questo tipo: Varrone descrive degli “adulescentis” che stanno esprimendo un parere o una richiesta. Forse il riferimento al rispetto e alla moderazione può suggerire che i giovani in questione stiano parlando di fronte a dei superiori. Il frammento potrebbe quindi inserirsi nell’ambito della narrazione sintetica di un episodio storico, qualcosa del tipo “, i giovani, forniti di molto pudore e moderazione, dissero che, dal momento che impiegavano la maggior parte dell’adulescentia prestando il servizio militare, …” (a questo punto, i giovani avrebbero potuto segnalare un problema o reclamare qualcosa). Nonio, interessato esclusivamente alla forma “graduis”, avrebbe appunto citato soltanto la proposizione in cui questa compariva 333
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e la frase reggente, per dare un minimo di senso allo stralcio riportato, tralasciando il seguito dell’oratio obliqua. Ammetto che questa ricostruzione sia in gran parte basata su dati puramente ipotetici; ho voluto però proporla per dimostrare quanto la forma mutila del frammento possa adattarsi a molteplici interpretazioni e quanto sia oggettivamente difficile stabilire se “dixerunt” sia corrotto o meno. In ogni caso, supporre che con “dixerunt” si aprisse un discorso indiretto dalla sintassi abbastanza articolata mi sembra molto più economico della maggior parte degli interventi proposti dagli editori, che implicano letture del frammento prive di alcun riscontro nel testo o impongono di intervenire anche su altri punti della citazione. La presenza nel de vita di brani al discorso indiretto, anche lunghi e sintatticamente elaborati, è assicurata dal fr. 110. È vero che ampie parti in oratio obliqua nel de vita sono attestate solo per il quarto libro, dove pare Varrone fornisse una sorta di “diario” degli eventi della guerra civile e dove pertanto potevano facilmente trovare posto parafrasi estese dei dibattiti in senato o delle prese di posizione dei protagonisti dello scontro (come nel caso delle dichiarazioni di Curione riportate dal fr. 110), mentre nel secondo libro, come nel primo, l’impressione generale data dai frammenti superstiti è che Varrone narrasse gli exempla storici in modo estremamente sintetico e selettivo (per cui il racconto da cui sarebbe tratto il frammento sembrerebbe troppo dettagliato). Ma non si può fare di questo dato, estrapolato sulla base di una porzione minima di testo superstite, una regola generale; del resto, è possibile che nel nostro frammento la parte in discorso diretto fosse piuttosto ridotta (poteva anche proseguire soltanto con una frase). L’unico punto forse in contrasto con questa ricostruzione è il fatto che il nesso “multo praediti pudore et pudicitia adulescentis” sembra dare una caratterizzazione morale troppo definita ai giovani, il che lascerebbe pensare che il verbo corretto non fosse un semplice “dixerunt”, ma qualcosa di più specifico e più consono al tono enfatico della presentazione degli “adulescentis”. Tuttavia, non si può escludere che nel seguito del discorso indiretto comparisse una frase o una proposta dei giovani che ne rivelasse tutto il “pudor”. Passando all’analisi degli interventi suggeriti dagli editori, il più clamoroso è senza dubbio quello proposto da Kettner e accolto da Riposati. Kettner, partendo dal riferimento al servizio militare, ipotizza che il frammento dovesse parlare della morte della maggior parte degli “adulescentis”, impegnati sotto le armi, nel corso di una guerra o di una battaglia: pertanto corregge “dixerunt” in “perierunt” (sospettando che la lezione “dierunt” di L fosse originata da un “pie334
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runt” con il “per” compendiato) e, sulla scorta di “maiorem partem eius graduis aetatis”, si spinge a modificare anche “multo” in “multi”. Varrone direbbe che, poiché la maggior parte degli “adulescentes” era sotto le armi, in quella guerra/ battaglia ne morirono molti, e in particolare quelli per bene; per citare le parole di Kettner: “cum maior pars adulescentiae … conficeretur in stipendiis faciendis, consentaneum est … multos periisse adulescentes, et prae ceteris eos qui praediti erant pudore et pudicitia, cum ignavi periculis non soleant se committere”. Questa ipotesi si espone a diverse obiezioni. Oltre al fatto che Kettner sembra qualificare il “pudor” e la “pudicitia” con una caratteristica, quella di esporsi ai pericoli, propria del loro esatto contrario, l’audacia149, va notato anche come l’intera sua proposta di correzione si basi su un’interpretazione discutibile di “maiorem partem”. Kettner intende il nesso come un sintagma avverbiale: “dal momento che, per la maggior parte (degli appartenenti a) quel grado di età, erano impegnati nel servizio militare”. Un uso del genere di “maiorem partem” è attestato (vedi Cic. Acad. pr. 14, maiorem autem partem mihi quidem omnes isti videntur nimis etiam quaedam adfirmare; Hyg. fab. 30, maiorem partem Iove adiutore), ma non mi sembra che sia il caso del nostro frammento, dove intendere “maiorem partem” in questo senso conferisce alla frase una struttura sintattica traballante, come emerge anche dal mio tentativo di traduzione, incerto e segnato dalla necessità di integrare a senso qualcosa per far tornare il discorso. Kettner infatti, nella sua parafrasi del passo, scrive “maior pars adulescentiae”, che si presta bene ad appoggiare la sua proposta (poiché la maggior parte dei giovani era sotto le armi, questi perirono in guerra), ma non corrisponde esattamente al testo di Varrone. Io piuttosto, tenendo anche conto che con “gradus aetatis” si identificano definiti periodi di tempo, intenderei “maiorem partem eius graduis aetatis”150 come un
Sarebbe anche possibile interpretare “pudor” come “ritegno a darsi alla fuga”, il che parzialmente autorizzerebbe la lettura di Kettner, ma questo significato non può adattarsi in alcun modo a “pudicitia”. 150 I codici hanno “maiore patre”, emendato da Mercier in “maiorem partem”, testo accolto da tutti gli editori, con l’eccezione di Salvadore, che stampa “maiore parte” come soluzione più vicina al testo tradito. Per esprimere la nozione “durante la maggior parte dell’adulescentia”, in effetti, si potrebbe impiegare anche un complemento di tempo determinato e accogliere quindi il testo di Salvadore. Tuttavia, ho preferito seguire Mercier, dal momento che l’accusativo esprime questa nozione temporale in modo più preciso (d’altro canto, al momento della corruttela della stringa, la perdita di un compendio di nasale è un accidente facilissimo da postulare). 149
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complemento di tempo continuato: “per la maggior parte dell’adulescentia”. Varrone non direbbe che la maggior parte degli “adulescentis” erano sotto le armi, ma che sotto le armi consumavano la maggior parte della loro “adulescentia”. Interpretando così il testo, la sintassi torna, la lettura risulta molto più scorrevole e si evitano le ridondanze espressive, al limite della tautologia, che mostra il testo di Kettner, dove si direbbe che molti “adulescentis” perirono perché la maggior parte degli “adulescentis” erano in guerra. Una volta interpretato “maiorem partem” come un complemento di tempo, viene anche meno ogni motivo per accogliere la correzione di “multo” in “multi”. Kettner è infatti costretto a introdurre nel testo la nozione che a morire fossero “multi … adulescentis”, così da creare una sorta di collegamento logico fra la prima parte del frammento e quella in cui compare l’espressione “maiorem partem”. Questo intervento, alla luce delle precedenti considerazioni, si rivela del tutto fuorviante. Almeno Kettner, pur ipotizzando che qui Varrone stesse parlando dei caduti in uno scontro, non si pronuncia sull’identificazione dell’episodio bellico in questione (“nescio qua in pugna”), mentre Riposati sostiene con una certa perentorietà che si tratti della battaglia di Eraclea, combattuta contro Pirro nel 280, al punto da stampare il frammento prima del fr. 75, dedicato all’ambasciata di Cinea ai Romani. Ovviamente, questa identificazione non trova alcun riscontro nel testo. Ha riscosso un certo successo anche la correzione di Mercier “vixerunt”, accolta da Lindsay (che ne propone in apparato anche un’altra dello stesso segno: “degerunt”) e da Salvadore. Con “vixerunt” il frammento direbbe che, nella Roma repubblicana, “ci furono giovani forniti di notevole rispetto e moderazione”. Quanto alla frase “cum maiorem … facerent”, il cum narrativo potrebbe corrispondere tanto a una concessiva (sebbene passassero la maggior parte dell’adolescenza sotto le armi, il che poteva dare adito a comportamenti superbi, restavano “multo praediti pudore”), quanto a una causale (poiché passavano la maggior parte dell’adolescenza sotto le armi, apprendevano la disciplina e mantenevano il giusto “pudor”). Si tratta di una soluzione non impossibile, che trova un certo appoggio nella visione idealizzata del passato propria di molti frammenti del de vita: in questo caso, l’esistenza stessa di giovani rispettosi potrebbe costituire una sorta di exemplum storico, in contrapposizione alle figure turbolente (come Clodio o Curione) del periodo delle guerre civili. Tuttavia, data l’estrema incertezza sul contesto e sul contenuto del frammento, nonché i dubbi su come intendere la subordinata, anche questa soluzione rischia di forni336
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re un’interpretazione del frammento troppo esplicita, che non trova particolari appoggi nel testo (se non nel sospetto che “dixerunt” sia corrotto). Anche la proposta (comunque espressa dubitanter) di Salvadore di riferire il frammento a un episodio narrato da Livio (7, 7.5, in cui si parla dell’arruolamento di una milizia scelta composta dall’“eximium florem iuventutis” da impiegare contro gli Ernici) non convince particolarmente. Livio, infatti, parla di una misura eccezionale, mentre il frammento sembra alludere al servizio militare regolare, che impiegava gran parte dell’“adulescentia”. Anche con “vixerunt”, dunque, le difficoltà poste dal frammento permangono. Pertanto, continuo a ritenere prudente intervenire il meno possibile sul testo della citazione e lasciare “dixerunt”, ipotizzando che nel seguito si sviluppasse un discorso indiretto. Vorrei concludere con una nota a proposito dell’espressione “multo praediti pudore et pudicitia”. Il sintagma, infatti, mostra una certa ridondanza, che potrebbe però essere difesa come un tratto stilistico non estraneo a Varrone, che anche in altri frammenti del de vita impiega coppie sinonimiche ed espressioni pleonastiche: vedi fr. 4, glabri ac depilis; 6, paupertina, sine elegantia ac cum castimonia; fr. 24, angustiis paupertinis; fr. 52, palliolum praecinctui, quo nudae infra papillas praecinguntur; fr. 55, vestitum delicatiorem ac luxuriosum; fr. 70, cum in quintum gradum pervenerant atque habebant sexaginta annos, tum denique erant a publicis negotiis liberi atque otiosi; fr. 106, rumore famam differant licebit nosque carpant; cfr. il fr. 105, in cui la stessa parola “convivium” ricorre a brevissima distanza. Va però detto che, mentre nei casi appena citati Varrone opera comunque una certa variazione, qui la forma “multo … pudore et pudicitia” sarebbe particolarmente piatta. Inoltre, la concordanza “multo praediti pudore et pudicitia” è asimmetrica e piuttosto dura. Mi chiedo se non sia il caso di ipotizzare che “et pudicitia” sia il frutto dell’inserzione a testo di una sorta di glossa interlineare: il modello dell’archetipo poteva avere “pudore” glossato come “pudicitia”; al momento della copia, la glossa serebbe stata scambiata per una correzione e sarebbe stata inserita a testo (l’“et” potrebbe essere tanto un’aggiunta del copista per coordinare i due termini quanto l’esito del fraintendimento di un “vel” abbreviato posto prima della glossa). Se così fosse, avremmo il testo “multo praediti pudore adulescentis”, senza dubbio più elegante. Tuttavia, il frammento è troppo scarno perché lo si possa modificare con un buon margine di sicurezza. Pertanto, ho preferito segnalare i miei dubbi su “et pudicitia” in apparato, senza però procedere a un’espunzione che rischierebbe di riscrivere un testo problematico e, forse, di cancellare un tratto della prosa varroniana. 337
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81 (= 65 R.; 298 S.) nec minus alio in genere sunt ludi velites Galli, Germani petauristae 1: vellitis F3BA; vellidis L; corr. Palmerius (an velitis nom. plur.?) Non. p. 79.26-32: PETAVRISTAE a veteribus dicebantur qui saltibus vel schemis levioribus moverentur: et haec proprietas a Graeca nominatione descendit, ἀπὸ τοῦ πετᾶσθαι. Varro Epistula ad Caesarem: ‘convocat Ptolomaeum cinaedologon, Nicona petauristen, Diona aulopoion’; idem de vita populi Romani lib. II: 1: schenis BA; 3: cinedo loco codd., corr. Iunius; 4: fr. 81 ad l. I fortasse tribuendum
Il frammento è difficile da collocare e presenta notevoli difficoltà testuali. È vero che dagli scarsi resti trasmessi si può ricavare il dato principale della citazione: sembra che Varrone stia indicando la provenienza geografica di determinati tipi di saltimbanchi e giocolieri. Tuttavia, la sintassi complessiva del brano sfugge completamente e, venendo a un’analisi dettagliata del frammento, sorgono problemi insormontabili. Per questo motivo, ho preferito non dare una traduzione del frammento, ma discuterne le possibili soluzioni interpretative (nessuna delle quali è del tutto convincente) in sede di commento. Le difficoltà poste dal brano sono molteplici. In primo luogo, Nonio ha tagliato la citazione in modo particolarmente maldestro, con il risultato che è pressoché impossibile ordinare la stringa da lui trasmessa secondo una precisa struttura sintattica, né si riesce a comprendere se la citazione sia tratta da uno stesso periodo o se sia composta con frustuli derivanti da due frasi diverse, ma contigue (siamo insomma nella stessa situazione in cui ci troveremmo per il fr. 47, se non disponessimo, in quel caso, di altre fonti rispetto a Nonio che permettono di integrare la citazione noniana in un contesto più ampio). Allo stesso modo, non si può escludere la possibilità che il frammento, nella forma tradita, non sia frutto solo di un taglio maldestro, ma anche di un tentativo, da parte di Nonio, di abbreviare un discorso più ampio e articolato (il grammatico, per racchiudere nell’ambito di un’unica citazione due termini entrambi interessanti sul piano linguistico, “velites” e “petauristae”, avrebbe potuto omettere parte della frase, compromettendo in modo irreparabile parte del discorso). Personalmente, sulla base degli usi di Nonio ritengo più probabile la prima soluzione: proprio il caso del fr. 47 mostra che Nonio in genere è tanto scrupoloso nel riportare esattamente la stringa che decide di citare quanto è indifferente al contesto generale da 338
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cui questa è tratta e disinvolto nel troncare periodi e sezioni. Mi sembra dunque più economico pensare che qui Nonio stia citando letteralmente uno stralcio del testo di Varrone, purtroppo privandolo del suo contesto con un taglio feroce, piuttosto che supporre che abbia di proposito omesso del testo interno alla citazione. Comunque, è forte il sospetto che la definizione del lemma “petauristae” data da Nonio e, soprattutto, l’etimologia lì fornita derivino da Varrone. Nonio, come è stato spesso detto, evita di corredare le citazioni con materiale di propria mano o con informazioni che non potevano essere tratte dalle citazioni stesse. In questo caso, la citazione dal de vita non fornisce alcuna definizione del termine “petauristae”, ma presenta dei tratti che lasciano intendere che possa provenire da una discussione teorica su alcuni tipi di artisti “di strada”: la specificazione della provenienza geografica dei diversi tipi di giocolieri si accorda bene con la natura classificatoria del lavoro di Varrone e l’espressione “alio in genere” lascia supporre che, nella parte precedente la citazione, Varrone distinguesse diversi generi di intrattenimento. Nel contesto di una trattazione del genere, Varrone poteva appunto elencare più tipologie di saltimbanchi e, venuto ai “petauristae”, specificarne le caratteristiche distintive e fornire l’etimologia del nome (la probabilità che Nonio potesse trovare questa etimologia in Varrone aumenta se si tiene conto del fatto che la derivazione “petaurista ἀπὸ τοῦ πετᾶσθαι” risale a Elio Stilone, il maestro di Varrone, vedi Fest. p. 226.26-30 L., Petauristas Lucilius a peteuro appellatos existimare videtur […] at Aelius Stilo in aere volent, cum ait: Petaurista proprie Graece ideo quod is πρὸς ἀέρα πέταται). Questa parte del discorso sarebbe stata sintetizzata da Nonio (probabilmente in termini molto simili a quelli impiegati da Varrone; noterei che l’espressione “saltibus vel schemis151 levioribus”, qualora si intendesse “levioribus” come un vero comparativo e non come un comparativo assoluto, potrebbe rimandare indirettamente a una distinzione che Varrone operava fra i vari tipi di saltimbanchi, qualcosa del tipo, “alcuni erano detti x…, quelli che avevano movenze più agili erano detti petauristae”) nella sua definizione del lemma. Nonio poi, invece di riportare come citazione il passo varroniano da cui aveva tratto l’etimologia (cosa che fa di norma), in questo caso avrebbe potuto estrarre dalla sezione del de vita che stava consultando soltanto le poche parole mutile che compongono il fr. 81, al fine di unire in un’unica citazione tanto il termine glossato “petauristae” quanto un’al Per questa forma, probabilmente dovuta a Nonio, non a Varrone, vedi NW I, 502.
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tra voce interessante, “velites”. A favore di questa ipotesi, va tenuto conto del fatto che la voce noniana proviene dal primo libro del de compendiosa doctrina, quello in cui il grammatico raccoglie le etimologie trovate sfogliando i volumi della sua biblioteca: l’etimologia di “petauristae” presente nel lemma non può essere quindi un’aggiunta dotta di Nonio, ma costituisce la ragion d’essere della citazione. Per questo sospetto che Nonio abbia tratto dalla stessa sezione del de vita da cui proviene il fr. 81 anche le informazioni sul termine “petauristae” che riporta nella definizione e che abbia voluto citare, come occorrenza del termine, solo una parte della sezione qui riassunta, quella in cui compariva un altro termine particolare. Se le cose stanno così, il fr. 81 verrebbe ad essere la citazione primaria di questa voce noniana. L’ipotesi trova una conferma nell’analisi dell’altra citazione varroniana (quella dall’epistula ad Caesarem) trasmessa da Nonio alla voce “petauristae”. Questa citazione ha tutta l’aria di essere una citazione secondaria: mentre il fr. 81, nonostante la forma mutila, sembra appartenere comunque a un contesto argomentativo, il frammento dall’“epistula” mostra uno spirito satirico e polemico, che rimanda a un contesto di discorso politico (irrisione di Tolomeo XIV, avversario di Cesare nel bellum Alexandrinum?) piuttosto che a un’esposizione del significato del termine “petauristes”. Inoltre, anche il fatto che il termine, nella citazione dall’“epistula”, sia al singolare e non al plurale (come nel lemma e, pare, nel fr. 81) rafforza il sospetto che si tratti di una citazione secondaria. Non può essere del tutto esclusa una terza possibilità, che Nonio abbia trovato la definizione e l’etimologia di “petauristae” non nel passo del de vita da cui proviene il fr. 81, ma in un’altra fonte (un altro luogo varroniano, un altro grammatico, un glossario?) e che abbia corredato questa informazione con due citazioni secondarie da Varrone (una dall’epistula ad Caesarem e una dal de vita). Data l’incertezza in cui versiamo per questo frammento, potrebbe anche essere successo qualcosa del genere. Tuttavia, la dinamica presupposta sarebbe estremamente macchinosa e si dovrebbe, per giunta, ammettere l’esistenza di un lemma noniano senza citazioni primarie. Pertanto, preferisco considerare il fr. 81 come la citazione primaria della voce e proporre l’ipotesi sopra esposta. Riconoscere il fr. 81 come citazione primaria, inoltre, comporterebbe delle significative conseguenze anche sul piano della collocazione del frammento: verrebbe a costituire infatti il primo frammento di una serie di citazioni primarie e, quindi, a ricadere sotto le norme della “lex Lindsay”. Le implicazioni di questo dato verranno esposte in seguito. 340
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Venendo all’analisi in dettaglio del frammento, come dicevo il suo stato mutilo comporta notevoli difficoltà. La prima riguarda l’espressione pendens “alio in genere”, il cui referente è stato escluso dalla citazione, con la conseguenza che non si può comprendere a cosa Varrone esattamente si riferisse. A senso, si capisce che Varrone potesse parlare di differenti generi di spettacolo, dicendo che in una branca così come in un’altra la provenienza geografica dei “velites” e dei “petauristae” era di norma sempre la stessa. Tuttavia, non si può andare oltre questa suggestione, per cui il senso ultimo dell’espressione rimane indefinito. L’altro grande problema riguarda la comprensione del termine “ludi”. Potrebbe trattarsi, infatti, tanto di un genitivo singolare, quanto di un nominativo plurale di “ludus”; oppure essere (non mi risulta che questa ipotesi sia stata finora proposta) il nominativo plurale di “ludius”. Prendendo “ludi” come un genitivo, verrebbe naturale legarlo ad “alio in genere”, di modo che il senso finale della frase sia “in un altro genere di giochi, ugualmente i velites provengono dalla Gallia e i petauristae dalla Germania”. Una lettura del genere darebbe un senso a suo modo soddisfacente (certo, resterebbe l’incertezza sui vari generi di “ludus” contrapposti; considerato che il “veles” è anche un tipo di gladiatore, forse Varrone poteva considerare da un lato i giochi del circo e dall’altro gli intermezzi teatrali), se non fosse che implicherebbe un ordo verborum particolarmente contorto, “alio in genere sunt ludi”, con il verbo a separare il genitivo dal termine che lo regge. Anche intendendo “ludi” come un nominativo plurale di “ludus” sorgono delle difficoltà. Questa è la soluzione adottata da Kettner e da Brunetti. Partendo dal dato che i codici di Nonio riportano la lezione “vellitis”, Kettner propone di correggerla in “velitis” e di intendere “velitis Galli” e “Germani petauristae” come due genitivi singolari. In questo caso, “ludi” costituirebbe il soggetto di “sunt” e il senso sarebbe: “in un altro genere, sono ugualmente giochi quelli del giocoliere di Gallia e dell’acrobata di Germania”. Stando a questa ricostruzione, il frammento sarebbe stato tratto da una sezione in cui Varrone distingueva i differenti generi di “ludus” e concludeva che anche i numeri dei giocolieri potevano essere classificati come “ludus”. Tuttavia, anche questa lettura richiede una certa torsione sul piano della sintassi e sembra smentita dal lemma di Nonio, dove “petauristae” è senza dubbio un nominativo plurale, cosa che lascia supporre che anche nella citazione primaria il termine dovesse avere questo valore. Proporrei dunque una terza ipotesi, quella di considerare “ludi” come un nominativo plurale da “ludius” (= “ludii”): “sunt ludi” verrebbe ad essere un pre341
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dicato nominale di “velitis Galli, Germani petauristae”, che sarebbero i soggetti della frase. Quanto alla forma “velitis”, proporrei di non “normalizzarla” in “velites”, ma di mantenere la desinenza tradita in -is: sarebbe un’altra occorrenza in frammenti del de vita di un nominativo plurale in -is (come quelle già incontrate e discusse al fr. 4); per giunta, un nominativo plurale “velitis” è attestato anche in un frammento delle historiae di Sallustio sempre trasmesso da Nonio (p. 887.28 L., vedi NW I 382). Adottando questa lettura, il frammente potrebbe essere tradotto come “in un altro genere (di spettacoli?) sono ugualmente ludii i velitis della Gallia e i petauristae della Germania”. Credo che, a livello sintattico, questa sia la soluzione che crei meno problemi e dia il senso più soddisfacente. Varrone poteva menzionare nella parte precedente il termine “ludius”, proprio del gergo teatrale, e illustrarne il significato, per poi procedere specificando che si potevano definire “ludii”, al di fuori degli spettacoli teatrali in senso proprio, anche “artisti di strada” come i “velitis” e i “petauristae”. Considerando tutti i frammenti superstiti del de vita, notiamo come Varrone di “ludii” parlasse già al fr. 4, dove, nonostante diverse difficoltà interpretative, pare assodato che con questo termine identificasse i “pueri praesules” incaricati di compiere le danze inaugurali degli spettacoli. Dal momento che sembra che Varrone, nel fr. 4, approfittasse della menzione dei “pueri praesules” proprio per aprire una digressione sul termine “ludius”, forse non sarebbe del tutto fuori luogo sospettare che il fr. 81 potesse appartenere a un contesto vicino, se non addirittura allo stesso contesto del fr. 4. Il fr. 4 appartiene al primo libro del de vita, però, mentre i codici di Nonio attribuiscono il fr. 81 al secondo libro. Se volessimo legare il fr. 81 al fr. 4, quindi, dovremmo correggere il testo di Nonio e modificare l’indicazione del libro, pensando che “lib. II” si sia formato per dittografia a partire da un corretto “lib. I”. Si tratta senza dubbio di un’operazione ardita; tuttavia, mi permetto di proporla perché potrebbe trovare anche un sostegno nella “lex Lindsay”. Come accennavo sopra, in genere il fr. 81 viene considerato alla stregua di una citazione secondaria, all’interno di una voce la cui citazione primaria proverrebbe da un glossario. Se invece, in base al ragionamento sopra condotto, consideriamo il fr. 81 come la citazione primaria della voce, verremmo ad avere una situazione del tutto diversa. Il fr. 81, infatti, verrebbe ad essere il primo di una serie di frammenti dal de vita (citazioni primarie) citati in successione da Nonio. Alla voce “Petauristae” seguono infatti le voci “Curiam” e “Legionum”, fonti rispettivamente dei frr. 69 e 83. Se il fr. 81 venisse aggregato a questa serie, allora la “lex 342
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Lindsay” darebbe l’ordine 81 – 69 (l. 2) – 83 (l. 3), un ordine che sembra confermare la mia proposta di attribuire il fr. 81 al primo libro del de vita. Seguendo dunque questa strada, il fr. 81 potrebbe far parte della sezione del primo libro in cui Varrone discuteva il significato di “ludius” e da cui deriva anche il fr. 4. Dopo aver identificato i “ludii” con i “pueri praesules” (fr. 4), Varrone poteva procedere dicendo che erano “ludii” anche i “velitis” e i “petauristae” (fr. 81), per poi magari fornire una descrizione più dettagliata di queste due tipologie di giocolieri, da cui Nonio avrebbe tratto le informazioni riportate nella sua definizione. Certo, considerato quanto poco è rimasto del de vita, non si può escludere che in realtà i frr. 4 ed 81 provengano da due contesti completamente diversi e lontani fra loro, o che il fr. 81 provenga davvero dal l. 2, ma da una sezione di cui non si è salvato altro. Proprio perché la mia proposta di collocare il fr. 81 nel primo libro, all’interno di una sezione tematica sugli spettacoli, non può che essere soltanto un’ipotesi, ho preferito mantenere il frammento, come fanno gli altri editori, fra quelli attribuiti al secondo libro, ma di collocazione incerta, segnalando i miei dubbi in apparato. Allo stesso modo, non ho voluto darne una traduzione che avvalorasse la mia proposta di intendere “ludi” come un nominativo plurale di “ludius”, ma ho preferito pubblicarne il testo senza traduzione ed esporre la mia proposta in sede di commento. In conclusione, una nota sui due tipi di giocolieri menzionati da Varrone. Il “petaurista” (o “petauristes”) era un acrobata la cui specialità era caratterizzata dall’impiego di un particolare attrezzo, il “petaurum”. Questo doveva essere una struttura impiegata dai “petauristae” per eseguire numeri acrobatici ed evoluzioni in aria; non è esattamente chiaro se si trattasse di una sorta di trapezio (vedi RE XIX, 1 coll. 1124.40-1125.27; l’ipotesi è accolta da Shackleton Bailey ad Mart. 2, 86.7) o di un trampolino (l’esibizione di due “petauristae” su di un trampolino è descritta in dettaglio da Man. 5, 438-445, per cui rimando alle note di Housman nell’ed. maior; per una rassegna delle varie proposte vedi il commento di Williams a Mart. loc. cit.). I “velites”, a differenza dei “petauristae”, che si configurano come degli acrobati, dovevano essere piuttosto dei giocolieri. Per analogia con l’omonima tipologia di soldati, che davano inizio al combattimento impiegando armi leggere da lancio, doveva trattarsi di artisti che si esibivano in prove di destrezza scambiandosi oggetti al volo (possiamo pensare a qualcosa di simile alle classiche clavette della ginnastica ritmica). Pur non avendo descrizioni precise dei numeri dei 343
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“velites” giocolieri, possiamo basarci sulle informazioni trasmesse circa un particolare tipo di gladiatori, detti “velites” anche loro, specializzati nell’affrontarsi scagliandosi contro delle lance da una certa distanza: vedi Isid. et. 18, 57, velitum pugna erat ut ultro citroque tela obiectarent. Erat enim eorum varia pugna et spectantibus gratior quam reliqua e Mosci Sassi 1992, pp. 181-182. È dunque possibile che anche i “velites” giocolieri, allo stesso modo, si passassero al volo degli oggetti, come i moderni sbandieratori. Probabilmente a una figura del genere si paragona scherzosamente Cicerone a fam. 9, 20.1: me autem a te ut scurram velitem malis oneratum esse non moleste tuli (purtroppo la perdita della lettera di Peto a cui Cicerone qui sta replicando impedisce di comprendere il senso esatto della battuta, vedi il comm. di Shackleton Bailey ad loc.). 82 (= 74 R.; 400 S.) † aut aliqua ex argentaria trutina aut lingula pensum prae se omnes ferent † 1: ut aliqua Müller dubitanter | lingula vir doctus apud Quicherat; lingua codd., Kettner; lance Brunetti | ferrent Brunetti Non. p. 265.25-30: TRVTINA […] Varro de vita populi Romani lib. II:
Altro frammento dal contenuto oscuro. La mancanza di appigli che permettano di risalire a un contesto e il brusco taglio operato da Nonio rendono particolarmente difficile la comprensione di queste parole: pertanto, come nel caso del frammento precedente, ho preferito evitare di darne una traduzione. Partendo dai dati meno incerti forniti dalla citazione, pare che vi siano menzionati due strumenti, la “trutina” e la “lingula”. La “trutina” è senza dubbio un tipo di bilancia (vedi OLD 1982): da Vitr. 10, 1.6 e Iuv. 6.436-437 si ricava che doveva trattarsi della classica bilancia con due piatti posti alle estremità di un’asta; forse rispetto alla bilancia comune la “trutina” costituiva un modello più grezzo (vedi Cic. de or. 2, 159) o più arcaico (vedi l. L. 5, 183). Più difficile è l’individuazione del significato di “lingula” (correzione umanistica per il tradito “lingua”; si tratta oggettivamente della soluzione più economica, anche se, come vedremo, “lingula” pone i suoi problemi interpretativi). Il termine infatti, in accordo con la precedente menzione della “trutina”, dovrebbe a senso riferirsi a uno strumento di misurazione. Il punto è che mancano vere e proprie attestazioni di “lingula” con il significato esatto di “bilancia, strumento per pesare” (vedi ThLL VII, 2 1453.39-1454.13). Il termine “lingula”, infatti, viene 344
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impiegato in generale per contrassegnare degli oggetti di piccole dimensioni dalla forma simile a quella di una lingua; vengono dunque chiamate “lingulae” tanto delle piccole spade, quanto le linguette usate come stringhe per calzature, gli orli di una ferita e le lancette degli orologi (Vitr. 10, 8.4). Forse proprio quest’ultima accezione potrebbe offrire una base per la lettura del frammento: dal momento che “lingula” si può chiamare la lancetta che sta a indicare l’ora su di un quadrante o su di una scala graduata, forse il termine potrebbe assumere in modo analogo il senso di “ago della bilancia”. Va però detto che questo significato sarebbe confortato da una sola attestazione (comm. Cornuti ad Pers. 1.6), in base alla quale la “lingula” dovrebbe essere il fulcro dell’asta alle cui estremità pendono i due piatti della bilancia. Il testo dello scolio, però, è controverso: Kissel stampa examen autem est lingua vel lignum quod mediam hastam ad aequanda pondera tenet, mentre la variante “lingula” si trova solo in versioni tarde e decurtate degli scolii (nei codd. BVin examen est lingula de qua mediam hastam…, nel codice T examen est ligula per quam mediam hastam…). Di fatto, i dubbi su “lingula” permangono; come si vedrà a breve, anche ammettendo il significato di “ago della bilancia” il senso generale del frammento e la sua organizzazione sintattica continuano a sfuggire. Passando alle varie letture date dagli editori, riporterei in primo luogo il lapidario giudizio di Kettner: “fragmentum prorsus obscurum”. Oggettivamente, considerate le numerose difficoltà poste dalle interpretazioni di chi ha tentato di dare un senso e un contesto alle parole riportate da Nonio, la scettica conclusione di Kettner rimane la più condivisibile. Riposati non fornisce una sua traduzione, né in sede di commento si pronuncia in modo da permettere al lettore di capire quale sia la sua lettura del brano. Si limita infatti a sminuire in nota (p. 181, n. 5) il dubbio di Kettner, chiosando “tutto inclina a far ritenere trutina e lingula come mezzi di misura” e ad accennare che il frammento potrebbe riferirsi alle leggi suntuarie. Riposati non spiega, tuttavia, né quale sia la sintassi del frammento, né in che modo questo potesse collegarsi alle leggi suntuarie. Si può ipotizzare che Riposati avesse pensato alla “trutina” e alla “lingula” come a strumenti impiegati per controllare che le quantità di determinati beni posseduti dai cittadini non superassero un certo limite, ma si tratta di una supposizione priva di qualsiasi riscontro nel testo. Inoltre, noterei come il fatto che nella citazione noniana sia tradito un futuro (“ferent”) in parte smentisca l’idea di Riposati che il frammento appartenesse a una sezio345
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ne storica. Se così fosse, infatti, sarebbe naturale aspettarsi piuttosto una forma verbale riferibile al passato. Non a caso, Brunetti sospetta che “ferent” sia una corruttela di “ferrent” (anche se lui intende “ferrent” come un congiuntivo della possibilità). La totale assenza di contesto non permette di stabilire se davvero il congiuntivo imperfetto sia necessario; certo, con “ferrent” Riposati avrebbe potuto, con un po’ più di verosimiglianza, suggerire che il frammento facesse parte, ad esempio, di una consecutiva in cui Varrone descriveva in breve le conseguenze dell’istituzione delle leggi suntuarie. Tuttavia, Riposati stampa “ferent”, il che rende problematica la sua interpretazione (al limite si potrebbe pensare che il frammento facesse parte di un discorso diretto in cui un sostenitore – o un avversario – delle leggi suntuarie ne esponeva le prevedibili conseguenze, ma, a questo punto, si rischierebbe un eccesso di sovrainterpretazione). L’uso del futuro mi farebbe piuttosto propendere per l’ipotesi (in parte anche di Müller) che il frammento appartenesse a un contesto dal tono polemico o moralistico, in cui Varrone esprimeva sue previsioni sullo sviluppo di un (mal?)costume che, dato il taglio di Nonio, non possiamo conoscere. Vorrei indicare ora in breve gli altri problemi posti dalla citazione. In primo luogo, non si capisce a cosa vada riferito “argentaria”. L’ordo verborum porterebbe a legare l’aggettivo a “trutina”, di modo che tutto il nesso “aliqua ex argentaria trutina” abbia il senso di “da una bilancia argentaria”. Ma anche il significato di “argentaria” è dubbio: dal momento che, come si è detto più volte, esistono due tipi di “argentum”, l’“argentum factum” (argenteria di lusso e oggetti di oreficeria) e l’“argentum signatum” (monete coniate), nel nostro passo non si capisce se la “trutina argentaria” sia la bilancia usata dagli orafi (diremmo noi: un bilancino di precisione) o piuttosto quella impiegata nelle botteghe dei cambiavalute (le “tabernae argentariae”). Da un lato, l’espressione “prae se … ferent” (che, se intesa come “ostenteranno”, potrebbe anche riferirsi a oggetti di lusso) farebbe propendere per l’ipotesi che si tratti di un bilancino da gioielliere (così Brunetti); tuttavia, il passo del de oratore sopra citato contrappone significativamente la “popularis trutina” proprio alla “aurificis statera” e questo sembra un elemento abbastanza forte per appoggiare l’interpretazione opposta. Le difficoltà, comunque, permangono. Inoltre, non tutti legano “argentaria” a “trutina”, ma la maggior parte degli interpreti (Müller, seguito da Andreau, vedi infra; anche il Thesaurus, X, 1 1043.58-60 adotta questa soluzione) propone di intendere “aliqua ex argentaria” come un’espressione a sé (= “aliqua ex argentaria (taber346
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na)”, “da una bottega di cambio”), separando dunque “argentaria” da “trutina”, che verrebbe a costituire un ablativo semplice, come “lingula”, retto da “pensum”. La soluzione non è teoricamente impossibile (l’uso metonimico di “argentaria” per “argentaria taberna” è comune, vedi fr. 76, dove però si trova una menzione esplicita delle “tabernae” nel contesto immediatamente precedente) e forse permetterebbe di risolvere i problemi posti dall’espressione “argentaria trutina”. Tuttavia, come ammette lo stesse Andreau, il testo “aliqua ex argentaria | trutina aut lingula” verrebbe ad essere molto ambiguo. Un’altra difficoltà è posta dal verbo “prae se ferent”: va infatti inteso nel senso letterale (“prenderanno per sé” cioè “per il proprio tornaconto” o “si accaparreranno”, come leggono Brunetti e, pare, Riposati) o piuttosto nel senso idiomatico che l’espressione ha subito acquistato, quello di “ostentare, vantarsi di” ? Dico subito che, dati i problemi del brano, credo manchino le basi per appoggiare l’una o l’altra soluzione; anche il tono polemico che potrebbe essere suggerito dall’uso del futuro “ferent” potrebbe accordarsi bene con entrambe le ipotesi (Varrone poteva criticare tanto chi si vantasse di qualcosa quanto chi la rivendicasse esclusivamente per sé). Anche il modo di intendere “pensum” non è del tutto chiaro: è un sostantivo (“un peso”) o un participio perfetto (“un oggetto pesato”)? Certo, nel primo caso il senso sarebbe davvero debole (“prenderanno un peso da una bilancia”?), mentre ci sono molte più probabilità che “pensum” sia un participio. Questo dato potrebbe in parte avvalorare l’ipotesi di Müller ed Andreau sulla sintassi del frammento: dal momento che la costruzione regolare di “pendere” è con l’ablativo semplice (vedi ThLL X, 1 1043.5669), è più probabile che il costrutto esatto sia “trutina aut lingula pensum” piuttosto che “ex argentaria trutina … pensum”152. In ogni caso, il taglio di Nonio non permette di risalire al termine cui “pensum” si riferisce, ossia all’oggetto che gli “omnes” del frammento avrebbero portato (o ostentato). Il Thesaurus pensa che fosse “argentum” (tra l’altro, una menzione esplicita del termine “argentum” nel seguito immediato del frammento avrebbe forse limitato l’ambiguità dell’espressione “aliqua ex argentaria trutina aut lingula pensum”), mentre Müller, pensando che tutta la frase abbia un senso metaforico, integra a senso qualcosa come “verbum”. Per quanto si trovino esempi, pur minoritari, di “pendere” costruito con “ex” e l’ablativo: vedi Cic. Quinct. 5, si apud hoc consilium ex opibus, non ex veritate causa pendetur. 152
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Data la menzione di Müller, vorrei esporre la sua interpretazione del frammento, la più ampia e dettagliata finora proposta. Lo studioso nota la carica polemica del futuro “ferent”, ma, piuttosto che pensare a una critica moralistica (contro l’accaparrarsi delle ricchezze, qualcosa del tipo “e di lì a poco i cittadini ostenteranno…”), ipotizza, sulla base di alcune attestazioni in cui il termine “trutina” è impiegato in senso metaforico nel campo della critica letteraria (come il già citato passo di Iuv. 6.437), una polemica fra Varrone e i suoi contemporanei sullo stile da impiegare nella composizione di un’opera. Varrone, secondo Müller, starebbe ironizzando sui vezzi di alcuni suoi colleghi, attenti a soppesare le parole e a farsi vanto di espressioni ricercate e passate a un attentissimo vaglio: “non abhorret a probabilitate his verbis a Varrone notari scriptorum aequalium nimiam circa dicendi genus curam”. Varrone criticherebbe gli scrittori che “si faranno vanto di una parola (“pensum … ”?) soppesata con un bilancino, come se l’avessero presa in prestito da un banco di cambiavalute”. Per i motivi sopra esposti, non escluderei che la soluzione sintattica proposta da Müller (sottintendere “ex argentaria (taberna)” e considerare “trutina” come un ablativo di causa efficiente retto da “pensum”) possa essere quella esatta. Concordo anche con l’idea che Nonio possa aver tratto questa citazione da una tirata polemica varroniana. Tuttavia, temo che il testo fornisca appigli troppo esigui per tracciare una ricostruzione così ampia del contesto della citazione e del suo significato. È comunque vero che alcuni frammenti superstiti del de vita contengono prese di posizione programmatiche sul modo di presentare il materiale antiquario al lettore (vedi fr. 57, forse frr. 1 e 58); inoltre, un frammento delle Menippeae presenterebbe una consonanza impressionante proprio con la lettura del fr. 82 proposta da Müller: itaque videas barbato rostro illum conmentari et unumquodque verbum statera auraria pendere (fr. 419 Astbury). Il parallelo dalle Menippeae prova che in effetti l’uso metaforico di “pendere” è attestato in Varrone (e il brano dal de oratore che discuterò a breve dimostra che tale uso dovesse essere piuttosto comune) e che, a livello teorico, l’interpretazione di Müller potrebbe essere valida. Tuttavia, vi sono delle contraddizioni che sfuggono a Müller (e anche ad Andreau 1987, p. 73). L’idea di Müller, secondo cui la “trutina” era impiegata come bilancia di precisione, trova un’obiezione proprio nei due passi che dovrebbero provare la sua ipotesi. A de or. 2, 159, infatti, Cicerone critica proprio l’impiego di eccessive sottigliezze e i sofismi lambiccati, dicendo che il buon oratore dovrebbe piuttosto mirare a 348
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farsi comprendere da tutti e a proporre ragionamenti che tutti siano in grado di seguire (haec enim nostra oratio multitudinis est auribus accommodanda … ad ea probanda quae non aurificis statera, sed populari quadam trutina examinantur). Cicerone effettivamente impiega la stessa metafora che Müller attribuirebbe a Varrone nel nostro frammento (pesare con la “trutina” qualcosa di incorporeo: parole in Varrone, argomentazioni logiche in Cicerone); tuttavia, come già si è osservato in precedenza, nel passo del de oratore a “trutina” è assegnato il significato opposto a quello che Müller rivendica per il fr. 82: in Cicerone la “trutina” è contrassegnata come una bilancia “alla buona”, non particolarmente precisa, mentre secondo Müller Varrone doveva presentarla come un bilancino di precisione. Questa incongruenza è accentuata dal fatto che, nel passo del de lingua Latina in cui Varrone parla esplicitamente della “trutina” (vedi supra), sembra presentarla come il tipo più arcaico di bilancia, un dato che lascia intendere che dovesse essere uno strumento piuttosto rozzo, ben diverso dalla “trutina” come la intende Müller. Per quanto riguarda il frammento dalle Menippeae, invece, questo presenta l’espressione “statera auraria”, il che portrebbe a legare per analogia, nel fr. 82, “argentaria” a “trutina”, contro la proposta di Müller (“ex argentaria (taberna)”). Infine, Müller non è in grado di risolvere le difficoltà poste da “lingula” (di fatto interpreta il frammento come se ci fosse soltanto “trutina pensum”). Anche Andreau 1987, pp. 72-74, di fatto espone le varie difficoltà del fr. 82, senza prendere posizione in modo preciso (anche lui tralascia i problemi posti da “lingula”). In breve, Andreau sembra appoggiare la lettura di Müller (intende cioè “argentaria” come “taberna argentaria”) e propone di usare il frammento come fonte sulla funzione delle “tabernae argentariae” nella Roma repubblicana. Lo stesso Andreau, tuttavia, nota che la citazione varroniana, se adoperata in questo senso, sarebbe in contraddizione con quanto detto da altre fonti. Il punto è che ho seri dubbi che si possano trarre informazioni utili sulle “tabernae argentariae” da un testo così mutilo e pieno di punti dubbiosi. Ho pertanto deciso di stampare il frammento come desperatus (sebbene in questo caso credo che il testo soffra più per la mancanza del contesto che per guasti di tradizione) e di dare per completezza una rapida rassegna dei suoi numerosi (e, temo, insolubili) problemi.
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Libro III Struttura del l. 3 La “lex Lindsay” non fornisce basi particolarmente solide circa l’ordinamento dei frammenti del terzo libro del de vita. Disponiamo di quattro serie di citazioni: due sicure, che trasmettono la successione 91 – 95 – 100 e 92 – 93, e due “fuori posto” (89 – 101 e 84 – 94153). In tre di queste serie, frammenti tratti da sezioni antiquarie precedono citazioni riguardanti episodi storici (nel primo caso, un frammento relativo all’esposizione di un rito funebre precede due citazioni su vicende delle guerre puniche; nelle ultime due serie, dei frammenti sull’organizzazione dell’esercito vengono prima di un frammento probabilmente dedicato a Tito Quinzio Flaminino e di uno sull’introduzione a Roma di un conio di monete in metallo prezioso, episodio del 269 a.C.), mentre i frammenti della serie 92 – 93 concernono entrambi lo stesso argomento (l’abbigliamento delle donne che facevano parte del corteo funebre romano). Poiché anche la maggior parte dei frammenti di carattere antiquario di questo libro trasmessi come citazioni isolate riguarda proprio questioni di diritto militare o riti funebri, è probabile che Varrone raggruppasse la propria materia in almeno due grandi sezioni tematiche, relative appunto all’esercito e alle usanze funerarie. Per quanto riguarda la parte “narrativa” del libro, fra le citazioni che contengono riferimenti a vicende storiche il fr. 94 concerne l’evento più antico (databile, come dico sopra, al 269), mentre il fr. 102 si riferisce all’episodio più recente (l’assegnazione al popolo romano dell’eredità del re di Pergamo Attalo III, del 133 a.C.). Considerato che nel l. 2 Varrone arrivava a parlare della guerra contro Pirro (vedi fr. 75), è probabile che la parte storica del l. 3 coprisse il resoconto della progressiva conquista, da parte di Roma, del Mediterraneo, dalle guerre puniche alla guerra macedonica, fino alla cessione del regno degli Attalidi. Credo che le vicende relative all’eredità di Attalo III fossero l’ultimo episodio trattato nel l. 3: da un lato, infatti, l’evento costituisce l’ultimo atto dell’espansione romana nel Mediterraneo, dall’altro, la questione dell’utilizzo dell’eredità di Attalo sarà alla base dello scoppio dei tumulti graccani. Dal momento che il riferimento all’evento più antico presente in un frammento
Sull’appartenenza dei frr. 84 e 101 al l. 3, vedi, oltre al commento ad loc., quanto già detto nell’introduzione. 153
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del l. 4 è relativo proprio ai Gracchi (fr. 108) e che quasi certamente Varrone dedicava questo libro al resoconto dettagliato dei contrasti politici e delle guerre civili verificatisi nella fase più drammatica della storia repubblicana, è forte il sospetto che Varrone chiudesse il l. 3 con la presentazione del momento in cui Roma aveva raggiunto l’apogeo della potenza, per poi passare, con il l. 4, a illustrare la degenerazione della prassi politica nello scontro fra cittadini. Una tale organizzazione della materia sarebbe stata di indubbia efficacia sul piano retorico, dato il brusco passaggio dai trionfi esterni al caos delle lotte intestine. Varrone, inoltre, avrebbe potuto collegare la fine del l. 3 (massima espansione di Roma) all’inizio del l. 4 (inizio delle lotte civili) sfruttando il comune motivo storiografico e moralistico che poneva fra le cause delle guerre civili proprio l’eccessiva grandezza raggiunta da Roma con le sue conquiste e la corsa sfrenata alle ricchezze e al potere (significativamente, anche il bellum civile di Petronio si apre sviluppando questo motivo, vedi Sat. 119.1-3, orbem iam totum victor Romanus habebat … nec satiatus erat; 120.83, nec posse ulterius perituram extollere molem): il fatto che parte dei frammenti del l. 4 contenga espliciti attacchi contro il lusso e la ricerca di potere personale da parte di eminenti figure politiche (frr. 115-121) sembra suggerire che un ragionamento del genere trovasse effettivamente posto nel libro. Accogliendo questa ricostruzione, si comprenderebbe molto bene la scelta di chiudere il l. 3 con la donazione di Attalo III e di aprire il l. 4 con un riferimento alla sedizione dei Gracchi, conseguenza della donazione e al contempo primo degli episodi che segneranno una nuova età di instabilità politica e guerre civili (“l’età delle res novae”). Se torniamo a considerare il periodo storico coperto dal racconto del l. 3, è anche possibile ipotizzare il motivo per cui i frammenti di contenuto antiquario riguardano principalmente l’organizzazione dell’esercito e i riti funebri. Trattandosi di un periodo caratterizzato da una sequela pressoché ininterrotta di vicende belliche, non sorprende che gran parte delle citazioni tratti argomenti attinenti all’esercito e al diritto militare. Per quanto riguarda, invece, la sezione sui riti funebri, il collegamento logico con la parte narrativa del l. 3 è meno immediato. Tuttavia si può supporre che Varrone, parlando di battaglie, come quelle combattute sul suolo italiano durante la seconda guerra punica, in cui il numero dei caduti da parte romana era stato altissimo, avesse trovato un modo per passare dal resoconto delle esequie pubbliche alla trattazione antiquaria delle pratiche funerarie private. 351
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Abbiamo in questo modo definito l’arco cronologico coperto dal l. 3 e le due grandi sezioni tematiche in cui sembra si sviluppasse la parte “enciclopedica” del libro. Purtroppo, con l’eccezione dei frammenti 92 e 93, che appartenevano con buona probabilità a un contesto vicino, forse addirittura alla stessa frase, e la cui successione è confermata, oltra che dalla “lex Lindsay”, anche dal contenuto, non disponiamo di elementi particolarmente solidi per capire come fossero organizzate le sezioni tematiche al loro interno e in che modo fossero connesse al racconto storiografico. In primo luogo, nessuna delle altre serie presenta due o più frammenti “antiquari” in successione, per cui non si può dire se la parte sull’esercito precedesse quella sui riti funebri o viceversa, né come i frammenti appartenenti a una stessa sezione tematica fossero ordinati fra loro. Poi, il fatto che in tre delle serie i frammenti “antiquari” precedano sempre quelli “storici” non basta a dimostrare che nel l. 3 Varrone trattasse prima le questioni antiquarie e poi procedesse a un riassunto di tutte le vicende storiche dal 270 circa al 133 a.C. Potrebbe infatti anche darsi che, come nel l. 2, i due elementi (discussione antiquaria e racconto storico) si alternassero e che solo per un caso in tutte le nostre serie i frammenti antiquari vengano prima di quelli storiografici. Per il l. 3, in conclusione, applicando la “lex Lindsay” non si ricava altro se non la successione dei singoli frammenti delle serie. Va comunque notato che, nella prima serie, i frr. 95 e 100 sembrano riferirsi entrambi alle guerre puniche, ma il primo allude chiaramente a un episodio avvenuto quando la guerra è ancora in corso, mentre il fr. 100 sembra parlare delle cerimonie di ringraziamento che ebbero luogo al termine dello scontro. Il fatto che la successione della serie sembri rispettare l’ordine cronologico dei fatti trattati è comunque una conferma della validità della “lex”, a prescindere dalle scarse possibilità di applicare la stessa ai frammenti di questo libro. Considerate queste difficoltà, ho preferito adottare l’ordine dato da Salvadore per i frammenti “antiquari” (tranne nei casi, segnalati nel commento, in cui questo ha implicazioni contraddittorie) e seguire, per le citazioni relative a eventi storici, la cronologia delle vicende cui i frammenti sembrano alludere. A mo’ di appendice, stampo due frammenti isolati (uno sulle navi usate dai Romani per trasportare merci lungo il Tevere, uno su un particolare onore riservato ai condottieri insigniti del trionfo), che, dato il loro contenuto non riferibile a nessuna delle sezioni tematiche postulate per questo libro, risultano di difficile collocazione.
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83 (= 86 R.; 402 S.) tum appellatus est dilectus et ab electione legio. ad hanc supervacaneorum consuetudine adscribuntur… 1: tunc Lugd., Paris. 7665 | dilectus ab electione, et Müller | ad hanc scripsi; ab hac codd.; ab hoc Popma; ad hoc Ruperti; at ab Müller (“fortasse” in app.) | supervacuaneorum L; 2: adscribtivi Mercier (in Corrigendis), Müller | post adscribuntur fortasse ascriptivi supplendum Non. p. 80.4-7: LEGIONVM proprietatem a dilectu militum Varro de vita populi Romani lib. III dictam interpretatur.
1: mitum La.c. | dictas La.c.
allora la leva fu chiamata dilectus e dall’atto di scegliere i soldati (electio) derivò il termine “legione”. In aggiunta alla legione, secondo il costume delle truppe soprannumerarie, vengono arruolati… Il frammento si avvicina, per forma e contenuto, ad altre citazioni dal l. 3 (8488) in cui viene fornita l’etimologia di termini del lessico militare. Dal momento che il fr. 83 concerne il termine “legio” e accenna alla leva dei soldati, ho stabilito di stamparlo come primo del gruppo, supponendo che Varrone parlasse prima dell’unità base dell’esercito (la legione appunto), per poi passare a esporre la natura dei suoi vari reparti. Allo stesso modo, è plausibile che una menzione del reclutamento precedesse l’esposizione delle diverse formazioni dell’esercito. La prima parte della citazione fornisce la derivazione (corretta, vedi ThLL VII 1105.55-59 e OLD 1014) dei termini “legio” e “dilectus” dal verbo “legere”: la “legio” trarrebbe il suo nome in quanto gruppo di soldati raccolti insieme (o selezionati); analogamente, la leva sarebbe detta “dilectus” dall’atto di scegliere i soldati. La stessa etimologia si trova anche in altre fonti, per cui vedi Salvadore 2004, p. 113. I paralleli per noi più interessanti sono quelli dal de lingua Latina, che coincidono quasi alla perfezione col fr. 83: 5, 87, legio, quod leguntur milites in dilectu e 6, 66 indidem ab legendo legio et diligens et dilectus. Resta una questione circa l’ordo verborum tradito, che Müller ha modificato in “appellatus est dilectus ab electione, et legio”, così da rendere il passo più vicino al parallelo di l. L. 6, 66. È vero che l’errore supposto (la dislocazione di un “et”) sarebbe un accidente facilissimo e che il testo di Müller potrebbe sembrare più elegante e lineare rispetto all’ordo tradito. Tuttavia, una tale modifica non è necessaria e rischia di appiattire il frammento sul testo del de lingua Latina. 353
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bene, a prima vista, il testo dei codici possa sembrare traballante, dal momento che apparentemente di “dilectus” non è fornita un’etimologia e la derivazione “ab electione” sembra riferirsi soltanto a “legio”, credo che, immaginando un contesto adeguato, esso possa essere difeso. Pur nei limiti imposti dalla perdita del contesto, infatti, sulla base dell’avverbio “tum” si può ipotizzare un andamento del pensiero che si adatterebbe bene all’ordo tradito. Varrone avrebbe potuto menzionare, nella parte subito precedente la citazione, un episodio storico determinato, ad esempio, la leva compiuta allo scoppio della prima guerra punica (che è probabile costituisse il primo argomento “storico” affrontato nel terzo libro, vedi supra), magari sottolineandone l’eccezionalità (Varrone avrebbe potuto dire che mai prima di allora Roma era stata impegnata in preparativi bellici così ingenti o aveva arruolato tanti uomini). Sulla base di questa ipotesi, se, prima di “tum”, compariva qualcosa tipo “plurimi dilecti (o “electi”) sunt milites”, il trapasso logico da “dilecti sunt” a “tum appellatus est dilectus” sarebbe naturale. Parlando della leva, Varrone sarebbe passato dalla parte storica a quella antiquaria e avrebbe potuto cogliere l’occasione per segnalare che, in occasione della leva eccezionale appena menzionata, fu coniato anche il termine “dilectus”. Supponendo un collegamento del genere con la parte precedente, si comprende perché Varrone non fornisse in apertura di frase l’etimologia “dilectus a legendo”: questa poteva essere già data, in modo implicito, dalla menzione di una forma verbale di “lego” che ipotizzo fosse presente nella parte di testo che veniva immediatamente prima l’inizio della citazione salvata da Nonio. A questo punto, Varrone avrebbe potuto ricordare che anche il termine “legio” aveva la stessa origine e voluto inserire anche questa etimologia. Tuttavia, se le cose stanno come abbiamo supposto, non avrebbe potuto aggiungere un riferimento a “legio” in modo troppo brusco (scrivendo, ad esempio, “. Tum appellatus est dilectus et legio”), in quanto in questo caso il rapporto fra “legio” e “legere” sarebbe anche potuto sfuggire. Pertanto, potrebbe aver sentito l’esigenza di inserire un piccolo rimando che chiarisse come “legio” fosse da mettere in relazione non con “dilectus”, ma con “lego / diligo / eligo” (ossia col verbo che io suppongo fosse presente nella parte caduta): si spiega così la presenza di “et ab electione” dopo “dilectus”. La seconda parte della citazione è stata troncata dal brusco taglio operato da Nonio. I codici trasmettono così una stringa di difficile interpretazione: “ab hac supervacaneorum consuetudine adscribuntur”. Gli unici dati abbastanza sicuri su 354
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cui avanzare una proposta di interpretazione della stringa sono la menzione dei “supervacanei” e l’uso del verbo “adscribuntur”. Con “supervacanei” è probabile che si indicassero dei soldati soprannumerari (per l’appunto “superflui”, come recita il loro nome), impiegati come rinforzo e come supporto extra alle truppe regolari. Il verbo “adscribuntur” si accorda bene con questa interpretazione: dal momento che “scribere” ha anche il significato tecnico di arruolare (vedi OLD 1709.7), l’uso di “adscribo” identifica bene l’atto di arruolare degli uomini in più (“ad”) rispetto alle unità di base. Purtroppo, al di là del sospetto che qui si stia parlando di reparti soprannumerari, il testo tradito non offre altri elementi solidi. In particolare, pone problemi il nesso “ab hac”. Legando “hac” a “consuetudine”, si avrebbe un senso poco soddisfacente. Se l’espressione “ab hac supervacaneorum consuetudine” venisse intesa come “in base a questo costume dei supervacanei (sono arruolati dei soldati in più…)”, infatti, porrebbe diversi problemi: l’uso del deittico “hac” non sarebbe giustificato, in quanto nella parte precedente del frammento non si trova alcun riferimento a una “consuetudo” dei “supervacanei” cui possa riferirsi il presente rimando; inoltre, nonostante la perdita del contesto, il tono della prima parte del frammento è così generale da smentire l’ipotesi che poco prima Varrone parlasse di una pratica in particolare. Mercier propone di intendere “ab hac supervacaneorum consuetudine” come l’indicazione di un’etimologia, tanto da intervenire su “adscribuntur”, che corregge in “ascriptivi”. Secondo Mercier, dunque, Varrone continuerebbe a fornire derivazioni, come nella prima parte del frammento, dicendo che «da questo termine comunemente usato (“consuetudo” andrebbe interpretato così), supervacanei, ascriptivi». Anche questa soluzione non convince: oltre al fatto che il legame fra “supervacanei” e “ascriptivi” è molto labile (è vero che i due nomi designano sostanzialmente la stessa categoria di soldati, ma è difficile individuare un possibile rapporto etimologico fra di essi), la proposta di Mercier richiederebbe una certa forzatura nell’interpretazione di “consuetudo”. Per quanto “consuetudo” abbia anche un’accezione particolare nel linguaggio tecnico della grammatica, quella di “pratica linguistica” (= “usus”, si veda in proposito l’impiego di “consuetudo” nelle parti teoriche del de lingua Latina), mancano delle attestazioni del senso supposto da Mercier. In ogni caso, anche se si interpreta il testo di Mercier senza attribuire a “consuetudo” un valore strano (ossia «e da questa pratica dei supervacanei deriva il nome ascriptivi»), il dettato rimane incerto e il contenuto confuso: di quale pratica si parla? che legame può mai esserci fra la pratica dei “supervaca355
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nei” e il termine “ascriptivi”154? Anche provando a legare “ab hac” al precedente “legio” non si ottengono risultati soddisfacenti: infatti il testo direbbe che “da questa (la legione) vengono arruolati in più (dei soldati) secondo il costume dei supervacanei”. Il problema è che le truppe di rinforzo non venivano prese dalla legione, ma al contrario erano arruolate in aggiunta ad essa: “ab hac (legione) adscribuntur” cozzerebbe così con la realtà dei fatti. Altri propongono di intervenire su “ab hac”; purtroppo, anche in questo caso gli esiti sono discutibili. “ab hoc” di Popma si espone alle stesse obiezioni avanzate contro “ab hac”: il nesso “da ciò” infatti può riferirsi soltanto a quanto precede, ma non riesco a vedere in che modo la pratica di arruolare truppe in più possa essere messa logicamente in relazione col fatto che i termini “dilectus” e “legio” derivino da “lego” (e l’inciso “supervacaneorum consuetudine” complicherebbe ulteriormente le cose). Se invece intendiamo il testo di Popma prendendo “ab hoc supervacaneorum” come un’unica espressione (= “da questo numero di supervacanei”), avremmo un testo in parte più accettabile. Si direbbe infatti che “da questo numero di supervacanei” alcuni soldati venivano arruolati come rinforzo. Considerato che Popma pensa che ad “adscribuntur” seguisse una menzione degli “ascriptivi”, il testo risultante avrebbe anche un senso: dal gruppo delle truppe soprannumerarie (i “supervacanei” in toto) venivano scelti alcuni “supervacanei” di tipo particolare, a cui veniva assegnato il nome di “ascriptivi”. Tuttavia, il deittico “hoc” sarebbe troppo forte anche in questo caso, dal momento che nel testo precedente non abbiamo alcuna menzione dell’insieme dei “supervacanei” e nulla che possa giustificare l’espressione “ab hoc”. Ho preferito, dunque, scartare anche questa ipotesi. Anche “ad hoc (che reggerebbe il gen. di quantità “supervacaneorum”)” di Ruperti implicherebbe un dato assurdo: secondo lo studioso, la frase andrebbe intesa come “oltre a questo numero di supervacanei, vengono di norma (“consuetudine”) aggiunti gli ascriptivi (anche Ruperti propone di integrare “ascriptivi” dopo “adscribuntur)”, ma ciò comporterebbe l’ammissione dell’esistenza di un’ulteriore categoria di soldati soprannumerari rispetto ai soprannumerari! La mia proposta di intervento sarebbe quella di correggere “ab hac” in “ad hanc”. Il passaggio da “hanc” ad “hac” potrebbe essere avvenuto per una banale perdita di compendio (o anche per un errore di autodettatura), quello da “ad” a La stessa obiezione può essere mossa anche alla correzione “at ab” di Müller.
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“ab”, oltre ad essere paleograficamente facilissimo, può essere stato influenzato, in questo caso, anche dalla vicinanza dell’espressione “ab electione”. Con il mio testo, “ad hanc” verrebbe subito dopo “legio” e, difatti, propongo di intendere “ad hanc (sc. legionem) … adscribuntur” (“adscribo” si costruisce regolarmente o con il dativo o, appunto, con “ad” e l’accusativo, cfr. Paul.-Fest. p. 13.23-24, hos et accensos dicebant, quod ad legionum censos essent adscripti; per “adscribo” nel senso di “arruolare in aggiunta a…” vedi ThLL II 774.11-16). In questo modo, credo, tutto il passo diventerebbe intellegibile e seguirebbe un andamento logico: Varrone parlerebbe in primo luogo della leva (“dilectus”), operazione che comporta l’arruolamento di tutti i soldati. A questo punto, dopo aver accennato alla selezione (“electio”) degli uomini destinati a comporre l’unità regolare, la legione, passerebbe ad aggiungere che alla legione (“ad hanc”) vengono aggiunti (“adscribuntur”) anche dei reparti soprannumerari. In questo modo si capisce anche il perché dell’uso del presente: Varrone sta qui dando una descrizione precisa delle due componenti dell’esercito, la legione e i reparti di rinforzo; il tono argomentativo impone l’impiego del tempo presente. L’espressione “supervacaneorum consuetudine” viene a costituire un inciso che spiega le finalità dei reparti aggiunti alla legione: questi vengono arruolati in sovrappiù “secondo il costume dei soldati soprannumerari”, ossia in qualità di reparti di rinforzo. Il taglio di Nonio ha purtroppo escluso il soggetto della frase, per cui non possiamo sapere con certezza come si chiamassero questi soldati aggregati alla legione a mo’ di soprannumerari. Tuttavia, il confronto con un passo di Paolo Diacono (p. 13.23: adscripticii vel, uti quidam, scripti dicebantur qui supplendis legionibus adscribebantur) rende altamente probabile che si tratti degli “ascripticii” o “ascriptivi” (conclusione accolta già da Popma, Reitzenstein e Müller). Ciò comporta un nuovo problema. La voce di Paolo Diacono prosegue infatti con l’identificazione degli “adscrispticii” con gli “accensi”: hos et accensos dicebant. Ora, anche un altro frammento del de vita (fr. 84) si apre con una menzione degli “ascriptivi” e avanza la stessa identificazione con gli “accensi” (per quanto l’etimologia che Varrone fornisce del termine sia diversa da quella proposta da Paolo Diacono). Ciò ha portato Popma e Reitzenstein a congiungere il fr. 83 al fr. 84, integrando “ascriptivi” alla fine del fr. 83, dopo “adscribuntur”, e modificando l’inizio del fr. 84, in modo da creare un raccordo fra le due frasi (per le soluzioni proposte, vedi fr. 84). Personalmente, nonostante creda che il soggetto di “adscribuntur” nel fr. 83 sia quasi con certezza “ascriptivi”, ritengo che un 357
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intervento così massiccio sia eccessivo. Infatti, date l’assenza del contesto e la maniera brusca in cui Nonio suole tagliare il testo delle proprie citazioni, preferirei adottare più cautela. Va ammesso che è oggettivamente probabile che il fr. 83 e il fr. 84 appartenessero allo stesso contesto (è quasi certo che il fr. 84, pur attribuito dai codici al l. 4, provenga in realtà dal terzo, vedi ad loc.); inoltre, l’attacco del fr. 84, che di fatto si apre con la parola “ascriptivi”, si spiegherebbe bene come ripresa di una menzione dei medesimi “ascriptivi” contenuta nella frase precedente. Tuttavia, credo che in sede di edizione occorra limitarsi a suggerire la possibilità che il fr. 83 e il fr. 84 appartenessero alla stessa sezione e potessero comparire a brevissima distanza, senza però spingersi a stampare le due citazioni di Nonio come un unico frammento. Nulla esclude infatti che Varrone, fra la fine del fr. 83 e l’inizio del fr. 84, inserisse qualche altra informazione o dell’altro testo, che, per quanto ridotto potesse essere, andrebbe comunque postulato. 84 (= 87 R.; 403 S.) i quidem ascriptivi, cum erant adtributi decurionibus et centurionibus, qui eorum habent numerum, accensi vocabantur. eosdem etiam quidam vocabant ferentarios, quia pugnabant fundis et lapidibus, his armis quae ferrentur, non quae tenerentur 1: i quidem ascriptivi Quicherat, Lindsay, Sal.; qui de ascriptivis (-ibt-) codd., Kettner, Rip.; qui quidem ascriptivi Müller; fr. 84 cum fr. 83 coniungunt Popma (adscribuntur qui ascriptivi sunt. qui cum erant eqs) et Reitzenstein (adscribuntur, quidam ascriptivi cum erant); 1-2: quia eorum augebant (augerent Quicherat) numerum Müller; an qui eorum habent numerum?; 3: quia pugnabant Müller; qui depugnabant codd. (quid pugnabant L), edd. | fundis Popma, pugnis codd. | et his DA; is vel id est Müller | qui ferentur CA Non. p. 836.5-837.12: DECVRIONES et CENTVRIONES a numero, cui in militia praeerant, dicebantur; ACCENSI, qui his accensebantur, id est adtribuebantur. Varro de vita populi Romani lib. III. 2: praeparant L; 3: IIII EP (ex i insequenti)
proprio questi ascriptivi, una volta che erano stati assegnati ai decurioni e ai centurioni, che ne tengono il conto, erano detti accensi. Alcuni li chiamavano anche ferentarii, poiché combattevano con fionde e pietre, armi che appunto si portavano (ferrentur), non si impugnavano 358
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Prima di discutere il presente frammento, vorrei ricapitolare le conclusioni raggiunte circa il fr. 83. Si è detto che quella citazione riguardava dei soldati aggiunti al corpo regolare della legione come truppe di rinforzo, dei soldati la cui qualifica è espressa con la formula “supervacaneorum consuetudine” (= a mo’ di soldati soprannumerari). Si è visto anche che un passo di Paolo Diacono (vedi supra) identifica questi uomini arruolati in più con gli “ascripticii” e aggiunge la notizia che gli “ascripticii” erano anche detti “accensi”. Ora, Nonio riporta un’altra citazione (che i codici attribuiscono però al l. 4) in cui si parla proprio degli “accensi” e viene proposta l’identificazione di questi con un “sottogruppo” degli “ascriptivi” (che con buona probabilità corrispondono proprio agli “ascripticii” menzionati da Paolo Diacono). Questa consonanza fra le due citazioni noniane ha portato a supporre che in realtà appartenessero allo stesso libro (il passaggio da “III” a “IIII”, che già si spiegherebbe facilmente come esito di una dittografia, nel caso specifico del fr. 84 è ancora più facile da giustificare qualora si adottasse una particolare correzione al testo, vedi infra). Sulla base del fatto, poi, che il fr. 84 sembra in effetti proseguire il discorso avviato nel fr. 83, si è ipotizzato che le due citazioni provengano dallo stesso contesto e alcuni editori hanno addirittura tentato di “fondere” i due frammenti, modificandone leggermente gli estremi e compiendo delle integrazioni. Su questo punto concludevo il mio commento al fr. 83. Il fr. 84 si apre con una menzione degli “ascriptivi”, di cui si dice che, una volta che venivano assegnati ai decurioni e ai centurioni, prendevano il nome di “accensi” (“cum erant adtributi decurionibus et centurionibus … accensi vocabantur”). Popma, il primo ad aver unito il fr. 83 al fr. 84, propone di fondere i due brani riadattandoli come “… supervacaneorum consuetudine adscribuntur qui ascriptivi sunt. qui cum erant adtributi…”, mentre Reitzenstein suggerisce di integrare del testo, in modo da comprendere nella stessa frase sia la denominazione “ascripticii” usata da Paolo Diacono sia quella “ascriptivi” trasmessa da Nonio, e di correggere “qui de” in “quidam”, ottenendo “… adscribuntur, quidam, ascriptivi. cum erant adtributi…”. Nessuna di queste soluzioni convince del tutto: come si è già osservato al fr. 83, ritengo in effetti probabile che le due citazioni potessero appartenere allo stesso contesto e comparire anche a brevissima distanza l’una dall’altra, ma preferirei non proporre interventi volti a creare una fusione totale fra i due frammenti, quando non si può escludere che fra le due pericopi riportate da Nonio sussistesse del testo per noi perduto e, allo stato attuale, irrecuperabile. 359
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Passerei ora a esporre le questioni testuali del fr. 84. L’attacco è tradito nella forma: “lib. IIII qui de ascriptivis” (“qui de ascriptivis” è mantenuto da Riposati), un testo che ha destato sospetti non solo per l’attribuzione al l. 4 (che sembra smentita dalla vicinanza tematica col fr. 83 e dalla somiglianza per forma e contenuto fra il fr. 84 e gli altri frammenti del l. 3 concernenti i gradi militari), ma anche per l’andamento sintattico incerto che avrebbe il periodo “qui de ascriptivis, cum erant adtributi decurionibus et centurionibus … accensi vocabantur”. Si potrebbe tentare di risolvere la questione, mantenendo “qui de ascriptivis” dei codici, espungendo “cum” (non mi risulta che qualcuno abbia finora avanzato questa proposta): in questo modo il testo direbbe, con una sintassi normale, che quanti fra gli “ascriptivi” erano assegnati ai decurioni e ai centurioni venivano detti “accensi”. Tuttavia, una soluzione del genere non giustifica l’origine dell’indicazione errata “lib. IIII”. A partire proprio dall’attribuzione al l. 4, invece, Quicherat sospetta che l’ultima asta del numerale “IIII” sia in realtà l’esito di un pronome “i” (= “ii”) erroneamente aggregato alla cifra. Pertanto propone di correggere “lib. IIII qui de ascriptivis” in “lib. III i quidem ascriptivi” (soluzione accolta da Lindsay e Salvadore). Si tratta in effetti di una proposta brillante e molto convincente, che chiarisce la genesi dell’errore “IIII” e spiega l’origine di “qui de” con un accidente banale come la perdita di compendio in “quidem” (l’ablativo “ascriptivis” può essere nato come rabberciamento a partire dal testo ormai corrottosi in “qui de ascriptivi”). Supponendo che il fr. 83 si chiudesse proprio con una menzione degli “ascriptivi” (qualcosa come “adscribuntur ascriptivi”) e che il fr. 84 lo seguisse a breve distanza, la ripresa “i quidem ascriptivi, cum erant adtributi …, accensi vocabantur” sarebbe molto efficace. Varrone poteva prima dire che gli “ascriptivi” erano arruolati in aggiunta alla legione, poi specificare che gli stessi “ascriptivi”, quando venivano assegnati a degli ufficiali, prendevano il nome di “accensi”. Sia che si immagini che le due frasi fossero immediatamente contigue (forse questo spiegherebbe perché, nella citazione del fr. 83, Nonio abbia omesso “ascriptivi”: partendo infatti da un testo “adscribuntur ascriptivi. I quidem ascriptivi, cum erant…”, al momento di dividerlo per trarne due citazioni, Nonio avrebbe potuto facilmente saltare una parola che compariva in forma identica proprio nella cesura fra i due pezzi), sia che vi fosse del testo in mezzo, forse contenente altre informazioni sugli “ascriptivi”, la correzione di Quicherat funziona. Varrone dice dunque che quando alcuni degli appartenenti alle truppe di rinforzo venivano assegnati agli ufficiali, forse in qualità di aiutanti (cfr. Non. 360
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p. 82.1-2: ACCENSI genus militiae administrantibus proximum), venivano chiamati “accensi”. I codici di Nonio presentano, dopo la menzione dei decurioni e dei centurioni, un inciso a loro riferito: “qui eorum habent numerum”. L’unico modo possibile di intendere questa precisazione è pensare che “eorum” vada riferito ad “ascriptivi” e “qui” a “decuriones” e “centuriones”: si direbbe che gli ufficiali tengono un registro dei soldati soprannumerari. La nozione, soprattutto a causa del tempo presente, che infrange la consecutio della frase, ha posto dei problemi ad alcuni interpreti, tanto che Quicherat propone di trasformare l’inciso in una causale: “quia eorum augebant numerum” (anche Müller adotta questa soluzione, ma preferisce stampare un congiuntivo “augerent”). Tuttavia, credo che una proposta del genere crei più problemi di quanti ne risolva, innanzitutto perché con essa viene a mancare un soggetto esplicito della frase. Di conseguenza, diventa difficile anche capire a cosa vada riferito, col testo di Quicherat, il pronome “eorum”. Se va connesso logicamente a “decurionibus et centurionibus”, Varrone direbbe che gli “ascriptivi” erano detti “accensi” quando venivano assegnati agli ufficiali, “in quanto ne accrescevano il numero”, una nozione piuttosto strana, dal momento che sembrerebbe dire che il grado di “accensus” fosse quasi equivalente a quello di decurione e centurione. Se invece “eorum” va inteso come riferito a un soggetto generico (“militum”? le truppe?) e il testo dice che gli “ascriptivi” erano detti “accensi”, da interpretare come “censiti in aggiunta (ai soldati regolari)”, perché aumentavano il numero totale di questi, il discorso sarebbe abbastanza traballante. In quanto resta del fr. 83 e del fr. 84, infatti, non compare alcuna traccia di un referente che possa adattarsi a “eorum” inteso in questo senso. Bisognerebbe supporre che sia caduto nella parte di testo omessa fra i due frammenti, ma una tale soluzione mi sembra francamente poco economica e, in fondo, anche se ci fosse stata una menzione esplicita dei soldati prima dell’attacco del fr. 84, il collegamento costituito da “eorum” sarebbe comunque molto debole. Prendere poi “eorum” come un collettivo (“di queste cose”, ossia “di tutta la truppa”) sarebbe ancora più inverosimile. Mi sembra invece più economico mantenere la nozione che i decurioni e i centurioni tenessero il registro delle truppe e, quindi, anche degli “ascriptivi” e degli “accensi”: una traccia di ciò trova conferma nel fatto che Paolo Diacono, nel proporre l’etimo di “accensi”, dice esplicitamente che questi venivano aggiunti al conto totale delle truppe (cum ad legionum censum essent adscripti); l’espressione “eorum numerum” in Varrone potrebbe avere lo stesso valore di “legionum cen361
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sum” in Paolo Diacono155. Inoltre, Varrone a l. L. 7, 56, specifica che gli “ascriptivi” erano truppe di rinforzo impiegate in sostituzione dei soldati caduti durante lo scontro (ascriptivi dicti, quod olim ascribebantur inermes armatis militibus qui succederent, si quis eorum deperisset): per compiere bene l’operazione descritta, è presumibile che qualcuno dovesse tenere il conto esatto dell’ammontare delle truppe in campo e dei rinforzi e tale compito spettava con verosimiglianza agli ufficiali. Pertanto la specificazione “qui eorum habent numerum” nel fr. 84 mi sembra pienamente giustificata. Riguardo all’espressione “habere numerum” nel senso di “tenere il conto di qualcuno”, cfr. Cic. Verr. II 5, 71: in tanto conventu nemo erat quin rationem numerumque haberet (sc. captivorum). Conserverei così il testo tradito dell’inciso, senza intervenire necessariamente sul tempo verbale (ad esempio, con una correzione facile come “quia eorum habent numerum”), poiché Varrone poteva riferirsi a una pratica tuttora in corso ai suoi tempi e adoperare di conseguenza il presente. Per quanto riguarda l’etimologia di “accensi”, Varrone fornisce tre diverse possibilità. Nel presente frammento, come conferma anche la definizione di Nonio (accensebantur, id est adtribuebantur), il termine “accensi” è messo in relazione con il verbo “accenseo” (è questa l’etimologia corretta). A l. L. 6, 88-89, invece, Varrone, commentando delle formule giuridiche usate in diritto militare, che andavano rivolte dal comandante in capo ora al banditore, ora all’“accensus”, spiega che talvolta quest’ultimo poteva svolgere anche funzioni da banditore e fornisce una diversa derivazione del nome (da “accio”): quare hi[n]c accenso, illic praeconi dicit, haec est causa: in aliquot rebus item ut praeco accensus acci[pi] ebat, a quo accensus quoque dictus. Infine, una terza etimologia è fornita da un frammento dal l. 20 delle antiquitates rerum humanarum (fr. 10 Mirsch), riportato sempre da Nonio a p. 82.1-4: ut consules ac praetores qui sequuntur in castra, accensi dicti, quod ad necessarias res saepius acciantur, velut accersiti156; in questo caso, il nome è messo in relazione col verbo “accerso”, che Varrone anche altrove considera un equivalente di “accio” (vedi Ranucci 1972, pp. 125-126). Come Riposati 1939 (pp. 201-202) propone di intendere “numerus” nel fr. 84 come “reparto di truppa”, ma un’interpretazione del genere non dà un senso soddisfacente (“erano affidati agli ufficiali, che ne reggono il reparto”?). Anche il parere di Norden citato da Riposati a sostegno della propria teoria in realtà si adotta meglio alla lettura di “numerus” come “conto totale, registro”. 156 Per una difesa della lezione “accersiti” di BA, contro “accensiti” di L (accolta da Lindsay), vedi Ranucci 1972, pp. 124-126. 155
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sospetta Ranucci (p. 127) è probabile che nel luogo delle antiquitates sugli “accensi” Varrone fornisse tutte e tre le etimologie, mentre nelle opere più tarde (de lingua Latina e de vita populi Romani) ne avrebbe presentata di volta in volta una sola. A prescindere dalla derivazione proposta, in tutti i passi che abbiamo esaminato permane una certa oscillazione sul significato di “accensi”: questi infatti sono considerati a volte come semplici truppe di riserva, chiamate a sostituire i caduti, a volte come degli “assistenti” degli ufficiali, convocati come aiutanti nell’esercizio di alcune funzioni amministrative. La stessa oscillazione si ritrova anche a proposito di altre figure simili, come gli “optiones” del fr. 85. La seconda parte del frammento propone una qualifica alternativa degli “accensi”. Si dice che questi erano anche chiamati “ferentarii”. Dalla descrizione fornita da Varrone, si deduce che i “ferentarii” costituivano delle truppe leggere, equipaggiate con armi da getto, impiegate come rinforzo alle truppe regolari. Varrone fa derivare il nome “ferentarii” dal verbo “ferre”157, in quanto, a detta dell’erudito, costoro avrebbero avuto in dotazione soltanto armi da portare con sé (“ferre”, ossia dardi e proiettili che potevano essere raccolti in una faretra e trasportati così), non da impugnare in mano (“tenere”, come spade o lance). La stessa identificazione fra “ascriptivi”, “accensi” e “ferentarii”, nonché la medesima etimologia dell’ultimo termine, si ritrovano nel brano di Paolo Diacono già citato per il fr. 83: adscripticii … qui supplendis legionibus adscribebantur. hos et accensos dicebant, quod ad legionum censum essent adscripti. quidam velatos, quia vestiti inermes (cfr. l. L. 7, 56) sequerentur exercitum. nonnulli ferentarios, quod fundis lapidibusque proeliaturi ea modo ferrent quae in hostes iacerent. La somiglianza fra l’ultima parte della voce festina (cfr. anche Fest. p. 506.25-26: ipsi sunt et ferentarii, qui fundis ac lapidibus pugnabant, quae tela feruntur, non tenentur) e il fr. 84 è notevole, tanto da costituire la base per un intervento testuale, la correzione di Popma (sicura) del tradito “pugnis et lapidibus” in “fundis et lapidibus”. La presenza di una causale nel parallelo di Paolo Diacono (“quod … ferrent”) porta Anche a Catone è attribuita una derivazione di “ferentarius” da “fero”, ma in senso differente: Fest. p. 506.27-28, Cato eos ferentarios dixit, qui tela ac potiones militibus proeliantibus ministrabant (= “ferebant”). Paul.-Fest. p. 75.14-16 propone, oltre all’etimologia presente anche nel nostro frammento, quella da “ferre auxilium”: ferentarii auxiliares in bello, a ferendo auxilio dicti, vel quia fundis et lapidibus pugnabant, quae tela feruntur, non tenentur, appellati. Ernout s.v. “ferentarius” ritiene che la vera origine del termine sia stata obliterata dalle differenti etimologie popolari attestate.
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ad accogliere anche un’altra correzione al testo tradito del fr. 84. Lì dove i codici di Nonio presentano una relativa, “vocabant ferentarios, qui depugnabant fundis et lapidibus e.q.s.”, va accolto l’intervento di Müller “vocabant ferentarios, quia pugnabant fundis et lapidibus, his armis quae ferrentur, non quae tenerentur”. Ciò non solo per restituire una causale anche nel fr. 84, come in Paolo Diacono, ma anche al fine di risolvere un’incongruenza del testo tradito sul piano del contenuto. Le truppe leggere, infatti, di norma aprivano il combattimento (vedi fr. 86 e “proeliaturi” in Paolo Diacono), mentre il verbo tradito “depugnabant” (= “concludevano il combattimento”) suggerirebbe il senso contrario; intendere “depugnabant” come “combattevano con armi leggere dall’inizio alla fine dello scontro” è una soluzione che non convince e, a ben guardare, non risolve nemmeno l’anomalia del brano. La correzione di Müller elimina l’incongruenza ed è paleograficamente molto economica (in minuscola, una “a” e una “d” con la traversa bassa sono quasi identiche, il testo “quiapugnabant” poteva dunque corrompersi con facilità in “quidpugnabant” ed essere rabberciato in “qui depugnabant”). 85 (= 88 R.; 404 S.) referentibus centurionibus et decurionibus adoptati in cohortes subibant, ut semper plenae essent legiones. a quo optiones in turmis decurionum et in cohortibus centurionum appellati 1: referentibus “quidam” apud Bentin; referentur codd. | et decurionibus F3, om. LBA | in chortes Müller | subibam H; subiant G; 2: esset L | obtiones H | dinturmis L ; 3: post appellati fortasse ministri vel adiutores supplendum Non. p. 94.28-6: OPTIONES in cohortibus qui sint honesti gradus, ut optatos, quod est electos, et adoptatos, quod adscitos, Varro de vita populi Romani lib. III existimat appellatos 2: quodquod (quotquot) adscitos (asc-) codd., corr. edd.
dei soldati scelti (adoptati) su proposta dei centurioni e dei decurioni erano integrati nelle coorti, di modo che il numero degli uomini in ciascuna legione restasse invariato. Per questo motivo furono chiamati optiones (gli attendenti) dei decurioni nelle formazioni di cavalleria e dei centurioni nelle coorti di fanteria Il fr. 85 propone l’etimologia di un altro termine del lessico militare: “optiones”. Stando alla descrizione qui data da Varrone, anche gli “optiones” (come gli 364
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“ascriptivi” e gli “accensi” del fr. 84) facevano parte di truppe soprannumerarie impiegate come rinforzo e in sostituzione dei soldati caduti nelle formazioni regolari. Varrone fa risalire il termine “optiones” al verbo “adopto” (“scegliere per sé”), supponendo che questi uomini venissero scelti su giudizio degli ufficiali preposti alle unità base della fanteria (le coorti) e della cavalleria (gli squadroni detti “turmae”). Proprio l’insistenza sull’aspetto della selezione degli uomini compiuta dagli ufficiali addetti alla leva, un dato già caratteristico del fr. 83158, porta a interpretare l’ablativo assoluto “referentibus centurionibus et decurionibus” come “su proposta / in base al giudizio di centurioni e decurioni”; per questo valore tecnico dell’espressione vedi OLD 1594.7b. È vero che, se nel fr. 84 la nota “qui eorum habent numerum” va intesa come un possibile rifermento a un registro delle truppe tenuto dagli ufficiali, nel fr. 85 “referentibus centurionibus et decurionibus” potrebbe essere interpretato anche in altro modo (per “referre” (per lo più con in + acc.) nel senso di “riportare una voce in un registro”, vedi OLD 1594.8): gli “adoptati” venivano inseriti nelle coorti quando gli ufficiali li registravano regolarmente. Tuttavia, questa lettura darebbe un senso piuttosto tautologico e la specificazione “referentibus cent. et dec.” risulterebbe un’aggiunta non necessaria. Preferisco quindi mantenere “adoptati” non tanto come il nome di una specifica categoria di soldati (come “optiones”), ma come un participio passivo vero e proprio (= “uomini che erano stati scelti”), mentre l’ablativo assoluto “referentibus etc.” spiega il modo in cui questi soldati venivano scelti, ossia su proposta degli ufficiali. Varrone, dopo aver esposto le modalità di cooptazione di questi uomini, con un facile salto logico passa a dire che proprio dal fatto di venire scelti (= “adoptati”) dagli ufficiali, gli “optiones” traevano il loro nome. L’importanza attribuita nel frammento alla scelta da parte di centurioni e decurioni non sembra essere ca158 Cfr. “ab electione legio”. L’importanza della scelta dei soldati da parte degli ufficiali ricorre anche in Veg. mil. 2, 1.9, legio autem ab eligendo appellata est, quod vocabulum eorum desiderat fidem atque diligentiam, qui milites probant. Confesso che nel brano di Vegezio il verbo “desiderat” mi pone dei problemi (si direbbe che il termine “legio”, in virtù della derivazione da “eligere”, richiede l’attenzione di chi procede alla selezione dei soldati, il che non dà un gran senso). Proporrei dunque di correggere “desiderat” in “designat”, pensando a uno scambio paleografico o a un errore di dettatura. In questo modo, il testo sarebbe molto più chiaro: “legio” viene da “eligere” (scegliere), il nome stesso indica pertanto l’attenzione di chi si occupa di selezionare i soldati.
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suale: fonti parallele sugli “optiones” riportano infatti la notizia che costoro svolgevano anche mansioni da “aiuto ufficiale” e da attendenti (vedi l. L. 5, 91, itaque primi singularum decuriarum decuriones dicti … quos hi primo administros ipsi sibi adoptabant, optiones vocari coepti; Fest. p. 216.23-27, optio qui nunc dicitur, antea appellabatur accensus [N.B.]. is adiutor dabatur centurioni a tribuno militum. qui ex eo tempore, quem velint centurionibus permissum est, etiam nomen ex facto sortitus est; Paul.-Fest. p. 201.23-25, in re militari optio appellatur is, quem decurio aut centurio optat sibi rerum privatarum ministrum, quo facilius obeat publica officia; per “optiones” = aiutanti, vedi anche Veg. 2, 7.4, ab optando appellati, quod antecedentibus aegritudine praepeditis, hi, tamquam adoptati eorum159 atque vicarii, solent universa curare e Plaut. As. 101, tibi optionem sumito Leonidam). Il confronto con i presenti brani autorizzerebbe a supporre che il seguito del fr. 85 contenesse un soggetto espresso di “appellati” (di cui “optiones” costituirebbe il predicativo), che reggesse i genitivi “decurionum” e “centurionum”. Penserei a qualcosa come “ministri” (vedi de lingua Latina e Paolo Diacono) o “adiutores” (vedi Festo): in questo modo il discorso procederebbe in modo piano e logico (“dei soldati scelti su giudizio degli ufficiali erano integrati nelle coorti. Da ciò si chiamano optiones gli aiutanti dei decurioni e dei centurioni”). Esito tuttavia a stampare l’integrazione per via di una considerazione relativa all’assetto dell’intero blocco costituito dai frr. 83-86. Come si è detto, il fr. 83 parla della leva dei soldati, probabilmente operando una distinzione fra truppe regolari e unità soprannumerarie (“supervacanei”). A questo punto, i frr. 84, 85 e (come vedremo) 86 sono tutti e tre dedicati alla presentazione dell’etimologia di diversi nomi dati proprio alle truppe soprannumerarie: il fr. 84 fornisce l’etimo di “ascriptivi”, “accensi” e “ferentarii” (dicendo che si trattava della stessa qualifica, contrassegnata con nomi diversi in base all’aspetto specifico che si voleva rimarcare); il fr. 85 parla degli “optiones” e il fr. 86 dei “rorarii”. Ora, il confronto con le voci di Festo dedicate alle stesse categorie di soldati rende molto probabile il sospetto che “ascriptivi”, “accensi”, “ferentarii”, “optiones” e “rorarii” fossero nomi diversi dati alla stessa figura. La lunga nota di Paul.-Fest. p. 13.2330 (vedi supra) propone esplicitamente l’identificazione di “adscripticii” (quasi
Il passo conferma anche la mia interpretazione di “adoptati”: Vegezio dice infatti che, quando i superiori sono malati, gli “optiones” subentrano al loro posto come se fossero stati adottati da questi. 159
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certamente gli stessi che Varrone chiama “ascriptivi”), “accensi”, “ferentarii”, “rorarii” e “velati”. Lo stesso a p. 506.23 ripete l’equivalenza fra “velati” e “ferentarii”, aggiungendo un dato per noi molto interessante: i “velati” sono infatti descritti in questo passo (quique in mortuorum militum loco substituebantur) in modo davvero simile alla presentazione che Varrone, nel fr. 85, dà degli “optiones” (cfr. “ut semper plenae essent legiones”). Ancora, Fest. p. 216.23 identifica gli “accensi” con gli “optiones”. Sulla base di quanto detto, il sospetto che tutti i termini presentati da Varrone nei frr. 84-86 si riferiscano alla stessa tipologia di soldati è ben giustificato. Preferisco dunque pensare che per Varrone “adscriptivi”, “accensi”, “ferentarii”, “optiones” e “rorarii”160 non costituissero unità differenti e distinte l’una dall’altra, ma solo diversi nomi dati alla stessa tipologia di uomini, i “supervacanei” (ossia i soldati che non rientravano nel computo della legione, ma erano arruolati come supporto ad essa). Costoro potevano essere stati designati con nomi diversi, a seconda della prerogativa che si volesse mettere in risalto (“ferentarii” rispetto all’equipaggiamento, “accensi” e “optiones” in riguardo al fatto che venissero scelti apposta dagli ufficiali, “rorarii” per il modo in cui combattevano, e così via). Ritengo dunque che Varrone avesse scelto, così come avviene in Festo, di dare di seguito tutte le etimologie dei vari nomi con cui venivano identificati i “supervacanei”. Da ciò derivano due conseguenze. La prima è che i frr. 84-86 dovevano comparire nell’ambito dello stesso contesto, presumibilmente a brevissima distanza l’uno dall’altro. La seconda è che, nel fr. 85, forse non sarebbe del tutto necessario integrare un soggetto espresso come “ministri”. Ciò ci riporta alla questione da cui eravamo partiti prima di questa digressione: se le cose stanno come si è supposto (cioè se il frammento apparteneva a una sezione in cui erano fornite di fila le etimologie di tutti i modi conosciuti per designare i “supervacanei” o gli “ascriptivi”), nel fr. 85 “appellati” potrebbe anche dipendere dal discorso condotto in precedenza e quindi non aver bisogno di alcuna aggiunta. Mi spiego meglio: Varrone poteva dire, nella sua carrellata di etimologie, che gli “ascriptivi” erano detti “accensi” quando venivano assegnati agli ufficiali (fr. 84, prima parte) e che altri eruditi (“quidam”) li chiamavano “ferentarii” dal tipo di armi che portavano (fr. 84, seconda parte). A questo punto avrebbe po-
Per il solo termine “rorarii” questa conclusione potrebbe essere messa in dubbio (vedi il commento al fr. 86), ma ciò non smentisce il fatto che effettivamente l’identificazione, da parte di Varrone, di “adscriptivi”, “accensi”, “ferentarii” e “optiones” sia altamente probabile. 160
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tuto compiere una transizione del genere per presentare l’etimo del loro terzo appellativo, “optiones”: “ referentibus centurionibus et decurionibus adoptati in cohortes subibant … a quo optiones … decurionum … et … centurionum … appellati”. Se le cose stessero così, non ci sarebbe più un motivo per integrare un soggetto dopo “appellati”. Date le incertezze sul contesto e sull’estensione del taglio compiuto da Nonio, ritengo pertanto prudente non mettere a testo alcuna integrazione (né prima né dopo la stringa riportata dal grammatico). Ho tuttavia voluto esprimere in sede di commento la mia ipotesi circa l’assetto generale che tutta questa sezione poteva avere nel terzo libro del de vita. 86 (= 89 R.; 405 S.) rorarii appellati quod imbribus fere primum rorare incipit 1: quod in imbribus scripsi; quod imbribus codd.; quod imminentibus imbribus Müller (vel instantibus) Non. p. 887.30-7: RORARII appellabantur milites qui, antequam congressae essent acies, primo non multis iaculis inibant proelium: tractum quod ante maximas pluvias caelum rorare incipiat. […] Varro de vita populi romani lib. III: 1: rorarii P; rorari LAABA; rori CADA | congressae DA; congressi cett.
furono detti “rorarii”, poiché, negli acquazzoni, per lo più dapprima iniziano a cadere soltanto poche gocce (rorare) Il fr. 86 fornisce l’etimologia di un nuovo termine militare: “rorarius”. Erano detti “rorarii” i soldati armati alla leggera incaricati di ingaggiare le prime scaramucce, preliminari allo scoppio della battaglia vera e propria, con il lancio a distanza di alcune armi da getto contro lo schieramento nemico. Il loro nome deriverebbe da una vivace metafora: come un temporale è anticipato dalla caduta di poche gocce d’acqua (immagine descritta con il verbo “rorare”), così spettavano ai “rorarii” i primi colpi, che preludevano all’urto massiccio di tutte le schiere e alla “tempesta” della battaglia. Questa derivazione è esposta da Nonio nel lemma che introduce la citazione del frammento e che con buona probabilità, considerata la scarsa indipendenza del grammatico nei confronti delle proprie fonti, costituisce una parafrasi del discorso condotto da Varrone nel brano del de vita da cui è tratta la pericope citata (si veda la corrispondenza fra “rorare incipit” e “rorare incipiat”). Tuttavia, il parallelo più utile per risalire a quello che Varrone avrebbe 368
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potuto dire nella parte esclusa dalla citazione è costituito da Paul. Fest. p. 13.2330, alii rorarios (sc. adscripticios dicebant), quod id genus hominum, antequam acies coirent, in modum rorantis tempestatis dimicarent161 e p. 323.8-10, rorarios milites vocabant, qui levi armatura primi proelium committebant, quod, ut ante imbrem fere rorare solet, sic illi ante gravem armaturam quod prodibant, rorari dicti. La stessa etimologia è presentata, anche se in modo estremamente conciso, da Varrone a l. L. 7, 58, rorarii dicti ab rore qui bellum committebant, ideo quod ante rorat quam pluit. Il punto principale dell’etimo sta nel parallelo fra la battaglia e un acquazzone: le gocce che precedono lo scroscio di pioggia vengono paragonate al lancio di dardi che apre lo scontro. Lo stralcio riportato da Nonio descrive proprio questo aspetto e può essere agevolmente “completato” a senso dal confronto con i luoghi paralleli. La forma tradita del brano (“rorarii appellati quod imbribus fere primum rorare incipit”), tuttavia, presenta alcune difficoltà sintattiche. Non è infatti chiaro il valore di “imbribus”: se è un dativo, viene meno ogni possibilità di collegarlo logicamente a un altro elemento della frase; d’altro canto, l’ipotesi che si tratti di un complemento di luogo senza proposizione è piuttosto ardua da dimostrare. È vero che il lemma di Nonio e i passi di Paolo Diacono permettono di risalire a quello che, in generale, il fr. 86 vorrebbe dire; tuttavia, la lettera del frammento è confusa. Tenuto conto che in tutti i brani in cui è proposta l’etimologia di “rorarius” è sviluppato il paragone fra l’inizio della battaglia e un fenomeno fisicamente visibile nel corso di un temporale, sospetto che il duro “imbribus” possa essere l’esito corrotto di una stringa contenente un riferimento al temporale più preciso di quanto lo sia il testo tradito. A tale conclusione è giunto già Müller, che propone di correggere in “imminentibus imbribus” (cfr. Paul.: “ante imbrem”). L’intervento di Müller, che presuppone la caduta di un termine per omoteleuto, è plausibile e fornisce il senso richiesto, ma richiede un’integrazione troppo ampia per essere accolta a testo senza remore. Inoltre, la rapidità, presente anche nel parallelo dal de lingua Latina, con cui Varrone fornisce l’etimologia di “rorarius”, sembra richiedere un riferimento al temporale più sintetico rispetto a “imminentibus imbribus”. Per questo, la mia ipotesi è che all’origine della corruttela ci sia
L’intera voce festina da cui è tratta questa frase sembra dipendere in larga parte da Varrone (pur contaminato con altre fonti), tanto che è stata adoperata come base per una correzione al testo del fr. 84. Per l’intera questione, rimando al commento ad loc. 161
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una semplice aplografia e che il testo in origine recitasse “rorarii appellati quod in imbribus fere primum rorare incipit”. Per una banale confusione d’occhio, o di dettatura, la proposizione “in” è stata assorbita dall’inizio della parola “imbribus”, generando il testo trasmesso dai codici di Nonio. Una volta stabilita la forma del fr. 86, sorge un nuovo problema circa la sua collocazione. Per quanto sia probabile che il frammento sia tratto dalla stessa sezione relativa all’ordinamento militare da cui provengono i frr. 83-85 (nonché i successivi frr. 87 e 88), resta aperto un interrogativo: Varrone considerava i “rorarii” del fr. 86 come figure equivalenti agli “ascriptivi” dei frr. 83-85 oppure riteneva che i “rorarii” costituissero una categoria a parte? La prima possibilità trova un elemento di sostegno nel brano spesso citato di Paolo Diacono in cui vengono identificati “adscripticii”, “accensi”, “ferentarii” e, appunto, “rorarii” (vedi fr. 85). Come abbiamo già visto, alcune di queste identificazioni ritornano negli stessi termini in alcuni frammenti del de vita (ad es., quella fra “accensi” e “ferentarii” nel fr. 84), tanto che si è supposto che Varrone, nei frr. 83, 84 e 85, presentasse l’etimologia dei diversi appellativi con cui veniva identificata un’unica categoria di soldati, quella costituita dalle truppe soprannumerarie. Resta da vedere se in questa categoria potessero rientrare anche i “rorarii”. Se così fosse, anche il fr. 86 andrebbe inserito nel gruppo dei frammenti precedenti e si dovrebbe concludere che per Varrone, come per Festo, i “rorarii” coincidessero con gli “ascriptivi”. In tal caso, potremmo ipotizzare che prima della citazione di Nonio comparisse un riferimento esplicito al discorso precedente, qualcosa come “ (sc. “ascriptivi”, “accensi”, ecc.) rorarii appellati, quod in imbribus fere primum rorare incipit…”162. Supponendo una situazione del genere, i frr. 83, 84, 85 e 86 verrebbero a costituire un unico gruppo, dedicato al tema “diversi nomi degli ascriptivi”, che coinciderebbe, tra l’altro, quasi alla perfezione con il brano di Paolo Diacono. Il punto è che, mentre l’identificazione fra “ascriptivi” e “accensi”, “ferentarii” o “optiones” ricorre, oltre che in Paolo Diacono, anche in altre fonti e in altri passi di Varrone (vedi frr. prec.), quella con i “rorarii” si avrebbe soltanto in questo brano di Paolo Diacono. Al contrario, Plauto (fr. 4 della Frivolaria, ‘ubi ro-
162 Dobbiamo supporre che il seguito del frammento completasse l’etimologia con un riferimento al fatto che i “rorarii” aprivano lo scontro con il lancio di pochi dardi: la definizione di Nonio, quasi certamente una parafrasi del luogo varroniano completo, lascia infatti intendere che il nostro frammento proseguisse così.
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rarii estis?’ ‘Adsunt’ ‘ubi sunt accensi?’ ‘Ecce nos’; vedi Aragosti 2009, pp. 162-163) e Livio 8, 8.8 (primum vexillum triarios ducebat, veteranum militem spectatae virtutis, secundum rorarios, minus roboris aetate factisque, tertium accensos, minimae fiduciae manum; Oakley 1998 ad loc. dichiara che, data la confusione mostrata in proposito già dagli antichi, è quasi impossibile stabilire se “accensi” e “rorarii” fossero davvero distinti o rientrassero nella stessa categoria di armati) sembrano presentare “rorarii” e “accensi” come due categorie differenti. Questo dato potrebbe anche portare a sospettare che l’identificazione dei “rorarii” con gli “accensi” (e, di riflesso, con gli “ascriptivi”), attestata nel solo Paolo Diacono, potesse essere frutto di una svista della sua fonte Festo e che Varrone, invece, presentasse i “rorarii” non tanto come appartenenti alle truppe soprannumerarie, quanto come una categoria specifica di soldati. In base a questa seconda possibilità, dunque, si dovrebbe staccare il fr. 86 dal blocco costituito dai frr. 83-85 e supporre che qui Varrone presentasse l’etimologia non di una variante di “ascriptivi”, ma di una nuova tipologia militare. Ad esempio, si potrebbe immaginare che Varrone, dopo aver distinto fra truppe regolari, la “legio”, e truppe soprannumerarie nel fr. 83 e aver elencato i diversi nomi con cui le truppe soprannumerarie venivano designate nella sezione da cui provengono i frr. 84 e 85, aprisse un nuovo capitolo dedicato all’etimologia di altri termini militari. Il criterio ordinatore di questa nuova sezione poteva essere costituito dalla posizione occupata nello schieramento dai diversi gradi militari di volta in volta descritti, dalle prime linee alle retrovie, o dal loro armamento, dai reparti armati alla leggera a quelli più pesanti (come i soldati cui sembrano riferirsi i frr. 87 e 88, vedi infra). Se così fosse, il fr. 86, dedicato ai soldati equipaggiati in assoluto nel modo più leggero e destinati alla primissima linea, dovrebbe collocarsi all’inizio di questa nuova sezione163. Venuta meno la necessità di connettere il fr. 86 al discorso sugli “ascriptivi”, si potrebbe allora anche integrare, in base alla definizione di Nonio, qualcosa come “ rorarii appellati, quod…”. Purtroppo, non disponiamo di elementi a sufficienza per stabilire quale delle due possibilità sia da appoggiare (vedi lo scetticismo di Oakley 1998, pp. 469-472; anche Aragosti dice che, circa la natura dei “rorarii”, “Verrio … da Varrone strettamente dipendeva, come dimostra la lemmatizzazione di “ADSCRIPTICII” in 13, 28 L che include gli accensi In tutto il mio ragionamento, ho considerato il fr. 86 come successivo al fr. 83, supponendo che Varrone parlasse prima della legione e poi dei reparti in cui questa era organizzata.
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come in quello, probabilmente con analoga esemplificazione plautina”, posizione che sembra implicitamente attribuire già a Varrone l’identificazione fra “rorarii” ed “ascriptivi”). Per questo, ho voluto discuterle entrambe in sede di commento, senza però stampare alcuna integrazione al testo del frammento. 87 (= 90 R.; 406 S.) qui gladiis cincti sine scuto cum binis gaesis essent Non. p. 891.9-13: GAESA, telum Galliarum tenerum […] Varro de vita populi Romani lib. III. 1: caesa (ce-) codd. | tela edd. vett. | tenerum om. DA
che fossero armati di spada, senza scudo, con due giavellotti a testa Il fr. 87 descrive l’equipaggiamento di una determinata categoria di soldati, difficile da identificare. Da un lato, Nonio, evidentemente più interessato all’occorrenza del termine “gaesum” che al nome della tipologia di soldati qui presentata da Varrone, ha omesso questo elemento e tagliato il referente della relativa fuori dalla citazione; dall’altro, i dati qui riportati sono problematici e non si accordano con alcuna notizia trasmessa da altre fonti. Si parla, infatti, di uomini equipaggiati ciascuno con una spada e due “gaesa” (sorta di giavellotti; si tratta di un’arma gallica, come recita anche la voce di Nonio, vedi ThLL VI, 2 1667.701668.40 e OLD 752). L’accostamento dell’arma romana per eccellenza (il “gladius”) con una di origine straniera non costituisce in sé una grande difficoltà, dal momento che, stando a Livio164, il “gaesum” fu adottato abbastanza presto Nella descrizione delle formazioni dell’esercito romano a 8, 8.5 i “gaesa” sono presentati come l’arma comunemente adoperata dalle truppe leggere (vedi Oakley 1998 ad loc.). Se riconosciamo che anche soldati romani potessero impiegare “gaesa”, non dovrebbe risultare difficile ammettere che anche nel fr. 87 si stia parlando di un reparto dell’esercito romano (cosa del resto accettata da Riposati, che associa il fr. 87 alle precedenti citazioni sull’esercito, e da Salvadore, che lo stampa insieme ai frr. 83-86; ma, stranamente, lo separa dal fr. 88: vedi infra). Il Thesaurus propone invece dubitanter che il fr. 87 possa descrivere dei Galli: in questo caso, dovremmo supporre che la citazione non provenga da un’esposizione antiquaria delle componenti dell’esercito, ma dal racconto di un episodio storico, in cui dei Galli armati nel modo descritto compivano un’impresa. Tuttavia, l’ipotesi del Thesaurus è poco probabile, da un lato perché la menzione dei “gaesa” non impone necessariamente che li adoperassero dei 164
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dall’esercito romano. Il vero punto sorprendente sta nella precisazione “sine scuto”. Infatti, il fr. 87 costituisce l’unica testimonianza di un impiego del “gladius” senza lo “scutum”, che di norma costituiva lo strumento di difesa complementare alla spada. Proprio questo dato rende quasi impossibile risalire alla categoria di soldati cui il fr. 87 si riferisce, dal momento che mancano altre menzioni di truppe regolari armate di spada e lance, ma prive di scudo. Pertanto, è difficile anche capire se i soldati qui descritti facessero parte delle truppe leggere o della fanteria pesante. A favore della prima possibilità sarebbe il fatto che i “gaesa” erano le armi proprie dei fanti leggeri (vedi Liv. 8, 8.5: leves autem, qui hastam tantum gaesaque gererent, vocabantur); ma questa trova un’obiezione nella notizia che i soldati in questione avessero anche il “gladius”, proprio, invece, della fanteria pesante. Il problema rimane aperto (anche Riposati, pp. 206-207, è indeciso fra le due posizioni); forse, la precisazione dell’assenza del pesante “scutum” potrebbe accordarsi meglio con l’ipotesi di avere a che fare con un tipo particolare di truppe leggere, dotate di un equipaggiamento più ampio rispetto a quello degli altri “leves”, ma ancora incompleto rispetto a quello delle truppe regolari. La difficoltà di dare un nome alla tipologia di soldati in questione e di capire a quale rango militare appartenessero comporta che sia altrettanto arduo anche ipotizzare un contesto preciso per il frammento. Come prima possibilità, il confronto con altri frammenti del de vita mi porterebbe a integrare, exempli gratia, qualcosa come “x165 appellabant, qui gladiis cincti sine scuto cum binis gaesis essent”. Con una ricostruzione del genere, dovremmo supporre che Varrone prose-
Galli, dall’altro perché, al contrario, proprio il riferimento al “gladius” porta a sospettare che qui Varrone si riferisse a dei soldati romani. Ciò invalida anche i tentativi di quanti vorrebbero individuare consonanze fra l’armamentario descritto nel fr. 87 e alcune rappresentazioni scultoree di guerrieri Galli: ad esempio, Hubert 1934, p. 265 sostiene che in una stele etrusca siano scolpiti guerrieri gallici armati nello stesso modo descritto dal frammento. Secondo questa ricostruzione, il fr. 87 dovrebbe quindi parlare non di soldati romani, ma di Celti. Il rilievo e il frammento però non coincidono: nel rilievo ci sono due giavellotti, ma anche un’ascia, mentre nel frammento si parla chiaramente di un “gladius”. Del resto anche il vero dato problematico del fr. 87 (l’assenza dello scudo) si oppone all’identificazione del soggetto della citazione con dei Galli, dal momento che l’armamentario dei guerrieri celti era caratterizzato proprio da grossi scudi (cfr. Verg. Aen. 8, 662: scutis protecti corpora longis). 165 Devo ricorrere all’incognita x per designare questa categoria di soldati di cui non possiamo identificare il nome.
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guisse la serie di etimologie relative alle diverse componenti dell’esercito iniziata col fr. 83 e che anche il fr. 87 facesse parte di questa sezione. L’ordine dei frammenti da me accolto si adatta a questa ricostruzione, supponendo che Varrone, dopo aver distinto fra reparti compresi nella legione e truppe ausiliarie (fr. 83) e aver sviluppato una trattazione piuttosto ampia di queste ultime (frr. 84 e 85, forse anche 86166), passasse a fornire un quadro dello schieramento dell’esercito, descrivendone le varie componenti a partire dalle truppe leggere (frr. 86 e 87), fino alla cavalleria (fr. 88). In una sistemazione del genere, il fr. 87, che parla di soldati armati in modo “ibrido” fra l’equipaggiamento proprio delle truppe leggere e quello della fanteria pesante, potrebbe porsi bene nel passaggio dalla descrizione dei soldati armati alla leggera a quella dei fanti e degli “equites” regolari. Mantenendo questa ipotesi di organizzazione della materia, si potrebbe tuttavia supporre anche un contesto, per il fr. 87, leggermente diverso da quello sopra proposto. Varrone, invece di fornire l’etimologia di una determinata categoria di soldati, poteva infatti dire che, nello schieramento dell’esercito, prima della fanteria pesante, trovavano posto “qui gladiis cincti sine scuto cum binis gaesis essent”. Si potrebbe dunque ricostruire anche qualcosa come “ante hos pugnabant (o “prodibant”, cfr. Paul.-Fest. p. 323.8, illi ante gravem armaturam quod prodibant) qui gladiis cincti…”. Come si vede, un contesto del genere non implica la necessità che Varrone “nominasse” questa particolare tipologia di soldati, quando poteva limitarsi a indicarne il ruolo o la posizione nello schieramento. Forse anche il modo in cui Nonio cita il frammento si accorda meglio con questa ipotesi: in presenza di un’etimologia esplicita (come “x appellati qui gladiis cincti…”) probabilmente il grammatico non si sarebbe lasciato sfuggire il dato erudito e avrebbe ampliato la citazione, mentre, se Varrone accennava soltanto alla posizione nello schieramento dei soldati così equipaggiati, senza fornirne il nome, si comprenderebbe meglio il taglio operato da Nonio. In conclusione, propendo per questa seconda ipotesi di contesto, per quanto l’incompletezza della citazione e la difficile identificazione del soggetto lascino comunque la questione aperta. Prima di concludere, vorrei accennare brevemente alla proposta di Salvadore (p. 115) di identificare il contenuto del fr. 87 con un episodio narrato da Livio (9, 36.6), in cui si racconta che degli alti ufficiali romani procedono all’esplo Sul problema della collocazione del fr. 86, vedi comm. ad loc.
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razione della “selva Ciminia” (310 a.C.) travestiti da pastori e armati di “gaesa” (iere pastorali habitu, agrestibus telis, falcibus gaesisque binis, armati). A parte la ricorrenza (a parer mio del tutto casuale), in entrambi i passi, del nesso “gaesis binis”, il fr. 87 e il brano liviano sono ben diversi. Innanzi tutto, in Livio è narrato un singolo episodio, in cui l’impiego dei “gaesa” è motivato dalle esigenze del travestimento degli esploratori, mentre nulla lascia intendere che l’equipaggiamento descritto nel fr. 87 sia parte di un travestimento. Invece, è probabile che il fr. 87 descriva un equipaggiamento di tipo regolare, non impiegato in una singola occasione, e proprio, per giunta, di una fascia presumibilmente estesa di soldati, non di pochi esploratori. Inoltre, nell’episodio narrato da Livio (dove non compare alcuna menzione del “gladius”) gli esploratori scelgono i “gaesa” in quanto “agrestia tela”, per non destare sospetti, e, infatti, ai “gaesa” uniscono delle falci; niente di tutto ciò ricorre nel fr. 87. Infine, la vicenda raccontata da Livio risale al periodo delle guerre sannitiche e quindi esula dalla fascia cronologica coperta dal l. 3. Per quanto riguarda il fatto che in entrambi i passi si legga “binis gaesis”, questa costituisce un’espressione “quasi formulare”: vedi Verg. Aen. 8, 661-662, duo quisque Alpina coruscant / gaesa manu e la nota di Lersch 1843, p. 82, “qualiscumque horum gaesorum fuerit forma, notato semper bina nominari”. Se dunque la menzione di due “gaesa” per ogni uomo è un dato fisso nella descrizione letteraria, la proposta di Salvadore risulta ancora meno attendibile. 88 (= 91 R.; 427 S.) qui in exercitu donati essent et equo publico mererent 1: quin exercitu LG (= BA) | excitu AA | donati Müller Non. p. 545.34-40: MERET, militat […] Varro de vita pop. Rom. lib. III
chi nell’esercito avesse ricevuto un donativo e prestasse servizio militare con l’equipaggiamento di cavalleria fornito a spese pubbliche Anche il fr. 88, analogamente alle citazioni sopra commentate, sembra riferirsi all’ambito della vita militare, come è del resto indicato in modo esplicito dalla precisazione “in exercitu”. La stringa prima contiene un riferimento ai soldati che avessero ricevuto una forma di donativo (“qui … donati essent”), poi menziona il rango privilegiato della cavalleria, costituito dagli “equites equo publico”. Si trattava dei cavalieri appartenenti alle diciotto centurie che, tradizionalmente, si 375
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facevano risalire a Servio Tullio: a costoro veniva fornito un cavallo dallo Stato, nonché una quota per sostenerne il mantenimento (aes hordeaticum). L’assenza di un contesto più ampio e, soprattutto, la perdita della frase da cui dipende il frammento non permettono di comprendere se Varrone considerasse “qui in exercitu donati essent” e “(qui) equo publico mererent” come due categorie distinte167, oppure come due caratteristiche della stessa figura168. Io propenderei per la prima possibilità, dal momento che la concessione dell’“equus publicus” costituiva già una sorta di donativo: mi sembra più probabile quindi che Varrone accomunasse due gruppi diversi (“qui donati essent” e “qui equo publico mererent”) in base al fatto che entrambi ricevevano un’agevolazione dallo Stato, piuttosto che distinguesse fra “equites equo publico” con donativo ed “equites equo publico” senza donativo169. Le informazioni più dettagliate sugli “equites equo publico” ci vengono da Livio. Questi, nell’ambito del racconto delle riforme serviane, parla anche dell’organizzazione della cavalleria e dice, nello specifico, che il re170, alle dodici Sarebbe così se ipotizzassimo un contesto del tipo: “ i soldati che avessero ricevuto donativi e gli equites equo publico”. 168 Ad esempio, Varrone avrebbe potuto descrivere un provvedimento legale che riguardasse gli “equites equo publico” che avessero anche ricevuto un donativo: in tal caso, “qui donati essent” e “qui equo publico mererent” andrebbero presi come due caratteristiche della medesima categoria. 169 Anche l’ordo verborum del frammento si accorda meglio con questa ipotesi: se “qui donati essent” fosse una caratterizzazione in più di “qui equo publico mererent”, sarebbe più normale l’ordo “qui in exercitu equo publico mererent et donati essent”. 170 Cicerone (rep. 2, 36) attribuisce l’istituzione degli “equites equo publico” non a Servio Tullio, ma a Tarquinio Prisco (che avrebbe ripreso un costume in uso a Corinto, la città da cui la leggenda voleva che provenisse il padre). Tuttavia, il contesto del brano è lacunoso e non possiamo seguire bene l’andamento completo del discorso di Cicerone. È significativo che Cicerone dica che l’ordinamento della cavalleria non aveva subito modifiche dall’età monarchica ai suoi giorni. Ovidio (fast. 3, 130) sembra dire che, prima della riforma in questione, i cavalieri (legitimo quique merebat equo) erano stati divisi da Romolo in dieci squadroni, ma l’interpretazione del passo è controversa (“legitimo … equo” si potrebbe intendere come un equivalente di “publico … equo”, che metricamente non può entrare nell’esametro; Bömer 1958, pp. 150-151 obietta che “legitimus” non può essere identificato con “publicus”, dal momento che, prima della riforma serviana, l’“equus publicus” ancora non esisteva; recentemente, Ursini 2008, pp. 167-168 ha limitato gli argomenti di Bömer e pensato, a favore dell’identificazione, a una piccola svista di Ovidio). 167
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centurie di cavalleria dei ricchi, aggiunse altre sei centurie, e che i cavalli furono acquistati e forniti dallo Stato, mentre, per mantenere l’equipaggiamento di cavalleria, fu sfruttato il ricavato di alcune imposte (1, 43.9): ad equos emendos dena milia aeris ex publico data; et, quibus equos alerent, viduae attributae, quae bina milia aeris in annos singulos penderent. Gli appartenenti alle diciotto centurie “serviane” erano definiti appunto “equites equo publico”; chi, invece, pur avendo i requisiti di censo per appartenere alla cavalleria, non rientrava nelle diciotto centurie “equo publico”, faceva comunque parte dell’ordine equestre, ma militava nella fanteria pesante. Per indicare il servizio militare “equo publico” si impiegano per lo più due formule: la prima è quella presente nel fr. 88 (“equo publico merere”), adottata anche da Liv. 27, 11.14 ((stipendia) quae equo publico emeruerant, cfr. Liv. 39, 9.2 P. Aebutius, cuius pater publico equo stipendia fecerat, pupillus relictus); l’altra è “equum publicum habere” (vedi Liv. 24, 18.6, qui publicum equum habebant; 29, 37.8 ambo forte censores equum publicum habebant). Sappiamo che, in determinate situazioni di crisi, come dopo un disastro militare, lo Stato ha temuto di non poter più fornire l’“equus publicus” a proprie spese: è quanto avviene durante l’assedio di Veio, nel corso del quale i cittadini propongono di procurarsi il cavallo a spese proprie (vedi Liv. 5, 7.4 quibus census equester erat, equi publici non erant adsignati, concilio prius inter se habito, senatum adeunt factaque dicendi potestate equis se suis stipendia facturos promittunt; interessante anche la proposta, avanzata nel 208 a.C. al fine di ridurre le spese, di sospendere la fornitura dell’indennizzo mensile agli “equites equo publico”, vedi Liv. 27, 11.14 addiderunt acerbitati etiam tempus, ne praeterita stipendia procederent iis quae equo publico emeruerant, sed dena stipendia equis privatis facerent). In età repubblicana, la perdita dell’“equus publicus” costituiva una sanzione disciplinare: poteva essere comminata dai censori a singoli individui (vedi [Asc.] in Cic. div. 8, hi prorsus cives sic notabant: ut, qui senator esset, eiceretur senatu; qui eques R., equum publicum perderet) o a intere categorie (come nel caso dei cavalieri che, dopo Canne, avevano proposto di abbandonare l’Italia, vedi Liv. 24, 18.6, his superioribusque illis equi dempti, qui publicum equum habebant, tribuque moti aerarii omnes facti e Val. Max. 2, 9.8 dereptis equis publicis inter aerarios referendos curaverunt171). È probabile che, col passare del tempo, le dif Cfr. Val. Max. 2, 9.7 equis publicis spoliatos in numerum aerariorum rettulerunt (riguardo un altro episodio).
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ferenze fra “equites equo publico” ed “equites” normali diventassero sempre più sfumate; in età imperiale, la concessione dell’“equus publicus” da parte dell’imperatore è alla stregua di un semplice titolo onorifico (vedi Epitome Ulpiani 7.1). Per una storia più dettagliata degli “equites equo publico”, vedi Hill 1930; Hill 1943; Henderson 1963, pp. 61-63. Per quanto riguarda l’espressione “equo publico merere”, questa potrebbe ricorrere anche in un frammento dal l. 30 delle satire di Lucilio, trasmesso sempre da Nonio, a p. 545.28, nello stesso lemma in cui è riportato anche il fr. 88 (fr. 1078 Marx = 1056 Krenkel). Il codici di Nonio riportano l’esametro in una forma mutila e corrotta: “publica lege ut mereas praesto est tibi quaestor”. Müller lo corregge in “publicitus lege ut…”, testo accolto anche da Lindsay, mentre Marx congettura “publicu’ lege ut mereas praesto est tibi quaestor” (scelta problematica, sia per la mancanza di attestazioni del nesso “publicus quaestor” sia per l’ordo confuso che la struttura della frase assumerebbe). Cichorius 1908, pp. 214-215, propone l’eccellente correzione, accolta anche da Krenkel, publico lege ut mereas, praesto est tibi quaestor (“perché tu possa prestare servizio in cavalleria secondo la legge, eccoti pronto un questore”172). I vari motivi a favore dell’intervento sono esposti in maniera esaustiva dal suo autore nel contributo sopra citato; per darne una rapida idea, in breve: 1) sappiamo che spettava proprio a un questore versare la paga ai soldati e, nel caso dei cavalieri, aggiungere a questa l’“aes equestre” previsto dalla legge (cfr. Cic. Verr. II 1, 36); 2) dati gli ablativi vicini “equo” e “lege”, entrambi bisillabi, era facile che uno dei due venisse tralasciato in fase di dettatura; la perdita di “equo”, in particolare, poteva essere aiutata dalla somiglianza paleografica con la terminazione “-ico” della parola precedente; 3) una volta caduto “equo”, la stringa “publico lege” poteva essere facilmente rabberciata in “publica lege”. Se accogliamo la correzione di Cichorius, abbiamo un’altra attestazione, particolarmente vicina a quella del fr. 88, della formula “equo publico merere”. In proposito, vale la pena di esaminare anche il modo in cui il frammento di Lucilio è trasmesso da Nonio. I codici noniani riportano il verso di Lucilio alla voce “MERET meretur” (pp. 544.21-545.31), ma il verbo “mereo”, nel frammento, non può essere ricondotto a questa accezio-
Il frammento poteva riferirsi al servizio prestato in cavalleria da Scipione Emiliano (vedi Marx 1904, vol. II, p. 344 e Cichorius 1908); lo stesso Lucilio aveva militato a Numanzia proprio fra i ranghi degli “equites”. 172
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ne (a prescindere dalla correzione accolta, la menzione di un questore rimanda all’ambito militare e impone di intendere “merere” come “prestare servizio militare”, non come “meritare”). Quicherat, seguito da Müller, propone quindi di trasporre la citazione di Lucilio poche righe più giù (prima di p. 545.40), in modo da farla rientrare sotto la voce “MERET, militat”, dove, come si è visto, compare anche il fr. 88 del de vita. Oggettivamente, il verso troverebbe lì una collocazione molto più naturale; inoltre, con la correzione di Cichorius, due attestazioni quasi identiche di “equo publico merere” verrebbero a comparire l’una accanto all’altra nella voce noniana. La dislocazione del verso può essere spiegata agevolmente: la citazione di Lucilio potrebbe essere stata omessa in fase di copia e integrata a margine, per essere poi ricopiata al posto sbagliato. In alternativa, volendo salvare l’ordine tradito, si può sempre pensare che Nonio stesso avesse interpretato male il verso di Lucilio e che per questo lo avesse riportato alla voce “sbagliata”, ma questa ipotesi è meno probabile e piuttosto macchinosa (soprattutto se il testo giusto recitava “publico equo … ut mereas”, le possibilità che Nonio, che per il fr. 88 mostra di aver inteso bene il significato dell’espressione, si confondesse sono davvero basse). Tornando al testo del frammento, il taglio operato da Nonio (come nel caso del fr. 87) ha escluso dalla citazione il verbo da cui dipende la relativa e un termine a cui potesse riferirsi il soggetto “qui”. Ciò comporta che sia piuttosto difficile avanzare ipotesi sul contesto del fr. 88, sul suo significato generale e sulla sua collocazione nell’ambito del l. 3. A causa di queste incertezze, Salvadore ha adottato una posizione “scettica” e ha deciso di stampare il fr. 88 (e i successivi frr. 89 e 90, che trattano del ruolo dei feziali e di questioni di diritto militare) a parte rispetto al gruppo delle citazioni (i frr. 83-87) relative ai gradi dell’esercito e alla terminologia militare. In questo modo, l’editore ha isolato il frammento sulla cavalleria, pubblicandolo a grande distanza dagli altri frammenti sull’esercito e frapponendo, fra il fr. 87 e il fr. 88, numerose citazioni dedicate ad argomenti del tutto diversi (dai riti funebri al racconto di episodi delle guerre puniche). Così, Salvadore mira a presentare il fr. 88 come un frammento dalla collocazione incerta, impossibile da inquadrare in una sezione più ampia e, pertanto, da esaminare singolarmente173. Una posizione del genere mi sembra eccessiva e non I criteri adottati da Salvadore nell’ordinamento dei frammenti del l. 3, in particolare di quelli che stampa per ultimi, non mi sono particolarmente chiari. Da un lato, infatti, sembra 173
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del tutto giustificata. Infatti, per quanto restino dei dubbi circa il contesto esatto del fr. 88, non si può negare che esso attenga alla sfera dell’esercito e, soprattutto, che presenti una vicinanza impressionante, nella forma, col fr. 87 (cfr. “qui gladiis cincti … essent” e “qui … donati essent”). Potrebbe anche darsi che questa coincidenza nella struttura sia occasionale e che in effetti il fr. 87 e il fr. 88 provengano da sezioni diverse del libro; tuttavia, in assenza di criteri esterni (quali la “lex Lindsay”, che non può essere applicata a questi frammenti) e nella necessità di appoggiarsi soltanto alle scarne stringhe trasmesse da Nonio, ritengo molto più economico raggruppare insieme due citazioni così vicine per forma e contenuto come il fr. 87 e il fr. 88, piuttosto che considerarle irrelate per un eccesso di scetticismo. La posizione di Salvadore è resa ambigua anche dal fatto che, mentre stampa a parte il fr. 88, connette il fr. 87 alle altre citazioni (frr. 83-86) sull’esercito. Se avesse distinto anche il fr. 87 dagli altri frammenti sull’esercito e lo avesse incluso, col fr. 88, fra quelli “incertae sedis”, la scelta avrebbe avuto una sua logica; così, invece, non riesco a vedere in base a quale motivo il fr. 88 vada distinto in modo tanto brusco dal fr. 87 e, viceversa, se il fr. 87 può essere aggiunto agli altri sull’esercito, perché tale discorso non debba valere anche per il fr. 88. In conclusione, io proporrei di pubblicare il fr. 88 insieme alle altre citazioni sull’organizzazione dell’esercito. Resta comunque l’incertezza sul contesto esatto del frammento: Varrone infatti avrebbe potuto indicare la posizione che gli “equites equo publico” occupavano nello schieramento delle truppe (il che implicherebbe qualcosa come “qui … donati essent et equo publico mererent …”; tenendo conto del contenuto dei frr. 83-87, questa è la soluzione
aver posto per ultime le citazioni non riconducibili a un contesto preciso, perché trattano argomenti isolati (come il fr. 104, dedicato alle navi, o il fr. 105, su una pratica particolare adottata nel giorno del trionfo di un console), o sono, in linea teorica, riferibili a più di un avvenimento (è il caso del fr. 100, che parla di una vittoria, ma non permette di capire in quale guerra questa sia stata riportata), o ancora sono traditi in forma corrotta (fr. 101). Ciò porterebbe a dedurre che Salvadore abbia posto, al termine del l. 3, i frammenti “incertae sedis” (per quanto non indichi la cosa in modo esplicito). Tuttavia, in questo gruppo fa rientrare anche frammenti relativi ad episodi storici riconoscibili e databili (come il fr. 94, su un evento del 269 a.C.). L’inserimento, da parte di Salvadore, anche di queste citazioni al termine del l. 3 è problematico, tanto più che, adottando il suo ordine, il fr. 94 viene ad essere stampato dopo frammenti relativi ad eventi posteriori (come il fr. 102, sulla cessione a Roma del regno di Pergamo, avvenuta nel 133 a.C.).
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che ritengo più plausibile), oppure fornire il nome con cui erano designati “qui donati essent” e “qui equo publico mererent” (in tal caso, dovremmo integrare “nominabant” o “appellati”), o anche presentare un particolare costume o una determinata legge che riguardava gli “equites equo publico” e i soldati beneficiari di un qualche donativo (“, qui in exercitu donati essent et equo publico mererent…”). Le tre possibilità rimangono aperte, pertanto ho preferito non stampare alcuna integrazione. 89 (= 92 R.; 418 S.) animadvertendum primum, quibus de causis et quemadmodum constituerint paces; secundum, qua fide et iustitia eas coluerint 1: pacis CA Non. p. 217.10-13: PACES plurali numero nove positum. Varro de vita populi Romani lib. III: 1: PARCES CADA
bisogna considerare, in primo luogo, per quali motivi e in che modo (gli antichi Romani) stringessero trattati di pace; in secondo luogo, con quale rispetto della parola data e quale giustizia li mantenessero Il frammento fa parte di una serie “sicura” di citazioni: dall’applicazione della “lex Lindsay” si ricava che, all’interno del l. 3, precedeva il fr. 101. Sebbene il contenuto esatto del fr. 101 sia difficile da determinare, a causa di una grave corruttela che ne interessa il testo, la citazione presenta senza dubbio la forma di una narrazione (vi si parla di un personaggio che avrebbe riportato, forse in seguito a una vittoria militare, un cospicuo bottino in oro); ciò rende molto probabile l’ipotesi che il fr. 101 vada attribuito alla parte del l. 3 in cui Varrone forniva un sunto storico della vicende che andavano – in base a quello che si ricava dai frammenti rimasti che alludono a eventi databili – dalle guerre puniche al 133 a.C. Il fr. 89, invece, ha un tono più argomentativo che narrativo e, per contenuto, sembra ancora affine alle citazioni sopra commentate relative al mondo militare: la citazione anticipa infatti la trattazione di argomenti, come il modo tenuto dagli antichi nello svolgere le trattative di pace, che possono rientrare nella categoria del diritto militare. È dunque possibile che anche il fr. 89 appartenesse alla stessa sezione sull’esercito romano da cui presumo derivino i frr. 83-88. Se così 381
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fosse, dovremmo concludere che nel l. 3 Varrone dedicava al mondo militare una trattazione abbastanza ampia, divisa a sua volta in più sezioni, alcune più marcatamente antiquarie, come quella in cui si presentavano la struttura dell’esercito, le sue unità base e i diversi gradi militari, altre caratterizzate da un tono più discorsivo, che poteva anche aprirsi al racconto di exempla e a considerazioni moraleggianti, come la sezione sulla diplomazia romana da cui è tratto il fr. 89174. Il fr. 89 anticipa in modo esplicito che nel seguito della trattazione sarebbero state presentate le procedure con cui i Romani solevano concludere un trattato di pace (“quemadmodum constituerint paces”) e sarebbe stata descritta la loro straordinaria fedeltà ai patti e alla parola data (“qua fide ac iustitia eas coluerint”). Un’altra citazione dal de vita, attribuita da Nonio sempre al l. 3, parla proprio di un’antica norma volta a tutelare l’inviolabilità degli ambasciatori della parte avversa. È dunque possibile che anche questo frammento (fr. 90) appartenesse alla stesso contesto del fr. 89: l’istituto descritto dal fr. 90 poteva infatti rientrare fra gli esempi della “fides” e della “iustitia” con cui i Romani onoravano i patti di pace e i rappresentanti diplomatici; si può, di conseguenza, supporre che il fr. 90 seguisse il fr. 89. Al termine di questa analisi, dobbiamo ammettere dunque l’esistenza, nel l. 3, di una estesa sezione sull’esercito che comprendeva i frr. 83-90. Possiamo ora tornare al dato della “lex Lindsay” sopra citato: se il fr. 89 precedeva il fr. 101, ne consegue che tutta la sezione dell’esercito venisse prima del racconto di alcune vicende storiche. Purtroppo, come spiego meglio nell’introduzione al l. 3, da ciò non deriva necessariamente che nel l. 3 la sezione
Ovviamente, data la perdita dell’opera nel complesso, non si possono escludere ricostruzioni alternative (ad esempio, la presunta sezione sulla correttezza dei Romani nella prassi militare e sulla loro fedeltà ai patti, da cui potrebbero derivare i frr. 89 e 90, poteva anche precedere – non seguire – quella antiquaria sull’organizzazione dell’esercito, a mo’ di introduzione esemplare). Io ho deciso di collegare comunque i frr. 89-90 alle altre citazioni sull’esercito, in modo da fornire al lettore tutti insieme i frammenti relativi alla sfera militare. Nell’ordinare le citazioni in base al contenuto, ho poi ritenuto probabile che Varrone prima descrivesse le unità base dell’esercito (la legione, fr. 83), poi procedesse alla presentazione dei vari reparti, da quelli più leggeri (gli ausiliari, le prime linee, frr. 84-86) a quelli più pesanti (fanteria pesante, fr. 87; cavalleria, fr. 88), per poi concludere la rassegna occupandosi delle figure che, all’interno dell’esercito, avevano compiti specifici, come i legati. È possibile che proprio la menzione dei legati costituisse il tramite per il passaggio alla sezione sulle trattative e sul diritto diplomatico da cui sembrano provenire i frr. 89-90.
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sull’esercito precedesse quella storiografica in blocco (ossia che Varrone in questo libro prima trattasse tutte le questioni antiquarie e poi chiudesse il libro con una rassegna sintetica delle vicende storiche che rientravano nell’arco cronologico previsto dal piano del l. 3). Potrebbe anche darsi, infatti, che, come nel l. 2, anche qui le sezioni antiquarie e quelle storiche si intersecassero e che, per un puro caso, Nonio abbia estrapolato citazioni soltanto da una sezione storica che seguiva quella antiquaria sull’esercito e non da una sezione storica precedente, che in teoria poteva esistere, ma di cui a noi non è rimasto nulla. Quindi, anche se per esigenza di praticità ho stampato prima tutti i frammenti antiquari e poi tutti quelli “storiografici”, è necessario avvertire che spesso si tratta solo di una soluzione di comodo, che potrebbe non rispecchiare l’ordine che Varrone dava alla materia nel l. 3. Mi sono dilungato sulla questione dell’ordine dei frr. 89-90 perché Salvadore, come ho già accennato nel commento al frammento precedente, separa questi due frammenti dalle altre citazioni relative all’esercito e li stampa in coda al libro come se si trattasse di due citazioni dal contenuto incerto. Questa operazione non mi convince (vedi comm. al fr. 88), tanto più che Salvadore da un lato sembra comunque connettere in qualche modo i frr. 88, 89 e 90 (li pubblica anche lui l’uno di seguito all’altro e in questo ordine), dall’altro li separa, senza spiegare i motivi della sua scelta, dai frr. 83-87. Inoltre, in questo caso Salvadore sembra tener conto della “lex Lindsay” e pertanto stampa il fr. 101 dopo il fr. 89, ma isola il fr. 101 dalle altre citazioni relative a eventi storici (che lui pubblica prima del fr. 89). Se proprio va rispettata la “lex Lindsay”, riterrei tuttavia più economico stampare i frammenti storici, incluso il fr. 101, dopo il fr. 89, piuttosto che pubblicare prima tutte le citazioni ad argomento storico, poi stampare il fr. 89 e infine far seguire quest’ultimo dal solo fr. 101, estrapolato dalla sezione storica, per non contravvenire al dato della “lex”175. Per passare finalmente al testo del frammento, questo costituisce una sorta di partizione della materia che Varrone avrebbe evidentemente affrontato nel seguito del discorso. Varrone invita il lettore, con il perentorio “animadverten-
175 Si potrebbe obiettare che Salvadore ha voluto pubblicare a parte il fr. 101 per via del suo testo corrotto. Ma se il motivo è questo, perché mai ha estrapolato dalla sezione storica e pubblicato a parte anche il fr. 94, che si riferisce a un evento databile al 269 a.C. e che, in questo modo, viene a comparire dopo frammenti relativi a vicende posteriori al 269 (vedi comm. al fr. 88)?
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dum”, a prestare attenzione a due aspetti: nell’ordine, al modo seguito dagli antichi romani nel concludere un trattato di pace e alla fedeltà alla parola data con cui solevano onorare l’accordo siglato. È probabile che alla scrupolosa divisione della materia proposta nel frammento (“primum … secundum”) corrispondesse l’ordine effettivo con cui questi temi erano affrontati nel prosieguo della sezione. Se così fosse, possiamo immaginare che al fr. 89 seguisse in primo luogo una trattazione antiquaria delle procedure con cui si avviavano e concludevano le trattative di pace, che poteva includere un discorso abbastanza esteso sui compiti e sulle prerogative dei legati materialmente incaricati di “constituere paces”. Conclusa questa parte, Varrone poteva passare a una sezione di carattere più letterario, che avrebbe potuto comprendere il racconto di celebri exempla di “fides” romana ai patti (forse presentati in contrasto con la proverbiale indole infida di Annibale) e considerazioni celebrative sul valore morale degli antichi. Per quanto sia molto probabile che Varrone illustrasse la “fides” e la “iustitia” dei Romani nei confronti degli accordi con degli exempla, è per noi difficile ipotizzare quali fatti avrebbe potuto menzionare nello specifico. Si possono avanzare soltanto dei suggerimenti (ad esempio, sulla base del fatto che in questo libro si parlava di sicuro delle guerre puniche potremmo supporre che Varrone citasse la nota vicenda di Atilio Regolo), ma del l. 3, e in particolare di questa sua sezione, sono rimaste tracce troppo esigue perché si possa procedere a identificazioni più precise. È comunque abbastanza probabile che fra gli exempla in questione Varrone menzionasse anche la norma descritta dal fr. 90. Per quanto riguarda la forma del frammento, è notevole la compresenza della precisa distribuzione della materia, propria del gusto classificatorio varroniano (cfr. fr. 23, primum de re familiari ac partibus; secundo de victuis consuetudine primigenia; tertio de disciplinis priscis necessariis vitae; anche in questo caso è presumibile che il frammento aprisse una sezione antiquaria e ne anticipasse la struttura), con la ricerca di un certo colorito retorico. Questo è evidente dall’abbondanza di effetti fonici “di rima” (“animadvertendum primum … quemadmodum … secundum”; “constituerint … coluerint”), dall’impiego raro del plurale “paces” (non semplicemente “pace”, ma “accordi di pace”)176, dall’uso di espressioni ri-
Proprio l’uso di “paces” ha portato Nonio a citare il frammento. Per l’impiego del plurale “paces” (un uso che è parso strano, oltre che a Nonio, anche ad altri grammatici), vedi Salvadore 2004, pp. 123-124; Brink 1982 ad Hor. ep. 2, 1.102 (p. 141). Alla lista di passi data da 176
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dondanti come “fide et iustitia”177 e dalla scelta accurata del verbo “coluerint” (“venerare i patti”, non solo “osservarli”), che suggerisce una sorta di religioso rispetto verso i patti conclusi. Infine, vorrei commentare l’espressione non del tutto chiara “quibus de causis … constituerint paces”. Si comprende infatti che Varrone, nell’ambito di un discorso antiquario, spiegasse in che modo i Romani stringevano gli accordi di pace, mentre risulta più strano che specificasse anche per quali motivi lo facessero (questi dovrebbero essere evidenti: per cessare una guerra!). Può darsi che Varrone nel seguito del discorso inserisse considerazioni moralistiche: ad esempio, avrebbe potuto dire che gli antichi venivano a patti soltanto per motivi onorevoli, non si accordavano con il nemico per ottenere vantaggi personali, ma solo per il bene dello Stato, rifiutando condizioni umilianti (cfr. la condanna dell’accordo con i Sanniti alle Forche Caudine al fr. 74, “turpe … foedus”) e mirando sempre alla massima gloria per Roma. In un discorso del genere, è normale che anche la considerazione dei motivi per cui i Romani potevano siglare un trattato di pace veniva a rivestire un ruolo importante nell’argomentazione. 90 (= 93 R.; 419 S.) si cuius legati violati essent, qui id fecissent, quamvis nobiles essent, uti dederentur civitati statuerunt; faetialesque viginti, qui de his rebus cognoscerent, iudicarent et statuerent, constituerunt 1: siqui ius Müller (i.e. si quo pacto), fortasse recte | qui id ed. 1471; quid codd.; 2: agnoscerent CA; 2-3: iudicarent et statuerent constituerunt Perotti, Kettner; iudicarent et statuerent et constituerent codd., Lindsay, Rip., Sal.; iudicarent, statuerent, constituerunt Müller, Mommsen, Turelli, fortasse recte Non. p. 850.25-29 (cfr. fr. 72): idem lib. III:
Salvadore (Lucr. 5, 1230; Sall. Iug. 31.20; Hor. ep. 1, 3.8 e 2, 1.102), si può aggiungere Plaut. Per. 753, hostibus victis, civibus salvis, re placida, pacibus perfectis. 177 Salvadore rimanda a un passo di Siculo Flacco, autore di un trattato di agrimensura: quidam enim populi pertinaciter adversus Romanos bella gesserunt, quidam experti virtutem eorum servaverunt pacem, quidam cognita fide ac iustitia eorum se eis addixerunt. Ho tuttavia seri dubbi che possa sussistere un rapporto intertestuale fra i due passi; ritengo piuttosto che la presenza in entrambi del nesso “fide ac iustitia” sia dovuta a un semplice caso.
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in caso di violenza recata agli ambasciatori di qualcuno, stabilirono che i colpevoli, anche se nobili, venissero sottoposti a un processo pubblico e istituirono una commissione di venti feziali, che compissero un’istruttoria, emettessero il verdetto e stabilissero la pena Il frammento descrive delle norme giuridiche applicate dagli antichi nel caso di violenza inflitta a un ambasciatore. Il testo della citazione permette di identificare abbastanza bene queste norme: era previsto che i responsabili di una violenza ai danni di un legato venissero sempre citati in giudizio, a prescindere dalla loro posizione sociale, per essere esaminati e giudicati da un’apposita commissione di venti feziali. Questa norma, volta evidentemente a tutelare l’inviolabilità dei diplomatici, potrebbe essere citata in modo abbastanza appropriato come esempio del rispetto degli antichi romani verso i patti e i magistrati che li rappresentavano. Perciò, suppongo che il contenuto del fr. 90 potesse rientrare fra gli argomenti la cui discussione è anticipata nel fr. 89 e propongo di considerare le due citazioni come appartenenti alla medesima sezione. Sulle conseguenze di questa scelta per la ricostruzione della struttura dell’intero l. 3, rimando a quanto detto nel commento al fr. 89. Nella prima parte del frammento il testo tradito “si cuius legati violati essent” fornisce un senso accettabile, ma forse eccessivamente vago (è difficile che l’accenno generico ai “legati di qualcuno” possa avere una finalità propagandistica, ossia dimostrare che i Romani rispettavano gli ambasciatori in quanto tali, a prescindere dalla parte che rappresentavano). Invece la proposta di intervento avanzata da Müller, “siqui ius legati violati essent” (con “quī” come particella avverbiale di modo e “ius” accusativo di relazione: “se i legati avessero subito in qualche modo violenza nel loro diritto”) non sarebbe affatto disprezzabile e darebbe un testo dalla struttura sintattica più solida e dal dettato più preciso; inoltre, il riferimento allo “ius violatum” è frequente nei racconti di oltraggi recati agli ambasciatori (vedi Cic. leg. Man. 11, ius legationis verbo violatum illi persecuti sunt: vos legatum omni supplicio interfectum relinquetis?; Liv. 9, 10.10; 21, 25.6; anche “ius legatorum” e “ius legationis” sono formule comunemente impiegate per definire lo status giuridico degli ambasciatori). Dal momento che il testo tradito di per sé non è insostenibile, ho preferito non modificarlo; tuttavia ho voluto indicare in apparato il valore della congettura di Müller. Per quanto riguarda l’espressione “dedere civitati” (“consegnare alla cittadinanza (perché fossero giudicati)”), cfr. fr. 74, “dediderunt hosti” e Liv. 31, 11.4, 386
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legatos item mittendos in Africam censuerunt … Carthaginem ut nuntiarent civem eorum Hamilcarem relictum in Gallia … bellum contra foedus facere, exercitus Gallorum Ligurumque excivisse ad arma contra populum Romanum; eum, si pax placeret, revocandum illis et dedendum populo Romano esse; leggermente diverso è Sall. Iug. 32, Cassius praetor … ad Iugurtham proficiscitur eique timido et ex conscientia diffidenti rebus suis persuadet, quoniam se populo Romano dedisset, ne vim quam misericordiam eius experiri mallet. Circa la seconda parte del frammento, ho accettato una correzione di Niccolò Perotti, accolta anche da Kettner. I codici di Nonio, in questo punto, hanno “faetialesque viginti, qui de his rebus cognoscerent, iudicarent et statuerent et constituerent”, testo stampato da Lindsay e mantenuto anche da Riposati e Salvadore. La forma tradita, tuttavia, presenta diverse difficoltà. Innanzi tutto, la coordinazione fra i quattro verbi risulta confusa e traballante, con uno strano passaggio dall’asindeto (“cognoscerent, iudicarent”) al polisindeto (“et statuerent et constituerent”). Inoltre, il testo tradito presenta un’altra difficoltà ancora più grave: i verbi “statuerent” e “constituerent”, infatti, verrebbero ad assumere pressoché lo stesso significato (“stabilire la pena”). Tale ripetizione risulta ridondante e, alla duplicazione del senso, si aggiungono la pesantezza e la monotonia del nesso “et statuerent et constituerent”. Infine, si pone il problema della sintassi complessiva del frammento: nella forma tradita, la seconda parte della citazione viene ad essere priva di un verbo reggente e, di conseguenza, risulta anche difficile stabilire se “faetiales viginti” sia un nominativo o un accusativo. In ogni caso, l’unico modo per dare un senso a tutta la stringa sarebbe integrare un verbo dal significato di “assegnare un incarico” (se si prende “faetiales viginti” come un nominativo plurale, il senso complessivo dovrebbe essere “e venti feziali di informarsi sul fatto, giudicare ecc.”; se invece lo si intende come un accusativo e si pensa che il soggetto fosse lo stesso del precedente “statuerunt”, ossia gli antichi Romani, il senso sarebbe “e venti feziali di informarsi ecc.”. Ora, il punto è che, volendo trovare un verbo adatto a esprimere questa nozione, è difficile pensare a qualcosa di meglio di “instituo” o “constituo”. Appunto su questo si basa la correzione di Perotti: “faetialesque viginti, qui de his rebus cognoscerent, iudicarent et statuerent, [et] constituerunt”. Così con una sola correzione si appiana tutta la sintassi, si eliminano l’incongruenza di senso e la pesantezza dell’espressione “et statuerent et constituerent” e si ottiene un efficace parallelismo rispetto alla prima parte del frammento (“qui id fecissent … ut dederentur civitati statuerunt”). La 387
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genesi dell’errore è del resto facilissima da spiegare: in una serie di quattro verbi consecutivi, di cui i primi tre terminavano in “-erent” e solo l’ultimo, per giunta composto a partire dalla stessa radice di quello che lo precedeva, in “-erunt”, era quasi inevitabile che per un errore di dettatura anche l’ultima desinenza si corrompesse in “-erent”. Una volta ottenuto il testo “cognoscerent, iudicarent et statuerent constituerent”, poi, qualcuno potrebbe aver tentato di rabberciarlo inserendo un “et” che rendesse meno stridente il nesso “statuerent constituerent”: una zeppa che deve essere passata dall’archetipo a tutti i nostri codici. Sulla base di queste ragioni, ho scelto di mettere a testo l’intervento di Perotti. Per quanto riguarda la forma dell’ultima parte del frammento, va osservata la precisione e l’efficacia con cui è costruita la relativa volta a illustrare i compiti dei venti giudici. I tre verbi impiegati, infatti, designano con grande proprietà i tre momenti in cui effettivamente si esplica l’opera del giudice: informarsi sulla causa (“cognoscerent”), esprimere un verdetto di innocenza o colpevolezza (“iudicarent”) e, in questo caso, procedere a definire la pena (“statuerent”). Per una ricca analisi dello statuto legale e delle funzioni della commissione di feziali incaricata di giudicare i casi di violenza nei confronti di un ambasciatore, vedi il commento al fr. 90 di Turelli 2011, pp. 225-233. Anche Müller accoglie l’intervento di Perotti, ma considera superfluo il primo “et” e propone di espungerlo. Con il testo “faetialesque viginti, qui de his rebus cognoscerent, iudicarent, statuerent, constituerunt” (accettato da Mommsen e Turelli 2011, p. 225) si avrebbe una formula asindetica (“cognoscerent, iudicarent, statuerent”) forse più adatta agli stilemi della scrittura giuridica romana rispetto al più prosastico “cognoscerent, iudicarent et statuerent”. Tuttavia, l’intervento, pur elegante, non è di per sé necessario; pertanto, ho scelto di stampare il testo di Perotti, non insostenibile, e di segnalare in apparato che la soluzione di Müller, senza dubbio intelligente ed elegante, potrebbe anche cogliere nel segno. 91 (= 104 R.; 410 S.) quod humatus non sit, heredi porca praecidanea suscipienda Telluri et Cereri. aliter familia pura non est 1: suscipiendum Müller; suscipiendum Radke Non. p. 240.17-19: PRAECIDANEVM est praecidendum. Varro de vita populi Romani lib. III. 388
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2: III BA; IIII L
poiché (il defunto) non è stato sepolto, l’erede deve sacrificare alla Terra e a Cerere una scrofa detta “praecidanea” (lett. “da immolare prima”), altrimenti il gruppo familiare non è libero da contaminazione Il frammento, relativo a un particolare rito funebre, è attribuito al l. 3 dalla famiglia di codici BA, mentre L lo attribuisce al l. 4. Lo assegno (come già Lindsay, Riposati e Salvadore) al l. 3 sulla base di due considerazioni. In primo luogo, il frammento in Nonio fa parte di una serie di citazioni che presenta tutte le caratteristiche per l’applicazione della “lex Lindsay”: in questa serie, esso è seguito da due frammenti tratti proprio dal l. 3 (frr. 95 e 100). Se accogliessimo l’attribuzione di L, il presente caso costituirebbe l’unica infrazione manifesta della “lex” in una serie di citazioni dal de vita (cfr. introduzione). Questa ipotesi è resa improbabile dal fatto che, da un lato, la corruttela di III in IIII si può spiegare come un accidente di copia frequentissimo, dall’altro, le due citazioni che seguono il fr. 91 (entrambe relative a eventi storici) sembrano seguire l’ordine cronologico delle vicende trattate (il fr. 95 sembra descrivere un episodio della prima guerra punica, il fr. 100 parla con buona probabilità della conclusione della seconda); sarebbe dunque strano che la stessa serie violasse la “lex” all’inizio ma la rispettasse nel seguito. Il secondo motivo per cui accolgo l’attribuzione al l. 3 è che a questo libro appartengono altri due frammenti relativi ai riti funebri (frr. 92 e 93), mentre nessuna delle citazioni rimaste del l. 4 tocca l’argomento (il caso controverso del fr. 123 va esaminato a parte). Abbiamo così un blocco di frammenti (91, 92 e 93) in cui si discutono usi e riti propri del funerale romano. È possibile che questo tema venisse affrontato da Varrone in una apposita sezione del l. 3, una sezione che, come suggerisce l’applicazione della “lex” alla serie che contiene il fr. 91, precedeva il sunto storico sulle guerre puniche178. Abbiamo visto, commentando i precedenti frammenti sull’esercito, che anche la sezione antiquaria sul mondo militare precedeva la parte storica. Non disponiamo, tuttavia, di abbastanza dati per capire se effet178 Anche se, nel complesso, non si può escludere che una parte del racconto storico, di cui non si è salvato alcun frammento, potesse precedere le sezioni su esercito e funerali, per essere interrotta da questi due excursus eruditi e riprendere, al loro termine, con il racconto delle guerre puniche.
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tivamente la sezione sull’esercito e quella sui riti funebri si succedessero, prima del resoconto delle guerre puniche, in questo ordine, oppure se comparissero nell’ordine inverso (stampando prima quelli sull’esercito e poi quelli sui riti funebri seguo la presentazione della materia data da Riposati e Salvadore, ma avrei potuto anche fare il contrario). All’interno della parte sui funerali, poi, sebbene la successione dei frr. 92 e 93 sia garantita dalla “lex Lindsay” e trovi una conferma anche nel contenuto delle due citazioni, è difficile determinare se il fr. 91 effettivamente precedesse la serie 92 – 93 o se, invece, la seguisse. In questo caso ho preferito attenermi all’ordine dato dagli editori precedenti. Per quanto riguarda, poi, la sezione sui funerali, Riposati (sulla scorta di Samter 1891, pp. 32-36) propone di assegnare al l. 3 altri brani (Serv. ad Aen. 1, 216 e 11, 143;) in cui si attribuiscono a Varrone notizie antiquarie sui riti funebri romani. Tuttavia, si tratta di passi non riferiti esplicitamente dalla fonte al de vita populi Romani e che potrebbero provenire anche da altre opere varroniane, come le antiquitates (senza contare che Servio poteva attingerle di seconda mano da altri autori, magari in forma già rielaborata e semplificata). Per questo motivo, considererei questi passi con una certa cautela e tenderei a impiegarli soltanto come delle testimonianze di dottrina varroniana, non includibili fra i frammenti accertati del de vita. Il frammento parla del sacrificio espiatorio di una scrofa che, secondo la tradizione, spettava all’erede del defunto. Varrone e Cicerone sembrano suggerire che il sacrificio dell’animale costituisse una parte fondamentale della cerimonia del funerale romano. Infatti, nell’intervallo che passava fra il momento in cui la salma veniva bruciata sulla pira e la tumulazione dell’urna contenente le sue ceneri, venivano compiuti diversi riti espiatori. Finché questi non erano portati a termine, la condizione del defunto – che non aveva ancora ricevuto un funerale “a regola d’arte” – era considerata simile a quella di un morto insepolto. Simbolicamente, durante il lasso di tempo che precedeva il concludersi della cerimonia funebre (ossia finché non si poteva dire ancora che il morto fosse stato effettivamente “sepolto”, dal momento che i riti della sepoltura erano ancora “in corso”), il gruppo familiare cui era appartenuto il defunto e a cui spettava compiere le esequie era ritenuto contaminato (“familia funesta”). Questa contaminazione veniva espiata proprio per mezzo del sacrificio della scrofa detta “porca praecidanea”, compiuto dall’erede a nome di tutta la “familia” e volto tanto a liberare questa dalla contaminazione, quanto a indicare, con un rito finale, che il funerale si era effettiva390
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mente concluso (infatti soltanto dopo il sacrificio della “porca” il defunto poteva definirsi “rite humatus”). Se però durante la cerimonia funebre si fossero verificate delle irregolarità o fosse stato omesso qualcosa, il rito funebre in questione non poteva essere considerato completamente compiuto (né, di conseguenza, il defunto poteva essere ritenuto davvero sepolto), cosa che avrebbe comportato il permanere della contaminazione sulla “familia” rea di aver commesso delle gravi infrazioni al rito. In tal caso, l’unico modo per ristabilire l’ordine, convalidare la sepoltura e cancellare la contaminazione era ripetere il sacrificio della “porca praecidanea”, finché la “familia” fosse tornata pura. Va notato che si tratta di due momenti distinti, anche se motivati da intenti simili: sebbene in entrambi i casi si offrisse una scrofa a Cerere, nel primo, questo sacrificio era compiuto durante la cerimonia funebre (e solo in quella occasione), in presenza del feretro, e rientrava fra le cerimonie prescritte dal rito (i “iusta”); nel secondo, serviva non tanto a suggellare il funerale, quanto a espiare delle irregolarità che vi si fossero verificate. Ho cercato di fornire nel modo più sintetico e chiaro possibile i dati in nostro possesso sulla “porca praecidanea”; ora presenterò le fonti da cui questi si ricavano. Innanzi tutto, l’espressione “quod humatus non sit” è una formula sacrale propria del lessico dei pontefici. L’informazione è fornita dal parallelo di l. L. 5, 23: quod terra sit humus, ideo is humatus mortuus, qui terra obrutus; ab eo qui Romanus combustus est, in sepulchrum eius abiecta gleba non est aut si os exceptum est mortui ad familiam purgandam, donec in purgando humo est opertum (ut pontifices dicunt, quod inhumatus sit), familia funesta manet (cfr. fr. 91, “aliter familia pura non est”). La formula “quod inhumatus sit” è il residuo di una fase della cultura romana in cui il metodo di sepoltura più comune consisteva ancora nell’inumazione, rimasto, nel linguaggio sacrale, anche quando si era ormai diffusa la pratica di bruciare i morti, per indicare qualsiasi tipo di irregolarità commessa nello svolgimento del rito funebre. Questa ipotesi è supportata da una nota interessante di Cicerone (leg. 2, 57), in cui si dice che, mentre ai suoi tempi il termine “humatus” era usato in generale per indicare qualsiasi tipo di defunto che avesse ricevuto le esequie (quindi anche chi fosse stato cremato), anticamente era riservato soltanto ai morti che fossero stati inumati: quod nunc communiter in omnibus sepultis venit usu, ut humati dicantur, id erat proprium tum in iis, quos humus iniecta contexerat eumque morem ius pontificale confirmat (vedi anche il paragrafo precedente, leg. 2, 56, in cui Cicerone discute le prove da cui si deduce che la forma più antica di sepoltura in uso a Roma era l’inumazione). Per tornare al 391
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passo del de lingua Latina, sebbene non menzioni la “porca praecidanea”, ritengo probabile che alluda alle cerimonie da compiere ancora durante il funerale, non a riti espiatori necessari nel caso le esequie si fossero svolte male. Varrone dice infatti che, dopo la cremazione del morto, finché non erano portati a termine determinati riti (tutti previsti nell’ambito del rito di sepoltura, come il lancio di una zolla di terra sul sepolcro o una particolare cerimonia di purificazione che richiedeva di raccogliere un osso dalla pira e di coprirlo di terra) non si poteva ancora dire che il defunto fosse stato effettivamente sepolto e quindi questo restava nella condizione di “insepolto” (“inhumatus”) e la sua “familia” rimaneva contaminata. È tuttavia evidente che, una volta compiuti questi riti, il morto poteva finalmente dirsi “humatus” e la “familia” tornava ad essere libera dalla contaminazione. Data l’impressionante vicinanza dell’ultima parte di questo brano con il fr. 91 (un buon esempio dei cosiddetti “doppioni varroniani”), preferirei supporre che anche il fr. 91 parlasse dei riti da compiere durante la cerimonia funebre, e non di quelli richiesti dopo di questa per espiare eventuali irregolarità. Varrone, poteva presentare, nella parte che precedeva la citazione, le pratiche richieste durante il funerale e dire che, finché queste non erano compiute, il rito non poteva dirsi concluso. Al termine di questo discorso poteva inserirsi, come nel de lingua Latina, una menzione della formula pontificale “quod humatus non sit” e, appunto, l’informazione che, se al termine del funerale l’erede non avesse sacrificato una scrofa a Cerere e alla Terra, la “familia” sarebbe rimasta contaminata. Ritengo che il fr. 91 alluda alla scrofa sacrificata durante il funerale, non a quella che veniva offerta per espiare un vizio di forma, anche perché gli altri due frammenti del l. 3 relativi ai riti funebri (frr. 92 e 93) parlano entrambi di comportamenti richiesti nel corso della cerimonia funebre: mi sembra infatti probabile che Varrone dedicasse l’intera sezione alla descrizione di quanto avveniva nel corso del funerale, incluso il sacrificio della scrofa179. Va comunque detto che il sacrificio della scrofa durante Questa osservazione non è però vincolante, dal momento che, come dico sopra, non è detto che l’ordine esatto dei frammenti fosse proprio 91 – 92 – 93. Inoltre, non si può escludere che Varrone, all’interno della descrizione delle cerimonie di sepoltura, aggiungesse una parentesi del tipo “ma se qualcuna di queste cose viene omessa, poiché il morto è nella condizione di insepolto, l’erede deve sacrificare ecc.”. In ogni caso, data la concordanza fra il brano del de lingua Latina e il fr. 91, è più economico pensare che Varrone si riferisse in entrambi i passi alla stessa cosa piuttosto che parlasse in uno di un rito compiuto durante il funerale e nell’altro di un sacrificio che doveva essere eseguito tempo dopo. 179
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il funerale e l’offerta espiatoria non vanno intesi necessariamente come due atti incompatibili. Ritengo piuttosto che, per quanto vadano considerati come due momenti distinti, essi fossero accomunati dalla stessa finalità e da modalità simili di esecuzione. Può darsi che il sacrificio della scrofa durante il funerale fosse visto come il “primo atto” di un rito che poi sarebbe stato completato (cfr. Fest., p. 296.37, praesen porca dicitur, ut ait Veranius, quae familiae purgandae causa Cereri immolatur, quod pars quaedam eius sacrifici fit in conspectu mortui eius, cuius funus instituitur). Quindi sebbene io creda che il fr. 91 parli della scrofa immolata durante la cerimonia funebre e non di quella offerta come sacrificio espiatorio, ciò non nega il fatto che entrambe le offerte potessero avere intenti e modalità di esecuzione pressoché identiche (in entrambi i casi l’erede del morto offre una scrofa a Cerere per liberare la “familia” dalla contaminazione). I tentativi di distinguere fra “porca praecidanea” (quella immolata ogni anno in espiazione a Cerere) e “porca praesentanea” (quella immolata nel corso del funerale e così detta dal fatto di essere uccisa “in presenza del feretro”) non convincono e a volte sono in contraddizione tra loro (vedi infra), mentre è possibile che entrambe le scrofe venissero designate col termine di “praecidanea” e che “praesentanea” sia un’invenzione di qualche erudito. Agli stessi riti di cui parla Varrone nel de lingua Latina allude anche Cicerone a leg. 2, 55, purtroppo nella forma di una preterizione, dove sono tralasciati proprio gli aspetti che a noi interesserebbero di più, come una descrizione precisa delle cerimonie soltanto accennate: neque necesse est edisseri a nobis quae finis funestae familiae, quod genus sacrificii Lari vervecibus fiat, quem ad modum os resectum terra obtegatur, quaeque in porca contracta iura sint, quo tempore incipiat sepulchrum esse et religione teneatur. Tuttavia, anche questo passo conferma molte delle cose che abbiamo già detto. È evidente infatti che qui Cicerone stia parlando soltanto di operazioni compiute durante il funerale: è nel corso di questo che, finché non vengono compiute particolari cerimonie, il morto non può essere considerato effettivamente sepolto e perciò la sua “familia” risulta contaminata; una volta effettuati – si intende sempre nel corso del funerale – i riti richiesti, la “familia” cessa di essere “funesta”. Il seguito del discorso lascia intendere anche quali dovessero essere questi riti: la cerimonia che coinvolgeva un osso del defunto citata anche da Varrone, il sacrificio di un agnello al Lare del defunto e, probabilmente, proprio l’offerta della “porca praecidanea”, come lascia intendere l’accenno a dei “diritti sacrali” sulla scrofa. L’ultima frase conferma questo dato: 393
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finché tali riti non erano compiuti, non si poteva ancora dire che la sepoltura fosse effettivamente tale (ossia, non era ancora “consacrata”); soltanto al termine della cerimonia questa “incipit esse sepulchrum” e assume un suo valore sacrale (“religione tenetur”), solo allora il morto è “humatus” e la famiglia è libera da contaminazione. In particolare, l’ultima informazione è fornita in modo più ampio e dettagliato nel seguito del discorso (leg. 2, 57), in cui Cicerone dice esplicitamente che, finché non sono compiuti tutti i riti e non è stata sacrificata la scrofa, il morto non può ritenersi effettivamente sepolto: nec tamen eorum ante sepulchrum est, quam iusta facta et porcus caesus est. Cicerone prosegue indicando particolari norme pontificali, come quella che indicava che i parenti di chi fosse morto in mare andavano ritenuti liberi da contaminazione, ma dovevano comunque offrire la “porca” a Cerere. Purtroppo proprio questo punto, che costituirebbe il riscontro più interessante col fr. 91, è interessato da gravi corruttele testuali; comunque, si legge abbastanza bene la stringa porcam heredi esse contractam (cfr. fr. 91) e poco dopo il sacrificio di questa scrofa è definito significativamente “piaculum” (espiazione). In conclusione, ritengo che Cicerone, nel passo del de legibus, tenda a considerare entrambi i sacrifici della “porca” connessi alle cerimonie funebri, ossia, quando parla di “iusta facta” e “porcus caesus”, alluda a quello che doveva in ogni caso avvenire durante il funerale, per “convalidarlo” e liberare la “familia” dalla contaminazione provocata dalla morte di un suo membro (lo stesso sacrificio di cui parla Varrone nel de lingua Latina e, a parer mio, nel fr. 91), mentre, quando menziona i riti di purificazione richiesti alla “familia” di un insepolto, fra i quali il sacrificio della “porca praecidanea”, si riferisca al rito che andava ripetuto qualora il funerale non si fosse potuto verificare (è il caso del naufrago disperso in mare) o fosse stato compromesso da qualche errore rituale. Il fatto, poi, che Cicerone attribuisce il compito di svolgere il secondo tipo di sacrificio all’erede non basta a provare che il fr. 91 di Varrone, in cui ugualmente si menziona l’erede, debba riferirsi a questo uso: è infatti probabile che anche il sacrificio che chiudeva il funerale spettasse all’erede e che, anzi, fosse considerato come un atto giuridico volto a confermare la legittimità dell’erede stesso (così la pensa Spaeth 1996, pp. 53-56). A questo punto, va aggiunta un’ulteriore informazione: con il termine “porca praecidanea” si indicava infatti anche una scrofa sacrificata ogni anno a Cerere prima del raccolto. La posizione più probabile è pensare che si trattasse di due riti diversi e distinti, ma omonimi. Del resto l’omonimia può essere spiegata ab394
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bastanza bene: dal momento che il termine “praecidaneus” significa letteralmente “da sacrificare prima” (cfr. Ernout - Meillet s.v. “caedo”, p. 149) e può essere impiegato anche per vittime diverse dalla scrofa (cfr. Gell. 4, 6.7, praecidaneae quoque hostiae dicuntur, quae ante sacrificia sollemnia pridie caeduntur; Paul.Fest. p. 250.11, praecidanea agna vocabatur, quae ante alias caedebatur), è facile che fosse stato usato per designare tanto la scrofa sacrificata prima del raccolto, quanto quella offerta nei riti funebri (del resto, in entrambi i casi l’animale veniva immolato a Cerere, fattore che poteva agevolare la confusione fra i due sacrifici e portare a chiamare indifferentemente “porca praecidanea” la vittima di tutti e due i riti). Le fonti più antiche sembrano avere ancora coscienza dell’indipendenza dei due riti omonimi: Catone (agr. 134.1-3) parla della “porca” sacrificata prima del raccolto senza riferimenti ad alcuna cerimonia funebre, mentre Varrone e Cicerone, al contrario, parlano del sacrificio di una “porca” nel corso del funerale, senza accennare al rito agricolo. Autori più tardi, invece, mostrano una certa tendenza alla “catacresi” fra le due cerimonie e finiscono per identificare la “porca praecidanea” offerta prima del raccolto con quella sacrificata per liberare la “familia” da contaminazione. Il caso più lampante è rappresentato da Gellio, che scrive (4, 6.8): porca etiam praecidanea appellata, quam piaculi gratia ante fruges novas captas immolare Cereri mos fuit, si qui familiam funestam aut non purgaverant aut aliter eam rem, quam oportuerat, procuraverant. La confusione fra i due riti ha causato, di riflesso, discussioni fra i grammatici sulla legittimità dell’impiego del termine “porca praecidanea” per designare la vittima in entrambi i casi. Abbiamo già visto che Festo attribuisce all’erudito Veranio la scelta di chiamare la scrofa sacrificata a Cerere “familiae purgandae causa” non “porca praecidanea”, ma “porca praesentanea”, un appellativo che deriverebbe dal fatto che il rito doveva avvenire “in conspectu mortui”, cioè in presenza del defunto. Anche alcuni studiosi moderni hanno accolto questa informazione, finendo per separare il rito della “porca praesentanea” da quello della “porca praecidanea”: la Spaeth pensa che il sacrificio della “porca praesentanea” fosse quello compiuto in ogni caso durante il funerale e che la “porca praecidanea” venisse invece offerta a Cerere soltanto nel caso si fossero verificati degli errori durante la cerimonia. In questo modo, la Spaeth conclude che il fr. 91, in cui si parla di una “porca praecidanea”, deve per forza riferirsi al secondo rito in questione. Ciò contrasta con la mia ricostruzione: io infatti penso, sulla base del confronto con il de lingua Latina e con Cicerone, che il fr. 91 si riferisca al sacrificio della scrofa da 395
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compiere durante il funerale, non a quello richiesto per espiare degli errori. Inoltre, io sospetto che, nell’uso sacrale, la vittima venisse designata in entrambi i casi col nome di “porca praecidanea”, per quanto si trattasse di due riti leggermente diversi. Ancora, penso che il sacrificio dell’animale toccasse comunque all’erede, anche nel rito compiuto durante le esequie (cosa che sembra ammettere la stessa Spaeth, quando dice che forse il sacrificio era un modo per confermare la legittimità dell’erede). Contro l’ipotesi della Spaeth possono essere mosse diverse obiezioni. Innanzi tutto, nonostante la studiosa cerchi di distinguere i tratti dell’offerta della “porca praesentanea” da quelli del sacrificio della “porca praecidanea”, lo stesso passo di Festo le si rivolta contro: infatti si dice esplicitamente che la “porca praesentanea”, proprio come la “preacidanea”, era sacrificata a Cerere e che questo si faceva per purificare la “familia”. A questo punto, mi risulta difficile vedere per quale motivo il fr. 91, in cui si parla ugualmente di un sacrificio a Cerere e si dice che se questo non veniva compiuto, “familia pura non est”, debba riferirisi per forza all’offerta della “porca praecidanea” e non a quella della “porca praesentanea”. Per quanto riguarda poi il nome “porca praesentanea”, compare soltanto in questo passo, in una notizia che Festo attribuisce a un altro erudito, Veranio. Sospetto che ci siano ampie probabilità che si tratti di un conio di Veranio stesso, intenzionato a distinguere la “porca praecidanea” sacrificata al funerale da quella prescritta in caso di irregolarità. Dal momento che non si trovano altre menzioni della “porca praesentanea” fuori da Veranio e che l’offerta della “porca praesentanea” è presentata da questi in termini molto simili a quelli in genere impiegati per la “porca praecidanea”, la mia ipotesi è che in realtà entrambe le vittime fossero dette “porca praecidanea” e che l’introduzione della “porca praesentanea” sia una trovata erudita di Veranio. Una conferma alla mia supposizione si trova nel fatto che anche Mario Vittorino ha tentato di distinguere i vari tipi di scrofa. Nella sua trattazione, il cui senso è chiaro nonostante le numerose corruttele testuali, la scrofa immolata nel corso del funerale è effettivamente detta “porca praesentanea” (come in Veranio), ma poi Vittorino definisce “porca praecidaria” tanto quella offerta prima del raccolto, quanto quella offerta per espiare le irregolarità commesse durante le esequie e, addirittura, rifiuta l’appellativo “porca praecidanea” come impreciso (GLK VI 25.16: non est, ut emendastis, porca praecidanea, sed praecidaria, quae frugum causa immolatur. qui iusta defuncto non fecerunt aut in faciendo peccarunt, his porca contrahitur, quam omnibus annis immolari oporteat, antequam novam , quae dapem mereat, de suo capiant; praecidaria 396
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dicta, quod ante caeditur, quam frugem capiant. at illa, quae † et in re et in praesente mortuo, quem condituri sunt, immolatur, quia † ex ea capere non possint ad quod iusta faciant, praesentanea vocatur). Vittorino mostra la stessa confusione fra il rito agricolo e quello espiatorio già vista in Gellio; inoltre è l’unico a usare il termine “porca praecidaria” per definire le vittime di entrambi i sacrifici. D’altro canto, si accorda con Veranio nel definire “porca praesentanea” quella sacrificata durante il funerale (la stessa di cui parla Cicerone), ma si discosta anche da questo, poiché non fornisce alcun accenno né a Cerere né al ruolo dell’erede. Credo che dal confronto di questi passi emerga abbastanza chiaramente a che punto le varie fonti finiscano per confondere i tre riti e per intralciarsi e complicarsi a vicenda. A parer mio, la soluzione più economica resta pensare che si indicasse con “porca praecidanea” la vittima prevista da più riti diversi, ma con dei caratteri simili: ossia il sacrificio di una scrofa, probabilmente offerta a Cerere dall’erede del morto, previsto durante il funerale; l’offerta rinnovata di una scrofa, sempre a Cerere e sempre per mano dell’erede, nel caso si fossero riscontrate delle irregolarità nella cerimonia funebre; infine, il sacrificio annuale di una scrofa, sempre a Cerere, per propiziare il raccolto. Resta, a questo punto, un ultimo dettaglio. Vittorino, infatti, che confonde l’offerta funebre con il rito agricolo, finisce per identificare la “porca” da sacrificare come espiazione con quella immolata ogni anno prima del raccolto (lo stesso errore si ritrova in Gellio). Ciò comporta che, a partire da questi due passi, si è detto che il sacrificio della “porca praecidanea” richiesto alla “familia” impura andava ripetuto ogni anno (così la pensa Ross Taylor 1925, p. 305, che ipotizza che il sacrificio annuale della scrofa sia nato come rito espiatorio e in seguito si sia convertito in cerimonia agricola). Questa inferenza è secondo me ingiustificata: gli accenni alla ricorrenza annuale del sacrificio espiatorio si trovano infatti soltanto nelle fonti su cui grava il sospetto di aver confuso i due riti. Del resto, la stessa Spaeth osserva che, se fosse stata riscontrata un’irregolarità durante la cerimonia, la “familia” doveva espiarla subito e non poteva aspettare il momento del raccolto, rimanendo impura nel frattempo. Inoltre, quando Cicerone parla (leg. 2, 57) delle cerimonie di espiazione richieste ai parenti di un naufrago (fra cui proprio l’offerta di una scrofa), lascia intendere che queste dovevano avvenire nel giro di trenta giorni dalle esequie. Preferisco dunque distinguere nettamente il sacrificio espiatorio della “porca” da quello annuale per il raccolto e pensare che, se durante il funerale, in cui comunque era prevista l’offerta di una scrofa, si 397
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fossero verificati degli errori, questo sacrificio andava ripetuto ancora una volta per stornare la contaminazione. Ho affrontato questo problema in modo forse eccessivamente pignolo perché, con la mia proposta di identificare il rito descritto nel fr. 91 con l’offerta di una scrofa durante il funerale, non con quella compiuta in caso di irregolarità, mi discosto dall’opinione di Riposati. Spero di aver fornito abbastanza prove a favore della mia ipotesi. Per tornare al fr. 91, questo fornisce, rispetto alle altre fonti, un’informazione in più: Varrone è infatti l’unico a menzionare, come divinità a cui era offerta la scrofa, anche la Terra. La Spaeth dice che non va prestata fede a Varrone e che l’assenza di un riferimento alla Terra nelle altre fonti relative alla “porca preacidanea” autorizza a pensare che l’accostamento della Terra a Cerere sia un’innovazione del Reatino. Al contrario, io direi che la testimonianza di Varrone non può essere trascurata e che proprio il fatto che fornisca un’informazione in più rispetto alle altre fonti la rende particolarmente preziosa. È infatti possibile che gli altri abbiano indicato soltanto la divinità più nota e importante a cui veniva offerta la scrofa, senza contare che la confusione fra questo rito e il sacrificio a Cerere compiuto prima del raccolto poteva portare gli interpreti a uniformare i due riti e a dedicare soltanto a Cerere anche il rito espiatorio. Varrone, con il consueto scrupolo antiquario, potrebbe aver voluto puntualizzare che il sacrificio funerario, comunemente offerto soltanto a Cerere, nella sua forma più antica e autentica era invece dedicato anche alla Terra (non a caso, nel testo del fr. 91 questa precede la menzione di Cerere: “Telluri et Cereri”). Inoltre, è sicuro che anche alla Terra venivano sacrificate delle scrofe: vedi Hor. ep. 2, 1.143, Tellurem porco, Silvanum lacte piabant (“porco” è femminile, vedi Brink 1982 ad loc. e Wagenvoort 1960, pp. 114-115) e Macr. 1, 12.20. Ancora, in un rito che conserva tracce vistose di una fase in cui la forma corrente di sepoltura consisteva nell’inumazione (vedi quanto detto sopra a proposito del termine “humatus”), un riferimento alla Terra, che avrebbe accolto il defunto, sarebbe perfettamente logico. Soprattutto, il sacrificio di una scrofa a Cerere e alla Terra è esplicitamente menzionato anche da Ovid. fast. 1, 671-674, placentur frugum matres, Tellusque Ceresque, / farre suo gravidae visceribusque suis. / Officium commune Ceres et Terra tuentur: / haec praebet causam frugibus, illa locum (il sospetto che Ovidio possa aver tratto la notizia da Varrone non basta a smentire la possibilità che la “porca praecidanea” fosse sacrificata anche alla Terra; per la connessione 398
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rituale fra Cerere e la dea Terra, vedi Green 2004, pp. 309-310; vedi anche fast. 4, 413-414; 465-466). La voce noniana presenta una discrepanza fra il lemma (al neutro: “PRAECIDANEVM”) e la citazione, in cui è attestata l’espressione al femminile “porca praecidanea”. Questa situazione, che ha portato alcuni interpreti a intervenire sul testo del frammento, in modo da ripristinare un neutro (“suscipiendum” Müller, “piaculum suscipiendum” Radke; con queste correzioni “porca praecidanea” non va più inteso come un nominativo, ma come un ablativo: l’erede deve sacrificare con una scrofa praecidanea), si verifica in realtà talvolta nel de compendiosa doctrina e si può spiegare come un tic di Nonio stesso che, quando trova in una citazione un’espressione composta da un sostantivo e un aggettivo che lo interessa, a volte nel lemma riporta soltanto l’aggettivo interessante al neutro. In questo caso, evidentemente non era colpito da tutta la formula “porca praecidanea”, ma solo da “praecidanea”, per cui nel lemma ha indicato “praecidaneum” al neutro e lo ha glossato come preferiva. Lo stesso comportamento si verifica al fr. 17: nel testo della citazione Nonio legge “undulatas togas”, ma, siccome è interessato soltanto al termine “undulatas”, nel lemma impiega il neutro: “VNDVLATVM nove positum purum”. Per “suscipere” nel senso di “to undertake to provide an offer to a divinity”, vedi OLD 1888.8b. 92 (= 105 R.; 411 S.) ut, dum supra terram esset, riciniis lugerent, funere ipso, ut pullis pallis amictae 1: esset Scaliger (vel Quicherat), Kettner, Müller, Rip.; essent codd., Lindsay, Damonte, Sal. | riciniis Scaliger (vel Quicherat), edd.; ricinis codd., Damonte | palliis Scaliger (vel Quicherat), Müller, Lindsay Non. p. 882.30-32: PVLLVS color est quem nunc spanum vel nativum dicimus. Varro de vita populi Romani lib. III:
(era costume) che le donne piangessero (il morto), finché era ancora sopra la terra, avvolte nei ricinia, durante il corteo funebre, in tuniche scure Il frammento, come il successivo fr. 93, descrive l’abbigliamento delle donne romane nel corso della cerimonia funebre. L’ordine 92 – 93, dato dalla “lex Lindsay”, è confermato dal contenuto delle due citazioni: il fr. 92 parla in generale degli abiti indossati dalle donne in caso di lutto, mentre il fr. 93 descrive più in 399
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dettaglio l’abbigliamento prescritto in questo caso alle donne più giovani (sembra dunque che il fr. 93 fornisca una precisazione a quanto detto nel frammento precedente). Inoltre, il fr. 92 distingue fra le vesti che le donne portavano prima del funerale e quelle indossate durante il corteo funebre, mentre il fr. 93 è dedicato esclusivamente alla descrizione del corteo (vi si legge “sequerentur luctum”): anche questo dato implica che il fr. 93 dovesse seguire il fr. 92. Le due citazioni dovevano quindi appartenere allo stesso contesto (una sezione, all’interno della parte antiquaria dedicata alla descrizione degli antichi riti funebri, in cui Varrone indicava quali abiti erano indossati in caso di lutto) e sembra piuttosto probabile che facessero parte addirittura della stessa frase, se si considera che presentano una struttura sintattica pressoché identica e che il fr. 93 ha un “etiam” che potrebbe rimandare direttamente al fr. 92 (lì si dice che le donne, nel corteo funebre portavano tuniche scure; il fr. 93 aggiungerebbe che quelle più giovani, oltre a queste, indossavano anche dei veli color carbone). Il fr. 92 è costituito da una proposizione completiva. Il taglio operato da Nonio ha escluso dalla citazione la reggente; tuttavia questa può essere facilmente integrata “a senso” supponendo qualcosa come “mos erat”. Ricaviamo che il frammento descriveva l’abbigliamento femminile dal participio “amictae”. Il contenuto del fr. 92 si accorda poi perfettamente con quanto detto in un altro frammento del de vita (fr. 55), in cui si dice che le donne indossano il “ricinium” nelle avversità e durante il lutto (“in adversis rebus ac luctibus”). Varrone sembra distinguere due momenti del lutto: una fase precedente la cerimonia funebre vera e propria, in cui le donne piangevano il morto180 indossando il “ricinium”, e il corteo funebre. Il primo momento è indicato da Varrone per mezzo della perifrasi, a dire il vero non troppo chiara, “dum supra terram esset”. Tenuto conto soprattutto del seguito del frammento, preferisco intendere il lasso di tempo designato con “finché il morto era sopra la terra” come il periodo del lutto in cui il defunto veniva ancora pianto in casa ed era disteso nel feretro (che, essendo una sorta di letto, poggiava sulla terra), prima cioè che i “pollic-
180 Il verbo “lugere” è impiegato in modo quasi tecnico nel senso di “piangere un defunto, essere a lutto” (vedi OLD 1049.1b), cfr. Liv. 22, 56.4, adeoque totam urbem opplevit luctus ut sacrum anniversarium Cereris intermissum sit, quia nec lugentibus id facere est fas nec ulla in illa tempestate matrona expers luctus fuerat e Sen. Helv., 2.5, maiores decem mensum spatium lugentibus viros dederunt.
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tores” lo sollevassero su di una barella per portarlo in sfilata nel corteo funebre (anche Riposati 1939, p. 222, sembra intendere in questo modo, dal momento che identifica “ut dum supra terram esset” con il periodo di esposizione della salma in casa). Stando al fr. 92, la fine della lamentazione e l’inizio del funerale vero e proprio erano caratterizzati anche da un cambio d’abito delle donne a lutto: queste lasciavano i “ricinia” e indossavano, nel corso della cerimonia, delle “pallae” di colore scuro. I codici di Nonio riportano la stringa “dum supra terram esset” con il verbo al plurale (“essent”), mentre “esset” è una congettura umanistica (che Damonte attribuisce a Quicherat, Salvadore allo Scaligero). Con “esset”, correzione accolta da Kettner, Müller e Riposati, va sottinteso il soggetto “mortuus” (un’integrazione piuttosto agevole, confermata anche dal fr. 91, in cui ugualmente Varrone scrive “quod humatus non sit”, senza specificare lo scontato soggetto “mortuus”). Quanti difendono il testo tradito (in particolare Damonte 1997, p. 125) sostengono che si potrebbe allo stesso modo sottintendere un soggetto plurale “mortui” e che, quindi, non è necessario modificare “essent”. Tuttavia, il confronto con il fr. 91, in cui Varrone, volendo descrivere in termini generali un rito funebre, parla di un morto e impiega il singolare, porta a richiedere il singolare anche nel fr. 92. Inoltre, con “essent” il testo risulterebbe ambiguo: infatti leggendo “ut dum supra terram essent riciniis lugerent” non si deduce immediatamente che “essent” abbia un suo soggetto sottinteso, ma si potrebbe anche pensare che il soggetto di “essent” sia lo stesso di “lugerent”, dando il senso assurdo che le donne indossavano il “ricinium” finché erano sulla terra. Io personalmente ritengo che proprio questa sia stata la causa dell’errore: un copista, ignaro del contesto, potrebbe aver trovato il giusto “ut dum supra terram esset riciniis lugerent” e, non capendo che “esset” aveva un soggetto diverso da “lugerent”, aver deciso di uniformare tutto e di scrivere “essent” (o, senza presupporre una dinamica così complessa, avrebbe anche potuto semplicemente scrivere “essent” per influsso del vicino “lugerent”). È dunque piuttosto probabile che “essent” sia una facile corruttela, cosa che mi porta ad accogliere senza dubbio la correzione “esset”. I codici, poi, tramandano l’ablativo “ricinis”, corretto in “riciniis” da Quicherat (o Scaligero, vedi supra). Fra gli editori, soltanto la Damonte tenta di difendere il testo tradito, dicendo che esisterebbe una forma parallela di “ricinium”, “ricinus”. In realtà, l’unica attestazione di questa variante è in un frammento di Novio (citato sempre da Nonio), il fr. 71 Frassinetti: molucinam, crocotam, chiridotam, ricam, 401
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ricinum181, in cui la forma “ricinum” è richiesta per motivi metrici, il che rende il passo di Novio poco utile per la difesa di “ricinis” nel fr. 92. Va poi osservato che la tradizione di Nonio presenta un’oscillazione fra le due grafie (vedi nota), per cui il “ricinis” del nostro frammento potrebbe essere benissimo un errore. Il motivo più forte per accogliere la correzione di Quicherat è che in tutti i passi di Varrone in cui è menzionato questo capo di abbigliamento ricorre esclusivamente la forma “ricinium”. In particolare, il “ricinium” è menzionato al neutro nel fr. 55, dove si legge “mulieres … ricinia sumunt”. Varrone impiega sempre “ricinium” anche a Men. 433182 e 538 (nihil magis decere mulierem quam de muliebri ricinio pallium simplex) e a l. L. 5, 132 (antiquissimi amictui ricinium; id, quod eo utebantur duplici, ab eo quod dimidiam partem retrorsum iaciebant, ab reiciendo ricinium dictum) e 133 (lena, quod de lana multa, duarum etiam togarum instar; ut antiquissimum mulierum ricinium, sic hoc duplex virorum). Il “ricinium”, stando ai passi del de lingua Latina e al fr. 55, doveva essere un tipo d’abito particolarmente antico. L’accordo fra il fr. 92 e il fr. 55 dimostra che era considerato come l’abito femminile “da lutto” per eccellenza. È difficile per noi ricostruirne la forma (anche perché la descrizione che ne dà Nonio a p. 869.1-2 lo paragona a un tipo di mantello molto più tardo, il “mafurtium”, ed è pertanto poco affidabile); la posizione più probabile è che fosse un rettangolo di stoffa piuttosto ampio, da avvolgere (cfr. “amictae” nel fr. 92 e “amictui” a l. L. 5, 132) attorno alle spalle (vedi OLD 1653). Nella seconda parte del frammento si dice che le donne, “funere ipso” (“durante la celebrazione del funerale vero e proprio”; identificherei il “funus” con il corteo funebre, dal momento che il fr. 93, che quasi con certezza seguiva immediatamente il fr. 92 e si riferiva alla stessa pratica, parla proprio del corteo, come si deduce dalle parole “sequerentur luctum”; per “funus” = “funeral procession” vedi OLD 748.1b e ThLL VI, 1 1600.54-1602.55, “elatio defuncti, deductio mortui”), indossavano delle “pallae” di colore scuro. “Pullis pallis” è il testo fornito dai codici e, sebbene Lindsay accolga la correzione in “pullis palliis”, va difeso. Nonio cita il verso tre volte, a p. 865.22 e a p. 867.25 con “ricinum”, a p. 880.30 con “ricinium”. Il frammento è tradito dai codici nella forma corrotta aliae mitrant ricinium aut mitram Militensem; il confronto con il fr. 55 del de vita rende plausibile la correzione aliae sumunt ricinium aut mitram Melitensem proposta in apparato da Astbury (non escluderei la possibilità che il verbo corrottosi in fase di copiatura per influsso del vicino “mitram” potesse essere un congiuntivo “sumant”, forse detto con ironia; in questo modo, si manterrebbe la desinenza tradita).
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Non c’è infatti alcuna necessità di ripristinare in questo contesto una menzione del “pallium”, che anzi risulterebbe problematica: il frammento parla degli abiti portati dalle donne e, mentre il “pallium” era indossato da ambo i sessi, la “palla” era un capo esclusivamente femminile. Inoltre, “pallium” è un termine molto più comune rispetto a “palla”, con la conseguenza che “palliis” rischia di essere una banalizzazione. Anche l’allitterazione “pullis pallis”, che conferisce un colorito arcaico, quasi sacrale, al dettato sarebbe molto più debole se modificassimo il testo in “pullis palliis”. La “palla” era una tunica da donna, fornita di ampie pieghe e abbastanza lunga da formare uno strascico, vedi ThLL X, 1 119.21-121.25. Con “pullus” si identifica un colore scuro e opaco, tendente al nero (vedi Damonte 1997, pp. 167-168). L’uso di vesti “pullae” per indicare il lutto183 è confermato anche da Marziale: apoph. 157 (LANAE POLLENTINAE) Non tantum pullo lugentes vellere lanas / sed solet et calices haec dare terra suos (i fili luttuosi delle Parche sono definiti da Marziale “stamina pulla” – stilema attinto da Ovidio, Ib. 244 – anche a 4, 73.4 e 6, 58.7). Il legame fra il colore “pullus” e il lutto è esplicito anche in Ov. met. 4, 158-161 (aition del colore scuro delle more nell’episodio di Piramo e Tisbe): at tu, quae ramis arbor miserabile corpus / nunc tegis unius, mox es tectura duorum, / signa tene caedis pullosque et luctibus aptos / semper habe foetus e 11, 48-49, dove si dice che le Naiadi, a lutto per la morte di Orfeo, avevano vesti velate di nero (obstrusaque carbasa pullo); per l’uso di abiti “pulli” in caso di sventura, vedi Iuv. 3.212-213; Tac. hist. 3, 67.2. 93 (= 106 R.; 412 S.) propinquae adulescentulae etiam anthracinis, proxumae amiculo nigello, capillo demisso sequerentur luctum 1: proxumae Müller (praeeunte Mercier), edd.; proxume P; proxumo cett.; 2: dimisso codd., Kettner, corr. Ald. Non. p. 882.1-5: ANTHRACINVS, niger, a graeco. anthraces enim graece carbones latine appellantur. et est lugentium vestis. Varro de vita populi Romani lib. III:
183 Indossare un “pullum pallium” è considerato di cattivo auspicio anche da Floro, quando parla dei presagi della sconfitta di Pompeo a Farsalo: 2, 13.45, dux ipse in nocturna imagine plausu theatri sui in modum planctus circumsonatus et mane cum pullo pallio – nefas – aput principia conspectus est (per il sogno di Pompeo, cfr. Luc. 7, 7-24).
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1: color niger DA; 2: latine secl. Müller
le parenti giovani anche in vesti color carbone, e le più strette seguissero il feretro con uno scialle nero e i capelli sciolti Il frammento prosegue la descrizione dell’abbigliamento femminile durante il corteo funebre avviata nel fr. 92. La stretta vicinanza fra le due citazioni è suggerita dall’identità dell’argomento e dalla notevole somiglianza della struttura sintattica (anche il fr. 93 potrebbe infatti essere una completiva retta da qualcosa come “in luctibus mos erat ut…” ed è forte il sospetto che seguisse immediatamente il fr. 92, a cui poteva essere connesso con qualche elemento coordinante, ad esempio, “item”, omesso da Nonio). Sembra quasi che il fr. 93 costituisca un approfondimento di quanto detto nel frammento precedente, una sorta di “zoom”: nel fr. 92 Varrone ha detto che le donne, in periodo di lutto, indossavano il “ricinium” e, più in dettaglio, che durante il corteo funebre portavano delle “pallae” di colore scuro. In questo frammento, la cui successione al fr. 92 è garantita anche dalla “lex Lindsay”, Varrone procede a un’ulteriore specificazione e concentra l’attenzione, fra tutte le donne del corteo, su quelle più giovani (le “adulescentulae”): queste potevano indossare anche delle vesti color carbone. Credo che l’“etiam” del fr. 93 costituisca una buona base per supporre questa ipotesi di ricostruzione e sostenere la contiguità dei frr. 92 e 93: quando Varrone isola, fra tutte le donne del corteo, le sole parenti giovani del defunto, specifica appunto che queste, rispetto alle altre, erano avvolte “etiam anthracinis”. Sospetto, inoltre, che l’ablativo “anthracinis” possa essere retto proprio dall’“amictae” del fr. 92184; se così fosse, avremmo un motivo in più per supporre che le due pericopi riportate da Nonio comparissero, nel testo di Varrone, a strettissima distanza185. A questo punto, l’ottica si restringe ancora di più e, fra le parenti giovani del morto, si concentra su quelle più strette (“proxumae”): queste seguivano il feretro con i capelli sciolti, avvolte in uno scialle nero.
Preferisco legare “anthracinis” a un precedente “amictae” (o al limite a un participio dal significato analogo tagliato da Nonio) piuttosto che farlo dipendere dal successivo “sequerentur luctum”, soluzione che darebbe una struttura contorta e traballante alla sintassi della frase. 185 Anche nella mia traduzione ho cercato di non integrare nulla, ma di dare una forma che potesse essere letta di seguito alla mia resa del fr. 92. 184
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Per quanto riguarda “anthracinis”, il presente frammento è l’unico luogo in cui sia attestato il termine (vedi ThLL II 164.1-5). Riposati 1939, p. 222 pensa che sia un aggettivo sostantivato: dall’aggettivo dal significato originario di “color carbone” si sarebbe sviluppato un termine “anthracinus” o “anthracinum” per indicare una particolare veste di questo colore. Tuttavia, come nota Damonte 1997, pp. 169-170, è anche possibile considerare “anthracinis” come un aggettivo vero e proprio, con un referente sottinteso “vestibus”. Se poi accettiamo l’ipotesi sopra esposta, secondo cui il fr. 92 e il fr. 93 potevano essere contigui, il sostantivo sottinteso correlato ad “anthracinis” potrebbe anche essere “pallis” del fr. 92 (le donne al funerale indossavano “pallae” scure, le parenti giovani ne avevano anche di color carbone). Come segnala correttamente Nonio nella sua definizione, “anthracinus” deriva dal termine greco ἄνθραξ, che designa il carbone di legna, e non può che indicare il colore nero di questo tipo di carbone (cfr. Nonio: “niger”; in greco è attestato l’aggettivo ἀνθράκινος, vedi LSJ 140). L’impiego di vesti nere è attribuito anche alle donne citate nella seconda parte del frammento. Questo punto è interessato da una questione testuale: i codici hanno la lezione “proxumo” (o “proximo”), che, intesa come aggettivo di “amiculo”, non dà senso, e presa per forma avverbiale non soddisfa (“era costume che le parenti giovani piangessero il morto con vesti color carbone e immediatamente dopo (?) seguissero il feretro con uno scialle nero e i capelli sciolti”). Il solo P (principale testimone per questo libro della famiglia AA) ha “proxime”, sulla base del quale Mercier ha congetturato un nominativo plurale femminile “proximae”, da connettere ad “adulescentulae”. Müller ha poi accolto la correzione di Mercier stampandola con la grafia arcaica “proxumae”, più adatta alla patina stilistica arcaizzante che contraddistingue il passo (si vedano i diminutivi “adulescentulae” e “nigello” e le frequenti assonanze e allitterazioni). La correzione è necessaria ed economica e fornisce a “sequerentur” il soggetto richiesto. Tuttavia, a causa della perdita del contesto generale, delle ridotte dimensioni della pericope citata da Nonio e delle incertezze derivanti da questo tipo di tradizione, rimane difficile comprendere che senso vada effettivamente dato a “proxumae”. Le difficoltà sono poi acuite dal fatto che nessuno degli editori che hanno stampato questo frammento ne ha fornito una traduzione, così che risulta arduo risalire con esattezza ai motivi della loro scelta testuale e alla loro interpretazione del frammento. Io ho scelto di intendere “proxumae” come un aggettivo sostantivato (analogo a “propinquae”), dal significato di “le parenti più strette”, pensando che Varrone vo405
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lesse restringere ulteriormente la propria ottica e, dopo aver menzionato le parenti giovani, volesse passare a indicare l’abbigliamento prescritto in caso di lutto soltanto a quelle di loro legate al morto dai legami di parentela più forti. Credo che questa interpretazione si accordi bene con il continuo precisarsi della visione di Varrone che vediamo nei frr. 92 e 93: prima si descrivono le donne del corteo, poi fra queste si isolano le parenti giovani, infine fra queste vengono descritte quelle più strette. Tale lettura trova un sostegno anche nella scelta, carica di significato, dei due aggettivi derivati da “prope”: quando Varrone concentra l’attenzione sull’abbigliamento delle parenti più strette, passa dal grado positivo “propinquae” a quello superlativo “proxumae”. Si può però intendere “proxumae” anche in un altro modo. Potrebbe essere considerato sempre come un aggettivo sostantivato, ma non nel senso di “parenti più strette”, bensì in quello di “donne che venivano immediatamente dietro”. In tal caso, dovremmo supporre che Varrone descrivesse i vari gruppi di donne che si avvicendavano nel corso del corteo funebre: prima passavano le parenti giovani, vestite con panni color carbone, mentre “quelle che tenevano loro dietro seguivano il feretro con uno scialle nero e i capelli sciolti”. Io continuo a preferire l’interpretazione che ho proposto per prima, ma devo riconoscere che solo se avessimo il contesto completo potremmo risolvere davvero il dubbio. Per quanto riguarda l’“amiculum”, si tratta, come indica il nome stesso, di un mantello da avvolgersi addosso (per rendere l’idea, ho deciso di tradurlo con “scialle”); esso è bene attestato, vedi ThLL I 1091.55-1092.21. Ho già accennato sopra all’impiego espressivo dei diminutivi, che conferisce una patina arcaica al frammento; in particolare, “nigellus” (vedi OLD 1176) è impiegato da Varrone anche a Men. 375 (ante auris modo ex subolibus parvuli intorti demittebantur sex cincinni; oculis suppaetulis nigelli pupuli quam hilaritatem significantes animi! rictus parvissimus, ut refrenato risu roseo), dove però non sembra motivato tanto dalla volontà di dare un colorito arcaico quanto da quella di conferire allo stile una sfumatura affettiva (si tratta infatti della leziosa descrizione della bellezza di una donna o di una statua femminile, vedi Cèbe 1990, pp. 1586-1593). Il verbo “demitto” è di uso comune per indicare l’azione con cui si lasciano sciolti i capelli, facendo in modo che, non trattenuti da nessuna acconciatura, ricadano liberamente sulla fronte e sulle spalle (vedi il frammento delle Menippeae sopra citato e OLD 513.7b); l’uso di portare i capelli sciolti in segno di lutto è confermato da Ov. her. 10.137, aspice demissos lugentis more capillos. L’uso del singolare “capillo” concorda con quanto riferito da Carisio a p. 133.7 B., capil406
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lum priores singulariter dicebant, sicut barbam. nam Varro epistularum III negabat pluraliter dici debere. Varrone sembra aver rispettato in effetti questa norma, dal momento che al fr. 56 del de vita scrive “innexis crinibus”, ma “capillo pexo”. 94 (= 103 R.; 424 S.) nam lateres argentei atque aurei primum conflati atque in aerarium conditi 1: nam] an tum? Non. p. 837.12-15: LATERES aput quosdam, ut scrobes, cuius generis habeantur, incertum est: sunt autem generis masculini. Varro de vita populi Romani lib. III:
infatti per la prima volta dei lingotti di argento e d’oro furono coniati e depositati nell’erario Concluso l’esame dei frammenti del l. 3 a carattere antiquario, con il fr. 94 passiamo a quelli riferibili al racconto di vicende storiche. La presente citazione fa parte di una serie e, stando alla “lex Lindsay”, seguiva un frammento relativo alla vita militare (fr. 84). Come si è già osservato in precedenza, anche in altre serie di citazioni dal l. 3 i frammenti “antiquari” precedono quelli “storici”, ma questo fattore non indica che Varrone, in questo libro, dovesse necessariamente esporre prima tutta la materia di carattere erudito e antiquario e poi chiudere con un sunto storico generale della conquista romana del Mediterraneo. Potrebbe infatti anche darsi che le parti antiquarie e quelle storiche si alternassero, sebbene non sia rimasta traccia di questa disposizione della materia nelle poche serie utili di citazioni trasmesse da Nonio. In ogni caso, nelle serie disponibili frammenti sull’esercito e sui riti funebri precedono citazioni riconducibili al racconto di episodi storici: pertanto, ho deciso di raccogliere tutti i frammenti relativi alla vita militare e al funerale e di stamparli prima di quelli “storici”. Nell’ordinare questi ultimi, il criterio più economico mi è parso quello di seguire la cronologia degli episodi trattati nei frammenti. Di conseguenza, ho stampato il fr. 94 (riferibile all’evento più remoto fra quelli trattati nei frammenti rimasti del l. 3) come il primo della serie dei frammenti storici. Salvadore, invece, stampa il frammento addirittura come l’ultimo del l. 3; una scelta discutibile, soprattutto perché così la citazione viene a trovarsi dopo frammenti che senza dubbio si riferiscono a eventi successivi a quello trattato nel fr. 94 stesso. Forse l’unico modo per giustificare l’ordine dato da Salvadore è ipotizzare che, secondo la sua ricostruzione, il frammento non vada 407
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tanto inserito nel contesto di un riassunto storico, quanto attribuito a una sezione antiquaria (sulla storia della moneta a Roma e sulle origini delle differenti valute?) difficile da collocare nella struttura generale del libro. Abbiamo già discusso il contenuto del fr. 94 nel commento al fr. 20, in cui Varrone con buona probabilità descriveva una forma primitiva di monetazione, l’uso di blocchi grezzi di metallo impressi con un contrassegno, di cui Varrone parla anche a r. r. 2, 1.9 e che Plinio (n. h. 18, 12; 33, 43) attribuisce al re Servio Tullio. Dopo questo rozzo precedente, l’avvio di un conio vero e proprio di monete di metallo prezioso186 sarebbe attestato a Roma soltanto a partire dal 269/268 a.C.187; la data è fornita da Plin. n. h. 33, 44, argentum signatum annum urbis
Il conio di monete in bronzo, invece, si fa partire dal 335 a.C. (vedi Frank 1919). Va notato che Plinio, nel suo sunto di storia sulla monetazione romana, è mosso principalmente da intenti moralistici: vuole dire infatti che per tanti secoli i Romani non hanno avuto nemmeno le monete in metallo prezioso, ma si sono serviti soltanto di valuta in bronzo, prima nella forma di rozze masse di metallo segnate con un contrassegno da scambiare in una sorta di baratto (l’“aes nota pecudum signatum” attribuito a Servio Tullio) e poi sotto forma di monete vere e proprie (cfr. n. h. 34, 1: docuimus quamdiu populus Romanus aere tantum signato usus esset); il 269 a.C. segnerebbe invece l’inizio del conio di monete in argento. In ciò va segnalata una piccola discrepanza fra il passo di Plinio (che pure, come dimostra Nenci 1968, per queste notizie dipende in modo fedele da Varrone) e il fr. 94: nel frammento infatti si attribuisce allo stesso momento la coniazione di lingotti sia d’argento che d’oro, mentre Plinio attribuisce al 269 a.C. soltanto il conio di monete d’argento (mentre quello delle prime monete d’oro si data a più tardi, forse al 218/217 a.C.; vedi Mattingly 1929, p. 29 e 33-34; la data si ricava da Plin. n. h. 33, 47, denarius nummus post annos LI percussus est quam argenteus, ma il numerale non è trasmesso in modo concorde dalla tradizione). È possibile che Varrone abbia unificato nel frammento la coniazione dell’argento e quella dell’oro per esigenze di brevità (come si è visto anche per gli altri frammenti “storici” del de vita, il racconto delle vicende storiche è condotto da Varrone in modo estremamente sintetico); in ogni caso, pur nella grande concisione del frammento, Varrone fornisce l’ordine di coniazione corretto (menziona infatti prima l’argento e poi l’oro). Riposati, invece, sostiene (p. 218) che la menzione dell’oro nel frammento imponga di datare l’evento qui descritto a dopo il 217 (Varrone starebbe parlando di un momento di crisi, economica o militare, che avrebbe imposto allo Stato di preparare una riserva d’emergenza di denaro prezioso). Questo è improbabile: da un lato, l’uso dell’avverbio “primum” in riferimento al conio dell’argento non sarebbe giustificato nel racconto di una vicenda di molto posteriore al 269; dall’altro, è difficile individuare un momento di crisi così grave nel periodo successivo alle guerre puniche. 187 È difficile stabilire se la data esatta sia il 269 o il 268 a.C., anche se la prima sembra più probabile. Per il problema, vedi Mattingly 1929, p. 27, n. 2. 186
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CCCCLXXXV, Q. Ogulnio C. Fabio coss., quinque annis ante primum Punicum bellum (cfr. 33, 42, populus Romanus ne argento quidem signato ante Pyrrhum regem devictum usus est) e dal riassunto del racconto di Livio per l’anno 268 (per. 15), tunc primum populus Romanus argento uti coepit188. Nella mia interpretazione del frammento preferisco seguire Riposati, p. 212 e Nenci e intendere i “lateres … conflati” come una forma rudimentale di moneta (“blocchi coniati d’argento e d’oro”); non mancano però letture alternative (ad esempio, si è pensato che i “lateres signati” potessero avere fini non monetarii, ma essere impiegati come unità base nella distribuzione del bottino ai soldati, vedi Pedroni 1995, pp. 205-206 e n. 40, dove purtroppo è impiegata la forma “impossibile” later signatum). Nella parte conservata del frammento manca una datazione precisa dell’episodio (forse esclusa dal taglio di Nonio), ma si dice solo che, in un certo momento, per la prima volta (“primum”) dei lingotti d’oro e d’argento furono coniati e depositati nell’erario; tuttavia, sulla base del confronto con Plinio, è altamente probabile che anche Varrone datasse l’avvio del conio di monete a Roma al 269 a.C. Va poi osservato che, se ammettiamo che il fr. 94 si riferisce a un evento del 269, questo si adatterebbe alla perfezione al disegno delle sezioni storiche dei ll. 2 e 3 del de vita che emerge dai frammenti rimasti. Abbiamo visto infatti come l’evento più tardo cui si riferisca un frammento del l. 2 sia proprio la guerra contro Pirro (fr. 75) e sulla base di questo abbiamo supposto che Varrone, in quel libro, seguisse la parabola evolutiva di Roma in tutta la prima fase del periodo repubblicano, narrando le vicende della conquista dell’Italia fino al punto in cui Roma, con lo scontro con Pirro, si pone come una potenza mediterranea a tutti gli effetti. Se il l. 2 si chiudeva con la guerra contro Pirro, è significativo che il frammento “storico” del l. 3 riferibile all’evento più remoto parli proprio di un episodio avvenuto immediatamente dopo la conclusione di quella guerra. Ciò costituisce un interessante elemento di continuità fra il l. 2 e il l. 3: la sezione storica del l. 3 parte esattamente da dove si interrompe quella del l. 2 e, in modo significativo, abbraccerà tutte le successive vicende della conquista romana del Mediterraneo, fino a giungere alla cessione del regno di Pergamo (133 a.C.; fr. 102), che da un lato costituisce l’ultima conquista, dall’altro sarà la causa delle riforme di Tiberio Gracco e darà, così, l’avvio al periodo delle lotte civili a Roma, argomento del l. 4 del de vita. Ci sono dunque validi motivi per riferire il fr. 94 al Le altre fonti che forniscono la stessa datazione sono riportate da Salvadore 2004, p. 126.
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269 a.C. e per pensare che anche Varrone datasse a quell’anno l’inizio di un conio regolare di monete in metallo prezioso a Roma. Per quanto riguarda un altro frammento (dagli annalium libri tres), dove Varrone attribuisce ad altri eruditi una versione alternativa secondo cui il conio delle prime monete d’argento risalirebbe all’età di Servio Tullio (nummum argenteum flatum primum a Servio Tullio dicunt), vedi le mie osservazioni al fr. 20 e la mia critica all’interpretazione dei dati proposta da G. Nenci. La forma del fr. 94 ricorda quella di un’altra citazione dal de vita sempre relativa allo sviluppo economico di Roma, il fr. 76: “hoc intervallo primum forensis dignitas crevit…”. Sulla base del confronto col fr. 76, sentirei la necessità anche nel fr. 94 di un’indicazione più precisa del momento in cui i lingotti furono coniati per la prima volta. Come si è detto sopra, è probabile che questa comparisse nella parte della frase tagliata fuori dalla citazione da Nonio; tuttavia, anche supponendo questa dinamica (ad esempio, nella parte immediatamente precedente poteva esserci un’espressione del tipo di quelle impiegate da Plinio, “post Pyrrhum regem devictum” o “quinque annis ante primum Punicum bellum”), il testo della citazione non convince del tutto, con l’avverbio “primum”, per così dire, “sospeso” e privo di un referente nel testo (come “hoc intervallo”, che, nel fr. 76, fa da perfetto pendant al successivo “primum”). Inoltre, va riconosciuto che il “nam” che apre la citazione non fornisce un gran senso. È vero che il contesto generale del frammento è andato perduto, che, in teoria, Varrone poteva far precedere al frammento un’informazione tale da giustificare l’uso di “nam” e che, nell’impossibilità di ricostruire lo sviluppo preciso del discorso nella sezione da cui è tratto il fr. 94, sarebbe metodologicamente consigliato non intervenire sul testo tradito se non dove questo è del tutto inaccettabile; ciò nonostante, proporrei comunque dubitanter una mia correzione. Correggerei il tradito “nam” in “tum”: in questo modo si fornirebbe un termine correlato a “primum” e il fr. 94 verrebbe ad avere una struttura del tutto analoga a quella del fr. 76 (“tum lateres … primum conflati” vs “hoc intervallo primum … dignitas crevit”). Nell’ipotesi, poi, che nella parte precedente Varrone fornisse una data o comunque un’indicazione temporale, “tum” connetterebbe il frammento a ciò che precede in modo migliore e logicamente più valido di quanto faccia “nam”. A favore di “tum” sarebbe anche il confronto con il brano delle “periochae” sopra citato: tunc primum populus Romanus argento uti coepit. “Nam” potrebbe essere un errore di copia o di dettatura (un copista potrebbe aver sostituito senza 410
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accorgersene due termini simili e dalla funzione sintattica quasi identica) sorto durante la stesura dell’archetipo o, addirittura, durante la realizzazione stessa del de compendiosa doctrina. In ogni caso, ho segnalato la mia proposta soltanto in apparato, senza metterla a testo, perché ritengo comunque prudente, data la perdita del contesto, non intervenire troppo sul testo tradito. Il termine “aerarium” designa propriamente il tesoro di Stato che a Roma aveva sede presso il tempio di Saturno (vedi OLD 69.2 e ThLL I 1055.41-1058.12); per la sua derivazione da “aes” (l’“aerarium” è infatti “il luogo deputato a ospitare i depositi monetari in bronzo”), vedi Plin. n. h. 34, 1: proxime dicantur aeris metalla … hinc aera militum, tribuni aerarii et aerarium, obaerati, aere diruti (cfr. fr. 71). 95 (= 98a R.; 413 S.) cum Poenus in fretum obviam venisset nostris et quosdam cepisset, crudelissime pro palangis carinis subiecerat, quo metu debilitaret nostros 1: credulissime L; 2: quo metu debilitaret nostros vel quo metu debilitare nostros dubitanter scripserim Non. p. 240.20-26: PALANGAE dicuntur fustes teretes, qui navibus subiciuntur, cum adtrahuntur ad pelagus vel cum ad littora subducuntur. unde etiamnunc palangarios dicimus qui aliquid oneris fustibus transvehunt. Varro de vita populi Romani lib. III: 1: plagae (-ge) CADA | terentes L; 2: subducantur L; 3: III Thilo, Kettner, Rip., Sal.; IIII codd.
i Cartaginesi, dopo essere andati incontro ai nostri in uno stretto e aver fatto dei prigionieri, con grandissima crudeltà li avevano uccisi facendo passare sopra di loro gli scafi delle navi – come si fa con i cilindri di legno – per fiaccare il morale dei nostri soldati con la paura Il frammento si riferisce a un episodio delle guerre puniche, l’esecuzione di alcuni prigionieri romani da parte dei Cartaginesi con un supplizio tanto crudele quanto ingegnoso: i corpi degli sventurati sarebbero stati impiegati a mo’ di “palangae” (o “phalangae”: i rulli, come spiega bene la definizione di Nonio, che venivano posti sotto gli scafi per muovere le navi, in modo da poter ridurre l’attrito e tirarle in secco o calarle in mare, vedi OLD 1371.b; Caes. b. c. 2, 10.7 le definisce significativamente “machinatio navalis”), così che le navi con il loro peso ne lacerassero le membra. Alla stessa vicenda, che oggettivamente si presta come exemplum della proverbiale crudeltà cartaginese, sembra riferirsi 411
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anche Val. Max. 9, 2 estr. 1, eadem usi crudelitate milites nostros quodam maritimo certamine in suam potestatem redactos navibus substraverunt, ut earum carinis ac pondere elisi inusitata ratione mortis barbaram feritatem satiarent: Riposati stampa anche il passo di Valerio Massimo come un frammento del de vita, ma in questo caso la dipendenza da Varrone, e proprio da questa opera, è indimostrabile; preferisco dunque seguire Salvadore e segnalare il brano soltanto come il nostro parallelo più importante, ma non come un frammento vero e proprio. Sia Varrone che Valerio raccontano l’episodio in termini piuttosto vaghi: nessuno dei due specifica l’occasione precisa in cui sarebbe avvenuto lo scontro navale qui descritto e, in contrasto con la precisione con cui è descritta l’esecuzione dei prigionieri, gli altri elementi del racconto sono dati in forma indefinita (“cum … quosdam cepissent”; “quodam maritimo certamine”). Di conseguenza, è anche difficile capire se la vicenda vada attribuita alla prima o alla seconda guerra punica. Ho preferito riferirla alla prima sia per la menzione di uno scontro navale, dato che si accorda meglio con lo svolgimento di questa guerra, sia perché Valerio, nella sua rassegna di exempla di crudeltà punica, fa precedere questa storia dal famoso racconto del supplizio di Atilio Regolo (episodio della prima guerra punica, del 246 a.C.) e la fa seguire da una serie di episodi che hanno per protagonista Annibale: se supponiamo che Valerio abbia ordinato cronologicamente la sua materia, è possibile che raccontasse prima exempla tratti dalla prima guerra punica (quello di Regolo e quello del fr. 95) e poi, a partire dalla menzione di Annibale, altri tratti dalla seconda. Dal momento che rifersico il frammento alla prima guerra punica, lo stampo dopo il fr. 94 (che, come si è detto, allude a un episodio precedente allo scoppio di questa guerra) e prima del fr. 96 (sulla battaglia delle Egadi, del 241 a.C., lo scontro conclusivo della guerra). È invece improbabile l’ipotesi di Riposati (pp. 210-211) secondo cui l’episodio del frammento andrebbe attribuito alla seconda guerra punica, perché il “Poenus” menzionato non potrebbe essere altri che Annibale, l’incarnazione totale dei difetti del suo popolo. Questa lettura va rifiutata, dal momento che il singolare “Poenus”, nel caso presente, è chiaramente un etnico collettivo (= “i Cartaginesi”). Sul piano stilistico, il frammento si segnala per la precisione e la linearità con cui è raccontata la vicenda. Rispetto alla versione parallela di Valerio Massimo, Varrone è meno enfatico e indulge meno ai dettagli truculenti, anche se il suo giudizio morale sull’accaduto risulta altrettanto chiaro ed emerge in modo palese dall’impiego dell’avverbio “crudelissime”. 412
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Il senso richiede che l’ultima parte del frammento, “quo metu debilitaret nostros”, sia interpretata come una finale, prendendo “quo” per una congiunzione (per l’uso di “quo” anche in assenza di un comparativo nella finale, cfr. fr. 116, “ad dominatus quo appellerent”). Va osservato tuttavia che, in presenza della stringa “quo metu”, la tentazione di intendere “quo” come un pronome relativo e di considerare “quo metu” una forma di nesso è oggettivamente alta, anche perché, con un deittico che conetta in modo esplicito la conclusione del frammento all’exemplum di crudeltà prima citato, l’intero frammento risulta più serrato ed efficace. Il punto è che, nella forma tradita (“quo metu debilitaret nostros”), se si interpreta “quo” come un relativo, viene a mancare qualcosa che regga il congiuntivo “debilitaret”. Per avere “quo” come relativo, quindi, è necessario intervenire in qualche punto sul testo: si può tentare di integrare un “ut” (“quo metu debilitaret nostros” = “per fiaccare il morale dei nostri con questo spaventoso precedente”), che potrebbe essere caduto per una confusione con il precedente “-tu”, o, in alternativa, supporre che Varrone avesse scritto qualcosa come “quo metu debilitare nostros ” e che Nonio, tagliando “ratus” (o un altro termine dal significato analogo) fuori dalla citazione, avesse trasmesso il testo “quo metu debilitare nostros”, poi rabberciato in fase di copia in “quo metu debilitaret nostros”. Va ammesso che soprattutto la prima soluzione non restituisce un testo particolarmente elegante; per questo, ho deciso di stampare e tradurre il testo tradito, riservando al commento la discussione delle possibilità alternative. Per un uso analogo di questa tattica di “guerra psicologica”, vedi Caes. b. c. 3, 8: Bibulus … sperans alicui se parti onustarum navium occurrere posse inanibus occurrit; nactus circiter XXX in eas indiligentiae suae ac doloris iracundiam erupit omnesque incendit eodemque igne nautas dominosque navium interfecit, magnitudine poenae reliquos terreri sperans. 96 (= 100 R.; 414 S.) nam postea C. Lutatio consuli ad Aegatis insulas, cum ipse catapulta ictus esset 1: C. CA; G. LAABA | ipsa codd., corr. ed. 1476 | esset suppl. Kettner, Rip.; esset exempli gratia suppleverim; abesset Popma Non. p. 886.7-887.24: CATAPVLTA, iaculum celer vel sagitta. […] Varro de vita populi Romani lib. III: 413
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infatti in seguito al console Gaio Lutazio presso le isole Egadi, poiché era stato colpito da un proiettile di catapulta… Il frammento è trasmesso in forma mutila. La menzione del console Gaio Lutazio Catulo e delle isole Egadi permette di collegarlo con certezza alla battaglia delle Egadi del 241, che, con la vittoria della flotta romana su quella cartaginese, segnò la fine della prima guerra punica e valse al console il trionfo. Riposati accoglie un’integrazione proposta da Kettner e stampa “C. Lutatio consuli ad Aegatis insulas, cum ipse catapulta ictus esset ”; di conseguenza, non inserisce il fr. 96 fra quelli “storici”, ma lo connette al fr. 105 (dove si parla di un costume previsto per omaggiare il comandante che celebrava il trionfo) e ipotizza che facesse parte di una sezione antiquaria del l. 3 in cui Varrone esponeva le cerimonie prescritte per il trionfo di un generale e le norme che ne regolavano l’assegnazione (ad esempio, il presente frammento avrebbe fornito un precedente in cui era stato decretato il trionfo a un comandante anche se questi non aveva potuto prendere parte attiva alla battaglia). La lettura di Kettner e Riposati è senza dubbio ardita, in quanto propone di integrare una porzione davvero cospicua, ma fondata su basi solide. Sappiamo infatti da Val. Max. 2, 8.2 e da Eutr. 2, 27.1 che effettivamente il console Lutazio era stato ferito a una gamba nel corso di uno scontro precedente la battaglia delle Egadi e che, per questo, aveva partecipato alla battaglia ancora convalescente, su di una lettiga, ed era stato costretto a delegare il comando effettivo al pretore Quinto Valerio. Valerio Massimo riferisce appunto il dibattito giudiziario fra il console e il pretore, che sosteneva che il trionfo spettasse a lui in quanto consulem ea pugna in lectica claudum iacuisse, se autem omnibus imperatoriis partibus functum (Eutropio, in modo più sintetico, dice Lutatius Catulus navem aeger ascendit; vulneratus enim in pugna superiore fuerat). Le probabilità che il presente frammento si riferisse a questo episodio sono alte: Varrone menziona esplicitamente la ferita di Lutazio e questa doveva essere citata in quanto aveva impedito al console di partecipare alla battaglia finale (alla quale si riferiscono le parole “ad Aegatis insulas”); ancora, è plausibile che questo impedimento fosse in qualche modo connesso con la questione del trionfo. I problemi posti dall’integrazione proposta da Kettner stanno, piuttosto che nel contenuto ipotizzato per il frammento, nella struttura sintattica che la frase assumerebbe. Infatti, con la punteggiatura stampata da Kettner e accolta da Riposati, Varrone sembrerebbe dire che a Catulo fu concesso il trionfo alle 414
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Egadi, mentre la logica richiede che il trionfo di Catulo fosse decretato a Roma per la vittoria alle Egadi. Forse si potrebbe restituire un testo più accettabile al senso supposto da Kettner modificando la punteggiatura in “C. Lutatio consuli, ad Aegatis insulas cum ipse catapulta ictus esset ”, ma anche così il testo non tornerebbe del tutto, dal momento che sappiamo, da Valerio e da Eutropio, che il console era stato ferito in uno scontro precedente, mentre, con questo testo, il frammento sembrerebbe parlare di un ferimento del console nel corso della battaglia delle Egadi. Per questi motivi, proporrei di integrare exempli gratia, sulla scia di Kettner, qualcosa che possa inserire in modo coerente l’indicazione “ad Aegatis insulas” nel discorso: ad esempio, “nam postea C. Lutatio consuli ad Aegatis insulas, cum ipse catapulta ictus esset ”. In questo modo, ho tentato di distinguere i tre momenti in cui il console viene ferito, non può partecipare alla battaglia delle Egadi a causa di questo impedimento e riceve comunque l’onore del trionfo. Legando “ad Aegatis insulas” a “non pugnanti”, poi, ho cercato di ovviare all’incongruenza del testo di Kettner. Si tratta ovviamente di una semplice ipotesi, che ho voluto segnalare ma ho preferito non accogliere a testo: pertanto, nell’edizione e nella traduzione del frammento ho considerato soltanto la pericope citata da Nonio, riservando al commento la discussione delle proposte di integrazione. Per quanto riguarda la questione della collocazione del fr. 96 (se cioè vada inserito nell’ambito del sunto storico delle guerre puniche oppure in una sezione sugli usi del trionfo romano), ho preferito stamparlo fra gli altri frammenti “storici”. Sebbene ci siano buone probabilità che la citazione si riferisse alla polemica sull’assegnazione del trionfo a Lutazio, non è infatti escluso che Varrone potesse citare questo episodio sempre all’interno del racconto storico delle vicende degli ultimi anni della prima guerra punica. Viceversa, il fatto che il fr. 96 potesse concernere la questione del trionfo non costituisce un motivo sufficiente per connetterlo necessariamente a una trattazione dei riti propri della cerimonia trionfale, di cui restano esigue tracce soltanto nel fr. 105. 97 (= 94 R.; 407 S.) P. Aelius Paetus cum esset praetor urbanus et sedens in sella curuli ius diceret populo, picus Martius advolavit atque in capite eius adsedit 1: P. Aelius Orsini; pelius codd.; Aelius Mercier 415
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Non. p. 834.30-835.40: PICVMNVS et avis est Marti dicata, quam picum vel picam vocant, et deus qui sacris Romanis adhibetur. 2: et om. LCA
mentre P. Elio Peto, in qualità di pretore urbano, stava amministrando la giustizia seduto sulla sella curule, un picchio della specie detta “di Marte” gli volò incontro e gli si appollaiò in testa Il frammento corrisponde all’inizio del racconto di una vicenda esemplare di dedizione e sacrificio. Possiamo ricostruire l’intero episodio dal confronto con Val. Max. 5, 6.4, Genucius laudis huius, qua maior vix cogitari potest, successionem tradit Aelio praetori. cui ius dicenti cum in capite picus consedisset aruspicesque adfirmassent conservato eo fore ipsius domus statum felicissimum, rei publicae miserrimum, occiso in contrario utrumque cessurum, e vestigio picum morsu suo in conspectu senatus necavit. decem et septem Aelia tum189 familia eximiae fortitudinis viros Cannensi proelio amisit; res publica procedente tempore ad summum imperii fastigium excessit; Plin. n. h. 10, 41, unum eorum (sc. picorum) praescitum transire non queo. in capite praetoris urbani Aelii Tuberonis in foro iura pro tribunali reddentis sedit ita placide, ut manu prehenderetur. respondere vates exitium imperio portendi, si dimitteretur, at si exanimaretur, praetori. et ille avem protinus concerpsit nec multo post implevit prodigium e Front. strat. 4, 5.14, C. Aelius praetor urbanus, cum ei ius dicenti picus in capite insedisset et haruspices respondissent dimissa ave hostium victoriam fore, necata populum Romanum superiorem, at C. Aelium cum familia periturum, non dubitavit dare picum neci. Itaque nostro exercitu vincente ipse cum quattuordecim Aeliis ex eadem familia in proelio est occisus. Come si vede, le nostre testimonianze concordano nello svolgimento della storia (il fatto che il picchio si sia posato sul capo del “praetor urbanus” mentre questo amministrava in foro la giustizia; il responso degli aruspici; la scelta eroica del pretore), ma divergono in vari particolari: il “praenomen” e il “cognomen” del pretore (Varrone parla di P. Elio Peto, Plinio di Elio Tuberone, Frontino di un Gaio Elio e, infine, Valerio rife-
“Aelia tum” è correzione del Torrenius per il tradito “mil tum” (che Briscoe stampa fra cruces); il Förtsch, seguendo la stessa direzione, corregge in “Aeli tum”. A causa di questa corruttela che potrebbe coinvolgere anche la parte di testo precedente, è difficile risalire al numero esatto delle vittime della “gens Aelia” a Canne; in ogni caso, il senso generale del brano è chiaro (il pretore uccide il picchio e così molti membri della sua “familia” cadono in battaglia).
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risce il solo gentilizio); il numero dei membri della “gens Aelia” morti in battaglia (Valerio, se il testo qui non è corrotto, riporta la cifra di diciassette caduti, ma sembra escludere che sia caduto anche il pretore; Frontino invece dice che il pretore morì in battaglia ed, oltre a lui, parla di altri quattordici caduti della sua famiglia) e, soprattutto, la battaglia in questione (Valerio la identifica esplicitamente con quella di Canne, mentre la versione di Frontino, che parla di uno scontro vinto dai Romani, esclude questo dato). Tali divergenze hanno portato Salvadore (p. 116) a una posizione piuttosto scettica e a sospettare che gli exempla di Plinio e Frontino abbiano per protagonisti due pretori differenti da quello cui si riferiscono il fr. 97 e il passo di Valerio Massimo. Forse questa conclusione è eccessiva: è infatti piuttosto antieconomico supporre che la tradizione ricordasse ben tre exempla identici riferiti a tre pretori urbani diversi tutti e tre appartenenti alla medesima “gens”. Forse la spiegazione più semplice è ammettere che questo exemplum, tradizionalmente attribuito alla “gens Aelia”, venisse riportato da più fonti diverse con delle piccole varianti, quali il nome del pretore e il numero dei caduti, ma mantenendo comunque inalterato il succo del racconto. Per quanto riguarda poi lo scontro in cui sarebbero caduti i giovani della “familia Aelia”, di fatto non abbiamo particolari motivi per negare che si trattasse effettivamente della battaglia di Canne (216 a.C.). Infatti, il fr. 97, che si interrompe prima della menzione della battaglia, e il passo di Plinio, che allude al fatto solo in modo generico (“e il prodigio si compì”), non smentiscono la testimonianza di Valerio Massimo. Quanto a Frontino, è possibile che avesse accesso all’episodio per tramite di una fonte in cui questo era narrato in forma errata, con la banalizzante menzione di una vittoria dei Romani (anche Salvadore, per quanto non lo dica in modo esplicito, sembra riferire il fr. 97 alla battaglia di Canne, come indicano l’ordine in cui stampa il frammento e il fatto che consideri il passo di Valerio come il parallelo più valido). Sul piano stilistico, è interessante l’uso insistito, nel fr. 97, della figura etimologica: “sedens in sella … adsedit”. Rispetto alle altre fonti sull’episodio, poi, il racconto di Varrone si mostra più vivace (è rappresentato, con gusto vivido, il volo del picchio che si avvicina al pretore e gli si posa sul capo) ed è arricchito dalla nota erudita che specifica la razza esatta del picchio in questione. Infatti con “picus Martius” si identificava una specie in particolare di picchio (vedi OLD 1377): alla descrizione di questo uccello è dedicato appunto il passo di Plinio da cui deriva anche il racconto dell’exemplum del pretore (vedi anche n. h. 11, 122; sull’origine di questa denominazione, vedi Plut. quaest. R. 21; Rom. 4.2; fort. 417
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Rom. 9 (= 320d) e la storia della trasformazione in picchio del re Pico narrata da Verg. Aen. 7, 189-191 e Ov. met. 14, 320-396, cfr. Serv. ad Aen. 7, 190). Per un exemplum di sacrificio personale simile, nelle modalità di svolgimento, a quello del fr. 97, vedi Cic. div. 1, 36, Ti. Gracchus Publi filius, qui bis consul et censor fuit idemque et summus augur et vir sapiens civisque praestans, nonne, ut C. Gracchus, filius eius, scriptum reliquit, duobus anguibus domi comprehensis haruspices convocavit? Qui cum respondisset, si marem emisisset, uxori brevi tempore esse moriendum, si feminam, ipsi, aequius esse censuit se maturam oppetere mortem quam P. Africani filiam adulescentem; feminam emisit, ipse paucis post diebus est mortuus. 98 (= 95 R.; 408 S.) posteaquam Q. Fabio Maximo dictatore *** 1: post dictatore lacunam statuit Müller; dictatore Kettner; dictatore *** Rip., Sal. Non. p. 777.14-778.21: SENATI vel SENATVIS, pro senatus. […] Varro de vita populi Romani lib. III 1: vel senatus AA, om. DA; 1-2: de vita populi (om. Romani) LAACA; pr (om. de vita) G (= BA); 2: III Kettner, Rip., Sal.; I codd., Lindsay
dopo che, durante la dittatura di Q. Fabio Massimo, *** Il frammento, estremamente mutilo, contiene comunque una menzione esplicita della dittatura di Quinto Fabio Massimo “Cunctator”, che permette di riferirlo alla sezione storica relativa alle vicende della seconda guerra punica. Poiché le guerre puniche rientravano nell’arco cronologico coperto dal l. 3 del de vita, tutti gli editori attribuiscono il frammento a questo libro, contro l’indicazione dei codici di Nonio, che lo assegnano al l. 1. È impossibile aggiungere altro sul fr. 98: il misero frustulo conservato da Nonio, infatti, non permette di identificare in alcun modo l’episodio in questione. È quasi certo che la citazione dal de vita sia stata interessata da una lacuna, comune a tutta la tradizione, che ne ha comportato la perdita della parte finale: nel testo trasmesso dai codici, infatti, non c’è traccia della forma insolita del genitivo di “senatus” che ha spinto Nonio a citare il fr. 98. Va quindi supposto che nel seguito della citazione, prima che la sua parte finale si perdesse nella tradizione noniana per un guasto meccanico, comparisse anche il genitivo “senatuis” (delle due forme menzionate da Nonio 418
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nel lemma, “senati” e “senatuis”, è probabile che Varrone, nel nostro frammento, usasse “senatuis”, dal momento che nelle altre citazioni che Nonio riporta a questa voce compare sempre la forma “senati” e, quindi, per esclusione la forma “senatuis” non poteva trovarsi che nella citazione dal de vita190; inoltre, “senatuis” sarebbe più adatto all’usus di Varrone, cfr. frr. 23, 74, 81 e comm. ad loc.). Poiché non possiamo avere idea della posizione che “senatuis” occupava nel seguito del frammento, ho preferito limitarmi a segnalare la lacuna dopo “dictatore”, come fa Müller, senza tentare di integrare “senatuis” in qualche modo, come fanno Riposati e Salvadore (Kettner pensa che la forma originaria della citazione fosse “posteaquam Q. Fabio Maximo dictatore senatuis”, soluzione improbabile, in quanto richiede la formula, non attestata altrove, “dictator senatus”). 99 (= 96 R.; 409 S.) Muttinae, quod in Sicilia cum equitatu suo transierat ad nos, civitatem Romae datam aedesque et pecuniam ex aerario 1: mutinae Pp.c.; mutine S; murtinae Ma.c.; murrinae Pa.c.Mp.c.; Muttines Rip.; Mutini Kettner Ascon. in Cic. Pison. 13, p. 19.5: Varro quoque in lib. III de vita populi R., quo loco refert quam gratus fuerit erga bene meritos, dicit
A Muttine, poiché in Sicilia era passato dalla nostra parte con la sua cavalleria, a Roma fu concessa la cittadinanza, un’abitazione e un donativo in denaro attinto dall’erario Il frammento è riportato da Asconio, che lo attribuisce al terzo libro del de vita e sembra fornire anche una breve descrizione del suo contesto. Stando ad Asconio, secondo cui il frammento proveniva dalla parte del libro in cui Varrone riferiva “quanto il popolo romano fosse riconoscente verso i propri benefattori”, la citazio In teoria, dal momento che non conosciamo l’estensione esatta della lacuna, nel fr. 98 poteva anche comparire “senati”, mentre la forma “senatuis” poteva trovar posto in un’altra citazione successiva a questa dal de vita. L’ipotesi è tuttavia improbabile per diversi motivi; “senatuis” infatti si adatta allo stile varroniano (cfr. Gell. 4, 16.1) molto meglio di “senati” e, come sappiamo, le citazioni dal de vita provengono dall’ultima lista consultata da Nonio, il che rende assai difficile che, in questa voce, dopo la citazione dal de vita potessero esserci ancora altre citazioni, a meno di non pensare che queste provenissero sempre dal de vita, il che non è economico. 190
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ne sembrerebbe appartenere più a una sezione di carattere celebrativo e moraleggiante, in cui l’autore proponeva una serie di episodi esemplari, che a un sunto storico delle guerre puniche. Su questa scorta, Riposati in sede di commento (p. 209) connette il fr. 99 alle citazioni sulle funzioni dei legati e sulla fedeltà romana ai patti (frr. 89 e 90). Tuttavia, conosciamo troppo poco della struttura del l. 3 per poter avallare questa ipotesi: la sezione sulla riconoscenza dei Romani cui allude Asconio poteva infatti trovarsi in qualsiasi punto del libro e gli scarni frammenti rimasti non permettono di identificarne in alcun modo la posizione. Pertanto, ho ritenuto più prudente (e anche più agevole per il lettore) dare peso alla cronologia dell’evento storico narrato nel frammento: poiché questo si è svolto nel corso della seconda guerra punica, precisamente nel 210 a.C., l’ho stampato dopo i frr. 97 e 98 (che parlano di eventi precedenti, la battaglia di Canne e la dittatura di Fabio Massimo). Ciò non implica la necessità che il fr. 99 facesse parte di una sezione storica, ma, in assenza di altri dati, rispettare la cronologia mi è sembrata la soluzione più economica (del resto lo stesso Riposati, in sede di edizione, smentisce quello che sostiene nel commento e stampa il fr. 99 insieme agli altri sulle guerre puniche). Il frammento allude al ruolo svolto dall’ufficiale di cavalleria Muttines (questa forma del nome è fornita da Livio e ad essa rimandano anche le lezioni dei codici di Asconio; Polibio (9, 22.5) lo chiama invece Myttones; per la difesa della forma Muttines, vedi Dittenberger 1880), di origine libica, nel corso della guerra civile in Sicilia del 211 a.C. Sappiamo che Muttines era al comando della cavalleria e conduceva efficaci operazioni di guerriglia contro i Romani nei pressi di Agrigento (vedi Liv. 26, 21.15). Tuttavia, i comandanti cartaginesi in Sicilia, Annone e Epicide, ne invidiavano le capacità e i successi e ne disprezzavano le origini. Così Annone, nel 210, lo sollevò dal comando e affidò la cavalleria al proprio figlio. A questo punto, Muttines avviò trattative segrete con M. Valerio Levino (che nel frattempo era stato nominato console) e, alla fine, aprì le porte di Agrigento ai soldati romani. La città fu presa (e con essa il grosso delle truppe cartaginesi), mentre Annone e Epicide dovettero fuggire in patria (vedi Liv. 26, 40.1-12). Muttines continuò a fornire aiuto attivo ai Romani e per questo fu premiato con la concessione della cittadinanza (vedi Liv. 27, 5.6-7: exim Muttine et si quorum aliorum merita erga populum Romanum erant in senatum introductis, honores omnibus ad exsolvendam fidem consulis habiti. Muttines etiam civis Romanus factus rogatione ab tribunis plebis ex auctoritate patrum ad plebem lata): a questo episodio si riferisce anche il fr. 99, che, rispetto al racconto di Livio, aggiunge anche 420
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la notizia che a Muttines, oltre alla cittadinanza, furono concesse una dimora a Roma e una ricompensa in denaro a spese pubbliche. Muttines combatté, con i propri figli, al fianco dei Romani anche venti anni dopo, nella guerra contro Antioco V (cfr. Liv. 38, 41.12-14); nel corso di questa campagna lui e i figli vennero anche nominati prosseni dagli abitanti di Delfi (come sappiamo da SIG vol. III, 585.87; dall’iscrizione si ricava che Muttines assunse il gentilizio del suo patrono Levino, Μάρκος Ὀυαλέριος ὁ Μοττόνης, e che diede ai figli nomi romani: Publio, Gaio, Marco e Quinto). Su Muttines e sul suo ruolo nella guerra punica, vedi Dittenberger 1880, pp. 93-94; V. Ehrenberg, s.v. “Myttones”, in RE VI, 2 coll. 1428-1430; Marshall 1985, p. 107 e O’Connel 2010, pp. 185-186. La citazione non presenta difficoltà testuali di rilievo. L’unica questione riguarda la forma del nome “Muttines”. I codici di Asconio, infatti, presentano varie grafie, che comunque rimandano tutte a un dativo “Muttinae” (accolto da Salvadore e difeso da Marshall e Dittenberger), forma che presupporrebbe una declinazione “mista” per il nome straniero “Muttines” sul modello di “Anchises, -ae” (vedi NW I 513-517). Questa possibilità si accorda con l’usus del I sec. a.C. e, quindi, la forma “Muttinae” va accolta (mentre la correzione “Muttini” di Kettner rischia di essere banalizzante). Riposati stampa “Muttines”, che è davvero difficile da difendere: come nominativo, “Muttines” non potrebbe essere integrato nella struttura sintattica della frase; l’unico modo per dargli un senso sarebbe supporre che si tratti di un nome indeclinabile (così “Muttines” potrebbe essere anche un dativo), il che è francamente improbabile. 100 (= 97 R.; 420 S.) Delphos Apollini munera missa, corona aurea pondo ducentum 1: Delfos CA Non. p. 241.26-27: PONDO DVCENTVM nove Varro [saepe] de vita populi Romani lib. III 1: saepe LBA; del. F3
furono inviati doni di ringraziamento a Delfi, una corona d’oro di duecento libbre Il fr. 100 può essere riferito con certezza a un episodio della seconda guerra punica; pertanto, lo stampo insieme alle altre citazioni “storiche” relative a questa guerra, seguendo la cronologia degli eventi di volta in volta narrati nei frammen421
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ti. Nel 205 a.C., prima della partenza di Scipione per l’Africa, si erano tenuti a Roma grandi festeggiamenti ed era stata inviata una corona d’oro di duecento libbre a Delfi come dono ad Apollo, in ringraziamento per le vittorie conseguite al Metauro e in Spagna. Il fatto è narrato da Liv. 28, 45.12, ludi deinde Scipionis magna frequentia et favore spectantium celebrati. legati Delphos ad donum ex praeda Hasdrubalis portandum missi M. Pomponius Matho et Q. Catius. tulerunt coronam auream ducentum pondo et simulacra spoliorum ex mille pondo argenti facta, che concorda alla perfezione col fr. 100. Livio parla anche altrove di “coronae aureae”, spesso di notevole peso, offerte come dono onorifico o di ringraziamento da parte di intere comunità (vedi Liv. 7, 38.2, Carthaginienses quoque legatos gratulatum Romam misere cum coronae aureae dono, quae in Capitolio in Iovis cella poneretur; 32, 27.1, eodem anno legati ab rege Attalo coronam auream ducentum quadraginta sex pondo in Capitolio posuerunt; 36, 35.12-13, Philippi regis legati … in senatum introducti, gratulantes de victoria. iis petentibus, ut sibi sacrificare in Capitolio donumque ex auro liceret ponere in aede Iovis Optimi Maximi, permissum ab senatu. Centum pondo coronam auream posuerunt; 38, 9.13, Ambracienses coronam auream consuli centum et quinquaginta pondo dederunt; 43, 6.5, Alabandenses … coronam auream quinquaginta pondo, quam in Capitolio ponerent donum Iovi Optimo Maximo, attulisse; in altri due passi Livio non indica il peso della corona in libbre, ma impiega criteri di stima differenti: a 38, 14.4 menziona una corona aurea dal valore di quindici talenti, a 44, 14.3 parla di una corona che valeva ventimila filippi) o fatte sfilare, come simbolo di vittoria, al trionfo di generali romani (come al trionfo di Marco Fulvio Nobiliore e Gneo Manlio Vulsone (a. 187 a.C.), vedi 39, 5.14, aureae coronae centum duodecim pondo ante currum latae sunt e 39, 7.1, in triumpho tulit Cn. Manlius coronas aureas ducenta duodecim pondo; tuttavia, il testo di Livio è controverso in entrambi i casi (vedi Briscoe 2008, p. 223 e p. 227), per cui questi paralleli vanno considerati con una certa cautela). Per le formule di dedica del fr. 100, vedi Liv. 2, 22.6, coronam auream Iovi donum in Capitolium mittunt; 3, 57.7, ab Latinis et Hernicis legati gratulatum … Romam venerunt donumque … Iovi Optumo Maximo coronam auream in Capitolium tulere parvi ponderis, prout res haud opulentae erant colebanturque religiones pie magis quam magnifice (per la considerazione moralistica sulla semplicità dell’antico culto che chiude questo brano, cfr. frr. 6, 7 e 8); 4, 20.4, dictator coronam auream libram pondo ex publica pecunia populi iussu in Capitolio Iovi donum posuit (cfr. 7, 10.14; 28, 39.15). 422
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Circa l’invio da Roma di altri oggetti d’oro al santuario di Apollo a Delfi, come dono di ringraziamento, vedi Salvadore 2004, p. 125. 101 (= 102 R.; 423 S.) itaque rettulit auri pondo mille octingentum septuaginta quinque. Graeci † enim herona mole † dixerunt 1: auro CA | quinque *** Müller; 2: herona LBA, heron F3 | mole] mille ed. 1476; 1-2: locum corruptum restituerim: Graeci eum ἱερομνάμονα dixerunt; Graeci enim λίτραν a mole dixerunt Canter; Graeci αἱροῦν MDL edixerunt (vel esse dixerunt) Lindsay (“fortasse” in app.) Non. p. 217.14-16: PONDO MILLE OCTINGENTVM nove Varro de vita populi Romani lib. III 2: III F3, Kettner, Rip., Sal.; IIII LBA, Müller
e così riportò un bottino di mille ottocento settantacinque libbre d’oro. I Greci … Gran parte del frammento è interessata da una grave corruttela, che ne ha ridotto il testo a una stringa inintellegibile; nella parte della citazione ancora sana, si parla di un personaggio che, in seguito a una spedizione bellica, riporta un bottino di mille ottocento settantacinque libbre d’oro (per questo uso di “refero”, cfr. Plaut. Truc. 508, ecquae spolia rettulit?; Nep. Timoth. 1.2, mille et cc talenta praedae in publicum rettulit; Liv. 10, 39.14; 26, 47.7; vedi OLD 1594.1c). Il frammento non offre ulteriori indicazioni, per cui, almeno in una prima fase, non possiamo stabilire a quale condottiero e a quale episodio bellico si riferisca di preciso la citazione. Di qui lo scetticismo di Riposati (p. 225), che rinuncia a esprimersi sul contenuto del frammento e si mantiene su posizioni generiche (“qualche episodio di conquista romana durante le guerre puniche”) o di Salvadore, che non propone nessuna identificazione nell’apparato delle fonti (p. 126). Come dicevo, la seconda parte è tradita nei codici in forma sicuramente corrotta, con una vox nihili (“herona”) e due termini sospetti (“enim” e “mole”; Salvadore considera disperato soltanto “heron”, io ho ritenuto più prudente estendere la porzione di testo tra cruces, perché non credo si possa dare per scontato, come farebbe propendere l’assetto dato da Salvadore, che “enim” e “mole” siano sani; sulla scelta fra stampare fra cruces “heron” o “herona”, vedi infra). 423
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Sulla base di “Graeci … dixerunt”, gli editori hanno pensato che, a questo punto, Varrone introducesse una nota etimologica. Si è quindi cercato di individuare nella stringa corrotta qualcosa che potesse intendersi come un equivalente di “pondo” in greco, in modo da avere un discorso del tipo: “riportò un bottino di tot libbre. I Greci infatti le chiamarono …”. Per discutere questa ipotesi in generale, dubito che una nota linguistica del genere, inserita in un contesto simile, possa sfuggire all’impressione di essere connessa in modo maldestro con quanto precede; inoltre, l’uso del passato “dixerunt” risulta anomalo in un’aggiunta erudita, che richiederebbe piuttosto il presente, e proprio l’“enim” che dovrebbe fare da ponte fra le due sezioni sarebbe poco comprensibile sul piano logico. La correzione più insistita in questa direzione è quella di Canter (“Graeci enim λίτραν a mole dixerunt”), una proposta improbabile sul piano paleografico e anche su quello del senso: per quanto λίτρα sia la traduzione greca di “pondo”, non sussiste alcun legame etimologico fra λίτρα e “moles”. Anche Kettner pensa che la seconda parte del frammento contenesse una nota linguistica, ma pensa che questa fosse un’aggiunta, poi corrottasi, di Nonio, che, dopo aver citato il fr. 101 per la forma “pondo mille octingentum”, avrebbe voluto fornire una sua etimologia di “pondo”; di conseguenza, fa finire il frammento a “quinque” (in questo è seguito da Riposati, che però attribuisce a sé la soluzione: “Nonii mihi esse videntur”). La proposta “scettica” di Kettner è però smentita dall’usus di Nonio, che di norma evita di aggiungere altro materiale oltre alle citazioni fornite a corredo delle voci. Simile è l’ipotesi di Müller, che attribuisce anche la seconda parte del frammento a Varrone, ma pensa che fra “quinque” e “Graeci” sia caduta una porzione di testo, che conteneva un collegamento logico fra le due sezioni, e che ciò abbia determinato anche la corruttela irrecuperabile della seconda parte (stampa “quinque *** Graeci enim † heron † a mole dixerunt”). Da quanto si è detto, dovrebbe essere chiaro che intendere “dixerunt” nel senso di “chiamarono” e pensare che l’ultima parte del frammento contenesse una nota linguistica non porta a risultati di particolare valore. Lindsay è il primo a sospettare che “dixerunt” possa intendersi anche in un altro modo: in apparato propone la congettura “Graeci αἱροῦν MDL edixerunt”. Tuttavia, anche questa proposta risulta difficoltosa: la correzione, sul piano paleografico, è piuttosto ardita e propone un testo dal significato davvero dubbio. Lindsay rimanda a Bücheler 1901, p. 324, dove si discute l’uso di αἱροῦν nei papiri egiziani nel senso di “rata” e suggerisce di interpretare la sua correzione come “i Greci imposero una rata di millecinquecento 424
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(libbre)”; il testo proposto, però, rimane difficile da legare a quanto precede, impone troppe integrazioni a senso per essere tradotto né migliora il significato generale del frammento (ma anzi forse lo rende ancora più oscuro). Un ultimo tentativo di scorgere un senso nel testo tradito potrebbe essere quello di vedere in “mole” le tracce di un commento moralistico sull’entità spropositata del bottino; purtroppo, il resto della citazione non offre alcun elemento che appoggi questa lettura. Non resta, a questo punto, che concentrarci sul tradito “herona / heron”. Dei codici di Nonio, L e la famiglia BA hanno “herona”, mentre il correttore F3 (Lupo di Ferrières, che riporta varianti, spesso poziori, attinte a un ramo indipendente della tradizione) trasmette la lezione “heron” (testo stampato, pur fra croci, da Lindsay e Salvadore). Sospetto che gli editori abbiano favorito, fra le due lezioni concorrenti, “heron” di F3, a causa del grande valore che in genere hanno le correzioni di F3. Tuttavia, vi sono dei casi in cui Lupo riporta come varianti delle corruttele proprie del suo modello (con la conseguenza che la correzione F3 dà il testo sbagliato): anche qui non possiamo escludere che, fra “herona” ed “heron”, sia la seconda la forma più corrotta. Inoltre, “heron” ha l’aria di essere un rabberciamento “grecizzante” della vox nihili “herona”. Nel tentativo di restaurare il nostro passo, quindi, la variante “herona” va presa in considerazione tanto quanto “heron”. Per quanto riguarda “dixerunt”, il verbo potrebbe anche voler dire “nominarono”, nel senso di “conferirono un titolo onorifico”; se così fosse, il tradito “enim” che, abbiamo visto, come connettivo è piuttosto fiacco, potrebbe essere la corruttela di un “eum” oggetto di “dixerunt” (la confusione fra “enim” ed “eum” è facile sia in capitale sia in carolina, in quanto le due parole possono presentarsi come una “e” seguita da una serie di aste verticali; lo scambio può essere inoltre facilitato dalla somiglianza dei compendi “eū” per “eum” ed “ē” per “enim”). A questo punto, avremmo un testo provvisorio: “Graeci eum † herona mole † dixerunt”; potremmo allora partire dalla stringa corrotta per tentare di risalire al titolo conferito dai greci al personaggio in questione. Sulla base dell’evidenza paleografica, proporrei “ἱερομνάμονα”191. Questo termine (vedi LSJ 821-822) La parola potrebbe essere stata traslitterata in caratteri latini (“hieromnamona”) ed essersi così ulteriormente corrotta: “hieromn-” sarà diventato “hieron”, e anche “amona” poteva diventare “amole” in fase di traslitterazione (la confusione fra Λ e N è comunissima, così come quella fra A ed E, che in questo caso poteva anche essere favorita dalla tendenza di un copista a latinizzare la desinenza in “-em”: il prestito “hieromnemon, -onis” è effettivamente attestato in epigrafi latine, vedi ThLL VI 2781.79-2782.4). 191
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indicava originariamente qualunque sacerdote avesse a che fare con compiti sacrali; col tempo, gli ἱερομνάμονες (o ἱερομνήμονες, in base al dialetto) assumono funzioni più specialistiche, da quella di segretari a quella di giudici e arbitri in determinate questioni e, in senso più tecnico, di ambasciatori dell’Anfizionia delfica: il condottiero romano del fr. 101 potrebbe appunto essere stato accolto nell’Anfizionia e aver ricevuto questo titolo. Forse è ancora più importante notare che a volte gli autori greci, per tradurre il nome di una magistratura romana, usano proprio ἱερομνάμων (Plutarco e Dionigi traducono così “pontifex”; Flegonte di Tralle “quindecemviri”); ciò porterebbe a supporre che nel nostro frammento ἱερομνάμονα vada inteso come una sorta di titolo onorifico conferito dai Greci in segno di rispetto per un Romano che ammiravano. Con la mia correzione “Graeci eum ἱερομνάμονα dixerunt”, la seconda parte del frammento proseguirebbe il discorso sul personaggio che aveva riportato tante libbre d’oro come bottino da una campagna militare e aggiungerebbe la notizia che i Greci lo onorarono decretando per lui il titolo di ἱερομνάμων. Dal momento che i codici di Nonio attribuiscono il fr. 101 al terzo o al quarto libro del de vita, il condottiero andrebbe identificato con un personaggio che abbia guidato una campagna militare e celebrato il trionfo nell’arco cronologico che va dalle guerre puniche alla guerra civile fra Cesare e Pompeo (appunto il periodo coperto dalla parte storica dei ll. 3 e 4). Questo condottiero deve, inoltre, aver avuto dei contatti con i Greci, se è vero che questi gli conferirono un titolo o un sacerdozio. Fra i vari candidati che possono essere citati, il migliore è, a mio parere, Tito Quinzio Flaminino: dopo la vittoria di Cinoscefale del 197 a.C., Tito proclama, ai giochi istmici dell’anno successivo, la libertà di tutta la Grecia, che poi attraversa ricevendo ovunque onori e dediche (sul culto della figura di Flaminino e gli onori a lui conferiti da parte dei Greci, vedi Pfeilschifter 2005, p. 19 n. 3; p. 219 n. 93; pp. 271-273; le fonti principali sono Pol. 18, 46 e Plut. Tit. 12.; circa le fonti epigrafiche non solo sulla concessione di onori a Flaminino vivente, ma anche sul culto eroico della sua persona dopo la morte, vedi RE XXIV coll. 1075-1076; Wallbank 1967 II 613614; Bruen 1984, p. 167). Lo stesso Tito, al suo ritorno a Roma nel 194, celebra un trionfo di tre giorni, nel corso del quale sfila un ricco bottino, composto anche da alcune migliaia di libbre d’oro grezzo (cfr. Plut. Tit. 14 e Liv. 34, 52)192. Va detto che l’esatto ammontare del bottino potrebbe costituire un problema per l’identificazione del soggetto del frammento con Flaminino. La cifra riportata dalle altre fonti è infatti
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Se il fr. 101 si riferisce a Flaminino, abbiamo un elemento prezioso per risolvere anche la questione del libro di provenienza del frammento. L e BA lo attribuiscono al l. 4, il correttore F3 al l. 3. Credo che l’attribuzione al terzo libro, in cui Varrone appunto narrava le campagne condotte da Roma nel Mediterraneo, dalle guerre puniche al 133 a.C. (arco cronologico in cui rientra a buon diritto anche quella di Flaminino), possa essere accolta con buona probabilità. In ogni caso, anche a prescindere dalla correzione che ho proposto e dalla mia ipotesi che il frammento alluda a Flaminino, la menzione di un ricco bottino si accorda meglio con il contesto del l. 3, in cui erano passate in rassegna le conquiste vittoriose in Grecia e in Oriente, che con quello del l. 4, che aveva per oggetto la deplorazione delle guerre civili e della corruzione dello Stato romano. Rimane un unico punto problematico per la mia ricostruzione: mancano testimonianze esplicite del fatto che a Flaminino fosse conferito il titolo di ἱερομνάμων. Tuttavia, numerose epigrafi attestano che Flaminino fu non solo associato da diverse comunità ai loro culti cittadini (cosa che poteva includere anche la nomina a ἱερομνάμων), ma anche fatto oggetto di un vero e proprio culto personale, in quanto Σωτήρ della Grecia (per cui gli fu attribuito anche l’epiteto di Zeus Ἐλευθέριος). Plutarco (Tit. 16) attesta che ancora ai suoi tempi era eletto ogni anno uno ἱερεὺς Τίτου, mentre ad Argo si festeggiavano dei Τίτεια (vedi Daux BCH 88, 569-576). Credo quindi che la possibilità che a Flaminino fosse stato concesso anche il titolo di ἱερομνάμων sia alta. In alternativa, data la notizia sicura del fatto che gli fu conferito un culto eroico, si potrebbero tentare soluzioni che vadano più decisamente in questa direzione, come “Graeci eum ἥρωα dixerunt” o “Graeci ei ἡρῷα addixerunt” (si tratta però di proposte che mi convincono di meno, in quanto non riescono a spiegare l’origine della corruttela “mole”). quasi doppia rispetto a quella data da Varrone: Plutarco parla di 3713 libbre, Livio di 3714. Più vicina alla cifra fornita nel fr. 101 è quella di 2103 libbre riferita al trionfo di Manlio Vulsone del 187 (vedi Liv. 39, 7.1); anche Vulsone aveva combattuto in Grecia Settentrionale e, in quanto vincitore dei Galati, tradizionale minaccia per le città greche, avrebbe potuto essere omaggiato e celebrato da queste. Tuttavia, diversamente che per Flaminino, non abbiamo attestazioni esplicite del filellenismo di Vulsone o di un culto della sua personalità. Va inoltre tenuto conto della facilità con cui le cifre possono essere trasmesse in modo diverso da fonte a fonte e corrompersi in fase di copia: Varrone poteva anche seguire una tradizione diversa da quella poi confluita in Livio o uno dei due poteva attingere a una fonte in cui la somma esatta si fosse già corrotta.
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102 (= 112 R.; 415 S.) quot ex hereditate Attalica aulaea, clamides, pallae, plagae, vasa aurea Non. p. 861.14-16: AVLAEA, genus vestis peregrinum. Varro de vita populi Romani lib. III: “q. e. h. A. aulaea, clamides, pallae, plallae, aurea” 2: pallae PLALLAE (nov. lemm.) LCA; pallae pallae AA; pallae BA | aurea LCA; aulea AA; aureae BA
Non. p. 862.19-22: PLAGAE, grande linteum tegmen quod nunc torale vel lectuariam sindonem dicimus; quarum diminutivum est plagulae. Varro de vita populi Romani lib. III: “clamides, plagae, vasa aurea”
quanti furono i drappi, le clamidi, le tuniche, le coperte, i vasi d’oro ricevuti in eredità col lascito di Attalo III Il frammento si ricostruisce nel suo complesso a partire da due citazioni parziali di Nonio. La prima è indispensabile, in quanto fornisce il testo più ampio ed è l’unica a preservare il riferimento all’eredità di Attalo III, ma presenta delle corruttele testuali in più punti, che, per fortuna, possono essere sanate col confronto con la seconda citazione. Questa, nel riportare la pericope “clamides, pallae, plagae, vasa aurea” ha omesso “pallae” per un banale errore di copia (la vicinanza con “plagae” rende molto alta la possibilità che, in fase di dettatura, uno dei due termini simili e adiacenti venisse omesso), ma ha anche preservato la lezione giusta “plagae”, che, nell’altra citazione, è trasmessa dai codici di Nonio in forma corrotta (L e CA hanno “pallae plallae” e la confusione è aumentata dal fatto che presentano “PLALLAE” come se si trattasse di un nuovo lemma; AA ha ulteriormente banalizzato “pallae plallae” in “pallae pallae”, mentre il “doctored Nonius” BA ha espunto il termine che non tornava, lasciando a testo solo “pallae”). La seconda citazione ha conservato anche un’altra parola omessa nella prima, ossia “vasa”. Salvadore, stranamente, corregge il testo della prima citazione in “pallae plagae”, sulla base della seconda, ma non recupera “vasa” e stampa, di conseguenza, “quot ex hereditate Attalica aulaea, clamides, pallae, plagae, aurea”. Evidentemente Salvadore pensa che “aurea” vada riferito a un termine neutro presente nel seguito della citazione ed escluso dal taglio operato da Nonio e che il “vasa” che troviamo nei codici quando Nonio riporta il frammento per la seconda volta sia un’integrazione ope ingenii di qualche anonimo correttore. La dinamica supposta è però davvero macchinosa, mentre risulta molto più economico supporre che “vasa aurea” fosse il testo di Varrone e che “vasa” sia stato 428
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omesso in fase di copia nella prima citazione (tanto più che questa trasmette in modo corrotto anche il termine precedente: il guasto testuale che si è verificato in questo punto poteva ben comportare anche la perdita di “vasa”). Va poi osservato che nel frammento Varrone presenta una sorta di elenco composto da tre sostantivi: ritengo dunque preferibile pensare che anche il quarto membro della serie si aprisse con un sostantivo (“vasa aurea”), piuttosto che con un aggettivo (il solo “aurea”) riferito a un nome che compariva in seguito. Inoltre, il brano di Plin. n. h. 33, 148 sull’introduzione del lusso a Roma (citato anche da Salvadore, p. 122) parla esplicitamente di vasi d’oro portati in trionfo e lascia intendere che questo tipo di suppellettile preziosa comparisse anche nell’eredità di Attalo (Asia primum devicta luxuriam misit in Italiam, siquidem L. Scipio in triumpho transtulit argenti caelati pondo mille et CCCC et vasorum aureorum pondo MD. at eadem Asia donata multo etiam gravius adflixit mores, inutiliorque victoria illa hereditas Attalo rege mortuo fuit). Il frammento si riferisce a un episodio storico ben definito: nel 133 a.C., il re di Pergamo Attalo III Filometore, privo di eredi, lasciò, in punto di morte, il proprio regno in eredità al popolo romano, mosso dalla considerazione della necessità di anticipare le rivendicazioni che Roma avrebbe mosso sul regno e di prevenirne la conquista armata. La cessione di Pergamo è una vicenda cruciale perché segna l’acquisizione da parte di Roma, dopo la recente conquista del regno di Macedonia nelle guerre contro Filippo V, contro Perseo e nella repressione della rivolta delle città greche, conclusasi con la presa e la distruzione di Corinto (146 a.C.), di un ulteriore regno ellenistico e costituisce l’ultimo grande episodio di espansione romana nel Mediterraneo del periodo. La cessione dell’eredità di Attalo (che, oltre al regno, doveva consistere anche e soprattutto nel cospicuo tesoro di stato, della cui ricchezza e opulenza il fr. 102 ci offre un assaggio) ha conseguenze fondamentali sulla vita politica romana: Tiberio Gracco proporrà, infatti, fra le sue riforme, di impiegare le ricchezze dell’eredità per l’acquisto di sementi e attrezzi agricoli per la plebe e di ricavare dalle stesse terre del regno lotti da assegnare ai nullatenenti. In questo modo, la questione dell’impiego dell’eredità di Attalo viene a porre le basi per lo scoppio delle prime lotte civili a Roma e l’avvio del periodo di tensioni politiche che culminerà nelle guerre civili (argomento del l. 4 del de vita). Per questo ipotizzo che la donazione del regno di Attalo fosse uno degli ultimi eventi storici narrati nel libro e che la menzione di questo episodio potesse essere impiegata da Varrone per anticipare la trattazione delle guerre 429
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civili propria del libro successivo (vedi anche quanto detto nell’introduzione sulla struttura del l. 3). Inoltre, il passo di Plinio sopra citato conferma come, nella tradizione moralistica, l’acquisizione dell’eredità di Attalo venisse considerata l’inizio della diffusione del lusso e della decadenza morale a Roma. Dal momento che diverse citazioni del l. 4 sono dedicate proprio alla critica moralistica contro l’accumulo di ricchezze e gli eccessi del lusso privato, il fr. 102 poteva fungere adeguatamente da ponte fra i due libri anche sotto questo aspetto. La citazione consiste in una interrogativa indiretta, che immagino fosse introdotta con una formula del tipo “sarebbe superfluo riferire quot ex hereditate ecc.”. Mi sembra più probabile pensare che Varrone accennasse all’argomento con una sorta di preterizione, piuttosto che usasse il fr. 102 per introdurre una presentazione dettagliata dell’ammontare del tesoro di Attalo (“adesso dirò quot ex hereditate ecc.”), il che non si accorderebbe con la brevitas caratteristica di tutti i frammenti del de vita che trattano di eventi storici. Per quanto riguarda il contesto generale, è possibile che Varrone, giunto al termine della rassegna delle conquiste e delle vicende militari del periodo, passasse a introdurre un nuovo tema, con una transizione come “allora il lusso fece il suo ingresso a Roma”. Il tesoro di Attalo poteva così essere citato come uno dei primi esempi di massiccio afflusso di ricchezze dall’Oriente. Per le considerazioni sopra presentate, non escluderei che Varrone potesse far seguire alla menzione del tesoro di Attalo anche un accenno ai tumulti che la donazione avrebbe causato a Roma (e.g. “inde seditio Gracchana orta”). Nel frammento sono nominati diversi capi di abbigliamento. Per la “palla” (tunica femminile con cappuccio) e le “plagae” (meglio note nella forma “plagulae”, si tratta di coperte o lenzuoli), vedi quanto detto ai frr. 92 e 11; ovviamente, in quanto parte del tesoro reale, non dovevano essere indumenti di foggia comune, ma è probabile che fossero realizzati in materiale pregiato e presentassero una particolare lavorazione. Il termine “aulaea” designa dei drappi di stoffa di grandi dimensioni (lo si usa infatti per indicare le cortine di un letto, i tendaggi, la tappezzeria o il sipario di un palco: vedi OLD 215 e ThLL II 1459.56-1461.29); gli “aulaea” del tesoro di Attalo, nello specifico, erano una sorta di arazzi ricamati con filo d’oro, che sembrano aver particolarmente impressionato i Romani. Lo deduciamo dal fatto che “aulaea Attalica” diviene l’espressione canonica per definire questo tipo di tappezzeria di lusso: vedi Prop. 2, 32.12, Pompeia … porticus, aulaeis nobilis Attalicis; Sil. 14, 659-660, quaeque Attalicis variata per artem / aulaeis scribuntur acu. La notizia che tali drappi giunsero a Roma con l’eredità di 430
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Attalo III sembra confermata da Serv. ad G. 3, 25: aulaea autem dicta sunt ab aula Attali regis, in qua primum inventa sunt vela ingentia, postquam is populum Romanum scripsit heredem (cfr. Serv. ad Aen. 1, 697; Isid. et. 19, 26.8; vedi anche Plin. n. h. 8, 196). L’uso di “Attalica aulaea” doveva essere considerato un segno di gran lusso: in un contesto di condanna degli eccessi, Val. Max. 9, 1.5 include fra i costumi biasimati anche quello di tappezzare le pareti con “Attalica aulaea” (cfr. Sall. hist. fr. 2, 59, dove la pratica di apparecchiare una tavola con “aulaea” è definita ultra Romanorum ac mortalium morem). “Chlamys” è un chiaro prestito dal greco χλαμύς e designa appunto la clamide (mantello corto da cavaliere), ben nota in ambito sia greco (vedi LSJ 1993) sia latino (vedi OLD 310 e ThLL III 1011.73-1013.4). I codici di Nonio, che trasmettono la grafia “clamides”, non “chlamides”, potrebbero conservare un tratto di lingua arcaica proprio dello stile di Varrone. Come si è detto a proposito degli “aulaea”, i tessuti dell’eredità di Attalo dovevano essere di una ricchezza mai vista prima dai Romani: ne è la prova il fatto che l’aggettivo “Attalicus” viene impiegato in modo antonomastico proprio per definire vesti e drappi di gran pregio (vedi Cic. Verr. II 5.27; Prop. 2, 13.22; 3, 18.19-20; 4, 5.23-24; Plin. n. h. 33, 63; 36, 115; 37, 12). 103 (= 113 R.; 416 S.) ad Sybaritanam praedam, in qua sunt tripodes, creterrae, anancaea, opera nobilium toreutarum 1: in quam sunt dubitanter scripserim; creterraen hanc ea CA; 2:tareutarum LAA A B ; tartuiarum CA, corr. Roth Non. p. 878.23-1: CRETERRA est quam nunc situlam vocant […] Varro de vita populi Romani lib. III 1: creterra LBA; creterra (H) vel craterra (E; cartera P) AA; craetera DA; cretera (Lugd., Bamb.) vel caetera (Paris. 7666) CA
al bottino tratto da Sibari, comprendente tripodi, crateri, grosse coppe, opere di orafi rinomati È difficile risalire al contenuto esatto di questo frammento. Dal momento che si tratta di un elenco di beni di lusso facenti parte di un bottino, presenta delle affinità con il fr. 102. Non si può tuttavia dire, sulla base dei pochi resti della 431
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citazione, se i due frammenti appartenessero effettivamente allo stesso contesto oppure se la loro apparente consonanza sia solo un dato casuale. Ancora, il fr. 103 sembra contenere un riferimento preciso a un fatto storico, dato che l’espressione “Sybaritana praeda” può essere intesa soltanto come “il bottino tratto da Sibari”, un fatto che, purtroppo, non può essere identificato. Salvadore (pp. 122-123) rimanda a un passo di Plinio (n. h. 7, 86), dove si racconta che il giorno in cui Sibari fu espugnata e distrutta dai Crotoniati il fragore della battaglia fu avvertito fino a Olimpia. Ma la vicenda cui allude Plinio si svolse nel 510 a.C., ben lontano dall’arco cronologico coperto dalle vicende narrate nel l. 3, e, per giunta, non ebbe alcuna interferenza con la storia romana (il che rende improbabile che venisse citata nel de vita). Piuttosto, il passo farebbe pensare al bottino ricavato dai Romani nel corso di un episodio bellico che comprendeva la presa di Sibari. Il punto è che le fonti antiche non tramandano la notizia di un assedio di Sibari condotto dai Romani nel periodo interessato dal l. 3. L’ipotesi meno inverosimile è che, se ci fu un sacco di Sibari, questo avesse luogo nel corso della seconda guerra punica, negli anni che vanno dalla battaglia di Canne al trasferimento della guerra in Africa, quando appunto Annibale e Roma si contendevano l’appoggio delle città italiche dell’Italia Meridionale: Sibari avrebbe potuto appoggiare Annibale ed essere stata assediata e saccheggiata dai Romani per rappresaglia; il bottino di cui parla il frammento potrebbe essere stato raccolto in questa occasione (sull’appoggio fornito ad Annibale dalle città della Magna Grecia, in particolare proprio da Metaponto, Thurii e Crotone, che sorgevano nella regione dell’antica Sibari, e sulla punizione che subirono, vedi Reid 1915, pp. 99-101 e p. 105). Va però osservato che, nel periodo in questione, Sibari non aveva più questo nome, ma, dalla fondazione nel 443 a.C. della colonia panellenica, portava il nome di Thurii; in ogni caso, il fatto che nel 193 i Romani fondassero una colonia (Copia) sul territorio dell’antica Sibari/Thurii rende plausibile l’ipotesi che le città della zona fossero state distrutte e spopolate nel decennio precedente come punizione per aver sostenuto Annibale. Purtroppo, la perdita del contesto non permette di procedere oltre nell’identificazione dell’episodio trattato dal fr. 103. Sulla base delle osservazioni sopra condotte, infatti, possiamo avanzare numerose ipotesi di ricostruzione diverse, fra cui è difficile scegliere. Una prima possibilità è che Varrone, nella sezione sul lusso e sull’arrivo di grandi quantità di ricchezze a Roma in seguito alle conquiste belliche da cui sembra provenire il fr. 102, accennasse anche ad altri episodi ana432
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loghi, come l’incameramento del “bottino di Sibari” e della suppellettile preziosa che ne faceva parte. Se così fosse, avremmo un motivo per stampare il fr. 103 a stretto contatto con il fr. 102, in quanto potevano appartenere alla stessa sezione. In accordo con questa ricostruzione, per dare un senso al sintagma pendens “ad Sybaritanam praedam” si potrebbe integrare o qualcosa come “ al bottino di Sibari, che è composto da…” (Varrone poteva parlare del bottino ottenuto lo stesso anno dalla presa di Sibari e di un’altra città, per cui quello che era stato guadagnato in una si aggiunse al bottino dell’altra, oppure dire che le ricchezze incamerate in una data occasione furono aggiunte, nell’erario, al bottino di Sibari, o addirittura, se il fr. 103 va avvicinato al fr. 102, su questa strada si può arrivare a dire che le ricchezze dell’eredità di Attalo si aggiunsero a quelle del bottino di Sibari; come si vede, le possibilità sono teoricamente infinite), oppure una frase come “ ad Sybaritanam praedam ecc.” (Varrone, con spirito polemico, avrebbe potuto rappresentare così i Romani intenti ad accaparrarsi le ricchezze del bottino). Se ammettessimo l’eventualità che la “Sybaritana praeda” costituisse una sorta di tesoro ancora visibile al tempo di Varrone, perché presente nell’erario o custodito presso un tempio, potremmo giustificare l’uso del presente “sunt”: Varrone, nel dire che un certo quantitativo di ricchezze era confluito nel bottino di Sibari, avrebbe potuto riferirsi a un fondo pubblico ancora esistente e a una realtà immediatamente verificabile da parte dei lettori. Si può ipotizzare, però, anche un’altra ricostruzione: il fr. 103 poteva appartenere al resoconto storico della seconda guerra punica e alludere appunto alla distruzione di Sibari come punizione per l’appoggio dato ad Annibale e al ricco bottino ricavato dal saccheggio della città. In tal caso, per il fr. 103 andrebbe proposta una collocazione differente: andrebbe infatti stampato, per riguardo alla cronologia, accanto al fr. 99. È possibile ancora una terza strada: visto che al tempo di Varrone Sibari si chiamava Thurii, ma sappiamo che Sibari, secoli prima, era stata conquistata dai Crotoniati, potrebbe darsi che il frammento dicesse che i Romani, intenti a punire Crotone per aver sostenuto Annibale, entrarono in possesso, fra le altre cose, del bottino che i Crotoniati avevano ottenuto nel 510 dalla distruzione di Sibari (la “Sybaritana praeda” del frammento) e che poteva essere ancora conservato, a quel tempo, in qualche tempio di Crotone. Va però osservato che, rispetto alla prima proposta di lettura, le altre due interpretazioni rendono problematico l’uso del presente “sunt”. Se infatti il fr. 103 si riferiva a eventi passati, che non avevano lasciato tracce o conseguenze ancora tangibili al tempo di Varrone, 433
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non si spiega l’espressione “in qua sunt”, che sembra fornire la descrizione di un oggetto presente, non il racconto di un episodio passato. Una possibile soluzione al problema sarebbe ipotizzare che, a causa di un guasto testuale dovuto alle vicende di tradizione (o addirittura di una distrazione commessa da Nonio stesso durante la confezione di questo lemma), sia caduto del testo prima di “sunt”. Con una piccola integrazione si potrebbe restituire una forma al passato (qualcosa come “in qua tripodes…”, oppure, operando una facile modifica a “in qua”, “in quam sunt tripodes…”) che permetterebbe di inserire il fr. 103 nell’ambito di un racconto storico senza problemi. Esito tuttavia a stampare l’intervento in quanto il frammento presenta troppi punti dubbi perché si possa procedere a modificarne la forma con quella che rischia di essere una banalizzazione. Come si è visto, poiché il fr. 103 si presta a troppe possibili interpretazioni, fra cui è difficile individuarne una poziore, ho scelto di stamparlo per ultimo fra quelli riferibili a vicende storiche: suppongo infatti che facesse comunque parte della sezione narrativa del l. 3, ma, dal momento che non posso individuare con certezza l’evento storico cui si riferiva, preferisco porlo in appendice agli altri frammenti “storici” del libro, come se si trattasse di un fragmentum incertae sedis. Il frammento menziona del vasellame, che dobbiamo supporre fosse di materiale prezioso. Varrone parla di tripodi, crateri (per la forma “creterra”, vedi fr. 48) e di “anancaea”. L’ultimo termine è un calco del greco ἀναγκαῖον e designa una coppa da vino di grandi dimensioni (vedi OLD 126 e ThLL II 16.61-65). Preferisco considerare “opera nobilium toruetarum” come un’apposizione riferita a tutti e tre i termini precedenti (“tripodes”, “creterrae” ed “anancaea”), piuttosto che riferirlo al solo “anancaea”: è verosimile infatti che tutte le componenti del bottino fossero opera di valenti orafi. Per l’esattezza, “toreuta” indica l’orafo specializzato nella preparazione di coppe, piatti, cucchiai e altri oggetti “da tavola” in argento cesellato o lavorato a rilievo (vedi OLD 1949-1950); per la mania dei Romani colti per questi capolavori di argenteria, vedi Cic. Verr. II 4.29-60, con il bel commento ad loc. di Baldo 2004. 104 (= 99 R.; 421 S.) quod antiqui pluris tabulas coniunctas codices dicebant, a quo in Tiberi navis codicarias appellamus Non. p. 858.11-18: CODICARIAS naves etiamnunc consuetudo appellat eo, quod in fluminibus sint usui. […] Varro de vita populi Romani lib. III. 1-2: eas, quae in fluminibus sunt Müller
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poiché gli antichi chiamavano “codici” più assi di legni unite, per questo motivo chiamiamo “codicarie” le navi sul Tevere I frr. 104 e 105 non sono inquadrabili nell’ambito di nessuna delle sezioni del l. 3 sopra delineate: non riguardano, infatti, né l’organizzazione dell’esercito né i riti funebri e non possono essere riferite con certezza a determinate vicende storiche, ma il fr. 104 fornisce l’etimologia (corretta) di un tipo di imbarcazione, il fr. 105 descrive un particolare costume previsto per celebrare il trionfo di un condottiero. Dal momento che ciascuna di queste citazioni va considerata a sé, ho preferito pubblicarle in appendice agli altri frammenti dello stesso libro. In questo frammento Varrone parla di una tipologia di imbarcazione propriamente romana, le cosiddette “naves codicariae”. Dalla citazione di Varrone ricaviamo diversi elementi: oltre all’etimologia del termine, veniamo a sapere che le “codicariae” erano realizzate con assi di legno tenute insieme in modo da formare una sorta di zattera e che si trattava di un tipo di imbarcazione piuttosto antico, nato per la navigazione fluviale. Per quanto riguarda il primo punto, Varrone dice che il termine “codicariae” deriva da “codex”, il cui significato primario è appunto quello di “legname” (il “codice” come materiale scrittorio prende appunto il nome dalle tavolette di legno impiegate originariamente come copertina): le “codicariae” sarebbero dunque le “navi realizzate con tavole di legno” (per “codex” come “tabula” o “insieme di assi”, vedi ThLL III 1404.10-20). L’etimologia è corretta193 e trova una conferma in Sen. brev. 13.4, hoc quoque quaerentibus remittamus, quis Romanis primus persuaserit navem conscendere:
A differenza di quella proposta da Nonio nel lemma (“codicarias naves etiamnunc consuetudo appellat eo, quod in fluminibus sint usui”), che quasi con certezza è dovuta a un fraintendimento del fr. 104 citato di lì a breve: Nonio tenta di parafrasare il contenuto del nostro frammento (da cui riprende acriticamente la movenza sintattica “eo quod”, cfr. “quod … a quo”) e, per spirito di generalizzazione, trasforma “in Tiberi” in “in fluminibus”, compromettendo così il senso esatto di tutta l’etimologia. Non concordo del tutto con la Salvadori (p. 171), secondo la quale Nonio si riferirebbe all’uso del suo tempo (“Nonio si richiama alla consuetudo per spiegare il nome della nave”): credo infatti che anche la nota “codicarias naves etiamnunc consuetudo appellat” sia “di seconda mano” e possa dipendere dalle parole di Varrone “navis codicarias appellamus”; del resto, non è affatto escluso che nel seguito immediato del frammento, subito dopo il taglio di Nonio, comparisse proprio l’avverbio “etiamnunc” (che Varrone impiega anche nei frr. 45 e 49).
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Claudius is fuit Caudex ob hoc ipsum appellatus, quia plurium tabularum contextus caudex aput antiquos vocatur, unde publicae tabulae codices dicuntur et naves nunc quoque ex antiqua consuetudine, quae commeatus per Tiberim subvehunt, codicariae vocantur, che coincide quasi alla perfezione con il fr. 104, tanto da rendere plausibile l’ipotesi che Seneca stia qui impiegando proprio Varrone come fonte per questa notizia antiquaria194 (ovviamente non possiamo dire se lo citasse di prima mano o attraverso una fonte intermedia, né, nel primo caso, se consultasse proprio il de vita – il che è improbabile – o piuttosto un’altra opera antiquaria in cui Varrone poteva presentare la stessa etimologia). Seneca conferma anche che le “codicariae” erano un tipo di imbarcazione antico e che venivano impiegate lungo il Tevere. In particolare, rispetto al fr. 104 il passo di Seneca aggiunge la preziosa informazione che le “codicariae” servivano principalmente per il trasporto di merci. La “romanità” di questo mezzo di trasporto trova un riscontro anche nel fatto che il loro nome non è un prestito dal greco, come avviene di norma per la maggior parte dei nomi di imbarcazione, ma è di formazione schiettamente latina: è probabile che le prime navi costruite dai Romani fossero proprio le “codicariae”, realizzate unendo grosse tavole di legno (vedi Fest. p. 40.13 L., caudicariae naves ex tabulis grossioribus factae) in modo da formare una sorta di zattera, per poter trasportare le vettovaglie lungo il corso del Tevere. Il fr. 104 e il passo di Seneca costituiscono le uniche fonti letterarie in nostro possesso su questo tipo di imbarcazione. Tuttavia, numerose epigrafi, nonché raffigurazioni in mosaici e graffiti, permettono di integrare le informazioni fornite da Varrone e da Seneca e di ricostruire l’aspetto esatto delle “codicariae” (i dati sono presentati e analizzati in dettaglio in Casson 1965, pp. 36-38, vedi anche p. 33, n. 16). Si trattava di imbarcazioni dalla forma piuttosto semplice (erano una specie di chiatte), caratterizzate dalla presenza di un piccolo albero a cui venivano legate delle lunghe gomene che pendevano ai due lati della nave. La funzione di queste corde era quella di facilitare il movimento delle navi contro corrente: degli uomini a riva, procedendo parallelamente alla “codicaria”, la trainavano per mezzo delle gomene collegate all’albero centrale (vedi Salvadori 1987, p. 172, n. 8 e fig. 4 e Casson 1965, tavv. III-V; un’operazione del genere è presupposta dalla
La derivazione di “codicariae” proposta da Seneca è la medesima di Varrone, che costituisce un precedente importante, e non può essere quindi definita «otherwise unattested» come sostiene il commento di G.D. Williams ad loc. (Cambridge 2003). 194
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descrizione del trasporto della statua della Magna Mater lungo il Tevere data da Ov. fast. 4, 297-298, sedula fune viri contento bracchia lassant: / vix subit adversas hospita navis aquas e probabilmente è descritta da Prop. 1, 14.4, tam tardas funibus ire ratis). Il compito principale delle “codicariae” era quello di trasportare via Tevere il grano dal porto di Ostia a Roma e a questa operazione, di vitale importanza per la sopravvivenza della città, presiedeva un apposito collegio di “codicarii” (vedi ThLL III 1407.60-74). Per quanto fosse nato a Roma per la navigazione del Tevere, questo tipo di imbarcazione poteva essere impiegato in generale per trasportare merci in qualsiasi fiume navigabile; lo testimonia il frammento dal l. 4 delle historiae di Sallustio che Nonio cita a questa voce insieme al fr. 104 (fr. 59), in cui si dice che Lucullo aveva ordinato la preparazione di cinquecento navi “codicariae” per il trasporto dei rifornimenti lungo l’Eufrate. Per maggiori informazioni sulle “codicariae” e un’analisi più approfondita dei punti che qui ho trattatto solo di sfuggita, rimando all’ottimo commento della Salvadori (1987, pp. 171-174). 105 (= 101b R.; 422 S.) ut eius convivium, qui triumpharet in Capitolio, videretur esse proprium et ipse potius domum redduceretur cenatus a convivio 1: videtur L | et Müller; ut codd., Rip., Sal.; 2: reduceretur Müller Non. p. 134.12-15: CENATVS, ut pransus, ut potus, ut lotus, id est confecta cena. Varro de vita populi Romani lib. III.
perché sembrasse che il banchetto spettasse esclusivamente a chi celebrava il trionfo sul Campidoglio e fosse lui, piuttosto (che i consoli), dopo aver cenato, ad essere riaccompagnato dal luogo del banchetto a casa Come per la citazione precedente, anche il contenuto del fr. 105 non può essere inserito nell’ambito di nessuna delle sezioni tematiche ipotizzate per il terzo libro195; ho scelto quindi di stamparlo per ultimo come fragmentum incertae sedis. 195 Riposati propone di connettere il fr. 105 al fr. 96, che contiene un accenno alla vittoria conseguita alle Egadi dal console Lutazio Catulo. Riposati sostiene che il fr. 96 facesse parte di una sezione (a sua volta compresa nella grande sezione sull’esercito) relativa alle norme che regolavano l’assegnazione del trionfo a un comandante e ai vari riti previsti per la cerimonia
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Come nota Thilo 1853, p. 27, il frammento sembra alludere a un costume descritto anche da Val. Max. 2, 8.6 (moris est ab imperatore ducturo triumphum consules invitari ad cenam, deinde rogari ut venire supersedeant, ne quis eo die, quo ille triumpharit, maioris in eodem convivio sit imperii) e Plut. quaest. R. 80 (διὰ τὶ τοὺς θριαμβεύσαντας ἑστιῶντες ἐν δημοσίῳ παρῃτοῦντο τοὺς ὑπάτους καὶ πέμποντες παρεκάλουν μὴ ἐλθεῖν ἐπὶ τὸ δεῖπνον; ἢ καὶ τόπον ἔδει τῷ θριαμβεύσαντι κλισίας τὸν ἐντιμότατον ἀποδιδόσθαι καὶ προπομπὴν μετὰ τὸ δεῖπνον; Ταῦτα δ̕ οὐκ ἔξεστιν ἑτέρῳ γίγνεσθαι τῶν ὑπάτων παρόντων, αλλ̕ ἐκείνοις). Soprattutto da Plutarco, la fonte più estesa su questa pratica, veniamo a sapere che era costume prima invitare i consoli al banchetto pubblico (vedi “ἐν δημοσίῳ”) organizzato in onore del trionfatore, poi mandare loro un messaggio in cui si chiedeva ai consoli di non presentarsi al banchetto: se fossero stati presenti, infatti, sarebbero loro toccati sia il posto d’onore a tavola, sia la scorta che, dopo il banchetto, li avrebbe accompagnati a casa (“προπομπὴν μετὰ τὸ δεῖπνον”), mentre era giusto che, nel giorno in cui si era celebrato un trionfo, questo onore spettasse al generale trionfatore. Riposati suppone che Varrone costituisca la fonte sia di Valerio Massimo sia di Plutarco e, di conseguenza, propone di stampare i due luoghi sopra citati come dei veri e propri frammenti del de vita. Questa scelta non mi convince: non solo non è detto che Valerio e Plutarco abbiano attinto proprio da Varrone (e non da un altro erudito) la notizia di questa tradizione, ma, anche ammessa la derivazione dell’informazione da Varrone, non potremmo ancora essere sicuri che Valerio e Plutarco l’abbiano ricavata da una lettura di prima mano e, soprattutto, proprio dal de vita populi Romani e non da un’altra opera antiquaria di Varrone. I miei dubbi sulla scelta di Riposati sono confermati anche dal fatto che il passo di Valerio e quello del trionfo; in particolare, ipotizza che Varrone, nel seguito della citazione, narrasse il dibattito sorto circa la legittimità di decretare o meno il trionfo per Lutazio Catulo, che, in quanto invalido per una ferita riportata in uno scontro precedente, non aveva preso attivamente parte alla battaglia delle Egadi. Tuttavia, la parte conservata del fr. 96 è troppo scarna perché si possa accogliere con certezza la ricostruzione di Riposati, che si presenta problematica sotto diversi aspetti (vedi comm. ad loc.). Se già non è sicuro che il fr. 96 si riferiva al problema dell’assegnazione del trionfo, a maggior ragione è difficile sostenere che la sede del fr. 96 fosse una sezione tematica relativa al trionfo romano e che il fr. 96 e il fr. 105 facessero parte entrambi di questa stessa sezione.
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di Plutarco presentano delle divergenze e che soltanto il secondo si accorda bene con il fr. 105. Valerio infatti sembra parlare di un banchetto tenuto a casa del trionfatore (dice infatti cha questi invitava a cena i consoli, nozione che diventa comprensibile solo pensando che la cena avesse luogo a casa sua), mentre Plutarco riferisce di un banchetto pubblico in onore del trionfatore e dice che erano gli organizzatori di questo banchetto a invitare i consoli a cena, non il trionfatore. Questo dato si accorda bene con la versione fornita dal fr. 105, dove è detto in modo esplicito che il trionfatore al termine del banchetto veniva riaccompagnato a casa: evidentemente, ciò non poteva avvenire se il banchetto si fosse tenuto a casa sua. Risulta dunque difficile pensare che Valerio abbia tratto le informazioni su questa tradizione dal de vita populi Romani (e non è nemmeno certo che si sia servito come fonte di Varrone); anche se non si può escludere che Valerio abbia frainteso la propria fonte, che poteva riferirsi a un banchetto pubblico, e abbia pensato a una cena a casa del trionfatore, ritengo preferibile non trascurare la divergenza tra il brano di Valerio Massimo e il fr. 105 e considerare, così, il primo soltanto come un passo parallelo, non come un frammento del de vita. Il brano di Plutarco, invece, coincide quasi alla perfezione con il fr. 105; tuttavia, questo è troppo ridotto per permettere un confronto completo con l’aition di Plutarco e quindi, anche in questo caso, è richiesta una certa prudenza. Comunque, il brano plutarcheo è davvero prezioso, in quanto permette di chiarire diversi punti del fr. 105 che, altrimenti, sarebbero rimasti oscuri. Nella pericope conservata da Nonio, non è rimasta la parte in cui Varrone descriveva il costume in questione (invito a cena dei consoli e successiva richiesta di non andare), ma si è salvata soltanto quella in cui l’autore spiegava il motivo per cui l’invito rivolto ai consoli veniva tradizionalmente “annullato”. Il “protagonista” del banchetto doveva essere il trionfatore, in onore del quale erano organizzati i festeggiamenti, e non doveva presenziare a tavola nessuno che avesse un’autorità superiore a quella del trionfatore. L’assenza dei consoli, ai quali anche il trionfatore avrebbe dovuto cedere il posto d’onore, faceva sì che il banchetto fosse davvero “soltanto del trionfatore” (“eius … qui triumpharet … esse proprium”). Inoltre, in questo modo al trionfatore sarebbe toccata la scorta d’onore al termine del banchetto (che, altrimenti, sarebbe spettata ai consoli) ed era lui, non i consoli, ad essere riaccompagnato a casa dopo la cena (“ipse potius domum redduceretur cenatus a convivio”). Anche in base al confronto con Plutarco, è molto probabile che Varrone, nella parte precedente la citazione, descrivesse il 439
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tradizionale invito ai consoli (con qualcosa come “era costume invitare i consoli al banchetto, poi mandare loro un messaggero a dire che non andassero”), per poi passare, nella parte trasmessa da Nonio, a specificare perché si faceva così. Tenderei dunque a considerare il frammento come una proposizione finale. Il frammento è trasmesso dai codici nella forma “ut eius convivium … ut ipse potius…”. Questa forma (accolta da Riposati e Salvadore) richiede una coordinazione per asindeto di due subordinate (“(sc. i consoli non partecipavano al banchetto) ut eius convivium … videretur esse proprium, ut ipse potius domum redduceretur”196) davvero dura. Per questo, preferisco accogliere la correzione di Müller di “ut” in “et”, che permetterebbe di avere in un’unica finale i due motivi per cui non era permesso ai consoli di partecipare al banchetto. Per quanto a prima vista “ut” potrebbe sembrare difficilior rispetto a “et”, va tenuto conto del fatto che in questo caso un copista che non avesse ben presente l’intero contesto della citazione poteva essere sviato dal vicino “redduceretur” e scrivere, per influsso del microcontesto, “ut” invece di “et”.
Libro IV Struttura del l. 4 I frammenti conservati del l. 4 riguardano quasi esclusivamente197 un unico argomento: la deplorazione delle guerre civili e la critica moralistica alla degenerazione dei costumi. La maggior parte delle citazioni concerne appunto eventi delle guerre civili (soprattutto di quella fra Cesare e Pompeo, ma non mancano riferimenti ad altre vicende, come ai disordini causati dalle proposte di Tiberio e Gaio Gracco, vedi fr. 108), mentre un gruppo più ristretto di frammenti (frr. 115-120) biasima, con vivace tono polemico, il diffondersi della corruzione, dell’utilitarismo e dell’indifferenza morale nella prassi politica e il dilagare del lusso e dell’osten Salvadore, pur stampando questo testo, non presenta la mia interpunzione, ma scrive “ut eius convivium … videretur esse proprium ut ipse potius domum redduceretur” senza virgola. Così la sintassi del brano risulta ancora più traballante, dal momento che “ut ipse potius …” sembra essere una subordinata di secondo grado retta da “ut eius convivium…” e non una subordinata di primo grado coordinata a questa, una possibilità che renderebbe il frammento quasi intraducibile. 197 L’unica eccezione è costituita dai frr. 107 e 121. 196
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tazione nella vita privata. La “lex Lindsay” non fornisce particolare aiuto per l’ordinamento delle citazioni da questo libro, in quanto possiamo utilizzare soltanto due serie di frammenti (una sicura: frr. 116 – 119 e una “fuori posto”: frr. 107 – 110). Nella prima serie un frammento in cui Varrone critica la corruzione politica del suo tempo ne precede uno in cui viene stigmatizzato il lusso privato. Sulla base di questa serie, sembrerebbe naturale stampare i frammenti dedicati alla critica della prassi politica prima di quelli in cui viene biasimato il lusso. In realtà, nulla esclude che la serie rifletta soltanto l’ordine di questi due frammenti e non vada impiegata come criterio per ordinare anche gli altri: Varrone, infatti, avrebbe potuto alternare in qualsiasi punto al racconto di episodi delle guerre civili un commento “indignato” sulla corruzione, l’ambizione e l’avidità che avevano portato a quello scontro, senza che per questo si debba supporre l’esistenza, nel l. 4, di una sezione specifica dedicata alla critica dei costumi, distinta rispetto al resoconto delle guerre civili, e che, all’interno di questa sezione, la critica alla corruzione politica dovesse precedere quella al lusso privato. Tuttavia, dal momento che disponiamo di un numero di frammenti davvero esiguo e, circa la struttura del l. 4, abbiamo dati ancora minori rispetto a quelli in nostro possesso per i ll. 1-3, per evitare di cadere in uno scetticismo totale e, soprattutto, per rendere la consultazione dei frammenti più fruibile al lettore, ho deciso di raccogliere insieme tutte le citazioni contenenti affermazioni di critica moralistica e di pubblicare quelle relative alla politica prima di quelle sul lusso. Ammesso, poi, che esistesse davvero una sezione espressamente dedicata alla critica dei costumi, purtroppo non possiamo dire se questa precedesse o seguisse il resoconto storico che Varrone dedicava alle guerre civili. Infatti, Varrone avrebbe tanto potuto aprire il libro con una tirata moralistica in cui la decadenza dei costumi veniva presentata come la causa principale dei contrasti politici sorti fra grandi personalità e dello scoppio delle guerre civili (come fa Sallustio, vedi Cat. 5.9-13, 53, frr. hist. 1, 8-13; o come avviene nel bellum civile di Petronio, Sat. 119.1-60), quanto far seguire questa parte al racconto storico, a mo’ di commento ai fatti narrati e di conclusione dell’intera opera. Forse la seconda soluzione sarebbe quella più incisiva: Varrone, al termine dei quattro libri del de vita populi Romani, avrebbe potuto considerare in maniera retrospettiva l’intero percorso storico del popolo romano e seguirne l’involuzione dai tempi gloriosi della monarchia e della prima repubblica (caratterizzati da uno stile di vita semplice e sano, dalla concordia politica e da grandiose imprese di conquista) fino alla de441
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generazione politica e morale dei suoi tempi, che aveva condotto allo spaventoso periodo delle guerre civili e alla crisi della repubblica ancora drammaticamente in atto nel momento in cui Varrone stava scrivendo il de vita (ricordo che l’opera fu probabilmente composta vicino al 43, data di pubblicazione del complementare de gente populi Romani)198. Nell’ambito di un tale “sguardo di insieme”, è possibile che Varrone decidesse di chiudere l’intera opera con una lunga e serrata critica, condotta in toni altamente retorici, quasi tragici, alla decadenza morale dell’età a lui contemporanea, che aveva condotto la “vita del popolo romano” tanto in basso. Pur con qualche dubbio, dovuto allo stato lacunoso dell’opera e alla perdita del contesto, ho quindi deciso di pubblicare i frammenti di critica moralistica dopo quelli relativi a eventi storici. Nella seconda serie di citazioni un frammento relativo a un problema di “storia della lingua” precede una citazione in cui è narrato un momento dello scontro fra Cesare e Pompeo. Non possiamo trarre grandi conclusioni da questa serie circa la struttura generale del libro; in ogni caso, grazie alla “lex Lindsay” possiamo sapere che il fr. 107 (che altrimenti avremmo dovuto relegare in appendice fra i fragmenta incertae sedis) precedeva il resoconto storico della guerra civile. Inoltre, sulla base di questa serie è lecito sospettare che, sebbene i frammenti conservati del l. 4 riguardino quasi esclusivamente le guerre civili, Varrone nel libro affrontasse anche questioni di altro tipo e problemi di tipo antiquario e linguistico. Per quanto riguarda i frammenti che si riferiscono a eventi storici, naturalmente ho scelto di pubblicarli in base all’ordine cronologico in cui si sono svolti i fatti cui i frammenti alludono, dove è possibile riferire un frammento a un evento preciso e datarlo con esattezza. Abbiamo visto che l’ultimo evento menzionato nei frammenti rimasti del l. 3 è la cessione al popolo romano del regno di Pergamo stabilita dal testamento del re Attalo III (133 a.C.). Come ho già detto nel commento al l. 3, sospetto che il 133 costituisse la cesura di quel libro: con la cessione del regno di Pergamo, infatti, si conclude la stagione delle conquiste romane nel Mediterraneo e inizia quella dei contrasti politici a Roma e delle guerre civili. È quindi altamente probabile che il racconto storico del l. 4 iniziasse dove si interrompeva quello del libro precedente e si aprisse con la menzione della
Cfr. Sall. Cat. 5.9: res ipsa hortari videtur … supra repetere ac paucis instituta maiorum domi militiaeque, quo modo rem publicam habuerint quantamque reliquerint, ut paulatim inmutata ex pulcherrima atque optuma pessuma ac flagitiosissuma facta sit, disserere.
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proposta, da parte di Tiberio Gracco, di concedere parte dei territori appena acquisiti da Roma agli strati più bisognosi della plebe e di sfruttare le ricchezze del tesoro di Attalo per l’acquisto di attrezzi agricoli da distribuire ai cittadini indigenti. Proprio questa proposta avrebbe causato il drammatico contrasto fra Tiberio e il Senato e l’inizio di un lungo periodo di disordini, culminante nelle guerre civili, al cui racconto era dedicata gran parte del l. 4. In proposito, è interessante notare come, nel l. 4, avvenga uno scarto nelle modalità narrative adottate dall’autore rispetto ai tre libri precedenti. Finora abbiamo detto che Varrone traccia dei sommari storici molto rapidi e che, dando per scontata la conoscenza degli eventi più importanti da parte del suo pubblico, si limita ad accennare ad essi in poche, cursorie battute. Questa regola viene vistosamente infranta quando Varrone passa al racconto di vicende a lui vicine e, infine, addirittura contemporanee alla stesura dell’opera: man mano che il contenuto delle parti storiche si avvicina al tempo dell’autore vediamo il racconto farsi via via più dettagliato. I frammenti rimasti mostrano un resoconto molto attento e preciso delle vicende dello scontro fra Cesare e Pompeo, a tratti quasi “diaristico”. Ad esempio, sembra che Varrone riportasse in dettaglio i dibattiti tenuti in senato sull’opportunità di ratificare o meno le richieste di Cesare di ritorno dalle Gallie e le differenti posizioni in proposito di varie eminenti personalità politiche (come Curione, vedi fr. 110), potendosi avvalere della propria esperienza personale, delle informazioni attinte dalla sua amicizia con Pompeo e dalle notizie che questi gli aveva confidato (nel fr. 111 Varrone dice di aver avuto un’informazione dalla viva voce di Pompeo; l’attendibilità delle informazioni fornite da Varrone è confermata dal fatto che, dove queste possono essere confrontate in parallelo con la narrazione del bellum civile di Cesare, come nel fr. 112, i dati coincidono quasi alla perfezione). È evidente che, se il l. 4 del de vita populi Romani si fosse conservato in forma integra, avremmo potuto disporre di una fonte preziosissima e interessante sulla guerra civile: in particolare, avremmo avuto molte più informazioni sugli eventi che portarono al varco del Rubicone e avremmo potuto conoscere la versione sullo scoppio della guerra civile di un esponente della parte opposta a Cesare (in un certo senso, il l. 4 del de vita sarebbe potuto essere un’opera complementare al bellum civile cesariano). Inoltre, sarebbe stato senza dubbio interessante vedere in che modo Varrone giustificasse la sua militanza nel campo pompeiano e, soprattutto, raccontasse il proprio comando in Spagna (nessuno dei frammenti rimasti del l. 4 è riferibile 443
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a questo episodio, ma è probabile che Varrone accennasse, in un libro dedicato quasi interamente alla guerra fra Cesare e Pompeo, al ruolo che lui aveva personalmente svolto nelle operazioni belliche) e motivasse la sua decisione finale di arrendersi a Cesare (è nota la feroce ironia con cui Cesare presenta questi fatti a b.c. 2, 17-20). In conclusione, il l. 4 del de vita nella sua interezza sarebbe stato senza dubbio una fonte preziosa per le vicende della guerra civile e avrebbe potuto fornire moltissimo materiale, di straordinario interesse, sulla biografia e la personalità di Varrone. Per ricapitolare quanto detto sulla struttura del l. 4, ho raccolto insieme le citazioni relative ad episodi storici e le ho pubblicate prima di quelle che contengono elementi di critica moralistica. Restano fuori da questo schema il fr. 107, che ho dovuto pubblicare, per seguire la “lex Lindsay”, prima della serie dei frammenti “storici”, il fr. 121, dal contenuto e dal testo incerti e quindi pubblicato in appendice come fragmentum incertae sedis e il fr. 106 che, sebbene a rigor di logica andrebbe considerato anche lui un fragmentum incertae sedis, potrebbe far parte di una sezione proemiale al l. 4, presumibilmente di tono sostenuto, in cui l’autore poteva giustificare la propria scelta di condurre il racconto fino al momento presente, difendere il proprio operato e rispondere alle critiche che la trattazione di un tema “caldo” come le guerre civili gli avrebbe senz’altro provocato: per questo, stampo il fr. 106 come il primo del l. 4. 106 (= 124 R.; 438 S.) si modo civilis concordiae exsequi rationem parent, rumore famam differant licebit nosque carpant 1: civilis concordiae (concordie CA) scripsi; civili concordia codd., edd.; civili concordia Müller (“fortasse” in app.) | parent Kettner, Müller, Rip.; paret codd., Lindsay, Sal. | rumore Quicherat (vel rumoribus), Müller; rumores codd., Lindsay, Rip., Sal. Non. p. 438.13-17: DIFFERRE, diffamare, divulgare. […] Varro de vita populi Romani lib. IV: 1: differre om. LAA, add. BA
purché si dispongano a cercare un modo di ottenere la concordia fra i cittadini, facciano pure a pezzi la mia reputazione con chiacchiere malevole e mi facciano oggetto di attacchi
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La citazione è trasmessa da Nonio in forma mutila e corrotta. Nonostante la perdita del contesto e la presenza di un numero cospicuo di difficoltà testuali, il senso generale del fr. 106 è piuttosto chiaro: Varrone dichiara di accettare di buon grado che vengano mosse critiche alla sua reputazione, purché questo possa giovare al bene comune (nella seconda parte del frammento il testo “licebit nos … carpant” = “ci critichino pure” è sicuro, mentre la prima parte, sebbene presenti un testo incerto e controverso, contiene un riferimento indubitabile alla “civilis concordia”). A rigore, il frammento andrebbe stampato come fragmentum incertae sedis: la pericope conservata presenta infatti pochi elementi che permettano di ricostruire un contesto abbastanza ampio in cui collocarla o di connetterla ad altri frammenti del l. 4; inoltre, per quanto a grandi linee il significato del fr. 106 si intuisca (sembra trattarsi di una difesa dell’autore dalle critiche mosse al suo operato), la lettera esatta della citazione è resa incerta da diversi problemi testuali e, anche se si ammettesse senza riserve che qui Varrone procedeva a una autoapologia, resterebbero dubbi sulla collocazione del frammento, in quanto Varrone avrebbe potuto, in teoria, inserire una difesa delle proprie scelte (letterarie o politiche; dato il carattere “militante” del l. 4 non è escluso che l’autore si sentisse chiamato a motivare, oltre alla decisione di scrivere il de vita, anche il proprio comportamento nella guerra civile) in qualsiasi punto del. l. 4. Tuttavia, nonostante tutte queste incertezze, è davvero suggestiva l’ipotesi che il fr. 106 potesse comparire all’inizio del l. 4, nell’ambito di una sezione proemiale dove Varrone, nel momento in cui si accingeva a scrivere il libro del de vita dedicato all’attualità, giustificasse la propria scelta di condurre la rassegna storico-antiquaria delle vicende del popolo romano fino ai suoi giorni, includendo così un tema delicato e scottante come la guerra civile fra Cesare e Pompeo, chiarisse il proprio metodo e si difendesse dalle accuse e dagli attacchi che una decisione del genere gli avrebbe sicuramente attirato (anche perché, come si vede dai frammenti conservati, nel l. 4 Varrone non era affatto tenero nei confronti dei suoi contemporanei). Pertanto, pur con qualche dubbio, ho deciso di stampare il fr. 106 come il primo del l. 4 (già Riposati ipotizza la collocazione di questo frammento in una sezione iniziale del libro, mentre Salvadore lo stampa all’ultimo posto199): si tratta ovvia-
Non capisco se Salvadore ritenga che il fr. 106 facesse comunque parte di una sezione in cui Varrone motivava il proprio operato e si difendeva dalle accuse dei detrattori, ma pensi che questo discorso apologetico comparisse non all’inizio, ma alla fine del l. 4, come congedo 199
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mente di una semplice ipotesi, ma credo che in questo modo possa essere fornita al lettore una ricostruzione non impossibile della struttura del l. 4. Il fr. 106 è trasmesso dai codici nella seguente forma: “si modo civili concordia exsequi rationem paret, rumores famam differant licebit nosque carpant”. Con questo testo, la seconda parte del frammento non pone particolari difficoltà e può essere tradotta “le chiacchiere malevole facciano pure a pezzi la mia reputazione e mi facciano bersaglio di attacchi”: in accordo con la mia ipotesi di considerare la citazione parte di una autodifesa, ho deciso di intendere “nos” come un pluralis maiestatis e di pensare che qui Varrone parlasse in prima persona; del resto, se volessimo interpretare “nos” come un plurale collettivo (“noi Romani”), il frammento risulterebbe ancora più oscuro, si stenterebbe a trovare un senso accettabile per la frase e la stessa menzione della “famam” sarebbe poco perspicua, in quanto è molto più naturale pensare alla “reputazione” di una singola persona danneggiata dai “rumores” che al credito di un’intera comunità. Venendo alla prima parte del frammento, questa pone non pochi problemi, sul piano sintattico e del contenuto. Il taglio di Nonio ne ha infatti escluso il soggetto e c’è il sensato sospetto che la stringa, in fase di copia, sia stata profondamente corrotta da errori di dettatura e tentativi di rabberciare il testo che l’hanno danneggiato in modo ancora più grave. Nella forma tradita, sembra che la protasi (“si modo … paret”) avesse un soggetto diverso da quello dell’apodosi (“rumores”): infatti nella prima troviamo un verbo al singolare, nella seconda uno al plurale. Data la perdita del contesto, non possiamo risalire al soggetto di “paret” (una persona definita? un avversario di Varrone? oppure un interlocutore fittizio?); in ogni caso, il passaggio repentino da questo al “rumores” della seconda parte del frammento è particolarmente brusco e il cambio di soggetto risulta davvero duro (il frammento suonerebbe infatti: “purché provveda alla concordia, le chiacchiere mi critichino”). Il salto parrebbe meno stridente se supponessimo che nella prima parte del frammento comparisse un deittico (qualcosa come “id” o “hoc”) che anticipava il seguito del discorso e che è caduto in fase di copia (o addirittura nel momento in cui Nonio ha estratto la citazione
finale dall’opera, oppure se secondo Salvadore il fr. 106 sia difficile da collocare e quindi vada stampato in appendice agli altri per l’impossibilità di ipotizzarne una collocazione più precisa (ma va osservato in proposito che Salvadore non inserisce il fr. 106 fra quelli incertae sedis, dove invece include il fr. 120).
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dal l. 4 del de vita per inserirla nel suo glossario): allora il frammento presenterebbe la struttura non inaccettabile “si modo … exsequi rationem paret, rumores famam differant licebit ecc.”. In alternativa, si potrebbe anche pensare, ma si tratta di una soluzione ai limiti dello scetticismo, che in realtà fra “paret” e “rumores” vada supposto un punto fermo e che le due parti del frammento non costituiscano i due membri di uno stesso periodo ma che siano la prima la conclusione di una frase precedente, la seconda l’inizio di una nuova frase (ossia, il testo nella sua forma completa poteva anche presentarsi in questo modo: “(qualcuno faccia così), purché provveda alla concordia civile. Le chiacchiere, poi, mi facciano pure a pezzi, ma…”). Ovviamente, se accettassimo questa seconda soluzione, dovremmo rassegnarci all’idea che il senso complessivo del frammento è irrimediabilmente perduto e limitarci a stamparlo nella forma tradita senza poterne fornire una traduzione o un’interpretazione. L’inserzione di un “id”, invece, renderebbe senza dubbio la sintassi più piana e giustificherebbe il passaggio da “paret” a “rumores differant”, ma non potrebbe comunque risolvere il problema principale posto dalla prima parte del frammento, ossia il fatto che questa, così come è trasmessa dai codici, è quasi impossibile da tradurre. Infatti, sebbene a senso il significato generale si possa intuire (Varrone direbbe “mi critichino pure, purché questo giovi alla concordia fra i cittadini”), se consideriamo punto per punto tutta la stringa “si modo civili concordia exesequi rationem paret”, vedremo come quasi ogni parola ponga non poche difficoltà e quanto la struttura sintattica del brano risulti sconnessa. In primo luogo, pone problemi il sintagma “civili concordia”: è infatti difficile attribuire un senso preciso a questo ablativo. Il modo meno improbabile di intenderlo sarebbe considerarlo una sorta di complemento di mezzo: il non meglio specificato soggetto della protasi dovrebbe “disporsi a exsequi rationem (altra espressione problematica, vedi infra) con la concordia fra cittadini”; anche a una semplice lettura un testo del genere risulta immediatamente debole. La difficoltà non sfugge a Müller, che propone infatti di correggere “civili concordia” in un complemento di modo, “civili concordia”: con questo intervento il testo diviene un po’ più scorrevole, ma permane la difficoltà di comprendere il significato esatto dell’espressione “exsequi rationem”. Infatti, tanto con il testo tradito che con quello di Müller, bisogna per forza di cose considerare “exsequi rationem” come un’espressione a sé, distinta da “civili concordia”. Purtroppo, nessuna delle possibili interpretazioni di “exsequi rationem” si dimostra convincente. Il nesso 447
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“exsequi rationem” si riscontra altrove soltanto in Terenzio (Hec. 306: si vis vero veram rationem exsequi), dove ha il significato di “cercare la vera ragione”, un senso che non si addice in alcun modo al nostro passo (“purché si disponga a cercare la ragione con la concordia fra i cittadini”?). Anche i vari significati del nesso “rationem sequi” (“seguire un piano d’azione”, “attenersi a un criterio teorico” o “seguire la ragione come criterio di condotta”) non si adattano bene al nostro frammento, dove non si capisce chi debba “provvedere a seguire la ragione per mezzo della concordia civile”, che senso vada dato a questa formulazione e come ciò possa accadere. Dunque tanto l’ablativo “civili concordia” quanto il nesso “exsequi rationem”, considerati singolarmente, risultano poco perspicui. Di qui nasce il mio sospetto che “civili concordia exsequi rationem” possa essere l’esito corrotto di una stringa in cui i termini “ratio” e “concordia” formavano un unico nesso. Propongo quindi di correggere il testo tradito in “civilis concordiae exsequi rationem”. A partire da “concordiae exsequi” potrebbe essersi verificata una facile aplografia; a questo punto, il testo “civilis concordia exsequi rationem” potrebbe essere stato rabberciato in “civili concordia”. Con la mia correzione, “civilis concordiae rationem” verrebbe a costituire un unico sintagma, retto da “exsequi”, che proporrei di tradurre come “un modo di ottenere la concordia fra i cittadini” (per “ratio” come “a way of doing something” vedi OLD 1576.14b; cfr. Cat. 64.186, nulla fugae ratio = “nessun modo di fuggire / di avere una via di fuga”, vedi anche, per la vicinanza al nesso del fr. 106, Colum. 1, 1.3, certam sequi rationem rei familiaris augendae). Per “exsequor” come “andare in cerca di qualcosa”, vedi ThLL V, 2 1853.30-47 (“quaerendo persequi, exquirere”) e OLD 655.2b (“to strive after”). Una traduzione alternativa di “civilis concordiae exsequi rationem” potrebbe essere anche “seguire (nell’azione) il criterio della concordia fra i cittadini”, ma credo che questa soluzione sia inferiore rispetto alla prima traduzione proposta. Infatti, con la seconda il senso generale dello statuto risulterebbe meno chiaro; inoltre, l’uso del verbo “exsequi” sarebbe leggermente improprio: il concetto “seguire un criterio” si esprime molto meglio con “sequi rationem” che con il verbo “exsequor”, che significa piuttosto “seguire fino in fondo, inseguire” (da cui il senso traslato “ricercare”). Varrone, nel fr. 106, accetterebbe dunque di buon grado di essere oggetto di critiche e chiacchiere malevole, purché questo possa aiutare a conseguire un modo di avere la concordia fra i cittadini. Anche una volta corretto il testo in “civilis concordiae rationem exsequi”, rimane il problema del legame fra le due parti del frammento. Infatti, se stam448
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passimo, per il resto della citazione, la forma tradita, avremmo “si modo civilis concordiae exsequi rationem paret, rumores famam differant licebit ecc.”. Un testo del genere è chiaramente sconnesso: non è dato un soggetto di “paret”, di modo che la prima parte del frammento continua ad essere oscura, e si verifica per giunta un brusco cambio di soggetto e di numero da “paret” a “rumores differant”. Ho già accennato sopra a questo problema, ora vorrei approfondirlo. Già Kettner nota la difficoltà posta dal cambio repentino di soggetto (nonché dall’impossibilità di determinare chi sia il soggetto di “paret”) e pertanto propone di correggere “paret” in “parent” (soluzione accolta da Müller e Riposati). In questo modo, “rumores” diventerebbe il soggetto non solo di “differant” e “carpant”, ma anche della prima parte del frammento. Tuttavia, anche questa soluzione non mi convince del tutto: infatti, sia con il testo di Kettner e Riposati (“si modo civili concordia exsequi rationem parent, rumores ecc.”), sia con il mio (“si modo civilis concordiae rationem parent, rumores ecc.”), si avrebbe una iunctura davvero astrusa. Il frammento direbbe infatti che le chiacchiere (dei detrattori di Varrone?) dovrebbero disporsi a “exsequi rationem ecc.”. Personalmente, ho seri dubbi sul fatto che un testo del genere possa risultare accettabile: mi sembra molto più sensato pensare che siano gli avversari di Varrone a doversi preoccupare della concordia fra i cittadini, e non le loro critiche. Per questo, pur accogliendo la correzione di “paret” in “parent”, credo che sia necessario un ulteriore intervento, già proposto da Quicherat e accolto anche da Müller (e dal ThLL V, 1 1070.50): modificare il tradito “rumores” in “rumore”. In questo modo, avremmo finalmente il testo “si modo civilis concordiae exsequi rationem parent, rumore famam differant licebit nosque carpant”: il soggetto di entrambe le parti del frammento sarebbero gli anonimi oppositori di Varrone e questi direbbe “mi critichino e mi mordano pure con le loro chiacchiere malevole (“rumore”), purché si dispongano a cercare un modo di ottenere la concordia fra i cittadini”. Il passaggio da “rumore” a “rumores” potrebbe essersi prodotto in fase di copia per influsso del vicino “differant”; quanto allo scambio fra “parent” e “paret”, se non si tratta di un banale errore di dettatura, potrebbe essere stato causato dalla perdita di un compendio di nasale200.
Della Corte 19702, p. 200, accoglie il testo di Riposati (“si modo civili concordia exsequi rationem parent, rumores famam differant licebit nosque carpant”) e ne propone la seguente traduzione: “se essi si preparano a attuare i loro disegni senza turbare la concordia dei citta-
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In alternativa, se la scelta di intervenire su “paret” e su “rumores” dovesse sembrare troppo ardita, si potrebbe avanzare la proposta sopra accennata di lasciare “paret” e “rumores” e integrare “si modo civilis concordiae exsequi rationem paret, rumores famam differant…”. Tuttavia, questa soluzione non mi sembra migliore, in quanto comunque richiede di intervenire in modo abbastanza cospicuo sul testo e, per giunta, non fornisce un senso del tutto adeguato (“purché questa cosa prepari a cercare il modo di ottenere la concordia” ?). Per “differre famam” = “diffamare”, vedi ThLL V, 1 1070.46-54 (cfr. Plaut. Trin. 689, sed ut inops infamis ne sim, ne mi hanc famam differant; Ter. Heaut. 16, quod rumores distulerunt malivoli, significativamente anche qui, come nel fr. 106, l’autore si difende dalle accuse dei detrattori; Prop. 1, 4.21-22; 1, 16.48 e app. di Fedeli 1994 ad locc.); per “carpere” nel senso di “criticare”, vedi ThLL III 495.57-496.3. Per il congiuntivo concessivo con “licebit”, invece che con il più normale “licet”, vedi Cato agr. 161; rhet. ad Her. 4, 39; Cic. inv. 2, 177; Acad. post. 1, 25; fin. 4, 2 (cfr. 5, 95); Cic. ep. Att. 4, 15.2, licebit eum solum ames, me aemulum non habebis; Hor. epod. 15.17-23, sis pecore et multa dives tellure licebit / tibique Pactolus fluat, / nec te Pythagorae fallant arcana renati / formaque vincas Nirea, / heu heu, translatos alio maerebis amores; sat. 2, 2.59-60; carm. 1, 28.35-36; Prop. 2, 11.1dini, allora sarà loro permesso di mettere in giro le voci che fanno correre sul nostro conto e persino di diffamarci”. Questa traduzione mostra tutti i limiti del testo tradito. Innanzi tutto, per dare un senso al brano, Della Corte è costretto a intendere “civili concordia” come una sorta di ablativo assoluto dove manchi il verbo essere (“essendoci la concordia fra i cittadini”, o, per usare la sua versione, “senza turbare la concordia fra i cittadini”), una possibilità priva di paralleli e del tutto improbabile. Anche la resa proposta di “exsequi rationem” (presa come espressione a sé, isolata rispetto a “civili concordia”) deve attribuire alla frase un significato non attestato (vedi quanto detto supra su “exsequi rationem” in Terenzio). Ancora, la traduzione che Della Corte suggerisce per la seconda parte del frammento si accorda molto meglio con il testo stampato da me (“rumore famam differant”) che con quello dato da lui, in cui il soggetto sono i “rumores”. In generale, l’intera lettura del frammento di Della Corte sacrifica l’opposizione logica fra le due parti della frase richiesta dal costrutto “si modo … licebit”: infatti il senso da lui proposto (“mi critichino pure, se riescono a perseguire i propri obiettivi senza danni per lo Stato”) è piuttosto scialbo e debole (non si vede perché i personaggi in questione, per raggiungere i propri obiettivi, dovrebbero proprio diffamare Varrone), mentre con la mia correzione, il legame fra le due parti risulterebbe più solido e sensato (“mi critichino pure, purché trovino un modo di avere la concordia”).
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2; Ov. am. 2, 11.53, omnia pro veris credam, sint ficta licebit; her. 20.21-22; 20.7172; met. 2, 58-60; 13, 862-864; 14, 355, non, ait, effugies, vento rapiare licebit; tr. 5, 14.3-4, detrahat auctori multum fortuna licebit / tu tamen ingenio clara ferere meo; Pont. 3, 4.33-36; Sen. ep. 25.6, in ultimas expellaris terras licebit … hospitalis tibi illa qualiscumque sedes erit; Luc. 7, 855-859, omnia maiorum vertamus busta licebit … plus cinerum Haemoniae sulcis telluris aratur / pluraque ruricolis feriuntur dentibus ossa; 8, 629-631 spargant lacerentque licebit, / sum tamen, o superi, felix, nullique potestas / hoc auferre deo; Mart. 2, 81.1; 4, 55.28; 8, 21.11-12, stent astra licebit / non deerit populo te veniente dies; 8, 64.5-12, sit vultus tibi levior licebit / tritis litoris aridi lapillis … tu nobis, Clyte, iam senex videris; 10, 100.5-6; Apul. apol. 94, at tu licebit aquam sinas fluere, namque optimi viri litteras ter et quater aveo quantovis tempore dispendio lectitare. 107 (= 129 R.; 440 S.) in quo est supervacuum pro supervacaneo Non. p. 844.11-13: SVPERVACVVM non putat oportere dici Varro de vita populi Romani lib. IV, sed supervacaneum:
(documento) nel quale si legge il termine supervacuum in luogo di supervacaneus Come è stato accennato nell’introduzione, il fr. 107 è trasmesso da Nonio in serie prima del fr. 110. La citazione è così mutila da non permettere di attribuirla a un contesto preciso, tuttavia, anche sulla scorta della parafrasi di Nonio (“supervacuum non putat oportere dici Varro … sed supervacaneum”), è plausibile che il fr. 107 facesse parte di un punto in cui Varrone discuteva problemi linguistici (nel caso specifico era forse esaminata l’opportunità o meno di adoperare determinati aggettivi). Applicando la “lex Lindsay”, dobbiamo concludere che il fr. 107 compariva prima del fr. 110, dedicato a un episodio della guerra civile fra Cesare e Pompeo. Certo, questo dato non impone di dedurre che, nel l. 4, una sezione dedicata all’analisi di questioni di storia della lingua dovesse necessariamente precedere un resoconto storico completo, dove erano riassunte in blocco tutte le vicende occorse dal 133 al 43 a.C., ma potrebbe anche darsi che Varrone interrompesse a un tratto il proprio racconto (ovviamente prima del punto in cui si trovava il fr. 110), per inserire un excursus in cui era affrontato il problema linguistico del fr. 107. Va però riconosciuto che, se le cose sono andate così, per 451
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noi è del tutto impossibile tentare di ricostruire le dinamiche esatte del pensiero di Varrone e di capire in che punto preciso e in base a quale collegamento questi interrompesse la narrazione storica per passare alla trattazione di questioni linguistiche e grammaticali. Pertanto, ho ritenuto più economico e più utile ai fini della consultazione di questo libro stampare prima il fr. 107 e poi far seguire ad esso tutte le citazioni rimaste riferibili a eventi storici (seguendo, dove possibile, l’ordine cronologico dei fatti narrati nei frammenti). In base a quanto si può ricostruire dalla ridotta pericope preservata da Nonio e dalla definizione del grammatico, è plausibile che Varrone, nel contesto immediato del frammento, prescrivesse di non usare l’aggettivo “supervacuus” (= superfluo) al posto di “supervacaneus”. Concordemente con la propria censura, Varrone impiega, sempre nel de vita, “supervacaneus” anche nel fr. 83. Se consideriamo le attestazioni di “supervacaneus” e “supervacuus” (cfr. OLD 1879-1880), l’introduzione del termine “supervacuus” sembra in effetti un’innovazione propria del periodo in cui scrive Varrone: troviamo “supervacaneus” già in Catone e questa forma è l’unica attestata in Cicerone e in Sallustio, mentre l’occorrenza più antica di “supervacuus” si ha in Vitruvio e, negli scrittori a partire dall’età di Augusto (Orazio, Ovidio, Celso, Curzio Rufo, Columella, Seneca, Petronio, Plinio, Quintiliano, Giovenale)201, “supervacuus” finisce per soppiantare “supervacaneus”, finché “supervacaneus” viene recuperato come preziosismo erudito da autori arcaizzanti come Frontone e Gellio. È dunque plausibile che Varrone avesse tentato di arginare un fenomeno che si stava sviluppando nella lingua parlata del suo tempo, la sostituzione dell’originario “supervacaneus” con la forma più agile “supervacuus”; a dispetto della censura di Varrone, però, “supervacuus” è stato recepito dagli autori della generazione a lui successiva ed ha anzi avuto la meglio su “supervacaneus”, divenendo la forma normale. È possibile che Varrone, in questo punto del de vita, dopo aver indicato che la forma “supervacaneus” andava preferita alla concorrente “supervacuus”, facesse notare che comunque in un documento scritto venuto in suo possesso trovava attestato l’uso di “supervacuum” al posto di “supervacaneum”: la pericope salvata da Nonio (“in quo est supervacuum pro supervacaneo”) sarebbe tratta proprio
Livio alterna “supervacuus” (2, 37.8) a “supervacaneus” (10, 24.11; 21, 13.1; 22, 39.1; 35, 48.7; 45, 37.13). Anche Velleio Patercolo adopera “supervacuus” a 1, 16.1, ma “supervacaneus” a 2, 36.2. 201
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da questo punto della discussione. Purtroppo, data l’esiguità della citazione non possiamo procedere a un’identificazione più precisa del tipo di documento cui Varrone si riferiva (un’epigrafe? un’opera letteraria? la lettera di un personaggio illustre?) e dobbiamo accontentarci della ricostruzione del contesto generale del frammento. Per l’uso dell’espressione “in quo est” nel senso di “dove è attestato”, cfr. l. L. 6, 60: item in choro in quo est (cit.). Vale infine la pena citare un altro celebre caso in cui Varrone avrebbe espresso, come nel presente frammento, il suo parere sull’opportunità di impiegare una data parola: la discussione riportata da Gell. 10, 1.6 sul problema se si debba scrivere “tertium consul” oppure “tertio consul”. 108 (= 114 R.; 425 S.) in spem adducebat non plus soluturos quam vellent; iniquus equestri ordini iudicia tradidit ac bicipitem civitatem fecit, discordiarum civilium fontem 1: spe codd., corr. ed. 1476 | vellem BA; vellent fortasse corruptum: an possent? | iniquus scripsi; iniquus Stadius, Popma, Müller; iniquius BA, Kettner, prob. Della Corte (iniqius La.c.); iniquus Lp.c., CADA, edd.; 2: vicipitem L | bicipitei civitatei (abl.) fecit Müller in app. (sed vide Flor. 2, 121.4) Non. p. 728.19-22: BICIPITEM quod incorporatum est posse dici Varro de vita populi romani lib. IV aperuit: 1: bicipite Müller; 2: apparuit L
(Gaio Gracco) li induceva a sperare che non avrebbero restituito più di quanto volessero; ostile al Senato, assegnò all’ordine equestre il diritto di giudicare e rese la cittadinanza a due teste (cioè: la divise in due fazioni), facendone una fonte di discordie civili Ho parlato spesso, nei capitoli introduttivi ai ll. 3 e 4, della mia ipotesi che Varrone considerasse come cesura fondamentale il 133 a.C., l’anno in cui da un lato si conclude l’espansione romana nel Mediterraneo, dall’altro, con la proposta di Tiberio Gracco di impiegare il tesoro di Attalo III per alleviare le condizioni della plebe rurale, ha inizio una convulsa fase di contrasti civili che insanguinerà Roma per un secolo e che condurrà alla fine della Repubblica. Per questo, sospetto che Varrone facesse terminare il l. 3 con la menzione dell’eredità di Attalo e aprisse il l. 4, dedicato interamente al racconto delle drammatiche 453
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vicende dell’ultima fase della storia repubblicana, fino alla guerra civile fra Cesare e Pompeo, con un accenno alla seditio Gracchana, scoppiata anche in seguito all’acquisizione del tesoro di Pergamo, che avrebbe inaugurato la tragica età delle res novae. Tale ricostruzione trova un sostegno nel fatto che il frammento del l. 4 riferibile all’evento databile più antico riguarda proprio i Gracchi: è dunque possibile che Varrone facesse iniziare il resoconto storico sviluppato in questo libro con la menzione delle riforme graccane, per poi passare a delineare le conseguenze funeste che questo precedente avrebbe comportato. Anche se la citazione di Nonio ha escluso il soggetto del fr. 108, si tratta quasi con certezza di Gaio Gracco: l’allusione alla lex Sempronia iudiciaria (che prevedeva il trasferimento del potere giudiziario dal Senato all’ordine equestre; vedi Appian. 1, 22, ὁ μὲν Γάϊος Γράκχος … τὰ δικαστήρια, ἀδοξοῦντα ἐπὶ δωροδοκίαις, ἐς τοὺς ἱππέας ἀπὸ τῶν βουλευτῶν μετέφερε) non lascia dubbi sull’identificazione del personaggio202. Sembra quindi che Varrone presentasse, in luce polemica, le principali proposte di riforma avanzate da Gaio Gracco (nel 123-121 a.C.); la pericope trasmessa da Nonio ha conservato, in particolare, l’accenno a due leggi: alla legge giudiziaria e a una riforma che, in base a quanto si può dedurre dal testo rimasto, sembra riguardare il pagamento dei debiti e prevedere delle agevolazioni per i debitori. L’aspetto senza dubbio più interessante posto dal fr. 108, oltre alla rapida menzione delle riforme di Gaio, sta nel giudizio dell’autore sulla vicenda e, soprattutto, nella considerazione retrospettiva in base alla quale Varrone identifica nella seditio Gracchana la fonte della discordia fra i cittadini e l’origine, in ultima analisi, di quella divisione della cittadinanza in fazioni che avrebbe condotto a breve allo scoppio delle guerre civili. Tale divisione è epressa da
202 Per una buona dimostrazione dell’identificazione del soggetto del fr. 108 con Gaio Gracco, vedi Ferguson 1921, pp. 86-87 (in particolare, p. 86, n. 4): come nota Ferguson, le fonti attribuiscono con certezza una riforma giudiziaria soltanto a Gaio Gracco, mentre le sporadiche menzioni di una lex iudiciaria già di Tiberio sono inaffidabili e probabilmente influenzate dall’idea, presente negli storici antichi, di attribuire ogni iniziativa di Gaio ai suggerimenti del fratello, di cui Gaio si sarebbe limitato a proseguire la politica. Anche Häussler 1964, pp. 322-323 (luogo già citato per l’analisi dei frr. 65 e 66) si pronuncia decisamente a favore dell’attribuzione a Gaio Gracco delle riforme menzionate nel fr. 108. L’attribuzione è data per certa e dimostrata sulla scorta del confronto con le altre fonti anche da Nicolet 1979 nel ricco contributo interamente dedicato al fr. 108.
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Varrone per mezzo dell’icastica iunctura “bicipitem civitatem fecit”: “rese la cittadinanza a due teste” (vedi infra). Per passare al commento dettagliato del brano, partirei dalla prima sezione: “in spem adducebat non plus soluturos quam vellent”. Abbiamo già detto che va integrato, con buona probabilità, il soggetto “C. Gracchus”; nella parte precedente al taglio di Nonio poteva comparire anche un’indicazione più precisa dell’oggetto di “adducebat” (i debitori, i cittadini poveri). Più complessa è la questione posta dall’identificazione esatta del provvedimento di Gaio al quale alluderebbe Varrone (si veda in proposito la lunga discussione di Nicolet 1979, pp. 280-300). La formulazione (alla lettera, “che non avrebbero pagato più di quanto volessero”) e soprattutto l’impiego del verbo “solvere” (che ha l’accezione di “estinguere un debito”, vedi OLD 1788.18; per “solvere” = “pagare”, cfr. OLD 1788.19), si accordano bene con l’ipotesi che qui Varrone accennasse a una riforma di Gaio Gracco riguardante i debiti e l’usura. Prima di procedere all’esame delle varie proposte avanzate sulla natura di questo provvedimento, vorrei subito segnalare l’oggettiva stranezza del testo tradito. La proposta di riforma di Gaio, infatti, espressa in questi termini, risulta di un estremismo paradossale: i debitori avrebbero potuto restituire al creditore soltanto la cifra che loro volessero dare (il che, in teoria, avrebbe addirittura potuto esonerare completamente il debitore dall’obbligo di estinguere il suo debito, se così “avesse voluto”!). È evidente che “non plus soluturos quam vellent” non può essere inteso alla lettera, ma, se si tratta di testo sano, necessita di un’interpretazione. L’ipotesi più razionale è immaginare che il tribuno promettesse di fare in modo che, fra debitore e creditore, venisse stabilita una quota fissa oltre la quale il debito non potesse salire, così che il debitore non si trovasse oppresso dagli interessi e non rischiasse di dover pagare una somma di molto superiore all’importo massimo preventivato (questa è la ricostruzione di Brunt 1971, p. 90). Nicolet obietta alla proposta di Brunt il fatto che nelle fonti antiche non si trovi alcun accenno esplicito a una riforma fiscale di Gaio Gracco (in realtà, le fonti parlano della proposta di un certo Catone, forse un partigiano di Gaio Gracco, che avrebbe presentato un progetto di sgravio fiscale, ma l’interpretazione dei dati in proposito è controversa: vedi la risposta di Nicolet 1979, pp. 293-296, a Brunt, che aveva appunto usato la proposta di Catone come elemento a sostegno della propria lettura). Per questo, Nicolet suggerisce una lettura alternativa e pensa che la prima parte del fr. 108 si riferisca non a una legge sui debiti, altrimenti ignota, ma a un’altra iniziativa graccana, la legge frumentaria, che riduceva di più della 455
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metà il prezzo massimo per le derrate alimentari: vedi gli Scholia Bobiensia alla pro Sestio di Cicerone (55), antea quidem Gracchus legem tulerat ut populus pro frumento quod sibi publice daretur in singulos modios senos aeris et trientes pretii nomine exsolveret (cfr. Liv. per. 60). Nicolet inoltre propone (pp. 297-299) di supporre che l’uso del verbo “vellet” contenga una velata allusione al linguaggio delle assemblee, in cui la votazione era espressa per mezzo della formula “velitis iubeatis, Quirites” (secondo Nicolet, Gaio avrebbe dunque ventilato alla plebe la possibilità che in futuro sarebbe stata esclusivamente lei a stabilire i prezzi del grano), ma questa interpretazione è piuttosto goffa e poco convincente. Invece, il tono indignato con cui Varrone sembra presentare le proposte di Gaio Gracco (in cui, come si evince dal seguito del frammento, individua il germe delle guerre civili), si adatta meglio all’ipotesi che il frammento alludesse a uno sgravio fiscale (o comunque a una riforma “populista” rivolta alle fasce più povere della plebe) che alla legge frumentaria. Le critiche rivolte più di frequente dagli antichi (vedi ad es. Cic. Sest. 103) all’abbassamento dei prezzi del grano, infatti, concernevano l’accusa di aver “viziato” e “rammollito” la plebe urbana, che, potendo godere di una fonte di sostentamento sicuro, avrebbe smesso di sfruttare la propria “industria” per procacciarsi da vivere e si sarebbe ridotta a un gregge di sfaccendati, foraggiati dallo Stato e, al contempo, sempre pronti a favorire, per noia, iniziative sediziose; una critica, potremmo dire, “sociologica”, che tuttavia non ravvisava nella legge frumentaria un sovvertimento scandaloso dell’ordinamento civile. La prova sta nel fatto che la riforma frumentaria non venne abrogata dopo la morte di Gaio Gracco e che il prezzo da lui fissato rimase quello corrente fino al 58 a.C., quando Clodio, con una sua legge frumentaria ancora più radicale, rese le distribuzioni di grano alla plebe urbana completamente gratuite. La proposta cui allude il fr. 108 doveva apparire invece come qualcosa di molto più estremo e grave agli occhi di Varrone, che la riferisce scandalizzato e sembra volerne sottolineare la natura quasi paradossale: a un romano tradizionalista poteva sembrare appunto un paradosso permettere che un debitore (quindi un personaggio già, si potrebbe dire, in difetto) potesse agire a un livello di parità rispetto al creditore. Preferisco dunque accogliere la lettura di Brunt e riferire la prima parte del frammento a una proposta di legge sui debiti203. Anche Della Corte 19702, p. 48 pensa che la prima parte del frammento vada riferita a una proposta di sgravio fiscale; tuttavia lui suppone che i maggiori beneficiari di questa riforma 203
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Questo punto riporta all’analisi della questione che ho accennato all’inizio del commento al fr. 108: il testo “non plus soluturos quam vellent” presenta una proposta di riforma quasi assurda, radicale fino all’eccesso. Sarebbe infatti comprensibile ipotizzare che Gaio proponesse di stabilire un tetto massimo oltre il quale non potevano salire gli interessi o non poteva lievitare l’ammontare complessivo del debito, mentre risulta francamente incredibile immaginare che al debitore fosse permesso scegliere quanto restituire al creditore. L’unica strada per giustificare il testo tradito sarebbe sospettare che la formulazione “non plus soluturos quam vellent” sia stata volutamente data da Varrone in forma paradossale, a fini polemici204: per condannare l’iniziativa di Gaio, il conservatore Varrone ne avrebbe di proposito presentato le riforme in un modo esagerato e stravolto. Se così fosse, dovremmo rinunciare al tentativo di risalire alla natura effettiva della proposta di Gaio e accontentarci di costatare che Varrone, nel condannarla, avrebbe cercato di presentarla nella peggiore luce possibile. Tuttavia, questa soluzione è macchinosa e improbabile: nel seguito Varrone, pur criticando aspramente la riforma giudiziaria graccana, la presenta in termini corretti, senza stravolgimenti o “manipolazioni di parte”. Sospetto quindi che nella stringa, dal significato problematico, “non plus soluturos quam vellent”, possa nascondersi una corruttela testuale. Nello specifico, potrebbe essere intervenuto un banale errore di dettatura (non necessariamente nel corso della tradizione del glossario di Nonio: lo scambio si sarebbe potuto verificare anche in fase di compilazione del de compendiosa doctrina, se non addirittura durante il confezionamento della copia del de vita usata da Nonio), per cui un copista avrebbe scritto, senza accorgersene, un verbo servile al posto di un altro, vergando “vellent” invece di “possent”. Ciò sarebbe potuto accadere o per una semplice distrazione o anche per influsso del contesto (la menzione della “spes” dei debitori poteva in qualche modo suggerire il concetto di volontà). Di certo, con il testo “in spem adducebat non plus soluturos quam possent”, il dettato del frammento sarebbe molto più chiaro: Gaio, ventilando la possibilità di un accordo fra debitore e creditore, oppure della fissazione di una quota massima oltre la quale il
fossero i ricchi appaltatori dell’ordine equestre, grandi evasori fiscali, e non gli strati più poveri della popolazione, oppressi dai debiti. 204 Così la pensa Bessone 2008, p. 64, n. 113, che parla di una “esagerazione maligna” di Varrone volta a rivelare l’aspetto demagogico della politica dei Gracchi.
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debito non poteva salire, o anche di un modo di calcolare l’ammontare del debito in base alle reali possibilità dei debitori, li induceva a sperare che non avrebbero dovuto pagare più di quanto potessero. Suggerirei quindi di correggere il tradito “vellent” in “possent” (anche se ho preferito non mettere l’intervento proposto a testo, dato lo stato piuttosto incerto e problematico dell’intero frammento). A livello stilistico, va notato il nesso “in spem adducebat”: “in spem adducere” si trova infatti impiegato, in modo significativo, proprio in contesti in cui si parla di propaganda politica ed elettorale (cfr. Nicolet 1979, p. 280; vedi Q. Cic., comm. in pet. 40, in spem adducito te in eorum rebus … pari studio atque officio futurum e 23 adducenda amicitia in spem familiaritatis; vedi anche Sall. Cat. 40.4, Allobroges in maxumam spem adducti Umbrenum orare, ut sui misereretur, dove si dice che gli Allobrogi sono “in maxumam spem adducti” proprio dopo aver ascoltato il discorso “demagogico” in cui Umbreno promette la risoluzione dei loro problemi se avessero dato il loro sostegno alla congiura: è notevole, a sostegno della lettura di Brunt del fr. 108, il fatto che la speranza maggiore degli Allobrogi risiedeva appunto nella cancellazione dei loro gravi debiti: Allobroges diu in incertum habuere, quidnam consili caperent: in altera parte erat aes alienum…); nel racconto di Varrone, dunque, anche la scelta dell’espressione connota l’iniziativa di Gaio Gracco in termini assolutamente negativi. Come ho già detto, la seconda parte del frammento accenna alla nota legge giudiziaria, che strappava al senato corrotto e parziale la prerogativa di giudicare nei processi e trasferiva il potere giudiziario all’ordine equestre: “equestri ordini iudicia tradidit”. Questa stringa è preceduta, nell’edizione data dal frammento da quasi tutti gli editori (Lindsay, Riposati, Salvadore, nonché negli articoli citati di Nicolet, Häussler e Ferguson), dall’aggettivo “iniquus” (lett. “ingiusto trasferì i processi all’ordine equestre”). Confesso che, a parer mio, l’impiego assoluto dell’aggettivo “iniquus” (il senso impedisce di riferirlo al dativo “equestri ordini”) pone non poche difficoltà: “iniquus” dovrebbe avere infatti un valore simile a quello di un avverbio (= “inique”), il che è improbabile e darebbe comunque un testo piuttosto duro. Inoltre, uno sguardo alla tradizione manoscritta rivela che in luogo di “iniquus”, lezione di CADA, i codici del gruppo BA e La.c. hanno la variante “iniquius” (che non si tratti di una congettura del redattore “interventista” di BA è confermato dalla presenza di “iniqius” anche in L). Rispetto a “iniquus”, “iniquius” sembrerebbe migliorare il senso e la sintassi del brano: nel presentare la colpa capitale di Gaio Gracco (la riforma giudiziaria), Varrone direbbe che questi non 458
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solo, contro il mos maiorum, prometteva ai debitori lo sgravio fiscale, ma ancora più ingiustamente (“iniquius”) aveva trasferito pure il diritto di giudicare dai senatori ai cavalieri. La lezione “iniquius”, impiegata in questo senso, è stata accolta da Kettner e Della Corte 19702, p. 25, n. 11. Tuttavia, anche con “iniquius” il testo mantiene una certa durezza e rimane alquanto debole sul piano del significato (se davvero Varrone intendeva mettere in particolare risalto il provvedimento ai suoi occhi più grave di Gaio Gracco, il solo “iniquius” costituirebbe una marca stilistica troppo blanda). Riconsidererei piuttosto una proposta avanzata dallo Stadius e accolta da Popma e da Müller: integrare un dativo “senatui” retto da “iniquus”. Questo potrebbe essere caduto a causa della vicinanza di “equestri ordini”: la presenza a breve distanza di due dativi avrebbe portato un copista distratto a ometterne il primo. Ipotizzando una genesi dell’errore di questo tipo, proporrei di stampare, rispetto alla proposta di Stadius “ iniquus”, la forma “iniquus “: se “senatui” e “equestri ordini” erano contigui, infatti, maggiore era la probabilità che “senatui” venisse omesso. Per la costruzione di “iniquus” col dativo della persona verso cui si prova ostilità, vedi ThLL VII, 1 1640.15-16 (cfr. Hor. carm. 1, 2.47-49, neve te nostris vitiis iniquum / ocior aura / tollat; Ov. met. 10, 611-612, quis deus hunc formosis … iniquus / perdere vult…?; fast. 2, 629, et soror et Procne Tereusque duabus iniquus). Infine, sebbene “iniquius” possa sembrare lectio difficilior, va osservato che nei ll. 1-3 del de compendiosa doctrina (dove possiamo disporre anche di F3), in diversi casi L e BA riportano una lezione errata, mentre F3 e CADA (due testimoni indipendenti) hanno testo giusto: non si può escludere che anche in questo caso “iniquius” sia l’innovazione di un ipotizzabile progenitore di L e BA, mentre il ramo CADA ha conservato la lezione corretta “iniquus”. Venendo all’ultima parte del frammento, in cui Varrone identifica nelle proposte graccane l’origine delle divisioni fra i cittadini che sarebbero sfociate nelle guerre civili, merita di essere segnalata l’impressionante somiglianza fra il fr. 108 “bicipitem civitatem fecit, discordiarum civilium fontem” e un passo di Floro, riferito proprio allo stesso provvedimento (2, 121.4 = 3, 17.3): iudiciaria lege Gracchi diviserant populum R. et bicipitem ex una fecerant civitatem205. Sebbene È interessante che a div. 1, 121 Cicerone dica come la nascita di una bambina a due teste venisse interpretata come presagio di una divisione politica della cittadinanza: si puella nata biceps esset, seditionem in populo fore.
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Floro parli di “Gracchi” al plurale, è altamente probabile che si tratti di un plurale enfatico e che in realtà si stia riferendo soltanto alla riforma giudiziaria promulgata da Gaio Gracco (vedi Nicolet 1979, p. 277, n. 4): in tal caso, la coincidenza fra il fr. 108 e il brano di Floro sarebbe totale. Certo, non possiamo dire fino a che punto Floro attingesse direttamente a Varrone (e, anche ammesso che Floro traesse questo giudizio sull’operato di Gaio Gracco dalla lettura di prima mano di un’opera di Varrone, non si può sostenere che si trattasse proprio del de vita e non di un “doppione” del fr. 108 presente in un’altra opera dalla diffusione più ampia e fortunata); forse è più probabile supporre che Floro abbia ricavato la formula da una fonte intermedia (Livio?) che poteva aver recepito alcuni motivi tradizionali della critica ai Gracchi (vedi Cic. rep. 1, 31, mors Tiberii Gracchi et iam ante tota illius ratio tribunatus divisit populum unum in duas partis206; anche il fr. 15 del l. 1 delle historiae di Sallustio fa iniziare il periodo delle guerre civili con l’attività dei Gracchi) sviluppati in questa forma anche da Varrone nel de vita207. In ogni caso, il confronto con il passo di Floro dimostra che l’intervento di Müller “bicipitei civitatei fecit discordiarum civilium fontem” (“con la divisione della cittadinanza diede origine alle discordie fra i cittadini”) è superfluo ed errato. In conclusione, farei notare quanto il motivo della concordia e della discordia fra i cittadini sembri costituire una sorta di filo conduttore del l. 4 del de vita: se il fr. 108 sembra voler rintracciare nell’operato dei Gracchi il “fons discordiarum civilium”, abbiamo già visto che nel fr. 106 Varrone invitava i suoi avversari a impegnarsi a trovare una “concordiae civilis rationem”. La ricorrenza in ben due frammenti di questo tema (tanto più sorprendente se si pensa a quanto poco si
Si veda per contrasto il modo in cui Valerio Massimo (4, 4.2) presenta l’operato di Menenio Agrippa (che, al contrario di Gaio Gracco, aveva riunito la cittadinanza divisa in due parti e non diviso in due fazioni i cittadini prima concordi): perniciosa seditione dividua civitas manibus Agrippae in unum contrahi voluit, quia eas pauperes quidam, sed sanctas animadverterat. Per la iunctura, vedi anche Val. Max. 9, 3.4: irae vim indico, quae unius civitatis et aetates et adfectus dividere valuit. Per la divisione della cittadinanza in fazioni, cfr. il celeberrimo passo di Sallustio sul metus hostilis (Iug. 41): ita omnia in duas partis abstracta sunt, res publica, quae media fuerat, dilacerata. 207 Bessone 2008 (p. 55, n. 74), abbastanza convinto dell’ipotesi che Floro avesse letto il de vita (vedi pp. 57-59), suggerisce che la descrizione data da Varrone della cittadinanza “biceps” abbia influenzato anche la successiva menzione (Flor. 2, 5.5) delle conseguenze dell’operato di Livio Druso: sic urbe in una quasi in binis castris dissidebatur. 206
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è salvato del l. 4) rende probabile l’ipotesi che, in un libro quasi completamente dedicato all’analisi delle guerre civili, quello della discordia civile fosse sentito come un problema fondamentale e scottante (vedi Della Corte 19702, p. 47). 109 (= 115 R.; 426 S.) ipsa Italiae oppida sunt vastata, quae prius fuerunt hominum referta 1: vasta Müller | ferunt L Non. p. 804.3-805.17: Genetivus pro dativo. […] Varro de vita populi Romani lib. IV.
sono state devastate proprio le città dell’Italia che prima erano piene di uomini Il frammento, che non presenta difficoltà sul piano del testo, descrive il declino delle città dell’Italia, devastate e spopolate in seguito a un evento bellico. Il problema principale è posto dall’identificazione dell’episodio esatto cui Varrone si riferirebbe (sulla difficoltà di giungere a una soluzione, vedi Bessone 2008, p. 58, n. 89, che pensa dubitanter alla guerra fra Cesare e Pompeo). Purtroppo, la pericope è troppo vaga e ristretta perché si possa procedere a un’individuazione precisa della vicenda. Un criterio di indagine potrebbe essere limitare l’attenzione agli eventi del periodo cronologico coperto dal racconto del l. 4 (133-43 a.C.) e alle guerre combattute sul suolo italico. Anche con queste limitazioni, il frammento potrebbe essere riferito con un pari grado di probabilità a conflitti diversi. Riposati, seguito da Salvadore (quest’ultimo dubitanter), ipotizza che il fr. 109 alluda alla rivolta di Spartaco del 73 a.C. In effetti, diversi resoconti della rivolta insistono sui saccheggi delle città dell’Italia meridionale compiuti dagli schiavi ribelli (vedi Salvadore 2004, p. 129; in particolare, Vell. 2, 30.5, fugitivi … gravibus variisque casibus adfecere Italiam; Tac. ann. 3, 73.2, Spartaco … inultam Italiam urenti; Ampel. 45.1, populata prope Italia); inoltre, sembra che Varrone parlasse della rivolta di Spartaco anche in un frammento delle Menippeae (fr. 193 A.): utrum oculi mihi caecuttiunt? An ego vidi servos in armis contra dominos?. Tuttavia, il frammento potrebbe riguardare anche la guerra sociale del 91-88 a.C. ed, anzi, credo che la menzione di cittadine fortificate (“oppida”) dell’Italia, ben popolate, si accordi meglio con un’allusione a questa guerra, in cui aveva giocato un ruolo chiave proprio il controllo delle roccaforti dell’Italia centrale e delle fortificazioni sull’Appennino. Rispetto alla feroce, ma breve, rivolta di Spartaco, la guerra sociale si era protratta per più anni, aveva comportato nu461
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merosi e logoranti scontri su tutto il territorio italico e, soprattutto, l’assedio di diversi “oppida”. Come dicevo, l’impiego di questo termine, rispetto al generico “urbes”, potrebbe non essere casuale e costituire un motivo per riferire il fr. 109 alla guerra sociale. Va poi ricordato che la rivolta delle popolazioni italiche, successiva all’assassinio del tribuno Marco Livio Druso, era partita dal Piceno e dalla Marsica, aree vicine a Rieti: Varrone potrebbe aver quindi avuto un ricordo particolarmente vivido della guerra che si era svolta nella sua regione di origine e potrebbe aver assistito personalmente allo spopolamento e alla devastazione di alcuni cittadine vicine. Forse anche la specificazione “ipsa Italiae oppida” si spiega meglio in riferimento alla guerra sociale, se si tiene conto anche del fatto che i socii italici nominarono “Italia” la loro confederazione e ribattezzarono “Italica” la loro capitale Corfinio (L’Aquila). È vero che lo scontro si concluse con una parziale vittoria degli Italici (che ottennero da Roma la cittadinanza); ciò non toglie, tuttavia, che intanto tre anni di guerra avessero devastato e spopolato proprio le città più importanti della Marsica e del Sannio. La prova maggiore a sostegno di questa ipotesi è data da un frammento del l. 1 delle historiae di Sallustio (fr. 20; vedi il comm. ad loc. di McGushin 1992, p. 90), che recita quippe vasta Italia rapinis, fuga208, caedibus: poiché nel primo libro era narrata la guerra sociale, è plausibile che il frammento di Sallustio riguardi proprio la devastazione dell’Italia prodotta da questo episodio bellico. La rappresentazione della rovina dell’Italia poteva costituire dunque un motivo topico nella narrazione del bellum sociale, sfruttato indipendentemente da Varrone e da Sallustio. Una terza possibilità sarebbe pensare che Varrone alludesse, in generale, agli effetti delle guerre civili. A questa ipotesi si può obiettare che gli episodi più significativi delle guerre civili si erano svolti o nel solo ambito di Roma (come nel caso delle rappresaglie reciproche condotte dai sostenitori di Mario e di Silla), senza coinvolgere le cittadine italiche, o addirittura interamente fuori dall’Italia (come nel caso dello scontro fra Cesare e Pompeo). Ovviamente, si può ribattere osservando che, sebbene le guerre civili non si combattessero sul suolo italico, coinvolsero eserciti composti prevalentemente di cittadini romani o italici e che, di conseguenza, Varrone poteva voler dire che, a causa dello spargimento di sangue causato dalle guerre civili, intere città dell’Italia si ritrovarono prive di abitanti. L’ipotesi non è impossibile: il motivo della devastazione dell’Italia “Fuga” va inteso nel senso di “abbandono degli abitanti della loro città” a causa della guerra.
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sembra infatti costituire un elemento topico delle considerazioni “retrospettive” sulle conseguenze delle guerre civili: vedi Cic. fam. 10, 33.1 (scritta nel 43, appena saputo l’esito della battaglia di Modena), si qui laetantur in praesentia quia videntur et duces et veterani Caesaris partium interisse, tamen postmodo necesse est doleant cum vastitatem Italiae respexerint. nam et robur et suboles militum interiit; Tac. hist. 1, 50.2, repetita bellorum civilium memoria captam totiens suis exercitibus Urbem, vastitatem Italiae, direptiones provinciarum, Pharsaliam Philippos et Perusiam ac Mutinam, nota publicarum cladium nomina, loquebantur; per un andamento del pensiero simile (discordia civile causa di rovina per l’Italia), cfr. Sall. Iug. 5.1, bellum scripturus sum … primum quia magnum et atrox variaque victoria fuit, dein quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret, nonché il quadro dell’Italia devastata dalla guerre civili fornito da Lucano a 1, 24-32 (at nunc semirutis pendent quod moenia tectis / urbibus Italiae … rarus et antiquis habitator in urbibus errat …; cfr. Prop. 1, 22.3-4, si Perusina tibi patriae sunt nota sepulcra, / Italiae duris funera temporibus)209. La difficoltà di riferire il frammento a uno degli eventi citati in particolare (rivolta di Spartaco, guerra sociale o guerre civili) emerge chiaramente in un passo del de civitate Dei in cui Agostino parla della rovina dell’Italia come prodotta indifferentemente da queste tre cause (3, 23: bella socialia, bella servilia, bella civilia quantum Romanum cruorem fuderunt, quantam Italiae vastationem desertionemque fecerunt!). Anche in base al seguito del discorso risulta chiaro che Agostino non pensasse a una vicenda in particolare che avesse prodotto la desolazione dell’Italia, ma considerasse in blocco tutti gli sconvolgimenti del I sec. a.C.: il brano citato continua infatti parlando dei disastri della guerra sociale, interpretata come frutto dell’azione di demagoghi come Livio Druso (vedi 3, 26, quorum omnium seditionibus caedes primo iam tunc gravissimae, deinde socialia bella exarserunt, quibus Italia vehementer adflicta et ad vastitatem mirabilem desertionemque perducta est), ma poi passa a parlare in termini identici delle guerre civili e della rivolta di Spartaco (quas et quo modo civitates regionesque vastaverit, cfr. 4, 5; 5, 22). Va tuttavia riconosciuto che Agostino Soprattutto Della Corte (p. 201) pensa che il frammento descriva il “tragico quadro delle condizioni in cui l’Italia versava a causa delle guerre civili. 209
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(che conosceva Varrone) sembra dare, nel suo resoconto, particolare risalto proprio alla guerra sociale e, soprattutto, presenta come conseguenza nefasta della guerra non solo la devastazione delle città, ma anche il loro spopolamento: una caratteristica che avvicina molto il passo del de civitate Dei al fr. 109 (“ad desertionem perducta est” vs. “quae prius fuerunt hominum referta”). Quindi, nonostante creda che si rimanga in dubbio se il fr. 109 si riferisca a Spartaco, alla guerra sociale oppure alle guerre civili, forse l’uso di “oppida”, la menzione esplicita dell’Italia, il confronto col passo delle historiae di Sallustio e, in parte, con quello agostiniano rendono maggiormente probabile l’ipotesi che la citazione riguardi la guerra sociale. 110 (= 117 R.; 428 S.) quod Curio, cum id fecisset, dicebat amicis, ut illi renuntiaretur se obstringillaturum ne triumphus decerneretur aut ne iterum fieret consul 1: id secl. Quicherat, Lindsay | cum id fecisset post se traiecit Müller; 2: aut] ac Müller in app., fort. recte Non. p. 214.8-215.17: OBSTRIGILLARE, obstare. […] idem de vita populi Romani lib. IV: 1: obstrigillare F3LCA (= Paris. 7666); obstringillare BA (cum Lugd., Bamb.)
poiché Curione, dopo aver fatto questo, diceva agli amici che si riferisse a Cesare che lui si sarebbe strenuamente opposto perché non gli venisse decretato il trionfo o non venisse eletto console per la seconda volta I frr. 110 e 111 si riferiscono allo scoppio della guerra civile fra Cesare e Pompeo, in particolare ai dibattiti tenuti in senato sull’opportunità di concedere a Cesare, di ritorno a Roma dopo la vittoriosa campagna nelle Gallie, il trionfo e il consolato per l’anno successivo. In entrambe le citazioni Varrone sembra commentare post eventum il comportamento del partito pompeiano con spirito pungente e sarcastico, accusando di doppiezza il tribuno C. Scribonio Curione, che prometteva di osteggiare Cesare dopo aver già preso accordi con lui ed essere passato dalla sua parte, e di stoltezza i consoli dell’anno 49 (Lucio Cornelio Lentulo Crure e Gaio Metello Scipione), che, sviati da considerazioni politiche del tutto errate (“caeci”), rifiutavano con decisione le trattative proposte da Cesare ed, anzi, davano in segreto disposizioni di guerra ai propri emissari. 464
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È probabile che i frr. 110 e 111 riguardino entrambi gli eventi verificatisi in concomitanza con la seduta senatoriale del 1° gennaio 49, in cui Curione recitò la lettera scritta da Cesare a Ravenna il 26 dicembre dell’anno precedente, che conteneva una decisa difesa del proprio operato e la rivendicazione delle proprie richieste210 (dal momento che Cesare chiedeva sia il trionfo sia il consolato, considero altamente probabile la correzione di Müller “ac” per il tradito “aut”; su questa lettera, vedi Caes. b.c. 1, 1.1; 1, 5.5 e 9.3; Cic. fam. 16, 11.2; Suet. Iul. 29.2; Plut. Caes. 30.1-3 e 31.1; Pomp. 59.2; Anton. 5; App. 2, 32; Dio 41, 1.1-3), e i consoli, appena entrati in carica, proposero di respingere le condizioni di Cesare e di intimargli di congedare immediatamente l’esercito, se non voleva essere dichiarato nemico pubblico. Il fr. 110211, in particolare, fornisce un ritratto di Curione da cui emerge tutto il doppiogiochismo del personaggio: Curione, infatti, partito da una posizione anticesariana, si era fatto comprare da Cesare ed era passato dalla sua parte, fino a diventare, come si è detto, il portavoce ufficiale davanti al senato delle rivendicazioni di Cesare (su Curione, vedi Vell. 2, 48.3-5; Val. Max. 9, 1.6; Luc. 1, 269; 4, 814-820; Plut. Caes. 29.2-3; Pomp. 58; Anton. 5.1; Tac. ann. 11, 7.2; Suet. Iul. 29.1; App. 2, 26; Dio 40, 60-61; Serv. ad Aen. 6, 621; pare che, almeno all’inizio, Curione riuscisse a dissimulare abbastanza bene il proprio doppio gioco: Cicerone a fam. 8, 8.10, del 51 a.C., riferisce senza sospetti Curio se contra eum (sc. Caesarem) totum parat). La citazione trasmessa da Nonio ritrae appunto Curione intento a dichiarare agli altri esponenti di parte pompeiana (intendo “amicis” nel senso di “sostenitori politici, appartenenti alla stessa fazione”: il giudizio morale su Curione risulta, ovviamente, tanto più grave, in quanto mentirebbe in modo spudorato non a degli avversari, ma ai propri alleati politici) che avrebbe fatto tutto il possibile perché le richieste di Cesare venissero bocciate, quando, in realtà, aveva già preso accordi segreti con Cesare ed era passato al suo fianco (credo che “cum id fecisset” si riferisca a questo: Varrone poteva riferire la corruzione di Curione e il suo accordo con Cesare nella parte che precedeva immediatamente il frammento). Questa lettura comporta di conseguenza la necessità di pensare che “illi” sia Ce-
210 Già il 1 dicembre 50 Curione aveva presentato in Senato una proposta che si prestava a favorire i piani di Cesare (se Cesare avesse deposto le armi, doveva farlo anche Pompeo, vedi Dio 40, 62.3-4). 211 Si veda il bel commento di Della Corte 19702, p. 107.
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sare (quanto a “se”, è evidente che si tratta di Curione stesso): apertamente Curione dichiarava a Cesare che avrebbe trovato in lui un fermo oppositore; di fatto, lui e Cesare si erano già accordati. Tale lettura a Müller sembra fare difficoltà: lo studioso propone infatti una trasposizione che darebbe il testo “Curio dicebat amicis, ut illi renuntiaretur se, cum id fecisset, obstringillaturum ne triumphus ecc.”. Se, in questo caso, il soggetto di “cum id fecisset” fosse Curione, il frammento risulterebbe molto meno incisivo: verrebbe meno l’opposizione fra quello che Curione dichiarava pubblicamente e quello che invece aveva fatto (prendere accordi in segreto). Infatti, con il testo di Müller, “cum id fecisset” farebbe parte del discorso indiretto di Curione e bisognerebbe quindi pensare che Curione alludesse a proprie azioni che lo spingevano a opporsi a Cesare: una precisazione superflua da parte di Curione, data per giunta in una forma estremamente vaga e fiacca. Forse un modo migliore di intendere il testo di Müller sarebbe pensare che il soggetto di “cum id fecisset” sia Cesare (“dal momento che Cesare si era comportato così, Curione si sarebbe opposto…”). Tuttavia, in tal caso si sentirebbe la mancanza di un’indicazione esplicita del soggetto (tipo “cum ille id fecisset”) e, comunque, il senso generale del frammento risulterebbe meno pregnante: non avremmo infatti una rappresentazione impietosa dell’agire subdolo di Curione, che dichiara una cosa quando ha già preso la decisione opposta, ma il frammento descriverebbe un Curione ancora pienamente “pompeiano”, che dichiara la propria ostilità a Cesare, visto il comportamento di quest’ultimo. Preferisco dunque non modificare il testo tradito e darne la lettura sopra proposta (supportata anche dalla testimonianza delle altre fonti sul comportamento di Curione). Per quanto riguarda la forma del frammento, non è escluso che Varrone, attraverso lo stile pomposo del discorso attribuito a Curione (si noti la sintassi tortuosa e l’uso dell’arcaico obstringillo), volesse stigmatizzare la doppiezza del personaggio, che dichiarava con solennità una cosa quando aveva già fatto esattamente l’opposto. 111 (= 116 R.; 427 S.) neque id caeci consulis fecissent, qui mandata arcana T. Ampio dedissent, ut audivi dicentem Cn. Magnum, 1: consulis codd.; consules edd. | qui Martini, Laguna; quei Lindsay, Rip., Sal.; quae codd. | tampio sedissent codd., corr. Lachmann; 1-2: ut audivi dicentem Popma, Lindsay, Rip., Sal.; aut dividi centum codd.; uti vi discedentem Laguna, Müller (qui dub. supplevit); ad ibi degentem Baehrens 466
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Non. p. 844.14-16: CAECVM veteres pro inprovido dixerunt. 1: invido BCA
né avrebbero potuto farlo i consoli che, mostrando cecità politica, avevano assegnato a Tito Ampio degli ordini segreti, come so per averlo sentito da Gneo (Pompeo) Magno La citazione si riferisce con buona probabilità al comportamento dei consoli nell’imminenza dello scoppio della guerra civile: Varrone ne criticherebbe gli errori politici e la scelta ottusa di opporsi alle richieste di Cesare, che avrebbe condotto a breve al varco del Rubicone e all’inizio delle ostilità vere e proprie. Il fr. 110 sembra riguardare eventi precedenti le vicende trattate nel fr. 111 (nel primo si presenta il comportamento di Curione quando questi ancora fingeva di parteggiare per Pompeo, ossia prima del 1° gennaio 49, quando, presentandosi in senato come portavoce delle richieste di Cesare, Curione rese esplicito il proprio passaggio al partito cesariano, mentre il secondo, che riguarda i consoli del 49, senza dubbio si riferisce a eventi posteriori al 1° gennaio, data in cui costoro entrarono in carica; inoltre, mentre il frammento su Curione sembra alludere a una fase in cui uno scontro fra Cesare e Pompeo “era nell’aria”, ma non costituiva ancora una minaccia imminente, il frammento sui consoli si spiega meglio se riferito a un momento successivo, in cui la guerra civile era ormai inevitabile e le parti in causa predisponevano già il proprio piano di azione). Per questi motivi, ho pubblicato i frr. 110 e 111 in quest’ordine, invertendo l’ordine stampato da Riposati e Salvadore. Anche se il senso del frammento nel complesso è chiaro (Varrone critica gli errori tattici commessi dai consoli e la loro scelta di dare disposizioni segrete a un esponente minore del partito pompeiano, Tito Ampio, una scelta che a Varrone non doveva sembrare felice, come si può dedurre dal tono generale del passo, sebbene il testo non contenga un esplicito giudizio di condanna), singoli punti sono destinati a rimanere oscuri. Ciò avviene non solo a causa del taglio di Nonio, che ha privato il passo del suo contesto ed ha escluso elementi preziosi (come l’indicazione esatta dell’elemento cui si riferisce il deittico “id”), ma anche per il tono cauto e reticente che è probabile Varrone stesso assumesse nel riferire questo episodio. Dobbiamo tenere conto, infatti, che Varrone (che scrive queste parole in un momento delicato, subito dopo l’assassinio di Cesare e nel corso di una nuova guerra civile, quella fra i triumviri e i cesaricidi, in cui prendere posizione su un tema “caldo” come lo scontro fra Cesare e Pompeo richiedeva non poco coraggio) nei frr. 110 e 111 sembra quasi 467
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rinnegare le scelte del partito che aveva sostenuto e sottoporle a una critica impietosa, arrivando perfino (se si accetta una correzione molto probabile al testo tradito, vedi infra) a rivelare notizie che Pompeo gli aveva confidato in privato. L’intera operazione richiedeva delicatezza, intelligenza e riservatezza: sospetto pertanto che Varrone, nel passo da cui proviene il fr. 111, si limitasse ad alludere agli errori dei consoli e alla loro azione senza scendere in dettagli eccessivi, con la conseguenza che forse, anche se avessimo avuto una citazione più ampia di quella trasmessa da Nonio, non avremmo comunque ottenuto maggiori informazioni sugli ordini segreti dati dai consoli a Tito Ampio e sulle confidenze di Pompeo. In ogni caso, in base al poco testo conservato da Nonio e ai rapidi accenni di Varrone, la ricostruzione più probabile del passo è supporre che la parte precedente la citazione menzionasse le proposte di trattativa avanzate da Cesare ai consoli dopo che questi, nella seduta del 1° gennaio, ne avevano respinto le richieste e, con il senatoconsulto del 7 gennaio, lo avevano dichiarato nemico pubblico (vedi Caes. b.c. 1, 5). In particolare, Varrone potrebbe pensare al momento in cui Cesare, già varcato il Rubicone, aveva inviato da Rimini ai consoli un’ultima richiesta di venire a patti (vedi b.c. 1, 9-11), a cui i consoli risposero con un arrogante rifiuto, che avrebbe condotto Cesare a dare il via di fatto alle ostilità. È possibile che Varrone, commentando in termini negativi la posizione dei consoli, concludesse citando il loro sciocco errore, che aveva offerto a Cesare il casus belli definitivo (“neque id caeci consules fecissent” ; molto simile è il giudizio sui consoli di Dio 40,66.4, τὴν ἔχθραν μόνον τὴν πρὸς τὸν Καίσαρα ἐνδειξάμενοι αὐτοὶ μὲν οὐδὲν ἄλλο ἰσχυρὸν παρεσχευάσαντο, ἐχείνῳ δὲ καὶ ἐκ τούτου πρόφασιν εὔλογον ἐς τὰ στρατόπεδα τὰ συνόντα οἱ κατασχεῖν παρέσχον). L’aggettivo “caecus” si trova impiegato anche altrove in riferimento a un errore tattico: “caecus” è il generale o l’uomo politico che, senza avvedersene, si pone da solo in una posizione strategica svantaggiosa e così determina fatalmente la propria sconfitta, vedi Liv. 7, 34.4: arx illa est spei salutisque nostrae, si eam, quoniam caeci reliquere Samnites, impigre capimus; cfr. Cic. Att. 3, 15.5, caeci, caeci, inquam, fuimus in vestitu mutando, in populo rogando; Curt. 8, 13.25, caeci atque improvidi. Nel dare il testo della prima parte del frammento mi discosto dagli altri editori, che accolgono la correzione “quei” per il tradito “quae”. Sebbene sia necessario un relativo che riferisca a “consulis” il seguito del discorso, preferisco stampare la grafia “qui” rispetto a “quei”, che si può difendere solo in quanto apparentemente più vicina a “quae” dei codici. Tuttavia, se pensiamo che 468
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l’errore potrebbe essersi generato non tanto per una confusione grafica a partire dalla scrittura piena “quae”, quanto per uno scambio di compendio (che limiterebbe il segno abbreviativo alla sola lettera “q”) o per un banale errore di dettatura avvenuto per l’influsso del vicino “mandata”, viene meno il motivo principale per preferire “quei” a “qui”. Viceversa, ho accolto la grafia “consulis” dei codici, sulla scorta degli altri casi dei nominativi plurali in “-is” riscontrati nel de vita e trasmessi dall’intera tradizione manoscritta (vedi fr. 4). Come detto sopra, sia per il taglio operato da Nonio sia per il tono allusivo e reticente del racconto di Varrone, non siamo nelle condizioni di ipotizzare di che natura fossero le disposizioni segrete date dai consoli a Tito Ampio. È plausibile che si trattasse di un piano di guerra; in tal caso, Varrone potrebbe aver detto che i consoli, prima di ricevere da Cesare la seconda proposta di pace, avevano già avviato le operazioni di guerra e dato ordine a Tito Ampio di approntare il necessario in previsione di uno scontro. Se ammettiamo un’ipotesi del genere e riferiamo “qui mandata arcana T. Ampio dedissent” a un momento anteriore a quello in cui si verificherebbe l’azione descritta dalla pericope “neque id caeci consules fecissent”, forse la ricostruzione migliore dell’intero passo sarebbe la seguente: dopo aver menzionato la proposta conciliante di Cesare e aver detto che questa era stata respinta, Varrone avrebbe potuto concludere commentando che, del resto, i consoli, anche se avessero voluto, non avrebbero potuto più acconsentire alle richieste di Cesare, dal momento che nel frattempo, con sciocca precipitazione, avevano già ordinato a Tito Ampio di avviare le operazioni di guerra. L’intero passo sarebbe potuto apparire nella forma: “ né avrebbero potuto accettare la proposta i consoli, poiché, stoltamente, avevano già dato ordini a Tito Ampio ecc.”. Quanto a Tito Ampio Balbo, fu un esponente del partito pompeiano (tribuno della plebe nel 63, pretore nel 58), che, durante la guerra civile, diresse le operazioni militari in Asia (dove era stato governatore nel 57 ed era tornato nel 49 in qualità di legato del console Lentulo): Cesare lo ritrae appunto, a b.c. 3, 105.1, dedito a saccheggiare il tesoro del tempio di Diana a Efeso. Amico di Cicerone, questi gli farà ottenere il perdono da parte di Cesare nel 46 (cfr. RE I, 2, coll. 1978-1979). Una lettera di Cicerone ad Attico del 49 (8, 11b.2) descrive proprio lo zelo messo da Tito Ampio nel reclutamento delle truppe pompeiane (cum eo venissem, vidi T. Ampium dilectum habere diligentissime), il che potrebbe costituire un elemento a sostegno della mia lettura del fr. 111. 469
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L’ultima parte del frammento (“ut audivi dicentem”) è una bella congettura di Popma per il tradito “aut dividi centum”. I tentativi diversi di risolvere la stringa (“uti vi discedentem” di Müller, “ad ibi degentem” di Baeherens: queste proposte vorrebbero ripristinare parte dei “mandata arcana” a Tito Ampio, che Varrone avrebbe espresso in una completiva o in un discorso indiretto troncati brutalmente dalla citazione di Nonio) non sono altrettanto economici e convincenti. Soprattutto, con queste proposte bisognerebbe pensare a degli ordini dei consoli in base ai quali Tito Ampio era invitato a commettere operazioni ostili nei confronti di Pompeo: un dato che non trova conferma nella tradizione e anzi risulta contradditorio rispetto a quello che sappiamo sullo svolgimento della guerra civile. È molto più probabile pensare invece che Pompeo fosse a conoscenza di un particolare retroscena della convulsa situazione politica del 49 e avesse voluto confidarlo al suo amico Varrone (sui rapporti fra Varrone e Pompeo, e in particolare sulla volontà di Varrone di proporsi come “letterato ufficiale” di Pompeo, vedi Della Corte 19702, pp. 51-73). Per lo stilema “ut audivi dicentem…”, cfr. r.r. 2, 10.8, ut te audii dicere e Sall. Cat. 48.9: ipsum Crassum ego postea praedicantem audivi tantam illam contumeliam sibi ab Cicerone inpositam (passo molto vicino al nostro); Iug. 14.12, uti praedicantem audiveram patrem meum. 112 (= 118 R.; 429 S.) Caesar reversionem fecit ne post occipitium in Hispania exercitus qui erant relinqueret, quo se coiceret Pompeius, ut ancipiti urgueretur bello 1: caesar reversione fecit (cessare versione AA) codd., corr. Aldus; Caesar reversione effecit Müller; 1-2: relinqueret Mercier; relinquerent codd.; relinquerentur Müller; 2: ut codd.; aut Müller, Lindsay, Rip., Sal. Non. p. 368.13-20: ANCEPS, duplex. […] Varro de vita populi Romani lib. IV:
Cesare invertì la direzione di marcia per non lasciarsi alle spalle gli eserciti di stanza in Spagna, dove poteva dirigersi Pompeo, così da trovarsi incalzato da una guerra su due fronti Il frammento descrive le primissime fasi della guerra civile e corrisponde a quanto Cesare riferisce a b.c. 1, 29-30: dopo la partenza di Pompeo da Brindisi per Durazzo, Cesare, giunto nel frattempo anche lui a Brindisi (cfr. 1, 27-28), decise di desistere dall’inseguimento di Pompeo e di fare dietro front in direzione del470
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la Spagna, dove erano di stanza cospicue truppe da tempo fedeli a Pompeo212. Voleva infatti consolidare la situazione alle proprie spalle prima di affrontare Pompeo in Macedonia, per evitare di trovarsi impegnato in una difficile guerra su due fronti e dover affrontare in contemporanea gli eserciti iberici e quelli in Grecia (vedi 1, 29.3-30.1: interea veterem exercitum, duas Hispanias confirmari, quarum erat altera maximis beneficiis Pompei devincta, auxilia, equitatum parari, Galliam Italiamque temptari se absente nolebat. Itaque in praesentia Pompei sequendi rationem omittit, in Hispaniam proficisci constituit; cfr. Dio 41, 15.1). Il fr. 112 coincide alla perfezione con il racconto di Cesare; inoltre, dal confronto appare evidente che questi calcolava che, se fosse passato in Macedonia lasciandosi alle spalle truppe integre, consistenti e fedeli a Pompeo, si sarebbe trovato a breve in una posizione sfavorevole. Il senso richiede dunque che il rischio di dover affrontare una guerra su due fronti dipenda strettamente dalla scelta di non sconfiggere prima gli eserciti in Spagna: è quindi richiesta una consecutiva che, nel fr. 112, faccia dipendere la conseguenza (“ut ancipiti urgueretur bello”) dalla mossa strategica che potrebbe causarla (“in Hispania exercitus qui erant relinqueret…”). Non c’è quindi ragione di modificare il testo tradito e di correggere “ut” in “aut”, come fanno tutti gli editori a partire da Müller (a cui evidentemente dava fastidio la presenza, nella frase, di più gradi di subordinazione), una scelta che, a parer mio, peggiora di molto il testo, dal momento che renderebbe meno “logico” il ragionamento di Cesare (che nel fr. 112 si configura con una chiarezza quasi da dimostrazione matematica) e non farebbe più dipendere il rischio di essere attaccato su due fronti dalla scelta, tatticamente errata, di procedere senza precauzioni all’inseguimento di Pompeo. Nel frammento, ad “anceps” va attribuito il significato di “su due fronti” (vedi ThLL II 23.79-24.25); molti dei paralleli riportati da Salvadore (pp. 131-132) per iuncturae quali “bellum / pugna / proelium anceps” non sono validi, in quanto attestazioni di “anceps” in un senso diverso (“dall’esito incerto”, cfr. ThLL II 24.26-37). La formula “reversionem facere”, che troviamo già in Plauto (Bacch. 296; Truc. 396), sembra cara a Varrone, che la impiega anche in un frammento del l. 20 delle antiquitates rerum humanarum (fr. 3 Mirsch): ad milites facit reversionem (vedi il commento di Ranucci 1972, pp. 129-130). “Post occipitium” (“dietro la nuca” = “alle spal Cfr. Dio 41, 10.4. Vale la pena ricordare che, a capo delle truppe in Spagna, c’era proprio Varrone. Sul comportamento di Varrone nel corso della guerra civile, vedi Della Corte 19702, pp. 105-115. 212
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le”) è una vivace formulazione di Varrone, che non si ritrova in altri scrittori coevi; sembra tuttavia propria del lessico militare: cfr. Veg. 3, 14.3, ita ergo constituantur ordines, ut haec (sc. sol, pulvis ventusque) post occipitium nostrum sint et, si potest fieri, adversariorum impetant faciem (anche Amm. 24, 6.12 descrive un esercito che ne insegue un altro in modo incalzante con le parole eius … occipitiis pertinacius haerens). 113 (= 119 R.; 430 S.) itaque multis civibus ex utraque parte sauciis, multis occisis fugatur 1: ex – fugatur om. AA Non. p. 639.1-14: SAVCII dicuntur proprie vulnerati, non maesti, sicuti vult consuetudo, […] Varro de vita populi Romani lib. IV:
e così, feriti e uccisi molti cittadini dell’una e dell’altra parte, è volto in fuga Quasi con certezza il frammento si riferisce all’esito della battaglia di Farsalo e alla rotta dei soldati di Pompeo (cfr. b.c. 3, 94.2: sustinere Pompeiani non potuerunt atque universi terga verterunt; App. 2, 80). Considero quindi Pompeo stesso come il soggetto di “fugatur”, scostandomi dall’interpretazione di Della Corte 19702, p. 119, che propone di intendere “fugatur” come una costruzione impersonale (“ci fu la fuga generale”), un uso del verbo in senso intransitivo che non trova riscontri (i casi menzionati dal ThLL VI, 1 1498.35 alla voce “passivo interdum sensus medialis inest sc. fugiendi” sono pochi, di autori molto tardi e non sovrapponibili al fr. 113; capirei la proposta di Della Corte solo con una modifica del testo in “fugitur”, che sarebbe però una banalizzazione). Per la fuga di Pompeo, vedi Caes. b.c. 3, 94.5; Plutarco (Caes. 45.4, Pomp. 72.1-2) e Appiano (2, 81): a differenza di Cesare, che salva la dignità dell’avversario, le altre fonti si soffermano a descrivere lo stato di grave prostrazione mentale del generale sconfitto (cfr. Luc. 7,646-727; 8,1-19). La formulazione data da Varrone è particolarmente ricercata e incisiva, in linea con il tono di biasimo retoricamente elaborato che caratterizza tutti i frammenti del l. 4 dedicati alla crisi della repubblica; in questo caso, con sobrietà ed efficacia, Varrone riesce a suggerire tutto il dramma delle guerre civili per mezzo di artifici stilistici piuttosto semplici: l’insistita ripetizione “multis … sauciis, multis occisis”, che suggerisce in modo immediato la gravità delle perdite umane; l’estrema rapidità del racconto, che condensa lo svolgersi di un’intera battaglia in due lapidari ablativi assoluti (cfr. il racconto, vicinissimo al fr. 113, di Dio 41, 472
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61.1, πολλῶν ἀμφοτέρωθεν ὁμοίως καὶ πεσόντων καὶ τρωθέντων, ὁ Πομπήιος ... ἡττήθη); la scelta pregnante di adoperare il termine, carico di significato, “civibus” (non “militibus” o “viris”), che da solo basta a rendere l’idea della mostruosità di uno scontro che vede dei concittadini schierati su fronti opposti. Sebbene la scena si chiuda con la fuga di Pompeo, va però osservato che, con l’equilibrata precisazione “ex utraque parte”213, Varrone in un certo senso unifica i soldati cesariani e quelli pompeiani e li presenta come vittime alla pari di un’unica tragedia (cfr. il bel parallelo segnalato da Salvadore di Vell. 2, 52.3, aciem Pharsalicam et illum cruentissimum Romano nomini diem tantumque utriusque exercitus profusum sanguinis et collisa inter se duo rei publicae capita … tot talesque Pompeianarum partium caesos viros non recipit enarranda hic scripturae modus). 114 (= 120 R.; 431 S.) ita huius belli horribilis finis facta Non. p. 301.5-302.20: FINEM masculino genere dicimus. […] feminino […] Varro de vita populi Romani lib. IV.
così si pose fine a questa guerra orribile Il frammento doveva corrispondere al punto del l. 4 in cui Varrone concludeva il racconto della guerra civile fra Cesare e Pompeo214. Il giudizio di totale condanna che troviamo nelle altre citazioni dedicate allo stesso tema è ribadito dall’impiego dell’aggettivo “horribilis”. In modo significativo, l’unica altra attestazione in cui ricorre il raro sintagma “bellum horribile” riguarda proprio lo scampato pericolo di una guerra civile: Cic. Cat. 2.15, est mihi tanti, Quirites, huius invidiae falsae atque iniquae tempestatem subire, dummodo a vobis huius horribilis belli ac nefarii periculum depellatur215 (cfr. Cic. Phil. 11.12: Cfr. Ov. met. 14, 529-530, multumque ab utraque cruoris / parte datur (sunto della guerra “quasi civile” fra Enea e gli Italici). 214 Non è facile stabilire, data la perdita del contesto, se Varrone considerasse la battaglia di Tapso (46) oppure quella di Munda (45) come l’episodio conclusivo della guerra. Della Corte 1970, p. 148, n. 51, si pronuncia a favore della prima ipotesi, ma la questione resta aperta. 215 L’esempio di Oros. 7, 29.12 (sequitur bellum illud horribile inter Constantium Magnetiumque apud Mursam urbem gestum, in quo multa Romanorum virium profligatio etiam in posterum nocuit) è molto tardo, tuttavia non del tutto alieno, nel senso generale, ai frr. 113 e 114: nel 213
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quidvis patiendum fuit ut hoc taeterrimum bellum non haberemus). Per la caratterizzazione della guerra civile come “bellum nefandum”, vedi Luc. 1, 21216; 1, 325; 2, 286 (summum, Brute, nefas civilia bella fatemur); 4, 172; 7, 432; cfr. 9, 10471048, huncine tu, Caesar, scelerato Marte petisti, / quem tibi flendus erat?. Per le attestazioni di “finis” al femminile (motivo della citazione del frammento da parte di Nonio), vedi ThLL VI, 1 787.7-83. 115 (= 121 R.; 434 S.) tanta porro invasit cupiditas honorum plerisque, ut vel caelum ruere, dummodo magistratum adipiscantur, exoptent Non. p. 801.8-802.28: dativus pro accusativo. […] Varro de vita populi Romani lib. IV:
in seguito i più sono stati invasi da una tale brama di ottenere cariche che accetterebbero persino che venga giù il cielo, pur di avere una magistratura A partire da questo frammento, raccolgo le citazioni dedicate alla critica della corruzione politica e del lusso eccessivo nella vita privata. Per la connessione fra il racconto delle guerre civili e il biasimo della degenerazione della prassi politica (che, con buona probabilità, Varrone annoverava fra le cause delle guerre civili stesse), si veda quanto detto nell’introduzione al l. 4. La citazione raffigura, con vivace spirito satirico, l’ambizione degli uomini politici disposti a qualsiasi nefandezza pur di accumulare cariche: accetterebbero di buon grado anche la fine del mondo, piuttosto che l’eventualità di non avere una magistratura (abbastanza vicino al quadro qui tracciato da Varrone è il ritratto senecano dell’ira a de ira 2, 35.5, si aliter nocere non possit, terras maria caelum ruere cupientem217). presentare una guerra civile, anche Orosio qualifica questa come “bellum horribile” e insiste sul deleterio spreco di vite di concittadini. Ovviamente, è improbabile che Orosio avesse in mente questi passi di Varrone, mentre è facile supporre che tanto Varrone quanto Orosio, nel presentare un quadro negativo delle guerre civili, abbiano adoperato motivi retorici di uso comune. 216 Formalmente modellato su Verg. Aen. 12, 572, hoc caput, o cives, haec belli summa nefandi. 217 Per l’espressione, cfr. il fr. 1 Ribbeck dell’Augur di Afranio: modo postquam adripuit rabies hunc nostrum augurem, / mare caelum terram ruere ac tremere diceres. Seneca potrebbe anche aver avuto in mente la rappresentazione virgiliana di Giunone irata a Aen. 1, 279-280, aspera Iuno / quae mare nunc terrasque metu caelumque fatigat.
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Della Corte 19702, pp. 106, pensa che il frammento si riferisca nello specifico al comportamento dei partigiani di Cesare e di Pompeo nell’imminenza della guerra civile; io sarei più prudente ed eviterei un’identificazione così definita del contesto del frammento, che potrebbe anche far parte di una tirata più generale dell’autore contro il malcostume del suo tempo. La definizione di un contesto per i frr. 115, 116 e 117, è infatti davvero difficile: non si può stabilire se queste citazioni facciano parte dell’analisi avviata al fr. 108 (dai Gracchi in poi a Roma si sono avute soltanto guerre civili e violazioni alla prassi politica regolare; in tal caso, le osservazioni sull’ambizione andrebbero inserite nell’ambito del racconto delle travagliate vicende del I sec. a.C.), oppure vadano attribuite a una digressione specifica appositamente dedicata al problema del malcostume politico. Nel secondo caso, se cioè i frr. 115, 116 e 117 appartenevano a una stessa sezione, interamente dedicata alla critica dell’ambizione politica, questa poteva essere collocata sia in apertura del l. 4 (in una parte introduttiva dedicata all’analisi delle cause delle guerre civili, fra cui poteva a ben diritto comparire l’ambizione politica), sia nel corso del racconto storico, a mo’ di excursus, (se così fosse, questi frammenti avrebbero potuto comparire anche prima del fr. 114, dove Varrone parla della conclusione della guerra civile fra Cesare e Pompeo, ma, ovviamente, sarebbe quasi impossibile suggerire, in questo caso, una sede precisa, perché, in teoria, le citazioni potrebbero collocarsi in qualsiasi punto fra il fr. 108 e il fr. 114), sia al termine della cronaca delle guerre civili, come riflessione retrospettiva. Come si vede, non è facile stabilire una collocazione precisa per questi frammenti, né il fatto che Varrone parla al passato impone di concludere necessariamente che i frr. 115, 116 e 117 facessero parte di un racconto storico: come ho detto, non si può escludere che, in qualsiasi punto del libro, Varrone inserisse una digressione volta a esaminare la decadenza della prassi politica nell’ultima fase della storia repubblicana, forse estendendo il discorso fino ai suoi giorni218, il che spiegherebbe l’andamento “narrativo” del frammento. Ritengo probabile che Varrone coinvolgesse nella critica all’ambizione politica anche il periodo a lui contemporaneo, come farebbe pensare il passaggio, nel fr. 115, dal passato (“invasit”) al presente (“adipiscantur”, “exoptent”) o il contenuto del fr. 117, in cui Varrone sembra invitare il lettore a constatare nello stato presente il frutto di decenni di scontri civili e malcostume politico. Se davvero i frr. 115, 116 e 117 appartengono allo stesso discorso, forse la ricostruzione più probabile sarebbe pensare a una digressione in cui Varrone, partendo da una descrizione satirica della corruzione politica del suo tempo, procedeva a un’analisi delle cause della decadenza della vita civile e dei modi in cui la brama di potere aveva contaminato 218
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Per tornare al fr. 115, il motivo retorico che ritrae l’ambizioso come disposto a tutto, pur di avere più potere, è frequente219; vedi Sall. Cat. 5.6, hunc (sc. Catilinam) post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae; neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat; 37.10, conturbari rem publicam quam minus valere ipsi malebant. Bessone 2008, p. 52, n. 60, propone di avvicinare la descrizione dei politici ambiziosi fornita in questo frammento ai celebri versi di Lucr. 3, 59-63, denique avarities et honorum caeca cupido / quae miseros homines cogunt transcendere finis / iuris et interdum socios scelerum atque ministros / noctes atque dies niti praestante labore / ad summas emergere opes; se davvero il passo di Lucrezio ha esercitato un certo influsso su Varrone (non è escluso: nell’appendice dimostro che Varrone sembra conoscere e, in vari casi, imitare proprio i proemi lucreziani), si tratterebbe di un altro caso di ripresa, analogo a quello presentato al fr. 65, di materiale lucreziano da parte di Varrone (per tutta la questione rimando all’appendice). Va però osservato che in questo caso, a differenza del fr. 65, i contatti fra Lucrezio e Varrone sono soltanto contenutistici, ma mancano riprese verbali significative (quindi Varrone avrebbe anche potuto sviluppare un motivo polemico comune, senza dover necessariamente avere in mente proprio l’inizio del terzo libro del de rerum natura). Per lo stilema “tanta invasit cupiditas honorum”, cfr. Sall. Iug. 24.1, quem tanta lubido extinguendi me invasit; 32.4, tanta vis avaritiae animos eorum veluti tabes invaserat (cfr. fr. 117); 84.3, tanta lubido cum Mario eundi plerosque invaserat; vedi anche Iug. 89.6, eius potiundi Marium maxuma cupido invaserat.
ogni parte della cittadinanza. Purtroppo, resta difficile stabilire, in tal caso, in che modo Varrone organizzasse il proprio discorso. Allo stesso modo, risulta arduo anche capire a cosa si riferisca “porro” nel fr. 115 (“in seguito” rispetto a un dato evento storico? Varrone indicava più fasi diverse nel processo di decadenza della vita politica, analogamente a Sall. Cat. 11.1-4: sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat … sed postquam L. Sulla armis recepta re publica bonis initiis malos eventus habuit, rapere omnes, omnes trahere …?). 219 Non del tutto pertinenti i paralleli riportati da Salvadore (pp. 134-135), dove spesso si parla di una “honorum cupido” onesta, non morbosa e incline al delitto.
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116 (= 122 R.; 435 S.) itaque propter amorem imperii magistratus gradatim seditionibus sanguinulentis ad dominatus quo appellerent 2: ad dominatus quo appellerent Baehrens, Sal. dubitanter accepi; aut dominatus quo appellerent codd., Lindsay (in textu); ut dominatus quos appeterent Mercier; aut dominatus quos appeterent Rip.; ad dominatus quom aspeirarent Müller; ut dominatus quom peterent Lindsay (“fortasse” in app.) | post appellerent e.g. suppleverim Non. p. 745.25-1: SANGVINVLENTVM corporum potest esse. lectum est et de incorporeis. Varro de vita populi Romani lib. IV. 1: potest] putant Müller; oportet Lindsay (“fortasse” in app.)
e così per brama di potere (accumulavano) le magistrature una dopo l’altra, con sanguinose sedizioni, per approdare al dominio assoluto Dopo il fr. 115, che fornisce un ritratto paradossale e sarcastico degli effetti della “cupiditas honorum”, il fr. 116 costituisce un’altra citazione dedicata al biasimo dello stesso vizio: Varrone, nel presente frammento, mostra infatti i deleteri effetti dell’“amor imperii” dei politici corrotti che, pur di accaparrarsi cariche, producono “sanguinose sedizioni” e, soprattutto, con la loro morbosa brama di potere dimostrano senza mezzi termini di aspirare al dominio assoluto. Per la vicinanza tematica dei due frammenti, che sembrano quasi legati da un rapporto causale (il fr. 115 presenta la brama di potere nei suoi aspetti più grotteschi, il fr. 116 mostra i danni che questa produce e ne rivela l’intima aspirazione; inoltre, sebbene non si possa escludere che fra le due citazioni intercorresse altro testo, è intrigante pensare che la congiunzione “itaque” che apre il fr. 116 lo ponga in un rapporto diretto con il fr. 115: “i politici corrotti sarebbero disposti a tutto pur di ottenere le cariche e così con sanguinose sedizioni (hanno assunto) una magistratura dopo l’altra”), ho deciso di stamparli l’uno di seguito all’altro e in quest’ordine. Il taglio di Nonio ha escluso il verbo che dovrebbe reggere l’oggetto “magistratus”220 (“magistratus” non può essere il soggetto, perché una considerazione del senso generale della citazione richiede che il soggetto della prima parte del
Sospetto che questo comparisse subito dopo il termine della citazione, in quanto dubito che Varrone ponesse il verbo della principale prima di “itaque”, che apre il discorso. 220
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frammento fosse lo stesso del successivo “appellerent”). Si pone il problema se Varrone dicesse qualcosa come “costoro, con sanguinose sedizioni, corrompevano le magistrature una dopo l’altra (“gradatim”)”, oppure “accumulavano magistrature una dopo l’altra, anche per mezzo di sedizioni sanguinose”. Fra le due possibilità, ritengo che la seconda di gran lunga preferibile; permetterebbe infatti di rendere il fr. 116 quasi speculare rispetto al fr. 115: come in questo si dice che la “cupiditas honorum” spinge i politici a fare di tutto “dummodo magistratum adipiscantur”, così il fr. 116 ribadirebbe che costoro “propter amorem imperii” fanno incetta di magistrature (propongo di integrare exempli gratia “occupabant”, che credo renda bene l’idea di una vera e propria gara, fra i politici corrotti, ad accaparrare quante più magistrature possibili prima degli altri221; con la mia integrazione, si avrebbe un parallelismo fra “magistratum adipiscantur” e “magistratus gradatim … ”). Il testo della seconda parte del frammento è controverso. I codici hanno “aut dominatus quo appellerent”, un’espressione di difficile comprensione, complicata dalla presenza di un “aut” privo di termine correlato, che si espone al sospetto di essere una corruttela. Baehrens ha proposto di correggere il testo tradito in “ad dominatus quo appellerent”, soluzione accolta anche da Salvadore e, in assenza di proposte migliori, da me. Si tratta, fra i vari interventi avanzati, di quello in assoluto più economico (la correzione richiesta sarebbe minima): Varrone concluderebbe il ritratto degli ambiziosi specificando che tanta brama di accumulare cariche, anche a costo di spargimenti di sangue, era motivata dall’aspirazione ultima a concentrare tutto il potere nelle proprie mani e a conquistare il dominio assoluto (“accumulavano magistrature per approdare al dominio”; per la costruzione di “appello” con “ad” e l’accusativo, vedi THLL II 275.45-276.72). Il senso così restituito è accettabile e la correzione sembra pratica, anche se va tenuto conto di una oggettiva difficoltà sintattica posta dal testo di Baehrens: nella stringa “ad dominatus quo appellerent” la congiunzione “quo” è posticipata, con una certa durezza, rispetto a “ad dominatus”. Tuttavia, è possibile che in un passo di stile sostenuto, caratterizzato da un certo tono retorico e letterario (vedi l’uso del raro aggettivo “sanguinulentus”, per cui cfr. fr. 117), Varrone abbia voluto dare rilievo al termine “dominatus”, che costituisce in effetti il concetto chiave del frammento, riservandogli una posizione enfatica all’interno della frase, marcata dall’iperbato. Per la contesa fra i cittadini nel possesso delle cariche e del governo, vedi Sall. Iug. 41.2: ante Carthaginem deletam … neque gloriae neque dominationis certamen inter civis erat.
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Per dare una rapida scorsa alle altre correzioni proposte, Mercier congettura “ut dominatus quos appeterent”, per cui il frammento si dovrebbe intendere come “(accumulavano) le magistrature con sedizioni per il dominio cui aspiravano”. L’intervento di Mercier è troppo massiccio per poter essere accolto senza remore e risulta poco economico, in quanto richiede di integrare a senso non più soltanto il verbo della principale, ma anche quello retto da “ut” (in quanto “appeterent” diviene a sua volta parte di una relativa). La proposta di Mercier è stata seguita in parte sia da Müller sia da Riposati. Müller, seguendo il senso indicato da Mercier, si spinge a una totale riscrittura del frammento (“ad dominatus quom aspeirarent” = “(accumulavano) magistrature con sedizioni mentre aspiravano al dominio”)222; mentre Riposati stampa “aut dominatus, quos appeterent”. Il testo di Riposati dà non poche difficoltà. In primo luogo, è quasi intraducibile “(accumularono?) con sanguinose sedizioni le magistrature o il dominio che desideravano”? si resta in dubbio sul senso esatto della correzione, perché Riposati non traduce il frammento); poi, anche accettando l’interpretazione sopra ipotizzata, si pongono altri problemi: i due oggetti retti dal verbo omesso da Nonio (“magistratus” e “dominatus”) sarebbero posti a una distanza eccessiva l’uno dall’altro e, soprattutto, credo che il senso generale della frase lascerebbe molto a desiderare. Infatti, con il testo di Riposati, Varrone sembrerebbe mettere “magistratus” e “dominatus” quasi sullo stesso piano, il che è assurdo: le prime costituiscono infatti una forma di esercizio del potere regolare, in sé positiva, ma corrotta dalla prassi degli ambiziosi che cercano di impadronirsi delle magistrature anche con mezzi illeciti o sanguinari e che vorrebbero accumularle senza misura, mentre con il termine “dominatus” si indica una forma di potere dispotico condannata dalla forma mentis romana. L’opposizione fra “magistratus” e “dominatus”, che rimane vivida nel testo che stampo (“attenzione: costoro accumulano magistrature per accedere al dominio!”, cioè si servono dei mezzi legali con l’intento di instaurare un potere personale e straordinario), sparisce adottando quello di Riposati, dove i “dominatus” sembrano costituire nient’altro che un’alternativa alle magistrature.
222 In apparato Müller propone, in alternativa, “seditionibus sanguinulentis aut *** (e.g. alii usi artibus) dominatus quom appeterent”. La soluzione risulta ancora più macchinosa e richiede troppi passaggi (per salvare il tradito “aut” si interviene pesantemente su tutto il resto e si postula addirittura una lacuna).
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Coerentemente con quanto si verifica negli altri frammenti dedicati alla critica del malcostume politico, anche nel fr. 116 Varrone adopera un dettato enfatico, difficile sul piano della sintassi e prezioso su quello del lessico. Ho già accennato all’uso di “sanguinulentus”; merita di essere segnalato anche l’impiego di “dominatus”. Il termine, infatti, di norma è adoperato al singolare (vedi ThLL V, 1 1884.411887.5), mentre nel fr. 116 avremmo un’attestazione insolita di “dominatus” al plurale. In realtà, anche se rare, altre occorrenze al plurale esistono (fr. inc. trag. 105 Ribbeck, quam cara sint quae post carendo intellegunt, / quamque attinendi magni dominatus sient; Cic. rep. 1, 61, quin tu igitur concedis idem in re publica: singulorum dominatus, si modi iusti sint, esse optimos?); è quindi possibile che Varrone abbia voluto rendere più ricercato il proprio brano impiegando una forma poco diffusa223. Inoltre, va tenuto conto del fatto che l’impiego del plurale “dominationes” ricorre anche in un frammento delle historiae di Sallustio (l. 1, fr. 12) molto vicino a questa sezione del de vita per contenuto e tono generale (anche Sallustio biasima la corruzione della classe politica ambiziosa e vede nel malcostume generale la causa delle guerre civili): sub honesto patrum aut plebis nomine dominationes affectabant (cfr. Amm. 21, 16.8, adfectatae dominationis; per “dominatio” come equivalente di tirannide, vedi ThLL V, 1 1878.28-1880.69; per l’uso del plurale vedi anche Cic. leg. agr. 2.8; rep. 2, 48; Tac. ann. 3, 26; 12, 4; 13,1). Sulla brama di “dominatio” come causa di contrasti civili, vedi anche il fr. 8 dal l. 1 delle historiae: nobis primae dissensiones vitio humani ingenii evenere, quod inquies atque indomitum semper in certamine libertatis aut gloriae aut dominationis agit. 117 (= 123 R.; 437 S.) quo facilius animadvertatur per omnes articulos populi hanc mali gangraenam sanguinulentam permeasse 1: hanc mali suspectum: an huius mali? (cfr. Liv. 39, 9.1); 2: permeasse ed. 1471; perimasse codd.; permiasse Quicherat, Müller Non. p. 168.17-169.23: GANGRAENA est cancer. […] idem de vita populi Romani lib. IV: 1: carcer CADA | IIII F3; III LBA
Scarterei del tutto l’ipotesi di Brunetti (col. 939) di considerare “magistratus” e “dominatus” come due genitivi coordinati per asindeto con “imperii”.
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perché ci si renda conto più facilmente del fatto che questa sanguinosa cancrena del male si è ormai insinuata in tutte le membra del popolo Un ultimo frammento dedicato alla corruzione politica, più sconsolato delle due citazioni precedenti, in quanto qui Varrone osserva che il malcostume, che nei frr. 115 e 116 sembra limitato agli strati più alti della popolazione e ai soli politici ambiziosi e affamati di potere, ha ormai coinvolto l’intera cittadinanza e si è esteso a ogni fascia del popolo. È probabile che Varrone, nel seguito del discorso, fornisse esempi concreti che avrebbero dimostrato il suo assunto (per cui l’intero passo avrebbe potuto configurarsi come “racconterò cose a cui ho assistito, perché si capisca che ormai questa cancrena si è diffusa in tutte le membra del popolo…” e continuare con il racconto di specifici episodi). In modo efficace, l’autore paragona con una metafora la corruzione che coinvolge tutti gli ordini sociali a un male fisico, una cancrena sanguinosa che si è diffusa nell’intero organismo della città (per metafore del genere, applicate a mali politici e sociali, cfr. Sall. Cat. 10.6, ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissimo atque optumo crudele intolerandumque factum224; 36.5, tanta vis morbi ac veluti tabes plerosque civium animos invaserat; Iug. 32.4, tanta vis avaritiae animos eorum velut tabes invaserat; frr. hist. 4, 41, qui quidem mos ut tabes in urbem coniectus; Cic. Tusc. 4, 24, permanat in venas et inhaeret in visceribus illud malum (l’avarizia); Liv. 24, 2.8, unus velut morbus invaserat omnes Italiae civitates ut plebes ab optimatibus dissentirent, senatus Romanis faveret, plebs ad Poenos rem traheret; 28, 29.3, insanistis profecto, milites, nec maior in corpus meum vis morbi quam in vestras mentes invasit; Petr. 119.5455, sed veluti tabes tacitis concepta medullis / intra membra furens curis latrantibus errat). La vicinanza al testo di Varrone (“mali gangraenam … permeasse”) rende seducente l’ipotesi che anche la descrizione dell’avanzare della cancrena in Lucil. fr. 53 Marx (= 7 Krenkel), serpere uti gangraena mali225 atque herpestica possit vada inteso in senso metaforico: già Lucilio potrebbe aver parlato del male della corruzione politica che si diffonde nella società romana.
Vedi il commento ad loc. di Mariotti 2007, pp. 286-287, utile anche per il nostro frammento. Mali Deubner; mala Dousa pater, Krenkel; malum Müller. Marx prova a difendere la lezione “malo” dei codici, ma la sua spiegazione risulta macchinosa (“malo ablativus est: serpere posse cancrum malo nutritum dicit poeta”). 224
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Come nel fr. 116, Varrone indica gli effetti nefasti dell’ambizione e della brama di potere, che hanno condotto all’orrore delle guerre civili, per mezzo del raro aggettivo “sanguinulentus” (vedi OLD 1688; il passo più vicino ai nostri frammenti, per il riferimento di “sanguinulentus” a un oggetto astratto, è rhet. ad Herenn. 4, 51 (un esempio di peroratio), at inimici, statim sanguinulentam palmam crudelissima victoria potiti, insultabunt in horum miserias). La metafora “biologica” è condotta con assoluta sistematicità, tanto che Varrone adopera, oltra a “gangraena” (per un’altra attestazione del termine in Varrone, vedi Men. fr. 408 A., non vituperamus, cum sciamus, digitum praecidi oportere, si ob eam rem gangraena non sit ad bracchium ventura; a Men. fr. 373 A., invece, Varrone potrebbe aver impiegato “tabes” in un senso metaforico vicino a quello di “gangraena” nel frammento, ma la citazione dalla satira è troppo breve e controversa perché la cosa si possa sostenere con certezza)226, un altro termine del lessico medico, il tecnicismo “articuli” (letteralmente “articolazioni”, anche se nella mia traduzione ho scelto di renderlo in modo più libero come “membra”; per “articuli” = “membra” vedi ThLL II 693.23-31), per cui vedi ThLL II 691.37-696.40 (il fr. 117 sembra l’unica attestazione di un impiego di “articuli” in senso traslato, vedi 692.61-62). Quanto a “permeasse”, si tratta di una correzione sicura del tradito “perimasse”227 (per l’impiego, raro e ricercato, metaforico del verbo, in riferimento al diffondersi di un male, vedi ThLL X, 1 1536.43-47; per un’analoga descrizione del male che si insinua nel corpo, vedi Ov. met. 2, 825-826, utque malum late solet inmedicabile cancer / serpere et inlaesas vitiatis addere partes). Per quanto riguarda il testo della citazione, rimane una questione da discutere. Tutti gli editori accolgono il testo tradito dai codici di Nonio, che recita “hanc mali gangraenam sanguinulentam permeasse”. Questo, sebbene chiaro nel suo senso generale, presenta delle difficoltà nell’espressione. Il genitivo “mali”, isolato Il termine è un prestito dal greco γάγγραινα (vedi ThLL VI, 2 1691.28-68); la spiegazione di Nonio “gangraena est cancer” è frutto di una paretimologia errata (già operante in Cels. 5, 26), alla base anche della forma italiana “cancrena”. 227 Forse è superfluo accogliere la correzione “permiasse”, che sembra più vicina al testo tradito. Non escludo che l’originario “permeasse”, in fase di copia, sia prima divenuto “permiasse”, per un facile fenomeno fonetico, e poi si sia corrotto in “perimasse” (la sillaba “mi”, in minuscola, poteva infatti apparire come una serie di quattro aste, interpretabile anche come “im”), ma ciò non impone comunque di preferire “permiasse” a “permeasse”. 226
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e privo di un deittico che lo qualifichi, è debole e difficile da comprendere: stando al testo tradito, a “mali” andrebbe dato un significato particolare (“il Male” in senso assoluto, così che il passo andrebbe reso “questa cancrena sanguinosa del Male”), ma un uso del genere di “malum” non ha paralleli nella letteratura latina classica228. Inoltre, la formulazione della frase risulta goffa e poco perspicua: rispetto all’espressione involuta “si è diffusa questa sanguinosa cancrena del male” sarebbe molto più logico e piano il testo “si è diffusa la sanguinosa cancrena di questo male (ossia della corruzione, che poteva essere citata nella parte di testo precedente il taglio di Nonio)”229. Suggerirei pertanto di modificare il tradito “hanc mali gangraenam” in “huius mali gangraenam” (lo scambio potrebbe essere dovuto alla confusione di un compendio per il dimostrativo o a un errore di dettatura: il copista, ancora influenzato dal lemma “gangraenam”, potrebbe aver scritto “hanc … gangraenam” invece di “huius … gangraenam”)230. La correzione può essere sostenuta confrontando un altro esempio di uso metaforico dell’immagine del male che si diffonde: Liv. 39, 9.1, huius mali labes ex Etruria Romam veluti contagione morbi penetravit (del culto bacchico); il riscontro fra il passo di Livio e il testo di Varrone corretto (“huius mali gangraenam … permeasse”), già forte così, sarebbe ancora più stringente se in Livio si adottasse, invece di “labes”, la variante “tabes”, testimoniata da χ231. Le attestazioni, in contesti filosofici, di “malum” (opposto a “bonum”) sono molto diverse dal senso che “mali” dovrebbe avere nel frammento (vedi ThLL VIII 228.23-49). Anche se si intende “mali” nel senso letterale di “malattia” (vedi ThLL VIII 229.68-230.30), la difficoltà permane: “questa sanguinosa cancrena della malattia” è infatti espressione confusa e ridondante. 229 Anche Brunetti, pur stampando il testo tradito, lo traduce “la sanguinolenta cancrena di questo male”. Non so fino a che punto il testo tradito possa essere difeso pensando a una voluta enallage (del tipo di Prop. 3, 21,28, librorumque tuos … sales). 230 Alla correzione si potrebbe obiettare che il testo “per omnes articulos populi huius mali gangraenam” rischia di essere ambiguo, perché “huius” potrebbe essere riferito anche a “populi”. Tuttavia, credo che il senso generale del testo sia abbastanza chiaro da smentire questa possibilità: l’espressione “per omnes articulos populi” è sufficientemente chiara da sola, mentre “mali” ha bisogno di un dimostrativo che lo qualifichi. In alternativa, se il testo con “huius” dovesse sembrare insostenibile, si potrebbe espungere “mali” come una glossa a “gangraenam” entrata a testo e stampare “per omnes articulos populi hanc [mali] gangraenam sanguinulentam permeasse” (anche se a questa preferirei la prima soluzione). 231 Briscoe accorda la preferenza a “labes” sulla base degli argomenti proposti nel commento di Oakley a Liv. 7, 38.7: insidentem labem crescentis in dies faenoris (= i debiti), dove PcTc e i 228
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118 (= 125b R.; 432 S.) L. Lucullus puer apud patrem numquam lautum convivium vidit, in quo plus semel Graecum vinum daretur; ipse, cum rediit ex Asia, milia cadum congiarium divisit amplius centum. C. Sentius, quem praetorem vidimus, Chium vinum suam domum inlatum dicebat tum primum, cum sibi cardiaco medicus dedisset; Hortensius super decem milia cadum heredi reliquit. Plin. n.h. 14, 96: M. Varro his verbis tradit […] hactenus Varro. Non. p. 794.6-795.36: Accusativus numeri singularis positus pro genetivo plurali […] Varro de vita populi Romani lib. IV: Hortensius supra decem milia cadum heredi Non. p. 872.8-873.15: CADI, vasa quibus vina conduntur. […] Varro de vita populi Romani lib. III: Hortensio supra decem milia cadum heredi reliquit
Lucio Lucullo, da bambino, nella casa paterna non vide mai un banchetto di lusso in cui il vino greco venisse servito più di una volta; eppure proprio lui, quando fu tornato dall’Asia, ne distribuì come donativo più di centomila misure. Gaio Senzio, che è stato pretore ai giorni nostri, diceva che il vino di Chio era entrato per la prima volta a casa sua quando glielo aveva prescritto il medico, dato che soffriva di gastrite; e Ortensio ne ha lasciate oltre diecimila misure al suo erede!
recenziori presentano la variante “tabem” per “labem”. Oakley sostiene “labem” dicendo che Livio impiega sempre “tabes” solo nel senso proprio di “sangue corrotto” e che, in riferimento ai debiti, “labem” è da preferire a “tabem” per la nozione di “macchia morale” che veicolerebbe in aggiunta a quella di “danno” (vedi Brakman 1928, 66). Tuttavia, l’osservazione sull’uso di “tabes” in Livio non è del tutto corretta: troviamo infatti “tabes”, proprio in riferimento ai debiti, in Liv. 2, 23.6, id cumulatum usuris primo se agro paterno avitoque exsuisse, deinde fortunis aliis, postremo velut tabem pervenisse ad corpus e 42, 5.8, errant autem non Aetoli modo in seditionibus propter ingentem vim aeris alieni, sed Thessali etiam; et contagione, veluti tabes, in Perrhebiam quoque id pervaserat malum; per quanto riguarda il secondo punto, il passo di Petr. 119.54-55 dimostra che “tabes” è una definzione appropriata per la piaga dei debiti. È vero che Livio adopera “labes” a proposito delle sedizioni a 2, 44.8 (aeternas opes esse Romanas, nisi inter semet ipsi seditionibus saeviant; id unum venenum, eam labem civitatibus opulentis repertam ut magna imperia mortalia essent), ma questo non costituisce un motivo per rifiutare “tabes” a 39, 9.1 e 7, 38.7. Del resto, anche Tacito usa il termine “tabes” a proposito delle sedizioni militari, in passi formalmente vicini al frammento di Varrone e ai luoghi liviani: hist. 1, 26.1, infecit ea tabes legionum quoque et auxiliorum motas iam mentes; 3, 11.1, legiones velut tabe infectae. L’oscillazione fra “labes” e “tabes” è frequente nei codici, vedi Plaut. Persa 408.
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Plinio riporta questo stralcio, specificando che si tratta di una citazione letterale da un’opera di Varrone; parte della pericope citata da Plinio coincide, a sua volta, con un frammento del de vita riportato da Nonio a due voci diverse (la variante “Hortensio” che troviamo nella seconda di queste è un banale errore da contesto, prodotto dal vicino “heredi”). Io credo che Plinio abbia tratto la citazione proprio dal de vita (quindi fa bene Riposati a stamparla come un frammento autentico di questa opera, mentre Salvadore la relega in apparato, sospettando che si tratti di un “doppione varroniano”) e che dal de vita derivi, in ultima analisi, l’intera sezione in cui è trasmesso il frammento (una digressione dove Plinio fornisce una breve storia del vino a Roma). Poiché ho dedicato un capitolo dell’introduzione alla dimostrazione del mio assunto, per una discussione dettagliata della questione rimando a quel punto. La citazione riporta una serie di esempi che dovrebbero dimostrare quanto il vino greco, ancora per la generazione precedente quella di Varrone, fosse considerato un prodotto di lusso, da centellinare o da consumare soltanto su prescrizione medica. A questi esempi Varrone, con abile mossa retorica, contrappone altri che provano invece l’abuso e lo sperpero che si faceva ai suoi giorni di vini pregiati e costosi. Il contrasto fra la moderazione della generazione precedente e lo spreco della sua età viene così messo vivacemente in risalto; inoltre, la scelta di alternare exempla positivi ed exempla negativi movimenta il discorso e gli conferisce una gradevole varietà. Lucio Licinio Lucullo è il celebre console del 74 che guidò la campagna d’Asia contro Mitridate e Tigrane d’Armenia fino al 66 (quando fu sostituito al comando da Pompeo). L’espressione “cum rediit ex Asia” si riferisce al trionfo celebrato da Lucullo nel 63 (era stato ritardato dai suoi oppositori politici, soprattutto sostenitori di Pompeo e ricchi membri del ceto equestre, le cui malversazioni Lucullo aveva tentato di arginare con un’amministrazione severa e oculata della provincia), in occasione del quale il generale avrebbe fatto distribuire una quantità strabiliante di vino greco. Il padre, omonimo, di cui Varrone dice che non fece mai servire, in una cena di gala, del vino greco più di una volta, fu pretore nel 104 e generale durante la rivolta degli schiavi in Sicilia (102-98). Gaio Senzio fu pretore in Macedonia nel 92 (dato che si accorda con le parole di Varrone, che all’epoca aveva infatti 24 anni, “quem praetorem vidimus”). Il vino era comunemente prescritto come rimedio contro il mal di stomaco: vedi Plin. 23, 50: cardiacorum morbo unicam spem hanc e vino esse certum est; Iuv. 5.32: cardiaco numquam cyathum missurus amico; Celso (3, 19) consiglia, nei casi più gravi, di sorbere vini cyathum interpositaque hora sumere alterum (cfr. Plut. quaest. conv. 3, 5.652c; Athen. 1, 10d). Con buona probabilità 485
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l’Ortensio che avrebbe lasciato in eredità ben diecimila misure di vino pregiato va identificato con l’oratore Quinto Ortensio Ortalo, il celebre e sfortunato rivale (poi amico) di Cicerone, noto per apprezzare gli oggetti di lusso e avere un tenore di vita sfarzoso. Con “cadus” si indica propriamente un barilotto di vino (vedi ThLL III 37.44-80); per sineddoche il termine identifica anche una specifica misura di capacità (in tal senso credo che vada inteso nel fr. 118), vedi ThLL III 37.36-41: un “cadus” corrispondeva a due “urnae” ed equivaleva a circa 30 litri. 119 (= 128 R.; 436 S.) e Graecia, Asia in villas conportasse magnum pondus omnium artificum 1: Asias (sias CA) codd., corr. Müller; suas Mercier, Kettner | in villas] Sulla Müller | artificiorum Gerlach, Brunetti; post artificum e.g. supplevi signorum tabularumque Non. p. 745.2-4: PONDVS, pro numero. Varro de vita populi Romani lib. IV:
(il fatto che Lucullo) fece portare dalla Grecia, dall’Asia nelle sue tenute un gran numero di statue e di quadri di ogni artista Il frammento parla di un personaggio che avrebbe fatto portare nelle proprie ville una gran quantità di opere d’arte dalla Grecia e dall’Asia232. Tenendo conto dell’arco cronologico coperto dal l. 4, il soggetto (escluso dalla citazione di Nonio) è identificabile con buona probabilità con Lucullo: questi infatti aveva militato in Grecia in qualità di luogotenente di Silla durante l’assedio di Atene (87) e aveva gestito le operazioni in Asia contro Mitridate e Tigrane (fino al 66), arricchendosi in maniera straordinaria. Sostituito da Pompeo e richiamato a Roma, resosi conto di non avere più campo libero in politica, scelse di ritirarsi a vita privata e di godere le ricchezze accumulate negli anni di servizio. Così trascorse una vita dedita al lusso e ai piaceri, poi divenuta proverbiale, nelle splendide ville che fece edificare, ricolme di opere d’arte di finissima fattura (vedi Plut. Luc. 39.2, εἰς παιδιὰν233 γὰρ “E Graecia, Asia” è una buona correzione di Müller per il tradito “e Graecia, Asias”, preferibile, per la sua economicità, a “e Graecia suas (sc. in villas)” di Mercier (che, sul piano del senso, risulta anche meno soddisfacente). 233 Con παιδιά va intesa la seconda parte della vita di Lucullo, dedita al piacere, in contrapposizione alla prima, occupata da campagne militari e contrasti politici. 232
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ἔγωγε τίθεμαι καὶ οἰκοδομὰς πολυτελεῖς καὶ κατασκευὰς περιπάτων καὶ λουτρῶν καὶ ἔτι μᾶλλον γραφὰς καὶ ἀνδριάντας καὶ τὴν περὶ ταύτας τὰς τέχνας σπουδήν, ἃς ἐκεῖνος συνῆγε μεγάλοις ἀναλώμασιν, εἰς ταῦτα τῷ πλουτῳ ῥύδην καταχρώμενος, ὃν ἠθροίκει πολὺν καὶ λαμπρὸν ἀπὸ τῶν στρατειῶν; a r.r. 1, 2.10 Varrone parla delle pinacoteche delle ville di Lucullo come di una celebre attrazione che richiamava visitatori, cfr. Salvadore 2004, p. 136 e Della Corte 19702, pp. 79-80; per la biografia di Lucullo, vedi Keanvey 1992). Il contenuto del fr. 119 quadra alla perfezione con quanto sappiamo di Lucullo; inoltre, un confronto con il fr. 118, in cui Lucullo è espressamente nominato, sempre in un contesto in cui Varrone fornisce esempi di sprechi e di consumo eccessivo di beni pregiati, autorizza a sospettare che Lucullo fosse il soggetto anche del fr. 119 e che questi due luoghi comparissero, nel l. 4, all’interno di una stessa sezione (una tirata retorica contro il lusso, connessa alla requisitoria contro la corruzione politica?), l’uno di seguito all’altro234. Müller obietta che Lucullo non compì operazioni in Grecia e per questo propone di riferire il frammento a Silla e di correggere il tradito “in villas” in “Sulla” (evidentemente postulando il costrutto “(dicitur) e Graecia, Asia Sulla comportasse…”)235, ma, sebbene anche Silla avesse militato in Grecia e in Asia e si fosse arricchito oltremodo, soprattutto grazie ai bottini composti di opere d’arte (vedi Sall. Cat. 11), la correzione è superflua. Infatti non è del tutto vero che Lucullo non compì operazioni in Grecia: egli fu luogotenente di Silla durante l’assedio di Atene e per l’intero corso di quella campagna provvide agli approvvigionamenti marittimi e tenne a bada le forze navali di Mitridate (per le sue imprese nelle isole greche, in particolare a Lesbo, vedi Plut. Luc. 3). Non va poi trascurato il fatto che anche nel corso della successiva campagna d’Asia Lucullo spesso ebbe a che fare con colonie di origine greca (come Cizico) e proprio da queste ebbe modo di trarre un ricco bottino in opere d’arte; inoltre, anche il raffronto con il fr. 118 (“cum ex Asia rediit”) autorizzerebbe in parte a sostenere l’identificazione con Lucullo (nonostante io Salvadore, che del resto limita il fr. 118 al solo exemplum di Ortensio Ortalo, pensa invece che il fr. 118 e il fr. 119 appartenessero a due contesti diversissimi e infatti li stampa a grande distanza l’uno dall’altro, frapponendovi citazioni dedicate ad altri argomenti (per lo più i frammenti sulla corruzione politica, ma anche il fr. 121, dal contenuto invero dubbio e dal testo sospetto). 235 La correzione cerca anche di chiarire l’origine della corruttela “Asias” dei codici noniani, che sarebbe dovuta a una errata divisione a partire da “AsiaSulla” (la stringa “ulla” sarebbe stata poi rabberciata in “in villas”). 234
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abbia dei dubbi sul fatto che il fr. 119 parli del trionfo di Lucullo, vedi infra). Credo sia inoltre necessaria una precisazione: il testo del frammento, infatti, non dice in modo esplicito che le opere d’arte in questione facessero parte di un bottino militare. A “comportasse” si può sì dare il senso di “portò con sé dall’Asia” (interpretazione che richiederebbe di pensare a un bottino), ma anche quello di “importò, fece venire dall’Asia”. La seconda possibilità di lettura implicherebbe una situazione diversa da quella vulgata: il soggetto del frammento non avrebbe trasferito le opere d’arte conquistate in guerra nelle proprie ville, ma avrebbe acquistato opere d’arte e, facendole venire dalla Grecia e dall’Asia, le avrebbe collocate a ornamento delle ville. Il frammento in sé permetterebbe entrambe le soluzioni; comunque, se si accoglie la seconda, verrebbe meno il motivo che ha spinto Müller a congetturare “Sulla”. Forse questa lettura fornirebbe anche un senso più razionale: Lucullo diede il via alla progettazione e all’allestimento delle sue ville successivamente al ritiro dalla vita politica, ossia dopo il 63, tre anni dopo il suo rientro dall’Oriente; appena tornato dall’Asia, quindi, non avrebbe potuto trasferire immediatamente le opere d’arte requisite nelle proprie dimore, ma è più verosimile che, una volta intrapresa la decorazione delle ville, avesse fatto venire a tal fine pregevoli opere d’arte dalla Grecia e dall’Asia; inoltre, lo stesso Plutarco, nel luogo citato sopra, non dice che il bottino di Lucullo consistesse in quadri e statue, ma che egli si servì in seguito dell’ingente ricchezza conseguita in Oriente per l’acquisto di opere d’arte e la costruzione delle ville. Ancora, la correzione di Müller oscurerebbe un elemento fondamentale per l’intelligenza del frammento, la menzione stessa della “villae” (l’accusa contro il lusso eccessivo delle tenute dei privati era comune in ambito moralistico: eliminare “in villas” dal frammento ne minerebbe gravemente il contenuto). La seconda parte del frammento è chiara quanto al senso generale (Lucullo fece venire dall’Oriente un gran numero di opere d’arte), ma, se la frase terminasse con “artificum”, presenterebbe un aspetto problematico sul piano della lingua, l’impiego metonimico di “artifex” come “opera di un artista”. L’uso non dovrebbe essere dissimile da espressioni comuni come “un Modigliani”, “un Picasso”; tuttavia non trova altre attestazioni nella letteratura latina (dove le espressioni più vicine al nostro “un Picasso” prevedono comunque una menzione della “manus” dell’artista, ad es. Petr. 83.1, Zeuxidos manus vidi, vedi ThLL VIII 357.57-64, ma non l’impiego del nome dell’artista per significare la sua opera e ancor meno l’uso del generico “artifex” per indicare una “ars” o i suoi prodotti, 488
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cfr. ThLL II 699.65-700.57). D’altra parte, è difficile intendere la iunctura “magnum pondus omnium artificum” in senso letterale e pensare che Lucullo avesse assunto in Grecia e in Asia un gran numero di artisti, che avrebbe condotto a Roma al suo seguito e avrebbe ospitato nelle sue ville, con l’incarico di decorarle: “magnum pondus”, infatti, è espressione molto più appropriata in riferimento a qualcosa di materiale che a un gruppo di persone; preferisco dunque pensare che Varrone stia qui parlando di una gran mole di opere d’arte vere e proprie. La correzione di Gerlach, accolta da Brunetti, “artificiorum” oggettivamente renderebbe l’espressione più piana e ne eliminerebbe la difficoltà, ma proprio per questo va scartata, in quanto rischia di banalizzare il testo del frammento. Ritengo che la soluzione più economica sia supporre che la frase non finisse con “artificum” e che Nonio, come spesso accade, abbia tagliato in modo brusco il testo di Varrone senza preoccuparsi eccessivamente del senso complessivo del brano che andava a stralciare. In questo caso, interessato al solo termine “pondus”, potrebbe aver troncato il seguito, in cui forse Varrone precisava quali opere “di artisti” Lucullo fece portare dall’Oriente. Seguendo questa ipotesi, si potrebbe integrare qualcosa come “comportasse magnum pondus omnium artificum ” (a favore dell’integrazione, si potrebbe citare Ov. met. 12, 398, pectoraque artificum laudatis proxima signis, che dimostra che l’espressione “artificum signa”, nel senso di “opere d’arte”, è legittima236; una formulazione molto vicina a quella supposta si ha in Vell. 1, 13.4, Mummius … capta Corintho cum maximorum artificum perfectas manibus tabulas ac statuas in Italiam portandas locaret)237. Proporrei di legare “omnium” ad “artificum”, piuttosto che a “signorum” (o a “tabularum” o
Intenderei dunque “artificum” come un sostantivo. In teoria, non si può escludere la possibilità che “artificum” sia un aggettivo dal significato di “artistico” (come in Prop. 2, 31.7-8, atque aram circum steterant armenta Myronis, / quattuor artifices, vivida signa, boves; l’uso di “artifex” in questo senso è attestato già in Cicerone, vedi ThLL II 702.42-82 s.v. “artifex i.q. arte factus, artificiosus”); in tal caso, il testo andrebbe reso “fece portare un gran numero di statue e quadri artistici di ogni genere”. Questa seconda lettura, tuttavia, risulta meno convincente della prima, sia per il valore un po’ forzato che andrebbe dato a “omnium” (vedi infra), sia perché l’impiego di “artifex” come aggettivo si riscontra altrove in passi di grande elaborazione formale e di scrittura particolarmente raffinata, mentre il contesto supposto per questo frammento sembra richiedere piuttosto uno stile piano, denso e incisivo. 237 Anche Müller, che stampa “artificum” fra croci, ammette in apparato la possibilità che sia stato escluso del testo che avrebbe retto gli elementi della prima parte della citazione rimasti in sospeso. 236
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a un altro termine analogo, come “operum”, che poteva trovare posto nel seguito del discorso). Infatti, la seconda interpretazione richiederebbe di dare a “omnis” il significato “di ogni genere”238 (Lucullo fece portare un gran numero di ogni genere di statue e quadri d’artista), un uso piuttosto forzato (gli esempi riportati da OLD 1249.6 non coincidono del tutto con il valore che “omnis” dovrebbe assumere nel nostro frammento; nemmeno Ov. fast. 5, 358, et color et species floribus omnis inest costituisce un parallelo valido, in quanto non va necessariamente inteso come “nei fiori albergano colori e forme di ogni tipo”, ma si può anche rendere più normalmente con “nei fiori si trova ogni forma e colore”), senza contare che tutta l’espressione “magnum pondus omnium … signorum” risulterebbe ridondante. Invece, se si connettesse “omnium” a “artificum”, non sarebbe necessario attribuire a “omnis” un significato particolare e il frammento si potrebbe tradurre “fece portare un gran numero di statue e di quadri di ogni artista”. 120 (= 126 R.; 439 S.) eoque pecuniam magnam consumsisset, quod arci quos summo opere fecerat, fessi pondere, diffracti celeriter corruissent 1: consumsisse Müller (“fortasse” in app.) | summo opere] suo aere Müller; 2: fessi] flexi Müller (“fortasse” in app.) | diffracti Quicherat; diu facti codd. Non. p. 108.10-12: ARCI. Varro de vita populi Romani lib. IV:
e perciò aveva sprecato una grande quantità di denaro, dal momento che gli archi che aveva fatto costruire con gran spesa, non reggendo al loro stesso peso, si erano crepati nel mezzo e in breve tempo erano crollati Il frammento potrebbe ancora riferirsi, come i precedenti, allo stile di vita lussuoso ed eccentrico di Lucullo. In particolare, qui Varrone ne prenderebbe di mira gli arditi progetti architettonici, che lo spingevano a modificare il sito geologico di intere regioni per piegare la natura ad accogliere le strutture delle proprie ville: una mania che spesso comportava spese superiori anche al valore oggettivo della villa da edificare e che aveva fruttato a Lucullo il soprannome scherzoso, da parte di Pompeo, di “Serse romano” (“Xerxes togatus”, cfr. Vell. 2, 33.3; Plin. 9, 170, Plut.
Vedi la spiegazione di Müller in apparato: “omnium i.e. cuiuslibet generis”.
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Luc. 39.3; vedi anche Cic. off. 1, 140). Va osservato che Varrone impiega il nome di Lucullo, a r.r. 1, 13.7, come antonomastico per designare chi si lancia in costosissime imprese edilizie, per giunta a spese della comunità: cum Metelli ac Luculli villis pessimo publico aedificatis certant. Il fr. 120 riferisce di un caso in cui un dispendioso progetto si era risolto in un clamoroso fallimento: degli archi colossali, realizzati con gran spesa, sarebbero subito crollati non reggendo al proprio stesso peso. Salvadore (che pure a p. 136 cita numerose testimonianze sugli eccessi “architettonici” di Lucullo) non si pronuncia sul contesto del fr. 120 e preferisce stamparlo fra quelli incertae sedis. È vero che, data la perdita del contesto, non è detto che lo spreco descritto nella citazione vada attribuito proprio a Lucullo; tuttavia, anche pensando che Varrone si riferisse a un eccesso commesso da altri, mi sembra che comunque il frammento trovi una buona collocazione nell’ambito della sezione dedicata alla critica del lusso (per la presenza, in contesti moralistici, di attacchi alla realizzazione di progetti architettonici smisurati, “contro natura”, vedi Sall. Cat. 12.3, operae pretium est, cum domos atque villas cognoveris in urbium modum exaedificatas, visere templa deorum, quae nostri maiores, religiosissimi mortales, fecere. verum illi delubra deorum pietate, domos suas gloria decorabant, neque victis quicquam praeter iniuriae licentiam eripiebant239; 13.1, a privatis compluribus subvorsos montes, maria constrata esse240 e 20.11, quis mortalium … tolerare potest illis divitias superare, quas profundant in exstruendo mari et montibus coaequandis, nobis rem familiarem etiam ad necessaria deesse? Illos binas aut amplius domos continuare, nobis larem familiarem nusquam ullum esse? cum tabulas, signa, toreumata emunt, nova diruunt, alia aedificant …, brano in cui la condanna della mania per le opere d’arte e quella delle costruzioni tanto costose quanto inutili sono significativamente unite, a sostegno dell’ipotesi che i frr. 119 e 120 potessero appartenere allo stesso contesto; vedi anche Hor. c. 2, 15). Per quanto la proposta di Müller di correggere “consumsisset” in “consumsisse” (pensando che tutto il frammente facesse parte di un discorso indiretto) sia accattivante, preferirei non modificare il testo tradito: la perdita del conte-
239 Ho riportato il passo per intero poiché, per il confronto fra edilizia antica e moderna, può essere avvicinato con profitto ai frr. 6-8. 240 Mariotti ad loc. (pp. 325-326) pensa che Sallustio potesse avere in mente proprio Lucullo e riporta una serie di utili paralleli sulla “mania edilizia” del personaggio; dello stesso parere è anche Bessone 2008, p. 56, n. 80.
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sto infatti non permette di escludere che, nella parte precedente, comparisse un “cum” a reggere il congiuntivo “consumsisset” o comunque qualche elemento che giustificasse il modo del verbo. Per quanto riguarda “eo”, ho preferito considerarlo una congiunzione, impiegata per anticipare la successiva causale introdotta da “quod”; di conseguenza, ho scelto di tradurre con “perciò”. Non è però escluso che possa anche trattarsi di un pronome (all’ablativo) riferito a una menzione, condotta nella parte precedente del discorso, del progetto architettonico specifico per cui il soggetto del frammento aveva speso tanto denaro; in tal caso, la frase si potrebbe anche rendere “e in questo progetto (o più semplicemente “in esso”) aveva sprecato una gran quantità di denaro…”. Tuttavia, ho ritenuto questa soluzione meno prudente dell’altra, in quanto richiederebbe di integrare a senso troppi elementi assenti nella scarna pericope riportata da Nonio. Si noti la forma del composto verbale senza consonante epentetica “sumsisset”, cfr. fr. 59 “sumtus” e HLS I 216. Il colorito arcaico conferito al dettato da “consumsisset” è confermato anche dall’impiego del raro sintagma avverbiale “summo opere” (superlativo di “magnopere”), che nel latino classico ricorre altrove solo in Cic. inv. 1, 18; 1, 37 (significativamente in un’opera giovanile) e in Lucr. 4, 1186 (in un testo, quindi, caratterizzato da uno spiccato stile arcaizzante). Per il nominativo plurale “arci” (“arcus” è della quarta declinazione), vedi ThLL II 475, 80-83; la forma “arci” è presupposta anche dalla pasquinata contro Domiziano narrata da Suet. Dom. 13.2, Ianos arcusque cum quadrigis et insignibus triumphorum per regiones urbis tantos ac tot exstruxit, ut cuidam Graece inscriptum sit: arci241. La iunctura “pondere fessus” si trova, sempre in una scena di crollo, anche se “cosmico”, in Val. Flacc. 1, 830-831, in riferimento al collasso finale dell’universo (Chaos, quod pondere fessam / materiem lapsumque queat consumere mundum). L’immagine delle cose che collassano sotto la spinta del loro stesso peso è piuttosto comune: vedi Prop. 3, 2.19-24, nam neque Pyramidum sumptus ad sidera ducti, / nec Iovis Elei caelum imitata domus, / nec Mausolei dives fortuna sepulchri / mortis ab extrema condicione vacant. / aut illis flamma aut imber subducet honores, / annorum aut ictu, pondere victa, ruent (passo concettualmente vicino al frammento non solo per l’immagine del crollo di monumenti troppo gran Cioè ἀρκεῖ: basta!
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diosi, ma anche per la menzione dei “sumptus” richiesti dalla costruzione di tali imprese architettoniche; per il motivo, cfr. Luc. 8, 865-869; per “pondere victa”, cfr. Stat. Theb. 9, 497); Ov. tr. 2, 86, ipsa suo quondam pondere tracta ruunt (nella descrizione del crollo di una casa, vv. 83-86; per la forma, cfr. ars 3, 212); Mart. 1, 82.1-6, haec quae pulvere dissipata multo / longas porticus explicat ruinas … victa est pondere cum suo repente; Plin. ep. 6, 16.6; la si trova impiegata anche in senso metaforico o gnomico, cfr. Hor. epod. 7.2, suisque Roma viribus ruit (cfr. Prop. 3, 13.60), la celebre descrizione dell’impero in Liv. 1 praef. 4, eo creverit, ut iam magnitudine laboret sua (cfr. Luc. 1, 71-72, nimioque graves sub pondere lapsus / nec se Roma ferens; Petr. 120.82-83; [Sen.] epigr. 52.5-6, Roma … quae tunc paene suo pondere lapsa ruit) e Sen. Ag. 88, sidunt ipso pondere magna. Il verbo “corruo” è comunemente usato in relazione al crollo di edifici (vedi ThLL IV 1061.53-80), la descrizione del crollo degli archi acquista a sua volta evidenza per mezzo del verbo “diffringo”, che esprime con grande precisione, a causa del valore etimologico del prefisso “dis-”, la nozione di qualcosa che si sfalda a partire dal centro in due direzioni opposte (per gli usi di questo raro verbo, vedi ThLL V, 1 1105.78-1106.10; vedi anche Colum. 10, 83, diruptos pondere qualos). 121 (= 127 R.; 433 S.) eadem postea carbasineo † magis † ut pellibus tegerentur 1: carbasinea Iunius; carbasineis magis *** Müller (e.g. supplevit velis operiri solita, cum ante esset institutum) | magis aut Lindsay (“fortasse” in app.); magis quam ut Brunetti Non. p. 868.11-20: CARBASVS, pallium quo Fluvii amiciuntur vel opulentiae causa, ut sericum, aut lino tenui. […] Varro de vita populi Romani lib. IV 1: opulenti. id ea causa aut sericum Müller
che gli stessi (teatri) in seguito venissero coperti con un telo di lino † piuttosto che † con pelli Il frammento risulta di difficile collocazione, poiché il taglio operato da Nonio ne ha oscurato il contenuto e c’è il sospetto che il testo sia interessato da corruttele insanabili. Considerate queste difficoltà, ho scelto di darne la traduzione a senso più plausibile, riservando al commento la discussione dettagliata delle difficoltà testuali più ardue. 493
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L’unico elemento in base al quale si potrebbe tentare una minima ricostruzione del contesto della citazione è dato dall’aggettivo “carbasineus” (di cui il fr. 121 costituisce l’unica attestazione sicura, vedi ThLL III 428.52-56), che dovrebbe significare “fatto di lino” (questo è il senso della forma parallela “carbasinus”, vedi ThLL III 428.57-65). Sappiamo che il tessuto di lino veniva impiegato soprattutto per la fabbricazione di due tipi di oggetti: o per mantelli leggeri e pregiati (vedi ThLL III 429.57-68), oppure per le vele delle navi (vedi ThLL III 429.1-53); queste ultime, a loro volta, potevano essere impiegate come “velaria” nei teatri (ossia venivano tese sulla cavea per mezzo di un complicato sistema di cordami e di transenne, in modo da fare ombra agli spettatori e proteggerli dal sole battente; vedi ThLL III 429.53-56, è famosa la descrizione che ne dà Lucrezio a 4, 75-83; 6, 109-110). La definizione di Nonio (“pallium quo Fluvii amiciuntur”) non permette di sostenere che anche nel fr. 121 si parli di un vestito: il frammento di Varrone è infatti una citazione secondaria (come prova il fatto che non contenga la forma “carbasus” del lemma, ma un suo derivato, l’aggettivo “carbasineus”), mentre il lemma noniano si riferisce alla citazione primaria da Virgilio (Aen. 8, 33-34, eum tenuis glauco velabat amictu / carbasus)242. Come dimostra la precedente citazione da Cicerone, Nonio fra le citazioni secondarie ha raccolto attestazioni di termini derivati da “carbasus”, anche se questi non corrispondevano più alla definizione data (“carbasus” = vestito di lino). Quindi, non è detto che il fr. 121 riguardi un vestito, ma potrebbe anche concernere le vele delle navi o i “velaria theatri”. Proprio la seconda possibilità è stata accolta dagli interpreti; in particolare, Popma, Kettner e Salvadore243 ipotizzano che il frammento riguardasse i “vela-
242 Considero le altre due citazioni che corredano il lemma come secondarie: nella prima di esse (Aen. 11, 775-776), infatti, non troviamo il nome “carbasus”, ma l’aggettivo “carbaseus” (sinus … carbaseos), mentre nella seconda (Cic. Verr. II 5.30) non solo si trova l’aggettivo “carbaseus”, ma questo è anche messo in relazione non più a un vestito, bensì al tessuto di una tenda (tabernacula carbaseis intenta velis). 243 Anche Riposati (p. 240) suppone che il frammento riguardi dei “velaria”; tuttavia, lui pensa che non si tratti di strutture pubbliche, bensì di padiglioni privati fatti realizzare da Lucullo in una delle sue ville (parla di “sale di divertimento”). Il frammento però non offre alcun appiglio a sostegno di questa ipotesi (che comunque Riposati avanza dubitanter); in particolare, l’idea che la citazione vada connessa a Lucullo è del tutto indimostrabile.
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ria” e che Varrone segnalasse il momento in cui l’originaria copertura in pelli era stata sostituita da veli di lino. La soluzione è piuttosto convincente: dopo aver seguito lo sviluppo dei vari aspetti della vita del popolo romano nel corso della sua storia, Varrone avrebbe potuto verosimilmente dedicare parte del l. 4, in cui di sicuro affrontava il tema del lusso privato e del cambiamento dei costumi, al racconto di come erano stati introdotti a Roma i prodotti di lusso e di come le classi elevate avessero iniziato a ricercare un tenore di vita piacevole e raffinato. L’evoluzione dei “velaria”, passati da rozze coperture in pelli a tenui strutture di lino, abbastanza sottili da far trasparire la luce del sole ma abbastanza solide da schermarne i raggi, poteva a ben diritto essere registrata fra gli esempi dello stile di vita “edonistico” dell’ultimo secolo. Soprattutto, da Plinio (n. h. 19, 23: carbasina deinde vela primus in theatro duxisse traditur Lentulus Spinther Apollinaribus ludis) sappiamo che i “velaria” furono introdotti per la prima volta durante la pretura di Lentulo Spinther (console nel 57) nel 60: l’evento, dunque, rientrerebbe pienamente nell’arco cronologico coperto dal l. 4. Il senso generale dovrebbe essere “allora si decise244 che i teatri venissero coperti con un velo di lino piuttosto che con pelli”. Ciò richiede di intendere “eadem” come riferito a un “theatra” presente nella parte precedente l’inizio della citazione e di supporre che, sempre nella porzione di testo omessa da Nonio, comparisse un termine (il Thesaurus suggerisce “velo”) correlato all’aggettivo “carbasineo”. Si tratta di due supposizioni ammissibili; la vera difficoltà è posta dalla forma anomala di comparazione “(velo) carbasineo magis pellibus”, senza “quam” (tutto il frammento andrebbe infatti ordinato nel modo seguente: “(statuerunt) postea ut eadem tegerentur carbasineo (velo) magis pellibus” e all’ultima parte andrebbe dato il valore di “con un velo di lino piuttosto che con pelli”). Non ho trovato alcuna attestazione di una comparazione con “magis” costruita in questo modo, né casi in cui si trovi “magis … ut” con il valore di “magis … quam” (del resto, credo che “ut”, se è testo sano, debba reggere il congiuntivo “tegerentur” e non possa valere come sostituto di “quam” nel nesso “magis carbasineo ut pellibus”). Di qui vengono alcuni tentativi di correzione, come quello dello Iunius, che stampa il testo “eadem postea carbasinea magis ut pellibus tegerentur”. Questa correzione comporta modifiche troppo forti sul piano del contenuto: se leghia Sarebbe piuttosto agevole far reggere la completiva da un verbo come “statuerunt” omesso dal taglio di Nonio. 244
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mo “carbasinea” a “eadem”, dobbiamo supporre che Varrone trattasse l’evoluzione dei panni di lino e dicesse che, a un certo punto, si decise di coprirli con pelli (“(decisero) poi che gli stessi panni di lino venissero piuttosto coperti con pelli”). Il testo di Iunius risulta strano sia che si riferisca “carbasinea” a dei vestiti, sia che lo si connetta ai “velaria theatri”: infatti nel primo caso non si vedrebbe l’utilità di coprire con delle pelli, quindi con materiale piuttosto pesante, dei panni di lino, un tessuto appositamente escogitato per la sua leggerezza; nel secondo, andrebbe prevista per i “velaria theatri” un’evoluzione inversa a quella storicamente plausibile, in quanto il frammento non direbbe che a un certo punto le rudimentali coperture in pelli dei teatri furono sostituite dai “velaria” in lino, ma che questi “velaria” furono ricoperti da pelli. Risulta problematica anche la correzione suggerita da Lindsay in apparato (“eadem postea carbasineo magis aut pellibus tegerentur”). Anche questo intervento, per quanto senza dubbio economico, comporta delle imprecisioni sul piano del senso: elimina infatti la nozione di progresso per cui i “velaria” fatti di pelli sarebbero stati sostituiti da “velaria” di lino, ma pone “carbasineo” e “pellibus” sullo stesso piano, e priva il verbo “tegerentur” della congiunzione che lo regge245. Quanto a “magis”, con il testo di Lindsay sarebbe un elemento quasi superfluo, cui risulterebbe difficile attribuire un significato preciso246. Brunetti propone di integrare “magis ut pellibus tegeretur”; l’intervento eliminerebbe l’anomalia nella comparazione (anche se credo che l’ordo verborum continui a risultare insoddisfacente: sarebbe infatti più normale “magis quam pellibus ut tegeretur”) e restaurerebbe il senso richiesto, ma rischia di essere una normalizzazione del frammento (inoltre, è difficile ipotizzare il motivo per cui un “quam” dovesse cadere in fase di copia, tanto più che la vicinanza di “magis” avrebbe dovuto in un certo senso “proteggerlo”). Müller, infine, sospetta che sia caduta una parte di testo per vicende di tradizione (l’omissione di un rigo?). Il salto da “carbasineo magis” a “ut pellibus” sarebbe dunque dovuto alla perdita meccanica di una porzione di testo nel mezzo. L’idea È vero che a questa obiezione si potrebbe replicare che nella parte omessa da Nonio compariva qualcosa che reggesse “tegeretur”, ma in tal caso andrebbe integrato un altro elemento oltre a “velo” e a una precedente menzione dei “theatra”, il che non è economico. 246 L’unico modo di intendere l’intero passo sarebbe “piuttosto (che tenere i teatri scoperti), decisero di coprirli con un velo di lino o con pelli”, ma il senso sarebbe fiacco e richiederebbe troppe integrazioni a senso. 245
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di Müller è la più equilibrata e quella che potrebbe meglio spiegare la situazione del frammento, anche se poi l’editore si spinge a proporre modifiche eccessive (cambia “carbasineo” in “carbasineis” e integra e.g. “eadem postea carbasineis magis ut pellibus tegerentur”; va riconosciuto che l’integrazione di Müller farebbe dire alla citazione proprio quello che vorremmo che dicesse, ma si tratta di una vera e propria riscrittura). In conclusione, sono del parere che il fr. 121 possa essere riferito con buona probabilità ai “velaria theatri” e che descriva il momento in cui questi iniziarono ad essere realizzati in lino e non più con pelli (penserei a qualcosa di simile al cuoio). Tuttavia, sospetto che la citazione, nella forma in cui è trasmessa da Nonio, sia stata interessata da una grave corruttela testuale. In particolare, temo che dietro “magis ut” si celi un guasto insanabile. Per questo, ho scelto di stampare questa parte fra croci e di fornire come traduzione la resa del frammento più probabile “a senso”.
Fragmenta libri incerti Vorrei qui riportare tre frammenti che sono stati traditi con la sola attribuzione al de vita populi Romani, senza l’indicazione del libro. 122 (= 107 R., 441 S.) facibus, aut candela simplici aut [ex eo] funiculo [facto] cera vestito – a quo, ubi eas figebant, appellarunt funalia 1: e.g. supplevi; 1-2: facibus aut candela simplici aut ex eo funiculo facto eorum vestigia quod ubi ea figebant codd.; facibus aut candela simplici † aut ex eo funiculo facto eorum vestigia quod ubi ea figebant Sal.; facibus aut candela simplici aut ea ex funiculo facta: earum fastigia quibus eas figebant Barth, Rip.; facibus aut candela simplici aut ex funiculo facta: earum vestigia, ubi eas figebant, Samter; facibus aut candela simplici aut ex funiculo facta, cera vestita: quibus ea figebant Salmasius; facibus aut candela, simplici aut ex funiculo facta cera vestita, quam ubi affigebant Kettner; facibus aut candela simplici aut ex cera et funiculo facta locarunt vestigia locaque ubi ea figebant Schöll; facibus aut candela simplici, ex cera aut ex sebo et funiculo facta: earum vestigia (i.e. imas partes) ubi affigebant Thilo (“fortasse” in app.); facibus, aut candela simplici aut funiculo cera vestito – a quo, ubi eas (i. e. faces) figebant, scripsi (ex eo facto sicut glossam delevi praeeunte Ammannati) 497
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Serv. ad Aen. 1, 727: funalia sunt quae intra ceram sunt, dicta a funibus, quos ante usum papyri cera circumdatos habuere maiores: unde et funera dicuntur, quod funes incensos mortuis praeferebant. alii funalia appellarunt quod † in cicendula † lucet, quos Greaci πυρσούς vocant: Varro de vita p. R. […] non nulli apud veteres candelabra dicta tradunt quae in capitibus uncinos haberent, quibus affigi solebant vel candelae vel funes pice delibuti: quae interdum erant minora, ut gestari manu et praeferri magistratibus a cena remeantibus possent. 1: quae sunt intra ceram Daniel | sunt unde sunt dicta BL; sunt unde sint dicta H; sunt unde dicta M; 3: in fune ut cicendula Barth; in candela Thilo (“fortasse” in app.); 5: candelae Thilo; candelaber Daniel; solebat vel candela Salmasius; 7: “remeantibus in contextu omisit Daniel, dedit in appendice tamquam a Scioppio e codice suppletum” Thilo
fiaccole o una normale candela o una piccola fune rivestita di cera – per questo motivo chiamarono funalia la parte dove le inserivano Servio riporta questa citazione dal de vita all’interno di una discussione sul termine “funalia”. Della parola sono riportati due significati: il primo, dato da Servio, è quello di “stoppino” (perché un tempo i lucignoli delle candele erano realizzati con delle funi). Il Danielino, inoltre, riporta una seconda accezione di “funalia”; purtroppo, è difficile capire quale sia, dal momento che il testo in cui questa è espressa è corrotto. A complicare le cose, per esemplificare questo secondo significato viene citato il fr. 122 del de vita. Ciò non rende la situazione più piana, poiché la forma in cui il frammento è riportato dai codici è profondamente guasta. Per fortuna, si può risalire a qualche dato certo sfruttando il fatto che, dopo la citazione del frammento, la nota serviana prosegue con una frase in cui è in parte parafrasato il contenuto di quest’ultimo: la descrizione dei “candelabra” lì fornita sembra corrispondere piuttosto bene a quella dei “funalia” nel frammento del de vita. Partendo da qui, si può dunque tentare di proporre una ricostruzione del fr. 122. Per risalire alla seconda accezione del termine “funalia”, occorre per prima cosa porsi il problema della stringa sospetta “quod in cicendula lucet”. Brevemente, il termine “cicendula” può significare sia “lucciola” sia “lanterna”. Probabilmente Thilo pensa che qui si stia parlando dell’insetto (così intende anche il ThLL III 1050.45-46) e per questo considera corrotto il passo (sulla stessa scia va l’ipotesi di Barth, che Servio stia parlando della parte della fune accesa occupata dalla fiamma e che quindi “brilla come una lucciola”). Tuttavia, la traduzione in greco che segue è incompatibile con questa ipotesi: il termine greco usato, 498
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infatti, può significare solo “lanterna”. Quindi la seconda accezione di “funalia” va cercata nel campo di ciò che può avere a che fare con una lanterna. In questa direzione va la congettura di Thilo “quod in candela lucet” che però rischia di essere banalizzante (“cicendula” è in ogni caso difficilior). Tenuto conto, da un lato della traduzione di “funalia” in πυρσούς, dall’altro del fatto che, nel seguito della nota, viene data una descrizione dei “candelabra” che in parte coincide con quella dei “funalia”, proporrei di intendere “cicendula” (pur con tutte le cautele con cui va considerato un testo sospetto) nel senso proprio di “lanterna” (vedi ThLL III 1050.48-57). La mia ipotesi, che cercherò di provare nel seguito, è che il senso di “quod in cicendula lucet” sia “la parte della lanterna che dà la luce, i.e. dove si pone il lume”. Il seguito della nota, dove è descritta la forma dei candelabri, parla appunto di uncini o spuntoni posti “in capitibus” al candelabro per conficcarvi le candele o le funi cosparse di pece o cera (i candelabri antichi terminavano difatti con una parte piatta, volta a sorreggere la candela e a raccogliere la cera, fornita di uno spuntone su cui la candela veniva infilata). Il Servio Danielino potrebbe aver inteso “funalia” in questo senso: erano chiamati così i sostegni dove venivano poste le candele o le funi. Ora, il frammento citato come attestazione di questo significato andrebbe esaminato alla luce di questi dati. Il testo del fr. 122, nella forma tradita (“facibus aut candela simplici aut ex eo funiculo facto eorum vestigia quod ubi ea figebant appellarunt funalia”), è sicuramente corrotto e intraducibile. Per la prima parte del frammento, un contributo importante è stato dato da Samter 1891 (p. 33), che fa notare come vi siano varie attestazioni della differenza fra una candela “semplice” (fatta solo di cera o sebo) e una candela ottenuta spalmando una fune di materiale grasso infiammabile. Dunque, anche nel frammento andrebbe riscontrata questa opposizione fra i due tipi di candela, marcata dallo stilema “aut … aut”. Questa strada è seguita da quasi tutte le congetture che correggono “facto” in “facta” e quindi creano un’opposizione fra “candela simplici” e candela “ex funiculo facta”. Se su questo punto gli editori concordano, riguardo a “eo” si comportano in modo diverso: i più lo espungono come glossa a “funiculo” o tentativo di rabberciare un testo corrotto; Barth pensa invece a un errore d’occhio e corregge “ex eo” in “ea (candela?) ex”; questa soluzione è seguita da Riposati, ma non convince, dato che crea una sintassi dura e dà alla candela fatta con la fune un’ingiustificata enfasi (per ora non mi soffermo sulla questione di “ex eo”, in quanto tornerò a breve a esaminarla più in dettaglio). 499
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Il seguito del frammento è ancora più complesso, poiché la stringa “earum vestigia” non ha alcun senso. Anche chi prova a mantenerlo (Samter e Thilo) ne avverte tutta la difficoltà. Infatti, Thilo è costretto a spiegarla con una sua glossa (“imas partes”); l’interpretazione, tuttavia, è debole, poiché questo uso di “vestigium” non è attestato e, inoltre, il senso non tornerebbe: i “funalia” dovrebbero essere, a rigor di logica, non tanto le basi delle candele quanto le sommità del candelabro. Samter rigetta la spiegazione di Thilo, ma ne dà una non meno impugnabile: “locum in quo stat aliqua res, i.e. ibi locum in quo fixa est candela”. In effetti, questa definizione corrisponde all’interpretazione sopra proposta dei “funalia”; tuttavia, non vi sono attestazioni di “vestigium” in questo senso (i paralleli dati da Samter non sono validi: in Caes. b.G. 4, 2.3 “vestigium” ha il senso di “posizione occupata da un soldato”, ma questo significa non tanto “luogo dove sta una cosa” quanto “spazio dove il soldato pone le piante dei piedi” e quindi non è valido per le candele; in Cic. n.d. 1, 37 il termine ha il senso di “traccia che un pensiero imprime nell’intelletto”; si tratta dunque di un concetto diversissimo). Una volta assodato che “vestigia” è inaccettabile, si deve tentare di intervenire su questa parola. La proposta di Barth “fastigia” è difficile: ancora una volta si parla di parti della candela piuttosto che di parti del candelabro; inoltre, “fastigium” dovrebbe indicare la parte più alta della candela, ma questo va contro il resto della correzione “quibus eas figebant”, perché le candele erano confitte nel candelabro alla base, non al “fastigium”. Quest’ultima difficoltà si potrebbe aggirare pensando che, nel testo di Barth, “earum” si riferisca a “facibus” (“con fiaccole o con una candela semplice o con quella candela ottenuta da una fune: le sommità di esse (delle fiaccole), sulle quali conficcavano esse (le candele), chiamarono funalia”). Ma con un testo del genere ci sarebbe un’ambiguità insostenibile fra “earum (facum)” ed “eas (candelas)”. Quindi, né mantenendo “vestigia”, né correggendo in “fastigia” si ottiene un testo soddisfacente. Ritengo che, per quanto ardita, la soluzione migliore proposta sia quella di Salmasius di correggere “eorum vestigia” in “cera vestita”. Il passaggio da “cer” a “eor” si può spiegare bene dal punto di vista paleografico pensando alla presenza di una “e” stondata (e poteva essere “aiutato” anche da una grafia ipercorretta di “cera” come “coera”); la stringa così prodottasi “EORAVESTITA” potrebbe allora essere stata corrotta in “EORVVESTITA” o rabberciata in “EORV(M) 500
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VESTITA”247. Quanto a “vestita”, una volta perso il legame con “cera”, il termine può essersi corrotto in “vestigia” (che potrebbe anche essere il tentativo di un copista di dare a “funalia” un corrispettivo neutro plurale). Su “vestita” tornerò meglio in seguito, per ora procediamo nell’analisi del frammento. Anche la parte successiva è corrotta: cosa fare con “quod ubi” ? Gli editori per lo più espungono uno dei due termini e intervengono sull’altro: Samter, Schoell e Thilo cancellano “quod”; Barth e Salmasius lo correggono in “quibus”, ma eliminano “ubi”. Tuttavia, si noterà che mancano particolari motivi per cui una delle due parole vada eliminata a scapito dell’altra e, in generale, entrambe le posizioni hanno l’aria di soluzioni di comodo. Solo Kettner considera entrambi i termini e pensa a uno scambio di compendio per il relativo, per cui corregge in “quam ubi” (poiché così già fornisce un oggetto al verbo, Kettner corregge poi “ea figebant” in “affigebant”). Ora, poiché qui si sta dando un’etimologia, io penserei piuttosto che dietro “quod” possa celarsi il consueto stilema varroniano “appellarunt a” + ablativo. Per questo propongo di correggere “quod” in “a quo” (“da questo fatto”). A questo punto, però, se il testo recitava “a quo”, sorgono dei dubbi su “vestita”. Infatti il senso (e i numerosi paralleli citati da Samter) richiedono che fosse la fune centrale rivestita di cera o di pece, non la candela stessa. Per questo, pur seguendo il suggerimento di Salmasius, non stamperei “vestita”, ma “vestito” (da riferire a “funiculo”). Credo che con “vestito” si possa anche spiegare bene la genesi dell’errore: la stringa “VESTITOAQVO”, infatti, fornisce quella lettera tonda (O) prima della A che permette di spiegare il passaggio a “vestigia” nel momento in cui il testo del frammento si è corrotto. Una volta che “quo” si trova isolato da “a”, poi, viene corrotto ulteriormente fino a “quod”. Farei quindi della proposizione “ubi ea figebant” l’oggetto di “appellarunt funalia” (la movenza è tipica della prosa di Varrone, cfr. fr. 47, lepestam dicebant ubi erat vinum in mensa positum). Quanto al tradito “ea”, accolgo la correzione in “eas” di Samter e Barth (da “easfigebant” si poteva facilmente passare a “eafigebant” per una sorta di aplografia, poiché la “s” e la “f ” in minuscola si assomigliano). A questo punto, tenendo conto degli interventi da me proposti, avremmo il testo provvisorio (per ora lascio da parte “facibus”): “aut candela simplici aut ex eo funiculo facto cera vestito – a quo, ubi eas figebant, appellarunt funalia”. Come si Anche una a minuscola poteva assomigliare a una u con il compendio di nasale, il che avrebbe aiutato il passaggio da “cera” a “eorum”. 247
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vede, resta ancora un problema, rappresentato dalla pericope “ex eo funiculo facto”, che continua a non aver senso. Una prima soluzione potrebbe essere espungere “eo” e correggere “facto” in “facta”: avremmo così il testo “aut candela simplici aut ex funiculo facta cera vestito – a quo, ubi eas (sc. candelas) figebant, funalia appellarunt” (con una candela o di tipo normale o realizzata a partire da una piccola fune rivestita di cera – per questo motivo, chiamarono funalia l’oggetto dove inserivano le candele). Tuttavia, questa proposta pone due problemi: innanzi tutto, la frase “ex funiculo facta cera vestito” avrebbe un ordo verborum contorto e tutta la movenza sarebbe piuttosto pesante. Inoltre, la successiva parafrasi di Servio parla semplicemente di candelae vel funes pice delibuti, e non di “candelae ex fune cera vestito factae”. Proporrei dunque una seconda soluzione, corrispondente a quella che ho stampato. Come mi è stato fatto notare dalla prof. G. Ammannati, le parole “ex eo facto”, che interrompono il discorso e complicano la sintassi, potrebbero costituire una glossa al nesso “a quo” che io ho restituito per congettura. Questa glossa sarebbe stata coinvolta nel processo di profonda corruttela che ha colpito il frammento e così sarebbe stata smembrata per poi essere inserita fuori posto nel testo. Ipotizzare un processo del genere permetterebbe da un lato di evitare la pesante giuntura “ex funiculo facta cera vestito”, dall’altro, fornirebbe la genesi della presenza di “eo”, che gli interventi precedentemente esposti non riescono a chiarire (vedi supra). In conclusione, il testo del frammento sarebbe: “facibus aut candela simplici aut [ex eo] funiculo [facto] cera vestito – a quo, ubi eas figebant, appellarunt funalia” (fiaccole, o una candela normale o una piccola fune cosparsa di cera – per questo motivo, chiamarono funalia l’oggetto dove le inserivano). Come si vede, con questo testo “eas” non potrebbe più riferirsi a “candelas” (poiché non si parla più di due “candelae”, ma di una “candela” e di un “funiculus”), ma va riferito a “faces”. Prima di concludere, vorrei tentare di proporre una piccola ricostruzione del contesto del frammento. Nella traduzione provvisoria che ho dato sopra, non ho interpretato “facibus”. Ora, Riposati sembra considerare “facibus” (così come “candela”) degli ablativi strumentali e ritiene che qui Varrone parlasse delle fiaccole impiegate nei funerali. Di conseguenza, propone di attribuire il frammento al terzo libro del de vita, dove una sezione era dedicata all’esposizione di alcuni riti funebri. Tuttavia, questa ipotesi è criticabile. Innanzi tutto, la parte della nota serviana su cui Riposati si basa è relativa alla prima accezione di “funalia”, non alla seconda e quindi non avrebbe molto a che vedere con la citazione dal de vita. Inoltre, fa parte di una nota etimologica accessoria che esula dalla descrizione vera e propria dei “funalia”. Per di più, nulla nel frammento del de vita rimanda con certezza al 502
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funerale (cfr. Samter: “neque enim certum est ea quoque ad funera pertineant an ad domesticam rem”). Piuttosto, direi che tutta la nota di Servio riguardi i candelabri e la loro forma. Per questo, inserirei il frammento nel contesto di un discorso sulla suppellettile domestica e sugli antichi metodi di illuminazione. Si è visto che argomenti del genere erano trattati principalmente nel primo libro del de vita. Pur dubitanter, poiché Servio non riporta il libro di appartenenza, ritengo dunque che il l. 1 sia quello a cui il frammento possa essere attribuito con maggior probabilità. Passando a un’analisi più attenta di “facibus”, credo che il termine vada distinto dal seguito, in quanto è difficile che il primo “aut” possa coordinare “facibus” e “candela”, ma è più plausibile che fondi l’opposizione fra “candela simplici” e “funiculo cera vestito”. “Facibus”, una volta distinto dal seguito, andrebbe legato a qualcosa. Tenuto conto del tono moralistico presente nell’esposizione di certi dati antiquari, di cui si sono visti numerosi esempi in vari frammenti del primo libro, proporrei di integrare e.g. qualcosa come “ facibus”. Mentre ai tempi di Varrone venivano sfoggiati candelabri lussuosi come quelli descritti da Lucr. 2, 24-25, gli antichi conoscevano soltanto questi due elementari tipi di lumi: la candela e la fune spalmata di cera. A questa informazione Varrone poi aggiungerebbe la nota erudita secondo la quale, poiché al posto delle candele si potevano adoperare anche queste funi, erano detti “funalia” i candelabri dove venivano poste le primitive “faces” dei primi Romani (cfr. l. L. 5, 119, candelabrum a candela: ex his enim funiculi ardentes figebantur). 123 (= 30a R., 443 S.) postea viri discumbere coeperunt, mulieres sedere Isid. orig. 20, 11.9: sedes dictae quoniam apud veteres Romanos non erat usus adcumbendi; unde et considere dicebantur. “postea”, ut ait Varro de vita populi Romani “viri discumbere coeperunt, mulieres sedere”, quia turpis visus est in muliere adcubitus 1-2: accubendi K; 2: considere CT; consedere BK | dicebant B | victa B
Isid. diff. 327 (ed. Codoñer): sedes autem dictae, quia apud veteres Romanos non erat usus adcumbendi. unde et consedere antiquo more dicitur. Nam veteres sedentes epulabantur. “postea”, ut ait Varro de vita populi Romani, “viri discumbere coeperunt, mulieres sedere”, quia turpe illis discumbere visum est. 4: erat post illis add. EALD | discumbere visum est MV; discumbere est visum β; discumbere visum PS; mulieres (mulierem E) decumbere EALD | turpe illis erat mulierem decumbere Arévalo; quia turpe illis erat discumbere mulierem Rip.
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in seguito gli uomini iniziarono a mangiare sdraiati, appoggiati sul gomito, le donne a farlo sedute Il frammento è riportato da Isidoro in due luoghi molto vicini per contenuto. Entrambi i passi isidoriani riferiscono lo stesso dato: in un primo tempo i Romani avevano il costume di mangiare seduti e tutti insieme; in seguito, i maschi iniziarono a consumare il pasto reclinati sul gomito, mentre le donne continuarono a farlo da sedute. Come si vede, nelle etymologiae e nel de differentiis la notizia attribuita al de vita è presentata in termini pressoché identici sul lato del contenuto, mentre, sul piano della forma, Isidoro non cita la pericope letteralmente, ma tende a intervenire sul testo. Un rapido confronto fra la due citazioni mostra come Isidoro tenda a modificare la citazione sostituendo alcuni termini con i loro sinonimi: “quia” (et.) – “quoniam” (diff.); “considere dicebantur” (et.) – “consedere antiquo more dicitur” (diff.); “turpis visus est in muliere adcubitus” (et.) – “turpe illis discumbere visum est” (secondo Codoñer 1992, p. 232; Riposati, forse a ragione, stampa invece un testo modellato sulla lezione dei codici di un sottogruppo del ramo γ: “turpe illis erat discumbere mulierem”, che sarebbe più vicino nel contenuto al brano delle etymologiae); inoltre, il de differentiis reca, rispetto alle etymologiae una frase in più, “nam veteres sedentes epulabantur”. In una situazione del genere, è altamente probabile che le citazioni derivino, per entrambe le opere, dalla stessa fonte (né si può escludere che Isidoro stesso, nelle etymologiae, abbia deciso di abbreviare la sua nota del de differentiis; numerosi casi di riuso nell’opera maggiore di materiale tratto dal de differentiis sono discussi da Guillaumin 2010, pp. XIII-XV); tuttavia, è ben difficile pronunciarsi sulla questione se la forma esatta del frammente del de vita fosse quella testimoniata dalle etymologiae o quella data dal de differentiis (soprattutto perché Isidoro tende in generale a riassumere o esprimere in propri termini il materiale che trae dalle sue fonti e, nel caso specifico del fr. 123, c’è la possibilità che tutta questa parte sul modo di mangiare degli antichi Romani sia la parafrasi di una trattazione più ampia del tema che Isidoro trovava in una fonte che poteva risalire, in ultima analisi, davvero al de vita). Tenuto conto di queste difficoltà, la soluzione più prudente sarebbe forse quella di stampare come testo sicuro del de vita soltanto la pericope “postea viri discumbere coeperunt, mulieres sedere” (ossia la parte che Isidoro presenta in modo esplicito come una citazione letterale dal de vita e che, infatti, ricorre nella 504
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medesima forma in entrambi i luoghi), e di presentare il resto della citazione dando in parallelo il testo delle etymologiae e del de differentiis. Fra le due forme date da Isidoro, è comunque probabile che quella del de differentiis sia la più vicina all’originale testo varroniano. In primo luogo, la precisazione “nam veteres sedentes epulabantur” è necessaria per dare senso al seguito del brano e per rendere intellegibile l’avverbio “postea” (gli antichi originariamente mangiavano seduti, poi iniziarono a farlo sdraiati); inoltre, ci sono ottime probabilità che la notizia trasmessa da Isidoro rimandi a una fonte antica, come dimostra il confronto con Val. Max. 1, 1.2, feminae cum viris cubantibus sedentes cenitabant, Serv. ad Aen. 1, 637 notandum, quia affluentiam ubique exteris gentibus dat, Romanis frugalitatem, qui et duobus tantum cibis utebantur et in atriis sedebant edentes e Serv. ad Aen. 1, 726 (che rimanda a Catone, orig. fr. 119 Peter: tangit Romanam historiam: nam ut ait Cato et in atrio et duobus ferculis epulabantur antiqui; che Servio avesse in mente il passo di Catone anche ad 1, 637 è confermato dal fatto che in entrambi i luoghi cita subito dopo, a sostegno della notizia, Iuv. 1.91). In secondo luogo, la forma del de differentiis è da preferire per l’impiego del verbo “discumbere” (che trova un riscontro immediato in “postea viri discumbere coperunt”), rispetto al deverbativo “adcubitus” usato nella versione delle etymologiae (un termine estraneo all’usus di Varrone e anche al latino del periodo repubblicano, dal momento che le prime attestazioni di “adcubitus” si hanno in Stazio, vedi ThLL I 338.74-339.19). Isidoro riporta il frammento senza l’indicazione del libro di appartenenza. Nel commento al fr. 25 ho già detto che la probabile sede del de vita in cui era presente l’informazione fornita da Isidoro (per i motivi sopra espressi, preferisco usare questi termini piuttosto che parlare di “sede della citazione di Isidoro”) era una sezione del primo libro dedicata a una breve esposizione del modo in cui i Romani solevano mangiare quando ancora non esisteva il triclinium. Vale la pena di rimandare ancora una volta a Serv. ad Aen. 1, 726: il seguito della nota serviana, dedicato alla frugalità delle antiche case romane, presenta infatti impressionanti consonanze con il discorso condotto da Varrone ai frr. 24 e 25: ibi (sc. in atrio) etiam pecunias habebant: unde etiam qui honoratiores erant248 liminium custodes adhibebantur … ibi et culina erat249: unde et atrium dictum est; atrum enim erat ex fumo. Il sospetto che Servio possa aver tratto queste informazioni da Varrone Cfr. fr. 24, “locupletiorum domus quam fuerint angustiis paupertinis coactae”. Cfr. fr. 24, “in postica parte erat colina”.
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è alto e il raffronto fra i vari passi paralleli autorizza a ipotizzare che il fr. 123 trovasse posto proprio nella sezione del de vita sulla casa romana da cui provengono i frr. 24 e 25. Questa sezione poteva essere costruita in modo da presentare la struttura essenziale delle antiche dimore (il che dava adito a osservazioni moralistiche: le case degli antichi romani più ricchi erano di una semplicità disarmante rispetto a quelle dei tempi di Varrone) e fornire i nomi e le etimologie dei vari ambienti che le componevano (“atrium” e “colina”, ad esempio). Nell’ambito della trattazione di uno di questi ambienti, poteva essere inserita anche la notizia data nel fr. 25 che gli antichi Romani mangiavano “in tabulino” (il frammento richiede di intendere l’espressione nel senso di “sotto una veranda”: non è escluso che questa potesse trovarsi appunto nell’“atrium”, sotto le arcate dell’“impluvium”; in tal caso la corrispondenza fra il fr. 25 e la notizia di Catone riportata da Servio sarebbe totale), seguita dalla specificazione che ancora non si era diffuso l’uso di mangiare sdraiati e che, invece dei letti triclinari disposti in un’apposita stanza, si imbandiva una tavolata nell’atrio, sotto il portico. Tutto questo porterebbe a legare il fr. 123, con un buon margine di probabilità, al fr. 25. Se così fosse, potremmo anche ipotizzare che fosse proprio Varrone a citare Catone come auctoritas in proposito e che, quindi, Servio abbia tratto il riferimento alle origines proprio da un passo in cui Varrone trattava degli antichi usi conviviali. Certo, non è detto che Servio traesse il materiale della nota ad 1, 726 proprio dal de vita populi Romani, quando avrebbe potuto consultare anche un’altra opera antiquaria di Varrone. Tuttavia, forse non è un caso che proprio la nota immediatamente successiva (ad Aen. 1, 727) contenga un riferimento esplicito al de vita populi Romani e ne riporti una citazione letterale (il fr. 122): del materiale tratto dal de vita potrebbe dunque essere alla base del commento di Servio a questa sezione dell’Eneide. Del resto, la notizia che gli antichi Romani mangiassero seduti era fornita da Varrone anche nell’opera gemella del de vita, il de gente populi Romani: vedi fr. 37 Fraccaro, maiores enim nostri sedentes epulabantur. quem morem a Laconibus habuerunt et Cretensibus, ut Varro docet in libris de gente populi Romani (citato da Serv. ad Aen. 7, 176) e che poteva a sua volta essere riferita anche da eruditi diversi da Varrone (vedi anche DServ. ad Aen. 1, 79250).
È strano che Salvadore (p. 146) menzioni come passo parallelo uno scolio a Iuv. 5.17 in cui si dice esattamente il contrario rispetto al fr. 123 (apud veteres accubitorum usus non erat, sed in lectulis discumbentes manducabant). 250
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124 (= 110 R.; 442 S.) ibi a muliere, quae optuma voce esset, perquam laudari; dein neniam cantari solitam ad tibias et fides † eorumque ludistricas cursicassent † haec mulier vocitata olim praefica usque ad Poenicum bellum Non. p. 92.27-93.11: PRAEFICAE dicebantur aput veteres quae adhiberi solent funeri, mercede conductae, ut et flerent et fortia facta laudarent. […] Varro de vita populi Romani lib. III: dein neniam cantari solitam ad tibias et fides † eorumque ludistricas cursicassent † haec mulier vocitata olim praefica usque ad Poenicum bellum 1: solerent Quicherat, Müller; 3: III F3; IIII LBA | cantari solitam scribendum collato Non. p. 212.28; cantaoris solitam L; cantoris solitam F3BA; 3-4: eorumque ludistricas cursitassent ed. princ.; eorum qui ludis tricas curitassent Bücheler, Rip.; eorum qui ludis Troicis cursitassent Scaliger, Müller; earum quae laudis tritas cantitassent Kettner
Non. p. 212.24-28: NENIA, ineptum et inconditum carmen, quod a conducta muliere, quae praefica diceretur, iis, quibus propinqui non essent, mortuis exhiberetur. Varro de vita populi Romani lib. IIII: ibi a muliere, quae optuma voce esset, perquam laudari; dein neniam cantari solitam ad tibias et fides 1: neptum L | a conducta muliere Müller (praeeunte Guieto); adducta mulier codd.; 2: dicoretur L | exhiberet BA; 3: IIII sic codd. hoc loco | optuma W. Canter; obtutum a codd. | perquam del. Müller; 4: deinne L | at tibiis F3
Allora da parte di una donna che fosse dotata di un’ottima voce (il morto) veniva lodato senza misura, in seguito, era abitualmente intonata la nenia, con accompagnamento di flauto e cetra … questa donna, un tempo chiamata praefica, fino alla guerra punica… Il fr. 124 si ricostruisce a partire da due citazioni parziali di Nonio, che in parte coincidono. Ho scelto pertanto di stampare i due lemmi (“Praefica” e “Nenia”) in parallelo, fornendo in apparato le varianti relative a ciascuna pericope, e di dare come testo del frammento la frase risultante dalla fusione delle due citazioni parziali. Il frammento riguarda le pratiche funerarie: in particolare, si riferisce all’uso di assumere una “praefica” incaricata di guidare il corrotto e di svolgere la lamentazione del defunto. Il contenuto porterebbe a collocare il frammento nel l. 3, dove Varrone con buona probabilità dedicava una sezione specifica al funerale romano (vedi frr. 91, 92 e 93). I codici, tuttavia, oscillano nell’indicazione del libro: a p. 212.28 attribuiscono concordemente il frammento al l. 4, mentre a 507
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p. 93.10 L e BA mantengono l’attribuzione al l. 4, ma il correttore F3 (Lupo di Ferrières) modifica “lib. IIII” in “lib. III”. Il problema non è di facile soluzione, soprattutto a causa del comportamento anomalo di F3. Infatti l’accordo fra L e BA e il fatto che presentino l’indicazione “lib. IIII” in entrambi i lemmi rende plausibile l’ipotesi che il loro progenitore avesse “lib. IIII”. Risulta invece più arduo ricostruire la situazione del codice consultato da Lupo (che deriva da un ramo indipendente rispetto al progenitore di LBA). Dovremmo infatti dedurre che questo avesse “lib. III” in un lemma e “lib. IIII” nell’altro. Ma non si può escludere che, in origine, anche il ramo da cui deriva F3 avesse “lib. IIII” in entrambi i luoghi e che, a un certo stadio della tradizione, un correttore (che forse aveva notato come le altre citazioni relative ai riti funebri provenissero tutte del l. 3) abbia modificato per congettura “lib. IIII” a p. 93.10 in “lib. III”251 (quanto a p. 212.28, il correttore potrebbe non aver notato che la stessa citazione ricorreva anche altrove e quindi aver tralasciato di intervenire lì su “lib. IIII”). Forse questa è la soluzione più economica e lineare (“lib. IIII” sarebbe il testo dell’archetipo, mantenuto da tutta la tradizione, se non che a un certo punto, nel ramo da cui discende F3, una delle occorrenze sarebbe stata modificata in “lib. III” da un correttore); altrimenti, sebbene lo scambio fra “lib. III” e “lib. IIII” sia facilissimo, le dinamiche di tradizione sarebbero più complesse da spiegare. Se infatti, a p. 93, l’archetipo aveva “lib. III” (conservatosi nel ramo di F3 e corrottosi in “lib. IIII” nel progenitore di LBA), sembra strano che, a p. 212, l’originario “lib. III” si sia poi corrotto in “lib. IIII” indipendentemente252 nel ramo di F3 e in quello di LBA. Per questo motivo, temo che sia piuttosto difficile basarsi sui dati di tradizione per assegnare il fr. 123 a un libro specifico del de vita. Il contenuto porterebbe a collocarlo nel l. 3, ma, d’altra parte, se così fosse dovremmo conclu-
251 La correzione si potrebbe in teoria attribuire anche a Lupo stesso. Questi, tuttavia, tende a riportare le lezioni del proprio modello in modo estremamente fedele e scrupoloso e a non modificarne quasi mai il testo per congettura (fanno eccezione piccole modifiche ortografiche e altri interventi minimi). Quindi, se “lib. III” è frutto di una correzione, preferirei non attribuirla a Lupo, ma a un correttore che ha operato a monte della copia da cui Lupo ha tratto le varianti che segna su F. 252 In alternativa si dovrebbe pensare che già l’archetipo presentasse la stessa situazione testimoniata da F3 (“lib. III” a p. 93, “lib. IIII” a p. 212) e che un correttore, nel progenitore di LBA, abbia voluto uniformare l’indicazione delle due citazioni e modificare “lib. III” a p. 93 in “lib. IIII”. La dinamica supposta non è impossibile, ma di certo molto macchinosa.
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dere che il copista dell’archetipo abbia commesso lo stesso errore (“lib. IIII” per “lib. III”) autonomamente sia a p. 93 che a p. 212, ossia in due punti piuttosto distanti l’uno dall’altro, una dinamica non semplicissima. Ho quindi deciso di porre il fr. 123 in appendice, fra quelli di difficile attribuzione a un libro preciso del de vita253, pur segnalando che l’indicazione “lib. III” di F3, forse frutto dell’ingenium di un ignoto correttore, non sarebbe disprezzabile. La prima parte della citazione è piuttosto chiara: Varrone descrive il momento del funerale in cui una donna prezzolata, detta “praefica”254, guidava il pianto del defunto. È plausibile che costei (che Serv. ad Aen. 6, 216 definisce “princeps planctuum”, ossia “colei che guida il corrotto”255) si lanciasse in pianti e manifestazioni di dolore esagerati e fuori misura; ciò è suggerito da Lucil. fr. 954 mercede quae conductae flent alieno in funere / praeficae, multo et capillos scindunt et clamant magis, da Hor. ars 431-432, ut qui conducti plorant in funere dicunt / et faciunt prope plura dolentibus ex animo (passo opportunamente messo in rilievo da Salvadore; il fatto che Orazio parli di uomini prezzolati non esclude l’idea che anche le “praeficae”, in modo analogo, si profondessero in grida e pianti fuori misura256) e dalla notazione del frammento “perquam laudari” (“essere ladato oltre modo”, l’uso di “perquam” con un verbo è piuttosto raro, poiché di norma “perquam” si adopera come rafforzativo di un aggettivo o di un avverbio, ma non privo di attestazioni, vedi ThLL Salvadore (p. 138) stampa l’indicazione “lib. IV” fra croci. La derivazione da “prae” e “facere” proposta da Varrone (l. L. 7, 70, utrumque ostendit a praefectione praeficam dictam; nello stesso passo Varrone specifica che le “praeficae” venivano assunte presso il bosco sacro a Libitina, la dea dei funerali) è corretta: la “praefica” sarebbe la donna che compie la lode o il lamento del defunto prima degli altri, vedi ThLL X, 2 619.35-75. 255 Varro tamen dicit pyras ideo cupresso circumdari propter gravem ustrinae odorem, ne eo offendatur populi circumstantis corona, quae tamdiu stabat respondens fletibus preaficae, id est principi planctuum, quamdiu consumpto cadavere et collectis cineribus diceretur novissimum verbum ‘ilicet’, quod ire licet significat; Riposati stampa il brano di Servio come un frammento del de vita, ma l’attribuzione del brano a quest’opera non è sicura (Servio si limita a riferire la notizia a Varrone, ma avrebbe potuto ricavarla per il tramite di altre fonti, né è detto che questa derivasse proprio dal de vita). Salvadore, con più metodo, include il brano fra i fragmenta dubia. Vedi anche Serv. ad Aen. 9, 484, praeficae, ut et supra diximus, sunt planctus principes, non doloris e Paul.-Fest. p. 223, praeficae dicuntur mulieres ad lamentandum mortuum conductae, quae dant ceteris modum plangendi, quasi in hoc ipsum praefectae. 256 Per l’esistenza di “praefici”, vedi ThLL X, 2 619.76-79. 253
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X, 1 1659.55-62; va comunque osservato che il fr. 123 costituirebbe l’unico uso di “perquam” con un verbo in scrittori dell’età repubblicana257). Nella mia lettura, ipotizzo che “laudari” vada riferito al morto (che poteva essere menzionato nella parte precedente tagliata da Nonio) e che “ibi” abbia un significato temporale (“allora”, ossia “a quel punto del funerale”), come sembrerebbe suggerire anche la progressione marcata dagli avverbi “ibi … dein”). Per quanto riguarda il significato da attribuire a “laudari”, ci sono due possibili interpretazioni. La prima è supporre che la “praefica” potesse occuparsi, oltre che del pianto, anche della “laudatio funebris” del morto. Confesso che, in un primo momento, questa soluzione potrebbe sembrare improbabile: tradizionalmente la “laudatio” era assegnata a un membro della famiglia del defunto ed era pronunciata secondo le modalità di un’orazione in prosa (è celebre quella tenuta da Cesare al funerale della zia Giulia, vedi Suet. Iul. 6). È vero che Nonio, nel lemma, specifica carmen quod a conducta muliere, quae praefica diceretur, iis quibus propinqui non essent, mortuis exhiberetur, il che lascerebbe supporre la possibilità che, in assenza di parenti, la “laudatio” che tradizionalmente spettava a loro venisse affidata a una “praefica” assunta per l’occasione (così la pensa Riposati, p. 225). Tuttavia, la precisazione si trova soltanto in Nonio e potrebbe essere un’aggiunta del grammatico, che non trova un immediato corrispettivo nel testo del frammento. C’è però un passo di Cicerone (leg. 2, 62, honoratorum virorum laudes in contione memorentur easque etiam cantus ad tibicinem prosequatur, cui nomen neniae, quo vocabulo etiam apud Graecos cantus lugubres nominantur) che, nella successione “laudes – nenia”, corrisponde quasi alla perfezione al fr. 123. Per quanto Cicerone non dica esplicitamente che le lodi degli uomini illustri e le “neniae” spettassero alle stesse persone, il raffronto col fr. 123 rende probabile questa ipotesi, che troverebbe ulteriore conferma anche in Naev. fr. 129 Ribbeck, haec quidem hercle, opinor, praefica est: / nam mortuum collaudat (citato a l.L. 7, 30) e Plaut. Truc. 494-496, facile sibi facunditatem virtus argutam invenit, / sine virtute argutum civem mihi habeam pro praefica, / qua alios conlaudat, eapse vero sese non potest (cfr. la definizione di Nonio: “ut flerent et fortia facta laudarent”, che però potrebbe derivare proprio dai versi plautini). Una seconda possibilità è che, nel pianto “spettacolare” del morto, la “praefica” si lanciasse in iperboliche, quanto generiche, lodi del defunto e che Var Müller trova insostenibile l’uso di “perquam” e lo espunge, ritenendolo l’esito corrotto di una glossa “praefica” posta a margine per chiosare “a muliere” ed entrata erroneamente a testo. 257
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rone abbia voluto rappresentare, con “perquam laudari”, proprio questa immagine. Questa alternativa potrebbe risultare apparentemente più plausibile, in quanto non riserverebbe alla “praefica” un compito solenne come quello di tenere il “discorso funebre”, ma si espone all’obiezione di trascurare il parallelo di Cicerone258. Il frammento lascia intendere che a una prima fase in cui la “praefica” tesseva le lodi del defunto seguisse la recita della “nenia”, una sorta di litania (cfr. Quint. 8, 2.8, carmen funebre proprie nenia; Nonio la definisce “rozzo componimento”259, vedi OLD 1170.1 e Heller 1943; il termine può indicare per metonimia anche “poesia dal contenuto luttuoso”, come in Hor. c. 2, 1.37), accompagnata dal flauto e dalla cetra, che avrebbe dovuto concludere il pianto rituale (per l’uso del flauto, oltre al passo di Cicerone sopra citato, vedi Ov. tr. 5, 1.48, tibia funeribus convenit ista meis; il fr. 123 costituisce invece l’unica attestazione dell’impiego anche della cetra per accompagnare il lamento funebre). Nella mia lettura del frammento, faccio dipendere per zeugma sia “laudari” sia “neniam cantari solitam” da “a muliere” (anche il Thesaurus propone la stessa soluzione); per questo, ho scelto di adottare una punteggiatura meno forte rispetto a quella stampata da Salvadore, che pone una pausa marcata dopo “laudari”: che anche “neniam cantari solitam” vada riferito a “a muliere” è confermato dal fatto che subito dopo il discorso riprende con “haec mulier vocitata … praefica”. Purtroppo la parte di testo compresa fra “ad tibias et fides” e “haec mulier” si è corrotta in modo irreparabile. I codici danno una stringa priva di senso, “eorumque ludistricas cursicassent”260, che nessuna delle proposte di intervento riesce a sanare in maniera convincente. Già lo Scaligero, partendo dalla correzione dell’editio princeps “cursitassent”, propone “eorum qui ludis Troicis cursitassent”. Il nesso “eorum qui…” andrebbe riferito a “neniam” (“veniva normalmente cantato il lamento di coloro che avessero preso parte ai ludi Troici”261), cosa che comporterebbe degli 258 Per il problema delle origini della “laudatio funebris” (definito dallo stesso autore «not in itself soluble»), vedi North 1983. 259 Nonio potrebbe aver tratto la definizione da Varrone: questi, infatti, definisce “incondita” forme di “poesia” affini alla “nenia” anche a Men. fr. 363 A., homines rusticos in vindemia incondita cantare, sarcinatricis in machinis. 260 Cebriàn 2006 accoglie il testo tradito, che traduce “and they run around in their games”. La traduzione non trova alcun riscontro nel testo, che è del tutto intraducibile. 261 Non è chiaro poi se il genitivo sia soggettivo (erano quelli che avevano preso parte al ludus Troiae che cantavano la “nenia”; in tal caso “cantari solitam” non dipenderebbe più da “a mulie-
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scompensi sul piano sintattico, perché l’ordo verborum porta piuttosto a legare il genitivo “eorum” a “fides” (ma cosa vorrebbe dire “si cantava la nenia con il flauto e la cetra di quelli che avevano corso il ludus Troiae” ?); soprattutto, la correzione di Scaliger è resa improbabile dalla menzione, in questo caso del tutto fuori luogo, del “ludus Troiae”. Si trattava di una competizione fra giovani aristocratici, che si sfidavano in pericolose acrobazie a cavallo (vedi Suet. Iul. 39.2; Aug. 43.2; Serv. ad Aen. 5, 602; Plut. Cato Min. 3.1), attestata per la prima volta nell’81 a.C. (quindi il fr. 123, che si riferisce a un uso in vigore almeno fino alle guerre puniche, non potrebbe contemplare una menzione di questo gioco, anche se, stando a Dio 43, 23.6, τήν τε ἱππασίαν τὴν Τροίαν καλουμένην οἱ παῖδες οἱ εὐπατρίδαι κατὰ τὸ ἀρχαῖον ἐποιήσαντο e allo stesso Virgilio, che a Aen. 5, 596-602, dopo aver descritto dei numeri equestri compiuti da Ascanio e dai giovani del suo seguito, conclude hunc morem cursus atque haec certamina primus / Ascanius … rettulit et priscos docuit celebrare Latinos, / quo prius ipse modo, secum quo Troia pubes; / Albani docuere suos, hinc maxima porro / accepit Roma et patrium servavit honorem; / Troiaque nunc pueri, Troianum dicitur agmen, si deve ipotizzare che il gioco, sebbene sia attestato solo a partire dall’età sillana, venisse considerato ben più antico e forse fosse praticato anche prima). Va osservato anche, contro la correzione “eorum qui ludis Troicis cursitassent”, che, nelle fonti, troviamo solo formulazioni al singolare (“Troia”, “Troiae lusum”, τὴν παιδικὴν καὶ ἱερὰν ἱπποδρομίαν ἣν καλοῦσιν Τροῖαν), ma nessuna attestazione di “ludi Troici”. Simile alla soluzione di Scaliger è quella avanzata da Warren 1904, p. 355: “eorum quei ludis trigas cursitassent”, che andrebbe resa come “di coloro che ai giochi funebri avevano corso con i carri a tre cavalli”. La proposta si basa su un passo delle etymologiae di Isidoro (18, 36.1-2) in cui si dice che i carri a tre cavalli (le “trigae”; per la formazione del termine vedi Varro l.L. 8, 30) erano sacri agli dei inferi; l’autore suppone dunque che al lamento guidato dalla “praefica” seguisse il canto della “nenia”, assegnato agli stessi che avevano gareggiato nella corsa delle “trigae” ai giochi funebri per il morto. L’intera ricostruzione di Warren richiede di integrare a senso troppi elementi che non trovano alcuna giustificazione sulla base del resto del frammento e che riguarderebbero pratiche non
re”, ma costituirebbe una nuova frase: la “praefica” lodava il morto, poi “ii qui ludis Troicis cursitassent” cantavano la “nenia”) oppure oggettivo (si cantava la “nenia” per i partecipanti morti al ludus Troiae?). Tutto ciò mostra con chiarezza le difficoltà poste da questa parte del frammento.
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altrimenti attestate; inoltre, anche sul piano dell’espressione questo testo risulta molto debole e traducibile solo a costo di spericolate contorsioni verbali. Infine, introducendo una nuova categoria di personaggi adetti alla “nenia”, la correzione di Warren svia il discorso dalla “mulier” addetta alla lode del defunto citata nella prima parte del frammento: questo rende molto duro il successivo richiamo “haec mulier vocitata … praefica”, in base al quale è evidente che in tutta la parte precedente del frammento si doveva parlare sempre della “praefica”. Un’altra proposta è quella di Bücheler, segnalata dall’autore a Funaioli e accolta a testo da Riposati: “eorum qui ludis tricas curitassent”. In base a questo testo, si dovrebbe far iniziare con “dein neniam …” una nuova frase, il cui senso sarebbe “poi era costume che venisse cantata la nenia, con l’accompagnamento del flauto e della cetra di quei suonatori che prestavano opera alle farse nei ludi scaenici”. Il frammento direbbe dunque che i suonatori che abitualmente si occupavano dell’accompagnamento musicale nelle recite di opere drammatiche (tenute nel corso delle grandi festività) fornivano, nei giorni “feriali”, la loro opera ai funerali, dove suonavano le note di accompagnamento al lamento guidato dalla “praefica”. Fra le varie proposte, si tratta della meno improbabile, ma comunque presenta dei punti dubbi: la precisazione sulla provenienza dei suonatori sarebbe un dato piuttosto superfluo ed è difficile che il nudo “tricas” (lett. “le inezie (rappresentate ai ludi scaenici)”) possa essere un termine appropriato per definire le rappresentazioni drammatiche (il solo fr. 45 di Turpilio, putas eos non citius tricas Atellanas quam id extricaturos?, ossia “gli ingarbugliati intrecci delle farse sono più facili da sciogliere di questo caso”, non basta come attestazione per quest’uso). La correzione è stata caldamente difesa da Heller 1943 (pp. 222; 228-229; 254-262), che anzi propone il fr. 124, con la restituzione di Bücheler, come la prova principale a sostegno della sua ipotesi che la “nenia” in origine non designasse una forma di lamento funebre, ma un componimento giocoso, di statuto letterario molto basso, e che solo in un secondo tempo il termine sarebbe passato a indicare tutte le forme “parapoetiche” di scarso valore, inclusa la “nenia” funebre. L’intera esposizione del frammento è viziata, nel contributo di Heller, da questa volontà di impiegarlo come strumento a sostegno della sua tesi, il che conduce a conclusioni a volte spiazzanti, come dove è avanzata l’ipotesi che la “nenia” potesse essere una sorta di danza burlesca condotta nel corso del funerale come rito di espiazione. Oltre ai dubbi che pone in toto la ricostruzione di Hel513
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ler, va tenuto anche conto del fatto che lui proporrebbe di legare “eorum qui…” a “neniam” piuttosto che a “tibias et fides”: quindi, secondo Heller, non sarebbe stata la “praefica” a cantare la “nenia” sull’accompagnamento dei suonatori dei “ludi”, bensì, dopo che la “praefica” aveva lodato il morto, sarebbe stata cantata la “nenia” dei suonatori dei “ludi”. Questa ipotesi è smentita dai passi in cui si dice chiaramente che anche la “nenia” era di competenza della “praefica” e che era costei a guidare il lamento (vedi supra); inoltre, come anche la correzione di Scaliger, la proposta di Heller pone il problema di inserire nel discorso la menzione di figure diverse dalla “praefica”, con la conseguenza che il successivo rimando “haec mulier” perde del tutto il proprio significato. Kettner deve aver avvertito la necessità di mantenere il dicorso, per tutto il fr. 124, sulla “praefica”; per questo propone “earum quae laudis tritas cantitassent” (testo accolto anche da Brunetti, che traduce: “da una di quelle che erano usate a queste trite lodi”). Con il testo di Kettner il frammento direbbe prima che il morto veniva lodato senza misura dalla prefica e che poi veniva cantata la “nenia” delle donne addette alle lodi. In questo modo il passaggio al successivo “haec mulier” sarebbe in effetti giustificato in modo logico (il morto era lodato da una donna, poi si cantava la “nenia” di quelle donne abituate a cantare questo tipo di lodi; questa donna era detta “praefica”), anche se la correzione di Kettner richiede un intervento davvero massiccio sul testo e rischia di introdurre una notazione superflua (se già nella prima parte è detto che la “praefica” celebrava il morto con lodi, perché ripetere questa informazione subito dopo?). In conclusione, temo che la stringa si sia corrotta in modo troppo profondo perché si possa tentare di sanarla in una forma convincente262. Ho ritenuto dunque più prudente la scelta delle croci, adottata anche da Salvadore. Per quanto riguarda l’ultima parte del frammento, questa risulta piuttosto chiara, ma comporta comunque delle piccole difficoltà dovute al taglio operato da Nonio. Infatti non sappiamo se la pericope “haec mulier vocitata olim praefica usque ad Poenicum bellum” costituisse una frase compiuta (“questa donna era detta praefica tempo fa, fino alla guerra punica”), oppure se il discorso di Varrone proseguisse e nella parte successiva comparisse un verbo finito. In tal caso, potremmo supporre differenti integrazioni: la più immediata sarebbe pensare Un tentativo exempli gratia potrebbe essere, sulla scorta del lemma noniano, “earum quae laudatrices conductae essent”. 262
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che Varrone dicesse che l’uso descritto rimase in vigore fino alle guerre puniche (purtroppo la citazione non fornisce abbastanza elementi per definire a quale delle tre guerre puniche si riferisse Varrone, né è escluso che usasse la formula “usque ad Poenicum bellum” in modo più generale, per dire “fino al periodo delle guerre puniche”; un’indicazione temporale altrettanto vaga si riscontra in Ov. fast. 3, 147-148, hinc (ossia “a partire dalle Calende di marzo”) etiam veteres initi memorantur honores / ad spatium belli, perfide Poene, tui; l’entrata in carica dei magistrati il 1° gennaio risale infatti al periodo della terza guerra punica) e supporre quindi che il fr. 124 si concludesse con la notizia “questa donna, un tempo chiamata praefica, (fu impiegata) fino alla guerra punica”263. Se così fosse, potremmo concludere che l’uso di cantilenare la “nenia” ai funerali, almeno nella forma descritta dal fr. 124, non sarebbe sopravvissuto oltre il III sec. (questa è l’idea di Riposati, pp. 224-228). Tuttavia, data la perdita del seguito, preferirei non sostenere una conclusione così drastica. Varrone, infatti, poteva anche condurre il discorso in altro modo e dire non che la “praefica” era esistita fino alla guerra punica, ma che fino alla guerra punica operava in un certo modo. Se così fosse, la menzione di una guerra punica non segnerebbe più la data dopo la quale la figura della “praefica” era scomparsa, ma si riferirebbe soltanto a uno specifico dato antiquario.
Ovviamente, le possibilità di integrazione sono virtualmente infinite: “questa donna, chiamata praefica, fino alla guerra punica ”, oppure “”, “” ecc. 263
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Appendice
Varrone e Lucrezio (con cenni sulla datazione delle Menippeae) Nel commento al fr. 65 abbiamo ipotizzato che le parole di Varrone “elanguescit bonum proprium civitatis atque aegrotare incipit et consenescit” contengano una ripresa da Lucr. 4, 1124, languent officia atque aegrotat fama vacillans. Dal momento che la questione dei rapporti intertestuali fra Varrone e Lucrezio era troppo ampia per poter essere affrontata in sede di commento, ho deciso di dedicare al tema il presente excursus. L’allusione contenuta nel fr. 65 costituisce un’interessante ripresa dal poema, in un’opera di sicuro posteriore al 54, l’anno in cui fu pubblicato il de rerum natura. A questo punto, varrebbe la pena di indagare se si possano rintracciare ulteriori passi varroniani in cui è individuabile l’influsso di Lucrezio. Si tratta di una questione poco studiata, trattata in modo sistematico finora soltanto in Deschamps 1997. Purtroppo, la tesi di fondo della Deschamps (Lucrezio avrebbe usato le opere di Varrone come repertorio dossografico da cui attingere dottrina) è inficiata dal fatto che la studiosa propone come paralleli passi tratti tutti da opere di Varrone posteriori al 54 (che quindi Lucrezio non avrebbe potuto consultare). La Deschamps cerca di giustificarsi ricorrendo alla teoria dei “doppioni varroniani” (Varrone si ripete; informazioni che noi leggiamo, ad esempio, nel de lingua Latina, potrebbero essere state fornite dall’erudito anche in opere perdute precedenti al 54), la cui applicazione, tuttavia, nei casi da lei riportati, sarebbe eccessivamente macchinosa. Ancora, credo che la tesi della Deschamps trovi un ulteriore ostacolo nel fatto che tutti i casi di probabile rapporto fra Lucrezio e Varrone consistono nella presenza di elementi formali (ripresa di un particolare termine, di una iunctura poetica, di un epiteto, di una similitudine), mentre i casi in cui la studiosa vedrebbe una concordanza di contenuto fra i due autori si rivelano, a un’analisi più dettagliata, come falsi paralleli (l’unico esempio in cui Lucrezio potrebbe aver attinto una notizia da Varrone è, come vedremo, assai dubbio e problematico). Anticipando, quindi, in parte le conclusioni della seguente indagine, si rintracceranno effettivamente, nel testo di Varrone, possibili riprese da Lucrezio, ma 517
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di natura tale da smentire del tutto l’ipotesi della Deschamps. Si vedrà, infatti, un Varrone che riprende da Lucrezio elementi formali di particolare spicco, piuttosto che un Lucrezio che usa Varrone come repertorio di notizie. Passerei dunque alla discussione dei paralleli fra Varrone e Lucrezio segnalati dalla Deschamps e alla presentazione di altre riprese individuate da me. Partirei dai casi di ripresa rintracciabili nel de lingua Latina di Varrone, composto di sicuro dopo la pubblicazione del de rerum natura264. Nell’esporre l’etimologia del verbo “volo” (6, 47), Varrone arricchisce l’enunciazione con un’aggiunta dal sapore poetico: volo a voluntate dictum et a volatu, quod animus ita est, ut puncto temporis pervolet quo vult. Come si vede, la sezione introdotta da “quod” ha poco a che vedere con l’informazione relativa all’origine di “volo”, ma si presenta come un abbellimento dato da Varrone al proprio testo. Ora, Lucrezio, in riferimento alle prerogative dell’animus, impiega esattamente lo stesso nesso: (2, 1047) atque animi iactus liber quo pervolet ipse. La Deschamps (p. 112) ipotizza che Lucrezio abbia attinto la notizia sulla mobilità dell’animus da un’opera di Varrone dove era esposta la stessa teoria poi ripresa nel de lingua Latina (il primo libro delle antiquitates rerum humanarum?). Tuttavia, come ho appena detto, questo passo si configura piuttosto come un inserto di tenore poetico posto all’interno del discorso erudito che come una notizia che Lucrezio avrebbe dovuto reperire in Varrone (e, d’altronde, non si può negare che il de lingua Latina venga dopo il poema sulla natura). Quindi, direi che in questo caso si possa parlare, come per il fr. 65, di una vera e propria allusione di Varrone al poema di Lucrezio. Questo procedimento si rivela anche dal fatto che Varrone impiega, nel citare un verso di Lucrezio, uno stilema prediletto da questo poeta: l’espressione “puncto temporis” (che Lucrezio usa a 1, 1109; 4, 164; 4, 193; si veda anche il fr. 332 A. delle Menippeae: una pestilentia aut hostica acies puncto temporis inmanis acervos facit). Abbiamo dunque trovato due passi in cui possiamo ipotizzare con buon margine di probabilità che Varrone stia reimpiegando stilemi lucreziani. La discussione relativa a “puncto temporis” permette poi di introdurre un discorso relativo alle Menippeae: come vedremo, infatti, nel seguito del lavoro, si possono rintracciare, soprattutto nei frammenti poetici delle satire, numerosi casi in cui Varrone sembrerebbe riprendere forme e temi da Lucrezio. Questi casi, che discuteremo a breve, sono spesso tralasciati dai commen I libri dedicati a Cicerone sono databili agli anni 47-45.
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ti, soprattutto perché la datazione vulgata delle satire postula che queste siano state composte e pubblicate prima del de rerum natura (cosa che ovviamente renderebbe impossibile l’ipotesi di un influsso di Lucrezio su Varrone). In realtà, gli elementi su cui fondare la datazione delle satire di Varrone sono tanto scarsi e labili da impedire posizioni così rigide e dogmatiche. Prima di passare, dunque, alla rassegna dei passi delle Menippeae in cui sarebbero riscontrabili allusioni a Lucrezio, vorrei prima discutere brevemente gli altri brani del de lingua Latina in cui la Deschamps (credo a torto) ravvisa punti di contatto con Lucrezio. Ad esempio, sia Lucrezio (4, 1201-1202: nonne vides etiam quos mutua saepe voluptas / vinxit, ut in vinclis communibus excrucientur?) sia Varrone (l. L. 6, 61: horum (sc. maris et feminae) vinctionis vis Venus) usano “vincio” in riferimento all’amore. Come si vede, i due passi, a parte questo, non hanno nulla in comune. Ancora, l’immagine del “legame d’amore” è così scontata che non vedo (come Deschamps, p. 112) la necessità di postulare che Lucrezio si stia servendo di una notizia letta in Varrone o che qui Varrone stia citando Lucrezio. Prendiamo altri due passi: l. L. 6, 33: secundus (sc. mensis), ut Fulvius scribit, et Iunius a Venere, quod ea sit Aphrodite; cuius nomen ego antiquis litteris quod nusquam inveni, magis puto dictum, quod ver omnia aperit, Aprilem e Lucr. 1, 10-11: nam simul ac species patefactast verna diei / et reserata viget genitabilis aura favoni. La Deschamps (p. 111) li cita come indice di uno scambio di dottrina fra Varrone e Lucrezio, cui sarebbe comune l’idea della primavera che “si schiude” o fa schiudere i germogli. Io credo che, a parte la comune idea dello sbocciare della natura connesso a questa stagione, non vi siano particolari vicinanze fra i due brani. Sarebbe piuttosto interessante la connessione fra Venere e primavera, se solo Varrone non la attribuisse esplicitamente a fonti diverse da Lucrezio e non dicesse che, per giunta, la ritiene sbagliata. Ancora più inverosimile mi sembra il tentativo della studiosa di spiegare il nesso (oggettivamente arduo) lucreziano “avidum auricularum” (4, 591-592: ut omne / humanum genus est avidum nimis auricularum) come influenzato da un’etimologia proposta da Varrone (l. L. 6, 83: auris ab aveo, quod his avemus discere semper, quod Ennius videtur ἔτυμον ostendere velle in Alexandro cum ait: ‘ita dudum ab ludis animus atque aures avent avide expectantes nuntium’. Propter hanc aurium aviditatem theatra replentur). Apparentemente, qualcosa in comune fra i due passi potrebbe esserci (Varrone parla degli uomini che desiderano sempre apprendere novità e che affollano i teatri per ascoltare favolose vicende mitiche, così come Lucrezio descrive il genere umano 519
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che, “bramoso di ascoltare favole”, preferisce immaginare che stiano cantando divinità montane, invece di indagare le cause scientifiche dell’eco); tuttavia la solita difficoltà relativa alla datazione delle due opere impone di dover postulare un doppione antecedente al 54 in cui Varrone proponesse la stessa etimologia. Del resto, è inverosimile anche che in questo caso Varrone sia influenzato da Lucrezio, dal momento che indica esplicitamente in Ennio la sua fonte. Concluderei che, anche qui, l’identificazione proposta dalla Deschamps è errata. Ancora, Lucrezio dedica una sezione del l. 6 (vv. 738-905) alla descrizione di acque dalla natura particolare (le esalazioni dell’Averno, fonti dove qualsiasi oggetto affonda o galleggia, fonti che emettono fiamme, ecc.). La prima parte è dedicata al lago d’Averno, di cui è proposta l’etimologia che ne vorrebbe il nome derivato da ἀ e ὄρνις, data la credenza che i suoi vapori uccidessero gli uccelli (vv. 740-746: principio quod Averna vocantur nomine, id ab re / impositumst, quia sunt avibus contraria cunctis, / e regione ea quod loca cum venere volantes, / remigi oblitae pennarum vela remittunt /praecipitesque cadunt molli cervice profusae / in terram, si forte ita fert natura locorum, / aut in aquam, si forte lacus substratus Averni265). Ora, Mirsch ritiene che Varrone trattasse delle esalazioni del lago di Averno nel libro delle antiquitates rerum humanarum dedicato all’Italia (l. 11 fr. 8-9266). Tuttavia, i passi da lui indicati sono citazioni da Plinio che sintetizza notizie attribuite a “Varro” senza specificare l’opera di provenienza e le espone in modo troppo schematico perché si possa discutere su un influsso da parte di Lucrezio su Varrone (o su una consultazione di Lucrezio delle opere di Varrone sul fenomeno). Quindi, oltre ad avere il problema di come maneggiare dottrina, non testo, di Varrone, nel nostro caso non abbiamo neanche particolari punti di contatto lessicali fra i due autori. Infine, la notizia sull’Averno è comunissima nell’antichità (si veda Bailey ad loc. e Norden ad Aen. 6, 242), per cui non è necessario pensare che Varrone la dovesse trarre da Lucrezio (o Lucrezio da Varrone). Piuttosto, vorrei sottolineare una cosa non notata da Deschamps, e cioè che un frammento del Marcipor (satira che, come vedremo, presenta molti punti di contatto col poema di Lucrezio) descrive ugualmente uccelli che cadono morti
265 Cfr. Verg. Aen. 6, 239-241: quam super haud ullae poterant impune volantes / tendere iter pennis: talis sese halitus atris / faucibus effundens supera ad convexa ferebat. 266 Deschamps cita anche il fr. 10 del l. 13, non del tutto pertinente, dato che riguarda le acque dolci del Mar Caspio.
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al suolo (ma perché colpiti dal fulmine) in modo abbastanza vicino a quello del de rerum natura: fr. 272 A., at nos caduci naufragi, ut ciconeae / quarum bipinnis fulminis plumas vapor / perussit, alte maesti in terram cecidimus; cfr. Lucr. 6, 745746: praecipitesque cadunt … in terram267). Ancora, passando dalla forma a un esame del contesto, in Varrone a parlare sono dei “naufragi” che paragonano il proprio stato a quello delle cicogne che cadono dal cielo, mentre in Lucrezio gli uccelli che cadono sono metaforicamente paragonati proprio a dei naufraghi che non riescono più a governare la nave (v. 745: remigi oblitae pennarum vela remittunt). Questa potrebbe essere, quindi, una non trascurabile ripresa di Lucrezio da parte di Varrone (non notata, tra l’altro, da Cèbe). In definitiva, i casi proposti dalla Deschamps si rivelano non validi e la teoria della studiosa di un impiego di Varrone da parte di Lucrezio si dimostra impossibile. Anzi, l’unico punto di contatto fra i due autori che è emerso dai loci citati dalla Deschamps è un’altra possibile ripresa da Lucrezio nelle Menippeae di Varrone. Passerei quindi a esporre brevemente i casi in cui ho individuato un certo influsso di Lucrezio sulle satire di Varrone. Come accennavo, la datazione tradizionalmente assegnata alle Menippeae porterebbe a negare che Varrone riprendesse in quest’opera temi e stilemi dal poema lucreziano268. Infatti, qualora si accettasse come inoppugnabile l’ipotesi di una pubblicazione di tutte le satire prima del 60, ne conseguirebbe la totale impossibilità che Varrone, nel comporle, avesse presente il poema di Lucrezio, apparso quindici anni dopo. Tuttavia, dobbiamo tener conto del fatto che gli elementi in nostro possesso su cui basare una datazione delle satire sono pochissimi e si prestano a interpretazioni non univoche. L’unico fattore esterno agli scarsi frammenti che ci restano è il passo di Cicerone (Acad. Post. 1, 8), dove Varrone, personaggio del dialogo, parla delle proprie satire in questi termini: in illis veteribus nostris, quae Menippum imitati, non interpretati, quadam hilaritate conspersimus. Nel 45, dunque, Cicerone definisce “vetera” le Menippeae: il Sul motivo degli uccelli che cadono morti durante il volo, vedi anche Ov. met. 1, 307-308, quaesitisque diu terris, ubi sistere possit / in mare lassatis volucris vaga decidit alis. 268 Va anche detto, rovesciando la questione, che la presenza di riprese sicure da Lucrezio nelle Menippeae potrebbe essere un indizio per datare alcune di queste a dopo il 54. Zaffagno 1977 (pp. 211-212) suggerisce di tentare una datazione delle satire in base a fattori stilistici (notando soprattutto l’abbondanza dei diminutivi nei frammenti poetici, cosa che farebbe pensare che Varrone conoscesse la poesia neoterica), ma non giunge a conclusioni univoche. 267
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punto sta nel capire come questa affermazione vada intesa. Il dato innegabile è che Cicerone sta parlando delle Menippeae come di un’opera iniziata molti anni prima del 45269: si tratterebbe, quindi, di un frutto della produzione giovanile di Varrone. Tuttavia ciò non implica che le satire, la cui composizione era stata avviata tempo prima, fossero anche state concluse e pubblicate in una data eccessivamente lontana dal 45. Potremmo anche ammettere, invece, che gran parte di esse fosse realizzata presto dall’autore, ma che alcune satire fossero state rielaborate, riscritte o composte ex novo in una fase successiva270: ciò non sarebbe negato dall’“in veteribus” di Cicerone, che designerebbe così il complesso di un’opera concepita e intrapresa da Varrone molti anni prima della pubblicazione degli Academica. Del resto, è più probabile che i centocinquanta libri delle satire venissero pubblicati gradualmente, libro per libro o, al massimo, a piccoli gruppi di libri, lungo un arco di tempo esteso271, piuttosto che venissero editi in Mi sembra che il ragionamento della Zaffagno (Zaffagno 1977, p. 208) sia eccessivamente rigido. La studiosa, infatti, sostiene che le parole di Cicerone non possono essere intese nel senso di “quelle nostre opere cominciate tanto tempo fa”, perché l’Arpinate, nel seguito del brano, impiega il perfetto e non il presente. Ora, a parer mio, Cicerone avrebbe potuto usare legittimamente il presente solo nel caso che Varrone avesse iniziato a scrivere le Menippeae molto tempo prima del 45 e che in quell’anno non avesse ancora finito di scriverle. Tuttavia, se ipotizziamo che le Menippeae fossero state avviate molto tempo prima, avessero avuto una elaborazione prolungata fino a qualche anno dopo il 54 (così da poter recepire influssi lucreziani), ma fossero state concluse prima del 45, allora l’impiego del perfetto da parte di Cicerone sarebbe del tutto legittimo e non varrebbe come prova contro una datazione più bassa di alcune satire. 270 Lo stato dei frammenti non contraddice questa ipotesi, dal momento che i passi in cui sono ravvisabili riprese da Lucrezio tendono a concentrarsi in alcune satire in particolare (Marcipor, Eumenides, Modius): potremmo ipotizzare, quindi, che queste fossero le ultime Menippeae ad essere composte. 271 Cfr. Riese 1865 (prolegomena all’edizione), pp. 47-49. La Zaffagno, invece, sostiene (pp. 210-211) che le Menippeae siano state composte da Varrone fuori Roma, negli anni in cui era al seguito di Pompeo in Asia. Una visione del genere è a mio parere troppo riduttiva: è vero che alcune satire sono databili agli anni 70 e che, quindi, potrebbero davvero essere state composte da Varrone “sotto le armi”, ma ciò non implica che questo discorso debba valere per un intero corpus di ben centocinquanta libri. Del resto, la Zaffagno riconosce che alla propria ipotesi si potrebbe obbiettare l’abbondanza di passi nelle Menippeae che hanno un’aria “libresca”, ossia che presentano un tessuto letterario e linguistico e un contenuto così erudito da rendere difficile l’idea che Varrone potesse comporli improvvisando lontano dall’ambiente culturale di Roma, con i suoi circoli e le sue biblioteche. A ciò la risposta data dalla studiosa 269
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una grande raccolta complessiva in un dato anno, senza che prima ve ne fosse stata alcuna notizia. Questa ipotesi, inoltre, si accorderebbe meglio con il carattere di “zibaldone” che mostrano le Menippeae stesse. D’altro canto, la qualifica di “vetera” data da Cicerone resterebbe legittima, anche se ammettessimo che le ultime satire fossero composte e pubblicate negli anni 54-50 (cioè quando Varrone poteva conoscere e citare Lucrezio): Cicerone si riferirebbe, infatti, comunque a un’opera ultimata almeno cinque anni prima (e quindi non proprio “nuper scripta”) e che, d’altro canto, aveva avuto una lunga gestazione ed elaborazione, databile già a partire dall’80. Per quanto riguarda gli indizi forniti dai frammenti stessi, va detto che l’assoluta maggioranza delle satire non può essere datata in alcun modo. In generale, i frammenti che contengono allusioni a eventi o personaggi sono pochissimi e, per giunta, solo la minima parte di questi ha un contesto tale da permettere una datazione precisa. Cichorius ha appunto rintracciato le poche allusioni sicuramente databili nelle Menippeae ed ha visto che queste si riferiscono a un arco temporale che va dall’80 al 67. Tuttavia, il fatto che un minimo numero di frammenti, piccolissima parte di un’opera enorme, parli di eventi compresi fra l’80 e il 67 non implica affatto che le Menippeae fossero pubblicate esattamente entro questo limite temporale e che non potessero esserci satire composte dopo il 67. Al contrario, abbiamo frammenti che non escluderebbero una datazione successiva, non solo al 67, ma anche alla pubblicazione del de rerum natura (ad esempio, il fr. 225272 potrebbe riferirsi alla battaglia di Tapso, il fr. 405273 al suicidio di Catone Uticense). Di conseguenza, credo che la datazione delle satire proposta da Cèbe (del tutto ricalcata sullo studio di Cichorius) agli anni 80-67 sia eccessivamente rigida e che non possa escludersi la possibilità di abbassarne di alcuni anni la pubblicazione274. La datazione più
è troppo vaga e poco convincente: Varrone aveva una memoria così buona da poter scrivere centocinquanta libri di satire letteratissime lontano da Roma e senza consultare libri (cito da p. 212: «se Varrone trascura l’ars e il labor limae, è perché scrive durante le sue spedizioni militari. È vero che abusa di parole rare, ma sono parole che ha appreso nelle sue letture, o alla scuola di Accio e di Elio Stilone, e le ricorda a memoria»)! 272 Africa terribilis; contra concurrere civis / civi atque Aeneae misceri sanguine sanguen. 273 Quemnam te esse dicam, fera qui manu corporis fervidos / fontium aperis lacus sanguinis teque vita levas / ferreo ensi?; soprattutto in questo caso il frammento è tuttavia così generico da non permettere un’identificazione sicura del personaggio di cui si parla con Catone. 274 Già Riccomagno 1931 (pp. 100-108) data le satire agli anni 80-55.
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adatta a sostenere la mia tesi (presenza, in alcuni frammenti delle Menippeae, di riprese stilistiche da Lucrezio) sarebbe quindi quella avanzata da Hirtzel e Della Corte (80-45)275. Dopo questa premessa, passerei alla rassegna dei passi più interessanti. Un primo uso comune a Lucrezio e Varrone è l’impiego del termine “vestigia” nel senso di solco tracciato da un predecessore, di una linea di pensiero o una tradizione da seguire. Significativamente, in entrambi gli autori questa via è messa in relazione con l’insegnamento di un filosofo e il fatto di seguirla è presentato come nettamente positivo: in Varrone, appunto, leggiamo (fr. 6) neque auro aut genere aut multiplici scientia / sufflatus quaerit Socratis vestigia, mentre Lucrezio indica in modo programmatico di seguire i “vestigia” di Epicuro (3, 3-4, te sequor, o Graiae gentis decus, inque tuis nunc / ficta pedum pono pressis vestigia signis; 5, 55, cuius ego ingressus vestigia). Un aspetto comune ai due autori, sia a livello di contenuto sia di forma, è la distinzione fra animus e anima: si veda il fr. 32, in reliquo corpore ab hoc fonte diffusast anima; hinc animus ad intellegentiam tributus. Non solo Lucrezio dice esattamente la stessa cosa, ma usa anche formulazioni molto vicine: 3, 138-139, sed caput esse quasi et dominari in corpore toto / consilium quod nos animum mentemque vocamus e 3, 143: cetera pars animae per totum dissita corpus. In questo caso Varrone fornisce quasi un “sunto” di quello che Lucrezio dice dell’animus e dell’anima in due luoghi vicini del suo poema, riprendendone in parte anche la forma. Ancora, Varrone adopera come Lucrezio il nesso “acris curas”, significativamente in unione con il verbo “demere”, che Lucrezio usa nel poema proprio per indicare l’eliminazione delle perturbazioni dell’animo, della paura e del dolore: fr. 394, demitis acris pectore curas; cfr. Lucr. 2, 21, quae demant cumque dolorem; 3, 459-461, corpus ut ipsum / suscipere immanis morbos durumque dolorem / sic animum curas acris; 3, 907-908, aeternumque / nulla dies nobis maerorem e pectore demet276. Questa commistione di più stilemi lucreziani in un solo passo è analoga al procedimento già incontrato a l. L. 6, 47. Inoltre, il riferimento alle “curas” dell’animo si trova anche in un altro frammento, dove queste sono significativamente associate a un’altra causa di ansia e sconvolgimento, la “religio”: fr. 36, non fit thensauris, non auro pectus solutum / non demunt animis curas ac Per una breve rassegna delle datazioni proposte, cfr. Zaffagno 1977, pp. 208-209. Vedi anche Lucr. 4, 908, animi curas e pectore solvat.
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religiones / Persarum montes, non atria divitis Crassi277. Non è neanche il caso di ricordare l’importanza che la lotta alla “religio” riveste nel poema di Lucrezio278: è impressionante notare, invece, come Varrone impieghi, in un contesto tutto lucreziano, questo motivo e scelga di riprendere dal modello anche il raro plurale “religiones”279 (vedi OLD 1605-1606). Ancora, potremmo ipotizzare che due frammenti della satira Ἑκατόμβη presentassero in modo polemico l’episodio del sacrificio di Ifigenia (anche se, ovviamente, abbiamo perso il contesto dei brani e il nome di Ifigenia non è presente nei frustuli in nostro possesso): fr. 94, pater ut cruore laveret ararum aggeres e fr. 95, at regis ensis sanguine imbutus nigro. Non solo si tratta dello stesso mito narrato da Lucrezio in apertura del proprio poema (1, 84-100; uno dei pezzi in assoluto più celebri, che Varrone quindi avrebbe potuto conoscere con buona probabilità), ma possiamo rintracciare anche nella forma indizi di un preciso influsso lucreziano. Varrone, infatti, insiste sul fatto che chi compie il sacrificio è “pater” e “rex”: due aspetti messi in relazione in un teso verso del poema, volto proprio a evidenziare l’assurdità della situazione di Agamennone (v. 94: quod patrio princeps donarat nomine regem)280. Ora, Varrone da un lato scinde (e quindi normalizza) i due aspetti del padre e del re compresenti in Lucrezio, dall’altro,
Se è valida l’identificazione col Crasso triumviro, è stata proposta una datazione della satira a prima del 53 (Carre). Tuttavia, credo che Varrone avrebbe potuto benissimo parlare di Crasso anche dopo la sua morte, senza riferirsi a una circostanza concreta, ma usandone il nome come antonomastico per indicare una ricchezza smodata. Anzi, mi sembra che questa ipotesi sia preferibile: non si avrebbe in Varrone un attacco personale poco prudente finché Crasso era in vita e si capirebbe meglio l’uso di Crasso come exemplum. 278 Per la particolare vicinanza al nostro passo, citerei soprattutto Lucr. 1, 931-932, et artis / religionum animum nodis exsolvere pergo. 279 Cfr. Cic. div. 2, 112: ad deponendas potius quam ad suscipiendas religiones. 280 La contrapposizione paradossale del “rex” e del “pater” in Agamennone diviene, dopo Lucrezio, un elemento canonico nelle descrizioni poetiche del sacrificio di Ifigenia: vedi Ov. met. 12, 29-30, postquam pietatem publica causa / rexque patrem vicit (il seguito del racconto ovidiano è chiaramente modellato sul racconto di Lucrezio, vedi vv. 30-31, castumque datura cruorem / flentibus ante aram stetit Iphigenia ministris, cfr. Lucr. 1, 89-91, et maestum simul ante aras adstare parentem / sensit et hunc propter ferrum celare minsitros / aspectuque suo lacrimas effundere civis: Ovidio ha ripreso da Lucrezio l’indicazione “ante aras / aram” e condensato la scena di lutto trasferendo il pianto dei cittadini ai “ministri”) e 13, 184-192 (in particolare vv. 186-187, denegat hoc genitor, divisque iascitur ipsis, / atque in rege tamen pater est). 277
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in base a quanto possiamo ricostruire dai frammenti, tende a dilatare ed enfatizzare il racconto lucreziano, adottando uno stile più verboso e ridondante: sono entrambe due caratteristiche proprie di chi varia un modello, per cui, anche in questo caso, ipotizzerei che Varrone stia lavorando con materiali desunti dal de rerum natura (e non viceversa). Altrove, Varrone impiega, all’interno di una similitudine, concetti esposti nel poema: fr. 148, nam ut arquatis et lutea quae non sunt et quae sunt lutea videntur, sic insanis sani et furiosi videntur esse insani. Anche Lucrezio parla del fenomeno della vista degli itterici (4, 333: lurida praeterea fiunt quaecumque tuentur / arquati281), ma lui è interessato a spiegare le cause di questa anomalia. Varrone, al contrario, potrebbe aver ripreso il dato da Lucrezio, per poi sfruttarlo come primo termine di una similitudine di sua invenzione (a meno che la vista degli itterici fosse un fenomeno così comune da poter essere citato da Lucrezio e Varrone in modo indipendente). Gran parte dei libri quinto e sesto del de rerum natura è dedicata all’esposizione di fenomeni naturali e meteorologici; anche da una satira di Varrone, il Marcipor, proviene un gran numero di frammenti che trattano proprio di astronomia e fisica (le costellazioni nel fr. 269, le piogge nel fr. 270, i venti nel fr. 271; nel fr. 280 sono derisi gli astrologi da strapazzo). Il Marcipor, quindi, potrebbe presentare nel contenuto tracce del modello lucreziano. Questo sospetto trova una conferma nel fatto che, a livello formale, due frammenti tratti da questa satira contengono espressioni che potrebbero essere suggerite dalla lettura del de rerum natura. Uno di questi casi è già stato discusso sopra (fr. 272); passerei dunque all’altro. Si tratta del fr. 270: nubes aquai frigido velo leves / caeli cavernas aureas obduxerant / aquam vomentes inferam mortalibus. Varrone descrive, con dovizia di particolari e abbondanza di espedienti retorici, l’oscurarsi di un cielo sereno, occupato da nubi tempestose. La stessa immagine ritorna in un passo di Lucrezio (4, 169-173), dove, oltre alla somiglianza del contesto, è impiegata la stessa espressione “caeli cavernas”: praeterea modo cum fuerit liquidissima caeli / tempestas, perquam subito fit turbida saepe, / undique uti tenebras omnis Acherunta rearis / liquisse et magnas caeli complesse cavernas, / usque adeo taetra nimborum nocte coorta / impendent atrae formidinis ora superne. Il nesso “caeli cavernas” ha solo un’altra attestazione, oltre a queste, negli Aratea di Cicero Già Cèbe (ad loc.) individua questo parallelo.
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ne (34.252: late caeli lustrare cavernas). Tuttavia, in Cicerone il contesto è del tutto diverso (si parla della luminosità dell’orbita della luna), mentre Lucrezio e Varrone rappresentano la stessa situazione. Del resto, gli Aratea, con buona probabilità, videro la luce prima della pubblicazione del de rerum natura, se i prognostica, che ne sono la continuazione, furono inviati da Cicerone ad Attico nel 60 (vedi ep. ad Att. 2, 1.11). Quindi, in questo caso, una volta ridimensionata la presenza dello stesso nesso anche in Cicerone, direi che si possa ipotizzare che Varrone abbia ripreso da Lucrezio l’immagine delle nubi che oscurano il cielo e l’espressione “caeli cavernas”, variando poi il modello con l’aggiunta della descrizione del tempestoso scroscio di pioggia282. Di particolare interesse è anche la satira Meleagri, dedicata a esporre in modo scherzoso i disagi e l’assurdità della caccia. Rilievante è il fr. 299, in cui si parla delle fatiche di Ercole: adde hydram Lernaeam et draconem Hesperidum, quot bestiae fuerunt inmanes. Ora, anche in un’altra satira (le Eumenides) Varrone impiega il mito in senso allegorico (le Furie sono personificazioni dei vizi che dovremmo placare). In base a questo parallelo, si potrebbe ipotizzare anche per il fr. 299 un senso metaforico: le creature mostruose soggiogate da Ercole potrebbero essere simboli dei vizi che il nostro animo deve soffocare e sottomettere. Se questo fosse il senso del nostro passo, avremmo un notevole punto di contatto con il proemio del quinto libro del de rerum natura (vv. 22-51), dove Lucrezio appunto confronta le imprese di Ercole, domatore di mostri, con quella che lui considera la vera fatica eroica, vale a dire sconfiggere le paure e i vizi, i mostri che albergano nel nostro animo. La vicinanza tematica di questi passi rivelerebbe il rapporto di dipendenza di Varrone da Lucrezio anche a livello formale: anche il poeta, infatti, parla del serpente che custodiva i pomi delle Esperidi, impiegando lo stesso aggettivo che ritorna in Varrone, “immanis” (vv. 32-33: aureaque Hesperidum servans fulgentia mala / asper, acerba tuens, inmani corpore serpens). La Deschamps si spinge oltre, citando come parallelo anche l. L. 5, 19-20, dove si metterebbe tanto “caelum” quanto “caverna” in relazione con “cavus” (secondo lei, Lucrezio avrebbe plasmato il nesso “caeli cavernas” ispirandosi alle etimologie varroniane!). Ma il testo è molto corrotto e “cavernae” è congettura proposta da Goetz-Schoell in apparato per il tradito “cavea”, che stampano fra croci. Comunque, anche leggendo “cavernae”, il testo di Varrone non direbbe quello che sostiene la Dechamps (infatti Varrone dice che da “chaos” derivano “caelum” e “cavus”, e da “cavus”, a loro volta, “cavea” e “caverna”; mentre la Deschamps presenta il testo come se Varrone dicesse che “caelum” e “caverna” derivano da “cavus”).
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Comune ai due autori è anche la critica all’arrivismo politico: nel fr. 450 (et petere imperium populi et contendere honores), Varrone potrebbe appunto riprendere temi lucreziani (2, 11-13: certare ingenio, contendere nobilitate … ad summas emergere opes rerumque potiri; 5, 1123-1124: nequiquam, quoniam ad summum succedere honorem / certantes). Un altro punto in cui la lingua di Varrone potrebbe aver subito l’influsso del de rerum natura è nell’uso del termine “Pierides” per indicare le Muse. Anzi, in questo caso Varrone potrebbe aver rielaborato anche il contesto lucreziano: dove, infatti, il poeta parla di “avia Pieridum … loca” (1, 926), Varrone arricchisce ed esaspera l’idea che le Muse abbiano una sede impervia (fr. 466: Pieridum comes / quae tenent cana putri gelu montium / saxa283) Accanto a questi, ci sono altri casi in cui possiamo solo ipotizzare che Varrone stia reimpiegando espressioni o immagini lucreziane. Ad esempio, in entrambi gli autori è descritto il crollo di un albero che trascina, nella sua caduta, le fronde vicine (Varr. fr. 391: alia traps pronis in humum accidens proxumae frangit ramos cadens; Lucr. 5, 1096-1097: et ramosa tamen cum ventis pulsa vacillans / aestuat in ramos incumbens arboris arbor). Così, comune ai due autori è l’immagine delle tracce lasciate a terra dagli zoccoli di un animale e l’uso dell’epiteto “bisulcus” in riferimento alle zampe (Varr. fr. 422: cervus … bisulcis ungulis nitens humu; Lucr. 2, 356: humi pedibus vestigia pressa bisulcis). Ancora, tanto Lucrezio che Varrone uniscono in iunctura i termini “fons” e “lacus/lacuna”: Varr. fr. 442, quam lympham melius e lacuna fontium adlatam nido potili permisceat; Lucr. 2, 345, concelebrant circum ripas fontisque lacusque. Ancora, vi sono temi presenti tanto nei frammenti delle Menippeae quanto nel poema di Lucrezio. Si tratta, tuttavia, di casi in cui possiamo al massimo riscontrare il fatto che i due autori stiano sviluppando motivi vicini, ma non si può in alcun modo provare che l’uno stia alludendo all’opera dell’altro. Ad esempio, sia Varrone sia Lucrezio sfruttano il tema diatribico (ed epicureo) che basta poco per soddisfare i bisogni necessari284 e che, quindi, la felicità è alla portata di
283 Non possiamo, in assenza di contesto, sapere se Varrone identificasse se stesso nel “comes” delle Muse. Se così fosse, il frammento sarebbe ancora più vicino al passo di Lucrezio, dove il poeta dice appunto di sé avia Pieridum peragro loca. 284 Nel fr. 316 Varrone presenta la gerarchia dei piaceri in modo del tutto ortodosso rispetto alla dottrina epicurea.
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tutti: si veda il fr. 22, etenim quibus seges praebeat domum, escam, potionem, quid desideremus? (cfr. Lucr. 2, 20-21: ergo corpoream ad naturam pauca videmus / esse opus omnino, quae demant cumque dolorem e.q.s.). Ancora, Varrone offre una vivida descrizione dei sintomi dell’insoddisfazione dell’animo (fr. 78: quibus instabilis animus ardens mutatiliter avet habere et non habere fastidiliter incostanti pectore), analoga a quella fornita da Lucrezio a 3, 1060-1068. Lucrezio a 3, 870895 sviluppa uan digressione sulle pratiche funerarie e descrive l’uso di bruciare i corpi su di una pira o di imbalsamarli nel miele: proprio questi due usi sono citati da Varrone nel fr. 81 (ma il contesto è diverso). Così, un motivo comune ai due autori (senza che si debba, tuttavia, pensare a un rapporto di dipendenza) è quello della natura che insegna le arti agli uomini per mezzo dell’esperienza (Varr. fr. 242; forse fr. 397; Lucr. 5, 1354). Ancora, vi sono frammenti (204285; 205) delle Menippeae in cui sono rintracciabili spunti satirici contro l’amore di tono non dissimile da quello della chiusa del quarto libro del de rerum natura. Infine, anche Varrone mostra di conoscere il rituale del culto di Cibele, di cui fornisce vivaci descrizioni (fr. 149; 150; 364), di tono e contenuto, tuttavia, completamente diversi da quelli dell’excursus lucreziano sulla Magna Mater (2, 600-660). Altre volte, un’apparente vicinanza fra Varrone e Lucrezio si rivela, a un’analisi più dettagliata, illusoria. È il caso del fr. 25, anima ut conclusa in vesica, quando est arte ligata, si pertuderis, aera reddet, che la Deschamps (p. 113) cita come parallelo di Lucr. 6, 130-131, cum plena animae vesicula parva / saepe ita dat magnum sonitum displosa repente. Il problema è che, nel frammento di Varrone, manca il termine cui è riferita la similitudine; quindi, non è affatto detto che l’esempio della vescica piena d’aria sia usato per spiegare l’origine del tuono (come in Lucrezio, e, di seguito, in Sen. nat. 2, 27.3; 28.2 e in Plin. n. h. 2, 113). In particolare, il punto che, nonostante l’apparente vicinanza dei due passi, mi 285 Mantenendo un certo margine di dubbio, si potrebbe ipotizzare che alcune espressioni del fr. 204 (ardifeta lampade … agat amantis aestuantis (sc. Amor)) siano variazioni di concetti espressi da Lucrezio (4, 1071: fluctuat incertis erroribus ardor amantum). Anche il fr. 344 deride un personaggio che giustifica gli occhi storti dell’amata parlando di “strabismo di Venere” (ma il contesto è diverso da quello del poema: Lucrezio, infatti, parla degli amanti che, preda della passione, negano l’evidenza e chiudono gli occhi di fronte ai difetti delle proprie dame, mentre Varrone descrive un uomo che vuole farsi amante di una donna ricca per prenderne il denaro, situazione che comporta il commento sarcastico sulla forza del denaro che trasforma in “strabismo di Venere” il difetto di una donna quasi guercia).
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porta a dubitare, è il fatto che Varrone usi il verbo “pertundo”, che indica un’azione diversa da quella di cui parla Lucrezio. Infatti, “pertundo” significa “perforare”, mentre Lucrezio parla di vesciche compresse in modo repentino e fatte scoppiare, così da produrre rumore. Che le vesciche siano schiacciate e non bucate è fondamentale: infatti, Seneca (ai luoghi sopra citati) specifica che la vescica produce rumore solo se è compressa, mentre, se viene bucata con un coltello, si svuota senza emettere suoni (allo stesso modo, dice Seneca, non ogni urto d’aria produce il tuono, ma dipende da come le masse si scontrano). Ora, “pertundo” va proprio nella direzione di “forare qualcosa”; quindi, Varrone presenta proprio l’esempio opposto a quello dato da Lucrezio. Mi sembra che sia dunque più probabile che Varrone si riferisse a qualcosa che si sparge, che esce da un contenitore (come l’aria nella vescica ne fuoriesce quando questa è forata; anche il verbo “reddet” potrebbe sostenere questa lettura: il respiro che abbiamo soffiato nel sacco è restituito quando questo è bucato). Certo, con la mia interpretazione, dobbiamo intendere “aera” come “aria” e non come “suono” (“son” Cèbe), il che sarebbe contraddetto da Nonio, che cita il nostro passo proprio alla voce “AER, sonus” (il ThLL non attesta questo uso; i casi riportati a I 1051.62-70 hanno tutti esplicitamente la forma “aeris sonitus” ecc.). Va però detto che non mancano i casi in cui Nonio fraintende il testo che cita (si veda l’oscillazione nell’interpretare “vitam cernere” nella Medea di Ennio, fr. 6 Vahlen). Resta la possibilità che Varrone abbia tratto da Lucrezio, utilizzandolo però in altro modo, l’esempio della vescica, che comunque è diffusissimo nella letteratura scientifica (ad es., vi ricorre spesso Galeno nel primo libro delle Facoltà Naturali, parlando di cose diverse dalle cause del fulmine) e potrebbe quindi anche provenire da un’altra fonte ed essere usato indipendentemente dai due autori. Come risultato conclusivo di questa indagine, possiamo riscontrare una generale tendenza da parte di Varrone a riecheggiare i pezzi da antologia del de rerum natura, trascurando invece quelli più aridi e di più marcato carattere dottrinale. Fra i brani ripresi troviamo infatti il proemio, il sacrificio di Ifigenia, le sezioni programmatiche. Ancora, Varrone sembra avere familiarità, nell’improntare il proprio dettato a un tono moralistico, con le parti “diatribiche” del poema e, in generale, con quelle più orientate in senso etico e sembra riprendere da Lucrezio alcune similitudini particolarmente vivide (come quella della nube che oscura il cielo), immagini della natura e, sul piano dell’espressione, iuncturae ardue e solenni (“caeli cavernas”). Possiamo quindi, almeno provvisoriamente concludere, che 530
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Varrone abbia usato Lucrezio, piuttosto che come fonte dottrinale, come repertorio prezioso di immagini e situazioni e come fonte di una lingua poetica impressionante e sublime. Questa prevalenza del dato letterario nei punti di contatto fra Lucrezio e Varrone, poi, credo possa valere anche come confutazione del discorso della Deschamps (che ritiene Lucrezio attingesse informazioni di carattere erudito e dossografico da Varrone): nel nostro caso, la preponderanza di paralleli linguistici porta a pensare piuttosto che Varrone fosse lettore di Lucrezio, un lettore interessato soprattutto alla forma, mentre, nei casi in cui i due autori riferiscono le stesse informazioni, o l’attribuzione a Varrone delle notizie potrebbe essere falsa e di seconda mano, o si tratta di idee comuni e reperibili anche in altre fonti. Ci sarebbe, a questa ricostruzione, un’unica obiezione, basata, tuttavia soltanto su di un passo di per sé problematico e che possiamo far risalire solo per via ipotetica a Varrone. Vorrei quindi impiegare l’ultima parte del capitolo all’analisi di questo punto. Lucrezio, nella chiusa del quarto libro, deride quanti disperdono il patrimonio familiare (v. 1129: bene parta patrum) per fare costosi regali alle amanti. Fra i raffinati gioielli e capi di abbigliamento menzionati da Lucrezio come doni desiderati dalle donne, compaiono anche “Alidensia Ciaque” (vesti di Alinda, in Caria, e di Ceo). Il problema è che non abbiamo altre attestazioni della particolare qualità delle vesti di Ceo (isola prospiciente la costa Attica), mentre, soprattutto in ambito latino e in età augustea, troviamo numerose menzioni delle vesti di Cos (isola antistante la Misia), note per la loro tessitura di seta sottilissima e trasparente, tale da lasciare indovinare le forme che dovrebbe celare, e per questo citate spesso in contesti di poesia erotica e biasimate ancor più spesso da retori e moralisti, a tal punto da rendere l’espressione “Coa vestis” quasi proverbiale286. Lucrezio, quindi, commette un errore, scambiando l’isola di Cos con quella di Ceo287. Questo errore sarebbe isolato in Lucrezio e dovuto probabilmente a una 286 Sulle vesti di Cos, si vedano i commenti di Fedeli 2005 al l. 2 delle elegie di Properzio (pp. 48-49) e di Fedeli-Ceccarelli 2008 al l. 4 delle Odi di Orazio (p. 547), di Dissen 1835 (p. 250), Navarro Antolin 1996 (p. 324), Murgatroyd 1994 (p. 143) e Smith 1964 (pp. 42526) a Tibullo, che inquadrano il problema e offrono numerosi riscontri (ma non discutono l’errore di Lucrezio). 287 Confusione non infrequente: nel caso di Lucrezio l’oscillazione sarebbe fra Coa (correzione, tra l’altro, proposta da Lachmann) e Cea. Cos non è confusa solo con Ceo, ma anche con Chio: cfr. Pl. Poen. 699, dove in una lista di vini pregiati compare anche “Chio [sc. vino]”, ma la redazione palatina ha “Coo”.
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svista del poeta (Bailey ad loc. pensa a un errore nella traduzione di Ar. hist. anim. 551b, ma è una soluzione poco soddisfacente, poiché, come vedremo a breve, il testo di Aristotele è chiaro e non lascia spazio a equivoci). A questo punto, dobbiamo confrontarci con una notizia che Plinio riporta nella naturalis historia (4, 62). L’erudito sta descrivendo le isole vicine alla costa dell’Attica: Salamina, Psittalia, l’isola di Elena e, infine, Ceo. Su Ceo Plinio si dilunga di più rispetto alle altre isole: riporta varie informazioni (ha anche un altro nome, “Hydrusa”), ne fornisce le misure e dà un rapidissimo cenno sulla storia geologica del suo territorio (una parte dell’isola è stata inghiottita dai flutti). Infine, aggiunge una notizia desunta da Varrone: ex hac profectam delicatiorem feminis vestem auctor est Varro288. Ora, non sappiamo a quale opera di Varrone Plinio attinga in questo caso e tanto meno abbiamo idea del contesto in cui Varrone avrebbe fornito questa notizia. Non possiamo quindi escludere che Varrone avesse parlato, in un passo delle sue opere perdute, delle famosissime vesti di Cos e che Plinio, fornendo l’elenco delle isole vicine all’Attica, avesse confuso Ceo con Cos e riportato in riferimento all’isola sbagliata la notizia che Varrone dava a proposito di Cos (cosa resa probabile dal fatto che, nel passo di Plinio, la notizia della produzione delle vesti è del tutto “fuori contesto” e si configura come una semplice nota aggiunta dall’erudito per arricchire la descrizione dell’isola). Potrebbe trattarsi, quindi, di una banale svista, facilmente giustificabile tenendo conto del metodo di lavoro compilatorio seguito da Plinio: nella fretta di affastellare notizie, il poligrafo avrebbe appunto potuto riferire a Ceo un’informazione che aveva riportato nella scheda relativa a Cos. Purtroppo, non possiamo neanche escludere con assoluta certezza che Varrone avesse effettivamente attribuito la produzione di vesti femminili a Ceo, invece che a Cos (in tal caso Plinio riferirebbe in modo fedele la notizia). Se le cose stessero così, ci troveremmo di fronte a un caso di accordo in errore fra Lucrezio e Varrone. Ora, appare inverosimile che Varrone avesse bisogno di leggere Lucrezio per informarsi sulle vesti di Ceo/Cos, per cui dovremmo pensare che fosse piuttosto Lucrezio a usare Varrone come fonte e che ne avesse tratto l’errata attribuzione
288 Plinio non specifica l’opera di Varrone cui attinge, per cui dobbiamo mettere in conto la possibilità che in questo caso si abbia a che fare con dottrina varroniana, piuttosto che con un frammento vero e proprio. Di conseguenza, dovremmo valutare la testimonianza di Plinio con prudenza.
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delle vesti a Ceo289 (si tratterebbe dell’unico caso in cui sarebbe dimostrabile un influsso di Varrone su Lucrezio e che quindi si accorderebbe con la teoria della Deschamps). Abbiamo dunque due possibilità: 1) Varrone riporta la notizia giusta, che però Plinio riferisce al posto sbagliato: si tratterebbe solo di una distrazione di Plinio e la svista di Lucrezio resterebbe un errore isolato; 2) Varrone sbaglia e Plinio ne riporta fedelmente l’errore; anche Lucrezio riprende la notizia errata da Varrone. Come ho detto, la prima ipotesi (oltre ad essere pienamente spiegabile tenendo conto della fretta compilativa di Plinio) non contraddirebbe gli esempi di possibile ripresa di Lucrezio da parte di Varrone esaminati sopra. Al contrario, la seconda ipotesi comporterebbe di ammettere uno stato della questione non altrimenti attestato e contraddetto da tutti gli altri dati. Ovviamente, la prima ipotesi (quella dell’errore di Plinio, non di Varrone) troverebbe un ulteriore punto a suo favore qualora si trovasse un passo in cui Varrone parli, riportando la notizia corretta, delle vesti di Cos290. Forse un brano del genere è effettivamente rintracciabile. Solino, infatti, nell’epitomare Plin. 4, 62, ne integra il testo con altre informazioni e, soprattutto, lo corregge. Vediamo il brano in questione (Sol. 7.20): multae quidem insulae obiacent Atticae continenti, sed suburbanae ferme sunt Salamis Sunium Ceos Coos, quae ut Varro testis est, suptilioris vestis amicula arte lanificae scientiae prima in ornatum feminarum dedit. Solino parte da Plin. 4, 62 (che qui stia epitomando Plinio è dimostrabile in modo certo dal fatto che, nel sunteggiare, commette anche una svista: prende il capo Sunion per un’isola, mentre Plinio lo cita sì dopo Salamina, ma per indicare la distanza delle altre isole da esso), ma fornisce anche delle notizie in più
È quanto crede la Deschamps (p. 113), che però ammette anche la possibilità che Lucrezio e Varrone avessero frainteso, l’uno indipendentemente dall’altro, il passo di Aristotele (ipotesi troppo complessa e debole). 290 Mirsch considera il brano di Plinio come derivato dalle antiquitates rerum humanarum (l. 12, fr. 4), ma ne interpreta in modo assolutamente ingiustificato il testo. Mirsch aggiunge una nota “normalizzante” che fa quadrare le cose, ma toglie al lettore ogni possibilità di rendersi conto del problema: scrive infatti “ex hac (scil. Co insula) profectam delicatiorem vestem feminis auctor est Varro”. Ma, come si è visto, Plinio si riferisce a Ceo, non a Cos. Mirsch non riporta il contesto nella sua interezza e, non pago di ciò, aggiunge anche la nota “scilicet Co insula”, che fa dire a Varrone quello che ci si aspetterebbe, ma certo non quello che Plinio gli attribuisce! 289
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che arricchiscono e precisano quanto detto da Plinio. Infatti, dopo Ceo, Solino cita anche Cos e ad essa, non a Ceo, riferisce la produzione di vesti preziose. In più, riporta notizie che qui Plinio non ha: dice che Cos fu la prima isola dove fu tessuta la seta e, mentre in Plinio si parla della “raffinateza” delle vesti di Cos, Solino sembra avere le idee più chiare e insiste sul fatto che si trattava di vesti sottili (e quindi trasparenti). Anche Mommsen 1864 ipotizza che qui Solino stia integrando Plinio con notizie attinte ad altre fonti e, di conseguenza, in apparato indica la fonte del paragrafo come “Plin. IV 62 auctus”. Ora, sappiamo che Solino aveva accesso a una rara opera di Varrone, il de ora maritima (che lui chiama “liber de litoralibus”), di cui ci trasmette anche quattro frammenti (vedi Mommsen, praef. p. XV). Una menzione dell’isola di Cos in un’opera del genere non è affatto improbabile: Solino avrebbe potuto appunto trovare nel de ora maritima la notizia relativa alle vesti di Cos e, sulla base di questa, correggere l’errore in Plinio e aggiungere altre informazioni. Se le cose stessero così, avremmo una prova preziosa del fatto che in realtà Varrone parlava delle vesti di Cos: di conseguenza, Lucrezio non avrebbe potuto trarre l’errore da Varrone e quella di Plinio sarebbe una banale svista senza importanza (e noi potremmo liberarci di una testimonianza problematica). Purtroppo, non è così semplice liquidare la questione, perché non si possono escludere anche ipotesi diverse. Il primo problema riguarda il fatto che, oltre alla svista di prendere il Sunion per un’isola, anche Solino commette un errore: Cos non è affatto un’isola “suburbana” dell’Attica, ma fronteggia la costa meridionale dell’Asia Minore, ben distante da Atene e Salamina. Quindi, nell’elenco delle località date, Cos è in un certo senso un’intrusa. Ancora, non è affatto detto che le informazioni che Solino riporta in più rispetto a Plinio derivino da Varrone (e ancora meno che siano tratte dal de ora maritima): al contrario, può darsi che, in questo caso, Solino stia correggendo Plinio con un altro passo di Plinio stesso. Nella naturalis historia, infatti, si parla delle vesti di Cos anche a 11, 76291, dove ritroviamo proprio la notizia del primato di Cos nella produzione di questi tessuti e della loro sottigliezza: telas araneorum modo texunt ad vestem luxumque feminarum, quae bombycina appellatur. Prima eas redordiri rursusque texere invenit in Coo mulier Pamphile, Plateae filia. Ora, potremmo tentare di salvare la situazione pensando che, anche se Plinio non lo dice, Varrone fosse la fonte anche di questo 291
Il l. 11 è fra quelli che, secondo Mommsen, Solino ha consultato (cfr. praef. pp. VIII-IX).
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brano. Purtroppo, è più probabile che in questo caso la fonte di Plinio sia Aristotele (hist. anim. 551b): ἐκ δὲ τούτου του ζῴου καὶ τὰ βομβύκια ἀναλύουσι τῶν γυναικῶν τινες ἀναπηνιζόμεναι κἄπειτα ὑφαίνουσιν ̇ πρώτη δὲ λέγεται ὑφῆναι ἐν Κῷ Παμφίλη Πλάτεω θυγάτηρ292. Di conseguenza, può darsi che la formula “ut Varro testis est” impiegata da Solino a 7.20 non sia l’indice di una correzione di Plinio compiuta sulla base del testo di Varrone, ma sia stata tratta dall’epitomatore in maniera meccanica da Plin. 4, 62 (“auctor est Varro”). Ciò, comunque, non esclude in alcun modo l’ipotesi che lì Plinio abbia compiuto una svista: semplicemente Solino avrebbe potuto constatare l’errore della sua fonte e aver tentato di correggerla inserendo “Coos”, cui si riferisce appunto la notizia sulle vesti, nell’elenco delle isole (anzi, questa ipotesi è resa quasi certa dal fatto che, come dicevo, Cos in questo elenco è “fuori posto”). Una tale ricostruzione, quindi, non mina in alcun modo la teoria che, in questo caso, quella di Plinio sia una svista isolata; soltanto, non possiamo neanche ricostruire con certezza, dal passo di Solino, il testo di Varrone. In ogni caso, credo risulti evidente quanto sia rischioso servirsi di un passo di tradizione così dubbia per imbastire castelli interpretativi sulle fonti di Varrone, o di Lucrezio.
Si potrebbe ancora ipotizzare, ma la cosa sarebbe troppo complessa e indimostrabile, che Plinio non stia usando direttamente Aristotele, ma risalga ad esso per tramite di Varrone. 292
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546
Indice dei passi citati
Afranius: Aug. fr. 1 Ribbeck, p. 474. Ammianus: 14, 6.3, pp. 271-272; 21, 16.8, p. 480; 24, 6.12, p. 472. Ampelius: 16.4, p. 43; 39.2, p. 118; 45.1, p. 461. Appianus: 1, 22, p. 454; 2, 26, p. 465; 2, 32, p. 465; 2, 80-81, p. 472. Apuleius: apol. 94, p. 451; met. 2, 23, p. 139; 6, 13, p. 216; 9, 2, p. 139. Aristoteles: hist. an. 551b, pp. 532, 535; pol. 1297a.6, p. 78; probl. 21.5, p. 158. Arnobius: 4, 3, p. 99;4, 37, p. 80. Asconius: in Cic. Pis. 13, pp. 15; 419. Ps. Asconius: in Cic. div. 8, p. 377. Athenaeus: 1, 10d, p. 485. Augustinus: civ. 3, 23, p. 463; 3, 26, p. 463; 4, 1, p. 82; 4, 5, p. 463; 5, 22, p. 463; 6, 3, p. 138; 6, 9, p. 252. Aurelius Victor: Caes. 23.1, p. 43. Caesar: b.c. 1, 1.1, p. 465; 1, 5, p. 468; 1, 5.5, p. 465; 1, 9-11, p. 468; 1, 9.3, p. 465; 1, 27-30, p. 470; 1, 29.3-30.1, p. 471; 2, 10.7, p. 411; 2, 17.20, p. 444; 3, 8, p. 413; 3, 94.2, p. 472; 3, 94.5, p. 472; 3, 105.1, p. 469; b.G. 4, 2.3, p. 500. Ps. Caesar: b. Alex. 17.3, p. 101. Catullus: 64.186, p. 448. Cato: agr. 10, p. 95; 11, p. 95; 13.3, pp. 50, 211; 76-84, p. 157; 81, pp. 157-158; 83, p. 233; 134.1-3, p. 395; 161, p. 450; orig. fr. 118 Peter, p. 324; fr. 119 Peter, pp. 323, 505; fr. 133 Peter, p. 125.
Celsus: 3, 19, p. 485; 5, 26, p. 482. Censorinus: 14.2, p. 284. Charisius: ars 1, 106.7 B., p. 321; 1, 133.7 B., pp. 406-407; 1, 133.25-134.2 B., p. 132; 1, 149-187 B., p. 17; 1, 150.3 B., p. 17; 1, 161.25-28 B., pp. 7, 17, 67. Cicero: Acad. pr. 14, p. 335; Acad. post. 1, 8, p. 521; 1, 25, p. 450; ad Att. 2, 1.11, p. 527; 3, 15.5, p. 468; 4, 15.2, p. 450; 8, 11b.2, p. 469; Arat. 34.252, p. 527; Brut. 75, p. 324; Cat. 2.15, pp. 7, 473; 2.22, p. 226; de orat. 1, 193, p. 131; 2, 159, pp. 344, 348-350; 2, 165, p. 279; 3, 197, pp. 326-327; div. 1, 31, p. 125; 1, 36, p. 418; 1, 121, p. 459; 2, 36, p. 80; 2, 112, p. 525; div. in Caec. 70, p. 269; 88, p. 258; fam. 8, 8.10, p. 465; 9, 20.1, p. 344; 10, 33.1, p. 463; 16, 11.2, p. 465; fin. 3, 15, p. 214; 4, 2, p. 450; 5, 95, p. 450; inv. 1, 18, p. 492; 1, 37, p. 492; 2, 177, p. 450; leg. 2, 55, p. 393; 2, 56-57, pp. 391, 394, 397; 2, 62, pp. 327, 510; 3, 8, p. 278; leg. agr. 2.8, p. 480; 2.9, p. 269; leg. Man. 11, p. 386; n. deor. 1, 37, p. 500; off. 1, 140, p. 491; 2, 13, p. 280; 3, 109, p. 307; 3, 112, p. 262; parad. 11, p. 216; Phil. 3.20, p. 258; 3.29, p. 269; 11.12, pp. 473-474; Quinct. 5, p. 347; rep. 1, 31, p. 460; 1, 61, p. 480; 2, 3, p. 270; 2, 21, p. 270; 2, 26, p. 125; 2, 31, p. 296; 2, 36, p. 376; 2, 40, p. 131; 2, 48, p. 480; 4, 6, p. 56; Sest. 103, p. 456; Sext. Amer. 100, p. 290; top. 10, p. 129; Tusc. 1, 2, p. 324; 4, 3, pp. 324, 332; 4, 24, p. 481; 5, 20, p. 101; Verr. II 1.36, p. 378;
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antonino pittà
II 1.85, p. 43, II 4.29-60, p. 434; II 5.27, p. 431; II 5.30, p. 494; II 5.71, p. 362. CIL: IV 1956b, p. 321; VIII 4878, p. 20. Claudianus: Gild. 254-255, p. 118. Columella: 1, 1.3, p. 448; 7, 8.2, p. 210; 10, 83, p. 493; 11, 57, p. 69; 12 praef. 2, p. 143; 12, 2.3, p. 195; 12, 3.1, p. 195; 12, 4.3, p. 195; 12, 19.1, p. 181; 12, 19-21, p. 182; 12, 39-40, pp. 181, 184-187, 189. Commentum Cornuti: in Pers. 1.6, p. 345. Curtius Rufus: 5, 8.15, p. 296; 6, 3.18, p. 296; 8, 13.25, p. 468. Dicaearchus: βὶος Ἡλλ. fr. 49 W., pp. 8, 11; fr. 52 W., p. 9; fr. 57 W., p. 8; fr. 58 W., p. 8; fr. 59 W., p. 9; fr. 60 W., p. 9; fr. 63 W., p. 9; fr. 64 W., p. 9; fr. 65 W., p. 11. Dio Cassius: 2, 11.14-15, p. 133; 40, 60-61, p. 465; 40, 62.3-4, p. 465; 40, 66.4, p. 468; 41, 10.4, p. 471; 41, 15.1, p. 471; 41, 61.1, pp. 472-473; 43, 23.6, p. 512. Dionysius Halicarnasseus: ant. Rom. 1, 38.2-3, p. 287; 1, 79.10, p. 330; 2, 15.4, p. 102; 2, 25.6, p. 56; 2, 30.6, p. 245; 2, 72.8, p. 295; 3, 23-30, p. 118; 4, 9.8-9, p. 126; 4, 10.3, p. 126; 4, 14-15, p. 124; 4, 15.5, p. 110; 4, 37, p. 127; 8, 62, p. 330. Donatus: ad Ter. Eun. 456, p. 172; Phorm. 107-108, p. 154. Ennius: ann. fr. 120 S., p. 118; 124 S., p. 118; 125-126 S., p. 118; Med. fr. 6 V., p. 530. Epitome Ulpiani: 7.1, p. 378. Eutropius: 2, 27.1, p. 414. Festus: 40.13, p. 436; 120.1, p. 142; 216.2327, pp. 366-367; 226.26-30, p. 339; 249.16, p. 278; 282.22-25, pp. 239-240; 424.34-426.2, p. 298; 450.20-452.22,
pp. 288-289; 490.28, p. 142; 506.25-28, p. 363. Florus: praef. 4, pp. 271-272; 1, 9.2, p. 279; 1, 11.9, p. 118; 1, 16.9, p. 307; 1, 34.5, p. 296; 1, 35.14, p. 93; 2, 13.45, p. 403; 2, 3.4, pp. 453, 459; 2, 5.5, p. 460. F.P.L.: inc. vers. 13 Bl., p. 84. Frontinus: strat. 4, 5.14, p. 416. Gaius: inst. 1, 113, p. 106. Gellius: 4, 6.7-8, p. 395; 4, 8.7, p. 319; 4, 16.1, p. 419; 6, 12.3, p. 222; 10, 1.6, p. 453; 10, 23.1-2, pp. 18, 57, 168-169; 13, 1.2, p. 280; 13, 2.1, p. 57; 13, 17.3, p. 68; 16, 10.5, pp. 129, 131; 17, 21.39, p. 319. GL: II 354.45, p. 78; II 442.18, p. 78; IV 258.48, p. 78; V 22.3, p. 154; V 414.12, p. 78. GLK: I 325.30, p. 213; VI 25.16, pp. 396397. Hieronymus: ep. 33.2, p. 7. Horatius: ars 431-432, p. 509; carm. 1, 2.47-49, p. 459; 1, 28.35-36, p. 450; 2, 1.37, p. 511; 2, 15, p. 491; 4, 15.2532, p. 328; ep. 1, 3.8, p. 385; 1, 14.10, p. 143; 2, 1.102, pp. 384-385; 1, 5.31, p. 139; 2, 1.143, p. 398; epod. 7.2, p. 493; 15.17-23, p. 450; sat. 2, 2.59-60, p. 450; 2, 5.46-47, p. 248. Hyginus: fab. 30, p. 335. Isidorus: diff. 83 C., p. 160; 327 C., p. 503; et. 9, 4.13, p. 280; 10, 188, p. 160; 17, 3.6, p. 165; 18, 16.2, p. 82; 18, 36.1-2, p. 512; 18, 57, p. 344, 19, 26.8, p. 431; 20, 9.10, p. 232; 20, 11.9, pp. 20, 503. Iustinus: 1, 7.12, p. 243. Iuvenalis: 1.91, p. 505; 3.212-213, p. 403; 5.32, p. 485; 6.436-437, pp. 344, 348; 11.116, p. 90; 16.55, p. 293.
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m. terenzio varrone, de vita populi romani
Lactantius: div. inst. 1, 21.6-8, p. 287; 2, 9.21, p. 245; 7, 15.14, pp. 270, 272. Livius: 1 praef. 4, p. 493; 1, 8.5, pp. 43, 101; 1, 27-28, p. 118; 1, 32.6, p. 296; 1, 32.9, p. 295; 1, 43.9, p. 377; 1, 46.1, pp. 125126; 1, 47.11, p. 127; 1, 56, p. 133; 2, 22.6, p. 422; 2, 23.6, p. 484; 2, 36, p. 80; 2, 37.8, p. 452; 2, 44.8, p. 484; 3, 48.5, p. 313; 3, 57.7, p. 422; 4, 1-6, p. 238; 4, 8.7, p. 280; 4, 20.4, p. 422; 5, 7.4, p. 377; 5, 25, p. 261; 5, 38.1, p. 260; 5, 39-55, p. 256; 5, 50, pp. 261-262; 7, 2, p. 83; 7, 7.5, p. 337; 7, 9-10, p. 262; 9, 10.14, p. 422; 7, 32.1-2, p. 296; 7, 34.4, p. 468; 7, 37.8, pp. 483-484; 7, 38.2, p. 422; 8, 2.4, p. 293; 8, 8.5, pp. 372-373; 8, 8.8, p. 371; 8, 9, p. 309; 8, 36.11, p. 293; 9, 3-10, p. 306; 9, 8.1, p. 307; 9, 8.5, p. 307; 9, 8.6, p. 296; 9, 8.11, p. 307; 9, 10.3, p. 308; 9, 10.10, p. 386; 9, 36.6, pp. 374-375; 9, 40.16, p. 313; 9, 43.6, p. 293; 9, 43.21, p. 293; 10, 5.12, p. 293; 10, 24.11, p. 452; 10, 28, p. 309; 10, 39.14, p. 423; 21, 13.1, p. 452; 21, 25.6, p. 386; 22, 39.1, p. 452; 22, 56.4, p. 400; 24, 2.8, p. 481; 24, 18.6, p. 377; 26, 21.15, p. 420; 26, 27.1-5, p. 314; 26, 40.1-12, p. 420; 26, 47.7, p. 423; 27, 5.67, p. 420; 27, 11.14, p. 377; 27, 11.16, p. 314; 28, 29.3, p. 481; 28, 39.15, p. 422; 28, 45.12, pp. 38, 422; 29, 37.8, p. 377; 30, 43.9, p. 298; 31, 11.4, pp. 386-387; 32, 27.1, pp. 422, 427; 33, 29.9, p. 296; 34, 4.4, p. 90; 34, 4.6, p. 312; 34, 6.13, p. 195; 34, 52, p. 426; 35, 48.7, p. 452; 36, 35.12-13, p. 422; 38, 9.13, p. 422; 38, 14.4, p. 422; 38, 23.11, p. 277; 38, 41.12-14, p. 421; 39, 5.14, p. 422; 39, 7.1, p. 422; 39, 9.1, pp. 480, 483-484; 39, 9.2, p. 377; 39, 36.11, p. 296; 40, 20.7, p. 195; 40, 41.10, p. 293; 42, 5.8,
p. 482; 42, 34.9, p. 293; 42, 34.11, p. 293; 42, 47.8, p. 296; 42, 67.5, pp. 293294; 43, 6.5, p. 422; 44, 13.4, p. 422; 44, 45.1-2, p. 299; 45, 2.9, p. 293; 45, 9.7, pp. 273, 276; 45, 37.13, p. 452. Livi periochae: 5, p. 257; 9, p. 307; 14.4, p. 319; 15, pp. 409-410; 60, p. 456. Lucanus: 1, 21, p. 474; 1, 24-32, p. 463; 1, 71-72, p. 493; 1, 176, p. 244; 1, 269, p. 465; 1, 325, p. 474; 2, 286, p. 474; 4, 172, p. 474; 4, 814-820, p. 465; 5, 2729, p. 259; 5, 1230, p. 385; 7, 7-24, p. 403; 7, 432, p. 474; 7, 646-727, p. 472; 7, 855-859, p. 451; 8, 1-19, p. 472; 8, 629-631, p. 451; 8, 865-869, p. 493; 9, 1047-1048, p. 474. Lucilius: fr. 53 Marx, pp. 481-482; fr. 954 Marx, p. 509; fr. 1078 Marx, p. 378. Lucretius: 1, 10-11, p. 519; 1, 84-100, p. 525; 1, 94, p. 525; 1, 926, p. 528; 1, 931932, p. 525; 1, 1109, p. 518; 2, 11-13, p. 528; 2, 20-21, pp. 524, 529; 2, 24-25, p. 503; 2, 345, p. 528; 2, 356, p. 528; 2, 600-660, p. 529; 2, 1047, p. 518; 3, 3-4, p. 524; 3, 59-63, p. 476; 3, 138-143, p. 524; 3, 459-461, p. 524; 3, 870-895, p. 529; 3, 907-908, p. 524; 3, 1060-1068, p. 529; 4, 75-83, p. 494; 4, 164, p. 518; 4, 169-173, p. 526; 4, 193, p. 518; 4, 333, p. 526; 4, 1071, p. 529; 4, 1124, pp. 274, 517; 4, 1186, p. 492; 4, 12011202, p. 519; 4, 591-592, p. 519; 4, 908, p. 524; 4, 1129-1130, p. 531; 5, 22-51, p. 527; 5, 32-33, p. 527; 5, 55, p. 524; 5, 1096-1097, p. 528; 5, 1123-1124, p. 528; 5, 1354, p. 529; 6, 109-110, p. 494; 6, 130-131, p. 529; 6, 738-905, p. 520; 6, 740-746, pp. 520-521; 6, 1083, p. 325. Lydus: mens. 4.114, p. 258.
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antonino pittà
Macrobius: Sat. 1, 5.10, p. 290; 1, 11.47, p. 287; 1, 12.20, p. 398; 1, 12.33, p. 117; 1, 15.9-11, p. 113.
623-624, p. 287; 5, 665-666, p. 303; 6, 129-130, p. 239; 6, 165, p. 239; 6, 169170, p. 116; 6, 261-262, p. 95; 6, 313317, p. 150; her. 10.137, p. 406; 20.2122, p. 451; 20.71-72, p. 451; Ib. 244, p. 403; 278-279, p. 119; 338, p. 119; met. 1, 307-308, p. 521; 2, 58-60, p. 451; 2, 825-826, p. 482; 4, 158-161, p. 403; 10, 611-612, p. 459; 11, 48-49, p. 403; 12, 29-31, p. 525; 12, 398, p. 489; 13, 160-161, p. 325; 13, 184-192, p. 525; 13, 196, p. 295; 13, 862-864, p. 451; 14, 320-396, p. 418; 14, 355, p. 451; 14, 529-530, p. 473; Pont. 3, 4.33-36, p. 451; tr. 1, 3.73-76, p. 118; 2, 83-86, p. 493; 5, 1.48, p. 511; 5, 2.27-28, p. 325; 5, 14.3-4, p. 451.
Manilius: 5, 438-445, p. 343. Martialis: 1, 82.1-6, p. 493; 2, 81.1, p. 451; 2, 86.7, p. 343; 4, 55.28, p. 451; 4, 73.4, p. 403; 6, 58.7, p. 403; 8, 64.5-12, p. 451; 10, 100.5-6, p. 451; 14, 157, p. 403. Pomponius Mela: 1, 117, p. 43. Naevius: b. P. fr. 31 Bl., p. 214; scaen. fr. 129 Ribbeck, p. 510. Cornelius Nepos: Timoth. 1.2, p. 423. Nonius1: 35.11-12, p. 160; 42.22, p. 160; 43.1-2, p. 160; 82.1-2, pp. 360-361; 544.21-545.31, p. 378; 545.40, p. 379; 602.7-13, pp. 110, 112; 862.19-22, p. 112; 865.22, p. 402; 866.35, p. 223; 867.25, p. 402; 869.1-2, p. 402; 878.231, p. 217; 880.30, p. 402; 887.28, p. 342. Novius: fr. 71 Frassinetti, p. 402. Orosius: 7, 29.12, p. 473. Ovidius: am. 1, 9.43-44, p. 293; 1, 10.20, p. 293; 2, 11.53, p. 451; ars 2, 598, p. 244; 3, 212, p. 493; fast. 1, 191-208, p. 90; 1, 201-202, p. 90; 1, 208, p. 318; 1, 209223, p. 90; 1, 219-220, p. 292; 1, 337346, p. 90; 1, 671-674, p. 398; 2, 19, p. 114; 2, 521-526, p. 151; 2, 629, p. 459; 2, 723-766, pp. 133-134; 2, 739-744, p. 134; 3, 130, p. 376; 3, 147-148, p. 515; 4, 297-298, p. 437; 4, 413-414, p. 399; 4, 465-466, p. 399; 4, 787-792, pp. 244245; 5, 358, p. 490; 5, 419-444, p. 116; 5, 483, p. 116; 5, 621-662, p. 287; 5, Non riporto i passi di Nonio che corrispondono a citazioni dal de vita, rimandando per questi alla trattazione dei singoli frammenti. 1
Paulus Diaconus: epit. Fest. 3.1-3, p. 244; 3.19, p. 160; 4.30-31, p. 107; 13.2330, pp. 357, 363, 366, 369; 14.22-23, p. 287; 18.5-6, p. 287; 34.24, p. 150; 42.16, p. 282; 44.11, p. 299; 44.13, p. 210; 57.16, pp. 47, 165; 61.8, p. 292; 66.5, p. 290; 73-74, p. 154; 75, 14-16, p. 363; 87.28, p. 211; 115.6, p. 201; 131.1, p. 174; 201.23-25, p. 366; 212, p. 209; 223, p. 509; 244, p. 139; 250.11, p. 395; 296.37, p. 393; 323.8-10, pp. 369, 374; 484.32, p. 230; 501.1, p. 205; 506.23, p. 366. Petronius: 83.1, p. 488; 70.8, p. 197; 119.13, p. 351; 119.1-60, p. 441; 119.54-55, pp. 481, 484; 120.82-83, pp. 351, 493; 135.8, p. 194. Philargyrius: in ecl. 4.63, p. 254. L. Calpurnius Piso Frugi: fr. 44 Peter, p. 252. Plautus: Amph. 32-34, p. 296; 204-210, p. 295; 246, p. 296; As. 101, p. 366; Aul. 400, p. 149; 401, p. 79; Bacch. 129, p. 81; 296, p. 471; Curc. 36-38, p. 321;
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m. terenzio varrone, de vita populi romani
Merc. 220, p. 251; Poen. 699, p. 531; 988-989, p. 321; Persa 88, p. 177; 408, p. 484; 753, p. 385; Pseud. 157, p. 216; 740, p. 177; Rud. 548, p. 109; 1252, p. 277; Trin. 689, p. 450; Truc. 396, p. 471; 494-496, p. 510; 508, p. 423. [Plautus]: Acharistio fr. 2 Aragosti, p. 177; Frivolaria fr. 4 Aragosti, pp. 370-371. Plinius Maior: n.h. 2, 113, p. 529; 4, 62, pp. 532, 535; 7, 86, p. 432; 7, 211, p. 16; 8, 194-197, pp. 122-123, 431; 9, 170, p. 490; 10, 41, p. 416; 11, 76, p. 534; 11, 122, p. 417; 14, 80, p. 182; 14, 80-92, pp. 181, 185; 14, 82, pp. 186-187; 14, 87-97, pp. 15-17, 122, 149, 168, 484; 14, 88-90, p. 56; 14, 92-93, pp. 173, 176; 16, 75, p. 239; 18, 12, pp. 132, 408; 18, 105, pp. 158-159; 18, 107-108, pp. 16, 149; 18, 118-119, p. 117; 19, 23, p. 495; 19, 85, p. 325; 21, 21, p. 69; 22, 5, pp. 297-298; 23, 50, p. 485; 31, 89, pp. 16, 158; 33, 14-15, p. 263; 33, 42-44, pp. 132, 408-409; 33, 47, p. 408; 33, 61, p. 69; 33, 63, p. 431; 33, 148, p. 429; 34, 1, pp. 408, 411; 34, 34, p. 91; 35, 114, p. 69; 35, 154-158, p. 91; 35, 157-158, p. 91; 36, 115, p. 431; 37, 12, p. 431. Plinius Minor: ep. 6, 16.6, p. 493. Plutarchus: Ant. 5, p. 465; Caes. 29.2-3, p. 465; 30.1-3, p. 465; 31.1, p. 465; 45.4, p. 472; Cato Min. 3.1, p. 512; fort. Rom. 9, pp. 417-418; Luc. 3, p. 487; 39.2, pp. 486487; 39.3, pp. 490-491; Pomp. 58, p. 465; 59.2, p. 465; 72.1-2, p. 472; quaest. conv. 3, 5, p. 485; quaest. Rom. 1, p. 245; 6, pp. 56, 170; 21, p. 417; 80, p. 438; 86, p. 288; Rom. 4.2, p. 417; Tit. 12-16, pp. 426-427. Polybius: 6, 3-18, p. 78; 6, 11.4, p. 56; 6, 18.1, p. 78; 6, 51.4, p. 270; 9, 22.5, p. 420; 18, 46, p. 426.
Priscianus: inst. gramm. 2, 262, pp. 48, 212; 4, 78, p. 18. Propertius: 1, 4.21-22, p. 450; 1, 14.4, p. 437; 1, 16.48, p. 450; 1, 22.3-4, p. 463; 2, 11.1-2, pp. 450-451; 2, 13.22, p. 431; 2, 19.5, p. 312; 2, 31.7-8, p. 489; 2, 32.12, p. 430; 3, 2.19-24, pp. 492-493; 3, 13.60, p. 493; 3, 18.19-20, p. 431; 3, 21.28, p. 483; 4, 1.5-6, p. 90; 4, 1.23, p. 79; 4, 5.23-24, p. 431; 4, 6.49, p. 83; 4, 9.8, p. 83. Quintilianus: decl. min. 301, p. 322; inst. 1, 10.18, p. 327; 4, 1.20, p. 293; 4, 5.4, p. 283; 5, 13.3, p. 283; 5, 13.36, p. 283; 6, 3.33, p. 283; 8, 2.8, p. 511; 10, 1.28, p. 271; 10, 6.6, p. 283; 10, 7.30, p. 283; 11, 2.46, p. 283. Ps. Quintilianus: decl. maior. 6.19, p. 322. Q. Cicero: comm. in pet. 23, p. 458; 40, p. 458 Rhetorica ad Herennium: 4, 39, p. 450; 4, 51, p. 482. Sallustius: Cat. 5.6, p. 476; 5.9-13, pp. 441442; 10.6, p. 481; 11, p. 487; 12.3, p. 491; 13.1, p. 491; 20.11, p. 491; 37.6, pp. 276-277; 37.10, p. 476; 40.4, p. 458; 48.9, p. 470; hist. 1, fr. 8, p. 480; 1, frr. 8-13, p. 441; 1, fr. 12, p. 480; 1, fr. 15, p. 460; 1, fr. 20, p. 462; 2, fr. 59, p. 431; 3, fr. 102, p. 277; 4, fr. 41, p. 481; 4, fr. 59, p. 437; Iug. 5.1, p. 463; 14.12, p. 470; 24.1, p. 476; 31.20, p. 385; 32, p. 387; 32.4, pp. 476, 481; 36.5, p. 481; 41, p. 460; 41.2, p. 478; 84.3, p. 476; 89.6, p. 476. Scholia vetera in Iuv. 3.263, pp. 210-211; 5.17, p. 506. Scholia Bembina in Ter. Eun. 456, p. 172. Scholia Bernensia in Verg. ecl. 4.62, p. 254.
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antonino pittà
512; Cal. 27.2, p. 299; Cl. 32.1, p. 322; Galba 10.4, p. 296; Dom. 13.2, p. 492.
Scholia Bobiensia in Cic. Sest. 55, p. 456. Scholia Veronensia in Verg. ecl. 7.33, pp. 18, 48, 211.
Suida lexicon: 605.52-53 A., p. 9.
Seneca: Ag. 88, p. 493; brev. 13.4, pp. 435436; clem. 1, 19.3, p. 312; cons. Helv. 2.5, p. 400; 10.7, p. 90; const. sap. 13.5, p. 269; ep. 18.2, p. 229; 25.6, p. 451; 76.10, p. 269; 90.23, p. 151; de ira 2, 35.5, p. 474; nat. q. 2, 27.3, p. 529; 2, 28.2, p. 529; vit. beat. 21.3, p. 318.
Tacitus: ann. 3, 5.2, p. 327; 3, 26, p. 480; 3, 73.2, p. 461; 12, 4, p. 480; 13, 1, p. 480; hist. 1, 26.1, p. 484; 1, 50.2, p. 463; 3, 11.1, p. 484; 3, 67.2, p. 403; 4, 17.5, p. 269.
Ps. Seneca: epigr. 52.5-6, p. 493.
Tertullianus: anim. 39, p. 254; apol. 6, p. 319; 6.25, pp. 56, 170; spect. 5.2-3, pp. 81-82.
Scriptores Historiae Augustae: Hel. 2.3, p. 43; Carus 2.1, pp. 271-272. Servius: in Verg. ecl. 8.65, p. 301; in Verg. georg. 1, 31, p. 106; 3, 25, p. 431; in Verg. Aen. 1, 179, p. 148; 1, 216, p. 390; 1, 282, p. 220; 1, 297, pp. 299, 302; 1, 637, pp. 323, 505; 1, 641, p. 327; 1, 697, p. 431; 1, 726, pp. 505-506; 1, 726, pp. 498, 506; 1, 737, pp. 56, 170; 3, 175, p. 201; 4, 167, p. 243; 4, 242, pp. 299, 302; 5, 388, p. 145; 5, 602, p. 512; 6, 206, p. 509; 6, 621, p. 465; 6, 825, p. 257; 7, 176, p. 506; 7, 190, p. 417; 8, 654, p. 113; 9, 484, p. 509; 10, 894, p. 88; 11, 143, p. 390; 12, 120, p. 298. Servius Danielinus: in Verg. ecl. 4.62, p. 254; 7.33, pp. 18, 48, 211; in Verg. Aen. 1, 79, p. 506; 1, 727, p. 19; 3, 134, p. 141; 4, 103, p. 245; 9, 4, pp. 250, 252; 10, 76, pp. 249, 252. SIG: III 585.87, p. 421. Silius: 14, 650-660, p. 430; 15, 162, p. 296. Solinus: 1.17, p. 134; 1.21-24, pp. 134-135; 1.22, pp. 36, 134; 7.20, p. 533, 535 . Statius: sil. 1, 2.3-6, p. 243; Theb. 9, 497, p. 493. Svetonius: Iul. 6, p. 510; 29.1-2, p. 465; 39.2, p. 512; Aug. 30.1, pp. 124-125; 43.2, p.
Terentius: Heaut. 16, p. 450; Hec. 306, p. 448; Phorm. 107-108, p. 154.
Thucidides: 8, 97.2, p. 78. Tibullus: 1, 1.37-38, pp. 90-91; 1, 1.39, p. 93;1, 10.19-20, p. 91. TRF: inc. trag. fr. 105 Ribbeck, p. 480. Turpilius: fr. 45, p. 513. Vlpianus: dig. 21.1.17.12, p. 43. Valerius Flaccus: 1, 830-831, p. 492. Valerius Maximus: 1 praef., p. 325; 1, 1.2, pp. 144, 323, 505; 2, 1.5, pp. 56, 170; 2, 1.10, pp. 324, 326; 2, 5.5, p. 144; 2, 8.2, p. 414; 2, 8.6, p. 438; 2, 9.7-8, p. 377; 4, 4.2, p. 460; 5, 6.4, p. 416; 5, 6.8, p. 261; 6, 3.9, pp. 56, 170; 8, 11 estr. 5, p. 69; 9, 1.5, p. 431; 9, 2 estr. 1, pp. 410-411; 9, 3.4, p. 460. Varro: annalium libri fr. 1 Peter, pp. 132, 410; ant. rer. div. fr. 111 Cardauns, p. 252; fr. 242 Cardauns, p. 255; ant. rer. hum. 10, fr. 5 Mirsch, p. 255; 11, frr. 8-9 Mirsch, p. 520; 12, fr. 4 Mirsch, p. 533; 13, fr. 10 Mirsch, p. 520; 20, fr. 1 Mirsch, p. 138; fr. 3 Mirsch, p. 471; fr. 4 Mirsch, p. 277; fr. 7 Mirsch, p. 293; fr. 10 Mirsch, p. 362; fr. 11 Mirsch, p. 279; ep. ad Caes. fr. 1, pp. 338, 340; de gente p. R.
552
m. terenzio varrone, de vita populi romani
fr. 20 Fraccaro, p. 8; fr. 32 Fraccaro, p. 87; fr. 37 Fraccaro, pp. 10, 506; inc. lib. fr. 38 G.-S., p. 321; fr. 410 Fun., p. 84; l.L. 5, 1.5, p. 83; 5, 5, p. 255; 5, 7, pp. 208, 255; 5, 8, p. 255; 5, 13, p. 113; 5, 19-20, p. 527; 5, 21, pp. 83-84, 151; 5, 23, p. 391; 5, 31, p. 244; 5, 33, p. 255; 5, 41-42, p. 208; 5, 43, p. 255; 5, 44, p. 208; 5, 45, p. 287; 5, 49, p. 96; 5, 50, p. 208; 5, 54, pp. 136, 255; 5, 61, p. 244; 5, 72, p. 244; 5, 80, pp. 277-279; 5, 81, p. 279; 5, 85-86, pp. 208, 297; 5, 87, pp. 278, 353; 5, 91, pp. 208, 366; 5, 92, p. 79; 5, 98, p. 131; 5, 105, p. 138; 5, 106, p. 208; 5, 117, p. 208; 5, 118, pp. 196, 208; 5, 119, pp. 197, 216, 255, 503; 5, 120, p. 203; 5, 121-123, pp. 208-210, 213, 218, 244; 5, 124, pp. 210-211; 5, 126, p. 208; 5, 130, p. 208; 5, 131, pp. 222, 224, 226; 5, 132-133, p. 402; 5, 138, pp. 148, 255; 5, 145, pp. 255, 282283; 5, 146, p. 208; 5, 154, p. 208; 5, 155, pp. 153, 255, 282; 5, 157, pp. 258259; 5, 158, p. 95; 5, 161, p. 255; 5, 162, p. 208; 5, 164, p. 136; 5, 166, pp. 145, 147, 208; 5, 167, p. 147; 5, 168, p. 145; 5, 177, p. 208; 5, 180, p. 244; 5, 181182, p. 292; 5, 182-183, pp. 208, 344; 6, 13, p. 114; 6, 16, p. 208; 6, 21, pp. 208, 255; 6, 27, p. 113; 6, 32, p. 259; 6, 33, p. 519; 6, 34, p. 114; 6, 46, p. 282; 6, 47, pp. 255, 518, 524; 6, 60, p. 453; 6, 61, p. 519; 6, 66, p. 353; 6, 69, p. 280; 6, 76, p. 172; 6, 82, p. 208; 6, 83, p. 519; 6, 8889, p. 362; 6, 93, p. 255; 7, 7, p. 139; 7, 29, p. 208; 7, 30, p. 510; 7, 41, p. 255; 7, 42, p. 255; 7, 44, p. 287; 7, 56, pp. 362363; 7, 58, p. 369; 7, 70, p. 509; 7, 74, p. 208; 7, 80, p. 255; 7, 84, p. 208; 8, 7, p. 255; 8, 10, pp. 255, 303; 8, 29, p. 255; 8, 30, p. 512; 8, 51, p. 255; 8, 66, p. 83; 9,
553
12, p. 70; 9, 16, p. 209; 9, 18, p. 70; 9, 41, p. 303; 9, 56, p. 255; 9, 60, p. 208; 10, 3, p. 244; 10, 16, p. 274; 18, fr. 27, p. 232; log. Catus fr. 8, p. 138; fr. 34, p. 138; fr. 35, p. 138; Men. fr. 6 A., p. 524; fr. 17 A., p. 126; fr. 22 A., p. 529; fr. 25 A., p. 529; fr. 26 A., p. 138; fr. 32 A., p. 524; fr. 36 A., pp. 524-525; fr. 44 A., p. 83; fr. 45 A., p. 312; fr. 78 A., p. 529; fr. 81 A., p. 529; fr. 87 A., p. 321; frr. 94-95, p. 525; fr. 148, p. 526; frr. 149-150 A., p. 529; fr. 193 A., p. 461; frr. 204-205 A., p. 529; fr. 221 A., p. 316; fr. 225 A., p. 523; fr. 242 A., p. 529; frr. 269-271 A., p. 526; fr. 272 A., pp. 521, 526; fr. 295 A., p. 138; fr. 299 A., p. 527; fr. 316 A., p. 528; fr. 332 A., p. 518; fr. 344 A., p. 529; fr. 363 A., p. 511; fr. 364 A., p. 529; fr. 373 A., p. 482; fr. 375 A., p. 406; fr. 391, p. 528; fr. 394 A., p. 524; fr. 397 A., p. 529; fr. 405 A., p. 523; fr. 408 A., p. 482; fr. 419 A., p. 348; fr. 422 A., p. 528; fr. 433 A., p. 402; fr. 442, p. 528; fr. 450 A., p. 528; fr. 466 A., p. 528; fr. 493 A., p. 290; fr. 494 A., p. 290; fr. 504 A., p. 322; fr. 522 A., pp. 138-139, fr. 527 A., p. 149; fr. 538 A., p. 402; r.r. 1, 1.6, p. 244; 1, 1.10, p. 325; 1, 2.10, p. 487; 1, 2.14, pp. 208, 255; 1, 2.16, p. 8; 1, 2.19, p. 138; 1, 2.25, p. 255; 1, 2.26, p. 183; 1, 4.3, p. 244; 1, 4.4, p. 255; 1, 8.5, p. 214; 1, 13.4, p. 255; 1, 13.6-7, pp. 92, 491; 1, 16.1, p. 255; 1, 16.3, p. 255; 1, 17.2, p. 321; 1, 17.3, p. 312; 1, 22.3, p. 195; 1, 22.6, pp. 142-143; 1, 29.2, p. 255; 1, 31.4, p. 255; 1, 37.3, p. 142; 1, 40.6, p. 255; 1, 41.5, p. 255; 1, 48.1, p. 255; 1, 51.2, p. 255; 1, 54.3, pp. 180-181; 1, 55.3, p. 312; 1, 57.1, p. 244; 1, 57.2, p. 255; 1, 61.1, p. 183; 1, 63, p. 148; 1, 63.1, p. 255; 1, 64, p. 183; 2, 1.5, pp.
antonino pittà
208, 255; 2, 1.9, pp. 131-132, 208, 408; 2, 1.17, p. 244; 2, 2.8, p. 255; 2, 4.2, p. 259; 2, 4.11, p. 255; 2, 4.18, pp. 208, 217; 2, 5.15, p. 255; 2, 10.8, p. 470; 2, 11.5, p. 208; 2, 11.10, p. 16; 3, 1.6, pp. 208, 217, 255; 3, 2.4, p. 255; 3, 2.16, p. 312; 3, 3.5, p. 142; 3, 4.2, p. 143; 3, 5.2, p. 255; 3, 5.3, p. 244; 3, 6.4, p. 255; 3, 6.5, p. 255; 3, 7.6, p. 255; 3, 7.11, p. 143; 3, 9.2, p. 142; 3, 10.1, p. 255; 3, 10.2, p. 312; 3, 10.4-5, p. 255; 3, 11.3, p. 255; 3, 13.3, p. 255; 3, 16.21, p. 255; 3, 16.28, p. 255; 3, 16.31, p. 255; de vita p. R. fr. 12, pp. 17, 61, 67-70, 85, 348; fr. 2, pp. 61, 70-78, 85; fr. 3, pp. 40, 42-44, 61, 7879, 85, 102; fr. 4, pp. 14, 31-33, 35-37, 61, 79-84, 84-88, 128, 230, 286, 332, 337, 342-343, 468; fr. 5, pp. 61, 84-89; fr. 6, pp. 37, 40-41, 45, 61, 79, 80, 85, 89-92, 141, 170, 312, 337, 422, 491; fr. 7, pp. 37, 40-41, 44-45, 61, 79, 85, 9294, 141, 422, 491; fr. 8, pp. 31, 33-34, 36, 61, 79, 85, 94-97, 102, 136, 422, 491; fr. 9, pp. 40, 42-44, 62, 79, 85, 97103, 104, 131, 162; fr. 10, pp. 12, 14, 31-33, 35-37, 62, 80, 85, 90, 103-110, 137, 194, 286; fr. 11, pp. 36, 62, 85, 110-112, 137, 147, 430; fr. 12, pp. 40, 62, 85, 112-113, 128, 300; fr. 13, pp. 62, 85-86, 113-115, 117; fr. 14, pp. 62, 8586, 115-116, 288; fr. 15, pp. 62, 85-86, 116-117, 253; fr. 16, pp. 62, 117-120; fr. 17, pp. 31, 33, 62, 90, 120-123, 399; fr. 18, pp. 62, 124-127; fr. 19, pp. 62, 127-131; fr. 20, pp. 31, 33, 62, 131-133, 313, 408, 410; fr. 21, pp. 62, 133-134; fr. 22, pp. 31-33, 35-37, 62, 104, 1342 Per comodità, riporto i frammenti del de vita secondo la mia numerazione. In grassetto segno le pagine del commento relativo al singolo frammento.
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136; fr. 23, pp. 31, 33-37, 57, 62, 96, 136-138, 310, 384, 419; fr. 24, pp. 62, 91, 138-141, 146, 151, 337, 505-506; fr. 25, pp. 62, 141-144, 505-506; fr. 26, pp. 62, 111, 128, 144-147, 151, 158, 208, 300; fr. 27, pp. 17, 55, 60, 62, 142, 147150, 156, 168, 176, 300; fr. 28, pp. 3133, 35-36, 55, 60, 62, 150-155, 156157; fr. 29, pp. 55, 60, 62, 146, 155-156; fr. 30, pp. 55, 60, 62, 156-159; fr. 31, pp. 14, 55, 60, 62, 156, 159-163, 164; fr. 32, pp. 55, 60, 62, 156, 160, 164-165; fr. 33, pp. 32, 46-53, 60, 62, 128, 165-167, 300; fr. 34, pp. 18, 56-60, 62, 91, 167171, 176, 312; fr. 35, pp. 56, 59-60, 62, 170, 171-172; fr. 36, pp. 33, 53-60, 63, 80, 166, 169-170, 173-180, 181, 184185, 191; fr. 37, pp. 33, 53-60, 63, 166, 170, 173-175, 177-180, 180-182, 184, 189; fr. 38, pp. 33, 53-60, 63, 128, 166, 170,173, 182-184, 190; fr. 39, pp. 33, 53-60, 63, 166, 170, 173, 180, 182, 184186, 187, 189-191; fr. 40, pp. 33, 53-60, 63, 166, 170, 173-174, 179-182, 186192; fr. 41, pp. 32-33, 46-53, 60-61, 63, 192-197, 198, 216, 244; fr. 42, pp. 6061, 63, 128, 196, 197-202, 206; fr. 43, pp. 50-53, 60-61, 63, 202-203; fr. 44, pp. 40-41, 46-53, 60-61, 63, 202, 203206; fr. 45, pp. 32-33, 46-53, 60-61, 63, 198, 206-209, 210, 217, 435; fr. 46, pp. 50-53, 60-61, 63, 198, 209-211, 213; fr. 47, pp. 18, 32-33, 46-53, 60-61, 63, 198, 210, 211-214, 218-219, 338, 501; fr. 48, pp. 40-41, 46-53, 60-61, 63, 197-198, 214-217, 244, 434; fr. 49, pp. 33, 46-53, 60-61, 63, 91, 93, 198, 208, 213-215, 217-219, 435; fr. 50, pp. 63, 123, 219222; fr. 51, pp. 32-33, 63, 123, 222-223, 225; fr. 52, pp. 63, 123, 223, 224, 225, 229, 337; fr. 53, pp. 32-33, 63, 123, 223-
m. terenzio varrone, de vita populi romani
226, 228; fr. 54, pp. 14, 32-33, 63, 123, 225, 226-228; fr. 54(a), pp. 63, 228; fr. 55, pp. 63, 123, 227, 228-229, 337, 400, 402; fr. 56, pp. 63, 83, 123, 230, 407; fr. 57, pp. 63, 231, 232, 348; fr. 58, pp. 63, 232-234, 348; fr. 59, pp. 12, 63, 237241, 243, 246, 256, 266, 321, 492; fr. 60, pp. 12, 14, 63, 197, 216, 238-240, 241-245, 246, 256, 282; fr. 61, pp. 4041, 45, 63, 235, 239, 246-252, 253-254, 256, 284; fr. 62, pp. 45, 63, 95, 117, 239, 246, 250, 253-256, 284; fr. 63, pp. 64, 95, 236, 256-260, 304; fr. 64, pp. 64, 236, 244, 259, 260-266, 304; fr. 65, pp. 64, 236, 266-274, 275-276, 454, 476, 517-518; fr. 66, pp. 64, 236, 267-268, 273, 274-277, 454; fr. 67, pp. 40, 64, 72, 236, 268, 277-279, 280-281, 292, 300; fr. 68, pp. 64, 128, 236, 268, 279-280, 281, 292, 300; fr. 69, pp. 40, 64, 128, 236, 255, 268, 280-283, 292, 300, 343; fr. 70, pp. 64, 236, 268, 283-291, 297, 333, 337; fr. 71, pp. 12, 31-33, 38, 64, 66, 128, 234, 237, 281, 291-294, 411; fr. 72, pp. 12, 31, 45-46, 64, 237, 292, 294-297, 298, 385; fr. 73, pp. 12, 40-41, 45, 64, 235, 237, 281-282, 292, 297303; fr. 74, pp. 64, 127, 138, 237, 259, 275, 304-310, 311, 318, 385-386, 419; fr. 75, pp. 31-33, 38, 64, 66, 91, 234, 237, 304-305, 310-312, 318, 336, 350, 409; fr. 76, pp. 31-33, 38, 64, 234, 237, 312-315, 318, 347, 410; fr. 77, pp. 31, 33, 64, 90, 315-319; fr. 78, pp. 64, 320323; fr. 79, pp. 31, 33, 64, 320-321, 323-332; fr. 80, pp. 12, 31, 33, 64, 83, 138, 330; 332-337; fr. 81, pp. 12, 64, 338-344, 419; fr. 82, pp. 12, 64, 344349; fr. 83, pp. 12, 40, 64, 128, 343, 353-358, 359-361, 365-366, 370-372, 374, 379-383, 452; fr. 84, pp. 12, 40-41,
555
64, 299-300, 350, 353, 357, 358-364, 365-367, 369-372, 374, 379-383, 407; fr. 85, pp. 12, 64, 128, 300, 310, 353, 363, 364-368, 370-372, 374, 379-383; fr. 86, pp. 12, 64, 128, 299-300, 353, 364, 366-367, 368-372, 374, 379-383; fr. 87, pp. 12, 64, 353, 370-371, 372375, 379-383; fr. 88, pp. 12, 64, 353, 370-372, 374, 375-381, 382; fr. 89, pp. 12, 40, 64, 91, 312, 350, 379, 381-385, 386, 420; fr. 90, pp. 12, 46, 64, 379, 382384, 385-388, 420; fr. 91, pp. 31, 33, 38, 65, 122, 350, 388-399, 401, 507; fr. 92, pp. 33, 38, 65, 223, 228, 350, 352, 389390, 392, 399-403, 404, 430, 507; fr. 93, pp. 33, 38, 65, 350, 352, 389-390, 392, 399-400, 402, 403-407, 507; fr. 94, pp. 40-41, 65, 132, 313, 318, 350, 380, 383, 407-411, 412; fr. 95, pp. 31, 33, 38, 65, 350, 352, 389, 411-413; fr. 96, pp. 65, 412, 413-415, 437-438; fr. 97, pp. 65, 415-418, 420; fr. 98, pp. 65, 138, 310, 418-419, 420; fr. 99, pp. 15, 65, 419-421, 433; fr. 100, pp. 31, 33, 38, 65, 350, 352, 380, 389, 421-423; fr. 101, pp. 40, 65, 263, 350, 380-383, 423-427; fr. 102, pp. 14, 65, 350, 380, 409, 428431, 433; fr. 103, pp. 33, 46, 65, 217, 431-434; fr. 104, pp. 65, 128, 146, 337, 380, 434-437; fr. 105, pp. 65, 337, 380, 414-415, 435, 437-440; fr. 106, pp. 65, 76, 337, 444-451; fr. 107, pp. 40-41, 65, 440-442, 444, 451-453; fr. 108, pp. 65, 351, 440, 453-461, 475; fr. 109, pp. 65, 461-464; fr. 110, pp. 7, 65, 334, 441, 443, 451, 464-466, 467; fr. 111, pp. 7, 40-41, 65, 83, 443, 464-465, 466-470; fr. 112, pp. 7, 65, 255, 443, 470-472; fr. 113, pp. 65, 472-473; fr. 114, pp. 7, 65, 296, 473-474, 475; fr. 115, pp. 65, 90, 351, 440, 474-476, 477; fr. 116, pp. 31,
antonino pittà
33, 65, 90, 291, 351, 413, 440-441, 475, 477-480, 482; fr. 117, pp. 65, 90, 268, 351, 440, 475-476, 478, 480-483; fr. 118, pp. 14-15, 66, 90, 149, 158, 168, 204, 351, 440, 484-486, 487; fr. 119, pp. 31, 33, 66, 90, 351, 440-441, 486490, 491; fr. 120, pp. 31, 33, 66, 90, 92, 351, 440, 446, 490-493; fr. 121, pp. 66, 351, 440, 444, 487, 493-497; fr. 122, pp. 19, 66, 497-503, 506; fr. 123, pp. 19, 66, 143-144, 389, 503-506; fr. 124, pp. 14, 66, 323, 507-515.
Velleius: 1, 13.4, p. 489; 1, 16.1, p. 452; 2, 11.3, p. 270; 2, 30.5, p. 461; 2, 33.3, p. 490; 2, 36.2, p. 452; 2, 48.3-5, p. 465; 2, 52.3, p. 473.
Vegetius: mil. 2, 1.9, p. 365; 2, 7.4, p. 366; 3, 14.3, p. 472.
Vitruvius: 6, 4.1, p. 195; 10, 1.6, p. 344; 10, 8.4, p. 345.
Vergilius: ecl. 2.42, p. 110; 7.33-34, pp. 48, 210; georg. 1, 31, pp. 103, 105-106; 2, 383-384, p. 84; 4, 145, p. 240; Aen. 1, 279-280, p. 474; 5, 596-602, p. 512; 6, 239-242, p. 520; 7, 189-191, p. 418; 8, 33-34, p. 494; 8, 453, p. 152; 8, 642645, p. 118; 8, 661-662, pp. 373, 375; 11, 775-776, p. 494; 12, 572, p. 474.
556
Indice dei termini e delle forme notevoli
Abstemius: fr. 34.
Asia: fr. 118.
Abstinentia: fr. 75.
Asylum: fr. 9.
Accensus: fr. 84.
Altitudo: fr. 1.
Acetabulum: fr. 43.
T. Ampius: fr. 111.
Acratophoron: fr. 47.
Amphora: fr. 44.
Adoreum: frr. 31, 32.
Anancaeum: fr. 103.
Adscribere: fr. 83.
Arbitrari: fr. 68.
Adsiduus: fr. 19.
Argentaria: frr. 76, 82 (dubium).
Adulescentis (nom. plur.): fr. 70.
Argentum: fr. 77.
Adulescentula: fr. 93.
Armillum: fr. 45.
Aedis (nom. sing.): frr. 8; 22.
As: fr. 10.
Aegates: fr. 96.
Ascendere: fr. 1.
Aegrotare: fr. 65.
Asia: fr. 119.
(P.) Aelius Peto: fr. 97.
Assa voce: fr. 79.
Aelius (Stilo): fr. 9.
Attalicus: fr. 102.
Aere dirutus: fr. 71.
Aulaeum: fr. 102.
Aes: fr. 71. Amiculum: fr. 93.
Bellum pium: fr. 72.
Anceps: fr. 112.
Biceps civitas: fr. 108.
Ancus: fr. 22. Anthracinus: fr. 93.
Caduceus: fr. 73.
Antica: fr. 24.
Cadus: fr. 118.
Apollo: fr. 100.
Caecus: fr. 111.
Aqualis: frr. 48, 60.
Caesar: fr. 112.
Aquae manale: fr. 42.
Calendae: frr. 12, 15.
Arci (nom. plur.): fr. 120.
Callicles: fr. 1.
Articulus: fr. 117.
Calpar: fr. 33.
Ascriptivus: frr. 83 (fortasse), 84.
Caltula: fr. 52.
557
antonino pittà
Candela: fr. 122.
Creterra: frr. 48, 103.
Capis: fr. 45.
Culcita: fr. 11.
Capitium: frr. 53, 54.
Culigna: fr. 46.
Capitolium: frr. 63, 105.
Cupa: fr. 44.
Capitulum: fr. 54a.
Cupiditas: fr. 115.
Capula: fr. 45.
Curia: fr. 69.
Carbasineus (dubium): fr. 121.
Curio: fr. 110.
Cardiacus: fr. 118.
Cymbium: fr. 46.
Carmina antiqua: fr. 79. Castimonia: fr. 7.
Decurio: frr. 83, 85.
Catapulta: fr. 96.
Decius: fr. 74.
Catinus: fr. 43.
Defretum: frr. 36, 38.
Cenitare: fr. 25.
Delphi: fr. 100.
Censere: fr. 68.
Delubrum: fr. 8.
Censor: fr. 68.
Depilis (nom. plur.): fr. 4.
Centurio: frr. 84, 85.
Digitum (gen. plur.): fr. 1.
Ceres: frr. 9, 82.
Dilectus: fr. 83.
Cernuare: fr. 5.
Discordia: fr. 108.
Chius: fr. 118.
Discumbere: fr. 123.
Chors: fr. 25.
Distractio: fr. 65.
Clamis: fr. 102.
Dolium: frr. 33, 37.
Coculum: fr. 28.
Dominatus: fr. 116.
Codex: fr. 104. Codicaria navis: fr. 104.
Elanguescere: fr. 65.
Colina: fr. 24.
Elixus (panis): fr. 30.
Concordia: fr. 106.
Enodare: fr. 57.
Consenescere: fr. 65.
Equus publicus: fr. 88.
Consentaneus: fr. 7.
Euphranor: fr. 1.
Consualia: fr. 5.
Exercituis (gen. sing.): fr. 74.
Consul: fr. 67. Consulis (nom. plur.): fr. 111.
Faba: fr. 14.
Consumsisset: fr. 120.
Fabata puls: fr. 15.
Convivium: frr. 44, 79, 105, 118.
(Q.) Fabius Maximus: fr. 98.
558
m. terenzio varrone, de vita populi romani
Faetiales: frr. 72, 90.
Italia: fr. 109.
Far: frr. 13, 27, 30, 31.
Iuno: fr. 62.
Fax: fr. 59.
Iuxta: fr. 21.
Februare: fr. 13. Ferentarius: fr. 84.
Laniena: fr. 76.
Finis (femm.): fr. 114.
Lar familiaris: fr. 10.
Focilari: fr. 66.
Later: fr. 94.
Focus: frr. 59, 60.
Lectica: fr. 26.
Folliculus: fr. 37.
Legatus: fr. 90.
Fornus: fr. 28.
Legio: frr. 83, 85.
Fortuna Virgo: fr. 17.
Lemurius: fr. 14.
Funale: fr. 122.
Lepesta: frr. 47, 49.
Funiculus: fr. 122.
Libum: fr. 13. Lingula: fr. 82.
Gaesum: fr. 87.
Locuples: frr. 19, 24.
Galeola: fr. 47.
Lora: frr. 36, 37, 40.
Gallus: frr. 63, 81.
Lucubrare: fr. 21.
Gangraena: fr. 117.
L. Lucullus: fr. 118.
Germanus: fr. 81.
Ludius: frr. 4, 81 (fortasse).
Glaber: fr. 4.
(C.) Lutatius: fr. 96.
Gladius: fr. 87.
Luxuria: fr. 41.
Graduis (gen. sing.): fr. 80.
Luxuriosum: frr. 55, 77.
Graecia: fr. 119. Graecus: fr. 118.
Mactare: frr. 15, 62.
Gutus: fr. 46.
Maenianum: fr. 25. Magistratus: frr. 115, 116.
Hercules: fr. 62.
Manalis lapis: fr. 42.
Hispania: fr. 112.
Manes: fr. 74.
Hortensius: fr. 118.
Maritus: fr. 10. Matellio: fr. 41.
Ἱερομνάμων: fr. 101 (fortasse).
Matula: fr. 48.
Ignis: frr. 24, 59, 60.
Mettus Fufetius: fr. 16.
Indusium: fr. 51.
Minoris (nom. plur.): fr. 56.
559
antonino pittà
Mixtura: fr. 2.
Paupertinus: frr. 7, 24.
Moderatura: fr. 2.
Pelvis: fr. 41.
Muriola: frr. 36, 40.
Penates: fr. 22.
Murrina: fr. 36.
Pensum: fr. 82.
Muttines: fr. 99.
Petaurista: fr. 81. Picus Martius: fr. 97.
Nassiterna: fr. 41.
Pisere: fr. 27.
Nefarius: fr. 31.
Pistor: fr. 27.
Nemo noluerit: fr. 75.
Plaga: fr. 102.
Nenia: fr. 124.
Poenicus: fr. 124. Poenus: fr. 95.
Obsonium: fr. 58.
Cn. Pompeius Magnus: frr. 111, 112.
Obstringillare: fr. 110.
Pondo: frr. 64, 100, 101.
Occipitium: fr. 112.
Porca praecidanea: fr. 81.
Oppidum: fr. 109.
Porta Mugionis: fr. 22.
Optio: fr. 85.
Postica: fr. 24.
Oratores: fr. 72.
Praefica: fr. 124.
Osculum: fr. 35.
Praesul: fr. 4. Praetextata (toga): fr. 17.
Paces: fr. 89.
Praetor: fr. 67.
Palanga: fr. 95.
Proletarius: fr. 19.
Palatium: fr. 22.
Puera: fr. 78.
Palla: frr. 92, 102. Palliolum: fr. 52.
Regio (Urbis): fr. 18.
Pandere: fr. 9.
Res familiaris: fr. 23.
Panis: frr. 28, 29.
Reversio: fr. 112.
Pascere: fr. 29.
Ricinium: frr. 55, 92.
Passum: frr. 36, 39, 40.
Roma: frr. 63, 64, 99.
Pastillus: fr. 29.
Rorarius: fr. 86.
Patella: fr. 43. Patena: fr. 43.
Sacciperio: fr. 10.
Patera: fr. 46.
Salinus: fr. 43.
Paupertas: frr. 3, 6.
Sapa: frr. 36, 38.
560
m. terenzio varrone, de vita populi romani
Sanguinulentus: frr. 116, 117.
Tiberis: fr. 104.
Saucius: fr. 113.
Tina: fr. 44.
Savium: fr. 35.
Titio: fr. 60.
Scutum: fr. 87.
Toga: frr. 17, 50.
Seditio: fr. 116.
Toral: frr. 11, 26.
Segestria: fr. 26.
Toreuta: fr. 103.
Senatuis (gen. sing.): fr. 98.
Torques: fr. 64.
C. Sentius: fr. 118.
Torum: fr. 26.
Severitas: fr. 77.
Tripes: fr. 103.
Sexagenarios de ponte deicere: fr. 70.
Trulleum: fr. 41.
Sextarius: fr. 46.
Tullus Hostilius: fr. 22.
Sicilia: fr. 99.
Tunica: frr. 51, 53.
Simpuvium: fr. 46. Sinus: frr. 46, 47.
Undulata (toga): fr. 17.
Spinus alba: fr. 59.
Urnula: fr. 48.
Sporta: fr. 58.
Uter: fr. 44.
Stipendium: fr. 71. Strophium: fr. 53.
Vas: frr. 44 (fortasse), 102.
Subucula: frr. 51, 52.
Veles: fr. 81.
Sumtus: fr. 59.
Veliae: fr. 22.
Supervacaneus (sost.): fr. 83.
Verbena: fr. 73
Supervacaneus (agg.): fr. 107.
Verbenarius: fr. 73.
Supervacuus: fr. 107.
Verbex: fr. 20.
Sybaritanus: fr. 103.
Vestimentum: fr. 50. Victuis (gen. sing.): fr. 23.
Tabella: fr. 1.
Villa: fr. 119.
Taberna: fr. 76.
Viritim: fr. 18.
Tabulinum: fr. 25. Tellus: fr. 81.
Zona: fr. 53.
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Ringraziamenti
In conclusione, vorrei ringraziare di cuore quanti, con il loro fiducioso sostegno, i loro preziosi suggerimenti, la continua e appassionata attività di revisione, le dotte e illuminanti discussioni, la vigile guida e il vivo interesse per gli stimolanti “enigmi” posti dai frammenti del de vita, hanno ispirato e seguito la lunga gestazione di questo volume: i professori e i ricercatori dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore che hanno avuto la pazienza di accompagnarmi nelle mie ricerche su Nonio e Varrone. La mia gratitudine va in particolare a Giulia Ammannati, Emanuele Berti, Rolando Ferri, Francesca Lechi, Cesare Letta, Gianfranco Lotito, Gianpiero Rosati e Ernesto Stagni, insostituibili fautores e patroni. Questo saggio non sarebbe mai venuto alla luce senza l’aiuto e l’incalcolabile contributo di due maestri d’eccezione: Gian Biagio Conte e Giuliano Ranucci, ai quali dedico il mio lavoro con l’affetto e la riconoscenza di sempre. Antonino Pittà
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Finito di stampare nel mese di giugno 2015 da IMPRESSUM - Marina di Carrara (MS) per conto di Pisa University Press