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Italian Pages 656 [658] Year 2020
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LaLa Costituzione, Costituzione, unun modello modello di di lingua lingua Come Come scrivere scrivere e parlare e parlare nei nei diversi diversi contesti contesti Il Il confronto confronto con con le le lingue lingue antiche antiche e modernea e modernea Esercitarsi Esercitarsi per per l’Invalsi l’Invalsi e l’esame e l’esame di di Stato Stato Didattica Didattica inclusiva inclusiva e alta e alta leggibilità leggibilità
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Silverio Silverio Novelli NovelliTommaso TommasoMarani MaraniRoberto RobertoTartaglione Tartaglione a. a. giardina giardina LO LO g. g.sabbatucci sabbatucci DEL DEL v.v.vidotto vidotto LE LERAGIONI RAGIONIDELLA DELLAstoria storia
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Alternanza Alternanza Scuola Scuola Lavoro Lavoro in in classe classeISBN ISBN 978-88-421-1651-6 978-88-421-1651-6 a disposizione a disposizione degli degli studenti studenti susu richiesta richiesta deldel docente docente Materiali Materiali per per la la didattica didattica e la e la verifica verificaISBN ISBN 978-88-421-1793-3 978-88-421-1793-3
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ITALIANO ITALIANO
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LE STRADE STRADE DEL DEL PENSIERO PENSIERO LE
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CLIL CLIL Activities Activities forfor Philosophy Philosophy per per il III il III anno annoISBN ISBN 978-88-421-1720-9 978-88-421-1720-9 CLIL CLIL Activities Activities forfor Philosophy Philosophy per per il IV il IV anno annoISBN ISBN 978-88-421-1721-6 978-88-421-1721-6 CLIL CLIL Activities Activities forfor Philosophy Philosophy per per il V il V anno annoISBN ISBN 978-88-421-1722-3 978-88-421-1722-3
a. giardina giardina a. LOVelotti SPAZIO DEL TEMPO a.Alessandro giardina D. Cont i Stefano LO SPAZIO DEL g. sabbatucci LOVelotti SPAZIO DEL TEMPO TEMPO g. sabbatucci Alessandro D. Cont i Stefano g. sabbatucci LE RAGIONI DELLA storia v. vidotto LE RAGIONI DELLA storia v. LE RAGIONI DELLA storia v. vidotto vidotto
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In copertina: Manifesto pubblicitario per la tratta Genova-Napoli-New York della compagnia Navigazione Generale Italiana, part., fine XIX sec. In copertina: Manifesto pubblicitario per la tratta Genova-Napoli-New York della compagnia Navigazione Generale Italiana, part., fine XIX sec.
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Filosofia Filosofia oltre. oltre. Percorsi Percorsi interdisciplinari interdisciplinari perper l’Esame l’Esame di di Stato Stato perper il III il III anno anno ISBN ISBN 978-88-421-0000-0 978-88-421-0000-0 Filosofia Filosofia oltre. oltre. Percorsi Percorsi interdisciplinari interdisciplinari perper l’Esame l’Esame di di Stato Stato perper il IV il IV anno anno ISBN ISBN 978-88-421-0000-0 978-88-421-0000-0 Filosofia Filosofia oltre. oltre. Percorsi Percorsi interdisciplinari interdisciplinari perper l’Esame l’Esame di di Stato Stato perper il Vil anno V anno ISBN ISBN 978-88-421-1804-6 978-88-421-1804-6
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Manuale Manuale digitale digitale 1 1 Contenuti Contenuti digitali digitali ISBN ISBN 978-88-421-1789-6 978-88-421-1789-6 Manuale Manuale digitale digitale 2 2 Contenuti Contenuti digitali digitali ISBN ISBN 978-88-421-1790-2 978-88-421-1790-2 Manuale Manuale digitale digitale 3 3 Contenuti Contenuti digitali digitali ISBN ISBN 978-88-421-1791-9 978-88-421-1791-9
sandro D. Cont i Stefano Velotti STRADE DEL PENSIERO STRADE DEL PENSIERO
Manuale Manuale cartaceo cartaceo 3 3 Manuale Manuale digitale digitale 3 (scaricabile) 3 (scaricabile) Contenuti Contenuti digitali digitali ISBN ISBN 978-88-421-1785-8 978-88-421-1785-8
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IL DIL D
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IL DIL D
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Manuale Manuale digitale digitale Volume Volume 1 +1 Guida + Guida all’Educazione all’Educazione + Contenuti +studenti Contenuti digitali digitali ISBN ISBN 978-88-421-1808-4 978-88-421-1808-4 Grazie Grazie acivica diBooK acivica diBooK studenti e docenti e docenti possono possono fruire fruire direttamente direttamente deidei contenuti contenuti digitali digitali di 978-88-421-1809-1 di Libro+Internet, Libro+Internet, accedere accedere all’Aula all’Aula digitale digitale e leggere e leggere tutti tutti i libri i libri Volume Volume 2 +2 Contenuti + Contenuti digitali digitali ISBN ISBN 978-88-421-1809-1 Elementi Elementi della della esclusiva esclusiva Biblioteca Biblioteca digitale. digitale. di di geografia geografia Volume Volume 3 +3 CLIL + CLIL History History Activities Activities perper il Vilanno V anno + Contenuti + Contenuti digitali digitaliISBN ISBN 978-88-421-1810-7 978-88-421-1810-7
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Manuale Manuale cartaceo cartaceo Manuale Manuale digitale digitale indivisibili indivisibili Euro Euro 31,00 31,00 (i.i.) (i.i.)
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LIBRO LIBRO IN CHIARO IN CHIARO
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con con la la GRAMMATICA GRAMMATICA IN IN TASCA TASCA
Edizione Edizione con con Laboratorio Laboratorio di di Comunicazione Comunicazione e Scrittura e Scrittura
LEGGERE LEGGERELELEFONTI FONTISCRITTE SCRITTE E EICONOGRAFICHE ICONOGRAFICHE STORIA STORIAE E EDUCAZIONE EDUCAZIONECIVICA CIVICA
EDITORI EDITORILATERZA LATERZA EDITORI EDITORILATERZA LATERZA
Edizione STORIA STORIAE E Edizione con con lala con con Laboratorio Laboratorio EDUCAZIONE EDUCAZIONE AMBIENTALE AMBIENTALE GRAMMATICA GRAMMATICA didi Comunicazione Comunicazione ININ TASCA TASCA e Scrittura e Scrittura
GSV2.indb I
11/02/2020 12:17:33
IL MONDO OGGI
G R O E N L A N D I A (Danimarca)
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GERMANIA IRLANDA
GRAN BRETAGNA
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CUBA BELIZE HONDURAS GIAMAICA
GUATEMALA EL SALVADOR
NICARAGUA COSTA RICA PANAMA
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COLOMBIA
GUYANA SURINAME GUYANA FRANCESE
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SENEGAL
BURKINA FASO GUINEA SIERRA LEONE LIBERIA
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TOGO BENIN
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PARAGUAY CILE
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11/02/2020 12:17:40
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SVEZIA FINLANDIA
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ESTONIA LETTONIA LITUANIA POLONIA
ALBANIA GRECIA
LIBIA
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EGITTO
SUDAN
GEORGIA UZBEKISTAN KIRGHIZISTAN AZERBAIGIAN TURKMENISTAN TAGIKISTAN
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SUD REP. SUDAN CENTRAFICANA
REP. DEM. DEL CONGO
IRAQ GIORDANIA
IRAN
ZIMBABWE
NAMIBIA BOTSWANA
PAKISTAN
KUWAIT
OMAN ERITREA YEMEN
NEPAL
GIAPPONE
BUTHAN
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MYANMAR BANGLA DESH
LAOS
THAILANDIA
GIBUTI ETIOPIA
VIETNAM
FILIPPINE
CAMBOGIA SRI LANKA MALASYA
SOMALIA
RUANDA BURUNDI MAL AW I
TANZANIA
ZAMBIA
COREA DEL SUD
AFGHANISTAN
QATAR ARABIA SAUDITA
UGANDA KENYA
ANGOLA
COREA DEL NORD C I N A
SIRIA
CAMERUN A
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NIGER
LIBANO ISRAELE
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11/02/2020 12:17:41
© 2020, Gius. Laterza & Figli, Bari-Roma Prima edizione 2020
L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.clearedi.org.
Eventi chiave e Personaggi: Emma Ansovini, Francesco Buscemi, Costanza Calabretta, Alessio Gagliardi, Ilenia Rossini, Monica Turi. Leggere le fonti iconografiche: Elena Musci. Leggere una carta storica: Maria Angela Binetti, Gaetano Pellecchia (testi, infografica, didattica); Pietro Giannotti, Luisa Iezzi (cartografia). Storia e educazione civica. Laboratorio: Francesco Buscemi, Francesco Calzolaio, Ilenia Rossini; Maria Angela Binetti (didattica). Arte e storia: Francesco Buscemi; Maria Angela Binetti (Piste di lavoro). Ricordare l’essenziale, Verificare le conoscenze, Competenze in azione: Maria Angela Binetti, Elena Musci. Storia e educazione ambientale. Dossier: Francesco Buscemi, Costanza Calabretta, Ilenia Rossini; Maria Angela Binetti (Laboratorio di educazione ambientale). Fare storia: Costanza Calabretta (Unità 1 e 5), Ilenia Rossini (Unità 2 e 6), Matteo Stefanori (Unità 3 e 4). Guida allo studio, Palestra Invalsi, Lavorare sui documenti e sulla storiografia. Verso l’esame: Gianluca Gatti, Elena Musci. Guida alla prima prova dell’Esame di Stato: Annalisa Bianco. Iconografia: Linda Fiorentino.
Servizi editoriali a cura di Netphilo Publishing srl. Copertina a cura di Anastasia Marano. Progetto grafico a cura di Silvia Placidi/Grafica Punto Print srl. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste. Finito di stampare nel febbraio 2020 da Sedit 4.zero srl - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-421-1809-1 Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it
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Indice del volume UNITÀ1 L’Europa del ’700: società, poteri, cultura
CHIAVE DI LETTURA
1
La società di ancien régime
2
1
La «rivoluzione» demografica
2
2
Famiglia, matrimonio e figli
4
3
Il mondo delle campagne: feudalità e rivolte
6 7
CAPITOLO1
EXTRA ONLINE
LEGGERE LE FONTI
4
Diritti del signore feudale
La rivoluzione agricola e le nuove colture LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 1
Mr e Mrs Andrews, 1750 ca.
Thomas Gainsborough,
9 11
5
L’industria rurale e l’economia industriosa
12
6
Gerarchie sociali e potere politico
14 15
LE PAROLE DELLA STORIA
7
Ceto/classe
Il problema della povertà
Storiografia S. Ciriacono, Il caso inglese
16
ARTE E STORIA
La dura realtà contadina nell’arte del ’700
19
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
20 20 21
Focus Il secolo della vita • I progressi della medicina: la vaccinazione
Laboratorio dello storico La storia moderna e le sue fonti
EXTRA ONLINE
Gli Stati e le guerre del ’700
22
1
L’assolutismo in Francia
22
2
I limiti dell’egemonia francese
26
3
La rivoluzione del 1688-89 in Inghilterra
29
CAPITOLO2
EXTRA ONLINE
LEGGERE LE FONTI
Il «Bill of Rights» (1689) Monarchia costituzionale
LE PAROLE DELLA STORIA
30 31
4
Verso il governo parlamentare in Gran Bretagna
32
5
Le ragioni della guerra
34
6
L’ascesa della Prussia
38
7
La Russia da Pietro il Grande a Caterina II
40 40
PERSONAGGI
8
Caterina II. La vita e gli amori di una sovrana riformatrice
I risultati di cento anni di guerre
Storiografia G. Ruocco, Il potere di Luigi XIV
42
LEGGERE UNA CARTA STORICA
L’Europa del ’700
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46
12/02/2020 16:55:32
VI
Indice del volume
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
CAPITOLO3
Eventi La battaglia di Rossbach
Storia e Cinema Barry Lyndon di S. Kubrik
Il Libro N. Elias, La società di corte
Lezioni attive Parlamentarismo e assolutismo a confronto
48 49 51 EXTRA ONLINE
La nuova scienza e l’Illuminismo
52
La rivoluzione scientifica
52
EXTRA ONLINE
1
EVENTI CHIAVE
2
Il processo a Galilei
J. Locke, Il diritto di resistenza
56
Un grande movimento intellettuale: l’Illuminismo
56 57 58
Tolleranza LE PAROLE DELLA STORIA Opinione pubblica LE PAROLE DELLA STORIA
4
Fare storia Verso una nuova scienza
55
Il pensiero politico LEGGERE LE FONTI
3
53
Gli illuministi francesi e l’Enciclopedia Voltaire e la battaglia contro l’oscurantismo LEGGERE LE FONTI J.J. Rousseau, Patto sociale, sovranità, governo PERSONAGGI
59 60 62
5
Le nuove scienze e l’Illuminismo in Europa
63
6
Libri e pubblico: la nuova circolazione della cultura
66
7
Il riformismo dei sovrani illuminati
68
8
Le riforme in Italia
72
LEGGERE UNA CARTA STORICA
Politica e circolazione del sapere nell’Illuminismo
Storiografia R. Chartier, Una rivoluzione della lettura Storiografia L. Hunt, Romanzi ed empatia
74
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
Che cosa sono i diritti naturali?
76
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
79 80 81
Focus L’Italia del Grand Tour • Vedere da vicino: microscopio e cannocchiale • Le società
letterarie e scientifiche in Italia • Libero mercato e benessere sociale: Adam Smith
Lezioni attive Illuminismo e illuministi
EXTRA ONLINE
FARE STORIA STORIOGRAFIA 1 STORIOGRAFIA 2 STORIOGRAFIA 3 STORIOGRAFIA 4
GSV2.indb VI
Agricoltura, industria e nuovi consumi nel ’700
82
E. Le Roy Ladurie, Cattivi raccolti e carestie R. Sarti, Le nuove colture P. Malanima, Il funzionamento dell’industria a domicilio J. de Vries, La rivoluzione industriosa
82 83 84 85
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
86
11/02/2020 12:17:41
Indice del volume
STORIOGRAFIA 5 STORIOGRAFIA 6 STORIOGRAFIA 7 DOCUMENTO 8 STORIOGRAFIA 9
STORIOGRAFIA 10 STORIOGRAFIA 11 STORIOGRAFIA 12
DOCUMENTO 13 STORIOGRAFIA 14 DOCUMENTO 15 STORIOGRAFIA 16
DOCUMENTO 17 DOCUMENTO 18 DOCUMENTO 19 DOCUMENTO 20 STORIOGRAFIA 21 STORIOGRAFIA 22
Nuove gerarchie sociali e marginalità
87
G. Ricuperati • F. Ieva, La nobiltà europea: un ceto eterogeneo W. Rösener, I contadini fra est e ovest dell’Europa W. Doyle, La borghesia La fondazione dell’Hôpital général M. Foucault, La grande reclusione
87 88 89 90 91
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
92
Condizione femminile e infanzia
93
A. Bellavitis, Il lavoro delle donne PALESTRA INVALSI D. Lombardi, Ruolo materno e immagine della donna H. Cunningham, Una nuova idea dell’infanzia
93 94 95
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
96
Due modelli di monarchia a confronto
97
Luigi XIV, I Mémoires W. Reinhard, Il mito del monarca L’Act of Settlement G. Garavaglia, La monarchia costituzionale inglese
97 98 99 100
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
101
Le idee e le conquiste dell’Illuminismo
102
Immanuel Kant, Una definizione dell’Illuminismo Montesquieu, Luigi XIV visto dal persiano Rica Voltaire, La tolleranza religiosa Cesare Beccaria • Pietro Leopoldo di Toscana, Le riforme della giustizia A. Trampus, Il diritto alla felicità PALESTRA INVALSI D. Outram, Illuminismo e monarchia
102 103 104 105 106 107
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
108
UNITÀ2 Civiltà e mercati oltre l’Europa CAPITOLO4
VII
Imperi e regni in Asia e in Africa
CHIAVE DI LETTURA
109
110 EXTRA ONLINE
1
Civiltà a confronto
110
2
Il declino dell’Impero ottomano e la parabola safavide
113 116
EVENTI CHIAVE
L’assedio di Vienna e la fine dell’espansionismo ottomano
3
L’India dell’Impero Moghul
118
4
La Cina dei Qing
120 121 122
Confucianesimo I gesuiti in Cina
LE PAROLE DELLA STORIA LEGGERE LE FONTI
GSV2.indb VII
Storiografia J. Stoye, 12 settembre 1683: Vienna è salva Storiografia A. Wheatcroft, Dalla guerra all’alleanza: gli sviluppi del confronto tra turchi e austriaci
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Indice del volume VIII
5
6
Il Giappone dei Tokugawa: centralizzazione e isolazionismo
123
Civiltà e commerci dell’Africa
125
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
128 128 129
Personaggi Matteo Ricci, un gesuita in Cina
Laboratorio dello storico Come fare storia dell’Africa
130
1
Commerci e colonie europee in Asia e America
130
2
Lo Stato cristiano-sociale dei gesuiti
133
3
La tratta degli schiavi e il commercio triangolare atlantico Mercanti di schiavi a Gorea LEGGERE LE FONTI Uno schiavo racconta LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 2
4
L’egemonia britannica e la conquista dell’Australia PERSONAGGI
Cook e l’esplorazione dell’emisfero australe
Storiografia Ch.H. Parker, Una prospettiva globale: come studiare le società in relazione tra loro
139 140
Conquiste e ambiente
142
6
Gli europei allo specchio: il confronto culturale
145 145
Selvaggio
EXTRA ONLINE
135 136 138
5
LE PAROLE DELLA STORIA
Storiografia F.C. Hsia, I Gesuiti nella Cina imperiale e la diffusione della scienza europea
EXTRA ONLINE
L’espansione coloniale europea nel ’700
CAPITOLO5
Documento Gottfried W. Leibniz, L’antica scienza dei cinesi: l’artimetica binaria
LEGGERE UNA CARTA STORICA
L’economia europea alla metà del ’700
148
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
La tutela della biodiversità
150
ARTE E STORIA
STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER
GSV2.indb VIII
Scambi artistici: l’altra faccia del colonialismo europeo
153
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
154 154 155
Il Libro A.W. Crosby, Imperialismo ecologico
Storia e Cinema Mission di Joffé
Storia e Geografia Il viaggio degli schiavi
Focus Prodotti e mode “coloniali”: caffè e tè
EXTRA ONLINE
L’imperialismo ecologico: piante, animali e malattie
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Indice del volume
IX
FARE STORIA Il commercio degli schiavi: la tratta atlantica e la rivoluzione commerciale STORIOGRAFIA 23 STORIOGRAFIA 24 STORIOGRAFIA 25 STORIOGRAFIA 26
STORIOGRAFIA 27 STORIOGRAFIA 28 STORIOGRAFIA 29
STORIOGRAFIA 30 STORIOGRAFIA 31 DOCUMENTO 32 STORIOGRAFIA 33
156 157 158
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
161
Cina e Europa: il problema della inferiorità tecnologica
161
K. Pomeranz, Europa e Cina: sviluppo tecnologico alla vigilia della rivoluzione industriale J. Osterhammel, L’industria della seta D.S. Landes, I cinesi e l’orologio
161 163 164
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
165
L’irresistibile fascino dell’Oriente ottomano
165
J. Goodwin, L’autogoverno del Millet e il sincretismo religioso S. Faroqhi, L’Impero ottomano e l’Europa: commerci e confronti culturali Mary Wortley Montagu, Le donne ottomane F. Cardini, Caffè, tulipani e Wunderkammern PALESTRA INVALSI
165 167 168 169
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
170
UNITÀ3 L’età delle rivoluzioni CAPITOLO6
156
L.A. Lindsay, Perché gli africani vendevano gli schiavi? W. Reinhard, La logistica del commercio degli schiavi K. Polanyi, Le conseguenze della tratta. Il caso del Dahomey H.S. Klein, I vantaggi economici della tratta atlantica e la lotta per l’abolizionismo PALESTRA INVALSI
La rivoluzione americana
160
171 CHIAVE DI LETTURA
172 EXTRA ONLINE
1
Le colonie britanniche nell’America del Nord EVENTI CHIAVE
2
I Padri Pellegrini e la fondazione della Nuova Inghilterra
Una rivoluzione per l’indipendenza Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti LEGGERE LE FONTI La «Dichiarazione di indipendenza» degli Stati Uniti PERSONAGGI
175 178 180
3
La guerra civile e gli ideali repubblicani
181
4
La Costituzione e la democrazia americane Costituzione
182 184
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
186 186 187
LE PAROLE DELLA STORIA
Storia e Geografia Le rivoluzioni atlantiche
GSV2.indb IX
172 174
Lezioni attive Diritti e rivoluzioni. Gli Stati Uniti d’America e la Repubblica francese
Storiografia G. Abbattista, La società nordamericana alla vigilia della rivoluzione
EXTRA ONLINE
11/02/2020 12:17:41
Indice del volume
CAPITOLO7 1
La Rivoluzione francese e Napoleone La crisi finanziaria e gli Stati generali LEGGERE LE FONTI
2
188
Rivoluzione EVENTI CHIAVE Il popolo irrompe sulla scena: la presa della Bastiglia LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 3 Anonimo, “A Versailles!”, 5 octobre 1789 LE PAROLE DELLA STORIA
191 192 193 195
3
Le quattro fasi della Rivoluzione
196
4
La rivoluzione liberale e borghese (1789-91)
197
5
La rivoluzione popolare e democratica (1792-93)
200
6
La dittatura giacobina (1793-94)
203 204
Maximilien Robespierre, Democrazia e terrore
7
Continuità e stabilizzazione: il Direttorio (1794-97)
205
8
L’espansione rivoluzionaria
208
9
Bonaparte e le campagne d’Italia
209
Il colpo di Stato e la svolta autoritaria di Bonaparte
212
10
11
Il Consolato e la costruzione dello Stato napoleonico Napoleone, l’uomo del secolo LE PAROLE DELLA STORIA Codice
PERSONAGGI
12
L’impero napoleonico e l’Europa LEGGERE LE FONTI
EXTRA ONLINE
188 190
Cahiers de doléances del Terzo stato
1789: l’avvio della Rivoluzione e la fine dell’ancien régime
LEGGERE LE FONTI
X
Napoleone Bonaparte, I proclami di Austerlitz
13
Il crollo dell’Impero
14
Rivoluzione e Impero: una duplice modernità
Storiografia M. Ozouf, La religione rivoluzionaria Fare storia La rivoluzione oltre i confini nazionali
213 214 216 217 219 223
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 4
La libertà o la morte, 1795 ca.
Jean-Baptiste Regnault,
225 226
Storiografia P. Gueniffey, L’invenzione del voto moderno
LEGGERE UNA CARTA STORICA
L’Europa sotto la dominazione francese
228
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
230
Lo Stato accentrato ARTE E STORIA
Salon e musei: la rivoluzione in mostra
233
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
235 236 238
Personaggi Robespierre, un rivoluzionario al potere Eventi chiave Austerlitz: la battaglia dei tre imperatori Il Libro G. Lefebvre, La grande paura del 1789 Storia e Geografia Le rivoluzioni atlantiche
GSV2_prime.indd X
Focus Un nuovo protagonista: il Terzo stato • Il controllo rivoluzionario dell’economia: caroviveri e calmieri • La Rivoluzione e l’arte • L’École Polytechnique
Laboratorio dello storico Le immagini come fonti e l’iconografia rivoluzionaria
EXTRA ONLINE
Storia e Letteratura Guerra e pace di Tolstoj Lezioni attive Diritti e rivoluzioni. Gli Stati Uniti d’America e la Repubblica francese
12/02/2020 16:53:07
Indice del volume
CAPITOLO8
La prima rivoluzione industriale
XI
239 EXTRA ONLINE
1
I caratteri della rivoluzione industriale
239
2
Perché in Gran Bretagna?
240
3
Innovazioni e sviluppo tecnologico
242 244
PERSONAGGI
James Watt e la macchina a vapore
4
Cotone e ferro
245
5
La nascita della fabbrica e la condizione dei lavoratori
247 248 249
Divisione del lavoro LEGGERE LE FONTI Le drammatiche condizioni della classe operaia LE PAROLE DELLA STORIA
6
L’industrializzazione dell’Europa continentale e lo sviluppo delle ferrovie
Storiografia J. Mokyr, Una rivoluzione tecnologica
Storiografia E.J. Hobsbawm, La cultura operaia
251
LEGGERE UNA CARTA STORICA
L’Europa industriale
254
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
256 256 257
Focus Invenzioni e brevetti • Industria tessile e filatura meccanica • La tecnologia siderurgica
• Il lavoro minorile • La locomotiva a vapore • Arte e industria
Lezioni attive Innovazioni industriali e di organizzazione del lavoro
EXTRA ONLINE
FARE STORIA
STORIOGRAFIA 34 DOCUMENTO 35 STORIOGRAFIA 36 DOCUMENTO 37 STORIOGRAFIA 38 STORIOGRAFIA 39 STORIOGRAFIA 40
STORIOGRAFIA 41 STORIOGRAFIA 42 STORIOGRAFIA 43 DOCUMENTO 44 STORIOGRAFIA 45 DOCUMENTO 46 DOCUMENTO 47
GSV2.indb XI
Stati Uniti e Francia: nuove idee e nuovi modi di fare politica
258
L. Hunt, 1776 e 1789: perché i diritti devono essere enunciati in una Dichiarazione? I primi dieci emendamenti alla Costituzione degli Stati Uniti G.S. Wood, L’idea di uguaglianza Diritti e doveri a confronto: le Dichiarazioni francesi del 1789 e del 1793 A. Trampus, I rivoluzionari e la felicità pubblica F. Furet, Il club dei giacobini J. Israel, Il Terrore
258 259 260 261 262 263 264
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
265
Gli uomini e le donne nelle rivoluzioni
266
A. Testi, Una nuova società americana? G. Abbattista, La rivoluzione e i suoi limiti: gli esclusi PALESTRA INVALSI L. Hunt. La politicizzazione della vita quotidiana François-Auguste Chateaubriand, Una seduta dell’Assemblea nazionale E.J. Mannucci, Le donne soldato Olympe de Gouges, La dichiarazione dei diritti delle donne Matrimonio e divorzio nel Codice civile
266 267 268 270 270 271 272
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
273
11/02/2020 12:17:42
Indice del volume
STORIOGRAFIA 48 STORIOGRAFIA 49 STORIOGRAFIA 50 STORIOGRAFIA 51 STORIOGRAFIA 52 STORIOGRAFIA 53
La nascita dell’industria moderna
274
P.K. O’Brien, Perché l’Inghilterra? D.S. Landes, Il mercato inglese PALESTRA INVALSI R.C. Allen, L’industria del cotone J. Mokyr, La nascita della fabbrica moderna S. Mosley, Manchester: la prima città industriale C.M. Cipolla, La fine del mondo che fu
274 275 276 277 278 279
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
280
UNITÀ4 Nazione e libertà CAPITOLO9
XII
Politica, società e cultura nell’800
281 CHIAVE DI LETTURA
282 EXTRA ONLINE
1
Stato moderno e istituzioni politiche
282
2
Il Romanticismo
284
3
Nazione e nazionalismi
287 288
LEGGERE LE FONTI
Johann Gottlieb Fichte, La nazione tedesca
4
Il pensiero liberale e il pensiero democratico
289
5
Il cattolicesimo liberale e il cattolicesimo sociale
291
6
Il socialismo
292
7
Marx ed Engels LE PAROLE DELLA STORIA
294 295 296
La questione operaia
297
Socialismo/Comunismo LEGGERE LE FONTI Karl Marx, Friedrich Engels, La società senza classi 8
Fare storia Una nuova idea di Nazione Storiografia R. Romanelli, La nascita di nuove ideologie
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
I diritti e le associazioni dei lavoratori
299
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
301 302 304
Personaggi George Gordon Byron, eroe romantico
CAPITOLO10 1
Dalla Restaurazione alle rivoluzioni in Europa La Restaurazione e la nuova carta d’Europa LEGGERE LE FONTI
GSV2.indb XII
Focus L’École Polytechnique • Povertà e controllo sociale
Klemens W.L. von Metternich, Libertà e ordine
EXTRA ONLINE
305
EXTRA ONLINE
305 307
2
Il ritorno all’ordine e i limiti della Restaurazione
309
3
Aristocrazia e borghesia nell’Europa restaurata
311
4
I moti rivoluzionari del 1820-21
312
11/02/2020 12:17:42
Indice del volume XIII
5
L’indipendenza della Grecia
314
6
I moti rivoluzionari del 1830-31
316
7
L’Europa tra liberalismo e autoritarismo
317 319
LE PAROLE DELLA STORIA
Liberismo/protezionismo
8
Le rivoluzioni del 1848-49
9
Il ’48 in Francia. Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero
10
320
Il ’48 nell’Europa centrale LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 5
Philipp Veit, Germania, 1848
Storiografia M. Rapport, Il 1848
322
Storiografia R. Price, Le eredità del ’48
325 326
LEGGERE UNA CARTA STORICA
328
I moti insurrezionali in Europa STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
I diritti di cittadinanza
330
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
332 333 335
Focus La Carboneria • Intellettuali e rivoluzioni
• Le Corn Laws • Le barricate
Lezioni attive La Restaurazione. Politica, miti e spirito del tempo
Le rivoluzioni latino-americane e lo sviluppo degli Stati Uniti
336
1
Le Americhe tra indipendenza e sviluppo
336
2
L’indipendenza dell’America Latina
336 339 340
CAPITOLO11
PERSONAGGI
Simón Bolívar, el Libertador Simón Bolívar, I vantaggi dell’unità politica
LEGGERE LE FONTI
3
Dinamismo economico e democrazia negli Stati Uniti
341
4
L’espansione degli Stati Uniti a ovest e a sud
343 343
LE PAROLE DELLA STORIA
Frontiera
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE Personaggi Tocqueville e la democrazia americana
EXTRA ONLINE
Storiografia L. Zanatta, L’indipendenza dell’America Latina e la politica moderna
346 346 347
Focus La conquista del West
EXTRA ONLINE
Il Risorgimento italiano
348
1
L’Italia e la questione nazionale
348
2
I moti del 1820-21 e del 1831
349
3
La penisola italiana tra arretratezza e sviluppo
351
4
Il progetto mazziniano
352 354
CAPITOLO12
EXTRA ONLINE
EXTRA ONLINE
PERSONAGGI
GSV2.indb XIII
Giuseppe Mazzini, il profeta della nazione
Storiografia L. Riall, Le ideologie nazionaliste
11/02/2020 12:17:42
Indice del volume XIV
5
Moderati, cattolici e federalisti LE PAROLE DELLA STORIA
356 358
Federalismo
6
Pio IX e il movimento per le riforme
360
7
Il ’48 italiano. La guerra contro l’Austria
361 363
PERSONAGGI
Giuseppe Garibaldi, il campione della nazione italiana
8
La sconfitta dei democratici italiani
364
9
Il patriottismo risorgimentale
366 367
LEGGERE LE FONTI
Costituzioni a confronto
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
CAPITOLO13
Il federalismo ieri e oggi
369
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
371 372 373
Storia e Letteratura Le confessioni d’un italiano di Nievo
Laboratorio dello storico Epistolari, memorie, diari
Focus Letteratura e Risorgimento • Il melodramma
Atlante I moti insurrezionali in Europa
Lezioni attive Immaginare la nazione italiana. Il Risorgimento
L’Unità d’Italia
374
Il Piemonte liberale del conte di Cavour
374 376
Storiografia C. Duggan, I patrioti italiani e l’Europa Storiografia S. Patriarca, Virtù e vizi degli italiani
EXTRA ONLINE
EXTRA ONLINE
1
PERSONAGGI
Cavour, l’artefice dell’Unità
2
La sconfitta dei repubblicani
377
3
L’alleanza franco-piemontese e la seconda guerra di indipendenza
378
LEGGERE LE FONTI
l’Europa
Camillo Benso di Cavour, La questione italiana e
LE PAROLE DELLA STORIA
4
Plebiscito
I Mille e la conquista del Mezzogiorno Giuseppe Cesare Abba, L’epopea garibaldina LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 6 Pietro Bouvier, Garibaldi e il maggiore Leggiero in fuga attraversano le paludi di Comacchio con Anita morente, 1864
LEGGERE LE FONTI
5
GSV2.indb XIV
382 385 386
L’Unità d’Italia: caratteri e limiti
387
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
389 389 391
Storia e Letteratura Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER
380 381
Focus Chi erano i Mille Lezioni attive Fare l’Italia: il processo di
unificazione e la nascita del Regno
Il paesaggio agrario italiano
Storiografia B. Croce, Il “sorgimento” Storiografia S. Patriarca, La rigenerazione morale degli italiani
EXTRA ONLINE
392
Le diverse Italie agricole, 392 Il paesaggio agrario del Nord e del Centro, 392 I cambiamenti nel Sud d’Italia, 394 La geografia del popolamento, 395 Il quadro attuale, 396 LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE 397
11/02/2020 12:17:42
Indice del volume
XV
FARE STORIA
STORIOGRAFIA 54 DOCUMENTO 55 DOCUMENTO 56 STORIOGRAFIA 57 DOCUMENTO 58 STORIOGRAFIA 59 DOCUMENTO 60 STORIOGRAFIA 61
STORIOGRAFIA 62 DOCUMENTO 63 DOCUMENTO 64 DOCUMENTO 65 STORIOGRAFIA 66 STORIOGRAFIA 67 STORIOGRAFIA 68 STORIOGRAFIA 69
Liberalismo, socialismo, nazionalismo: le origini delle ideologie contemporanee
398
N. Bobbio, Democrazia, liberalismo e socialismo Benjamin Constant, La libertà degli antichi e dei moderni John Stuart Mill, Il governo del popolo e la libertà dell’individuo D. Losurdo, Lotta di classe e indipendenza nazionale PALESTRA INVALSI George Gordon Byron, La Grecia e l’Italia dei romantici A. Campi, Definire la nazione Ernest Renan, «Una coscienza morale che si chiama nazione» A.-M. Thiesse, Le lingue nazionali
398 399 400 401 402 403 404 405
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
406
Risorgimento e Unità d’Italia. Le idee e il dibattito
407
A.M. Banti, La diffusione del patriottismo Giuseppe Mazzini, La necessità dell’insurrezione Massimo d’Azeglio, Il programma dei moderati Carlo Cattaneo, La soluzione federale L. Cafagna, Cavour e l’idea di progresso PALESTRA INVALSI L. Riall, Il mito di Garibaldi D. Beales • E.F. Biagini, Patriote straniere PALESTRA INVALSI R. Romeo, I valori dello Stato unitario
407 408 410 411 412 414 415 417
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
418
UNITÀ5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale 419
CHIAVE DI LETTURA
CAPITOLO14
Le nuove classi sociali
420
I caratteri della borghesia
420 422
EXTRA ONLINE
1
LEGGERE LE FONTI
2
Samuel Smiles, Una ideologia borghese: aiuta te stesso
La cultura del positivismo Progresso Darwin e la teoria evoluzionistica
LE PAROLE DELLA STORIA PERSONAGGI
3
Lo sviluppo dell’economia
425
4
La rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni
427
5
Dalle campagne alle città
430
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 7
di Londra sotto i viadotti ferroviari, 1872
6
dopo il risanamento, XIX sec.
7
Gustave Doré, I quartieri poveri
Quattro esempi di rinnovamento urbano: Parigi, Londra, Vienna e Chicago LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 8
GSV2.indb XV
423 423 424
Sezione di una strada di Parigi
La nascita del movimento operaio e la Prima Internazionale
Storiografia W. Schivelbusch, La stazione
433 434 434
Storiografia P. Villani, Il rinnovamento della città
436
Storiografia G. Zucconi, Parigi e Londra: due metropoli a confronto
11/02/2020 12:17:42
Indice del volume XVI
8
La Chiesa cattolica contro la modernità borghese
438
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
440 441 442
Il Libro Eric J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia Storia, società, cittadinanza La famiglia e le sue trasformazioni
CAPITOLO15
Focus La casa borghese e la donna • Il romanzo sociale • La comunicazione istantanea: il telegrafo
Lezioni attive Innovazioni industriali e di organizzazione del lavoro
La seconda rivoluzione industriale
EXTRA ONLINE
443 EXTRA ONLINE
1
Crisi e protezionismo
443
2
Acciaio, chimica ed elettricità
445 448
PERSONAGGI
3
Marie Curie, la scienziata che vinse due Nobel
Nuovi traguardi per la scienza medica LEGGERE LE FONTI
I nuovi ospedali
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 9
4
Ospedale Pammatone, Genova
La crescita demografica
449 451 452
Storiografia U. Wengenroth, L’età del carbone e dell’acciaio Storiografia G. Cosmacini, La medicina
452
LEGGERE UNA CARTA STORICA
Città, ferrovie, acciaio ed energia alla fine del XIX secolo
454
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
456
Medicina e sanità pubblica ARTE E STORIA
Disegnare col ferro: l’industria al servizio dell’architettura urbana
458
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
459 459 460
Storia e Letteratura La signora delle camelie di Dumas Focus Riprodurre la realtà: la nascita della
STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER
GSV2.indb XVI
fotografia • L’età dell’acciaio Storia e Ambiente I costi ambientali della rivoluzione industriale
Laboratorio dello storico L’archeologia industriale
EXTRA ONLINE
Lezioni attive Innovazioni industriali e di organizzazione del lavoro
Città e paesaggio urbano dopo le rivoluzioni industriali
11/02/2020 12:17:42
Indice del volume XVII
FARE STORIA STORIOGRAFIA 70 STORIOGRAFIA 71 DOCUMENTO 72 STORIOGRAFIA 73 STORIOGRAFIA 74
DOCUMENTO 75 STORIOGRAFIA 76 STORIOGRAFIA 77
STORIOGRAFIA 78 STORIOGRAFIA 79 STORIOGRAFIA 80 STORIOGRAFIA 81
Borghesia e classe operaia
461
J. Kocka, La cultura borghese A. Dewerpe, La fabbrica Émile Zola, Vita da minatori E.J. Hobsbawm, Coscienza di classe e cultura operaia PALESTRA INVALSI A.J. Mayer, I limiti dell’egemonia borghese
461 462 463 464 465
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
467
Le donne e i bambini nella società industriale dell’800
467
Intervista a due operaie D. Lombardi, Lavoro e maternità H. Cunningham, Contro il lavoro infantile
467 468 469
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
471
La seconda rivoluzione industriale
471
D.S. Landes, L’avvento dell’elettricità J. Osterhammel • N.P. Petersson, Un’economia mondiale A. Giuntini, Le ferrovie A. Cavallari, Il giornale di massa
471 472 474 475
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
476
UNITÀ6 Le grandi potenze e l’imperialismo CAPITOLO16
CHIAVE DI LETTURA
477
La politica di potenza
478
Le potenze continentali
478 480
EXTRA ONLINE
1
LE PAROLE DELLA STORIA
2
Potenza
Le guerre di Bismarck e l’unità tedesca PERSONAGGI
Bismarck, il cancelliere di ferro
3
La Comune di Parigi
485
4
L’Impero tedesco e la politica di Bismarck
486 490
LEGGERE LE FONTI
La Triplice alleanza
5
La Repubblica in Francia
490
6
Il liberalismo in Gran Bretagna
492 494
PERSONAGGI
La regina Vittoria, simbolo di un’epoca
7
La Russia tra arretratezza e modernizzazione
495
8
Gli Usa e il problema della schiavitù
496 497
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 10
GSV2.indb XVII
481 482
La vita di uno schiavo americano
Documento Frederick Douglass, La vita degli schiavi neri nel Sud Storiografia B. Levine, La democrazia multirazziale e i suoi problemi
11/02/2020 12:17:42
Indice del volume XVIII
9
La guerra di secessione e gli Stati Uniti potenza mondiale EVENTI CHIAVE
10
La battaglia di Gettysburg e la sconfitta sudista
La via giapponese alla modernità LE PAROLE DELLA STORIA
Modernizzazione
498 500 503 503
Storiografia R. Mitchell, Le donne bianche nella guerra civile americana
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
Il sistema parlamentare
506
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
508 508 510
Storia, società, cittadinanza Schiavitù vecchie e nuove
CAPITOLO17
Focus La morale vittoriana
EXTRA ONLINE
Laboratorio dello storico La fotografia
Gli imperi coloniali
511
L’imperialismo
511 511 513
EXTRA ONLINE
1
Imperialismo LEGGERE LE FONTI Joseph Rudyard Kipling, Il fardello dell’uomo bianco LE PAROLE DELLA STORIA
2
La conquista dell’Africa LEGGERE LE FONTI
Mark Twain, La colonizzazione e gli stermini nel Congo
514 517
3
Le guerre boere
519
4
La conquista dell’Asia
521
5
Gli europei in Cina
524
6
Il dominio coloniale
526
Storiografia A. Stephanson, Il razzismo nell’ideologia colonialista
Documento Joseph Conrad, L’“uomo preistorico”
LEGGERE UNA CARTA STORICA
Gli imperi coloniali tra fine ’800 e inizio ’900
528
ARTE E STORIA
Il fascino per l’esotico nella pittura di Gauguin
530
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
531 531 352
Storia e Geografia Il canale di Suez
STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER
GSV2.indb XVIII
Focus Il colonialismo culturale: le missioni • Progresso tecnologico e imperialismo
Economia coloniale e ambiente
EXTRA ONLINE
533
Imperialismo e ambiente, 533 Industrializzazione e deforestazione, 533 Il sistema delle piantagioni e le conseguenze sull’ambiente: il caso del Brasile, 533 L’impatto ambientale della diffusione del tè: le colonie inglesi in India, 533 L’economia di rapina. Il caso dell’Africa, 535 Dopo la decolonizzazione, 535 LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE 537
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Indice del volume XIX
CAPITOLO18
Governare l’Italia unita
539 EXTRA ONLINE
1
Demografia, economia e società LEGGERE LE FONTI
2
La classe politica e i primi provvedimenti legislativi LE PAROLE DELLA STORIA
3
539 541
Giuseppe Colombo, Milano industriale Accentramento/decentramento
Le rivolte contro l’Unità e il brigantaggio LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 11
Immagini del brigantaggio
542 544 545 546
4
L’economia e la politica fiscale
547
5
La conquista del Veneto e la presa di Roma
549 550
EVENTI CHIAVE
Roma capitale
6
Il governo della Sinistra
553
7
La crisi agraria e la politica economica protezionista
555
8
La politica estera e il colonialismo
557
9
Socialisti e cattolici
559 561
LEGGERE LE FONTI
10
Filippo Turati, La fondazione del Partito socialista
Crispi: rafforzamento dello Stato e tentazioni autoritarie PERSONAGGI
562 564
Francesco Crispi, democratico e autoritario
Storiografia F. Cammarano, Il movimento operaio e gli anarchici Storiografia M.G. Rossi, L’opposizione cattolica
LEGGERE UNA CARTA STORICA
566
Società ed economia nell’Italia unita STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
568
Il diritto di voto ARTE E STORIA
Arte e paesaggio agrario italiano. Il verismo e i macchiaioli
570
RICORDARE L’ESSENZIALE VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE COMPETENZE IN AZIONE
572 573 574
Eventi chiave L’avventura coloniale italiana: il disastro di Adua
Storia e Letteratura Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
Il Libro F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896
Focus Scuola e lingua nazionale • Il brigantaggio • L’industria della seta
Lezioni attive Fare l’Italia: il processo di unificazione e la nascita del Regno
EXTRA ONLINE
FARE STORIA STORIOGRAFIA 82 STORIOGRAFIA 83 STORIOGRAFIA 84 STORIOGRAFIA 85
STORIOGRAFIA 86
GSV2.indb XIX
Le grandi potenze e i loro imperi coloniali
575
P. Chiantera-Stutte, La nascita della geopolitica come scienza al servizio della politica R.F. Betts, Le cause del colonialismo W. Reinhard, Lo sfruttamento economico delle colonie N. Labanca, Gli aromi e i sogni somali PALESTRA INVALSI
575 576 577 578
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
580
Guerra di secessione e guerre coloniali
580
A. Testi, La guerra civile americana: una guerra totale
580
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Indice del volume
STORIOGRAFIA 87 STORIOGRAFIA 88
STORIOGRAFIA 89 STORIOGRAFIA 90 DOCUMENTO 91 STORIOGRAFIA 92 STORIOGRAFIA 93
STORIOGRAFIA 94 STORIOGRAFIA 95 DOCUMENTO 96 STORIOGRAFIA 97
DOCUMENTO 99 DOCUMENTO 98 STORIOGRAFIA 100 STORIOGRAFIA 101 STORIOGRAFIA 102
GUIDA ALLA PRIMA PROVA DELL’ESAME DI STATO
XX
D.R. Headrick, Armi e guerre coloniali T. Ballantyne • A. Burton, Modernità imperiale e ferrovie
582 583
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
584
La modernizzazione: una sfida per Italia e Giappone
584
R. Romanelli, Il centralismo liberale: origini e motivazioni C. Duggan, Crispi e il governo forte Federico De Roberto, Una campagna elettorale R. Caroli • F. Gatti, Centralizzazione del potere e politiche modernizzatrici nel Giappone Meiji M. Morishima, Confucianesimo e capitalismo in Giappone
585 586 587 588 589
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
590
Città e campagne nell’Italia postunitaria
590
F. Barbagallo, Napoli: una metropoli ancora europea V. Vidotto, Roma capitale d’Italia Antonio Gramsci, La rivoluzione agraria mancata R. Romeo, Critica alla tesi di Gramsci
591 592 593 594
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
595
Dopo l’Unità italiana: brigantaggio e “guerra per il Mezzogiorno”
595
Pasquale Villari, Il brigantaggio come problema sociale Francesco Saverio Nitti, La lunga storia del brigantaggio meridionale F. Molfese, Il brigantaggio come lotta di classe C. Pinto, La guerra civile per il Mezzogiorno A. Barbero, L’invenzione del lager di Fenestrelle
596 597 598 599 600
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME
601
PRIMA PROVA - TIPOLOGIA B 1. Il popolo in democrazia: mutazioni di un concetto di Giovanni Sartori Prova guidata 2. Della verità e dell’opinione di Michel de Montaigne Prova guidata 3. Top secret: lo spionaggio industriale in età moderna di Paolo Preto 4. L’illuminismo della parola “umanità” di Johann Gottfried Herder 5. Empatia e universalità dei diritti di Lynn Hunt 6. Mondo rurale e classi dirigenti nella storia d’Italia di Adriano Prosperi 7. In difesa dell’Illuminismo, nel XXI secolo di Steven Pinker
604 608 612 614 616 619 621
PRIMA PROVA - TIPOLOGIA C 1. Essere in grado di competere con gli strumenti della storia di Paolo Sorcinelli Prova guidata 2. Musica e idea nazionale di Christopher Duggan 3. La diminuzione – non percepita – della violenza nel mondo contemporaneo di Steven Pinker
623 624 626
GLOSSARIO
628
INDICE DEI NOMI
629
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura CHIAVE DI LETTURA
della popolazione che investe gran parte dell’Europa. Questa crescita demografica è il segnale inequivocabile del miglioramento del livello di vita della popolazione, determinato da una maggiore disponibilità di risorse alimentari e dalla riduzione delle epidemie. Nei paesi più coinvolti negli scambi commerciali (le Fiandre, l’Inghilterra) si assiste a uno sviluppo particolare dell’industria domestica che comporta un aumento dell’offerta di prodotti per il mercato, mentre nelle campagne inglesi si avvia una modernizzazione dell’agricoltura che è stata definita “rivoluzione agricola”.
Assolutismo e parlamentarismo Quello che chiamiamo qui ’700 non è un periodo di cento anni precisi, definiti dall’inizio e dalla fine del secolo XVIII. È invece un arco temporale più lungo che inizia nel 1660 e si conclude tra il 1775 e il 1789 alla vigilia delle grandi rivoluzioni, quella americana, quella francese e quella industriale, che chiudono l’età moderna e danno origine all’età contemporanea. Il ’700 coincide prima con il massimo sviluppo e poi con la crisi dell’assolutismo, il sistema di governo prevalente nell’Europa continentale, nel quale la sovranità dello Stato coincide con quella del monarca. Ma è anche il periodo in cui si viene formando in Gran Bretagna il sistema parlamentare, una forma di governo che pone limiti precisi ai poteri del sovrano e li trasferisce al Parlamento.
GLI EVENTI
La svolta culturale e il riformismo illuminato A contraddire l’immobilità dell’ancien régime intervenne anche la rivoluzione culturale dell’Illuminismo radicata sulle lontane premesse di quella rivoluzione scientifica che, nei due secoli precedenti, aveva via via sgretolato la concezione aristotelica della natura e contraddetto la visione della storia e dell’uomo fondata sulla Bibbia. Accanto ai temi innovativi delle scienze della natura e del pensiero politico – da Locke a Montesquieu, da Rousseau a Beccaria –, quello che colpisce è la capillarità della circolazione delle nuove idee che coinvolge tutti i centri culturali dell’Europa e che sollecita al riformismo molti sovrani.
La società e l’economia di ancien régime Con ancien régime, o “antico regime”, i rivoluzionari francesi chiamarono il sistema politico travolto dalla Rivoluzione francese del 1789. A caratterizzarlo, la sopravvivenza del feudalesimo e dei privilegi del clero e una rigida separazione tra i diversi ceti che rendeva ardua ogni forma di mobilità sociale verso l’alto. Tuttavia emergono nel ’700 alcuni fattori di trasformazione che segnano questo periodo. Il primo è l’aumento
L’EUROPA NEL 1700
1740-80 Maria Teresa imperatrice d’Austria
XVII secolo Si diffondono le enclosures nelle campagne inglesi
1632 Galilei pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo
1600
1630
1643-1715 Regno di Luigi XIV in Francia
1660
1682-1725 Regno di Pietro il Grande in Russia
1688-89 La seconda rivoluzione in Inghilterra 1687 Newton enuncia la legge di gravitazione universale
1690
1762-96 Caterina II imperatrice di Russia
1740-86 Federico II re di Prussia
1764 Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene 1751-72 Pubblicazione dell’Enciclopedia di d’Alembert e Diderot
1720NEL 1700 ’EUROPA
1750
1780-90 Giuseppe II imperatore d’Austria 1776 Adam Smith teorizza i princìpi economici del liberismo
1780
1810
Asburgo di Spagna Asburgo d’Austria
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C1 La società di ancien régime EXTRA ONLINE
1
Focus Il secolo della vita • I progressi della medicina: la vaccinazione
Laboratorio dello storico La storia moderna e le sue fonti
La «rivoluzione» demografica L’ ANCIEN RÉGIME
Con l’espressione ancien régime (“antico regime”) si indica il sistema politico esistente in Francia prima della Rivoluzione del 1789. Coniata dagli stessi rivoluzionari francesi a partire dal 1790 ed estesasi in seguito a tutti gli aspetti della vita economica e sociale europea, l’espressione ancien régime è divenuta sinonimo di società tradizionale, preindustriale, anteriore cioè a tutti i fenomeni di modernizzazione economica e politica determinati dalla rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese. Dal momento che tale modernizzazione ebbe tempi assai lunghi, numerose sopravvivenze dell’ancien régime – nelle strutture produttive come negli stili di vita e nelle mentalità – hanno accompagnato questa transizione lungo tutto l’800 e anche oltre. Considerata tendenzialmente immobile, la società di ancien régime in realtà subì già nel corso del ’700 alcune profonde trasformazioni. LA CRESCITA DEMOGRAFICA IN EUROPA Il fenomeno più ampio e rilevante fu l’avvio di una crescita demografica che non si sarebbe interrotta, malgrado un brusco rallentamento nel ’900. Tra l’inizio e la fine del ’700, infatti, la popolazione europea passò da 118 a 193 milioni di abitanti, con un incremento del 66%: in Inghilterra e Galles aumentò da oltre 5,8 a più di 9,1 milioni, in Francia da 22 a 29 milioni e in Italia da 13,6 a oltre 18 milioni. Molto rilevante fu la crescita nell’Europa centrale e orientale, in particolare in Ungheria, nella Prussia orientale e in Russia, dove il tasso fu superiore alla media. Contemporaneamente, un incremento ancora più rapido, oltre il 1000%, venne registrato nell’America settentrionaLA POPOLAZIONE IN EUROPA TRA IL 1650 E IL 1800 le grazie anche a un’intensa immigrazione. VALORI IN MILIONI DI ABITANTI Gli storici e i demografi* non hanno trovato una spiegazione unica di questo 200 fenomeno: in molte regioni si ridusse la 180 mortalità, in altre questa riduzione fu ac160 compagnata dall’incremento della natali140 tà. Sicuramente vi furono sia una diminu120 zione della mortalità catastrofica, dovuta 100 nei secoli precedenti a epidemie, guerre e 80 carestie, sia un’interruzione del tradizio60 nale andamento ciclico della demografia, 40 caratterizzato dal rapporto e dalla dipen20 denza reciproca fra popolazione e risorse 0 alimentari.
demografia La demografia è la scienza che studia la popolazione umana utilizzando la statistica per calcolarne i ritmi di crescita, la composizione e la diffusione di alcuni fenomeni sociali.
1650
1700
1750
1800
[da M. Barbagli e D.I. Ketzer (a c. di), Storia della famiglia in Europa. Dal Cinquecento alla Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 2002, p. XX]
POPOLAZIONE E RISORSE ALIMENTARI: LA “LEGGE” DI MALTHUS Il ciclo demografico
tradizionale, infatti, che poteva durare
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C1 La società di ancien régime
produttività Il rapporto tra la produzione e la quantità di lavoro svolto per ottenerla. tasso di natalità/ mortalità Il tasso o indice di natalità indica il rapporto tra il numero dei nati e la popolazione totale. Il tasso o indice di mortalità indica invece il rapporto fra il numero dei morti e la popolazione totale. censimento Operazione statistica volta ad accertare il numero e altre informazioni economiche e sociali sugli abitanti di un determinato Stato.
3
pochi anni o più di un secolo, era basato sul legame tra l’aumento naturale della popolazione e la progressiva diminuzione delle risorse pro capite: di fronte alla crescita della domanda, l’agricoltura non riusciva ad aumentare la produttività*, ma poteva soltanto estendere le colture alle terre marginali, in genere poco fertili. Di conseguenza si registrava un impoverimento della dieta alimentare, che diminuiva la resistenza degli organismi ai virus e ai batteri, rendendoli più vulnerabili alle malattie. L’aumento della mortalità riduceva a sua volta la popolazione, che tornava così in equilibrio con le risorse disponibili. E il ciclo poteva ricominciare. Una lucida descrizione di questo rapporto tra risorse e popolazione fu offerta nel 1798 dal Saggio sul principio di popolazione dell’economista inglese Thomas Robert Malthus (1766-1834), che definì anche la “legge” secondo la quale mentre la popolazione aumenta con una progressione geometrica (1, 2, 4, 8, 16, 32...), le risorse si sviluppano invece più lentamente, con una progressione aritmetica (1, 2, 3, 4, 5, 6...). Per Malthus, dunque, sarebbe stato necessario frenare l’incremento naturale della popolazione: di qui l’impiego del termine “malthusiane” per indicare le politiche di riduzione della natalità. Ma, proprio alla fine del ’700, le difficoltà alimentari determinate da un eccesso di popolazione cominciavano a essere superate dallo sviluppo economico, in particolare da quello agricolo: il miglioramento dei raccolti e della distribuzione dei prodotti, infatti, rese meno frequenti le carestie. SI ABBASSA L’ETÀ DEL MATRIMONIO Un altro motivo che favorì la crescita demografica del ’700 fu la progressiva scomparsa del cosiddetto “matrimonio tardivo”. Le popolazioni dell’ancien régime si erano adattate nel corso dei secoli alle difficoltà alimentari e ambientali con una sorta di codice di autoregolamentazione: non ci si sposava, infatti, senza una concreta possibilità di lavoro. Il matrimonio, dunque, era generalmente ritardato: gli uomini si sposavano fra i 27 e i 28 anni, le donne tra i 25 e i 26. Questa “sottrazione” di 6-8 anni alla naturale fecondità femminile determinava di fatto una limitazione delle nascite. Il matrimonio tardivo, tuttavia, non riguardava la nobiltà né la borghesia ed era diffuso soprattutto nell’Europa centro-occidentale: nelle regioni mediterranee, invece, le nozze erano molto più precoci, anche tra i ceti popolari. L’abbassamento dell’età matrimoniale fu particolarmente significativo in Gran Bretagna, soprattutto dopo il 1740: lì il tasso di natalità* aumentò in rapporto a matrimoni più numerosi e soprattutto più precoci, dipendenti a loro volta dal miglioramento generale dell’agricoltura e delle possibilità di trovare occupazione. In altri paesi europei le cause dello sviluppo demografico non sono altrettanto chiare: l’assenza di censimenti* attendibili, che iniziarono a essere tenuti regolarmente solo nell’800, impedisce agli studiosi una ricostruzione certa del fenomeno. LA RIDUZIONE DELLE EPIDEMIE È piuttosto problematico anche stabilire un nesso preciso tra l’aumento della popolazione e il miglioramento delle condizioni ambientali, igieniche e climatiche. Fino a oggi non si è giunti a valutazioni accurate e generalizzate: forse non si può andare oltre la considerazione, in verità un po’ scontata, che un diffuso anche se moderato sviluppo economico ha portato con sé anche migliori condizioni di vita. Ma i tempi, i modi, i legami e le sequenze di questa trasformazione rimangono privi di una spiegazione convincente. Per esempio, non è affatto chiaro perché la peste cominciò ad allontanarsi dall’Europa nel ’700 (ma Marsiglia fu ancora colpita nel 1720-23 e Messina nel 1743). Alcuni attribuiscono questa scomparsa alle maggiori capacità di isolare
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
4
i focolai epidemici e a un’aumentata resistenza degli organismi umani. Ma, mentre la peste declinava, il vaiolo imperversava e le altre tradizionali malattie endemiche, come il tifo e la dissenteria, continuavano a mietere numerose vittime. La maggiore organizzazione ospedaliera non ridusse la mortalità, anzi probabilmente la accrebbe, poiché i luoghi di cura accentuavano le probabilità di infezione e contagio. L’inoculazione antivaiolosa, a cui si ricorreva nel ’700, fu spesso letale e, fino alla scoperta di Edward Jenner sull’efficacia della vaccinazione effettuata con i germi del vaiolo vaccino (1796), l’unico rimedio sicuro fu il controllo del contagio.. AUMENTO DELLA POPOLAZIONE E CRESCITA DELLE CITTÀ La crescita della popolazione fu più intensa nelle città che nelle campagne e riguardò soprattutto le zone di più antica urbanizzazione dell’Europa occidentale e meridionale, in particolare le capitali e le città portuali. Londra, Parigi e Napoli erano, nell’ordine, le maggiori città europee. Le stime della popolazione parlano di una crescita, nel corso del secolo, da 700 mila a 950 mila abitanti per Londra, da 215 mila a oltre 400 mila per Napoli. Parigi alla fine del ’700 contava 550-600 mila abitanti. Londra e Parigi erano città multifunzionali: al ruolo di capitali con funzioni politiche e amministrative univano quello di città manifatturiere, artigianali, commerciali e finanziarie. In più Londra, completamente rinnovata dopo un terribile incendio nel 1666, aveva un attivissimo porto sul Tamigi. Prevalentemente burocratiche e militari, invece, erano le due maggiori capitali dell’Europa centrale, Vienna e Berlino, che alla fine del ’700 contavano rispettivamente oltre 250 mila e 140 mila abitanti. Grande sviluppo ebbero anche i porti sull’Atlantico e sul Mare del Nord. In Francia primeggiarono prima Nantes, che dominava il traffico degli schiavi, poi Bordeaux che tra 1770 e 1780 giunse a controllare il 25% del commercio estero francese. In Gran Bretagna, invece, si svilupparono soprattutto Bristol e Liverpool: quest’ultima passò dai 12 mila abitanti degli inizi del ’700 ai 78 mila del 1801.
2 Fare storia Condizione femminile e infanzia, p. 93
famiglia Nella Roma antica il termine familia indicava il gruppo dei servi che dipendevano da un unico padrone. Col tempo il significato andò allargandosi e comprese tutti i membri (servi, figli, congiunti) che dipendevano dallo stesso paterfamilias. Nel ’400 l’umanista Leon Battista Alberti scriveva che «famiglia è i figliuoli, la moglie, i domestici, famigli e servi». È solo a partire dal ’600 che il termine “famiglia” comincia a indicare, come oggi, tutte le persone legate da stretti vincoli parentali che vivono sotto lo stesso tetto.
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Famiglia, matrimonio e figli LA COMPOSIZIONE DELLA FAMIGLIA L’aumento della popolazione illumina soltanto un aspetto della struttura demografica. Vi sono altri caratteri che rendono particolarmente significativa la differenza fra la società di ancien régime e la realtà contemporanea: per esempio, quelli relativi alla composizione della famiglia*. Nel ’700 la struttura familiare dominante è ancora quella della famiglia estesa o allargata, in cui convivono tre generazioni (nonni, genitori e figli) insieme con altri parenti (zii e zie, spesso celibi e nubili, ma talora coniugati e con figli) e con una presenza variabile di domestici e garzoni: è il modello familiare prevalente nelle campagne, sia tra i ceti popolari sia tra quelli più elevati. Molto spesso l’economia familiare, per quanto garantita dalla disponibilità di numerose “braccia” per le attività lavorative, poteva entrare in crisi per le troppe “bocche” da sfamare: per questo alcuni giovani membri erano affidati o ceduti ad altre famiglie oppure migravano verso i centri urbani in grado di offrire loro un lavoro. Ma proprio nelle città, in questo periodo, si veniva affermando gradualmente, soprattutto nelle prime generazioni degli immigrati urbani, un nuovo modello familiare: la famiglia nucleare o coniugale, formata dai soli genitori e figli.
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C1 La società di ancien régime
Storiografia 11 D. Lombardi, Ruolo materno e immagine della donna, p. 94 Storiografia 12 H. Cunningham, Una nuova idea dell’infanzia, p. 95
5
NUOVI COMPORTAMENTI: GLI INIZI DELLA CONTRACCEZIONE L’aumento demografico e la relativa mobilità sociale, di cui si è detto, favorivano inoltre la diffusione di nuovi modelli culturali e comportamentali come risposta ai problemi delle famiglie troppo numerose. In alcuni paesi, come la Francia rurale e l’Ungheria, e in alcuni gruppi sociali come la borghesia ginevrina e la nobiltà italiana, ma anche in gruppi etnico-religiosi come gli ebrei italiani, si comincia a registrare infatti la tendenza a intervenire sui ritmi naturali della fecondazione limitando le nascite. Per quanto circoscritto, anche per la limitatezza delle ricerche in proposito, tale fenomeno è l’indicatore di un nuovo atteggiamento di controllo razionale della vita sessuale e affettiva. Dal momento che la cronologia di questi comportamenti sembra non coincidere con i grandi mutamenti politici e culturali di fine secolo, i motivi principali che gli storici e i demografi hanno individuato per spiegare il fenomeno sono tre: una maggiore attenzione alla salute della donna e alla necessità di preservarla dall’eccessivo numero di gravidanze, causa di innumerevoli morti precoci per parto e di nascite a rischio, e, con essa, anche una riconsiderazione delle relazioni coniugali; l’acquisizione di un nuovo atteggiamento nei confronti dell’infanzia, fatto di sollecitudine, tenerezza, interesse all’educazione – diverso da quello che considerava i bambini semplicemente degli adulti in miniatura –, che contribuì a distanziare le nascite; la tutela della proprietà, soprattutto se di recente acquisizione, che non poteva rischiare, dove vigeva la divisione ereditaria, di essere eccessivamente frammentata. LA DISCENDENZA DELLE CASE REGNANTI La necessità di garantire una discendenza escludeva ogni forma di limitazione delle nascite nelle famiglie regnanti. La regina Anna di Inghilterra quando salì al trono nel 1702, a trentasette anni, non aveva eredi, nonostante ben diciassette gravidanze: il solo figlio che era sopravvissuto agli aborti, o alla morte in tenerissima età di tutti gli altri, era morto nel 1700 a 11 anni. Questo spiega perché il Parlamento inglese emise, già nel 1701, l’Act of Settlement che trasferiva la Corona d’Inghilterra ai lontani parenti protestanti della famiglia degli Hannover [Ź2_3]. La dinastia degli Asburgo fu invece più fortunata. Maria Teresa d’Austria rappresentò infatti un’eccezione: dei sedici tra figli e figlie avuti tra i 20 e i 39 anni, quattro morirono di vaiolo e due in tenerissima età. Ma tutti gli altri, oltre ai due eredi al trono imperiale, Giuseppe II e Leopoldo II, entrarono in altre case regnanti o principesche, secondo una sapiente politica di matrimoni. STORIA IMMAGINE Jacques-Louis David, La famiglia 1792-95 [Musée de Tessé, Le Mans] Le trasformazioni sociali e culturali che si verificarono in Europa a partire dal XVII secolo mutarono profondamente le abitudini e molti aspetti della vita privata degli individui. In particolare, nel secolo XVIII venne affermandosi quel “sentimento
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dell’infanzia” che è tipico della società contemporanea. L’evoluzione della famiglia si manifesta comunque in modo differente a seconda delle aree geografiche e dei ceti sociali: se l’organizzazione delle famiglie reali sottostava a canoni di comportamento assai rigidi, l’interno della casa borghese, qui riprodotto, mostra una immagine più serena e consapevole del valore della famiglia.
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
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Il mondo delle campagne: 3 feudalità e rivolte Arte e storia La dura realtà contadina nell’arte del ’700, p. 19 Storiografia 1 E. Le Roy Ladurie, Cattivi raccolti e carestie, p. 82
Storiografia 6 W. Rösener, I contadini fra est e ovest dell’Europa, p. 88
svalutazione della moneta Perdita del valore della moneta con conseguente diminuzione del potere d’acquisto; nel nostro caso un’imposta in denaro, mantenendosi fissa, andava col tempo a incidere sempre meno sul reddito.
SOPRAVVIVENZA E TRASFORMAZIONE DEL FEUDALESIMO
La società di ancien régime era una società fondamentalmente agricola. Non solo l’agricoltura era la principale attività economica, ma la maggioranza della popolazione era formata da contadini anche nei paesi dove grande rilievo avevano assunto i commerci e le manifatture. Gli strati superiori della società erano costituiti da proprietari terrieri, prevalentemente nobili ma anche borghesi, e la terra era la principale fonte di ricchezza e di possibile ascesa sociale. Nell’Europa del ’700 la proprietà terriera era per molti versi ancora di tipo feudale: era sottoposta cioè a una serie di vincoli che ne limitavano l’uso e i redditi. Anche nel caso in cui il contadino avesse la facoltà di vendere o trasmettere in eredità la terra coltivata, questa non era in realtà detenuta in piena e libera proprietà: dovevano infatti essere corrisposti al signore dei tributi ordinari – in denaro o in natura (per esempio una parte del raccolto) – per l’uso o straordinari nei casi di vendita o di successione. L’ammontare di questi tributi era in genere stato fissato molto tempo prima e si manteneva per consuetudine stabile: le corresponsioni in denaro presentavano quindi il vantaggio, rispetto a quelle in natura, di essersi ridotte di valore in seguito alla progressiva svalutazione della moneta*. Al tempo stesso, su una parte delle terre feudali vigevano alcuni diritti collettivi della comunità contadina – i cosiddetti usi civici –, come quelli di pascolo, di spigolatura, di raccolta della legna, ecc. L’esistenza di questi vincoli provocava molti conflitti, caratterizzati da una fondamentale contrapposizione: da un lato la tendenza alla privatizzazione integrale della terra e all’inasprimento dei gravami feudali, dall’altro la difesa dei tradizionali usi collettivi delle comunità contadine. Questa opposizione elementare era arricchita e complicata in molte regioni dell’Europa occidentale dalla presenza di un ceto in progressivo sviluppo, quello dei contadini agiati, proprietari e affittuari, che svolgevano ruoli diversi secondo le circostanze: se erano proprietari miravano alla riduzione dei privilegi signorili e dei diritti delle comunità, se invece erano affittuari di terre signorili – cui era legata la riscossione di diritti – tendevano a mantenere e a rafforzare le forme del prelievo feudale. In sostanza, nel ’700 il regime feudale aveva perso o attenuato molti dei suoi caratteri originari, ma rappresentava comunque un insieme di diritti e di privilegi che pesavano duramente sulla vita dei contadini e sulle possibilità di sviluppo delle attività agricole. È
Ż Théobald Michau, Paesaggio fluviale con contadini e carri per un sentiero XVII-XVIII sec. [Collezione privata] Nella società di ancien régime i contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione, erano ancora sottoposti in molti paesi a vincoli di origine feudale; per esempio, non erano liberi di cambiare lavoro, né di spostarsi dove volevano, per trasferirsi infatti dovevano chiedere l’autorizzazione alle autorità.
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proprio l’esame dei vincoli e degli obblighi imposti ai contadini che consente di valutare le notevoli differenze della feudalità settecentesca nei diversi paesi europei. LA SITUAZIONE IN FRANCIA: LE TASSE E LA DECIMA In Francia, ai vincoli posti sui possessi contadini, si aggiungevano gli obblighi di lavoro gratuito (corvées) sulle terre signorili in occasione dell’aratura, della semina o del raccolto, nonché i severi divieti di caccia e di pesca. Va detto tuttavia che in molti casi le corvées erano state sostituite da corresponsioni in denaro. I contadini erano tenuti inoltre a rispettare il monopolio feudale della trasformazione delle risorse alimentari e in particolare dovevano avvalersi, per la macinazione dei cereali, del mulino di proprietà del signore. Ad accrescere i poteri di controllo feudale sul mondo contadino contribuiva inoltre l’amministrazione della bassa giustizia – quella relativa ai reati minori – ancora detenuta dal signore e dai
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LEGGERE LE FONTI
Diritti del signore feudale da P. Goubert, L’ancien régime. La società, Jaca Book, Milano 1976, pp. 116-17
Diritti (lods et ventes) percepiti dal signore in caso di vendita o di passaggio di proprietà. Antica forma di tassazione. Consisteva generalmente in una prestazione di lavoro gratuita che il contadino era tenuto a svolgere in favore del proprietario terriero. Tributo di antichissime origini, pagato dall’agricoltore. Corrispondeva in genere alla decima parte del raccolto.
Unità di misura agraria. Corrispondeva all’estensione di prato che un uomo può tagliare in una giornata lavorativa.
Dove non era consentito l’accesso.
L’elenco dei diritti signorili di Essigey (località della Borgogna, regione della Francia centrale) è un chiaro esempio delle prestazioni feudali dovute da una comunità contadina. Il testo è del 1780 e si situa dunque in quella fase di ridefinizione dei diritti signorili conosciuta come «reazione
Art. 1 Sono dovuti al signore, all’atto di ogni vendita, lodi del prezzo di ogni bene acquistato, su tutti i beni senza eccezione, in ragione della dodicesima parte del prezzo di ogni bene acquistato [...]. Art. 2 Gli abitanti di Essigey che ivi hanno domicilio devono ognuno una gallina al primo giorno di quaresima, e una corvée di braccia al tempo della fienagione per chiunque vi è soggetto [...]. Art. 3 Ognuno, sia coltivatore, sia che eserciti altre attività, se in possesso di cavalli o di buoi e di finimenti, deve anch’egli una volta l’anno una corvée di aratura o di vendemmia, o in tempo di semina. Art. 4 È compito del suddetto signore far riscuotere la decima in tutte le terre della signoria in ragione di un covone ogni quattordici [...]. Art. 5 Appartiene al suddetto signore l’esercizio dell’alta, media e bassa giustizia in tutta l’estensione del dominio diretto. Art. 6 Tutti gli abitanti devono fare la guardia notturna e diurna al castello del suddetto luogo. Art. 7 Gli abitanti devono curare la manutenzione del canale che porta l’acqua del fiume nei fossati del suddetto castello. Sono del pari obbligati a recintare di una siepe di spini morti il prato chiamato closeau, della superficie di nove soitures e due terzi (tre ettari). Art. 8 Tutti coloro che vendono vino al detto paese di Essigey debbono al signore una pinta di vino [...] che i venditori sono obbligati a portare nel suo castello, un’ora dopo l’apertura della botte, sotto pena di un’ammenda di tre lire e cinque soldi [...]. Art. 9 Nessun abitante possiede il diritto di pesca e di caccia nel territorio del suddetto Essigey, sotto pena della confisca delle trappole e degli arnesi, e dell’ammenda di tre lire e cinque soldi; lo stesso dicasi degli stagni [...]. Art. 10 In ogni tempo il signore può tenere i propri boschi in bandita, senza quindi che sia permesso a nessuno raccogliervi legna o mandarvi il bestiame.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Individua ed elenca le tipologie di corvée che gli abitanti di Essigey sono tenuti a prestare gratuitamente al signore del luogo.
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feudale»: a cavallo della metà del XVIII secolo, infatti, la “nobiltà di spada” (l’antica nobiltà “di sangue”) francese ristabilì i suoi privilegi e i contadini, di conseguenza, videro progressivamente inasprirsi lo sfruttamento feudale insieme al tentativo di ridare vigore a norme e tributi caduti in disuso.
b Nel documento si afferma: «Appartiene al suddetto signore l’esercizio dell’alta, media e bassa giustizia in tutta l’estensione del
Fascio di spighe di grano. Divisione della giurisdizione risalente ai secoli VIII e IX. L’alta giustizia era esercitata dal sovrano e dai grandi feudatari. Comprendeva i reati più gravi in materia di proprietà fondiaria (furto, incendio doloso, rapina) o di danno alle persone (lesioni, omicidio, violenza sessuale). La bassa giustizia veniva esercitata dai piccoli feudatari e riguardava i reati minori o le liti civili di valore economico minimo.
dominio diretto». Chiarisci e spiega in che cosa concretamente consiste tale diritto del signore.
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taglia Nel Medioevo e nell’età moderna la taglia era un’imposta diretta (correlata cioè alla ricchezza di cui si era in possesso). In origine il termine designava soprattutto forme di prelievo straordinarie imposte ad arbitrio del signore. Più tardi anche un potere di ordine superiore – regio, principesco o comunale –, quando doveva esigere dai sudditi o dai cittadini una contribuzione diretta, le dava il nome di taglia e ne suddivideva il carico in base al numero dei contribuenti. gabella Il termine, di origine araba, designa una forma di imposta indiretta istituita nel Medioevo. La gabella fu una tassa sugli scambi e i consumi, e venne applicata sui generi alimentari di prima necessità. La gabella sul sale, in particolare, fu abolita solo alla fine del ’700. mezzadria Tipo di contratto agrario stipulato tra un proprietario terriero e un colono: quest’ultimo si impegnava a coltivare il terreno in cambio di una quota dei prodotti, generalmente la metà; anche le spese erano solitamente divise in parti uguali tra i due; questo tipo di conduzione favoriva nel mezzadro la formazione di una mentalità vicina a quella del piccolo proprietario terriero.
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suoi delegati. Ai prelievi feudali, corrispondenti a una quota tra il 10 e il 20% dei redditi contadini, si sommavano anche le tasse pagate allo Stato: imposte dirette, come la taglia* sulle persone o sulle proprietà, e indirette come la gabella*, l’odiata tassa sul sale che colpiva il consumo di un prodotto indispensabile alla conservazione degli alimenti. Altre corvées erano dovute per la costruzione e manutenzione delle strade. Infine in Francia, come in tutti i paesi cattolici, doveva essere versata la decima alla Chiesa: si trattava di una quota parte del raccolto, in realtà inferiore a un decimo e pari in genere a un dodicesimo/tredicesimo, destinata in origine al mantenimento del parroco ma spesso passata nelle mani dell’alto clero. I contadini servi – soggetti all’antica servitù della gleba –, vincolati per i loro spostamenti all’autorizzazione del signore, che poteva venderli o scambiarli a suo piacimento, erano ridotti a una minoranza. L’INGHILTERRA E LA SPAGNA La servitù era comunque un aspetto molto marginale del feudalesimo occidentale, di cui quello francese rappresenta il modello più conosciuto. Non vi era servaggio in Inghilterra, dove il regime feudale era praticamente scomparso già nel ’600. In declino il feudalesimo in Spagna, soprattutto in Castiglia e in minore misura in Catalogna, ma egualmente dure rimanevano le condizioni di vita dei contadini. LA PENISOLA ITALIANA In Italia meridionale e in Sicilia, anche se la servitù personale era da tempo superata, i prelievi in denaro e in natura e le prestazioni personali erano così ampi da far ritenere che il regime feudale fosse particolarmente vessatorio. In pieno vigore nel Lazio, la feudalità era generalmente scomparsa nel resto dell’Italia centrale e in quella settentrionale, pur con alcune presenze, rilevanti in Lombardia e in Friuli, modeste in Piemonte. I contratti agrari prevalenti in queste regioni, l’affitto e la mezzadria*, si collocavano al di fuori della rendita fondiaria di tipo feudale: i signori feudali erano ormai avviati a diventare semplici proprietari terrieri e si era costituito sostanzialmente un mercato libero della terra. Rapporti di fatto senza scadenza, come le enfiteusi – in cui il possesso era legato a obblighi di miglioria – e la
STORIA IMMAGINE Thomas Rowlandson, The tithe pig 1790 [Royal Collection Trust © Her Majesty Queen Elizabeth II] Il tithe pig (“maialino della decima”) era un maiale offerto al clero locale quale pagamento della decima, la tassa dovuta alla Chiesa per il suo sostentamento. Questa stampa inglese del XVIII secolo mostra una scena abbastanza usuale nella casa di un curato. Una cameriera presenta un maialino su un piatto che viene ispezionato da un impiegato per conto del parroco che, con il piede
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gottoso su un cuscino e una bottiglia di vino sul pavimento vicino alla poltrona, guarda il maiale attraverso una lente di vetro, mentre un gatto e un cane si allungano verso l’animale. Il malconcio proprietario del maiale attende il responso fuori dalla porta, grattandosi nervosamente la testa. L’accento grottesco e ironico con cui l’autore ha voluto sottolineare alcuni particolari denuncia quanto questa tassa fosse ritenuta ingiusta e mal sopportata dalla popolazione.
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colonìa perpetua, testimoniavano la sopravvivenza delle antiche consuetudini legate all’origine feudale e ribadivano gli ostacoli frapposti a una piena proprietà contadina della terra. In Italia la varietà delle situazioni era la norma: anche i rapporti agrari più moderni, tuttavia, prevedevano obblighi di prestazioni lavorative e una serie di donativi al signore (come agnelli, polli, maiali, ecc.), che confermavano la persistenza delle tradizioni feudali. IL LAVORO SERVILE NELL’EUROPA ORIENTALE La servitù aveva dimensioni particolarmente ampie e regole estremamente rigide in tutte le regioni a est del fiume Elba. Qui il servo-contadino, per esempio, doveva ottenere il permesso del signore non solo per spostarsi, ma anche per contrarre matrimonio. Il lavoro servile – robot, da cui il nome dei “servitori” elettronici della nostra epoca – e le servitù personali dominarono l’Europa orientale fino al 1848 – e in Russia fino al 1861. Questa condizione di servaggio, che aveva origini recenti nella feudalizzazione e rifeudalizzazione dell’Europa orientale a partire dal ’500, fu motivo di frequenti tensioni sociali e rivolte. In Boemia, nel 1775, una violenta sollevazione contadina mirò ad abolire la servitù: il governo imperiale fu allora costretto ad affrontare il problema con alcune riforme. Nello stesso periodo anche la Russia fu percorsa da numerosi episodi di ribellione al servaggio. Tra 1773 e 1774, per esempio, ci fu una grande rivolta guidata dal cosacco Emeljan Pugac ˇëv che, dopo essere riuscito a tenere in scacco l’esercito governativo per un anno, venne sconfitto e decapitato.
Storiografia 6 W. Rösener, I contadini fra est e ovest dell’Europa, p. 88
Storiografia S. Ciriacono, Il caso inglese
Fare storia Agricoltura, industria e nuovi consumi nel ’700, p. 82
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La rivoluzione agricola e le nuove colture UN PROCESSO LUNGO La società preindustriale era una realtà per molti aspetti statica, dominata dalle permanenze. Ma al suo interno vedeva emergere, in alcuni paesi e in determinati settori economici, fattori di mutamento destinati a rovesciare, talora con tempi molto lunghi, l’assetto tradizionale. In particolare, nel corso del ’700 si accentuarono alcuni processi relativi alla proprietà delle terre e alle tecniche colturali che consentono di parlare di una rivoluzione agricola. Qui, come altrove, l’impiego del termine di “rivoluzione” in campo economico e sociale si riferisce a trasformazioni radicali che si compiono in tempi molto più lunghi di quelli caratteristici delle rivoluzioni politiche. LE RECINZIONI DEI CAMPI APERTI IN INGHILTERRA L’Inghilterra fu il paese in cui le strutture agrarie cambiarono più profondamente fra ’600 e ’700. Le trasformazioni avvennero in seguito alle recinzioni – in inglese enclosures – dei campi aperti e delle terre comuni e all’introduzione di nuove tecniche e colture [Ź _1]. Il sistema a campi aperti – open fields – caratterizzava nel ’600 oltre la metà delle campagne inglesi: era costituito da appezzamenti non recintati, contigui, ma di proprietà individuale, non collettiva. Le consuetudini prevedevano che su questi campi, dopo il raccolto, tutti gli abitanti del villaggio potessero spigolare o inviare gli animali al pascolo. Di proprietà collettiva erano invece le terre comuni – common lands, common wastes – destinate al pascolo, alla raccolta di legna, ecc. I diritti d’uso di queste terre non appartenevano a tutti indistintamente, ma a quanti avevano proprietà nel villaggio. Su di esse risiedevano, in modestissime capanne – cottages –, i contadini poveri e privi di proprietà.
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LO SPAZIO DELLA STORIA
45% e oltre 35-44% 25-34% 15-24% meno del 15%
rotazione triennale Il terreno veniva diviso in tre parti, di cui una veniva coltivata a cereali (in autunno), la seconda a leguminose (in primavera), la terza veniva lasciata a maggese (a riposo); l’anno successivo si ruotavano le colture.
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PROPRIETÀ E MERCATO Le enclosures comportarono la recinzione – con muretti, siepi, steccati – e la ricomposizione fondiaria degli appezzamenti situati nelle zone dei campi aperti, nonché la recinzione e privatizzazione delle terre comuni. Questa operazione mirava a una più chiara definizione della proprietà e a una coltivazione più razionale, che rispondesse meglio alla domanda del mercato. Le enclosures richiedevano investimenti per le opere di chiusura e per la riconversione colturale: contemporaneamente determinavano la graduale trasformazione dei cottagers in braccianti agricoli (cioè salariati alle dipendenze dei grandi proprietari) e favorivano la diminuzione dei piccoli proprietari. Le recinzioni, in realtà, costituivano un fenomeno in corso da alcuni secoli. Nel 1500 il 45% circa della superficie agraria era già stato recintato. Il successivo incremento si ebbe soprattutto nel ’600 (24%) e non, come si è a lungo ritenuto, nel secolo successivo: nel ’700, infatti, l’aumento delle enclosures fu solo del 13%. Agli inizi dell’800, dunque, rimaneva solo un 16% di terre non recintate.
LE AREE RECINTATE DALLE ENCLOSURES STABILITE DAL PARLAMENTO BRITANNICO (1700-1845) 1
L’INTEGRAZIONE DI AGRICOLTURA E ALLEVAMENTO Altro fattore di trasformazione dell’agricoltura inglese fu il superamento della rotazione triennale* in favore di nuove forme di rotazione pluriennale, grazie all’introduzione di piante da foraggio (destinate cioè all’alimentazione del bestiame) come il trifoglio e le rape, avvicendate con i cereali. Le colture foraggere avevano la proprietà di arricchire il terreno, consentendo rotazioni più lunghe e una produttività più elevata. Aumentavano così le disponibilità alimentari per gli uomini e per il bestiame. Di conseguenza l’allevamento diveniva una componente fondamentale dell’azienda agricola: forniva concime naturale per la terra, carne e latte per il mercato. L’AGRICOLTURA CAPITALISTICA Rotazioni complesse, integrazione di agricoltura e allevamento, produzione per il mercato non furono una prerogativa esclusivamente inglese: i nuovi sistemi si diffusero nella Francia settentrionale e nella Germania nord-occidentale. Nelle Fiandre e in Lombardia già nel ’500 si erano sviluppate aziende agricole moderne: la cascina lombarda con i suoi prati irrigati, che consentivano ripetuti tagli d’erba, rappresentava un modello di progresso e produttività. Ma questa agricoltura – definita “capitalistica” per la presenza di un imprenditore, proprietario o affittuario, che investe capitali sulla terra, si avvale di manodopera salariata e produce per il mercato – rimaneva un settore marginale in lenta espansione. Le innovazioni convivevano con la vecchia struttura feudale, sia nell’Europa occidentale sia in quella orientale.
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r resa La resa agricola è la quantità di prodotto raccolto rispetto alla semente impiegata per unità di superficie.
Storiografia 2 R. Sarti, Le nuove colture, p. 83
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I nuovi sistemi produttivi, infatti, incontrarono molti ostacoli alla loro diffusione. La frammentazione fondiaria con le difficoltà organizzative che ne derivavano, l’assenteismo dei proprietari, le consuetudini dei contadini erano tutti elementi di resistenza al nuovo. LA LENTA DIFFUSIONE DELLE NUOVE COLTURE Qui trova anche spiegazione il ritardo con cui si affermarono, nonostante la resa* superiore al frumento e agli altri cereali, le coltivazioni di origine americana – la patata e il mais – destinate a modificare profondamente le abitudini alimentari, soprattutto degli strati popolari. La patata, conosciuta e descritta nel ’500, dovette attendere gli inizi del ’700 per cominciare a diffondersi, vincendo diffidenze e ostilità di chi la considerava, fra l’altro, dannosa alla salute (si pensava propagasse la lebbra). Furono le carestie della seconda metà del secolo a imporla dall’Inghilterra alla Polonia; in Irlanda divenne presto l’elemento base della dieta contadina. Il mais (grano turco o grano siciliano) ebbe diffusione più precoce, ma egualmente lenta, nonostante i vantaggi dovuti al ciclo vegetativo più breve di quello del frumento: fu ostacolato dalle sue stesse proprietà colturali che volevano climi temperati non troppo caldi né troppo freschi e un lavoro di zappatura e sarchiatura durante la crescita. Fu coltivato nei paesi mediterranei: Spagna, Francia meridionale, Sicilia, Italia settentrionale. La farina di mais in talune regioni, come il Veneto, sarebbe divenuta, sotto forma di polenta, il cibo quotidiano dei contadini, mentre il frumento era destinato alla tavola dei ceti più agiati o al mercato.
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 1
Thomas Gainsborough Mr e Mrs Andrews, 1750 ca. [National Gallery, Londra] Il pittore inglese Thomas Gainsborough (1727-1788) raffigura nel 1750 Mr e Mrs Andrews in posa nei loro possedimenti nei pressi di Sudbury, nel Suffolk. Il paesaggio mostra la tenuta di Robert Andrews che, grazie al matrimonio, si è arricchita di nuove proprietà. Infatti la coppia sembra mostrare compiaciuta le verdi macchie boscose, i covoni di grano appena raccolto, e le pecore in un’area recintata, a sottolineare la fertilità, la ricchezza e l’ordine delle proprie terre ed esaltando in questo modo il risultato di una buona conduzione. I coniugi Andrews rappresentano un vivido esempio di quella classe produttiva che costituì il fondamento economico della società del ’700. Al contempo l’abbigliamento dello sposo, che sembra appena tornato dalla caccia, col fucile sottobraccio e il cane vicino, fa pensare a un membro della classe nobiliare, a indicare l’aspirazione di ascesa sociale perseguita da Andrews. La sposa, dal canto suo, indossa un abito e scarpe eleganti, poco adatte alla campagna, ma di sicuro effetto per mostrare l’agiatezza in cui versa. Sul grembo della donna è presente uno spazio non dipinto, forse destinato al futuro erede oppure a una preda del marito, come farebbe pensare la penna che la signora tiene in mano. GUIDA ALLA LETTURA a Osserva con attenzione il dipinto e trascrivi gli elementi relativi all’abbigliamento e all’atteggiamento dei due sposi che permettono di risalire al contesto sociale. Quindi, spiega a quale classe sociale appartiene lo sposo e perché si è fatto ritrarre in questo modo.
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b Rispondi alla seguente domanda: “Ci sono, secondo te, caratteristiche proprie del contesto sociale dei due soggetti rappresentati che possono essere colte attraverso il dipinto e particolari che potremmo invece scoprire solo attraverso un confronto con altre fonti storiche? Se sì, quali?”
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LA RIVOLUZIONE AGRICOLA
Recinzioni campi aperti e terre comuni
Investimenti di capitale
Sfruttamento più razionale della terra
Inghilterra, Francia settentrionale, Germania nord-occidentale, Fiandre, Lombardia
Rotazione pluriennale
Nuove colture (riso, patata, mais)
Aumento della produttività e della resa agricola
Nasce la moderna AZIENDA AGRICOLA CAPITALISTICA
Introduzione di colture foraggere
Integrazione dell’allevamento
I contadini si trasformano in braccianti salariati
Nel ’700 si diffusero anche altre colture, seppure di minore importanza. Il riso nelle zone irrigue del Piemonte e della Lombardia; il tabacco un po’ ovunque, in Olanda, Belgio, Germania, Italia. Questa fu l’unica delle nuove colture “voluttuarie” che, per ragioni climatiche, poteva affermarsi in Europa. Tè, caffè, cacao – basi di bevande “eccitanti” il cui consumo crebbe notevolmente nel ’700 – rimasero prodotti di importazione.
5 Fare storia Agricoltura, industria e nuovi consumi nel ’700, p. 82
Storiografia 3 P. Malanima, Il funzionamento dell’industria a domicilio, p. 84
L’industria rurale e l’economia industriosa DALLE CORPORAZIONI ALL’INDUSTRIA RURALE Nelle città l’organizzazione del lavoro artigianale era regolata dalle corporazioni di mestiere, alle quali si accedeva dopo un lungo apprendistato. Le corporazioni imponevano norme estremamente rigide sulle procedure, sulle tecniche e sulla qualità del prodotto tanto che, col passare del tempo, si erano chiuse a ogni innovazione lasciando lievitare di conseguenza i costi di produzione e smarrendo la capacità di adeguarsi alla domanda del mercato. Già tra ’500 e ’600 era divenuto più conveniente spostare le attività produttive nelle campagne, dove molte famiglie contadine erano in grado di avviare un’industria rurale domestica. Nelle campagne, infatti, era facile reperire manodopera a basso costo, da impiegare in modo flessibile in rapporto all’andamento della domanda. La nuova figura del mercante imprenditore, protagonista di questo metodo produttivo, forniva la materia prima, ritirava il prodotto finito e provvedeva a venderlo sul mercato. Questo sistema ebbe un’ampia diffusione in tutta Europa, ma soprattutto nelle regioni e nei dintorni delle città con forti tradizioni artigianali: nelle Fiandre per la filatura e tessitura del lino, nella Germania occidentale per le armi da taglio e i coltelli, nelle zone prealpine dell’Italia settentrionale per la seta, in Inghilterra per i tessuti di lana. LA “RIVOLUZIONE INDUSTRIOSA” L’industria domestica rurale consentì di rispondere con una certa efficienza allo sviluppo della domanda interna e
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internazionale – anche coloniale – e offrì a molte famiglie contadine un’alternativa di reddito e la possibilità di raggiungere più alti livelli di vita. Rispetto alla fase successiva della rivoluzione industriale, che ebbe inizio tra la fine del ’700 e l’800 [Ź10], queste attività sono espressione di una protoindustrializzazione. Il lavoro a domicilio continuò tuttavia a caratterizzare settori importanti della produzione – soprattutto quello della tessitura – anche in fase di industrializzazione ormai avviata. Le attività e le pratiche della protoindustria coincidono con quella che una nuova tendenza della storia economica ha cominciato a chiamare la “rivoluzione industriosa”, diffusa nelle regioni che si aprono sulle due sponde dell’AtlanStoriografia 4 tico: Olanda, Paesi Bassi, parte della Francia, Inghilterra e le colonie britanniJ. de Vries, La rivoluzione industriosa, p. 85 che del Nord America. Questa categoria individua nell’aumento dei consumi il risultato di una domanda sostenuta dalle unità familiari produttive. Grazie a un’intensificazione del lavoro nell’ambito dell’industria I NUMERI domestica queste unità familiari disponevano di una DELLA STORIA 1 quota di reddito da impiegare nell’acquisto di generi L’industria rurale in Inghilterra (percentuale) degli agricoltori voluttuari – zucchero, caffè, tè, tabacco, liquori – o di ingaggiati nella manifattura beni durevoli, come gli orologi da tasca che registrano Filatura Lavoro Altri un vistoso incremento produttivo alla fine del ’700. Il e tessitura del legno impieghi fenomeno alimentò una domanda che rimase sostenuNorthern 57 0 10 ta nel tempo e trovò una risposta nell’interazione tra Lowlands la produzione industriale locale e l’aumento delle imEast Riding 57 8 22 portazioni dei generi coloniali*. Il legame, che durò nel Midland 51 13 13 (campagna) tempo, tra produzione locale e aumento della domanda Midland 68 36 27 e delle importazioni dei generi coloniali è stato definito (foresta) dagli storici «il modello della “rivoluzione industriosa”». Contee 22 32 26 Tale modello non fu solo una prerogativa di quella parte orientali del mondo occidentale, ma trovava un corrispettivo anSomerset 44 22 22 che in paesi dell’Oriente, come il Giappone, nello stesso Insieme 52 17 19 del paese arco temporale. generi coloniali Sono i prodotti che giungono in Europa dalle colonie, come lo zucchero, il tè, il caffè, il cacao, il tabacco e i tessuti decorati (calicò); vanno inoltre ricordate le spezie, come noce moscata, pepe, cannella, chiodi di garofano, già usate nel Medioevo nella farmacopea e nella conservazione dei cibi.
STORIA IMMAGINE William Hogarth, Gli apprendisti al telaio 1747 L’incisione, la prima di una serie di 12 create da Hogarth intitolata Il lavoro e la pigrizia, mostra l’interno di un piccolo laboratorio tessile a Spitafields, un quartiere di Londra. In una stanza ben illuminata e arieggiata, due operai lavorano al
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telaio, mentre il padrone si affaccia dalla porta con un bastone in mano per controllarli. Fin dalla fine del ’600, Spitafields era diventato un importante centro per la produzione di tessuti pregiati di seta, con numerose botteghe di piccole e medie dimensioni controllate da famiglie benestanti che impiegavano due o più dipendenti.
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LA PROTOINDUSTRIA
SISTEMA DELL’INDUSTRIA DOMESTICA
Il mercante imprenditore
VANTAGGI
Investimenti limitati
Flessibilità della forza-lavoro
compra la materia prima
e la porta
al contadino
nei periodi di pausa del lavoro agricolo
che la lavora
Aumento dei consumi e sviluppo del mercato interno
procurandosi un reddito aggiuntivo
LE MANIFATTURE STATALI Anche gli Stati avevano un ruolo nelle attività produttive industriali attraverso il sistema della manifattura. La manifattura è l’organizzazione del lavoro in cui gli operai, concentrati in un unico laboratorio o officina, svolgono, per lo più manualmente, tutte le fasi del processo produttivo. Tipiche manifatture furono quelle promosse in Francia da Colbert al tempo di Luigi XIV, per la fabbricazione di prodotti di lusso destinati al mercato delle esportazioni, come arazzi e porcellane, nel quadro di una politica mercantilista [Ź2_1]. Anche in altri paesi le manifatture furono spesso costituite su iniziativa statale per la fornitura di armi e uniformi agli eserciti. La manifattura, comunque, non fu mai l’organizzazione dominante e non lo fu soprattutto nel settore tessile, quello che assorbiva allora e avrebbe coinvolto anche in seguito la quantità più rilevante di manodopera.
6 Parole della storia Ceto/classe, p. 15 Fare storia Nuove gerarchie sociali e marginalità, p. 87
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Gerarchie sociali e potere politico LA SOCIETÀ PER CETI Per comprendere i caratteri dell’ancien régime è indispensabile esaminare l’elemento ordinatore della gerarchia sociale. E se per la società industriale il concetto impiegato usualmente è quello di classe, per la società di ancien régime va adottato quello di ceto. Quella dell’ancien régime è, infatti, una società per ceti (detti anche “ordini”, “stati”, in francese états, Stände in tedesco) ossia una realtà sociale stratificata in base all’appartenenza per nascita e caratterizzata da una sostanziale staticità e da una strutturale diseguaglianza giuridica. La società per ceti segna il trionfo dei privilegi, delle giurisdizioni particolari. Chi nasceva nobile rimaneva tale tutta la vita. Allo stesso modo, il contadino aveva pochissime probabilità di uscire dalla sua condizione. Solo nel clero non
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si accedeva per nascita. L’appartenenza a un ceto comportava il godimento di certi diritti e l’esclusione da altri: questo era il fondamento della diversità dei diritti civili. Cambiare ceto era un evento eccezionale, possibile in virtù del conferimento di privilegi particolari, come quelli compresi nelle “patenti di nobiltà” concesse a un borghese. I contemporanei consideravano questo ordinamento per ranghi qualcosa di fisso, di eternamente valido.
Storiografia 7 W. Doyle, La borghesia, p. 89
Storiografia 5 G. Ricuperati, F. Ieva, La nobiltà europea: un ceto eterogeneo, p. 87
MOBILITÀ SOCIALE E ASSEMBLEE DEI CETI Nonostante la dominante staticità, nei settori investiti dallo sviluppo – nuova agricoltura, industria domestica, manifatture, traffici commerciali – si registrarono forme di ascesa sociale accompagnate da una nuova ricchezza personale o familiare. Lo stesso avvenne all’interno delle amministrazioni pubbliche con l’aumento delle funzioni e delle cariche, mentre fu costante l’ascesa di chi era impegnato nelle libere professioni: avvocati, notai, medici. Ma le spinte innovative si scontrarono, in particolare nell’Europa continentale, con la permanenza di una struttura e di un ordinamento normativo della società organizzati rigidamente in base alla tradizione e al rango. La società per ceti trovava infatti sanzione ufficiale nell’ordinamento politico di molti Stati che mantenevano rappresentanze e assemblee per ceti, tali da determinare, in rapporto alla monarchia, un vero e proprio dualismo di poteri. Il sistema più noto è quello dei tre ordini, o stati, francesi: clero, nobiltà e Terzo stato. Quest’ultimo raccoglieva tutti i sudditi che non appartenessero ai primi due ordini, dal grande mercante al più povero dei contadini. NOBILTÀ E MONARCHIA ASSOLUTA In tutta Europa il ceto dominante era la nobiltà. Nobiltà feudale prevalentemente, ma anche nobiltà delle cariche amministrative e giudiziarie – la nobiltà di toga francese – o patriziati cittadini. E strettamente legata al ruolo rivestito dalle singole nobiltà era la capacità delle assemblee dei ceti di rappresentare e difendere i propri privilegi in contrapposizione alla monarchia assoluta. L’accentramento dei poteri si era realizzato compiutamente in Francia – dove gli Stati generali, organismo rappresentativo dei ceti, non si riunivano più dal 1614 –, in Spagna, in Prussia e nei domìni ereditati dagli Asburgo d’Austria. Non così nell’Impero germanico, dove il governo centrale era praticamente inesistente: negli Stati territoriali e nelle città
LE PAROLE DELLA STORIA
Ceto/classe Il termine “ceto“ definisce un gruppo sociale sulla base di elementi “culturali”: il prestigio, derivante dalla nascita o dalla professione; lo stile di vita (modelli di consumo, abitazione, abbigliamento, livello di istruzione, ecc.); i modi in cui un gruppo sociale si autorappresenta e viene percepito dal resto della società. La categoria di ceto appare quindi definita da un insieme di elementi di distinzione che fondano una gerarchia sociale. Quella di classe, invece, restringe il suo ambito alla dimensione economica, alla collocazione dei gruppi sociali nel processo produttivo, alla posizione dei singoli nel mercato del lavoro e dei beni (come produttori e consumatori). Questa diversità di significati corrisponde in
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larga misura alla diversità di organizzazione sociale fra società preindustriale e società industriale. Mentre nella prima prevalgono le divisioni per ceti, nella seconda – caratterizzata da un’articolazione di gran lunga maggiore – coesistono strutture di ceto e divisioni di classe. Si parlerà quindi di ceto nobiliare per la società di ancien régime, di classe operaia e ceti medi per la società industriale. Tale distinzione è frutto delle riflessioni compiute dalla ricerca sociologica e dagli studi di storia sociale nel corso del ’900. Per lungo tempo, infatti, l’uso di “classe” ha assorbito molti dei significati di “ceto”, senza tener conto delle diversità storiche e sociali presenti nei due termini. Alla fine del ’700, ma soprattutto nei primi decenni dell’800, la nozione di classe perde progressivamente l’origina-
ria connotazione classificatoria fino ad allora prevalente (e tipica, ad esempio, delle scienze naturali), per passare ad individuare indistintamente tutti i gruppi socio-economici. Proprio il suo tradizionale impiego in ambito scientifico, e quindi la sua connotazione politicamente “neutra”, rendono il termine “classe” più adatto ad inquadrare la nuova realtà dell’industrialismo, priva ancora di un suo specifico vocabolario. Un notevole contributo alla diffusione del termine verrà da parte del marxismo e della sua analisi della realtà sociale. La ripresa del termine “ceto”, invece, si deve, nel corso del ’900, allo svilupparsi di una riflessione sociologica meno incentrata sulle componenti economiche e soprattutto all’opera pionieristica del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920).
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STORIA IMMAGINE Pietro e Alessandro Longhi, Colazione in villa XVIII sec. [Casa di Carlo Goldoni, Venezia] Il dipinto testimonia l’usanza della nobiltà veneziana di trascorrere lunghi periodi di vacanza nelle ville in campagna, grandi e sontuose dimore dove si trasferiva durante la stagione estiva. La scena, illustrata da Pietro e Alessandro Longhi – artisti veneziani di successo durante tutto il ’700 e gli inizi dell’800 –, si svolge nella sala da pranzo di una villa veneta dove gli elegantissimi ospiti, intenti a conversare, sono seduti a tavola, serviti dai valletti.
tedeschi si manteneva saldo il potere degli Stände locali – nobiltà, clero e borghesie cittadine. La Polonia, poi, rappresentava il caso limite di una monarchia che non riusciva a condizionare i privilegi nobiliari. In Italia un esempio significativo era quello del Parlamento siciliano (composto da tre bracci: nobili, ecclesiastici, comunità demaniali, ossia le città) in cui la rappresentanza baronale stabiliva l’ammontare e i criteri di riscossione delle imposte. LE REPUBBLICHE Ma anche le organizzazioni politiche repubblicane, le Province Unite o le repubbliche aristocratiche di Genova e Venezia e quella patrizia di Ginevra, avevano strutture di governo fondate sulla diversità dei ceti e non sull’uguaglianza dei diritti politici. FORME DI GOVERNO IN EUROPA Nell’Europa settecentesca convivevano, dunque, numerose forme di governo: da un lato, la monarchia costituzionale inglese, che rappresentava un fenomeno unico; dall’altro, le monarchie assolute (con numerose varianti di assolutismo imperfetto), le repubbliche oligarchiche e patrizie, infine il feudalesimo aristocratico polacco. La presenza delle assemblee dei ceti, con i loro antichi privilegi e l’ostilità alla centralizzazione, era uno degli indicatori più evidenti di un processo di formazione dello Stato moderno ancora largamente incompiuto.
Arte e storia La dura realtà contadina nell’arte del ’700, p. 19
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Il problema della povertà POVERTÀ E TRADIZIONE CRISTIANA Nella società preindustriale una percentuale elevata della popolazione, oscillante fra il 20 e il 40%, era costituita da poveri, termine generico che indicava non solo i mendicanti, i vagabondi e i senza lavoro, ma anche quanti, nelle campagne e nelle città, non riuscivano sempre a raggiungere, con il lavoro, livelli minimi di sussistenza. La condizione del povero era largamente accettata dalla tradizione cristiana, di cui la carità era uno dei princìpi costitutivi; la povertà era considerata non solo un
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valore in sé, una virtù, ma anche la testimonianza di una elezione divina. Di qui l’immagine del povero come «vicario di Cristo» e la scelta di povertà degli ordini mendicanti. IL POVERO DIVENTA UN ELEMENTO DI PERICOLO Alle soglie dell’età moderna, la beneficenza rientrava nei compiti non solo delle istituzioni ecclesiastiche, ma anche delle amministrazioni cittadine. Fra il 1520 e il 1530 si determinò, però, una profonda trasformazione dell’atteggiamento nei confronti dei poveri tanto sul piano ideologico quanto su quello organizzativo. Questa trasformazione ebbe fra le sue cause innanzitutto il vistoso aumento del pauperismo, legato all’incremento demografico. Così cambiò anche l’immagine del povero, sempre più spesso indicato come possibile elemento di disordine sociale – e persino di contagio. La povertà entrò in un quadro di valutazioni non più solo religiose, ma di natura economica e sociale, che affondavano le radici nel sistema di valori e di ideologie proprio dei centri di produzione manifatturiera e di scambio commerciale. L’assistenza aveva un costo elevato e la presenza dei poveri nel tessuto urbano rappresentava un pericolo, un rischio. Una popolazione fluttuante e non controllabile di poveri inurbati rappresentava per le città un elemento che rischiava di vanificare l’attenta politica di approvvigionamento dei generi di prima necessità, indispensabile strumento di garanzia della tranquillità sociale. CONTROLLO E REPRESSIONE DELLA POVERTÀ Questi elementi di “calcolo” si accompagnarono allo sviluppo di un’etica del lavoro che tendeva ad accettare sempre meno chi viveva di elemosina. Non si trattava di negare la povertà, ma
STORIA IMMAGINE Giacomo Ceruti detto “il Pitocchetto”, Piccola mendicante e donna che fila XVIII sec. [Collezione privata] A partire dal ’500 nasce una “nuova” figura sociale, quella del “pitocco” o “cialtrone”: poveri, mendicanti-furfanti che si guadagnano da vivere con ogni mezzo ed espedienti più o meno leciti. Per tutto il ’600 e il ’700 diventano protagonisti di alcune rappresentazioni pittoriche del tempo.
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Ceruti li ritrae costantemente nei suoi quadri tanto da specializzarsi e da essere chiamato “il Pitocchetto”. In questo dipinto, l’artista ne descrive con minuzia la miseria degli indumenti e l’espressione sofferente della donna in primo piano, mentre il paesaggio urbano è soltanto tratteggiato sullo sfondo.
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di controllarla e disciplinarla. Si delineò la necessità di distinguere fra poveri veri e falsi, buoni e cattivi, inabili e abili al lavoro. Si punirono gli accattoni e i vagabondi e apparve essenziale imporre l’obbligo del lavoro. Nelle città delle Fiandre e della Germania, ma anche in Italia e in Francia, furono realizzate strutture accentrate per l’assistenza, venne repressa la mendicità – che per i recidivi poteva portare alla pena di morte – e si cercò di impiegare i poveri nei lavori pubblici. Queste riforme, unite alla concezione del lavoro come valore morale e religioso, accomunarono sia le città cattoliche sia quelle protestanti. Queste iniziative non si rivelarono sufficienti e la necessità di un controllo della mendicità – intesa come espressione dell’ozio e di un mondo organizzato di furfanti e di imbroglioni – portò a una ulteriore svolta nella politica assistenziale: poveri, vagabondi, mendicanti cominciarono a essere internati e reclusi in ospizi e ospedali appositamente costituiti. Il principio dell’internamento cominciò a essere applicato fra la fine del ’500 e gli inizi del ’600 e si diffuse tanto nell’Europa cattolica quanto in quella protestante.
Documento 8 La fondazione dell’Hôpital général, p. 90
Storiografia 9 M. Foucault, La grande reclusione, p. 91
filantropia Col termine “filantropia” (dal greco antico: philía, “amicizia” e ànthroˉpos, “uomo, essere umano”) si indica il sentimento di amore, e più in generale di fratellanza e solidarietà, nei confronti del genere umano. Si indica col termine “filantropo”, dunque, una persona generosa che fa attività di beneficenza.
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I CENTRI DI RECLUSIONE NELLE GRANDI CAPITALI A Roma, nel 1581, 850 mendicanti furono reclusi in un ospizio: l’iniziativa, che ebbe breve durata, venne ripresa nel 1587 durante il pontificato di Sisto V. Ad Amsterdam, alla fine del ’500, furono istituite una casa di lavoro per gli uomini e una per donne e bambini. A Parigi, nel 1656, fu fondato l’Ospedale generale, composto da vari ospizi, che ospitavano alla fine del ’600 circa 10 mila persone (poveri, malati, orfani, prostitute). In tutti questi istituti, orari e disposizioni estremamente rigidi regolavano il lavoro, l’istruzione e la preghiera. Ad Amsterdam, come racconta lo storico polacco Bronisław Geremek, «se un povero si rifiutava di lavorare veniva rinchiuso in un sotterraneo che lentamente veniva riempito d’acqua. Il recluso aveva a disposizione una pompa e per salvarsi dall’annegamento doveva pompare via senza sosta l’acqua dal locale. Questo era ritenuto un metodo efficace per sconfiggere la pigrizia e far prendere abitudine al lavoro». IL FALLIMENTO DELLA “GRANDE RECLUSIONE” L’internamento in queste istituzioni non voleva essere tanto una condanna, quanto la realizzazione di “cittadelle della pura moralità”: la “grande reclusione del ’600” aveva in sé molti contenuti utopistici, ma non escludeva affatto una notevole dimensione coercitiva. Se è vero che gli ospedali e gli ospizi avevano strutture che ricordavano il convento e prefiguravano la prigione, tuttavia per l’attività lavorativa erano organizzati come manifatture. Questo carattere fu particolarmente evidente nel sistema delle case officina inglesi (workhouses), la prima delle quali fu istituita per iniziativa di un ricco mercante a Bristol nel 1696. La “grande reclusione” fu dunque la risposta politica e amministrativa a un problema sociale: i poveri vennero considerati elementi asociali, equiparati ai pazzi e alle prostitute, e fatti oggetto di un’esplicita emarginazione. Tanto sul piano produttivo quanto su quello dell’efficacia dei “dispositivi di controllo”, questa politica si rivelò un fallimento. Non fu in grado innanzitutto di controllare l’ampiezza di un fenomeno estremamente variabile in rapporto all’andamento della congiuntura economica. Venne inoltre duramente ostacolata da quanti – ordini ecclesiastici e istituzioni laiche – difendevano, per motivi religiosi e umanitari, l’antico sistema di protezione dei poveri. Nella seconda metà del ’700 filantropia* e analisi sociale convergeranno nel tentativo di individuare più correttamente una realtà che sarà progressivamente superata solo nel corso dell’800 con la graduale trasformazione dei poveri in proletariato industriale.
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ARTE E STORIA
La dura realtà contadina nell’arte del ’700 Di fronte alle trasformazioni della società produttiva gli artisti non restarono del tutto indifferenti. Nel corso del XVIII secolo non mancarono infatti opere d’arte che testimoniavano con uno sguardo disincantato gli effetti della rivoluzione agricola. Dal punto di vista della storia dell’arte questi primi tentativi costituirono una premessa importantissima per la corrente del realismo, che avrebbe caratterizzato soprattutto la seconda metà del XIX secolo con artisti impegnati a ritrarre la realtà il più fedelmente possibile. Dal punto di vista storico, invece, cercare nell’arte tracce dei cambiamenti in corso nell’economia tradizionale è diventato importantissimo per valutare la consapevolezza che ne aveva la società. Uno dei contributi più interessanti venne da William Hogarth (1697-1764), un pittore celebre per le sue raffigurazioni satiriche dei vizi della società britannica. In una serie di tavole, intitolata La carriera di una prostituta, venivano rappresentate le disavventure di Moll Hackabout, una ragazza di campagna arrivata in città per fuggire dalla povertà. ź William Hogarth, Moll Hackabout arriva a Londra alla taverna Bell 1732, stampa [da La carriera di una prostituta, tav. 1]
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Nell’immagine [fig. 1], il vestito bianco di Moll sembra alludere alla sua ingenuità rispetto agli abitanti della città, che sembrano già adescarla per trarne profitto, anche se lei è ancora convinta che avrebbe trovato in città condizioni di vita migliori rispetto a quelle offerte dal lavoro nei campi, magari come sarta, vista la borsa da cucito che tiene al braccio destro. Anche se nelle tavole successive Hogarth avrebbe descritto solo le vicende di Moll, è evidente da questa prima scena che teneva ad associare la sua storia a quella delle altre ragazze inviate dalle famiglie in città: il carro da cui è scesa la protagonista, infatti, era pieno di altre campagnole che ne avrebbero sicuramente condiviso il destino. Gli effetti della migrazione dalle campagne verso le opportunità di lavoro della città erano meno esemplari se guardati dal punto di vista di una ragazza in cerca di fortuna. Anche in Italia non mancarono tentativi di rappresentare la concretezza della vita popolare, sebbene a prevalere nel ’700 fossero le rappresentazioni idilliache o neoclassiche. La scuola pittorica lombarda fu la voce più originale in questa direzione. Artisti come Giacomo Ceruti detto “il Pitocchetto” (1698-1767) proprio per la sua tenacia nel raffigurare i poveri, i pitocchi nel dialetto lombardo [fig. 2], o Francesco Londonio (17231783) scelsero soggetti particolarmente realistici. Nei loro dipinti, non c’era alcuna idealizzazione arcadica, cioè nessun tentativo di rappresentare il mondo rurale come
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Ÿ Giacomo Ceruti detto “il Pitocchetto”, Vecchia contadina 1730, olio su tela [Collezione privata]
il luogo dove poter rivivere ancora il mito dell’Arcadia, la regione dell’antica Grecia dove si riteneva che gli uomini avessero raggiunto la vera felicità armonizzandosi con la natura. Quel mito, più volte riproposto nel corso della storia delle arti, aveva avuto una nuova vita proprio tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700, con la fondazione dell’Accademia dell’Arcadia a Roma. Questo circolo letterario riuniva artisti che si rappresentavano come pastori-poeti, molto distanti dalle reali condizioni degli uomini e delle donne impegnati nei lavori della campagna. Al contrario di essi e controcorrente anche rispetto al quadro generale europeo, i pittori della scuola lombarda si dedicarono a raffigurare fedelmente la vita delle popolazioni contadine.
PISTE DI LAVORO a. Redigi due piccoli profili biografici dei pittori William Hogarth e Giacomo Ceruti. Vai su Google, digita il nome dei due artisti nella maschera di ricerca, seleziona un sito affidabile, leggi la biografia dei due artisti e redigi i testi, cercando di non superare le 50/60 parole. b. In che modo Hogarth ha rappresentato le aspettative di Moll Hackabout rispetto alla nuova vita che l’attende in città? c. Quale significato a contrasto assume il vestito bianco di Moll rispetto alla realtà urbana? d. Perché possiamo affermare che i dipinti di Hogarth e di Ceruti testimoniano le trasformazioni in atto nella realtà contadina dell’epoca?
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
C 1La società di ancien régime RICORDARE L’ESSENZIALE La società di ancien régime Nel corso del ’700 la società di ancien régime subì alcune profonde trasformazioni rispetto al passato. Il fenomeno più rilevante fu l’aumento della popolazione, dovuto a una maggiore produttività dell’agricoltura che andò a interrompere il ciclo demografico tradizionale, basato sul cosiddetto modello malthusiano: ogni qualvolta la popolazione cresceva in maniera squilibrata rispetto alle risorse alimentari disponibili, si verificava una crisi demografica. Più disponibilità di cibo, livelli di vita più elevati, migliori condizioni igieniche determinarono una notevole diminuzione dei tassi di mortalità. Anche l’abbassamento dell’età matrimoniale ebbe un impatto positivo sui tassi di natalità. Il modello familiare esteso o allargato, quello cioè in cui convivevano tre generazioni (nonni, genitori e figli), fu soppiantato dal modello della famiglia nucleare o coniugale, formata dai soli genitori e figli. Contestualmente, nuovi modelli culturali e comportamentali andavano affermandosi in risposta ai problemi delle famiglie troppo numerose. In Francia il controllo delle nascite fu avviato già a fine ’700 e dipese da un insieme di fattori: maggiore attenzione alla salute della donna, nuovo atteggiamento verso l’infanzia, tutela della proprietà,
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Audiosintesi per paragrafi
rifiuto del controllo delle istituzioni religiose sulla vita privata. Nella società di ancien régime una percentuale elevata della popolazione era costituita da poveri. Il problema del pauperismo, con i connessi problemi di controllo sociale, e lo sviluppo di una nuova etica del lavoro determinarono una profonda riorganizzazione dell’assistenza. Due criteri caratterizzarono il nuovo ordinamento: l’obbligo al lavoro e l’internamento in appositi ospizi. Fu soprattutto nel ’600 che prese corpo la “grande reclusione”, al tempo stesso utopia morale e sistema di coercizione fisica, che coinvolgeva insieme con i poveri e con i vagabondi, i malati, i pazzi, le prostitute. Il mondo delle campagne Nell’Europa del ’700 la proprietà terriera era ancora prevalentemente di tipo feudale. Notevoli erano comunque le differenze nei diversi paesi: mentre nell’Europa occidentale aveva perso molti dei suoi caratteri originari, nell’Europa orientale persistevano condizioni di servaggio particolarmente dure, che furono all’origine di varie rivolte sociali. Nel corso di questo secolo si manifestarono importanti mutamenti nelle strutture agrarie, anzitutto in Inghilterra. Qui il fenomeno delle enclosures (recinzioni) portò a una più chiara defini-
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
zione della proprietà e a una coltivazione più razionale della terra, attenta alle esigenze del mercato agricolo. Altro fattore importante fu il superamento della rotazione triennale attraverso sistemi di rotazione pluriennale, che prevedevano l’introduzione dei foraggi, che condussero a un aumento delle disponibilità alimentari e dell’allevamento. Le campagne del ‘700 erano anche sede di un’industria rurale domestica, dedita principalmente alle attività tessili. Un posto importante nell’economia del tempo ebbe anche la manifattura, caratterizzata dalla concentrazione in un’unica sede di più operai che svolgevano, per lo più manualmente, tutte le fasi del processo produttivo. Gerarchie sociali e potere politico Il concetto essenziale per definire la gerarchia sociale dell’ancien régime è quello di ceto, caratterizzato dalla fissità delle stratificazioni sociali, dall’appartenenza per nascita, dalla diseguaglianza giuridica. La società per ceti trovava sanzione ufficiale nelle assemblee per ordini (clero, nobiltà Terzo Stato, ovvero tutti coloro che non appartengono ai primi due ordini), che esercitavano un’azione di resistenza nei confronti della centralizzazione del potere realizzata dalla monarchia assoluta. Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Durante l’ancien régime la società era divisa in ceti, rigidamente strutturati. b. I diversi gruppi sociali si differenziavano in base alla ricchezza posseduta. c. La stratificazione della società di ancien régime era percepita come una realtà dinamica. d. Il Terzo stato comprendeva tutta la popolazione, eccetto i nobili e il clero. e. Il gruppo sociale dominante nell’Europa moderna era la borghesia.
f. Nobiltà e monarchia erano spesso alleate nel governo e nell’amministrazione statale. g. Dalla metà del ’500 aumentò in Europa il numero dei poveri. h. Il miglioramento delle condizioni di vita fece diminuire il tasso di mortalità. i. L’industria rurale domestica consentì alle famiglie contadine di aumentare i consumi grazie alla disponibilità di un reddito aggiuntivo.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. L’aumento della popolazione mondiale dopo la metà del ’600 fu causato dalla... a. diminuzione della mortalità dovuta a eventi catastrofici come epidemie e carestie; b. ripresa del ciclo demografico malthusiano dopo la crisi dei secoli precedenti; c. la definitiva affermazione del modello familiare allargato. 2. Lo sviluppo demografico fu più intenso... a. nelle zone di più recente urbanizzazione; b. in campagna, dove si trasferirono molti cittadini; c. nelle capitali degli Stati più antichi e potenti.
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3. Il modello politico dell’assolutismo si realizzò pienamente... a. solo in Francia; b. in Francia, Spagna, Prussia e nei domini asburgici; c. in Francia, in Polonia e nell’Impero germanico. 4. L’Europa del XVII secolo era fondamentalmente agricola, perché … a. non esisteva ancora una classe borghese; b. la maggior parte dei contadini versava in uno stato di servaggio; c. l’agricoltura era la base della proprietà e del reddito.
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C1 La società di ancien régime
5. Emelijan Pugacˇëv, in Russia, … a. organizzò rivolte contro il servaggio; b. difese l’Impero dalla penetrazione occidentale; c. mobilitò la nobiltà locale contro le truppe dello zar. 6. Il sistema dei campi aperti era costituito da terre... a. contigue, recintate ma in proprietà collettiva; b. frazionate, recintate ma in proprietà collettiva; c. contigue, non recintate ma in proprietà individuale.
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7. Nelle campagne inglesi del ’700 agricoltura e allevamento furono... a. integrate con l’introduzione delle piante foraggere nella rotazione; b. considerate sempre più attività completamente distinte; c. gestite in modo feudale da un ceto nobiliare parassitario e arretrato. 8. La “grande reclusione del ’600” colpì... a. i dissidenti politici e religiosi che rifiutavano di aderire alle leggi dello Stato; b. i soggetti considerati «asociali»: poveri, pazzi, criminali e prostitute; c. solo i poveri che non possedevano una casa e un lavoro.
3 Scrivi un testo dal titolo La rivoluzione agricola e la nascita dell’imprenditore capitalistico. A tal fine, seleziona e commenta l’immagine del capitolo che ritieni più significativa e utilizza la seguente scaletta: • • • •
Il luogo geografico interessato da questa rivoluzione Il momento storico in cui si realizzò la rivoluzione agricola Le recinzioni o enclosures La rotazione pluriennale
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Il nuovo rapporto tra agricoltura e allevamento L’imprenditore agricolo capitalistico La produzione per il mercato La manodopera salariata
4 Completa la seguente mappa relativa all’industria rurale e all’economia industriosa. Nel corso del tempo le corporazioni di mestiere cittadine diventarono anacronistiche perché
Ciò comportò il trasferimento delle attività produttive nelle campagne perché
• si chiusero sempre più ad ogni innovazione
Nacque la figura del mercante imprenditore che si occupava di:
Questa industria domestica rurale consentì alle famiglie di
• fornire la materia prima alle famiglie contadine
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a. Qual è l’andamento generale della popolazione tra il 1520 e il 1650 in Cina e in Europa? Come varia invece la popolazione americana? b. Come varia la popolazione in Europa dopo il 1650? c. In quale Stato si registra la maggiore variazione demografica dopo il 1650? Quali Stati appaiono in controtendenza? d. Qual è lo Stato più popolato nel 1600? E nel 1800?
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5 Redigi un testo sull’andamento demografico fra XVI e XVIII secolo. A tal fine osserva con attenzione il grafico e rispondi alle seguenti domande:
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C2 Gli Stati e le guerre del ’700 EXTRA ONLINE
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Eventi chiave La battaglia di Rossbach Il Libro N. Elias, La società di corte
Storia e Geografia Il Baltico Storia e Cinema Barry Lyndon di S. Kubrik
Lezioni attive Parlamentarismo e assolutismo a confronto
L’assolutismo in Francia «Io me ne vado, ma lo Stato rimarrà per sempre». Queste parole furono pronunciate da Luigi XIV sul letto di morte: parole ascoltate da uno stuolo di cortigiani raccolti intorno a lui. Era il 1715 e Luigi aveva regnato più di settant’anni da quando, bambino di neanche cinque anni, era succeduto al padre nel 1643. Nei primi tempi il paese era rimasto affidato alla reggenza della regina madre Anna (degli Asburgo di Spagna) e al cardinale Mazzarino, che aveva traghettato la Francia attraverso le due guerre civili della Fronda e salvato la monarchia dei Borbone: ma nel 1661, alla morte di Mazzarino, il giovane re aveva iniziato a governare in prima persona. Era finita l’epoca dei grandi ministri, Richelieu e Mazzarino, e iniziava l’età di Luigi XIV.
egemonia È la supremazia di uno Stato su altri Stati o, più in generale, la preminenza esercitata in qualche settore politico, economico, culturale, sociale.
Documento 13 Luigi XIV, I Mémoires, p. 97
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IL REGNO DI LUIGI XIV Non fu un periodo di benessere per il popolo francese, colpito da ricorrenti carestie e vessato da una dura imposizione fiscale, causa di frequenti rivolte popolari. Né fu un periodo di pace, perché per trent’anni la Francia fu in guerra, spesso contro quasi tutto il resto d’Europa, mentre si consolidava il rafforzamento della monarchia assoluta. Fu invece un periodo di “gloria” – uno dei valori più apprezzati e celebrati dai ceti superiori della società del tempo –, una gloria legata all’audacia delle gesta militari e accompagnata dal rafforzamento della monarchia. Anche se l’aggressiva politica estera francese fu a più riprese contenuta, ma mai definitivamente sconfitta, Luigi XIV riuscì a consolidare l’egemonia* continentale della Francia e si impose come modello a tutti gli altri sovrani assoluti. L’egemonia della Francia ebbe anche altri connotati: in quegli stessi anni, infatti, il francese si affermò non solo come la lingua della diplomazia, ma anche come lingua parlata e scritta di tutta l’élite nobiliare dell’Europa centro-orientale. L’ACCENTRAMENTO DEI POTERI Luigi XIV accentrò nelle sue mani il governo dello Stato, circondandosi di ministri e collaboratori capaci ma senza rinunciare mai al suo diretto intervento nelle principali questioni. La carica più importante del suo regno fu quella di controllore generale delle Finanze, che aveva giurisdizione su tutti gli aspetti della politica interna. Dal 1665 al 1683 ne fu titolare Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), il principale collaboratore del re e l’ispiratore della politica economica. Per l’amministrazione locale vennero impiegati gli intendenti, funzionari di origine borghese e di recente nobilitazione (la cosiddetta nobiltà di toga*) alle dirette dipendenze della Corona, che videro aumentati i loro poteri e le loro competenze a scapito dei governatori provinciali, rappresentanti dell’antica nobiltà di spada*. Questa politica consentiva di superare, a vantaggio del potere centrale, le difficoltà derivanti dalla venalità delle cariche: il sistema in base al quale gran parte delle cariche amministrative e giudiziarie potevano essere acquistate e vendute (in questo senso erano “venali”), ma soprattutto trasmesse in eredità, sottraendole al diretto controllo del sovrano.
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C2 Gli Stati e le guerre del ’700
nobiltà di spada/nobiltà di toga Così è indicata la distinzione tra l’“antica” nobiltà, fondata sul sangue, e la “nuova” nobiltà, derivata dall’esercizio di uffici pubblici. Per ottenere denaro, infatti, la monarchia metteva in vendita cariche che, una volta acquistate, potevano essere trasmesse in eredità garantendo, di fatto, la continuità del titolo nobiliare legato alla carica acquistata. Mentre la nobiltà di spada apparteneva alle famiglie degli antichi feudatari, la cui originaria funzione era stata quella di combattere a fianco del re, la nobiltà di toga era costituita da ex borghesi, arricchitisi grazie a diverse attività economiche, passati poi ad occupare cariche amministrative e giudiziarie al servizio dello Stato.
Storiografia 14 W. Reinhard, Il mito del monarca, p. 98
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LA REGGIA DI VERSAILLES Il “capolavoro” dell’assolutismo di Luigi XIV fu la Reggia di Versailles, sia perché vi fu concentrato tutto il potere, sia per la “rappresentazione” stessa del potere assoluto. La costruzione di una nuova reggia in una località distante una ventina di chilometri da Parigi, dove la corte e il governo si trasferirono nel 1682, sottrasse la monarchia agli eventuali pericoli di sommosse cittadine. L’obbligo imposto alla grande nobiltà di risiedervi e i vantaggi che essa ne trasse, in termini di pensioni e di donativi, sancirono il definitivo asservimento dell’aristocrazia proprio mentre le venivano assicurati privilegi e distinzione di ceto. La vita a corte era regolata da rigide prescrizioni – l’etichetta – e da un complesso cerimoniale fondato su un’accurata scala di precedenze. L’etichetta, che peraltro era solo uno degli effetti di una più generale opera di disciplinamento sociale promossa dall’assolutismo, fu la rappresentazione simbolica della nuova gerarchia del potere e della “distanza”, ormai codificata in innumerevoli livelli, fra il re e i vari esponenti della nobiltà: il sovrano non era più “il primo dei gentiluomini”, un primus inter pares (“primo fra pari”) – come voleva l’antica concezione nobiliare – ma l’artefice principale di un sistema di distinzione gerarchica, duramente contestato dai difensori della tradizione. LA POLITICA CULTURALE: LA CELEBRAZIONE DEL POTERE L’esercizio di un dominio assoluto fu accompagnato dalla ricerca di tutto ciò che poteva accrescere il prestigio della Francia e del suo re. Se Luigi XIV aveva scelto il Sole come proprio emblema (sarà infatti chiamato il Re Sole), il suo regno doveva trarre sempre nuovo splendore dalle iniziative del sovrano. In questa prospettiva va inserito il patrocinio delle arti e delle scienze promosso dal re e da Colbert. Scrittori, letterati e uomini di teatro (come Molière e Racine) furono protetti e stipendiati. Il re e i suoi ministri favorirono la formazione di una cultura ufficiale, fortemente celebrativa, che non tollerava voci dissenzienti: venne attentamente esercitata la censura, furono perseguitati gli autori di opposizione e distrutti i loro scritti. LA POLITICA RELIGIOSA: IL GALLICANESIMO L’esigenza di uniformità e di controllo investì anche quei settori della vita religiosa e dell’organizzazione ecclesiastica che presentavano aspetti di difformità, diversità o dissidenza. Del resto, l’intervento dello Stato in materia ecclesiastica non era certo una novità in Francia: poggiava anzi sulla lunga tradizione delle cosiddette “libertà gallicane” (ossia dei Galli, nome degli antichi abitanti della Francia), espressione che designava l’autonomia da Roma del re di Francia soprattutto nella nomina dei vescovi e dei titolari dei benefici ecclesiastici. Nel 1682 Luigi XIV volle ribadire il gallicanesimo facendo approvare dal clero francese una dichiarazione nella quale si affermava STORIA IMMAGINE Pierre Mignard, La Vittoria corona d’alloro Luigi XIV seconda metà XVII sec. [Galleria Sabauda, Torino] Luigi XIV perseguì sempre la ricerca di tutto ciò che poteva accrescere il proprio prestigio personale oltre che quello della nazione: in molti ritratti, ad esempio, egli si fece raffigurare nelle vesti del condottiero romano
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al fine di paragonare la grandezza del proprio regno a quella dell’Impero di Roma. Nel dipinto, eseguito da Pierre Mignard, l’artista aggiunge il dettaglio di un’allegoria della Vittoria che con una mano incorona il sovrano, con l’altra mostra uno stendardo su cui si intravede il Sole, simbolo di Luigi XIV (chiamato appunto il “Re Sole”), circondato dal motto Nec pluribus impar (“Non inferiore a nessuno”).
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anche la superiorità del concilio sul papa e insieme si negava l’infallibilità del pontefice, se privo del consenso generale della Chiesa. Fu dunque per ragioni essenzialmente politiche, legate appunto al rafforzamento del potere assoluto, che Luigi XIV perseguitò sia i giansenisti sia gli ugonotti. LA PERSECUZIONE DEI GIANSENISTI
Ÿ La facciata verso i giardini della Reggia di Versailles 1661-82
Il giansenismo fu il principale movimento di dissidenza cattolica del ’600 e del ’700. Nato dalle tesi del teologo olandese Cornelio Giansenio (1585-1638), riprendeva le posizioni di sant’Agostino sostenendo che la grazia costituiva un dono divino concesso indipendentemente dai meriti: solo così la volontà umana diviene veramente libera di operare il bene. A questa visione si accompagnava una religiosità austera e rigorosa, ostile alle forme di compromesso e di indulgenza praticate dai gesuiti. Nella polemica contro questi ultimi si distinse lo scienziato e filosofo Blaise Pascal (1623-1662), membro della più importante comunità di giansenisti, quella che si riuniva intorno ai due monasteri di Port-Royal, uno a Parigi e l’altro nelle vicinanze della capitale. Divenuto un attivissimo centro culturale e di opposizione politica, che faceva proseliti soprattutto fra la nobiltà di toga, Port-Royal fu soppresso nel 1709. LA REVOCA DELL’EDITTO DI NANTES Mentre Richelieu aveva combattuto e distrutto i privilegi politici e militari dei calvinisti francesi – concessi dall’editto di Nantes del 1598 –, mantenendo tuttavia quelli religiosi, Luigi XIV decise di riportare il paese all’unità in materia di fede. Questa scelta rispondeva a un insieme di motivi diversi: la convinzione del re che la Francia non avesse più bisogno dell’alleanza internazionale dei principi protestanti si unì al desiderio di apparire, agli occhi del mondo cattolico, come il campione della Cristianità – titolo che, dal 1683, sembrava spettare all’imperatore austriaco che era riuscito a respingere la minacciosa avanzata dei turchi sotto le mura di Vienna. Nel 1685 si volle far credere che l’eresia della religione cosiddetta “riformata” fosse ormai interamente scomparsa per giustificare la revoca dell’editto di Nantes. I pastori protestanti furono espulsi dalla Francia e, nonostante i divieti di abbandonare il paese, 200-300 mila ugonotti (così erano detti i calvinisti francesi) lasciarono la Francia alla volta di altri paesi europei. GLI UGONOTTI IN EUROPA Dal punto di vista politico fu un trionfo dell’assolutismo monarchico e costituì la dimostrazione che, di fronte ai poteri di controllo e intervento ormai raggiunti dallo Stato, la minoranza religiosa non era più in grado di opporre, come sarebbe accaduto solo qualche anno prima, lo scatenamento di una guerra civile. Ma dal punto di vista economico, la revoca dell’editto di Nantes fu per la Francia una perdita netta soprattutto in termini di capitali e di risorse umane. I 200-300 mila ugonotti (su oltre un milione) costretti a emigrare si rifugiarono in Svizzera, Germania, Inghilterra e Olanda. Si trattò per gran parte di artigiani, che portarono all’estero la loro abilità e specializzazione tecnica, soprattutto nel campo tessile; ma molti furono anche i mercanti, gli intellettuali e gli uomini di cultura. Decisivo fu il loro apporto al popolamento di Berlino e allo sviluppo delle
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attività manifatturiere nel Brandeburgo, dove si rifugiarono in 20 mila. Circa 65 mila furono i rifugiati in Olanda e fra questi numerosi intellettuali che vi costituirono importanti centri di produzione culturale antifrancese e antiassolutista. LA RIVOLTA DEI CAMISARDS La sola reazione armata legata alla revoca dell’editto di Nantes fu l’assai più tarda rivolta popolare dei camisards (dalle “camicie” che portavano sugli abiti per mimetizzarsi nelle incursioni notturne) che, fra il 1702 e il 1704 – ma con strascichi fino al 1713 –, infiammò la regione montana della Cevenne, unendo la protesta per la persecuzione contro gli ugonotti (assai numerosi in quella zona del Mezzogiorno francese) ai tradizionali motivi antifiscali. Il potenziamento della fiscalità regia fu infatti la causa principale delle rivolte popolari del ’600 che, diversamente da alcuni episodi del secolo precedente, non ebbero quasi mai il carattere di rivolte antifeudali o antisignorili.
ź Luigi XIV visita le Manifatture Reali dei Gobelins 1667 ca. [Collezioni del Mobilier National, Versailles]
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IL MERCANTILISMO Nei primi decenni del regno di Luigi XIV lo Stato intervenne anche in molti settori dell’economia, estendendo il suo controllo soprattutto sulle attività manifatturiere e mercantili. Colbert fu l’ispiratore e l’artefice principale di questo intervento, che da lui prese il nome di colbertismo, la più completa realizzazione del mercantilismo. Nato dalla consapevolezza dell’importanza ormai raggiunta dal commercio internazionale nel determinare la ricchezza delle nazioni, il mercantilismo fu al tempo stesso una teoria e una politica economica, largamente praticata in molti Stati d’Europa. Come teoria era fondato sulla convinzione che la ricchezza dello Stato derivasse dalla quantità di metalli preziosi presenti all’interno del paese; come politica economica mirava, grazie all’intervento diretto dello Stato, ad accrescere il saldo attivo della bilancia commerciale. Ciò vuol dire, in linguaggio meno tecnico, perseguire una politica commerciale che faccia “entrare” in un paese più moneta di quanta ne esca, in modo che il saldo (il risultato finale) sia attivo. Colbert cercò di raggiungere questo obiettivo favorendo le esportazioni – e determinando quindi un afflusso di moneta dall’estero – e penalizzando le importazioni (limitando il deflusso di moneta verso l’estero). La protezione dei prodotti nazionali (protezionismo) a scapito di quelli stranieri servì a favorire questo risultato. Colbert patrocinò la fondazione di compagnie commerciali privilegiate e l’espansione coloniale nelle Antille, in Africa e in India; istituì e protesse manifatture sovvenzionate dallo Stato per la fabbricazione di beni di lusso (arazzi, specchi, porcellane, ecc.), destinati in gran parte all’esportazione; introdusse infine una serie di pesanti controlli di uniformità che avrebbero dovuto agevolare lo smercio dei prodotti. In realtà il colbertismo, nonostante le energie impiegate dal suo ideatore, si rivelò un fallimento. Le compagnie commerciali, infatti, non furono in grado di reggere senza l’appoggio dello Stato e, mentre i criteri di uniformità produttiva furono largamente evasi, l’insieme dei vincoli all’importazione fu aspramente osteggiato dai ceti mercantili favorevoli alla libertà di commercio. La politica di Colbert fu, per gran parte, una risposta in termini assolutistici a un contrasto e a una rivalità commerciale che aveva nelle Province Unite – comunemente chiamate Olanda – il principale avversario.
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Storiografia G. Ruocco, Il potere di Luigi XIV
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Storiografia 14 W. Reinhard, Il mito del monarca, p. 98
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I limiti dell’egemonia francese LE GUERRE DI LUIGI XIV E IL PROGETTO ESPANSIONISTICO Non bastavano certo l’imposizione dell’uniformità religiosa, né la repressione delle rivolte contadine, né l’espansione coloniale e neppure la protezione delle arti o lo splendore di una reggia a costruire un grande regno. Per la scala di valori di quell’epoca la fama si otteneva sui campi di battaglia con la gloria militare, con la conquista di nuove città e territori. Per questo si armava e potenziava un esercito permanente, si costruivano opere di difesa e piazzeforti lungo i confini. Il rafforzamento dell’esercito fu opera del ministro della Guerra, il marchese di Louvois, che realizzò per la prima volta un’amministrazione interamente centralizzata e aprì il corpo degli ufficiali ai giovani di origine borghese. Il potenziamento militare fu posto al servizio di una politica di espansione e Luigi XIV fu quasi sempre in guerra, alternativamente con quasi tutti gli Stati europei. Dal 1667 al 1697 la Francia perseguì con successo l’obiettivo di allargare i propri confini a est, con l’annessione della Franca Contea e della città libera di Strasburgo, e a nord con la conquista di Lille e di parte delle Fiandre a spese dei Paesi Bassi spagnoli. LA GUERRA DI SUCCESSIONE SPAGNOLA Più complessa fu la vicenda legata alla successione sul trono di Spagna. Quando, nel 1700, Carlo II morì senza figli e con lui si estinse la dinastia degli Asburgo di Spagna, si scoprì che aveva designato come erede universale dei suoi regni Filippo di Borbone, duca d’Angiò, nipote di Luigi XIV e della sua sposa Maria Teresa (sorellastra del re defunto), purché i due rami della dinastia dei Borbone (della monarchia di Francia e di Spagna) rimanessero separati. Filippo salì sul trono di Spagna, con il nome di Filippo V, ma nessuna delle grandi potenze europee era disposta a credere che la clausola della separazione sarebbe stata rispettata. Luigi XIV per primo, avviando l’occupazione dei Paesi LA FRANCIA DI LUIGI XIV L’ASSOLUTISMO DI LUIGI XIV
Accentramento dei poteri
Depotenziamento aristocrazia
Obbligata a vivere a Versailles
Economia
Creazione di un apparato burocratico di
intendenti
Mercantilismo
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di estrazione borghese stipendiati dalla Corona
Espansionismo
Cattolicesimo religione di Stato
Annessione di: Franca Contea, Strasburgo, Lille e parte delle Fiandre
Revoca editto di Nantes
Guerra di successione spagnola
Manifatture statali
Tariffe protezionistiche Neutralizzata da concessioni e privilegi
Religione
Compagnie commerciali
Emigrazione ugonotti
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Bassi spagnoli, non sembrava volerla onorare. Le altre grandi potenze europee – Austria, Inghilterra e Province Unite, seguite tra le altre dalla Prussia – non potevano accettare il rischio dell’unificazione delle Corone di Francia e Spagna, che avrebbe dato vita a un enorme impero in Europa e nelle Americhe, ed entrarono in guerra. Il conflitto che ne seguì durò oltre dieci anni (dal 1702 al 1714) e le due paci che lo conclusero – quella di Utrecht nel 1713 e quella di Rastatt nel 1714 – ridimensionarono le ambizioni di Luigi XIV. Fu mantenuta la separazione dei due rami dei Borbone, mentre all’Austria di Carlo VI (1711-40) vennero concessi larghi vantaggi territoriali, a spese della Spagna, in Italia e nelle Fiandre quale compenso alla rinuncia degli Asburgo d’Austria alla riunificazione dei domìni asburgici quali erano stati al tempo dell’imperatore Carlo V. BILANCIO DI UN REGNO Nel 1715 Luigi XIV morì: il suo lungo regno è considerato come il momento più alto della monarchia assoluta in Europa. Questo giudizio corrisponde solo in parte a quanto realmente avvenuto dal momento che il progetto assolutista rimase largamente incompiuto e limitato dai molti compromessi con le élite locali e con gli organismi giudiziari, i Parlamenti, spesso in conflitto con il sovrano. Riflette invece in larga misura l’autorappresentazione della monarchia, della sua pompa e del suo splendore, propagandata dalle gazzette del tempo e da innumerevoli immagini. Una rappresentazione accettata dai contemporanei e confermata dai posteri. IL REGNO DI LUIGI XV: IL FALLIMENTO DELLA RIFORMA FINANZIARIA L’ascesa al trono di Luigi XV (1715-74), pronipote di Luigi XIV, iniziava di nuovo con un periodo di reggenza, affidata a Filippo d’Orléans, dal momento che il nuovo re era anche lui un bambino di appena cinque anni. Ma, a differenza del predecessore, quando raggiunse la maggiore età Luigi XV affidò il governo del paese ai suoi ministri. 2
MARE DEL NORD
REGN O DEL PORT OGAL LO
REGNO DI SICILIA
MAR NERO Istanbul
RO
Roma Napoli Minorca REGNO REGNO DI SARDEGNA DI NAPOLI
PE
Gibilterra
UNGHERIA
SVIZZERA
IM
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Lisbona
REGNO DI SPAGNA
Monaco
Kiev
Vienna
SAVOIA
Asburgo d’Austria Gran Bretagna Savoia Prussia Repubblica di Venezia confine dell’Impero
Rastatt
SO
IMPERO ROMANO GERMANICO
Avignone
Madrid
Utrecht
REGNO DI POLONIA
Varsavia
Berlino
S RU
NITE E U NC
Parigi Versailles REGNO DI FRANCIA
OCEANO ATLANTICO
Mosca Copenaghen
RO
Londra
San Pietroburgo Stoccolma
PE
REGNO DI GRAN BRETAGNA
Nystad REGNO DI SVEZIA
IM
Nel 1714, alla conclusione della guerra di successione spagnola, le modifiche territoriali più significative riguardarono l’Italia, dove il dominio della Spagna fu sostituito da quello degli Asburgo d’Austria in Lombardia, in Sardegna e nel Regno di Napoli. Lo Stato sabaudo ottenne la Sicilia ed estese i suoi possessi verso la Lombardia. L’Inghilterra conquistò Minorca e Gibilterra, la posizione chiave per il controllo del Mediterraneo.
REGNO DI DANIMA RCA E
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L’EUROPA NEL 1714
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LO SPAZIO DELLA STORIA
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a Venezia fino al 1718 MAR MEDITERRANEO
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accaparramento speculativo È quello che accade nel mercato azionario quando gli speculatori acquistano in grande quantità azioni a basso costo e in questo modo (per la legge della domanda e dell’offerta) ne fanno aumentare il valore: più un bene è richiesto, infatti, più il suo prezzo aumenta. Quindi le rivendono, ricavandone un guadagno; ma questo guadagno non dipende da un intrinseco aumento del valore del bene venduto. A lungo andare questo sistema, che fa gonfiare il valore delle azioni a dismisura, scoppia come una bolla di sapone: quando gli speculatori vogliono convertire i titoli in moneta, infatti, dal momento che non si è verificato un reale incremento di ricchezza monetaria, il sistema collassa. È quello che, due secoli dopo, accadrà grosso modo negli Stati Uniti nella crisi del ’29, e si ripeterà ciclicamente nelle economie capitalistiche, fino ai giorni nostri.
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L’episodio più significativo degli anni della reggenza fu l’esperimento di riforma finanziaria tentato dallo scozzese John Law tra il 1716 e il 1720. Law propose una vera e propria rivoluzione monetaria e insieme una riforma fiscale. La prima era basata sulla sostituzione della moneta metallica con quella cartacea, garantita dalle azioni di una compagnia commerciale costituita allo scopo, la Compagnia d’Occidente (poi delle Indie). La seconda si fondava sull’abolizione delle imposte dirette e indirette a favore di una imposta fondiaria unica e sull’abolizione degli appalti per la riscossione delle imposte (causa, da sempre, di inefficienze e corruzione). L’obiettivo era quello di annullare il gravosissimo deficit del bilancio statale con una conversione dei titoli del debito pubblico in azioni della Compagnia e di aumentare la ricchezza del paese in virtù di una più rapida circolazione del denaro. La carta moneta ottenne la fiducia del pubblico, ma presto si innescò un meccanismo di accaparramento speculativo* che portò le azioni alle stelle senza alcun rapporto con il loro valore reale. Quando gli speculatori più avvertiti cominciarono a vendere e a chiedere la conversione della moneta cartacea in quella metallica, fu il crollo di un sistema che, come aveva favorito rapidissimi arricchimenti, provocò ora altrettanto rapidi impoverimenti. Molti programmi e intuizioni di Law erano validi e anticipatori, ma le basi dello sviluppo economico francese non erano tali da sostenere una trasformazione così rilevante, ed eminentemente speculativa, delle strutture finanziarie. I problemi del debito e delle finanze pubblici erano destinati a divenire uno dei nodi irrisolti di tutta la politica francese del ’700. GUERRE E CRISI FINANZIARIA Nella prima fase del regno di Luigi XV il prestigio francese rimase intatto e non mancarono i successi militari e diplomatici, in particolare nel corso di due diverse guerre di successione, quella polacca e quella austriaca, che consentirono l’annessione dell’importante provincia orientale della Lorena. Durante la cosiddetta guerra dei Sette anni (1756-63), invece, si consumò il conflitto tra Francia e Gran Bretagna, schierate su fronti opposti, per il controllo dei domìni coloniali: il conflitto si risolse in una sconfitta epocale dei francesi con la perdita di ampi territori in America del Nord (il Canada) e dei recenti insediamenti in India (sui conflitti che segnarono il ’700 Ź2_5). Nonostante questi gravi insuccessi la Francia rimaneva pur sempre la maggiore potenza continentale europea, ma gli scandali, gli intrighi e la corruzione della corte e il ruolo stesso della monarchia, interpretato da un re irresoluto in
STORIA IMMAGINE Robert-François Damiens davanti ai giudici nella fortezza del Grand Châtelet il 2 marzo 1757 [Bibliothèque Nationale, Parigi] Se nei primi anni della sua monarchia Luigi XV aveva ottenuto grande popolarità, tanto da essere soprannominato le bien aimé (“il beneamato”), con il passare del tempo il consenso attorno alla sua persona andò scemando e il malcontento crescendo. Nel gennaio del 1757 un uomo del popolo, Robert-François Damiens, tentò di accoltellare il re, colpevole, a suo dire, di essersi circondato di cattivi consiglieri e ministri e di aver trascurato il benessere del suo popolo. Il mancato regicida fu condannato a morte con una procedura ritenuta “esemplare”: sulla pubblica piazza, Damiens fu sottoposto a svariate forme di tortura, prima di essere squartato da quattro cavalli che ne tiravano le membra in direzioni opposte e poi bruciato sul rogo.
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politica e dissoluto nella vita privata, per di più troppo attento alle opinioni e agli intrighi delle sue amanti (fra cui la celebre Madame de Pompadour), sollevavano la critica velenosa dei polemisti, degli intellettuali e dell’opinione pubblica borghese. Inoltre gli altissimi costi delle guerre avevano ormai innescato una crisi finanziaria alla quale il governo non riuscì a porre rimedio né allora né in seguito, data l’impossibilità di tassare il clero e i ceti nobiliari, fino a sfociare in una più ampia crisi del sistema assolutista e nel suo tracollo con la Rivoluzione del 1789 [Ź7_1].
La rivoluzione del 1688-89 3 in Inghilterra Parole della storia Monarchia costituzionale, p. 31 Fare storia Due modelli di monarchia a confronto, p. 97
ź Lo sbarco del Principe di Orange a Torbay il 4 novembre 1688 [incisione di William Miller da un originale di J.M. William Turner, pubblicata in «The Art Journal», Londra 1852]
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Gli anni che vanno dal 1660 al 1730 videro in Inghilterra prima la sconfitta di una monarchia a vocazione assolutista, poi il prevalere della sovranità del Parlamento in tutte le grandi questioni politiche – dalla definizione dei diritti dei sudditi alle norme per la successione al trono –, infine la nascita di un governo controllato dal Parlamento. DA GIACOMO II STUART A GUGLIELMO II D’ORANGE Dopo la breve esperienza della Repubblica di Cromwell (1650-60), la restaurazione monarchica della dinastia Stuart, sancita nel 1660 dall’incoronazione di Carlo II, aveva lasciato irrisolto e anzi accentuato il dualismo di poteri tra la Corona e il Parlamento. Quando nel 1685, dopo la morte di Carlo II, il fratello Giacomo II salì al trono e iniziò a governare, il conflitto si riaccese fino a sfociare tre anni dopo in una soluzione rivoluzionaria. Giacomo II infatti non solo si era convertito al cattolicesimo, ma dal suo secondo matrimonio con una nobile italiana della casa d’Este era nato un erede maschio che minacciava la continuità della monarchia protestante. Inoltre la politica assolutista del re, ispirata a quella di Luigi XIV, puntava a modernizzare lo Stato costruendo un organismo accentrato e burocratico, a ridurre i privilegi della Chiesa anglicana, a distribuire le cariche tra l’esigua minoranza cattolica. Tutte queste iniziative suscitarono una diffusa opposizione nel paese tanto da indurre sette esponenti della nobiltà inglese a inviare, nel giugno 1688, una lettera a Guglielmo d’Orange, governatore delle Province Unite e marito di Maria, figlia di primo letto di Giacomo II, per invitarlo a intervenire militarmente in difesa delle «libertà inglesi e della religione protestante». Approntata una flotta, il 4 novembre 1688, Guglielmo sbarcò sulla costa meridionale dell’Inghilterra con 11 mila fanti e 4 mila cavalieri. Giacomo II, indebolito dalla defezione di molti dei suoi ufficiali, si sottrasse allo scontro, ma venne catturato e brevemente imprigionato salvo consentirgli, poco dopo, di fuggire in Francia. Nel febbraio 1689 il Parlamento, dopo una complessa trattativa tra Camera dei Lord e Camera dei Comuni, proclamò Guglielmo e Maria unitamente re e regina d’Inghilterra, con il titolo di Guglielmo III e Maria II.
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IL BILL OF RIGHTS E L’ ACT OF SETTLEMENT Nel mese successivo i due sovrani accettarono una dichiarazione dei diritti che elencava gli abusi di Giacomo II, le prerogative del Parlamento e i compiti dei nuovi sovrani, quale condizione politica per la loro ascesa al trono. Questo testo, trasformato in legge dal Parlamento il 18 dicembre 1689, è noto come Bill of Rights («la legge sui diritti dei sudditi e sulle norme della successione»). In una serie di punti si stabiliva, tra l’altro, il divieto per il sovrano di sospendere l’applicazione delle leggi e di tenere un esercito permanente in tempo di pace senza il consenso del Parlamento, si riaffermava la libertà delle elezioni politiche, la libertà di stampa e di parola, nonché il diritto dei sudditi protestanti di tenere armi per propria difesa; infine si escludeva la possibilità che un discendente cattolico della famiglia Stuart salisse sul trono di
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LEGGERE LE FONTI
Il «Bill of Rights» (1689) da G. Garavaglia, Società e rivoluzione in Inghilterra, Loescher, Torino 1978, pp. 213-17
Nella Camera dei Lord del Regno Unito siedono membri ecclesiastici (lord spirituali) e laici (lord temporali). Nel primo caso si tratta di vescovi della Chiesa d’Inghilterra, nel secondo di esponenti di antiche famiglie nobiliari.
I sudditi di religione protestante possono detenere armi per difesa personale secondo i termini previsti dalla legge. Con questa norma i parlamentari inglesi vogliono tutelare i protestanti penalizzati durante il breve regno di Giacomo II Stuart (1685-88). Il sovrano, infatti, dopo essersi convertito al cattolicesimo, aveva favorito la presenza dei cattolici nell’esercito e nell’amministrazione statale.
Il Bill of Rights (“Dichiarazione dei diritti”) è una proposta di legge presentata dal Parlamento inglese nel 1689 e accettata dai nuovi sovrani d’Inghilterra, Guglielmo III d’Orange e Maria Stuart. Il documento si compone di tredici articoli. Il testo ha un valore fondamentale nella formazione del sistema costituzionale inglese: stabilisce,
I suddetti Lords spirituali e temporali, e i Comuni [...] ora riuniti in un organo pienamente e liberamente rappresentativo di questa nazione [...], in primo luogo per l’asserzione dei loro antichi diritti e libertà, dichiarano: 1. Che il preteso potere di sospendere dalle leggi, o dall’applicazione delle leggi, per autorità regia, senza consenso del Parlamento, è illegale. 2. Che il preteso potere di dispensare dall’osservanza delle leggi, e dall’esecuzione delle leggi, per autorità regia, come è stato fatto di recente, è illegale. 3. Che la commissione per costituire una corte di commissari per cause ecclesiastiche e ogni altra commissione o corte di simile natura sono illegali e dannose. 4. Che la raccolta di denaro ad uso della corona, sotto pretesto di prerogativa, senza concessione del Parlamento, per un periodo più lungo, o in modi diversi da quelli da esso fissati, è illegale. 5. Che è diritto dei sudditi di rivolgere petizioni al re, e ogni arresto e processo per questo sono illegali. 6. Che radunare o mantenere un esercito permanente nel regno in tempo di pace, senza il consenso del Parlamento, è illegale. 7. Che i sudditi protestanti possono tenere armi per la propria difesa secondo le proprie condizioni e come è consentito dalla legge. 8. Che le elezioni dei membri del Parlamento devono essere libere. 9. Che la libertà di parola, e i dibattiti o i procedimenti in Parlamento, non debbono essere posti sotto accusa o contestati in nessun tribunale o luogo al di fuori del Parlamento. 10. Che cauzioni eccessive non devono essere chieste né imposte ammende eccessive, né inflitte punizioni crudeli e insolite. 11. Che i giurati devono essere nominati regolarmente e che i giurati che processano uomini per alto tradimento devono essere freeholders. 12. Che ogni concessione e promessa di ammende e confische di persone singole prima della sentenza di colpevolezza sono illegali e nulle. 13. E che per rimediare a tutte le lagnanze, e per correggere, rafforzare e difendere le leggi, si devono tenere frequenti parlamenti.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nel documento i deputati della Camera dei Lord e dei Comuni si dichiarano rappresentanti di tutti i sudditi del Regno. Per quale ragione i parlamentari inglesi hanno deciso di riunirsi e sottoscrivere il Bill of Rights? b I deputati della Camera dei Lord e dei Comuni affermano che il re può esercitare
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infatti, il controllo del Parlamento sulle decisioni del re e garantisce ai sudditi una serie di diritti e libertà di grande importanza storica e civile. L’approvazione del Bill of Rights segna l’atto di nascita della monarchia parlamentare inglese, la forma di governo ancora oggi in vigore nel Regno Unito.
i suoi poteri in campo giuridico, fiscale e militare soltanto ad una precisa condizione. Quale? c Nel documento si afferma, più volte, che le decisioni del re devono essere prese in accordo con il Parlamento. Che cosa succede se il re compie un atto (impone nuove tasse,
Il termine “Comuni” indica i deputati della Camera dei Comuni, il secondo ramo del Parlamento britannico. A partire dalla metà del XIII secolo, l’espressione “comuni” è utilizzata per identificare i borghi o i villaggi nei quali venivano eletti i rappresentanti di questa Camera. Si trattava in genere di piccola nobiltà terriera o talora di membri delle corporazioni artigianali.
Liberi proprietari.
dichiara una guerra, ecc.) senza il consenso del Parlamento? d I parlamentari hanno il diritto di esprimere liberamente le loro opinioni quando sono riuniti in assemblea. Quali garanzie sono assicurate ai parlamentari per rendere concreto ed effettivo questo diritto?
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Inghilterra. Il Bill of Rights divenne la legge fondamentale del regno. Ma nel 1701, di fronte alla mancanza di eredi protestanti del ramo principale degli Stuart, il Parlamento decretò il passaggio del trono alla casata tedesca degli Hannover, lontani parenti protestanti degli Stuart: ci riuscì approvando l’Act of Settlement (la legge della successione che impediva a un cattolico di salire al trono) e riaffermando così la supremazia degli organismi rappresentativi in Inghilterra. LA SECONDA RIVOLUZIONE INGLESE: “GLORIOSA” MA TUTT’ALTRO CHE PACIFICA
Storiografia 16 G. Garavaglia, La monarchia costituzionale inglese, p. 100
Gli avvenimenti del 1688-89 sono passati alla storia col nome di “gloriosa rivoluzione”, una definizione destinata a celebrare la soluzione pacifica di un conflitto in cui vincitori e perdenti avevano tenuto un atteggiamento moderato. Questa volta il re era fuggito, non era stato decapitato come Carlo I nel 1649 al culmine della prima Rivoluzione inglese, e il radicalismo politico era stato bandito dalla contesa. Questa volta aveva prevalso la tolleranza nei confronti dei protestanti che non si riconoscevano nella Chiesa anglicana (puritani e quaccheri), liberi ora di professare i loro culti (grazie al Toleration Act del 1689): una tolleranza che non si estendeva tuttavia ai cattolici (“i papisti”) che rimanevano nemici irriducibili. Questa volta la rivoluzione non era sfociata in una dittatura, com’era stata quella di Cromwell, ma era nata una monarchia di tipo costituzionale fondata sulla separazione dei poteri tra re e Parlamento. Un sistema politico che aveva i suoi fondamenti nel Bill of Rights e nella precedente legge sull’Habeas corpus (1679), la norma che impediva gli arresti arbitrari imponendo che entro tre giorni un giudice convalidasse il fermo dell’accusato: questa tutela, che garantiva gli avversari politici, sarebbe diventata uno dei capisaldi di ogni ordinamento liberale e/o democratico. In realtà la rivoluzione del 1688-89, se fu “gloriosa” per i risultati politici conseguiti, fu tutt’altro cha pacifica. Non fu il risultato di un tranquillo accordo tra
LE PAROLE DELLA STORIA
Monarchia costituzionale Il riconoscimento da parte di Guglielmo III d’Orange e di Maria Stuart del Bill of Rights (1689) rappresenta l’atto di fondazione della monarchia costituzionale inglese, destinata a divenire il modello di governo da imitare. La monarchia costituzionale è infatti quel sistema di governo in cui il potere regio è limitato e regolamentato dal testo unitario di una Costituzione (con l’eccezione proprio dell’Inghilterra, dove la Costituzione è formata da una serie di atti legislativi e di statuti anche diversi e lontani nel tempo, a partire dalla Magna Charta Libertatum del 1215), promulgata dallo stesso sovrano, che in tal modo riconosce l’esistenza di un altro centro di potere, il Parlamento. La Costituzione [ŹPAROLE DELLA STORIA, p. 184], infatti, sancisce la separazione dei poteri, dal momento che il sovrano continua a essere titolare del potere esecutivo, mentre al Parlamento viene in larga parte delegato il potere legislativo. La monarchia costituzionale si distingue dunque dalla monarchia assoluta (legibus
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soluta, “sciolta da ogni vincolo di legge”), che non riconosce altri poteri oltre quello del sovrano, col quale lo Stato si identifica interamente («lo Stato sono io» aveva affermato Luigi XIV di Francia); ma si distingue anche da quella “parlamentare”, nella quale il governo dipende non più dalla fiducia del re ma da quella del Parlamento. Nella monarchia costituzionale infatti i ministri, pur governando in base alla Costituzione, sono responsabili solo verso il sovrano – cui spetta la nomina del capo del governo. La monarchia costituzionale costituisce perciò una sorta di via di mezzo tra queste due forme di governo, anche dal punto di vista storico: segue, o meglio sostituisce, la monarchia assoluta e precede, in molti casi evolvendosi gradualmente, la monarchia parlamentare. È negli anni compresi tra la Restaurazione (1815) e la metà dell’800, con molto ritardo dunque rispetto all’Inghilterra, che gran parte delle case regnanti d’Europa decise di dare una forma costituzionale al proprio potere: in Francia nel 1814 (e questa fu la Carta costituzionale su cui vennero modellate le altre monarchie costituzionali), in Belgio con la rivo-
luzione del 1830, in Italia con lo Statuto albertino del 1848 (qui pochi anni dopo la monarchia costituzionale si trasformò in monarchia parlamentare), in Germania in età bismarckiana, in Russia dopo la rivoluzione del 1905. In tutti questi Stati, in cui venivano adottati codici che si ispiravano per lo più al modello napoleonico e che realizzavano in vario modo il principio dell’accentramento amministrativo e dell’uguaglianza dei sudditi, il sovrano conservava larghi poteri nel settore esecutivo, in quello legislativo e in quello giudiziario. Il Parlamento – chiamato in modo diverso nei vari paesi – in Gran Bretagna era diviso in due Camere: una Camera alta (o Camera dei Lord), composta dagli esponenti della nobiltà, a titolo ereditario e nominati a vita dal re (come, ad esempio, nel Senato italiano); una Camera bassa (o Camera dei Comuni) formata da deputati eletti dai sudditi con il sistema del suffragio ristretto, in base al quale il diritto di voto era riconosciuto ai detentori di un reddito superiore a una determinata cifra, a chi avesse un certo grado d’istruzione e ai titolari di cariche pubbliche.
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Whigs/Tories Alla fine degli anni ’70 del ’600 partigiani della monarchia e avversari della successione cattolica diedero origine a due opposti schieramenti politici, rispettivamente dei Tories e dei Whigs. Essi si denominarono reciprocamente con termini in origine denigratori: tory era il nomignolo dei banditi cattolici irlandesi; whig quello di alcuni insorti presbiteriani scozzesi.
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élite politiche e religiose sigillato dal Bill of Rights. Fu invece un aspro conflitto tra schieramenti contrapposti, contrassegnato, come tutte le altre rivoluzioni, da una vasta mobilitazione popolare, da insurrezioni, sommosse e rivolte, soprattutto in Scozia e in Irlanda, e da una dura repressione. L’episodio più significativo si ebbe nell’estate del 1690, quando lo sbarco in Irlanda del cattolico Giacomo II, alla testa di un contingente francese, aveva costretto Guglielmo III a intervenire. L’11 luglio, lungo il fiume Boyne l’esercito di Giacomo, affiancato da milizie raccogliticce di contadini cattolici irlandesi, fu sconfitto dalle più numerose e addestrate truppe di Guglielmo d’Orange, composte da reggimenti scelti olandesi e danesi a cui si erano aggiunti reparti di ugonotti francesi: fu quella l’ultima battaglia a sfondo religioso del ’600. La vittoria confermò l’esito della rivoluzione e consolidò la posizione internazionale di Guglielmo III, ma solo nel 1697 Luigi XIV riconobbe la legittimità della nuova monarchia inglese e allentò il sostegno, fino ad allora concesso, a Giacomo II e ai suoi seguaci.
Verso il governo parlamentare 4 in Gran Bretagna WHIGS E TORIES La visione della rivoluzione del 1688-89 come una rivoluzione pacifica è il frutto di una costruzione propagandistica a posteriori compiuta dai Whigs*, la fazione che dominò la vita politica inglese in quel periodo e per gran parte del ’700, in costante antagonismo con i Tories*. In realtà, l’ascesa al trono di Guglielmo e Maria fu il risultato di un accordo tra una maggioranza whig della Camera dei Comuni e una minoranza tory presente soprattutto nella Camera ereditaria dei Lords. La contrapposizione tra i due schieramenti, che diverrà poi quella tra liberali (i Whigs) e conservatori (i Tories), era basata allora più sugli orientamenti politici che sulle diverse origini sociali. Entrambi i gruppi provenivano dalla nobiltà L’INGHILTERRA DOPO LA “GLORIOSA RIVOLUZIONE”
Potere esecutivo
Re
SEPARAZIONE DEI POTERI TRA...
Parlamento
Potere legislativo
In virtù del gruppo ristretto di ministri
che delega l’azione di governo a un...
Camera dei Comuni
Camera dei Lord
eletti a suffragio ristretto
ecclesiastici, nobiltà ereditaria e nominati dal sovrano
dominata dai Whigs
dominata dai Tories
Bill of Rights scelti dal leader della maggioranza
Governo di gabinetto
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orientamento liberale
filomonarchici e conservatori
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C2 Gli Stati e le guerre del ’700
Gran Bretagna Durante il regno di Anna Stuart, l’ultima regnante della dinastia Stuart, al potere dal 1702 al 1714, il Parlamento inglese approva gli Acts of Union che stabiliscono l’unione in un unico Regno di Inghilterra, Galles e Scozia. Nasce così, nel 1707, la Gran Bretagna che insieme alle terre irlandesi costituirà in seguito il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda (1800, dal 1947 Irlanda del Nord). Ne consegue la fusione dei diversi Parlamenti del Regno in un Parlamento unico con sede a Londra. Per questo nella lingua inglese, ancora oggi, l’aggettivo “britannico”, british, ha una valenza politica oltre che geografica: si riferisce al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e anche all’isola di Gran Bretagna. L’aggettivo “inglese”, english, si riferisce all’Inghilterra (una delle nazioni del Regno Unito) e ai suoi abitanti o, sul piano linguistico, alla lingua inglese. È improprio, ma frequente, l’uso del termine “inglese” nelle due accezioni.
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terriera, grande o piccola, e solo alcuni membri (tra i Whigs) discendevano da una borghesia terriera o cresciuta al servizio dello Stato e poi nobilitata. I Tories erano monarchici e legati alla Chiesa anglicana; i Whigs, ispirati dalle nuove riflessioni politiche maturate in questo periodo, in particolare dal contrattualismo e dall’idea di tolleranza teorizzati dal filosofo John Locke [Ź3_2], erano sostenitori della sovranità del Parlamento; entrambi erano favorevoli alla politica espansionistica oltreoceano, con una preferenza dei Tories per le conquiste territoriali, mentre i Whigs erano sostenitori dello sviluppo commerciale. IL GOVERNO PARLAMENTARE Nel 1707 la Corona d’Inghilterra (con il Galles) e quella di Scozia si unirono costituendo la Gran Bretagna*. Dopo questo evento e durante il regno dei primi due sovrani della casata degli Hannover, Giorgio I (1714-27) e Giorgio II (1727-60), il predominio whig fu esercitato, dal 1721 al 1742, da Robert Walpole, un uomo politico di grande abilità. Fu con lui che nacque quella prassi politica chiamata governo di gabinetto, un governo formato da un gruppo ristretto di ministri scelto e guidato dal leader della maggioranza parlamentare che, su delega del sovrano, esercitava il potere esecutivo sotto il controllo del Parlamento. Si trattava della prima attuazione di un sistema di governo parlamentare e del passaggio da una monarchia costituzionale a una monarchia parlamentare che in Gran Bretagna si sarebbe realizzata compiutamente nel secolo successivo. Questo sistema politico rimaneva in graduale definizione, legato com’era non solo alle qualità dei leader del Parlamento, ma anche alla personalità dei sovrani e alla loro propensione a intervenire nella politica della nazione: debole quella di Giorgio I e Giorgio II, decisamente più incisiva quella di Giorgio III, il primo re della dinastia degli Hannover nato in Inghilterra, che regnò dal 1760 al 1820. I CARATTERI DELLA VITA POLITICA Nella lunga fase di trasformazione dei rapporti istituzionali tra re, governo e Parlamento, la lotta politica era dominata dal conflitto per mantenere il controllo del patronage, il meccanismo, fondato su relazioni personali e clientelari, che garantiva la distribuzione e il controllo
STORIA IMMAGINE William Hogarth, La campagna elettorale: l’opera di convinzione 1754-55 [Soane’s Museum, Londra] La tavola è la seconda di una serie di quattro dipinti realizzati da William Hogarth e ispirati alla tornata elettorale del 1754 nell’Oxfordshire, regione nota come roccaforte tory sin dal 1710. Il quadro, ambientato in una località di campagna nei pressi di Oxford, è sovraccarico di simboli che necessitano di un’illustrazione. L’emblema dei Tories, la quercia simbolo della restaurazione di Carlo II, è coperto da uno stendardo in cui un esponente del governo whig in vesti di Pulcinella compra voti attingendo da una carriola carica di monete. Sulla strada accanto all’osteria si svolge una scena di corruzione. I rappresentanti dei due partiti,
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Whigs e Tories, tentano di corrompere un passante che incassa da entrambi il denaro offertogli. A sinistra un altro procacciatore di voti è intento ad acquistare da un venditore ambulante ebreo doni da regalare alle mogli degli elettori affacciate al balcone. Vicino al leone, simbolo della Gran Bretagna, intento a divorare i gigli di Francia, una donna conta le monete della corruzione. Sul fondo, in secondo piano, sono in corso scontri tra le due fazioni. Il dipinto riflette il giudizio critico dell’opinione pubblica britannica sulla corruzione imperante nella vita politica del paese. La figura del soldato che si affaccia dalla porta a sinistra e i due marinai seduti a destra con la ricostruzione di uno schieramento navale sul tavolo sono le sole figure positive della rappresentazione.
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STORIA IMMAGINE Richard Wright, La Battaglia di Quiberon Bay, 21 novembre 1759: il giorno dopo 1760 [National Maritime Museum, Greenwich, Londra] Il dipinto ritrae la rovinosa situazione in cui si trovò parte della marina francese il giorno dopo la battaglia della Baia di Quiberon (sulle coste atlantiche della Francia), una delle più importanti e decisive della guerra dei Sette anni. Dopo le prime vittorie francesi in Nord
America, con l’avvento di William Pitt al governo britannico, le cose cambiarono. La Francia fu sottoposta a un duro blocco navale messo in atto dagli inglesi sull’Atlantico. Con una manovra disperata i francesi tentarono di eludere il blocco risalendo la costa con l’intento di raggiungere il canale della Manica e invadere la Gran Bretagna. Furono bloccati nella Baia di Quiberon, dove la flotta inglese diede prova della sua superiorità in mare.
delle più importanti cariche governative. La corruzione era diffusissima come lo era la pratica di comprare i voti per essere eletti soprattutto nelle piccole circoscrizioni rurali, dominate dai maggiorenti locali, spesso nobili e grandi proprietari terrieri. Un sistema di abusi e irregolarità destinati a essere modificati solo con la riforma elettorale del 1832 [Ź12_7]. La vita politica era oggetto di vivaci discussioni e critiche da parte di un’opinione pubblica che si veniva formando nei luoghi di ritrovo come le coffeehouses (i caffè) o nella lettura delle gazzette sempre più diffuse anche lontano dalle grandi città. Tutti questi aspetti erano espressione di un vitale dinamismo della società inglese. Pur rimanendo divisa, essa era concorde nella difesa degli interessi nazionali che ormai vedevano intrecciati lo sviluppo del commercio internazionale e il controllo di vasti territori oltreoceano. LA POLITICA ESTERA Divenuta ormai la maggiore potenza marittima, la Gran Bretagna era tuttavia pronta a intervenire in Europa, direttamente o sovvenzionando gli alleati, per evitare che l’equilibrio tra le potenze venisse alterato dalle guerre di quegli anni, avvantaggiando stabilmente uno dei contendenti. Durante la guerra dei Sette anni (1756-63), sotto la guida di William Pitt il Vecchio, gli inglesi sconfissero le ambizioni coloniali della Francia in Canada, nelle Antille e in India [Ź6_1]. I successi in serie per terra e per mare dell’«anno mirabile 1759» furono poi consolidati dalla pace di Parigi del 1763 che consegnava alla Gran Bretagna un dominio degli oceani destinato a durare per oltre un secolo e mezzo.
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Le ragioni della guerra LE MOLTE GUERRE DI UN SECOLO Dalla pace dei Pirenei (1659), che aveva chiuso il conflitto tra Francia e Spagna, e fino alle paci di Parigi e Hubertusburg (1763), che conclusero la guerra dei Sette anni, si contano in Europa almeno quindici guerre in cui si confrontarono più di due contendenti. Guerre per il controllo degli oceani e del commercio internazionale, che videro coinvolte le une contro le altre Gran Bretagna, Olanda, Spagna e Francia; guerre per il
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dominio del Baltico e dei suoi territori costieri, tra Svezia, Danimarca, Russia, Prussia e Polonia; guerre per la successione dinastica sui troni di Spagna, Polonia, Austria. Vanno ricordate anche le guerre contro i turchi ottomani, combattute dall’Austria nei Balcani e dalla Russia per la conquista delle sponde del Mar Nero. Gli attori principali degli scenari bellici, in Europa e sul fronte extraeuropeo, furono Francia, Gran Bretagna, Austria e Russia, cui presto si affiancò una giovane potenza, la Prussia, che andava consolidandosi lungo le rive del Mar Baltico (sulla Prussia Ź2_6). Le origini di tante guerre si possono spiegare individuando quattro motivi principali spesso intrecciati e coincidenti tra loro: gli interessi commerciali, le questioni dinastiche che sottendono una concezione patrimoniale dello Stato (secondo l’idea che il potere regio si riceve in eredità dal predecessore come se fosse un bene patrimoniale di famiglia), le ambizioni di conquista, il contesto geopolitico. GLI INTERESSI COMMERCIALI Per i paesi che avevano possedimenti, più o meno ampi, nelle Americhe, nelle Antille, sulle coste africane, in Asia, l’obiettivo delle guerre era per alcuni difendere tali territori, per altri quello di accrescerli. Era in palio il controllo dei commerci più redditizi, come quello degli schiavi africani, o quello delle importazioni e riesportazioni di beni di lusso (tessuti, porcellane) o dei generi coloniali (caffè, tè, zucchero, tabacco, spezie). In questo quadro la Spagna tenne un ruolo difensivo di fronte alla politica aggressiva dell’Olanda, della Francia e soprattutto della Gran Bretagna. Legge salica La cosiddetta “Legge salica” era in origine un complesso di norme elaborate alla fine del V secolo dal popolo dei Franchi Salii, abitanti del territorio corrispondente agli attuali Paesi Bassi. Tra le disposizioni contenute in questo sistema di leggi, ve n’era una che vietava alle donne di ereditare le terre saliche. In realtà questa norma rimase relegata presso il popolo salico e non fu applicata altrove per diversi secoli. Fece la sua ricomparsa quando fu ripresa in Francia da Filippo V (1317-22), che se ne servì per usurpare il trono legittimamente assegnato a Giovanna II di Navarra, sua nipote. Da quel momento il riferimento a questa legge diventò una consuetudine, fino a consolidarsi non solo in Francia, ma anche in altri paesi europei.
LE QUESTIONI DINASTICHE In questo periodo ogni variazione delle regole di successione dinastica divenne motivo di conflitto tra le potenze: dal momento che quasi tutte le case regnanti erano in qualche misura imparentate tra loro, era sempre possibile rivendicare diritti nel caso di estinzione della linea diretta maschile di successione. Scendevano allora in campo gli eserciti e si dava avvio a una guerra: ma dopo qualche anno e molte battaglie interveniva la diplomazia che, attraverso una serie di compensazioni territoriali, riportava in equilibrio il sistema dei rapporti di forza tra le potenze. Così era accaduto al tempo della guerra di successione spagnola [Ź2_2], e così accadde per la successione polacca e, poco dopo, nel 1740, per quella austriaca. Alla morte dell’imperatore Carlo VI, privo di eredi maschi, la figlia Maria Teresa salì al trono dei domìni di casa d’Austria, come era stato stabilito da una norma, la Prammatica sanzione, emessa dallo stesso imperatore molti anni prima (nel 1713), per consentire la discendenza femminile fino ad allora proibita dall’antica Legge salica*. Le potenze, che appena due anni prima avevano trovato un accordo con l’Austria al termine della guerra di successione polacca grazie a molte compensazioni territoriali a danno degli Asburgo in Italia, rientrarono in guerra: erano principalmente Francia, Spagna e Prussia (quest’ultima però non aveva preso parte al precedente conflitto dinastico). Il primo a muoversi fu il re della Prussia, Federico II, che occupò la ricca provincia della Slesia fino ad allora in mano austriaca. Dopo otto anni di scontri, la pace di Aquisgrana del 1748 provvide ad alcuni scambi e restituzioni territoriali, ma la Prussia riuscì a conservare la Slesia [Ź _3]; inoltre, le potenze che avevano combattuto contro l’Austria (e i suoi alleati) riconobbero la validità della Prammatica sanzione e accettarono l’ascesa al trono imperiale di Francesco di Lorena, consorte di Maria Teresa d’Austria. LE AMBIZIONI DI CONQUISTA Se alla metà del ’700 apparivano risolti i problemi legati alle successioni dinastiche, non per questo si erano placate le ambizioni di conquista degli Stati più aggressivi e dinamici. Tra Francia e Gran
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Bretagna era ormai in atto un conflitto planetario, con i francesi impegnati a ostacolare il predominio coloniale britannico. Al centro dell’Europa, invece, la giovane potenza prussiana non si sentiva ancora garantita nelle sue conquiste, accerchiata com’era da Austria, Francia e Russia. Le tensioni sfociarono nella guerra dei Sette anni, che si combatté su due fronti: europeo ed extraeuropeo. Fu Federico II di Prussia a dare inizio alla guerra, ma le sue straordinarie vittorie militari contro francesi e austriaci non gli avrebbero assicurato il successo finale: solo l’improvvisa morte della zarina Elisabetta, sua acerrima nemica, e l’ascesa al trono di Russia del filoprussiano Pietro III consentirono alla Prussia di uscire indenne dalla guerra. Sul fronte extraeuropeo la vittoria della Gran Bretagna sulla Francia, sancita nel 1763, pose un freno all’espansione coloniale francese, mentre sul continente europeo si stabilì una nuova intesa tra Prussia, Austria e Russia che avrebbe portato, a partire dal 1772, alla progressiva spartizione del grande Regno di Polonia. PRINCIPALI GUERRE E MUTAMENTI TERRITORIALI DEL ’700 IN EUROPA GUERRE
PACI
MUTAMENTI TERRITORIALI E NUOVI CONFINI
Guerra di successione spagnola (1702-14) Francia • Spagna
Trattati di Utrecht e Rastatt 1713-14
Spagna e colonie spagnole a Filippo V di Borbone. Paesi Bassi spagnoli, Ducato di Milano e Regno di Napoli all’Austria. Gibilterra, Minorca e alcuni territori del Nord America alla Gran Bretagna. Sicilia ai Savoia.
Ĺ contro
Ļ Austria • Gran Bretagna • Province Unite • Prussia • vari principati tedeschi • Portogallo • Ducato di Savoia
Sicilia all’Austria. Sardegna ai Savoia (Regno di Sardegna).
Conflitti scatenati dai tentativi della Spagna di modificare l’assetto europeo (1717-20) Spagna
Ĺ contro
Ļ Gran Bretagna • Francia • Austria Guerra di successione polacca (1733-38) Francia • Spagna • Savoia
Ĺ
Trattato di Vienna 1738
Ducato di Lorena a Stanislao Leszczyn´ski. Granducato di Toscana a Francesco Stefano di Lorena, sposo di Maria Teresa d’Austria. Regno di Napoli e Sicilia a Carlo di Borbone. Novara e Tortona a Carlo Emanuele III di Savoia. Insediamento in Italia di due nuove dinastie: i Borbone a Napoli e i Lorena in Toscana (questa presenza durerà fino all’Unità d’Italia).
Trattato di Aquisgrana 1748
Slesia dall’Austria alla Prussia. Ducato di Parma a Filippo di Borbone.
Trattato di Hubertusburg 1763
Nessun mutamento territoriale in Europa e conferma delle conquiste prussiane. La Francia perde il Canada e alcuni possedimenti in India a vantaggio della Gran Bretagna. Supremazia coloniale britannica.
contro
Ļ Austria Guerra di successione austriaca (1740-48) Francia • Spagna • Prussia
Ĺ contro
Ļ Austria • Gran Bretagna • Olanda • Savoia Guerra dei Sette anni (1756-63) Austria • Francia • Russia
Ĺ contro
Ļ Prussia • Gran Bretagna Tre spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1795)
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Trattato di Parigi 1763
Il Regno di Polonia, spartito tra Prussia, Russia e Austria, viene cancellato dalle carte geografiche.
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LO SPAZIO DELLA STORIA
L’EUROPA NEL 1748
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REGNO DI NORVEGIA
La carta riporta le variazioni territoriali intervenute alla conclusione della guerra di successione austriaca (1748), nonché le principali battaglie della guerra dei Sette anni. Nel 1738 e nel 1748 l’Austria dovette accettare un notevole ridimensionamento dei suoi possessi, dapprima con la cessione del Regno di Napoli e della Sicilia a Carlo di BorboneSpagna, in seguito con il riconoscimento della conquista prussiana della Slesia.
REGNO DI SVEZIA
San Pietroburgo Stoccolma
MARE DEL NORD
REGNO DI DANIMARCA
Mosca IM
Hubertusburg
REGNO DI POLONIA
Varsavia Leuthen 1757 IMPERO Kolin 1757 ROMANO GERMANICO Parigi Vienna Versailles Monaco Pest REGNO UNGHERIA DI FRANCIA Milano Torino Venezia
Londra
Aquisgrana
Kiev
MAR NERO
PE
Istanbul
RO
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Lisbona
REGNO DI SPAGNA
Roma Napoli Minorca REGNO REGNO DI SARDEGNA DI NAPOLI
IM
geopolitica La “geopolitica” studia i rapporti tra la politica e lo spazio, ovvero l’influenza della posizione geografica nella formazione e nello sviluppo degli Stati e del sistema delle relazioni internazionali. Questa disciplina, nata negli ultimi decenni dell’800, in contemporanea alla grande espansione coloniale europea, ebbe inizialmente una marcata connotazione deterministica: il controllo dello spazio, infatti, appariva un fattore decisivo nella contesa tra gli Stati e scopo della geopolitica era appunto quello di indicare le strategie più idonee per raggiungere questo obiettivo. Successivamente gli studiosi di relazioni internazionali tornarono a riconsiderare l’importanza dei fattori geografici, non più intesi come cause deterministiche, ma piuttosto come una serie di opportunità e limiti per lo sviluppo di uno Stato e per il successo di una strategia politica.
REGN O DEL PORT OGAL LO
Firenze
Madrid
SO
Berlino Kunersdorf 1759
S RU
Rossbach 1757
RO PE
REGNO DI GRAN BRETAGNA
OCEANO ATLANTICO
Prussia Gran Bretagna Asburgo Borbone-Spagna Borbone-Napoli Regno di Sardegna confine dell’Impero Kolin 1757 battaglie
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O
TT
OM
AN
O
Gibilterra MAR MEDITERRANEO
IL CONTESTO GEOPOLITICO Il vario alternarsi di dinastie in Italia e la spartizione della Polonia sono tra le conseguenze più significative delle guerre del ’700. Proprio questi risultati trovano una spiegazione se utilizziamo un criterio di analisi geopolitica*. Un criterio che tiene conto della posizione geografica delle singole aree e della forza delle organizzazioni statali che gravitano su di esse. Da questo punto di vista è possibile distinguere in Europa tra aree forti e aree deboli. Le prime si collocano lungo il margine atlantico (Spagna, Portogallo, Francia, Gran Bretagna e Province Unite) o appartengono alla Scandinavia, alla Prussia e alla Russia: tutte corrispondono a realtà storiche, linguistiche e religiose sostanzialmente definite e a strutture politico-amministrative già consolidate o in via di costruzione. Un arco di aree forti circonda dunque a ovest, a nord e a est due grandi aree deboli, il bassopiano tedesco-polacco dall’Elba al Dnepr e la penisola italiana: deboli per la labilità dei confini e per un regime politico soggetto all’ingerenza continua delle potenze confinanti nel caso della Polonia; o per l’assenza di uno Stato unitario nel caso dell’Italia. ESERCITI, BUROCRAZIA E AMMINISTRAZIONE Guerre numerose dunque per tutto il ’700, ma non drammaticamente letali come erano stati i massacri delle popolazioni al tempo dei conflitti religiosi. Per condurre queste continue guerre era necessario potenziare gli eserciti ormai divenuti permanenti. Un potenziamento che si ottenne non solo con il numero dei soldati arruolati, ma con l’addestramento continuo e il rafforzamento della disciplina. I due aspetti erano strettamente collegati: si trattava di trasformare in soldati professionali a lunga ferma contadini arruolati spesso con l’inganno, sbandati, piccoli malviventi. Soldati resi uniformi dalla divisa, soggetti a una disciplina spesso durissima, che dovevano imparare a marciare rapidamente tenendo le linee compatte e a non scompigliarle sotto il
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STORIA IMMAGINE Le corrette procedure per armeggiare un moschetto [da J. Keegan, A History of Warfare, Londra 1993] L’immagine, tratta da un manuale militare del XVII secolo, mostra quanto potesse essere complesso l’uso di un moschetto. In particolare, la fase di carica risultava molto rischiosa in quanto portava via tempo e richiedeva una certa precisione proprio in un momento di grande concitazione (come può essere il confronto in battaglia); per questo motivo furono introdotte le esercitazioni dei soldati. I moschettieri più addestrati potevano sparare anche 3 o 4 colpi al minuto, ma in media si riusciva a spararne 2 per poi avanzare all’attacco con la baionetta montata in cima alla canna del moschetto.
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fuoco nemico. Soldati addestrati a sparare, a caricare e ricaricare rapidamente il moschetto, pronti a usare la baionetta negli scontri ravvicinati. Sempre più frequente era l’arruolamento nei territori dello Stato (con l’obbligo per le singole province di fornire un certo numero di reclute, come avveniva in Prussia), ma erano diffuse truppe professionali provenienti da paesi e regioni che da secoli fornivano contingenti mercenari, come la Svizzera, la Scozia, l’Irlanda nonché l’Assia e il Brunswick in Germania. Si trattava anche di assicurarsi la fedeltà e la competenza di un corpo di ufficiali, nei primi tempi tratti dalla nobiltà cadetta di tutta Europa, ma in seguito sempre più originari degli Stati in cui prestavano servizio. L’alto costo delle guerre, degli armamenti e degli approvvigionamenti richiedeva un’organizzazione e una burocrazia in grado di raccogliere e amministrare le risorse materiali e umane. Come scrisse Federico II nel 1747, «Il maggior segreto nella condotta della guerra e il capolavoro per un buon generale è di riuscire ad affamare l’avversario. La fame esaurisce il nemico più sicuramente del coraggio altrui e voi otterrete il successo con meno rischi che attraverso il combattimento».
L’ascesa della Prussia UNA NUOVA POTENZA IN EUROPA «Giù il cappello, signori. Se ci fosse stato lui, noi oggi non saremmo qui.» Questo fu l’omaggio che Napoleone, vincitore a Jena contro i prussiani nel 1806, rese di fronte alla tomba di Federico II. L’imperatore francese celebrava il grande generale, ma Federico II va ricordato soprattutto per il suo contributo decisivo all’ascesa della Prussia al rango di grande potenza. Un risultato ottenuto non solo con le vittorie militari, ma con il sistematico rafforzamento dello Stato e della sua amministrazione volta soprattutto a garantire il finanziamento e il funzionamento di una efficiente e potente macchina bellica. Alla fine del regno di Federico II, la Prussia poteva mettere in campo un esercito di 195 mila uomini, mentre la Francia, con una popolazione almeno tripla, ne schierava poco più di 180 mila. Come dicevano i contemporanei, la Prussia non era «uno Stato con un esercito, ma un esercito con uno Stato». In tutti gli aspetti relativi all’organizzazione militare la Prussia divenne, nella seconda metà del ’700, la potenza militare più temibile anche
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grazie alla superiore capacità tattica e ai successi sui campi di battaglia di Federico II contro avversari spesso più numerosi dei prussiani. Protagonista delle guerre contro la Francia di Napoleone e alla fine vincitrice dopo molte umilianti sconfitte, la Prussia sarebbe diventata, nell’800, l’elemento propulsore dell’unificazione tedesca, ottenuta dopo la sconfitta della Francia nel 1870 [Ź18_2]. Per questo la sua ascesa riveste un significato decisivo nella storia europea. principe elettore Ciascuno dei principi tedeschi cui spettava la nomina dell’imperatore del Sacro romano impero.
LO SPAZIO DELLA STORIA
LA COMPOSIZIONE TERRITORIALE DEL REGNO DI PRUSSIA Il regno di Federico II (1740-86) si collocava al termine di un processo che era iniziato nei primi decenni del ’600. È infatti nel 1618 che la Prussia, una regione posta sul Baltico al confine orientale della Polonia (cui era legata da vincoli feudali) oltre che possesso originario dell’Ordine teutonico, si aggiunse ai territori del principe del Brandeburgo, una regione storica della Germania centro-settentrionale [Ź _4]. Prussia e Brandeburgo erano e rimasero distanti tra loro per oltre un secolo e mezzo. Quando il principe elettore* del Brandeburgo (della famiglia degli Hohenzollern) divenne re di Prussia, nel 1701, le due regioni erano ancora separate: il Brandeburgo a ovest con capitale Berlino e la Prussia a est con capitale Königsberg, la patria del filosofo Immanuel Kant. Solo con la prima spartizione della Polonia, nel 1772, si stabilì una continuità territoriale tra est e ovest. Peraltro al nuovo Regno appartenevano anche altri più piccoli Stati territoriali posti nella Germania occidentale. Proprio questa frammentarietà sollecitò i principi elettori del Brandeburgo e poi i primi re di Prussia a potenziare l’accentramento e l’amministrazione statale: si trattava di piegare la nobiltà feudale e terriera, gli Junker, al servizio dello Stato nell’amministrazione e nell’esercito e di ridurre i privilegi e le autonomie periferiche. Un esercito permanente era stato creato già da Federico Guglielmo il Grande Elettore (1640-88) per poter entrare in gioco nei numerosi conflitti di quell’epoca. Dopo la prima guerra del Nord (1654-60), con cui si era inserito nel conflitto per la supremazia sul Baltico, il Grande Elettore ottenne la fine della dipendenza feudale
IL BRANDEBURGO-PRUSSIA (XVII-XVIII SECOLO)
4 Niemen
MAR BALTICO
Tilsit
SVEZIA
MARE DEL NORD
NUOVA PRUSSIA ORIENTALE 1795
Stettino PRUSSIA Thorn UCKERMARK OCCIDENTALE Vist ola PRIGNITZ HANNOVER NEUMARK Varsavia Fehrbellin Brema ALTMARK PROVINCE BRANDEBURGO Posen POLONIA UNITE Berlino Francoforte VES. DI Potsdam MINDEN Schwiebus PRUSSIA Lingen 1742 VES. DI Magdeburgo MERID. 1702-7 Minden HALBERSTADT 1680 1793 Varta 1648 Cottbus DUC. DI VESTFALIA LUSAZIA 1780 Halle Breslavia KLEVE Elba NUOVA SLESIA Od DUC. DI CONT. DELLA 1795 er SLESIA SASSONIA GHELDRIA MARCA 1742 1713 PRINCIPATO DI BAYREUTH PALATINATO 1792 PRINCIPATO Bayreuth D’ANSBACH 1791 BOEMIA Ansbach Amburgo
Bug
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no
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POMERANIA OCCIDENTALE 1720
DUCATO DI PRUSSIA
Re
1702-7
Ducato di Prussia nel 1525 possedimenti degli Hohenzollern nel 1618 acquisizioni del Grande Elettore Federico Guglielmo (1640-88) acquisizioni territoriali fino al 1740 acquisizioni territoriali di Federico II (1740-86) acquisizioni dopo il 1790 acquisizioni di Federico Guglielmo II (1786-97) confini del Sacro romano impero nel XVII secolo data dell’acquisizione
Lubecca
Elbing Marienwerder
CONTEA DI SERRAY
RUSSIA
POMERANIA ORIENTALE Danzica 1648
FRISIA ORIENTALE 1744
Königsberg
Oliva
DANIMARCA
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della Prussia dal Regno di Polonia, mentre la Svezia conquistava il dominio sul Baltico assicurandosi anche il controllo delle coste settentrionali della Germania. Ma nella successiva seconda guerra del Nord, terminata nel 1720-21, la Svezia fu sconfitta: il controllo del Baltico passò alla Russia, mentre il Regno di Prussia ottenne la Pomerania e la città di Stettino che divenne il suo porto principale. L’IMPULSO AI COMMERCI E ALLE MANIFATTURE Questo risultato consentiva alla Prussia di partecipare ai lucrosi commerci del Baltico che fornivano legnami per la costruzione delle navi delle potenze marittime e cereali per i paesi a forte urbanizzazione e demograficamente più sviluppati. Dal momento che il numero degli abitanti era considerato uno degli elementi della ricchezza di un paese, venne visto positivamente l’arrivo degli emigrati ugonotti dalla Francia nelle città del Brandeburgo e soprattutto a Berlino, dove contribuirono a sviluppare le attività manifatturiere di una città prevalentemente burocratica. Ma la vocazione principale della Prussia rimase, in questo periodo, quella militare per contrastare le altre grandi potenze territoriali dell’Europa centrale.
Personaggi Caterina II. La vita e gli amori di una sovrana riformatrice, p. 40
La Russia da Pietro il Grande 6 a Caterina II Alla metà del ’700 la Russia prese parte alla guerra dei Sette anni: per la prima volta il grande impero dell’Europa orientale si spingeva con il suo esercito nei territori tedeschi confrontandosi con i grandi Stati continentali [Ź3_5]. Nei
P
PERSONAGGI
Caterina II. La vita e gli amori di una sovrana riformatrice Tra le grandi personalità che dominano la scena europea del XVIII secolo, Caterina II (1762-96) occupa un posto di assoluto rilievo per la statura politica e gli obiettivi ambiziosi della sua opera di governo, per l’ampiezza di vedute, per le indubbie doti personali: intelligente e sensibile, colta, si presentò come uno dei sovrani più illuminati del suo tempo, grazie anche a un intenso rapporto di scambio coltivato per gran parte della vita con gli intellettuali illuministi Voltaire e Diderot [Ź4_2]. Le sue notevoli capacità, le qualità umane, la forte impronta personale conferita al suo regno la collocano a pieno titolo tra le grandi regnanti dei paesi europei, rare eccezioni alla regola di un potere quasi esclusivamente maschile. Lei stessa dovette fare i conti con limiti e pregiudizi derivanti dal suo sesso, e contrappose ai modelli dominanti scelte di vita coraggiose e poco ortodosse, soprattutto nelle relazioni affettive. Caterina II salì al potere nel 1762, all’età di 33 anni, soltanto diciotto dei
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quali trascorsi in Russia, patria d’adozione. Sofia Federica di Anhalt-Zerbst, questo era il suo nome, era nata e cresciuta in Prussia, in una famiglia della nobiltà tedesca minore, e aveva 15 anni quando, nel 1744, fu chiamata da Elisabetta I ad unirsi al granduca Pietro, erede al trono e nipote della zarina, anche lui nato e cresciuto in Prussia. Dopo un interminabile viaggio fino a Mosca, Sofia abbraccia la religione ortodossa e riceve un nuovo nome: d’ora in poi sarà Caterina, granduchessa di Russia. La madre, che l’aveva accompagnata, viene rispedita a casa dopo il matrimonio e lei affronta da sola una nuova vita in un paese da sempre considerato un regno di barbari e la cui corte aveva una pessima fama. Chiamati giovanissimi a sostenere un ruolo di grande rilievo in un ambiente ostile, Pietro e Caterina reagiscono in modo del tutto opposto: mentre il primo non cercherà mai di nascondere il suo profondo disprezzo per la società e le tradizioni russe, Caterina abbraccia da subito e senza esitazione il nuovo paese, a cominciare dalla lingua e dai cerimoniali religiosi, cercando di ingraziarsi il favore dell’imperatrice Elisabetta quanto quel-
lo dell’ultimo servo. Questi loro atteggiamenti contrapposti, sempre più evidenti con gli anni, si sarebbero rivelati decisivi per l’ascesa di Caterina al trono. In Pietro per giunta si manifestano presto tendenze dispotiche e segni di instabilità mentale: maniaco di disciplina militare, costringe la moglie a obbedire
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primi anni del secolo la Russia aveva infatti interrotto il suo isolamento ed era ormai assurta al rango di grande potenza europea, dopo la conquista dell’egemonia sul Baltico, seguita alla sconfitta di Carlo XII di Svezia sul campo a Poltava, in Ucraina, nel 1709, e alla pace di Nystad del 1721. LE POLITICHE DI PIETRO I IL GRANDE Artefice di questa trasformazione fu lo zar, e poi imperatore, Pietro I il Grande (1682-1725). Rientrato a Mosca dopo un lungo viaggio in Europa occidentale, dove ebbe modo di conoscere direttamente i sistemi di governo e dare sfogo alla sua curiosità per la tecnica militare e le costruzioni navali (in Olanda lavorò in un cantiere), nel 1698 Pietro assunse direttamente il potere fino ad allora tenuto da una reggente. Dotato di grande determinazione ed energia (anche fisica: era alto più di due metri), diede inizio alla modernizzazione della Russia. Al di là di alcune iniziative fortemente simboliche, come l’imposizione del divieto di portare le tradizionali lunghe barbe a conferma del passaggio a costumi più occidentali, l’opera di Pietro fu interamente politica e militare. Il giovane zar – aveva allora 26 anni – seguì le tre abituali direttrici riformatrici volte a costruire un sistema di governo secondo il modello delle monarchie assolute: creazione di un esercito permanente, con un parziale reclutamento obbligatorio; depotenziamento della grande nobiltà posta ora al servizio dello Stato; costruzione di un sistema amministrativo e di un sistema fiscale in grado di fornire le risorse alla nascente potenza militare. Inoltre, per vincere la sfida della supremazia nel Baltico era indispensabile sconfiggere per terra e per mare la Svezia, che era il principale avversario dell’Impero russo. Fu così sviluppata anche una marina da guerra mentre gli effettivi dell’esercito giunsero a quasi 300 mila uomini di cui 100 mila cosacchi
ai suoi ordini e a marciare col moschetto in spalla, ma anche a sopportare i suoi sberleffi, gli insulti in pubblico, l’esibizione delle sue amanti, le ubriacature sempre più frequenti. Quanto al matrimonio, verosimilmente non fu mai consumato (così lascia intendere Caterina nelle sue memorie), con grande apprensione di Elisabetta, che non ha figli ed è preoccupata per la continuità dinastica. Tant’è che quando nel 1754 la granduchessa darà finalmente alla luce un maschio (avuto con ogni probabilità da un’altra relazione), Elisabetta si prenderà il bambino per allevarlo personalmente senza la minima ingerenza della madre. Comunque la nuova posizione di forza derivante dall’essere madre dell’erede al trono segna una svolta nella vita di Caterina, che d’ora in poi sarà parte attiva nelle alleanze di palazzo e negli equilibri di potere. Anche gli ambasciatori stranieri non tardano ad apprezzarne (o temerne) le notevoli capacità e presto mostreranŻ Virgilius Erichsen, Ritratto di Caterina II XVIII sec. [Musée des Beaux-Arts, Chartres] Imperatrice di Russia dal 1762 al 1796, Caterina II è qui ritratta mentre va a caccia vestita da uomo.
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no di considerarla una pedina decisiva nella successione al trono, magari come reggente. A questa nuova dimensione politica si accompagna un mutamento radicale nella vita privata di Caterina: il grande vuoto affettivo di questi primi anni e un altrettanto potente bisogno di colmarlo sembrano regolare da qui in avanti la sua condotta, ed è in questa fase che conosce il conte Stanislao Poniatowski, il primo dei suoi grandi amori e futuro re di Polonia. Da lui avrà nel 1758 la seconda figlia, Anna, ufficialmente attribuita a Pietro, che morirà dopo poco; anche lei sarà prelevata da Elisabetta, che continuerà a negare alla madre il permesso di vedere i figli, mentre Poniatowski verrà rispedito in Polonia. La situazione precipita rapidamente: alla morte di Elisabetta il 5 gennaio 1762 Pietro diventa imperatore col nome di Pietro III, ma le sue follie e la politica filoprussiana gli alienano ogni sostegno nel giro di pochi mesi, spianando la strada al colpo di Stato; anche i suoi rapporti con la moglie, che agli occhi di tutti incarna invece l’anima della Russia, sono ormai di scontro frontale e Pietro non nasconde l’intenzione di ripudiarla per sposare
la sua amante. Di fronte a tale minaccia e incalzata dai suoi sostenitori, Caterina rompe gli indugi e con l’appoggio decisivo dell’esercito e della Chiesa ortodossa depone Pietro III e si fa incoronare zarina. La determinazione con cui si porrà alla testa dell’Impero e l’impulso dato alla trasformazione della Russia le varranno un ampio riconoscimento sul piano strettamente politico, ma la sua vita sentimentale darà ai maligni materia di che sparlare: la sua libertà in fatto di amori non soltanto la renderà oggetto di biasimo e di velenose maldicenze per tutta la durata del suo regno, ma contribuirà ad affiancare alla sua immagine di sovrana illuminata quella, del tutto immeritata, di donna dedita a sfrenate passioni. Ma degli uomini ebbero un ruolo importante anche nella sua opera di governo: è il caso di Grigorij Potëmkin, amato di una passione travolgente e forse segretamente sposato, e che sarà una figura fondamentale per l’attuazione della sua politica espansionistica. Dai suoi amori l’imperatrice cercherà infatti appagamento affettivo ma anche consiglio e aiuto, sempre attenta a conciliare le sue relazioni con gli interessi dello Stato e a non lasciarsi sovrastare nella gestione del potere.
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che, in cambio del riconoscimento dell’autonomia delle loro comunità, prestavano una lunghissima ferma militare. L’obiettivo del Baltico era confermato anche dalla fondazione nel 1703 di una nuova capitale, San Pietroburgo, progettata da architetti italiani sull’estuario del fiume Neva, all’estremità orientale del Golfo di Finlandia: una città presto divenuta scenografia monumentale del nuovo potere russo e insieme principale porto militare e commerciale.
Ÿ Fëdor Alekseev, San Pietroburgo XIX sec. Nel 1703 Pietro I fondò una nuova città nel Golfo di Finlandia, San Pietroburgo, e la scelse come capitale del Regno al posto di Mosca. Richiamò da tutta Europa architetti e artigiani e fece costruire numerosi palazzi con l’intento di dare alla città, attraversata dal fiume Neva, un’impronta nuova e funzionale, sul modello delle capitali europee.
L’IMPATTO SOCIALE DELLE RIFORME Un passaggio decisivo verso un’amministrazione moderna fu l’apertura a tutti (nobili e borghesi) dell’accesso alle cariche statali, mentre ogni avanzamento fu basato sulla preparazione e sul merito. Nel 1722 la Tabella dei ranghi suddivise tutte le carriere (militari, civili, di palazzo) in quattordici gradi; stabilì inoltre che tutti, compresi i nobili, sarebbero partiti dal livello più basso, e che il raggiungimento dell’ottavo grado avrebbe comportato il conferimento della nobiltà a chi ne era privo. Veniva così favorita una mobilità sociale ascendente nel quadro dell’amministrazione dello Stato. Il potere dello zar, che si estendeva anche sulla Chiesa ortodossa e sulle proprietà ecclesiastiche, era privo di ogni controllo, anche di quelli che nelle monarchie assolute occidentali potevano provenire dagli organismi giudiziari o dalle autonomie periferiche. La Russia era ormai divenuta un’autocrazia, che corrispondeva al titolo che Pietro si diede nel 1721 di «imperatore e autocrate di tutte le Russie». La modernizzazione autocratica non intaccò le basi sociali del mondo rurale russo basate sulla nobiltà terriera e sulla servitù della gleba: anche se le antiche sopravvivenze schiavistiche vennero abolite, la servitù e la connessa proprietà sulle persone e il controllo sui movimenti dei contadini servi si mantennero fino al 1861, quando furono soppressi dall’imperatore Alessandro II [Ź18_7]. ELISABETTA I E CATERINA II La rapidità con cui furono realizzate tante riforme era destinata a creare malcontento soprattutto tra la nobiltà, e i successori di Pietro dovettero rallentarne la rigida applicazione. Il nuovo sistema di potere poteva funzionare correttamente solo se esercitato da personalità forti, in grado di muoversi abilmente e con determinazione tra le insidie della grande nobiltà e gli intrighi di corte. Dopo la morte dello zar riformatore, nel 1725, solo Elisabetta I (1741-62), che impegnò la Russia nella guerra dei Sette anni contro la Prussia, e soprattutto Caterina II (1762-96), che riprese i progetti riformatori ed estese i territori russi in Polonia e verso il Mar Nero, possono reggere il confronto con il grande Pietro [Ź4_8].
8 Leggere una carta storica 1 L’Europa del ’700, p. 46
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I risultati di cento anni di guerre LA GERARCHIA DELLE POTENZE Gibilterra, la rocca che controlla gli accessi al Mediterraneo, è dal 1713 un possesso britannico. Il Québec, la maggiore colonia della Francia nell’America settentrionale, grande cinque volte l’Italia
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monopolio In economia è la situazione in cui l’offerta di un bene o di un servizio è concentrata nelle mani di un solo soggetto, che può imporre il prezzo che vuole. In generale si parla di monopolio per indicare una posizione di privilegio esclusivo.
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e dove ancora si parla francese, fu conquistato dalla Gran Bretagna nel 1759 e da allora fa parte del Canada, che fu colonia britannica prima di diventare Stato indipendente. Sono due esempi degli esiti delle guerre del ’700 che modificarono i confini degli Stati e le appartenenze delle colonie, instaurando una nuova gerarchia tra le potenze europee. La Spagna scese di rango e così le Province Unite e la Svezia, mentre emersero le nuove grandi potenze di Prussia e Russia e la Gran Bretagna ottenne l’egemonia sugli oceani. Dalla penisola iberica, a occidente, alla Russia e ai Balcani, a oriente, per chiudere con l’Italia a sud, possiamo seguire sulla carta d’Europa la diversa entità dei cambiamenti intervenuti in un secolo. Ɣ Portogallo Nel 1703, durante la guerra di successione spagnola, il Portogallo aveva siglato accordi con l’Inghilterra in base ai quali erano stati stabiliti reciproci vantaggi per gli scambi commerciali tra i vini portoghesi e i tessuti di lana inglesi. Tali accordi, noti anche come Port Wine Treaty (in riferimento al porto, vino liquoroso molto apprezzato in Gran Bretagna), contribuirono a mantenere l’impero coloniale portoghese, che comprendeva il Brasile, fuori dai conflitti tra le potenze. Ɣ Spagna Al termine della guerra di successione spagnola, la Spagna aveva perso tutti i suoi possedimenti in Italia e nei Paesi Bassi; aveva dovuto riconoscere anche le conquiste inglesi di Gibilterra e dell’isola di Minorca (tornata definitivamente spagnola nel 1802) e cedere il monopolio* dell’asiento (il commercio degli schiavi verso le colonie spagnole) a una compagnia commerciale inglese. Tuttavia, al termine della guerra di successione polacca, nel 1738, la nuova dinastia dei Borbone di Spagna ottenne il Regno di Napoli e di Sicilia che un ramo cadetto (i Borbone di Napoli) governerà dal 1759 al 1860.
STORIA IMMAGINE La galleria verso il giardino di Blenheim Palace 1705-24 [Oxfordshire, Inghilterra] Blenheim Palace è una sfarzosa residenza fatta costruire dalla regina Anna d’Inghilterra per celebrare la vittoria sulla Francia durante la guerra di successione spagnola e premiare John Churchill, primo duca di Marlborough. Il 13 agosto 1704, infatti, il duca, insieme al principe Eugenio di Savoia, aveva guidato vittoriosamente le forze alleate
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(inglesi, austriaci, prussiani, più altri delle Province Unite e della Danimarca) contro i francesi e i loro alleati bavaresi nella battaglia di Blenheim (oggi Blindheim, in Baviera). Si era trattato di una battaglia decisiva nel conflitto per la successione spagnola in quanto prima seria sconfitta subita dai francesi che metteva fine alle mire espansionistiche di Luigi XIV.
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Ɣ Francia Ai successi iniziali delle “guerre di rapina” di Luigi XIV, che videro l’ampliamento dei confini territoriali francesi a est e a nord, con città come Strasburgo e Lille, si sarebbe aggiunta per via ereditaria la Lorena nel 1766. Nel complesso, pur mantenendo una posizione preminente in Europa, la Francia subì grandi perdite nei suoi possessi coloniali ceduti alla Gran Bretagna nel 1763: oltre al Canada francese (Québec), parte della Louisiana (un’altra parte andò alla Spagna), alcune isole delle Antille (Dominica, Grenada, Saint Vincent e le Grenadine, Tobago) e molti dei suoi possessi in India. Ɣ Paesi Bassi spagnoli I Paesi Bassi spagnoli (o del Sud), corrispondenti agli attuali Belgio e Lussemburgo, passarono all’Austria dopo la guerra di successione spagnola. I sovrani austriaci non riuscirono durante il loro dominio, durato fino al 1794, a ottenere dalle Province Unite la riapertura dell’estuario del fiume Schelda (privilegio ottenuto dagli olandesi nel 1648), la cui chiusura aveva strangolato le fiorenti attività commerciali della città di Anversa. Ɣ Province Unite Uscite sostanzialmente indenni dalle guerre di fine ’600 e anzi col prestigio accresciuto dalla difesa contro Luigi XIV, le Province Unite non sarebbero state più tra i protagonisti del ’700. Conservarono tuttavia intatti i grandi possessi coloniali in Indonesia e lungo le coste dell’America Latina e nei Caraibi mantenendo il ruolo di grande potenza commerciale grazie alle due compagnie delle Indie orientali e delle Indie occidentali. Ɣ Gran Bretagna Superate le tensioni rivoluzionarie e pacificati i conflitti interni, l’Inghilterra o, più correttamente a partire dal 1707, la Gran Bretagna giocò un ruolo decisivo durante la guerra di successione spagnola per poi dedicarsi prevalentemente ad accrescere i suoi possedimenti coloniali a spese della Spagna e soprattutto della Francia. Ɣ Prussia Se messa a confronto con la permanente frammentazione dei piccoli Stati tedeschi, esclusa la Baviera, l’ascesa della Prussia a grande potenza militare e territoriale rappresenta l’avvenimento più significativo del ’700 nell’Europa continentale. Conquistata e difesa la Slesia, gli ulteriori ingrandimenti avvennero soprattutto a spese della Polonia. Ɣ Svezia e Polonia Potenza militare egemone nell’area del Baltico alla metà del ’600, la Svezia, dopo la sconfitta subita dalla Russia, non riuscì più a svolgere un ruolo di rilievo dopo il 1720. Vittima delle sue debolezze istituzionali, invece, il Regno di Polonia – più esattamente la Confederazione polacco-lituana – rimase preda dei più potenti vicini, Prussia, Austria e Russia, che l’accerchiavano da tutti i lati. Nelle tre spartizioni del 1772, 1793 e 1795 perse tutti i suoi territori e Varsavia divenne una città prussiana. Ɣ Russia Dopo la sconfitta della Svezia e la raggiunta egemonia sul Baltico ottenuta da Pietro il Grande, la Russia volse le sue armi contro l’Impero ottomano raggiungendo il Mar Nero tra il 1774 e il 1783 ed ergendosi contemporaneamente a protettrice delle minoranze ortodosse contro i turchi. Ɣ Austria Ottenuti i possedimenti spagnoli in Italia dopo la guerra di successione spagnola, già nel 1738 l’Austria dovette cedere il Regno di Napoli e di Sicilia ai Borbone di Spagna. La pace di Aquisgrana (1748), che pose termine alla guerra di successione austriaca, confermò la perdita della Slesia conquistata dalla Prussia e decise la cessione del Ducato di Parma a un ramo cadetto dei Borbone di Spagna. L’Austria conservava in Italia la Lombardia con Milano e Mantova, mentre il Granducato di Toscana, dopo l’estinzione dei Medici, era andato a Francesco di Lorena, marito di Maria Teresa d’Austria. Il bilancio non era positivo per l’Austria anche per i risultati delle lunghe guerre nei Balcani contro l’Impero ottomano. Dopo la liberazione di Vienna dall’assedio
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STATO TOSCANA DELLA CHIESA
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CORSICA (dal 1768 alla Francia)
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1714 domini austriaci domini sabaudi
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L’ITALIA NEL 1714 E NEL 1748
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LO SPAZIO DELLA STORIA
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Fra il 1714 e il 1748 l’assetto territoriale italiano cambiò radicalmente. Con il trattato di Rastatt (1714) la Spagna perse i suoi possessi in Italia a beneficio dell’Austria (Lombardia, Regno di Napoli, Sardegna e Stato dei presìdi) e dei Savoia (Sicilia).
Nel 1718 lo Stato sabaudo ottenne la Sardegna in cambio della Sicilia. Ma fu tra il 1738 e il 1748 che l’Italia trovò una sistemazione destinata a durare fino all’invasione napoleonica (e sostanzialmente fino al 1859-60): nel 1738 l’Austria cedette a Carlo
di Borbone il Regno di Napoli e la Sicilia, mentre i Savoia raggiunsero il Ticino. Nel 1748, al termine della guerra di successione austriaca, l’Austria cedette il Ducato di Parma, che aveva ottenuto nel 1738, a Filippo di Borbone, fratello cadetto di Carlo.
turco (1683) gli eserciti austriaci si erano spinti verso sud sotto la guida di Eugenio di Savoia conquistando Belgrado nel 1717. Ma nel 1739 gli ottomani avevano ripreso gran parte dei territori perduti. Ɣ Italia Nella penisola italiana il ’700 si presenta con due volti diversi. Da un lato mantenevano la continuità politica e territoriale le Repubbliche di Genova e di Venezia e lo Stato pontificio, dall’altro si alternavano le case regnanti o se ne installavano di nuove tra il 1713 e il 1748, come abbiamo visto accadere in Lombardia, a Parma, in Toscana, nei Regni di Napoli e di Sicilia. Solo a partire dal 1748 la situazione italiana si può dire stabilizzata. In questo contesto l’unico significativo elemento di autonomo protagonismo è quello rappresentato dal Piemonte dei Savoia che vide premiata la politica opportunistica con l’acquisto della Sicilia nel 1713 e il connesso titolo regio. L’abilità di Vittorio Amedeo II (1675-1732) consentì allo Stato sabaudo di uscire dalla sudditanza francese, che durava da oltre un secolo e mezzo, e di affermarsi, grazie alla riorganizzazione amministrativa e alla costruzione di un forte esercito, come una “piccola” potenza, decisiva per le sorti future dell’Italia. Nel 1718 i Savoia dovettero cedere la Sicilia all’Austria, ottenendo in cambio la Sardegna, e assunsero da allora quel titolo di re di Sardegna che porteranno fino al 1861 quando, con l’unificazione, Vittorio Emanuele II diverrà re d’Italia.
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LEGGERE UNA CARTA STORICA
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L’Europa del ’700
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
B. LE SPARTIZIONI DELLA POLONIA I
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REGNO DI SVEZIA
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Varsavia
1772
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REGNO DI SVEZIA
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La forma di governo dominante nell’Europa dei secoli XVII-XVIII è lo Stato monarchico, in particolare la monarchia assoluta di modello francese. Che la Francia faccia scuola è testimoniato anche dal gran numero di residenze ispirate a Versailles che vengono edificate un po’ dappertutto sul continente. A prescindere dalle forme di governo dei singoli Stati, le regole attorno a cui si organizza la nuova gerarchia delle potenze europee sono: il principio dell’equilibrio; il principio di legittimità dinastica; il concetto di confine. Quest’ultimo consiste nella netta definizione dell’ambito territoriale sul quale il sovrano esercita la propria giurisdizione; distingue in modo certo l’interno dello Stato dal suo esterno; identifica chi è alleato e chi è nemico. Le variazioni sono determinate dai cicli di guerre di successione che si combattono tra la fine del XVII secolo e la metà del XVIII secolo, al termine dei quali alcuni Stati si configurano come grandi potenze: Francia, Gran Bretagna, Austria e le nascenti potenze di Prussia e Russia. I cicli di guerre provocano anche una ridefinizione del quadro geopolitico europeo, i cui cambiamenti più macroscopici riguardano gli assetti territoriali dell’Austria, della penisola italiana e della Polonia.
Varsavia REGNO DEL PORTOGALLO Madrid Lisbona
1793
AUSTRIA
REGNO DI SPAGNA
LEGGERE E INTERPRETARE a. Soffermati sul quadrante occidentale della carta A. 1 Quali sono le tre forme di governo presenti nell’Europa del XVIII
secolo? Qual è il modello predominante sul continente?
2 In quali paesi vengono edificate residenze ispirate a Versailles?
REGNO DI SVEZIA
RO
PRUSSIA
RUSSO
potenze) e realtà territoriali deboli. 2 Individua le nuove acquisizioni territoriali dell’Austria in Europa. 3 Quale Stato italiano conosce un ampliamento territoriale? 4 Quali Stati italiani sono governati da dinastie autonome? Quali sono sottoposti al controllo straniero?
PE
b. Soffermati sulla legenda e sulla carta A. 1 Classifica gli Stati europei in realtà territoriali forti (grandi
I M
Ricerca su Internet informazioni sulla Reggia di Venaria Reale (Torino) e redigi una scheda tecnica del monumento. Individua poi un elemento architettonico o paesaggistico che evochi apertamente la Reggia di Versailles.
Varsavia
c. Soffermati sulla legenda e sulla carta B. 1 Qual è il fattore di debolezza del Regno di Polonia?
Quali potenze beneficiano delle sue numerose spartizioni? Spiega perché alla luce delle tue conoscenze.
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1795
AUSTRIA
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C2 Gli Stati e le guerre del ’700
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A. L’EUROPA DEL ’700 REGNO DI NORVEGIA
REGNO DI SVEZIA San Pietroburgo
Mare
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Stoccolma
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del Nord
Mosca
B
a
REGNO DI DANIMARCA Copenaghen M
REGNO DI GRAN BRETAGNA
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IMPERO RUSSO
PROVINCE UNITE
Londra
Berlino Varsavia SACRO ROMANO IMPERO Parigi Versailles
Vienna
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REGNO DI FRANCIA Milano Torino
drid
REPUBBLICA VENETA
Venezia Genova Lucca STATO Firenze DELLA CHIESA Roma
REGNO SPAGNA
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IMPERO OTTOMANO
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Istanbul
Caserta Napoli REGNO DI NAPOLI M a r
M e d i t e r r a n e o
Confini della Polonia prima del 1772 Acquisizioni territoriali prussiane Acquisizioni territoriali austriache Acquisizioni territoriali russe Territori già acquisiti dalla Prussia
Monarchia assoluta
Territori già acquisiti dall’Austria
Repubblica
Territori già acquisiti dalla Russia
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Monarchia parlamentare
Domìni asburgici Prussia Regno di Sardegna
Confine Sacro romano impero
Città capitali Palazzi reali
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C 2 Gli Stati e le guerre del ’700
U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
RICORDARE L’ESSENZIALE La monarchia assoluta di Luigi XIV Alla morte di Mazzarino, nel 1661, Luigi XIV assunse direttamente il potere, mantenendolo fino al 1715. Il suo lunghissimo regno fu caratterizzato dal rafforzamento della monarchia attraverso l’accentramento dei poteri e dal consolidamento dell’egemonia continentale della Francia. L’obbligo imposto alla grande nobiltà di risiedere presso la corte di Versailles sancì l’indebolimento dell’aristocrazia e il rafforzamento del potere assoluto del sovrano. L’intervento dello Stato si realizzò in tutti gli ambiti: nell’economia, nella cultura e nella religione. Nella politica religiosa il re impose il principio di uniformità, ovvero che la religione dei sudditi si uniformasse a quella del sovrano, revocando l’editto di Nantes e perseguitando giansenisti e ugonotti. In ambito culturale, il Re Sole protesse e finanziò le arti e le scienze, favorendo la formazione di una cultura ufficiale, fortemente celebrativa, che non tollerava voci dissenzienti. Protagonista della politica economica fu Colbert, che dette realizzazione compiuta ai princìpi del mercantilismo, favorendo le esportazioni e limitando le importazioni; a questo scopo rafforzò l’economia interna, finanziando le manifatture statali, e stimolò il commercio estero attraverso la fondazione delle compagnie commerciali. La politica economica francese, tuttavia, si risolse in un insuccesso. Luigi XIV rafforzò l’esercito come strumento di espansione lungo i confini nord-orientali. Il conflitto per la successione spagnola oppose principalmente Francia e Spagna a Impero asburgico, Inghilterra, Province Unite e Prussia. L’esito del conflitto ridimensionò le ambizioni di Luigi XIV: fu mantenuta la separazione dei due rami dei Borbone, mentre l’Austria ottenne i Paesi Bassi spagnoli e larghi vantaggi territoriali nelle Fiandre e in Italia, a scapito degli spagnoli (paci di Utrecht e Rastatt, 1713-14). Durante il regno del suo successore, Luigi XV, la Francia vide fallire il progetto di riforma finanziaria di Law e naufragare definitivamente le ambizioni di dominio oltremare a vantaggio dell’Inghilterra (guerra dei Sette anni). La gloriosa rivoluzione e la nascita del governo parlamentare In Inghilterra la restaurazione degli Stuart fu sancita con l’incoronazione di Carlo II (1660). Nel 1685 salì al trono Giacomo II, ma la sua politica filocattolica gli alienò presto ogni simpatia, provocando la reazione del Parlamento che, nel 1688, chiese aiuto a Guglielmo d’Orange, sta-
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Audiosintesi per paragrafi
dhouder d’Olanda e marito di Maria Stuart, cui fu offerta la Corona d’Inghilterra. La “gloriosa rivoluzione” portò a una monarchia costituzionale fondata sulle prerogative del Parlamento e sui limiti del potere monarchico. La regolamentazione del potere regio fu stabilita nel Bill of Rights (1689). Successivamente, il Parlamento approvò l’Act of Settlement (1701), che impediva a un cattolico di salire al trono, e l’Act of Union (1707), che sanciva la nascita della Gran Bretagna (unione di Inghilterra, Galles, Scozia). La vita parlamentare britannica fu dominata, per gran parte del ’700, dai Whigs, i liberali, interpreti dei princìpi della “gloriosa rivoluzione”, in antagonismo con i Tories, i conservatori filomonarchici. In questo periodo la lotta politica era gravemente inquinata da clientele e vincoli di parentela che rendevano frequente la corruzione. Negli anni in cui il paese fu guidato dal whig Walpole (1721-42), prese forma il governo di gabinetto: un ristretto numero di ministri condotto dal leader della maggioranza parlamentare, con delega del re, che esercitava il potere esecutivo controllato dal Parlamento. Con il governo di William Pitt il Vecchio, la Gran Bretagna attuò una politica internazionale che rafforzò l’impero commerciale inglese, a scapito soprattutto della Francia (guerra dei Sette anni). Due potenze emergenti: la Prussia e la Russia Tra il 1740 e il 1786 Federico II guidò la Prussia nella sua ascesa al rango di grande potenza. Il suo regno fu l’esito di un processo iniziato a metà del ’600, quando ebbe inizio l’opera di organizzazione dello Stato assoluto. Rafforzato l’esercito e organizzati un efficiente sistema fiscale e una capace burocrazia, Federico Guglielmo si inserì dapprima nella prima guerra del Nord, che gli fruttò la fine della dipendenza feudale della Prussia dalla Polonia, successivamente nella seconda guerra del Nord (1720-21), che sancì l’acquisizione prussiana della Pomerania e del porto di Stettino. La Prussia si inserì così nei commerci del Baltico. Alla fine del ’600 lo zar Pietro I il Grande avviò la creazione di un governo assoluto e autocratico, potenziando l’esercito, costituendo una marina da guerra e riorganizzando fisco e amministrazione. L’azione riformatrice di Pietro favorì la mobilità sociale (con l’accesso di nobili e borghesi alle cariche statali) e disciplinò le carriere (Tabella dei ranghi). L’opera di modernizzazione tuttavia non intaccò le basi sociali del mondo rurale, dove so-
pravvissero servitù e proprietà sulle persone. A Pietro I si deve pure la fondazione di San Pietroburgo, che divenne il principale porto militare e commerciale sul Baltico. Morto Pietro (1725), particolarmente incisive furono le personalità di Elisabetta I e Caterina II. Un secolo di guerre Tra la metà del ’600 e la metà del ’700 si combatterono in Europa numerose guerre per interessi commerciali, questioni dinastiche e per le ambizioni di conquista delle potenze continentali. Per sostenere i conflitti le maggiori potenze rafforzarono i loro eserciti e la burocrazia. Per motivi dinastici si combatterono la guerra di successione spagnola e le due guerre di successione polacca e austriaca. Quest’ultima si concluse con il riconoscimento della Prammatica sanzione (che sanciva l’ascesa al trono asburgico di una erede) e la sottoscrizione della pace di Aquisgrana (1748). A scatenare la guerra dei Sette anni (1756-63) furono invece la politica di potenza continentale della Prussia, da un lato, e le ambizioni coloniali di francesi e inglesi, dall’altro. La guerra si concluse con l’affermazione dell’intesa fra Prussia, Austria e Russia, nel continente, e della supremazia coloniale britannica a danno della Francia. Le guerre europee del ’700 trovano una spiegazione nel contesto geopolitico dell’epoca: un arco di aree forti (Spagna, Portogallo, Province Unite, Francia, Gran Bretagna, Stati scandinavi, Russia) chiudeva due grandi aree deboli (il bassopiano tedesco-polacco e la penisola italiana). Al termine dei conflitti, Francia e Prussia videro ampliati i loro territori. La Francia tuttavia subì grandi perdite oltremare a vantaggio della Gran Bretagna. Quest’ultima accrebbe i suoi possedimenti coloniali anche a spese della Spagna. La Spagna perse di importanza nello scacchiere internazionale insieme alle Province Unite e alla Svezia, che uscì sconfitta dal conflitto per la supremazia nel Baltico, vinto invece dalla Russia. L’Austria perse il Regno di Napoli e di Sicilia, il Ducato di Parma (ceduti alla Spagna) e la Slesia (passata alla Prussia); sul fronte orientale subì il grave assalto turco. In Italia mantennero continuità politica e territoriale Genova, Venezia e lo Stato pontificio. Il Piemonte dei Savoia vide premiata la sua intraprendenza nello scenario bellico europeo, ottenendo la Sicilia e il titolo regio, nel 1713. Smarcatosi dalla sudditanza francese, lo Stato sabaudo perse la Sicilia guadagnando la Sardegna (1718) e i Savoia assunsero il titolo di re di Sardegna.
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C2 Gli Stati e le guerre del ’700
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE 1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Il regno di Luigi XIV fu caratterizzato da continue guerre e carestie. b. Whigs e Tories rappresentavano, rispettivamente, gli interessi dei nobili e della borghesia inglese. c. Al termine della guerra di successione spagnola, gli Asburgo e i Savoia non ottennero alcun possedimento in Italia.
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Test interattivi
d. Le riforme burocratiche e militari portate avanti da Federico Guglielmo il Grande Elettore costituirono i pilastri su cui si fondò l’ascesa politica della Prussia. e. Durante il regno di Pietro il Grande lo Stato russo fu riorganizzato sul modello delle monarchie assolute occidentali.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Il mercantilismo si basa sul principio secondo il quale... 4. Il Bill of Rights è... a. la ricchezza di uno Stato coincida con la quantità di denaro a. un testo unitario in cui sono contenuti i princìpi costituzionali presente nelle sue casse; del sistema politico inglese; b. lo sviluppo economico di una nazione sia indipendente dal saldo b. un documento in cui sono raccolti i diritti e le libertà del della bilancia commerciale; Parlamento e del popolo inglese; c. lo Stato non deve interferire in alcun modo con il mercato. c. la legge attraverso la quale sono esclusi dalla successione al trono inglese i discendenti di Giacomo II. 2. La “gloriosa rivoluzione” inglese... 5. La Gran Bretagna... a. fu così definita perché caratterizzata da eventi pacifici; a. fu governata da partiti politici fortemente contrari alla politica b. sfociò nella dittatura di Cromwell; espansionistica oltreoceano; c. fu caratterizzata da un aspro conflitto tra schieramenti politici b. fu caratterizzata da una monarchia assoluta; contrapposti. c. nacque dall’unione fra la Corona d’Inghilterra (con il Galles) e 3. La legge sull’Habeas corpus... quella di Scozia. a. sanciva il diritto di vita e di morte del re sui suoi sudditi; 6. La Tabella dei ranghi promossa da Pietro il Grande era… b. garantiva ai sudditi certezza e rapidità di giudizio per i reati a. un codice che fissava la discendenza genealogica della nobiltà; contestati; b. una classificazione delle carriere all’interno dell’amministrazione c. definiva la sacralità e l’inviolabilità del corpo del sovrano. statale; c. uno strumento per il calcolo del prelievo fiscale sulla ricchezza posseduta. 3 Inserisci nei due insiemi le seguenti affermazioni, distinguendo quelle che si riferiscono alle azioni politiche di Luigi XIV da quelle relative a Luigi XV. a. Affidò il governo del paese ai suoi ministri. b. Partecipò alla guerra dei Sette anni contro l’Inghilterra per il controllo dei domìni coloniali. c. Obbligò la grande nobiltà a risiedere presso la Reggia di Versailles. d. Revocò l’editto di Nantes. e. Fece approvare una norma che negava l’infallibilità del papa. Luigi XIV
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f. Sostenne la riforma finanziaria di John Law. g. Firmò la pace di Utrecht. h. Nominò i membri della nobiltà di toga intendenti del sovrano. i. La sua adesione a numerose guerre provocò una crisi finanziaria. l. Nominò Colbert Controllore generale delle Finanze. m. Promosse il patrocinio delle arti e delle scienze. Luigi XV
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
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4 Confronta nella tabella il modello di Stato di Francia e d’Inghilterra tra XVII e XVIII secolo; rispondi poi alle domande finali: Francia
Inghilterra
Chi governava lo Stato? Come erano distribuiti i poteri? Com’era divisa la società? Quali erano i principali gruppi di potere? Quali guerre furono intraprese? Con quale esito? Qual era la religione ufficiale dello Stato? Quali altri culti erano presenti? Quali settori furono riformati? Con quali risultati?
a. Che cosa accomuna e che cosa distingue il modello di Stato francese da quello inglese? b. Perché, secondo te, il modello francese trovò nell’Europa del ’700 una maggiore diffusione?
5 Associa gli atti legislativi presenti nella colonna di sinistra ai relativi autori nella colonna di destra; spiega poi brevemente il contenuto e le finalità di ognuno. a. b. c. d.
Bill of Rights Act of Settlement Pace di Utrecht e pace di Rastatt Editto di Nantes
1. 2. 3. 4.
Enrico IV Parlamento inglese Guglielmo III d’Orange Luigi XIV
a. Bill of Rights: ............................................................................................................................................................................................. ....................................................................................................................................................................................................................... b. Act of Settlement: ...................................................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................................... c. Pace di Utrecht e pace di Rastatt: ............................................................................................................................................................... ....................................................................................................................................................................................................................... d. Editto di Nantes: ........................................................................................................................................................................................ .......................................................................................................................................................................................................................
6 Completa la tabella relativa ai nuovi assetti istituzionali dei principali Stati europei e inserisci, nella colonna “Politica interna”, le seguenti affermazioni. a. Ridimensiona la nobiltà di spada a vantaggio della nobiltà di toga. b. Fonda la nuova capitale a San Pietroburgo. c. Incremento delle attività manifatturiere. d. Impone l’uniformità religiosa. e. Rafforzamento dello Stato e dell’amministrazione. f. Viene emanato il Bill of Rights. g. Nomina Colbert Controllore generale delle Finanze. h. Finanzia le manifatture. i. Habeas corpus. l. Potenziamento dell’esercito. m. Obbliga la nobiltà a risiedere a Versailles. n. Sviluppa la marina da guerra. o. Modernizza il paese imponendo costumi occidentali. p. Riorganizza il sistema amministrativo e fiscale. q. Act of Settlement. r. Crea un esercito permanente con un parziale reclutamento obbligatorio. s. Rafforza lo Stato accentrando nelle sue mani tutti i poteri. t. Toleration Act.
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C2 Gli Stati e le guerre del ’700
Istituzione governativa
Politica interna
FRANCIA di Luigi XIV
Monarchia assoluta
• .............................................. • Affronta diverse guerre con gli Stati europei • .............................................. • Guerra dei Sette anni con la Gran Bretagna per .......... • ..............................................
INGHILTERRA di Guglielmo d’Orange
....................................... • .............................................. • Espansione britannica oltreoceano • .............................................. • Guerra dei Sette anni • .............................................. • Pace di Parigi del 1763
PRUSSIA di Federico II
....................................... • .............................................. • Guerre per il controllo del Mar Baltico • .............................................. • ..............................................
RUSSIA dello zar Pietro il Grande
Monarchia assoluta
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Politica estera
• .............................................. • ...................................................................................... • .............................................. • ..............................................
7 Se fossi il biografo di Luigi XIV alla sua corte, cosa scriveresti di lui? Redigi un testo dal titolo Lo Stato sono io, adoperando la scaletta e l’immagine di seguito fornite, il documento di p. 97, tratto da Mémoires di Luigi XIV, e il libro La società di corte di N. Elias, nell’extra online • Cenni anagrafici • L’etichetta di corte e la vita a Versailles • L’accentramento dei poteri nella sua persona • Le sue ambizioni politiche • Le campagne militari • La politica religiosa
Ź Pierre Mignard, La Vittoria corona d’alloro Luigi XIV seconda metà XVII sec. [Galleria Sabauda, Torino]
COMPETENZE IN AZIONE 8 Osserva la tavola di William Hogarth, La campagna elettorale: l’opera di convinzione, e rispondi alle seguenti domande: a. Che giudizio ha l’artista nei confronti delle diverse figure sociali? b. Quale immagine della società inglese emerge dal quadro?
Ź William Hogarth, La campagna elettorale: l’opera di convinzione 1754-55 (Soane’s Museum, Londra)
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C3 La nuova scienza e l’Illuminismo EXTRA ONLINE
Fare storia Verso una nuova scienza
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Focus L’italia del Grand Tour • Vedere da vicino: microscopio e cannocchiale
• Le società letterarie e scientifiche in Italia • Libero mercato e benessere sociale: Adam Smith
Lezioni attive Illuminismo e illuministi
La rivoluzione scientifica Niccolò Copernico, Galileo Galilei e Isaac Newton: furono questi tre grandi scienziati, astronomi e fisici i protagonisti di quel lungo processo culturale, la cosiddetta rivoluzione scientifica, che, dalla metà del ’500 agli inizi del ’700, trasformò profondamente la conoscenza dell’Universo. Applicando il calcolo matematico alla fisica e promuovendo l’indagine sperimentale, la nuova scienza rovesciò le concezioni tradizionali della natura, dell’uomo e del mondo che erano fino ad allora diffuse. COPERNICO
Già alla metà del ’500, l’astronomo polacco Niccolò Copernico (1473-1543) aveva messo in discussione la concezione secondo cui la Terra sarebbe immobile al centro dell’Universo e gli astri ruoterebbero attorno a essa (geocentrismo): egli, al contrario, affermò che il Sole occupa il centro dell’Universo mentre i pianeti, compresa la Terra, si muovono intorno a esso (teoria eliocentrica).
Ÿ Andreas Cellarius, Il sistema copernicano XVII sec. [da Atlas coelestis seu Harmonia macrocosmica; Bibliothèque Municipale, Lille] La teoria copernicana sconvolse convinzioni che per quasi duemila anni erano rimaste immutate. L’eliocentrismo, in qualche modo, minava anche l’idea cristiana (fondata su un’interpretazione letterale della Bibbia) che voleva la Terra al centro dell’Universo: per questo i suoi sostenitori furono fortemente ostacolati e inquisiti.
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GALILEI E IL METODO SPERIMENTALE La correttezza della teoria esposta da Copernico fu poi confermata dal pisano Galileo Galilei (1564-1642), considerato il primo scienziato nell’accezione moderna del termine. Egli costruì il primo telescopio, il cannocchiale, e lo puntò verso il cielo, confermando così la correttezza della teoria eliocentrica. A causa di queste affermazioni, Galilei fu perseguitato dalla Chiesa cattolica e rinchiuso in prigione: il suo scontro con il tribunale dell’Inquisizione evidenzia il drammatico problema dei rapporti tra scienza e fede. Galilei inoltre mise a punto le procedure fondamentali del metodo sperimentale che prevedeva l’osservazione diretta di un fenomeno, la formulazione di una ipotesi matematica, la verifica dell’ipotesi attraverso l’esperimento per giungere alla formulazione finale della teoria generale. Il metodo sperimentale permetteva infatti di cogliere le leggi universali secondo cui è organizzata e strutturata la realtà. La portata rivoluzionaria della nuova scienza stava proprio nell’importanza assunta dall’osservazione come momento decisivo di conoscenza dei fenomeni naturali e dall’esperimento come metodo di prova. NEWTON Alla fine del ’600, lo scienziato inglese Isaac Newton (1642-1727), dopo aver scoperto il calcolo infinitesimale, affrontò lo studio del movimento e delle sue forze in termini matematici, giungendo a formulare la legge di gravitazione universale per cui i corpi tendono verso il Sole e i rispettivi pianeti. UN NUOVO MODELLO DI CULTURA La nuova scienza stimolò la nuova concezione, ancora oggi condivisa, del progresso come accumulo delle conoscenze nel tempo e come prodotto di una continua elaborazione mai definitivamente conclusa. Ciò era reso possibile dallo scambio dei risultati, dalla cooperazione fra umanisti e scienziati e dalla pubblicazione di opere in cui si tentava di
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C3 La nuova scienza e l’Illuminismo
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ordinare le conoscenze. Comparvero così le prime enciclopedie – raccolte sistematiche e complete delle nozioni relative a una disciplina o a tutte le discipline – e l’apprendimento delle lingue fu considerato la chiave di accesso a tutte le scienze e a tutte le arti.
E
EVENTI CHIAVE
Il processo a Galilei «Io Galileo [...] avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro di aver sempre creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto [...]. Con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa». Con queste parole Galileo Galilei sconfessava la teoria copernicana e le sue convinzioni: era il 22 giugno 1633, nella grande sala del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva a Roma, aveva quasi 70 anni, era inginocchiato e vestito con un camice da penitente, di fronte ai componenti della Congregazione del Sant’Uffizio, che lo avevano condannato perché «sospetto di essere vehementemente eretico, cioè di avere mantenuta e creduta vera una dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, vale a dire che il Sole è centro per la Terra e non si muove da oriente a occidente, mentre al contrario la Terra si muove e non è centro del mondo, e di aver ritenuto possibile mantenere e difendere come probabile una teoria dopo che questa è stata dichiarata e definita contraria alla Sacra Scrittura». Il processo a Galilei e al suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, l’opera pubblicata nel 1632 in cui dimostra la fondatezza del sistema copernicano, si iscrive in una fase storica in cui la Chiesa, con i più svariati mezzi, tentava di riprendersi il controllo sulla società e sulla cultura. Un tentativo di contrastare non solo la Riforma protestante, ma anche, e soprattutto, le spinte alla libertà di pensiero e all’indipendenza della ricerca scientifica che si erano andate ormai affermando in tutta Europa. Nel 1600 aveva messo al rogo Giordano Bruno, nel 1616 aveva bollato come eretica la teoria eliocentrica, perché in contrasto
con le Scritture – nel Libro di Giosuè e nell’Ecclesiaste si narra che Giosuè fermò il Sole – e aveva messo all’Indice dei libri proibiti* Le rivoluzioni dei corpi celesti, il testo in cui Copernico l’aveva illustrata nel 1543. Di questa fase storica il processo a Galilei rappresenta un momento culminante e altamente simbolico che parla al mondo con la voce di un’autorità assoluta. La condanna di Galilei ebbe una immediata risonanza, scosse e intimorì tutta la comunità scientifica: Cartesio, alla fine del 1633, confessò in una lettera all’amico Marin Mersenne che era stato tentato di «bruciare» tutte le sue carte e comunque aveva deciso di «non lasciarle vedere a nessuno». In Italia l’impatto fu ancora più forte e duraturo e furono anche definitivamente messe a tacere le correnti progressiste che, per quanto minoritarie, erano presenti nella stessa Chiesa. Nel 1644 John Milton descrive con rammarico e sconcerto la condizione di «servitù» in cui era costretta la scienza italiana, una volta tanto viva e feconda. Alla fine la libertà di ricerca vinse la sua battaglia e, a dispetto delle proibizioni, dei processi e del sequestro dei libri, riuscì a garantirsi una sempre meno vigilata autonomia. Il processo illustra, però, ancora oggi il nodo problematico e, per certi versi, emblematico del rapporto tra lo scienziato e il potere, tra scienza e società. Il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht nel suo Vita di Galileo, scritto tra il 1938 e
il 1956, ha posto, infatti, proprio questo tema al centro del dramma, dando alla vicenda una dimensione atemporale: l’abiura di Galileo diviene in questo contesto la sconfitta etica di chi non ha saputo resistere al potere, come ammette lo stesso personaggio Galileo nella penultima scena del dramma. Dopo il processo e l’abiura, la condanna al carcere a vita, firmata da sette cardinali su dieci, fu presto commutata negli arresti domiciliari: nel luglio, accolta la sua supplica al papa del 30 giugno, fu trasferito a Siena e quindi nella sua villa di Arcetri (dicembre), presso Firenze, a patto che vivesse ritirato e non frequentasse nessuno. Il Dialogo fu messo all’Indice e vi rimase molto a lungo; Galilei morì nel 1642. Solo nel 1734 il Sant’Uffizio autorizzò la costruzione di una tomba in Santa Croce e solo agli inizi dell’800 la Chiesa riconobbe la compatibilità del sistema copernicano con il dettato cristiano, mentre, a metà del secolo, furono escluse dall’Indice le opere che sostenevano il sistema eliocentrico. Soltanto nel 1992 la Chiesa cancellò definitivamente la condanna a Galilei.
Indice dei libri proibiti È un catalogo contenente tutti i titoli dei libri che un buon cattolico non avrebbe mai dovuto leggere. Di alcuni autori si proibiva la lettura integrale, di altri solo parziale, ovvero limitatamente ad alcune opere o parti di opere. Il primo Indice fu stilato per iniziativa di papa Paolo IV nel 1559. Fu soppresso nel 1966.
Ź Joseph-Nicolas Robert-Fleury, Il processo a Galilei XIX sec. [Musée du Louvre, Parigi]
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
sestante Strumento che serve per misurare la distanza angolare tra due corpi celesti o l’altezza apparente degli astri sopra l’orizzonte e di conseguenza la posizione geografica di una nave.
Ÿ Microscopio 1695 ca. [collezione privata]
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A partire dall’inizio del ’600, inoltre, cominciarono a essere fondate numerose accademie scientifiche, indispensabili per gli scambi tra scienziati dei diversi paesi. Esse sembravano il luogo adatto nel quale dar vita a quelle comunità di uomini liberi e uguali che operavano pacificamente, in nome della scienza e delle conoscenze, al di là delle diversità religiose e politiche. GLI STRUMENTI TECNICI E LE MODERNE INVENZIONI Insieme alla nuova scienza, dalla prima metà del ’600 si svilupparono anche gli strumenti tecnici: il legame tra scienza e tecnica contribuì, in seguito, all’affermazione della superiorità tecnologica ed economica dell’Europa rispetto al resto del mondo. Furono così inventati e costruiti strumenti sempre più attendibili per la misurazione dello spazio e del tempo: grazie a essi, la precisione iniziò a sostituire l’approssimazione e si affermò una mentalità tecnologica che stimolò l’invenzione delle prime macchine. Il progressivo incremento dei traffici e la continua ricerca di nuove rotte e basi commerciali dettero notevole impulso alle moderne invenzioni. Comparvero così il cronometro e il sestante*, utilissimo nei viaggi per mare per orientarsi in base alla posizione delle stelle, e nacque una cartografia su basi scientifiche. Anche l’orologio, noto da secoli, raggiunse un altissimo livello di precisione grazie all’invenzione del pendolo e della spirale a molla. La successiva invenzione del bilanciere consentì la nascita e la diffusione degli orologi da tasca che permettevano, per la prima volta, una misurazione privata del tempo. CONTRO LA NUOVA SCIENZA La diffusione delle nuove concezioni scientifiche, tuttavia, trovò un ostacolo nella Chiesa cattolica e nelle Chiese protestanti, che si impegnarono nella difesa della superiorità della teologia rispetto a ogni altra forma di conoscenza e dell’autorità della Bibbia contro le nuove scienze che non riconoscevano le Sacre Scritture come unica fonte di verità.
STORIA IMMAGINE ź Galileo Galilei, Disegni delle sei fasi della Luna con i suoi crateri novembre-dicembre 1609 [Ms Gal. 48, c. 28f; Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze]
Due pagine dal Sidereus Nuncius di Galileo Galilei (Venezia, 1610) [Biblioteca Nazionale Centrale, Firenze] Ź
Con il suo telescopio, fra il 1609 e l’anno successivo, Galilei passa molte notti a scrutare il cielo e scopre che la superficie della Luna non è liscia, come fino ad allora erroneamente ritenuto, ma presenta rugosità (montagne e crateri); comprende la relazione fra la Terra e la Luna e il moto della seconda intorno alla prima; identifica la Via Lattea e scopre quattro
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satelliti intorno a Giove. A corredo dei resoconti delle sue osservazioni sulla superficie lunare, lo scienziato pisano realizza una serie di acquerelli della Luna nelle sue diverse fasi: nasce così l’opera scritta in latino Sidereus Nuncius (“Annuncio delle stelle”), con la quale Galilei divulga al mondo dei dotti le sue scoperte.
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C3 La nuova scienza e l’Illuminismo
2 Storia e educazione civica Che cosa sono i diritti naturali?, p. 76
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Il pensiero politico IL GIUSNATURALISMO Durante l’età moderna, il rafforzamento dello Stato come forma tipica di ogni organizzazione politica stimolò una vivace riflessione filosofico-politica. L’obiettivo principale di queste elaborazioni era quello di giungere a una teoria laica dello Stato, che rifiutasse l’origine divina del potere politico. Nel corso del ’600, alcuni teorici, detti giusnaturalisti (dal latino ius, “diritto”), superarono così queste teorie tradizionali e attribuirono l’istituzione della società civile al contratto sociale, un patto stipulato tra uomini liberi per risolvere i conflitti e mantenere l’ordine. Secondo loro, inoltre, il potere politico non poteva essere “assoluto”, cioè senza vincoli, ma doveva sottostare ad alcuni limiti costituiti dai diritti di natura (come il diritto alla vita, per esempio), che appartenevano a ogni uomo in quanto tale. HOBBES E L’ASSOLUTISMO LAICO Diversa fu l’elaborazione del filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), che concepiva invece lo Stato assoluto come unica garanzia di pace. Secondo lui, lo stato di natura costituiva una realtà violenta di odio e di aggressione di tutti contro tutti (homo homini lupus, “l’uomo è lupo per gli altri uomini”), da cui gli uomini uscivano stringendo un patto con cui attribuivano ogni loro potere al sovrano. Pur teorizzando un duro, spietato assolutismo, Hobbes rifiutava l’origine divina dello Stato: questa visione assolutamente laica dello Stato e della vita associata costituisce uno degli elementi di maggiore modernità del suo pensiero.
Parole della storia Tolleranza, p. 57
LOCKE E IL «DIRITTO ALLA RESISTENZA» La teoria dello Stato esposta dal filosofo inglese John Locke (1632-1704) è invece fondata sulla critica dell’assolutismo e sull’inviolabilità dei diritti innati dell’uomo. Per Locke – ispiratore della seconda rivoluzione inglese [Ź2_3] –, come per i giusnaturalisti, il potere politico deve garantire il godimento dei diritti personali, fra cui Locke inserisce quello alla proprietà privata. Inoltre, anche per il filosofo inglese, gli uomini si associano tra loro stipulando un contratto sociale a tutela delle loro libertà e possono ricorrere alla forza per perseguire i responsabili delle violazioni. Con la teoria della limitazione e della distinzione dei poteri, con l’enunciazione del diritto di resistenza e di ribellione in caso di arbitrio del sovrano nei confronti del cittadino, nonché con l’attenzione al tema della tolleranza, Locke pose le basi del futuro liberalismo [Ź9_4]. IL DEISMO L’affermarsi delle nuove concezioni scientifiche e filosofiche si espresse anche nel rifiuto STORIA IMMAGINE Antifrontespizio e frontespizio del Leviathan di Thomas Hobbes 1651 [Barnard College Library, New York] L’antifrontespizio del Leviathan di Thomas Hobbes, opera dedicata allo studio del potere religioso e civile, presenta una immagine che sintetizza efficacemente il pensiero del filosofo inglese. La figura del mostro monarca, composto, e quindi sorretto, dai suoi
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sudditi, s’innalza imponente su una città e sul suo territorio. Nelle mani del sovrano una spada e un pastorale, a simboleggiare il potere civile e quello ecclesiastico. Nei riquadri inferiori seguono le rappresentazioni dei simboli dei due poteri così riuniti in una sola persona: il castello e la chiesa; la corona e la mitra; e poi, ancora, gli strumenti della forza e dell’argomentazione logica; un campo
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LEGGERE LE FONTI
John Locke, Il diritto alla resistenza J. Locke, Due trattati sul governo col «Patriarcha» di Filmer, a c. di L. Pareyson, Utet, Torino 1960, pp. 118-20 Il Parlamento.
Il re.
Nei paragrafi conclusivi del Secondo trattato sul governo, composto intorno al 1681, John Locke formulò la dottrina del diritto di resistenza: essa si configura, da un lato, come diritto alla disobbedienza verso il governo quando questo perda legittimità
agendo fuori dai limiti del mandato; dall’altro, come diritto di «appellarsi al cielo», giustificato dallo stato di guerra che i governanti, tradendo il patto, avrebbero ripristinato.
La ragione per cui gli uomini entrano in società è la conservazione della loro proprietà, e il fine per cui essi eleggono e conferiscono autorità al legislativo è che si facciano leggi e si stabiliscano norme, come salvaguardia e difesa delle proprietà di tutti i membri della società, a limitare il potere e moderare il dominio di ogni parte o membro della società stessa. Infatti, poiché non si può mai supporre che sia volontà della società che il legislativo abbia il potere di distruggere ciò che ciascuno intende garantire con l’entrare in società e per cui il popolo si sottomette ai legislatori da lui stesso designati, quando i legislatori tentino di sopprimere e distruggere la proprietà del popolo o di ridurlo in schiavitù sotto un potere arbitrario, si pongono in stato di guerra con il popolo, il quale è con ciò sciolto da ogni ulteriore obbedienza, e non gli rimane che il comune rifugio che Dio ha offerto a tutti gli uomini contro la forza e la violenza. Il legislativo, dunque, ogniqualvolta trasgredisce questa norma fondamentale della società, e, per ambizione, timore, sconsideratezza o corruzione, tenta di porre in possesso proprio o in mani altrui il potere assoluto sulle vite, libertà e averi del popolo, con questa infrazione della fiducia perde il potere che il popolo ha posto nelle sue mani per fini del tutto opposti, e questo potere ritorna al popolo, che ha il diritto di riprendere la sua libertà originaria, e provvedere, con l’istituzione di un nuovo legislativo, secondo che ritiene opportuno, alla propria sicurezza e tranquillità, che è il fine per cui si trova in società. Ciò che a questo punto ho detto riguardo al legislativo in generale, vale anche riguardo al supremo esecutore, il quale avendo una duplice fiducia posta in lui, cioè a dire la partecipazione al legislativo e la suprema esecuzione della legge, agisce contro tutte e due, se tenta d’istituire la propria arbitraria volontà come legge della società. Egli agisce anche contro la fiducia posta in lui, se impiega la forza, il tesoro e gli uffici della società per corrompere i rappresentanti e guadagnarli alle sue mire, oppure pubblicamente impegna in anticipo gli elettori e prescrive alla loro scelta persone ch’egli ha guadagnato alle sue intenzioni con sollecitazioni, minacce, promesse o altrimenti, e li adopera per far eleggere coloro che in precedenza hanno promesso che cosa voteranno e che cosa decreteranno.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Il filosofo John Locke individua nella difesa della proprietà la causa principale del consociarsi umano e della creazione delle norme. Per quale ragione l’autore sceglie questo criterio e quale ceto sociale ha maggiore interesse a perseguire questo obiettivo?
b Che cosa accade nel caso in cui i legislatori distruggano la proprietà o compiano abusi e violenze contro il popolo? c Se il potere legislativo minaccia la sicurezza della proprietà e la vita dei sudditi, il popolo ha il diritto di resistere e di ripren-
dersi la sua originaria libertà. Su quali basi Locke fonda questo diritto del popolo? d Per quale ragione, secondo Locke, una violazione del patto di fiducia con il popolo commessa dal sovrano è da ritenersi più grave di quella compiuta dal Parlamento?
delle manifestazioni esteriori della religione e nell’uso della ragione in materia di fede. Era questa la prospettiva in cui si muovevano i deisti, che contrapponevano una religione naturale* o razionale alle religioni positive o storiche: essi ammettevano l’esistenza di Dio, dando però vita a una sorta di religione “privata” che rifiutava culti e cerimonie.
Un grande movimento intellettuale: 3 l’Illuminismo La nuova scienza che prese forma nel ’600 e il pensiero politico di Locke costituirono la base di un grande movimento intellettuale, politico e culturale che coinvolse, a partire dalla Francia degli anni ’30 del ’700, tutta l’Europa. Esso prese il nome di Illuminismo, termine che fa riferimento alla luce, ai “lumi della Ragione” che rischiarano le tenebre dell’ignoranza e del pregiudizio e indicano la via del progresso.
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I FONDAMENTI DELL’ILLUMINISMO Le caratteristiche comuni di questa corrente culturale sono principalmente tre: Ɣ l’uso libero e costante della ragione, con l’obiettivo concreto di assicurare la felicità e il benessere degli uomini; Ɣ la critica delle istituzioni politiche e religiose, del principio di autorità e delle tradizioni; Ɣ la fiducia nel progresso, fondata su una concezione della storia dell’uomo come graduale processo di incivilimento e come liberazione dall’influenza della religione e dell’irrazionale. religione naturale Il concetto viene elaborato da intellettuali attivi in Gran Bretagna nel ’600: a differenza delle religioni storiche, fondate sulla rivelazione divina, la religione naturale si basa sull’ipotesi di un accordo generale fra tutti gli uomini in merito a pochi precetti etico-religiosi, definiti sulla base di princìpi razionali. Fra i più convinti propugnatori della religione naturale sono stati John Locke, John Toland (1670-1722) e David Hume (1711-1776), uno dei maggiori filosofi del ’700. pamphlet Opuscolo, libretto, in genere di carattere polemico o satirico.
L’Illuminismo fu, quindi, un movimento profondamente laico, che sottoponeva a critica la Chiesa e le confessioni religiose in genere, considerate fonti di ignoranza, di superstizione e pregiudizi. Anche se alcuni illuministi sostennero posizioni atee, non sempre questo atteggiamento comportò la negazione della fede: prevalse, piuttosto, l’adesione al deismo e a una religione naturale e razionale. L’INTELLETTUALE ILLUMINISTA Protagonista dell’Illuminismo fu una nuova figura di intellettuale, più saggista che filosofo, spesso giornalista, e quindi specializzato nella divulgazione delle nuove idee presso il pubblico colto. L’intellettuale illuminista rivendicava un proprio ruolo chiave nella società e con questo obiettivo si moltiplicarono i luoghi e gli strumenti della comunicazione: salotti, caffè, club, accademie, società letterarie e scientifiche e, ovviamente, giornali, riviste e pamphlet*. Intellettuali illuministi furono, inoltre, tra i consiglieri e i collaboratori di quei sovrani assolutistici che avviarono in questa epoca i principali tentativi riformatori [Ź2_6]. IL SENTIMENTO L’immagine tradizionale di un Illuminismo segnato esclusivamente da un’impronta razionalista non deve tuttavia far dimenticare che, proprio nell’ambito della cultura dei Lumi, si consolidò l’interesse per le
LE PAROLE DELLA STORIA
Tolleranza Il concetto di tolleranza si venne definendo nell’Europa del ’500 ed ebbe all’inizio un contenuto essenzialmente religioso. In un periodo in cui la scissione della Cristianità seguita alla Riforma protestante si stava risolvendo in una serie di sanguinosi conflitti, furono soprattutto umanisti e filosofi come Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro a indicare la via di una pacifica convivenza fra diverse confessioni all’interno del comune ideale cristiano. Questa strada, però, non fu seguita né dalla Chiesa di Roma né dalle Chiese riformate: si continuò invece a identificare l’errore col male e a ritenere che il male dovesse essere comunque estirpato, anche con l’aiuto del potere politico. Una svolta si ebbe solo in Francia, alla fine del secolo, con l’avvento di Enrico IV e l’editto di Nantes del 1598, che riconosceva agli ugonotti libertà di culto e di coscienza: un provvedimento di portata storica, dettato però soprattutto da considerazio-
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ni di opportunità politica. Nella seconda metà del ’600, il principio di tolleranza era ancora ignorato nella maggior parte dei paesi europei (mentre era largamente praticato nelle colonie inglesi del Nord America). Nella stessa Francia, l’editto di Nantes fu revocato da Luigi XIV nel 1685. Facevano eccezione l’Olanda e, in parte, la Gran Bretagna, dove la tolleranza nei confronti delle sètte protestanti dissidenti fu applicata durante la rivoluzione di Cromwell e poi sancita definitivamente, dopo la “gloriosa rivoluzione”, col Toleration Act del 1689. Proprio in Gran Bretagna e in Olanda – e proprio alla fine del XVII secolo – il principio di tolleranza conobbe le sue teorizzazioni più organiche e venne nel contempo allargando il suo significato e il suo ambito di validità. Negli scritti di Spinoza, di Bayle e di Locke si sostiene l’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini (compresi gli ebrei e in genere i non cristiani), la “separazione” fra autorità civile e autorità religiosa, la pari dignità di tutte le fedi e anche di tutte le
opinioni politiche. L’ideale di tolleranza si trasformava così in quello di libertà e travalicava i confini della religione per applicarsi a tutte le manifestazioni della vita associata. In questo senso ampio il principio di tolleranza fu teorizzato dagli illuministi (in particolare da Voltaire, che ad esso dedicò uno dei suoi scritti più noti, il Trattato sulla tolleranza, del 1763). E in questo senso costituì un contenuto essenziale delle rivoluzioni liberali e democratiche della fine del XVIII secolo. Fra il ’700 e l’800, caddero gradualmente in tutti i paesi europei le più gravi discriminazioni basate sulla confessione religiosa, in particolare quelle nei confronti degli ebrei, da sempre emarginati dalle comunità nazionali ed esclusi dai diritti politici. Ma la piena parità di diritti sarebbe stata raggiunta molto lentamente (e in qualche caso rimessa in discussione dai regimi autoritari del XX secolo). Ancora oggi, in molti paesi, soprattutto fuori dall’Europa, lo stesso principio di tolleranza continua a essere ignorato.
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componenti affettive ed emotive, tanto da fare del sentimento una categoria interpretativa e uno strumento di comprensione dell’agire umano. Questo ulteriore punto di vista contribuì ad ampliare gli orizzonti del pensiero settecentesco aprendo nuove frontiere alla riflessione, in particolare nel campo dell’etica, cioè della riflessione sulla condotta umana (morale), e dell’estetica, vale a dire dello studio del bello (arte). UN MOVIMENTO COSMOPOLITA Tutti i paesi europei conobbero il movimento illuminista, i cui protagonisti erano convinti di partecipare a una grande opera di rinnovamento che oltrepassava i confini nazionali. Grazie a questo cosmopolitismo, questa cultura tendenzialmente di élite alimentò una vivace circolazione di idee che giunse a coinvolgere un pubblico molto più vasto. Esso era costituito principalmente dalla borghesia, che in quei decenni stava assumendo una crescente importanza sociale ed economica. Parole della storia Opinione pubblica, p. 58
PERCHÉ IN FRANCIA? Sebbene l’Illuminismo sia diventato presto un fenomeno europeo, il suo centro propulsore fu la Francia, il paese che esercitava dal ’600 un’egemonia culturale su gran parte dell’Europa continentale: il francese era la principale lingua di comunicazione, mentre le arti della parola – il teatro, la letteratura, l’oratoria – stavano vivendo in Francia uno straordinario sviluppo. L’assolutismo aveva, inoltre, stimolato l’emergere di una cultura di opposizione tanto in Francia quanto, soprattutto, all’estero, in particolare in Olanda, dove erano ospitati esiliati e fuorusciti. Sostenuta anche da una larga letteratura clandestina, si diffuse così un’opinione pubblica colta che si opponeva al sistema di governo: al suo interno presero forma le prime opere dell’Illuminismo, scritti che sottoponevano a critica la società del tempo, il sistema politico e i fondamenti della monarchia di diritto divino. LA MASSONERIA
Uno dei più potenti strumenti di diffusione delle nuove idee e dei programmi riformatori in Europa fu la Massoneria. Nata in Inghilterra, tra gli anni ’20 e ’30 del ’700 questa setta segreta si diffuse in tutta Europa, raccogliendo molte adesioni soprattutto tra nobili, borghesi e intellettuali. Essa si batteva per la tolleranza, contro il fanatismo religioso, in nome della fratellanza universale e della certezza sull’efficacia della ragione.
LE PAROLE DELLA STORIA
Opinione pubblica Quello di “opinione pubblica” è, nella nostra epoca, un concetto molto diffuso e persino abusato, ma difficile da definire rigorosamente. L’opinione pubblica – così come si è venuta definendo a partire dalla fine del ’600, prima in Inghilterra, poi in Francia nell’età dell’Illuminismo – è qualcosa di più della somma delle opinioni private: è l’opinione del “pubblico”, ossia della collettività dei cittadini capaci di pensare e di esprimersi politicamente. Dunque essa nasce quando nasce l’idea di un pubblico, cioè col sorgere della stampa periodica e delle prime forme di associazionismo politico e non (circoli, club, ma
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anche salotti e caffè) e, più in generale, con l’emergere di una “società civile” distinta dallo Stato e in qualche misura ad esso contrapposta. L’opinione pubblica coincide di fatto con i suoi canali di espressione: la stampa, soprattutto, ma anche i circoli intellettuali e le organizzazioni politiche. Per tutto il ’700 e per buona parte dell’800, l’area di chi contribuiva a formare l’opinione pubblica era limitata ad ambienti molto ristretti, espressione per lo più delle élite colte. Queste élite si assumevano il compito di rappresentare il “paese reale” e di controllare l’operato dei poteri costituiti denunciandone gli abusi. Già dalla fine dell’800, con l’avvento delle organizzazioni di massa, con
l’allargarsi della partecipazione politica e soprattutto con il diffondersi dell’istruzione, l’opinione pubblica venne progressivamente allargando le sue dimensioni, ma anche mutando i suoi caratteri. Nelle società di massa l’opinione pubblica si configura non più, o non soltanto, come un’istanza di controllo sull’attività politica, ma come una serie di spinte dal basso, di segno a volte contrastante, che certo condizionano la classe dirigente, ma possono anche esserne condizionate con le moderne tecniche della propaganda. L’esistenza di un’opinione pubblica libera e articolata rimane comunque un requisito essenziale dello Stato democratico e della società pluralistica.
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4 Leggere una carta storica 2 Politica e circolazione del sapere nell’Illuminismo, p. 74
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Gli illuministi francesi e l’Enciclopedia Tra i numerosi intellettuali illuministi francesi, tre furono quelli che emersero tanto da influenzare la cultura e il dibattito politico fino a oggi: Montesquieu, Voltaire e Rousseau. L’opera collettiva più rappresentativa dell’Illuminismo francese fu, invece, l’Enciclopedia. MONTESQUIEU E LA SEPARAZIONE DEI POTERI La fama di Montesquieu (1689-1755) è legata soprattutto all’opera Lo spirito delle leggi, pubblicata anonima per timore della censura nel 1748. Dopo aver descritto i caratteri dei tre sistemi politici fondamentali – repubblica, monarchia, dispotismo – e dei princìpi che li reggono – rispettivamente virtù, onore e paura –, Montesquieu individuò negli organismi intermedi – innanzitutto i parlamenti – il mezzo per evitare la degenerazione delle monarchie in dispotismo. Ispirandosi al modello politico anglosassone, affermò l’importanza della separazione tra il potere di governo (esecutivo), quello di approvare le leggi (legislativo) e quello di punire le loro violazioni (giudiziario). Il principio della separazione dei poteri costituisce, da allora, la base di tutte le Costituzioni liberali e democratiche.
Personaggi Voltaire e la battaglia contro l’oscurantismo, p. 60
philosophes Gli illuministi francesi definirono sé stessi philosophes, “filosofi”. Filosofo è per gli illuministi colui che si impegna a esercitare liberamente la propria ragione critica in ogni dominio per affermare la libertà dell’individuo.
VOLTAIRE Di estrazione borghese, Voltaire (1694-1778) fu forse il più tipico esponente dei philosophes*, gli illuministi francesi. Intelligente, ironico e spregiudicato, praticò tutti i generi letterari: fu drammaturgo, poeta, storico, saggista e soprattutto pubblicista. Contrario a ogni forma di privilegio, Voltaire teorizzò una monarchia assoluta, illuminata dall’opera dei filosofi. Per questo strinse un forte legame con Federico II di Prussia, che lo volle alla corte di Berlino dal 1750 al 1752 [Ź2_5]. Difensore del deismo e nemico dell’oscurantismo e del fanatismo religioso, Voltaire sostenne soprattutto l’idea di tolleranza, basata sulla concezione che, in confronto alla grandezza e alla perfezione del cosmo, tra gli uomini non esistevano che piccole differenze. UN’OPERA COLLETTIVA: L’ ENCICLOPEDIA Fra il 1751 e il 1772 uscirono i 28 volumi (17 di testo, 11 di tavole) dell’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, che si poneva lo scopo di divulgare i progressi
STORIA IMMAGINE La manifattura degli spilli, tavola dell’Enciclopedia 1751-72 L’Enciclopedia fu uno dei maggiori strumenti di diffusione per la cultura illuminista: fra le undici e le quindicimila copie furono vendute in Francia già nel 1789. Alla sua stesura avevano partecipato circa 1500 persone, realizzando un’opera di 25 mila pagine, il cui scopo
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era quello di unificare le conoscenze acquisite nei secoli e mostrare i progressi compiuti dall’uomo nell’agricoltura, nelle arti e nei mestieri. Le voci erano spesso corredate di immagini, tavole illustrate che, come asseriva lo stesso Diderot nel Prospectus dell’opera, erano più funzionali, dal punto di vista comunicativo, di una pagina di testo.
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delle scienze e della tecnica seguiti all’affermazione del metodo sperimentale e all’uso della ragione. Per far questo, i suoi numerosi collaboratori combatterono una dura battaglia contro la censura e contro l’ostilità degli ambienti culturali più conservatori, come quelli rappresentati dai gesuiti, che temevano la messa in discussione dei princìpi della tradizione religiosa. Alla stesura dell’opera contribuirono tutti i maggiori intellettuali francesi del tempo, ma moltissime voci furono redatte dallo scrittore e filosofo Denis Diderot (1713-1784), che fu anche il principale organizzatore dell’impresa editoriale, inizialmente affiancato dal matematico Jean-Baptiste d’Alembert (1717-1783). L’Enciclopedia ebbe un largo successo e un’ampia diffusione, facendola diventare il simbolo dell’Illuminismo francese. ROUSSEAU: RIFLESSIONI SULL’UGUAGLIANZA E LA SOVRANITÀ POPOLARE Alla redazione dell’Enciclopedia partecipò anche Jean-Jacques Rousseau (1721-1778). Figlio di un orologiaio, filosofo e romanziere, nacque a Ginevra ma poi si trasferì a Parigi, dove divenne presto molto noto. Egli criticò radicalmente la società e le istituzioni, guardando alla storia come progressiva decadenza rispetto a uno stato originario in cui gli uomini erano innocenti e uguali tra loro. Fondamento dell’ineguaglianza, secondo Rousseau, era stata l’introduzione della proprietà privata: pur considerandola un diritto naturale, infatti, il filosofo ginevrino considerava ingiusta la concentrazione della ricchezza nelle mani di poche persone. Queste posizioni determinarono la rottura di Rousseau con il mondo degli illuministi, che al contrario sostenevano la visione della società come progresso.
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PERSONAGGI
Voltaire e la battaglia contro l’oscurantismo Sono pochi gli uomini di lettere ad aver goduto in vita di gran fama come François-Marie Arouet, noto al mondo come Voltaire. Gli attestati di riconoscimento da lui ricevuti non hanno avuto uguali e attorno alla sua figura si è sviluppato un vero e proprio culto, fatto di ovazioni pubbliche e celebrazioni quasi ufficiali; lo stesso Voltaire si è occupato personalmente della sua immagine come un vero professionista delle lettere, riuscendo così a diventare il campione dell’Illuminismo e il centro della vita intellettuale francese nel XVIII secolo. Figlio di un notaio parigino, ben presto si allontana dalle orme paterne che avrebbero voluto per lui una tradizionale carriera nel diritto o nell’amministrazione. La pubblicazione di qualche scritto critico verso le autorità gli procura una condanna a undici mesi di prigione alla Bastiglia già nel 1717. Appena libero, Voltaire ottiene il suo primo successo sulla scena teatrale grazie a una tragedia, l’Edipo, che inaugura la linea di critica alla tradizione che sarà la cifra del suo teatro e di tutta la sua attività letteraria. La sua penna ironica mette alla berlina la politica e le credenze religiose del tempo in maniera
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più efficace di dotti trattati anche più anticonformisti. Le polemiche provocate dalla popolarità delle sue opere lo inducono a partire per un lungo soggiorno in Inghilterra nel 1726. È un momento decisivo per la sua vita: il soggiorno inglese è alla base delle Lettere filosofiche o Lettere inglesi (1734). In questo testo Voltaire elogia la tradizione politica e culturale inglese rispetto alla situazione in Francia, trattando del deismo, della tolleranza religiosa e del regime di maggiore libertà delle istituzioni d’Inghilterra. La reazione delle autorità francesi è violenta: le Lettere vengono bruciate e Voltaire viene minacciato di arresto. Per sfuggire a questa nuova persecuzione, si ritira a Cirey, in Lorena, nel castello della sua compagna di studi e di vita Madame du Châtelet (1706-1749). Gli ospiti sono numerosi e Voltaire è un grande intrattenitore: tiene banco a tavola impressionando i suoi ammiratori; si improvvisa attore delle sue stesse opere teatrali, una passione che porterà avanti per tutta la vita. In questo suo esilio decennale Voltaire si dedica soprattutto alla scrittura di opere storiche, tra cui Il secolo di Luigi XIV (pubblicato nel 1751) e il Ź Statua di Voltaire [Musée du Louvre, Parigi]
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sovranità popolare La sovranità popolare è il principio in base al quale la fonte della sovranità sta nel popolo e non nella persona del re. Insieme con quello della separazione dei poteri, è un principio fondamentale della nostra vita politica. Con sovranità popolare non si intende solo la democrazia diretta, ma più comunemente la possibilità del popolo di scegliere i suoi rappresentanti – democrazia rappresentativa. Del resto la democrazia diretta è realizzabile solo in piccole comunità in cui effettivamente tutti possono riunirsi e partecipare. Quando uno Stato è composto da milioni di cittadini non si può che ricorrere alla democrazia rappresentativa.
Nel Contratto sociale (1762), il filosofo ginevrino elaborò poi una proposta di rifondazione dell’originaria società di uguali: egli ipotizzò, infatti, un patto sociale in cui i singoli si uniscono in un corpo organico rinunciando alla propria libertà e ai propri interessi particolari per costruire, in funzione del bene comune, lo Stato. Questa nuova comunità sociale, basata sulla volontà generale, ha la possibilità di realizzarsi solo in un regime di democrazia diretta in cui la sovranità appartiene al popolo – sovranità popolare* –, senza che nessuno possa essere delegato a esercitarla in suo nome. Queste concezioni, a partire dalla Rivoluzione francese, costituirono una delle principali ispirazioni del pensiero politico democratico e rivoluzionario. IL RUOLO DEL ROMANZO Non è solo trattando esplicitamente di temi politici o di attualità che gli illuministi riescono a influire così tanto sulla società del XVIII secolo. Tra i nuovi generi letterari e di scrittura, quello che finisce forse per sortire gli effetti più duraturi è il romanzo. Le trame dei libri di Rousseau, del romanziere inglese Samuel Richardson (1689-1761), e di Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781), filosofo e scrittore tedesco, riescono a conquistare migliaia di lettori in giro per l’Europa e plasmano il loro modo di vivere la vita, i sentimenti, le emozioni. Commuovendosi per le vicende di amanti sfortunati o povere fanciulle, i lettori maturano una nuova sensibilità verso le cose del mondo e verso il prossimo, soprattutto. Come? Dipendeva prima di tutto dal modo in cui questi libri erano scritti. Romanzi come Pamela (1740) e Clarissa (1747-48) di Richardson e Giulia o la nuova Eloisa (1761) di
Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (pubblicato nel 1756), che molto influenzerà la cultura occidentale successiva. Con questa opera, la storia cessa di essere descritta come la realizzazione della Provvidenza cristiana nel mondo e diventa invece l’affermazione della ragione umana e dei suoi successi sotto gli occhi di un Dio-architetto, conformemente ai princìpi del deismo professato da Voltaire. Soprattutto, però, i suoi lavori storici si caratterizzano per una concezione della storia più attenta ai fenomeni culturali e ai costumi di una nazione che alle sue guerre e ai suoi intrighi politici. Negli anni successivi, dopo vari soggiorni in Germania alla corte di Federico il Grande, Voltaire si riavvicina provvisoriamente alla corte dei Borbone, fino a diventare storiografo del re (1745) e ad essere ammesso all’Académie Française, il tempio della cultura francese. Nel frattempo, si stabilisce nei pressi di Ginevra, a Ferney, che diventa ben presto meta di pellegrinaggi. Lungi dall’adagiarsi sulla sua popolarità, però, in questi anni si impegna in molti campi, non ultimo quello imprenditoriale, visto che installa sulle sue proprietà a Ferney delle vere e proprie fabbriche manifatturiere. Il soggiorno vicino Ginevra e le molte difficoltà con il puritanesimo svizzero acutizzano la sua insofferenza per il fanatismo religioso e l’o-
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scurantismo*. È in questi anni che lancia per la prima volta il suo grido di battaglia più famoso: «écrasez l’infâme» («schiacciate l’infame»); con questo appello, Voltaire cerca in quegli anni di chiamare a raccolta tutte le menti più illuminate contro l’“infamia” dell’intolleranza religiosa, impegnandosi in vere e proprie campagne di opinione. A partire dal caso di un protestante ingiustamente accusato dell’omicidio del figlio, e per questo messo a morte (il caso Calas), Voltaire imbastisce una polemica sull’ingiustizia del sistema penale francese e pubblica il celebre Trattato sulla tolleranza (1763), che muove le coscienze e le autorità fino al punto di ottenere la revisione del processo e la riabilitazione postuma del giustiziato. Impegnandosi in altre cause dello stesso tipo, il filosofo di Ferney dimostra di non essere soltanto uno scrittore di successo e un maestro dell’ironia, ma un uomo d’azione, che presta la sua penna a cause civili e politiche. Con Voltaire, insomma, i princìpi di tolleranza escono dalle pagine dei libri per farsi norme di comportamento. È la lettura stessa delle sue opere in quegli anni a rappresentare un esercizio di libertà. Il suo romanzo filosofico Candido o l’ottimismo – forse la sua opera più nota oggi – conosce almeno 17 edizioni nel 1759 e solo in quell’anno si stima ne siano stati venduti 25 mila esemplari.
È una cifra enorme per l’epoca, tanto più se si pensa che queste copie circolavano clandestinamente: le avventure di Candido che mettono in ridicolo la concezione provvidenzialistica della storia sono proibite dal Parlamento di Parigi e inserite nell’Indice dei libri proibiti di Roma. Superando questi impedimenti per procurarsi il libro, i divertiti lettori di Voltaire partecipavano magari involontariamente alla lezione più importante dell’Illuminismo: la libertà di espressione contro tutte le censure. La morte trovò Voltaire nel 1778, pochi mesi dopo il suo trionfale ritorno a Parigi. Le sue spoglie lasciarono però la capitale qualche giorno dopo, clandestinamente, visto che le autorità religiose si erano rifiutate di celebrare le esequie. Solo nel luglio 1791, in uno dei periodi più caldi della Rivoluzione francese, i suoi resti sarebbero ritornati a Parigi per essere collocati nel Panthéon (il tempio dei grandi innovatori francesi), legando anche simbolicamente la sua lezione alle conquiste rivoluzionarie.
oscurantismo Atteggiamento di rifiuto nei confronti del progresso, dell’istruzione, della diffusione della cultura, della ricerca scientifica, ecc. Il termine si diffonde proprio nel XVIII secolo in contrapposizione a “Illuminismo”.
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LEGGERE LE FONTI
Jean-Jacques Rousseau, Patto sociale, sovranità e governo J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino 2005, pp. 23-28, 37
Il contratto sociale, principale opera politica del filosofo Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), fu pubblicato nel 1762, e suscitò l’immediata condanna delle autorità politiche e religiose. Nonostante ciò, l’opera segna, ancora oggi, una tappa fondamentale nel dibattito sull’idea di democrazia e libertà. Nei brani riportati, Rousseau delinea il passaggio dallo stato di
natura alla nascita di un patto sociale alla base della comunità politica e introduce il concetto centrale di volontà generale, la volontà superiore volta al bene comune, attraverso cui si esprime il corpo sociale. Ogni individuo è al contempo soggetto, che deve sottostare alle leggi che egli stesso ha contribuito a formare, e cittadino che esercita la sovranità.
Del patto sociale Immagino ora che gli uomini siano arrivati al punto in cui gli ostacoli che nuocciono alla loro conservazione nello stato di natura prevalgono con la loro resistenza sulle forze di cui ciascun individuo può disporre per mantenersi in quello stato. Tale stato primitivo non può più sussistere in questa fase e il genere umano perirebbe se non cambiasse le condizioni della sua esistenza. Ora, siccome gli uomini non possono creare nuove forze, ma soltanto unire e dirigere quelle che esistono, essi non hanno altro mezzo per conservarsi che quello di formare per aggregazione una somma di forze che possa prevalere sulla resistenza, mettendole in moto per mezzo di un unico impulso e facendole così agire di concerto. [...] «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima.» Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale dà la soluzione. Le clausole di questo contratto [...], bene intese, si riducono tutte a una sola: cioè l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Infatti, innanzi tutto, poiché ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti, ed, essendo la condizione uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri. Inoltre, essendo l’alienazione fatta senza riserve, l’unione è la più perfetta possibile, e non resta ad alcun associato niente da rivendicare [...]. Infine, chi si dà a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale ciascuno non acquisti un diritto pari a quello che gli cede su di sé, tutti guadagnano l’equivalente di quello che perdono, e una maggiore forza per conservare quello che hanno. Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non gli è essenziale, si troverà che esso si riduce ai termini seguenti: Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e riceviamo in quanto corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto. Al posto della persona singola di ciascun contraente, quest’atto di associazione produce subito un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo morale riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così dall’unione di tutte le altre, prendeva una volta il nome di città, e adesso quello di repubblica o di corpo politico, il quale a sua volta è chiamato dai suoi membri Stato quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Gli associati poi prendono collettivamente il nome di popolo, e singolarmente si chiamano cittadini in quanto partecipi dell’autorità sovrana, e sudditi in quanto sottoposti alle leggi dello Stato.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Quale strategia gli esseri umani mettono in campo per salvaguardare la loro autoconservazione?
b A quali esigenze umane fondamentali il contratto sociale offre una risposta? c Qual è la condizione essenziale che sintetizza tutte le altre clausole del patto sociale?
d Quale differenza sussiste nell’ambito della comunità associata tra i cittadini e i sudditi?
Rousseau trasformavano personaggi ordinari in eroi ed eroine alle prese con i problemi dell’amore e della vita. Per di più, si trattava spesso di romanzi epistolari in cui l’intreccio era costruito dallo scambio fittizio di lettere tra i diversi protagonisti. In questo modo, il lettore seguiva lo sviluppo delle emozioni dei personaggi dalla loro viva voce e finiva per immedesimarsi.
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STORIA IMMAGINE Joseph Highmore, Scena dal romanzo «Pamela» di Samuel Richardson 1743-44 [Tate Gallery, Londra] Quello raffigurato è il primo di una serie di dipinti che illustrano alcune scene del romanzo Pamela di Samuel Richardson, stretto amico di Highmore. La protagonista della storia è seduta a un tavolo intenta a scrivere e viene interrotta dal suo seduttore, il Signor B. L’arredamento della stanza così come il quadro sopra il camino alle spalle di Pamela, e che raffigura la parabola della Buona samaritana, sottolineano i valori tradizionali in cui crede la giovane ragazza.
Le nuove scienze 5 e l’Illuminismo in Europa Anche se l’Illuminismo nacque in Francia, altri paesi d’Europa parteciparono a questa rivoluzione culturale, che investì molti campi di studio e di riflessione: dalle scienze dell’uomo, alla storia, ai nuovi campi delle sperimentazioni scientifiche. LE NUOVE SCIENZE In questo contesto culturale, nacquero discipline ispirate dai libri di viaggi e dalle descrizioni dei costumi delle popolazioni considerate selvagge, come l’antropologia culturale, che studia l’essere umano dal punto di vista sociale e culturale e l’etnologia, che compara le diverse culture umane. Si rinnovò radicalmente anche lo studio della storia, nel quale si affermò, oltre alla visione laica, un nuovo interesse per la società e i modi di vita. Nel campo scientifico, invece, il botanico svedese Linneo (1707-1778) compilò la sua fondamentale classificazione delle piante e degli animali, catalogando più di quattromila “specie”, che classificò in base ai caratteri della fruttificazione per i vegetali e ai caratteri morfologici esterni per gli animali, da lui considerati immutabili nel tempo. A Linneo si deve l’invenzione della classificazione per genere (categoria che raggruppa specie tra loro affini per determinati caratteri) e specie, usata ancora oggi dai naturalisti. Negli stessi anni, il naturalista francese Georges-Louis Buffon descrisse nella sua monumentale Storia naturale gli esemplari che collezionava in qualità di intendente dell’orto botanico di Parigi accennando alle «degenerazioni» che i mutamenti ambientali possono aver provocato sul modello originario di alcune specie, durante il lunghissimo tempo che secondo lui ci separa dalla creazione. Erano gli anni, inoltre, delle sperimentazioni
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sull’elettricità, campo nel quale si distinguerà, tra gli altri, l’italiano Alessandro Volta (1745-1827), e soprattutto degli studi di chimica del francese AntoineLaurent Lavoisier (1743-1794), che fondò la chimica moderna. LA NASCITA DELLA CHIMICA MODERNA Chimico per passione (era esattore delle imposte per conto della Corona francese e direttore dell’Amministrazione delle polveriere reali), a Lavoisier si deve la scoperta della natura e delle origini delle reazioni chimiche. Nel 1787, infatti, egli propose una nuova nomenclatura chimica, sistematica e razionale, basata sul presupposto che il nome di un elemento chimico debba descriverne le proprietà, mentre nel 1789 diede alle stampe il primo manuale di chimica moderna, il Trattato elementare di chimica (Traité élementaire de chimie), in cui enunciò il principio della conservazione della materia. Partendo dal presupposto che anche la chimica, al pari della fisica, si basa su princìpi verificabili e misurabili, pesando prima e dopo ciascun esperimento gli elementi che prendevano parte ad una reazione chimica, Lavoisier dimostrò che in ogni processo chimico la quantità di materia rimane la stessa (principio della conservazione della materia), così come la quantità e la qualità degli elementi chimici che la compongono rimane invariata
STORIA IMMAGINE Cinque emozioni desumibili dall’esame della mimica facciale [tavola tratta da G.-L. Leclerc de Buffon, Storia naturale, 1749] Fra le opere di maggiore successo va senz’altro annoverata l’Histoire naturelle, générale et particulière di Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon: 36 volumi in cui l’autore cercò di organizzare tutto il sapere dell’epoca nel campo delle scienze naturali. Nel secondo volume, da cui è tratta la tavola qui illustrata, Buffon affrontò la storia naturale dell’uomo; fu in questo volume che Buffon rilevò le somiglianze tra l’uomo e la scimmia e la possibilità di una genealogia comune. ź
Maurice Quentin de La Tour, Ritratto di M.lle Ferrand 1753 Le questioni scientifiche che andavano dibattendosi con tanto fervore nel ’700 fra gli “addetti ai lavori” ebbero larghissima eco anche al di fuori del mondo accademico. Come testimonia il quadro di de La Tour, nel quale sul leggio è raffigurato un libro sulle scoperte di Isaac Newton, la curiosità nei confronti delle opere scientifiche fu diffusa oltre che fra i lettori maschi anche nel mondo femminile.
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(principio della conservazione degli elementi): in altre parole, durante la reazione chimica avvengono solo trasformazioni e cambiamenti di composizione delle sostanze. Anche la scoperta dell’ossigeno fatta da Lavoisier nel 1775 era destinata ad avere importantissime conseguenze, soprattutto in campo medico, dove esso viene impiegato per risolvere problemi legati alla respirazione o come disinfettante (si pensi all’acqua ossigenata).
Ÿ La pila voltaica [Musée du Louvre, Parigi]
LA NASCITA DELL’ECONOMIA POLITICA Anche i fenomeni economici, in questo periodo, cominciarono a trovare una sistemazione disciplinare, grazie all’opera svolta in Francia dalla scuola fisiocratica (dal greco phy`sis, “natura”, e kratèin, “dominare”), che considerava la coltivazione della terra come unica attività che potesse aumentare la ricchezza di un paese. Secondo i fisiocratici, infatti, l’agricoltura produce quel sovrappiù di ricchezza che consente di nutrire, oltre i contadini e i proprietari terrieri, anche la “classe sterile” dei mercanti e degli artigiani. Per questo motivo, essi chiedevano l’abolizione di ogni ostacolo alla coltivazione e alla libera circolazione delle derrate agricole, cioè la libertà dei commerci – soprattutto dei cereali –, l’abolizione delle tasse doganali, la semplificazione della tassazione sulle rendite provenienti dalla terra. Dal punto di vista teorico, i fisiocratici partivano dall’analisi dei meccanismi della produzione economica per poi arrivare a comprendere l’intera organizzazione sociale. SMITH E LA RICCHEZZA DELLE NAZIONI Una simile impostazione fu ripresa dallo scozzese Adam Smith (1723-1790), a cui dobbiamo la prima enunciazione di una teoria generale dell’economia. Smith rintracciava nel sentimento – simpatia, interesse, ecc. – il movente dell’agire degli uomini e nell’utile individuale e sociale il fondamentale criterio di comportamento. Se ciascuno è lasciato agire liberamente secondo il proprio interesse particolare – affermava Smith –, inevitabilmente contribuisce al benessere collettivo e alla felicità generale: un agire, dunque, che va al di là delle originarie intenzioni individuali e che appare guidato da quella che Smith chiama la «mano invisibile». Secondo lo studioso scozzese, il lavoro produttivo costituiva la misura del valore di scambio delle merci: il “valore della merce”, infatti, sarebbe proporzionale al lavoro impiegato per produrla. L’espansione dell’economia è legata secondo Smith all’incremento della produttività, garantita dalla crescente divisione del lavoro tra la manodopera impiegata, dal reinvestimento continuo dei profitti e dall’innovazione tecnologica. Anche Smith, come i fisiocratici, era convinto che la libertà degli scambi favorisse lo sviluppo dell’attività economica: si doveva dunque annullare ogni forma di protezionismo e ridurre l’intervento statale al controllo delle tasse e alla garanzia dei servizi pubblici. Queste analisi fecero di Smith il fondatore dell’economia «classica» e il primo teorico del liberismo. L’ILLUMINISMO IN GERMANIA Nel mondo tedesco, il movimento illuminista si sviluppò nella lotta contro il dogmatismo e l’autoritarismo della Chiesa luterana. Il suo punto più alto fu raggiunto con l’opera filosofica di Immanuel Kant (17241804). Al quesito «Che cos’è l’Illuminismo?» Kant diede una definizione memorabile per chiarezza e intensità: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a sé stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo». L’ILLUMINISMO ITALIANO Particolarmente importante fu il contributo dell’Italia al movimento illuminista, soprattutto per l’attenzione rivolta ai problemi
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dell’economia e degli ordinamenti giuridici. Poli di irradiazione del movimento dei Lumi nella penisola furono il Regno di Napoli, dove i problemi dei rapporti con la Chiesa e l’analisi delle condizioni economiche accompagnarono tutta l’opera di rinnovamento culturale intrapresa dagli illuministi, e la Lombardia. A Milano, intorno alla rivista «Il Caffè» (1764-66), impegnata nella lotta per le riforme, si raccolsero i fratelli Pietro e Alessandro Verri e Cesare Beccaria. BECCARIA CONTRO LA PENA DI MORTE Legato ai vivaci dibattiti del «Caffè» fu Dei delitti e delle pene (1764), l’opera in cui Cesare Beccaria (1738-1794) si pronunciò contro la pena di morte e la tortura e a favore della pubblicità del processo e della prevenzione del delitto: essa fu tradotta in diverse lingue ed ebbe una straordinaria diffusione in Europa e nel continente americano. Il messaggio umanitario di Beccaria ispirò molti tentativi di riforme giudiziarie dell’assolutismo illuminato, ma il principio dell’abolizione della pena di morte stentò a lungo, e stenta ancora ai nostri giorni, a farsi strada nelle pratiche di governo di molti Stati e nella coscienza dei popoli.
Storiografia R. Chartier, Una rivoluzione della lettura Storiografia L. Hunt, Romanzi ed empatia
Libri e pubblico: 6 la nuova circolazione della cultura CRESCE LA PRODUZIONE DI LIBRI Dalla seconda metà del ’600 si registrò un forte incremento della produzione libraria. L’allargamento del pubblico colto si riflesse anche sull’editoria ampliando il mercato librario. Cambiò anche la gerarchia dei centri di produzione: Venezia conobbe un fortissimo declino a vantaggio di Parigi, di Amsterdam e di Londra, le nuove capitali dell’editoria. Nelle ultime due città, gran parte della vitalità editoriale si doveva agli ugonotti espulsi dalla Francia, che costituirono in tutta Europa una fitta rete di corrispondenza. LA PASSIONE PER LA LETTURA La passione per la lettura crebbe nel XVIII secolo trasformandosi profondamente: da esigenza di studio divenne in moltissimi casi occasione di curiosità e di piacere. Alcuni la descrivono ormai come una “febbre”, una malattia che colpisce tutti senza distinzione di età, di condizione sociale o – e qui stava la maggiore novità – di sesso. Le donne sono tra le più appassionate lettrici. Alcuni dati bastano a far riflettere sul mutamento: in Inghilterra i libri pubblicati in un anno passarono da circa 21 mila all’inizio del secolo a 65 mila negli anni ’90. Alla Fiera del libro di Francoforte (ancora oggi la più importante del settore) le opere presentate erano passate da 1384 titoli nel 1765 a 3906 nel 1800. Si calcola che in tutta Europa nel corso del ’700 siano stati pubblicati tre milioni di titoli, senza tener conto della produzione minore per i ceti popolari, come gli almanacchi e i libri di devozione. Persino in Russia, dove durante il regno dello zar Pietro il Grande (1682-1725) si stampavano circa sette titoli nuovi all’anno, si arrivò a 500 nel 1790. Le statistiche sono elaborate a partire dai cataloghi dei libri conservati fino a oggi, oppure dalle richieste delle licenze che in molti paesi gli stampatori-editori dovevano inoltrare per pubblicare un libro, e quindi si perdono, nel conto, tutti i moltissimi volumi stampati clandestinamente. Si tratta dei libri cosiddetti «filosofici», cioè le opere ispirate ai princìpi illuministici e perciò ritenute pericolose, e di una produzione minore ma non meno importante, cioè la letteratura pornografica, satirica, e quella che denunciava i vizi della corte e della nobiltà.
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LA DIVERSIFICAZIONE DEL MERCATO Anche se le tecniche della produzione libraria non videro grandi innovazioni, tra il XVI e il XVIII secolo, e i prezzi non scesero, il libro subì alcune trasformazioni che ne facilitarono la diffusione. Si affermò il piccolo formato, il libro “tascabile”, che permise al lettore di portarlo sempre con sé. Aumentarono anche le edizioni popolari, di cattiva qualità nella carta, nella stampa e nelle rilegature: accanto ai tradizionali almanacchi con le indicazioni dei movimenti degli astri, dei momenti propizi per i lavori campestri e dei santi del giorno, comparvero le riscritture e imitazioni dei romanzi più in voga. Aumentò enormemente anche il numero dei venditori ambulanti di volantini, gazzette, libri: a Londra, secondo un contemporaneo, erano 300 già nel 1641, mentre in Francia solo quelli muniti di licenza erano 500 nel 1740 e 3500 nel 1848. Nacquero anche nuovi luoghi di fruizione e scambio culturale, luoghi in cui si leggeva e si conversava: gabinetti di lettura, circoli, salotti, caffè.
Ÿ Jean-Michel Moreau, Il primo bacio d’amore [da J.-J. Rousseau, La nouvelle Hélöise, in Oeuvres, Parigi 1793-1800] Nel 1761 Jean-Jacques Rousseau pubblicò il suo romanzo Giulia o la nuova Eloisa riscuotendo grande successo.
ź Louis-Philibert Debucourt, La venditrice di giornali 1791 [Bibliothèque Nationale, Cabinet des Estampes, Parigi]
LO SVILUPPO DELLA STAMPA PERIODICA Ma il dato più impressionante dello sviluppo dell’editoria tra ’600 e ’700 fu forse quello relativo a giornali e periodici: il numero complessivo delle testate crebbe in maniera spettacolare unitamente al numero di copie stampate per testata. Nel corso del ’600 in Olanda si passò da una media di 400 copie per ciascun fascicolo di pubblicazione periodica a circa 1000; fra il 1630 e il 1680 nacquero 20 nuove testate all’anno e la crescita si fece più rapida nel ’700: per limitarci a qualche esempio, nei diversi territori tedeschi si passò da 64 titoli all’inizio del secolo XVIII a 1225 nell’ultimo decennio dello stesso secolo; in Francia, dove la censura regia era più accorta, da 40 a 277. LA NASCITA DEI MODERNI PERIODICI Per quanto riguarda i tipi di pubblicazione, si affermarono nella seconda metà del ’600 i periodici letterari, costituiti da recensioni a libri pubblicati in ogni settore della conoscenza, e aumentarono i periodici dedicati alle scienze. Tra le pubblicazioni specialistiche del ’700 dobbiamo inoltre ricordare la nascita di riviste che si rivolgono esclusivamente al pubblico femminile. Nel corso del ’700, inoltre, le antiche gazzette, piene di notizie militari o cronache mondane, ma prive di commenti, strumento di propaganda della monarchia e della corte, si trasformano nei moderni giornali. Questo processo ebbe il suo avvio in Inghilterra, dove, con l’affermarsi del sistema parlamentare dopo la gloriosa rivoluzione, che limitò il potere della monarchia e revocò la censura preventiva (nel 1694), l’informazione era più libera. Nei giornali inglesi del ’700 i resoconti parlamentari, gli annunci economici, le notizie internazionali si alternarono ai commenti esplicitamente politici: il «Tatler», che uscì dal 1709 al 1711 tre volte alla settimana, e lo «Spectator» di Richard Steele e Joseph Addison, quotidiano pubblicato dal 1711 al 1712, divennero un modello imitato da molti altri in Inghilterra e fuori. Nell’Europa continentale i giornali ebbero un’evoluzione più lenta. Seguirono l’esempio inglese, pur con qualche cautela in più, fogli come «Der Patriot» di Amburgo (dal 1723) o «Il Caffè», periodico fondato a Milano nel 1764 dai fratelli Verri, che rappresentò una delle più importanti voci dell’Illuminismo italiano. In tutta Europa fu comunque la Rivoluzione francese del 1789 a portare una straordinaria fioritura di fogli e giornali vicini a diversi schieramenti politici e contenenti informazioni e commenti. LE MODIFICAZIONI DEL GUSTO DEI LETTORI. IL ROMANZO Naturalmente, oltre a crescere, la produzione libraria si trasformò: i testi religiosi, dominanti ancora a cavallo tra ’600 e ’700, persero terreno di fronte
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all’avanzata di altri generi. Nel catalogo delle novità alla Fiera del libro di Lipsia, nel corso del XVIII secolo, romanzi, commedie e poesie salirono dal 6% al 21% dei titoli complessivi. Soprattutto, nobili e borghesi, uomini e donne del XVIII secolo erano unanimi nell’apprezzare un particolare tipo di libro: il romanzo. Non mancano precedenti letterari famosi, ma è nel ’700 che questo genere letterario si affermò davvero. Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe, la storia di un ragazzo inglese che fugge di casa a diciotto anni per girare il mondo e, dopo aver fatto naufragio su un’isola tropicale disabitata, ricostruisce operosamente un proprio mondo a immagine e somiglianza di quello lasciato in patria, rappresenta la nascita del cosiddetto «romanzo borghese», che si rivolge a un nuovo pubblico di lettori che si allarga anche a strati popolari alfabetizzati e che non si riconosce nel mondo aulico rappresentato nella tragedia. Furono questi nuovi lettori a decretare il successo del genere e a determinarne anche i caratteri: trame appassionanti, con molteplici colpi di scena, creazione di personaggi nei quali il lettore si potesse identificare. Tutti quelli che erano in grado di farlo leggevano romanzi, una pratica largamente diffusa fino ad oggi.
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Storiografia 21 A. Trampus, Il diritto alla felicità, p. 106
Il riformismo dei sovrani illuminati STATO MODERNO E ASSOLUTISMO Il discorso sull’Illuminismo non può esaurirsi in una analisi del rinnovamento culturale e ideologico. All’interno del movimento illuminista è possibile infatti individuare gli elementi di un disegno riformatore che mirava alla modernizzazione dello Stato e al raggiungimento della “felicità pubblica”. La traduzione pratica di questi elementi di riforma rappresentò il tratto più significativo della politica interna di molti paesi europei nella seconda metà del secolo XVIII. Nonostante gli aspetti di novità, la politica riformatrice si inseriva nel lungo processo di formazione dello Stato moderno, che aveva preso le mosse alla fine del XV secolo. La lentezza e le difficoltà con cui si erano venuti definendo i poteri e le competenze dello Stato derivavano fra l’altro da un dualismo e da una contraddizione di fondo che caratterizzavano i nuovi organismi politici: la modernizzazione delle istituzioni, infatti, se per un verso si fondava sul sostegno dei ceti (o ordini) e delle loro assemblee, per un altro teneva viva un’accesa conflittualità tra le rappresentanze dei ceti e il sovrano assoluto. In Francia questa conflittualità si era mostrata compiutamente già durante il governo di Richelieu e aveva raggiunto l’apice con le guerre della Fronda a metà ’600: ma mentre qui Luigi XIV [Ź2_1] aveva dato un decisivo impulso allo sviluppo incontrastato della monarchia assoluta, altrove questo itinerario era tutt’altro che compiuto. Le altre monarchie assolute avvertirono, quindi, l’esigenza di introdurre maggiore efficienza nell’amministrazione e di allargare i poteri dello Stato. Un’esigenza che le portava inevitabilmente a scontrarsi con quel sistema di privilegi, fiscali e giuridici innanzitutto, di cui godevano la nobiltà e il clero: un insieme di diritti e una struttura di potere che costituivano il fondamento del consenso alla monarchia da parte dei ceti dirigenti tradizionali, ma anche un limite essenziale allo sviluppo della società civile e dell’economia. LA STAGIONE DELLE RIFORME Gran parte della storia politico-istituzionale del ’700 ruota attorno al rapporto tra il rafforzamento dello Stato e la riduzione e ridefinizione dei privilegi. In questo quadro va valutata la felice congiunzione creatasi tra iniziativa dei sovrani e programmi riformatori degli
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Storiografia 22 D. Outram, Illuminismo e monarchia, p. 107
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illuministi: una breve stagione, collocata tra gli anni ’50 e ’80, comunemente definita assolutismo (o dispotismo) illuminato. Protagonisti ne furono innanzitutto i sovrani: in Austria Maria Teresa (1740-80) e Giuseppe II (176590), in Prussia Federico II (1740-86), in Russia Caterina II (1762-96), nel Regno di Napoli Carlo di Borbone (1734-59) e Pietro Leopoldo (1765-90) in Toscana. E accanto ai principi, gli intellettuali illuministi che furono di volta in volta consiglieri, collaboratori e critici del loro operato. Né va dimenticato quel ceto di funzionari illuminati che si sviluppò insieme con le riforme e costituì il tessuto connettivo indispensabile alla loro realizzazione. L’ASSOLUTISMO ILLUMINATO
I principali settori di intervento dell’assoluti-
smo illuminato furono: Ɣ nei paesi cattolici, una politica ecclesiastica – il giurisdizionalismo – volta a estendere la giurisdizione e il controllo dello Stato sull’organizzazione delle Chiese nazionali; Ɣ la realizzazione di riforme dell’amministrazione statale e del sistema fiscale, al fine di rendere più razionale la macchina statale; Ɣ in politica economica, attenzione all’agricoltura; la terra rimaneva il principale settore produttivo, ed era necessario rispondere a una crescente domanda di generi alimentari legata allo sviluppo demografico. Nell’Europa centrale la promozione dell’agricoltura fu accompagnata dal tentativo di ridurre, almeno nelle terre demaniali, le forme feudali più oppressive, in particolare le servitù personali. L’ASSOLUTISMO ILLUMINATO ASSOLUTISMO ILLUMINATO
Pubblica felicità
RIFORME
Modernizzazione dello Stato
Maggiore giustizia sociale
Progresso materiale e culturale
Maggiore efficienza amministrativa
Riforma della giustizia
Accentramento dei poteri
Tassazione più equa
Limitazione dei privilegi di
Politiche liberiste Abolizione servitù della gleba Sviluppo dell’istruzione statale Codici di leggi unitari
Clero
Nobiltà
Sistema delle pene più umano
Garanzia di difesa per imputato
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Nascita della burocrazia
Istituzione del catasto
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IL GIURISDIZIONALISMO La politica ecclesiastica dei sovrani illuminati mirava a eliminare i privilegi ecclesiastici, come quello che riservava ai soli tribunali ecclesiastici di giudicare anche reati comuni (come il furto e l’omicidio) quando fossero compiuti da religiosi. Vennero, inoltre, messi in discussione la legittimità del tribunale dell’Inquisizione e il monopolio religioso dell’istruzione. In questo campo l’Illuminismo realizzò i suoi maggiori successi. CONTRO GLI ORDINI RELIGIOSI Secondo i riformatori, i monaci e i religiosi erano improduttivi e vivevano a spese del resto della popolazione, mentre le estese proprietà della Chiesa, difese da vincoli che ne impedivano la vendita, erano di ostacolo a quella circolazione dei beni che avrebbe potuto stimolare l’economia. Iniziò, così, una forma di opposizione e lotta contro gli ordini religiosi, che ebbe come massimo successo l’espulsione dei gesuiti, considerati nemici di ogni innovazione, da molti paesi europei: dal Portogallo nel 1759, dalla Francia nel 1764, dalla Spagna nel 1767, dal Regno di Napoli nel 1768. All’espulsione seguiva l’appropriazione dei beni della Compagnia da parte dello Stato. Nel 1773, la pressione dei sovrani costrinse il papa Clemente XIV a sopprimere la Compagnia di Gesù, poi restaurata nel 1814. catasto Il catasto nacque come un sistema di misurazione e descrizione delle proprietà allo scopo di ripartire il carico fiscale. In età medievale erano i comuni a perfezionare i catasti, anche se i loro documenti rimasero spesso caratterizzati da descrizioni generiche e stime arbitrarie, senza alcun criterio di uniformità. Soltanto nel ’600 cominciò un approfondito lavoro di revisione di questo strumento, che culminò con il catasto realizzato in Lombardia sotto il governo austriaco (1760), divenuto un vero e proprio modello per le elaborazioni successive.
LA RIORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA E FISCALE La razionalizzazione dell’apparato statale fu ottenuta concentrando le decisioni, semplificando le leggi e riducendone il numero, costruendo quella struttura basata su dipartimenti e ministeri in vigore ancora oggi. Particolare attenzione fu dedicata alla riorganizzazione del sistema fiscale. In molti Stati, ma soprattutto nei domìni asburgici, si iniziò a redigere un catasto* dei beni terrieri e immobiliari, che aiutava a stabilire l’entità corretta della tassazione. LE RIFORME IN PRUSSIA Federico II, re di Prussia (1740-86), fu il miglior rappresentante del sovrano illuminato [Ź2_5]. La frequentazione con gli illuministi, l’amicizia con Voltaire, la stesura di opere storiche e politiche fecero di Federico II il tipico re-filosofo. Fra i più importanti interventi riformatori di Federico vi fu la razionalizzazione del sistema giudiziario, la promulgazione di un Codice civile e l’istituzione, per la prima volta in Europa, dell’istruzione elementare obbligatoria (1763). Inoltre, adottò una politica di larga tolleranza nei confronti tanto dei cattolici quanto degli ebrei. Il rafforzamento dell’esercito, che assorbiva l’80% delle finanze, fu accompagnato dalla trasformazione della nobiltà feudale degli Junker in un’aristocrazia militare disciplinata e personalmente legata al sovrano. Agli Junker fu confermato il dominio sulle campagne e sui contadini servi, che non videro migliorate le dure condizioni di vita e dipendenza personale. LE RIFORME IN AUSTRIA In Austria, sotto Maria Teresa [Ź2_2], si formò un apparato statale caratterizzato da spirito di servizio e correttezza formale. Il figlio Giuseppe II, associato al trono dal 1765, rafforzò la politica giurisdizionalista unificando nelle mani dello Stato i poteri sul clero nazionale, sottraendoli al pontefice e ai suoi rappresentanti. Furono, inoltre, soppressi i conventi e gli ordini contemplativi, ossia quelli non dediti all’assistenza e all’insegnamento. Nonostante queste misure contro il clero cattolico, in un impero multireligioso e multietnico come quello asburgico si adottò una politica di tolleranza molto estesa: le discriminazioni nei confronti di protestanti e greco-ortodossi furono abolite, fu concessa la libertà di culto e furono concessi i diritti civili agli ebrei. Il programma riformatore fu molto incisivo anche in altri campi. Il nuovo
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Codice penale (1788) ridusse i casi puniti con la pena di morte e soppresse la tortura. Furono, inoltre, introdotti il matrimonio civile e la libertà di stampa e fu dato ulteriore impulso all’istruzione elementare obbligatoria, già avviata nel 1774. Nel 1781-82 fu abolita la servitù della gleba: gli spostamenti, i matrimoni e la scelta dei mestieri divennero liberi per i contadini mentre nelle proprietà della Corona essi furono trasformati in affittuari. Il tentativo di stabilire una uniformità legislativa e amministrativa in tutto l’impero, però, suscitò vive opposizioni in Ungheria e nei Paesi Bassi austriaci (l’attuale Belgio): il successore di Giuseppe, Leopoldo II (già granduca di Toscana col nome di Pietro Leopoldo) fu così costretto a ritirare i provvedimenti più osteggiati, ponendo fine al progetto più radicale dell’assolutismo illuminato. LE RIFORME IN RUSSIA In Russia, le iniziative riformatrici di Caterina II (1762-96), legata con rapporti culturali e di amicizia a molti illuministi, restarono allo stadio iniziale, anche perché rimase costante la ricerca della sovrana del sostegno della nobiltà. Tuttavia, i progressi sulla strada della requisizione dei beni della Chiesa greco-ortodossa, l’abolizione dei vincoli alle attività commerciali e manifatturiere, che furono permesse anche ai contadini, furono significativi provvedimenti a favore dello sviluppo economico. Molto importante fu anche la riforma amministrativa e provinciale del 1775, che aveva come obiettivo di fondo il rafforzamento dell’autorità centrale. LIMITI AL RIFORMISMO In tutti questi casi, il principale limite al riformismo settecentesco fu costituito dalla forza e dal prestigio dei ceti privilegiati. Le monarchie illuminate, infatti, non potevano limitare troppo i privilegi nobiliari senza mettere in discussione i fondamenti stessi del loro sistema di potere.
LO SPAZIO DELLA STORIA Parigi è il centro da cui si irradiano le nuove proposte intellettuali e politiche. Londra e Amsterdam, oltre che incubatori del pensiero illuminista, sono, la prima, il luogo di destinazione dei viaggi di molti francesi, che osservano con ammirazione l’evoluzione politica del paese, la seconda, il luogo dove sono stampate moltissime delle opere illuministe.
LA DIFFUSIONE DELL’ILLUMINISMO: FILOSOFI E RIFORMATORI
6 San Pietroburgo Caterina II
Hume, Smith O
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MARE DEL NORD
Edimburgo
IRLANDA
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Parigi FRANCIA
Varsavia
SACRO Federico II, Lessing, ROMANO Mendelssohn IMPERO
Vienna CONFEDERAZIONE Ginevra SVIZZERA Giuseppe II Milano Rousseau
PENNSYLVANIA Filadelfia NEW JERSEY
Königsberg
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Verri, Beccaria
POLONIALITUANIA
Poniatowski, principessa Czartoryska
Danubio
OCEANO Montesquieu, Voltaire, ATLANTICO Diderot, d’Alembert, abate Guillaume Raynal
NEW YORK
Mosca
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OLANDA Berlino Amsterdam
Londra
Tolosa
RUSSIA
Kant
PRUSSIA
GRAN BRETAGNA
SPAGNA
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STATO DELLA CHIESA Napoli
REGNO DI NAPOLI
Genovesi, Galiani
Franklin
“triangolo intellettuale”
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Le riforme in Italia Nel corso del ’700, anche nei paesi in cui ebbe meno presa il riformismo di tipo illuminista, la necessità di una più efficiente amministrazione impose forme di razionalizzazione e di riduzione dei privilegi. Anche se con gradi diversi di intensità, nei paesi cattolici esse presero la forma di una limitazione dei poteri della Chiesa e degli ordini religiosi, che si spinse fino all’allontanamento dei gesuiti. IL CATASTO In Italia sia i governi illuminati sia quelli tradizionali ritennero che la preparazione di un catasto rappresentasse un passaggio obbligato. Mentre nel Regno di Napoli, nello Stato pontificio e nel Regno di Sardegna, il catasto si limitò a descrivere le proprietà, nei diretti domìni austriaci, come in Lombardia, l’operazione divenne un efficace strumento fiscale che permetteva di stabilire e valutare l’entità della tassazione. IL REGNO DI SARDEGNA Negli Stati italiani, comunque, molti progetti di rinnovamento dell’amministrazione statale e finanziaria si collocarono fuori (e talora prima) dell’affermarsi di un assolutismo illuminato: nel Regno di Sardegna, ad esempio, il rafforzamento delle strutture statali si realizzò a partire dalla prima metà del secolo, anche se solo nel 1771 furono aboliti i diritti feudali. IL REGNO DI NAPOLI Nel Regno di Napoli una politica giurisdizionalista caratterizzò il regno di Carlo di Borbone (1734-59), mentre le riforme si limitarono all’istituzione del catasto e a una serie di interventi a favore degli scambi commerciali. LA MILANO AUSTRIACA Nel Ducato di Milano, dominio degli Asburgo, furono realizzate le stesse riforme nel campo dell’istruzione, della codificazione, della politica ecclesiastica e fiscale, che erano state avviate nell’Impero asburgico. Furono ridotti i poteri degli antichi organismi rappresentativi del patriziato, come il Senato di Milano, fu sottratta agli appaltatori la riscossione delle imposte, promosso il libero commercio dei grani.
STORIA IMMAGINE Giambattista Ghiari, Le paludi pontine 1778 [Civica Raccolta delle Stampe A. Bertarelli, Milano] Le paludi pontine, luogo malsano e inospitale, erano state oggetto di tentativi di bonifica fin dai primi abitanti in epoca preromana. Molti sovrani e pontefici avevano espresso la volontà di bonificare questa porzione di territorio, ma tutti si erano imbattuti in difficoltà tecniche ed economiche insormontabili. Fra i molti interventi quello di papa Pio VI nel XVIII secolo si rivelò abbastanza efficace. Questa carta, a lui dedicata, traccia il lavoro eseguito: un canale che tagliava longitudinalmente tutta la palude.
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IL GRANDUCATO DI TOSCANA Tutti gli interventi tipici dell’assolutismo illuminato, eccetto il catasto, furono sperimentati nel Granducato di Toscana durante i 25 anni del governo del granduca Pietro Leopoldo (1765-90), figlio di Maria Teresa e futuro imperatore d’Austria. Nella politica ecclesiastica, furono adottati i princìpi giurisdizionalisti, furono soppressi numerosi conventi e ostacolate in genere le attività non socialmente rilevanti del clero. La Toscana, inoltre, fu il primo paese ad accogliere, nel Codice penale del 1786, i princìpi di Beccaria: furono così abolite la tortura e la pena di morte, mentre fu riconosciuto all’imputato il diritto alla difesa e furono rese obbligatorie le motivazioni delle sentenze. In campo economico, fu introdotta la libertà del commercio dei grani e furono abolite le corporazioni. Molte energie furono dedicate al miglioramento dell’agricoltura, in particolare con la bonifica della Maremma e della Val di Chiana. Ÿ Anton Raphael Mengs, Pietro Leopoldo d’Asburgo di Lorena, granduca di Toscana 1770 [Museo del Prado, Madrid]
IL PROGETTO COSTITUZIONALE DI PIETRO LEOPOLDO Ancora più audace fu il progetto costituzionale (1779-82) di Pietro Leopoldo, convinto della necessità di fondare i poteri del sovrano, considerato come un semplice «delegato e un impiegato del popolo», su un contratto che ne limitasse l’autorità. Ma le opposizioni interne e la sua ascesa, nello stesso anno, al trono imperiale gli fecero abbandonare la più radicale delle sue riforme.
STORIA IMMAGINE Luigi Vanvitelli, Reggia di Caserta, facciata La costruzione della Reggia di Caserta è dovuta a Carlo di Borbone e al suo desiderio di riorganizzare il Regno sia sotto il profilo militare-amministrativo sia sotto quello culturale. A questo scopo volle realizzare una reggia che avesse l’eleganza e lo splendore di Versailles: un palazzo moderno che celebrasse i fasti dei Borbone, che elevasse il Regno delle Due Sicilie allo stesso rango degli altri regni europei e che diventasse il centro amministrativo della nuova capitale del Regno, Caserta. Per realizzare il grandioso progetto fu chiamato Luigi Vanvitelli, architetto napoletano di grande fama. Il 20 gennaio 1752 veniva posata la prima pietra della reggia. A causa del trasferimento di Carlo sul trono
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di Spagna (1759) e della morte di Vanvitelli (1773) i lavori furono completati solo nel 1847. Il Palazzo Reale ha 1200 stanze: solo 134 destinate ai reali e tutte le altre ai militari, al personale di servizio e a quell’amministrazione che doveva essere il cuore della nuova città. Inoltre ha un giardino e un parco, la cappella e il teatro, esatta riproduzione, in piccolo, del teatro San Carlo di Napoli. Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia parteciparono attivamente alla realizzazione del progetto, verificando personalmente con l’architetto i perimetri delle fondamenta, i tracciati dei viali, le piante e i fiori che avrebbero ornato il parco e il giardino.
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LEGGERE UNA CARTA STORICA
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
Politica e circolazione del sapere nell’Illuminismo
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Monarchia assoluta Monarchia parlamentare Repubblica Domìni asburgici Prussia Confine Sacro romano impero Centri diffusione Illuminismo 1749
Spostamenti degli illuministi: Voltaire
Giuseppe II Sovrani “illuminati” 1780-1790 Pubblicazione di giornali scientifici e filosofici Prime edizioni Enciclopedia
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REGNO DEL PORTOGALLO
REGNO DI SPAGNA Carlo III di Spagna 1759-1788
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Nel ’700, gli Stati dell’Europa continentale sono quasi tutti monarchie assolute, cioè Stati in cui i diritti e le libertà degli individui non sono garantiti e rispettati dai sovrani e in cui la società, fortemente gerarchizzata, si fonda sul privilegio e l’ineguaglianza tra i ceti. A criticare l’ordine costituito intervengono gli illuministi, i quali, in nome della Ragione, da un lato denunciano l’intolleranza religiosa, gli abusi e le ingiustizie di ogni genere; dall’altro definiscono e reclamano i diritti e le libertà degli individui. Le idee degli illuministi si diffondono in tutta Europa grazie ai loro viaggi, alla circolazione delle loro opere, all’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, ai giornali, alle accademie, alle logge massoniche, ai caffè, ad altri luoghi di incontro come i salotti aristocratici. Gli scambi tra gli illuministi sono talmente intensi da dare vita a una sorta di “Repubblica delle Lettere”, una comunità culturale in cui il pensiero di ciascuno alimenta la riflessione di tutti. Molti sovrani europei, detti “despoti illuminati”, si appropriano dei princìpi filosofici illuministi e varano delle politiche riformiste finalizzate alla modernizzazione dello Stato e, al tempo stesso, al rafforzamento del potere monarchico.
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1 Quali sono le forme di governo presenti nell’Europa del XVIII secolo? Qual è il modello predominante sul continente? 2 Quali sono i principali centri culturali dell’Illuminismo? La loro localizzazione corrisponde a un regime politico particolare? 3 Attraverso quali canali si diffondono le idee illuministe? 4 Chi sono i protagonisti del movimento illuminista? 5 Che cosa si intende con l’espressione “Repubblica delle Lettere”? Con quale spazio geografico coincide?
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LEGGERE E INTERPRETARE
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REGNO DI NORVEGIA
REGNO DI SVEZIA Gustavo III di Svezia 1771 - 1792 San Pietroburgo
Uppsala Stoccolma
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REGNO DI GRAN BRETAGNA Londra
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REGNO DI DANIMARCA
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Caterina II di Russia 1762-1796
SACRO ROMANO IMPERO
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Maria Teresa d’Austria 1740-1780
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Giuseppe II 1780-1790
Losanna Ginevra
REGNO DI FRANCIA
REGNO DI POLONIA
Milano Pietro Leopoldo 1765-1790 Firenze Livorno Roma
Carlo di Borbone 1734-1759 Napoli
IMPERO OTTOMANO
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Ferdinando IV 1759-1799 M
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
Che cosa sono i diritti naturali? Per comprendere cosa si intende con l’espressione “diritti naturali” leggiamo un breve passo tratto dalla tragedia Antigone, scritta nel V secolo a.C. dal tragediografo greco Sofocle, un’opera che il giurista Gustavo Zagrebelsky definisce «il testo fondativo della nostra civiltà giuridica». Creonte, il re di Tebe, aveva emanato l’ordine di non eseguire i riti funebri per Polinice, morto combattendo contro la propria città. Quando egli seppe che Antigone, sorella del defunto, aveva provveduto alla sepoltura, la chiamò al suo cospetto per chiedere le ragioni del suo atto. La giovane donna, allora, rispose: «Io seguo le leggi sacre e incrollabili degli dèi, leggi non scritte [...]. E non credevo che i tuoi bandi fossero così potenti da sovrastare e sovvertire le leggi morali degli dèi». In questo dialogo tra Creonte e Antigone è messo in scena il contrasto tra le decisioni dei governanti, che cambiano nel tempo e nello spazio, e «le leggi sacre e incrollabili degli dèi», che sono invece immutabili, ovvero tra le leggi scritte dagli uomini e quelle non scritte ma valide per tutti gli uomini in quanto connaturate ad essi, i cosiddetti “diritti naturali”. Nei secoli, la questione è stata a lungo dibattuta. Da una parte c’erano i so-
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stenitori del “diritto naturale”, dall’altra chi credeva nell’esistenza del solo diritto positivo, così definito perché “posto in essere” dal legislatore. Questa discussione si fece particolarmente importante in età moderna, tanto che per il periodo che va dal ’600 al ’700 è possibile parlare di una vera e propria “scuola del diritto naturale”. Il fondamento del diritto naturale per i giusnaturalisti moderni non era Dio (come per Antigone) ma la natura umana: i diritti naturali sono diritti innati dei quali ogni essere umano è titolare, sono universali (riguardano cioè tutti gli uomini) e immutabili nel tempo, sono qualcosa che da sempre “accompagna” il genere umano e che appartiene solo ad esso. Proprio per la loro universalità, il filosofo olandese Huig van Groot (conosciuto in Italia come Ugo Grozio, 1583-1645) propose di assumere i diritti naturali – che sono per definizione sovranazionali – come base per regolare i rapporti tra i diversi Stati, in tempo di guerra come in tempo di pace. Queste idee contenevano un messaggio rivoluzionario: se i diritti naturali fanno parte della natura umana, nessun uomo, neanche il sovrano, può revocarli né permettersi di non rispettarli. Essi non sono una concessione ma qualcosa che spetta ad ogni essere umano in quanto tale. È allora possibile e giusto criticare il potere che non rispetti i diritti innati. Non a caso il filosofo britannico John Locke (1632-1704), influenzato dalle idee giusnaturaliste, teorizzò il diritto dei cittadini di opporre resistenza agli abusi dei sovrani [Ź2_2]. La tutela dei diritti naturali ispirò due documenti fondamentali della società occidentale moderna: la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776, Ź7_2) e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789, Ź8_2). Nella prima si proclama: «Noi riteniamo che sono per se
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stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità; [...] che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali princìpi». Nella seconda, ratificata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789, il riferimento ai diritti naturali è ancora più chiaro: «Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione» (art. 2). Il dibattito sui diritti naturali subì un deciso arresto nel XIX secolo, quando il diritto positivo trionfò nei primi grandi codici civili nazionali (in Francia nel 1804 fu promulgato il Codice napoleonico, il primo codice moderno di diritto civile). La teoria dei diritti naturali passò così in secondo piano, perse gran parte del vigore che l’aveva caratterizzata nei secoli precedenti e fu oggetto di molte critiche. Tra i più agguerriti detrattori, il filosofo britannico Jeremy Bentham (17481832), criticando la Rivoluzione francese e la relativa Dichiarazione del 1789, descrisse i diritti naturali come degli «assurdi e miserabili nonsense», qualcosa che non esiste realmente e che serve solo a incoraggiare la violenza e a legittimare la critica dei governanti. Una ripresa del pensiero giusnaturalista si ebbe soltanto dopo il secondo conflitto mondiale quando, esaurita la drammatica esperienza della guerra, i diritti naturali furono nuovamente proposti a difesa delle libertà fondamentali e come un limite agli arbìtri del potere politico. Ciò riguardò soprattutto gli Stati che più avevano sperimentato le conseguenze dei totalitarismi, come l’Italia e la Germania. Dopo la barbarie del nazifascismo (la discriminazione etnica; lo sterminio di ebrei, zingari e dissidenti) da più parti si sentì la necessità di ritornare a scoprire ciò che unisce gli uomini di tutto il mondo senza distinzione alcuna. Fu così che nel 1945 il ri-
Ż Frontespizio della Carta delle Nazioni Unite 1945 [© Bettmann/Corbis] La Carta o Statuto delle Nazioni Unite fu firmata da 51 membri a San Francisco il 26 giugno 1945, a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Organizzazione Internazionale, ed entrò in vigore il 24 ottobre dello stesso anno.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO spetto dei diritti umani divenne uno tra i princìpi ispiratori della Carta delle Nazioni Unite, il documento con cui fu istituito, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), con l’obiettivo di mantenere la pace e la sicurezza tra gli Stati, perseguire la cooperazione internazionale e promuovere il rispetto dei diritti dell’uomo. Nel Preambolo si affermava l’impegno degli Stati membri delle Nazio-
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ni Unite a «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole», concetto ripreso dall’articolo 55: «le Nazioni Unite promuoveranno [...] il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione».
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I diritti naturali vennero inoltre riconosciuti come il fondamento delle carte costituzionali nate nel secondo dopoguerra. Secondo l’articolo 2 della Costituzione della Repubblica italiana: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»
Costruiamo il lessico del cittadino 1 Leggi la scheda e completa sul quaderno le seguenti definizioni: Ɣ I diritti naturali sono tali perché.............................................. Ɣ Il diritto positivo è definito tale perché ...................................
Ɣ L’individuo è legittimato ad appellarsi al diritto di resistenza, cioè .........................................., ogni qualvolta i suoi diritti naturali e inalienabili sono messi in discussione o violati
Ɣ I diritti inalienabili sono definiti tali perché ............................
I diritti naturali nella storia 2 Nella scheda, individua e sottolinea i diritti naturali enunciati nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776 e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e rispondi alle domande. a. Quali sono le parole che ritornano più frequentemente nei due testi? Qual è il loro significato? b. Perché questi diritti sono considerati universali e propri di ogni individuo e popolo? c. Quale regime politico è implicitamente condannato nelle due Dichiarazioni?? d. Qual è la relazione esistente tra questi enunciati, il pensiero di John Locke e la filosofia dei Lumi? 3 All’uscita dalla seconda guerra mondiale, i diritti naturali furono recepiti nel Preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo dell’Onu e nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata il 4 novembre 1950, a Roma, dai dieci Stati membri fondatori del Consiglio d’Europa (Italia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda, Norvegia, Svezia, Danimarca). Di entrambi i documenti ti proponiamo la lettura di alcuni stralci perché costituiscono la base della nostra riflessione. Doc. 1 Preambolo alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 [...] Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione della gente comune, Considerato che è essenziale, se l’uomo non deve essere costretto a ricorrere, come ultima risorsa, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione, che i diritti umani siano protetti da norme di legge, [...] Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà, Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, la pro-
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mozione del rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, [...] L’ASSEMBLEA GENERALE, proclama la presente Dichiarazione Universale dei Diritti Umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione. Articolo 1 Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO Articolo 2 Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. [...] Articolo 3 Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.
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Articolo 4 Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma. Articolo 5 Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.
Doc. 2 Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata il 4 novembre 1950 I Governi firmatari, Membri del Consiglio d’Europa; [...] Considerato che il fine del Consiglio d’Europa è quello di realizzare un’unione più stretta tra i suoi Membri, e che uno dei mezzi per conseguire tale fine è la salvaguardia e lo sviluppo dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali; Riaffermato il loro profondo attaccamento a queste Libertà fondamentali che costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall’altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti dell’Uomo a cui essi si appellano; Risoluti, in quanto governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, a prendere le prime misure atte ad assicurare la garanzia collettiva di certi diritti enunciati nella Dichiarazione Universale. Hanno convenuto quanto segue: [...]
Articolo 2 1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena. [...] Articolo 3 Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Articolo 4 1. Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù. 2. Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio. [...] Articolo 5 1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza.
Dopo aver letto i documenti, rispondi alle seguenti domande: a. Quali sono i diritti naturali riconosciuti agli individui dall’Onu e dal Consiglio d’Europa già salvaguardati nelle due Dichiarazioni del XVIII secolo? b. Quali sono i diritti di nuova enunciazione? Come si giustifica la loro introduzione? c. Su quale patrimonio comune si fondano questi diritti? d. Tenendo conto della temperie storica in cui sono stati redatti questi documenti, secondo te quale volontà comune sottendeva la riaffermazione di questi diritti?
La situazione dei diritti umani nel mondo di oggi 4 A settant’anni dall’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, i sostenitori dei diritti umani concordano sul fatto che essi siano ancora largamente violati in buona parte del mondo. Il Rapporto 2017-2018 sulla situazione dei diritti umani nel mondo di Amnesty International, un’organizzazione non governativa indipendente fondata nel 1961 e attiva nella difesa e promozione dei diritti umani, contiene dati allarmanti in tal senso. Per far luce su questa piaga mondiale, invitiamo la classe a leggere il documento online e a individuare, per ciascuna delle 5 aree geografiche in cui è scandito il Rapporto, esempi di violazione degli articoli 1, 2, 3, 4, 5 della Dichiarazione Universale. Per leggere il documento bisogna andare su Internet e digitare nella maschera di ricerca di Google “Rapporto 2017-2018 Amnesty”. Di seguito occorre cliccare su “Naviga il rapporto” e si aprirà la pagina delle aree: Africa sub-sahariana, Americhe, Asia e Pacifico, Europa e Asia centrale, Medio Oriente e Africa del Nord. Per rendere più agevole il lavoro, è opportuno dividere la classe in cinque gruppi, attribuire a ognuno di essi un’area geografica e per ciascuna di esse schedare le informazioni richieste. Infine i gruppi confronteranno i dati ricavati in una discussione in classe con l’insegnante.
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C 3 La nuova scienza e l’Illuminismo RICORDARE L’ESSENZIALE La rivoluzione scientifica La rivoluzione scientifica del ’600 portò a una profonda ridefinizione concettuale: la teoria eliocentrica distrusse l’idea di un cosmo chiuso e geocentrico, mentre emerse una nuova concezione del progresso come processo mai concluso. Galilei, attraverso l’uso del telescopio, pervenne alla conferma sperimentale del sistema copernicano, e questo gli costò la persecuzione da parte della Chiesa. Nuovi orizzonti di ricerca furono aperti dal calcolo infinitesimale e dalla legge di gravitazione universale di Newton. In seno alla rivoluzione scientifica si radicò e diffuse una nuova mentalità tecnologica. Le invenzioni facilitarono i lunghi viaggi per mare (sestante, cartografia) o la misurazione privata del tempo (l’orologio da tasca). Si diffusero anche le prime enciclopedie e sorsero le accademie, sedi intellettuali di quella circolazione delle idee che si collegava alle nuove scoperte scientifiche. Grazie all’iniziativa dei protestanti rifugiatisi in Olanda, Inghilterra, Svizzera e Germania si intensificarono la pubblicazione di periodici e la tiratura dei libri. Il pensiero politico Sul piano del pensiero politico, nel ’600 si manifestò anche il tentativo di porre un limite al potere assoluto dello Stato. Il giusnaturalismo fece risalire l’istituzione della società civile a un patto fra uomini liberi che non annullava però il diritto di natura (come il diritto alla vita e alla libertà). Ne derivò una nuova concezione della sovranità e dei limiti del potere. Per Hobbes, invece, il patto mediante il quale gli uomini si costituiscono in società civile si configurava come accettazione del potere assoluto del sovrano. Diversa la teoria di Locke: fondata sulla critica dell’assolutismo e sull’affermazione dei diritti naturali dell’uomo, fu all’origine del liberalismo moderno. L’atteggiamento razionale interessò anche le questioni religiose: la ragione umana poteva ora verificare le conoscenze che derivavano da Dio e, secondo i deisti, l’uomo poteva vivere la fede come una religione privata. I caratteri dell’Illuminismo europeo L’esaltazione di un impiego spregiudicato della ragione, la critica al principio di autorità e alle istituzioni poli-
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Audiosintesi per paragrafi
tiche e religiose, l’analisi empirica della società legata a un’esigenza riformatrice, la fiducia nel progresso, l’adesione a una religione naturale e razionale: queste sono alcune delle caratteristiche peculiari dell’Illuminismo europeo. Centro di elaborazione fu, a partire dagli anni ’30 del ‘700, la Francia, patria dell’assolutismo monarchico, dove prese corpo un’ampia cultura di opposizione. Di qui il movimento si irradiò in Europa, grazie alla circolazione di uomini, libri, giornali, opuscoli, ma anche grazie alla massoneria, una setta segreta nata in Inghilterra all’inizio del ’700 e subito diffusasi nel continente. Nel contesto francese emersero tre figure di intellettuali: Montesquieu, sostenitore del principio della divisione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), fondamento di tutte le future Costituzioni liberali e democratiche europee; Voltaire, critico dell’oscurantismo e dei privilegi e fautore di un dispotismo illuminato; Rousseau, per la sua critica della società e del progresso e per la sua analisi dei fondamenti della democrazia diretta. La più significativa realizzazione culturale dell’Illuminismo fu l’Enciclopedia, che contribuì potentemente alla diffusione delle nuove idee e del sapere. L’Illuminismo favorì l’affermazione di una concezione laica della storia, attenta alla società e ai modi di vivere, e fece registrare grandi progressi nel campo delle scienze naturali, dove Linneo elaborò la sua fondamentale classificazione delle piante e Lavoisier pose le basi per la nascita della chimica moderna. Nacque anche una nuova disciplina, l’economia politica, grazie all’opera dei fisiocratici francesi, che individuarono nell’agricoltura l’attività economica fondamentale, e di Adam Smith, il quale indagò i meccanismi che regolano l’economia e la ricchezza delle nazioni. Al centro dell’analisi di Smith, considerato il padre del liberismo economico, sta il concetto di lavoro produttivo e di divisione del lavoro e, soprattutto, la convinzione che il libero agire dell’individuo contribuisca al benessere collettivo: di qui la necessità di lasciare al mercato il compito di regolare l’attività economica (la teoria della «mano invisibile»). Nel mondo tedesco l’Illuminismo fu legato alla lotta contro il dogmatismo e l’autoritarismo della Chiesa luterana. Kant, il suo esponente di maggior rilievo, interpretò l’Illuminismo come il coraggio di far uso del proprio intelletto senza sottostare
alla guida di altri. In Italia i due principali centri del pensiero illuminista furono Napoli e Milano: qui, attorno alla rivista «Il Caffè», si raccolsero i fratelli Verri e Cesare Beccaria, propugnatore di una nuova concezione della giustizia: contrario alla pena di morte e alla tortura, Beccaria era favorevole alla prevenzione del delitto e alla certezza della pena. In questo periodo si registrò un forte incremento della produzione libraria, sollecitato dalla crescita di un pubblico colto e appassionato di lettura, e contestualmente una sua diversificazione, attraverso l’affermazione di libri tascabili e di edizioni popolari, mentre si moltiplicarono i luoghi della loro vendita e fruizione. Il dato più rilevante dello sviluppo dell’editoria tra ’600 e ’700 è quello relativo a giornali e periodici. Aumentano notevolmente sia le testate che le copie stampate per testata (le tirature); inoltre in Inghilterra, dove l’informazione era più libera, nacquero i moderni giornali, che alle notizie politiche aggiungevano anche i commenti: ne furono esempi imitati in tutta Europa il «Tatler» e lo «Spectator». Il ’700 fu anche il secolo in cui si affermò, sempre a partire dall’Inghilterra, il moderno romanzo borghese.
L’assolutismo illuminato Il movimento illuminista fu promotore di un progetto riformatore che mirava alla modernizzazione dello Stato e al raggiungimento della «felicità pubblica». Questo tentativo di trasformare le istituzioni rappresentò il tratto più significativo della politica interna di molti paesi europei e aprì la breve stagione dell’«assolutismo illuminato», tra gli anni ’50 e ’80 del ‘700. Protagonisti furono alcuni sovrani, circondati da intellettuali illuministi, che furono di volta in volta consiglieri, collaboratori e critici delle politiche statali: in Austria agirono Maria Teresa e i suoi due figli, Giuseppe II e Leopoldo II, in Prussia Federico II, in Russia la zarina Caterina II. Le politiche riformatrici poste in essere dai sovrani illuminati mirarono a razionalizzare la macchina ammnistrativa statale, con l’introduzione della struttura organizzata in dipartimenti o ministeri; a rendere più efficiente il sistema fiscale con la redazione di un catasto dei beni terrieri e immobiliari; ad ampliare, con il giurisdizionalismo, gli spazi di potere dello Stato a discapito di quelli della Chiesa (riduzione dei privi-
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legi degli enti ecclesiastici, abolizione di ordini religiosi, cacciata dei gesuiti, riorganizzazione del sistema di istruzione); a favorire gli scambi commerciali con politiche economiche liberiste; a riformare i codici penali mediante l’abolizione della tortura e la riduzione della pena di morte; ad abolire la servitù della gleba. I limiti più grossi del riformismo illuminato risiedettero nel fatto che esso non metteva in discussione la legittimità del
potere dei sovrani e che, ovunque in Europa, incontrò l’ostilità del ceto nobiliare, preoccupato di difendere i propri privilegi. In Italia l’attività riformatrice fu sostanzialmente limitata al Regno di Napoli, alla Lombardia e alla Toscana. Nel Regno di Napoli l’azione riformatrice si limitò alla redazione di un catasto, ad interventi a favore degli scambi commerciali e a misure giurisdizionaliste. Nel Ducato di Milano, dominio austria-
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co, vennero realizzate le stesse riforme che erano state avviate negli altri territori dell’Impero (soprattutto il catasto). In Toscana, salvo che per il catasto, si sperimentarono sotto Pietro Leopoldo (figlio di Maria Teresa d’Austria) tutti gli interventi più tipici dell’assolutismo illuminato, tra i quali l’avvio di una politica liberista e l’attuazione dei princìpi di Beccaria, con l’abolizione della tortura e pena di morte.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Galileo Galilei fu perseguitato dalla Chiesa per aver “dimostrato” la teoria eliocentrica. b. Le nuove concezioni scientifiche trovarono sostegno presso le Chiese protestanti. c. Il settore economico maggiormente interessato dal riformismo “illuminato” fu quello agricolo. d. Le ribellioni autonomistiche nell’Impero asburgico furono alla base delle riforme di Giuseppe II. e. In Russia l’organizzazione cetuale della società fu favorita dalla politica riformatrice di Caterina II. f. In Italia gli unici Stati interessati dal riformismo illuminato furono quelli legati all’Impero asburgico. g. In Lombardia la redazione di un catasto servì a rendere più esteso ed efficace il prelievo fiscale. h. L’Enciclopedia fu duramente osteggiata dagli ambienti culturali più conservatori e questo ne limitò enormemente la diffusione a livello continentale.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Il potere politico per i giusnaturalisti… a. era un attributo esclusivo del monarca; b. doveva sottostare ai limiti imposti dal diritto divino; c. scaturiva dalla stipulazione di un contratto sociale. 2. La separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu… a. individuava nei Parlamenti il fondamento della legittimità del potere; b. garantiva alla classe nobile il privilegio di governare accanto al re; c. stabiliva che è il popolo a detenere la sovranità e non il monarca. 3. Secondo Rousseau, la proprietà privata era... a. l’unico fondamento su cui organizzare la vita sociale; b. una legge dello stato di natura; c. all’origine delle disparità sociali fra gli uomini. 4. I fisiocratici affermavano che... a. la ricchezza di un paese derivava dalla coltivazione della terra; b. l’economia era regolata dal valore del lavoro produttivo; c. la proprietà privata della terra danneggiava l’economia.
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5. Secondo Adam Smith, la «mano invisibile» … a. guida gli individui verso l’interesse generale; b. fa in modo che gli interessi particolari coincidano con l’interesse generale; c. spinge gli uomini a competere fra loro per il proprio interesse particolare. 6. La lotta contro gli ordini religiosi ebbe come effetto… a. l’incameramento dei beni ecclesiastici da parte dello Stato; b. l’aumento delle discriminazioni delle minoranze; c. la proclamazione del laicismo dello Stato. 7. La riorganizzazione del sistema fiscale prevedeva… a. l’estensione del pagamento dei tributi a tutte le classi sociali; b. che l’entità dei tributi da pagare fosse proporzionale alle giornate di lavoro effettivamente svolte; c. un metodo più razionale, corretto ed efficiente di prelievo fiscale; 8. Le riforme nel campo del diritto si muovevano tendenzialmente verso… a. la proclamazione dell’uguaglianza dei sudditi di fronte alla legge; b. l’abolizione di leggi antiquate come la servitù e la pena di morte; c. la negazione dell’origine divina dei privilegi politici ed economici.
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C3 La nuova scienza e l’Illuminismo
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3 Completa la mappa concettuale sull’illuminismo inserendo nei cerchietti i numeri corrispondenti ai seguenti concetti: 1. controllo statale / 2. cicli storici / 3. pedagogia / 4. deismo / 5. democrazia diretta / 6. libertà di pensiero / 7. critica della conoscenza / 8. liberismo / 9. sviluppo delle conoscenze / 10. ateismo / 11. monarchia illuminata / 12. visione laica.
politica
economia
Illuminismo
scienze
cultura
religione
storia
4 Completa la tabella comparativa relativa alle riforme attuate dai sovrani illuminati europei, inserendo le espressioni fornite di seguito. Attenzione: un termine va usato due volte. Rispondi poi alle domande finali. elementare • sovrano • cattolici • ebrei • aristocrazia militare obbligatoria • pontefice • Caterina II • greco-ortodossa • Giuseppe II • il potere centrale • catasto • della tortura • Federico II • contemplativi • motivazioni della sentenza
Nome del sovrano Riforme effettuate
Prussia
Austria
Russia
Italia
............................................
Maria Teresa e suo figlio .................. .........................................................
.........................................
Numerosi furono i sovrani perché tanti erano gli Stati.
• Riorganizzazione del sistema giudiziario (promulgazione del Codice Civile) • Istruzione ....................... obbligatoria • Tolleranza religiosa (nei confronti dei ...................... e degli ......................). • Trasformazione della nobiltà feudale (Junker) in .........................................
• Creazione di un apparato statale. • Unificazione, nelle mani del ....... ................................, dei poteri sul clero nazionale, sottraendoli al ...... ........................................ o ai suoi rappresentanti. Furono soppressi i conventi e gli ordini ............................................ Fu concessa tollerenza, libertà di culto e diritti civili agli ................... • Fu scritto un nuovo Codice penale che eliminò la tortura e ridusse i casi puniti con la pena di morte. Fu introdotto il matrimonio civile, la libertà di stampa, l’istruzione elementare obbligatoria; fu abolita la servitù della gleba.
• Furono requisiti i beni della Chiesa ....................; furono compiute diverse iniziative a sostegno dello sviluppo economico (per esempio l’abolizione dei vincoli alle attività commerciali e manifatturiere). • Fu compiuta una riforma amministrativa e provinciale con l’obiettivo di rafforzare .........................................
• Introduzione di un ........ come strumento fiscale per stabilire la tassazione. • Rinnovamento dell’amministrazione statale. • Abolizione dei diritti feudali. • Abolizione della pena di morte e ........................... • Fu riconosciuto all’imputato il diritto alla difesa e furono rese obbligatorie le ..............................
1. Gli intenti dei sovrani furono sempre raggiunti? Perché? 2. Quali risultati duraturi produsse la stagione dell’assolutismo illuminato?
COMPETENZE IN AZIONE 5 Scrivi un testo dal titolo Illuminismo e cambiamento. Utilizza la scaletta di seguito fornita e seleziona, tra le immagini presenti nel capitolo, quelle che ritieni particolarmente utili all’illustrazione dell’esposizione, indicando fra parentesi il numero dell’immagine a cui ti riferisci. • Significato del termine “Illuminismo” • Il deismo e il nuovo rapporto con le Chiese • Capisaldi del pensiero illuminista • Le riforme amministrative e giuridiche • Montesquieu, Voltaire, Rousseau e la loro idea di Stato • I sovrani illuminati
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Agricoltura, industria e nuovi consumi nel ’700 Strutture tradizionali e fattori di trasformazione si accompagnano e si scontrano nell’evoluzione della società d’ancien régime, dando luogo a cambiamenti importanti sia nel funzionamento dei sistemi produttivi, sia nella diffusione di un nuovo atteggiamento verso i consumi. Emmanuel Le Roy Ladurie [Ź1] ricostruisce le cause e le conseguenze della carestia che colpì la Francia fra il 1693 e il 1694, mettendo in luce la dipendenza dell’agricoltura dai fattori climatici. Raffaella Sarti [Ź2], invece, analizza la diffusione delle nuove colture (riso, mais, patata, pomodori), che, nonostante alcune difficoltà iniziali, contribuirono a migliorare le condizioni alimentari della popolazione europea e a modificare il paesaggio agrario del continente. Paolo Malanima [Ź3], invece,
STORIOGRAFIA 1 E. Le Roy Ladurie, L’Ancien Régime, vol. 1, Il trionfo dell’assolutismo: da Luigi XIII a Luigi XIV (1610-1715) [1991], il Mulino, Bologna 2000, pp. 277-81.
Gli anni 1687-1701 furono caratterizzati da un clima fresco e umido [...]. Ma il grano, ai tempi della sua origine storica, anzi preistorica, abitava i paesi caldi e secchi: esso non ama né il gelo né la troppa pioggia. In tali condizioni, nel decennio in cui il clima si era molto rinfrescato sorsero varie crisi di sussistenza piuttosto gravi, che produssero naturalmente uno dei più gravi rincari dei viveri del XVII secolo. Il mancato raccolto del 1693 fu seguito da una carestia apocalittica di tipo quasi medievale. In Francia e nelle nazioni confinanti del continente, e in Scozia, essa fu gravissima; invece in Inghilterra i problemi furono minori perché l’agricoltura insulare aveva già raggiunto livelli superiori di produttività grazie al rinnovamento tecnologico e alla quantità e ricchezza del fertilizzante fornito dall’allevamento del bestiame. Il commercio marittimo dei cereali, assai sviluppato, permise d’altra parte di compensare con gli apporti delle campagne adiacenti al Mar Baltico le temporanee carenze prodotte da qualche annata di cattivo raccolto dalle parti di Londra o di Bristol. In Francia alla base della carestia del 1693-1694 troviamo un insieme
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ci illustra il funzionamento delle industrie a domicilio, diffuse nelle campagne ma anche nelle città europee, analizzando le fasi della produzione tessile e le figure che ad essa prendevano parte. Era un sistema produttivo legato all’artigianato, che sviluppava però dei caratteri propri e innovativi. Dalla metà del XVII secolo, inoltre, si affermò un radicale cambiamento nei comportamenti di consumo, che lo storico economico Jan de Vries [Ź4] ha definito «rivoluzione industriosa»: nel secolo che precedette la rivoluzione industriale, infatti, molte famiglie dei paesi più sviluppati furono coinvolte negli scambi di mercato, come produttrici di beni commerciabili o come soggetti che incrementavano l’offerta di lavoro.
E. Le Roy Ladurie Cattivi raccolti e carestie Lo storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie (nato nel 1929), a lungo professore presso il prestigioso Collège de France e fra i maggiori esponenti della scuola delle «Annales», ha dedicato numerosi studi al mondo rurale e alla società francese in età moderna. Nei due volumi dedicati all’Ancien Régime, traccia un vasto affresco della Francia, analizzando l’evoluzione della monarchia, l’articolazione dell’apparato statale, ma anche i mutamenti profondi a livello demografico, economico e sociale. Nel brano proposto ricostruisce la genesi e le conseguenze della carestia del 1693, offrendoci un quadro molto chiaro dei meccanismi che regolavano la produzione agricola nell’età moderna. di fattori strutturali, evenemenziali1 e climatici. Gli anni 1680, caldi e secchi nelle stagioni in cui cresce il grano, avevano prodotto splendidi raccolti sia nella Francia del Nord sia in Inghilterra. Sotto il peso di questa offerta sovrabbondante, il prezzo del grano era oscillato verso il basso, ma non a lungo. A partire dal 1687 giunsero le insidiose stagioni fredde segnalate dalle vendemmie tardive dell’ultimo decennio del secolo, che caratterizzarono quella che con una certa forzatura è stata definita «la piccola glaciazione» del XVII secolo. Questa fase di raffreddamento fu particolarmente nociva per i raccolti delle valli alpine. Là i cereali che già erano attestati al massimo di altitudine possibile del loro habitat stentarono a resistere ai rigori del clima di montagna che anche in anni normali era già al «limite» della loro sopravvivenza. Nelle Alpi le primavere e le estati furono fredde e spesso umide e putride negli anni 1687-1692. Gli effetti sui raccolti locali di questa fluttuazione negativa delle temperature e positiva delle piogge furono pessimi. «A partire dal 1690, scrive un funzionario savoiardo nel 1693, la maggior parte delle popolazioni
delle alte valli alpine, si sono nutrite di pane fatto di gusci di noce macinati con un po’ di farina d’orzo o d’avena...». L’anno 1692, freddo e umido, si distinse particolarmente per la cattiva primavera e la cattiva estate: i raccolti furono incredibilmente tardivi, nella Svizzera romanda2 addirittura si svolsero fra il 9 e il 12 novembre! Le estati umide e fredde erano sfavorevoli alle coltivazioni che garantivano la sopravvivenza o i modesti guadagni del popolo minuto: castagne, grano saraceno, vino. «Tutte le castagne sono perse e anche la maggior parte del grano saraceno [...] Le viti hanno sofferto molto e ci sarà ben poco vino [...]; in mancanza di grano saraceno e frumentone3, la gente rischia di trovarsi alla fame già a Quaresima». Analoghe osservazioni pessimistiche furono rile-
1. Qui nel senso di avvenimenti occasionali. 2. È la parte francofona della Svizzera, quella che
comprende Ginevra.
3. Granturco, mais.
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FARE STORIA
FARE STORIA Agricoltura, industria e nuovi consumi nel ’700
vate nell’Île-de-France, in Anjou, nella Normandia, nel Poitou, nel Béarn4. Con il procedere dell’autunno del 1692, gelido come l’estate che l’aveva preceduto, crebbe l’angoscia dinanzi al delinearsi della crisi delle sussistenze. [...] E infatti la fame si presenterà l’anno seguente: il 1692 fu davvero un anno terribile o almeno l’origine di due anni terribili. Con il freddo, la pioggia e i raccolti tardivi, compromise la mietitura dell’anno in corso (dell’agosto 1692) e di conseguenza il raccolto del 1693 e il pane quotidiano del 1694... Un missile a tre stadi, insomma. L’anno 1693, un po’ meno freddo del precedente, ebbe però una primavera gelida e una diffusa carie5 del grano. I cereali ricevettero il «colpo di grazia». Il raccolto del 1693 coincise con la propagazione di una vera e propria carestia come non se ne era vista dopo il 1661. [...] Nel complesso, non è escluso che circa un decimo dei sudditi di Luigi XIV sia passato da vita a morte nei due anni dal 1692 al 1693 per fame e soprattutto a causa delle epidemie diffusesi proprio «approfittando» della carestia. Tenendo conto anche di un deficit non recuperato
di nascite, ciò potrebbe significare crollo demografico di due milioni di anime al minimo, paragonabile a una catastrofe che, oggi, provocasse una diminuzione della popolazione francese di cinque milioni di persone... Se accettiamo queste cifre dobbiamo anche riconoscere che, finita la carestia, il recupero demografico manifestò il solito vigore. All’unisono, le vedove si risposarono, le donne sopravvissute, spose d’antica o di recente data, ricominciarono a mettere al mondo figli. Le perdite furono compensate ma l’allarme era stato durissimo. Aumentò moltissimo la popolazione errante, mendicanti e disoccupati, perché i potenziali datori di lavoro, impoveriti, non assumevano più. Si dava a questa situazione la definizione di «impotenza dei singoli». I poveri nei giorni più duri si trovarono ridotti a mangiare torsoli di cavolo e «pane di radici di felci» che certo non contribuivano a ristabilire la salute dei molti infermi. La sorte dei civili era ulteriormente complicata dalla necessità di alloggiare i soldati e dalle requisizioni di grano per l’esercito. I cereali disponibili erano stati ammassati nelle province ma anche le parrocchie
STORIOGRAFIA 2
R. Sarti Le nuove colture
R. Sarti, Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 209-13.
In parte, la dipendenza dalla produzione cerealicola fu contrastata attraverso il commercio locale e internazionale dei grani. L’esportazione aumentò da paesi e zone quali la Germania orientale, la Polonia, la Livonia1, l’Estonia, la Scania2, la Moscovia, la Boemia e l’Ungheria «grazie» al sempre più pesante asservimento dei contadini, costretti a produrre grano e a mangiare cereali come orzo o avena. Ma dalla fine del Seicento aumentò anche quella dall’Impero turco, dalla Sicilia, dagli stati barbareschi e, dal XVII secolo, quella dall’Inghilterra e dalle sue colonie d’America. Fu solo nel Settecento, tuttavia, che si cominciò a risolvere tutta una serie di problemi legati al trasporto dei grani su lunga distanza e il commercio poté raggiungere livelli un tempo impensati.
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ne avevano raccolto degli stocks danneggiando le comunità vicine. Nelle regioni interne il prezzo del frumento era triplicato addirittura [...] Nascevano così sommosse impotenti a combattere il disastro provocato dalle stagioni cattive e dalle manovre degli accaparratori. 4. L’Île-de-France è la regione al nord della
Francia, in cui si trova Parigi; l’Anjou e il Poitou si trovano nella zona nord-occidentale della Francia, mentre il Béarn è una provincia sud-occidentale. 5. Malattia derivata dalla diffusione di un fungo che colpisce i chicchi di grano. È favorita proprio dagli alti tassi di umidità.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi la descrizione e le conseguenze degli eventi del 1693 nei differenti paesi europei. Scrivi a margine del testo il nome del paese di cui sottolinei gli eventi. b. Cerchia le parole chiave che riguardano gli eventi che seguirono la fine della carestia e argomenta le tue scelte. c. Spiega il significato dell’espressione «impotenza dei singoli» nel contesto descritto.
Alla fine del XVIII secolo la geografia dei prodotti alimentari vegetali diffusi in Europa risultava profondamente trasformata rispetto a quella di due-tre secoli prima. La storica Raffaella Sarti (nata nel 1963) ricostruisce l’introduzione di alcune colture, come quelle del riso, del mais, delle patate, già note in Europa dal ’500, ma che si diffusero con più slancio nel ’700. I nuovi prodotti agricoli contribuirono – assieme al miglioramento del commercio internazionale – a modificare la dieta degli europei e ad aiutarli nella lotta contro carestie e fame. Ma l’intensificazione del commercio non fu certo l’unica arma impiegata nella lotta alla fame. In parte, la dipendenza fu infatti combattuta grazie all’introduzione e/o allo sviluppo della coltivazione di piante alimentari del tutto nuove o semplicemente prima meno sfruttate. È il caso del riso, originario dell’Asia meridionale, conosciuto grazie agli arabi in Spagna, da dove nel Cinquecento si sarebbe diffuso nei Paesi Bassi, in Lombardia venne coltivato con moderne tecniche capitalistiche fin dal Quattrocento. È il caso del grano saraceno, non panificabile ma adatto anche a terreni molto poveri e/o di montagna. Noto da tempo, in Europa occidentale fu messo a coltura su scala meno marginale solo a partire dal Cinquecento, in particolare
nei Paesi Bassi, in Germania, in Francia e in Italia settentrionale. Ed è infine il caso delle piante venute dall’America: peperoni e peperoncini si inserirono abbastanza rapidamente nella dieta della Penisola iberica, e poi in Italia meridionale, nei paesi slavi meridionali e in Ungheria, divenendo un economico sostituto dell’agognato pepe. I pomodori, pur conosciuti in Italia, in Spagna, in Provenza e in Linguadoca già nel XVI-XVII secolo, si diffusero invece nel resto d’Europa solo dalla
1. Regione baltica che si estende intorno al Golfo
di Riga; ora parte della Lettonia.
2. Provincia della Svezia.
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FARE STORIA
U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
fine del Settecento. Come i tacchini si inserirono senza difficoltà tra il pollame europeo, così i fagioli affiancarono senza problemi i legumi tradizionalmente noti in Europa, cioè ceci, lenticchie, piselli, fave. [...] Come nel caso delle altre colture «nuove», anche in quello del mais, nel Seicento le tendenze espansive risultarono un po’ contenute: ripresero, e questa volta con un ritmo e una portata molto superiori, nel XVIII secolo. Allora furono spesso gli stessi proprietari terrieri a incoraggiare la fuoriuscita dalla clandestinità ostica di una coltura dall’alto rendimento e a favorire il processo di sostituzione dei cereali inferiori tradizionali con il mais. [...] Nei Balcani, per esempio, il mais cominciò a venir coltivato nei campi dopo la crisi del 1740-41, prima affiancandolo e poi sostituendo l’orzo e il miglio con cui tradizionalmente si preparavano gallette e farinate. Lo stesso avvenne in varie zone dell’Italia settentrionale, dove la polenta di granturco finì per divenire l’elemento centrale dell’alimentazione dei contadini. «Polenta ed furmenton e acqua ed fos», polenta di frumentone e acqua di fosso: questa la loro dieta, avrebbero denunciato in un canto i contadini di Galeata, in Romagna. [...] Ma le conseguenze di un’alimentazione tanto monotona non erano solo noia e frustrazione del palato. Dall’imporsi della dieta maidica3 derivarono infatti gravi conseguenze per la salute dei contadini, a causa delle carenze nell’apporto di vi-
tamina PP, responsabile della pellagra: una malattia il cui decorso provoca ferite purulente, follia e morte. Segnalata per la prima volta nelle Asturie nel 1730, essa flagellò a lungo la popolazione della Francia meridionale, della Pianura Padana, dei Balcani. Assimilabile ai cereali conosciuti, e in particolare al miglio, con cui da sempre si preparavano polente e altri cibi, il mais suscitò forse in misura minore, rispetto alla patata, atteggiamenti di rifiuto e chiusura. Pur coltivata all’inizio in orti e giardini come pianta esotica e di lusso, venne a lungo guardata con sospetto, forse anche per il parziale persistere di quella gerarchia dei valori alimentari che tendeva ad associare alla sfera dell’animalità ciò che cresceva sottoterra. [...] Fu solo sotto la spinta del bisogno, in particolare durante la carestia del 1770-72, che si ampliarono le coltivazioni del tubero dai molti vantaggi: permetteva di avere il raccolto quasi assicurato anche in campi occupati per mesi da un esercito; aveva una resa più o meno doppia rispetto al grano; in alcune zone non era sottoposto alla decima. Alla luce del ruolo della fame nell’espansione della coltivazione delle patate, non stupisce allora che esse, importate in Inghilterra, pare, nel 1588, non si diffondano sul suolo inglese ma nella più povera Irlanda. Nel XVIII secolo sono ormai l’alimento principale della popolazione: si è calcolato che la dieta quotidiana di un uomo adulto fosse costituita da 5 kg di patate e una
STORIOGRAFIA 3
P. Malanima Il funzionamento dell’industria a domicilio
P. Malanima, Economia preindustriale. Mille anni: dal IX al XVIII secolo [1995], Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 273-80.
Del sistema dell’artigianato fanno parte anche forme di organizzazione più complesse. In queste la combinazione nella stessa persona delle funzioni di lavoratore, imprenditore e mercante si viene sgretolando. Una prima modifica di rilievo si ha quando la funzione mercantile si separa da quella lavorativa e imprenditoriale dell’artigiano. In questo caso il piccolo produttore non lavora più solamente per una clientela locale che gli
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pinta di latte, oltre ad un po’ d’avena e di piselli. [...] Ma anche i conflitti favoriscono la diffusione delle patate. Nell’Alsazia tormentata dalla guerra si coltivano patate a partire dal 1660. Vent’anni dopo sono attestate in Lorena, dove nell’arco di un secolo diventano un elemento cardine della dieta contadina. Hanno un certo successo anche in Svizzera, Svezia, nelle Fiandre, dove la loro diffusione è «incoraggiata» dalla guerra della Lega di Augusta (1688-97), dalla guerra di successione spagnola (170114) e da quella di successione austriaca (1740-48), che coincide con la carestia del 1740. In Germania, già all’inizio del Seicento la patata è coltivata negli orti, ma si diffonde soprattutto «grazie» alla guerra dei sette anni (1756-63), alla carestia del 1770-72 e alla guerra di successione bavarese (1778-79). 3. Basata sul mais.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia i nomi delle «nuove» colture e sottolineane le caratteristiche principali (luogo di provenienza e di reintroduzione, cause della “nuova” introduzione e funzione). b. Evidenzia le conseguenze legate a una alimentazione basata sul mais. c. Spiega per iscritto in cosa consiste la dipendenza dalla produzione cerealicola, quali ne furono le conseguenze e in che modo fu contrastata.
Lo storico economico Paolo Malanima (nato nel 1950) ha studiato lungamente le strutture agrarie, l’industria, la circolazione dei beni e della domanda, le fonti e l’approvvigionamento energetico durante l’età medievale e moderna. Nel brano presentato ricostruisce il funzionamento dell’industria a domicilio, che distingue da quella domestica (quest’ultima intesa come l’attività svolta dai membri della famiglia per produrre beni destinati a loro stessi), seguendo passo passo le attività della produzione laniera. In modo sostanzialmente simile funzionavano anche le industrie a domicilio rurali. commissiona certi prodotti, come accade nella maggioranza dei mestieri. La sua produzione, invece, viene venduta interamente, o per la maggior parte, a uno o più mercanti. Questi ne curano poi la vendita in località di solito lontane, anche molto lontane. Solo la fase produttiva rimane sotto il controllo dell’artigiano. Questo sistema [...] è frequente soprattutto nel settore tessile. È questo il caso del piccolo produttore di campagna
o di città che acquista la materia prima (lana, lino, canapa) sul mercato o dai vicini. Talora egli la riceve dal mercante che poi curerà la vendita del tessuto. Poi lavora i materiali nella propria casa con l’aiuto della moglie e dei figli, che cardano e filano, e magari con un apprendista e uno o due lavoranti che lo assistono nella fase della tessitura. Nel caso della lana, a questo punto il tessuto viene portato in una gualchiera1 vicina per follarlo
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FARE STORIA
FARE STORIA Agricoltura, industria e nuovi consumi nel ’700
(e il lanaiolo indipendente retribuisce il gualchieraio per il suo lavoro), e magari anche in una tintoria per tingerlo. Una volta pronto, il tessuto passa dalle mani del piccolo produttore a quelle del mercante. Questo sistema di produzione era assai diffuso nell’industria laniera dello Yorkshire nel Sei e Settecento. Un passo ulteriore verso una mutazione interna dell’artigianato è quello che si verifica con il sistema dell’industria a domicilio. Essa viene denominata anche industria decentrata, o industria disseminata. Siamo ancora all’interno dell’artigianato. La produzione si svolge nella quasi totalità dei casi in piccoli laboratori familiari e non in grandi officine; l’artigiano possiede quasi sempre gli strumenti con cui svolge la sua attività; tutti gli operatori, dal più piccolo apprendista o lavorante al più potente mercante-imprenditore, sono, o dovrebbero essere, iscritti alle corporazioni. Eppure, nonostante tutto ciò, non si può dare torto a chi in questo sistema ha visto non una variante dell’artigianato ma una forma di transizione con caratteri propri, diversi da quelli dell’artigianato. [...] In confronto all’artigianato semplice, nel sistema dell’industria a domicilio la separazione delle funzioni e la divisione del lavoro sono più profonde. In questo caso non solo la funzione mercantile [...] si distacca dalle altre. La stessa cosa accade in parte anche per la funzione imprenditoriale. Vediamo un esempio. L’industria tessile, soprattutto quella della lana, fu una delle prime, forse la prima, ad assumere il carattere dell’industria a domicilio nel tardo Medioevo. Nei casi più evoluti la produzione laniera si articolava in cinque fasi fondamentali: la preparazione, la filatura, la tessitura, la rifinitura e la tintura. Ognuno dei lavoratori impegnati nella fabbricazione di un panno era in realtà un produttore parziale inserito in una lunga catena di operazioni successive che sfuggivano al suo controllo: più di venti, secondo alcuni calcoli. Il mercante, che in questo caso era anche imprenditore (mercante-imprenditore viene spesso chiamato), era qui l’anello di congiunzione di una
catena assai lunga di attività coordinate. Esso non era più esterno all’attività produttiva [...] ma ne controllava e dirigeva lo svolgimento. La prima fase lavorativa aveva luogo all’interno della bottega del mercante-imprenditore: la bottega centrale, come anche è stata denominata. In questa officina-magazzino, quasi sempre in città, veniva tenuta la contabilità dell’azienda e venivano accumulate le balle di materia prima, i semilavorati e i prodotti finiti. Vi si svolgevano anche alcune operazioni iniziali. [...] Era con la fase successiva, quella della filatura, che cominciava realmente la produzione a domicilio. La materia prima abbandonava la bottega centrale e veniva trasportata da alcuni addetti, dipendenti dal lanaiolo, alle filatrici. [...] Spesso venivano reclutate in questa fase non solo donne di città, ma anche di campagna: talora a diversi chilometri di distanza dal centro produttivo. Sia nel caso della filatura che della tessitura ogni artigiano non dipendeva da una sola bottega di mercante-imprenditore, ma ora dall’una ora dall’altra, a seconda del lavoro: come per i lavoratori della bottega centrale. La lavorazione continuava a domicilio anche nella fase successiva, quella centrale in tutta l’industria laniera, la tessitura. [...] La fase lavorativa della rifinitura comprendeva tutta una serie di operazioni diverse che variavano da città a città e in parte anche da bottega a bottega, a seconda del tipo di tessuto che doveva essere fabbricato. [...] La fase della tintura poteva essere eseguita, in rapporto con le diverse qualità di tessuto, o sulla materia prima, o sui filati, oppure sul prodotto finito. Veniva compiuta anch’essa non nella forma del lavoro a domicilio vero e proprio, ma in quella di una sorta di manifattura accentrata. [...] Il ciclo produttivo si chiudeva con il ritorno del tessuto nella bottega del mercante-imprenditore. Come si vede, l’industria a domicilio era una sorta di rete formata da molteplici botteghe indipendenti; per lo più di piccole di-
STORIOGRAFIA 4
J. de Vries La rivoluzione industriosa
J. de Vries, The Industrial Revolution and the Industrious Revolution, «The Journal of Economic History», vol. 54, n. 2, 1994, pp. 249-70.
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mensioni e in qualche caso di maggiore ampiezza. Il mercante-imprenditore era il direttore di questa specie di fabbrica disseminata. [...] Il mercante-imprenditore poteva avere le origini più varie. Poteva essere, come spesso accadeva, un artigiano agiato che, con il crescere del suo successo commerciale, era riuscito a coordinare l’attività di altri artigiani e, infine, ad assoggettarli alle sue decisioni imprenditoriali. Poteva essere anche un piccolo commerciante che dapprima si era impadronito dei canali di approvvigionamento della materia prima e poi anche di quelli di vendita dei prodotti finiti finché gli artigiani si erano piegati alle sue decisioni. Poteva essere anche un piccolo proprietario terriero intraprendente che, grazie al rendimento dei suoi beni fondiari, era stato capace di disporre dei capitali per avviare qualche attività commerciale. [...] Di fronte al «lanaiolo» (il mercante-imprenditore nell’industria laniera) gli artigiani [dell’industria rurale domestica] si trovavano nella posizione di veri e propri lavoratori salariati. 1. Macchina per la follatura, cioè l’operazione
attraverso cui il panno viene pestato per renderlo più sodo, composta da un dispositivo a martelli.
GUIDA ALLO STUDIO a. Individua le forme di organizzazione artigianale descritte e identificale con un titoletto al lato del testo. Quindi cerchia le relative parole chiave e argomenta la tua scelta. b. Realizza sul quaderno una tabella a doppia entrata i cui indicatori siano “Sistema artigianale” e “Sistema industriale” e compilala trascrivendo le relative caratteristiche. c. Scrivi un testo sulle figure del mercante imprenditore e dell’artigiano in cui argomenterai la seguente affermazione: «Di fronte al “lanaiolo” (il mercante imprenditore nell’industria laniera) gli artigiani [dell’industria rurale domestica] si trovavano nella posizione di veri e propri lavoratori salariati».
Lo storico economico olandese Jan de Vries (nato nel 1943) ha introdotto, a partire dagli anni ’90 del ’900, il concetto di «rivoluzione industriosa» per indicare un processo di ridistribuzione delle risorse produttive all’interno della famiglia, verificatosi a partire dalla metà del XVII secolo in Inghilterra, in Olanda, nella Germania
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settentrionale e nelle colonie britanniche dell’America del Nord. Questo processo portò al crescere della domanda di beni di consumo voluttuari, cioè accessori, non necessari. Nonostante il calo del potere d’acquisto dei salari individuali si assistette ad un aumento della domanda: le famiglie, infatti, lavoravano di più e in modo più efficiente, producendo più beni alimentari e più tessuti destinati al mercato, e chiedevano più beni e servizi provenienti dal mercato esterno. Si trattava non tanto di rivoluzioni dell’offerta, quanto di rivoluzioni della domanda e di un nuovo comportamento del consumatore. Gli sforzi per calcolare i salari reali, tanto in Inghilterra quanto negli altri paesi occidentali, raramente hanno dato molte prove di un aumento del potere d’acquisto, e nel periodo cruciale della rivoluzione industriale, almeno fino al 1820, di solito essi ne hanno mostrato un deterioramento. Eppure, le prove che si sono accumulate dal mondo materiale, sulla base di studi degli inventari dei testamenti e delle misurazioni dirette dei consumi, hanno rivelato un mondo di beni in continua moltiplicazione, una cultura materiale molto varia e in espansione, che ha origini risalenti al XVII secolo e interessa una larga parte della società fino anche ai suoi strati più bassi. [...] La spiegazione dell’apparente contraddizione che da un lato vede la diminuzione del potere d’acquisto e dall’altro il contemporaneo aumento della diffusione dei beni materiali si deve cercare, ne sono convinto, anche nel comportamento dei nuclei familiari. [...] La domanda dei consumatori crebbe, nonostante le dinamiche contrarie dei salari reali, e furono ottenuti notevoli risultati produttivi in industria e in agricoltura nel secolo precedente alla rivoluzione industriale grazie alle riallocazioni1 delle risorse produttive delle famiglie. In Inghilterra, ma di fatto nella maggior parte dell’Europa nord-occidentale e dell’America coloniale, le famiglie di una larga parte di popolazione presero decisioni che aumentarono sia la disponibilità di beni diretti al mercato e forza lavoro sia la domanda di prodotti disponibili sul mercato. Questa combinazione di cambiamenti nel comportamento delle famiglie diede vita a una «rivoluzione industriosa». [...]
Se accettiamo questi presupposti, allora i cambiamenti nei gusti (che influenzano principalmente la composizione delle merci desiderate) e i cambiamenti dal lato dell’offerta che incidono sui prezzi relativi [...] determineranno congiuntamente la domanda di beni di mercato. E, all’interno dell’economia familiare, questa domanda definirà l’allocazione delle risorse produttive potenziali del nucleo familiare (soprattutto il tempo) tra, da un lato, la produzione domestica di Z2 e, dall’altro, la produzione che genera beni destinati al mercato e l’offerta di lavoro. [...] In questo contesto la rivoluzione industriosa [...] consisteva in due trasformazioni: la riduzione del tempo libero dovuta all’aumento dell’utilità marginale del reddito, e la riallocazione del lavoro dai beni e i servizi per l’autoconsumo ai beni diretti al mercato, cioè una nuova strategia per la massimizzazione3 degli utili familiari. Lo vediamo nelle famiglie contadine che concentravano la propria attività nella produzione alimentare diretta al mercato, nelle famiglie dei piccoli affittuari che indirizzavano la forza lavoro sottoccupata nella produzione protoindustriale, nel lavoro delle donne e dei bambini più estensivamente diretto al mercato, e, infine, nel ritmo o intensità del lavoro. [...] Ma la rivoluzione industriosa non è una cosa del tutto ammirevole. L’intensificazione del lavoro e la rimozione del tempo libero è stata associata all’(auto)-sfruttamento dei membri della famiglia – mogli e figli –, con l’abbandono di ciò che oggi chiamiamo la formazione del capitale umano (il tasso di alfabetizzazione rimase fermo nel
XVIII secolo), e con un maggiore abuso di alcool nel tempo libero [...]. Infine, è possibile supporre che le nuove pressioni e possibilità alle quali l’economia familiare industriosa fu esposta resero il corteggiamento e il matrimonio pratiche meno regolate, dando luogo a una grande ondata di figli illegittimi e di abbandono dei bambini nel periodo 1750-1820. I mali sociali della rivoluzione industriosa non erano gli stessi del periodo precedente, ma furono comunque inquietanti. [...] La rivoluzione industriosa non fu un evento improvviso. [...] Forse dovremmo parlare di «attitudine operosa». Il concetto [...] è un mezzo attraverso il quale l’attenzione può essere spostata dalle nuove tecnologie alla nuova disponibilità di lavoro, alle nuove aspirazioni, e alle nuove forme di comportamento in cui s’inserì il contributo speciale della rivoluzione industriale. 1. Distribuzioni delle risorse produttive limitate
(forza-lavoro, tempo, denaro da investire) nella produzione di beni diversi. 2. Rifacendosi alle teorie dell’economista Gary Becker sulla ripartizione del tempo, de Vries definisce “Z” i beni fondamentali che hanno un valore d’uso immediato per le famiglie. In molti casi erano beni prodotti dalla famiglia direttamente per l’autoconsumo (beni alimentari, capi d’abbigliamento, ecc.). 3. Portare al limite massimo.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le cause di quella che Jan de Vries definisce «rivoluzione industriosa» e spiegane il significato. b. Sottolinea le conseguenze della rivoluzione industriosa indicando al lato del testo il contesto in cui si svilupparono.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Lo storico racconta 1. Scrivi un testo breve in cui metterai in rilievo i cambiamenti accaduti nel corso del ’700 nelle dinamiche produttive e nei consumi descritti nei testi di Malanima [Ź3] e de Vries [Ź4]. Prima di procedere con la scrittura, realizza una tabella comparativa basata sulle informazioni contenute nei testi e utilizzala come scaletta per il tuo elaborato.
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2. Dopo aver letto tutti i i brani degli storici, scrivi un testo dal titolo Cambiamenti produttivi e nuovi consumi nel XVII secolo. Cita fra parentesi il numero dei brani storiografici su cui basi le tue affermazioni, e segui la scaletta: • I principali cambiamenti che coinvolsero la società del XVII secolo; • Le aree geografiche e i settori coinvolti; • Le principali conseguenze.
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Nuove gerarchie sociali e marginalità La società d’antico regime era divisa in ceti, giuridicamente riconosciuti. Questo significa che non tutti i membri della società godevano degli stessi diritti; a differenza dei paesi occidentali attuali, dunque, esistevano disparità sociali istituzionalizzate. Questo non ci deve far pensare ad un panorama fisso e sclerotizzato. Al contrario, all’interno dei singoli ceti, erano presenti significative distinzioni, che nel ’700 subirono ulteriori evoluzioni. Giuseppe Ricuperati e Frédéric Ieva [Ź5] prendono in esame il ceto nobiliare di diversi paesi europei, mettendo in risalto le diverse distinzioni e stratificazioni che lo attraversavano. Lo storico tedesco Werner Rösener [Ź6] ci guida, invece, nel mondo dei contadini, le cui condizioni di vita erano sensibilmente diverse fra Est e Ovest dell’Europa, in ragione dei diversi regimi agrari.
STORIOGRAFIA 5 G. Ricuperati, F. Ieva, Manuale di storia moderna, Utet, Novara 2012, pp. 386-89.
Il termine nobiltà nel Settecento unificava malamente realtà molto diverse da paese a paese. In Inghilterra, per esempio, l’antica e potente nobiltà dei Pari, che aveva una sua camera di rappresentanza e che nel Seicento raccoglieva i 2/3 dei grandi proprietari, nel XVIII secolo controllava poco più di un 3% del reddito nazionale, mentre si consolidava la forza economica dei grandi e medi proprietari non nobili. Ben più consistente era la quota del reddito nazionale della gentry (piccola nobiltà), che abbiamo visto [...] fiancheggiare mercanti e imprenditori nell’investimento di capitali nelle compagnie commerciali. Nonostante la società inglese conservasse molte caratteristiche di rispetto per le gerarchie e gli ordini, c’era una notevole osmosi fra gentry e borghesia. Il notevole sviluppo imprenditoriale attrasse in modo indifferenziato i figli della borghesia e i cadetti della nobiltà inglese nelle professioni legate al commercio e alla produzione. La nobiltà inglese non beneficiava di esenzioni fiscali, mentre diverso era il caso della Francia in cui la nobiltà più antica era orgogliosa delle sue prerogative e della sua tradizione. Considerava discriminante, dopo il fastoso regno di Luigi XIV, il rapporto con la corte e la sua presenza a Parigi. Oltre all’amministrazione della terra,
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Lo storico William Doyle [Ź7], invece, analizza le diverse figure che componevano un ceto poco omogeneo, e non semplice da definire, come quello della borghesia. Oltre a nobili, contadini, borghesi, esistevano nelle società d’antico regime figure marginali, come poveri, vagabondi, mendicanti. Già dal ’500, ma in modo crescente nel ’600, furono creati degli istituti di internamento, con il fine di incrementare il controllo sociale su questa fascia di popolazione, ma anche di sottoporla a lavori coatti. Uno dei più noti esempi fu l’Hôpital général [Ź8], di cui possiamo leggere l’editto di fondazione. Il filosofo Michel Foucault [Ź9], infine, analizza il meccanismo della “grande reclusione”, guardando alla visione culturale e alle esigenze economiche che lo sostenevano.
G. Ricuperati • F. Ieva La nobiltà europea: un ceto eterogeneo La nobiltà, che occupava il vertice della gerarchia sociale dell’ancien régime, non era un ceto omogeneo, ma presentava sostanziali differenze fra un paese e l’altro dell’Europa, oltre che diverse articolazioni e contrapposizioni interne (ad esempio la nobiltà di spada e quella di toga in Francia, la grande nobiltà e la gentry in Inghilterra). Gli storici Giuseppe Ricuperati (nato nel 1936) e Frédéric Ieva (nato nel 1970) ci forniscono un quadro esaustivo della nobiltà dell’Europa occidentale e orientale, prendendo in esame diversi paesi ed esplorando la composizione, i privilegi e le prerogative di questo ceto eterogeneo. le cariche militari, civili e religiose, non poteva concepire altra attività. Infatti, il divieto di esercitare ogni tipo di lavoro manuale era molto rigido. C’era quindi una notevole distanza fra questa nobiltà (circa 5000 famiglie) e la piccola nobiltà di campagna (gli hobereaux) povera, oziosa, in attesa di un impiego soprattutto militare. Ma dal Seicento la nobiltà di spada aveva una rivale ben più pericolosa in quella di toga, che, partendo dal controllo ereditario di un certo numero di cariche, si era affermata come un gruppo sociale ambizioso e potente. Tipici rappresentanti della nobiltà di toga erano i parlamentari, che nel corso del Settecento si rivelarono nel complesso difensori dello status quo e della società tradizionale. A metà del secolo si aprì un dibattito sulla possibilità della nobiltà di avere un’attività economica (la noblesse commerçante1) come in Inghilterra. Tale dibattito, che ebbe larga eco in Europa, indicava la volontà di superare uno dei limiti più significativi e tradizionali della società francese. In realtà sotto Luigi XV, nonostante la presenza di una fiorente cultura illuministica, c’era stato un notevole irrigidimento del quadro sociale. Nell’esercito, nell’amministrazione, negli stessi gradi più alti della gerarchia ecclesiastica occorreva
dimostrare i propri quarti di nobiltà per essere ammessi a certi livelli. Il fronte della nobiltà francese, diviso da rivalità interne, si ricomponeva nell’ostilità contro l’ascesa della borghesia. Ancora più distanza c’era in Spagna fra la grande nobiltà di corte, ormai legata ai Borbone, e la miriade di hidalgos2 che si consumavano poveri e orgogliosi nelle province spagnole. In Russia esistevano due tipi di nobiltà: i principi e gli altri nobili. Tra questi ultimi c’erano i grandi magnati (boiari), appartenenti a casate che avevano servito i principi sin dalle origini dello Stato russo, e i cavalieri (dvoriane), ai quali il Codice del 1649 aveva riconosciuto lo statuto di classe ereditaria. Nel 1711 Pietro il Grande istituì un registro dei cavalieri, poiché esigeva da loro il servizio dello Stato, e varò importanti riforme, adattando la realtà russa ai modelli nobiliari europei: oltre ad aver istituito una Camera della nobiltà (1722), introdusse i titoli di conte e barone inesistenti sino ad allora in
1. Nobiltà dedita al commercio. 2. Titolo con cui si definiva la nobiltà di rango
inferiore in Spagna.
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Russia. Nel 1736 il servizio che la nobiltà doveva fornire allo Stato fu regolamentato: se fino ad allora esso era di durata illimitata, ora venne fissato un limite di 25 anni e con l’esenzione di un figlio in modo che questi potesse gestire i possedimenti della famiglia. [...] In Polonia c’era un consistente strato nobiliare. [...] Esistevano delle differenze anche all’interno della nobiltà polacca: al vertice era collocato un gruppo di circa trenta famiglie molto abbienti che possedevano un quarto dell’intero territorio polacco e che dominavano la vita sociale e politica. Dopo di loro c’era un ampio strato nobiliare che era proprietario di uno o più villaggi e non coltivava direttamente la terra. Seguivano i cosiddetti nobili parcellari che possiedono una frazione o particella di un antico patrimonio fondiario e si trovavano nella necessità di lavorare essi stessi la terra. Infine la nobiltà definita zaganowa (ossia «del solco») che
era molto povera e, come i contadini, doveva occuparsi della propria terra, pur essendo proprietaria della casa in cui viveva e pur beneficiando di alcune esenzioni fiscali. Complessa era la realtà dell’Italia, dove si sovrapponevano diversi tipi di aristocrazia. Esisteva infatti una notevole distanza fra la nobiltà feudale del Mezzogiorno, abituata da secoli all’autonomia e allo sfruttamento indiscriminato di vasti latifondi, e l’aristocrazia lombarda, che si preparava a un destino di grande proprietaria terriera nel senso più moderno della parola. Accanto all’aristocrazia di origine feudale c’erano i patriziati cittadini, che nel corso del Seicento avevano sempre più spostato verso la rendita fondiaria i loro capitali. Così accadeva a Venezia e in Toscana. Anche questo patriziato si rivelerà, nel corso del Settecento, sensibile alle innovazioni tecniche e a una buona conduzione dei fondi. Nell’Europa
STORIOGRAFIA 6
W. Rösener I contadini fra est e ovest dell’Europa
W. Rösener, I contadini nella storia d’Europa [1993], Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 171-78.
Come trascorreva l’esistenza quotidiana dei contadini nella riserva signorile dell’età moderna? Gli statuti rurali, le immagini dell’epoca, insieme con le più recenti ricerche ci forniscono un quadro abbastanza preciso delle condizioni dei contadini asserviti nelle grandi tenute a est del fiume Elba. Al primo posto tra gli oneri dei contadini della riserva signorile sono da menzionare gli obblighi delle corvé lavorative; esse consistevano nel lavoro dei campi del signore con o senza animali da tiro, nella trebbiatura del grano, nel lavoro servile domestico e in altri numerosi servizi. Di solito le corvé non erano eseguite personalmente dal contadino; per tali prestazioni egli era libero di inviare al suo posto braccianti agricoli o gente del vicinato. Il numero e il genere delle corvé variavano molto secondo gli accordi e le consuetudini locali. Il contadino dotato di un podere sufficiente al suo sostentamento e di un
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orientale prevaleva la trasformazione della nobiltà in corpo di servizio nei ranghi dell’amministrazione dello Stato. Tali erano nella Prussia di Federico II gli Junkers, o i nobili nella Russia di Caterina II. Questa caratteristica fondamentale, cementata da una serie di carriere privilegiate nell’esercito, in marina, nell’amministrazione, non era in contrasto con il controllo che questi gruppi nobiliari avevano sulla terra e sui contadini, legati ad un oneroso servaggio.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia i nomi dei paesi analizzati. Quindi, cerchia le classi sociali citate in ognuno di essi e individua e sottolinea le relative parole chiave. Argomenta oralmente la tua scelta. b. Evidenzia l’argomento del dibattito che si diffuse in Europa a metà del secolo e sintetizzane per iscritto le caratteristiche.
Fra i regimi agrari dell’Europa occidentale e orientale sussistevano profonde differenze. Era il fiume Elba a segnare una sorta di confine fra i due sistemi: ad est dell’Elba era diffusa la riserva signorile (il grande latifondo con un unico proprietario), ad ovest la signoria fondiaria (di minori dimensioni e più frazionata). Il differente assetto agrario ebbe delle conseguenze anche sull’autonomia di cui godevano le comunità locali e sulle condizioni sociali ed economiche in cui vivevano i contadini, meno gravose ad occidente. Lo storico tedesco Werner Rösener (nato nel 1944) mette a confronto i due sistemi, concentrandosi proprio sulle condizioni di vita dei contadini, ad est e ad ovest dell’Elba. tiro1 era obbligato a lavorare le terre del signore. Nelle aree con una sviluppata riserva signorile si pretesero dagli allodieri2 prestazioni lavorative giornaliere. Queste prestazioni obbligatorie variavano però in relazione all’estensione del podere contadino e ai relativi diritti patrimoniali ereditari. Quanto alle corvé lavorative, i contadini lamentavano spesso l’eccessivo dispendio di energie e tempo che queste richiedevano. Arrivando da luoghi lontani, essi potevano iniziare solo tardi i loro lavori; inoltre per quelli che provenivano da villaggi assai distanti dal luogo di lavoro, la giornata lavorativa doveva terminare presto. [...] Tra corvé e balzelli vari, la situazione economica di molti contadini asserviti alla riserva signorile era pessima. Un attento testimone del tempo, intorno alla metà del XVIII secolo, ci dà il seguente giudizio sulla condizione dei contadini del Brandeburgo: «Si sa che
il contadino vive alla giornata e può ritenersi fortunato se riesce a far fronte ai gravami dovuti al signore e allo stato. Il suo campo produce, nel migliore dei casi, appena quel poco sufficiente al suo sostentamento. Egli non riesce a mettere da parte nulla. Se poi subentra un accidente sia pur lieve, un raccolto insufficiente o un’annata cattiva, la perdita di uno o più buoi, incendi, grandinate o altre simili calamità, allora al misero contadino deve essere accordata una sorta di sgravio fiscale e da parte del signore e da parte dello stato»3.
1. Si intende un animale da tiro, adibito all’uso
lavorativo.
2. Contadini liberi proprietari. 3. G.F. Knapp, Die Bauernbefreiung und der
Ursprung der Landarbeiter in den älteren Theilen Preussens, I vol., Duncker & Humblot, Leipzig 1887, p. 72.
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FARE STORIA Nuove gerarchie sociali e marginalità
Nell’alta Slesia, dove la riserva signorile ebbe un enorme sviluppo, nel 1786 una commissione accertò che un podere servile, a tasse annuali pagate, dava un profitto di circa cinque talleri. L’esperienza quotidiana mostrava che nel caso di un raccolto insufficiente o della perdita di uno degli animali da tiro, alcuni contadini andavano immediatamente in rovina: non potevano più lavorare i loro campi, poiché fra le altre cose non usufruivano di crediti. «In più lo sfortunato contadino, oltre ad essere stato asservito, riceve come ricompensa da amministratori spietati una solenne bastonatura, e poiché non garantisce più al proprio signore i servizi e le prestazioni dovute viene cacciato dal suo podere e costretto d’ora innanzi a cavarsela da solo per sfamare se stesso e la sua famiglia»4. [...] L’area soggetta al regime della signoria fondiaria occidentale includeva le regioni a ovest del fiume Elba: la Germania, la Francia e alcuni altri paesi confinanti. [...] Riguardo alle forme di conduzione si osserva nell’ambito della signoria fondiaria un miglioramento e perfezionamento nei contratti di locazione. Tale processo consisteva soprattutto nel fatto che la tipologia dei contratti agrari di più antica data fu unificata, sicché ne sopravvissero solo alcuni. [...] Bisogna accennare, inoltre, a un’altra tendenza di quel periodo: la trasformazione di corvé e canoni fissi in una forma di rendita monetaria stabile.
Le corvé lavorative furono sempre più rapportate al loro effettivo valore monetario e trasformate poi in rendite. Il carico degli oneri dovuti dai contadini conosceva sensibili oscillazioni, nell’Europa centrale e occidentale, da obblighi lievi a forme più o meno oppressive. Servizi e prestazioni erano stabiliti dal signore feudatario, o da lui concordate con i contadini; le consuetudini locali giocavano un ruolo importante. Ciò aveva come conseguenza una varietà infinita nel genere dei servizi e delle prestazioni. Tali obblighi variavano da paese a paese, ma anche nelle singole regioni erano estremamente differenti. I contadini ottemperavano ai loro obblighi in vari modi; in molti casi si ricorreva ad una forma mista: in derrate, in denaro o in prestazioni lavorative. Nel corso del tempo avvenne che il signore fondiario accordasse ai singoli contadini di sostituire le corvé con canoni in denaro. L’uniformità degli oneri feudali subiva modifiche, allorché il terreno o una parte di esso passava, in seguito a vendita o a eredità, nelle mani di un nuovo signore fondiario [...] I canoni e le prestazioni d’opera dovuti al signore fondiario rappresentavano beninteso solo una parte dei gravami che opprimevano i contadini. Anche nello Stato moderno la parte più cospicua delle entrate fiscali proveniva dalla popolazione rurale. L’aristocrazia e la Chiesa erano esentate parzialmente o completamente da oneri fiscali;
STORIOGRAFIA 7
W. Doyle La borghesia
W. Doyle, L’Europa del vecchio ordine. 1660-1800 [1978], Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 191-97.
I patrimoni borghesi, come dice il nome stesso, erano essenzialmente urbani. I borghesi traevano guadagno e prosperità da attività e da bisogni urbani. Erano la élite non nobile delle città, che essi dominavano come i nobili dominavano le campagne. Ma la borghesia, notoriamente, è difficile da definire e da inquadrare con esattezza. Già il nome è oggetto di infinite controversie, perché aveva e
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quindi erano proprio i contadini a sopportare il maggior peso dell’imposizione tributaria. A causa della grande eterogeneità nelle imposte, nella tassazione e negli obblighi di corvé dovuti dai contadini, è difficile poter determinare la quota esatta del prelievo sul loro reddito. Si può supporre che i contadini della Germania occidentale, nel XVIII secolo, pagassero in canoni e balzelli vari una quota stimabile dal 25% al 40% del loro reddito lordo. Nel Württemberg la quota dei diritti feudali oscillava dal 28% al 34%. La voce più importante nei tributi dovuti dai contadini era rappresentata dai canoni in derrate granarie, dalle decime e dalle tasse. Dietro questa media si celavano però notevoli differenze nelle singole aziende contadine. 4. Ivi, p. 73.
GUIDA ALLO STUDIO a. Individua ed evidenzia gli oneri che gravavano sui contadini. Realizza quindi un grafico a stella al cui centro metterai la scritta “I contadini venivano tassati da”, mentre alla fine dei raggi metterai i nomi di coloro che sottoponevano i a tasse e balzelli. Quindi, trascrivi alcune parole chiave in corrispondenza dei raggi relative al tipo di tassa pagata e argomenta per iscritto le tue scelte. b. Sottolinea gli elementi che permettono di ricostruire le condizioni e il tenore di vita dei contadini asserviti. Cerchia il nome dei paesi di riferimento.
Lo storico inglese William Doyle (nato nel 1942) sviluppa una lettura della società dell’ancien régime attenta agli elementi di cambiamento e di rottura che hanno lentamente trasformato il vecchio ordine. Nel brano proposto l’autore offre un ampio affresco della borghesia, passando in rassegna le diverse figure e professioni che componevano questo ceto dinamico e in ascesa. Nonostante la crescente importanza nella società e la crescente ricchezza, la borghesia non appare consapevole della propria funzione sociale, ma anzi risulta attratta dai valori dei ceti tradizionali, tanto da coltivare l’ambizione di «vivere da nobili». ha tutta una serie di significati diversi; e l’equivalente inglese più comodo e usuale, «middle class», classe media, non rende giustizia a tutte le sue sfaccettature. Il borghese era uno che abitava in città, ma evidentemente non tutti gli abitanti delle città appartenevano alla classe media. In molte città dell’Europa continentale c’erano gruppi giuridicamente definiti di bourgeois, categoria di solito ristretta di notabili che
godevano di vari privilegi e acquisivano questa condizione per via ereditaria o grazie a un’ingente ricchezza. Pochissimi membri delle classi medie urbane penetravano in questa schiera esclusiva, mentre spesso vi entravano i nobili locali. Tuttavia l’autentico borghese non era, per definizione, un nobile. Né altresì era un operaio, uno che lavorava con le sue mani alle dipendenze altrui. Resta una larga fascia sociale, che an-
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
dava dai mercanti più ricchi giù giù fino ai modesti maestri artigiani; persone che a prima vista sembrerebbero non avere quasi nulla in comune. [...] Essendo i borghesi così difficili da definire, altrettanto difficile è calcolarne il numero. Un fatto è certo: come le città, che erano il loro vivaio, i borghesi erano di gran lunga più numerosi nell’Europa occidentale che in quella orientale. In Occidente essi superavano, in percentuale della popolazione totale, la nobiltà e i ceti dominanti. [...] Infine sembra certo che la borghesia andò crescendo di numero e di ricchezza. La «middle class» inglese aumentò nel corso del XVIII secolo di oltre il 50%; e la sua quota del reddito nazionale passò da circa il 20% nel 1688 a più del 40 nel 1803. Statistiche paragonabili non esistono per altri paesi, ma alcuni storici francesi ritengono probabile che la borghesia in Francia si sia quasi triplicata fra il 1666 e il 1789. Crebbe indubbiamente anche la sua ricchezza, grazie allo sviluppo del commercio col resto del mondo nella seconda metà del Settecento. Il commercio, infatti, era il motore della borghesia. La fortuna di ogni famiglia borghese aveva inizio col commercio, unico mezzo per accumulare rapidamente un capitale. Il borghese tipico era il mercante, e la fioritura coloniale del XVIII secolo vide la rapida crescita di comunità mercantili in città come Barcellona, Cadice, Bordeaux, Marsiglia, Nantes, Bristol, Glasgow, Cork e Amburgo. [...] Che dei borghesi prestassero soldi al governo
non era certo una novità; ma aumentando i costi e la scala delle attività governative, e la pressione sul sistema fiscale, i governi dovettero ricorrere al credito molto più che in passato. Già dalla metà del Seicento i finanzieri erano un elemento importante della borghesia olandese, i soli in Europa a rivaleggiare per ricchezza e potenza con la nobiltà locale. [...] In Francia le guerre di Luigi XIV offrirono occasioni senza pari di prestiti governati e finanziamenti militari, facendo del capitale borghese un elemento essenziale della macchina amministrativa. Dagli anni 1690-1700 l’Inghilterra assunse oneri analoghi; si sviluppò un cospicuo «interesse creditizio», imperniato sulla Banca d’Inghilterra e derivante le sue entrate da titoli e appalti governativi. [...] Non tutti i borghesi erano mercanti o finanzieri. Un settore molto importante della borghesia era costituito da quelli che oggi diremmo «professionisti»: un certo numero di insegnanti, un certo numero di medici, molti funzionari statali e innumerevoli avvocati. [...] Lo sviluppo del potere e delle ambizioni statali portava all’aumento numerico dei pubblici funzionari. Lo sviluppo stesso del commercio ingrossava le file della borghesia «professionista», per provvedere alle crescenti esigenze legali e amministrative. [...] Abbandonare il commercio per una carica o una professione voleva dire reinvestire il capitale in qualcosa di più rispettabile, qualcosa che faceva avanzare il borghese verso il nobile ideale
DOCUMENTO 8
La fondazione dell’Hôpital général
Editto reale per la fondazione dell’Hôpital général per la reclusione dei poveri mendicanti della città e dei sobborghi di Parigi, da M. Foucault, Storia della follia nell’età classica [1961], Rizzoli, Milano 2008, pp. 460-64.
Dato in Parigi il mese di aprile 1656, ratificato in Parlamento il primo settembre successivo Parigi, Stamperia reale 1661 Luigi, per grazia di Dio re di Francia e di Navarra, a tutti nel presente e nel futuro salute. I re nostri predecessori nel corso dell’ultimo secolo hanno emesso numerose ordinanze di Polizia relative ai Poveri nella nostra buona città di Parigi e operato, sia col loro zelo
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di vivere di entrate non dovute al proprio lavoro. Rendite e titoli governativi erano il primo passo: in Francia, in Inghilterra e specialmente nella repubblica olandese migliaia di borghesi ricavavano il grosso delle loro entrate da titoli di rendita con tassi di interesse mediocri ma sicuri. Con ciò si trovavano già a mezza strada verso il «vivere da nobili», perché anche molti nobili investivano denaro in questo modo. Ma siccome nessuno poteva vivere in modo convincente «da nobile» se non era proprietario di terre, prima o poi i borghesi socialmente ambiziosi volgevano i loro pensieri in questa direzione. Spesso cominciavano con l’acquistare proprietà immobiliare urbana, e il borghese tipico di solito possedeva in città altre case oltre a quella da lui abitata. Poi veniva il gran passo dell’acquisto di una tenuta in campagna, ripudio finale delle proprie origini, suprema accettazione dei valori nobiliari.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea il significato del termine “borghesia” e le sue sfaccettature. b. Spiega per iscritto la relazione fra borghesia, commercio e sviluppo economico. c. Cerchia le diverse categorie di borghesi e sottolinea le parole chiave di riferimento. Quindi, argomenta oralmente la tua scelta. d. Spiega per iscritto perché e in che modo si manifestava l’interesse da parte dei borghesi per i valori nobiliari.
Già nella seconda metà del ’500 in Inghilterra furono organizzate numerose case di lavoro coatto per mendicanti e poveri. Altri esempi seguirono a Roma, come ad Amsterdam. L’Hôpital général di Parigi, però, rappresenta l’istituzione più nota, fondata nel 1656 dal re Luigi XIV. Alla fine del secolo ospitava circa 10 mila individui (poveri, malati, orfani, prostitute). Qui riproduciamo l’editto della sua fondazione, in cui si esplicitano le finalità dell’istituzione e alcune delle sue regole. sia con la loro autorità, per impedire la mendicità e l’ozio, sorgente di tutti i disordini. E per quanto i nostri sovrani organismi abbiano appoggiato con le loro cure l’esecuzione di quelle ordinanze, queste tuttavia si sono col tempo rivelate infruttuose e senza effetto, sia per la mancanza dei fondi necessari al sostegno di una così grande impresa, sia per l’allontanamento da una direzione ben stabilita e conforme alla qualità dell’opera. Dimodoché, durante gli ulti-
mi tempi e sotto il regno del defunto re, nostro onoratissimo Signore e Padre, di felice memoria, essendosi il male ulteriormente accresciuto per la pubblica licenza e lo scardinamento dei costumi, si riconobbe che la principale manchevolezza nella esecuzione di questa azione di Polizia derivava dal fatto che i mendicanti avessero la libertà di muoversi dappertutto, e che i sollievi che venivano introdotti non impedivano la mendicità nascosta e non facevano per
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nulla cessare la loro oziosità. Su questa base fu ideato ed eseguito il lodevole progetto di rinchiuderli nella Maison de la Pitié e nei luoghi annessi, e lettere patenti furono accordate a questo fine nel 1612, in forza delle quali i Poveri furono rinchiusi; la direzione affidata a buoni e notabili Borghesi, che, succedutisi nel tempo, hanno dato ogni loro cura e buona attività per la riuscita di questo progetto. Ma, per quanti sforzi essi abbiano potuto compiere, il progetto non ha sortito effetti se non per cinque o sei anni, e per di più in modo molto imperfetto, sia per il mancato impiego dei Poveri nelle Opere pubbliche e nelle manifatture, sia perché i preposti non furono per nulla appoggiati dai Poteri e dall’autorità necessaria all’importanza dell’impresa, e sia perché il seguito delle disgrazie e dei disordini della guerra ha fatto aumentare il numero dei Poveri oltre la comune e ordinaria opinione, per cui il male è diventato maggiore del rimedio. Dimodoché il libertinaggio dei mendicanti è giunto all’eccesso a causa di uno sciagurato abbandono a tutti quei tipi di crimini che attirano la maledizione di Dio sugli Stati quando restano impuniti. [...] I [...] Vogliamo e ordiniamo che i Poveri
STORIOGRAFIA 9 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica [1961], Rizzoli, Milano 2008, pp. 68-73.
L’internamento, questo fenomeno massiccio le cui tracce sono reperibili in tutta l’Europa del XVII secolo, è un affare di «police», nel senso molto preciso che a questo termine si dà nell’epoca classica, cioè l’insieme delle misure che rendono il lavoro e possibile e necessario per tutti coloro che non saprebbero viverne senza. [...] Prima di avere il senso medico che noi gli diamo, o che almeno desideriamo supporre in esso, l’isolamento si è reso necessario per tutt’altra causa che la preoccupazione di guarire. Ciò che l’ha reso
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FARE STORIA Nuove gerarchie sociali e marginalità
mendicanti, validi e invalidi, di ambo i sessi, siano messi in un ospizio per essere impiegati nelle opere, manifatture e altri lavori, secondo le loro capacità [...] IX Facciamo chiarissimo divieto e proibizione a tutte le persone di ogni sesso, luogo ed età, di qualunque origine e nascita, e in qualsiasi stato possano essere, validi o invalidi, malati o convalescenti, curabili o incurabili, di mendicare nella città e nei sobborghi di Parigi, sia nelle chiese sia alle loro porte, come pure alle porte delle case e per le strade, né in nessun altro luogo pubblicamente o in segreto, di giorno o di notte, senza alcuna eccezione di feste solenni, patronali, giubilei, né di riunioni, fiere o mercati, né per qualunque altra causa o pretesto, sotto pena della fustigazione per coloro che contravvengono la prima volta, e di condanna ai remi1 per i recidivi, uomini e ragazzi, e di bando per le donne e le fanciulle. XVII Facciamo divieto e proibizione a tutte le persone di qualunque posizione o qualità siano di dare l’elemosina di propria mano ai mendicanti per le strade e i luoghi sopra menzionati, quale che sia
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il motivo di compassione, stringente necessità o qualunque altro pretesto, sotto pena di quattro parisis1 di ammenda da devolversi a profitto dell’Hôpital. [...] Regolamento che il Re vuole sia osservato per l’Hôpital général di Parigi XIX Per stimolare i Poveri rinchiusi a lavorare nelle manifatture con maggiore assiduità e solerzia, coloro che avranno raggiunto l’età di 16 anni, dell’uno e dell’altro sesso, avranno il terzo del profitto del loro lavoro, senza che nulla sia loro tolto. 1. Moneta dell’epoca.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea il significato del termine “borghesia” e le sue sfaccettature. b. Spiega per iscritto la relazione fra borghesia, commercio e sviluppo economico. c. Cerchia le diverse categorie di borghesi e sottolinea le parole chiave di riferimento. Quindi, argomenta oralmente la tua scelta. d. Spiega per iscritto perché e in che modo si manifestava l’interesse da parte dei borghesi per i valori nobiliari.
M. Foucault La grande reclusione Nella sua Storia della follia nell’età classica, il filosofo francese Michel Foucault (1926-1984) descrive il lungo processo attraverso cui, dalla fine del Medioevo, la cultura occidentale cercò di rimuovere e allontanare la follia dal contesto sociale. Le forme di devianza, che comprendevano anche la povertà, la pazzia, il vagabondaggio, subirono un processo di criminalizzazione, che porterà alla reclusione di poveri, accattoni, mendicanti in istituti creati per la segregazione, la repressione e il lavoro forzato. Nel brano presentato Foucault, soffermandosi sia sulla fondazione dell’Hôpital général sia sul caso inglese, prende in esame le ragioni di fondo dell’operazione dell’internamento: da un lato la soppressione della mendicità, dall’altro l’occupazione degli internati, che rispondeva anche alle necessità economiche dell’epoca. necessario è un imperativo di lavoro. La nostra filantropia vorrebbe volentieri riconoscere i segni di una benevolenza verso la malattia, là dove spicca solo la condanna dell’ozio. Torniamo ai primi momenti dell’«internamento», e a quell’editto regio del 27 aprile 1656 che dava vita all’Hôpital général. L’istituzione si attribuiva di primo acchito il compito di impedire «la mendicità e l’ozio come fonti di ogni disordine». Effettivamente si tratta dell’ultima delle grandi misure che erano state prese a partire dal Rinasci-
mento per porre fine alla disoccupazione o almeno alla mendicità. Nel 1532 il parlamento di Parigi aveva deciso di fare arrestare i mendicanti e di costringerli a lavorare nelle fogne della città, legati a due a due per mezzo di catene. [...] La creazione dell’Hôpital è [...] in ogni caso una soluzione nuova: è la prima volta che si sostituisce alle misure d’esclusione puramente negative una misura d’internamento; il disoccupato non è più cacciato o punito; lo si prende a carico, a spese della nazione, ma
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a scapito della sua libertà individuale. Tra lui e la società si stabilisce un sistema implicito di obbligazioni: egli ha diritto di essere nutrito, ma deve accettare la costrizione fisica e morale dell’internamento. È tutta questa massa un po’ indistinta che l’editto del 1656 prende di mira: popolazione senza risorse, senza legami sociali, classe che si è trovata abbandonata o che è stata resa fluttuante durante un certo periodo a causa del nuovo sviluppo economico. Meno di quindici giorni dopo la sua promulgazione, l’editto è letto e proclamato nelle strade. [...] In tutta l’Europa l’internamento ha lo stesso significato, almeno originariamente. Esso costituisce una delle risposte che vengono date dal XVII secolo a una crisi economica che interessa tutto il mondo occidentale nel suo insieme: ribasso dei salari, disoccupazione, rarefazione della moneta. [...]
U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
Ancora per lungo tempo la casa di correzione o i locali dell’Hôpital général serviranno a mettere al chiuso i disoccupati, i senza lavoro, i vagabondi. Ogniqualvolta si produce una crisi e il numero dei poveri si moltiplica, le case di internamento riprendono almeno per qualche tempo il loro primo significato economico. A metà del XVIII secolo si è di nuovo in piena crisi: dodicimila operai che mendicano a Rouen, altrettanti a Tours; a Lione le manifatture chiudono. Il conte di Argenson, «che ha il dicastero di Parigi e della gendarmeria a cavallo», dà l’ordine di «arrestare tutti i mendicanti nel regno; le guardie a cavallo operano a questo fine nelle campagne, mentre si fa altrettanto a Parigi, dove si è sicuri che non rifluiranno, trovandosi fatti prigionieri da ogni parte». Ma fuori di questi periodi di crisi, l’internamento assume un altro significato. La sua funzione repressiva si
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trova rafforzata a causa di una nuova utilità. Non si tratta più allora di rinchiudere i senza lavoro, ma di dar lavoro a coloro che sono stati rinchiusi e di farli così servire alla prosperità comune. L’alternanza è chiara: mano d’opera a buon mercato nei periodi di pieno impiego e di alti salari; e in periodo di disoccupazione riassorbimento degli oziosi e protezione sociale contro l’agitazione e le sommosse.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea che cosa comportò la creazione dell’Hôpital général e in che cosa esso sia consistito. b. Spiega per iscritto la funzione dell’internamento in tempi di crisi e al di fuori di essi.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Scrivi un testo chiaro e coerente dal titolo La vita dei contadini fra corvées e balzelli, facendo riferimento al brano di Rösener [Ź6] e al documento sui diritti del signore feudale [ŹLEGGERE LE FONTI, p. 7]. Parti dal documento sui diritti del signore feudale e analizzalo mettendo in rilievo le informazioni che si ricavano sulla vita dei contadini. Quindi descrivile e commentale facendo riferimento al brano di Rösener [Ź6]. 2. Scrivi un testo argomentativo sulle funzioni dell’internamento in Europa e il caso dell’Hôpital général di Parigi, facendo riferimento all’editto di fondazione dell’Hôpital général [Ź8] e al testo di Foucault [Ź9]. Prima di procedere con la scrittura, evidenzia nel documento e nel testo presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nel tuo elaborato e realizza una scaletta.
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Il confronto storiografico 3. Dopo aver letto il brano di Doyle [Ź7], e i documenti sui diritti del signore feudale [ŹLEGGERE LE FONTI, p. 7] e sulla fondazione dell’Hôpital général [Ź8], scrivi un testo argomentativo in cui commenti la seguente posizione storiografica sulla condizione della nobiltà negli ultimi secoli dell’ancien régime: “L’aristocrazia oppone un’attiva e vivace resistenza alla modernizzazione dell’economia; infatti obbliga i nuovi ricchi a desiderare di appartenere alla cultura nobiliare e a investire nella proprietà terriera”. Indica i punti che ritieni più convincenti e quelli su cui non sei d’accordo e porta a supporto della tua tesi le citazioni dei testi che ritieni più opportune.
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FARE STORIA Condizione femminile e infanzia
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Condizione femminile e infanzia Negli ultimi anni gli storici dell’età moderna hanno mostrato un crescente interesse per le condizioni di vita di donne e bambini. Un notevole sviluppo, in particolare, hanno registrato i cosiddetti “studi di genere”, ovvero quelle ricerche che hanno l’obiettivo di indagare i rapporti tra i sessi e i sistemi di potere che ne derivano. In questa sezione sono stati raccolti alcuni brani che ricostruiscono ed esaminano alcuni aspetti della vita di donne e bambini durante l’ancien régime.
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A. Bellavitis, Il lavoro delle donne nelle città dell’Europa moderna, Viella, Roma 2016, pp. 18-26.
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STORIOGRAFIA 10
Le donne non furono assenti da molti settori che oggi, perlomeno in Europa, ci possono sembrare prettamente maschili. [...] Al di fuori dello spazio urbano, troviamo donne nelle miniere o nelle saline, con ruoli di manovalanza, ma anche in impieghi di coordinamento del lavoro altrui, definiti «uffici» e trasmissibili ad altre donne della famiglia. Infine, le donne che accompagnavano gli eserciti nelle campagne di guerra non erano solo prostitute o romantiche avventuriere travestite da uomo ma vivandiere, cantiniere, lavandaie, assunte dai comandi militari per i servizi quotidiani, ma anche mogli che seguivano i mariti portando con sé i figli, perché restando a casa non avrebbero avuto di che vivere. [...] Artigianato, servizio domestico e commercio al dettaglio erano le occupazioni femminili più diffuse nelle realtà urbane. La specializzazione produttiva di certe città ne determinava le possibilità lavorative, per cui, ad esempio, a Ginevra, tra XVI e XVII secolo, un terzo degli occupati nella fabbricazione di orologi erano donne, e a Firenze, dove la produzione tessile era una delle principali attività, le donne rappresentavano, nel 1604, il 62% dei tessitori e circa il 40% di tutti i lavoratori dell’Arte della Lana e, nel 1662-3,
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Anna Bellavitis [Ź10] analizza il composito mondo del lavoro femminile, le diverse professioni svolte, ma anche la precarietà della posizione delle donne e lo scarso riconoscimento giuridico di cui beneficiavano. Sia il ruolo materno – come analizzato da Daniela Lombardi [Ź11] – che l’atteggiamento verso l’infanzia – studiato da Hugh Cunningham [Ź12] – subirono importanti trasformazioni fra fine ’600 e ’700, alimentati e influenzati anche da alcune note opere letterarie dell’epoca.
A. Bellavitis Il lavoro delle donne Le ricerche storiche hanno dimostrato l’importanza dei lavori svolti dalle donne nelle economie dell’età moderna. Se guardiamo a quelle urbane, le donne si impegnavano in molte attività, come la filatura, il cucito, la tessitura, spesso lavorando a domicilio (erano ammesse nelle associazioni di mestiere solo raramente). Le donne lavoravano anche presso istituzioni civili e religiose, ed erano presenti in settori che potrebbero sembrare tipicamente maschili; si spostavano, percorrendo anche lunghe distanze, per trovare un’occupazione. La storica Anna Bellavitis (nata nel 1960) analizza l’ampio spettro dei lavori svolti dalle donne in età moderna, ma si sofferma anche sugli ostacoli che incontra la ricerca storica in questo ambito. La posizione delle donne, infatti, era più precaria, scarsamente riconosciuta dalle autorità e poco regolamentata a livello giuridico. Inoltre, identità di genere e ruolo familiare prevalevano sull’identità lavorativa. il 38% degli addetti al settore laniero e l’84% degli addetti all’Arte della Seta. Molte donne lavoravano come dipendenti di istituzioni municipali e religiose. Ad esempio, a Norimberga, le donne esercitavano su licenza municipale il ruolo di estimatrici per gli inventari post mortem, un’attività molto importante dato che per ogni decesso era richiesto un inventario, qualsiasi fosse la condizione sociale o lo stato civile del defunto, e dato che erano necessarie competenze molteplici per stimare il valore di oggetti, abiti, beni di lusso, utensili da lavoro. [...] In quanto storiche il primo problema che dobbiamo affrontare è quello delle fonti. Le donne erano occultate, più che gli uomini degli stessi ceti sociali, più che gli artigiani o i contadini di sesso maschile, dalle fonti quantitative, in particolare le fonti fiscali e i censimenti, perché, a differenza degli uomini, erano quasi sempre identificate in base al loro ruolo nella famiglia, come figlie, mogli, vedove, anziché in relazione all’attività esercitata e ciò era particolarmente vero nel caso delle donne sposate. Questo specifico problema relativo alle identità lavorative femminili si aggiunge a un dato di fatto più generale, ovvero che, in passato come oggi (e sempre di più nel contesto della crisi economica e della diffusione di modalità di lavoro
cosiddette «flessibili» 1, che in realtà nascondono una crescente precarizzazione2), molte persone, uomini e donne, esercitavano vari mestieri scarsamente specializzati nel corso della loro vita e l’identità professionale era un privilegio di una parte relativamente ristretta della società. Possiamo ritenere che ciò fosse soprattutto vero per le donne che, più raramente, disponevano di una formazione specifica a una professione o di un titolo di studio, anche se non va dimenticato che, nell’ambito dei mestieri manuali o del lavoro agricolo, tanto uomini che donne vivevano molto spesso di pluriattività o di occupazioni saltuarie. Il paradosso, messo in rilievo dalle ricerche più recenti, è che, anche quando non esercitavano un’attività regolare e non avevano quel che oggi si chiamerebbe «il posto fisso», gli uomini erano più spesso definiti dalle fonti fiscali e quantitative sulla popolazione con una precisa identità lavorativa, il che ha contribuito a falsare ulterior-
1. Flessibilità lavorativa: condizione per la quale
il lavoratore non rimane al proprio posto di lavoro a tempo indeterminato, ma muta più volte attività occupazionale e/o datore di lavoro. 2. Diffusione o aumento degli impieghi lavorativi precari, non stabili.
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mente i dati a disposizione degli storici e delle storiche. Le attività delle donne erano spesso definite non in base all’essere, ma in base al fare. Ad esempio, nei registri della popolazione veneziana del 1805, compilati all’epoca della dominazione austriaca, accanto ai nomi femminili si può leggere: «fustagnera», cioè tessitrice di fustagni, «revendigola», cioè venditrice, «impiraressa», cioè infilatrice di perle di vetro, ma anche «fa calze», «fa perle», «lavora di bianco», «lavora mode», «fila lana», oppure «raccoglie carte per le strade». La tendenza a non definire il lavoro come un’identità che struttura la persona, ma come un fatto accessorio e saltuario si ritrova nelle definizioni che le donne davano di se stesse. Nelle testimonianze rese ai tribunali romani nel XIX secolo, le donne al momento di dichiarare la propria identità lavorativa dicevano «io faccio»... la sarta, la serva, ecc., mentre gli uomini affermavano di «essere» sarti, calzolai ecc. Certamente, questa sottile ma profonda distinzione corrispondeva anche a ruoli effettivamente diversificati all’interno di mestieri che potevano essere analoghi: essere a capo di un laboratorio di sartoria era diverso dal fare la sarta in casa, anche se è
ovvio che mobilità e precarietà lavorative caratterizzavano pure gran parte della popolazione maschile e che non tutte le donne svolgevano lavori precari sottopagati. Tuttavia, non si può non notare
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D. Lombardi Ruolo materno e immagine della donna
Tra Settecento e primo Novecento il ruolo materno si modifica profondamente. Dalle molteplici funzioni materne, assolte da persone diverse (la madre, la balia, la governante, il precettore, il collegio) e in luoghi diversi, si passa verso la metà dell’Ottocento all’affermazione della figura della madre biologica all’interno dello spazio domestico. [...] I discorsi medici e filosofici dell’età dei Lumi hanno contribuito fortemente alla valorizzazione del ruolo materno. Non furono solo i padri illuministi a recepire con entusiasmo le tesi di Rousseau e dei medici a lui contemporanei. Molte madri dell’aristocrazia e della borghesia si appassionarono a nuovi metodi di cura ed educazione dell’in-
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come, da parte delle donne, la tendenza a strutturare la propria identità non sul lavoro ma sulla famiglia sia un atteggiamento di lunghissima durata e che ci appare molto familiare ancora oggi.
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PALESTRA INVALSI 1. L’espressione «In quanto storiche il primo problema che dobbiamo affrontare è quello delle fonti» significa che le storiche... [ ] a. devono avere maggiore sensibilità verso quello che le fonti non dicono, poiché sanno che le donne in passato avevano raramente modo di lasciare traccia di sé. [ ] b. si interessano al problema delle fonti, a differenza dei colleghi. [ ] c. possono capire, a differenza dei colleghi, in che modo trovare tracce della vita delle donne del passato. [ ] d. hanno scoperto che le donne erano sempre presenti nelle fonti fiscali e lavorative anche quando non esercitavano un’attività regolare e non avevano quel che oggi si chiamerebbe “il posto fisso”. 2. Un messaggio importante del testo è che... [ ] a. le donne in passato non lavoravano, ma si occupavano unicamente della casa. [ ] b. in passato il lavoro delle donne non era percepito come qualcosa che riguardasse la loro identità, ma come un fatto accessorio. [ ] c. gli uomini e le donne in passato svolgevano ruoli analoghi all’interno di mestieri che risultavano essere analoghi. [ ] d. uomini e donne in passato avevano modo di trovare sempre un impiego lavorativo che durasse tutta la vita. 3. Il testo che hai letto è... [ ] a. uno studio tratto da una rivista scientifica. [ ] b. una voce di enciclopedia. [ ] c. un paragrafo di un testo sulla storia di genere. [ ] d. un articolo divulgativo.
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D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2008, pp. 180-91.
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
La storica Daniela Lombardi (nata nel 1951) ha ricostruito le trasformazioni dell’istituzione matrimoniale dal Medioevo all’età contemporanea, prestando attenzione al ruolo e alla percezione della donna. Nel brano seguente guarda alle modificazioni del ruolo materno, che fu valorizzato nel corso del ’700, finendo però anche per modificare le relazioni fra i sessi e per confinare la donna in un ruolo esclusivamente domestico e familiare, esaltandone la virtù e le qualità morali. A diffondere questi nuovi atteggiamenti contribuirono anche i più famosi romanzi dell’epoca, come Pamela di Samuel Richardson. fanzia, cogliendo talvolta con grande consapevolezza tutta la difficoltà di metterli in pratica. [...] Quel che è certo è che nell’arte, nella letteratura e nella trattatistica la maternità assurge, in questa seconda metà del secolo, a valore dominante della vita familiare. Madri felici e appagate, circondate da bambini di cui si occupano personalmente, ci appaiono dalle tele e dalle incisioni di artisti più o meno celebri. [...] Nella letteratura francese già dagli anni Trenta del Settecento si enfatizza l’importanza del ruolo materno nella cura e nell’educazione dei figli. Alla madre si attribuisce non solo il compito di nutrire il bimbo con il proprio latte nei primi anni di vita, ma anche una funzione educatri-
ce negli anni successivi, perché l’istinto e il sentimento materno costituiscono la migliore guida per un sano e armonioso sviluppo. [...] La valorizzazione del ruolo materno finì col confinare le donne nell’ambito della famiglia, una famiglia più affettiva e meno dispotica, ma pur sempre soggetta a una forte autorità del pater familias. La casa diventò lo spazio dell’intimità, della tenerezza, dei piaceri tranquilli, di quella domesticity1 che
1. Vita domestica, vita familiare.
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FARE STORIA
FARE STORIA Condizione femminile e infanzia
il puritanesimo inglese già dal Seicento andava proponendo come ideale della vita coniugale. [...] La valorizzazione della maternità ebbe una ricaduta importante sulla rappresentazione delle relazioni tra i sessi. Attribuire alla donna compiti educativi oltre che nutritivi nei confronti dei figli implicava un riconoscimento delle sue qualità morali. L’immagine della donna incline alla lussuria e agli appetiti della carne, fragile e incostante, così consueta nella tradizione medievale e rinascimentale, cominciò, nel corso del Settecento, a essere sostituita da un’immagine antitetica che della donna valorizzava la virtù, la purezza, la moralità, il sentimento. [...] La donna dunque cominciò a essere rappresentata come madre, anzi come madre spirituale cui spettava non solo l’educazione dei figli ma anche la moralizzazione dei costumi del marito. Il concetto di virtù aveva un’accezione prevalentemente sessuale; tuttavia comprendeva altre dimensioni (sensibilità, sentimento, affettività) che tendevano a essere associate alla figura femminile. Ed era anche grazie alla sua sensibilità emotiva, alla sua capacità di «leggere nel cuore degli uomini», che la donna poteva svolgere una funzione di guida spirituale e morale. La letteratura ci ha trasmesso esempi straordinari di donne virtuose, di eroine
immuni dalla passione dei sensi e perciò capaci di redimere uomini viziosi. È noto il romanzo di Samuel Richardson, Pamela o la virtù ricompensata, pubblicato nel 1740 (ma datato 1741), che riscosse un enorme successo e fu più volte ristampato nel corso del secolo. Pamela è una giovane domestica che, dopo la morte della padrona, resta affidata al figlio, un giovane ricco e libertino che si invaghisce di lei e tenta ripetutamente di insidiarne la verginità, ricorrendo sia all’inganno che alla violenza. Pamela riesce a resistere a tutti i tentativi di seduzione e a non cedere né alle minacce né ai raggiri. Alla fine il padrone, ormai innamorato di lei e folgorato dalla sua virtù, propone di sposarla. La ricompensa per Pamela è, ovviamente, il matrimonio. [...] In Pamela la nuova concezione della virtù – di pertinenza femminile anziché maschile, diffusa tra i ceti popolari e non nell’élite corrotta e dissoluta – spazza via le vecchie idee e diventa il fondamento su cui costruire un legame matrimoniale solido e allo stesso tempo affettivo. [...] L’esaltazione della virtù femminile e la valorizzazione del ruolo materno, presenti nel mondo protestante come in quello cattolico, ratificarono l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica. [...] È interessante notare come, nel dibattito politico (maschile) sulla questione della partecipazione femminile,
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H. Cunningham Una nuova idea dell’infanzia
H. Cunningham, Storia dell’infanzia. XVI-XX secolo [1995], il Mulino, Bologna 1997, pp. 75-81.
Ariès1 attribuì al XVII secolo un ruolo cruciale nella trasformazione delle idee sull’infanzia, ma per molti storici la preminenza spetta al XVIII secolo. Incorniciato dagli scritti di John Locke al suo inizio e dei poeti romantici alla fine e, con la figura stridente di Rousseau nel mezzo, il XVIII secolo sembra evidenziare un grado di sensibilità nei confronti dell’infanzia e dei bambini sconosciuto nei secoli precedenti. Alcuni cominciarono a considerare l’infanzia non come una preparazione a qualcos’altro, fosse questo qualcosa l’età adulta oppure il paradiso, ma come
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ai temi consueti, vecchi di secoli, della «naturale» predisposizione della donna all’instabilità di carattere e alla passionalità dei sentimenti, che la rende assolutamente inadatta alla vita politica, si aggiungano i temi nuovi della vocazione femminile anch’essa «naturale» alla maternità, che ne impedirebbe la partecipazione politica. [...] La divisione dei sessi si arricchisce della dimensione materna per confermare l’alterità dei compiti cui sono destinati uomini e donne. La valorizzazione del ruolo materno, che pure presuppone una nuova enfasi sulle qualità morali e spirituali della donna, non riesce a cancellare gli antichi stereotipi sulla fragilità e debolezza del sesso femminile, che continuano a essere utilizzati per giustificare l’esclusione dalla vita pubblica.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le caratteristiche della nuova idea di maternità che si affermò nel ’700 e le ricadute che coinvolsero la vita e l’immagine della donna nella società. b. Spiega per iscritto in cosa consiste il modello di donna virtuosa che si afferma in questo periodo e supporta la tua affermazione con un esempio. c. Sottolinea le motivazioni che, nell’immaginario comune dell’epoca, rendono inadatte le donne alla vita politica.
Lo storico inglese Hugh Cunningham ricostruisce in questo volume i cambiamenti avvenuti nell’esistenza dei bambini e il modo in cui si è modificato il loro posto nella famiglia e nella società dal ’500 ad oggi. Nel brano proposto analizza le trasformazioni negli atteggiamenti verso l’infanzia avvenute fra XVII e XVIII secolo, guardando alle opere di Locke e di Rousseau che ebbero notevole successo e concorsero a cambiare la percezione dell’infanzia e ad assegnarle un nuovo ruolo. una fase dell’esistenza che meritava di essere valutata autonomamente. [...] Il crescere dell’intimità e degli agi nella vita familiare delle classi superiori e medie fu parte integrante di questa attenzione per l’individualità del bambino. La comunità e la famiglia allargata persero il ruolo di arbitri delle questioni morali, la cui soluzione venne a focalizzarsi nella cerchia nucleare della famiglia, dove pure vennero a concentrarsi gli affetti più profondi. L’amore fra genitori e figli, e in particolare tra madre e figlio, già da tempo santificato nell’iconografia occidentale, acquistò secolarizzandosi
una nuova intensità. E questo amore poteva esprimersi più facilmente nella progettazione delle abitazioni, molto più ricche ora di spazi privati. Il passaggio ad una società più orientata al bambino fu contestato ad ogni stadio, e non giunse mai a completamen-
1. Lo storico francese Philippe Ariès (1914-1984)
scrisse nel 1960 una delle opere fondamentali per lo sviluppo della storia della famiglia, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna.
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to. Sia negli atteggiamenti nei confronti dell’infanzia che nel comportamento con i bambini ci imbattiamo continuamente in ambivalenze e contraddizioni. [...] Ci sono prove abbondanti, tuttavia, del verificarsi di una trasformazione di un certo spessore, che può essere riassunta come un passaggio da un interesse primario per la salute spirituale del bambino ad una preoccupazione per lo sviluppo del singolo bambino. Il saggio di John Locke Some Thoughts Concerning Education [Pensieri sull’educazione] (1693) ha raggiunto lo status di classico in questo processo, anche se il motivo di ciò non è immediatamente evidente. Sollecitato inizialmente da un gentiluomo a fornirgli qualche consiglio sull’educazione del figlio, Locke scoprì che le sue lettere erano vivamente richieste e acconsentì a pubblicarle. [...] La questione sulla quale Locke tornava ossessivamente era un antico problema: quale ruolo dovevano avere le punizioni corporali nell’educazione dei figli? La risposta era sintetica: «penso decisamente che una grande severità nelle punizioni non sia affatto, nell’educazione, un beneficio per quanto piccolo, ma che sia un gran male». [...] Occasionalmente le punizioni corporali possono essere necessarie per conseguire il fine della sottomissione della volontà, processo la cui interiorizzazione era la chiave per la formazione di un adulto riuscito e morale. [...] Locke è forse meglio conosciuto per qualcosa in cui non credeva, cioè l’idea che un bambino andasse considerato «come un foglio bianco, o quasi cera da modellarsi e acconciarsi come piace». Locke ammise di aver assunto questa posizione nel suo libro, ma, come chiarisce con l’esposizione che fa del problema nel suo Essay on Human Understanding [Saggio sull’intelletto umano], per lui un
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bambino è tabula rasa solo per quanto riguarda le idee, non per le attitudini o per il temperamento. Non era un’idea nuova, ma la formulazione datale da Locke ebbe un’autorevolezza ignota ai suoi predecessori. Sul piano dell’educazione dei figli le implicazioni erano enormi, e l’educatore, colui che doveva cioè scrivere su quella carta e modellare quella cera, era investito di un potere colossale e di enormi responsabilità. Come disse Locke con un’espressione incisiva: «nove su dieci degli uomini in cui c’imbattiamo sono quel che sono, buoni o cattivi, utili o no, per effetto della loro educazione». Ma qualsiasi cosa possa dirsi della mente infantile, Locke si dà premura di sottolineare che non esistono due bambini uguali; hanno i loro «vari temperamenti, [...] differenti inclinazioni, e [...] particolari difetti» che devono essere scoperti osservandoli mentre giocano, e adeguando il sistema educativo al loro «genio naturale e [al loro] carattere». Mentre dunque è possibile fissare i principi generali che dovrebbero governare l’educazione dei bambini, la loro applicazione deve essere adattata al caso individuale. [...] Ecco un altro passo importante verso una società orientata al bambino: il riconoscimento dell’individualità. Molti altri elementi puntano nella stessa direzione. I bambini, scrive Locke, dovrebbero «essere sempre trattati come creature ragionevoli», dovrebbe essere incoraggiata la loro curiosità e si dovrebbe rispondere attentamente alle loro domande. [...] In Locke tuttavia questo incipiente orientamento al bambino viene continuamente affievolito dalla sua insistenza sul fine ultimo della produzione di un adulto in grado di conformarsi al ruolo previsto per un individuo del suo rango. [...]
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Rousseau riconobbe Locke come suo precursore e quasi certamente lo aveva in mente quando scrisse, nella prefazione al suo Emilio (1762), che «i più savi insistono su ciò che è importante che gli uomini sappiano, senza considerare ciò che i bambini sono in grado di apprendere. Essi cercano sempre l’uomo nel bambino, senza pensare a ciò che egli è prima di essere uomo». Rousseau, dichiarando energicamente che «non si conosce affatto l’infanzia», era determinato a rovesciare questa situazione, a vedere il bambino nel bambino, e fu questo che fece della sua opera una pietra miliare e una fonte di ispirazione per altri scrittori e pensatori, oltre che per i genitori. [...] Altri scrittori avevano mostrato una condiscendente indulgenza per i giochi e la vivacità infantile, ma sempre con un secondo fine: «Tutti i giouchi e i divertimenti dei ragazzi», scrisse Locke, «dovrebbero essere diretti verso abiti buoni e utili [...]». Rousseau respinge questo modo di ragionare. Fa presente che molti bambini moriranno giovani dopo aver trascorso la loro vita in preparazione per un’età adulta che non raggiungeranno mai; e afferma il diritto del bambino ad essere tale e ad avere una vita felice. Troviamo inoltre la prima espressione dell’idea che l’infanzia possa essere la stagione più bella della vita, da ricordare un giorno con nostalgia.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega il rapporto fra l’amore fra genitori e figli e la progettazione delle abitazioni. b. Sottolinea le posizioni di Locke rispetto all’infanzia e all’educazione dei figli. c. Cerchia le parole chiave che, secondo te, caratterizzano il rapporto fra il pensiero di Locke e quello di Rousseau e argomenta oralmente le tue scelte.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Scrivi un testo argomentativo sull’identità lavorativa della donna nell’età moderna e sui principali settori nei quali veniva impiegato il lavoro femminile. Fai riferimento in particolare al brano storiografico di Bellavitis [Ź10]. Prima di procedere con la scrittura, evidenzia i concetti che intendi utilizzare nel tuo elaborato e realizza una scaletta. 2. In che modo è cambiato il rapporto fra madri e figli in età moderna in relazione alle virtù e al ruolo attribuiti alla donna nel corso del tempo? Scrivi un testo argomentativo che risponda a questa domanda, basandoti sui brani storiografici di Lombardi [Ź11] e Cunningham [Ź12]. Confronta con attenzione i contenuti dei testi indicati e realizza, a partire da
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essi, una scaletta di lavoro. Scegli anche un titolo per il tuo elaborato. Il confronto storiografico 3. Individua le caratteristiche del ruolo che la donna assume nella società di ancien régime in base al proprio status sociale, evidenziale nei testi di Bellavitis [Ź10] e Lombardi [Ź11] e trascrivi sinteticamente le informazioni da te raccolte sul quaderno, indicando di volta in volta fra parentesi il nome dello storico. Infine scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente in cui confronterai le diverse realtà individuate, citando opportunamente i testi di riferimento. Termina il tuo elaborato spiegando il contributo che, secondo te, gli studi di genere hanno dato alla storiografia tradizionale su temi come quello trattato.
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FARE STORIA Due modelli di monarchia a confronto
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Due modelli di monarchia a confronto Nell’Europa d’antico regime le monarchie francesi e inglesi rappresentarono due modelli politici alternativi, segnati da sviluppi diversi: all’assolutismo francese si contrapponeva la svolta costituzionale della monarchia inglese, con la “gloriosa rivoluzione”. Questa sezione intende riflettere e approfondire il funzionamento dei due regimi politici. Il primo brano è tratto dai Mémoires di Luigi XIV [Ź13], dove emerge con chiarezza la consapevolezza del re del proprio ruolo nello Stato e nel paese. Wolfgang Reinhard [Ź14] esamina i linguaggi simbolici e iconografici che la
DOCUMENTO 13 Memorie di Luigi XIV, Boringhieri, Torino 1961, pp. 21-24; 30-31; 46.
monarchia, non solo quella francese di Luigi XIV, usava per propagandare il suo potere, creando un mito positivo del sovrano. La seconda parte della sezione è dedicata all’Inghilterra. Il primo brano [Ź15] è una selezione di alcuni articoli dell’Act of Settlement (1701), documento fondativo insieme con il Bill of Rights (ŹLEGGERE LE FONTI, p. 30) della “gloriosa rivoluzione”. Segue un brano di Gianpaolo Garavaglia [Ź16] che analizza più dettagliatamente questa svolta e i diversi atti che segnarono il nuovo equilibrio costituzionale fra sovrano e Parlamento inglese.
Luigi XIV I Mémoires I Mémoires per l’istruzione del Delfino furono redatti, fra il 1666 e il 1671, per incarico di Luigi XIV da due segretari, che utilizzarono alcune note e un diario del re. Luigi XIV ne seguì attentamente la composizione, ma pare che intendesse distruggerli alla fine del regno. Rimasti a lungo inediti, furono utilizzati in parte dalla metà del ’700. Voltaire ne inserì alcuni passi nel Secolo di Luigi XIV del 1751. Furono editi integralmente nel 1806. I passi riportati si riferiscono al 1661 e costituiscono una efficace esemplificazione della visione che Luigi XIV aveva di sé, dell’altezza dei propri compiti, della sua identificazione con lo Stato.
Il disordine regnava ovunque. La mia corte in generale era ancora assai lontana dai sentimenti in cui spero la troverete. I nobili o i militari, abituati ai continui maneggi con un ministro a cui questi non ripugnavano, ed erano anzi stati necessari, si facevano sempre un immaginario diritto su tutto ciò che era di loro convenienza; non un comandante di piazza che non fosse difficile comandare; non una richiesta che non contenesse un rimprovero del passato o un futuro malcontento che si voleva far intravedere e temere. [...] Le finanze, che danno il movimento e l’attività a tutto il grande corpo della monarchia, erano completamente esaurite, e a un punto tale che era difficile vedervi un rimedio. Molte delle spese più necessarie e privilegiate della mia casa e della mia persona erano ritardate contro ogni convenienza o sostenute col solo credito, le cui conseguenze pesavano; nello stesso tempo l’opulenza veniva ostentata dagli affaristi, che da un lato coprivano le loro malversazioni con ogni sorta di astuzie e dall’altro le scoprivano con un lusso insolente e sfrontato, come se avessero avuto paura di lasciarmele ignorare. La Chiesa, senza contare i suoi mali ordinari [...] era infine apertamente minacciata di uno scisma da persone tanto più pericolose in quanto avrebbero potuto essere utilissime, e di grandi meriti, se ne fossero state esse stesse meno persuase1. [...]
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Il difetto minore dell’ordine della nobiltà era di essere pieno di innumerevoli usurpatori, senza alcun titolo o forniti di titoli ottenuti per denaro e non per merito. La tirannia che essa esercitava in alcune delle mie province sui vassalli e i vicini non poteva più essere tollerata, né repressa, se non con qualche esempio di severità e di rigore. [...] La giustizia, a cui toccava riformare tutto il resto, mi sembrava proprio la più difficile da riformare. Vi contribuiva un’infinità di cose: le cariche assegnate per caso e per denaro, invece che per selezione e per merito; scarsa esperienza in alcuni dei giudici, e ancor meno sapere; le ordinanze sull’età e sul servizio, eluse quasi ovunque; i legulei2 forti di un’autorità di parecchi secoli, fertili in invenzioni contro le migliori leggi; e infine quello che principalmente li produce, voglio dire questo popolo smoderato che ama i processi e li coltiva come sua eredità, senz’altra occupazione che aumentarne la durata e il numero. [...] Tutto questo insieme di mali, o le loro conseguenze ed effetti, ricadevano principalmente sul basso popolo, oberato peraltro di imposte, tormentato dalla miseria in molti casi, afflitto in altri dal proprio ozio dopo la pace, e bisognoso soprattutto di essere sgravato e occupato. In mezzo a tante difficoltà, alcune delle quali apparivano insormontabili, tre considerazioni mi davano coraggio.
La prima, che in questo genere di cose non è in potere dei re, i quali sono uomini ed hanno a che fare con uomini, raggiungere tutta la perfezione che si propongono, troppo lontana dalla nostra debolezza; ma che questa impossibilità non è una buona ragione per non fare quel che si può, né questa distanza una buona ragione per non andare sempre avanti: il che non può essere senza utilità e senza gloria. La seconda, che in tutte le imprese giuste e legittime, il tempo, l’azione stessa, l’aiuto del Cielo aprono di solito mille vie e rivelano mille vantaggi insospettati. L’ultima, infine, che il Cielo stesso sembrava promettermi visibilmente il suo aiuto, disponendo ogni cosa all’intento che esso m’ispirava. [...] Quanto alle persone che dovevano secondare il mio lavoro, decisi soprattutto che non avrei avuto un primo ministro; e se mi date ascolto, figlio mio, e dopo di voi tutti i vostri successori, il nome ne sarà per sempre abolito in Francia, nulla essendo più indegno che il vedere da una parte tutte le funzioni e dall’altra il mero titolo di re.
1. I giansenisti. L’assemblea del clero aveva
compilato nel 1661 un formulario sulle cinque proposizioni di Giansenio, condannate dal papa, e molti avevano rifiutato di firmarlo. 2. Legali cavillosi e sofistici.
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A tale scopo, era necessario che io ripartissi la mia fiducia e l’esecuzione dei miei ordini, senza darle per intero a nessuno, assegnando alle diverse persone compiti diversi secondo le loro diverse capacità, che forse è la prima e più grande qualità dei principi. Decisi anzi di più: per poter meglio riunire in me solo tutta l’autorità sovrana, quantunque vi siano, in ogni sorta di questioni, particolari a cui di solito le nostre occupazioni e la nostra stessa dignità non ci permettono di scendere, presi la risoluzione, dopo che avessi scelto i miei ministri, di entrarvi talvolta con ciascuno di essi, e quando meno se lo aspettasse, perché capisse che avrei potuto fare altrettanto su altre questioni e in ogni momento. Oltre a ciò, informarsi di queste minuzie, solo di tanto in tanto e più per diversivo che per regola, istruisce
a poco a poco, senza stancare, di mille cose che non sono inutili alle risoluzioni generali, e che dovremmo sapere e fare da noi, se fosse possibile che un uomo solo sapesse tutto e facesse tutto. [...] L’eccessiva preminenza dei parlamenti era stata dannosa a tutto il regno durante la mia minorità. Occorreva moderarli, meno per il male che avevano fatto che per quello che potevano fare in avvenire. La loro autorità, finché veniva considerata opposta alla mia, per buone che fossero le loro intenzioni, produceva pessimi effetti nello Stato, e intralciava qualsiasi cosa potessi intraprendere di più grande e utile. Era giusto anteporre questa utilità a tutto il resto, e rimettere tutto nel suo ordine legittimo e naturale, quand’anche, cosa che nondimeno ho evitato, fosse necessario togliere a
STORIOGRAFIA 14
W. Reinhard Il mito del monarca
W. Reinhard, Storia del potere politico in Europa, il Mulino, Bologna 2001, pp. 109-13.
In sé costituiva un vantaggio della monarchia poter incorporare la forza statale sempre in una persona concreta. Molto più facilmente di uno Stato astratto e dei suoi sempre diversi servitori, essa poteva infatti essere fatta oggetto di una rappresentazione in grado di produrre un effetto sul pubblico. La persona del sovrano si poteva innalzare a una sorta di opera d’arte totale, ma in fondo l’intera corte con il suo palcoscenico architettonico e con il suo cerimoniale si guadagnava per prima questa denominazione: un balletto politico di enormi dimensioni e senza interruzioni, nel quale tutti dovevano ballare insieme, che lo volessero o no. [...] Anche quando le feste di corte avevano una mera funzione di intrattenimento, comunicavano tuttavia visioni del dominio autocratico, che si rassomigliavano sorprendentemente, e certamente non solo perché tutti i principi si premuravano di ricorrere al repertorio della rappresentazione degli imperatori antichi. Oltre a ciò contribuirono alla produzione dell’effetto gli stessi principi come attori o ballerini,
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quegli organismi ciò che un tempo era stato concesso loro; come il pittore non ha nessuna difficoltà a cancellare lui stesso ciò che ha fatto di più ardito e di più bello, ogniqualvolta gli paia più grande del necessario e manifestamente sproporzionato al resto dell’opera.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le conseguenze dell’esaurimento delle finanze. b. Trascrivi i nomi dei mali denunciati da Luigi XIV al lato del testo e sottolinea le relative conseguenze. c. Evidenzia le soluzioni individuate dal sovrano e illustra le motivazioni e finalità descritte.
Lo storico tedesco Wolfgang Reinhard (nato nel 1937) ha dedicato un ampio studio ai fondamenti comuni dello Stato moderno nei diversi paesi europei, in una prospettiva transnazionale, facendo dialogare storia economica, sociale e culturale. Nel brano proposto guarda al funzionamento della monarchia a livello simbolico, con l’uso di un linguaggio che propagandava abilmente, anche usando immagini pittoriche, il mito del sovrano. che, attraverso il loro ruolo, trasmettevano un messaggio. [...] Con le rappresentazioni teatrali e musicali le feste di corte divennero popolari, con un effetto che dura a volte fino ad oggi. A ciò si aggiunge il genere ancora poco studiato delle descrizioni illustrate delle feste. La restaurazione francese cercò dopo il 1815 in modo molto mirato di ricollegarsi alla tradizione delle feste di corte dell’Antico Regime, per sostituire gli adattamenti rivoluzionari. La visualizzazione del dominio personalistico aveva successo però soprattutto nei ritratti del signore nella forma di pitture o sculture, fino agli imponenti monumenti a cavallo, secondo il modello romano. Accanto bisogna porre, a partire dal XVII secolo, la tendenza a una rappresentazione «privata» del principe, ad esempio nella cerchia famigliare. Dall’altro lato però il ritratto «in travestimento» o il ritratto identificativo raggiunse il suo apice solo tra il XVI e il XVII secolo, quando l’usanza di rappresentare un signore come un santo popolare (Massimiliano I come San Giorgio) o come un eroe bi-
blico (Federico Gonzaga come Davide) venne sostituita dai ritratti mitologici, come Luigi XIII ritratto nelle sembianze di Pegaso che libera Andromeda dai draghi, con cui si intendeva la liberazione della città di Arles dagli ugonotti nel 1622. La più amata figura di eroe e di salvatore era Ercole, che ritorna anche in numerosi ritratti di signore, fino a Guglielmo III d’Inghilterra. Ma era molto apprezzato anche Orfeo, che con la musica domava e placava gli animali feroci – ossia i sudditi. Familiare era la rappresentazione come sovrano dell’antichità, soprattutto l’amato Alessandro Magno. E utilizzando i numerosi simboli naturali (Luigi XIV non fu l’unico a farsi ritrarre sotto il sole) vi era un rimando ai modelli antichi. Luigi XIV pensava di essere il sole tanto quanto Massimiliano I credeva di essere davvero San Giorgio. Si trattava piuttosto di un discorso simbolico che voleva rappresentare non la persona del sovrano ma gli archetipi del ruolo di dominio. Questi travestimenti alla moda rispecchiano raffigurazioni del sovrano vincolanti per tutti, non
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come egli è, ma come egli deve essere. L’apparato di finzioni mitologiche ed emblematiche conteneva quindi un’oggettivazione della comprensione del dominio lontana dalla persona e vicina ai compiti e ai doveri. [...] Luigi XIV di Francia però non si è assicurato in questo modo un posto nella storia superiore a quanto sia il suo reale significato politico: piuttosto si è avvalso di un’attenta messa in scena della sua persona come opera d’arte totale. Ciò comincia con il suo aspetto esteriore. Egli era alto circa un metro e sessanta e dal 1659 era calvo, ma alti tacchi e un’alta parrucca controbilanciarono questi difetti. Nella scelta dell’emblema del sole confluivano sempre nuovi riferimenti ai più diversi dei ed eroi, che in qualche modo «sovraccaricarono» il re di allegorie, con la conseguenza che egli e la sua epoca vennero considerati un apice «classico» della storia e addirittura come superiori all’antichità, una concezione che ha ancora affascinato Voltaire. Nelle pitture, nelle feste, se per caso l’appassionato ballerino Luigi voleva im-
medesimarsi nel ruolo del dio del sole Apollo, e nella letteratura, la stirpe regia fu presentata come l’Olimpo. Più ancora della magnifica pompa dovette contribuire alla gloria (gloire), intesa quale supremo valore della vita del sovrano, il ruolo di vincitore in guerra, per il quale egli era senz’altro disposto a sacrificare le conquiste in politica interna dei primi anni. Medaglie, statue, archi di trionfo furono costruiti per le occasioni più modeste. Anche la morte del re fu inscenata come un palcoscenico; seguì una solenne sepoltura. [...] Opera d’arte totale implica anche artificio. Ciò significa che la messa in scena di sé e degli altri creava un’immagine del sovrano solo in parte corrispondente alla realtà. È una parte del mito del sovrano che diventa qui particolarmente visibile nella massiccia introduzione della mitologia antica. Un mito storico era quello del re santo, un utopico sovrano nascosto che sarebbe tornato in futuro per salvare il suo popolo, come Sebastiano del Portogallo o Federico Barbarossa. Un mito non è falso, ma la sua verità non è quella em-
DOCUMENTO 15
L’Act of Settlement
G. Garavaglia, Società e rivoluzione in Inghilterra (1640-1689), Loescher, Torino 1978, pp. 213-17.
L’«Act of Settlement», 1701 [La prima clausola prevede l’esclusione dei discendenti di Giacomo II in linea diretta, a favore della casa di Hannover]. [...] 2. [...] ogni persona o persone che assumeranno o erediteranno la detta corona, in forza delle limitazioni fissate nel presente atto, e che si riconcilieranno o faranno parte della sede o Chiesa di Roma, o professeranno la religione papista, o sposeranno un papista, rientreranno nelle suddette categorie escluse [...]. 3. E [...] che chiunque entrerà in possesso in futuro di questa corona dovrà essere in comunione con la Chiesa d’Inghilterra, come è stabilita per legge [...]. Che nessuna persona che ricopra una carica o un posto pagato sotto il re o che riceva una pensione dalla corona, potrà servire come membro della Camera dei Comuni.
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piricamente controllabile delle affermazioni registrate per iscritto. Esso fa fronte a nessi complicati grazie a semplificazioni simboliche. In questo senso la messa in scena del re sole creò un mito, che portò i contemporanei vicino alla verità sul ruolo del sovrano di allora. Anche noi posteri siamo catturati dal suo fascino.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega il significato della metafora del balletto politico e se e come cambiò nel corso del tempo. b. Cerchia le parole chiave che definiscono le diverse caratteristiche del ritratto del sovrano e argomenta le tue scelte. c. Spiega per iscritto in che modo Luigi XIV di Francia si sia avvalso di un’attenta messa in scena della sua persona come opera d’arte totale e porta degli esempi a sostegno di questa tesi
Il Bill of Rights del 1689 e l’Act of Settlement del 1701 rappresentano due momenti fondamentali nella formazione del sistema costituzionale inglese. Se il primo è soprattutto una riaffermazione di leggi e statuti precedenti, il secondo, oltre a ribadire l’esclusione dell’eventualità di un sovrano cattolico, attua una precisa distinzione dei poteri del re da quelli del Parlamento. Che [...] le commissioni ai giudici siano emesse quamdiu se bene gesserint1 e che i loro salari siano dichiarati e fissi; ma che sia lecito rimuoverli per intervento di entrambe le Camere del Parlamento. Che nessun perdono sia concesso sotto il gran sigillo d’Inghilterra2 a persone accusate dai Comuni in Parlamento. 4. E che essendo le leggi d’Inghilterra diritto naturale del suo popolo e dato che i re e le regine che saliranno sul trono di questo reame dovranno governarlo secondo le dette leggi e tutti i loro funzionari e ministri dovranno servire secondo le medesime: i detti Lords spirituali e temporali, e i Comuni, pregano umilmente che tutte le leggi e gli statuti di questo reame intesi a garantire la religione costituita e i diritti e le libertà del popolo e tutte le altre leggi e statuti ora in vigore, possano essere ratificati e confermati... da
sua Maestà, per consiglio e consenso dei detti Lords spirituali e temporali e dei Comuni. 1. «Purché abbiano operato bene». 2. Cioè dal re.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sintetizza il contenuto delle clausole dell’Act
of Settlement indicando, per ognuna di esse, i contenuti con un titoletto al lato del testo. b. Scegli e sottolinea le parole chiave di questo documento e argomenta per iscritto le tue scelte
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STORIOGRAFIA 16 G. Garavaglia, Storia dell’Inghilterra moderna. Società, economia e istituzioni da Enrico VII alla Rivoluzione industriale, Cisalpino, Milano 1998, pp. 421-23.
Gli uomini che operarono la rivoluzione del 1688-9 non si erano proposti di introdurre mutamenti radicali nel tessuto politico-costituzionale del paese, quanto piuttosto di restituirgli quell’equilibrio tra corona e parlamento che essi ritenevano fosse stato alterato pericolosamente dagli Stuart in più occasioni. In quest’ottica non si consideravano rivoluzionari intenti a demolire i poteri e le prerogative della corona, ma conservatori volti a correggere e limitare le tendenze rivoluzionarie dei precedenti monarchi. Lo stesso Guglielmo ebbe a dichiarare che la rivoluzione era stata fatta per preservare e mantenere le leggi, le libertà e le usanze costituite e, sopra tutto, la religione e il culto di Dio. Ma proprio perché gli eventi del 1688-9 non produssero mutamenti radicali, la lotta tra corona e parlamento, per quanto ricondotta entro canali più rigidi che le avrebbero impedito di sfociare in guerra aperta, era lontana dall’essere conclusa: il parlamento e l’opposizione agli Stuart avevano strappato alla corona alcune delle armi di cui si era servita, ma entrambe le parti ne avrebbero forgiate di nuove con cui la lotta sarebbe proseguita per altri decenni. Di fatto, tuttavia, dopo il 1689 nessuno dei due schieramenti politici che erano emersi durante gli anni Ottanta sarebbe più stato lo stesso dal punto di vista ideologico. I tories avevano dovuto cedere su una questione di principio che consideravano fondamentale, quella della monarchia ereditaria di diritto divino, alla quale avevano, almeno momentaneamente, rinunciato per ridare un governo stabile al paese dopo che lo stesso monarca aveva minacciato di destabilizzarlo: stabilità politica, difesa dell’ordine pubblico, sicurezza della proprietà privata avevano avuto ragione di considerazioni più propriamente ideologiche. I mutamenti si sarebbero rivelati meno temibili di quanto avessero pensato nel 1688-9, anche se molti di loro continuarono per decenni a manifestare disagio nei confronti dell’esclusione degli eredi degli Stuart dal trono. [...] I whigs si
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G. Garavaglia La monarchia costituzionale inglese Gianpaolo Garavaglia (nato nel 1949) si è a lungo occupato di storia inglese, fra il XV e il XVIII secolo, approfondendo i mutamenti in campo sociale, economico e politico. Nel brano presentato lo storico analizza il complesso di atti che trasformarono in senso costituzionale la monarchia inglese nel 1688-89, mettendo in luce il modo in cui si cercò di raggiungere un nuovo equilibrio istituzionale fra monarchia e Parlamento. ritrovavano in una posizione più confortevole. Nel febbraio 1689 avevano in parte sacrificato la loro teoria di un contratto tra sovrano e popolo, ma ottennero ben presto tre garanzie costituzionali contro i rischi di un ritorno di un governo autoritario e non parlamentare. [...] Gli aggiustamenti del 1688 e degli anni a venire miravano a garantire il ruolo che questa istituzione aveva conquistato nel corso del secolo: il Coronation Oath1 del 1689 imponeva ai sovrani di governare secondo gli statuti approvati dal parlamento. Svanirono inoltre le elaborate procedure adottate da Carlo II e Giacomo II per garantirsi parlamenti docili manovrando Lord Luogotenenti e giudici di pace e rimodellando le corporazioni, forse l’arma più efficace dato che i borghi eleggevano la maggioranza dei membri dei Comuni, un aspetto di cui si è detto a proposito delle città. [...] Divenne comunque impossibile per un governo ottenere il controllo del parlamento invadendo i campi riservati alle autorità locali. Ulteriori salvaguardie dell’indipendenza del parlamento provennero dalle clausole del Bill of Rights: esse prevedevano elezioni libere e stabilivano che la libertà di parola alle camere non potesse essere limitata e messa in discussione al di fuori del parlamento stesso. [...] Per garantire l’indipendenza effettiva del parlamento occorreva tuttavia provvedere a una sua regolare ed automatica convocazione. Il Bill of Rights disponeva che si dovesse convocare un nuovo parlamento entro tre anni dallo scioglimento del precedente e che nessun parlamento potesse durare più di tre anni. Ancor più importanti furono i provvedimenti di natura finanziaria introdotti dai parlamenti post-rivoluzionari per coprire le spese delle guerre contro la Francia che resero imperativa la convocazione annuale dell’assemblea, la quale aveva imparato nel corso del secolo che la concessione di termini esclusivamente a breve scadenza era uno strumento vitale per controllare la corona. Gli stanziamenti
divennero così regolari, i prestiti pubblici furono garantiti per statuto e le spese pubbliche ricondotte sempre più entro specifiche concessioni parlamentari, mentre la Civil List2, con l’atto del 1697, assegnava per la durata della vita ai sovrani quanto ritenuto necessario a coprire esclusivamente le spese correnti dell’amministrazione e della corte. Una presa più salda e profonda delle finanze diede al parlamento una maggiore capacità di controllo su uomini e misure che a sua volta accrebbe l’influenza che poteva esercitare sull’esecutivo; infatti, corona e governo dovettero accettare l’idea che un gabinetto e una linea politica potevano affondare proprio per mancanza di fondi. Il parlamento affinò anche le proprie armi contro i ministri della corona che, in caso di fallimento, erano ancora trattati come traditori sottoposti ad impeachment dall’assemblea, invece che licenziati per aver semplicemente perso la fiducia della maggioranza [...]. Un’ulteriore arma che il Bill of Rights sottrasse alla corona era il diritto di dispensare e di sospendere le leggi, di cui Carlo II e Giacomo II avevano abusato finendo per alterare gli statuti, senza il consenso di entrambe le parti. Lo stesso statuto ridusse notevolmente i poteri della corona nella sfera giudiziaria; vietava infatti cauzioni o ammende eccessive e punizioni insolitamente crudeli, disponeva che le giu-
1. Approvato nel 1689, prescriveva nuove
formule di giuramento: Guglielmo e Maria furono i primi a giurare in base ad esso che avrebbero governato in accordo con il Parlamento e gli statuti. 2. Era così detta la somma concessa annualmente dal Parlamento alla Corona per le spese correnti, escluse quelle militari e navali, a partire da una concessione parlamentare fatta a Guglielmo III nel 1697, per integrare le entrate ereditarie della Corona. La concessione assunse la denominazione di Civil List agli inizi del ’700 e venne modificata più volte per coprire il ricorrente indebitamento del re.
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rie fossero formate in maniera regolare, dichiarava nulle tutte le confische di beni effettuate prima che un accusato fosse stato condannato. [...] L’indipendenza della magistratura sarebbe stata definita dall’Act of Settlement [...] Tutte queste misure acquistavano un peso costituzionale notevole perché impedivano che futuri monarchi potessero utilizzare i sistemi di cui si erano serviti gli Stuart per aggirare la legge in maniera legale e pervertire l’esercizio della giustizia manipolando i giudici; fissavano confini netti attorno alle prerogative regie in sfere prima mal delineate, riconducendole ora senza possibilità di equivoco all’interno del diritto comune. Il Bill of Rights, infine, sottraeva al sovrano una delle prerogative più gelosamente custodite che già era stata oggetto di aspre contese fra Carlo I e i suoi parlamenti; lo statuto disponeva che fosse illegale mantenere un esercito stanziale nel paese in tempo di
FARE STORIA Due modelli di monarchia a confronto
pace senza il consenso del parlamento: l’arma finale che un governante poteva utilizzare contro il proprio popolo era così sottratta al monarca e messa nelle mani del parlamento che ora si rivelò assai più disposto a concedere ai comandanti gli strumenti necessari per mantenere la disciplina. Il Mutiny Act3 del 1689 fu il primo di una lunga serie di provvedimenti legislativi approvati inizialmente ogni sei mesi, poi in genere ogni dodici, che gradatamente formularono una specie di codice militare. Si è detto sopra dei problemi religiosi in parte risolti in quegli anni. Basterà qui ricordare che una serie di provvedimenti, per quanto parziali, ridussero fortemente le tensioni in questo campo. Come si è visto nel corso del Settecento le libertà religiose furono poco alla volta ampliate, seppure non senza difficoltà, molto spesso di natura più propriamente politica che religiosa.
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3. Il primo atto venne approvato nel 1689
per affrontare un ammutinamento di truppe. Rinnovato dal Parlamento ogni anno, regolava le punizioni per i casi di ammutinamento e di diserzione in tempo di pace, legalizzando in tal modo l’esistenza di un esercito permanente.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le motivazioni che, secondo l’autore, spinsero i rivoluzionari ad agire. b. Spiega cosa aveva significato la rivoluzione per i due schieramenti politici. c. Sottolinea con colori diversi le conseguenze della rivoluzione e quali atti o azioni politiche contribuirono al loro raggiungimento.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Dopo aver letto il documento tratto dai Mémoires di Luigi XIV [Ź13] e il brano storiografico di Reinhard [Ź14], rispondi alle seguenti domande citando opportunamente i testi: a. Secondo Luigi XIV, quali erano i motivi che potevano spingere un sovrano ad agire in prima persona e a non nominare un consigliere? b. A quali strumenti fece ricorso il re francese per raggiungere i suoi scopi? c. Quale rapporto esisteva fra il re di Francia, il popolo e i nobili? d. A chi deve rendere conto il re di Francia? e. Quali sono i poteri esercitati dal re? f. Cosa spinse Luigi XIV a intraprendere la linea di governo che poi lo caratterizzerà? Il confronto storiografico 2. A partire dai brani di Reinhard [Ź14] e di Garavaglia [Ź16] e dal documento proposto [Ź13] metti a confronto i due modelli di monarchie presi in esame nella sezione e rifletti in particolare sul ruolo che il sovrano esercita nel sistema politico e istituzionale francese e in quello inglese. Quindi organizza le tue conoscenze e analisi in un testo argomentativo chiaro e coeso. Prima di procedere con la scrittura individua i passaggi che possono aiutarti a costruire il tuo discorso, trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale che utilizzerai come guida per la tua argomentazione.
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
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Le idee e le conquiste dell’Illuminismo L’Illuminismo, il movimento intellettuale nato in Francia nel ’700, segnò una svolta profonda nella storia occidentale. Cominciarono, infatti, a circolare nuove idee e nuovi valori che mutarono la vita politica, sociale e culturale di molti Stati europei. Gli orizzonti dell’indagine razionale risultarono ampliati, ed ogni aspetto della realtà, dalla religione al diritto, fu sottoposto a vaglio critico. Nel primo brano il filosofo tedesco Immanuel Kant [Ź17] definisce l’Illuminismo come un atteggiamento mentale orientato alla conquista della libertà e dell’autonomia dell’individuo da tutele e autorità tradizionali. Un brano di Montesquieu [Ź18], tratto dalle Lettere Persiane, ci offre un quadro ironico e dissacrante dell’assolutismo di Luigi XIV come delle credenze religiose dell’epoca. Tra le principali sfide dell’Illuminismo ci fu la la battaglia per la tolleranza e contro il fanatismo religioso, come mette in luce il brano di Voltaire [Ź19], tratto dal suo
DOCUMENTO 17 I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a c. di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Utet, Torino 1956, pp. 141-43; 147.
L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude!1 Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo. La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo fatti liberi da direzione estranea, rimangono tuttavia volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri ergersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale2 che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. [...] È dunque difficile per ogni singolo
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Dizionario filosofico. Con l’Illuminismo si affermò anche la necessità di una revisione radicale dei fondamenti del diritto, delle procedure giudiziarie e penali, tema affrontato con grande lucidità dall’italiano Cesare Beccaria [Ź20]. Alcune sue idee trovarono applicazione nella riforma promossa in Toscana dal granduca Pietro Leopoldo [Ź20]. Fine delle leggi è per Beccaria la felicità pubblica. Sul rapporto tra felicità pubblica e felicità privata e sulla affermazione illuminista del diritto alla felicità riflette Antonio Trampus [Ź21]. Dall’incontro tra le proposte riformatrici degli illuministi e le esigenze dei sovrani di riorganizzare le istituzioni prenderanno forma in molti paesi europei, nella seconda metà del ’700, quelle molteplici esperienze note come “assolutismo illuminato”. Nel suo brano Dorinda Outram [Ź22] riflette proprio sul rapporto tra l’Illuminismo e le politiche riformiste adottate dai monarchi.
Immanuel Kant Una definizione dell’illuminismo Il filosofo Immanuel Kant (1724-1804) fu uno dei principali esponenti dell’Illuminismo tedesco. In questo brano, tratto da un suo breve scritto dal titolo Che cos’è l’Illuminismo? (1784) – uscito sulla rivista «Berlinische Monatsschrift» («Rivista mensile di Berlino») –, Kant si interroga sul nucleo essenziale dell’Illuminismo. Lo individua nell’emancipazione dell’individuo attraverso l’uso della propria ragione, in modo che possa liberarsi dallo stato di minorità, cioè di subordinazione, di soggezione in cui intendono tenerlo le diverse autorità politiche, religiose, culturali. L’individuo, invece, deve affermare la propria dignità e autonomia, grazie ad un «uso pubblico» e collettivo della ragione, nella dimensione politica. uomo lavorare per uscire dalla minorità, che è diventata per lui una seconda natura. Egli è perfino arrivato ad amarla e per il momento è realmente incapace di valersi del suo proprio intelletto, non avendolo mai messo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità. Anche chi riuscisse a sciogliersi da essi, non farebbe che un salto malsicuro sia pur sopra i più angusti fossati, poiché egli non avrebbe l’abitudine a siffatti liberi movimenti. Quindi solo a pochi è venuto fatto con l’educazione del proprio spirito di sciogliersi dalla minorità e camminare poi con passo più sicuro. Al contrario, che un pubblico3 si illumini da sé è ben possibile e, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché in tal caso si troveranno sempre tra i tutori ufficiali della gran folla alcuni liberi pensatori che, dopo di avere scosso da sé il giogo della tutela, diffonderanno intorno il sentimento della stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé. [...] Sennonché a questo illuminismo
non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: – Non ragionate! – L’ufficiale dice: – Non ragionate, ma fate esercitazioni militari! – L’impiegato di finanza: – Non ragionate, ma pagate! – L’uomo di chiesa: – Non ragionate, ma credete! – Non vi è che un solo signore al mondo, che dice: – Ragionate fin che volete e su quel che volete, ma obbedite4. Qui è dovunque limitazione della libertà. Ma quale limitazione è d’impedimento all’illuminismo? Quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve essere libero
1. Latino, lett.: ‘osa sapere!’. 2. Persona il cui compito è quello di fornire
consigli e indicazioni sulle scelte religiose e morali che l’individuo deve compiere. 3. Inteso come popolo, insieme di cittadini, contrapposto al singolo individuo. 4. Si riferisce a Federico II, detto “il Grande”, sovrano di Prussia dal 1740 al 1786.
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FARE STORIA
FARE STORIA Le idee e le conquiste dell’Illuminismo
in ogni tempo, ed esso solo può attuare l’illuminismo tra gli uomini: mentre l’uso privato della ragione può anche più spesso essere strettamente limitato, senza che ne venga particolarmente ostacolato l’illuminismo. Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata. [...] Se ora si domanda: – Viviamo noi
attualmente in un’età illuminata? – Dobbiamo rispondere: – No, bensì in un’età di illuminismo. – Come stanno ora le cose, la condizione in base alla quale gli uomini presi in massa siano già in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, è ancora molto lontana. Ma abbiamo evidenti segni che essi abbiano aperto il campo per lavorare a emanciparsi da tale stato e che gli ostacoli alla diffusione del generale illuminismo o all’uscita da
DOCUMENTO 18
Montesquieu Luigi XIV visto dal persiano Rica
Montesquieu, Lettere persiane, Rizzoli, Milano 1984, pp. 94-95.
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una minorità a loro stessi imputabile diminuiscano a poco a poco.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia quello che, secondo Kant, è il motto dell’illuminismo e spiegane il senso. b. Riassumi per iscritto in che modo, secondo Kant, l’uomo può liberarsi dallo stato di minorità intellettuale e quali ostacoli incontra sul suo cammino. c. Sottolinea le caratteristiche che il filosofo attribuisce alla sua epoca
Montesquieu (1689-1755) pubblicò le Lettere persiane, in forma anonima, nel 1721. Si tratta di un romanzo epistolare, costituito da una raccolta di lettere che due immaginari persiani, Usbek e Rica, inviano da un loro viaggio in Europa e in Francia. Lo scambio epistolare offre l’espediente per pubblicare saggi brillanti ed ironici, nei quali la società e le istituzioni europee e soprattutto francesi sono descritte secondo il punto di vista di esponenti di una cultura diversa da quella europea, costituendo un esempio di relativismo culturale. Montesquieu traccia così un affresco disincantato e critico sull’assolutismo francese, sul fanatismo e il dispotismo, sulle credenze religiose. Il passo che segue è tratto dalla lettera XXIV. Il re di Francia è il principe più potente d’Europa. Non possiede miniere d’oro come il re di Spagna suo vicino, ma ha più ricchezze di lui, perché le ricava dalla vanità dei suoi sudditi, più inesauribile delle miniere. Gli si è visto intraprendere e sostenere grandi guerre senza altri fondi che titoli d’onore da vendere, e per un prodigio dell’orgoglio umano le sue truppe erano pagate, le sue piazzeforti munite, le sue flotte equipaggiate. D’altronde questo re è un gran mago: esercita il suo impero anche sullo spirito dei suoi sudditi, li fa pensare come vuole. Se nel suo tesoro c’è solo un milione di scudi, e gliene occorrono due, gli basta persuaderli che uno scudo ne vale due, ed essi ci credono. Se deve sostenere una guerra difficile, e non ha denaro, non deve far altro che metter loro in testa che un pezzo di carta è denaro, ed essi ne sono tosto convinti. Arriva a far loro credere che può guarirli di ogni male toccandoli1, tanto grande è la forza e il potere che ha sugli spiriti. Quanto ti dico di questo principe non deve stupirti: c’è un altro mago più potente di lui, il quale domina sul suo spirito non meno di quanto egli domini su quello degli altri. Questo mago, che si chiama papa, ora gli fa credere che tre è uguale ad uno, che il pane che mangia non è pane, o che il vino non è vino, e mille altre cose del genere.
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E per tenerlo sempre in esercizio e non fargli perdere l’abitudine di credere, di tanto in tanto gli manda qualche articolo di fede. Due anni fa gli inviò un lungo scritto, chiamato Costituzione2, e minacciando gravi pene volle obbligare questo re e i suoi sudditi a credere in tutto ciò che vi era contenuto. La cosa gli riuscì nei confronti del sovrano, che si sottomise subito dando l’esempio ai suoi sudditi, ma alcuni si rivoltarono e dissero che non volevano credere a nulla di ciò che vi era scritto. Fautrici di questa rivolta, che divide la corte, tutto il regno e le famiglie, sono state le donne. Questa Costituzione vieta loro di leggere un libro che tutti i cristiani dicono venuto dal cielo: è come il loro Corano. [...] Sul re ho udito raccontare cose prodigiose, che stenterai a credere. Si dice che mentre faceva guerra ai suoi vicini, che si erano uniti in lega contro di lui, era circondato nel suo regno da innumerevoli nemici. Si aggiunge che li ha cercati per più di trenta anni e non ne ha potuto trovare uno solo, malgrado lo zelo infaticabile di certi dervisci che godono della sua fiducia3. 1. Questo potere, che la tradizione attribuiva ai
re di Francia, è stato studiato da Marc Bloch in un libro del 1924, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 1973.
2. La bolla Unigenitus, promulgata da papa Clemente XI nel 1713 contro i giansenisti. Proibiva alle donne la lettura della Bibbia. 3. I nemici sono i giansenisti. I dervisci, invece, stanno ad indicare i gesuiti.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia i nomi delle due autorità descritte in questa lettera e sottolineane le relative caratteristiche. Spiega quindi su quali aspetti reali di queste due autorità verteva l’ironia di Montesquieu e per quale motivo. b. Spiega quali opportunità offre a Montesquieu la scrittura di un romanzo epistolare.
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FARE STORIA
DOCUMENTO 19 Voltaire, Dizionario filosofico, Garzanti, Milano 1991, pp. 355-57.
U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
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Voltaire La tolleranza religiosa Voltaire (1694-1778) combatté per tutta la vita un’aspra battaglia in difesa della tolleranza, come dimostrò anche il suo Trattato sulla tolleranza, scritto in occasione del noto caso Calas e pubblicato nel 1763. Nel brano proposto, tratto dal Dizionario filosofico, pubblicato nel 1764, sostiene come la tolleranza sia resa necessaria dall’imperfezione e dalla fallibilità umana. Passa in rassegna esempi diversi, tratti sia dalle dispute teologiche che caratterizzarono i primi secoli del cristianesimo, sia dalle più recenti persecuzioni dei protestanti, per dimostrare l’insensatezza dell’intolleranza in materia religiosa.
Che cos’è la tolleranza? È la prerogativa dell’umanità. Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura. Alla borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat o di Bassora, il ghebro1, il baniano2, l’ebreo, il musulmano, il deicola cinese3, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero trafficano insieme; nessuno di loro leverà il pugnale contro un altro per guadagnare anime alla propria religione. Perché, allora, ci siamo scannati a vicenda quasi senza interruzione, dal primo concilio di Nicea4 in poi? Costantino cominciò col promulgare un editto che permetteva tutte le religioni e finì persecutore religioso. Prima di lui si combattevano i cristiani solo perché cominciavano a costruire un partito entro lo Stato. I Romani permettevano tutti i culti, persino quelli degli Ebrei e degli Egiziani, per i quali avevano tanto disprezzo. E perché Roma li tollerava? Perché gli Egiziani, e gli stessi Giudei, non cercavano di distruggere l’antica religione dell’impero, non correvano la terra ed i mari allo scopo di fare proseliti: pensavano solo a far quattrini. Mentre è indubbio che i cristiani volevano che la loro religione fosse quella dominante. [...] La loro convinzione era che tutta la terra dev’essere cristiana: erano quindi, di necessità, nemici di tutta la terra, finché non fosse convertita. Erano poi nemici gli uni degli altri su tutti i punti controversi della loro religione. Bisogna considerare Gesù Cristo anzitutto come Dio? Coloro che lo negano vengono anatemizzati sotto il nome di ebioniti5; e questi, a loro volta, anatemizzano gli adoratori di Gesù. Alcuni vogliono che tutti i beni siano comuni, come si sostiene che fossero al tempo degli apostoli? I loro avversari li chiamano nicolaiti6 e li accusano dei più infamanti delitti. Altri tendono a una devozione mistica? Vengono
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chiamati «gnostici»7 e perseguitati con furore. [...] Tertulliano, Prassea, Origine, Novato, Novaziano, Sabellio, Donato sono tutti perseguitati dai loro fratelli prima di Costantino; e appena questi hanno fatto trionfare la religione cristiana, ecco gli atanasiani e gli eusebiani8 farsi a pezzi a vicenda; e, da quel tempo, la Chiesa cristiana è inondata di sangue, sino ai giorni nostri. [...] È chiaro che chiunque perseguiti un altro, suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro. Ciò è fuori discussione. Ma un governo, i magistrati, i principi, come si comporteranno con coloro che professano un altro culto? Se si tratta di stranieri potenti, è certo che un principe farà alleanza con loro. Il cristianissimo Francesco I si unirà con i musulmani contro il cattolicissimo Carlo V e darà denaro ai principi luterani di Germania per aiutarli nella loro lotta contro l’imperatore; ma comincerà, secondo l’uso, col far bruciare i luterani nel proprio regno. Li finanzierà in Sassonia per ragioni politiche e, per le stesse ragioni, li brucerà a Parigi. E che accadrà? Le persecuzioni faranno proseliti; e ben presto la Francia pullulerà di neoprotestanti. Dapprima, essi si lasceranno impiccare; poi, si metteranno a impiccare anche loro. Ci saranno guerre civili, poi verrà la notte di san Bartolomeo; e quest’angolo del mondo sarà peggiore di tutto quanto gli antichi e i moderni dissero dell’inferno. Insensati, che non avete mai saputo adorare con animo puro il Dio che vi creò! Sciagurati, che nulla avete imparato dagli esempi dei noachidi9, dei letterati cinesi, dei parsi e di tutti i saggi! Mostri, che avete bisogno delle persecuzioni, come il becco dei corvi ha bisogno delle carogne! Vi è già stato detto, e non c’è altro da dirvi: se presso di voi ci sono due religioni, si scanneranno a vicenda; se ce ne sono trenta, vivranno in pace. Guardate il Gran Turco: è musulmano, e governa dei ghebri, dei ba-
niani, dei cristiani greci, dei nestoriani e dei cattolici romani. Il primo che tenta di suscitare tumulti viene impalato, e tutti vivono tranquilli. 1. Denominazione musulmana dei persiani fedeli
al zoroastrismo.
2. Appartenente ad una casta di commercianti
dell’India.
3. Confuciano. 4. Nel primo concilio di Nicea, nel 325 d.C., fu
condannato l’arianesimo e si posero le basi della dottrina cristiana. 5. Corrente di giudeo-cristiani dei primi secoli, che negavano la divinità di Gesù. 6. Setta ereticale. 7. Lo gnosticismo fu un insieme di dottrine e movimenti spirituali, sviluppatosi in età ellenistico-romana accanto al cristianesimo antico. 8. Dottrine concorrenti, che si svilupparono nell’ambito del cristianesimo antico. 9. Discendenti di Noè.
GUIDA ALLO STUDIO a. Individua ed evidenzia il messaggio principale del documento. b. Seleziona tre esempi che Voltaire porta a supporto del messaggio che vuole trasmettere e descrivili sinteticamente. c. Sottolinea con colori diversi i differenti atteggiamenti assunti nei confronti delle diversità di opinioni dai singoli individui e da coloro che governano.
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FARE STORIA
DOCUMENTO 20 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Con una raccolta di lettere e documenti relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del Settecento, a c. di F. Venturi, Einaudi, Torino 1994, pp. 31; 38-39; 59; 62; 258-59.
Dei delitti e delle pene § XII. Fine delle pene Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento1 del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione2, farà un’impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo. [...] § XVI. Della tortura Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? [...] Egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo3 della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. [...] § XXVII. Dolcezza delle pene Uno dei più gran freni dei delitti non è
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FARE STORIA Le idee e le conquiste dell’Illuminismo
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Cesare Beccaria Pietro • Leopoldo di Toscana Le riforme della giustizia I brani qui riportati sono tratti dal celebre libro di Cesare Beccaria (1738-1794) Dei delitti e delle pene, del 1764. L’autore chiarisce le sue motivazioni contro la tortura e la pena di morte ed esprime le sue argomentazioni a favore di pene miti, ma certe. Da queste pagine emerge con chiarezza la visione contrattualistica di Beccaria, per cui l’individuo concede allo Stato solo la minima parte della sua libertà e non certo il diritto a ucciderlo; in secondo luogo l’idea che la certezza delle pene sia assai più efficace della loro crudeltà; in terzo luogo che il fine delle leggi sia la felicità pubblica. Segue l’introduzione alla riforma del diritto penale (1786) di Pietro Leopoldo, granduca di Toscana dal 1765 al 1790, con cui si modernizzavano alcuni aspetti del metodo inquisitorio, si abolivano la tortura e la pena di morte. la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità. [...] § XXVIII. Della pena di morte Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime proporzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo fra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, non si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere.
Riforma della legislazione criminale toscana Fino al nostro avvenimento al trono di Toscana riguardammo come uno dei nostri principali doveri l’esame e riforma della legislazione criminale [...]. Con la più grande soddisfazione del nostro paterno cuore abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione
delle pene, congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le ree azioni, e mediante la celere spedizione4 dei processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri delinquenti, in vece di accrescere il numero dei delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci, e quindi siamo venuti nella determinazione di non più lungamente differire la riforma della legislazione criminale, con la quale, abolita per massima costante la pena di morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla società nella punizione dei rei, eliminato affatto5 l’uso della tortura, la confiscazione dei beni dei delinquenti come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto, e sbandita dalla legislazione la moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di lesa maestà, con raffinamento di crudeltà inventati in tempi perversi, e fissando le pene proporzionate ai delitti, ma inevitabili nei rispettivi casi, ci siamo determinati a ordinare con la pienezza della nostra suprema autorità quanto appreso. 1. Strumento. 2. Si intende la proporzione fra reato e pena. 3. Lo strumento di prova. 4. Conclusione. 5. Del tutto.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia per ogni voce del testo di Cesare Beccaria le frasi che meglio sintetizzano, secondo te, il pensiero dell’illuminista. b. Spiega per iscritto cosa intende Beccaria con la frase «la pena di morte non è un diritto» descrivendo sinteticamente il suo pensiero a questo riguardo. b. Sottolinea con colori diversi i provvedimenti che, nelle parole del granduca di Toscana Pietro Leopoldo, si sono rivelati davvero efficaci per ridurre sensibilmente i crimini. d. Evidenzia le parole che descrivono sinteticamente i princìpi della riforma operata dal granduca di Toscana.
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Lo studio dello storico Antonio Trampus (nato nel 1967) analizza come l’aspirazione alla felicità sia divenuta un diritto, tale da essere inserito nella Costituzione americana. Proprio con l’Illuminismo si pose un nuovo obiettivo: trasformare quest’aspirazione in una realtà politica, o almeno creare le condizioni perché ciò potesse avvenire, in un rapporto mutato fra privato e pubblico, fra individuo e società, come è rivelato dal pensiero di Voltaire, analizzato in questo passo. felicità che, se non li appaga, almeno rende loro tutto più sopportabile. Questa visione, tutto sommato ottimistica, viene sradicata dal suddetto terremoto di Lisbona, sul quale, come già accennato, scrive nel 1756 un celebre poema che dà voce al dubbio e alle inquietudini: «Ebbene sì, ammettiamolo, il male è sulla terra, / Il suo oscuro principio a noi è sconosciuto / Dall’autore del bene il male ci è venuto?». Dinanzi a questo interrogativo «io abbandono Platone / io rigetto Epicuro / Bayle ne sa più di tutti: io vado a consultarlo: / con la bilancia in mano, mi insegna a dubitare». L’uomo si annichilisce quando il male si diffonde per ogni dove e quando la stessa terra, su cui poggia i piedi, si rivela insicura e pericolosa: «Atomi tormentati sopra un mucchio di fango / Che la morte si ingoia, la cui sorte si gioca, / Ma atomi pensanti, atomi che hanno occhi / Guidati dal pensiero a misurare i cieli; / In seno all’infinito lanciamo il nostro essere, / Senza vederci un attimo, senza di noi sapere. / Questo mondo è teatro e d’orgoglio e d’errore / Pieno di disgraziati che parlano di felicità»1. L’impegno di Voltaire contro il male, contro la superstizione e contro la violenza diventa quindi la difesa dell’ottimismo della ragione, che però viene condotta attraverso un’analisi dell’infelicità e della sofferenza. [...] L’obiettivo di Voltaire è però più elevato: aprire il capitolo dell’infelicità,
per lui, significa riflettere su ciò che è ingiusto e sull’origine del male. Finché gli uomini avevano dinanzi a loro il dogma del peccato originale e un’idea del bene intimamente connessa allo spirito di religione disponevano anche di una spiegazione plausibile della rarità o dell’assenza di felicità sulla terra. Ma una volta che il processo di secolarizzazione è stato avviato, mentre l’uomo è lasciato con se stesso a seguire i propri sensi e desideri, servirebbe un’altra guida altrettanto sicura, che i filosofi però non sono in grado di indicare. [...] Si apre un nuovo scenario: la felicità individuale non dipende più dal carattere naturale, ma dal modo in cui il singolo si rapporta con la società e i suoi bisogni nel cui soddisfacimento si sente appagato. Questo diventa il nuovo significato della parola virtù: «la virtù e il vizio, il bene e il male morale sono [...] in ogni paese quel che è utile o nocivo per la società», scrive Voltaire
1. Voltaire, Poema sul disastro di Lisbona, trad.
it., in Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe: l’Illuminismo e la filosofia del disastro, a c. di A. Tagliapietra, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 1-22.
PALESTRA INVALSI 1. Il brano proposto è tratto da... [ ] a. Una rivista scientifica. [ ] b. Un celebre poema del XVIII secolo. [ ] c. Un saggio storiografico. [ ] d. Una voce del Dizionario filosofico. 2. Un messaggio importante del testo è che... [ ] a. La felicità diventa un criterio di misura del rapporto tra l’uomo e la società. [ ] b. La felicità privata è più importante della felicità pubblica. [ ] c. La felicità umana dipende da una visione provvidenzialistica. [ ] d. La felicità individuale è l’esito di un processo di secolarizzazione. 3. La modernità può essere «fonte di angosce» perché... [ ] a. Si verificano catastrofi naturali imprevedibili. [ ] b. Risulta ormai priva di utilità una visione provvidenzialistica di tipo religioso. [ ] c. Gli uomini sono condizionati dal dogma del peccato originale. [ ] d. Diventa impossibile raggiungere la felicità pubblica.
L SI VA
I RA N
I RA N
La mattina del 1° novembre 1755 un terremoto violentissimo, oggi valutabile intorno al nono grado della scala Richter, colpisce Lisbona, città di 275.000 abitanti e capitale del Portogallo. Il mare si ritira lasciando le rive e i moli a secco, comprese le barche ormeggiate; poco dopo un’onda alta 15 metri si abbatte sulla città, e nelle ore successive scoppiano anche numerosi incendi. L’epicentro è proprio vicino alla costa, e il sisma si espande interessando un’area di undici milioni di chilometri quadrati, colpisce il Marocco, distrugge Algeri e Marrakech, viene avvertito in Olanda e in Svezia, in tutta l’Africa settentrionale, nelle Antille e a Barbados. [...] Dinanzi alle raffigurazioni di Lisbona, simbolo di uno dei paesi più impegnati nella difesa del cattolicesimo, ormai rasa al suolo, e ai racconti di gazzette e di viaggiatori, i protagonisti dell’età dei Lumi sono costretti a ripensare alla felicità in modo nuovo. Avvertono l’irrimediabile precarietà dell’esistenza terrena e i limiti della volontà umana. Di fronte a tanto dolore come si può avere fiducia nella Provvidenza? E come si può credere nella potenza rigeneratrice della natura, che appare invece come una matrigna? Come può l’uomo impegnarsi nella ricerca della felicità se poi tutta la sua esistenza è così precaria ed instabile? La catastrofe insegna all’uomo del Settecento, ormai rassegnato all’inutilità di una visione provvidenzialistica, che anche l’agire umano incontra dei limiti dinanzi all’imprevedibilità della natura. [...] La modernità, vista come esito di questo lungo processo di secolarizzazione, può essere quindi fonte di angosce e l’interprete più lucido è Voltaire, intellettuale celebrato e discusso, apprezzato e invidiato, coscienza critica della cultura francese. La sua irrequietezza lo porta già negli anni Quaranta a immaginare una separazione netta tra la fiducia che si deve riporre in un ordine razionale della natura e l’esistenza casuale degli uomini, impegnati continuamente in una ricerca della
A. Trampus Il diritto alla felicità
PALEST
A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 151-61.
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STORIOGRAFIA 21
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U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
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FARE STORIA
FARE STORIA Le idee e le conquiste dell’Illuminismo
sin dal 1734. Nel Dizionario filosofico lo rispiega in modo ancora più netto: «che cos’è la virtù? Far del bene al prossimo [...] Noi viviamo in società; dunque non c’è di veramente buono per noi che ciò che fa il bene della collettività. Un solitario sarà sobrio, pio, vestirà un cilicio: ebbene, sarà santo, ma io lo chiamerò virtuoso solo quando avrà compiuto qualche atto di virtù di cui gli altri uomini avranno tratto un giovamento»2.
La felicità diventa quindi un criterio per misurare il rapporto tra l’uomo e la società, per superare i limiti dell’egoismo e dell’interesse individuale, soprattutto dinanzi alle grandi trasformazioni sociali ed economiche che si stanno affacciando. Benevolenza, assistenza e carità conflui scono in una dimensione del «fare del bene» che punta a collegare l’amor proprio con il senso della solidarietà,
STORIOGRAFIA 22
D. Outram Illuminismo e monarchia
D. Outram, L’Illuminismo [1995], il Mulino, Bologna 1997, pp. 141-46.
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con il progresso civile, con un nuovo concetto del bene comune superiore alla somma degli interessi privati. L’uomo non può trovare la propria felicità al di fuori di una società felice, giusta e bene ordinata e ciò significa porre in maniera nuova il rapporto fra felicità privata e felicità pubblica. 2. Voltaire, Dizionario filosofico, trad. it., a c. di R. Naves, II, Rizzoli, Milano 1979, pp. 421-42.
La cultura illuminista ridimensionò radicalmente l’idea della monarchia, ma la realizzazione delle politiche illuminate dipese strettamente dalla volontà dei monarchi. Su questo apparente paradosso riflette, in questo brano, la storica Dorinda Outram (nata nel 1949), autrice di un saggio sull’Illuminismo. La studiosa sottolinea il passaggio da una monarchia fondata sul diritto divino a una basata su un contratto tra governanti e sudditi, il dissolvimento del carattere «proprietario» dell’autorità regia e la separazione tra gli interessi privati del monarca e quelli del paese. Ma non manca anche di evidenziare come la sorte dei programmi di riforma fosse strettamente legata alle decisioni del monarca, detentore del potere esecutivo in modo ancor più saldo rispetto al passato. In un quadro più ampio, possiamo anche affermare che l’illuminismo pose interrogativi di fondo sulla monarchia, la forma di governo più comune nell’Europa del XVIII secolo. Alla fine del secolo è certamente possibile scorgere anche un’evoluzione della concezione che i monarchi avevano di se stessi. Questo è un punto importante da capire, e non solo per la sfida radicale che venne portata alla monarchia in Francia dopo il 1789, ma anche in quanto sia negli stati più grandi che in quelli più piccoli l’attuazione di politiche illuminate, nonostante la loro razionalità e universalità, continuava a dipendere dalla sopravvivenza fisica o dalla volontà umana del monarca. In ogni momento la morte o il capriccio potevano vanificare piani di riforma di ampio respiro. [...] Alla fine del secolo erano in via di erosione sia la legittimità religiosa del potere monarchico – la convinzione che la monarchia in generale e ogni singolo monarca fossero agenti di Dio in terra – che gli elaborati cerimoniali sviluppati nel XVIII secolo per accentuare la distanza tra il sovrano e i comuni mortali. Luigi XVI di Francia, Giuseppe II d’Austria e Federico II di Prussia fecero tutti a meno di buona parte di questo cerimoniale. Come disse Giuseppe, egli era più uno studente che un conquistatore. Luigi XVI senza dubbio conservò un concetto
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della sanzione divina della monarchia e della sua legittimazione attraverso la chiesa cattolica, ma fu proprio questo che lo mise in conflitto con l’opinione dominante nel regime che governò la Francia dopo il 1789. Secolarizzandosi, l’autorità regia perdeva anche il suo carattere «proprietario». Pochi credevano come Luigi XIV di avere sui loro territori un titolo di proprietà analogo a quello della gente comune. Non si può evitare di pensare che a queste novità avesse contribuito almeno in parte il modo in cui l’illuminismo aveva impostato la riflessione sulla legittimazione dell’autorità politica, giungendo spesso a risposte che non assomigliavano granché alle forme assolutistiche tradizionali. Locke, ad esempio, aveva inaugurato il secolo con i suoi Two Treatises of Government [Due trattati sul governo] in cui sosteneva che non era il diritto divino a legittimare il governo civile bensì un contratto tra governanti e sudditi. Col passare degli anni cominciò anche a farsi strada l’idea che gli esseri umani detenessero sin dalla nascita dei «diritti» inalienabili che i governi non potevano ignorare, anche se l’applicazione delle richieste di riconoscimento di tali «diritti» al di là delle barriere del sesso e della razza era ancora ritenuta assai problematica, e pertanto il concetto stesso di diritti innati non venne porta-
to alle sue logiche conseguenze. La monarchia cominciò a essere vista perciò in modo alquanto nuovo: l’illuminismo e la giustificazione del «dispotismo», il governo cioè di uno solo senza alcun freno legale e senza riguardo per il bene dei sudditi, erano realmente incompatibili. Fu per questa ragione che alcuni principi illuminati come, ad esempio, Pietro Leopoldo di Toscana e Federico II di Prussia cominciarono ad elaborare costituzioni che avrebbero reso esplicita la natura del contratto tra governante e governati e lo avrebbero stabilizzato al di là della persona del singolo monarca. Le idee illuministiche [...] veicolavano messaggi propri attraverso i quali nel Settecento sarebbe mutata sensazionalmente la percezione della natura stessa della monarchia in alcune regioni d’Europa, e questo agli occhi sia dei sudditi che degli stessi monarchi. Una parte di questa evoluzione si produsse per effetto di tensioni interne al rapporto tra monarchia e programmi illuministici di riforma. Poiché il potere esecutivo supremo era ancora per lo più nelle mani dei sovrani, la sorte dei programmi di riforma continuava a dipendere dalle loro decisioni, ed essi potevano far mancare il sostegno a tali politiche da un momento all’altro. La morte di un governante o la sua partenza per assumere la guida di un al-
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FARE STORIA
tro stato poteva mettere in discussione interi programmi di riforma, come accadde, ad esempio, in Toscana quando il granduca Pietro Leopoldo si trasferì a Vienna nel 1790 per succedere al fratello Giuseppe II quale imperatore d’Austria. La volontà e la mortalità dei sovrani ponevano dunque molti problemi a quei funzionari e a quei settori delle élite impegnati in programmi di riforma che avevano validità solo se proiettati nel lungo periodo. Ad un livello concettuale, le premesse di razionalità e uniformità su cui si basavano molte politiche illuminate e cameraliste1 erano in contrasto con la natura intrinsecamente personale del coinvolgimento del sovrano. [...] In conclusione: alla fine del secolo, la maggior parte degli stati europei più importanti, nonché molti di quelli più piccoli, erano impegnati in programmi di riforma che spesso comportavano sostanziali novità per i gruppi d’interesse, quali le corporazioni, gli organi legali sovrani, le istituzioni rappresentative degli aristocratici, le giurisdizioni legali che gli aristocratici detenevano sui loro fittavoli, e spesso gli interessi economici e giurisdizionali della chiesa cattolica. Questi programmi comportavano anche un maggiore intervento delle monarchie nella vita sociale dei loro sudditi, attraverso strumenti quali la promozione dell’igiene pubblica, l’istituzione di sistemi d’istruzione primaria e la regolamentazione dell’economia. Tali programmi avevano l’obiettivo di produrre una popolazione sana e colta in grado di assicurare un consenso razionale alle misure della
U1 L’Europa del ’700: poteri, società, cultura
corona. Molti di essi furono messi in moto dalle spinte riformistiche che si facevano sentire in tutti gli stati e che derivavano dalle pressioni crescenti della competizione globale. Molti comportavano mutamenti sostanziali ed erano legittimati da idee illuministiche come la benevolenza e il dovere dello stato di ottenere un consenso razionale alle proprie politiche attraverso l’educazione. Nessuno mirava a incentivare sostanzialmente la mobilità sociale o a trasferire fette consistenti del potere. Questi «limiti della riforma» sono stati ampiamente dibattuti: il fatto che i sovrani illuminati fossero riluttanti a prendere in considerazione innovazioni sostanziali e quindi a rischiare turbative sociali non sminuisce il loro debito nei confronti dell’illuminismo; pochi pensatori illuministi si spinsero più oltre. Alla fin fine, l’illuminismo pose grossi problemi alle monarchie e fu di grande importanza per le riforme. I suoi programmi di riforma puntavano logicamente a una dissociazione dei fini personali del monarca dalle necessità dello stato: eventualità che sarebbe sembrata una bestemmia in una fase precedente dell’assolutismo caratterizzata dal motto «L’état c’est moi»2. L’illuminismo contribuì anche alla nascita di importanti nuovi fattori quali l’«opinione pubblica», che interveniva nel processo di manipolazione sociale e politica controllato dalla monarchia. Esso diede ai sudditi nuove ispirazioni e nuove aspettative di cambiamento e di riforma che si dimostrarono utili se adeguatamente mobilitate dai sovrani, ma difficili da controllare in regimi in
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cui la rappresentanza istituzionale dei ceti non privilegiati era insufficiente. Una volta messa in moto, la «critica» era difficile da arrestare. In ultima analisi, l’illuminismo e il dispotismo, il potere assoluto del re, erano difficili da conciliare. 1. Insieme delle dottrine relative
all’amministrazione dello Stato e al benessere generale. 2. «Lo Stato sono io».
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia le frasi che spiegano in che modo l’Illuminismo incise sulla monarchia e sul modo di concepirla. b. Spiega quale rapporto Dorinda Outram individua fra il riconoscimento di diritti inalienabili dell’uomo e il dispotismo. c. Spiega quali furono i limiti delle riforme portate avanti dai sovrani illuminati e quali effetti ebbero le critiche degli illuministi nei loro confronti.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Dopo aver letto tutti i documenti e i brani degli storici, scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente dal titolo La cultura dell’Illuminismo, diviso nei seguenti paragrafi: • Il progetto illuminista e le sue caratteristiche principali • Strumenti e canali di diffusione • I rapporti con i poteri costituiti. Lo storico racconta 2. Scrivi un testo argomentativo dal titolo Il movimento illuminista e le sue battaglie. Prima di procedere con la scrittura, seleziona i testi storiografici utili alla tua argomentazione e individua per ognuno di essi delle parole o frasi chiave. Utilizza queste ultime come guida per il tuo lavoro citando il brano da cui le hai estrapolate e arricchendo la trattazione con esempi diretti.
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U2 Civiltà e mercati oltre l’Europa CHIAVE DI LETTURA
Caratteri e geografia delle civiltà Il termine “civiltà” si diffonde nel ’700, a partire dalle riflessioni che viaggiatori, filosofi, uomini di religione europei compiono venendo a contatto con gruppi sociali diversi da quelli dell’Europa cristiana. Le civiltà di cui trattiamo in questa unità corrispondono ai grandi imperi posti a oriente dell’Europa, ma anche a quelle parti del mondo, le Americhe prima, l’Australia in seguito, che, come colonie, si avviavano a diventare varianti della civiltà europea. L’universo islamico e l’Occidente atlantico A Oriente l’Impero ottomano e quello persiano dominano grandi spazi definiti da conflitti secolari; più a est, nell’Impero moghul, la religione islamica dei dominatori si intreccia e si scontra con le tradizioni indiane. È la dimostrazione del dinamismo di un islam che, seppur privo di una guida centralizzata, era tuttavia capace di diffondersi lungo le linee dei commerci e convivere con pratiche religiose politeiste e animiste. Nell’Estremo Oriente, Cina e Giappone presentano ancora un’organizzazione politicoterritoriale di tipo feudale, ma con un dinamismo economico e commerciale che si incrocia con gli interessi europei. Spagna, Portogallo, Francia, Gran Bretagna, Olanda sono invece le potenze marittime dell’Occidente atlantico. Motore dell’espansione coloniale verso est, e soprattutto verso ovest, le potenze dell’Occidente atlantico
GLI EVENTI
sono protagoniste di una serie quasi continua di conflitti, nel cui ambito si venne costruendo l’egemonia europea sugli oceani. L’economia della schiavitù Un elemento strutturale dell’espansione europea fu l’impiego degli schiavi neri africani trasferiti con la forza oltreoceano. Iniziata su larga scala nel ’500, la tratta degli schiavi durò fino oltre la metà dell’800, consentendo grazie all’afflusso costante di manodopera la diffusione del nuovo sistema produttivo delle piantagioni. I prodotti delle piantagioni – zucchero di canna, tabacco, caffè, cotone – divennero oggetto della domanda europea, trasformando profondamente i consumi dell’Europa. Le trasformazioni dell’ecosistema La colonizzazione dei nuovi mondi ha effetti devastanti sulle popolazioni indigene, vittime non solo di uno sfruttamento durissimo ma anche dell’invasione di virus e batteri. Tuttavia la diffusione di piante foraggere europee incide positivamente sull’ambiente, trasformando zone aride in pascoli sterminati atti all’allevamento degli animali europei, come i bovini e i cavalli. Così, nel ’600 e nel ’700, mentre i commerci assumevano un carattere globale, prese avvio anche quello che oggi viene definito imperialismo ecologico: microbi, piante, animali e uomini furono trasferiti da un continente all’altro modificando gli ambienti naturali che li avrebbero ospitati.
Ź Il colonnello inglese James Toddin viaggio attraverso il Rajastan, fine XVII sec. 1600-1868 Gli shogun Tokugawa in Giappone
1526 In India Babur fonda l’Impero moghul
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1644-1912 Dinastia Qing in Cina
1683 Fallisce l’assedio ottomano a Vienna
1665 In India la East India Company acquisisce anche il controllo di Bombay
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1713-50 La Gran Bretagna gestisce la tratta degli schiavi neri verso le colonie spagnole (asiento de negros)
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1763 Il Canada passa sotto il controllo inglese 1770 Cook esplora le coste orientali del continente australiano
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C4 Imperi e regni in Asia e in Africa EXTRA ONLINE
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Personaggi Matteo Ricci, un gesuita in Cina
Laboratorio dello storico Come fare storia dell’Africa
Civiltà a confronto LA DISTRIBUZIONE DELLA POPOLAZIONE Non conosciamo con precisione il numero di uomini che vivevano sul pianeta nel ’600 e nel ’700. Per tutto il periodo precedente alle rilevazioni statistiche, divenute uno strumento di indagine soltanto nell’800, storici e demografi riescono a elaborare solo stime piuttosto approssimative, fondate su ipotesi e dati parziali. Secondo i calcoli demografici rielaborati dallo storico francese Fernand Braudel, intorno al 1680 in Europa non sarebbero vissuti più di 100 milioni di persone, in Asia tra 240 e 360, in Africa tra 35 e 50, in America non più di 10 e in Oceania, probabilmente, meno di 2. Europa e Cina avrebbero avuto una popolazione pressoché uguale, pari ciascuna a circa un quinto dell’intera umanità. Inoltre, è possibile affermare con buona verosimiglianza che tra il 1300 e il 1800 la popolazione mondiale sia perlomeno raddoppiata, malgrado crisi economiche, epidemie e mortalità di massa. Come nel mondo attuale, gran parte della popolazione era concentrata in una piccola parte delle terre emerse: il 70% degli uomini, infatti, viveva in circa 10 milioni di km2, su un totale di 150 milioni. Le zone più popolate corrispondevano alle civiltà più evolute: l’Europa, i paesi islamici, l’India, l’Indocina, l’Indonesia, la Cina, la Corea, il Giappone. I DIVERSI VOLTI DELL’AGRICOLTURA IN ETÀ MODERNA Queste regioni erano le più progredite perché da secoli vi si praticava un’agricoltura efficiente, che poteva contare su aratri e animali domestici, stimolo a sua volta per lo sviluppo delle città, dei mezzi di trasporto, degli scambi commerciali e delle manifatture. Al di fuori di questo ristretto gruppo di popolazioni, che l’etnografo Gordon
LO SPAZIO DELLA STORIA
CIVILTÀ, CULTURE E POPOLI PRIMITIVI INTORNO AL 1500
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culture poco evolute: contadini con zappa culture progredite civiltà dense, con aratro cacciatori, pescatori, raccoglitori nomadi e allevatori
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W. Hewes ha circoscritto a 13 civiltà sulle 76 classificate nel mondo intorno al 1500, c’erano altri popoli per molti aspetti progrediti, come gli Aztechi e gli Inca in America o i pigmei e i popoli del Congo e della Guinea in Africa, ma legati a tecniche agricole arretrate e spesso privi delle conoscenze sulla metallurgia del ferro. Gran parte del pianeta, infatti, era abitato da popolazioni con un’agricoltura primitiva, dove i contadini continuavano a lavorare esclusivamente con la zappa – come in gran parte del continente americano –, o da comunità costituite soltanto da nomadi e allevatori – come nella zona sahariana in Africa o nella regione siberiana in Asia – o, in altri casi, da tribù di cacciatori-raccoglitori – come in Australia. Ma il divario tecnologico aveva effetti diretti sulla produzione agricola e, di conseguenza, sulla maggiore o minore crescita demografica di alcune aree del pianeta: dove si produceva più cibo, infatti, era possibile alimentare più uomini. Nelle regioni più sviluppate l’allevamento era il naturale complemento dell’agricoltura, mentre altrove costituiva la principale e pressoché unica attività economica: allevatori e nomadi dominavano in particolare l’Asia settentrionale e centrale, l’interno della penisola arabica, l’Africa sahariana e gran parte di quella orientale. Esistevano, però, in età moderna, anche zone del pianeta dove agricoltura e allevamento non erano ancora conosciuti o praticati: l’Australia, una parte dell’Africa meridionale, una zona cospicua dell’America meridionale e le regioni più a nord dell’America settentrionale. Qui abitavano tribù di cacciatori, pescatori e raccoglitori, che da secoli vivevano nelle stesse condizioni, senza aver raggiunto alcun significativo progresso tecnico nelle proprie attività. CITTÀ E METROPOLI OLTRE L’EUROPA Come nel passato, anche in età moderna la stragrande maggioranza dell’umanità continuava a vivere nelle campagne: ben oltre il 90%, secondo stime approssimative. Il continente più urbanizzato del pianeta era l’Europa, con una fitta rete di capitali e città di diversissime dimensioni, che nel complesso ospitavano percentuali significative del totale degli europei. Nel ’600, per esempio, in Olanda, il paese più urbanizzato, oltre metà della popolazione viveva nelle città, mentre in Russia, il paese più rurale, i residenti nelle città non arrivavano al 3%. Centri urbani, grandi o piccoli, esistevano però anche in altri continenti, soprattutto in Asia. Nei paesi musulmani dominavano alcune città enormi, come Baghdad e Il Cairo, cresciute a dismisura in quanto sedi dell’autorità politica. Istanbul, per esempio, nel ’500 contava già 700 mila abitanti, una cifra che Londra raggiungerà solo nella seconda metà del ’700. Città imperiali o regali, enormi e parassitarie, erano presenti anche STORIA IMMAGINE Antoine de Favray, Veduta di Costantinopoli XVIII sec. [Pera Museum, Istanbul] Tra le più grandi e importanti città musulmane vi è Istanbul, che nel ‘500 coantava già 700 mila abitanti. Al confine tra l’Europa e l’Asia, è infatti divisa dallo stretto del Bosforo come la ritrae in questa veduta l’artista francese Antoine de Favray. Sulla destra si riconoscono la chiesa di Santa Sofia, trasformata in moschea nel 1453, e la Moschea Blu, contraddistinta dalla presenza di sei minareti e costruita a partire dal 1609.
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U2 Civiltà e mercati oltre l’Europa
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in India, come Delhi, e in Cina, come Pechino. Quest’ultima, alla fine del ’700, avrebbe ospitato 3 milioni di abitanti – mezzo secolo dopo Londra superava appena i 2.300.000. Altrove, nessuna città si avvicinava a queste dimensioni. Le attuali grandi metropoli statunitensi contavano poche migliaia di abitanti ancora all’inizio del ’700: Boston 7000, Philadelphia 4000, New York 3900. LA SUPREMAZIA EUROPEA Nella storia della civiltà occidentale – quella che meglio conosciamo e che più siamo abituati a studiare – l’Europa occupa un ruolo centrale. Ma proprio l’abbandono del criterio eurocentrico può consentire una migliore comprensione delle diversità e specificità della stessa storia europea. In una valutazione comparativa su scala planetaria dei rapporti di forza – espressi in termini di popolazione, risorse e ricchezze – l’Europa del ’600 apparirebbe infinitamente più potente delle Americhe, ma forse inferiore ai grandi imperi asiatici, mentre si può dire che, in termini quantitativi, già alla fine del ’700 l’Europa era certamente il continente più potente e più ricco. Le basi di quell’egemonia e di quella centralità europee alle quali ci ha abituato la storia del tardo ’700 e dell’800 si posero proprio fra ’600 e ’700: un dominio durato poco più di un secolo, dagli inizi dell’800 alla prima guerra mondiale, e contrassegnato dall’egemonia coloniale inglese e, in minore misura, francese. Nel ’900, dopo la prima guerra mondiale, altre potenze saranno protagoniste della scena internazionale: potenze non europee, come Stati Uniti e Giappone, o solo in parte europee, come l’Unione Sovietica. CAPITALISMO E SVILUPPO TECNOLOGICO Le origini di questa supremazia europea stanno in una diversità legata alle strutture economiche, ai diritti di proprietà e allo sviluppo delle tecnologie. In Europa mercanti e artigiani non furono ostacolati nelle loro attività; inoltre, la tutela dei diritti di proprietà garantiva l’accumulo e la possibilità di godimento delle ricchezze, costituendo
STORIA IMMAGINE ź Miniatura dalle Chroniques de Hainaut di Jacques de Guyse XV sec. [ms Français 20127, Bibliothèque Nationale, Parigi]
Poggiati sul banco tra gli strumenti del mestiere del copista – come il taglierino per affilare la penna – nella miniatura quattrocentesca, gli occhiali diventano nell’autoritratto di Chardin parte integrante del viso dell’artista che ne fa uso nella sua attività.
Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Autoritratto con occhiali 1775 [Musée du Louvre, Parigi] Ÿ
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così un incentivo al risparmio e agli investimenti. La possibilità di esercitare una proprietà piena e assoluta sui beni mobili e immobili era in stretto rapporto con lo sviluppo di un mercato libero e competitivo, e con le strutture specializzate a operare in esso, come le banche e le compagnie commerciali. Questi aspetti, che erano specifici dell’Occidente europeo, non avevano le stesse possibilità di sviluppo nei grandi imperi asiatici (India, Cina e Impero ottomano), dove la proprietà non era mai piena, il possesso dei beni era sottoposto al mutevole gradimento del sovrano e la ricchezza accumulata o tesaurizzata rischiava di essere confiscata. La superiorità dell’Europa rispetto al resto del mondo era molto evidente anche nel campo dello sviluppo tecnologico: nello sfruttamento dell’energia dell’acqua e del vento con le ruote idrauliche e i mulini; negli armamenti e nell’impiego della polvere da sparo in grani, molto più potente di quella conosciuta in Asia; nell’arte della navigazione. Questa superiorità tecnologica si estendeva ad altri settori solo apparentemente di secondaria importanza, come quello dell’ottica: in realtà gli occhiali consentivano quasi di raddoppiare – risolvendo il problema della presbiopia – la vita lavorativa di chiunque svolgesse un’attività a distanza ravvicinata – dagli artigiani di precisione ai copisti. E gli occhiali furono un monopolio europeo per cinque secoli. Più significativo ancora fu il monopolio europeo nella fabbricazione degli orologi, anch’esso durato ben cinque secoli.
Storiografia 29 D.S. Landes, I cinesi e l’orologio, p. 164
LA CHIUSURA DEGLI IMPERI ASIATICI I grandi imperi asiatici furono sostanzialmente ostili e chiusi di fronte alle forme di organizzazione economica e alle tecnologie occidentali con le quali ebbero occasione di entrare in contatto. La curiosità non si trasformò in rivalità ed emulazione. Il mondo orientale aveva espresso forme di civiltà autosufficienti e si considerava superiore ai “barbari” venuti dal lontano Ovest. Nel caso dell’Impero ottomano, per esempio, il confronto diretto con la cultura occidentale, indotto da fattori di contiguità geografica e secolare conflittualità, fu ostacolato in nome della difesa dell’identità culturale musulmana e del sistema di potere e di governo che da essa scaturiva.
Storiografia J. Stoye, 12 settembre 1683: Vienna è salva
Il declino dell’Impero ottomano 2 e la parabola safavide
Storiografia A. Wheatcroft, Dalla guerra all’alleanza: gli sviluppi del confronto tra turchi e austriaci Eventi chiave L’assedio di Vienna e la fine dell’espansionismo ottomano, p. 116 Fare storia L’irresistibile fascino dell’Oriente ottomano, p. 165
Il 12 settembre 1683 il re polacco Jan Sobieski lanciò la sua cavalleria giù dalle pendici del Kahlenberg, una collina che sovrasta Vienna, rompendo l’assedio dei turchi che durava dall’estate di quell’anno. È la battaglia che più di ogni altra simboleggia l’inizio del declino dell’Impero ottomano e la fine dell’espansione turca verso occidente. Tra la fine del ’600 e la fine del ’700 l’offensiva del grande Impero turco contro l’Europa balcanica subì infatti una definitiva battuta di arresto. Iniziò allora una crisi lenta e profonda non arginata dai pochi tentativi di riforma dell’organizzazione politica e amministrativa. Una crisi destinata a durare e poi ad accentuarsi fino alla rivoluzione dei Giovani turchi del 1908. Il collante dell’Impero, oltre alla comune confessione musulmana, era rappresentato dall’esercito e dal sistema fiscale che tuttavia non garantivano più il controllo uniforme dei vastissimi territori dell’Impero. SPAZI E CONFINI DELL’IMPERO L’Impero ottomano rappresentava la parte più estesa, ma anche la più frammentata, dell’ampio universo islamico che si era
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U2 Civiltà e mercati oltre l’Europa
LO SPAZIO DELLA STORIA
L’IMPERO OTTOMANO (1683-1800)
8 Podolia (alla Polonia)
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perdite territoriali (1683-1800) Impero ottomano nel 1800
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Baghdad
Gerusalemme
Il Cairo
costituito a partire dal VII secolo nel Vicino Oriente e nell’Africa settentrionale. I suoi confini si estendevano nel ’600 dall’Algeria all’Egitto, alla Palestina, alla Siria, all’Anatolia e poi nei Balcani dalla Grecia all’Ungheria, lungo le coste settentrionali del Mar Nero, nel Caucaso per scendere a sud-est fino alla Persia e a sud all’Iraq e all’Arabia dei luoghi santi dell’islam, Medina e La Mecca [Ź _8]. Questo complesso sistema territoriale aveva il suo centro politico, culturale e amministrativo nella grande città di Istanbul (Costantinopoli), dove risiedeva il sultano.
millet I millet erano le comunità religiose riconosciute dall’amministrazione ottomana entro i confini dell’Impero e dotate di un certo grado di autonomia. Furono istituiti affinché gli interessi dei capi religiosi delle comunità convergessero con quelli del governo centrale, e nacquero in primo luogo per organizzare chi non era di fede musulmana – greco-ortodossi, armeni, ebrei –, sebbene in seguito il diritto di organizzarsi in millet sia stato esteso anche ai musulmani. Ai capi religiosi veniva concesso un potere molto ampio e maggiore di quello che avrebbero avuto negli Stati cristiani. Questo sistema, istituito nel ’400, funzionò fino a metà dell’800.
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IL SISTEMA DI GOVERNO Dato il progressivo abbandono dell’esercizio diretto del potere da parte del sultano, il governo era guidato di fatto dal gran visir, una sorta di primo ministro o gran cancelliere. I gran visir provenivano dai devšırme, un ceto formato da sudditi strappati da piccoli alle famiglie cristiane e convertiti con la forza all’islamismo: educati nelle scuole di palazzo, i devšırme entravano in genere come soldati nel corpo militare dei giannizzeri, mentre i più capaci diventavano alti funzionari dello Stato. I gran visir non possedevano il prestigio che i diversi gruppi dell’Impero, in particolare l’aristocrazia turca, riconoscevano invece al sultano e quindi il loro potere si fondava sulla capacità di destreggiarsi tra gli intrighi di palazzo e di ottenere successi militari. Fu tuttavia sempre più difficile per il governo di Istanbul affermare la propria volontà, soprattutto sulle province più lontane. L’indebolimento del governo di Istanbul favoriva il rafforzamento delle periferie dell’Impero dove i governatori locali tendevano a costituirsi in dinastie autonome, sempre meno disposte a versare al centro il frutto dell’imposizione fiscale e a rispondere agli obblighi militari. Il contrasto tra centro e periferia – soprattutto con l’Algeria, la Tunisia e l’Egitto – e il mancato superamento delle autonomie feudali furono tra le cause del declino dell’Impero. LE CONVIVENZE RELIGIOSE Uno degli elementi di forza del regime ottomano era invece la permanenza, sul suo territorio, di religioni diverse dall’islam: cristiani ortodossi, cattolici, ebrei. Organizzate in comunità dette millet *, con un’amministrazione autonoma, nonostante saltuari aspri conflitti, le diverse appartenenze religiose davano luogo a un sistema di convivenza, se non proprio
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STORIA IMMAGINE Jacob Marrel, Quattro tulipani con insetti e un anemone 1640 ca. [Rijksmuseum, Amsterdam] Fra le maggiori produzioni dell’Impero ottomano va ricordato il tulipano, fiore molto amato da Solimano il Magnifico. Esportati in Olanda verso la metà del ’500, i tulipani ebbero un notevole successo diventando in poco tempo richiestissimi e costosissimi.
Storiografia 30 J. Goodwin, L’autogoverno del Millet e il sincretismo religioso, p. 165
Storiografia 31 S. Faroqhi, L’impero ottomano e l’Europa: commerci e confronti culturali, p. 167
di tolleranza ufficiale. Gli ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492 trovarono ospitalità nell’Impero ottomano: l’importante città portuale di Salonicco era nel ’700 il maggior centro urbano abitato da ebrei, che a metà ’800 erano ancora più del 50% della popolazione. GLI SCAMBI COMMERCIALI Alcune di queste comunità erano molto attive nel commercio. Le comunità greche ed ebraiche stabilite a Istanbul e nell’Asia Minore erano al centro del complesso sistema di scambi – cotone, seta, oro e caffè provenienti dall’Africa e dall’Oriente – che continuava ad alimentare l’economia di un impero ricco di grandi città, dal Cairo a Baghdad, a Smirne. Per quanto insidiato dalla presenza veneziana e dalle navi delle nuove potenze commerciali atlantiche, il Mediterraneo centro-orientale rimaneva un mare controllato dai turchi. LE GUERRE CONTRO VENEZIA E NEI BALCANI In pochi anni, dopo la disastrosa sconfitta di Lepanto (1571), la flotta turca era stata ricostituita e per oltre un secolo Venezia rimase, con esiti alterni, in guerra con gli ottomani. Nel 1571 aveva perso Cipro, nel 1699 Creta fu conquistata dai turchi, mentre il Peloponneso fu
IL DECLINO DELL’IMPERO OTTOMANO
Vasta estensione
Sviluppo delle autonomie locali
Resistenza dei giannizzeri ai tentativi di riforma
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Guerra contro Venezia
Indebolimento del potere centrale
Fallito assedio di Vienna
Arresto dell’espansionismo turco
Conquista russa di Crimea e Caucaso
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occupato dai veneziani dal 1687 al 1715. Ma Venezia, pur mantenendo il possesso delle isole Ionie (Corfù, Lefkada, Cefalonia, Itaca, Zacinto), aveva ormai intrapreso un inarrestabile declino, fino a giungere alla caduta della repubblica, nel 1797 [Ź8_10]. Una nuova offensiva turca nei Balcani si infranse nel 1683, come sappiamo, sotto le mura di Vienna, dove l’esercito ottomano si era spinto con l’ambizioso
EVENTI CHIAVE ni) e raccoglieva truppe provenienti dagli angoli più remoti dell’Impero. Proprio queste dimensioni straordinarie, unitamente all’incertezza sui suoi movimenti, all’inizio riuscirono a confondere e sbaragliare la resistenza austriaca, ancora incredula e incerta. L’armata asburgica, notevolmente inferiore sul piano numerico, era guidata da Carlo V di Lorena, cognato dell’imperatore Leopoldo e uno dei suoi uomini d’arme più capaci, ma poco amato nell’ambiente di corte: rivalità e contrasti compromisero l’efficacia delle operazioni militari nella fase iniziale dello scontro, quando si sarebbe dovuto fermare il nemico lontano da Vienna, e i turchi poterono puntare sulla capitale praticamente indisturbati. Vienna allora
LA CONVERGENZA DELLE TRUPPE OTTOMANE SU VIENNA (PRIMAVERA-ESTATE 1683)
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LO SPAZIO DELLA STORIA
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Culmine dell’offensiva turca in Europa, l’assedio di Vienna del 1683 costituì un evento decisivo nella storia europea e nei rapporti di forza tra Occidente cristiano e Impero ottomano, inaugurando per quest’ultimo, nel momento stesso in cui raggiungeva il limite massimo della propria espansione, un declino irreversibile che lo avrebbe relegato progressivamente ai margini della scena europea. Se, infatti, l’arrivo dei turchi sotto le mura della città capitale del Sacro romano impero fu un avvenimento clamoroso e drammatico – l’apice della grande paura incarnata per secoli dai turchi –, l’esito dell’assedio ebbe ripercussioni durature sull’intero assetto europeo, con l’avvio di una controffensiva cristiana nei territori ungheresi che si sarebbe conclusa solo con la pace di Carlowitz del 1699, quando l’Impero ottomano fu costretto per la prima volta a cedere terreno, per essere poi incalzato negli anni a venire dagli austriaci sul fronte balcanico e dai russi su quello orientale. Quanto agli interessi della politica asburgica, se fino a quel momento erano stati monopolizzati dagli equilibri europei a occidente, dopo Vienna si sarebbero volti stabilmente all’area balcanica e ungherese. L’offensiva turca del 1683 in realtà partiva sotto i migliori auspici, con gli Asburgo impegnati a fronteggiare a occidente l’espansionismo della monarchia francese e a oriente la rivolta dei magiari (o ungheresi) guidati dal conte Imre Thököly, che aveva ottenuto l’appoggio degli ottomani. La portata destabilizzante di Thököly e il suo potenziale utilizzo in chiave antiasburgica vennero subito colti dal gran visir Kara Mustafa; condottiero audace e politico ambizioso, fu lui il principale fautore della guerra contro l’Austria, nonché l’ideatore dell’assedio alla capitale. La sua politica aggressiva venne sottovalutata dagli austriaci, convinti di poter rinnovare il precedente trattato di pace con l’Impero ottoma-
no. Ma mentre gli emissari austriaci a Istanbul lavoravano per la pace, quelli francesi si adoperavano presso il sultano per accendere la guerra in Ungheria e mettere in difficoltà gli Asburgo. Rassicurati dalla benevolenza della Francia, i turchi alla fine ruppero la ventennale tregua con l’Austria (agosto 1682). La grande offensiva che nel giro di un mese avrebbe portato i turchi a varcare il confine con l’Ungheria partì da Belgrado il 13 maggio 1683 [Ź _9]. Di fronte alla comune minaccia, l’Austria e la Polonia strinsero un’alleanza che si sarebbe rivelata decisiva. L’esercito che risaliva ora il Danubio era uno dei più imponenti mai dispiegati dai turchi (le stime oscillano ma di certo era superiore ai centomila uomi-
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L’assedio di Vienna e la fine dell’espansionismo ottomano
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Niš Sofia Filippopoli Adrianopoli
Istanbul (Costantinopoli)
Salonicco
confini dell’Impero Ottomano Kara Mustafa
Ankara
contingenti siriaci, egiziani, nordafricani
tartari di Crimea Thököly
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disegno di colpire al cuore l’Impero d’Austria. La sconfitta costrinse i turchi a una umiliante ritirata e a subire ulteriori perdite territoriali compensate tuttavia nel 1739 con la riconquista di Belgrado. Ma il graduale ritiro dai Balcani settentrionali era ormai iniziato e alla fine del ’700 l’Impero vedeva i suoi domìni ridotti ai territori a sud del Danubio, cioè all’estensione che avevano nella prima metà del ’500, al tempo di Solimano il Magnifico.
Ź Frans Geffels, Assedio di Vienna da parte dei turchi nel 1683 [Kunsthistorisches Museum, Vienna] Il dipinto raffigura l’arrivo dell’esercito polacco (in primissimo piano a destra) presso il campo turco e lo scontro con la fanteria giannizzera, contraddistinta dalle insegne militari recanti la mezzaluna, simbolo dell’Impero ottomano. In secondo piano, il pittore ha rappresentato Vienna con le sue vie, le chiese e i palazzi e, ben visibile appena sotto le sue mura, il dedalo di cunicoli e trincee realizzato dai turchi per poter arrivare il più vicino possibile ad attaccare la città.
era cinta da mura possenti che però offrivano alcuni punti vulnerabili, tutti noti a Kara Mustafa. Inoltre la recente espansione urbana a ridosso della cinta muraria esterna ne vanificava in parte la funzione, tanto che in vista dell’attacco si iniziarono a demolire gli edifici troppo vicini alle fortificazioni. Ma era già tardi. E mentre la popolazione delle campagne, terrorizzata dalle scorrerie dei tartari (che combattevano per gli ottomani), si riversava nelle città e nei borghi fortificati, a Vienna la nobiltà lasciava in fretta i suoi palazzi. Sull’onda del panico, lo stesso imperatore Leopoldo I si lasciò convincere ad abbandonare precipitosamente la capitale per rifugiarsi a Passau (a 300 chilometri circa da Vienna). Era il 7 luglio; una settimana dopo i turchi erano accampati davanti a Vienna. Il campo ottomano era un’immensa distesa, «tanto grande quanto l’intera città di Varsavia o di Leopoli dentro le mura» scriverà il re polacco Sobieski; ma la cosa più stupefacente fu la colossale opera di scavo e di ingegneria militare intrapresa dai turchi all’indomani del loro arrivo, e che doveva consentire l’avvicinamento alle fortificazioni attraverso un immenso dedalo di trincee, cunicoli e gallerie coperte. Gli assedianti, infatti, non disponendo di un’artiglieria in grado di abbattere le mura, erano costretti a ricorrere alla tecnica delle mine sotterranee, che una volta piazzate alla base delle fortificazioni avrebbero dovuto provocarne il crollo. Vienna era rimasta isolata, difesa da una guarnigione che poteva contare su circa 20 mila uomini tra fanteria regolare, milizie cittadine e vo-
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lontari; resistette per due mesi ai colpi dell’artiglieria, agli assalti improvvisi e alle epidemie (la più grave, di dissenteria, si trasmise anche al campo ottomano), cercando di intercettare i movimenti sotterranei dei turchi con le loro mine. Fuori dalla città intanto la diplomazia asburgica lavorava per formare una coalizione contro i turchi, da tempo caldeggiata dal pontefice Innocenzo XI: vi aderirono alcuni principi tedeschi e soprattutto la Polonia, vincolata dall’alleanza con l’Austria. Il ruolo della Polonia nella liberazione di Vienna fu decisivo: forte di una cavalleria che aveva fama di essere la più formidabile d’Europa, l’esercito polacco costituiva la parte più consistente delle forze cristiane ed era condotto dal re Jan Sobieski. A lui, assente l’imperatore, spettava il comando supremo degli eserciti in campo. All’inizio di settembre Vienna era allo stremo. I turchi erano riusciti a far esplodere due mine e ad aprire una breccia, e ormai sembravano sul punto di sfondare, mentre l’esercito soccorritore si era avvicinato alla città a tappe forzate: le truppe tedesche e quelle austro-polacche avevano
seguito itinerari diversi per poi riunirsi sul Kahlenberg, l’altura a nord di Vienna. Ai loro piedi si stendevano la città assediata e l’immenso campo ottomano, completamente sguarnito da quel lato: Kara Mustafa non aveva pensato a trincerarsi alle spalle, e questo errore gli fu fatale. All’alba del 12 settembre inizia la battaglia di Kahlenberg: i tedeschi presero ad avanzare con l’artiglieria pesante, mettendo subito in difficoltà la debole difesa turca, ma le sorti della battaglia furono decise solo a metà giornata con la travolgente carica della cavalleria polacca guidata da Sobieski, che annientò i residui focolai di resistenza. Sopraffatti, i turchi si diedero alla fuga abbandonando il campo al saccheggio, e con loro Kara Mustafa. Sobieski entrò a Vienna da liberatore prima dello stesso Leopoldo, suscitando imbarazzo e malumore. Con una lettera che si apriva con le parole Venimus, vidimus et Deus vicit annunciò la vittoria al papa. Il visir pagò con la vita l’esito della sua campagna di guerra: fu strangolato dagli emissari del sultano a Belgrado, dove si era rifugiato, il 25 dicembre di quell’anno, e la sua testa recapitata a Mehmet IV.
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sciiti/sunniti Sciiti e sunniti sono i fedeli delle due principali componenti dottrinali dell’islam. I primi, minoritari tra i musulmani, sono la maggioranza soprattutto nell’attuale Iran. I secondi sono la componente islamica maggioritaria. Fin dalla nascita delle due correnti (VII secolo), secondo gli sciiti il compito di guidare la comunità islamica deve essere dei discendenti di Maometto; presso i sunniti invece prevale il principio elettivo per individuare la guida politica e spirituale. Il nome “sciiti” deriva dal termine shia, ‘seguaci di Alì’ (Alì era il cugino di Maometto e il suo primo successore); “sunniti” invece da sunna, la raccolta delle tradizioni sui comportamenti tenuti da Maometto. La massima autorità sciita è l’imam, che è venuto incarnando il principio stesso della divinità. Le guide religiose dei sunniti sono gli ulema, fra i quali non sussistono differenze gerarchiche, e gli imam, preposti ai rituali e alla preghiera.
3 ź Il Taj Mahal ad Agra (India) Il Taj Mahal è uno degli esempi più celebri dell’architettura moghul, che coniuga simmetria e splendore decorativo.
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Ai nemici tradizionali, Austria e Venezia, si era aggiunta dalla fine del ’600 anche la Russia con la sua politica espansiva verso sud. Alla fine del ’700 l’Impero ottomano aveva perso la Crimea e gran parte delle coste settentrionali del Mar Nero, mentre era iniziata la conquista russa nelle regioni del Caucaso settentrionale. Rimanevano stabili invece i confini con l’Iran definiti nel 1638 con la cessione ai safavidi del Caucaso e dell’Azerbaigian. IL CONFRONTO CON L’EUROPA Le reiterate sconfitte imponevano riforme istituzionali per reggere il confronto con l’Europa. Convertiti occidentali vennero chiamati per riformare l’esercito e la marina, mentre la vita intellettuale venne stimolata grazie all’apertura di biblioteche e all’introduzione, nel 1727, della stampa (non fu un caso se, fra i primi libri ad essere stampati, vi furono trattati sulla tecnologia bellica europea). Ma questi tentativi di rinnovamento si scontravano con le resistenze dei giannizzeri, che vedevano i loro privilegi messi in pericolo dall’introduzione di riforme di sapore occidentalizzante, e con la dura opposizione degli ulema (teologi e giuristi), depositari della tradizione islamica ottomana. L’IRAN DEI SAFAVIDI L’Impero ottomano è l’espressione più conosciuta della civiltà islamica per la sua vicinanza e contrapposizione con l’Europa cristiana nell’età moderna. Ma altri grandi imperi islamici si incontrano se muoviamo lo sguardo verso oriente. Tra il 1501 e il 1722 l’Iran (Persia) fu governato dalla dinastia safavide che al momento della sua massima potenza, agli inizi del ’600 sotto lo shah (il sovrano) AbbƗs I il Grande, controllava a nord l’Azerbaigian, parte del Caucaso e dell’Armenia, a sud l’Iraq e a est gran parte dell’Afghanistan. Ma già nel 1638 gli ottomani avevano riconquistato l’Iraq e siglato una pace che definiva i confini con l’Iran. L’affermazione dell’Impero safavide in Iran, al di là dello splendore dei suoi monumenti e della capitale Isfahan, coincide con il consolidamento dello sciismo (la componente minoritaria dell’islamismo) come religione ufficiale dello Stato. I capi religiosi sciiti* mantennero da allora in poi il ruolo politico conquistato, con alterne vicende, e lo riaffermarono con la rivoluzione khomeinista del 1979 e la successiva nascita della Repubblica islamica.
L’India dell’Impero Moghul Anche l’India tra ’600 e ’700 fu dominata politicamente da una dinastia musulmana. La presenza islamica datava dal X secolo, quando eserciti islamici erano penetrati da nord-ovest, insediandosi poi nel Nord dell’India, dove nel XIII secolo si era costituito il sultanato di Delhi. L’IMPERO MOGHUL Nel 1526 un esercito composto da tribù turco-mongole musulmane guidate da Babur il Conquistatore invase il subcontinente indiano, sconfisse il sultanato di Delhi, da lungo tempo indebolito, e diede vita all’Impero moghul destinato a durare fino al 1707. Dal Nord l’Impero si estese via via fino a comprendere, intorno al 1700, un territorio che andava a nord da Kabul a Dacca nel Bengala e verso sud raggiungeva le ultime regioni dell’India meridionale. LA STRUTTURA POLITICO-SOCIALE E L’ECONOMIA La struttura politico-sociale dello Stato moghul era di tipo feudale, con estesi territori affidati a vassalli moghul o a principi locali sottomessi, una aristocrazia di origine militare, che derivava i suoi poteri dal sultano ma non poteva trasmetterli ereditariamente, e una base contadina molto povera. I moghul mantennero il precedente sistema
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L’ASIA ALLA FINE DEL XVIII SECOLO
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GIAPPONE Edo (Tokyo) COREA
Pechino
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IMPERO CINESE PERSIA Delhi
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CEYLON dal 1796 brit. Malacca
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Phnom Penh
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induismo L’induismo non è una religione in senso stretto, ma piuttosto un sistema filosofico e un insieme di dottrine, pratiche rituali e religiose, e pratiche sociali. Le tre divinità principali induiste sono Brahma, principio regolatore dell’Universo, Visnu, colui che preserva, Shiva, colui che distrugge o trasforma. Convinzione degli induisti è che gli esseri viventi attraversino un ciclo di vite, morti e rinascite per raggiungere, infine, il Braham, il sé universale. L’organizzazione sociale induista si fonda sul sistema delle caste. Rispettare questo sistema significa per gli induisti rispettare l’ordinamento cosmico: adempiere i doveri della casta cui si appartiene assicura una rinascita migliore.
Madras Pondichéry (fr.)
SU
britannici olandesi spagnoli portoghesi confini dello Stato dei maratti confini dell’Impero moghul, 1700 circa
Mahé (fr.)
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Possedimenti:
Manila
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Goa (port.)
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Hanoi
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Bombay
Macao (port.)
INDIE OLANDESI Batavia GIAVA
di riscossione delle imposte ma erano soprattutto in grado, grazie alla presenza capillare dei loro soldati, di esercitare in ogni villaggio, unità base della tradizionale società induista, un efficiente controllo amministrativo e di polizia. Mercanti e artigiani avevano un ruolo decisivo nell’economia del paese. I mercanti imprenditori finanziavano una manifattura artigianale molto sviluppata, nonostante tecniche di lavorazione arretrate e una grande dispersione produttiva. In particolare l’industria tessile era in grado di rispondere rapidamente alla crescita della domanda, grazie alla diffusione in tutto il territorio di centri artigianali e al lavoro di migliaia di tessitori che si spostavano da una città all’altra. Era un sistema di produzione disperso e disseminato in mille villaggi, molto diverso rispetto ai modelli europei, ma di grande efficienza. Del resto, fino alla rivoluzione tecnologica inglese che impresse una svolta alla produzione tessile in Europa, le stoffe indiane di seta, cotone, lino e seta mista a lino furono per qualità e quantità superiori a quelle prodotte in tutto il resto del mondo. ISLAMISMO E INDUISMO L’instaurazione di una nuova dinastia musulmana era destinata ad acuire i difficili problemi della convivenza tra la cultura islamica e quella indù. L’islamismo e l’induismo, infatti, oltre a essere rispettivamente l’uno la religione dei nuovi signori e l’altro quella delle popolazioni dominate, erano espressione di due visioni del mondo radicalmente diverse e fra loro impermeabili. Incolmabile era la distanza che separava il monoteismo profetico islamico dalla antichissima frammentazione religiosa induista*. Inoltre, il concetto islamico della conversione risultava incomprensibile agli indù, per i quali si era affiliati a una religione per nascita e non per scelta. D’altra parte i musulmani – tutti eguali al cospetto di Allah – non potevano accettare
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sistema delle caste La società tradizionale indiana è suddivisa in innumerevoli caste raggruppate in quattro categorie gerarchicamente ordinate: al vertice i sacerdoti (brahmani), seguiti da guerrieri e nobili (ksatriya), commercianti e contadini (vais´ya), plebei, artigiani e servi (s´uˉdra). Al di fuori di queste categorie restano gli strati più poveri della popolazione, i paria (o “intoccabili”), adibiti ai lavori più umili. Questa separazione è legata all’idea che venga contaminato chi entri in contatto, anche indiretto, con gli appartenenti alle caste inferiori, ritenuti appunto “impuri” a causa delle usanze alimentari e dei mestieri esercitati.
Documento Gottfried W. Leibniz, L’antica scienza dei cinesi: l’artimetica binaria
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Storiografia F.C. Hsia, I Gesuiti nella Cina imperiale e la diffusione della scienza europea Parole della storia Confucianesimo, p. 121 Fare storia Cina e Europa: il mito dell’inferiorità tecnologica, p. 161
mandarino Il termine deriva dal sanscrito mantrin, “consigliere”, e in Europa si diffonde nella variante portoghese mandarim. Gli europei chiamavano così i funzionari civili e militari dell’Impero cinese. La lingua mandarina era il principale dialetto della Cina usato durante l’Impero come lingua burocratica e letteraria dai mandarini e dalla corte.
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il sistema delle caste* indù che stabiliva, una volta per sempre, l’intero destino personale e sociale degli individui che ne facevano parte. Diversissimi gli stili di vita, le tradizioni alimentari, le usanze matrimoniali e anche il modo di onorare i morti: i musulmani usavano seppellire i propri defunti, gli indù li cremavano. Queste differenze vennero a loro volta aggravate dagli stessi imperatori moghul, che contribuirono con la loro politica intollerante a fomentare le discordie e l’odio religioso. L’INIZIO DELLA COLONIZZAZIONE BRITANNICA I difficili rapporti tra le due culture furono parzialmente sanati durante il regno di Akbar (1556-1605), uno dei più grandi imperatori moghul. Akbar riuscì a coinvolgere l’aristocrazia indù nell’amministrazione e nella vita politica, limitandone così le tendenze autonomistiche e consolidando il potere centrale. Una serie di riforme – tra cui l’eliminazione della tassa imposta ai sudditi non musulmani – attenuò notevolmente la discriminazione nei confronti degli indù. Questa politica non fu rispettata dal più importante successore di Akbar: con Aurangzeb (1658-1707) infatti, nonostante l’Impero avesse raggiunto la sua massima estensione [Ź _10], fu avviata una politica di fanatismo religioso islamico volto a guastare gli equilibri tra le due comunità e a suscitare la mobilitazione dei sultanati indù (i maratti) che, uno dopo l’altro, approfittando del graduale indebolimento del potere centrale, si dichiararono autonomi contribuendo alla disgregazione dell’Impero. Dopo qualche decennio (nel 1765) l’ultimo esponente del quasi dissolto Impero moghul cedette il diritto dell’esazione fiscale alla East India Company, la compagnia commerciale inglese da tempo presente nel Bengala dove stava costruendo un proprio impero commerciale e territoriale. Si era ormai aperta una nuova pagina della storia dell’India, quella della colonizzazione britannica destinata a durare fino al 1947.
La Cina dei Qing DAI MING AI QING All’inizio del XVII secolo, la dinastia Ming, al potere in Cina dal 1368, era ormai in declino per la corruzione dei vertici e per l’incapacità di reprimere le rivolte contadine. Questa situazione favorì l’invasione di nomadi provenienti dalla Manciuria, e l’ascesa della dinastia mancese dei Qing (1644) che tennero il potere in Cina fino al crollo dell’Impero nel 1912. Per quanto invasori di origine straniera, i Qing si integrarono rapidamente nella cultura cinese accettando le sue forme di governo. LA BUROCRAZIA CINESE Il gigantesco apparato burocratico, che da secoli era la base dell’amministrazione cinese, venne conservato intatto e così pure il sistema di reclutamento degli alti funzionari – i mandarini* (burocrati-letterati) –, fondato sugli esami di Stato: gli aspiranti funzionari dovevano superare due prove a livello provinciale, guadagnando un diploma, per sostenere un esame finale nella capitale. Si trattava di un sistema antichissimo fondato sul confucianesimo (Confucio, VI-V secolo a.C.), un complesso di norme etiche e filosofiche il cui obiettivo politico e sociale era il mantenimento dell’ordine gerarchico, regolato da un insieme di relazioni paternalistiche: chiunque fosse educato sui princìpi del confucianesimo e avesse denaro a sufficienza poteva aspirare a entrare nell’apparato burocratico e ricambiare con favori, non sempre legali, il gruppo familiare che l’aveva sostenuto. La burocrazia era quindi espressione degli interessi dei proprietari terrieri e
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dei ceti più ricchi: ma i mandarini erano anche difensori delle tradizioni culturali e ostili alle attività mercantili. L’APOGEO DELL’IMPERO La dinastia Qing visse il suo apogeo durante il lungo regno di Kangxi (1662-1722). L’imperatore riuscì a unificare sotto il suo potere tutte le province della Cina, che allora raggiunse un’estensione di 12 milioni di km2, e definì con un trattato i confini con l’Impero russo lungo il fiume Amur. Kangxi accolse l’ideologia confuciana e stabilì un rapporto equilibrato con la burocrazia mandarina. Anche nei confronti del cattolicesimo ebbe un atteggiamento conciliante e di apertura. Del resto, fin dal ’500 i gesuiti erano presenti a corte, dove veniva molto apprezzata la loro cultura scientifica. I GESUITI IN CINA Era il 1583 quando il missionario gesuita Matteo Ricci, protagonista del tentativo di incontro tra Oriente e Occidente e dell’evangelizzazione cinese, giunse in Cina. Nella loro evangelizzazione i gesuiti procedevano con prudenza nei confronti delle credenze originarie dei nuovi fedeli: tolleravano che molti nuovi cristiani continuassero a venerare Confucio, l’imperatore e gli antenati in genere, accettavano la “sinizzazione” (da
Ÿ Il missionario gesuita Johann Adam Schall von Bell XVII sec. [Biblioteca Marciana, Venezia] L’incisione mostra Johann Adam Schall (1591-1666), missionario gesuita tedesco, presidente dell’Accademia astronomica cinese. I cinesi furono particolarmente interessati alle conoscenze astronomiche degli europei, che i gesuiti diffusero anche importando strumenti scientifici.
LE PAROLE DELLA STORIA
Confucianesimo K’ung fu Tzu, vissuto nella Cina del V secolo a.C. e noto in Europa con il nome di Confucio a partire dal XVII secolo, grazie ai missionari gesuiti che operavano in Cina, era stato in vita un modesto funzionario governativo che si era saputo guadagnare la stima dei superiori. In particolare, si era dedicato all’insegnamento delle “sei arti” che costituivano la base fondamentale della formazione dei mandarini, la casta dei burocrati-letterati rimasta al potere fino al crollo dell’Impero, avvenuto nel 1912: riti, musica, tiro con l’arco, guida dei carri, calligrafia, matematica. Allo studio di queste discipline si aggiungeva la lettura di testi degli antichi saggi, da cui venivano tratte le norme che regolavano il comportamento dell’uomo in quanto membro della società organizzata. Più che una religione vera e propria, con una propria concezione dell’aldilà
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e del rapporto con l’ultraterreno, il confucianesimo si presenta come una filosofia di vita, un modello di regole di comportamento da seguire nel corso dell’esistenza terrena. Alla sua affermazione come principale strumento di formazione delle classi superiori contribuì in maniera determinante la decisione dei discepoli di Confucio di abbandonare l’insegnamento orale, scelto inizialmente dallo stesso maestro, in favore di quello scritto, e di raccogliere le sue dottrine in un corpus di testi, i cosiddetti Quattro Libri (Ssu Shu): I Dialoghi, Il Grande Studio, L’Invariabile Mezzo, il Libro di Mencio. Il pensiero di Confucio ribadiva l’importanza della gerarchia sociale e del suo rispetto come fondamento irrinunciabile di una società ordinata. Così si legge in un passo dei Dialoghi: «Vi è governo quando il principe [si comporta] da principe, il ministro da ministro, il padre da padre, il figlio da figlio». Ognuno doveva quindi mantenere la posizione che gli
competeva ed attenersi ai doveri che gli imponeva la propria qualifica e rango. A loro volta i principi dovevano essere affiancati da consiglieri saggi, onesti e fidati, da scegliere non tra gli appartenenti alle classi nobiliari, ma tra uomini virtuosi dalla elevata moralità. A questo punto l’uomo comune, forte dell’esempio ricevuto dai governanti, diveniva naturalmente un suddito docile e fedele. Per una ordinata vita sociale, poi, fondamentale diveniva la strada del perfezionamento: «dal Figlio del Cielo all’ultimo del popolo, per tutti la cosa principale è perfezionare la propria persona» è scritto nel Grande Studio. Perfezionarsi significava dominare le passioni senza inseguire illusioni fugaci; soltanto questo consentiva al saggio di guardare il mondo giudicandolo obiettivamente con occhio privo di faziosità. Oltre a influenzare per secoli l’apparato burocratico dell’Impero cinese, il confucianesimo si diffuse anche in Giappone, Corea e Vietnam.
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Sina, “Cina” in latino) di alcuni aspetti del cattolicesimo (calendario, festività), rinunciando anche agli abiti di foggia occidentale per uniformarsi a quelli della corte. Queste aperture non piacquero a Roma dove prevalse il punto di vista dei francescani e dei domenicani che ritenevano necessario il rifiuto da parte dei neoconvertiti di ogni precedente credenza e rituale. Così, agli inizi del ’700, le buone relazioni tra l’imperatore e i missionari si incrinarono e la decisione della Chiesa romana, contraria ai “riti cinesi”, venne interpretata da Kangxi come un’indebita ingerenza negli affari interni della Cina: fu revocata ogni concessione ai religiosi cattolici, compromettendo così l’avvenire della Chiesa cinese, che contava già 200 mila fedeli.
F
LEGGERE LE FONTI
I gesuiti in Cina da Fonti ricciane, edite e commentate da P.M. d’Elia S.I., I, Storia dell’introduzione del cristianesimo in Cina, Libreria dello Stato, Roma 1942, pp. 192-96
Suscitare qualche sospetto, diffidenza.
I caratteri della lingua scritta.
Mostrarono.
L’abito dei gesuiti era simile a quello dei monaci buddhisti (bonzi). Nel mandarino, lingua comunemente usata in passato nell’Impero cinese, il suono d non esisteva.
Aiuto
Saggi
La necessità di essere accettati nel contesto culturale e sociale cinese, completamente diverso da quello europeo, spinse i missionari gesuiti a procedere con molte cautele nel tentativo di cristianizzazione dei cinesi. Inoltre, la rigida gerarchia politica dell’Impero cinese obbligò i missionari a una particolare attenzione verso i nobili, che si manifestò nella partecipazione alla vita di corte e nello scambio culturale con i sapienti
In questi principii, per non mettere qualche suspitione a questa gente con questa novità, non trattavano i Padri molto chiaramente di predicare la nostra santa legge, ma più tosto se impiegavano, nel tempo che di ricevere le visite gli restava, in imparare bene la loro lingua, le loro lettere e cortesie, e guadagnare gli animi de’ Cinesi, e moverli con la buona vita et essemplare a quello che né con la lingua potevano, né il tempo gli dava agio di fare. Quello con che mostrorno i Cinesi tutti molto contento, fu il vestirsi i Padri, con tutta la gente di sua casa, a guisa delle persone più honeste di questa natione, per esser la veste loro modesta e lunga con le maniche anche lunghe, non molto diversa dalla nostra. [...] E perché nella lingua della Cina non vi è nessuno nome che risponda al nome di Dio, né anco Dio si può bene pronunciare in essa per non avere questa lettera d, cominciorno a chiamare a Dio Tienciù, che vuol dire Signore del cielo, come sin hora si chiama per tutta la Cina, e nella Dottrina christiana et altri libri che si fecero. E cadde molto bene per il nostro proposito, percioché, adorando i Cinesi per suppremo nume il Cielo, che alcuni anco pensano esser questo cielo materiale; con l’istesso nome che habbiamo dato a Dio, manifestamente si dichiara quanto maggiore è il nostro Dio di quello che loro tengono per suppremo nume, poiché Iddio è il Signore di quello. [...] Con questo modo di parlare, più con opere che con parole, venne il buono odore della nostra legge a spargersi per tutta la Cina. E sebene molti venivano solo per curiosità di vedere cose nove, con tutto sempre riportavano qualche agiuto per sua conversione a casa, o di quello che udivano dire da’ Padri che, hora per mezzo dell’interprete, hora con quello che loro stessi ivano imparando di lingua sinica, gli dicevano delle buone usanze che sono nei regni de’ christiani, della falsità delle sette degli idoli, della conformità della legge di Dio con il lume naturale, e quello che ne’ suoi libri insegnorno i loro primi savij.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nel documento si afferma che i gesuiti, una volta giunti in Cina, preferivano non professare apertamente la dottrina cristiana. Quali ragioni sono alla base di questa scelta? b Quali strategie adottano i Padri missionari
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cinesi. In questa direzione si mosse Matteo Ricci (1552-1610), missionario in Cina dal 1582, autore di un’interessante opera che, nel ricostruire le tappe della penetrazione religiosa in Cina, offre un dettagliato ritratto dei costumi, dell’economia, della geografia e delle istituzioni politiche di questo paese ed evidenzia l’opportunità di un graduale avvicinamento dei missionari alla cultura locale.
per inserirsi più efficacemente all’interno della società cinese? c Nel mandarino, la lingua storicamente più diffusa nell’Impero cinese, non esisteva un corrispettivo per indicare la parola “Dio”. Con quale elemento veniva identificata la di-
I gesuiti
Con tutti i membri della missione.
Cinese.
vinità e per quali motivi Matteo Ricci afferma che: «Maggiore è il nostro Dio di quello che loro tengono per suppremo nume»? d Individua e descrivi l’atteggiamento mentale e culturale dei gesuiti rispetto alla popolazione, agli usi e ai costumi della Cina.
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Storiografia 27 K. Pomeranz, Europa e Cina: sviluppo tecnologico alla vigilia della rivoluzione industriale, p. 161
Storiografia 28 J. Osterhammel, L’industria della seta, p. 163
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LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA E L’IMPORTANZA DELLE ESPORTAZIONI La Cina del ’700 conobbe un periodo di sviluppo economico sia nel settore agricolo sia in quello commerciale e manifatturiero. Segno inequivocabile di questo sviluppo e di un relativo nuovo benessere fu il notevole incremento demografico: la popolazione passò da 143 milioni nel 1741 a 313 nel 1794, un aumento dovuto per gran parte al miglioramento delle tecniche agricole e di allevamento. L’ulteriore perfezionamento delle tecniche di irrigazione (da tempo largamente diffuse in Cina) e della selezione delle qualità di riso consentì di ottenere dallo stesso terreno due o tre raccolti in un anno. Anche la lavorazione della seta (filatura e tessitura) ebbe un forte incremento sia nella forma dell’industria rurale domestica sia in quella delle manifatture statali che alimentavano la forte domanda proveniente dalla corte. Nel 1685 fu istituita a Canton una dogana marittima e nel 1760 alcune corporazioni di mercanti furono autorizzate a trattare con gli europei. Gli scambi tra la Cina e i paesi europei o le loro colonie erano intensi ma quasi a esclusivo vantaggio del grande impero, che esportava in Occidente tè, sete, porcellane, carta e medicinali. Si calcola che almeno un terzo di tutto l’argento prodotto in America finisse in mani cinesi potenziando lo sviluppo economico e il vivace mercato interno. La Cina, infatti, era un paese sostanzialmente autosufficiente sia per le materie prime sia per i prodotti finiti e le importazioni dall’Europa erano scoraggiate anche con numerosi regolamenti restrittivi. In presenza di un debole interscambio globale, la Cina rimase fino agli inizi del ’700 il maggior paese esportatore in un sistema di commercio internazionale avviato verso una prima globalizzazione, ovvero verso una prima integrazione economica mondiale. Anche se le merci cinesi viaggiavano ormai quasi esclusivamente su navi europee.
Il Giappone dei Tokugawa: 5 centralizzazione e isolazionismo samurai Nell’antico Giappone, fino intorno all’anno Mille, il termine “samurai” (dal giapponese samuran o saluran, “essere al servizio di”) indicava le guardie del palazzo dell’imperatore. In epoca feudale, cominciò a designare genericamente chi esercitava il mestiere delle armi: allora i samurai erano vassalli dei daimyo. Poiché le lunghe guerre medievali contribuirono ad accrescere l’importanza dei soldati, i samurai divennero presto una vera e propria casta privilegiata che, sotto l’influsso della filosofia cinese e del buddismo, elaborò un proprio sistema di ideali, norme e princìpi morali. Durante il periodo feudale i samurai vivevano nei castelli dei propri signori, dai quali ricevevano viveri per sé e per le famiglie. Aboliti i feudi nel 1869, i samurai vennero incorporati nella nobiltà del nuovo Giappone.
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UN PAESE FEUDALE Il Giappone era un paese feudale. La struttura del potere era organizzata su tre livelli. Il vertice era occupato dall’imperatore, mikado, una figura semisacrale dal forte peso simbolico e religioso ma dagli scarsi poteri. Il governo effettivo era tenuto, al secondo livello, dallo shogun, una sorta di primo ministro e comandante militare, carica divenuta da tempo ereditaria. Il terzo livello era tenuto dai signori feudali, daimyo, che controllavano le singole province in cui esercitavano un potere tendenzialmente assoluto. Al servizio dei daimyo e dello shogun un ruolo decisivo aveva la casta militare dei samurai*, guerrieri legati da vincoli d’onore ai loro signori. L’ASCESA DEI TOKUGAWA Il modello che abbiamo descritto si applica soprattutto al periodo che va dall’inizio del ’600 alla metà dell’800. Prima di allora e per oltre un secolo il Giappone fu attraversato da guerre continue tra i diversi clan familiari e tra i daimyo più potenti; la conflittualità si accentuò nella seconda metà del ’500 quando, con l’introduzione delle armi da fuoco – importate dai portoghesi e subito imitate dagli artigiani locali [Ź5_1] –, cambiò la tecnica delle battaglie, non più combattute da soldati armati di lunghe picche. Negli ultimi decenni del ’500 emerse la figura di Toyotomi Hideyoshi (15371598), un potente signore feudale (in origine un samurai di provenienza contadina) che riuscì a porre fine alle guerre e a riunificare il Giappone cercando poi, senza successo, di invadere la Cina passando dalla Corea. Il clan Toyotomi
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STORIA IMMAGINE Utagawa Kunisada, I principali attori dell’opera kabuki “Kanadehon Chushingura” di Toyokuni Utagawa III [nella produzione del marzo 1849 al teatro Nakamura-za di Edo] L’elevata urbanizzazione giapponese diede luogo alla formazione di una specifica cultura urbana, della quale furono protagonisti in particolare i mercanti. Estremamente attivi dal punto di vista imprenditoriale, erano condannati dall’ideologia confuciana che li considerava, a differenza dei cittadini e degli aristocratici, una classe non direttamente produttiva. Nonostante i considerevoli capitali che molti di loro riuscirono ad accumulare, i mercanti non
ebbero durante il periodo Tokugawa alcun peso politico. Le frustrazioni connesse a tale situazione, cui si aggiungevano numerose leggi restrittive che vietavano loro le vesti di seta e altri simboli di ricchezza, spinsero i mercanti a dare vita a una cultura propria, una sorta di seconda società, nella quale
poter esprimere l’amore per il lusso e per i piaceri, e che tra la fine del ’600 e per tutto il ’700 ebbe le sue più compiute espressioni nel teatro kabuki – teatro popolare, con canoni e regole molto diversi dal teatro aristocratico noˉ – e nell’arte delle xilografie – copie a stampa di un’incisione su legno.
venne però sconfitto nel 1600 da Tokugawa Ieyasu (1542-1616) che, nominato shogun nel 1603, impose il proprio clan, destinato a tenere lo shogunato fino alla restaurazione del potere diretto dell’imperatore nel 1868. Con i Tokugawa fu garantita una pace duratura e vennero rafforzati i poteri centrali grazie a un’amministrazione efficiente e a un sistema fiscale fondato, tra l’altro, su un catasto generale delle proprietà. L’ISOLAZIONISMO DURANTE LO SHOGUNATO TOKUGAWA La pace era assicurata non solo dal controllo diretto dello shogun sui daimyo più potenti (obbligati a risiedere nella capitale per lunghi periodi ogni anno), ma anche dalla decisione di chiudere il Giappone in un isolamento totale per evitare ogni minaccia, anche culturale o religiosa, proveniente dal mondo esterno. Questo isolamento durò dal 1639 al 1853. La chiusura valeva anche per il cattolicesimo giunto in Giappone alla metà del ’500 con missionari prima gesuiti e poi francescani: inizialmente accolto con favore, venne in seguito perseguitato e bandito perché sospettato di promuovere la penetrazione commerciale europea. Fecero eccezione a questo atteggiamento isolazionista solo i rapporti con la Cina, che continuò a essere ritenuta l’origine di ogni civiltà. Un’altra parziale eccezione riguardava gli olandesi, i soli europei a cui fu concesso di proseguire l’attività commerciale, limitata a poche navi l’anno, e confinata nell’isoletta artificiale di Dejima, posta nella Baia di Nagasaki. LA GERARCHIA SOCIALE Il centralismo feudale dei Tokugawa comportò un ridimensionamento della casta dei samurai, sempre più posti alla dipendenza dei signori e trasformati in burocrati o alti funzionari. Ma molti finirono per impoverirsi e regredire nella scala sociale diventando contadini, artigiani, mercanti o anche banditi. L’accentramento conviveva con una relativa autonomia amministrativa delle province: il diretto controllo del potere centrale, che con il tempo divenne sempre più blando, era comunque accettato dai daimyo in base al principio di lealtà (chu) proprio del confucianesimo. La dottrina di Confucio era penetrata nell’isola secoli prima influenzando molto il pensiero e la società giapponese: il principio confuciano di lealtà regolava tutti i rapporti nella società gerarchica
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giapponese, e infatti la lealtà dovuta al proprio signore veniva prima di ogni considerazione individuale ed era ritenuta la più alta virtù dell’individuo. LA VITALITÀ ECONOMICA E LA “RIVOLUZIONE INDUSTRIOSA” IN GIAPPONE Il Giappone espresse in questo periodo una notevole vitalità economica. Tipico del periodo Tokugawa, per esempio, fu lo sviluppo delle città, dovuto sia all’affermazione di grandi centri commerciali, soprattutto sulla costa come Osaka e Nagasaki, sia alla crescita della nuova capitale Edo (la futura Tokyo), favorita anche dalla costruzione di circa 600 residenze destinate ai daimyo che dovevano trasferirsi presso lo shogun. Il continuo movimento di persone e di merci determinò un notevole miglioramento della rete stradale tra la capitale, le province e la città commerciale di Osaka, dove le eccedenze di riso venivano commercializzate. Come in Cina e come anche nelle regioni più sviluppate dell’Europa occidentale [Ź1_1], il Giappone conobbe nel ’700 un incremento demografico legato all’aumento della produzione agricola e alla diffusione dell’industria rurale domestica, sostenuta da una forte etica del lavoro. Grazie alla introduzione dei criteri di selezione del seme e delle tecniche di irrigazione cinesi, crebbe la produttività del riso. Inoltre la diffusione della tessitura a domicilio della seta e del cotone, destinati ad essere commercializzati, determinava un surplus nelle entrate dei nuclei familiari e un corrispondente aumento dei consumi di beni durevoli e/o di oggetti di lusso. Questo circuito virtuoso e le competenze che generava avrebbero contribuito al successivo, seppure tardivo, sviluppo industriale del paese.
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Civiltà e commerci dell’Africa A sud dell’Africa mediterranea dominata dall’Impero ottomano, e oltre il Marocco e la Mauritania, dove si era installata dall’XI secolo la dinastia islamica degli Almoravidi, il continente africano a sud del Sahara, racchiuso com’era tra Oceano Atlantico e Oceano Indiano, appariva, tra ’600 e ’700, tagliato fuori dalle correnti di sviluppo delle grandi civiltà. E per gran parte lo era. L’ISLAM IN AFRICA Ma va ricordato anche che l’Africa era inserita da millenni nelle correnti di scambio con l’Europa e con l’Asia, inizialmente fornendo l’oro agli altri continenti, poi alimentando una costante tratta di schiavi. Mediatori di questi flussi commerciali erano stati dall’Alto Medioevo gli arabi musulmani.
STORIA IMMAGINE La moschea di Djenné nel Mali Djenné è la più antica città carovaniera del Mali. Abitata fin dalla metà del III secolo a.C., conserva ancora oggi numerosissime abitazioni risalenti ai secoli precedenti l’anno Mille. L’edificio più interessante della città è sicuramente la moschea, uno dei migliori esempi di architettura sahariana, che, con il tipico
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verticalismo, domina la piazza del mercato. Costruita come gli altri edifici su un rilievo che la protegge dalle inondazioni stagionali del vicino fiume Niger, la moschea di Djenné mostra in evidenza le impalcature, lasciate sempre in opera per poter riparare in tempi brevissimi gli eventuali danni causati dalle piogge torrenziali al materiale, l’adobe (un misto di argilla, paglia e sabbia) con cui è costruita.
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Intorno all’XI secolo, ma con tempi molto variabili, in alcuni dei regni africani che si erano formati tra il 400 d.C. e il 1300, prevalentemente nella zona sub-sahariana lungo il corso del Niger e fino al Golfo di Guinea, si era diffuso l’islam che, oltre alla religione, aveva portato la scrittura. Per quasi tutti i regni e per i periodi anteriori all’islamizzazione, l’assenza di fonti scritte costituisce la maggiore difficoltà per datare con certezza lo sviluppo cronologico di queste organizzazioni “statali”. Numerose sono invece le testimonianze artistiche (significative soprattutto per il Regno del Benin), architettoniche, come nella grande città carovaniera di Timbuctù nell’Impero del Mali, e quelle archeologiche.
Ÿ Saliera in avorio proveniente dal Benin (Nigeria) [Museum of Mankind, Londra] La saliera raffigura un soldato portoghese ed è sormontata da una riproduzione del particolare tipo di imbarcazione con cui i portoghesi costeggiavano l’Africa.
I REGNI AFRICANI E L’ORGANIZZAZIONE DEL POTERE Ad esse si aggiungono le descrizioni dei portoghesi, i primi a entrare in contatto con la parte costiera di questi regni a partire dalla fine del XV secolo, in una fase in cui queste realtà erano in forte declino o in via di dissolvimento, frammentate e divise da continui scontri tribali. Al tempo dell’arrivo e dello stanziamento degli europei lungo le coste dell’Africa centrale e meridionale vanno ricordati l’Impero Ashanti (nei territori dell’odierno Ghana), il Regno del Benin (o Dahomey) nel Golfo di Guinea e poco più a sud il Regno del Congo, mentre a est si trovava il Monomotapa (o Zimbabwe), tra i fiumi Zambesi e Limpopo, poi entrato per la sua parte orientale nei possessi portoghesi del Mozambico. Questi Stati non corrispondevano evidentemente al modello europeo dello Stato. Accanto a organizzazioni politiche complesse, estese su vasti territori e dotate di una propria burocrazia e di un proprio esercito, convivevano varie città-Stato e sistemi politici limitati a piccole comunità: qui erano fondamentali le relazioni tra i clan e il potere era detenuto dalla famiglia che godeva di maggior prestigio rispetto alle altre. In molti casi si trattava di vere e proprie organizzazioni
SISTEMI DI GOVERNO A CONFRONTO
IMPERO OTTOMANO
IRAN
INDIA
CINA
GIAPPONE
AFRICA
Sultano
Shah
Impero moghul
Impero Qing
Struttura feudale
Stati complessi e città-Stato e
Gran visir
Corpo militare dei giannizzeri
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Dinastia safavide
Sciismo
Struttura feudale
Sistema delle caste
Burocrazia mandarina
Etica confuciana
L’imperatore (mikado) detiene un potere simbolico
Piccole comunità basate sul sistema dei clan
Il potere effettivo viene esercitato dallo shogun (shogunato Tokugawa)
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LO SPAZIO DELLA STORIA
L’AFRICA NEL XVI-XVII SECOLO
DESERTO DEL SAHARA
N
Teghazza
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MAROCCO
IMPERO SONGHAI Gao
Timbuctù
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IMPERO ASHANTI
REGNO DEL BENIN (DAHOMEY)
Sennar
L. Ciad
Djenné
REGNO DI Zeila ETIOPIA Harar
REGNO DI KANEM
Congo L. Vittoria REGNO DEL CONGO
OCEANO ATLANTICO
Luanda
L. Tanganica
La carta illustra le principali formazioni politiche, regni e imperi dell’Africa tra XVI e XVII secolo. La costituzione di questi Stati avviene in un arco di tempo molto lungo, plurisecolare, ma non è sempre possibile darne una datazione certa. A partire dalla fine del XV secolo le descrizioni dei portoghesi hanno contribuito a rendere più chiaro il quadro.
Kilwa
L. Niassa
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Impero ottomano insediamenti europei
Mogadiscio Kismayo Malindi OCEANO Mombasa INDIANO
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“anarchiche”, ossia strutture politiche non gerarchizzate, dove non erano presenti capi e “forze di sicurezza” e l’unico vincolo sociale era rappresentato da norme di tipo consuetudinario e religioso. Del resto accanto all’islam erano presenti e talora convivevano credenze e culti politeisti tradizionali. Unico Stato cristiano in Africa, l’Etiopia si era formata come evoluzione e ampliamento dell’antico Regno di Axum, nato nel IV secolo d.C., spostandosi sempre più all’interno per resistere ai tentativi di conquista da parte dei musulmani: riuscì a rimanere indipendente fino al ’900 sconfiggendo l’Italia ad Adua nel 1896, ma soccombendo poi all’attacco fascista nel 1936.
L’ECONOMIA AFRICANA Prima della conquista europea, l’Africa era un MONOMOTAPA continente scarsamente abitato, con (ZIMBABWE) immensi spazi vuoti e un suolo geneOrange ralmente poco produttivo a causa delle difficoltà del clima e dell’arretratezza delle tecniche agricole. Molti territori erano abitati da nomadi e allevatori o da tribù di cacciatori-raccoglitori che non coltivavano la terra. Soltanto nella regione mediterranea e in alcune zone dell’Africa orientale e occidentale, quelle dominate dai musulmani, era praticata un’agricoltura intensiva con l’aratro. Altrove, in particolare nell’Africa centrale, i contadini ignoravano il sistema dell’alternanza delle colture e raramente praticavano la concimazione; quando un terreno diventava sterile si spostavano con le famiglie in un altro luogo: una scelta favorita anche dall’immensa disponibilità di spazi e dallo scarso valore assegnato alla proprietà della terra. A differenza dell’Europa, della Cina e delle altre civiltà più sviluppate, in Africa agricoltura e allevamento non erano generalmente attività complementari. Sena Sofala
L’ORO E GLI SCHIAVI Ma l’Africa aveva l’oro e le innumerevoli guerre intestine producevano un surplus di schiavi tra le popolazioni dei vinti. L’oro e gli schiavi, ma anche l’avorio, alimentavano lunghe vie commerciali che attraversavano il continente verso il Mediterraneo, il Mar Rosso e le coste dell’Oceano Indiano: di lì si diffondevano verso l’Arabia, il Medio Oriente e l’Asia centrale. Se dunque la costa orientale dell’Africa era già da secoli inserita in un antichissimo sistema di scambi, solo con i primi insediamenti europei, portoghesi in primo luogo, anche le coste occidentali diventarono protagoniste del commercio internazionale [Ź5_3].
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C4 Imperi e regni in Asia e in Africa RICORDARE L’ESSENZIALE Civiltà a confronto Tra ’600 e ’700 gran parte della popolazione mondiale era concentrata nelle zone dove si erano sviluppate le civiltà più evolute: l’Europa, i paesi islamici, l’India, l’Indocina, l’Indonesia, la Cina, la Corea, il Giappone. Qui si praticava un’agricoltura efficiente, che poteva contare su aratri e animali domestici, mentre in gran parte del resto del mondo i contadini continuavano a lavorare con la zappa. Esistevano poi comunità costituite soltanto da nomadi e allevatori o da cacciatori raccoglitori. L’Europa era il continente più urbanizzato del pianeta, sebbene anche in Asia si trovassero città grandissime (Istanbul, Delhi, Pechino). Le origini della supremazia europea possono individuarsi in tre ordini di fattori, che mancarono invece nei grandi imperi asiatici: lo sviluppo di un mercato libero e del capitalismo commerciale, la tutela dei diritti di proprietà, la superiorità tecnologica. Gli imperi asiatici Tra ‘600 e ’700 l’Impero ottomano era la compagine territoriale più estesa del mondo musulmano, sebbene al suo interno vi fossero comunità di religioni diverse dall’islam. La sua vastità e la frammentazione territoriale costituivano uno dei principali problemi per il governo centrale. Dato il progressivo abbandono dell’esercizio diretto del potere da parte del sultano, il governo era di fatto guidato dal gran visir (una specie di primo ministro) e dal corpo militare dei giannizzeri. Ad approfittare della situazione furono i governatori locali delle lontane province dell’Impero, che diedero vita a potentati autonomi. A fronte del declino del potere centrale, il sistema economico continuava invece a mostrare una notevole vitalità. Dalla seconda metà del ’600 fino alla fine del ‘700 ci fu un rilancio della politica espansionistica, in modo particolare nell’area balcanica, dove i Turchi arrivarono a minacciare direttamente l’Impero asburgico. Le sconfitte subìte in Europa misero in crisi il sistema militare, mentre la politica espan-
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Audiosintesi per paragrafi
sionistica della Russia determinò un ridimensionamento della compagine imperiale. La riorganizzazione istituzionale tentata al principio del ’700 per reggere il confronto con l’Europa occidentale trovò l’opposizione delle componenti ottomane più conservatrici (giannizzeri e ulema). Al contempo, a sud-est dell’Impero ottomano, in Iran (Persia), sorgeva un altro importante impero islamico dominato dalla dinastia safavide, sotto la quale si andò consolidando lo sciismo come religione ufficiale dello Stato. In India nel 1526 i turco-mongoli avevano dato vita all’Impero moghul, caratterizzato da una struttura sociale di tipo feudale e da una capillare struttura amministrativa e militare. La convivenza fra la cultura islamica e quella indù fu piuttosto difficile. Il processo di pacificazione iniziato a metà del ’500 fu interrotto, un secolo dopo, con l’introduzione di una politica religiosa intransigente, che portò alla disgregazione dell’Impero e alla formazione di Stati regionali indù in continua ostilità tra loro. Nel 1765 la East India Company inglese acquisì il diritto di riscuotere le tasse in India aprendo la via alla colonizzazione britannica destinata a durare fino al 1947. L’Estremo Oriente A metà del ’600, in Cina la dinastia dei Qing, provenienti dalla Manciuria, subentrò ai Ming. Dopo una prima fase caratterizzata da una politica repressiva, anche i mancesi vennero assorbiti dalla cultura e dalla civiltà cinese, soprattutto per quanto riguardava le forme di governo, fondato sul ceto dei burocrati-letterati, i mandarini. Di tradizione confuciana, i mandarini esprimevano gli interessi dei proprietari terrieri ed erano ostili alle attività commerciali. Nel periodo Qing si verificò un grande sviluppo demografico e una notevole prosperità nelle campagne, grazie anche alla lavorazione domestica dei tessuti in seta destinati al mercato. I rapporti con l’estero servirono soprattutto alle esportazioni, poiché la Cina era un paese sostanzialmen-
te autosufficiente, e fino al ’700 si confermò il maggior paese esportatore del mondo. Nel periodo Qing, inoltre, si registrò la fine delle buone relazioni tra la corte imperiale e i missionari gesuiti. La sinizzazione di alcuni aspetti del cattolicesimo fu aspramente criticata da Roma e i gesuiti furono costretti a ripristinare l’ortodossia cattolica, venendo allontanati da Pechino. Il Giappone ancora nel XVII secolo presentava un’organizzazione del potere di stampo feudale su tre livelli: al vertice, l’imperatore; al secondo livello, lo shogun, che esercitava il governo effettivo; al terzo livello i daymo, i signori feudali. Un ruolo importante era svolto anche dai samurai, la casta militare. In questo contesto, nel 1603, fu nominato shogun Tokugawa Ieyasu. Questi diede vita a una dinastia che avrebbe governato l’isola per 250 anni. Nel periodo Tokugawa fu rafforzato il potere centrale fondato sul principio di lealtà al signore di ispirazione confuciana; vennero garantiti la pace e l’ordine interni, ma soprattutto furono eliminati quasi interamente i contatti con il mondo esterno. Nonostante la politica isolazionista, il Giappone visse un notevole sviluppo economico che interessò anche le campagne, dove prese piede l’industria rurale domestica. L’Africa L’Africa era un continente poco abitato, con un suolo poco produttivo a causa del clima e dell’arretratezza delle tecniche agricole. Molti territori erano abitati da nomadi e allevatori o da tribù di cacciatori-raccoglitori che non coltivavano la terra. L’organizzazione del potere era differenziata: grandi organizzazioni politiche, ma anche città-Stato e comunità fondate sulle relazioni tra i clan. Accanto all’islam erano diffusi i culti politeisti più antichi. L’unico regno cristiano, indipendente fino al ’900, era quello d’Etiopia. I primi contatti con gli europei favorirono la progressiva integrazione del continente nei circuiti commerciali mondiali, grazie alla grande disponibilità di oro, avorio e schiavi.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte. Le origini della supremazia europea vanno ricercate: a. Nella superiorità culturale e religiosa dell’Europa rispetto al resto del mondo. b. Nella lunga durata dell’egemonia risalente al Medioevo. c. Nello sviluppo e nel dinamismo del capitalismo commerciale.
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d. Nella tutela dei diritti di proprietà. e. Nello sviluppo di un mercato libero e competitivo. f. Nella superiorità tecnologica (navigazione, ottica, orologi, armamenti). g. Nella capillare penetrazione della cultura e della tecnologia occidentale nei grandi imperi asiatici.
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C4 Imperi e regni in Asia e in Africa
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2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Nel ‘600 la vita economica dello Stato ottomano… a. fu rivoluzionata dall’ingresso nel Mediterraneo delle navi delle potenze europee; b. si basava su un complesso sistema di scambi provenienti dall’Asia e dall’Africa; c. fu distrutta per sempre dall’apertura delle rotte oceaniche. 2. Agli inizi del ‘700 gli Stati autonomi regionali dell’India… a. si unificarono per rispondere all’invasione coloniale inglese; b. rappresentavano gli interessi locali dell’aristocrazia indù; c. sorsero per difendere l’antica fede islamica dalla riforma religiosa. 3. I Qing erano... a. una dinastia di nomadi provenienti dalla Manciuria, che conquistò il potere nel 1644 sottraendolo ai Ming; b. un’importante dinastia cinese logorata dalla corruzione interna e dall’incapacità di reprimere le numerose rivolte contadine; c. una dinastia di burocrati cinesi che basava la sua forza sul confucianesimo.
4. Il confucianesimo era alla base... a. di un complesso di norme etiche e filosofiche che davano vita ad un pensiero sociale rivoluzionario; b. di un complesso di norme etiche e filosofiche che portavano il popolo cinese ad aprirsi all’innovazione e agli stranieri; c. dell’apparato burocratico che caratterizzava l’amministrazione cinese. 5. La politica della dinastia Togukawa in Giappone … a. trasformò i samurai in burocrati e funzionari e costrinse molti di loro a cambiare mestiere; b. non ridusse il prestigio dei samurai, che potevano contare sui privilegi feudali; c. aveva due ostacoli: il potere dei daimyo e i princìpi religiosi del confucianesimo. 6. Nelle società africane che furono definite «anarchiche» a. non esistevano leggi e regole; b. ciascun clan aveva le sue leggi; c. non esisteva il concetto di Stato.
3 Completa il seguente schema relativo ad alcuni aspetti che caratterizzavano l’Impero ottomano, indicando negli insiemi gli elementi corrispondenti. 1. commercio di cotone, seta, oro e caffè / 2. governatori locali / 3. comunità autonome (millet) / 4. comunità di cristiani ortodossi / 5. scontri militari / 6. gran visir / 7. comunità cattoliche / 8. giannizzeri/ 9. sultano. C. Religione
B. Relazioni con l’estero
A. organizzazione politica
IMPERO OTTOMANO
COMPETENZE IN AZIONE 4 Completa la seguente tabella sugli aspetti relativi al sistema di governo, alla religione, all’economia e ai rapporti dei regni al di fuori dell’Europa. Quindi, scrivi un testo descrittivo con i contenuti da te individuati. Sistema di governo
Religione
Economia
Rapporti con l’Europa
India Cina Giappone Africa
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C5 L’espansione coloniale europea nel ’700 EXTRA ONLINE
Storiografia Ch.H. Parker, Una prospettiva globale: come studiare le società in relazione tra loro
Il Libro A.W. Crosby, Imperialismo ecologico
Storia e Geografia Il viaggio degli schiavi
Storia e Cinema Mission di Joffé
Focus Prodotti e mode “coloniali”: caffè e tè
Commerci e colonie europee 1 in Asia e America Alla metà del ’600 si era già consolidata l’espansione coloniale europea: a ovest nelle Americhe, a sud verso l’Africa, a est verso l’Asia. SPAGNA E PORTOGALLO Protagonisti iniziali di questa politica, a partire dal periodo delle scoperte geografiche alla fine del ’400, erano stati gli spagnoli e i portoghesi. A Occidente le due potenze iberiche avevano ormai costituito i loro imperi dotati di un’efficiente amministrazione controllata dalla madrepatria. La Spagna dominava, a partire dal Messico, tutto il versante occidentale e meridionale dell’America del Sud a cui si aggiungevano le maggiori isole delle Antille, il Portogallo aveva invece conquistato il Brasile. Il trattato di Tordesillas del 1494 aveva, come sappiamo, suddiviso verticalmente le due sfere di conquista: le terre a ovest della raya (l’immaginaria linea di divisione che attraversava l’Oceano Atlantico) spettavano alla Spagna, quelle poste a est al Portogallo. A sud e a est furono i portoghesi a fondare le prime basi commerciali lungo le coste africane occidentali e orientali, per poi conquistare Goa in India nel 1510 e Macao in Cina nel 1557, due colonie destinate a rimanere al Portogallo, rispettivamente, fino al 1961 e al 1999. Nel 1543 erano arrivati in Giappone portando le armi da fuoco e introducendo il cristianesimo. Gli spagnoli, dal canto loro, giunsero in Asia da est, dal Messico, uno dei più antichi domìni della Spagna in America, per conquistare le Filippine a partire dal 1565.
compagnia commerciale Le compagnie commerciali erano associazioni di mercanti formate per promuovere e gestire il traffico dell’Europa con paesi lontani, soprattutto con l’Oriente. Le compagnie correvano enormi rischi nello svolgere le loro attività: per esempio, capitava spesso che per il maltempo perdessero le navi e il loro ricco carico. In cambio i governi concedevano loro il monopolio del commercio e il potere di occupare i territori e di amministrarli. Le principali compagnie commerciali nacquero nel ’600 in Inghilterra, Olanda e Francia. A mano a mano che i traffici divennero più sicuri, ai governi non conveniva più concedere privilegi alle compagnie e queste decaddero. L’ultima a essere soppressa fu, nel 1858, la Compagnia inglese delle Indie orientali.
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LE ALTRE POTENZE NAVALI Questo duplice scenario geografico subì profondi mutamenti tra gli inizi del ’600 e la fine della guerra dei Sette anni, nel 1763 [Ź2_5]. Altre potenze europee cominciarono infatti a contrastare l’egemonia spagnola nelle Americhe e quella portoghese in Africa e in Asia. Erano tutte potenze navali dell’Atlantico: Francia, Olanda, Gran Bretagna e Danimarca e tutte si spinsero nei due quadranti occidentali e orientali. Inizialmente a prevalere fu il modello portoghese della fondazione di scali commerciali, poi presero avvio le conquiste territoriali. Col sostegno degli Stati furono le compagnie commerciali* dei singoli paesi sia a impiantare i primi insediamenti sia a procedere nell’occupazione dei territori. Non si trattava di una pacifica competizione, ma di veri e propri conflitti per ottenere privilegi di esportazione dalle coste occupate e di guerre di rapina, sostenute dalle marine militari, per sottrarre possessi coloniali alle potenze rivali. Se in un primo momento i portoghesi si erano appropriati del commercio orientale delle spezie, che per secoli era stato organizzato e controllato dagli arabi, tradizionali mediatori tra l’Occidente e l’Estremo Oriente, gli olandesi prima e gli inglesi poi, affacciatisi sui mari orientali all’inizio del ’600, soppiantarono progressivamente l’egemonia portoghese [Ź _12]. GLI OLANDESI E GLI INGLESI IN ASIA Così verso la metà del ’600 la Compagnia olandese delle Indie orientali, un’associazione di mercanti a cui il proprio
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C5 L’espansione coloniale europea nel ’700
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governo aveva concesso il monopolio dei traffici con l’Oriente, divenne la più significativa presenza europea in Asia. I mercanti olandesi riuscirono a impadronirsi delle Molucche, le favolose isole delle spezie, della Malacca, di Sumatra e di Giava dove, a Batavia (Jakarta), fissarono la capitale del loro impero commerciale. Da lì, per quasi mezzo secolo, gli olandesi furono padroni del traffico delle spezie, in particolare della noce moscata e dei chiodi di garofano, dei quali riuscirono ad avere il monopolio assoluto. Molto meno ricca della concorrente olandese, l’inglese East India Company concentrò i propri interessi sulla costa orientale dell’India, una zona che gli olandesi avevano trascurato e dove si stavano installando anche i francesi. Successivamente l’attività fu estesa più a nord, al Bengala, ma il risultato più importante fu l’acquisizione di Bombay (1665), fondamentale nodo commerciale sulla costa occidentale indiana. L’Inghilterra importava dall’Oriente tè, caffè, salnitro, ma soprattutto tessuti – sete, cotoni, broccati. Anche l’Olanda e la Francia importavano grandi quantitativi di tessuti indiani, mettendo in allarme i produttori europei di tessuti in seta, lana e lino: ma, nonostante il tentativo di arginare le importazioni con vincoli protezionistici, le compagnie commerciali furono sempre più impegnate nell’importazione di prodotti orientali in Occidente. LO SCONTRO TRA GRAN BRETAGNA E FRANCIA IN INDIA Nel 1673, con la cessione alla Compagnia francese delle Indie orientali del villaggio di Pondichéry, non lontano dal possedimento inglese di Madras, la Francia diede inizio al tentativo di costituire un proprio impero coloniale in India, entrando in contrasto con la Gran Bretagna nel Bengala. Lo scontro tra le due potenze si accentuò durante la guerra dei Sette anni (1756-63) e la potenza navale britannica riuscì a sovrastare
LO SPAZIO DELLA STORIA
IL SISTEMA COLONIALE EUROPEO A METÀ DEL XVIII SECOLO
12
Groenlandia DANIMARCA Siberia ALASKA
Islanda GRAN Mosca BRETAGNA Terranova CANADA PAESI BASSI St. Pierre e Montréal Québec FRANCIA Miquelon Azzorre New York Nuova SPAGNA Scozia Gibilterra Vicereame della St. Domingue Bermuda Madeira Nuova Spagna Española Florida Il Cairo St. Croix Canarie Sahara Città del Messico Cuba Capo Verde
IMPERO RUSSO
PORTOGALLO
Louisiana
Sinkiang PER
Manaus Vicereame del Brasile
Vicereame del Perù OCEANO PACIFICO
Santiago
Assinie
OCEANO ATLANTICO
Elmina
Fernando Poo
Luanda
Angola
Rio de Janeiro St. Elena Buenos Aires
SIA
Fort Dauphin
Delagoa Bav Provincia del Capo
Delhi
BIA
Coast
GIAPPONE CINA
OCEANO Deshima Chandernagore PACIFICO Calcutta Daman India Serampore Macao Is. Marianne Isole Bombay Madras Siam Filippine Goa Pondichéry Is. Nicobare Is. Caroline Mahé Ceylon Sumatra Singapore Halmaera Quilon Betan Kapas Borneo Celebes NUOVA GUINEA Benkulen Giava Timor Madagascar Silebar
A AR
Puerto Rico Guadalupa Gorée Senegambia Accra Guiana Barbados Albreda Ningo Caienna
Honduras Giamaica Britannico Mosquito Vicereame della Nuova Granada
MONGOLIA
Maurizio Riunione
NUOVA OLANDA (Australia)
OCEANO INDIANO
Is. Falkland/Malvine
possedimenti spagnoli possedimenti portoghesi
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possedimenti britannici possedimenti francesi
possedimenti olandesi possedimenti danesi
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le forze francesi: gli inglesi posero l’assedio a Pondichéry e la conquistarono (1761). La Francia, sconfitta, dovette abbandonare il Bengala mentre la Compagnia britannica, rimasta sola a dominare il commercio con l’India, avrebbe poi assunto l’amministrazione del Bengala e del Bihar, trasformando così un dominio commerciale in un vero e proprio possedimento coloniale. Solo dopo la metà dell’800 la Corona britannica avrebbe assunto il diretto controllo dell’India. bucaniere/filibustiere I due termini erano usati per indicare i corsari che facevano le loro scorrerie nel Mar dei Caraibi nel ’600. “Bucaniere” viene dal francese boucanier, a sua volta derivato probabilmente dalla parola caraibica boucan, che indicava lo strumento usato per affumicare la carne degli animali. I bucanieri, prima di darsi alla pirateria, erano stati infatti cacciatori e piantatori nelle isole caraibiche. Cacciati dagli spagnoli, avevano allestito una flotta con cui combattevano e depredavano le navi dei loro nemici. La parola “filibustiere” viene invece dallo spagnolo filibustero che deriva dall’olandese vrijbuiter, “colui che fa libero (vrji) bottino (buit)”. Il termine “filibustiere” nel linguaggio comune viene usato oggi per indicare un avventuriero senza scrupoli.
I CONFLITTI NELLE AMERICHE E LA CONQUISTA DELLE ANTILLE Ben più accesi e prolungati furono i contrasti tra le potenze nelle Americhe: prima nelle Antille, poi nell’America settentrionale. La Spagna aveva imposto alle sue colonie di commerciare solo con la madrepatria, ma questo monopolio fu continuamente attaccato dalla pirateria e dal contrabbando, praticati soprattutto da inglesi, olandesi e francesi. I pirati – bucanieri* o filibustieri* – assaltavano e depredavano le navi cariche di metalli preziosi, mentre i contrabbandieri, con la complicità delle autorità locali, smerciavano beni fortemente richiesti nelle colonie e che la Spagna non era in grado di fornire. Le numerose isole delle Grandi e Piccole Antille costituivano punti di appoggio ideali per le azioni dei pirati e dei contrabbandieri e, dal momento che gli spagnoli controllavano solo le più grandi fra esse (Cuba e Santo Domingo), olandesi, inglesi e francesi si insediarono in questa area durante il ’600. L’iniziativa fu presa come sempre dalle compagnie commerciali. Gli olandesi si stabilirono a Curaçao dal 1634 e in altre isole a ridosso dell’attuale Venezuela. La Compagnia olandese delle Indie occidentali, inoltre, amministrava sul continente la Guiana, dove alla fine del ’500 era stata introdotta la coltivazione della canna da zucchero. La Guiana fu a lungo molto contesa e, accanto agli olandesi, vi si insediarono gli inglesi e i francesi. Gli inglesi avevano possedimenti disseminati lungo tutto l’arco delle Piccole Antille, conquistati prevalentemente nella prima metà del ’600. Tra il 1625 e il 1629 si impadronirono di molte isole dell’arcipelago Bahama e nel 1655 della Giamaica, la terza per dimensioni delle Grandi Antille e grande centro di I DOMÌNI COLONIALI EUROPEI
SPAGNA
California, Messico e versante sud-occidentale dell’America
PORTOGALLO
OLANDA
Brasile
Molucche
Coste africane
Malacca
Metalli preziosi
GRAN BRETAGNA
India
FRANCIA
Antille
Tessuti in seta e cotone
Zucchero
Tè
Canada
Nord America
Pellicce e legname
Giava Schiavi
Filippine Macao e Goa
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Spezie
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smistamento degli schiavi africani. Nello stesso periodo, i francesi occuparono alcune isole nelle Piccole Antille (fra cui Guadalupa e Martinica nel 1635) e la parte occidentale di Santo Domingo, che denominarono Haiti. BRITANNICI E FRANCESI NEL NORD AMERICA Lungo le coste orientali dell’America settentrionale gli inglesi avevano dato avvio, dai primi anni del ’600, a una serie di colonie di popolamento (deputate all’insediamento dei migranti dalla madrepatria) subentrando, in qualche caso, a svedesi e olandesi: Nieuw Amsterdam, per esempio, nel 1664 divenne New York. Riuscirono poi a unificare i loro territori, dove si rafforzò il controllo diretto della madrepatria con la nomina di un governatore e di pubblici funzionari, che cercarono di limitare le autonomie amministrative e le forme di autogoverno locale. Molto più a nord i francesi si erano insediati in Canada lungo il corso del fiume San Lorenzo: la penetrazione era stata avviata dai mercanti di pellicce che commerciavano con i pellerossa, tribù indiane per lo più nomadi che vivevano nell’area praticando caccia e allevamento. In realtà, la presenza francese fu sempre numericamente limitata, anche perché il divieto di immigrazione per gli ugonotti impedì che nella colonia giungesse la sola comunità che, come i dissidenti religiosi inglesi, cercava di espatriare per non subire le persecuzioni di cui era vittima. Nella prima metà del ’600 vennero fondate le prime importanti basi in Canada, Québec e Montréal. In seguito i francesi scesero dalla regione dei Grandi Laghi lungo il corso del fiume Ohio e nel bacino del Mississippi costruendo delle piazzeforti lungo i fiumi. La presenza francese a nord e a ovest delle colonie britanniche rese inevitabile lo scontro tra le due potenze schierate su fronti avversi nelle guerre del ’700 europeo: così la Francia, in seguito alla pace di Utrecht (1713) che poneva fine alla guerra di successione spagnola [Ź2_2], dovette rinunciare a Terranova e alla Nuova Scozia, riuscendo però a conservare il Canada e il controllo del bacino del Mississippi, che in onore di Luigi XIV era stato chiamato Louisiana. In seguito però, al termine della guerra dei Sette anni (1763), che in America è ricordata come la French and Indian War (per l’alleanza franco-indiana in funzione antibritannica), la Gran Bretagna ottenne dalla Francia il Canada e i territori della Louisiana a est del Mississippi e dalla Spagna la Florida [Ź2_8]. Da parte sua la Spagna ricevette in cambio la Louisiana a ovest del Mississippi con Nuova Orléans. I domìni francesi in America erano ormai ridotti alle isole delle Antille, mentre la Gran Bretagna conquistava una indiscussa egemonia territoriale nel Nord America [Ź _13].
2
Lo Stato cristiano-sociale dei gesuiti LE COMUNITÀ GESUITE Nel panorama delle conquiste europee dell’America meridionale una vicenda unica e irripetuta fu la costituzione dei cosiddetti Stati missionari. Fin dall’inizio della penetrazione spagnola, fu evidente la violenta contrapposizione tra la brutale politica di sfruttamento degli indigeni operata dai colonizzatori e i tentativi di protezione offerti da alcuni ordini religiosi. La difesa di popolazioni considerate come destinatarie privilegiate del messaggio evangelico non era possibile se non isolando gli indios dai colonizzatori spagnoli. In questa concezione convivevano problemi reali e utopie teocratiche. I più attivi e i più risoluti nel realizzare questo disegno furono i gesuiti. Nella regione del Paraguay, tra 1610 e 1628, furono istituite tredici comunità o
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Ÿ Pianta della riduzione di San Carlo L’impianto urbano di tutte le riduzioni gesuite era caratterizzato dal ruolo dominante della chiesa e della piazza, intorno alla quale si allineavano ordinatamente le abitazioni dei guaraní.
collettivismo Un sistema economico e sociale in cui la proprietà e i mezzi di produzione appartengono alla collettività.
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riduzioni (reducciones) nelle quali vivevano oltre 100 mila indios, in prevalenza guaraní. Le riduzioni erano organizzate sui princìpi dell’eguaglianza sociale e della comunità dei beni, nel tentativo di costituire una vera e propria repubblica cristiana dove i princìpi evangelici venissero concretamente vissuti. Presto questi villaggi bene organizzati divennero obiettivo dei bandeirantes, meticci brasiliani provenienti dai territori di San Paolo, cacciatori di schiavi, che consideravano una preda molto ambìta gli indios convertiti, educati e già addestrati al lavoro. In pochi anni ne furono catturati circa 60 mila. Le riduzioni furono costrette a spostarsi più a sud, oltre le cascate dell’Iguazú, dove la difesa era più agevole. Altrove, nelle zone dei fiumi Uruguay e Rio Grande do Sul, i gesuiti organizzarono una risposta armata e nel 1641 sconfissero le truppe dei bandeirantes. EVANGELIZZAZIONE ED EDUCAZIONE AL LAVORO Passate alla storia come tentativo di dar vita a forme di collettivismo* economico-sociale a base religiosa o come realizzazione di uno “Stato ideale della Controriforma”, le riduzioni gesuite furono per oltre un secolo e mezzo un grandioso esperimento “culturale” e sociale. Un esperimento che mirava non solo a convertire al cristianesimo popolazioni primitive, ma a educarle al lavoro agricolo e artigianale e a una nuova organizzazione di vita. Per energia, inventiva e adattabilità alle circostanze, i gesuiti non avevano rivali tra gli ordini religiosi. L’introduzione delle più avanzate tecnologie occidentali fu favorita da un’abile politica educativa, nel rispetto delle tradizioni indigene. Così l’addestramento al lavoro non fu forzato, ma seguì le vie della competizione e del gioco, mentre l’organizzazione della comunità vide convivere l’autorità tradizionale dei capitribù con una rappresentanza municipale eletta. Giocavano inoltre a favore dei gesuiti fattori magici e rituali, che consentivano loro di mantenere un rigido controllo sulle comunità indie. Obiettivo e condizione di sopravvivenza delle riduzioni era tenerle lontane dalla “civiltà” e controllarne le relazioni umane e commerciali. Questo filtro e questa mediazione suscitarono presto l’ostilità dei coloni europei delle zone costiere, che vedevano ostacolati i propri metodi di impiego della manodopera e le proprie regole di mercato.
Ź La chiesa di São Miguel das Missões [São Miguel das Missões, Brasile] Una esperienza unica nella colonizzazione americana fu quella realizzata dai missionari, in particolare dai gesuiti. La chiesa barocca di São Miguel das Missões, in Brasile, è ciò che rimane dell’omonima riduzione attiva fra il 1632 e il 1768. Dal 1984, queste rovine sono entrate a far parte dell’elenco dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco.
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Lo Stato cristiano-sociale dei gesuiti non sarebbe potuto sopravvivere senza il consenso dell’autorità civile. Ma quando nel 1750 la Spagna cedette al Portogallo i territori del Paraguay dove erano situate le riduzioni, gli indios, sostenuti dai gesuiti, opposero una resistenza armata. Questo fatto, unito all’avversione per i gesuiti e per il loro “Stato sacerdotale”, fornì al primo ministro portoghese, il marchese di Pombal, il pretesto per la chiusura delle riduzioni. Due anni dopo la Compagnia di Gesù sarebbe stata soppressa in Portogallo e nel 1767 lo sarebbe stata in Spagna. Espulsi i gesuiti da tutti i territori portoghesi e spagnoli, chiuse le missioni, ebbe termine questo singolare tentativo di “acculturazione”.
La tratta degli schiavi e il commercio 3 triangolare atlantico Fare storia Il commercio degli schiavi: la tratta atlantica e la rivoluzione commerciale, p. 156
I METALLI PREZIOSI L’economia delle Americhe era stata caratterizzata in un primo, lungo periodo, essenzialmente dall’esportazione dei metalli preziosi, oro e argento, dalle colonie spagnole. Si è calcolato che dal 1500 al 1660 furono introdotte in Europa 181 tonnellate d’oro e 16 mila tonnellate d’argento, pari al 25% dell’intera disponibilità europea. L’argento americano contribuì ad aumentare in misura rilevante le risorse finanziarie della Corona spagnola, ad accrescere la circolazione monetaria in Europa e a consentire gli acquisti sui mercati dell’Estremo Oriente. IL SISTEMA AGRICOLO DELLE PIANTAGIONI E LA CANNA DA ZUCCHERO Nella seconda metà del ’500 si affermò anche il sistema agricolo delle piantagioni. La piantagione era una grande proprietà terriera dedita in genere a una sola coltura: canna da zucchero, cacao, caffè, cotone, tabacco, tutti prodotti destinati all’esportazione. Questo tipo di sfruttamento della terra si diffuse nelle zone lungo le coste dell’Oceano Atlantico, come il Brasile e la Guiana, e nelle Antille. Il sistema delle piantagioni era approdato in America Latina con l’inizio della coltivazione della canna da zucchero in Brasile. Originaria del Golfo del Bengala in India, la canna da zucchero aveva percorso un lungo viaggio verso
STORIA IMMAGINE Una raffineria di zucchero in Brasile 1667 [da Joan Blaeu, Geographia, Nationalbibliothek, Vienna] Fonte di inesauribile ricchezza per i coloni europei, la produzione di zucchero richiedeva un duro lavoro sia nelle piantagioni che nelle raffinerie. La manodopera era assicurata quasi esclusivamente da schiavi neri importati dall’Africa. Gli engenhos de açúcar – di cui l’immagine riproduce in primo piano il mulino (engenho) di spremitura della canna da zucchero – erano complessi che comprendevano anche la casa del colono, o “casa grande”, e le baracche degli schiavi o senzales.
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melassa Sciroppo ottenuto dalla lavorazione della canna da zucchero o, in seguito, della barbabietola, che non si cristallizza nonostante l’alto contenuto di saccarosio. La melassa di canna viene impiegata nei processi di fermentazione per la produzione del rhum, quella di barbabietola per la produzione della birra e del lievito di birra.
Storiografia 25 K. Polanyi, Le conseguenze della tratta: il caso del Dahomey, p. 158
Storiografia 23 L.A. Lindsay, Perché gli africani vendevano gli schiavi?, p. 156
Storiografia 24 W. Reinhard, La logistica del commercio degli schiavi, p. 157
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ovest, attraverso il Medio Oriente, Cipro e la Sicilia. Dalla seconda metà del ’400 era coltivata nelle isole atlantiche portoghesi a ridosso dell’Africa (Madera, Azzorre, Canarie) dove si impiegava il lavoro degli schiavi africani. Di lì la canna da zucchero varcò l’oceano e si affermò in Brasile nella seconda metà del ’500. Per la coltivazione della canna da zucchero sono necessari un clima caldo-umido, energia idrica o animale, legname, capitali per i mulini di spremitura e una larga disponibilità di manodopera da impiegare soprattutto nella raccolta. I portoghesi disponevano dei capitali occorrenti per le macchine, il Brasile forniva tutto il resto ma non la manodopera. Gli indios, infatti, dove non erano stati decimati, erano considerati troppo ostili o fisicamente inadatti al lavoro pesante, organizzato e disciplinato delle piantagioni. LA TRATTA DEGLI SCHIAVI Così cominciarono a essere importati schiavi neri dall’Africa. Gli insediamenti portoghesi sulle coste africane operavano come centri di raccolta verso i quali venivano convogliati i neri fatti prigionieri in azioni di guerra o in razzie nell’interno. Gli schiavi erano in primo luogo vittime delle guerre fra gli Stati africani o fra i diversi clan e tribù, ed era proprio la loro condizione di prigionieri di guerra a giustificarne la schiavitù. Del resto non furono gli europei a introdurre la schiavitù, che era invece una istituzione già diffusa in Africa e alimentata dalla domanda del mondo arabo. Gli europei diedero invece nuovo sviluppo a questo mercato tradizionale offrendo, in cambio degli schiavi, prodotti molto ambiti, come tessuti, chincaglieria, ferramenta minuta, coltelli, ma soprattutto armi da fuoco e cavalli. A questi prodotti si aggiunse in seguito l’alcool, in particolare il rhum. IL COMMERCIO TRIANGOLARE I portoghesi, che controllavano nel ’500 questi scambi, imbarcavano schiavi in Africa, li vendevano in America e riportavano in Europa le navi cariche di zucchero o di melassa*: così i traffici legati allo zucchero si configuravano come un commercio triangolare, che sarebbe divenuto caratteristico dell’intero sistema commerciale atlantico. L’economia delle piantagioni – non solo di canna da zucchero, ma anche di caffè, tabacco, cotone –, fondata sul lavoro degli schiavi, presto si diffuse dal Brasile ad altre zone dell’America: prima le Antille e poi l’America del Nord. Data l’elevata mortalità degli schiavi nelle piantagioni – nelle quali la speranza di vita non superava
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 2
Mercanti di schiavi a Gorea, 1796 [da Jacques Grasset de Saint-Sauveur, Les Costumes des Peuples, Bibliothèque des Arts décoratifs, Parigi] In questa incisione due mercanti, uno bianco e uno nero, discutono tra loro contrattando il prezzo di due schiavi. Dagli abiti indossati dai quattro personaggi è possibile individuare i ruoli. Come si vede, l’atteggiamento del mercante africano è proprio di una persona sicura di sé, in grado di far valere i propri diritti e che non è sottoposta ad alcuna pressione. GUIDA ALLA LETTURA a Indica per iscritto gli elementi gra- b Spiega quale rapporto esiste fra il fici che consentono di riconoscere il commerciante europeo e quello africaruolo dei personaggi raffigurati. no e quali elementi dell’incisione consentono di descriverlo.
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C5 L’espansione coloniale europea nel ’700
LO SPAZIO DELLA STORIA
LE AMERICHE E IL COMMERCIO TRIANGOLARE ATLANTICO (1763)
Nel corso del ’700, con la progressiva erosione dei domìni coloniali della Francia, si consolidò l’egemonia mondiale della Gran Bretagna. Un’egemonia fondata sulla supremazia della marina militare, ma soprattutto sul dominio britannico nel commercio triangolare atlantico.
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GROENLANDIA
TERRITORI DEL NORD-OVEST fatti ro che s s ne la me oto e, c c s e ,p ne car
fino al 1763 francese
manu
uc a, z
armi, tess uti
legname, carne, pesce
melassa
New York
LOUISIANA
VICEREAME DELLA New Orleans e, NUOVA SPAGNA am legn BAHAMA CUBA(brit.) SANTO schia vi DOMINGO Città del Messico GUADALUPA (fr.) SENEGAL MARTINICA (fr.) rhum GUIANA sch i a v i Bogotá VICEREAME DI schi avi NUOVA GRANADA 1630-54
ANGOLA
olandese
VICEREAME DEL PERÙ
Potosi San Paolo Rio de Janeiro VICEREAME DEL RIO Buenos Aires DE LA PLATA
OCEANO PACIFICO
SANT’ELENA (brit.) l i da o iav c sch ambi z Mo
possedimenti spagnoli possedimenti portoghesi possedimenti britannici possedimenti francesi possedimenti olandesi possedimenti russi possedimenti danesi missioni gesuite
Recife R
OCEANO ATLANTICO
TERRA DEL CAPO (SUDAFRICA)
i dieci anni –, la manodopera nera andava continuamente rinnovata. La forzata immigrazione degli africani – si calcola che ne furono “importati” da 10 a 12 milioni tra il 1525 e il 1867 – non solo produsse durature trasformazioni nelle strutture sociali ed economiche, ma diede luogo a una vera e propria rivoluzione etnica e demografica. Quando, agli inizi dell’800, fu possibile tracciare IL COMMERCIO TRIANGOLARE partono navi cariche di
EUROPA
Armi, chincaglierie, rhum
per
AFRICA
esportati in
scambiati con
Zucchero, tabacco, caffè, cotone e scambiati con
Piantagioni
Schiavi prigionieri di guerra portati in
impiegati nelle
AMERICA
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Ź Una nave negriera [Bibliothèque Nationale, Parigi] In questa anonima incisione viene descritto il metodo “migliore” per stivare nelle navi gli schiavi neri provenienti dall’Africa. Prima della partenza, il carpentiere di bordo aveva il compito di predisporre la stiva per alloggiare gli schiavi in modo tale da poterne imbarcare il maggior numero possibile. A tribordo (il fianco destro della nave) venivano alloggiati col sistema “a cucchiaio”, ossia girati in avanti e incastrati l’uno di fronte all’altro; a babordo (il fianco sinistro della nave), invece, venivano girati all’indietro affinché potessero respirare più facilmente.
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un quadro statistico della popolazione americana, risultò che i neri di origine africana erano la componente etnica più numerosa in Brasile (dove la schiavitù fu abolita solo nel 1888) e di gran lunga maggioritaria nelle Antille. IL PREDOMINIO BRITANNICO
Naturalmente molti altri paesi europei e singole città portuali partecipavano al sistema di commercio triangolare atlantico iniziato dai portoghesi. La città libera di Amburgo si era specializzata come mercato delle spezie e dello zucchero mentre Nantes e Bordeaux, in Francia, si svilupparono grazie alla tratta degli schiavi trasportati sulle loro navi. Ma era la potenza navale britannica a crescere a spese delle altre nazioni marittime. Questo predominio si accrebbe lungo tutto il ’700. In uno dei settori più importanti, quello del commercio degli schiavi, la Gran Bretagna aveva ottenuto con la pace di Utrecht del
LEGGERE LE FONTI
Uno schiavo racconta da B. Armellin, La condizione dello schiavo. Autobiografie degli schiavi neri negli Stati Uniti, Einaudi, Torino 1975, pp. 9; 14-19
Le testimonianze dirette degli ex schiavi neri del Nord America mettono in luce chiaramente tutta la ricchezza e la complessità della condizione umana dello schiavo. In questo brano, Gustavus Vassa (1745-1801), fatto prigioniero durante
l’adolescenza nel Regno del Benin, racconta la cattura nel villaggio natale e la terribile traversata. Dopo molteplici peripezie egli riuscì a riscattare la propria libertà e in Inghilterra, dove si era rifugiato, scrisse nel 1789 la sua autobiografia.
Un giorno, mentre tutti i nostri lavoravano nei campi come il solito e solo noi due, io e mia sorella, eravamo lasciati a badare alla casa, due uomini e una donna scavalcarono il muro e in un attimo si impadronirono di noi due [...] Le prime cose che vidi appena giunsi alla costa, furono il mare e una nave all’ancora in attesa del suo carico di schiavi. Questa vista mi riempì di stupore, che si trasformò subito in terrore, quando fui portato a bordo. [...] Già quand’eravamo sulla costa il fetore della stiva era così nauseante e intollerabile che era pericoloso restarci anche per breve tempo, ad alcuni di noi era permesso di rimanere sul ponte a respirare aria pura, ma ora che tutto il carico era ammucchiato insieme il tanfo era divenuto assolutamente pestilenziale.. La ristrettezza dello spazio e il clima caldissimo, aggiunti al numero di gente chiusa dentro la nave, la quale era affollata al punto che ciascuno aveva appena lo spazio di girarsi, quasi ci soffocavano: [...] molti degli schiavi si ammalarono e di questi parecchi morirono cadendo così vittime dell’imprevidente avidità, per chiamarla così, dei loro compratori. Questa spaventosa situazione era ancor più aggravata dall’irritazione prodotta sulla pelle dalle catene, che ormai era divenuta insopportabile, e dalla lordura dei mastelli che servivano da latrina, dentro ai quali spesso cadevano i bambini per finirne quasi soffocati. [...] Cominciai a sperare che la morte avrebbe in breve posto fine alle mie miserie. [...] Un giorno che il mare era calmo e c’era poco vento, due dei miei conterranei ormai esausti, che si trovavano incatenati insieme (mi trovavo vicino a loro in quel momento), preferendo la morte a una vita così disgraziata, in qualche modo riuscirono a superare le reti e a gettarsi in mare; immediatamente seguì il loro esempio un altro disperato compagno che, a causa della sua malattia, era stato lasciato senza catene; e sono convinto che molti altri li avrebbero seguiti se non glielo avesse impedito la ciurma immediatamente messa in allarme. PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nel documento autobiografico l’autore descrive le terribili vicende della sua schiavitù. Quali sentimenti agitano l’animo del protagonista prima e dopo la sua cattura?
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b In quali condizioni gli schiavi erano costretti a viaggiare sulle navi negriere? c «Cominciai a sperare che la morte avrebbe in breve posto fine alle mie miserie.» Alla
luce del fenomeno criminale della tratta dei migranti e degli esseri umani, sempre più rilevante ai nostri giorni, ritieni questa frase ancora attuale? Motiva la tua risposta.
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1713 il monopolio della tratta verso le colonie spagnole, l’asiento de negros, che mantenne fino al 1750 [Ź2_8]. L’asiento (“accordo”), che prevedeva una “fornitura” di 4800 schiavi l’anno, fu stipulato con una compagnia commerciale britannica. Prima dell’accordo con la compagnia britannica gli spagnoli, che non praticarono mai direttamente il commercio degli schiavi, avevano concesso l’asiento a mercanti genovesi e tedeschi, poi a compagnie portoghesi e, dal 1701, francesi. Questo commercio “ufficiale” rappresentava comunque solo una piccola parte della tratta complessiva, alla quale partecipavano molti armatori inglesi soprattutto delle città portuali di Bristol e Liverpool. Anche le colonie britanniche del Nord America entrarono stabilmente in questo circuito: esse, infatti, erano favorite rispetto all’Europa da una minore distanza dalle Antille e da una capacità produttiva che era in grado di soddisfare non solo la domanda europea – tabacco e cotone –, ma anche quella dei Caraibi e dell’America spagnola e portoghese – grano, pesce e legname da costruzione. Erano inoltre importatrici di schiavi neri dall’Africa e di melassa dalle Antille.
L’egemonia britannica 4 e la conquista dell’Australia L’IMPERIALISMO COMMERCIALE E LO SVILUPPO INDUSTRIALE «Il commercio è la ricchezza del mondo; il commercio stabilisce le differenze tra ricchi e poveri, tra una nazione e l’altra; il commercio alimenta l’industria, l’industria genera il commercio; il commercio dispensa la naturale ricchezza del mondo, e il commercio fa sorgere nuove forme di ricchezza.» Non sorprende che l’autore di questo elogio del commercio (A Plan of the English Commerce, 1728) fosse uno scrittore e saggista inglese come Daniel Defoe, autore delle celebri avventure di Robinson Crusoe (1719). La Gran Bretagna si avviava a diventare infatti la principale potenza commerciale mondiale: agli inizi del ’700 aveva già conquistato il quasi monopolio negli scambi con il Portogallo e il Brasile, mantenendo una posizione privilegiata nel commercio con i domìni spagnoli. Primeggiava anche nell’attività di riesportazione di molti prodotti coloniali. Inoltre quando, a partire dalla seconda metà del ’700, il cotone grezzo delle piantagioni americane (Antille e Nord America) si inserì nel commercio triangolare, un mercato di vendita su scala mondiale era già pronto per i tessuti di cotone dell’industria inglese. Quale fu il contributo delle attività commerciali al successivo sviluppo industriale in Gran Bretagna prima e poi nel resto dell’Europa? Più che l’entità dei profitti e l’accumulazione dei capitali, di cui sono incerti la misura e l’apporto diretto, contarono la conquista dei mercati mondiali e il controllo delle materie prime realizzati nel ’600 e ’700. Fu lo sviluppo economico basato sulla rivoluzione tecnologica occidentale ad accentuare le differenze – fino ad allora poco sensibili a livello di reddito pro capite (per abitante) – fra l’Europa e i grandi imperi asiatici. In confronto a un’Asia stazionaria nei redditi, l’Europa diventerà sempre più ricca: una distanza, la “grande divergenza”, che prefigurerà quella contemporanea fra paesi industrializzati e paesi arretrati o in via di sviluppo fino agli ultimi anni del ’900. LA CONQUISTA E IL POPOLAMENTO BRITANNICI DELL’AUSTRALIA Dominatrice degli oceani, la Gran Bretagna si avviò anche a conquistare terre inesplorate agli antipodi dell’Europa come l’Australia. Fino all’insediamento degli europei nel
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PERSONAGGI
Cook e l’esplorazione dell’emisfero australe James Cook (1728-1779), il più grande esploratore del XVIII secolo, nacque da un’umile famiglia contadina, nella contea inglese dello Yorkshire. A segnare la sua vita fu la passione per il mare, che lo spinse ad imbarcarsi come mozzo su una nave carboniera, in servizio fra l’Inghilterra e il Mare del Nord. Arrivato ad ottenere il comando di una nave, Cook, con un colpo di testa, abbandonò la marina mercantile per arruolarsi come soldato semplice nella marina militare, poco prima dello scoppio della guerra dei Sette anni (1756-63). La scelta avrebbe cambiato il corso della sua vita. Inviato in Canada, uno dei teatri dello scontro tra Francia e Inghilterra, diede un contributo prezioso alle operazioni militari: grazie all’esplorazione del fiume San Lorenzo le navi inglesi ne risalirono il corso, riuscendo a cogliere di sorpresa le truppe
LO SPAZIO DELLA STORIA
francesi e a conquistare la città di Québec. Del Canada, ormai dominio inglese, Cook per cinque anni curò la cartografia delle coste, mentre si impegnava con determinazione a studiare da autodidatta matematica e astronomia. I suoi diari di bordo, scritti in uno stile scarno e asciutto, privo di retorica, ne ricostruiscono le spedizioni, e mettono in luce le sue capacità organizzative, il suo spirito pratico, la sua abilità come marinaio, che gli consentì di navigare in stagioni ostili, a latitudini inesplorate, con navi a vela vulnerabili alle tempeste, ai forti venti, alle correnti, affrontando le navigazioni più lunghe e ardue che mai fossero state compiute. Grazie all’esperienza in Canada Cook fu scelto dall’Ammiragliato inglese e dalla Royal Society come comandante di una spedizione nel Pacifico, l’oceano a cui più resterà legato il suo nome. Due gli obiettivi, scientifici e commerciali: osservare dall’isola di Tahiti il passaggio di
Venere fra il Sole e la Terra e rinnovare la ricerca della Terra Australis – il vasto e compatto continente che le teorie geografiche, da Tolomeo in avanti, indicavano come la terra ancora ignota che occupava gran parte dell’emisfero meridionale. Salpato nel 1768, Cook tornò in patria dopo tre anni, con un ricco bottino: dopo la sua esplorazione della Nuova Zelanda (di cui dimostrò l’insularità) e delle coste orientali dell’Australia (già scoperte nel ’600 da navigatori olandesi) si ruppe definitivamente l’isolamento di queste regioni, che entrarono a far parte dei domìni coloniali inglesi. Della Nuova Zelanda Cook compilò una precisa cartografia delle coste. In Australia, nonostante le difficoltà della barriera corallina, riuscì a sbarcare, il 29 aprile 1770, a Botany Bay (divenuta poi parte di Sydney) per prenderne possesso in nome del re inglese Giorgio III. All’esito positivo del primo viaggio seguì il comando di una seconda spedizione, che segnò un ulteriore progresso nelle co-
LE ROTTE DEI VIAGGI DI COOK
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OCEANO PACIFICO
OCEANO ATLANTICO
OCEANO INDIANO
primo viaggio: spedizione nel Pacifico alla ricerca della Terra Australis (1768-71)
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secondo viaggio: spedizione alla ricerca della Terra Australis e mappatura dell’emisfero australe (1772-75)
terzo viaggio: spedizione alla ricerca del passaggio di Nord-Ovest (1776-79)
rotta dell’equipaggio dopo la morte di Cook
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noscenze geografiche e scientifiche: fu la prima circumnavigazione del globo a spingersi così a sud, varcando il Circolo Polare Antartico. Se i pericoli della navigazione, fra iceberg e venti violenti, resero impossibile avvicinarsi al Polo Sud, Cook riuscì ad intuire l’estensione dell’Antartide, ben più vasta di quella del Polo Nord. Dopo un’esplorazione così ampia poté mettere fine alla ricerca della Terra Australis, dichiarando con piglio illuminista che il continente, così come era descritto dai geografi antichi, era un’invenzione priva di fondamento. Non solo questo fu il risultato del viaggio, che proseguì approdando in isole e arcipelaghi da tempo non più visitati o ancora da scoprire: le isole Tonga, le Marchesi, le Figi, le Nuove Ebridi, l’isola di Pasqua, anni. Nello specifico, le navi utilizzate da Cook la Nuova Caledonia. Con la Ÿ Le navi di Cook alla fonda nella Baia di erano “brigantini a palo”: oltre agli alberi di prua quantità di osservazioni rac- Huahine durante la terza spedizione (“trinchetto”) e di poppa (“maestro”), entrambi colte, Cook realizzò una map- [National Maritime Museum, Greenwich, Londra] provvisti di vele quadre, questo modello era dotato patura dell’emisfero australe, A partire dal ’600, il brigantino subì alcune di un terzo albero, detto “poppiero”, provvisto di importanti modifiche strutturali: gli scafi divennero che permise una navigazione più lunghi e affinati; la carena della nave venne rande. Lungo circa 30 metri e largo 10, la stazza del brigantino variava dalle 150 alle 300 tonnellate; più sicura e aprì nuove rot- foderata di rame; la superficie delle vele venne non mancavano però eccezioni, come quella te commerciali a beneficio accresciuta con l’introduzione di velacci e dell’Endeavour, la cui stazza raggiunse le 370 controvelacci nonché delle rande, utilizzate per dell’Inghilterra. Al successo meglio stringere il vento. Il modello del brigantino tonnellate, perché, oltre agli uomini dell’equipaggio, dei viaggi di Cook contribuì si affermò quindi come uno dei più affidabili per furono imbarcati anche numerosi scienziati, botanici, astronomi e disegnatori con i rispettivi in maniera non secondaria il la navigazione oceanica, che copriva distanze strumenti di lavoro. tipo di imbarcazione prescel- lunghissime e prevedeva viaggi della durata di to: il brigantino. Figlio del secolo dei Lumi, Cook applicò Salpato nel 1776, Cook risalì le coste oc- pesta. Non sapeva che gli sarebbe stato nel campo della navigazione un approccio cidentali del Nord America e, esplorate le fatale. Il ritorno questa volta non era in razionalista, come dimostra la metodicità coste dell’Alaska, cominciò a percorre- sintonia con il ciclo rituale, dunque era con cui preparava le spedizioni, documen- re lo Stretto di Bering. Le difficoltà della inspiegabile agli occhi della popolazione tandosi sui viaggi precedenti, seguendo i navigazione a queste alte latitudini, l’as- che lo percepì come un minaccioso tentalavori di allestimento delle navi, cercando senza di scali in cui sostare lo costrinse- tivo di conquista. Un banale furto ai danper quanto possibile di prevenire i pericoli ro a tornare indietro (solo nel 1906, più ni delle navi fu la causa dell’incidente in della navigazione e di mantenere in salu- di un secolo dopo, la spedizione del nor- cui Cook fu pugnalato a morte. Persino la te l’equipaggio. Riconoscendone le com- vegese Amundsen riuscì a percorrere tut- sua uccisione, però, si accordava al mipetenze scientifiche, la prestigiosa Royal ta la tratta). Sulla via del ritorno Cook si to di Lono, che, spogliato dei suoi poteSociety lo accolse come socio, sancendo fermò nuovamente alle Hawaii, scoperte ri, veniva sostituito dalla figura umana definitivamente l’ascesa sociale dell’esplo- nel viaggio di andata. Casualmente l’ar- del re guerriero. Cook morì come un dio ratore, figlio di un bracciante, che aveva rivo coincise con le celebrazioni per l’an- hawaiano, e come tale continuò ad essecompiuto studi da autodidatta. Provato no nuovo, dedicate al dio Lono, che se- re celebrato per oltre un secolo, mentre da quasi trent’anni ininterrotti di naviga- condo il mito tornava ciclicamente sulle oltreoceano cominciava a circolare la legzione, quasi cinquantenne, Cook avrebbe isole causando la rinascita della natura. genda nera del Pacifico, non più visto copotuto ritirarsi a dirigere l’ospedale mili- Le soste di Cook si inserirono, inconsa- me un Eden abitato da popolazioni innotare di Greenwich, ma accettò la nuova pevolmente, nella narrazione cosmologi- centi e incorrotte. Anche a Cook dobbiamo l’immagine sfida propostagli dall’Ammiragliato: cer- ca della cultura hawaiana: il capitano fu care il passaggio di Nord-Ovest, la rotta associato a Lono, e come tale venerato. del mondo nella forma in cui la conofra Oceano Atlantico e Pacifico, a nord del Lasciate le isole fra gli onori, con le na- sciamo, che oggi ci appare scontata, ma Canada, che doveva mettere in comuni- vi cariche di doni, Cook fu costretto a un è frutto di una secolare storia di scopercazione più velocemente Europa e Asia. repentino ritorno, a seguito di una tem- te, esplorazioni, incidenti e false credenze.
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Ÿ Thomas Gosse, L’accampamento degli scienziati di Cook a Port Jackson presso Botany Bay 1770 [National Maritime Museum, Greenwich, Londra] Botany Bay è una baia situata pochi chilometri a sud dell’odierna Sydney in Australia. James Cook vi giunse con la sua nave Endeavour nel 1770 segnando l’inizio della colonizzazione britannica delle coste australiane. Inizialmente chiamata Stingray Harbour, la baia fu ribattezzata con il nome con cui è ancora oggi conosciuta per via delle innumerevoli specie di piante raccolte e catalogate da Joseph Banks, botanico della spedizione.
5 Storia e educazione civica La tutela della biodiversità, p. 150
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’700, l’Australia era restata completamente esclusa dai processi di civilizzazione che avevano trasformato il pianeta. In questo continente, di gran lunga il più arido, il più piccolo, il meno fertile, il meno popolato e il più povero di risorse biologiche, gli indigeni vivevano in età moderna ancora senza agricoltura e allevamento, non usavano archi e frecce, non avevano villaggi permanenti, né conoscevano la scrittura o qualche forma di organizzazione politica. Gli aborigeni australiani erano cacciatori-raccoglitori nomadi, riuniti in bande, che utilizzavano ancora strumenti di pietra. Scoperta nel 1642 dall’olandese Abel Tasman, l’Australia era conosciuta come Nuova Olanda. Ma dopo che il capitano James Cook ne ebbe esplorato le coste orientali nel 1770, gli inglesi si stabilirono in alcune zone costiere, soprattutto nel Sud-Est, che furono dapprima adibite a colonie di deportazione (per i detenuti della madrepatria) e solo successivamente divennero colonie di popolamento. Il primo gruppo di deportati, imbarcati in Inghilterra, arrivò in Australia nel 1788: il 26 gennaio una flotta di undici vascelli con a bordo 1030 persone, di cui 548 prigionieri uomini e 188 donne, entrò nella Baia di Sydney. Erano per lo più giovani, in gran parte colpevoli di piccoli furti, che la durissima giustizia penale britannica aveva condannato a morte e poi graziati. Divennero i protagonisti di un esperimento mai tentato prima da uno Stato: organizzare un insediamento, lontano dalla patria, dove confinare i “criminali” recidivi e considerati più pericolosi. Tra 1788 e 1853, quando vennero interrotte le deportazioni, oltre 160 mila prigionieri, tra cui circa 24 mila donne, erano stati trasferiti con la forza dalla Gran Bretagna in Australia. LA NUOVA SOCIETÀ AUSTRALIANA Solo una minima parte di questa massa di deportati (circa il 10%) fu reclusa nei famigerati stabilimenti penali (Norfolk Island, Port Arthur, Macquarie Harbour, Moreton Bay), dove soprusi, violenze e torture costituivano terribili esperienze quotidiane. La maggior parte dei prigionieri venne in realtà utilizzata per svolgere lavori obbligatori per i coloni liberi o fu fatta lavorare alle dirette dipendenze del governo: essi non conobbero dunque la reclusione, ottennero dopo un periodo la semilibertà e spesso, scontata la pena, riuscirono a integrarsi nella società coloniale. Così, progressivamente, cominciò a consolidarsi una nuova società, caratterizzata dalla formazione di un singolare ceto medio costituito dai discendenti dei detenuti, con propri valori e un dinamico spirito imprenditoriale. E fu anche per la mobilitazione di queste nuove generazioni nate in Australia, che non gradivano il marchio di deportato e non tolleravano la concorrenza della manodopera coatta, che la Gran Bretagna decise nel 1853 di interrompere definitivamente la deportazione dei “criminali” nell’isola.
Conquiste e ambiente L’IMPERIALISMO ECOLOGICO L’espansione e colonizzazione europea negli altri continenti, soprattutto nelle Americhe e in Australia (e in seguito in Nuova Zelanda), comportò non solo la distruzione delle originarie organizzazioni sociali
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ecosistema L’ecosistema è l’insieme degli organismi viventi e delle sostanze non viventi che interagiscono in un’area delimitata, per esempio un lago, uno stagno, un prato, un bosco. Non sempre un ecosistema è completamente chiuso, ma può avere relazioni con altri ecosistemi, che spesso favoriscono reciproche trasformazioni dell’ambiente. Gli storici, in genere, si occupano di ecosistemi in relazione alle condizioni di vita degli uomini. Associano, dunque, il concetto di ecosistema allo studio di regioni o interi continenti proprio per comprendere meglio i condizionamenti dell’ambiente sull’evoluzione delle comunità umane, o, viceversa, per esaminare l’influenza della vita umana sull’ambiente.
Ź La raccolta delle patate XVI sec. [da Huamán Poma de Ayala, Nueva Corónica y Buen Gobierno; Det Kongelige Bibliotek, Copenaghen] Quella della patata era una delle coltivazioni più diffuse del Nuovo Mondo. Fino al XVIII secolo, però, non fu introdotta in Europa se non in orti botanici come specie esotica.
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e nuove forme di dominazione, ma anche uno scambio biologico che trasformò radicalmente l’ecosistema* dei nuovi mondi. Fu uno scambio reciproco anche se ineguale che arricchì l’Europa ma penalizzò duramente i nuovi mondi nei quali si diffusero, oltre all’impressionante numero di uomini e donne europei, specie animali e vegetali dell’Europa in forma davvero invasiva. Mentre sono largamente conosciuti gli apporti dalle Americhe – come la patata e il mais (inoltre il caffè, il cotone, la canna da zucchero, il tabacco) e, fra le malattie, la sifilide –, meno noti sono i cambiamenti che nella flora, nella fauna e in genere sul piano biologico il Vecchio Mondo ha determinato nel Nuovo. L’analisi di questa diversa espansione europea consente di parlare di un vero e proprio imperialismo ecologico. Gli agenti di questo «imperialismo ecologico», secondo una espressione coniata dallo storico e geografo statunitense Alfred W. Crosby, furono in primo luogo i virus e i batteri delle malattie europee che si diffusero non solo dove il contatto con le popolazioni indigene era costante, come in Messico e nelle Antille, ma anche dove fu più occasionale e limitato, come con i pellerossa del Nord America, prima ancora degli insediamenti stabili europei. L’affezione più letale fu il vaiolo, ma si rivelarono micidiali gran parte delle malattie infettive, anche quelle non più mortali per gli europei, come il morbillo. ERBE, BESTIAME E UOMINI Una straordinaria capacità di riprodursi ebbero anche le erbe infestanti di origine europea, arrivate con le navi e mescolate alle sementi. Nelle zone a clima temperato i semi portati dal vento crearono distese sterminate di trifoglio, piantaggine, gramigna, e altro. Nonostante il nome, la loro funzione è tutt’altro che negativa: esse, da un lato, proteggono il suolo dall’inaridimento, dall’altro, rinnovano il manto erboso, dando vita a ricchi pascoli. Furono queste erbe a costituire l’alimentazione del bestiame importato dall’Europa e a permettere la sua moltiplicazione senza limiti. L’America, l’Australia e la Nuova Zelanda, infatti, non conoscevano i cavalli, i bovini, le pecore, le capre e i maiali: tutte queste specie si diffusero a velocità crescente, soprattutto allo stato brado. Il clima era favorevole e i pascoli abbondanti. Inoltre, in questi nuovi mondi mancavano animali predatori di taglia sufficientemente grande da insidiare il bestiame europeo. Clima e ambiente simili a quelli europei, uniti alla scarsità delle popolazioni indigene (i pellerossa del Nord America, gli aborigeni dell’Australia, i maori della Nuova Zelanda), favorirono il dilagare della emigrazione europea nelle
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Ÿ Léonard Defrance, Visita alla manifattura del tabacco XVIII sec. Il tabacco fu tra le nuove colture “voluttuarie” (non di prima necessità) che vennero coltivate in Europa e che rapidamente si diffusero. In molti paesi, tuttavia, i governi intervennero presto per limitarne il consumo, a causa della sua nocività, imponendo alte tasse: in Francia, per esempio, il tabacco diventò monopolio di Stato già nel 1674.
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zone temperate a nord e a sud dei Tropici a partire dai primi decenni dell’800. T ra 1820 e 1930 oltre 50 milioni di europei si trasferirono in America e Oceania: una cifra che equivale a circa un quinto di tutta la popolazione dell’Europa agli inizi di quel periodo. Questo immenso flusso migratorio stimolò lo sviluppo demografico dei nuovi continenti ma anche dell’Europa, proprio grazie alla maggiore disponibilità di risorse: tra 1750 e 1930 la popolazione totale di America e Oceania aumentò di almeno 14 volte contro una media, nel resto del mondo, non superiore a due volte e mezza, mentre tra 1840 e 1930 la popolazione europea si accrebbe a un tasso doppio rispetto ad Asia e Africa. Il risultato compiuto di questo imperialismo ecologico, che unì microbi, piante, animali e uomini europei, è rappresentato dal fatto che oggi tra i maggiori esportatori di derrate alimentari di origine europea si annoverano proprio quei paesi – come gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Uruguay, l’Australia e la Nuova Zelanda – che cinque secoli fa non conoscevano gli animali tipici delle forme di allevamento europeo, né i cereali del Vecchio Mondo (frumento, orzo, segale). NUOVI CONSUMI L’Europa invece, mentre assimilava le novità colturali e alimentari delle Americhe, continuò come in passato a essere esposta soprattutto alle epidemie provenienti dall’Asia: se nel ’700 sparì la peste, nell’800 si diffuse il colera. Ma i contatti con le altre culture erano anche destinati a modificare profondamente i consumi voluttuari e gli stili di vita in Europa. Seguendo l’esempio degli arabi e dei turchi, intorno al 1600 gli europei cominciarono a bere il caffè, quando già da un secolo questa abitudine si era diffusa nei paesi islamici. Nel 1652 venne aperto il primo caffè a Londra, dieci anni dopo ne fu inaugurato uno anche ad Amsterdam. Poco più tardi, nel ’700, iniziò l’epoca dei caffè eleganti a Parigi e nelle altre grandi città europee. Così questi nuovi locali pubblici divennero importanti luoghi di incontro e di socializzazione per i ceti urbani e le élite politicizzate. In Inghilterra, intanto, il tè aveva soppiantato il caffè: nel ’700 veniva importato dalla Cina, successivamente soprattutto dall’India. Anche il tabacco, originario dell’America caraibica, diventò in breve tempo un consumo irrinunciabile per molti europei che lo fiutavano e lo masticavano oltre a fumarlo nelle pipe e come sigaro (le sigarette si sarebbero diffuse solo dalla metà dell’800): e in Europa la coltivazione del tabacco si diffuse più rapidamente di quella del mais e del pomodoro.
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Gli europei allo specchio: 6 il confronto culturale Parole della storia Selvaggio, p. 145
Leggere una carta storica 3 L’economia europea alla metà del ’700, p. 148 Arte e storia Scambi artistici: l’altra faccia del colonialismo europeo, p. 153
LA SCOPERTA DELL’“ALTRO” E L’IDEA DEL “SELVAGGIO”
All’inizio dell’età moderna, con l’espansione dei traffici commerciali, gli europei entrarono in stretto contatto con civiltà lontane e diverse. Fu l’inizio di un confronto culturale, per molti aspetti ancora aperto oggi, che ebbe conseguenze profonde non solo sull’evoluzione delle civiltà extraeuropee, ma anche sulla stessa identità delle popolazioni del Vecchio Continente, sulla costruzione della coscienza di sé da parte degli europei. L’incontro con l’indigeno, infatti, costrinse i bianchi europei a ripensare sé stessi, a definirsi con maggiore chiarezza per contrapporsi al “diverso”. In Europa il “selvaggio” non ebbe un’immagine unica e omogenea: rappresentava, allo stesso tempo, una minaccia, un fanciullo da educare, un animale da ammaestrare ed esibire, un uomo primitivo con alcuni caratteri oscuri e inquietanti che gli europei temevano di riconoscere in sé stessi. Queste rappresentazioni mutarono e si consolidarono tra ’500 e ’800: se i primi conquistadores spagnoli in America Latina ebbero un atteggiamento di totale rifiuto verso gli indios, considerati poco più che animali, successivamente, grazie soprattutto all’impegno dei missionari cattolici, si affermò l’idea dell’indigeno quale bambino da evangelizzare, simbolo di innocenza incorrotta, un essere che comunque risultava «naturalmente» inferiore all’uomo bianco europeo. Il contatto con gli indigeni incrinò anche alcune certezze fondate sulla Bibbia: i modi
LE PAROLE DELLA STORIA
Selvaggio Nel ’700, con la progressiva diffusione dell’Illuminismo, nacque un’attenzione diversa nei confronti delle popolazioni indigene, osservate ora con lo sguardo critico della ragione. Il “selvaggio”, ancora simbolo di innocenza, divenne interprete di un modello ideale di vita felice, libera da convenzioni e vincoli tradizionali, considerati irrazionali e oppressivi da parte degli intellettuali illuministi: questi ultimi, infatti, utilizzarono spesso l’esempio del “selvaggio” anche come strumento di polemica e di ironia contro i comportamenti e le abitudini dei “civilizzati” popoli europei. Nell’800 l’interesse degli europei per le popolazioni “primitive” aumentò ulteriormente grazie alla nuova espansione politica e commerciale in Africa e in Asia e alla moltiplicazione di pubblicazioni con i resoconti degli esploratori e dei missionari protagonisti di scoperte affascinanti in terre esotiche. L’estensione delle conoscenze e il bisogno di un metodo più scientifico di analisi, in sintonia con l’affermazione della cultura positivistica, favorirono lo sviluppo dell’antropologia culturale e dell’etnologia (le discipline dedicate allo studio delle tradizioni, degli usi e dei costumi
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di una popolazione). Questo nuovo impulso allo studio delle popolazioni extraeuropee, però, si trasformò spesso in un sistema di classificazione e gerarchizzazione dell’umanità fondato su una distinzione dei caratteri somatici: al vertice l’uomo europeo, in fondo chi ne appariva meno somigliante. Cominciò così a consolidarsi una teoria “scientifica” della razza che, proprio nella seconda metà dell’800, assunse evidenti caratteri razzisti. Il disprezzo per i “diversi” non era certo una novità – gli antichi Greci chiamavano gli altri popoli “barbari”, le tribù africane designavano sé stesse con nomi che significano “uomo buono” o “migliore” rispetto agli altri –, ma per la prima volta gli scienziati attribuirono a ogni “razza” una distinta base biologica da cui sarebbero derivate differenti caratteristiche morali e caratteriali: l’europeo, per definizione, era “ingegnoso e inventivo”, l’asiatico “orgoglioso e avaro” e l’africano “pigro e negligente”. Alla metà dell’800, per esempio, il francese Arthur de Gobineau scrisse un Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane proprio per sostenere la superiorità dei bianchi sui gialli e sui neri. Il razzismo condizionò la politica degli Stati europei nelle colonie. Ovunque furono censite le “razze” e accentuate le
divisioni all’interno delle società indigene anche allo scopo di controllare meglio i colonizzati. Le nuove città coloniali furono spesso caratterizzate da quartieri separati e “confini” che dividevano la vita degli indigeni da quella degli europei: anche in alcuni centri fondati dagli italiani in Eritrea e Libia, per esempio, furono tracciate “linee” per separare gli spazi destinati agli africani da quelli destinati ai bianchi. In generale, dunque, il razzismo era largamente diffuso nelle società coloniali. Non bisogna però immaginare i rapporti tra colonizzatori e colonizzati dominati esclusivamente da pregiudizi razzisti. Nelle colonie, a volte, si instaurarono legami di solidarietà tra i funzionari europei e i notabili locali proprio in virtù della comune appartenenza agli strati superiori delle rispettive società. Accadde così, per esempio, nell’India britannica di fine ’800, dove gli aristocratici inglesi inviati dalla Corona ad amministrare la colonia non esitavano a considerare i notabili indiani “superiori” agli inglesi di basso ceto. Per molti aspetti, infatti, i governatori britannici cercarono di riprodurre in India la stessa rigida struttura di distinzione di classe presente in Inghilterra, preoccupandosi di trattare con riguardo agli indigeni che consideravano di loro pari rango.
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di vita dei selvaggi, la loro nudità, per esempio, sembravano smentire il senso del pudore derivato dal peccato originale, mentre la loro organizzazione sociale appariva come una contraddizione della presunta origine “naturale” del sistema dei ceti e della proprietà privata.
Ÿ Le razze umane secondo un manuale scolastico francese Nel classficare le razze umane e nel tracciare le aree di appartenenza, l'autore di questo manuale ottocentesco per la scuola afferma senza indugio e con assoluta convinzione che la razza bianca è la perfetta fra le razze umane, trasmettendo così, alle nuove generazioni, lo spirito razzista poi largamente diffuso fra la popolazione.
esotismo L’esotismo è un particolare fenomeno culturale che si diffonde in Occidente tra XVIII e XIX secolo e che si manifesta attraverso l’interesse per tutto ciò che appare diverso rispetto ai modelli culturali propriamente europei.
NUOVE ABITUDINI E MODE Il contatto con popolazioni diverse e lontane favorì la conoscenza e la circolazione di usi e costumi esotici che, in alcuni casi, modificarono le abitudini della società europea. Gli effetti più duraturi di questa contaminazione riguardarono proprio l’ambiente e alcuni aspetti della vita quotidiana, oggi così assimilati nel costume occidentale da aver smarrito nella memoria degli europei la loro origine esotica. Nelle campagne europee cominciarono ad apparire le prime coltivazioni della patata, del mais, del pomodoro, che divennero però presenze largamente diffuse soltanto nel ’700 e nell’800, mentre, come abbiamo visto, si diffondeva il consumo di caffè, tè, tabacco. Nacquero in Europa anche nuove mode grazie ai più stretti scambi con le diverse regioni del pianeta. Nelle abitazioni private cominciarono a trovare spazio le piante ornamentali e i fiori esotici: il tulipano, per esempio, un fiore tipico dell’Oriente, cambiò addirittura nazionalità divenendo il simbolo dell’Olanda [Ź4_2]. Anche tappeti, soprammobili, porcellane, oggetti esotici divennero di uso comune. E questo esotismo* influenzò anche il consumo culturale: i libri di viaggio diventarono un genere letterario molto popolare e moltissimi europei si appassionarono alla lettura di riviste geografiche o di romanzi avventurosi, come Robinson Crusoe (1719) di Daniel Defoe. LA PASSIONE PER LA CINA Nel ’700, in particolare, l’Europa subì il fascino dell’antica civiltà cinese. Gli illuministi ammiravano la Cina come uno dei migliori esempi di buon governo, ovvero uno Stato agricolo guidato da un despota illuminato, e questo giudizio favorì in Francia una nuova attenzione verso l’Impero celeste. In seguito la marchesa Pompadour, amante di Luigi XV, introdusse la moda cinese. Ben presto la corte francese, e poi quelle di tutta l’Europa, amarono circondarsi di oggetti provenienti dalla Cina, o più spesso di imitazioni, le cosiddette “cineserie”. Divenne di gran moda bere il tè in tazze di vera porcellana cinese, ordinare in Cina dipinti con soggetti occidentali, vestire con abiti di foggia cinese e non vi fu giardino veramente raffinato che non avesse il proprio “padiglione cinese”. La passione per la morale e la filosofia cinesi, così razionali e in fondo vicine al pensiero cristiano, fu stimolata dagli affascinanti racconti di viaggi dei padri gesuiti, largamente diffusi nel corso del ’700. L’attenzione per la Cina, tuttavia, fu espressione più di curiosità per l’esotico che di vero interesse. Soltanto i missionari, infatti, cercarono di comprendere a fondo la complessa e affascinante civiltà dell’Impero celeste. LE ESPOSIZIONI INTERNAZIONALI E LE AVANGUARDIE ARTISTICHE Nell’800 esploratori e scienziati erano soliti ritornare dai loro viaggi con i più vari trofei.
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STORIA IMMAGINE
Teiera e caffettiere in porcellana con decori in stile cinese 1720-35 [foto di World Imaging; Museo delle Arti Decorative, Parigi] Il diffondersi dell'usanza di bere tè e caffè nelle classi aristocratiche accompagna lo sviluppo delle manifatture di fini porcellane, come la Manifattura della Porcellana Meissen, fondata nel 1710 a Dresda in Germania e da cui provengono questi raffinati esempi di caffettiere e teiera, realizzati nel 1720 e decorati in Olanda attorno al 1735 con scene di ambientazione cinese.
François Boucher, La toilette 1742 [Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid] Gli scambi con l’Oriente favorirono la diffusione in Europa di una vera e propria tendenza, che assunse manifestazioni diverse e influenzò il gusto dei ceti superiori nell’abbigliamento, nell’acconciatura, nell’arredamento. Il dipinto del francese Boucher testimonia questo gusto: dietro il tavolo da toilette, nell’angolo di una camera da letto, si scorge un paravento a più ante rivestito di carta cinese dipinta.
Allora divenne comune anche l’usanza di portare in Europa uomini o donne di paesi lontani, “esemplari indigeni” da esibire alla curiosità non solo degli studiosi ma anche del grande pubblico, appassionato di stranezze esotiche. Alla fine dell’800 questo interesse per l’esotico si trasformò in un vero e proprio entusiasmo: nelle grandi esposizioni internazionali, celebrative della civiltà industriale, i paesi e le civiltà extraeuropei trovarono spazio in alcuni padiglioni dedicati proprio a esaltare la colonizzazione. La maggiore conoscenza delle civiltà extraeuropee trasformò anche il mondo delle arti figurative europee. All’inizio del ’900 le avanguardie artistiche valorizzarono riti e costumi degli “uomini primitivi” come stimoli a rivoluzionare le forme espressive della tradizione artistica europea. Lo studio della scultura delle popolazioni dell’Africa e dell’Oceania, per esempio, ispirò profondamente alcuni artisti divenuti poi protagonisti del cubismo, come lo spagnolo Pablo Picasso, o dell’espressionismo, come il tedesco Emil Nolde. Nei primi anni del ’900, infatti, quella che veniva chiamata «arte negra» suscitò un grande entusiasmo soprattutto tra gli intellettuali e gli artisti di Parigi, allora forse il centro culturale più vivace in Europa: evidente, per esempio, è l’influenza dell’arte extraeuropea sui ritratti di Amedeo Modigliani, a lungo residente nella capitale francese. Da queste esperienze nacque una nuova concezione dell’arte fondata sulla purezza e sulla semplicità delle forme, radicalmente ostile a ogni convenzione ereditata.
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LEGGERE UNA CARTA STORICA
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L’economia europea alla metà del ’700
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Il ’700 rappresenta un periodo di svolta per la storia economica e demografica dell’Europa. L’economia e l’andamento della popolazione conoscono, con tempi e caratteristiche differenti a seconda delle aree geografiche, una crescita generalizzata. Per quanto riguarda le rotte transoceaniche, si stabilizzano i due circuiti commerciali che hanno preso forma nei secoli precedenti: uno in direzione ovest, detto «triangolare», che collega Europa-Africa-America; l’altro in direzione est, che collega l’Europa alle Indie orientali. Questi circuiti sono controllati dalle nuove potenze coloniali in ascesa: Gran Bretagna, Olanda e Francia. La Gran Bretagna e l’Olanda sono all’avanguardia anche nel settore agricolo, giacché sviluppano nuove tecniche di coltivazione di tipo intensivo che consentono di aumentare la produzione della terra. Nel resto d’Europa, invece, si continua a praticare l’agricoltura estensiva e ad aumentare la produzione mediante l’ampliamento delle superfici coltivate. Questa situazione perdura fino all’introduzione e alla diffusione delle nuove piante alimentari ad alta resa (riso, mais, patata), che gettano le basi per un mutamento nelle abitudini alimentari degli europei. La maggiore disponibilità di beni alimentari, unitamente al miglioramento delle condizioni igieniche e del tenore di vita, sostengono la rapida crescita della popolazione europea.
Viceregno del Rio de la Plata
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LEGGERE E INTERPRETARE
b. Soffermati sulla carta B. 1 Da quali continenti provengono le nuove piante alimentari? Per ciascuna pianta alimentare, indica le regioni d’Europa nelle quali si diffondono. 2 Quale quadrante del continente è più densamente popolato? E al suo interno, quali paesi registrano una più alta densità demografica? A tuo avviso, c’è continuità rispetto ai secoli passati? c. Soffermati sul grafico. 1 Nel sistema demografico tradizionale, il tasso di natalità e di mortalità in che rapporto stanno tra loro? Che cosa ne consegue? 2 Nel sistema demografico moderno, il tasso di natalità e di mortalità in che rapporto stanno tra loro? Che cosa ne consegue? 3 Nella fase di «transizione demografica», il tasso di natalità e di mortalità in che rapporto stanno tra loro? Che cosa ne consegue? Quanti secoli è durata questa fase di crescita esplosiva? Prova ora a fornire una definizione di «transizione demografica».
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a. Soffermati sul planisfero A. 1 Quali beni sono commercializzati sul circuito triangolare? A tuo parere, si registrano delle differenze nella composizione merceologica rispetto ai secoli passati? 2 Quali beni sono commercializzati sul circuito delle Indie orientali? A tuo parere, si registrano delle differenze nella composizione merceologica rispetto ai secoli passati?
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La «transizione demografica» sistema demografico tradizionale
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A. IL SISTEMA COLONIALE EUROPEO Gran Bretagna Francia Spagna Portogallo
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
La tutela della biodiversità Quando i coloni europei cominciarono a insediarsi nelle Americhe (XV secolo) e in Oceania (seconda metà del XVIII secolo), modificarono profondamente i territori delle aree appena scoperte. Per far fronte alle esigenze economiche che li avevano portati a spingersi così lontano dalla propria patria, infatti, essi rasero al suolo intere foreste, bruciarono vaste praterie per piantare le proprie coltivazioni e soffocarono con la violenza l’opposizione degli indigeni. Tutto ciò ebbe conseguenze devastanti sugli ecosistemi locali, che furono spesso radicalmente modificati. Le epidemie falcidiarono le popolazioni e talvolta le specie animali importate dall’Europa entrarono in competizione con quelle locali minacciandone l’esistenza; in ogni caso si assistette a un tentativo – più o meno consapevole – di “europeizzare” i nuovi mondi trasformandoli secondo le proprie esigenze. In realtà il trattamento non fu riservato alle sole terre d’oltreoceano: si trattò piuttosto di estendere oltremare un modello di sviluppo economico e sociale già in atto in Europa, basato sul dominio e lo sfruttamento della natura per trarre da essa il massimo profitto. L’esperienza e la scienza moderna hanno però dimostrato che interferire in modo eccessivo e continuativo sulla natura può stravolgerne gli equilibri in modo più o meno definitivo. La natura, l’insieme delle forme animali e vegetali che vivono su di un territorio, è un sistema molto complesso in cui interagiscono una moltitudine di fattori: la morfologia di un dato territorio, il suo clima, le specie animali e vegetali che lo popolano e che nel tempo vi si sono adattate in modo sempre più completo. Quando tutti questi elementi trovano tra di loro un equilibrio, il sistema (un ecosistema: Ź6_5) funziona. In un ecosistema ben funzionante, le specie che lo popolano devono essere tante e diverse tra di loro: è questa la cosiddetta “biodiversità”.
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Questo principio, la cui importanza oggi è diffusamente riconosciuta, si spiega con due motivazioni: innanzitutto, un sistema basato sulla diversità delle forme di vita animali e vegetali può rispondere meglio ai cambiamenti ambientali (una variazione delle temperature, per esempio, può penalizzare e portare all’estinzione alcune specie ma non altre, capaci di adattarsi alle nuove condizioni climatiche); inoltre, la diversità delle forme di vita fa sì che, tendenzialmente, nessuna di esse prevalga sulle altre. Attualmente gli scienziati sono riusciti a catalogare circa 1,75 milioni di specie animali e vegetali e nuove specie vengono continuamente scoperte, studiate e aggiunte alle precedenti. Sul numero complessivo delle specie viventi non vi sono certezze, ma secondo alcuni se ne possono ipotizzare anche decine di milioni. Le aree dove la biodiversità è maggiore sono le foreste, prima tra tutte la foresta amazzonica, che si estende su un territorio pari al 42% dell’Europa. Nel corso del tempo, le specie si evolvono, si estinguono per cause naturali e vengono sostituite da altre più forti e adatte all’ambiente. A partire dalla metà del XX secolo gli studiosi hanno rilevato un fenomeno nuovo: la massiccia estinzione di specie animali per cause umane, anziché per cause naturali. Si tratta, in realtà, di un processo iniziato già in età moderna, con i disboscamenti, ma che nei secoli è diventato sempre più incisivo fino a raggiungere, recentemente, livelli di guardia tali da mettere a rischio l’esistenza di interi ecosistemi. Gli studiosi stimano che negli ultimi 500 anni si siano estinte circa 1000 specie animali con una velocità 36 volte più elevata rispetto al tasso di estinzione naturale. Le cause di questo fenome-
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no sono note: disboscamenti, pesticidi, agricoltura intensiva, monocolture (coltivazioni di un solo prodotto su grandissimi territori), diffusione in agricoltura degli Ogm (organismi geneticamente modificati), inquinamento, urbanizzazione sfrenata e senza regole. Ognuno di questi fattori rappresenta una minaccia per la biodiversità. Negli ultimi anni, per esempio, si è verificata una preoccupante moria di api in più parti del pianeta, la cui causa è stata individuata nell’uso di un particolare pesticida introdotto sul mercato. Se non si corresse ai ripari, potrebbe verificarsi l’estinzione di questi insetti, che sono i principali responsabili dell’impollinazione delle piante. Le conseguenze sulla vita del pianeta sarebbero dunque inimmaginabili. Per porre un freno a questa tendenza sono stati attuati numerosi provvedimenti, come la creazione di riserve e parchi protetti dove le specie possono proliferare tranquillamente. Nel 1948 è stata fondata la Iucn (International Union for Conservation of Nature and Natural Resources), una organizzazione internazionale con sedi e progetti di ricerca in tutto il mondo che studia gli ecosistemi e annualmente redige una lista delle specie a rischio di estinzione. In ambito politico la strada da percorrere è ancora molto lunga. Nel 1992, in occasione della Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro, è stata stipulata la Convenzione sulla diversità biologica, ratificata in seguito da 192 paesi tra cui anche l’Italia (14 febbraio 1994, legge n. 124). Il Preambolo e il primo articolo del documento ne dichiarano gli obiettivi: «Le Parti contraenti, [...] preoccupate per il fatto che la diversità biologica è in fase di depaupe-
Ź Un cartello invita a non spruzzare insetticidi Richiamando una famosa canzone di John Lennon, Give peace a chance, il cartello chiede di “dare una possibilità alle api” e di “non spruzzare (insetticidi) per favore”. Il problema della moria delle api, che in Europa è ancora poco noto al grande pubblico, è ormai una vera piaga per l’agricoltura statunitense.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO razione a causa di talune attività umane, hanno convenuto [...] che gli obiettivi della presente Convenzione [...] sono la conservazione della diversità biologica, l’uso durevole dei suoi componenti e la ripartizione giusta ed equa dei benefici derivanti dall’utilizzo delle sue risorse genetiche». Tra le altre cose, il testo della Convenzione mette in evidenza il risvolto per così dire “sociale” della tutela della biodiversità, il fatto cioè che una crisi degli ecosistemi comporterebbe per la civiltà conseguenze drammatiche come carestie, povertà, sottosviluppo a cui farebbero seguito guerre, disordini e violenza. La Convenzione del 1992 rappresenta allo stato attuale l’unico sforzo politico e legislativo che abbia carattere globale. A livello locale sono stati messi in atto altri provvedimenti, come la Convenzione per la conservazione della biodiversità e la protezione delle aree selvagge dell’Ame-
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rica centrale (1992), la Convenzione per la protezione del Mar Nero dall’inquinamento (2002), l’istituzione, da parte degli Stati membri dell’Asean (Association of Southeast Asian Nations), di un Centro per la biodiversità (2005). Potenti ragioni economiche spingono tuttavia i governi, in special modo quelli dei paesi più poveri, a sottovalutare l’impatto delle attività umane sull’ambiente e sulla sua ricchezza. Ciò è evidente se si considera la diffusione a livello globale dei cosiddetti “semi Ogm” che hanno conquistato diversi sistemi agricoli in tutto il mondo. Questi semi, forniti da grandi aziende multinazionali (tra le quali l’americana Monsanto, la Bayer, la Dow, ecc.), producono piante molto resistenti alle intemperie e ai parassiti, ma sterili, per cui l’agricoltore non può ricavare dei semi dal raccolto precedente ed è costretto a riacquistare di anno in anno le semenze dipendendo, di fatto,
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dalle aziende che le producono. Per alcune colture i semi modificati rischiano di soppiantare quelli naturali, determinando una perdita per la biodiversità. Per esempio, delle cento varietà di soia esistenti in natura, solo una – per giunta geneticamente modificata – è attualmente usata in agricoltura. La questione delle colture geneticamente modificate vede due schieramenti aspramente contrapposti. Da un lato, coloro che difendono il patrimonio antichissimo delle coltivazioni convenzionali e temono i rischi di contaminazione e danni permanenti all’ambiente naturale; dall’altro, quanti sono a favore dello sviluppo della ricerca anche in questo campo e sottolineano come in molti paesi europei le colture Ogm siano largamente presenti e i prodotti agricoli – come i mangimi – largamente importati anche in Italia, nonostante paradossalmente ne vieti la produzione.
Laboratorio di scrittura di cittadinanza 1 Leggi la scheda e sintetizzala in cinque slide di PowerPoint, adoperando la seguente scaletta: Ɣ Definizione di biodiversità Ɣ Le minacce per la biodiversità Ɣ L’importanza della Convenzione sulla diversità biologica del 1992
Ɣ I provvedimenti a livello locale per la tutela della biodiversità Ɣ L’incidenza degli OGM sulla biodiversità e il dibattito pubblico
La biodiversità nelle Linee guida per l’educazione ambientale 2 In occasione dell’anno scolastico 2015, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare (Mattm) ha lanciato, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca (Miur), la pubblicazione delle Nuove linee guida per l’educazione ambientale. Vai sul sito istituzionale del Mattm; nel menu “Argomenti” che trovi in alto a destra clicca su ‘’Educazione Ambientale’’: si aprirà una pagina di presentazione dell’iniziativa. Tra i link in essa contenuti, clicca su “Linee guida sull’Educazione ambientale”: si aprirà un’altra pagina, in fondo alla quale trovi il rimando a un file pdf che contiene tantissime schede progettate per le scolaresche, utili per saperne di più sulle problematiche ambientali. In particolare, tra le “Schede tecniche di approfondimento” (vedi le pp. 135-45 del pdf), ti segnaliamo la lettura di due di esse che possono fornire una base utile per una discussione in classe sulla biodiversità, sotto la guida dell’insegnante: Ɣ Conoscere e tutelare la biodiversità dalle specie agli ecosistemi
Ɣ Servizi ecosistemici e uso sostenibile della biodiversità
Al termine della discussione, redigi un testo argomentativo (max 10 righe di documento Word) in cui esponi il tuo personale punto di vista in merito alla problematica posta.
Che cosa fa l’Unione europea per la salvaguardia della biodiversità? 3 L’Unione europea ha adottato una strategia per proteggere e migliorare lo stato della biodiversità in Europa fino al 2020. Tale strategia prevede sei obiettivi in relazione alle principali cause della perdita di biodiversità e che permetteranno di ridurre gli impatti sulla natura. Digita nella maschera di ricerca di Google “Strategia sulla biodiversità fino al 2020”. Leggi il documento e realizza una presentazione di sintesi in PowerPoint destinata ai cittadini dell’Ue.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
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Quanti e dove sono i Parchi Nazionali e i Parchi Naturali italiani? 4 In Italia i Parchi Nazionali e i Parchi Naturali sono 25, coprono quasi il 10% del territorio per un totale di un milione e mezzo di ettari, dalle Alpi alla Sardegna, e costituiscono una riserva naturale dal valore ineguagliabile. Di seguito ti forniamo la lista dei Parchi Nazionali italiani, utile nel caso in cui tu e la tua classe decidiate di organizzare un’escursione presso il parco più vicino alla vostra città o regione. Ricerca, insieme con la classe, le informazioni sul parco e create un itinerario (reale e/o virtuale) consultando il sito web ufficiale. Ricordatevi di indicare come raggiungere il luogo, cosa vedere, cosa fare e di segnalare qualcuna delle sue attrattive faunistiche. Buona escursione! Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ Ɣ
Parco Nazionale del Gran Paradiso in Valle d’Aosta Parco Nazionale dello Stelvio, fra Lombardia e Trentino-Alto Adige Parco Nazionale Val Grande in Piemonte Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, in Veneto Parco Nazionale delle Cinque Terre in Liguria Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano, in Toscana ed Emilia Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna in Toscana ed Emilia Romagna Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano in Toscana Parco Nazionale dell’Asinara in Sardegna Parco Nazionale dell’Arcipelago della Maddalena in Sardegna Parco Nazionale del Golfo di Orosei e del Gennargentu in Sardegna Parco Nazionale dei Monti Sibillini fra Marche ed Umbria Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga in Abruzzo
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Parco Nazionale della Maiella in Abruzzo Parco Nazionale d’Abruzzo-Lazio e Molise Parco Nazionale del Circeo nel Lazio Parco Nazionale del Vesuvio in Campania Parco Nazionale del Gargano in Puglia Parco Nazionale dell’Alta Murgia in Puglia Parco Nazionale dell’Appennino Lucano in Basilicata Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano in Campania Parco Nazionale del Pollino in Calabria Parco Nazionale della Sila in Calabria Parco Nazionale dell’Aspromonte in Calabria Parco Nazionale dell’isola di Pantelleria in Sicilia
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ARTE E STORIA
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Scambi artistici: l’altra faccia del colonialismo europeo Per trasformare il paesaggio delle colonie in luoghi familiari per gli europei, non ci si limitò a importare colture alimentari e specie animali. Doveva essere rassicurante per i coloni che il Nuovo Mondo assomigliasse il più possibile a quello lasciato nella madrepatria: trasferitisi così lontano per spirito d’avventura, in cerca di miglior fortuna o perché costretti da circostanze avverse, i coloni tendevano a riprodurre manufatti e opere d’arte simili a quelli delle nazioni di provenienza. Ecco perché l’architettura giocò un ruolo decisivo nell’espansione del colonialismo europeo. Già alla fine del ’700, si cominciò a parlare di stile coloniale per definire la corrente artistica con cui i coloni investirono le terre colonizzate. Agli europei nelle Americhe, in Africa, Asia e Oceania servivano case, scuole, sedi di rappresentanza e di governo, luoghi di culto: per realizzarli venivano il più delle volte importati modelli caratteristici europei, anche se talvolta ci furono dei tentativi di ibridi tra tecniche artistiche occidentali e materiali o stili indigeni. Da un lato, questa tendenza era anche un modo per appropriarsi ancora di più dei paesi conquistati: imponendo una foggia occidentale agli edifici e al paesaggio, quelle terre diventavano ai loro occhi ancora più francesi, inglesi, spagnole, portoghesi. Dall’altro, era un riflesso del senso di “superiorità occidentale”, che induceva a credere che i modelli occidentali ź Frederick William Stevens, Chhatrapati Shivaji Terminus 1897 [Mumbai, India]
Ÿ Giuseppe Gricci, Gabinetto di porcellana per la Reggia di Portici 1757-59 [Museo di Capodimonte, Napoli]
Ÿ Frederick William Stevens, Chhatrapati Shivaji Terminus, particolare
fossero comunque superiori alle soluzioni ispirate alle costruzioni dei popoli nativi. La stazione Victoria di Mumbai, dedicata alla regina Vittoria del Regno Unito (1819-1901), oggi intitolata all’antico sovrano indiano Chhatrapati Shivaji, è un ottimo esempio di questi interventi sul territorio. Le sue forme richiamavano con fedeltà lo stile neogotico vittoriano in voga nell’Inghilterra del XIX secolo, ispirato all’architettura medievale italiana, tanto che qualsiasi inglese di passaggio da Mumbai avrebbe immediatamente riconosciuto la somiglianza con la stazione londinese di St. Pancras, costruita negli stessi anni. Tuttavia, per la sua costruzione vennero impiegati manovali indiani in grado di integrare il progetto con elementi decorativi tipici indiani, come si nota da moltissimi particolari. Proprio perché simbolo della fusione tra due culture diverse, la stazione è stata inserita nel 2004 tra i monumenti
dichiarati “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco. In direzione opposta, tra il ’700 e l’800 in Europa impazzava la moda delle “cineserie”, cioè delle forme decorative ispirate allo stile dell’Estremo Oriente. Il gusto per tutto ciò che sembrava richiamare la foggia orientale si impose soprattutto nelle cosiddette “arti applicate”, cioè nei gioielli, nell’abbigliamento, nell’arredamento. In realtà, non si trattava di un vero prestito delle forme artistiche cinesi, ma di una rielaborazione originale e piuttosto fantasiosa dell’arte orientale. Di fatto, negli appartamenti decorati secondo questa nuova moda c’era molto poco della Cina e molto più dello sguardo degli europei sull’Oriente. Il Gabinetto di porcellana (1757-59) doveva decorare la Reggia di Portici e venne realizzato da maestranze napoletane. Stucchi dipinti e dorati formavano sulle lastre di porcellana festoni, strumenti musicali, figure orientaleggianti: un capolavoro dell’arte partenopea che guardava ad Oriente.
PISTE DI LAVORO a. Realizza una piccola scheda divulgativa sullo stile coloniale, specificando le caratteristiche proprie del paese d’origine. Non superare le 50/60 parole. Digita nella maschera di ricerca di Google “coloniale, stile” e seleziona un sito affidabile (ti consigliamo di consultare l’Enciclopedia online della Treccani). b. Di quali tendenze della mentalità europea sono espressione, rispettivamente, lo stile coloniale e la moda delle cineserie?
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C5L’espansione coloniale europea nel ’700 RICORDARE L’ESSENZIALE Commerci e colonie europee in Asia, America, Australia Nell’Oceano Indiano i portoghesi diedero vita, tra la fine del ’500 e la prima metà del ’600, a un vasto impero commerciale. Successivamente la Compagnia olandese delle Indie orientali, che agiva anche come rappresentante dello Stato olandese, soppiantò l’egemonia commerciale portoghese, controllando per mezzo secolo il traffico delle spezie. Tra ’600 e ’700 la Compagnia inglese delle Indie orientali concentrò i propri interessi commerciali in India, scalzando la Compagnia francese delle Indie orientali. Con la guerra dei Sette anni gli inglesi acquisirono il Canada e parte della Louisiana dalla Francia e la Florida dalla Spagna. Così i possedimenti francesi in America si ridussero alle sole Antille e si affermò la supremazia inglese nell’America del Nord. Un’esperienza unica nella colonizzazione americana fu quella realizzata dai gesuiti in Paraguay, nel’600: costituirono comunità di indios, le riduzioni, organizzate su princìpi di eguaglianza sociale, allo scopo di dar vita a una repubblica cristiana. Il tentativo terminò a metà del ’700, quando le comunità furono chiuse dal Portogallo. Fin dall’inizio, nell’economia dell’America Latina ebbe un ruolo decisivo l’ingente produzione di oro e argento inviata in Europa. Nel ’500, con la coltivazione della canna da zucchero in Brasile, iniziò il sistema delle piantagioni, dove furono impiegati schiavi neri importati dall’Africa per coltivazioni monocolturali. Attorno al traffico di schiavi prese forma quel “commercio triangolare” (Africa-America-Europa) che divenne il tratto caratteristico del sistema mercantile atlantico. Il
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Audiosintesi per paragrafi
predominio britannico fu rafforzato con la pace di Utrecht, nel 1713: gli accordi stabilivano che la tratta degli schiavi verso le colonie spagnole (l’asiento de negros) divenisse monopolio britannico (e tale rimase fino al 1750). Tra ’600 e ’700 la Gran Bretagna conquistò i mercati e assunse il controllo delle materie prime e ciò contribuì al successivo sviluppo industriale inglese. Alla fine del ’700 i domìni britannici si estesero anche all’Australia: furono costituite colonie di deportazione, poi trasformate in colonie di popolamento. Tra 1788 e 1853 oltre 160 mila prigionieri vennero trasferiti dalla Gran Bretagna in Australia. Solo una minima parte di essi fu reclusa negli stabilimenti penali, mentre gli altri vennero assegnati come servi ai coloni liberi o furono utilizzati come lavoratori alle dirette dipendenze del governo. Scontata la pena, moltissimi ex deportati riuscirono a integrarsi nella società coloniale, dando vita a un ceto medio intraprendente e desideroso di riscatto sociale. Imperialismo ecologico e confronto culturale L’aspetto meno noto dell’espansione europea è quello ecologico: l’Europa, infatti, trasformò sensibilmente l’habitat delle popolazioni soggette al suo dominio esportando non solo merci, ma anche malattie (di cui la più letale si rivelò il vaiolo), piante, animali e uomini. La diffusione di piante di origine europea come il trifoglio, la piantaggine, la gramigna, alimentò il moltiplicarsi del bestiame europeo: cavalli, bovini, pecore, capre e maiali. Il risultato di questo imperialismo ecologico è rappresentato dal fatto che oggi gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina, l’Uru-
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE 1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Già dal ‘700 la presenza degli europei in Asia si limitò al controllo dei traffici commerciali. b. L’East India Company, assumendo l’amministrazione del Bengala e del Bihar, assieme all’India, trasformò il proprio dominio commerciale in un possedimento coloniale. c. La deportazione dei prigionieri inglesi in Australia fu interrotta per la mobilitazione della popolazione locale. d. La soppressione degli Stati missionari fu una conseguenza diretta della Controriforma. e. In America, nelle piantagioni di canna da zucchero, veniva utilizzata solo manodopera indigena.
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U2 Civiltà e mercati oltre l’Europa
guay, l’Australia e la Nuova Zelanda sono i maggiori esportatori di derrate alimentari di origine europea. L’enorme disponibilità di risorse, unita a un ambiente simile a quello europeo, favorì l’emigrazione europea: tra 1820 e 1930 oltre 50 milioni di europei si trasferirono in America e Oceania. A contatto con le altre culture l’Europa modificò i suoi consumi. Intorno al 1600 gli europei cominciarono a bere il caffè, al ‘700 risale il consumo tutto inglese del tè, e successivamente quello del tabacco, che veniva masticato più che fumato. Con l’espansione dei traffici commerciali, gli europei entrarono in stretto contatto con civiltà lontane e diverse, con conseguenze profonde non solo sull’evoluzione delle civiltà extraeuropee, ma anche sulla stessa identità delle popolazioni del Vecchio Continente. L’incontro con l’indigeno, il “selvaggio”, costrinse gli europei a definirsi con maggiore chiarezza. Cambiarono anche i paesaggi agrari – le coltivazioni della patata, del mais, del pomodoro divennero largamente diffuse nel ’700 e nell’800 – e i consumi alimentari. Nacquero anche nuove mode: nelle abitazioni cominciarono a trovare spazio i fiori esotici, i tappeti, i soprammobili importati soprattutto dall’Oriente (le “cineserie”). Più tardi, nell’età degli imperi coloniali, divenne comune l’usanza di portare in Europa “esemplari indigeni” da esibire alla curiosità del grande pubblico. L’incontro con le civiltà extraeuropee trasformò anche il mondo delle arti figurative europee: le avanguardie artistiche valorizzarono riti e costumi degli “uomini primitivi” come stimoli a rivoluzionare le forme espressive della tradizione artistica europea.
Test interattivi
f. Agli inizi dell’800, la popolazione brasiliana era costituita prevalentemente da coloni portoghesi. g. Il commercio triangolare coinvolgeva l’Asia, l’Europa e l’America del Sud. h. Le Antille costituirono nel ‘600 uno dei principali punti di appoggio per la pirateria. i. Al termine della guerra dei Sette anni, nel 1763, la Francia cedette all’Inghilterra il Canada e la Louisiana. l. La malattia europea che provocò il maggior numero di morti in America fu la sifilide.
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C5 L’espansione coloniale europea nel ’700
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2 Completa, laddove possibile, la seguente tabella relativa agli Stati colonizzatori, alle loro compagnie commerciali e ai territori di espansione. Stato
Compagnia commerciale
Territori di espansione
Spagna Brasile, ... Olanda East India Company Francia Danimarca
3 Completa la seguente mappa relativa al commercio triangolare atlantico. in America l’economia agricola basata sulla ........ ........................................... cioè una grande proprietà agricola dedicata ad una monocultura. Nella seconda metà del ’500 si affermò
a Madera, nelle Azzorre, nelle Canarie e in Brasile la coltivazione della ............. ...................., che richiede un clima ....................., ..........................., legname, ............. per costruire i mulini per la spremitura, e una larga disponibilità di ...........................................
Poiché in Brasile i ....................................... disponevano dei capitali ma non della ....................., vennero importati come schiavi .......................................
I portoghesi imbarcavano ................. in Africa, li vendevano in ....................................... e riportavano in Europa le navi cariche di ................ e di ..............
La diffusione dell’economia delle ....................................... e l’alta mortalità degli ....................................... in esse impiegati causarono l’“importazione” e la morte di circa ................. di persone ridotte in schiavitù.
4 Completa la tabella e confronta l’esperienza coloniale inglese con quella spagnola nel continente americano. Quindi scrivi un testo comparativo prendendo le mosse dalle seguenti domande: Quale dei due modelli coloniali può essere definito di “popolamento”? Quale invece di “sfruttamento”? Colonie inglesi
Colonie spagnole
Le più importanti erano... Erano governata da... I rapporti con la madrepatria erano... L’economia era finalizzata a... La popolazione originaria fu...
5 Per spiegare il concetto di imperialismo ecologico rispondi, sul quaderno, alle seguenti domande: a. Insieme alle merci che cosa veniva «scambiato» tra l’Europa e i nuovi continenti? b. Che cosa favorì lo scambio biologico?
c. Sotto quali aspetti le colonie diventarono sempre più simili all’Europa? d. Quali conseguenze immediate l’imperialismo ecologico ebbe sul Vecchio Continente?
COMPETENZE IN AZIONE 6 Osserva la pianta della riduzione di S. Carlo a p. 134 e rispondi alle seguenti domande: a. L’organizzazione dello spazio è rigida o casuale? b. Quali edifici o strutture compaiono? c. Esistono luoghi pubblici?
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d. Dove si trovano le abitazioni dei guaraní? e. Il cimitero è ubicato fuori dallo spazio abitato? f. Dove si trovano i luoghi di lavoro?
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FARE STORIA
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Il commercio degli schiavi: la tratta atlantica e la rivoluzione commerciale Nel ’700 il commercio degli schiavi costituì una fonte di ricchezza per molti, non solo europei. Se è vero, infatti, che la Gran Bretagna deteneva il monopolio dei traffici verso l’America, è altrettanto vero che su questo commercio disumano si arricchirono anche re e mercanti africani, proprietari terrieri spagnoli, armatori di varie nazionalità. Un sistema economico complesso, dunque, che ebbe conseguenze devastanti sulle società africane ed effetti profondi sulla composizione demografica del continente americano. Da un lato, la tratta atlantica costò all’Africa circa 20 milioni di persone (tra quelli catturati e uccisi in Africa, quelli che morirono durante il viaggio attraverso l’Atlantico, il cosiddetto “passaggio di mezzo”, e quelli che raggiunsero le Americhe), dall’altro essa cambiò immutabilmente la composizione etnica della popolazione americana. La schiavitù era diffusa tra gli africani – come tra gli europei – ben prima dei loro contatti con gli europei: essa non costituiva, dunque, una novità. Nel primo brano, la
STORIOGRAFIA 23 L.A. Lindsay, Il commercio degli schiavi, il Mulino, Bologna 2011, pp. 65-72.
I negrieri bianchi non si addentravano nell’entroterra per catturare con le reti i potenziali schiavi mentre erano intenti nelle loro attività quotidiane. La verità è che, quasi sempre, gli europei comperavano gli schiavi da venditori africani sulla costa in base a precisi accordi. […] La falsa credenza secondo cui gli africani erano soggiogati dagli europei, che li avrebbero costretti a vendere schiavi, è dimostrata dal fatto evidente che gli europei non colonizzarono né organizzarono piantagioni in Africa (almeno fino al XIX secolo inoltrato, molto dopo che la tratta atlantica era stata abolita). Questo non perché gli europei scelsero di non conquistare gli africani, ma perché, a differenza che nelle Americhe, non avevano alcun significativo vantaggio tecnologico o militare su di loro. […] La posizione di forza degli africani a fronte degli europei […] significa che essi non erano costretti a vendere schiavi. E infatti, ci furono intere parti della costa dell’Africa occidentale dove gli africani non parteciparono o quasi alla tratta degli schiavi. […] Quindi i capi africani e gli europei che
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storica Lisa A. Lindsay [Ź23] si interroga sul perché gli africani vendessero altri africani come schiavi, escludendo l’ipotesi che lo facessero perché sottomessi agli interessi europei o per avidità e disumanità. Seguono un’analisi dello storico tedesco Wolfgang Reinhard [Ź24], che ricostruisce le operazioni necessarie all’organizzazione del trasporto degli schiavi attraverso l’oceano e un passo del celebre economista Karl Polanyi [Ź25], che analizza le conseguenze delle tratta atlantica sull’organizzazione sociale ed economica di uno Stato africano, il Dahomey, che fu spinto a indirizzare i suoi sforzi nella gestione del commercio degli schiavi. Le conseguenze nefaste della tratta atlantica e dell’ingerenza europea sullo sviluppo economico, sociale e politico degli Stati africani si fa sentire ancora oggi. Nell’ultimo brano, lo storico statunitense Herbert S. Klein [Ź26] ricostruisce invece i primi passi del movimento abolizionista della schiavitù in Gran Bretagna, a partire dalla metà del XVIII secolo.
L.A. Lindsay Perché gli africani vendevano gli schiavi? Per molti decenni si è ritenuto che gli occidentali catturassero direttamente gli africani da portare e vendere come schiavi nelle Americhe. Questa concezione è stata però ribaltata, negli ultimi anni, dalla storiografia: erano gli stessi africani, infatti, che vendevano uomini sulla base di precisi accordi commerciali. Come dimostrato dalla storica Lisa A. Lindsay, docente alla University of North Carolina, gli africani non ebbero un ruolo passivo nei loro rapporti con gli europei, ma li trattavano su un piano di parità: le élite africane non erano costrette a vendere schiavi, né lo facevano perché avide e immorali, ma agivano in un contesto sociale e politico che considerava la schiavitù un’istituzione legittima e accettata. partecipavano al traffico degli schiavi lo facevano volontariamente, nei termini commerciali che concordavano. Ma come giustificavano la vendita volontaria di schiavi le élite africane? Non stavano forse indebolendo le loro comunità, non stavano così distruggendo la vita del loro stesso popolo? Gli africani vendevano schiavi per pura e semplice avidità? Per comprendere il meccanismo è necessario rendersi conto che al di fuori del sistema schiavistico delle Americhe, il termine africano significava ben poco prima del XIX secolo. L’Africa è il continente con la più lunga storia umana ed è stato, com’è tuttora, la terra della più grande diversità di popoli al mondo. Questi popoli parlavano (e parlano) migliaia di lingue, praticavano svariate religioni, vestivano e si comportavano nei modi più differenti e tributavano fedeltà a innumerevoli famiglie, clan, città, potentati e regni. Un re che vendeva prigionieri di guerra a un trafficante europeo è verosimile che non avesse più senso di attaccamento verso coloro che vendeva dell’europeo, o di quanto ce ne
fosse tra lui e l’europeo stesso. Proprio come gli europei, e come pressoché ogni altro gruppo nella storia mondiale, gli africani consideravano la schiavitù un’istituzione legittima per incorporare, addomesticare e sfruttare gli «estranei» al proprio gruppo. […] Dunque, i capi e i mercanti africani non vendevano «la propria gente». Questa idea è basata su categorie razziali che non esistevano all’epoca. […] Gli africani, dunque, vendevano schiavi agli europei non perché erano costretti e nemmeno perché erano trafficanti senza scrupoli. Ma allora perché lo facevano? Innanzitutto, perché non ci vedevano nulla di sbagliato: la schiavitù era un’istituzione accettata, specialmente come relazione con gli «estranei». E, come abbiamo visto, i venditori di schiavi non consideravano coloro che vendevano come appartenenti a un gruppo comune, soprattutto in un generale contesto di frammentazione politica. Infatti, nella maggior parte dei casi gli individui ridotti in schiavitù erano prigionieri di guerra originari di altri luoghi rispetto a quelli in
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FARE STORIA
FARE STORIA Il commercio degli schiavi
cui venivano smerciati. Inoltre, proprio per questo, vendere schiavi offriva ai capi locali la possibilità a costo davvero basso di rafforzare se stessi e i propri seguaci a spese dei rivali. […] Sebbene esistesse una base legale in Africa per la vendita degli schiavi, per la maggior parte essi non provenivano da una classe specifica, bensì erano prigionieri di guerra ridotti in schiavitù o individui comprati da razziatori. Come in Europa o altrove, i sovrani africani facevano la guerra per una serie di ragioni politiche, economiche e personali: per aumentare il territorio, per vendicare offese subite dai vicini, per guadagnare influenza in una regione, per controllare risorse cruciali o vie di comunicazione, o ancora per rafforzare il potere all’interno contro i membri rivali della classe dominante. In Africa, la vastità del territorio e la diversità umana creavano le condizioni per guerre frequenti. […] Per giunta, quando gli stati africani entravano in guerra, lo scopo non era conquistare nuove terre bensì catturare individui, vuoi per incorporarli come vassalli vuoi per farne schiavi. […] Le guerre portavano ricchezze e potere agli
stati e ai loro capi garantendo le braccia per tagliare il bosco, coltivare, produrre beni, commerciare e riprodurre nuove generazioni. In alternativa, i prigionieri catturati in guerra potevano essere venduti e anche questi proventi finivano per rafforzare lo stato vittorioso. Ciò spiega perché in Africa ci fosse già una grande popolazione schiava all’epoca dei primi contatti con gli europei, e perché le guerre continuassero a produrre schiavi. […] Non si deve pensare che gli schiavi fossero scambiati con merci di scarto o addirittura ninnoli senza valore. I venditori africani cedevano i loro prigionieri solo in cambio di beni che avessero valore a livello locale. Gli europei dovevano selezionare attentamente le merci da offrire per soddisfare le mutevoli ed esigenti richieste degli africani lungo le diverse aree costiere. Spesso gli europei pagavano gli schiavi con armi e munizioni, e questo era logico visto che il commercio era un modo per gli stati e per i singoli individui di aumentare il proprio potere e la propria ricchezza. Anche le conchiglie di ciprea1 (portate dall’Asia e usate come moneta in Africa) insieme ai metalli e ai prodotti manufatti
STORIOGRAFIA 24
W. Reinhard La logistica del commercio degli schiavi
W. Reinhard, L’Europa e il mondo atlantico in Storia del mondo. Imperi e oceani, 1350-1750, Einaudi, Torino 2016, pp. 879-82.
Inizialmente, in questa parte di Africa1 furono molto attivi gli olandesi, poi soprattutto i britannici e i francesi. Alla fine del XVIII secolo i portoghesi trasportavano ogni anno 16.000 schiavi provenienti da questa zona, i francesi 12.800 e i britannici 11.600. Durante il XVIII secolo, il Congo e l’Angola rifornirono l’America con 2,5 milioni di schiavi, di cui 1,3 milioni spettarono ai portoghesi. Dopo il 1810, diversamente da altre parti dell’Africa, vanno aggiunti ancora 1,3 milioni. I 3,93 milioni di africani catturati in questa zona tra il 1662 e il 1867, di cui 340.000 soltanto nel decennio 1790, ammontavano al 40 per cento di tutte le esportazioni di schiavi africani gestite dagli europei. Probabilmente nessun’altra parte del continente
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entravano nel continente africano mentre gli schiavi ne uscivano. Ma la merce di gran lunga più richiesta dagli africani erano i tessuti. In tutta l’Africa si produceva una grande quantità di vestiario, ma le importazioni di tessuti (capi finiti europei, o portati in Africa dall’Asia) rappresentavano una forte attrazione come simbolo esotico di moda e di lusso. 1. Le conchiglie di ciprea, o cipree, sono il guscio
di una famiglia di molluschi che vive nei mari tropicali. In particolare, tra esse, le conchiglie cauri, raccolte nelle isole Maldive, avevano una funzione di moneta, estesa dalle coste occidentali dell’Africa sino alle isole Hawaii.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia le informazioni che smentiscono l’idea che gli europei avrebbero costretto gli africani a vendere schiavi e spiega quali erano le reali motivazioni di questo commercio. b. Spiega in che modo la contestualizzazione storica del termine “africano” possa aiutare a comprendere il comportamento dei venditori di schiavi in Africa. c. Sottolinea le merci con cui gli europei pagavano gli schiavi africani.
Lo storico tedesco Wolfgang Reinhard (nato nel 1937) è uno dei maggiori esperti del colonialismo e dello sfruttamento economico delle colonie da parte degli Stati europei. Negli ultimi anni ha esteso i suoi studi al rapporto tra il mondo atlantico – che vede uno dei suoi poli nella costa occidentale del continente africano e l’altro nella costa orientale di quello americano – e l’Europa. In questo brano analizza alcuni aspetti organizzativi (profitti, tempi, merci di scambio, alimentazione a bordo) del commercio degli schiavi, smentendo l’idea comune secondo la quale ogni singola nave era coinvolta in tutte e tre le fasi del cosiddetto “commercio triangolare”. ha patito superiori perdite di popolazione con la tratta degli schiavi e ha dovuto sopportare cambiamenti maggiori. Gli europei cercarono di organizzare il giro d’affari attraverso compagnie monopolistiche nazionali2, ma i costi erano troppo alti e tutte le compagnie fallirono. Nel XVIII secolo dominava il libero commercio e la Royal African Company britannica3 riscuoteva ancora una tassa per l’utilizzo delle sue basi d’appoggio. Le navi di schiavi non erano mai «caricate» tutte in una volta; piuttosto gli schiavi erano acquistati a più riprese da diversi africani. Pertanto una stallia4 di carico/scarico di più mesi o una navigazione costiera erano consuete e costituivano un’ulteriore fonte di rischio e di costi.
Normalmente l’armatore di una nave negriera condivideva investimenti e profitti con altri mercanti di schiavi, con altri commercianti e altre persone,
1. L’Africa atlantica, cioè la sua parte occidentale. 2. Inizialmente il commercio degli schiavi tra
l’Africa e le Americhe era gestito da un’unica compagnia commerciale per ogni paese (monopolio), spesso fondata dalle famiglie reali. Solo nel corso del XVIII secolo, con la diffusione del libero mercato e del regime di concorrenza, furono create più compagnie. 3. La Royal African Company era una compagnia commerciale britannica, fondata nel 1672 ma già esistente da qualche anno, che si occupava del trasferimento nelle colonie britanniche americane degli schiavi neri prelevati dall’Africa. 4. Il tempo concesso a una nave in un porto per compiere le operazioni di carico e scarico.
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U2 Civiltà e mercati oltre l’Europa
anche per ridurre i rischi, e anche i capitani erano coinvolti nell’investimento. Gran parte delle navi negriere erano più piccole delle navi commerciali normali, ma avevano un numero doppio di uomini come equipaggio: un marinaio ogni 7-10 schiavi. Un carico di merci per l’Africa ammontava al 5565 per cento dei costi totali e i prodotti più importanti, nel XVIII secolo, erano quelli tessili (il 56 per cento del carico totale), di cui appena un terzo (36 per cento) proveniva dalle Indie orientali, preferiti per la qualità e la resistenza dei colori. Seguivano l’acquavite e diverse merci metalliche, oltre ad altri prodotti industriali (rispettivamente il 10 e il 12 per cento), armi e polvere da sparo (dal 7 al 9), tabacco (dal 2 all’8) e barre di ferro (dal 2 al 5 per cento). […] Inoltre, olandesi e inglesi importavano conchiglie cauri5 dall’Oceano Indiano, in parte dirette in Africa, in parte verso l’Europa, dove erano comprate da commercianti di schiavi di altre nazioni. […] Dopo tre o quattro mesi di viaggio verso l’Africa e da tre a sei mesi di stallia – necessari per acquistare gli schiavi – i commercianti integravano le scorte di farina e carne portate dall’Europa – sempre con commercianti africani – con yam6, riso, fagioli e altri alimenti africani, nonché acqua potabile. Erano necessari circa 200 chilogrammi di viveri e 65 litri d’acqua per schiavo per il viaggio di diversi mesi attraverso l’Atlantico, il cosiddetto Middle Passage7. Nel caso dei britannici, a bordo vi erano due pasti al giorno, uno a base di riso e yam, l’altro con zuppa d’orzo, mais e pane secco, a volte con carne o pesce, in tutto circa 2000 calorie. A ciò si ag-
giungeva succo di limone o aceto contro lo scorbuto. Gli uomini, i ragazzi, le donne e i bambini erano tenuti separati e di notte incatenati per sicurezza, ma di giorno potevano muoversi in coperta e lavarsi con l’acqua di mare, mentre l’equipaggio puliva la zona notte: circa 0,6 metri quadrati a persona. Poiché uno schiavo morto su 300 significava una diminuzione del profitto dello 0,67 per cento, il «carico» in generale era trattato con cura. Ciononostante la mortalità era elevata, ma diminuì dal 20-30 per cento nel XVI secolo al 6-10 per cento nel XIX. I commercianti di schiavi svilupparono navi più adatte, permisero una traversata più rapida e un’alimentazione più sana a bordo e comparvero differenze tra le nazioni: i portoghesi si classificavano meglio di spagnoli, inglesi e francesi. La mortalità poteva dipendere dall’esaurimento del sostentamento nel caso la durata del viaggio si prolungasse inaspettatamente, ma più spesso era dovuta a infezioni, che gli schiavi portavano dall’Africa e che diffondevano sulla nave, perlopiù quelle del tratto digerente e alcune febbri, però a volte anche epidemie di morbillo e di vaiolo, fino a quando anche qui divenne consueta la vaccinazione contro quest’ultimo. In queste circostanze, anche tra l’equipaggio la mortalità era maggiore che su altri tipi di navi. Una volta arrivati nelle Indie Occidentali8, gli schiavi erano venduti singolarmente o in piccoli gruppi entro pochi giorni, spesso con un acconto del 25 per cento, mentre il resto doveva essere dilazionato. Una parte dell’equipaggio diveniva superflua e veniva licenziata e dopo 15-18 mesi la nave ritornava in
STORIOGRAFIA 25
K. Polanyi Le conseguenze della tratta: il caso del Dahomey
K. Polanyi, A. Rotstein, Il Dahomey e la tratta degli schiavi. Analisi di un’economia arcaica, Einaudi, Torino 1987, pp. 17-22.
L’evento storico che sottopose la società del Dahomey ad una grande tensione sopraggiunse dall’esterno e si verificò nella sfera dell’economia.
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Europa, perlopiù con la sola zavorra, o caricata solo in parte. Con un’espressione tipica, questo sistema atlantico era detto «commercio triangolare»: merci dall’Europa all’Africa – schiavi dall’Africa all’America – zucchero e altri prodotti delle piantagioni dall’America all’Europa. Tuttavia, questo è corretto al massimo per il carico trasportato, mentre la singola nave raramente era coinvolta in tutte e tre le direzioni; inoltre, non erano consueti l’andata e il ritorno tra l’Europa e gli altri continenti, tanto più tra Brasile e Africa, e senz’altro i venti e le correnti escludevano questa possibilità per le Indie Occidentali. 5. Conchiglia usata come moneta [Ź23, nota 1]. 6. Tubero utilizzato come alimento, noto anche
come igname o patata dolce.
7. Il “passaggio intermedio”, cioè la fase della
tratta atlantica durante la quale gli schiavi attraversavano l’oceano a bordo delle navi. 8. Il continente americano.
GUIDA ALLO STUDIO a. Scrivi su una carta geopolitica dell’Africa i nomi degli Stati da cui furono prelevati gli schiavi e, per ognuno di essi, il numero di questi ultimi. Quindi scrivi i nomi dei paesi europei che parteciparono al commercio indicando per ognuno di essi il numero di schiavi trasportati. b. Spiega per iscritto in che modo gli europei organizzarono il commercio schiavile, con quali merci pagavano gli schiavi, da cosa dipendeva la sopravvivenza di questi ultimi e come questo aspetto cambiò nel tempo. c. Descrivi oralmente lo svolgimento del commercio triangolare e il percorso delle navi e delle merci.
Il commercio degli schiavi ebbe conseguenze profonde anche sulle società e sulle economie dei paesi africani. Uno dei più originali economisti e antropologi del ’900, l’ungherese Karl Polanyi (1886-1964), ha studiato gli effetti di questi traffici in uno dei grandi regni dell’Africa occidentale, il Dahomey (l’odierna Repubblica del Benin), che durò dal 1625 al 1893 ed era caratterizzato da un’organizzazione sociale piuttosto arcaica. Nel seguente brano, Polanyi ricostruisce le origini della tratta atlantica sulla costa occidentale dell’Africa, determinata dalla necessità di manodopera proveniente dalle nuove piantagioni di canna da zucchero del continente americano, e ne evidenzia i condizionamenti sulla politica dei re del Dahomey, costretti ad abbandonare l’idea di organizzarsi come Stato dell’entroterra e spinti invece a interessarsi al commercio degli schiavi. L’esplosione della tratta degli schiavi determinata dalle piantagioni di canna da zucchero d’oltremare investì la costa della Guinea1 nelle immediate vicinanze
1. Regione dell’Africa occidentale che si affaccia
sul Golfo di Guinea. In questa regione è compreso anche il Dahomey.
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FARE STORIA
del Dahomey ed ebbe conseguenze eccezionali. […] La canna da zucchero era stata introdotta nelle Barbados2 nel 1640. In meno di venti anni la canna da zucchero «era divenuta più importante del tabacco e costituiva quasi la metà delle importazioni di Londra dalle piantagioni». Ebbe inizio una drammatica trasformazione del commercio atlantico. […] La convinzione molto diffusa che il nuovo schema del commercio afroamericano ebbe inizio con l’era delle scoperte è erronea; in realtà per un altro secolo e mezzo, fino agli inizi delle piantagioni da zucchero, non si intravide alcunché del genere, e soltanto a partire dal 1683 è dato trovare negri africani – 3000 dei quali erano stati acquistati in Africa per venire impiegati nella colonia – a Bahia3, allora capitale dell’impero d’oltremare dei portoghesi. […] In Inghilterra […] fu il 1660 l’anno in cui fu fondata la compagnia degli «avventurieri di Londra che commerciavano con l’Africa». «Il suo obiettivo principale era la ricerca dell’oro». La Royal African Company4 venne lanciata soltanto dodici anni dopo; il suo storico commenta che «la nuova compagnia doveva trattare soprattutto negri, la cui domanda nelle colonie inglesi appariva in espansione». Si possono datare al 1672 gli inizi della moderna tratta degli schiavi. Le piantagioni erano enormemente redditizie e le Indie occidentali erano divenute proprietà privata della famiglia reale e dell’aristocrazia di rango più elevato. Ora il procacciarsi schiavi era riconosciuto «assolutamente necessario». […] Con l’avvento della canna da zucchero nelle Indie occidentali ebbe inizio la corsa agli schiavi negri. Ardra5 fu il primo e il più importante Stato della costa della Guinea settentrionale che praticò la tratta degli schiavi. Sin dalla fine del decennio 1660-70 Ardra e i suoi tributari6, […] divennero altrettanti centri in cui si praticava regolarmente la tratta degli schiavi provenienti dall’interno, la maggior parte dei quali passava per il territorio di Ardra. Verso la fine del XVII secolo i francesi, che avevano un punto d’appoggio nelle vicinanze, riusciro-
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FARE STORIA Il commercio degli schiavi
no a stabilirsi permanentemente nella zona costiera dell’Ouidah7 […]. Anche la Royal African Company, che fino ad allora aveva preferito la vicina Offra, vi trasferì il suo insediamento principale [...]. Nel primo decennio del XVIII secolo l’affermarsi dell’Ouidah come il centro preminente di questa nuova branca del commercio mondiale segnò una svolta decisiva per la storia del Dahomey. Tale evento, verificatosi nelle sue immediate vicinanze, fu una sfida che fece esplodere le contraddizioni latenti della sua posizione. Ora il Dahomey si trovava costretto a tener conto della sua dipendenza geografica e strategica dalla costa. L’inattesa localizzazione della tratta degli schiavi e la pressione economica esercitata dalle flotte dei negrieri sulla costa indebolivano la situazione del Dahomey in quanto Stato dell’interno. […] All’interno e all’esterno la situazione dell’offerta era senza precedenti sia per il numero di uomini coinvolti sia per il disastro sociale causato. […] Inoltre la tratta degli schiavi rendeva necessario applicare tecniche e procedimenti che consentissero di trasportare, custodire, racchiudere in recinti, mantenere in vita e marchiare masse di esseri umani adulti. Si doveva trovare un modus vivendi 8 con le autorità dei grandi Stati africani, e sporadiche ingerenze nella complicata politica della regione si rendevano inevitabili. Dal punto di vista militare il Benin9, l’Oyo e l’Ashanti potevano tenersi in disparte dalla costa, grazie ai piccoli Stati-cuscinetto che li separavano dalla fascia costiera, più boscosa. La savana di Benin, restringendosi verso sud, privava il Dahomey di un’analoga zona di isolamento. La politica del Dahomey seguiva una logica rigorosa: nella sua precaria posizione militare la difesa e la tratta degli schiavi erano inseparabili. Si ammetteva che la tratta degli schiavi era anche una fonte di cospicue entrate per il re, senonché vi erano ben pochi margini di guadagno privato per una famiglia reale che provvedeva alle spese complessive dell’esercito e della pubblica amministrazione, compresi i
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pesanti costi delle campagne annuali. Il Dahomey era circondato da stati militarmente preparati. L’acquisizione di schiavi mediante l’intensificazione delle scorrerie contro i vicini più deboli non costituiva una possibile soluzione. Le guerre su larga scala tendenti all’acquisizione di schiavi e le azioni preventive contro gli strapotenti vicini procedevano di pari passo. La tratta degli schiavi gestita dallo Stato, che soltanto il Dahomey, se si prescinde dall’Ardra, praticava in quella regione, determinò una spirale di guerre incessanti che rese oltre modo bellicosa la popolazione di quel paese. 2. Isola delle Antille, situata tra il Mar dei Caraibi
e l’Oceano Atlantico. 3. Nome con il quale viene comunemente chiamata la città di Salvador, capitale dello Stato brasiliano di Bahia, fondata dai portoghesi col nome di São Salvador da Bahia de Todos os Santos nel 1549. Fu capitale fino al 1763. 4. Ź24, nota 3. 5. Chiamata anche Grande Ardra o Allada, dal nome della sua capitale, fu un regno dell’Africa occidentale situato in una zona corrispondente all’odierno Benin meridionale. In questa zona agiva principalmente la Compagnia olandese delle Indie occidentali. 6. Città e popolazioni che dovevano pagare i tributi ad Ardra e che, quindi, vivevano in una forma di subordinazione. 7. Ouidah è una città dell’odierno Benin, dove nel 1680 i portoghesi eressero un forte che divenne fondamentale per il commercio degli schiavi. 8. Modo di vivere. 9. Ci si riferisce, qui, non all’odierna Repubblica del Benin, ma all’Impero del Benin, che perdurò dal 1180 al 1897 e si estese gradualmente fino a comprendere l’area dell’odierna Nigeria. Sul territorio della Nigeria si affermò anche l’Impero Oyo, uno dei più estesi dell’Africa precoloniale insieme all’Impero Ashanti (1670-1902), corrispondente all’odierno Ghana.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia l’evento che determinò l’affermazione del nuovo schema del commercio afroamericano e spiega in cosa consistette questo cambiamento. b. Cerchia le date presenti nel brano e sottolinea gli eventi relativi. c. Spiega quali dinamiche spinsero il Regno del Dahomey nel commercio degli schiavi e quali furono le conseguenze di questo commercio.
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H.S. Klein, Il commercio atlantico degli schiavi, Carocci, Roma 2014, pp. 40-41; 76; 233-34.
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H.S. Klein I vantaggi economici della tratta atlantica e la lotta per l’abolizionismo Secondo lo storico statunitense Herbert S. Klein (nato nel 1936) la tratta degli schiavi fu un elemento fondamentale del successo economico occidentale: l’impiego degli schiavi, infatti, non solo rendeva possibile l’intero sistema economico del continente americano, notoriamente povero di manodopera, ma garantiva anche guadagni ai mercanti e ai finanziatori coinvolti. Nonostante i vantaggi economici della tratta atlantica, nel XVIII secolo iniziarono però a emergere movimenti e idee che la consideravano illegittima: il cristianesimo evangelico, il pensiero illuminista e la nuova economia politica, che riteneva il lavoro non libero come contrario alla moderna economia di mercato. Il movimento antischiavista si affermò soprattutto in Gran Bretagna: il 1° gennaio 1808 il Regno Unito – e di conseguenza anche gli Stati Uniti – uscirono dalla tratta atlantica e, da allora, il governo britannico cercò di spingere anche le altre nazioni a fermarla, mentre il movimento antischiavista chiedeva l’abolizione della schiavitù.
Prima di esaminare la storia dell’emigrazione forzata dall’Africa alle Americhe occorre […] capire quali furono le regioni reali che spinsero gli europei a ricorrere in tale misura agli schiavi africani per sviluppare miniere, manifatture e produzioni agricole. […] L’acquisto di schiavi sulla costa africana dell’Atlantico meridionale non fu motivato […] da una specifica richiesta di manodopera africana inerente all’economia europea. Senza alcun dubbio, invece, furono soprattutto le specifiche condizioni del mercato del lavoro americano a influenzare lo sviluppo della tratta atlantica degli schiavi. […] L’agricoltura da esportazione e l’effettiva colonizzazione non avrebbero raggiunto le proporzioni che seppero acquisire se gli schiavi africani non fossero stati portati nel Nuovo Mondo. Ad eccezione dei metalli preziosi, quasi tutte le principali esportazioni americane in Europa furono prodotte dagli africani. Difficile anche immaginare che le Indie Occidentali e la maggior parte del Brasile potessero essere efficacemente colonizzate senza il ricorso a questi schiavi africani. Data la ricchezza generata da queste colonie per le proprie madripatrie, non si manifestò nessuna disponibilità a rinunciare all’uso della manodopera schiava africana in nome di un’adesione ancora non formulata al principio dell’uguaglianza tra i popoli, un’idea che sarebbe emersa nel pensiero americano ed europeo soltanto nel tardo Settecento. Fino ad allora per Londra e Parigi le piantagioni schiaviste delle piccole isole delle Indie Occidentali valevano di più di interi continenti abitati da coloni liberi. Se la tratta degli schiavi fu redditi-
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zia, e se gli africani furono condotti in America a scopi produttivi, per quale motivo alla fine del XVIII secolo gli europei cominciarono ad attaccarla fino a troncare sistematicamente, nel corso dell’Ottocento, la partecipazione alla tratta di tutte le madripatrie europee e delle rispettive colonie americane? Gli economisti sembrano oggi concordare sul fatto che l’organizzazione schiavistica delle piantagioni americane garantisse un buon profitto ai piantatori e ai produttori di schiavi. Inoltre, tra tardo Settecento e primo Ottocento il calo dei prezzi delle colture americane prodotte nelle colonie ne diffuse rapidamente il consumo. L’elasticità della domanda di zucchero, caffè e cotone – i tre principali prodotti agricoli delle piantagioni con manodopera schiava – si tradusse in un guadagno per la classe dei piantatori. E non era possibile trovare lavoratori liberi disposti a lavorare in questi sistemi di piantagione, eccezion fatta per alcuni cinesi assunti a contratto o per contadini impiegati a tempo parziale. Resta quindi da capire perché la tratta sia stata infine abolita, pur essendo ancora redditizia per l’economia americana. Iniziata nell’ultimo quarto del Settecento, la campagna per l’abolizione della tratta atlantica degli schiavi è oggi considerata il primo movimento politico pacifico di massa della storia britannica basato su sistemi moderni di propaganda politica. […] I britannici, dopo aver abolito nel 1808 il traffico di schiavi con le proprie colonie, tentarono di costringere anche gli altri principali paesi europei schiavisti a interrompere le rispettive tratte e gli Stati e i governi africani a smettere di esportare esseri umani. […]
La campagna contro il traffico degli schiavi trasse origine dalla critica intellettuale alla legittimità della schiavitù e della tratta schiavistica, che cominciò a essere mossa nel Settecento in pieno contesto illuministico1 e che, nel corso degli ultimi decenni del secolo, divenne una battaglia morale condotta da un esiguo numero di sette protestanti. Qualche pensatore abolizionista, o qualche spirito che riteneva immorale il traffico di schiavi, c’era stato anche prima, ma si era trattato di voci isolate che non ebbero nessuna effettiva influenza sull’ideologia europea. Nel secondo Settecento, invece, una serie di autori iniziò a considerare la schiavitù come un’istituzione contraddittoria rispetto a una moderna economia di mercato2, o come una sfida ineludibile per il concetto in via di affermazione di eguaglianza universale, o ancora come una pratica intrinsecamente anticristiana, a prescindere da quel che era stato decretato nelle pagine della Bibbia. Nel primo Settecento l’istituzione fu condannata da filosofi come Montesquieu e Francis Hutcheson, seguiti su questa scia da figure dell’importanza di Adam Smith e Jean-Jacques Rousseau 3. Assieme ai dibattiti filosofici giunsero le critiche dei quaccheri e dei
1. Ź3. 2. Economia fondata sul libero mercato e sul
libero scambio.
3. Su Montesquieu, Smith e Rousseau [Ź3].
Francis Hutcheson (1694-1746) fu un filosofo considerato il fondatore della cosiddetta «scuola scozzese», particolarmente incentrata sulla questione della morale: le sue idee ebbero una grande influenza su Adam Smith.
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4. Quello dei quaccheri è un movimento
religioso nato nell’Inghilterra del XVII secolo e ispirato alla Riforma protestante: dopo violente
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protestanti evangelici4, che aggiunsero un accento specificatamente religioso alle opinioni sempre più negative sulla schiavitù […]. Per la prima volta nella storia del pensiero occidentale, emerse una variegata serie di credenze secondo le quali la schiavitù, e a maggior ragione il traffico di schiavi, erano istituzioni moralmente, politicamente e filosoficamente inaccettabili per la civiltà europea. Alla fine del secolo, in Europa, la schiavitù non poteva più contare su nessun paladino degno di nota.
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PALESTRA INVALSI 1. Trascrivi i tre cambiamenti avvenuti nel secondo ’700 che resero la schiavitù e il traffico degli schiavi moralmente inaccettabili. 1. ................................................................................................................................... 2. ................................................................................................................................... 3. ...................................................................................................................................
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FARE STORIA
2. Un messaggio importante del testo è che... [ ] a. Montesquieu e Rousseau condannarono l’istituzione della schiavitù. [ ] b. la ricchezza generata dalle piantagioni schiaviste fu così grande da impedire la rinuncia alla manodopera schiavile fino alla fine del ‘700. [ ] c. gli africani furono condotti in America per scopi produttivi. [ ] d. fin dall’inizio del ‘700 le voci contro la schiavitù diventarono convinzione diffusa in Europa. persecuzioni in Europa, i quaccheri trovarono rifugio in America, dove diedero vita alla prima comunità cristiana che si impegnò a combattere
la schiavitù. I cristiani evangelici sono dei gruppi protestanti che si ispirano allo stile di vita contenuto nella Bibbia.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Dopo aver letto il documento di Vassa [Leggere le fonti, cap. 5], i brani storiografici di Reinhard [Ź24] e di Polanyi [Ź25] e dopo aver osservato attentamente l’incisione Mercanti di schiavi a Gorea [ŹLEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 2], scrivi un testo argomentativo che tocchi le tematiche di seguito elencate (ricordati di citare le fonti da cui trai le tue informazioni): • Il Middle Passage e le fasi che lo caratterizzavano; • Gli Stati coinvolti; • Le conseguenze che il commercio triangolare ebbe sull’Europa e sull’Africa. Lo storico racconta 2. Dopo aver letto tutti i brani storiografici, scrivi un breve testo dal titolo Il commercio degli schiavi e le incertezze del movimento abolizionista. Prima di procedere con la scrittura, evidenzia nei documenti e nei
testi presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nel tuo elaborato e realizza una scaletta. Il confronto storiografico 3. Dopo aver letto i brani di Lindsay [Ź23], di Reinhard [Ź24] e di Polanyi [Ź25], scegli fra le seguenti posizioni storiografiche quella che ritieni maggiormente condivisibile e argomenta la tua risposta in un testo chiaro e coeso: a. Il commercio degli schiavi vedeva coinvolti attivamente non solo gli Stati europei che pianificavano e realizzavano la tratta oceanica, ma anche le colonie americane e i regni africani che fornivano la manodopera e il supporto logistico ai commercianti bianchi, in cambio di benefici economici. b. Benché la schiavitù fosse un’istituzione diffusa in Africa già prima della tratta afroamericana, gli europei cambiarono radicalmente le dimensioni e le pratiche del mercato, condizionando fortemente le scelte politiche ed economiche degli Stati africani coinvolti.
Cina e Europa: il problema dell’inferiorità tecnologica Alla fine del XVI secolo, quando si fecero sempre più frequenti le spedizioni degli europei nell’Estremo Oriente, era opinione diffusa presso gli occidentali che la civiltà cinese non fosse molto più arretrata della loro. In effetti, in molti settori, come quello dell’irrigazione, la Cina rimase all’avanguardia fino alla fine del XVIII secolo: come sottolineato da Kenneth Pomeranz [Ź27], infatti, né in Cina né nelle altre società non europee si ebbe, nel ‘700, alcuna stagnazione tecnologica e scientifica ma, anzi, alcune innovazioni furono prodotte e diffuse in quelle
STORIOGRAFIA 27 K. Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, il Mulino, Bologna 2004, pp. 79-81.
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civiltà pur “in assenza di società scientifiche e di tecnici newtoniani”. Uno dei principali settori dell’economia cinese era l’industria della seta, la cui organizzazione è descritta da Jürgen Osterhammel [Ź28]. Del resto, anche gli imperatori cinesi ritenevano che la loro civiltà fosse superiore alle altre e ciò li portò a decidere di chiudersi verso l’esterno. In generale, infatti, gli occidentali dovettero superare molte resistenze da parte dei cinesi, come dimostra il loro rifiuto di accogliere la «misurazione del tempo» descritto da David S. Landes [Ź29].
K. Pomeranz Europa e Cina: sviluppo tecnologico alla vigilia della rivoluzione industriale Lo storico statunitense Kenneth Pomeranz (nato nel 1958), profondo conoscitore della storia economica cinese, ha proposto in La grande divergenza (2000) una ricostruzione dello sviluppo dell’economia mondiale moderna, considerandolo il
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risultato delle influenze reciproche delle regioni del mondo più che l’imposizione dell’Occidente avanzato sul resto del pianeta. Secondo Pomeranz, nel XVIII secolo, la zona più sviluppata dell’Europa non aveva un vantaggio demografico e tecnologico rispetto a quella più avanzata della Cina, né una maggiore disponibilità di capitali. L’Europa occidentale, quindi, non era più produttiva o più economicamente efficiente di altre regioni: nessuna parte del mondo era necessariamente destinata alla rivoluzione industriale. L’Europa, però, poté avvantaggiarsi dell’estrazione e dell’uso del carbone e del flusso di materie prime e generi alimentari provenienti dal continente americano. Quello che mi preme sottolineare ora è che le società non europee vantavano alcuni significativi margini di vantaggio tecnologico in molti settori ancora alla fine del XVIII secolo, e non era così scontato che sul lungo periodo questi vantaggi si sarebbero rivelati relativamente ininfluenti. Non era neppure inevitabile, anche quando la tecnologia europea cominciò a svilupparsi più rapidamente e su un fronte più largo, che questi sviluppi sarebbero riusciti a controbilanciare le persistenti debolezze nella gestione e conservazione del suolo e nell’estensione dei mercati, o a farlo abbastanza in fretta perché questi sviluppi non finissero per dirigersi, con conseguenze durature, lungo strade che richiedevano proprio quelle soluzioni labour-intensive1 adottate in Asia orientale e in alcune regioni atipiche dell’Europa occidentale, come la Danimarca. Non dovremmo neppure credere che le aree in cui i non europei erano più progrediti fossero le conseguenze tardive di tradizioni illustri ormai stagnanti. Se è vero che l’Asia del XVIII secolo non ha prodotto nessuna di quelle che Joel Mokyr2 chiama «macroinvenzioni» – ovvero nuove idee in grado di modificare improvvisamente le possibilità di produzione – l’Europa ne ha prodotte poche nel periodo tra il 1500 e il 1750 e anche durante gli anni solitamente definiti della «rivoluzione industriale» (1750-1830). Nel frattempo progressi tecnici di minore portata si ebbero in molte diverse aree del mondo. I coloranti europei, che godettero per un breve periodo di un grande successo in Cina, vennero ben presto imitati, così come successe in Europa per molti prodotti di successo asiatici. Nel XVII secolo qualcuno scoprì che certi ambienti sotterranei riuscivano a conservare un livello di umidità sufficiente da consentire la filatura del cotone anche durante la lunga stagione asciutta della Cina settentrionale, produttrice di cotone. Questa innovazione si dif-
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fuse a macchia d’olio durante il secolo successivo, permettendo a una regione con una popolazione superiore a quella di ogni stato europeo di soddisfare il proprio fabbisogno di tessuti e riducendo considerevolmente la disoccupazione stagionale. Così come è solo l’affermazione dei combustibili fossili (che resero meno importante l’efficienza nello sfruttamento del combustibile) a rendere le efficienti stufe cinesi un dettaglio trascurabile anziché un fatto tecnologico decisivo, è solo perché sappiamo che nel secolo successivo la produzione tessile domestica sarebbe divenuta «arretrata» che non consideriamo questi laboratori sotterranei un semplice ma decisivo progresso, diffusosi a un ritmo impressionante. L’esempio dei laboratori sotterranei per la filatura del cotone è rivelatore anche perché, sebbene non abbiamo grandi conoscenze su come questa innovazione si sia diffusa, sappiamo non di meno che ciò avvenne. Anche se la struttura di questi laboratori era semplice, la gente che doveva imparare a realizzarli era reclutata tra le categorie più povere, isolate e analfabete della società. Il fatto che una simile diffusione sia comunque potuta avvenire abbastanza rapidamente in un’area piuttosto vasta, dovrebbe renderci prudenti nell’affermare che in assenza di società scientifiche e di tecnici newtoniani, la Cina (e altre società) mancavano di strumenti adeguati per diffondere utili nuove conoscenze. Al momento sappiamo relativamente poco delle discussioni scientifiche nell’ambito delle élite cinesi ma […] queste discussioni nel XVIII secolo erano più vivaci di quanto in precedenza si fosse supposto. È scontato che queste discussioni siano avvenute soprattutto nel cinese classico e soprattutto attraverso lo scambio di lettere piuttosto che in contesti istituzionali specifici, ma queste lettere non erano solo documenti privati, le discussioni in esse contenute erano di ampio respiro, sofisticate e spesso
con implicazioni pratiche. In assenza di società scientifiche organizzate, la volgarizzazione di scoperte complesse era probabilmente più lenta di quanto non fosse in Inghilterra o in Olanda e forse l’ibridazione fra conoscenza scientifica dell’élite e sapere pratico artigianale è stata più difficile. Vorremmo però sapere di più sul possibile contributo delle pubblicazioni di natura scientifica e tecnologica nelle lingue locali, soprattutto dopo che si è venuti a conoscenza di un vivace commercio di testi di medicina (effettivamente un soggetto più prestigioso di altri tipi di scienza e tecnologia) nelle lingue locali. Inoltre, diversamente da quanto si verificava in Europa, dove queste società scientifiche erano spesso essenziali per proteggere la scienza da una chiesa ostile, in Cina non vi era un’istituzione così potente e ostile al sapere scientifico, e non è chiaro perché le particolari istituzioni sviluppatesi in Europa dovrebbero costituire una condizione necessaria per il progresso scientifico e tecnologico altrove. Così, invece di cercare le ragioni della stagnazione tecnologica e scientifica in Cina – stagnazione che non ci fu – dovremmo considerare perché il progresso tecnico in Cina non sfociò in trasformazioni economiche rivoluzionarie. 1. «Ad alta intensità di lavoro», cioè che
utilizzano molta manodopera.
2. Storico economico statunitense, di origine
olandese, nato nel 1946.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega cosa sono le «macroinvenzioni» di cui parla Pomeranz e per quale motivo sono citate all’interno del testo. b. In un breve testo descrivi i laboratori sotterranei per la filatura del cotone e spiega cosa ci permettono di affermare circa la diffusione delle nuove conoscenze. c. Realizza una tabella sul quaderno i cui indicatori siano le parole “Europa” e “Cina”, quindi compilala inserendo le relative informazioni presenti nel testo.
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STORIOGRAFIA 28 J. Osterhammel, Storia della Cina moderna (secoli XVIII-XX), Einaudi, Torino 1992, pp. 87-90.
Nel Settecento la Cina era ciò che è anche oggi: la maggiore società rurale del mondo. Tuttavia essa non appariva un paese rurale al suo mondo circostante. Fino al secolo XIX inoltrato la Cina esportava principalmente – alla stregua di un paese relativamente «sviluppato» – manufatti artigianali. […] Nel secolo XVIII venivano da un lato fabbricati articoli di lusso, risultato di un artigianato artistico di alto livello (porcellane, oggetti laccati, carta, ecc.), dall’altro manufatti prodotti in serie, i quali, principalmente destinati al consumo interno, erano sempre più ricercati anche all’estero (tè, seterie, cotonate1). Nel corso del Settecento non si smise di notare con stupore che in Cina tutti, persino i più poveri, vestivano di seta […]. La lavorazione della seta si espanse considerevolmente durante l’epoca Ming e la prima epoca Qing2. Venne incentivata dall’incremento della domanda interna in un primo tempo, poi anche da quello della domanda sui mercati esteri e godette di appoggi statali. Una fiorente produzione serica era per la corte di Beijing3 prova della prosperità di un distretto e della buona gestione dei funzionari responsabili […]. La fabbricazione e lavorazione della seta costituivano per i produttori una fonte di guadagni relativamente sicura, tenuto conto di una domanda crescente e di un aumento costante dei prezzi. Il processo di produzione era dispendioso dal punto di vista dell’impiego di manodopera, ma necessitava di pochi capitali e solo di un breve periodo di apprendimento. Per questa ragione poteva essere compiuto facilmente nell’ambito di un’economia domestica contadina. Nella maggior parte dei casi l’organizzazione famigliare si faceva carico di parecchi stadi produttivi: la coltivazione del gelso, l’allevamento dei bachi da seta, l’estrazione dei bozzoli e il loro dipanamento. [...] Mentre l’estrazione e il dipanamento dei bozzoli poteva avvenire nell’ambito dell’economia domestica contadina, per
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J. Osterhammel L’industria della seta Tra la fine del ’600 e l’inizio del ’700 la lavorazione della seta, uno dei settori tradizionali dell’economia cinese, registrò una significativa espansione, determinata sia da un aumento della domanda interna sia da un incremento delle esportazioni. Allora, grazie anche al sostegno statale, i produttori di seta riuscirono a ottenere buoni guadagni con investimenti generalmente molto ridotti. In queste pagine lo storico tedesco Jürgen Osterhammel (nato nel 1952) ricostruisce i caratteri principali dell’industria serica, caratterizzata dalla coesistenza di manifatture imperiali, laboratori privati e lavoratori a domicilio. Un’organizzazione complessa, dunque, che alimentò un intenso commercio internazionale fino agli inizi del ’700. la lavorazione ulteriore, necessaria alla fabbricazione di tessuti, esistevano diverse forme di organizzazione imprenditoriale. La più antica era la manifattura statale. […] Le tre «sedi imperiali della seta» (zhizao ju) di Nanjing4, Suzhou e Hangzhou, che furono chiuse soltanto nel 1894, dopo un lungo periodo di decadenza, raggiunsero il culmine del loro sviluppo negli anni ’40 del Settecento, allorché facevano funzionare complessivamente più di 1800 telai e impiegavano 1500 specialisti in campo artistico oltre agli abituali 5500 operai. Lo Stato non considerò mai queste manifatture delle semplici organizzazioni economiche di tipo mercantile. Esse non producevano per l’esportazione ed erano orientate esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni della corte. Secondariamente servivano a mantenere in salute i settori produttivi e a controllare una classe operaia potenzialmente irrequieta. Le manifatture imperiali della seta non erano tanto considerate delle imprese economiche, quanto dei «centri politici e organizzativi». Le sedi imperiali della seta non riuscivano sempre a fare fronte alle ordinazioni e ai contingenti di consegna. Quando sorgevano contrattempi, esse acquistavano le stoffe da privati produttori di seta. Questi ultimi erano proprietari di laboratori tessili, la cui dimensione variava dall’impresa famigliare fino al grande opificio con lavoratori salariati e parecchie centinaia di telai. Questi privati, concentrati soprattutto nelle città (a Suzhou esistevano nel secolo XVII più di 10.000 stabilimenti di questo tipo, a Nanjing funzionavano più di 30.000 telai, ciascuno dei quali era azionato da un numero di due o tre operai), costituivano il nucleo dell’industria serica nel secolo XVIII. Producevano per qualsiasi acquirente: incettatori statali, clienti privati residenti nel paese e amatori stranieri di seterie cinesi. Strettamente collegata a questa esisteva una terza forma imprenditoriale, il sistema di lavoro
a domicilio, cui un’agenzia commerciale metteva a disposizione telai domestici e nella maggioranza dei casi anche seta grezza e acquistava il manufatto finito pagandolo a pezzo. I laboratori tessili continuarono a costituire la principale forma imprenditoriale, ma accanto a questa divenne più importante nel corso del secolo XVIII l’organizzazione del lavoro a domicilio. Nel secolo XVIII l’industria serica cinese era dunque caratterizzata dal legame tra allevamento di bachi da seta e produzione di seta grezza come attività complementari dell’economia rurale, sul piano della lavorazione successiva, dalla coesistenza di una produzione per lo Stato, volta a soddisfare i bisogni di quest’ultimo, e di una produzione privata per il consumo privato, ma anche da liberi mercati – non ostacolati da monopoli statali o da una politica di aumenti fiscali – di materie prime (foglie di gelso, uova di baco da seta, bozzoli), prodotti semilavorati (seta grezza), manufatti e manodopera. […] I laboratori privati delle grandi città della Cina orientale e meridionale rimasero il centro dinamico di questa industria. 1. Le seterie sono gli assortimenti dei tessuti di
seta, le cotonate i tessuti di cotone colorati su un’unica facciata. 2. La dinastia Ming controllò la Cina dal 1368 al 1644, quando fu sostituita dalla dinastia Qing. 3. Pechino. 4. Nanchino.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia le forme di organizzazione imprenditoriale relative alla produzione della seta descritte nel testo e sottolineane le relative informazioni. b. Spiega per iscritto quale legame esisteva fra la produzione della seta, l’economia rurale e la produzione dello Stato.
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STORIOGRAFIA 29 D.S. Landes, Storia del tempo. L’orologio e la nascita del mondo moderno, Mondadori, Milano 1984, pp. 42-55.
Nel 1577 Matteo Ricci, un giovane italiano di nobile famiglia, allora al suo sesto anno di servizio nella Compagnia di Gesù, partì per compiere il lavoro missionario nelle Indie orientali. Non sarebbe mai più tornato in patria. Dopo qualche anno trascorso a Goa, quartier generale dell’impero portoghese in India, Ricci fu inviato a Macao, per assolvervi il compito di aprire la Cina alla diffusione della vera fede. [...] Ricci aveva portato con sé anche mappamondi e carte che erano viste come finestre magiche aperte su terre lontane e sconosciute. Soprattutto, suggestionò e deliziò i suoi ospiti con le sue «suonerie», orologi di un tipo «che non si era mai visto prima in Cina». [...] I doni accattivanti da lui recati a corte assicurarono intanto a Ricci il permesso di aprire una missione a Chao-ch’ing 1 (subito a ovest di Canton) e di là, passo dopo passo, egli poté muoversi in direzione nord fino a Pechino, la capitale. […] Fu questa la seconda occasione di una rivoluzione dell’orologeria cinese. Una volta fallito, nel contesto della loro tecnologia, il tentativo di andare oltre le prestazioni della clessidra, per arrivare a un meccanismo regolatore oscillatorio, i cinesi avevano ora la possibilità di imitare e forse migliorare la tecnica europea. Gli strumenti di Ricci potevano anche non essere più precisi di quelli cinesi del tempo; erano comunque [...] segnatempo molto approssimativi. Ma erano portatili e dunque recavano con sé le premesse di una misurazione privata del tempo, ciò che avrebbe fatto del tempo un compagno di vita sempre alla portata di tutti. Essi disponevano inoltre di funzioni accessorie divertenti: suonerie, melodie, piccole figure che si muovevano come automi in parata. I cinesi, lo sappiamo, li «adoravano» e il possesso di tali strumenti divenne ben presto un simbolo del rango sociale e una fonte di piacere. Ma allora, perché i cinesi non si misero a fabbricarli? Non mancava un
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D.S. Landes I cinesi e l’orologio Nell’acuta ricostruzione – compiuta dallo storico statunitense David S. Landes (1924-2013) – del complesso rapporto fra la civiltà cinese e la misurazione del tempo emergono nitidamente i meccanismi culturali che portarono in Cina al rifiuto della sfida tecnologica occidentale. In questo brano Landes riflette sull’esperienza maturata durante i viaggi in Cina del gesuita Matteo Ricci. mercato, visto che la popolazione del regno era pressappoco equivalente a quella europea […]. Né mancavano in Cina abili artigiani, capaci di svolgere mansioni le più delicate e minuziose. A quanto pare, non mancava nulla per imitare con successo l’orologeria europea. [...] La risposta, a mio avviso, sta in quell’atteggiamento di fondo che aveva contrassegnato il primo sviluppo dell’orologeria: in Cina, semplicemente, non era affatto importante conoscere l’ora esatta. Importavano, quelle sì, le date del calendario, ma vita quotidiana e lavoro non erano mai stati organizzati in base alla scadenza delle ore e dei minuti. [...] Il lettore avrà perfettamente capito che Ricci fornì quell’abbagliante ostentazione di nuova tecnologia e di oggetti meravigliosi per fare qualcosa di più che non fosse il semplice affascinare e sedurre i suoi ospiti. Ricci non andava soltanto a caccia di complimenti: era in realtà un pescatore d’anime. Nel suo mostrare ai cinesi la scienza e la tecnica occidentali era implicato l’argomento secondo il quale, se una civiltà è in grado di produrre un sapere tecnologico superiore, essa sarà superiore anche per altri aspetti, particolarmente in campo spirituale. L’orologio funzionava per opera di Dio (e viceversa l’opera di Dio funzionava come un orologio). [...] La difficoltà permanente stava in ciò, che per quanto Ricci e i suoi successori abbiano cercato di non urtare la suscettibilità dei cinesi, non era possibile limitare alla sfera teologica la sfida posta dalla scienza e dalla tecnologia occidentali. La Cina era il Regno di Mezzo, il centro del mondo. I popoli circonvicini non avevano altro da recare alla nazione cinese se non il loro tributo. Ricci, con tutta la sua abilità diplomatica e cortigiana, era comunque giunto in Cina in quanto barbaro (secondo la loro definizione), sicché le sue conoscenze scientifiche e le sue macchine sconvolsero l’ordine del loro mondo. L’interesse
iniziale per le sue mappe si trasformò in fastidio e in risentimento allorché i suoi ospiti si accorsero di quanto fosse piccolo lo spazio occupato dalla Cina, limitato com’era al margine destro della carta. […] Gli orologi, in altre parole, rappresentavano assai di più che non un argomento in favore del cristianesimo: erano un attacco all’autostima della Cina. La maniera classica di rispondere a una sfida del genere è quella di negarla o di svilirne il significato. I cinesi fecero entrambe le cose. La negazione assunse la forma di una rivendicazione del primato cinese dell’invenzione di questi congegni. [...] L’atteggiamento più comune era quello di ridimensionare l’orologio al rango di una curiosità piacevole ma del tutto superflua, ovvero considerarlo un giocattolo. [...] È azzardato generalizzare, quando si tratta di valori e di attitudini sociali, perché non mancano mai le eccezioni. Neanche in questo caso. Sarà buon testimone di quanto affermo un funzionario del Gran Consiglio dell’imperatore Ch’ien-lung 2, tale Chao I, che scriveva alla metà del Settecento [...]. Chao I esordiva notando l’utilità della scienza e degli orologi occidentali: «Gli orologi a suoneria e gli orioli [quelli che si appendono al collo] provengono tutti dall’Occidente. Un orologio può battere il tempo all’ora stabilita. L’oriolo è munito di un ago che si muove col trascorrere del tempo e può indicare il passaggio di dodici ore. Sono macchine estremamente ingegnose. Al giorno d’oggi, per osservare gli astri e comporre il calendario, gli astronomi imperiali si servono tutti dei congegni occidentali e di qui possiamo arguire come le tecniche dell’Occidente possano essere
1. Zhaoqing, città-prefettura della Cina nella
provincia del Guangdong.
2. Qianlong (1711-1799), imperatore della
dinastia Qing.
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considerate più sofisticate di quelle in uso nell’antica Cina». Ma a questo punto Chao I si volge a sottolineare i limiti di questi congegni: «Spesso gli orologi hanno bisogno di riparazioni […] oppure essi vanno troppo velocemente o troppo piano, precludendoci la possibilità di misurare il tempo esatto. Ecco perché, tra i funzionari di corte, ve ne sono alcuni che, pur essendo muniti di orologio, spesso mancano
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agli appuntamenti, oppure (per dirla in altre parole) quelli che agli appuntamenti non mancano mai si annoverano tra coloro che ne sono sprovvisti». [...] Anche gli orologi avevano un punto debole, potevano mettere nei guai i loro fruitori. E così, a conti fatti, quelli che non arrivavano mai tardi erano nel novero di chi non aveva fiducia negli orologi.
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GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le informazioni relative al primato occidentale nella produzione degli orologi e alle motivazioni che, secondo David S. Landes, non portarono la Cina a primeggiare in questo campo. b. Spiega in che senso, secondo l’autore del testo, Matteo Ricci era un pescatore di anime. c. Spiega per iscritto quale fu la sfida che Matteo Ricci lanciò ai cinesi e come reagirono questi ultimi.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Dopo aver letto i brani di Pomeranz [Ź27], Osterhammel [Ź28] e Landes [Ź29] scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente sulle conoscenze matematiche e tecniche dei cinesi tra XVII e XVIII secolo. Decidi un titolo per il tuo elaborato e tocca i seguenti argomenti: • Le idee degli europei sulla tecnologia e sulla matematica cinese • I principali settori all’avanguardia (cita alcuni esempi) • L’apporto dei gesuiti. Il confronto storiografico 2. Dopo aver letto i brani degli storici, scrivi un testo argomentativo sul confronto fra lo sviluppo industriale cinese ed europeo nel XVIII secolo partendo dal pensiero di Pomeranz [Ź27]. Prima di procedere con la scrittura, scegli i brani che ti sembrano più incisivi e schematizza sul quaderno le argomentazioni e gli esempi in essi presenti utili al tuo ragionamento. Organizza quindi la scaletta di un testo argomentativo che metta a confronto il pensiero di Pomeranz con le fonti storiche e i brani storiografici esaminati. Infine procedi con la scrittura citando i brani da cui trai le tue argomentazioni. 3. Scrivi un testo breve che risponda alla seguente domanda: “La cosiddetta stagnazione tecnologica e scientifica in Cina nel corso dei secoli XVII e XVIII può essere considerata una tesi storicamente non attendibile?”. Motiva le ragioni della tua risposta.
L’irresistibile fascino dell’Oriente ottomano Nel corso della storia, gli europei si sono misurati con molte grandi civiltà d’Oriente, ma le tensioni sono rimaste più a lungo costanti con gli ottomani, lasciando strascichi che durano ancora oggi. Tra la fine del XV e la fine del XVI secolo, lo Stato ottomano si era trasformato gradualmente in un impero a grande maggioranza musulmana: a partire dal XVI secolo è quindi lecito parlare, a proposito della sua popolazione, dell’esistenza di “minoranze non musulmane”. Come illustrato dallo storico Jason Goodwin [Ź30], tuttavia, queste minoranze erano ben tollerate all’interno dell’Impero e le fedi religiose erano spesso praticate l’una insieme con l’altra, dando vita a particolari forme di sincretismo religioso. Al contrario di quanto spesso si pensa, inoltre, secondo la studiosa Suraiya Faroqhi [Ź31], accanto alle guerre
STORIOGRAFIA 30 J. Goodwin, I signori degli orizzonti. Una storia dell’impero ottomano, Einaudi, Torino 2009, pp. 103-8; 193-98.
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e ai conflitti, i rapporti tra europei e ottomani erano caratterizzati, almeno fin dalla fine del XV secolo, da scambi culturali ed economici. Tra i viaggiatori contemporanei che rimasero affascinati dallo stile di vita ottomano, ha sicuramente un posto di rilievo Mary Wortley Montagu [Ź32], che visitò l’Impero all’inizio del XVIII secolo: nelle sue lettere di viaggio, essa espresse la sua ammirazione per molti aspetti della cultura e della società ottomane, affermando come l’idea che gli ottomani avessero usanze inferiori o barbare non fosse fondata sulla realtà. Del resto già nel corso del XVII secolo, secondo lo storico Franco Cardini [Ź33], in Europa si erano sviluppate forme di attrazione per la cultura ottomana, come risulta evidente dalla diffusione dell’uso del caffè o dei tulipani come elemento decorativo.
J. Goodwin L’autogoverno del Millet e il sincretismo religioso All’interno dell’Impero ottomano convivevano moltissime fedi e comunità religiose, che avevano un riconoscimento ufficiale all’interno dell’Impero, anche se fino al XVII secolo l’autorità dei loro capi spirituali era piuttosto limitata e, dunque, non erano ancora strutturate nei millet (le organizzazioni comunitarie poste sotto la responsabilità di vescovi, preti e rabbini). I sudditi non musulmani non potevano
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U2 Civiltà e mercati oltre l’Europa
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essere arruolati nell’esercito e, in sostituzione del servizio militare, pagavano una tassa (cizye o jizya). Anche se erano colpiti da alcune discriminazioni giuridiche, nella prassi, c’era molta tolleranza per le diverse confessioni religiose e furono pochissime le conversioni forzate all’islam: gli ebrei, anzi, trovarono proprio nell’Impero ottomano un rifugio dopo l’espulsione dalla Spagna nel 1492. La tolleranza religiosa degli ottomani meravigliava molto i viaggiatori europei del XVIII secolo. Come illustrato dallo storico britannico Jason Goodwin (nato nel 1964) nel seguente brano, in realtà, in molte zone i conflitti religiosi erano accesi: se, da un lato, ciò diede vita a scontri anche sanguinosi, dall’altro provocò una commistione di fedi religiose, che cominciarono a essere praticate in modo sincretico. Gli ottomani erano sempre interessati alle formule efficaci di autogoverno. […] Gli ottomani pretendevano che ogni suddito appartenesse al seguito di un qualche grande uomo; o a una delle corporazioni che regolavano la qualità e il costo del lavoro, che dicevano a ognuno dove vivere e lo proteggevano nei tempi difficili; o a un reggimento, una confraternita religiosa, o almeno un villaggio, sotto la responsabilità di un capo. Gli affari della comunità musulmana erano regolati alla perfezione dal Corano, che era tanto fede quanto legge; e benché fosse dovere del sultano assicurarsi che la legge islamica prevalesse in ogni conflitto tra musulmani e infedeli, ci si aspettava anche che i cristiani e gli ebrei avessero leggi proprie. Ognuno era inquadrato in un millet1 in base alla propria fede, e purché il millet non entrasse in conflitto con l’organizzazione e la società islamica, pagasse le tasse e si mantenesse in pace, si lasciava che fossero i capi di ogni comunità a gestirne gli affari. Le leggi dell’impero riguardanti i millet erano le più semplici possibile. I cristiani ortodossi prima della conquista ottomana avevano riconosciuto un certo numero di chiese indipendenti, ma Mehmed II2 abolì tutti i rivali del patriarca greco ecumenico di Costantinopoli, a cui assegnò tre code di cavallo3 e un ampio raggio di poteri religiosi e secolari sul proprio gregge. Gli ebrei formarono poco dopo il proprio millet. […] Al riparo dai soprusi della Controriforma, la dottrina protestante si diffuse in tutta l’Ungheria ottomana; la leva dei ragazzi non giunse mai a includere l’Ungheria, e nei Balcani, al di là della singola imposizione, non venne fatto alcun tentativo di convertire i cristiani all’Islam. […] L’impero voleva sudditi che pagassero le tasse, non musulmani, che non le pagavano: una delle funzioni della leva, che tanto scandalizzava i cristiani, era proprio quella di limitare il numero dei convertiti. […] Gli ebrei nel 1492 furono espulsi dalla Spagna: un intero millet buttato a mare. Il sultano Beyazit II venne a conoscenza della loro situazione e ordinò ai
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governatori di accoglierli con gentilezza e di aiutarli. […] Nell’impero ebbero un’ottima accoglienza; la loro religione era rispettata, al pari del Cristianesimo, e presto si trovarono a scrivere ad amici, agenti e conoscenti in tutta Europa per incoraggiarli a raggiungerli […]. Gli ebrei ottomani non avevano il tipico pallore prodotto dal ghetto, e risultavano quindi praticamente indistinguibili agli occhi degli occidentali, sconcertati dalla tolleranza religiosa degli ottomani. Per essere cristiani in un impero teoricamente musulmano, alcuni affaristi ungheresi erano alquanto pasciuti e ben vestiti, ed era difficile accettare che gli uomini in fila per una zuppa nell’ombra della moschea fossero tutti musulmani poveri in canna. […] Il millet classificava ogni persona in base alla propria fede, ma le regioni che per motivi geografici erano g˘a zi 4 soltanto a metà – come l’Albania, la Bosnia o Creta – versavano in uno stato di guerriglia quasi continua. L’ortodossia sunnita metropolitana non riusciva più a imporsi nelle zone di confine in modo così netto come al tempo di Selim il Crudele o di Solimano5. Costantinopoli esiliava in quei luoghi i propri mistici, che lì scontavano il proprio entusiasmo; così che attraverso la mediazione di un Islam più caloroso, per quanto eterodosso, si ebbero alla fine del XVII secolo numerosissime conversioni – addirittura in Montenegro, e tra i bulgari dei Rodopi6, i cosiddetti pomaki. Creta divenne un importante centro islamico, e nel giro di un secolo dalla conquista ottomana quasi tutta la popolazione si fece musulmana. Nel XVIII secolo alcuni albanesi erano ormai così confusi da «dichiarare di non saper assolutamente dire cosa sia meglio, se andare il venerdì in moschea o la domenica in chiesa». Questa flessibilità religiosa era molto diffusa. Nella città di Carre, in Siria, i cristiani dividevano con i turchi la loro chiesa di San Nicola, prendendo una panca a testa, «benché i turchi non paghino l’olio che diligentemente bruciano nelle lampade». I musulmani erano così colpiti dal lavacro rituale che accompagnava il
battesimo cristiano che lo facevano fare ai loro lebbrosi, e «partecipavano spesso e volentieri ai riti cristiani, nel caso che fossero utili o avessero qualcosa di buono». […] Ad Atene, quando non pioveva, i turchi andavano a pregare al vecchio tempio di Zeus Olimpio, e se la siccità continuava, prendevano un gregge, separavano le pecore dagli agnelli, e si davano a «una preghiera chiassosa nei toni più patetici» sostenuta dal «supplichevole belato» delle pecore, volto a «dare maggior forza all’implorazione e muovere il cielo a pietà». Una volta in cui la situazione era particolarmente critica fu chiesto ai neri pagani che abitavano pacificamente le grotte e le rovine sotto l’Acropoli di implorare anch’essi i propri dèi. 1. Letteralmente, “comunità religiosa”. 2. Mehmet (o Maometto) II, detto “il
Conquistatore”, visse tra il 1432 e il 1481 e fu il sultano artefice della conquista di Costantinopoli, che nel 1453 pose fine al secolare Impero bizantino. 3. Le code di cavallo, nell’Impero ottomano, erano un simbolo d’onore. 4. Letteralmente “guerriero della fede” e, per estensione, musulmano. 5. I sultani ottomani Selim I (1470-1520), noto erroneamente come “il Crudele” (in realtà, “il Ponderato”), e suo figlio Solimano, detto “il Magnifico” (1494-1566). 6. Catena montuosa bulgara.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le informazioni relative alle diverse formule di autogoverno previste dagli ottomani. b. Realizza una mappa concettuale con al centro la parola “millet” e attorno le parole chiave che ne definiscono le caratteristiche. Scrivi con un carattere più grande e più vicine al centro le parole chiave relative alle caratteristiche che gli ottomani ritenevano maggiormente rilevanti. Quindi, scrivi una didascalia che argomenti le tue scelte. c. Sottolinea con colori diversi i casi di tolleranza e pace religiosa e quelli di guerriglia verificatisi in situazioni di convivenza di religioni diverse. d. Spiega in cosa consiste la flessibilità religiosa praticata dagli ottomani.
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FARE STORIA
STORIOGRAFIA 31 S. Faroqhi, L’impero ottomano, il Mulino, Bologna 2008, pp. 107-8; 111-13.
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S. Faroqhi L’Impero ottomano e l’Europa: commerci e confronti culturali Per molto tempo, si è pensato che prima della pace di Carlowitz del 1699 [ŹEVENTI CHIAVE, pp. 116-117] i rapporti tra europei e ottomani fossero basati solo su guerre e conflitti. In realtà, come messo in luce dalla storica tedesca Suraiya Faroqhi (nata nel 1941), i contatti culturali erano già esistenti, anche se si intensificarono nel corso del ’700: ciò è evidente nell’arte pittorica ottomana del periodo, che fu profondamente influenzata da quella europea. Nello stesso periodo, inoltre, l’Impero ottomano si integrò anche nel sistema economico che vedeva al suo centro l’Europa: l’idea di due mondi separati e distinti, quindi, non trova sostegni nella realtà.
Sostenere che prima del XVIII secolo non vi fossero contatti culturali tra l’impero ottomano e l’Europa sarebbe una semplificazione grossolana. Per quanto concerne la cultura di corte ve ne furono, infatti, anche se soltanto sporadici, da quando Mehmed il Conquistatore aveva invitato un pittore e gli era stato inviato Gentile Bellini1. […] Nel XVIII secolo i contatti della corte ottomana con l’Europa, e in particolare con la Francia, si intensificarono notevolmente. Un primo approccio avvenne durante il regno del sultano Ahmed III (1703-30), che inviò un ambasciatore con l’incarico di relazionare in modo dettagliato sulla vita alla corte del giovane Luigi XV2 e sulle meraviglie di Parigi. […] Il rapporto con la produzione artistica europea è esplicito nell’arte di corte della miniatura3. Questa fu influenzata dalla personalità artistica di Levni4 che arricchì di una serie di grandiose illustrazioni la raffigurazione delle feste per la circoncisione che Ahmed III organizzò per i suoi figli nel 1720. Egli produsse anche eleganti ritratti singoli che ritraggono giovani persone in costume, anche in abiti europei. Levni e i suoi allievi sperimentarono temi che comportavano per loro nuove sfide artistiche. Abdullah Buhari5, ad esempio, aveva ritratto una giovane donna al bagno mentre un pittore anonimo della stessa cerchia volle raffigurare i fuochi d’artificio di una celebrazione e ci ha lasciato la prima rappresentazione ottomana di un cielo notturno. Si deve inoltre ricordare la moda di decorare con rappresentazioni paesaggistiche i palazzi signorili e presto anche le moschee. Nei primi anni del XVIII secolo nei circoli di corte sembra si siano cercate alternative ai tradizionali fiori e ornamenti, pur senza violare il divieto islamico di rappresentare uomini e animali. Grande interesse suscitano le vedute delle città; soprattutto le raffigurazioni della capitale, delle sue moschee, barche e isole erano apprezzate anche dai notabili di provincia. Tali
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dipinti dovevano molto alla miniatura ma sono anche esperimenti con luci e ombre o nella riproduzione dello spazio tridimensionale. […] Tra il 1720 e il 1765 il commercio e l’artigianato conobbero in molti centri dell’impero ottomano un periodo di espansione. Nei Balcani alcuni mulattieri si trasformarono in spedizionieri o commercianti di lunga distanza, tanto che arrivarono a visitare anche la fiera di Lipsia. Tale evoluzione si ebbe perché spesso i prodotti del lavoro domestico venivano trasportati dai mulattieri in primavera per essere venduti, solitamente su mercati molto lontani. […] Sulle ragioni che portarono a questa espansione e alla sua fine tra il 1760 e il 1770 è possibile oggi solo avanzare alcune ipotesi. Appare rilevante che, dopo la pace di Passarowitz (Pasafça) nel 17186, sul fronte occidentale e settentrionale, per alcuni decenni, furono condotte solo guerre di breve durata e lo stato ottomano si impegnò seriamente per rendere nuovamente sicure le vie del commercio. […] Altra congiuntura che va tenuta in considerazione è l’espansione che conobbe la Francia in questo periodo, all’incirca negli stessi anni della rinascita dei centri ottomani. Tale coincidenza potrebbe essere interpretata come un’integrazione dell’impero ottomano all’interno dell’«economia-mondo» dominata dall’Europa. Ciò dovrebbe essere quindi avvenuto prima di quanto oggi sostiene la maggior parte degli studiosi e, più precisamente, nel XVII o possibilmente alla fine del XVI secolo. Questa crescita parallela potrebbe essere tuttavia più o meno casuale; e molti storici contemporanei considerano gli ultimi decenni del XVIII secolo e i primi del XIX il periodo decisivo di cambiamento. L’esportazione di prodotti artigianali fu moderatamente importante per i mercanti ottomani e stranieri nel corso del Settecento; e il lavoro degli artigiani locali fu in genere destinato al mercato interno ottomano.
È molto probabile che gli sviluppi fuori i confini dell’impero rimasero di importanza limitata a causa della sorte delle sue industrie. Dal 1750 sembra quindi che l’integrazione nell’economia mondiale di regioni vicine alla costa, come ad esempio l’area egea, sia proceduta rapidamente. Ciò dev’essere avvenuto spesso, ma non sempre, di pari passo con l’industrializzazione. Ad esempio, i mercanti e le filatrici della cittadina tessalica di Ambelakia 7 rifornirono prima le fabbriche inglesi e poi quelle austriache con pregiato filato di cotone, ma in ogni caso sia i produttori sia i commercianti erano ora esposti alle oscillazioni della domanda che avevano origine in centri economici ben più remoti e sulle quali non avevano la benché minima incidenza. 1. Gentile Bellini fu un pittore veneziano
vissuto tra il 1429 e il 1507. Fu uno dei principali ritrattisti dell’aristocrazia veneziana. Tra il 1479 e il 1480 visitò Istanbul, dove dipinse il noto Ritratto del sultano Mehmet II. Su Mehmet II [Ź30, nota 2]. 2. Ź3_2. 3. La miniatura è il tipo di decorazione dei manoscritti in cui si fondono, in piccole dimensioni, parole e immagini. 4. Abdulcelil Levni, noto anche come Abdulcelil Çelebi, fu un pittore e miniaturista ottomano. Morì nel 1732. 5. Abdullah Buhari fu un miniaturista ottomano vissuto nel XVIII secolo. 6. La pace di Passarowitz fu il trattato che, nel luglio 1718, pose fine al conflitto esploso nel 1714 tra l’Impero ottomano e la Repubblica di Venezia, con la quale si era schierata l’Austria. 7. Ambelakia (o Ampelakia) è una città greca. Era allora parte dell’Impero ottomano.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia gli ambiti in cui ci furono contatti fra gli europei e gli ottomani. b. Spiega in che modo lo studio dell’arte pittorica può fornire informazioni circa i rapporti fra ottomani ed europei. c. Esponi per iscritto le congiunture che favorirono i rapporti fra le due culture.
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FARE STORIA
DOCUMENTO 32 Mary Wortley Montagu, Lettere orientali di una signora inglese, il Saggiatore, Milano 1984, pp. 152-53.
Quanto a moralità e a buona condotta, posso dire con Arlecchino: «né più né meno di noi» e le signore turche non fanno meno peccati per il fatto che non sono cristiane. Ora che conosco un po’ il loro modo di fare non posso non stupirmi di fronte alla discrezione esemplare o alla stupidità estrema di tutti gli scrittori che hanno parlato di loro. È molto facile capire che hanno più libertà di noi poiché nessuna donna, a qualsiasi classe sociale appartenga, ha il permesso di andare per la strada senza due veli di mussola, uno che le copre tutta la faccia meno gli occhi e un altro che le copre tutta la testa e le ricade fino a mezza schiena; le loro forme sono completamente nascoste da quello che chiamano il ferigée senza il quale nessuna donna può farsi vedere. Questo indumento ha lunghe maniche che arrivano all’estremità delle dita e le avvolge tutte a mo’ di cappa. È fatto di panno d’inverno e di semplice tela o seta d’estate. Ti lascio immaginare come sia perfetto questo travestimento visto che non permette di distinguere
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Mary Wortley Montagu Le donne ottomane Tra tutti i viaggiatori che visitarono l’Impero ottomano nel corso del XVIII secolo, un posto di rilievo spetta sicuramente a Mary Wortley Montagu (1689-1762), poetessa e scrittrice nota tanto per i suoi racconti di viaggio quanto per la sua curiosità culturale e scientifica: a lei si deve, ad esempio, l’introduzione in Europa della tecnica dell’inoculazione del vaiolo, di cui era stata testimone durante i suoi viaggi nell’Impero ottomano. Nel 1716, infatti, suo marito Edward fu nominato ambasciatore presso Istanbul e lei lo accompagnò nel viaggio, durante il quale scrisse lettere e diari in cui raccontava i costumi dei popoli con cui entrava in contatto. In quel periodo era sultano Ahmet III: si trattava di un momento di grande apertura verso l’Occidente. Nel seguente brano, tratto da una lettera dell’aprile 1717, Mary Wortley Montagu afferma che il mondo islamico costringe le donne a uscire velate ma che in ciò consiste la loro libertà: coperte, e quindi irriconoscibili, sono libere di muoversi e di scegliere gli uomini con i quali trascorrere il loro tempo. In effetti, gli ottomani rispettavano la legislazione coranica che assicurava alle donne la libera disposizione dei propri beni: esse potevano vendere, comprare ed ereditare beni, anche se nella misura della metà rispetto a un erede uomo di pari grado. Si trattava, comunque, di diritti che sembravano avanzati rispetto all’Europa dove vigeva il diritto di primogenitura. la gran dama dalla sua schiava, e che il marito più geloso non riesce a riconoscere la moglie quando la incontra; e poi nessun uomo oserebbe toccare o seguire una donna per la strada. Quest’eterna mascherata dà loro completa libertà di seguire le loro inclinazioni senza pericolo di essere scoperte. Il modo più comune di avere un’avventura è quello di dare appuntamento all’amante nella bottega di un ebreo, che è notoriamente il luogo ideale come le case indiane da noi, e anche le donne che non se ne servono a questo scopo non si fanno scrupolo di andarci per comprare qualche inezia e rovistare tra le merci di lusso che si trovano specialmente in questi negozi. Queste gran dame raramente svelano agli amanti la loro identità, così difficile da scoprire che costoro non riescono quasi mai ad indovinare il nome, anche se la loro relazione dura da più di sei mesi. Puoi ben immaginare quanto sia esiguo il numero delle mogli fedeli in un paese dove le donne non hanno niente da temere dall’indiscrezione
dei loro amanti, se ce ne sono tante che hanno il coraggio di esporsi a tale pericolo in questo mondo e a tutte le punizioni preannunciate per l’aldilà, cosa di cui non si fa mai parola alle damigelle turche. Inoltre le donne ricche non devono neanche temere troppo il risentimento del marito, visto che sono padrone del loro denaro, che prendono con sé al momento del divorzio con l’aggiunta della somma che il marito è obbligato a versare. A conti fatti, credo che le donne turche siano i soli esseri liberi dell’impero.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea gli elementi che fanno affermare a Mary Wortley Montagu che le donne turche hanno maggiore libertà di quelle europee. b. Spiega per iscritto quali pregiudizi intende smentire l’autrice in questa lettera e porta alcuni esempi a supporto della tua argomentazione.
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FARE STORIA
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F. Cardini, Il Turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 479-85.
L SI VA PALEST
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F. Cardini Caffè, tulipani e Wunderkammern Per molti secoli, in Europa, il “turco” era stato assunto come idealtipo dell’“altro” per eccellenza, del nemico pubblico. Come dimostrato dallo storico Franco Cardini (nato nel 1940) in questo brano, però, a partire dal XVII secolo a questa forma di “repulsione” si accompagnò una forte “attrazione”. Essa fu rafforzata e stimolata dall’affermazione in Europa dell’assunzione di caffè, fino ad allora tipica bevanda turca, e del gusto per le cosiddette turqueries, cioè per la cultura e gli oggetti turchi o per le loro imitazioni.
Che cosa ci fa mai Ferdinando II de’ Medici, granduca di Toscana succeduto al padre Cosimo II nel 16211, travestito da sultano? Eppure è abbigliato proprio così, con tanto di ampio turbante candido adorno di un ricco gioiello e di kaftan2 vermiglio: e il suo sguardo sereno, un po’ ironico, ci segue dal quadro della Galleria Palatina di Firenze dovuto all’illustre pennello di Giusto Sustermans3 che in tale acconciatura lo ritrae. Il suo governo «fu punteggiato di imprese militari tutte tese ad arginare la potenza turca»: che senso ha quindi questa sorta di gioco di specchi, questa tentazione di «immedesimarsi nell’avversario, visto come una sorta di alter ego culturale verso il quale si provava una profonda curiosità e non poco rispetto»? Può sembrare una pura curiosità, un gioco di corte, una mascherata carnevalesca, un divertissement. Siamo invece di fronte a una delle prime testimonianze dell’ormai già radicato e maturo atteggiamento orientalistico, uno dei connotati più forti e profondi dell’identità culturale dell’Occidente. Se i cristiani potevano ben essere, ed erano di fatto molto spesso e accanitamente, adversarii e inimici tra loro, vale a dire rivali e opposti che pur si riconoscevano reciprocamente un’intrinsecità, uno solo era l’hostis, il nemico pubblico, non a caso associato sovente all’autentico Nemico, all’Avversario del genere umano, a Satana. Quel nemico era l’«infedele», che nel mondo epico medievale era definito sovente col termine – desunto dall’antichità e dall’epica – di «pagano», mentre la cultura umanistica l’aveva ovviamente associato al concetto di «barbaro» e infine, a partire dal Quattrocento, si era concretizzato in un etnonimo carico di minaccia e di paura. Il «Turco». Nella misura in cui era l’«Altro» per eccellenza, il Turco doveva essere il rovescio, il contrario speculare del buon cristiano. Ancora alla fine del Seicento, in un’opera data alle stampe pro-
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prio tre anni dopo l’epopea di Vienna, l’anno stesso della riconquista cristiana di Buda4, l’abate Giovanni Battista De Burgo5, che era stato schiavo del «barbaro tripolino»6, dava sfogo al suo risentimento forse, ma senza dubbio alla sua antipatia, redigendo in un suo resoconto intitolato Viaggio di cinque anni in Asia, Africa, & Europa un lungo elenco di forme, appunto, di «antipatie» – nel senso rigorosamente etimologico del termine – fra «cristiani» e «turchi»: modi opposti di sentire, di comportarsi, di guardare al mondo e alla vita, che da soli bastavano a spiegare al di là delle stesse fedi religiose – con le quali erano del resto profondamente connessi – la lunga inimicizia e lo stato di guerra continuo. Il cristiano porta un cappello che si toglie in segno di deferenza e il turco invece copre sempre la testa con un turbante; il cristiano porta i capelli lunghi e il turco se li rade; il cristiano al contrario si taglia sovente la barba, il turco mai; le donne cristiane incedono scoperte, le turche completamente tappate; i cristiani si cambiano spesso la biancheria, ma non amano il contatto con l’acqua che ritengono malsano, mentre i turchi prediligono bagni frequenti; i cristiani mangiano carne arrostita o bollita, i turchi bollita o stufata. […] La descrizione di quello «turco» come una specie di mondo alla rovescia costituiva una chiave interpretativa potentissima, capace di diffondere stereotipi durevoli l’onda dei quali è forse giunta fino a lambire i nostri giorni. Il segno del cambiamento epocale sarebbe giunto allorché si fosse trovato qualcosa che piacesse a entrambi, un ponte che li unisse. Lo si trovò proprio negli anni a cavallo tra XVII e XVIII secolo, quando al lungo elenco delle «antipatie» si poté finalmente contrapporre definitivamente una «simpatia» destinata sul serio a durare. Il Turco era ancora, nella prima metà del Settecento, lungi dall’esser debellato. Ma ormai tra l’Europa cristiana e la
Porta, dopo oltre tre secoli di combattimenti che in prospettiva potevano sembrare continui – per quanto si fossero in realtà accompagnati e alternati […] a costanti rapporti economici e commerciali, a più o meno lunghe fasi di tregua e a complessi giochi diplomatici –, si era stabilito un solido e durevole equilibrio che, insieme con una lunga familiarità, finiva col somigliar parecchio al senso di consuetudine e alla simpatia: se non proprio all’amicizia. E per gli europei quella familiarità, quella simpatia, erano profumate del fumo caldo e dell’aspro aroma di una nera bevanda ormai di gran moda. [...] Alla fine del Seicento il consumo del caffè era ormai ben radicato in Europa. Si può tuttavia assegnare forse con qualche sicurezza ai viennesi la primogenitura di una svolta importante nella sua preparazione e nel suo adattamento al gusto europeo. Il suo sapore amaro e aromatico – dovuto al fatto che i musulmani si guardavano dall’indolcirlo: e lo insaporivano invece aggiungendovi del cardamomo – fu «corretto», per ren-
1. Ferdinando II de’ Medici (1610-1670) fu
granduca di Toscana tra il 1621 e il 1670.
2. Caffettano, tunica maschile lunga fino ai piedi
e con maniche lunghe, usata nei paesi arabi e, anticamente, in quelli dell’Europa orientale. 3. Giusto Sustermans (1597-1681) fu un pittore fiammingo di stile barocco. 4. Antica città posta sulla riva destra del Danubio, fu capitale del Regno d’Ungheria dal 1361 al 1541, anno della conquista da parte degli ottomani di Solimano il Magnifico. Conquistata dall’Austria nel 1686, nel 1873 fu unita alle vicine città di Obuda e Pest per costituire un’unica città, l’odierna Budapest. 5. Giovan Battista de Burgo fu un abate di origine irlandese che viaggiò nell’Impero ottomano e nell’Europa orientale con l’autorizzazione del sultano Mehmet IV (1642-1693). 6. Della Libia.
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FARE STORIA
provenienti dal mondo ottomano erano presenti anche la volontà di sottolineare l’ampiezza di orizzonti attraverso il viaggio, l’importanza delle relazioni attraverso lo scambio diplomatico dei doni, ma forse soprattutto e anzitutto il desiderio di mostrare la preda guerriera, la conquista. [...] Gli oggetti di queste collezioni e di tante altre meno importanti circolavano a vario titolo: bottini di guerra, senza dubbio, o semplici acquisti, ma anche frutti di quel rapporto diplomatico che si fondava, e non solo formalmente, sul rito dei doni reciproci; insieme con queste due forme di scambio, senza dubbio asimmetrico
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(e il grande scambio asimmetrico costituisce un aspetto fondamentale del rapporto tra Europa e resto del mondo a partire appunto dal XVI secolo), il fatto che l’impero asburgico fosse in guerra con la Sublime Porta non aveva mai impedito – e lo stesso era del resto vero anche per altri paesi cristiani: si pensi a Venezia, a Genova, all’Italia meridionale, per tacer dell’«alleata» Francia – né i contatti diplomatici, né la circolazione di persone e di merci. La «guerra totale», durante la quale tutti i rapporti fra stati belligeranti che non siano quelli militari si arrestano e si congelano, era ancora molto di là da venire.
I RA N
L SI VA
PALESTRA INVALSI 1. Trascrivi quattro espressioni con cui i cristiani indicavano il nemico per antonomasia. Quindi descrivi brevemente il significato di queste espressioni dal punto di vista culturale. 1. ................................................................................................................................... 2. ................................................................................................................................... 3. ................................................................................................................................... 4. ...................................................................................................................................
PALEST
derlo più gradito ai palati occidentali, con l’aggiunta di latte e di miele […]. In seguito all’assedio entrarono nell’uso occidentale gli strumenti a percussione usati nelle marce militari alla turca, i tulipani, i lilla, l’ippocastano e in genere una quantità di nuove turqueries. La fortuna del tulipano ha una storia tutta a sé nei rapporti tra mondo ottomano e Occidente: il fiore, chiamato lâle, scritto in caratteri arabi contiene le stesse lettere della parola Allah, il che ha dato vita a infinite splendide variazioni calligrafico-pittografiche. [...] Se agli ottomani quel che interessava di più della produzione occidentale erano gli oggetti che costituissero una novità tecnologica, come gli orologi, negli europei la passione estetica per le cose che provenivano dall’Oriente si andava dal canto suo incontrando o fondendo con un sentimento che non consisteva – come invece accadeva nel mondo musulmano coevo – in una coscienza di superiorità culturale e intellettuale, bensì in una crescente e orgogliosa consapevolezza d’irreversibile vantaggio sul piano della forza militare. Le prime grandi collezioni di reperti ottomani, le Türkenkammern, nacquero come sviluppo e variante delle Wunderkammern, le collezioni di mirabilia frutto tanto dell’ingegno dell’uomo quanto della capricciosa inesauribile fantasia della natura […]. Nel caso dei prodigi
U2 Civiltà e mercati oltre l’Europa
2. Un messaggio importante del testo è che... [ ] a. nuove turqueries entrarono nell’uso occidentale in seguito all’assedio di Vienna. [ ] b. il grande scambio asimmetrico costituisce un aspetto fondamentale del rapporto tra Europa e resto del mondo a partire dal XVI secolo. [ ] c. mentre i musulmani insaporivano il caffè col cardamomo, in Europa vi si aggiungeva latte e miele. [ ] d. la visione dei turchi come il nemico per eccellenza e come l’alterità più totale è stata intaccata con la diffusione del caffè in Europa.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Lo storico racconta 1. Dopo aver letto tutti i documenti e i brani degli storici, scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente dal titolo L’islam e gli altri, seguendo la scaletta di argomenti di seguito. Indica, per ciascun argomento, gli eventuali cambiamenti succedutisi nel corso del tempo esplicitando le date di riferimento. • i rapporti con le religioni; • le libertà delle donne; • gli scambi commerciali. 2. Dopo aver letto il brano di Wheatcroft [Ź ] rispondi alle seguenti domande argomentando le tue posizioni e citando opportunamente i testi: a. Quale peso ebbe l’assedio di Vienna del 1683 nella storia del rapporto fra gli Asburgo e gli ottomani?
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b. Secondo Wheatcroft l’assedio di Vienna viene interpretato per quello che è stato realmente o secondo un’immagine creata per fini polemici? Il confronto storiografico 3. Il confronto fra l’Europa cristiana e l’islam in età moderna conferma o smentisce l’idea di un passato di forte conflitto inasprito dall’assedio di Vienna del 1683? Prima di rispondere a questa domanda rileggi con attenzione i testi storiografici e il documento storico e individua i passaggi che possono aiutarti a costruire il tuo discorso. Trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una scaletta tematica. Utilizza quest’ultima per rispondere alla domanda iniziale con un testo argomentativo chiaro e coeso.
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U3 L’età delle rivoluzioni CHIAVE DI LETTURA
Inizia l’età contemporanea L’ampio arco temporale, dal 1776 al 1848-49, segnato dalle grandi rivoluzioni corrisponde al periodo in cui collochiamo gli inizi dell’età contemporanea. Non una data precisa, ma un insieme di vicende, tutte caratterizzate da trasformazioni rivoluzionarie (o da tentativi rivoluzionari) che si susseguono in quei decenni determinando radicali e alla fine irreversibili mutamenti nei rapporti politici e nelle strutture economiche. Le rivoluzioni politiche – americana e francese – spazzano via le strutture del privilegio, cancellano i residui feudali, riducono drasticamente il dominio delle aristocrazie lasciando emergere i nuovi ceti borghesi. “Da sudditi a cittadini” è la formula che condensa l’insieme di questi mutamenti caratterizzati dall’eguaglianza di fronte alla legge e dall’acquisizione dei diritti politici, primo fra tutti il diritto di voto (ai soli uomini).
GLI EVENTI
Le masse popolari sulla scena politica In Europa è la Rivoluzione francese (scoppiata nel 1789) la matrice principale del cambiamento, non solo per l’abbattimento dell’ancien régime, ma perché dalla vicenda rivoluzionaria emergono i nuovi protagonisti della lotta politica: le masse popolari urbane – artigiani, lavoratori manuali, piccoli borghesi –, protagoniste anche delle fasi rivoluzionarie degli altri paesi europei in tutta
la prima metà dell’800; e i nuovi politici di professione, come i giacobini, i primi a dar vita a un’organizzazione centralizzata simile ai successivi partiti politici. A sua volta, Napoleone Bonaparte dà avvio a una trasformazione politica e amministrativa non solo della Francia ma di gran parte dell’Europa conquistata dagli eserciti francesi. La fabbrica e la nascita del proletariato urbano Negli stessi decenni delle rivoluzioni politiche americane ed europee, in Gran Bretagna prese avvio la rivoluzione industriale. Le nuove tecnologie destinate ad aumentare e migliorare la produzione, innanzitutto nel settore tessile cotoniero, e contemporaneamente ad abbassare i costi del lavoro, diedero vita non solo a un nuovo sistema produttivo e al luogo fisico delle attività lavorative, la fabbrica, ma anche a una nuova classe composta dai lavoratori salariati e dalle loro famiglie: il proletariato urbano. Queste trasformazioni, nel loro graduale diffondersi, investirono nei primi decenni dell’800 altri paesi europei – il Belgio, la Francia, le regioni occidentali della Germania – e gli Stati Uniti. Tra gli anni ’30 e ’40 la rivoluzione industriale fu affiancata progressivamente dalla rivoluzione dei trasporti legata alla costruzione delle ferrovie che estesero la loro rete di comunicazioni nei paesi più sviluppati.
L’EUROPA NAPOLEONICA (1807-12) 1776 Dichiarazione di indipendenza e nascita degli Stati Uniti d’America 1775-83 Guerra d’indipendenza americana 1769 In Inghilterra James Watt brevetta la prima macchina a vapore. Arkwright inventa il filatoio idraulico
1792 Proclamazione della Repubblica francese. Costituzione democratica e dittatura giacobina
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1765
1811-12 Agitazione dei luddisti in Inghilterra
1787 Costituzione degli Stati Uniti d’America 1783-84 Introduzione in Inghilterra del sistema di Henry Cort nell’industria del ferro
1765 Hargreaves brevetta la jenny
1750
1797 Repubbliche “giacobine” in Italia
1789 Presa della Bastiglia: inizia la Rivoluzione francese
1780
1804 Napoleone assume il titolo di imperatore dei francesi
1795
1815 Definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo
1813 In Inghilterra George Stephenson perfeziona la locomotiva a vapore
1810
1825
1850-73 Francia e Germania nuove potenze industriali
1840
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C6 La rivoluzione americana EXTRA ONLINE
Storiografia G. Abbattista, La società nordamericana alla vigilia della rivoluzione
Storia e Geografia Le rivoluzioni atlantiche
Lezioni attive Diritti e rivoluzioni. Gli Stati Uniti d’America e la Repubblica francese
Le colonie britanniche nell’America 1 del Nord La formazione degli Stati Uniti d’America è il primo episodio di quella stagione rivoluzionaria – politica ma anche economica e sociale – che inizia negli ultimi decenni del ’700 e si chiude alla metà dell’800: l’età delle “grandi rivoluzioni”. Con la nascita degli Stati Uniti fa il suo ingresso sulla scena mondiale un nuovo protagonista, anche se dovranno passare molti decenni, e una drammatica guerra civile, perché il nuovo Stato si consolidi. Ma dalla fine dell’800, prima con la guerra contro la Spagna per l’indipendenza di Cuba (che divenne protettorato americano nel 1898), poi con la partecipazione al primo conflitto mondiale (nel 1917), gli Stati Uniti si affermarono come grande potenza fino a dominare la seconda metà del ’900 e gli anni iniziali del nuovo secolo. Nessuno poteva immaginare che un conflitto locale tra sudditi della Gran Bretagna, in colonie lontane dalla madrepatria, divenisse motore di una così grande trasformazione.
puritani Il termine “puritano” (dal latino purus, “puro”) fu inventato a metà del ’500 dagli anglicani per definire in modo sarcastico i calvinisti, che finirono poi per adottare con orgoglio questo appellativo. Il termine, infatti, sembrava adatto a sottolineare la purezza della loro fede e a qualificare positivamente il modo di vivere cui i gruppi più intransigenti del calvinismo si ispiravano, ossia l’assoluto rispetto dei princìpi religiosi e morali del protestantesimo. amish La comunità religiosa amish raccoglie i seguaci di un predicatore vissuto in Svizzera nel ’600, Jacob Amman, che abbandonò la Chiesa anabattista dei mennoniti. Nel corso del ’700 gli amish migrarono negli Stati Uniti, in prima battuta in Pennsylvania. L’Ohio e la Pennsylvania sono ancora oggi gli Stati che ospitano le comunità più numerose. Gli amish vivono separati dal resto del mondo, parlano tradizionalmente un dialetto tedesco, osservano uno stile di vita semplice, rurale, evitando il contatto con le nuove tecnologie.
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I PRIMI INSEDIAMENTI Agli inizi del ’600 in due diversi punti delle coste atlantiche dell’America settentrionale aveva preso avvio la colonizzazione inglese: nel 1607 nei territori della Virginia e nel 1620 con lo sbarco, molto più a nord – a Cape Cod, nel Massachusetts –, dei “Padri Pellegrini”, una congregazione di puritani* inglesi già esuli in Olanda. I nuovi insediamenti furono favoriti dall’assistenza fornita dagli indiani nativi, i pellerossa, nel contribuire alla esplorazione del territorio e nel fornire risorse alimentari prima che le nuove coltivazioni potessero cominciare a dare i loro frutti. Presto però dissodamenti e disboscamenti sarebbero stati all’origine di duri conflitti con le tribù dei pellerossa sul possesso delle terre. Nell’espansione inglese dei decenni successivi si sommarono l’iniziativa delle compagnie commerciali e una consistente immigrazione di minoranze politiche e religiose dalla Gran Bretagna ma anche da altri paesi europei, come quella degli ugonotti dalla Francia o degli amish* dalle regioni di lingua tedesca. Via via gli inglesi risalirono verso nord e discesero verso sud conquistando e mettendo a coltivazione territori sempre più estesi, assorbendo e talora acquistando i precedenti insediamenti olandesi e svedesi. LE TREDICI COLONIE Nel 1763, alla fine della guerra dei Sette anni contro la Francia [Ź5_1], le colonie britanniche si estendevano dal Canada a nord (la Nuova Scozia) alla Florida a sud, mentre a ovest erano delimitate dalla catena montuosa degli Appalachi [Ź _15]. Distese su un territorio così lungo, le colonie erano caratterizzate da grandi diversità climatiche, ma differivano anche per composizione sociale e assetti economico-produttivi. Ɣ Le quattro colonie settentrionali. La Nuova Inghilterra In Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island, Connecticut il clima, simile a quello dell’Europa nord-occidentale, aveva consentito la coltivazione dei cereali e la costituzione di villaggi rurali. Nei centri urbani della costa, però, primo fra
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tutti Boston, fiorì, grazie alla larga disponibilità di legname, un’importante industria cantieristica, che forniva circa il 50% del tonnellaggio alla flotta britannica. Ɣ Le quattro colonie del Centro Nei territori di New York, del New Jersey, della Pennsylvania e del Delaware, che non costituivano un blocco omogeneo, la situazione economica era simile a quella della Nuova Inghilterra, ma con più forti squilibri sociali e una diversa struttura della proprietà terriera – soprattutto nello Stato di New York dominavano infatti i grandi latifondisti. Ɣ Le cinque colonie del Sud In Virginia, Maryland, Carolina del Nord e del Sud, Georgia tutta l’economia era incentrata sulle piantagioni (tabacco, riso e, più tardi, cotone), si fondava principalmente sulla grande proprietà e si reggeva sul lavoro degli schiavi di origine africana. Ma era anche diffusa la piccola e media proprietà terriera che si avvaleva anch’essa della manodopera degli schiavi neri. LE APPARTENENZE RELIGIOSE E LA MENTALITÀ DEL NUOVO “POPOLO ELETTO”
A
S C H USETT
LO SPAZIO DELLA STORIA
Le colonie si differenziavano profondamente anche dal punto di vista religioso, pur essendo tutte protestanti. Nella Nuova Inghilterra prevalevano largamente i dissidenti della Chiesa anglicana (presbiteriani, congregazionalisti, metodisti): qui, negli anni 1730-40, aveva trovato larga diffusione il movimento del Grande risveglio protestante, animato da impetuosi predicatori che volevano rivitalizzare la fede, ritornare alla LE COLONIE AMERICANE ALLA VIGILIA Bibbia, rafforzare la pratica DELLA GUERRA CON LA GRAN BRETAGNA 15 religiosa. La Pennsylvania ospitava larghe comunità Québec di quaccheri e di amish. CANADA Montréal Nelle colonie del Sud era dominante invece la fedeltà NEW alla Chiesa anglicana. HAMPSHIRE NEW SS Boston MA Le numerose denominaYORK RHODE zioni religiose del protestanISLAND CONNECTICUT tesimo intransigente erano PENNSYLVANIA New York Philadelphia NEW JERSEY impegnate nella difesa delle DELAWARE forme di autogoverno, delle libertà dei coloni e alimenMARYLAND VIRGINIA tavano il dissenso nei confronti delle istituzioni e dei Raleigh controlli esercitati dall’amNORTH CAROLINA ministrazione e dalle istituzioni della Corona britanniSOUTH CAROLINA ca. Queste posizioni erano Charleston fondate sul nesso sempre GEORGIA più stringente tra libertà Savannah religiosa e libertà politica Jacksonville nonché sulla convinzione di FLORIDA OCEANO ATLANTICO una nuova missione e di un destino speciale affidato da Dio ai nuovi americani che si consideravano un popolo eletto, chiamato a realizzare il vero cristianesimo. 783
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possedimenti britannici dopo la pace di Parigi del 1763 le tredici colonie che si sollevano contro la Gran Bretagna nel 1774 alla Gran Bretagna dal 1763 al 1783 zone popolate da pellerossa
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EVENTI CHIAVE
I Padri Pellegrini e la fondazione della Nuova Inghilterra Guardando i telefilm americani, capita spesso di vedere la tipica famiglia americana riunirsi il quarto giovedì di novembre per celebrare il Thanksgiving Day, il “Giorno del Ringraziamento”. Si tratta di una festa nazionale istituita nel 1863 dal presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln a ricordo di un evento cruciale per la storia del paese. Ogni anno, in quel giorno, si rievoca il banchetto, a base di tacchino arrosto e torte di zucca, tenuto nel 1621 dai Padri Pellegrini a Plymouth, la cittadina da loro fondata nel Massachusetts, con i nativi del luogo, in segno di ringraziamento per l’aiuto da questi ricevuto in un momento di estrema difficoltà per l’esistenza della colonia. Nel primo inverno di vita, infatti, la colonia aveva perso quasi la metà dei suoi abitanti per la fame, la fatica e le avversità climatiche. Fu proprio l’incontro con gli indiani a garantire la sopravvivenza dei coloni, che dai nativi appresero la tecnica di pesca delle aringhe e l’uso del pesce come fertilizzante nelle coltivazioni di mais, fagioli e zucche. I Padri Pellegrini (Pilgrim Fathers) erano giunti nel continente americano il 21 novembre del 1620. Nove settimane prima, nel mese di settembre, circa 35 famiglie (per un totale di 102 passeggeri) erano salpate dal porto inglese di Plymouth a bordo di un piccolo galeone, il Mayflower (“Fiore di maggio”). Esse avevano acquistato dalla Virginia Company, una delle tante società private a cui la Corona inglese aveva ceduto ampie zone dei suoi possedimenti d’oltremare, il diritto di fondare una colonia nel Nuovo Mondo, pagandolo ben 7 mila sterline. Di diversa estrazione sociale, i coloni erano accomunati dalla fede religiosa: appartenevano infatti a un gruppo di puritani radicali che nel 1606, per sfuggire alle persecuzioni religiose, si era rifugiato nei Paesi Bassi. Da lì, grazie all’intercessione di un mercante loro correligionario, avevano ottenuto l’autorizzazione a
recarsi in America, dove speravano di poter professare liberamente la propria fede, governandosi secondo le proprie convinzioni religiose. Infatti, nell’Inghilterra di Giacomo I Stuart (1603-25), i dissidenti religiosi, ossia quanti non riconoscevano l’autorità della Chiesa anglicana, erano soggetti a dure persecuzioni. I pellegrini quindi ricercarono oltre Atlantico quella libertà religiosa e politica che veniva negata loro in patria. Poco prima di sbarcare, i coloni sottoscrissero il Mayflower Compact, un documento nel quale esposero i princìpi ispiratori del governo della futura colonia, che si rifaceva al modello calvinista della democrazia teocratica*. Dopo aver ringraziato Dio per l’esito felice del lungo viaggio, i Padri Pellegrini, stabilirono che la loro colonia sarebbe stata governata da capi eletti da tutti i membri della comunità, all’interno però di una rigida organizzazione comunitaria, caratterizzata dal rigoroso assoggettamento alle norme autoimposte. Diretti inizialmente in Virginia, i Padri Pellegrini sbarcarono molto più a nord, a Cape Cod, a causa di una tempesta che aveva deviato la rotta del Mayflower. Qui, dopo aver esplorato la costa atlantica, si stabilirono nell’odierno Massachusetts, riconosciuto ufficialmente come colonia nel giugno del 1621, e considerato dagli storici come il primo nucleo dei moderni Stati Uniti d’America. Dopo le iniziali difficoltà e il determinante aiuto offerto dagli indiani, ricordato appunto nel Thanksgiving Day, dalla primavera del 1621 la colonia co-
minciò a crescere e a progredire. Convinti di rappresentare, secondo l’etica calvinista, il nuovo popolo degli eletti e animati da una fortissima fede, i coloni lavorarono intensamente la terra e si impegnarono nell’industria cantieristica. Il Massachusetts divenne in breve tempo un approdo sicuro per quanti fuggivano dall’Europa, rigettando l’assolutismo dei sovrani e le persecuzioni religiose, e da lì partirono nuove spedizioni verso i territori dell’interno e della costa. Sotto la spinta del costante flusso migratorio si formò dunque una nuova regione, il New England (“Nuova Inghilterra”), formata dalle colonie sorte dopo il Massachusetts: il New Hampshire, il Rhode Island e il Connecticut. Anche i nuovi insediamenti furono pervasi da quella tensione etico-religiosa puritana propria dei “padri fondatori”. Essa alimentò il cosiddetto “spirito del New England”, destinato a modellare la cultura nordamericana, e diffuse quei germi di libertà da cui sarebbe scaturita la lotta per l’indipendenza dall’Inghilterra, partita proprio dalla capitale del Massachusetts, Boston.
democrazia teocratica Nella concezione calvinista dello Stato, la sfera politica non era separata da quella religiosa: essa, infatti, era affidata ad un’amministrazione cittadina – il Concistoro (composto da pastori e magistrati) – che applicava i princìpi dottrinali nella vita collettiva, con l’obiettivo di fare della città una comunità di eletti, di prescelti da Dio.
Ź Jennie Augusta Brownscombe, Il primo giorno del Ringraziamento a Plymouth 1914 [Pilgrim Hall Museum, Plymouth] Il dipinto, realizzato agli inizi del ’900 dall’artista americana Brownscombe, ritrae con dovizia di particolari un soggetto caro alla storia degli Stati Uniti: il primo Ringraziamento celebrato dai pellegrini e dagli indiani per rendere omaggio al primo raccolto realizzato con successo dai coloni nella nuova patria.
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STORIA IMMAGINE Edward Hicks, Il trattato di Penn con gli indiani particolare, 1840-44 [National Gallery of Art, Washington] William Penn, ricco mercante a capo di una colonia di quaccheri, giunse nell’America del Nord in una regione che da lui prese il nome, Pennsylvania. Nel 1681 trattò con gli indiani l’acquisto del territorio sul quale avrebbe fondato la città di Philadelphia, capitale della colonia che accolse non solo i gruppi britannici di religione quacchera,
guerre franco-indiane Le guerre franco-indiane sono una serie di conflitti combattuti nel corso del ’600 e del ’700, che coinvolsero anche le colonie e i territori dell’America settentrionale oltre alle tribù indiane che popolavano quelle terre. Si trattò per lo più di riflessi delle guerre dinastiche combattute in Europa in quei secoli. Ad alcuni di questi conflitti presero parte olandesi e spagnoli, ma i due fronti contrapposti videro impegnati sempre francesi e inglesi, alleati con le diverse tribù indiane. L’ultima e la più importante delle guerre franco-indiane coincise con la guerra dei Sette anni (1756-63), con la quale la Gran Bretagna si impose definitivamente sulla Francia.
Personaggi Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti, p. 178
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ma anche pietisti tedeschi e gruppi di tedeschi e scandinavi. Successivamente Penn acquistò le regioni meridionali dello Stato di New York e vi fondò la colonia del Delaware. I quaccheri furono gli unici ad avere con gli indiani rapporti paritetici, mentre gli altri europei giungevano nel Nuovo Mondo come conquistatori. Questo quadro, basato su un dipinto del 1771, ricorda Penn, figura simbolica dell’identità americana, e l’accordo che stipulò con i nativi americani.
LA POPOLAZIONE E LE TRADIZIONI INSEDIATIVE Secondo le stime, nel 1770 la popolazione aveva superato i 2 milioni e nel 1780, con un elevato tasso di incremento, avrebbe raggiunto i 2.780.000 individui. Tra la popolazione si contavano oltre 500 mila schiavi neri, concentrati nelle colonie meridionali dove rappresentavano il 40% circa degli abitanti. Un ruolo rilevante avevano gli indiani pellerossa, dislocati all’interno dei territori e sospinti dalla colonizzazione sempre più verso ovest, non facilmente conteggiabili ma in continua diminuzione. Tra le numerose “nazioni” indiane (questo era il termine con cui venivano chiamate le tribù) spiccavano la confederazione degli Irochesi del Nord-Est, già alleati dei britannici nelle guerre franco-indiane*, gli Algonchini, schierati invece con i francesi, e i Cherokee a Sud. Le colonie non erano caratterizzate da una significativa urbanizzazione, soprattutto nei territori del Sud. Diversa era la situazione nelle colonie del Centro e del Nord. Philadelphia era la città più popolosa, con 40 mila abitanti, mentre gli altri due principali centri urbani, Boston e New York, che pure avevano conosciuto un vistoso incremento demografico del 50% tra il 1760 e il 1775, si fermavano a 18 mila e 21 mila abitanti rispettivamente. Centri, dunque, relativamente piccoli ma vivacissimi per le attività economiche e la vita politica e culturale.
Una rivoluzione per l’indipendenza LE PREMESSE DEL CONFLITTO Le colonie americane, largamente inserite nel sistema di scambi atlantici, dovevano sottostare alle leggi commerciali imposte da Londra. Solo le navi britanniche potevano accedere ai porti del Nord America e tutte le merci dirette alle colonie dovevano passare per la Gran Bretagna. La quasi totalità della produzione coloniale – il tabacco e il riso del Sud, il legname della Nuova Inghilterra, il pesce e l’olio di balena, il rhum e le
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pellicce – era destinata ai mercati britannici, mentre l’industria locale, salvo quella cantieristica, era ostacolata per evitare che entrasse in concorrenza con quella della madrepatria. Sul piano politico-amministrativo, invece, le colonie, pur sottoposte al controllo di un governatore di nomina regia, si erano date assemblee legislative elette dai cittadini che nel corso del tempo avevano assunto poteri sempre maggiori. Questo dualismo di poteri di fatto lasciava spazio a continui conflitti, intensificatisi soprattutto dopo la fine dell’ultima guerra franco-indiana: a partire dal 1763 le tredici colonie cominciarono a sentirsi come un’unità autonoma, diversa dalla madrepatria, con una propria identità e non più come parte integrante di un impero britannico unitario. boicottaggio In origine il boicottaggio era una forma di lotta economica che consisteva nel rifiuto di entrare in rapporti con qualcuno, per esempio un paese, un proprietario terriero o una compagnia commerciale, per danneggiarne la posizione. Questo è quanto avvenne nel caso del contrasto tra le colonie in Nord America e la madrepatria: i coloni ribelli, infatti, decisero di sospendere gli acquisti di merci britanniche con l’intento di causare un grave danno economico alla Corona. Ma boicottare può anche voler dire isolare un paese in campo internazionale per le sue scelte politiche o per gli atti criminali compiuti durante una guerra.
IL BOICOTTAGGIO DELLE MERCI BRITANNICHE Questi sentimenti si accentuarono fino a trasformarsi in diffusa opposizione politica quando la Gran Bretagna intensificò il prelievo fiscale. Si trattava di rimettere in sesto le finanze statali dissanguate dalle guerre e di pagare i funzionari e le truppe stanziate nei territori americani. Ma se ai vincoli commerciali le colonie avevano risposto con il contrabbando o eludendo le norme, ora all’inasprimento fiscale risposero con il boicottaggio* delle merci provenienti dalla madrepatria. L’imposizione di una serie di dazi doganali – come quello sullo zucchero del 1764 – e dello Stamp Act (1765), l’obbligo di una marca da bollo non solo sui documenti ma anche su giornali e riviste, provocò la dura reazione dei coloni. Della protesta si fecero interpreti le assemblee legislative e i numerosi periodici politici delle colonie, che potevano contare su un larghissimo consenso in tutti i ceti sociali, dai grandi proprietari del Sud agli artigiani del Nord, agli intellettuali. Venne richiamata con forza la stessa tradizione del parlamentarismo britannico: in particolare il principio secondo cui nessuna tassa poteva essere imposta senza l’approvazione di un’assemblea in cui i diritti dei tassati trovassero adeguata rappresentanza. In base a questo principio – no taxation without representation – il Parlamento di Londra, dove i coloni non erano rappresentati, non aveva diritto di imporre tasse ai territori d’oltreoceano.
STORIA IMMAGINE W.D. Cooper, Boston Tea Party 1789 [da The History of North America; Library of Congress, Washington] La rivolta generale delle colonie contro la madrepatria prende avvio con il cosiddetto Boston Tea Party, ricordato in questa stampa in cui si vede un gruppo di coloni americani che sabotano e gettano in mare il carico di tè di una nave della East India Company. In circa due ore finisce in mare il contenuto di 342 casse mentre all’evento assiste una folla accorsa al porto.
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LE CAUSE DELLA RIVOLUZIONE AMERICANA Corona inglese
impone
Dualismo di poteri
Assemblee autoelette
Tasse
“No taxation without representation”
Vincoli commerciali
Boicottaggio delle merci inglesi (Boston Tea Party)
contro
DALLA RIBELLIONE ALLA GUERRA La tensione, già alta, si accentuò quando un provvedimento del 1773 assegnò alla Compagnia delle Indie il monopolio della vendita del tè nel continente americano, danneggiando gravemente i commercianti locali. Nel dicembre 1773, nel porto di Boston – centro principale dell’agitazione antibritannica – furono assalite alcune navi della Compagnia e fu gettato in mare il carico di tè. All’atto, passato alla storia come Boston Tea Party, il governo centrale rispose con dure misure di ritorsione: nel 1774 il porto di Boston fu chiuso, il Massachusetts fu privato delle sue autonomie, in tutte le colonie i giudici americani furono sostituiti da funzionari britannici. Da questo momento in poi, la rivolta divenne aperta e generalizzata. Nel settembre ’74, in un primo Congresso continentale, i rappresentanti delle tredici colonie si accordarono per portare avanti le azioni di boicottaggio e per difendere con ogni mezzo le loro autonomie. Nell’aprile 1775 si ebbero i primi scontri armati tra le milizie dei coloni e le truppe britanniche nei pressi di Boston. In maggio, un secondo Congresso continentale decideva la formazione di un esercito comune, il Continental Army, e ne affidava il comando a George Washington (1732-1799), un proprietario terriero della Virginia che sarebbe divenuto, in seguito, il primo presidente degli Stati Uniti d’America [Ź6_4]. La protesta delle colonie, trasformatasi ormai in rivoluzione, sfociava così in una vera e propria guerra. Leggere le fonti La «Dichiarazione di indipendenza» degli Stati Uniti, p. 180
LA DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA . UN ATTO FONDATIVO Il 4 luglio 1776, dopo un lungo e acceso dibattito, il Congresso continentale approvò una Dichiarazione di indipendenza stesa da Thomas Jefferson (1743-1826), che può essere considerata il vero atto di nascita degli Stati Uniti d’America. Questo documento fondamentale, oltre a enumerare minuziosamente i motivi del contrasto con la Corona britannica sul modello del Bill of Rights inglese del 1689, si richiamava ai princìpi del giusnaturalismo, ai diritti inalienabili dell’uomo e al diritto di un popolo a ribellarsi gettando le basi di un nuovo e concreto progetto politico [Ź2_3]. La Dichiarazione era un progetto rivoluzionario che rompeva ogni legame con la monarchia britannica e dava vita a una repubblica.
Storiografia 34 L. Hunt, 1776 e 1789: perché i diritti devono essere enunciati in una Dichiarazione?, p. 258
LE COLONIE AMERICANE VERSO L’INDIPENDENZA maggio 1773 Tea Act
1773
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maggio 1774 Continental Army con a capo Washington
dicembre 1773 Boston Tea Party
1774
aprile 1774 Primi scontri armati nei pressi di Boston
4 luglio 1776 Dichiarazione di Indipendenza
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STORIA IMMAGINE Emanuel Gottlieb Leutze, Washington attraversa il Delaware 1851 [Metropolitan Museum of Art, New York] Una delle azioni più celebrate di Washington, e della storia dell’indipendenza americana in generale, è senz’altro quella compiuta il 25 dicembre del 1776, quando il generale guidò le truppe in un assalto a sorpresa
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contro i britannici. Questi ultimi, guidati dal generale Howe, si erano trasferiti a New York per trascorrervi l’inverno, convinti che Washington non li avrebbe attaccati fino alla primavera successiva. Ma le forze americane, non tenendo conto delle usanze militari, attraversarono nottetempo il fiume Delaware semighiacciato e riuscirono ad avere la meglio sul nemico.
PERSONAGGI
Thomas Jefferson, padre fondatore degli Stati Uniti La storia di Thomas Jefferson, uomo dei Lumi e della rivoluzione, terzo presidente degli Stati Uniti d’America, è la storia di un uomo dalle molte passioni (la politica, l’arte, la storia, l’architettura, l’economia, persino il bricolage), di un intellettuale prestato all’azione, di un rivoluzionario radicale con molto senso pratico. Lettore affamato di ogni sorta di libri, ma soprattutto dei classici, ci ha lasciato sia una corrispondenza ricchissima sia un Book of reference, un libro di citazioni e commenti dalle sue letture che è uno strumento eccezionale per entrare nel mondo dei suoi punti di riferimento politici e intellettuali. Nacque il 13 aprile 1743 a Shadwell, la piantagione di suo padre lungo il corso del Rivanna, vicino a quella che oggi si chiama Charlottesville, in Virginia. Il padre, Peter, morì quando Thomas era ancora quattordicenne, lasciandolo erede della proprietà e di numerosissimi schiavi. Studiò nelle scuole locali della Virginia. Praticò quindi l’avvocatura ed entrò nella rappresentanza legislativa della Virginia, dove si allineò coi membri più radicali che chiedevano già da tempo un ridimensionamento dell’autorità di Londra sulle colonie. Nel frattempo, nel 1772 aveva sposato Martha, una vedova di 23 anni che morirà molto giovane lasciandolo a lungo emotivamente devastato. Nel 1774, in occasione del primo Congresso continentale convocato per rispondere alle restrizioni bri-
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tanniche sulle colonie, elaborò una serie di indicazioni per i delegati della Virginia che sarebbero poi state ripubblicate sotto il titolo A Summary View of the Rights of British America (“Uno sguardo sintetico sui diritti dell’America britannica”). Nel testo, che avrebbe imposto Jefferson come uno dei leader della causa coloniale, ad esempio si diceva espressamente che «i re sono i servitori, non i proprietari del popolo» – parole fortissime, anche se pronunciate ad un oceano di distanza dalla corte inglese. Quando si unì al Congresso, fu incaricato di redigere il testo della Dichiarazione di indipendenza insieme a John Adams (che sarebbe diventato il secondo presidente degli Stati Uniti) e ad altri delegati. Fu lui però a preparare la bozza poi in gran parte approvata da tutto il Congresso. Le parti eliminate riguardavano significativamente un passo sulla tratta degli schiavi, definita «una guerra crudele contro la natura umana». Ad ogni modo, il testo della Dichiarazione sarebbe stato molto più del manifesto delle colonie americane impegnate a richiedere l’indipendenza alla Gran Bretagna. Le sue espressioni più note – il lungo elenco di colpe attribuite ai sovrani inglesi e l’affermazione dei princìpi generali di libertà e di uguaglianza – sarebbero diventate un luogo comune nella retorica politica americana. Ma soprattutto la Dichiarazione fu un vero e proprio modello, ricalcato nella sua struttura ora dalle prime femministe americane, ora dai movimenti neri, ora da altri popoli in lotta per la libertà. Tornato in Virginia, Jefferson parte-
cipò alla modernizzazione del sistema legislativo dello Stato (libertà di culto e riforma della proprietà terriera furono alcuni dei provvedimenti da lui promossi) e fu eletto per due anni governatore. Erano gli anni della guerra con l’ex madrepatria, e la Virginia venne occupata dai britannici a più riprese. Anche per questo si ritirò per la prima volta a vita privata dedicandosi alla sua proprietà e alla scrittura. In una sua opera pubblicata in quegli anni, Notes on the State of Virginia, Jefferson prese una dura posizione contro la schiavitù, pur partendo da posizioni apertamente razziste e temendo moltissimo che dall’emancipazione potessero scaturire delle guerre razziali che avrebbero minato la vita della democrazia americana. La posizione di Jefferson rispecchiava quella di altri proprietari di schiavi americani, incapaci di affrontare di petto il problema pur vivendo con imbarazzo il controllo assoluto su altri esseri umani. Nel corso della sua vita sarebbe arrivato a controllare più di seicento schiavi, per lo più impiegati nelle sue piantagioni. Con alcuni di questi, i rapporti erano più che cordiali, di vera amicizia e affetto. È nota ad esempio la sua lunghissima relazione con Sally Hemings, una schiava mulatta della sua piantagione che portò con sé durante numerosi viaggi e da cui ebbe pure sei figli (madre e figli furono in seguito tutti liberati). Nonostante avesse a cuore la questione degli schiavi, comunque, resta il fatto che durante la sua parabola politica non fu in grado di portare al successo provvedimenti a favore del-
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LA GUERRA, LA VITTORIA E LA PACE L’indipendenza venne dichiarata poco più di un anno dopo l’inizio di una guerra contro la Gran Bretagna che si sarebbe trascinata per otto anni: durò infatti dal 1775 al 1783. Le prime fasi del conflitto non furono favorevoli agli americani, anche perché le truppe britanniche, forti di 35 mila uomini (tra cui un nutrito contingente di mercenari tedeschi), contro gli 8 mila poco addestrati dell’esercito di Washington, assunsero l’iniziativa occupando New York (agosto 1776). Washington adottò allora una tattica prudente evitando gli scontri campali e logorando gli avversari con ostinate azioni di guerriglia – sabotaggi, assalti, attentati a sorpresa –, finché i britannici non subirono a Saratoga (1777) la loro prima seria sconfitta [Ź _16]. La posizione degli insorti restava comunque difficile e piuttosto grave era la situazione finanziaria, che costrinse le colonie a ricorrere a una serie di imposte straordinarie per sostenere i costi del conflitto. A favore degli indipendentisti si schierò l’opinione pubblica europea – nella stessa Gran Bretagna non mancarono le voci favorevoli ai ribelli – tanto che, a partire dal 1777, cominciarono ad arrivare, provenienti da diversi paesi europei, numerosi volontari pronti a battersi a fianco degli Stati Uniti.
la popolazione nera, né in Virginia, né a livello federale. Jefferson venne richiamato alla vita politica nel 1784, quando fu inviato a Parigi come ministro plenipotenziario prima e ambasciatore poi. Qui Jefferson poté assistere alle prime fasi della Rivoluzione, entrando in stretto contatto con alcune delle personalità più rilevanti. Rientrato in America, nel 1790 assunse l’incarico di Segretario di Stato, cioè ministro degli Esteri, durante la presidenza Washington. Nella compagine ministeriale c’erano anche Alexander Hamilton e John Adams, fautori di un rafforzamento dei poteri centrali da lui osteggiato. Ben presto attorno alla loro rivalità prese corpo la dialettica dei due primi partiti politici americani, quello federalista e quello democratico-repubblicano capeggiato da Jefferson. Jefferson venne eletto nel 1800 (proprio dopo Adams), e riconfermato nel 1804. Il più grande risultato della sua presidenza fu l’acquisto del grande territorio (di oltre 2 milioni di kmq) della Louisiana dai francesi. Inoltre avviò la campagna per l’esplorazione dei nuovi territori
che culminò nella spedizione di Lewis e Clark (1804-6). Jefferson era spinto a questa iniziativa soprattutto dalle sue letture e dai suoi interessi scientifici, ma l’impresa costituì il passo più significativo per la colonizzazione americana della frontiera occidentale. Dopo la fine del suo secondo mandato presidenziale, Jefferson si ritirò nella sua tenuta di Monticello in Virginia, ma non sparì del tutto dalla vita pubblica. Si dedicò a un piano sull’educazione per il suo Stato di nascita, che però non venne mai approvato, e provò a fondare direttamente un’università pubblica e soprattutto laica, a differenza della William and Mary dove lui stesso aveva studiato. L’Università della
Virginia sarebbe diventata in seguito un modello per le università pubbliche americane, per l’organizzazione degli studi ma anche per la sua gestione. La fondazione dell’università fu una delle molte occasioni per dar prova delle sue qualità nel campo dell’architettura: il suo progetto per il campus viene ancora oggi considerato tra le opere più significative dell’architettura americana, insieme con gli altri suoi lavori – la residenza personale di Monticello e il Campidoglio della Virginia, ispirato al tempio romano di Nîmes visitato durante il suo soggiorno francese. Morì il 4 luglio 1826, lo stesso giorno di John Adams e il giorno della festa dell’indipendenza americana.
Ź John Trumbull, La Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti 1817-19 [Campidoglio, Washington] Il 28 giugno 1776 a Philadelphia la cosiddetta “Commissione dei cinque” presentò ai partecipanti al Congresso la Dichiarazione di indipendenza, poi ratificata il 4 luglio successivo. Nel dipinto vengono raffigurati, in piedi, i cinque membri della commissione: (da sinistra) John Adams, Roger Sherman, Robert Livingston, Thomas Jefferson, Benjamin Franklin; di fronte a loro, seduto, il presidente del Congresso, John Hancock.
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Ma l’aiuto decisivo venne dall’intervento delle potenze europee che impegnarono la Gran Bretagna su molti altri teatri bellici. Infatti, dopo l’ingresso della Francia e della Spagna a fianco degli Stati Uniti con l’evidente obiettivo di trarre vantaggi territoriali da un’eventuale sconfitta della Gran Bretagna, il conflitto si sarebbe combattuto anche nei Caraibi, a Gibilterra (inutilmente assediata dagli spagnoli per tre anni), sulle coste africane e in India. Importante in questa fase fu in particolare il ruolo della Francia, che, alla fine del ’77, riconobbe l’indipendenza delle colonie e, nel gennaio ’78, firmò con esse un patto di alleanza militare. Nell’estate dell’81, in coincidenza con l’arrivo di una flotta francese, gli americani passarono al contrattacco e posero l’assedio a Yorktown, in Virginia,
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LEGGERE LE FONTI
La «Dichiarazione di indipendenza» degli Stati Uniti da La formazione degli Stati Uniti d’America, a c. di A. Aquarone, G. Negri, C. Scelba, Nistri-Lischi, Pisa 1961, pp. 416-20
Diritti di cui non si può essere privati, diritti intoccabili, inviolabili.
Giorgio III di Hannover (1760-1801).
La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America fu stilata nel giugno 1776 da una commissione nominata dal Congresso continentale e composta da Benjamin Franklin, John Adams, Roger Sherman, Robert Livingston e Thomas Jefferson. Fu approvata dal Congresso il 4 luglio 1776 e rappresenta un momento importantissimo
Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto per Legge naturale e divina, un giusto rispetto per le opinioni dell’umanità richiede che esso renda note le cause che lo costringono a tale secessione. Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi su quei principî e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli sembri più idonea al raggiungimento della sua sicurezza e felicità. [...] La storia dell’attuale Re di Gran Bretagna è una storia di ripetute offese ed usurpazioni, aventi tutte come obiettivo immediato l’instaurazione di una Tirannide assoluta su questi Stati. [...] Noi, pertanto, rappresentanti degli Stati Uniti d’America, riuniti in Congresso generale, appellandoci al Supremo Giudice dell’universo quanto alla rettitudine delle nostre intenzioni, solennemente proclamiamo e dichiariamo, in nome e per autorità dei buoni Popoli di queste Colonie, che queste Colonie Unite sono, e devono di diritto essere Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di fedeltà verso la Corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna è e dev’essere del tutto reciso; e che quali Stati Liberi e Indipendenti, esse avranno pieno potere di muovere guerra, di concludere la pace, di stipulare alleanze, di regolare il commercio, e di compiere tutti quegli altri atti che gli Stati Indipendenti possono di diritto compiere. E a sostegno della presente Dichiarazione, con ferma fiducia nella protezione della Divina Provvidenza, noi offriamo reciprocamente in pegno le nostre vite, i nostri averi ed il nostro sacro onore.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nella Dichiarazione si afferma che tutti gli uomini godono di «alcuni Diritti inalienabili»: quali sono e su quale presupposto si fondano? b Per quale scopo sono istituiti i governi
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non solo nella formazione degli Stati Uniti, ma anche nella storia delle democrazie di tutto il mondo. La parte dedicata ai diritti inalienabili dell’uomo (tra cui quello alla «ricerca della felicità») è infatti la prima trasposizione in un documento politico dei princìpi giusnaturalistici e illuministici in tema di rapporto fra Stato e cittadini.
politici e da quale fonte essi traggono la loro legittimazione? c In quali circostanze il popolo ha il diritto di modificare o sostituire i propri governanti?
Modo.
d La Dichiarazione proclama che «le Colonie Unite sono e, devono di diritto essere Stati liberi e indipendenti». Quali conseguenze scaturiscono da questa solenne affermazione sul piano dei rapporti tra le colonie e la madrepatria?
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dove si era concentrato il grosso delle forze britanniche costringendole alla resa nell’ottobre 1781. Con la pace di Versailles del settembre 1783 la Gran Bretagna riconosceva l’indipendenza delle tredici colonie, ma conservava sostanzialmente intatto il resto del suo impero, pur dovendo restituire alla Spagna la Florida (che aveva occupato nel 1763).
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La guerra civile e gli ideali repubblicani PATRIOTI CONTRO LEALISTI La guerra contro la Gran Bretagna fu anche una guerra civile che vide schierati i “patrioti” indipendentisti contro i “lealisti”, fedeli alla Corona britannica o, come anche si disse, i Whigs contro i Tories. Si ritiene che i rivoluzionari fossero il 40% della popolazione e altrettanti i pacifisti (come i quaccheri) e gli indifferenti. I lealisti erano quindi una minoranza, ma molto combattiva. Tra i patrioti erano schierati l’élite dei proprietari di piantagioni del Sud, come i virginiani Washington e Jefferson, grandi e piccoli mercanti, ceti artigiani e agricoltori indipendenti soprattutto nel Nord, e appartenenti alle congregazioni protestanti non anglicane. La contrapposizione con i lealisti tuttavia non era sociale, ma politica e ideologica. Salvo che nella Nuova Inghilterra, dove la maggioranza indipendentista non incontrò molti antagonisti, gli scontri tra le due fazioni furono durissimi e spietati, fino al massacro degli avversari. Alla fine della guerra tra i 60 e i 100 mila coloni lealisti furono costretti all’esilio e le loro proprietà vennero confiscate. Gli esiliati, a cui si aggiunse qualche migliaio di schiavi liberati, si trasferirono in Canada nella regione dell’Ontario, nei Caraibi o tornarono in Gran Bretagna. La radicalità dello scontro rifletteva la diversità delle posizioni ideologiche. La cultura rivoluzionaria era figlia delle tradizioni radicali inglesi, tanto politiche che religiose, dei princìpi del contrattualismo di Locke, ma anche del richiamo alle antiche libertà che risalivano alla Magna Carta. Inoltre, il mito delle virtù repubblicane era contrapposto alla corruzione del dispotismo monarchico. Erano diffusi anche gli ideali della Massoneria [Ź3_3] (peraltro condivisi nello schieramento monarchico) più per la loro capacità aggregante che per gli aspetti dottrinari. Massoni furono alcuni dei leader rivoluzionari, come George Washington, Benjamin Franklin (1706-1790), uomo di scienza e cultura oltre che politico di peso, e Alexander Hamilton (1755-1804), che era stato uno dei più stretti collaboratori di Washington e in seguito fu esponente delle tesi federaliste. GLI ESCLUSI DALLA RIVOLUZIONE
Anche gli schiavi neri (o i neri liberati) e gli indiani nativi furono coinvolti nella guerra. A molti schiavi fu promessa la liberazione da entrambi gli schieramenti in cambio dell’arruolamento. Al Sud, soprattutto in Carolina, molti neri fuggirono approfittando dei disordini della guerra mettendo in grave crisi l’economia delle piantagioni. Le maggiori nazioni indiane si schierarono prevalentemente dalla parte dei britannici, che sembravano poter tutelare meglio le tribù pellerossa dai rischi dell’espansione dei coloni americani nei territori ad ovest degli Appalachi. Purtroppo, i princìpi egualitari, per quanto enunciati nel Preambolo della Dichiarazione di indipendenza, si ritenevano implicitamente limitati ai bianchi americani e non si potevano estendere alle popolazioni native né agli schiavi di
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STORIA IMMAGINE Karl Bodmer, Campo di Indiani Dakota XIX sec. [Joslyn Art Museum, Omaha (Nebraska)] Una immagine senza pregiudizi degli indiani Dakota ci viene restituita dal pittore di origini svizzere Bodmer che, dopo aver compiuto un lungo viaggio tra il 1832 e il 1834 dal Middle West fino alle grandi pianure occidentali, e lungo l’Ontario, lo Yellowstone, il Missouri, realizza una serie di acquerelli in cui rifugge dagli stereotipi diffusi dell’indiano feroce come da quelli, non meno razzisti, del “buon selvaggio”, riuscendo a cogliere senza prevenzioni le caratteristiche di un popolo oramai sopraffatto dai coloni bianchi. Il termine “Dakota” è quello con cui si autodefiniva la popolazione che i nemici indicavano come Sioux e la loro terra d’origine corrispondeva pressappoco all’attuale Minnesota.
colore. Ma questo non deve sorprenderci. Gli indiani pellerossa erano il principale ostacolo all’allargamento verso ovest della colonizzazione e gli schiavi neri erano indispensabili per mantenere efficiente il sistema produttivo degli Stati del Sud. In questo senso gli uni e gli altri possono essere considerati gli sconfitti del grande esperimento politico della rivoluzione americana.
Storiografia 42 G. Abbattista, La rivoluzione e i suoi limiti: gli esclusi, p. 267
La Costituzione e la democrazia 4 americane Parole della storia Costituzione, p. 184
confederazione/ federazione La confederazione è un’associazione di Stati autonomi sancita formalmente, nella quale i soggetti statali aderenti mantengono sostanzialmente le loro prerogative, mentre gli organi di governo della confederazione hanno poteri molto ridotti. La federazione è invece l’unione di più Stati (o regioni) che godono di larga autonomia e possono emanare leggi valide nei loro territori, ma restando fortemente vincolati agli organi di governo centrale della federazione e alle leggi che questi ultimi promulgano.
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LA COSTITUZIONE DEL 1787 Il nuovo organismo politico uscito vittorioso dalla rivoluzione e dalla guerra era privo di un ordinamento istituzionale che superasse i potenziali antagonismi tra i diversi Stati e si presentasse unito sulla scena internazionale. Per risolvere questo problema nel maggio 1787 si aprì a Philadelphia, sotto la presidenza di Washington, una Convenzione costituzionale, ossia un’assemblea dei rappresentanti di tutti i tredici Stati, che in meno di due mesi approvò una Costituzione, destinata a reggere nelle sue linee fondamentali ancora ai nostri giorni e a fungere da modello per molte successive esperienze di regime rappresentativo. Ispirandosi al principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri, la Costituzione dava vita a nuovi organi federali, in grado di esercitare la propria autorità su tutti i cittadini della Confederazione*, che si trasformava così in Unione o Federazione*, acquistando la fisionomia di un vero e proprio Stato unitario. GLI ORGANI FEDERALI Il potere legislativo era esercitato da due Camere. La Camera dei rappresentanti, che aveva competenza per le questioni finanziarie, era eletta in proporzione al numero degli abitanti (un deputato ogni 30 mila). Il Senato, cui spettava il controllo sulla politica estera, era invece composto da due rappresentanti per ogni Stato. Questa soluzione costituiva un compromesso tra le esigenze degli Stati più popolosi e le preoccupazioni degli Stati minori, destinati a essere sacrificati in un sistema di rappresentanza basato esclusivamente sulla consistenza numerica della popolazione. Potevano
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suffragio universale/ suffragio censitario Il termine “suffragio” è generalmente inteso come sinonimo di “voto”. Il suffragio universale è tale quando il diritto di voto è esteso a tutti i membri adulti di una comunità politica. In un primo tempo il suffragio universale fu riservato ai membri maschi adulti, perciò si è parlato a lungo di suffragio “universale maschile”. Il suffragio censitario prevede invece che il diritto di voto sia definito in base al censo – ossia al patrimonio e alla ricchezza posseduta – e al livello di tasse pagate.
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votare, con criteri variabili nei singoli Stati, solo i maschi bianchi dotati di un certo reddito, in base al criterio del suffragio censitario*. Il potere giudiziario – ferma restando l’autonomia in materia dei singoli Stati – veniva posto sotto il controllo di una Corte suprema federale, composta da giudici a vita nominati dal presidente della Repubblica con l’assenso del Senato. Ma la maggiore novità della Costituzione stava nella creazione di un forte potere esecutivo, accentrato nella Ÿ Junius Brutus Stearns, Washington alla Costituzionale del 1787 figura del presidente della Repubblica, Convenzione 1856 [Museo delle Belle Arti della Virginia, eletto ogni quattro anni con voto indi- Richmond] retto, cioè non direttamente da tutti gli aventi diritto, ma da un’assemblea di “grandi elettori” designati dagli Stati. Indipendente dal potere legislativo, il presidente era dotato di poteri amplissimi: tra l’altro deteneva il comando delle forze armate, nominava, oltre ai giudici della Corte suprema, i titolari di molti importanti uffici federali, poteva bloccare col suo veto le leggi approvate dal Congresso – termine con cui si designavano entrambi i rami del legislativo, ovvero la Camera dei rappresentanti e il Senato. Il Congresso poteva però a sua volta mettere in stato d’accusa il presidente e destituirlo se questi si fosse reso colpevole di violazioni della legge. FEDERALISTI E ANTIFEDERALISTI Per entrare in vigore, la Costituzione doveva essere approvata dalle assemblee dei singoli Stati. Fu appunto in questa fase che il dibattito costituzionale si sviluppò in termini più aperti e più vivaci. Favorevoli alla soluzione federalista – ossia al rafforzamento del potere centrale – e quindi all’approvazione della Costituzione erano soprattutto i GLI ORGANI FEDERALI E I POTERI NELLA COSTITUZIONE AMERICANA
POTERE LEGISLATIVO
POTERE ESECUTIVO “veto”
PRESIDENTE DEGLI USA
controlla
POTERE GIUDIZIARIO nomina controlla
nomina
CONGRESSO CAMERA DEI RAPPRESENTANTI
GOVERNO MINISTRI
CORTE SUPREMA
SENATO eleggono
eleggono
eleggono
grandi elettori
CITTADINI DEGLI STATI UNITI
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emendamento Nel diritto l’emendamento è una modifica apportata a un testo di legge o alla Costituzione. Gli emendamenti alla Costituzione americana sono norme che modificano o precisano singoli punti della Carta costituzionale.
Documento 35 I primi dieci emendamenti alla Costituzione degli Stati Uniti, p. 259
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gruppi legati al commercio e alla industria, ma anche i grandi proprietari, e in genere i ceti più conservatori, che speravano di trovare in un esecutivo forte la migliore garanzia contro i rischi di disordine sociale e le tendenze radicali. Le idee antifederaliste avevano invece maggior seguito tra i ceti medio-bassi, in particolare tra i piccoli coltivatori, che temevano di non poter essere sufficientemente rappresentati da un governo centrale, considerato come un possibile strumento in mano alle oligarchie finanziarie e agli affaristi delle città. Le tesi federaliste finirono col prevalere quasi dappertutto: la Costituzione fu approvata da undici Stati su tredici, per essere poi solennemente ratificata dal Congresso continentale nel settembre 1788. Nel febbraio seguente furono tenute le prime elezioni legislative. Un mese dopo, George Washington veniva eletto alla carica di presidente. Le richieste degli antifederalisti ottennero una parziale soddisfazione con l’approvazione da parte del Congresso, tra l’89 e il ’91, di dieci articoli aggiuntivi – o emendamenti* – alla Costituzione, noti come il Bill of Rights americano, che avevano lo scopo di ribadire e di tutelare i diritti naturali di libertà e proprietà dei cittadini e le prerogative dei singoli Stati contro qualsiasi invadenza del potere federale. I DUE PARTITI Il governo federale fu organizzato in dipartimenti, ossia in ministeri. Il dipartimento del Tesoro fu affidato ad Alexander Hamilton, esponente dell’orientamento federalista, che ebbe un ruolo importantissimo nel risanare le dissestate finanze dell’Unione e nel promuovere la riorganizzazione del sistema creditizio attorno a una banca nazionale, la Banca degli Stati Uniti. La politica di Hamilton, che favoriva i ceti commerciali e finanziari del Centro-Nord, suscitò l’opposizione dei proprietari del Sud e dei coloni dell’Ovest, che trovarono un punto di riferimento in Thomas Jefferson, estensore nel ’76 della Dichiarazione di indipendenza. Si formarono così due partiti: il repubblicano-democratico, che faceva capo a Jefferson, e il federalista, che aveva il suo principale leader in Hamilton. L’ESPANSIONE DEGLI STATI DELL’UNIONE L’assestamento delle istituzioni e il definirsi delle divisioni politiche coincisero con l’accelerazione di quella
LE PAROLE DELLA STORIA
Costituzione Quando si parla di Costituzione, si fa riferimento in genere alla “legge fondamentale dello Stato”, cioè al testo legislativo che contiene le norme fondamentali relative all’organizzazione dei poteri dello Stato poste alla base di qualsiasi altra legge. In essa il cittadino trova affermati i suoi doveri e i suoi diritti nei confronti dello Stato. In generale, nell’uso corrente, con il termine “Costituzione” si fa riferimento a una tipologia di Costituzione largamente prevalente: la Costituzione scritta, la Carta costituzionale; tuttavia, benché nell’uso comune Costituzione appaia un sinonimo di Carta costituzionale, ciò non è propriamente corretto. Non tutti gli Stati infatti hanno una Costituzione scritta. L’esempio più significativo in proposito è quello dell’Inghilterra. Quando si parla di “Costituzione inglese” si fa
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infatti riferimento non a uno specifico testo legislativo ma a un complesso di norme che hanno in parte carattere consuetudinario o convenzionale (derivano cioè da consuetudini affermatesi nel corso del tempo) e in parte sono scritte in testi emanati in periodi diversi. Al loro apparire, le Costituzioni scritte rappresentarono una profonda rottura con il passato. Le prime ad entrare in vigore furono quelle emanate dagli Stati nordamericani: nel 1776 in Virginia, nel New Jersey, nel Delaware, nella Pennsylvania, nel Maryland e nel North Carolina; nel 1777 nella Georgia e nello Stato di New York; nel 1778 nel Massachusetts. Nel 1788 la maggioranza degli Stati nordamericani, riuniti alla Convenzione di Philadelphia, ratificò la Costituzione degli Stati Uniti d’America, tuttora in vigore. Nell’ultimo decennio del XVIII secolo videro invece la luce le Costituzioni fran-
cesi del 1791, del 1793 (anno I), del 1795 (anno III) e del 1799 (anno VII). In Italia la prima Costituzione scritta fu quella della Repubblica di Bologna (1796), seguita da quella della Repubblica cispadana (1797) e della Repubblica cisalpina (1797 e 1798), testi legati all’esperienza rivoluzionaria francese, che restarono in vigore solo per breve tempo. Fu nel corso della prima metà dell’800, in concomitanza con la diffusione delle idee liberali e costituzionaliste, che la gran parte degli Stati europei si dotò di carte costituzionali destinate a rimanere a lungo in vigore. Secondo il “costituzionalismo”, sono da considerare costituzionali solo gli Stati che garantiscono la libertà dei cittadini e la divisione dei poteri; in assenza di radicate consuetudini, tale garanzia può essere assicurata solo da un documento scritto, solennemente adottato come legge fondamentale dello Stato.
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espansione territoriale che si era manifestata già durante il periodo coloniale. Con l’Ordinanza del Nord-Ovest emanata nel luglio 1787, le regioni da colonizzare ottenevano la condizione di “territori”, cioè di aree poste sotto la tutela del Congresso statunitense che vi avrebbe inviato giudici e governatori. Contemporaneamente erano incoraggiate a darsi propri organi di autogoverno fino a che, una volta raggiunti i 60 mila abitanti, potessero trasformarsi in Stati dell’Unione. Questo meccanismo fu sperimentato già nell’ultimo decennio del secolo, che vide la nascita di tre nuovi Stati: il Vermont, il Kentucky e il Tennessee [Ź _16]. Il sistema si sarebbe dimostrato valido anche nell’800, e avrebbe contribuito non poco alla formazione di un modello di sviluppo territoriale (ed economico) destinato a caratterizzare la storia degli Stati Uniti per tutto il secolo XIX: un modello “aperto”, capace di conciliare le spinte espansionistiche con la tutela delle autonomie e con la crescita della democrazia.
LO SPAZIO DELLA STORIA
GLI STATI UNITI (1783-1803)
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La cartina mostra lo sviluppo territoriale degli Stati Uniti dopo la pace di Versailles (1783), che pose fine alla guerra d’indipendenza. Ai tredici Stati originari si aggiunsero, entro il 1803, Vermont, Kentucky, Tennessee e Ohio. Sono indicati inoltre i due principali successi militari dei coloni americani.
M. POSSEDIMENTI BRITANNICI
Vt. 1791 N.H.
Saratoga 1777
C. PENNSYLVANIA
sso
Mi
OHIO 1803
R.I.
New York
Philadelphia
Territorio dell’INDIANA 1803 -1805
Boston
M.
NEW YORK
N.J. D.
hi
o
uri
Md. VIRGINIA
O LOUISIANA
pi
Mi ssis sip
Spagna 1783-1800 Francia 1800-1803
Stati nel 1783 Stati ammessi nel 1784-1803 territori nel 1803 Saratoga 1777
TENNESSEE 1796
Territorio a sud del fiume Ohio 1796
NORTH CAROLINA
SOUTH CAROLINA GEORGIA
Territorio del MISSISSIPPI 1798-1804
OCEANO ATLANTICO
battaglie
= Connecticut
D.
= Delaware
M.
= Massachusetts
New Orleans
A RID FLOagna Sp
C.
Yorktown 1781
KENTUCKY 1792
Md. = Maryland N.H. = New Hampshire N.J. = New Jersey R.I. = Rhode Island Vt.
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= Vermont
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U3 L’età delle rivoluzioni
C6La rivoluzione americana RICORDARE L’ESSENZIALE La guerra d’indipendenza delle colonie americane La colonizzazione inglese del Nord America iniziò al principio del ’600 e fu il risultato dell’iniziativa di compagnie commerciali e dell’emigrazione di minoranze politiche e religiose, specie i puritani. Alla metà del ’700 i possedimenti britannici comprendevano tredici colonie, ciascuna con propri assetti economico-produttivi. L’economia delle colonie del Nord si fondava su una vivace attività commerciale e cantieristica; nel Sud prevalevano le piantagioni di tabacco e di cotone lavorate dagli schiavi; nel Centro dominava il latifondo. Tutte le colonie godevano di autonomia politica ed erano dotate di proprie assemblee legislative, ma non avevano alcun diritto di rappresentanza nel Parlamento di Londra. Il contrasto da cui ebbe origine la lotta per l’indipendenza nacque, negli anni ’60 del ’700, in seguito alla decisione della Gran Bretagna di far pagare alle colonie i costi del proprio impero americano, aumentando in maniera unilaterale le tasse. All’introduzione dello Stamp Act (1765), la legge che imponeva l’apposizione del bollo su ogni documento ufficiale, i coloni opposero il principio del “no taxation without representation” (chi non è rappresentato in Parlamento non è tenuto a pagare tasse che non ha contribuito ad approvare). A far precipitare gli eventi fu però la decisione della madrepatria di assegnare alla Compagnia delle Indie Orientali il monopolio della vendi-
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Audiosintesi per paragrafi
ta del tè, cui questa volta i coloni risposero con una eclatante azione di boicottaggio. Nel 1774, dopo dure misure di ritorsione britanniche, la ribellione divenne aperta. Nel 1775 i coloni si armarono e affidarono il comando dell’esercito a George Washington. L’anno successivo, il 4 luglio 1776, il Congresso continentale dei coloni approvò la Dichiarazione di indipendenza che rompeva con la monarchia e dava vita alla repubblica. Nonostante l’inferiorità militare e i gravi problemi finanziari, le colonie riuscirono ad avere il sopravvento sulla Gran Bretagna grazie alla solidarietà dell’opinione pubblica europea e all’intervento in loro favore di Francia e Spagna. Nel 1783 la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza delle tredici colonie, firmando a Parigi la pace di Versailles. Lo scontro fra colonie e Corona britannica si tradusse in una guerra civile fra lealisti, fedeli alla madrepatria, e patrioti, di aspirazioni indipendentiste. Questi ultimi rappresentavano la maggioranza ed erano animati da una salda fede nei princìpi contrattualisti e nel mito delle virtù repubblicane. Purtroppo i princìpi egualitari erano considerati validi soltanto per i maschi bianchi americani: ne erano esclusi gli schiavi neri e i nativi americani. La Costituzione degli Stati Uniti d’America Nel maggio 1787 i rappresentanti dei tredici Stati si riunirono a Filadelfia per
redigere la Costituzione degli Stati Uniti, che dava vita a uno Stato federale. Il sistema politico disegnato dalla Costituzione era di tipo presidenziale, basato sulla divisione e l’equilibrio dei poteri: il presidente della Repubblica era a capo dell’esecutivo, il potere legislativo era esercitato dalla Camera dei rappresentanti e dal Senato, mentre il potere giudiziario era controllato da una Corte suprema. La Costituzione doveva però essere approvata dai singoli Stati dell’Unione: in questa fase si sviluppò un acceso dibattito tra federalisti, favorevoli a un forte potere centrale e portatori degli interessi di commercianti, industriali e grandi proprietari terrieri, e antifederalisti, che esprimevano le esigenze dei ceti medio-bassi e le istanze democratiche e “ruraliste”. Prevalsero le tesi federaliste, pur se mitigate dall’approvazione di dieci emendamenti alla Costituzione. Nel 1789 George Washington fu eletto primo presidente degli Stati Uniti. Il criterio di voto si basava sul suffragio censitario. Negli anni successivi, la politica economica del ministro Hamilton, leader del partito dei federalisti, suscitò l’opposizione dei proprietari del Sud e dei coloni dell’Ovest, che trovarono un punto di riferimento in Thomas Jefferson, leader del Partito repubblicano-democratico. Nell’ultimo decennio del ’700, a seguito dell’accelerazione dell’espansione territoriale verso Ovest, furono istituiti altri tre nuovi Stati.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: La colonizzazione inglese nel Nord America fu possibile grazie: a. Alla concessione da parte della Corona inglese di territori a nobili e mercanti. b. All’iniziativa dei “Padri Pellegrini”, una congregazione di puritani inglesi esuli. c. Alla politica di sterminio perpetrata ai danni delle tribù di pellerossa.
d. All’iniziativa di compagnie commerciali. e. All’immigrazione di minoranze politiche e religiose inglesi ed europee.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Nelle cinque colonie del Sud... a. la situazione economica era simile a quella della Nuova Inghilterra; b. tutta l’economia era incentrata sulle piantagioni e sulla manodopera degli schiavi; c. il clima aveva consentito la coltivazione dei cereali e la costituzione di villaggi rurali.
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2. I pellerossa che vivevano in America... a. opposero una dura resistenza alla penetrazione coloniale nei loro territori; b. contribuirono all’esplorazione del territorio e si allearono con i coloni: c. si convertirono alle religioni dei coloni e andarono a lavorare nei loro campi.
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3. I coloni americani boicottavano le merci provenienti dalla madrepatria perché... a. il basso costo di queste ultime vinceva la concorrenza dei prodotti americani; b. queste erano vendute in regime di monopolio e gravate da tasse e dazi; c. importavano dall’Italia e dalla Spagna prodotti di qualità più elevata. 4. Gli emendamenti alla Costituzione approvati dal Congresso tra il 1789 e il 1791 tutelavano... a. i diritti dei grandi proprietari terrieri del Sud contro le nazionalizzazioni; b. i poteri dello Stato federale dell’Unione nei confronti dei singoli Stati; c. i diritti dei singoli cittadini contro l’ingerenza del governo federale.
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5. Rispetto agli ordinamenti politici europei, quello americano affidava maggiori poteri al ramo... a. esecutivo, il presidente della Repubblica; b. legislativo, la Camera dei rappresentanti e il Senato; c. giudiziario, la Corte suprema federale. 6. Dopo il 1787, i nuovi territori colonizzati poterono trasformarsi in Stati dell’Unione... a. sotto il controllo del Congresso, raggiunti i 60 mila abitanti; b. perché l’Impero britannico ne aveva concesso l’indipendenza; c. alla sola condizione di possedere almeno 600 mila abitanti.
3 Indica le date dei seguenti eventi relativi alla guerra d’indipendenza americana e collocale sulla linea del tempo. a. .................. Durante il primo Congresso continentale dei rappresentanti delle colonie si decise di portare avanti azioni di boicottaggio contro la Gran Bretagna. b. ................. Venne formato il Continental Army, un esercito comune, il cui comando fu affidato a George Washington. c. ............ Venne approvata la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, scritta da Thomas Jefferson.
.................
.................
.................
d. ........... Washington sconfisse per la prima volta i britannici a Saratoga. e. ........... Gli americani con l’assedio a Yorktown, in Virginia, sconfissero le forze britanniche. f. ........... Con la pace di Versailles, la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza delle tredici colonie.
.................
.................
.................
4 Inserisci i seguenti termini nei tre insiemi relativi ai poteri attribuiti agli organi federali; motiva poi le tue scelte in un breve testo. a. Corte suprema federale; b. “grandi elettori”; c. Senato; d. Congresso; e. suffragio censitario; f. presidente della Repubblica; g. Camera dei rappresentanti. 1. Potere esecutivo
2. Potere giudiziario
3. Potere legislativo
5 Scrivi un testo descrittivo sulla 13 colonie americane nel XVIII secolo, articolalo nei seguenti paragrafi: a. La composizione sociale nelle colonie b. Le appartenenze religiose dei coloni
c. I rapporti economici con la madrepatria d. I rapporti politici con la madrepatria
COMPETENZE IN AZIONE 6 Realizza un PPT sui momenti cruciali della nascita degli Usa, utilizzando la seguente scaletta e corredando le slide con le immagini presenti nel capitolo. • La guerra per l’indipendenza • La Costituzione americana • Gli organi federali del governo statunitense.
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C7 La Rivoluzione francese e Napoleone EXTRA ONLINE
Personaggi Robespierre Eventi chiave Austerlitz: la battaglia dei tre imperatori Il Libro G. Lefebvre, La grande paura del 1789
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Storia e Geografia Le rivoluzioni atlantiche
e l’arte • L’École Polytechnique
Storia e Letteratura Guerra e pace di Tolstoj
Focus Un nuovo protagonista: il Terzo Stato • Il controllo rivoluzionario dell’economia: caroviveri e calmieri • La Rivoluzione
Laboratorio dello storico Le immagini come fonti e l’iconografia rivoluzionaria
Lezioni attive Diritti e rivoluzioni. Gli Stati Uniti d’America e la Repubblica francese
La crisi finanziaria e gli Stati generali La Rivoluzione francese trasformò il sistema di potere, i contenuti e i metodi della politica non solo in Francia, ma in tutta l’Europa continentale. Fu una trasformazione radicale, profonda: mescolò sangue e violenza, passioni civili e immaginazione politica. Inventò e propagandò nuovi miti. Nulla nella storia della civiltà occidentale può a maggior titolo rivendicare il nome di rivoluzione.
ź Il clero e la nobiltà sulle spalle del Terzo stato Una polemica rappresentazione della società di antico regime: lo sfruttamento del Terzo stato viene rappresentato dalla contadina, costretta a portare il peso dei due ordini privilegiati, clero e nobiltà.
LE PREMESSE DELLA RIVOLUZIONE La Rivoluzione scoppia nel 1789, ma affonda le sue radici nella lunga crisi attraversata dalla Francia nel ’700. Dalla morte di Luigi XIV (1715), l’assolutismo si era indebolito senza riuscire a riformarsi: monarchia e ceti privilegiati si confrontavano senza che l’uno o gli altri riuscissero a prevalere. La vita politica appariva soffocata, nonostante una vivacità del dibattito culturale e una partecipazione delle élite colte che non avevano eguali nel resto d’Europa. Fra i tanti problemi di governo, uno sembrava riassumerli tutti: l’incapacità di risolvere la crisi finanziaria. L’indebitamento statale aveva raggiunto da tempo dimensioni tali da esigere la tassazione dei ceti privilegiati – clero e nobiltà – che ne erano esenti. Era un passaggio obbligato per la monarchia assoluta, che fin dalle origini aveva fondato i propri poteri sul controllo delle tasse. Ma ciò significava mettere in discussione i fondamenti della società d’ordini, che escludeva l’eguaglianza fiscale. Luigi XVI, al governo dal 1774, ritenne comunque di affidare la soluzione della questione fiscale agli Stati generali, l’assemblea dei tre ordini – clero, nobiltà e Terzo stato –, mai più riunitasi dal 1614. LA SOCIETÀ FRANCESE Su una popolazione totale di 2425 milioni, in Francia, il 98% era formato dal Terzo stato, al quale appartenevano tutti coloro che non erano nobili o ecclesiastici: la grande borghesia dei commerci e della finanza, quella media delle professioni e della cultura, gli artigiani e i lavoratori urbani, i piccoli e medi proprietari terrieri, i contadini e i braccianti. Meno di 400 mila erano invece i nobili (1,5%), mentre il clero contava 130 mila individui (0,5%), divisi fra basso e alto clero (parroci e prelati) e tra secolari e regolari (sacerdoti e appartenenti agli ordini religiosi). La maggior parte della popolazione, almeno 20 milioni di persone, viveva nelle campagne: quella francese, dunque, era la struttura tipica dell’ancien régime. Parigi contava 650 mila abitanti, Marsiglia e Lione 100 mila. Se finanzieri e mercanti – come l’allora direttore generale delle Finanze, Jacques Necker (di origine ginevrina) – erano le figure di maggiore
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prestigio della borghesia, più importanti si riveleranno nelle successive vicende politiche gli uomini di legge, gli avvocati soprattutto, uomini colti, partecipi delle nuove idee dell’Illuminismo. LA MOBILITAZIONE POLITICA E IL PARTITO NAZIONALE La decisione di convocare gli Stati generali per il maggio 1789 determinò una grande mobilitazione politica nel paese. Il tema più controverso era quello del numero dei rappresentanti e del sistema di voto dell’assemblea degli Stati. Non pareva infatti possibile applicare le vecchie regole che attribuivano lo stesso numero di rappresentanti ai tre ordini e stabilivano che ogni ordine esprimesse un unico voto collegiale. In questo modo il Terzo stato non avrebbe visto riconosciuto il peso reale che aveva nella società. Si formò allora un raggruppamento eterogeneo di intellettuali e pubblicisti borghesi, il partito nazionale, nel quale confluirono anche esponenti del clero e della nobiltà. Il partito nazionale era l’espressione dell’opinione pubblica illuminista e liberale, dei suoi strumenti di comunicazione – giornali, pamphlets, circoli, logge (luoghi di riunione) massoniche – e di un programma mirante all’eguaglianza politica e a un governo rappresentativo. Chiedeva inoltre il raddoppio dei rappresentanti del Terzo stato, l’abolizione del voto per ordine e l’introduzione di quello individuale. I CAHIERS DE DOLÉANCES Un’ampia testimonianza delle aspettative e delle ragioni del malessere diffuse nel paese ci viene fornita dai cahiers de doléances (“quaderni di lagnanze”), testi che raccoglievano le rimostranze e le proposte da presentare agli Stati generali. Redatti in seguito alla consultazione promossa dal sovrano per la riunione degli Stati generali, i cahiers furono, insieme con l’elezione dei rappresentanti, il momento più significativo e capillare della mobilitazione politica e l’espressione più estesa del malessere della Francia. In essi era già evidente una radicale divaricazione di obiettivi: mentre tutti e tre gli ordini puntavano alla nascita di istituzioni rappresentative cui affidare le
STORIA IMMAGINE Isidore-Stanislas Helman, L’apertura degli Stati generali il 5 maggio 1789 [acquaforte da un disegno di C. Monnet; Bibliothèque Nationale, Parigi] L’immagine mostra l’assemblea riunita in una sala dell’Hôtel des Menus-Plaisirs du Roi a Versailles (una struttura dedicata all’organizzazione di cerimonie, eventi e feste della corte). In fondo al salone si nota il sontuoso baldacchino dove siede il sovrano con accanto la regina, i principi e le principesse di sangue, i pari e i duchi del Regno; più in basso i ministri e il governo. Al centro della sala, ammassati su dei banchetti siedono i deputati: il clero alla destra del re, la nobiltà a sinistra e, in primo piano, il Terzo stato.
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decisioni in materia fiscale, il Terzo stato sosteneva anche l’eguaglianza giuridica, l’abolizione dei privilegi, difesi ancora dalla nobiltà e dal clero, e l’adozione del criterio del merito come forma di promozione sociale. LA COMPOSIZIONE INTERNA DELL’ASSEMBLEA Quando il 5 maggio 1789 gli Stati generali si riunirono a Versailles, l’assemblea di 1139 membri, eletti a marzo a suffragio maschile censitario, contava 578 deputati del Terzo stato, cui il re Luigi XVI aveva concesso il raddoppio [Ź _2]: per la metà erano uomini di legge, di cui almeno 200 avvocati; 80-100 erano i commercianti,
F
LEGGERE LE FONTI
Cahiers de doléances del Terzo stato da A. Soboul, 1789, l’anno primo della libertà, Episteme, Milano 1975, pp. 120-22; 101-7
Il cahier generale della siniscalchia (circoscrizione) di Nîmes in Linguadoca è un compiuto manifesto politico e programmatico in cui il Terzo stato enuncia i propri obiettivi
riformatori. Obiettivi da realizzare in pieno accordo con il sovrano e, dunque, in un contesto dal quale è ancora assente ogni ipotesi di sovvertimento rivoluzionario.
Il Terzo stato della siniscalchia di Nîmes [...] si affretta a rispondere alle risoluzioni paterne del migliore dei Re [...]. I. Della Costituzione [...] 2. Poiché lo scopo delle leggi è quello di conservare a tutti i cittadini, sotto la protezione e la vigilanza del Monarca, i beni da essi apportati in comune alla società, i deputati terranno sempre presente che le leggi debbono tendere a che gli uomini non perdano mai la libertà di agire, di parlare, di pensare, la proprietà delle loro persone, dei loro beni, del loro onore e della loro vita, infine la tranquillità e la sicurezza e che il massimo della perfezione, per le leggi, è quello di procurare, a coloro che vi sono sottomessi, il massimo della felicità possibile. 3. Tuttavia, [...] Sua Maestà verrà supplicata di continuare a elargire al suo popolo il favore che Ella ha appena promesso di circondarsi dei suoi sudditi e che per questo fine, le leggi saranno, d’ora in avanti, liberamente approvate dalla Nazione negli Stati generali, che in conseguenza di ciò la Nazione sarà periodicamente riunita nella persona dei suoi rappresentanti, in periodi stabiliti e vicini nel tempo. [...] 5. Che nella prossima assemblea degli Stati generali si inizierà a deliberare a testa e non per ordine [...]. II. Degli Stati generali e provinciali 1. [...] Risulta indispensabile per la formazione, la composizione e l’organizzazione degli Stati generali, consultare i diritti degli uomini, gli interessi degli individui e la felicità di tutti, sì che la rappresentanza dei sudditi sia libera, elettiva, uniforme e integrale per tutti i cittadini, per tutte le contrade del regno e per tutti i paesi sottomessi al dominio del Re. 2. I deputati faranno inoltre osservare a Sua Maestà come il Terzo stato, in quanto costituisce l’intiera nazione, dal momento che i primi due ordini ne compongono appena la centesima parte, deve ottenere [...] un numero di rappresentanti maggiormente proporzionale al numero degli individui appartenenti a questo ordine, alla somma dei suoi tributi, all’importanza dei servigi che rende alla Nazione. [...]
Il sistema di vendita degli uffici promosso dalla Corona francese per incrementare le entrate dello Stato.
III. Dell’amministrazione della giustizia I deputati del Terzo stato della siniscalchia recheranno all’assemblea degli Stati generali le seguenti richieste: 1. La preparazione di un nuovo codice civile e penale. 2. Che venga abolita la venalità delle cariche. [...] 11. Che venga mitigato il rigore delle pene e abolita ogni distinzione di supplizio tra le diverse classi di cittadini. [...]
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Con quali termini ed espressioni gli autori del documento denominano la figura del sovrano francese? b A quali fini devono tendere le leggi secondo i rappresentanti del Terzo stato? c Quale istituzione e quali individui sono legittimati ad approvare le leggi?
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d Quale criterio di voto si richiede di adottare per le future decisioni dell’assemblea degli Stati generali? e Per quale ragione gli estensori del documento rivendicano per il Terzo Stato un numero maggiore di rappresentanti all’interno dell’assemblea degli Stati generali? f Quali richieste vengono formulate dai deputati del Terzo stato in materia di amministrazione della giustizia?
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I NUMERI DELLA STORIA
2
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200
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Gli Stati Generali nel 1789
commercianti, mercanti, finanzieri proprietari terrieri uomini di scienza
esponenti liberali della nobiltà esponenti del clero vicini al Terzo stato avvocati
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mercanti e finanzieri, e circa 50 i proprietari terrieri; una trentina erano gli uomini di scienza, fra cui molti medici. Furono eletti nel Terzo stato anche due transfughi dagli altri ordini, l’abate Sieyès e il conte di Mirabeau, esponenti di spicco del partito nazionale. Su 291 rappresentanti del clero i parroci erano la stragrande maggioranza e molti aderivano ai programmi del Terzo stato. Ma anche nell’alto clero non mancavano i fautori del mutamento, come il vescovo di Autun, Talleyrand. I più intransigenti difensori della società d’ordini erano invece i nobili: tuttavia, su 270 un terzo circa erano gli esponenti liberali, fra cui il marchese di La Fayette, reduce della guerra d’indipendenza americana.
1789: l’avvio della Rivoluzione 2 e la fine dell’ancien régime Parole della storia Rivoluzione, p. 192
L’ASSEMBLEA NAZIONALE COSTITUENTE Al momento della seduta inaugurale degli Stati generali a Versailles, il 5 maggio, la maggioranza numerica dei deputati era dunque favorevole a un profondo rinnovamento delle strutture politiche e amministrative. Ma questa maggioranza non era in grado di far valere il proprio peso finché non venisse riconosciuto il voto per testa. L’iniziativa fu presa dal Terzo stato che, con l’appoggio di alcuni membri del basso clero, il 17 giugno si autoproclamò Assemblea nazionale. Il 20, i deputati, trovata chiusa per ordine del re la loro sede, riuniti nella Sala della Pallacorda (un locale adibito a un gioco simile al tennis), giurarono di non sciogliersi prima di aver dato alla Francia una Costituzione. A essi si aggiunse la maggioranza del clero e, dopo qualche giorno, il re dovette cedere e ordinò alla nobiltà e alla minoranza del clero di unirsi al Terzo stato (27 giugno). A questo punto l’antico sistema rappresentativo della società per ceti, gli Stati generali, cessava di esistere e il 9 luglio nasceva l’Assemblea nazionale costituente: era il primo atto formale della Rivoluzione. 14 LUGLIO. LA PRESA DELLA BASTIGLIA
Mentre i primi passi della Rivoluzione negli ordinamenti politici si compivano a Versailles, Parigi era in subbuglio. Il licenziamento di Necker, direttore generale delle Finanze ed elemento moderato del governo, apparve come l’inizio di un tentativo da parte della monarchia – confermato da movimenti di truppe – di rovesciare con le armi i successi del Terzo stato. Voci incontrollate parlavano di un intervento armato contro l’Assemblea costituente. Come risposta a questo allarme, cominciò a formarsi a Parigi una milizia borghese, che avrebbe preso il nome di Guardia nazionale, LO SCOPPIO DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE 1789
5 maggio Apertura Stati generali
aprile
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maggio
20 giugno Giuramento della Pallacorda 17 giugno Il Terzo Stato si proclama Assemblea Nazionale
giugno
9 luglio Assemblea nazionale costituente
luglio
14 luglio Presa della Bastiglia
agosto
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STORIA IMMAGINE Jacques-Louis David, Il giuramento della Pallacorda 1791 [Musée Carnavalet, Parigi] Il 17 giugno 1789 il Terzo stato si autoproclamò Assemblea nazionale e, riunitosi nella Sala della Pallacorda, giurò di non sciogliersi prima di aver dato alla Francia una Carta costituzionale. L’evento, ricordato come il “giuramento della Pallacorda”, è raffigurato in questo celebre dipinto di Jacques-Louis David. Con grande talento, l’artista rappresenta realisticamente i volti dei rappresentanti del popolo sovrapponendoli a corpi statuari, fermati in pose solenni, trasformando in questo modo dei semplici borghesi in eroi della storia.
con lo scopo di contrapporsi alla repressione regia e di tenere sotto controllo le eventuali iniziative popolari. Contemporaneamente strati consistenti di popolo minuto si venivano armando. Il 14 luglio, un corteo popolare, alla ricerca di armi, giunse sotto le mura del castello della Bastiglia, la prigione-fortezza simbolo dell’assolutismo, e dopo alcune ore di scontri la conquistò. Il 14 luglio sarà considerata in seguito la data iniziale della Rivoluzione francese. E in effetti la presa della Bastiglia impresse una svolta agli avvenimenti.
LE PAROLE DELLA STORIA
Rivoluzione Nel linguaggio storico il concetto di rivoluzione ha assunto solo gradatamente il significato corrente di rovesciamento rapido e violento di un precedente assetto politico e sociale. Nel ’500 e ’600 il termine (mutuato dall’astronomia, dove designava il movimento di un corpo celeste e il suo ritorno al punto di partenza, o il compimento di un ciclo temporale) indicava genericamente un mutamento politico. Poté così essere riferito, ad esempio in Inghilterra, tanto agli avvenimenti del periodo di Cromwell che alla restaurazione di Carlo II; veniva impiegato inoltre nell’accezione che diamo oggi all’espressione “colpo di Stato”. Nel definire “rivoluzione” l’espulsione della dinastia Stuart nel 1688-89 e l’ascesa al trono inglese di Guglielmo e Maria, il termine conservava il duplice significato di cambiamento politico e di ritorno (ciclico) alle antiche libertà inglesi. Nel pensiero degli illuministi il concetto cominciò a riflettere idee e aspettative di trasformazione sociale. «Voi avete fiducia nell’ordine attuale della società – scrisse Rousseau nell’Emilio (1762) – senza pensare che questo ordine è soggetto a rivoluzio-
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ni inevitabili [...]. Il grande diventa piccolo, il ricco diventa povero, il monarca diventa suddito [...]. Ci avviciniamo alla situazione di crisi e al secolo delle rivoluzioni». Dopo il 1789 il termine prese il suo significato attuale e assunse, nel vocabolario politico democratico, una valenza fortemente positiva apparendo sempre più come un momento necessario e ineliminabile per lo sviluppo delle istituzioni politiche e per il progresso dell’umanità. Sotto l’influsso del pensiero socialista (e in particolare marxista) la dimensione di necessità della rivoluzione arricchì il termine di contenuti programmatici sul terreno dell’azione politica: obiettivo del socialismo e del comunismo sarà la rivoluzione del proletariato. Contemporaneamente il concetto divenne chiave di lettura privilegiata del mutamento storico. Al leader socialista e storico francese Jean Jaurès (1859-1914) la Rivoluzione francese apparve come la fase preparatoria dell’ascesa del proletariato, perché contribuì a crearne le due premesse essenziali: la democrazia e il capitalismo. Ma segnò soprattutto l’avvento della borghesia. All’interno di questa scala evolutiva la Rivoluzione francese fu considerata una ri-
voluzione borghese, intendendo per borghesia la classe sociale che dà l’avvio al sistema economico capitalistico. Come scrisse lo storico Albert Soboul nel 1962, «la Rivoluzione francese costituisce, con le rivoluzioni inglesi del secolo XVII, il coronamento di una lunga evoluzione economica e sociale che rese la borghesia padrona del mondo». In realtà gli studi storici più recenti hanno smentito la visione di una rivoluzione che realizza il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, e che si caratterizza per una dinamica di lotta di classe. Il ceto politico che prese il potere non fu una borghesia imprenditoriale legata al profitto, e l’evoluzione economica verso il capitalismo fu piuttosto ostacolata che favorita dall’egemonia dei notabili e dallo sviluppo della categoria dei proprietari terrieri (borghesi ma anche contadini) che si appropriarono dei beni nazionali. La radicale trasformazione dei rapporti politici e giuridici realizzata dalla Rivoluzione francese autorizza a parlare piuttosto – per gli anni dall’89 al ’92 e poi dal ’95 al ’99 – di una rivoluzione politica della borghesia dove borghesia è da intendere più come ceto che come classe sociale.
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EVENTI CHIAVE
Il popolo irrompe sulla scena: la presa della Bastiglia
avendo avuto un’educazione militare, era direttore di una lavanderia: diventò poi un generale di Napoleone. Il governatore della Bastiglia Launay fece puntare i cannoni sugli assedianti, assicurando però che avrebbe ordinato di fare fuoco solo in caso di attacco e consentendo ai manifestanti di entrare nel primo cortile della fortezza. Quando la folla, aumentata di numero, cominciò a premere sulle entrate per accedere al secondo cortile della fortezza, Launay ordinò alla guarnigione di sparare. Alcuni manifestanti si ritirarono disordinatamente, altri risposero al fuoco: negli scontri successivi, che durarono quattro ore, rimasero uccisi un centinaio di civili. Quando la milizia cittadina si unì ai manifestanti, portando alcuni cannoni presi agli Invalides, Launay si arrese. La folla penetrò all’interno della fortezza e liberò i sette prigionieri: nessuno di essi era detenuto per motivi politici. Launay, accusato di tradimento, fu riconosciuto dalla folla e massacrato. Il sindaco Flesselles, incolpato di essersi opposto all’armamento del popolo, fu invece ucciso con un colpo di pistola. Decapitati, le loro teste furono infilate su due picche e portate in giro per la città. Il re, messo alle strette, ritirò le truppe dalla regione di Parigi. Il comitato permanente dell’Hôtel de Ville si trasformò in una nuova municipalità, la Comune di Parigi, con sindaco il deputato Bailly, mentre la milizia cittadina fu ribattezzata Guardia nazionale. Negli stessi giorni fu creata anche la coccarda con i colori di Parigi (il blu e il rosso) e quello del re (il bianco): nacque così il tricolore rivoluzionario, che anche Luigi XVI, il 17 luglio, si pose sul cappello, ricevendolo dalle mani di Bailly. Un episodio di importanza secondaria quale fu la presa della Bastiglia costituì, quindi, un punto di non ritorno nello sviluppo della dinamica rivoluzionaria: insieme alla fortezza, cadde anche l’antico regime e si affermò, almeno a livello simbolico e retorico, l’emancipazione del popolo dalla monarchia. Il 15 luglio, per volere della stessa Assemblea nazionale costituente, iniziò la demolizione della Bastiglia. Al posto della fortezza sorse Place de la Bastille: nel 1840 fu inaugurata al suo centro la Colonna di Luglio, un monumento di bronzo alto 50 metri che celebra la caduta di Carlo X e l’inizio della monarchia di Luigi Filippo in seguito alla rivoluzione del luglio 1830. Ancora oggi, la piazza è il luogo di partenza di molte manifestazioni di massa parigine e in essa venivano festeggiate le vittorie elettorali del Partito socialista.
Il 14 luglio 1789, la data della presa della Bastiglia, è convenzionalmente considerato l’inizio della Rivoluzione francese. Il suo anniversario fu celebrato già nel 1790: nel corso dell’800, con il ritorno dei regimi monarchici, la ricorrenza fu prima abolita e poi, nel 1880, dichiarata festa nazionale francese, come è ancora oggi. La fortezza della Bastiglia era stata costruita tra il 1370 e il 1382 nella zona nord-orientale di Parigi, con lo scopo di rafforzare le mura della città e di proteggere la porta di Saint-Antoine. Fin dal XV secolo, essa era stata utilizzata anche come prigione e luogo di tortura per i condannati a morte. Divenuta, con Luigi XIV, prigione di Stato, fu sempre più identificata con il dispotismo dei sovrani: ai tempi di Luigi XV, infatti, vi furono rinchiusi numerosi illuministi e giornalisti, tra cui Voltaire e il marchese De Sade. I prigionieri vi venivano tradotti in seguito all’emanazione di un ordine diretto e inappellabile firmato dal sovrano (la lettre de cachet, confermata dal suo sigillo, cachet) che escludeva sia il processo sia la possibilità di difendersi e che prevedeva una detenzione dalla durata indefinita. Nonostante il progressivo allentamento del rigore con cui erano trattati i reclusi, la prigione continuò a essere molto impopolare tra i parigini, anche perché i cannoni presenti sulle feritoie delle sue torri erano continuamente diretti contro la città, pronti a reprimere eventuali insurrezioni: la sua demolizione figurava quindi tra le richieste dei cahiers de doléances. A causa degli alti costi di mantenimento, nel 1789 la Bastiglia era tuttavia caduta in disuso e solo sette prigionieri vi erano ancora reclusi. Nei primi giorni di luglio 1789 la situazione a Parigi, era molto tesa per il timore di un’imminente svolta reazionaria da parte monarchica. Luigi XVI, infatti, aveva fatto concentrare nella regione di Parigi circa 30 mila soldati stranieri. La città cominciò allora ad essere attraversata da numerosi cortei, si verificarono diversi scontri tra la folla e i soldati, e alcuni parigini cominciarono a costruire barricate e a cercare armi, temendo una reazione delle truppe regie. Mentre la situazione si faceva sempre più caotica, alcuni elettori che avevano partecipato alla designazione degli Stati generali, riuniti presso l’Hôtel de Ville (il municipio cittadino), formarono un comitato permanente che amministrasse la città, presieduto dal prévôt des marchands (il “prevosto dei mercanti”, cioè il sindaco di Parigi) Jacques de Flesselles, e organizzarono una milizia cittadina. Quando, la mattina del 14 luglio, un gruppo di parigini si diresse verso la Bastiglia, lo fece non perché volesse attaccare la fortezza, che sembrava impenetrabile, e liberare i pochi prigionieri, ma per chiedere al governatore di distribuire armi, munizioni e polvere da sparo. I manifestanti eraCampo no essenzialmente artigiani, spesso disoccupati, Hôtel des di Invalides Marte ma anche borghesi e soldati: le masse popolari urbane irruppero così sulla scena politica. Alla loro testa c’era Pierre-Augustin Hulin che, pur
1
Maneggio
Giacobini Temple
Tuileries
Louvre Châtelet
2
1
Place de la Révolution dal 1795 Place de la Concorde
2
Place de Grève
Hôtel de Ville
Notre-Dame Bastiglia Cordiglieri
Luxembourg
Ź Parigi durante la rivoluzione Nella pianta di Parigi sono messi in evidenza i luoghi e gli edifici più rappresentativi della lotta politica rivoluzionaria, dalla Bastiglia (che verrà presto distrutta) al club dei giacobini, dall’Hôtel de Ville (la sede del comune) alle Tuileries e alla Place de la Révolution (già intitolata a Luigi XV e ribattezzata Place de la Concorde dal Direttorio).
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Panthéon
Hôpital de la Salpêtrière
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LE CAUSE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE
Crisi economicofinanziaria
Mancate riforme
Rivendicazioni del Terzo stato
Luigi XVI vuole tassare i ceti privilegiati
Partito nazionale
Abolizione dei privilegi
Il popolo di Parigi insorge per difendere l’Assemblea
Opposizione di clero e nobiltà
Eguaglianza politica e governo rappresentativo
Cahiers de doléances
CONVOCAZIONE STATI GENERALI
Nascita dell’Assemblea nazionale costituente
PRESA DELLA BASTIGLIA
Il popolo parigino irrompeva prepotentemente sulla scena e da allora l’avrebbe dominata per anni costringendo tutte le forze politiche a misurarsi con questa decisiva presenza, con il suo protagonismo e con la sua spesso imprevedibile e incontrollabile violenza. Un “popolo” composto soprattutto da piccoli commercianti e artigiani, per oltre due terzi alfabetizzati, da lavoranti e manovali, da impiegati e da qualche professionista. Il 17 luglio Luigi XVI riconosceva la costituzione di una nuova municipalità nel Comune di Parigi. In pochi giorni, una serie di atti rivoluzionari – la formazione dell’Assemblea nazionale costituente, l’organizzazione della milizia borghese, l’instaurazione di nuove rappresentanze municipali (che, iniziata a Parigi con il riconoscimento del re, si estese a tutte le province) – testimoniava la nascita di nuovi poteri e il progressivo sgretolamento dell’ancien régime. L’ABOLIZIONE DEL FEUDALESIMO Nella seconda metà di luglio una sollevazione delle campagne determinò un’ulteriore accelerazione del processo. La difficile situazione economica e l’improvviso diffondersi di un panico collettivo – la “grande paura” –, legato a voci di supposte scorrerie di briganti e di congiure aristocratiche, fecero esplodere una violenta rivolta antifeudale. Furono assaliti e devastati i castelli, incendiati gli archivi dei signori, dove era conservata la documentazione dello sfruttamento feudale. Sospinta da questi avvenimenti, in un’atmosfera di entusiastica volontà distruttiva del passato, l’Assemblea, nella notte del 4 agosto, approvò l’abolizione del regime feudale. Nei giorni seguenti questa decisione fu tradotta in decreti che sopprimevano tutti i privilegi giuridici e fiscali, la venalità delle cariche e la decima ecclesiastica. LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO Il 26 agosto fu discussa e approvata dall’Assemblea la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, il documento più celebre della Rivoluzione, destinato a divenire un punto
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Documento 37 Diritti e doveri a confronto le Dichiarazioni del 1789 e del 1793, p. 261 Storiografia 38 A. Trampus, I rivoluzionari e la felicità pubblica, p. 262
titolo di Stato Il titolo di Stato viene emesso per far fronte al debito nazionale. Acquistando un titolo di Stato si presta denaro allo Stato. In cambio del prestito, lo Stato s’impegna a pagare uno specifico tasso d’interesse. deficit pubblico Il deficit o disavanzo pubblico si crea quando, nel bilancio dello Stato, l’ammontare della spesa pubblica non è coperto dalle entrate.
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di riferimento per tutti i regimi liberali e democratici del mondo contemporaneo. Espressione delle idee giusnaturaliste e illuministe, la Dichiarazione rivendicava i princìpi fondamentali della libertà e dell’uguaglianza – «Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (art. 1) – e indicava come obiettivo «la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione» (art. 2). Dichiarava inoltre che la legge è «l’espressione della volontà generale» e che «tutti i cittadini hanno diritto di concorrere [...] alla sua formazione». Affermando i princìpi dell’uguaglianza di fronte alla legge e della partecipazione dei cittadini alla vita politica senza distinzione di ceto, la Dichiarazione decretò il rovesciamento dell’ancien régime. LUIGI XVI E LA RIVOLUZIONE Il re non appariva tuttavia disposto ad accettare queste decisioni. A rompere una preoccupante situazione di stallo fu l’iniziativa di gruppi di popolane parigine, donne dei mercati e pescivendole, che, dopo essersi armate, marciarono verso Versailles seguite dalla Guardia nazionale al comando di La Fayette. Sventato un attacco della folla contro la reggia, il sovrano si piegò a firmare i decreti antifeudali e acconsentì a trasferirsi a Parigi nel palazzo delle Tuileries. Un corteo formato dal re e dalla sua famiglia, dai deputati dell’Assemblea, dal popolo parigino, dalla Guardia nazionale marciò verso Parigi in un’apparente concordia. In realtà, la monarchia era ormai incapace di affrontare gli eventi e di puntare a una soluzione all’inglese (istituendo una monarchia di tipo costituzionale): Luigi XVI non aveva le capacità politiche, né la mentalità, né il temperamento per accettare il nuovo regime e quindi venire a patti con la Rivoluzione. LA REQUISIZIONE E LA VENDITA DEI BENI ECCLESIASTICI Le ultime spallate alla struttura dell’ancien régime, attuate tra la fine dell’89 e l’inizio del ’90, furono la requisizione dei beni ecclesiastici e la soppressione degli ordini religiosi, salvo quelli dediti all’insegnamento e all’assistenza ospedaliera. Proprietà terriere, edifici urbani e rurali divennero beni nazionali e servirono come garanzia per l’emissione di nuovi titoli di Stato*, gli assegnati. La vendita all’asta dei beni nazionali, pagabili con gli assegnati, avrebbe sanato il deficit pubblico*. Il
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 3
Anonimo “A Versailles!”, 5 octobre 1789 [Musée Carnavalet, Paris] Il 5 ottobre 1789, quando molte donne dei mercati centrali si recarono prima al Municipio per chiedere pane e per cercare armi e poi decisero di marciare su Versailles per esporre le proprie richieste direttamente al re e all’Assemblea nazionale. Alle donne si unirono 20 mila guardie nazionali parigine. L’arrivo di questa folla convinse il re ad approvare i decreti del 4 agosto e la Dichiarazione dei diritti.
GUIDA ALLA LETTURA a Osserva con attenzione l’illustrazione e rispondi alle seguenti domande: a. Chi sono i soggetti rappresentati? b. A quale stato appartengono? c. Cosa fanno? d. Da cosa lo capisci?
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b Rispondi alla seguente domanda: Perché, secondo te, questo momento della Rivoluzione viene ritenuto così importante da essere rappresentato in una stampa (e quindi destinato ad essere venduto e diffuso)?
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gigantesco passaggio di proprietà, realizzato a partire dal 1790, interessò dal 6 al 10% del territorio nazionale. In molte regioni nel Nord e nel Mezzogiorno, percentuali consistenti di beni furono acquistate dai contadini più agiati; in altre, soprattutto vicino alle città, prevalse la borghesia urbana. La vendita dei beni nazionali creò nuovi ceti proprietari, contadini e borghesi, o rafforzò quelli già esistenti, legando tutti saldamente ai destini della Rivoluzione. Cessarono infine le discriminazioni nei confronti dei protestanti, ai quali, nel dicembre 1789, furono riconosciuti i diritti civili. Tale riconoscimento fu esteso agli ebrei tra il ’90 e il ’91. L’abolizione della schiavitù nelle colonie sarà invece decretata solo nel febbraio 1794.
3
Le quattro fasi della Rivoluzione Nonostante la straordinaria densità di eventi che segnarono il periodo tra il 1789 e il 1790 appena descritto, le vicende della Rivoluzione francese furono, negli anni seguenti, non solo numerose ma anche complesse e intricate. Per essere meglio comprese, possono suddividersi in quattro fasi.
ź Nicolas Henri Jeaurat de Bertry, Allegoria della Rivoluzione francese 1794 [Musée Carnavalet, Parigi] L’immagine raccoglie molti dei simboli che caratterizzarono la Rivoluzione francese: tra i tanti, il berretto frigio, la bandiera tricolore, l’albero della libertà, il gallo; in alto svetta il ritratto del filosofo Jean-Jacques Rousseau.
DALLA RIVOLUZIONE LIBERALE AL DIRETTORIO La prima fase, la rivoluzione liberale, coincide con gli avvenimenti accaduti tra la convocazione degli Stati generali, nel 1789, e la Costituzione del 1791, e sancisce il rovesciamento dell’ancien régime e la nascita di un sistema costituzionale e rappresentativo [Ź7_4]. In questa fase si raccolgono i risultati più duraturi della Rivoluzione. La seconda fase, quella della rivoluzione popolare e democratica, va dal settembre 1791 alla fine del 1793, ed è segnata dal protagonismo del popolo parigino, dall’inizio della guerra contro le potenze avverse alla Francia rivoluzionaria, dalla condanna a morte del re, e infine dal trasferimento di tutti i poteri al Comitato di salute pubblica giacobino [Ź7_5]. La terza fase è quella della dittatura giacobina e della nascita di una “democrazia totalitaria” guidata da Robespierre, tra il 1793 e il 1794, che instaura il sistema del Terrore volto a eliminare tutti gli avversari politici. Solo un colpo di Stato della residua parte moderata, che vedeva la Rivoluzione divorare sé stessa, riesce a porre termine alla dittatura giacobina [Ź7_6]. Chiude questo processo, prima dell’avvento di Napoleone, la fase dominata dal Direttorio, che, dopo gli eccessi del giacobinismo, riporta la Repubblica francese a posizioni più moderate: è la fase della continuità rivoluzionaria e della stabilizzazione difensiva sia dai rischi della controrivoluzione che dalla ripresa del radicalismo di sinistra. In questo periodo, tra il 1794 e il 1797, assumono sempre maggior peso i generali comandanti delle vittoriose campagne militari in Europa [Ź7_7]. RIVOLUZIONE E INSTABILITÀ Per il suo stesso carattere di trasformazione rapida e improvvisa, la Rivoluzione è sinonimo di instabilità: data la difficoltà di trasformare i suoi risultati in un sistema di poteri legittimi e accettati, essa appare agli attori principali sempre incompiuta o tradita. Questo spiega l’asprezza della lotta tra i diversi schieramenti politici rivoluzionari, di cui si leggerà nel capitolo, le continue varianti del sistema di governo e lo sbocco finale nel dispotismo di Napoleone, che trova la sua forza e la sua legittimazione non sul terreno della politica, ma nel controllo delle forze armate e nei successi militari.
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La rivoluzione liberale e borghese (1789-91) PARTECIPAZIONE E CONSENSO Il rovesciamento dell’ancien régime suscitò entusiasmi e aspettative in tutta la Francia. Le nuove municipalità e la Guardia nazionale furono i più importanti organismi di aggregazione e di partecipazione. In diverse zone del paese guardie nazionali cominciarono a federarsi per la difesa degli obiettivi rivoluzionari. Sotto la spinta di iniziative periferiche fu organizzata e celebrata a Parigi, il 14 luglio 1790, anniversario della presa della Bastiglia, la grandiosa Festa della federazione. Con un rituale dai forti contorni religiosi, di fronte a 300 mila partecipanti, La Fayette, a nome dei federati, prestò il giuramento che univa «i francesi tra loro e i francesi con il re per difendere la libertà, la costituzione e la legge». Poi il re giurò fedeltà alla nazione tra l’entusiasmo generale. Ma si trattava di un consenso provvisorio: gli aspetti celebrativi mascheravano un’unanimità fittizia e precaria. In realtà le differenze di orientamento politico erano profonde e già pienamente visibili e manifeste, come si evince prendendo in esame i due principali canali di mobilitazione e di propaganda: la stampa e i club. GIORNALI E CLUB POLITICI La libertà di stampa (art. 11 della Dichiarazione dei diritti) aveva favorito il proliferare di numerosissimi giornali di ogni tendenza (democratica, moderata, controrivoluzionaria) e la costituzione di diversi club aveva contribuito all’organizzazione dei vari gruppi politici: la Società dell’89, per esempio, era di tendenze moderate, mentre posizioni radicali aveva il club dei cordiglieri (dal nome dell’ex convento dei frati minori, cordeliers, dove si riuniva). A quest’ultimo aderivano alcuni dei futuri protagonisti delle fasi più accese della Rivoluzione: Georges-Jacques Danton (1759-1794) e Camille Desmoulins (1760-1794), entrambi avvocati, il medico JeanPaul Marat (1743-1793), il giornalista Jacques-René Hébert (1757-1794). Il club più importante, però, si rivelerà quello dei giacobini (dal nome dell’ex
STORIA IMMAGINE Isidore Stanislas Helman, La Festa della federazione al Champ de Mars a Parigi il 14 luglio 1790 1790 [acquaforte da un disegno di C. Monnet; Bibliothèque Nationale, Parigi] La Festa della federazione si svolse a Parigi il 14 luglio 1790, nel cosiddetto “Champ de Mars”, uno spazio all’epoca fuori dai confini cittadini usato per le manovre militari; nello stesso luogo oggi si trova il giardino pubblico dove sorge la Torre Eiffel. Alla presenza di una folla immensa, della Guardia nazionale parigina e delle milizie arrivate da tutta la Francia, Charles-Maurice de TalleyrandPérigord, vescovo di Autun e deputato per il clero negli
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Stati generali, celebrò una messa sull’altare della nazione. Prima il generale La Fayette, poi Luigi XVI, giurarono fedeltà alla nazione. A questa giornata
di celebrazioni ufficiali fecero seguito altre quattro di festa popolare. Ancora oggi il 14 luglio la Francia celebra la propria giornata nazionale.
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Storiografia 39 F. Furet, Il club dei giacobini, p. 263
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convento domenicano di San Giacomo). Organizzati secondo una rigida disciplina, i giacobini, con 450 società affiliate, erano dotati di una presenza capillare nel paese che per certi aspetti prefigurava quella dei moderni partiti politici. Fra i membri di maggiore spicco dei giacobini erano Maximilien Robespierre (1758-1794), avvocato originario di Arras e presidente del club dal marzo 1790, e Jacques-Pierre Brissot (1754-1793), anch’egli avvocato, futuro leader della fazione dei girondini. Intorno ai giornali e ai club nasceva un nuovo ceto politico per gran parte giovane (poco più che trentenne) e di formazione giuridica, grandi oratori, giornalisti dalla penna graffiante. Ma nessuno dei personaggi ricordati qui sarebbe sopravvissuto alle fasi più drammatiche della Rivoluzione. IL SISTEMA ELETTORALE CENSITARIO Uno dei temi più controversi fu poi il criterio per definire il corpo elettorale. I cittadini furono distinti in attivi e passivi in base al censo (cioè al reddito, alla ricchezza). Soltanto quanti pagassero un’imposta annua pari a tre giornate di lavoro erano considerati cittadini attivi ed elettori: erano oltre 4 milioni di cittadini maschi di età superiore ai 25 anni. Ma non tutti gli elettori erano anche eleggibili: infatti, per essere eletti era necessario possedere una qualsiasi proprietà fondiaria e pagare almeno un marco d’argento (pari a 52 lire francesi) di tasse. Questo sistema elettorale censitario – analogo a quelli esistenti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – riservava ai notabili la rappresentanza della nazione, ma era in contrasto con la mobilitazione di larghi strati popolari, soprattutto urbani, in parte relegati nella categoria dei cittadini passivi, privati dei diritti politici ed esclusi anche dalla Guardia nazionale (almeno 3 milioni). Il nuovo sistema politico si prefigurava come un regime di borghesi benestanti e di proprietari terrieri, designati appunto con il termine “notabili”: in questo senso possiamo parlare di rivoluzione borghese.
ź Come far prestare giuramento a vescovi e sacerdoti aristocratici in presenza dei rappresentanti delle municipalità a seguito del decreto dell’Assemblea nazionale 1791 [Bibliothèque Nationale, Parigi]
IL PARTITO DI CORTE E GLI EMIGRATI Proprio questa connotazione borghese e rappresentativa rendeva sempre più evidente il contrasto con la monarchia assoluta di diritto divino. Luigi XVI continuava a subire passivamente la Rivoluzione. Era inoltre sempre più legato al “partito” della regina Maria Antonietta (figlia di Maria Teresa d’Austria), decisa controrivoluzionaria, e alla consistente emigrazione nobiliare che si andava organizzando all’estero in previsione di un ritorno al passato, se necessario con l’aiuto delle grandi potenze europee. Del resto in varie parti della Francia si erano già avuti episodi di ribellione antirivoluzionaria che potevano far intravedere soluzioni favorevoli a una restaurazione e davano fondamento ai diffusi timori popolari di un complotto aristocratico. LA POLITICA ECCLESIASTICA Un altro elemento di instabilità era legato alla politica ecclesiastica. Dopo la requisizione dei beni della Chiesa, spettava allo Stato il mantenimento dei membri del clero, equiparati ai funzionari pubblici dalla Costituzione civile del clero, votata nel luglio 1790. La legge attribuiva la nomina dei vescovi e dei parroci alle assemblee elettorali locali e, come tutti gli altri funzionari, anche gli ecclesiastici furono obbligati a giurare fedeltà alla nazione, al re e alla Costituzione civile. Questa radicale modifica dell’organizzazione ecclesiastica fu, come era prevedibile, condannata da papa Pio VI (1775-99). Solo sette vescovi
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GLI ATTI DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE
FINE DELL’ANTICO REGIME
RIFORME AMMINISTRATIVE
Abolizione feudalità
Istituzione di 83 dipartimenti
DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL’UOMO E DEL CITTADINO
Requisizione e vendita beni ecclesiastici
Costituzione civile del clero
Norme anticorporative di ispirazione liberista
LA COSTITUZIONE DEL ‘91
Suffragio censitario
Separazione dei poteri
Potere legislativo a un Parlamento monocamerale
Potere giudiziario a giudici elettivi
Potere esecutivo al re
su 130 prestarono il giuramento, mentre il basso clero, il più vicino al popolo minuto, si divise a metà tra favorevoli, costituzionali, e contrari, refrattari, alla Costituzione civile. La gravissima frattura che si era aperta nella Chiesa di Francia ebbe come conseguenza lo schierarsi di una parte consistente e progressivamente maggioritaria del clero tra le file della controrivoluzione. LE RIFORME AMMINISTRATIVE Nello stesso arco di tempo, fra il ’90 e il ’91, l’Assemblea costituente proseguì nella grande opera di edificazione delle nuove strutture amministrative. La Francia fu suddivisa in 83 dipartimenti, e i dipartimenti in circondari, geograficamente omogenei per consentire di recarsi e tornare in giornata dal centro amministrativo più vicino. Fu instaurato un compiuto decentramento che rovesciava il sistema accentrato voluto dalla monarchia assoluta e realizzato dagli intendenti [Ź2_1]. Parigi fu divisa in 48 sezioni (o circoscrizioni) che corrispondevano ad altrettante assemblee elettorali. L’Assemblea nazionale costituente, ispirata da princìpi liberisti e anticorporativi, non solo soppresse tutte le corporazioni di mestiere, ma vietò altresì le coalizioni operaie e gli scioperi, favorendo il mercato libero della manodopera. LA COSTITUZIONE DEL 1791 E IL TENTATIVO DI FUGA DEL RE Il regime politico che si veniva definendo era un regime liberale, fondato sulla separazione dei poteri. I giudici divennero elettivi. Fu previsto un Parlamento composto da una sola Camera, l’Assemblea legislativa, della durata di due anni. I ministri, di nomina regia, erano responsabili solo di fronte al sovrano e non potevano essere membri dell’Assemblea. Il re aveva facoltà di opporre un veto sospensivo alle leggi votate dall’Assemblea: solo dopo la conferma in due successive legislature, tali leggi sarebbero diventate esecutive. Il sistema previsto dalla Costituzione del ’91, approvata il 3 settembre, era stato congegnato in modo da richiedere, per un suo corretto funzionamento, uno stabile accordo tra il potere
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esecutivo e quello legislativo, tra il sovrano e l’Assemblea. Ma l’equilibrata attuazione di una monarchia costituzionale fu spazzata via dalla fuga del re, della regina e della loro famiglia da Parigi, il 20-21 giugno 1791. Con questa decisione Luigi XVI si schierava dalla parte degli emigrati aristocratici e della controrivoluzione. Il disegno era quello di guidare dall’estero una restaurazione armata della vecchia Francia. Riconosciuto e arrestato a Varennes, dopo una fuga di circa 250 km a est verso la Lorena, il re fu ricondotto a Parigi, insieme con la sua famiglia, fra due ali di guardie nazionali e di popolo ostile. Era un colpo mortale alla monarchia, la cui sopravvivenza era legata alla capacità di rappresentare l’unità della nazione francese. Ormai si era aperta un’alternativa repubblicana mentre la soluzione liberale e moderata sarebbe divenuta rapidamente impraticabile.
La rivoluzione popolare 5 e democratica (1789-91) DALL’ASSEMBLEA LEGISLATIVA ALLA CONVENZIONE NAZIONALE In un anno, tra l’elezione dell’Assemblea legislativa a suffragio ristretto, tenutasi nel settembre 1791, e quella a suffragio universale della Convenzione (la nuova assemblea), tenutasi nel settembre 1792, si assiste in Francia a una svolta egualitaria e democratica. L’Assemblea legislativa aveva visto una maggioranza di deputati moderati e costituzionali e una minoranza di radicali, i giacobini, tra i quali erano anche i girondini (per l’origine di molti deputati dal dipartimento della Gironda, quello della città portuale di Bordeaux). Nella Convenzione I NUMERI DELLA STORIA 3 si confrontarono invece due schieramenti, entrambi provenienti dai giacobini: i girondini, collocati a La composizione della Assemblea legislativa e della Convenzione nazionale destra*, e i montagnardi, collocati alla sinistra* alta dell’assemblea (la Montagna). Questi ultimi erano composti dai giacobini radicali di Robespierre e dagli ex cordiglieri. I moderati, posti al centro*, erano il deputati costituzionali gruppo più numeroso ma meno omogeneo, designato 345 col nome di “Palude” [Ź _3]. La Convenzione era stata eletta dalla sola Francia rivoluzionaria. Nonostante deputati iscritti il suffragio universale maschile (le donne rimarranno al club dei foglianti deputati iscritti ancora a lungo escluse dai diritti politici), aveva votato (moderati) 264 al club dei giacobini 136 infatti soltanto un decimo circa degli oltre 7 milioni di elettori. Assemblea 1792: 745 uomini nuovi (costituenti non rieleggibili) LA MOBILITAZIONE DEL POPOLO PARIGINO E LA DEPOSIZIONE DEL RE Un mese prima delle elezioni per “Palude” o “Pianura” 389
200 montagnardi
160 girondini
Convenzione settembre 1792: 749 deputati
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la Convenzione, il 10 agosto, i sanculotti, i popolani rivoluzionari di Parigi, così chiamati perché non portavano (sans, “senza”) i calzoni fino al ginocchio (culottes) degli aristocratici e dei ricchi borghesi, ma i calzoni lunghi, diedero l’assalto alla Reggia delle Tuileries con l’obiettivo di deporre un re traditore, pronto ad allearsi con i nemici della Francia. Il palazzo era stato abbandonato dalla Guardia nazionale e rimaneva difeso solo dai mercenari svizzeri e da alcuni nobili.
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sinistra, centro, destra Con questi termini vengono oggi comunemente divise le forze politiche che fanno appello rispettivamente a princìpi progressisti, “sinistra”, moderati, “centro”, e conservatori, “destra”: le definizioni rispecchiano la posizione dei seggi dei parlamentari dal punto di vista del presidente dell’assemblea. I termini ebbero origine, con un significato solo in parte simile a quello attuale, all’interno dell’Assemblea legislativa: a sinistra, infatti, c’erano i seggi dei giacobini (che comprendevano i girondini); sempre a sinistra, ma in alto, erano collocati i montagnardi, i più radicali; al centro sedevano i deputati moderati o privi di una collocazione precisa, la cosiddetta “Palude”, pronta a unirsi ai vincitori; a destra stavano gli elementi conservatori. ghigliottina La ghigliottina è una macchina per le esecuzioni capitali costituita da due travi verticali, unite da una terza trasversale, alla quale è assicurata una lama che, fatta cadere azionando una leva, stacca dal busto la testa del condannato. Prende il nome dal medico J.-I. Guillotin che la ideò e avanzò la proposta di adottarla all’Assemblea nazionale già nel 1789; entrò ufficialmente in uso, per decreto dell’Assemblea legislativa, il 20 marzo 1792. La ghigliottina è stata impiegata in Francia, dove la pena di morte è stata abolita nel 1981, fino al 1977.
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Un primo assalto fu respinto da una nutrita scarica di fucileria, ma dopo un rinnovato attacco il re fece ordinare il cessate il fuoco. Molti svizzeri furono massacrati dagli insorti, che avevano lasciato sul terreno 376 fra morti e feriti. L’Assemblea legislativa, presso la quale si era rifugiato il re, decretò la sospensione del sovrano dalle proprie funzioni e Luigi XVI fu arrestato insieme ai suoi familiari. LA GUERRA E LA VITTORIA DI VALMY Nel frattempo (aprile 1792) era scoppiato il conflitto con le potenze ostili alla Francia rivoluzionaria: Austria, Prussia e poi anche Gran Bretagna. Da quel momento la guerra avrebbe condizionato in misura decisiva lo sviluppo degli avvenimenti insieme ai ripetuti tentativi controrivoluzionari in alcune regioni tradizionaliste e cattoliche, ma anche nella capitale. Poco più di un mese dopo l’arresto del re, il 20 settembre 1792 le truppe francesi, innervate dai volontari, batterono i prussiani a Valmy. Per la prima volta un popolo in armi [Ź7_8] sconfiggeva una grande potenza e dimostrava che anche sul campo di battaglia la Rivoluzione poteva rovesciare l’ancien régime. La vittoria però fu più importante per il suo significato simbolico che per quello militare. LA CADUTA DELLA MONARCHIA Il giorno dopo Valmy, il 21 settembre 1792, la Convenzione dichiarò l’abolizione della monarchia e proclamò la Repubblica. Luigi XVI fu messo sotto processo. Sul destino del re e sul ruolo da attribuire al movimento dei sanculotti e al Comune insurrezionale di Parigi che li rappresentava si aprì un duro contrasto tra montagnardi e girondini. Le differenze tra i due gruppi erano di natura strettamente politica e ideologica: disposti al compromesso i girondini, radicalmente intransigenti i montagnardi. Il re fu giudicato colpevole quasi all’unanimità, ma la richiesta dei girondini di appellarsi al popolo per una conferma della condanna venne respinta. Il 21 gennaio 1793 il re fu decapitato. La ghigliottina* si ergeva di fronte Ÿ Jacques Bertaux, al Palazzo Reale delle Tuileries, sulla piazza Assalto al Palazzo delle Tuileries [Musée National du Château, ormai denominata Piazza della Rivoluzione. 1793 Versailles] Il monarca di diritto divino venne giustiziato come un uomo qualunque: tutta una parte della storia di Francia e d’Europa fu cancellata dalla lama pesante di quella ghigliottina. L’ALLARGAMENTO DEL CONFLITTO E LE RIVOLTE Nel febbraio 1793, sul fronte esterno, il conflitto si allargava e le potenze coalizzate contro la Francia crescevano di numero: Austria, Prussia, Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Stati italiani. La Repubblica otteneva successi militari e annessioni territoriali (Savoia, Belgio, Renania), ma nel marzo una grande rivolta contadina esplose in Vandea (una regione dell’Ovest, a sud della Loira) e nei dipartimenti vicini [Ź _17]. L’insurrezione, appoggiata dai nobili e dai preti refrattari, fu alimentata soprattutto dall’opposizione e dall’estraneità di una parte del mondo rurale alla Rivoluzione.
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STORIA IMMAGINE Jean-François Hue, L’incendio di Granville nel 1793 1800 [Museo storico della Vandea, Les Lucs-sur-Boulogne] Nel bilancio del Terrore vanno annoverate anche le vittime delle durissime repressioni di massa nelle regioni insorte: nella Vandea cattolica la questione della coscrizione militare fece esplodere l’insoddisfazione che nel 1793 si trasformò in insurrezione. Il dipinto mostra l’incendio della città di Granville, assediata vanamente da parte dei vandeani che furono sconfitti e messi in fuga dall’esercito repubblicano.
LO SPAZIO DELLA STORIA
IL COMITATO DI SALUTE PUBBLICA: ROBESPIERRE AL POTERE Dall’aprile del 1793 il governo effettivo del paese passò nelle mani di un nuovo organismo, il Comitato di salute pubblica, composto da nove membri scelti dalla Convenzione. I girondini, tra i principali sostenitori della guerra rivoluzionaria ma ostili al movimento popolare e vicini alle posizioni moderate, vennero combattuti in tutto il paese e nel giugno 1793 i sanculotti riuscirono a imporre l’arresto di molti deputati girondini. LA RIVOLUZIONE FRANCESE 17 Il nuovo successo dei sanculotti aprì (1789-95) la strada all’egemonia dei giacobini. Olandesi R Depurati dei girondini, essi coincidevaen Prussiani o no ormai con i montagnardi. Il loro cae austriaci Neerwinden 1793 po era Robespierre, leader del Comitato Dunkerque Coblenza Jemappes 1792 di salute pubblica e mediatore della Fleurus 1794 convergenza tra movimento popolare e Se borghesia rivoluzionaria. nn
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Quiberon 1795 Britannici
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La carta individua le zone dell’insurrezione federalista del ’93 e quella della guerriglia realista in Vandea, infine le principali battaglie e conquiste territoriali dal ’92 al ’95.
PROVENZA Marsiglia
Spagnoli
Piemontesi
VANDEA
Britannici
Tolone
CORSICA
zone di insurrezione realista zone di insurrezione federalista conquiste e annessioni (1792-95) Valmy 1792 battaglie offensive avversarie
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Storiografia 38 A. Trampus, I rivoluzionari e la felicità pubblica, p. 262
Storiografia 43 L. Hunt, La politicizzazione della vita quotidiana, p. 268
Ÿ Claude-André Deseine, Busto di Maximilien Robespierre 1791 [Musée de la Révolution française, Château, Vizille]
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La dittatura giacobina (1793-94) L’ALLEANZA TRA GIACOBINI E SANCULOTTI All’inizio dell’estate del ’93, il governo della Francia poggiava sull’alleanza di due minoranze, quella costituita dai militanti rivoluzionari – il 10% circa della popolazione maschile adulta – e quella composta dal personale politico giacobino – non più di 100 mila uomini in tutto il paese con circa 2 mila società affiliate. L’ideologia dei giacobini discendeva dalle teorie democratiche degli illuministi, in particolare di Jean-Jacques Rousseau, alle quali attingeva nelle linee di fondo anche il movimento popolare. Dal punto di vista economico, giacobini e sanculotti auspicavano una società caratterizzata da un insieme di piccoli produttori, contadini e artigiani, proprietari dei mezzi di produzione. In questo senso, erano ancora collocati in un contesto di economia tradizionale. Dal punto di vista politico i giacobini e Robespierre giustificarono il loro potere imponendosi come i veri interpreti del popolo e come espressione della “volontà generale” di cui molti leader, e in primo luogo Robespierre, ritengono di essere gli unici veri interpreti. I giacobini credevano di poter trasformare nel profondo la società francese, gestendo in modo capillare il cambiamento delle strutture economiche e sociali e della mentalità. UNA NUOVA PEDAGOGIA POLITICA Questa ideologia e questa pratica politica furono infatti accompagnate da una larga attività di educazione collettiva, di pedagogia rivoluzionaria fondata sulle celebrazioni della Rivoluzione e dei suoi martiri (come Marat pugnalato dalla realista Charlotte Corday), su un largo repertorio di simboli – la coccarda tricolore, il berretto frigio degli schiavi liberati – e sulla diffusione di immagini popolari del rovesciamento del Vecchio Mondo. Cancellata la monarchia e osteggiata duramente la Chiesa, i due riferimenti fondamentali dell’identità popolare, era necessario segnare profondamente il rinnovamento rivoluzionario. In questa direzione la decisione più significativa fu l’introduzione del nuovo calendario repubblicano o rivoluzionario, in vigore dall’ottobre 1793 fino al 31 dicembre 1805, che stabiliva una nuova datazione dalla proclamazione della Ÿ Allegoria di Frimaio (novembre) dal calendario rivoluzionario Repubblica in poi: oltre a cambiare il nome dei XVIII sec. [Bibliothèque Nationale, mesi e dei giorni, aboliva il ciclo settimanale e Parigi] la domenica (sostituendoli con gruppi di dieci Con il nuovo calendario repubblicano l’anno fu diviso in 12 mesi di 30 giorni, giorni) intervenendo direttamente sulla scansio- ciascuno con un nuovo nome basato sui cicli naturali in correlazione con il ne del tempo legata alle pratiche religiose. tempo meteorologico. Il nuovo calendario era un aspetto della più sistematica scristianizzazione, promossa soprattutto dal club dei cordiglieri di Hébert, con la distruzione di simboli religiosi come le statue dei santi e le campane, e la celebrazione di feste per la dea Ragione. La scristianizzazione non ebbe l’appoggio di Robespierre, che vi scorgeva i rischi dell’ateismo razionalista e dell’attenuazione del controllo morale e sociale esercitato dalla religione: nel maggio del ’94 il leader giacobino sostenne e impose invece il culto dell’Essere supremo, espressione delle sue concezioni deiste [Ź3_2].
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Storiografia 40 J. Israel, Il Terrore, p. 264
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IL TERRORE Gli strumenti della dittatura giacobina furono il Tribunale rivoluzionario e il Terrore, ossia la sistematica eliminazione fisica degli avversari politici. La Costituzione democratica del ’93 fu varata, ma in realtà mai applicata, mentre venivano sospese le più elementari garanzie dei cittadini. Quando i giacobini cominciarono a governare, in gran parte della Francia dilagava l’insurrezione “federalista”, diffusa nelle province e dichiaratamente antiparigina, sotto la guida dei girondini e dei realisti (ossia dei monarchici). Nel giro di sei mesi, tuttavia, le truppe della Convenzione riuscirono a reprimerla e a domare, seppure provvisoriamente, la rivolta in Vandea. Sotto la pressione dei sanculotti, la Convenzione mise «il Terrore all’ordine del giorno», intensificando la politica repressiva e introducendo criteri totalmente discrezionali per definire le categorie dei “sospetti”. Le prigioni si riempirono, i tribunali e la ghigliottina lavoravano senza tregua: da 300 mila a 500 mila furono gli arrestati in tutto il periodo del Terrore. A Parigi, nell’ottobre 1793, furono processati e decapitati l’ex regina Maria Antonietta e i capi girondini, fra cui Brissot.
LEGGERE LE FONTI
Maximilien Robespierre, Democrazia e terrore M. Robespierre, La rivoluzione giacobina, a c. di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 160-63; 167
Nel discorso pronunciato nel 17 piovoso anno II (5 febbraio 1794), Sui principi di morale politica che devono guidare la Convenzione nazionale nell’Amministrazione interna della Repubblica, Maximilien Robespierre (1758-1794) spiegava su cosa
si dovesse fondare il governo rivoluzionario e democratico: il principio etico della virtù e dell’amor di patria e l’idea di uguaglianza. Ma in questo discorso il leader giacobino proponeva anche una sua giustificazione del Terrore.
La democrazia è uno Stato in cui il popolo sovrano, guidato da leggi che sono il frutto della sua opera, fa da se stesso tutto ciò che può far bene, e per mezzo dei suoi delegati tutto ciò che non può fare da se stesso. [...] Soltanto in un regime democratico lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che lo compongono e può contare tanti difensori interessati della sua causa, quanti sono i cittadini che esso contiene. Ecco qui la fonte della superiorità dei popoli liberi su tutti gli altri popoli. [...] Dato che l’anima della Repubblica è la virtù, l’uguaglianza, e dato che il vostro scopo è di fondare, di consolidare la Repubblica, ne consegue che la regola prima della vostra condotta politica dev’essere quella di indirizzare tutte le vostre opere al mantenimento dell’uguaglianza ed allo sviluppo della virtù: poiché la cura principale del legislatore dev’essere quella di fortificare il principio su cui si fonda il suo potere di governo. Così, tutte le cose che tendono ad eccitare l’amor di patria, a purificare i costumi, ad elevare gli spiriti, ad indirizzare le passioni del cuore umano verso l’interesse pubblico, devono essere da voi adottate ed instaurate. Mentre tutte le cose che tendono a concentrare le passioni verso l’abiezione dell’io individuale, a risvegliare l’interesse per le piccole cause ed il disprezzo per quelle grandi, devono essere da voi respinte o represse. Nel sistema instaurato con la rivoluzione francese tutto ciò che è immorale è impolitico, tutto ciò che è atto a corrompere è controrivoluzionario. [...] Bisogna soffocare i nemici interni ed esterni della Repubblica, oppure perire con essa. Ora, in questa situazione, la massima principale della vostra politica dev’essere quella di guidare il popolo con la ragione, ed i nemici del popolo con il terrore. Se la forza del governo popolare in tempo di pace è la virtù, la forza del governo popolare in tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù ed il terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa funesta; il terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia pronta, severa, inflessibile. Esso è dunque una emanazione della virtù. […] Si è detto da alcuni che il terrore era la forza del governo dispotico. [...] Che il despota governi pure con il terrore i suoi sudditi abbrutiti. Egli ha ragione, come despota. Domate pure con il terrore i nemici della libertà: e anche voi avrete ragione, come fondatori della Repubblica. Il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Qual è secondo Robespierre la ragione che giustifica la superiorità dei popoli liberi su tutti gli altri popoli? b Quali sono le condizioni primarie necessarie per fondare e consolidare il governo repubblicano? c Quali tendenze sono giudicate dannose per il regime repubblicano e, di conseguenza, vanno contrastate?
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d Quale condotta politica devono tenere i governanti della repubblica nei confronti del popolo e dei suoi nemici? e Quale rapporto sussiste tra la virtù e il terrore a giudizio di Robespierre? f In quale misura Robespierre ritiene possibile conciliare il regime democratico della libertà con quello dispotico del terrore?
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calmiere Il calmiere è un provvedimento amministrativo che stabilisce il prezzo massimo di vendita delle merci e riguarda quasi esclusivamente il commercio al dettaglio. Esso si riferisce a prodotti di prima necessità, in particolare alle derrate alimentari (soprattutto frumento o pane), e ha lo scopo di proteggere il potere d’acquisto delle classi più deboli, evitando aumenti ingiustificati, mantenendo prezzi accessibili per le merci di più largo consumo anche in caso di produzione scarsa (per esempio nel caso di cattivi raccolti). colpo di Stato Il colpo di Stato è il cambiamento repentino del gruppo dirigente realizzato con metodi incostituzionali e spesso violenti da parte di membri di quello stesso Stato. La maggior parte dei colpi di Stato è stata eseguita da militari o con il sostegno dell’esercito. È proprio a partire dagli anni della Rivoluzione francese che il colpo di Stato si afferma come tecnica estrema e brutale di risoluzione delle crisi politiche.
LA LEVA IN MASSA La minaccia di un’invasione nemica impose un controllo ferreo sull’economia e l’introduzione di un calmiere* dei prezzi (il maximum) per poter garantire l’approvvigionamento (viveri, divise, armi) di truppe sempre più numerose. Contemporaneamente fu introdotta la leva in massa degli uomini tra i 20 e i 25 anni – nel 1799 la leva sarebbe divenuta obbligatoria – e giovani generali, anche di estrazione popolare, assunsero il comando, sotto il controllo dei commissari della Convenzione. IL COLPO DI STATO CONTRO ROBESPIERRE Dalla primavera del 1794 i contrasti tra i gruppi politici al potere si fecero sempre più aspri. Alla contestazione della sua egemonia Robespierre rispose eliminando prima gli avversari di sinistra, gli hebertisti (i cordiglieri vicini a Hébert), e poco dopo gli indulgenti, capeggiati da Desmoulins e Danton, da tempo favorevoli a una politica meno intransigente nel paese e all’estero. Inoltre, nonostante l’importante vittoria militare di Fleurus contro austriaci e britannici (26 giugno 1794), Robespierre intensificò la politica del Terrore. In questa atmosfera maturò il colpo di Stato*, una congiura che vide unite l’ala moderata e quella estremista della Convenzione. Il 27 luglio 1794 (9 termidoro secondo il calendario rivoluzionario [Ź7_8]) Robespierre e i suoi seguaci più stretti, Saint-Just e Couthon, vennero messi sotto accusa e arrestati. I sanculotti non si mossero. Dichiarati fuori legge, Robespierre e altri 21 suoi seguaci furono giustiziati senza processo il 28 luglio (10 termidoro). Il giorno dopo altri 71 robespierristi salirono sul patibolo. IL BILANCIO DEL TERRORE In meno di un anno i condannati a morte del Terrore furono circa 17 mila ai quali vanno aggiunte le vittime delle esecuzioni in massa (come quelle gettate nella Loira, a Nantes, durante la repressione dell’insurrezione vandeana), per un totale di 35-40 mila vittime. A Parigi le sentenze di morte furono 2639, ma la grande maggioranza fu pronunciata nelle regioni insorte.
Storiografia M. Ozouf, La religione rivoluzionaria
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Ÿ L’esecuzione di Robespierre e dei suoi seguaci 1794 [Bibliothèque Nationale, Parigi]
Continuità e stabilizzazione: 7 il Direttorio (1794-97) LA FINE DEL GIACOBINISMO La caduta di Robespierre (luglio 1794) non segnò la fine della Rivoluzione, ma l’inizio di una nuova fase caratterizzata, all’esterno, dall’espansione francese in Europa e, all’interno, da faticosi tentativi di stabilizzazione volti a garantire la tutela dei risultati rivoluzionari e la sopravvivenza del nuovo ceto politico. In breve tempo fu smantellata la struttura di potere giacobina: decine di migliaia di sospetti furono liberati e, a dicembre, la Convenzione reintegrò i girondini superstiti. I club giacobini vennero chiusi, mentre una nuova mobilitazione dei sanculotti che protestavano contro il carovita fu repressa nella primavera del ’95. La repressione fu affidata all’esercito che, per la prima volta dall’inizio della Rivoluzione, marciò sui quartieri popolari di Parigi e disarmò i sanculotti. Nel Mezzogiorno e nel Sud-Est infuriava il
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STORIA IMMAGINE Jean-Baptiste Isabey, Il Petit Coblentz sotto il Direttorio 1795-99 [Musée Carnavalet, Parigi] In reazione all’austerità degli anni del Terrore, i giovani della Parigi più agiata si riunivano nei caffè e animavano la vita mondana, ma erano disponibili anche alle “spedizioni
punitive” contro i sanculotti e i giacobini. La cosiddetta jeunesse dorée (“gioventù dorata”) del periodo termidoriano e del Direttorio, con la sua ricerca esasperata dell’eleganza e il suo snobismo, è qui raffigurata con una vena satirica nella passeggiata in un’area del boulevard des Italiens denominata Petit Coblentz.
Terrore bianco – così detto dal colore della bandiera borbonica – con vendette e massacri nei confronti dei giacobini e dei preti costituzionali. LA COSTITUZIONE DEL 1795 E IL DIRETTORIO
Il processo di stabilizzazione interna venne consolidato dai successi militari ai quali seguirono, fra aprile e luglio 1795, i trattati di pace con la Prussia e l’Olanda. Ma la guerra rimaneva aperta con l’Austria e la Gran Bretagna. Contemporaneamente la Convenzione elaborò un nuovo testo costituzionale, che doveva conferire stabilità al nuovo assetto politico borghese della Francia. Il potere esecutivo fu affidato a un Direttorio di 5 membri che nominava i ministri. La nuova Costituzione riprese in molti punti quella del ’91 e soprattutto accentuò il carattere censitario del sistema elettorale e la tutela della proprietà. TENTATIVI INSURREZIONALI Nonostante questa nuova struttura istituzionale, la debolezza del nuovo regime dava spazio a tentativi insurrezionali monarchici, come quello represso a cannonate dal generale Napoleone Bonaparte a Parigi nell’ottobre ’95, o rivoluzionari come la
STORIA IMMAGINE Partitura della Marsigliese 1792 [Bibliothèque Nationale, Parigi] Nel 1795 La Marsigliese fu adottata come inno nazionale di Francia. Composta nel 1792 dall’ufficiale Joseph Rouget de Lisle (1760-1836), che si apprestava ad affrontare le truppe austro-prussiane, era nata con il titolo Canto di guerra per l’armata del Reno. Qualche mese dopo, però, il battaglione dei federati marsigliesi la cantò come proprio inno in occasione della festa della Rivoluzione a Parigi e per questo passò alla storia come La Marseillaise. Proibita durante il periodo napoleonico, tornò a essere l’inno della Francia nel 1879.
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Dal testo traspare il forte sentimento patriottico di un esercito impegnato a difendere non solo un territorio ma soprattutto un ideale. Emerge anche chiaramente, fin dalle prime strofe, la violenza e l’asprezza di un paese in guerra: «Avanti figli della Patria. Il giorno della gloria è arrivato! Contro di noi, della tirannia lo stendardo sanguinante si è levato! Lo stendardo sanguinante si è levato! Sentite nelle campagne ululare questi feroci soldati? Vengono in mezzo a voi a sgozzare i vostri figli, le vostre compagne! Alle armi, cittadini! Formate i vostri battaglioni! Marciamo, marciamo! Che un sangue impuro irrighi i nostri solchi!».
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“congiura degli Eguali” promossa da François-Noël Babeuf e sventata nel ’96. Babeuf teorizzava l’uguaglianza, la comunità dei beni, l’abolizione della proprietà della terra: tra i capi della congiura figurava anche il toscano Filippo Buonarroti, la cui esperienza politica ebbe grande rilievo nell’ispirare le prime società segrete del movimento nazionale democratico in Italia [Ź7_9]. IL RUOLO DEI MILITARI Mentre gli eserciti della Repubblica avevano ripreso vittoriosamente l’offensiva in Europa, nuove difficoltà interne si presentarono costringendo la maggioranza del Direttorio (guidata da Paul Barras) ad attuare un colpo di Stato nel settembre 1797: furono annullate le elezioni tenute in quell’anno, deportati numerosi deputati e giornalisti, introdotti severi controlli sulla stampa. Decisivo per il colpo di Stato era stato l’appoggio dei comandanti militari impegnati all’estero. La sopravvivenza del regime e la continuità rivoluzionaria erano ormai affidate non solo alle vittorie degli eserciti ma al diretto intervento dei generali vittoriosi nella vita politica. CRONOLOGIA DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE (1789-99) ANNI
GRUPPI POLITICI
EVENTI
1789-90 Assemblea nazionale costituente (9 luglio 1789)
Partito nazionale: fronte riformatore composto dal Terzo stato con l’apporto di aristocratici illuminati e molti esponenti del basso clero
• Nasce la Guardia nazionale • Assalto alla Bastiglia (14 luglio ’89): il popolo parigino sulla scena rivoluzionaria • Nuove rappresentanze municipali a Parigi e nelle province (luglio ’89) • Sollevazione nelle campagne: “grande paura” (luglio ’89) • Abolizione del regime feudale (4 agosto ’89) • Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto ’89) • Requisizione dei beni ecclesiastici (novembre ’89) • Sistema elettorale censitario (dicembre ’89)
1790-91 Assemblea nazionale costituente
Società dell’89: di tendenze moderate Cordiglieri: di tendenze radicali (Danton, Desmoulins, Marat, Hébert) Giacobini: di tendenze radicali, organizzati come un moderno partito politico (Robespierre e Brissot, futuro capo dei girondini)
• • • • •
1791-92 Assemblea legislativa (1° ottobre 1791)
Foglianti: di tendenze moderate Costituzionali: difensori della Costituzione del ’91 Giacobini: raggruppamento dei radicali (comprendono i girondini)
• Dichiarazione di guerra all’Austria (20 aprile ’92) • Deposizione del re su iniziativa dei sanculotti parigini (10 agosto ’92) • Elezioni a suffragio universale per la nuova Convenzione nazionale
1792-93 Convenzione nazionale Comune insurrezionale
Palude (o Pianura): di tendenze moderate Girondini: ex giacobini, ora su posizioni meno radicali Montagnardi: giacobini legati a Robespierre ed ex cordiglieri (Danton, Marat)
• Scontro tra girondini e montagnardi sul ruolo da attribuire al Comune insurrezionale e ai sanculotti parigini • Vittoria francese sui prussiani a Valmy (20 settembre ’92) • Abolizione della monarchia (21 settembre ’92) • Processo, condanna a morte e decapitazione di Luigi XVI (21 gennaio ’93) • La Francia è in guerra con quasi tutti gli Stati d’Europa • Sollevazione antirivoluzionaria in Vandea (marzo ’93) • Creazione del Comitato di salute pubblica (aprile ’93) • Epurazione dei girondini (giugno ’93)
Festa della federazione (14 luglio ’90) Costituzione civile del clero (luglio ’90) Decentramento amministrativo (dipartimenti provinciali e “sezioni” parigine) Fuga del re (20-21 giugno ’91) Costituzione del 3 settembre ’91: regime liberale, fondato sulla separazione dei poteri esecutivo, legislativo, giudiziario • Elezioni per la nuova Assemblea legislativa
1793-94 Comitato di salute pubblica
• • • • • •
1795-99 Direttorio
• Costituzione del ’95
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Dittatura giacobina Il Terrore Leva in massa Calendario repubblicano Colpo di Stato contro Robespierre (9 termidoro/27 luglio ’94) Robespierre e i suoi più diretti seguaci vengono ghigliottinati
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U3 L’età delle rivoluzioni
8 Leggere una carta storica 4 L’Europa sotto la dominazione francese, p. 228
LO SPAZIO DELLA STORIA
L’espansione rivoluzionaria SOSTENITORI E CRITICI DELLA RIVOLUZIONE IN EUROPA Quanto accadeva in Francia fu costantemente seguito dall’opinione pubblica in tutta Europa. Se all’inizio i ceti illuminati guardarono con favore al rovesciamento dell’assolutismo e a un possibile sviluppo costituzionale all’inglese, successivamente lo scoppio della guerra e soprattutto l’uccisione del re ridussero drasticamente il numero dei sostenitori. Il Terrore divise ulteriormente i fautori della Rivoluzione, separando le correnti liberali e moderate da quelle democratiche. Tra i primi a ragionare sulla Rivoluzione fu lo scrittore politico britannico di origine irlandese Edmund Burke (1729-1797). Esponente dei Whigs, già nel novembre 1790 pubblicò le Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, una durissima requisitoria contro l’astrattezza antistorica dei princìpi dell’89 e in difesa della tradizione. Alle origini della Rivoluzione egli vedeva, tra l’altro, la “congiura dei filosofi”, un motivo destinato ad avere larghissima fortuna in tutto il pensiero politico successivo. Significativa era anche la contrapposizione instaurata con la pacifica Rivoluzione inglese del 1688-89 [Ź2_3] che dimostrava la superiorità dello sviluppo politico britannico, risultato di una continuità storica, su quello francese fondato sulla rottura con il passato. La Rivoluzione non costituì solo uno spartiacque del pensiero politico, ma determinò anche contrastanti reazioni in tutta Europa. Da un lato i governi si impegnarono a reprimere ogni forma di protesta o di dissenso nel timore che l’esempio francese dilagasse, dall’altro i nuclei di opposizione presero coscienza di sé e dei propri obiettivi. Quella stessa rete di comunicazione (la stampa, le logge massoniche) che aveva dato luogo alla feconda circolazione delle idee illuministe agì anche per i princìpi rivoluzionari. Princìpi che la Francia sostenne, dal 1792, con una vigorosa propaganda ideologica. L’EUROPA NEL 1792-99
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la Francia nel 1789 conquiste e annessioni francesi 1792-97 “repubbliche sorelle” territori occupati territori ceduti all’Austria secondo il trattato di Campoformio (1797) confini del Sacro romano impero
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DALMAZIA
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Ludwig Hauck, L’innalzamento dell’albero della libertà nella piazza del Mercato Grote di Groninga 1795 [Museo Civico, Groninga (Paesi Bassi)] La battaglia di Fleurus del 1794 aveva aperto la strada verso i Paesi Bassi: nel 1795 le truppe rivoluzionarie francesi invadono la regione e la occupano con un contingente di 25 mila soldati. Il 19 gennaio viene fondata la Repubblica batava, una delle “repubbliche sorelle”, di cui Groninga è uno dei centri più importanti. Il dipinto ricorda il momento in cui, entrate in città le truppe rivoluzionarie, viene innalzato nella piazza del mercato l’albero della libertà, simbolo della Rivoluzione francese, attorno al quale uomini e donne ballano tenendosi per mano e a braccetto.
Fare storia La rivoluzione oltre i confini nazionali
Personaggi Napoleone, l’uomo del secolo, p. 214
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LA “NAZIONE ARMATA” In realtà, l’espansione rivoluzionaria in Europa fu affidata soprattutto alle baionette dell’esercito: senza l’appoggio militare della “nazione armata” – in cui i francesi si erano identificati dal 1792, con l’inizio della guerra contro l’Austria –, nessun nuovo regime sarebbe stato in grado di reggersi. Inoltre l’esercito – dai soldati agli ufficiali –, più di ogni altra istituzione, era profondamente legato ai princìpi e ai risultati della Rivoluzione. L’influenza della Rivoluzione fu particolarmente forte (e precoce) nei paesi limitrofi, dove si saldò a esigenze autonomistiche o a conflitti già in corso. Tali furono i casi del Belgio e dell’Olanda: il Belgio fu annesso alla Francia (179395), l’Olanda si trasformò in Repubblica batava (1795). In Italia un centro di organizzazione rivoluzionaria si costituì a Oneglia, in Liguria, sotto la diretta influenza dell’occupazione francese e la guida di Filippo Buonarroti, che vi agiva come commissario della Convenzione. Negli altri Stati italiani – a Torino, a Bologna, a Napoli e in Sicilia – i club di giacobini (termine che qui indicava genericamente tutti i sostenitori della Rivoluzione) furono duramente repressi dalle autorità di governo, che ne condannarono a morte i maggiori esponenti (1794). Da questi primi nuclei si svilupparono tuttavia altri gruppi che appoggiarono l’intervento diretto francese nel 1796-97.
Bonaparte e le campagne d’Italia LA POLITICA DI CONQUISTA DEL DIRETTORIO Il Direttorio intensificò la politica di espansione francese in Europa nella convinzione che la sicurezza della Francia potesse essere garantita non solo dal raggiungimento delle “frontiere naturali” – le Alpi e il Reno – ma anche dalla costituzione di “repubbliche sorelle” della Francia, immediatamente al di là di queste frontiere. La realizzazione del disegno era legata alla sconfitta dell’Austria, che doveva essere attaccata in primo luogo sul territorio tedesco in direzione di Vienna, mentre altre truppe avrebbero tenuto impegnati gli austriaci in Italia, mirando alla conquista del Piemonte e della Lombardia. LA CAMPAGNA D’ITALIA
Nel 1796 il comando dell’armata d’Italia fu affidato a un giovane generale di 26 anni, Napoleone Bonaparte. Le sue vittorie nel 1796-97 furono l’inizio di una carriera politica e militare destinata a segnare profondamente, per quasi un ventennio, tutta la storia di Francia e d’Europa. La campagna d’Italia mise immediatamente in luce le sue straordinarie qualità di comandante militare: la capacità di imporsi agli ufficiali e di trascinare i soldati, la rapidità di manovra e di decisione. Bonaparte riuscì nel disegno strategico di mantenere unite le sue forze, inferiori di numero, e di dividere quelle nemiche. Il 15 maggio, sconfitti separatamente i piemontesi e gli austriaci, entrava trionfalmente a Milano. Gli austriaci cercarono di riprendere il controllo della Lombardia inviando nuove truppe, ma Bonaparte li sconfisse
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nella decisiva battaglia di Rivoli Veronese (gennaio 1797) proseguendo poi verso Vienna. Nel frattempo i francesi avevano costretto papa Pio VI a cedere il possesso dell’Emilia e della Romagna (trattato di Tolentino).
Ÿ Giuseppe
Salvirch, Scudo di lire sei della Repubblica cisalpina 1797-1802 Lo scudo in argento raffigura la personificazione della Repubblica che rende omaggio alla Francia. ź La bandiera della Repubblica cispadana
CAMPOFORMIO E LA FINE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA Le vittorie militari consentirono a Bonaparte di condurre direttamente le trattative con l’Austria. Con il trattato di Campoformio, firmato nell’ottobre 1797 in una località nei pressi di Udine, ottenne il riconoscimento dell’egemonia francese in Lombardia e in Emilia, dell’annessione del Belgio, nonché l’attribuzione alla Francia della riva sinistra del Reno. L’Austria venne compensata con il Veneto, l’Istria e la Dalmazia [Ź _19]. I territori di Bergamo e Brescia passarono alla neonata Repubblica cisalpina. Fra lo sgomento e l’indignazione dei patrioti, la Repubblica di Venezia veniva smembrata e cessava di esistere: dopo oltre un millennio finiva uno dei più antichi Stati italiani. Le decisioni di Campoformio non devono sorprendere. L’Italia era considerata terra di conquista da depredare e saccheggiare. Le indicazioni del Direttorio in questo senso erano chiarissime e non diverse da quelle adottate in Belgio e in Olanda. Bonaparte e i suoi generali erano inoltre privi di scrupoli di sorta. Così masse ingenti di denaro (frutto di imposizione ai sovrani e agli strati sociali più abbienti) servirono al mantenimento dell’esercito o al risanamento delle finanze francesi. Grandi tesori d’arte presero la via di Parigi. Tutto ciò non contraddiceva tuttavia il più complesso progetto politico di creare in Italia una serie di “repubbliche sorelle”, alleate della Francia. LA NASCITA DELLE REPUBBLICHE Impegnato a dare un nuovo assetto politico all’Italia settentrionale, Bonaparte fu attentissimo a utilizzare tutti i mezzi di comunicazione del tempo – stampa, proclami, immagini – per propagandare i suoi successi e per imporsi all’opinione pubblica francese: un disegno che rispondeva all’esigenza di mostrare, accanto a quelli militari, anche i suoi meriti politici. Nel dicembre 1796 fu creata in Emilia e Romagna la Repubblica cispadana. Nel giugno 1797 si formarono la Repubblica ligure e, sui territori occupati della Lombardia, la Repubblica cisalpina, con la quale a luglio si fuse la Cispadana. Successivamente nel febbraio 1798 i francesi intervennero a Roma – dove, nella repressione di un tumulto giacobino, era stato ucciso un generale francese – e proclamarono la Repubblica romana, che comprendeva il Lazio, l’Umbria e le Marche. Pio VI fu deposto e trasferito prima in Toscana e poi in Francia, dove morì nel 1799. Alla fine del 1798, inoltre, la ripresa delle ostilità contro la Francia da parte delle potenze alleatesi dopo la spedizione napoleonica in Egitto [Ź7_10] indusse il Regno di Napoli ad attaccare la Repubblica romana. Le truppe borboniche furono respinte e Napoli fu occupata dai francesi, che qualche giorno dopo vi proclamarono la Repubblica partenopea (gennaio 1799). LE REPUBBLICHE “GIACOBINE” Passate alla storia come Repubbliche “giacobine”, le repubbliche italiane imposte dai francesi non ebbero in realtà mai caratteristiche tali da richiamare il radicalismo rivoluzionario. Le Costituzioni repubblicane, del resto, furono tutte modellate sulla Costituzione francese del 1795: solo quella napoletana, redatta da Mario Pagano, aveva contenuti più democratici. Inoltre, sia Bonaparte sia i suoi successori in Italia si appoggiarono ai nobili e ai borghesi di orientamento moderato. Il controllo dei francesi si tradusse anche nella nomina diretta dei membri degli organi legislativi e di governo, nonché nella loro sostituzione a seconda del maggiore o minore allineamento alla politica del Direttorio o a quella dei comandanti militari in Italia.
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L’ITALIA NEL 1799
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RIFORME E DIBATTITO PUBBLICO
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L’egemonia francese diede tuttavia l’avvio a una serie di riforme anche VESC. DI al di fuori dell’ambito dell’organizzaTRENTO Campoformio REGNO zione istituzionale: come l’introduRivoli D’UNGHERIA VENETO zione dello stato civile*, l’abolizione 1797 Verona Venezia di maggiorascati e fedecommessi* – Milano Arcole Mantova che impedivano il frazionamento e la 1796 Torino DUCATO IMPERO vendita dei beni di origine feudale –, PIEMONTE DI PARMA IGUR OTTOMANO A la soppressione degli enti religiosi . L E REP. CISALPIN R Genova Firenze e l’inizio della vendita dei loro beni, CA I LUC D . convertiti in beni nazionali. Alcune di P E R TOSCANA A M AR queste riforme rimasero allo stato di AN M AD O R pura enunciazione, soprattutto quelR IA RE P. TI PU CO RE le miranti alla costituzione di una BB LIC CORSICA A diffusa piccola proprietà contadina: Roma PA RT non ebbero alcun seguito, infatti, le EN OP Napoli proposte in questa direzione avanEA zate nella Repubblica romana dove, soprattutto nella campagna intorno REGNO DI a Roma, era presente un’imponente MAR TIRRENO SARDEGNA proprietà latifondistica. Le nuove repubbliche determinarono un vigoroso risveglio del MAR dibattito politico: utopisti e riforIONIO matori, rivoluzionari e moderati – coREGNO DI SICILIA me Melchiorre Gioia, Matteo Angelo Galdi, Enrico Michele L’Aurora e il più radicale Vincenzio Russo – si impegnarono in una riflessione sulle La situazione italiana agli inizi del 1799, prima dell’invasione forme politiche, sui problemi economici, sui possibili destini unitari della degli austro-russi, che posero penisola. Consapevoli del limitato consenso di cui potevano godere fra i ceti fine alle Repubbliche giacobine. popolari (ne è conferma la costante attenzione per l’istruzione pubblica), tanto domìni austriaci i moderati quanto i giacobini ritennero di dover utilizzare i ristretti margini territori sotto l’influenza francese consentiti alla loro azione dagli interessi francesi. Si venne così formando un Arcole 1796 battaglie personale politico che troveremo attivo durante l’Impero napoleonico e, in parte, anche successivamente negli anni della Restaurazione assolutista. Anche per la brevità dell’esperimento repubblicano non vi fu il tempo per constato civile sentire alle nuove idee di affermarsi e trovare un qualche sostegno nei ceti popolari, L’Ufficio dello stato civile (o semplicemente “stato civile”), rimasti sempre ostili ed estranei al nuovo regime. presente in ogni comune, ha il compito di tenere i registri di cittadinanza, nascita, matrimonio e morte. Nell’uso corrente, lo stato civile di una persona indica la sua condizione di celibe (o nubile), coniugato, vedovo. fedecommesso Il fedecommesso è una forma di successione che impone all’erede di lasciare a sua volta il patrimonio a un solo erede maschio. Come la primogenitura, è finalizzato alla conservazione dell’intero patrimonio in una sola linea di discendenza.
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L’OPPOSIZIONE POPOLARE E IL RITORNO DEI BORBONE A NAPOLI Già nell’aprile 1797 le truppe francesi di stanza a Verona erano state assalite (le “Pasque veronesi”), mentre a Napoli, nel 1799, i popolani (“lazzaroni”) si opposero violentemente all’ingresso dei francesi in città. Questa estraneità e ostilità si estese anche alle altre Repubbliche giacobine. Quando il controllo francese sull’Italia cominciò a vacillare, alla fine del ’98 e nel ’99, si registrarono infatti numerosi episodi di sollevazioni popolari. Nell’Italia meridionale, in particolare, i contadini non videro alcun vantaggio immediato per le loro durissime condizioni ad opera del nuovo regime repubblicano: le norme che abolivano i prelievi feudali e garantivano la continuità degli usi civici giunsero troppo tardi (alla fine di aprile 1799). Fu agevole quindi
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STORIA IMMAGINE Saverio Della Gatta, Battaglia tra navi anglo-borboniche e repubblicane nel canale di Procida 1800 [Museo Nazionale di San Martino] Nell’aprile 1799 una flotta navale britannica occupò le isole antistanti il Golfo di Napoli, Ponza, Procida, Ischia e Capri, venendo in aiuto dei sanfedisti e dei Borbone. In questo primo frangente la flotta napoletana riuscì a difendere la neonata Repubblica impedendo lo sbarco dei britannici. Ma Napoli fu conquistata pochi mesi dopo dall’esercito
sanfedista che si fece protagonista di numerose efferatezze. Secondo la ricostruzione di Vincenzo Cuoco (Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799) «il popolo napolitano, unito agl’insorgenti, commise delle barbarie che fan fremere: incrudelì financo contro le donne, alzò nelle pubbliche piazze dei roghi, ove si cuocevano le membra degl’infelici, parte gittati vivi, e parte moribondi. Tutte queste scelleraggini furono eseguite sotto gli occhi di Ruffo [il cardinale] e degl’Inglesi».
per il cardinale Fabrizio Ruffo, emissario dei Borbone, sollevare i contadini e guidare l’armata della Santa Fede – di cui facevano parte anche bande di briganti – contro la repubblica dei miscredenti. La conquista di Napoli a opera dei sanfedisti (giugno 1799) anche con l’aiuto della flotta britannica consentì il ritorno dei Borbone, che effettuarono una durissima repressione. Fra gli altri furono impiccati Mario Pagano, Vincenzio Russo, Francesco Caracciolo ed Eleonora de Fonseca Pimentel. La rapida fine della Repubblica partenopea (durata solo sei mesi) diede spunto allo scrittore politico Vincenzo Cuoco per rivolgere pesanti accuse all’astrattismo dei patrioti e al carattere “passivo” della rivoluzione napoletana (nel celebre Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato nel 1801). Certo è che l’episodio sanfedista testimoniava della difficoltà di coinvolgere le masse contadine nella rivoluzione “borghese”, difficoltà che anche la Francia conosceva in quegli anni con l’endemica ribellione vandeana [Ź7_5].
Il colpo di Stato e la svolta autoritaria 10 di Bonaparte LA SPEDIZIONE IN EGITTO Nella primavera del ’98 fu concesso a Bonaparte, dopo la rinuncia a un progetto di invasione della Gran Bretagna, di organizzare una spedizione militare contro l’Egitto. Da lì avrebbero potuto essere colpiti gli interessi commerciali britannici in Oriente. La disponibilità del Direttorio a un progetto avventuroso e azzardato mascherava il desiderio di allontanare da Parigi un personaggio divenuto, dopo i successi in Italia, troppo ingombrante. A maggio un’imponente flotta di oltre 300 navi salpò da Tolone: vi erano imbarcati 38 mila soldati e una numerosa commissione scientifica. L’Egitto era una provincia dell’Impero ottomano, sostanzialmente autonoma e dominata dalla setta militare dei Mamelucchi. Sbarcati ad Alessandria i francesi si spinsero verso Il Cairo, e qui, nella battaglia delle Piramidi, sconfissero i Mamelucchi a luglio. La vittoria diede nuova fama a Bonaparte e contribuì a diffondere nel mondo occidentale la moda per tutto ciò che era egiziano.
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Ma pochi giorni dopo, il 1° agosto, l’ammiraglio britannico Horatio Nelson (1758-1805) sorprendeva la flotta francese all’ancora di fronte ad Abukir e la distruggeva, isolando i francesi. VERSO IL COLPO DI STATO L’unico risultato certo della spedizione in Egitto fu la ricomposizione di un’alleanza generale contro la Francia, animata come sempre dalla Gran Bretagna e con la partecipazione anche della Russia, dell’Austria e dell’Impero ottomano. Così, mentre Bonaparte si dedicava all’amministrazione del paese occupato e la commissione scientifica iniziava un amplissimo rilevamento delle antichità egiziane, in Italia e in Germania i francesi cominciarono a ripiegare rapidamente sotto l’attacco degli austro-russi. Le nuove difficoltà militari aprirono a Parigi un’ennesima crisi politica e le forze di sinistra ripresero vita. A giugno i parlamentari attaccarono duramente il Direttorio, nel quale era stato da poco nominato Sieyès (uno dei protagonisti della prima fase della Rivoluzione). Nonostante i successi militari dell’ottobre 1799, che arrestarono l’avanzata russa, le divisioni politiche rimanevano profonde e, come nel 1797, un colpo di Stato era nell’aria. Sieyès, l’uomo forte del Direttorio, puntava chiaramente a una revisione costituzionale che rafforzasse l’esecutivo, ma non disponeva di una maggioranza parlamentare. A metà ottobre Bonaparte rientrò a Parigi: una vittoria sui contingenti ottomani appena sbarcati e la notizia delle sconfitte in Europa gli avevano dato motivi sufficienti per abbandonare l’Egitto. Pur lasciandosi alle spalle il primo insuccesso, il suo ritorno sembrò un trionfo. Ben presto Bonaparte divenne l’elemento decisivo del nuovo colpo di Stato. Il 18 brumaio (9 novembre) 1799, con il pretesto di un complotto, i deputati vennero trasferiti a Saint-Cloud nei pressi della capitale, sotto protezione militare. Il 19 brumaio Napoleone impose con le armi una riforma costituzionale. I deputati accettarono la creazione di una commissione esecutiva con pieni poteri composta dai tre consoli della Repubblica francese, Sieyès, Ducos (un altro membro del Direttorio) e Bonaparte. Il colpo di Stato del 18 brumaio interruppe definitivamente la dinamica politica rivoluzionaria, anche se la stabilizzazione delle conquiste della Rivoluzione – sul terreno giuridico e amministrativo e su quello delle competenze dello Stato – fu realizzata compiutamente negli anni del consolato di Bonaparte, dal 1800 al 1804.
Il Consolato e la costruzione 11 dello Stato napoleonico Personaggi Napoleone, l’uomo del secolo, p. 214
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IL RUOLO DELL’ESERCITO Il successo di Napoleone Bonaparte nella conquista del potere poggiava su un elemento di fondo: il ruolo dell’esercito nella vicenda rivoluzionaria. Dei dieci anni fra l’89 e il ’99, sette erano stati anni di guerra. Dal momento in cui il popolo francese si era identificato con la nazione in armi – nel 1792, con l’inizio della guerra contro l’Austria – e questa identificazione era divenuta uno degli elementi portanti della mobilitazione politica, il controllo dell’esercito divenne la fonte principale del potere e la garanzia di una stabilizzazione delle conquiste rivoluzionarie. Napoleone rimarrà indissolubilmente legato ai successi militari e alla necessità di rinnovarli. Ma proprio il dominio francese sull’Europa susciterà per contrasto l’emergere di forze nazionali che determineranno il crollo dell’Impero napoleonico.
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plebiscito Il termine deriva dal latino plebiscitum (“deliberazione della plebe”) e indica, fin dall’800, una votazione in cui il popolo è chiamato ad approvare o disapprovare un provvedimento che riguarda la struttura dello Stato o del governo. Pur espressione di democrazia diretta, il plebiscito è stato strumentalizzato da parte dei regimi autoritari. Durante il regime napoleonico esso si svolgeva a suffragio universale maschile e con voto palese; si trattò essenzialmente di un espediente per ottenere la legittimazione diretta del popolo e ratificare decisioni di fatto già prese.
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UN GOVERNO DITTATORIALE L’ascesa al potere di Bonaparte venne sancita dalla nuova Costituzione dell’anno VIII che, sottoposta a plebiscito*, entrò in vigore alla fine del 1799. Nella redazione prevalsero le direttive e la volontà di Bonaparte. Il potere esecutivo fu interamente attribuito al Primo console, ovvero allo stesso Bonaparte. Gli altri due membri del consolato ebbero solo un ruolo consultivo. Il Primo console deteneva anche l’iniziativa legislativa (ossia il diritto di proporre leggi). Si venne di fatto instaurando un governo dittatoriale che ruotava intorno alla figura di Bonaparte, propostosi come nuovo despota illuminato, restauratore dell’ordine e delle libertà, l’unico in grado di concludere la Rivoluzione. Ma Napoleone mirò soprattutto a garantirsi un ampio consenso di base nel paese, al di là dell’esercito. Con questo obiettivo, il ricorso al plebiscito fu uno dei fattori costitutivi del regime napoleonico. Il plebiscito era inteso infatti come ricerca di una delega diretta da parte del popolo. Nella prima di queste consultazioni popolari, la Costituzione dell’anno VIII ricevette 3 milioni di “sì” e poco più di 1500 “no”. Ma al voto (che era palese) non parteciparono, nonostante le pressioni della polizia, oltre 4 milioni di cittadini. LA RIFORMA AMMINISTRATIVA La struttura istituzionale della nuova Costituzione favorì il coinvolgimento del personale politico rivoluzionario e il recupero, all’interno del sistema, di molte figure appartenenti all’antico regime. Questo processo di integrazione si attuò soprattutto grazie alla riforma amministrativa, la più duratura delle realizzazioni napoleoniche, rimasta sostanzialmente in vigore per oltre 150 anni. I prefetti, rappresentanti del governo in ogni dipartimento – e in questo eredi degli intendenti dell’ancien régime [Ź2_1] –, furono il principale strumento della centralizzazione burocratica e amministrativa. L’accentramento, avviato già nel ’93-94 in periodo giacobino,
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PERSONAGGI
Napoleone, l’uomo del secolo Napoleone Bonaparte nasce il 15 agosto 1769, ad Ajaccio, in Corsica. Quarto di dodici fratelli, la sua è una famiglia di notabili di provincia piuttosto benestante. Nel 1778 si trasferisce in Francia per imparare il francese e intraprendere studi militari, prima ad Autun e a Brienne, poi a Parigi nel 1784. Sono anni difficili per lui, vissuti per lo più in contrasto coi compagni di studi, a quanto pare non troppo benevoli per via del suo accento straniero, della sua carnagione olivastra e della sua bassa statura. È in questi anni che si plasma il suo carattere ombroso: facile alla malinconia improvvisa così come all’ira. Si appassiona alla lettura e per molti anni sogna la fama dell’uomo di lettere. Se si interessa di politica, è soprattutto per rivendicare il diritto all’indipendenza della sua isola natale, la Corsica. Per lui la famiglia rimarrà sempre il legame più sicuro e saldo, molto più forte della militanza politica. E negli anni del suo impero, nonostante decida di affida-
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re ai suoi parenti parte degli Stati conquistati, la famiglia rimarrà sempre una preoccupazione per Napoleone, pressato da continue richieste e dalla difficoltà di gestire le gelosie tra fratelli e sorelle, e la madre. Negli anni della Rivoluzione, dopo essersi fatto notare dal fratello di Robespierre, Augustin, durante l’assedio di Tolone (1793), viene nominato generale di brigata. Dopo la fine del Terrore, questa protezione gli costa un periodo in carcere. Nel 1795 contribuisce a soffocare un’insurrezione realista, mentre inizia a tessere abilmente relazioni pubbliche e a gestire la sua collocazione politica con disinvoltura e cinismo. Si ritrova così nel 1796, a 26 anni, generale al comando dell’armata d’Italia. Qualche giorno prima della nomina aveva sposato Giuseppina di Beauharnais, probabilmente l’unica donna di cui sia stato veramente innamorato. Questa vedova creola, di sei anni più grande di lui, inizia il giovane Napoleone alla vita frenetica di Parigi. Lui ne è davvero innamorato, a giudicare almeno dalle sue lettere dall’Italia: «Da quando ti ho la-
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trovò con Napoleone la sua definitiva messa a punto. Il prefetto, che dipendeva direttamente dal Primo console, aveva compiti politici oltre che amministrativi: applicava le direttive del governo ed esercitava il controllo sullo “spirito pubblico” e, quindi, soprattutto sulle opposizioni. I prefetti furono le «masse di granito» (l’immagine è dello stesso Napoleone) su cui si edificò il regime napoleonico.
Ÿ Prefetto francese in uniforme 1800 [Musée des Arts décoratifs, Parigi] I prefetti e i sottoprefetti, figure istituite da Napoleone il 17 febbraio del 1800, hanno il compito di controllare i dipartimenti e l’ordine pubblico. Sono lo strumento cardine su cui si fonda l’accentramento politico e burocratico di tutto l’apparato statale e, nel complesso, del regime napoleonico.
ISTRUZIONE E POLITICA ASSISTENZIALE Collegata all’esigenza di formare un capace ceto di amministratori e di tecnici fu l’attenzione prestata all’istruzione pubblica, media e universitaria. Venne potenziata l’École Polytechnique, scuola superiore per la formazione e specializzazione tecnica nei settori minerario, dell’artiglieria e delle costruzioni. Ma la struttura fondamentale dell’insegnamento pubblico furono i licei, che avevano il compito di fornire una cultura generale, soprattutto classica e letteraria, al nuovo ceto dirigente. Questo intervento nel campo scolastico non fu che uno degli aspetti dell’enorme dilatazione delle competenze e attribuzioni dello Stato realizzata in questo periodo. Lo Stato fu investito anche dei compiti di assistenza sociale e sanitaria nonché del controllo dei mendicanti. La burocrazia si dedicò con apposite inchieste a una rilevante raccolta di dati statistici, economici e sociali, che dovevano servire di base all’intervento pubblico. Lo Stato, come lo conosciamo oggi, si formò in epoca napoleonica. LA RIPRESA DELLA GUERRA E LA TREGUA CON LA GRAN BRETAGNA La riorganizzazione politica e amministrativa poté procedere senza ostacoli perché furono sistematicamente combattute le opposizioni più radicali, di destra e di sinistra. La guerriglia vandeana fu progressivamente sconfitta. I giacobini più accesi vennero deportati alle Seychelles. Il consolidamento del potere napoleonico era legato al raggiungimento della pace. E la pace passava inevitabilmente per una ripresa della guerra.
sciato sono sempre stato triste. La mia felicità è di essere accanto a te. Senza posa ripercorro nella memoria i tuoi baci, le tue lacrime, la tua amabile gelosia; e senza posa l’incanto dell’incomparabile Joséphine accende una fiamma viva e ardente nel mio cuore e nei miei sensi» (17 luglio 1796). Per il resto non si può dire che Napoleone abbia grande considerazione delle donne. Ha fama di misogino, e non sono rare le sue bordate contro personalità femminili troppo coinvolte nella vita pubblica, come Madame de Staël, per cui prova un’avversione non soltanto politica. Con la campagna d’Italia Napoleone si impone definitivamente come protagonista della vita pubblica francese. Oltre alle sue capacità strategico-militari, il generale rivela abilità politica, dando impulso alle nuove amministrazioni, gestendo i diversi partiti in cui sono divisi i patrioti italiani, talvolta con spregiudicatezza, trattando in prima persona con Ż Jacques-Louis David, Napoleone nel suo studio 1812 [National Gallery of Art, Washington]
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i governi di tutta Europa. Quando Napoleone torna a Parigi il 16 ottobre 1799 è la personalità più adatta a garantire il successo del piano di Sieyès, che viene presto messo in ombra. Riuscito quasi casualmente e mal preparato, il colpo di Stato del 18 brumaio non viene presentato né come una giornata rivoluzionaria né come una reazione antigiacobina. Napoleone si presenta invece come un uomo che non appartiene a nessun partito, colui che agisce in nome della riconciliazione nazionale. La nomina a “imperatore dei francesi” del 1804 è il punto di arrivo di un lungo percorso di progressivo accentramento di poteri e di rafforzamento del potere esecutivo, ma anche la consacrazione delle ambizioni illimitate di Bonaparte. Dominerà la scena europea per quindici anni e più, tanto da diventare «l’uomo del secolo» secondo il grande storico Georges Lefebvre (1874-1959). Ma resterà comunque il soldato della Rivoluzione perché è alla Rivoluzione che deve il suo prodigioso destino. Per di più, tra i suoi metodi di governo e quelli del Comitato di salute pubblica del Terrore ci sono molti tratti
in comune, il suo consenso è dovuto anche al rispetto dell’opera sociale della Rivoluzione, e le sue vittorie militari e diplomatiche hanno diffuso le conquiste e il linguaggio della Rivoluzione per tutta l’Europa. Quando, nel 1815, Napoleone si ritrova a Sant’Elena, sconfitto e umiliato dal fallimento dell’ultima grande avventura, i Cento giorni, consegna la sua storia alla leggenda. L’antico signore dei destini di Francia e d’Europa trascorrerà nella noia le sue ultime giornate: qualche passeggiata, delle letture, la dettatura delle sue memorie, il clima umido e piovoso. Morirà il 5 maggio 1821, probabilmente per un cancro allo stomaco. La notizia della sua morte riempì pagine di carta in tutto il mondo. La trascrizione delle sue confidenze durante l’esilio, il Memoriale di Sant’Elena (1823), è forse il più grande successo editoriale del XIX secolo. La sua leggenda rimane legata alla storia turbolenta della Francia e dell’Europa contemporanea. Bersaglio polemico o punto di riferimento ideale, la via di Napoleone, dittatoriale e insieme modernizzatrice, sarà una tentazione per tutti i governi a venire.
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Nella primavera del 1800, mentre le truppe del generale Moreau attaccavano in Germania, Napoleone varcava le Alpi, riuscendo a prevalere sugli austriaci a Marengo (giugno 1800). L’Austria, dopo ulteriori sconfitte, si adattò a firmare la pace di Lunéville (febbraio 1801), che riconosceva la ricostituzione della Repubblica cisalpina [Ź7_9] e la cessione definitiva alla Francia della riva sinistra del Reno. Dopo il ritiro della Russia dalla coalizione antifrancese, il conflitto rimaneva ancora aperto con la sola Gran Bretagna: nel marzo 1802, con la pace di Amiens, la Francia restituiva l’Egitto all’Impero ottomano, mentre la Gran Bretagna riconosceva le conquiste francesi in Europa. Ebbe inizio l’unico, e del resto brevissimo, periodo di pace tra Francia e Gran Bretagna. IL CONCORDATO CON LA CHIESA CATTOLICA Napoleone riteneva però che l’equilibrio del potere potesse essere assicurato solo dalla ricomposizione della frattura con la Chiesa di Roma. Questo obiettivo fu raggiunto con il Concordato del luglio 1801, con il quale il nuovo pontefice Pio VII riconosceva la Repubblica francese e la vendita dei beni nazionali. Tutti i vescovi, sia costituzionali sia refrattari, furono sostituiti da altri nominati dal Primo console e insediati dal papa. I vescovi dovevano giurare fedeltà alla Repubblica, ma era loro concesso nominare direttamente i parroci (che quindi cessavano di essere elettivi). Da parte sua lo Stato si assumeva l’onere della retribuzione del clero. NAPOLEONE CONSOLE A VITA L’atmosfera politica favorevole seguita al Concordato consentì a Bonaparte di proporre un plebiscito (agosto 1802) sulla trasformazione della sua carica in consolato a vita. Contemporaneamente al plebiscito fu modificata la Costituzione (Costituzione dell’anno X) ed estesi i poteri del Primo console, al quale era attribuita anche la facoltà di designare il proprio successore. IL CODICE CIVILE Nel marzo 1804 la promulgazione del Codice civile completò l’opera riformatrice di Napoleone. Il Codice salvaguardava e dava certezza giuridica alle più importanti conquiste dell’89, quelle relative all’abolizione dei diritti feudali, alle libertà civili, alla difesa della proprietà. Nel diritto di
LE PAROLE DELLA STORIA
Codice Nella storia del diritto con il termine “codice” si intende la raccolta di tutti i testi delle leggi e delle disposizioni giuridiche riguardanti una determinata materia. I periodi storici in cui vennero elaborati o rielaborati i codici coincidono strettamente con fasi di profonde trasformazioni politiche, sociali, economiche e culturali. A distanza di secoli dai codici promossi dagli imperatori romani Teodosio (438) e Giustiniano (534), il 3 marzo 1804 Napoleone promulgò il Codice civile. Dopo secoli dominati dall’incertezza e dal disordine dei privilegi feudali, un testo che raccoglieva leggi scritte, stabili e uguali per tutti, rappresentò una vera e propria conquista, oltre che una rivoluzione nella storia del diritto. Il Codice napoleonico costituì allo stes-
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so tempo un monumento ai valori della Rivoluzione francese, poiché riprendeva le norme emanate durante gli anni della Rivoluzione, e un compromesso tra i nuovi valori e le antiche consuetudini. Il Codice inoltre passò alla storia per l’estrema chiarezza e l’organicità dell’esposizione. In esso trovarono spazio tutte le novità rivoluzionarie in termini di proprietà privata, laicità dello Stato, certezza del diritto, libertà di coscienza, abolizione del feudalesimo, libertà del lavoro, uguaglianza di fronte alla legge. L’insieme di queste norme determinò, sul piano giuridico, il passaggio dall’assolutismo allo Stato borghese. Molto importanti furono le norme legate alla famiglia, alla scuola e alla successione, con il passaggio dal diritto di primogenitura alla divisione in parti uguali tra i figli del patrimonio paterno. Il Codice rior-
dinò anche il sistema di tassazione dello Stato, con l’introduzione di un rapporto molto più stretto tra il governo centrale e la periferia, ossia le unità amministrative in cui era diviso il territorio nazionale. Il nuovo ordinamento giuridico napoleonico introdusse poi alcuni provvedimenti a favore delle donne, come ad esempio il diritto al divorzio, anche se nel complesso le escludeva dalla cittadinanza politica, riaffermando la loro inferiorità sul piano giuridico. Il Codice venne applicato in tutti i paesi europei controllati da Napoleone e anche fuori dall’Europa, come in Canada. La sua influenza andò ben oltre i confini dell’Impero, divenendo un modello di riferimento per la modernizzazione dello Stato. Ancora oggi, infatti, il Codice napoleonico è alla base della legislazione vigente in gran parte d’Europa.
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STORIA IMMAGINE Jean-Baptiste Mallet, Il divorzio nella Francia rivoluzionaria XVIII sec. [Musée Carnavalet, Parigi] Il divorzio, legalizzato nel1792 in Francia durante il periodo rivoluzionario, viene mantenuto nel Codice napoleonico del 1804 che, stampato in migliaia di copie, fu distribuito a tutti i funzionari della pubblica amministrazione dell’Impero. L’incisione
Documento 47 Matrimonio e divorzio nel Codice civile, p. 272
presenta una coppia davanti al rappresentante dello Stato francese per registrare il proprio divorzio: la donna si allontana sancendo così la separazione, mentre una statua di Imeneo, il dio che per gli antichi Greci e Romani guida il corteo nuziale, ha un aspetto afflitto e fra le mani, invece che una corona di alloro a sancire l’unione, tiene solo un nastro rotto e la fiaccola spenta.
famiglia venne mantenuto il divorzio (legalizzato in Francia in piena Rivoluzione, nel 1792), mentre in campo successorio l’accesso di tutti i figli all’eredità aboliva definitivamente i privilegi di primogenitura, che la consuetudine riconosceva non solo alle famiglie nobili ma, in molte regioni, anche a quelle di altri ceti sociali. Veniva così garantita la più ampia circolazione delle proprietà, uno dei capisaldi del liberismo economico e del pensiero riformatore settecentesco [Ź3_5]. Le strutture politiche e amministrative e la riforma giuridica contribuivano a definire un ceto dirigente composto da notabili e proprietari terrieri – i soli a cui era riservato di fatto l’accesso alle cariche pubbliche –, strettamente legati a un regime che impersonava la loro ascesa recente e la riconciliazione con il passato. In questo senso, le riforme degli anni del consolato rappresentarono il risultato più duraturo della politica di Bonaparte.
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L’impero napoleonico e l’Europa CONTROLLO E REPRESSIONE DEL DISSENSO. IL NUOVO IMPERO Il rafforzamento dei poteri del Primo console era stato accompagnato da un’accentuazione dei controlli sulla stampa e su tutti gli aspetti della vita culturale. Bonaparte aveva epurato il Tribunato di molti intellettuali (tra cui lo scrittore Benjamin Constant) e più tardi aveva allontanato da Parigi la scrittrice Madame de Staël, brillante figlia del banchiere ginevrino Necker, che riuniva nel suo salotto molte voci dissenzienti. In realtà, la minaccia più consistente al governo napoleonico veniva dai sostenitori della monarchia appoggiati dalla Gran Bretagna. Nel marzo 1804 fu sventata una pericolosa congiura realista. Due mesi dopo Bonaparte volle cancellare ogni ipotesi di restaurazione borbonica facendosi nominare imperatore dei francesi, dando così inizio a una
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nuova dinastia. La Costituzione dell’anno XII, che istituiva la dignità imperiale ereditaria, fu sottoposta a plebiscito e approvata con oltre 3.500.000 “sì” e circa 2500 “no”. Papa Pio VII fu obbligato a partecipare alla cerimonia dell’incoronazione, il 2 dicembre 1804, nella Cattedrale di Notre-Dame. Con gesto esplicito e accuratamente preparato Napoleone prese la corona dalle mani del papa e se la pose sul capo, quindi incoronò la moglie Giuseppina. Occorreranno cinque anni per fare accettare a tutta l’Europa (ma non alla Gran Bretagna) il nuovo Impero. Cinque anni di guerre, di annessioni, di formazione di nuovi regni. guerriglia Il termine deriva dallo spagnolo guerrilla, diminutivo di guerra (“guerra”). Coniato in Spagna durante la resistenza antinapoleonica, indicava le truppe leggere o le bande di irregolari incaricate di spiare i movimenti del nemico o di attaccarlo con azioni a sorpresa. Successivamente il termine è entrato nell’uso indicando una particolare tattica di guerra condotta da formazioni di piccola entità contro le truppe regolari.
L’EUROPA NAPOLEONICA La geografia politica del continente ne risultò profondamente sconvolta. Nell’Europa centrale e orientale un’inarrestabile progressione di grandi vittorie militari – la più spettacolare è quella di Austerlitz sugli austro-russi il 2 dicembre 1805 – costrinse alla pace Austria, Prussia e Russia. All’Austria umiliata Napoleone impose la soppressione del Sacro romano impero (1806), mentre in Olanda, in Germania e in Polonia istituì una serie di Stati satelliti (talora affidati, col titolo di re, a propri fratelli). Anche in Spagna, nonostante una durissima guerriglia* popolare che inflisse le prime sconfitte agli eserciti napoleonici, fu instaurato un dominio francese: il trono spagnolo venne affidato al fratello di Napoleone, Giuseppe. Con il giovane zar Alessandro I, invece, fu stabilita (nel 1807) una pace che prevedeva il riconoscimento degli interessi espansionistici della Russia. In Italia la Repubblica italiana (erede della Cisalpina) fu trasformata in Regno d’Italia (1805): Bonaparte ne assunse la Corona e nominò viceré Eugenio Beauharnais, figlio di primo letto della moglie Giuseppina. Il Piemonte e la Toscana e una parte dello Stato pontificio con Roma, il Lazio e l’Umbria furono annessi alla Francia, mentre papa Pio VII che aveva scomunicato Napoleone fu arrestato. Il Regno di Napoli, deposti i Borbone, fu concesso prima al fratello di Napoleone, Giuseppe, poi al cognato Gioacchino Murat. Sotto il controllo borbonico restava la Sicilia e sotto quello dei Savoia la Sardegna.
STORIA IMMAGINE Jacques-Louis David, L’incoronazione dell’Imperatore e dell’Imperatrice 1808 [Musée du Louvre, Parigi] Il famoso dipinto di David ricorda l’incoronazione di Napoleone a “imperatore dei francesi” il 2 dicembre del 1804, avvenuta nella Cattedrale di Notre-Dame alla presenza di papa Pio VII (seduto alla destra di Napoleone). Durante la fastosa cerimonia, Bonaparte, per legittimare il potere imperiale, volle recuperare il rito medievale dell’incoronazione
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cingendo la corona con le proprie mani e incoronando la nuova imperatrice, sua moglie Giuseppina. Napoleone indossò la porpora
imperiale, la tunica bianca e la corona d’alloro: i simboli che richiamavano l’Impero romano e il passato carolingio della Francia.
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LEGGERE LE FONTI
Napoleone Bonaparte, I proclami di Austerlitz Documenti storici, antologia a c. di R. Romeo e G. Talamo, II, L’età moderna, Loescher, Torino 1972, pp. 254-55.
1° dicembre 1805.
Il manoscritto originale riporta al secondo capoverso: «Le posizioni che occupiamo sono formidabili e, mentre marceranno sulle nostre batterie [il centro dello schieramento francese], io farò attaccare i loro fianchi». Gli austro-russi assalirono invece la destra dello schieramento francese.
3 dicembre 1805.
I due proclami all’esercito, prima e dopo la battaglia di Austerlitz (2 dicembre 1805), furono pubblicati sul «Bulletin de la Grande Armée» e sul giornale ufficiale «Le Moniteur universel» e rapidamente diffusi in tutta Europa. La diffusione di questi proclami costituisce uno degli esempi più illuminanti per comprendere il ruolo centrale della propaganda nel rapporto tra Napoleone e le sue truppe e fra Napoleone e l’opinione pubblica europea. Con forti toni retorici,
Dal campo, 10 frimaio anno XIV Soldati, l’esercito russo si presenta davanti a voi per vendicare l’esercito austriaco di Ulm. Sono gli stessi battaglioni che avete sconfitto a Hollabrunn, e che poi avete costantemente seguito fin qui. Le posizioni da noi occupate sono formidabili; e, mentre essi marceranno per avvolgere la mia destra, mi presenteranno il fianco. Soldati, io stesso dirigerò tutti i vostri battaglioni; io mi terrò lontano dal fuoco se, col vostro consueto valore, porterete il disordine e la confusione nelle file nemiche; ma se per un momento la vittoria fosse incerta voi vedreste il vostro imperatore esporsi ai primi colpi, perché la vittoria non può essere dubbia, in questa giornata soprattutto in cui ne va dell’onore della fanteria francese, che importa tanto all’onore di tutta la nazione. Questa vittoria porrà fine alla nostra campagna, e noi potremo riprendere i nostri quartieri d’inverno; in cui saremo raggiunti dai nuovi eserciti che si formeranno in Francia; e allora la pace che stipulerò sarà degna del mio popolo, di voi, e di me.
A Ulm, nel mese di ottobre 1805, Napoleone aveva costretto alla resa un’intera armata austriaca. Ad Austerlitz contro i 73 mila francesi erano schierati oltre 85 mila uomini di cui 16 mila austriaci.
Austerlitz, 12 frimaio anno XIV Soldati, io sono contento di voi. Nella giornata di Austerlitz voi avete giustificato tutto ciò che mi attendevo dalla vostra intrepidezza; voi avete decorato le vostre aquile di una gloria immortale. Un esercito di 100.000 uomini, comandato dagli imperatori di Russia e d’Austria, in meno di quattr’ore è stato fatto a pezzi o disperso. Soldati, quando il popolo francese pose sulla mia testa la corona imperiale, io mi affidai a voi per mantenerla sempre in quell’alto splendore di gloria che solo poteva darle pregio ai miei occhi. Ma nello stesso momento i nostri nemici pensavano a distruggerla ed avvilirla! E quella corona di ferro, conquistata col sangue di tanti francesi, volevano obbligarmi a porla sulla testa dei nostri più crudeli nemici! Progetti temerari e insensati che, nel giorno stesso dell’anniversario dell’incoronazione del vostro imperatore, voi avete annientati e confusi! Voi avete insegnato loro che è più facile sfidarci e minacciarci che non vincerci. Soldati, quando tutto ciò che è necessario per assicurare la felicità e la prosperità della nostra patria sarà compiuto, io vi ricondurrò in Francia; là voi sarete l’oggetto delle mie più tenere sollecitudini. Il mio popolo vi rivedrà con gioia, e vi basterà dire Io ero alla battaglia di Austerlitz, perché si risponda, Ecco un valoroso.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Quale posizione strategica Napoleone intende occupare durante lo svolgimento della battaglia? b Qual è la posta in gioco in questo conflitto armato a giudizio dell’Imperatore dei francesi? c Quali conseguenze potrà avere per la nazione e l’esercito francesi un esito vittorioso del conflitto?
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genio militare e valore dei soldati sono uniti nell’esortazione alla battaglia e nella celebrazione della vittoria. Il testo del primo proclama fu modificato dopo la battaglia per dimostrare che Napoleone aveva anche compreso in anticipo tutta la manovra di attacco austro-russa. Ciò mirava ad accentuare, agli occhi dell’Europa intera, l’immagine delle incredibili capacità intuitive di Napoleone e della sua straordinaria personalità di comandante.
d Per quali ragioni Napoleone si dichiara soddisfatto del comportamento tenuto dai suoi soldati? e A quale condizione Napoleone afferma di potersi ritenere degno dell’incoronazione imperiale? f Quale impegno solenne Napoleone prende con le sue truppe?
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Stato accentrato Modello di Stato in cui il governo centrale esercita la sua autorità su tutto il territorio nazionale. Si impone definitivamente nella Francia rivoluzionaria e napoleonica, comportando l’abolizione dei privilegi delle aristocrazie, della Chiesa cattolica e delle antiche corporazioni. L’accentramento si realizza attraverso una rete di funzionari (in Francia i prefetti) che, nominati dal potere esecutivo, ne trasmettono la volontà in tutto il territorio nazionale, diviso in unità amministrative (dipartimenti, province, ecc.). Questo modello di organizzazione, presto affermatosi in tutta l’Europa continentale, si differenzia da quello inglese, basato invece sull’autogoverno delle comunità locali.
ź Charles Meynier, Napoleone a Berlino 1810 [Palazzo di Versailles, Versailles] Come raffigurato nel dipinto di Meynier, il 27 ottobre 1806 Napoleone, alla testa delle sue truppe, entra a Berlino attraverso la Porta di Brandeburgo, dopo la vittoriosa battaglia di Jena.
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IL BLOCCO CONTINENTALE E IL MATRIMONIO CON MARIA LUISA D’AUSTRIA In tutti i paesi del continente sottomessi, alleati o controllati, Napoleone aveva imposto (1806) il divieto di mantenere relazioni commerciali con la Gran Bretagna. Il cosiddetto blocco continentale mirava a distruggere la potenza commerciale britannica, dato che sembrava impossibile ridurne quella navale, soprattutto dopo la battaglia di Trafalgar (21 ottobre 1805), quando la flotta francese era stata sbaragliata dai britannici comandati da Nelson, morto in combattimento. Fra il 1810 e il 1812 il Grande Impero – Francia e Stati vassalli – raggiunse la sua massima estensione. Un dominio che Napoleone volle consolidare sposando la figlia dell’imperatore d’Austria, la granduchessa Maria Luisa. Annullato il legame con Giuseppina, dal quale non erano nati figli, il nuovo matrimonio fu celebrato a Parigi nel 1810. Il “figlio” della Rivoluzione francese sposava una nipote di Maria Antonietta, la regina ghigliottinata nella capitale 17 anni prima. Tutto questo sarebbe bastato per legittimare il nuovo impero? L’ESERCITO E LA NASCITA DI UNA NUOVA NOBILTÀ L’Impero napoleonico era fondato sulla supremazia bellica e sul dominio militare. Una supremazia che poggiava non solo sulle doti strategiche e di comando di Napoleone, ma anche su un esercito di cittadini ideologicamente e politicamente motivati. Gli eserciti messi in campo dalle altre potenze europee, composti da mercenari e da “sudditi”, erano stati sistematicamente sconfitti dall’audacia e dall’entusiasmo rivoluzionario dei francesi. In Francia le leve in massa del ’93-94 avevano introdotto il principio della coscrizione obbligatoria. Il sistema francese, secondo il quale ogni cittadino era anche un soldato, dimostrò, nonostante le numerose diserzioni, buone capacità di funzionamento grazie anche ad alcuni importanti correttivi che escludevano dall’arruolamento gli uomini sposati e consentivano ai più agiati di pagarsi un sostituto. Modi e atteggiamenti “democratici”, eredità delle origini rivoluzionarie, si mantennero vivi nell’esercito, che offriva molte possibilità di carriera e rimaneva la principale via di ascesa sociale. Dall’esercito provenivano infatti una parte rilevante del gruppo dirigente del regime napoleonico e il 59% della nuova nobiltà istituita nel 1808. La creazione di un ceto nobiliare non fu che l’ultimo atto del progressivo costituirsi di una gerarchia sociale dipendente dall’onore delle armi e dal rapporto personale con l’imperatore. Questa nobiltà divenne automaticamente un attributo delle più elevate cariche statali: era ereditaria e legata a ben definiti livelli di ricchezza. Come estrazione sociale per il 58% era costituita da borghesi, il 22,5% proveniva dall’antica nobiltà e il 19,5% dai ceti popolari. IL DOMINIO NAPOLEONICO IN EUROPA TRA INNOVAZIONE E RESISTENZE Nei paesi conquista-
ti o annessi Napoleone si appoggiò assai più a quei settori delle forze tradizionali che mostrarono la loro disponibilità a inserirsi nel nuovo sistema di potere. Più significativa come fattore di trasformazione fu l’estensione degli istituti giuridici (in primo luogo del Codice civile) e dell’amministrazione napoleonica: tutti gli Stati “vassalli” adottarono il modello francese dello Stato accentrato*. Dappertutto la feudalità o i residui del regime feudale furono aboliti,
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STORIA IMMAGINE Francisco Goya, 3 maggio 1808: fucilazione alla Montaña del Principe Pio (nota come La fucilazione) 1814 [Museo del Prado, Madrid] Questa tela documenta un evento particolarmente cruento: le truppe francesi fucilano su una collina nei pressi di Madrid un gruppo di rivoltosi, arrestati e condannati senza alcuna prova di colpevolezza. Nel 1807, le truppe napoleoniche entrano in Spagna, e il popolo, ritenendo giunta la libertà, riserva ai francesi
una buona accoglienza. Ma ben presto le mire di Napoleone diventano chiare: detronizzare i Borbone al solo scopo di sostituirli con suo fratello Giuseppe Bonaparte. A questo punto la popolazione si ribella, subendo la spietata repressione dell’esercito francese.
espropriati e soppressi gli ordini religiosi, mentre i beni ecclesiastici vennero messi in vendita per sanare il debito pubblico. Quasi ovunque questo rilevante passaggio di proprietà determinò un rafforzamento dei ceti già proprietari, soprattutto borghesi, ma anche nobiliari. Fra i contadini, solo i più agiati poterono inserirsi in questa operazione. Nell’insieme il dominio napoleonico rappresentò un potente strumento di svecchiamento delle istituzioni e di mobilitazione della società civile. Tuttavia il consenso al nuovo regime fu sempre piuttosto modesto. Del resto la presa di coscienza della società civile, indotta dalle nuove istituzioni, portava inevitabilmente a rifiutare la passiva accettazione dell’egemonia politica, militare ed economica della Francia e a favorire la diffusione di aspirazioni all’indipendenza nazionale. Proprio queste aspirazioni, in qualche caso, si tradussero in movimenti di opposizione. Tra i principali motivi di resistenza era l’imposizione del Blocco continentale che ostacolava tutta l’economia europea da tempo inserita in un sistema di scambi e danneggiava anche le manifatture francesi. Inoltre in Spagna Giuseppe Bonaparte non riusciva a venire a capo della guerriglia, né ad arginare la riconquista britannica. Anche la Sicilia occupata dalla Gran Bretagna, dove si erano rifugiati i Borbone di Napoli, sfuggiva al dominio francese. Nel 1812 la Costituzione che le Cortes di Spagna (ossia le antiche assemblee rappresentative) si diedero a Cadice e quella adottata in Sicilia sotto l’influenza britannica furono due episodi di alternativa liberale e moderata al predominio del dispotismo napoleonico sul resto d’Europa. Ispirate entrambe al modello britannico (quella spagnola anche alla Costituzione francese del ’91),
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LO SPAZIO DELLA STORIA
L’EUROPA NEL 1812
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FINLANDIA
Borga Pietroburgo
1809
MARE DEL NORD
SVEZIA
DANIMARCA HELGOLAND 1807
1808-
Aabo Stoccolma
NORVEGIA
Copenaghen
Tilsit Danzica
GRAN BRETAGNA
Berlino VESTFALIA Jena 1806
Londra Boulogne
CONFEDERAZIONE DEL RENO 1806 Ulm
ISOLE DELLA MANICA Parigi
PRUSSIA
direttrici dell’espansione francese direttrici dell’espansione russa blocco continentale Jena 1806 battaglie basi britanniche
Bialistok 1807
IMPERO RUSSO
1807 Tarnopol 1809
Austerlitz 1805 Vienna
BESSARABIA 1812
SVIZZERA
80
8
Tolone
l1 da Madrid Lisbona
IMPERO D’AUSTRIA MOLDAVIA PROVINCE Belgrado ILLIRICHE VALACCHIA 1809 Bucarest Genova Ancona SERBIA ETRURIA 1805 1805 MONTENEGRO 1807 MAR NERO Ragusa CORSICA 1809
Milano
CATALOGNA Barcellona
REGNO DI SPAGNA Cartagena Cadice Gibilterra Melilla (Spagna)
18 0
OCEANO ATLANTICO
6-1
Wagram 1809
81
2
Fontainebleau
Impero francese annessioni francesi Stati guidati da sovrani napoleonici Stati dipendenti dalla Francia annessioni russe dal 1807
GRANDUCATO DI VARSAVIA Varsavia
REGNO D‘ITALIA
Roma Napoli
REGNO DI SARDEGNA
REGNO DI NAPOLI
REGNO DI SICILIA
IMPERO OTTOMANO
ISOLE IONIE 1809
MALTA 1800
MAR M EDITERRANEO
abolivano la feudalità, introducevano la separazione dei poteri, istituivano una monarchia costituzionale e un sistema elettorale censitario. Episodi di breve durata, le due Costituzioni diverranno, negli anni della Restaurazione, modelli e obiettivi per il movimento liberale. LE RIFORME IN PRUSSIA Decisive invece per lo sviluppo di tutta la successiva storia tedesca e dei rapporti con la Francia furono le riforme introdotte in Prussia dopo l’umiliante disfatta di Jena (1806) e sotto la spinta di una rinascita intellettuale e ideologica fondata sul recupero della tradizione e dei valori tedeschi, che culminò nei Discorsi alla nazione tedesca (1807-8) del filosofo Johann Gottlieb Fichte. Le riforme economiche e sociali avviate nel 1807 dal barone von Stein abolirono la servitù della gleba, introdussero la libera circolazione e proprietà della terra, il libero accesso alle professioni. Più importanti, per il loro effetto immediato sulla potenzialità bellica, furono le riforme dell’esercito, che adottavano il principio del servizio militare come dovere – per ogni cittadino – di difendere lo Stato. Non fu tuttavia introdotta la leva obbligatoria, ma venne applicato un criterio di addestramento e di rapido avvicendamento degli uomini, che consentì di disporre di una larga riserva di truppe. Solo nel 1813, e per la sola durata della guerra, la leva divenne obbligatoria e il nuovo esercito territoriale prussiano (Landwehr), infiammato dal patriottismo e dal coinvolgimento della gioventù studentesca e degli intellettuali, fu un elemento determinante nella sconfitta di Napoleone.
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Il crollo dell’Impero I FATTORI DI DEBOLEZZA DELL’IMPERO NAPOLEONICO Nonostante il breve periodo di pace tra il 1809 e il 1812, e la nascita di un erede («il re di Roma»), la sopravvivenza dell’Impero napoleonico era tutt’altro che garantita. L’incrollabile ostilità britannica, la ribellione spagnola e l’opposizione delle nascenti forze nazionali erano ormai ostacoli insuperabili. Le potenze sconfitte non desideravano altro che porre fine all’avventura napoleonica indissolubilmente legata ai successi militari. Così quando la Russia riprese la sua libertà di commercio uscendo dal sistema continentale e sganciandosi dall’alleanza con la Francia, Napoleone rispose ancora una volta con la guerra. L’invasione della Russia sarebbe stata l’inizio del suo declino. L’INVASIONE DELLA RUSSIA Napoleone non fu in grado di valutare realisticamente le difficoltà dell’impresa. Per quanto numeroso (circa 650 mila uomini) il suo esercito era mal equipaggiato e troppo composito: nell’estate del 1812, accanto ai francesi c’erano polacchi, italiani, tedeschi, svizzeri e molti altri, per un totale di 20 nazioni e 12 lingue diverse. I russi non si lasciarono agganciare e indietreggiarono facendo terra bruciata alle loro spalle. L’esercito napoleonico, abituato a sfruttare i paesi occupati, ebbe subito difficoltà di approvvigionamento. Solo a 100 chilometri da Mosca i russi accettarono battaglia e furono sconfitti a Borodino (settembre) [Ź _21]: ma non fu uno scontro decisivo, come non lo fu la conquista di Mosca, presto distrutta da un gravissimo incendio. Napoleone non era nella posizione di forza per trattare con uno zar che lo considerava un “anticristo” contro cui risvegliare tutte le energie della santa Russia. In ottobre fu ordinata la ritirata presto trasformatasi in rotta per il freddo, il fango, la neve e gli attacchi della cavalleria cosacca.
LO SPAZIO DELLA STORIA
LA CAMPAGNA DI RUSSIA DEL 1812 Riga Libau CURLANDIA
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Varsavia GRANDUCATO DI VARSAVIA
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esercito francese avanzata (giugno-settembre 1812) ritirata (ottobre-dicembre 1812)
Malo Jaroslavez
Smolensk
Orsˇa Studianka
LITUANIA Grodno
PRUSSIA
Mosca
Borodino
Tauroggoh
Vis tol a
lga Vo
I MPE RO RUSSO a Dun
MAR BALTICO
21
IMPERO D’AUSTRIA
Leopoli
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STORIA IMMAGINE Joseph Raymond FournierSarlovèze, L’attraversamento del fiume Beresina nel novembre 1812 [Musée de l’Armée, Parigi] La ritirata dai territori russi si rivelò tutt’altro che semplice per l’esercito napoleonico. Oltre alle condizioni climatiche, i francesi dovettero affrontare gli attacchi da parte dei cosacchi posti all’inseguimento. Nei pressi del fiume Beresina (nell’attuale Repubblica di Bielorussia), le truppe francesi si trovarono accerchiate e impossibilitate ad andare oltre: il ponte più vicino era stato distrutto e la crosta di ghiaccio sulla quale Napoleone contava per attraversare il fiume si era scongelata. Con uno
stratagemma di fortuna i genieri francesi riuscirono a creare un valico percorribile sulle acque gelide del fiume creando due ponti (uno per i fanti e l’altro per i convogli e l’artiglieria). Nonostante il successo,
l’attraversamento costò a Napoleone fortissime perdite (moltissimi uomini morirono sia nella costruzione sia nel passaggio) che lo lasciarono con poco più di 100 mila soldati.
LA SCONFITTA E L’ABDICAZIONE Nel 1813 tutta l’Europa era in armi contro la Francia. I prussiani preparavano la loro “guerra di liberazione”. Si costituì una coalizione fra Gran Bretagna, Russia e Prussia, cui si aggiunse anche l’Austria. La guerra culminò a Lipsia nella battaglia delle nazioni (16-18 ottobre 1813), in cui forze soverchianti sconfissero i francesi. A essa fece seguito l’avanzata degli alleati nel cuore della Francia, invano rallentata da battaglie di interdizione: Parigi fu occupata alla fine di marzo 1814. In aprile Napoleone abdicò e i vincitori gli assegnarono il possesso dell’isola d’Elba. Sul trono di Francia fu restaurato un Borbone, Luigi XVIII, fratello del re ghigliottinato, che concesse una Costituzione con un sistema elettorale a suffragio molto ristretto. Riunite nel 1814 in congresso a Vienna, Gran Bretagna, Russia, Prussia e Austria avviarono contemporaneamente la ridefinizione dei confini d’Europa. ź Napoleone a Sant’Elena XIX sec. [Bibliothèque Marmottan, Parigi]
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I CENTO GIORNI E LA DISFATTA DI WATERLOO Ma l’avventura napoleonica non era finita. Il malcontento degli strati popolari nei confronti dei Borbone (i contadini temevano il ripristino dei prelievi feudali, i lavoratori urbani avevano visto peggiorare le loro condizioni) e il malessere di tanti soldati e ufficiali, esclusi dall’esercito, convinsero Napoleone che un suo ritorno in Francia avrebbe avuto buone probabilità di successo. E in effetti il suo sbarco sulle coste francesi (il 1° marzo 1815) fu seguito da una marcia trionfale verso Parigi, abbandonata da Luigi XVIII. Napoleone riformò la Costituzione imperiale dell’anno XII, dando spazio alle esigenze liberali, e ricorse di nuovo al plebiscito per approvare questa iniziativa. Cercò l’appoggio dei notabili, non comprendendo che essi miravano soprattutto a garantire la propria sopravvivenza,
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non quella del regime napoleonico. Rifiutò invece di cercare un consenso fra le masse popolari, a cui era radicalmente estraneo, e che forse gli avrebbero consentito di arginare con maggiore successo i dissidi interni e la minaccia esterna. Le potenze europee erano del resto decisissime a spazzarlo via. Erano gli ultimi sussulti di un regime che aveva perso la sua vitalità e che le potenze europee avevano ormai deciso di cancellare. Napoleone non riuscì a dividere e affrontare separatamente le forze nemiche che puntavano sulla Francia. A Waterloo (in Belgio), il 18 giugno, la resistenza dei britannici del duca di Wellington consentì ai prussiani di intervenire e sconfiggere duramente i francesi. Fu l’ultima battaglia di Napoleone. Consegnatosi un mese dopo alla Gran Bretagna, venne deportato sull’isola di Sant’Elena nell’Atlantico, dove morì il 5 maggio 1821. L’illusione del ritorno era durata solo cento giorni.
Storiografia P. Gueniffey, L’invenzione del voto moderno
Rivoluzione e Impero: 14 una duplice modernità La Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico rappresentano non soltanto due vicende fondamentali per la storia di Francia e d’Europa, ma sono anche due momenti di accelerazione del tempo storico e di modernizzazione politica destinati a influenzare profondamente l’intera storia mondiale successiva. Oltre a formulare e difendere nuovi princìpi, si concepiscono, in questi decenni, forme e pratiche nuove del fare politica. LA MODERNIZZAZIONE POLITICA La modernizzazione si attua su vari livelli con alcuni tratti – descritti di seguito – che si rivelano comuni tanto alla Rivoluzione quanto all’Impero, seppure in un processo di trasformazione e di evoluzione. Ɣ Il rovesciamento della società dei privilegi e del feudalesimo Con la Rivoluzione si attua questo fondamentale ammodernamento della società in primo luogo in Francia. Esportato poi nelle “repubbliche sorelle”, Napoleone lo impone infine in tutto il Grande Impero. Ɣ La definizione dei diritti civili e politici Presenti nella Dichiarazione dell’89 e nella prima Costituzione, i diritti civili e politici vengono prima ampliati tra ’92 e ’94 sul terreno dell’eguaglianza, poi di nuovo limitati dai criteri di censo. Il Codice civile napoleonico del 1804, che recepisce e dà certezza giuridica alle più importanti conquiste dell’89, garantisce l’uguaglianza di fronte alla legge e il diritto di proprietà. Ɣ La mobilitazione delle masse popolari Al tempo della Rivoluzione si mobilitano in primo luogo le masse urbane; in seguito quelle prevalentemente rurali, arruolate nell’esercito rivoluzionario e poi napoleonico. Ɣ Il rafforzamento dello Stato accentrato Già obiettivo della dittatura giacobina, l’accentramento raggiunge il suo culmine, per organizzazione ed efficienza, col sistema dei prefetti di Napoleone. Ɣ Il ruolo centrale della guerra La guerra, non è intesa solo come azione di conquista, ma anche come imposizione dei nuovi ordinamenti istituzionali: assume un carattere ideologico e politico. Per la massa dei cittadini soldati, le vittorie militari – sia quelle rivoluzionarie come a Valmy, sia quelle napoleoniche – rappresentano un elemento di aggregazione e di formazione del consenso popolare.
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LA TRADIZIONE E IL MITO La forza delle due grandi vicende, quella rivoluzionaria e la napoleonica, è stata anche di dare origine a due potenti tradizioni e a due miti largamente diffusi, seppure in ambiti politicamente diversi se non opposti. Nonostante la faticosa, e sostanzialmente fallita, fusione fra aspirazioni ideali e realizzazioni pratiche, la Rivoluzione francese costruisce un’immagine mitica positiva di sé stessa. Un mito costruito e alimentato dagli stessi rivoluzionari e divenuto potente fattore di coinvolgimento emotivo e di mobilitazione politica. Un mito che giustificava e assolveva anche gli aspetti più violenti e sanguinari del Terrore. Su queste basi si costruì una tradizione legata a princìpi come la libertà, l’eguaglianza civile, l’eguaglianza sociale. Per questo, da un unico ceppo nasceranno più tradizioni rivoluzionarie: liberale, democratica, socialista. Così tutte le tendenze politiche dell’800 – non solo in Francia – si caratterizzeranno in base a un rapporto di adesione o rifiuto dei valori della Rivoluzione o di suoi specifici momenti. Ogni movimento rivoluzionario, anche nel ’900, vorrà ritrovare nel rapporto privilegiato, immaginario o reale, con il modello della Rivoluzione francese la propria legittimazione storica. «Io non agisco che sull’immaginazione della nazione», aveva detto Napoleone nel 1800; e questo rapporto continuerà anche dopo la sua definitiva sconfitta. Con una forzatura della memoria e sulle ali del mito l’immaginazione popolare fece di lui l’eroe della Rivoluzione. Così quella contraddizione tra Rivoluzione e dispotismo, che aveva contrassegnato Napoleone e quasi un ventennio di successi politici e militari, continuò ad alimentare la sua leggenda. Il mito di Napoleone durò non solo per gran parte dell’800, anche oltre il Secondo Impero del nipote Napoleone III [Ź16_1], e il suo modello continuerà ad essere evocato dai grandi e piccoli despoti della storia successiva.
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 4
Jean-Baptiste Regnault La libertà o la morte, 1795 ca. [Hamburger Kunsthalle, Amburgo] Il dipinto La libertà o la morte del pittore francese Jean- Baptiste Regnault è la versione in scala ridotta di una tela esposta nel 1795 al Salon di Parigi e riprende il motto della Costituzione del 1793. La tela propone una gestualità delle figure solenne ed enfatizzata, capace di comunicare in modo immediato il suo messaggio politico e morale: al centro il genio della Francia, con la fiamma della Ragione sulla testa, ha le ali tricolori e sorvola il globo terrestre, esprimendo così l’universalità delle idee della Dichiarazione del 1793. Alla sua destra si riconosce la personificazione della Repubblica francese che mostra i simboli della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità (il cappello frigio, il fascio littorio e la livella con il filo a piombo). È seduta su di un trono decorato con un serpente che si morde la coda, mentre dall’altro lato del dipinto si trova la morte, rappresentata come uno scheletro con la falce. La Rivoluzione francese toccò entrambi gli estremi, riassunti in questo dipinto di Jean-Baptiste Regnault. Tra le due figure il genio alato rappresenta il punto di equilibrio. GUIDA ALLA LETTURA a Spiega chi sono i personaggi rappresentati indicando da quali elementi li si riconosce.
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b Evidenzia il titolo dell’opera e descrivine la provenienza e il significato facendo riferimento al contesto politico e sociale in cui è stata prodotta.
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STORIA IMMAGINE Antoine-Jean Gros La Marianne 1794-95 [Musée du Château, Versailles] Il mito della Rivoluzione francese fu esaltato iconograficamente attraverso numerosissime rappresentazioni, molte delle quali di natura fortemente simbolica. La Marianne, una iconografia che apparve per la prima volta proprio durante la Rivoluzione, è ancora oggi la rappresentazione allegorica della Repubblica francese. Una giovane donna, con il berretto frigio – simbolo di libertà in quanto era indossato nell’Antichità dagli schiavi greci e romani – e il fascio littorio – emblema di autorità –, veste gli abiti di una guerriera romana, personificando quegli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità esportati dalla Rivoluzione anche fuori dai confini francesi.
DUE VICENDE INCOMPIUTE Un altro tratto che avvicina la rivoluzione e Napoleone fu l’incompiutezza delle due vicende. Dalla fase liberale a quella democratica e alla dittatura, la rivoluzione non riuscì mai a chiudere il suo ciclo per poi deformarsi nel dispotismo napoleonico: un sistema di potere a sua volta destinato a non trovare mai una definitiva legittimazione, costretto a difendere con le armi un dominio precario e a essere inevitabilmente sconfitto. LE DIFFERENZE A questo quadro che ha sottolineato finora i punti di convergenza vanno aggiunti gli elementi che ne individuano le specifiche differenze. Specifiche degli anni della Rivoluzione furono la violenza delle masse urbane, protagoniste delle fasi più sanguinarie della Rivoluzione; la nascita del partito politico nella versione embrionale, ma fortemente organizzata, dei giacobini; l’esperienza della politica assembleare fino al colpo di Stato del 18 brumaio. A segnare il periodo napoleonico furono invece l’introduzione del plebiscito con la correlata raccolta del consenso popolare per via plebiscitaria (un meccanismo che vedremo all’opera anche in seguito); la coincidenza nella stessa persona del potere politico e di quello militare; la creazione di una nuova classe dirigente e di una nuova nobiltà, risultato della grande mobilità sociale di quegli anni nata dalla politica, dall’esercito e legittimata dall’alto. Infine, scorrendo questi 25 anni di rivoluzioni e di guerre con gli occhi della nostra sensibilità vien fatto di chiedersi quale fu il costo umano di questa straordinaria modernizzazione politica. Le vittime per secoli non sono entrate a far parte dei “conti” della storia. Ma forse noi dobbiamo ricordare i circa 3 milioni di caduti (secondo stime approssimative) di questa grande pagina della storia europea.
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A. L’EUROPA NEL 1799
L’Europa sotto la dominazione francese
LEGGERE E INTERPRETARE
Mare del Nord
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REPUBBLICA FRANCESE
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Nel 1792 la Francia rivoluzionaria dichiara guerra all’Europa delle monarchie assolute, sconvolgendone le frontiere. Le armate rivoluzionarie conducono una guerra di tipo ideologico al grido di «Viva la nazione!». La Francia si presenta come la liberatrice dei popoli oppressi e nei territori occupati o annessi abolisce i privilegi feudali. Inoltre va incontro alle aspirazioni dei patrioti locali e, in Olanda come in Italia, dà vita alle «Repubbliche sorelle», Stati modellati sull’esempio della Repubblica francese, che diventano sue alleate. In età napolenica, proseguono le vittoriose campagne militari che impongono il dominio francese su quasi tutta l’Europa. Il sistema di dominazione napoleonico comprende tre insiemi territoriali: a. i territori conquistati e direttamente annessi alla Francia; b. gli Stati governati dai parenti di Napoleone, modellati sull’esempio dello Stato francese; c. gli Stati dipendenti dalla Francia. Oltre a una finalità politica e militare, il dominio napoleonico comporta anche una dimensione economica: le relazioni commerciali sono organizzate in funzione degli interessi francesi. In questa strategia rientra il «blocco continentale» del 1806, misura volta a vietare le relazioni commerciali con la Gran Bretagna, al fine di mettere in difficoltà l’economia britannica.
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LEGGERE UNA CARTA STORICA
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Medi terraneo
Confine Sacro romano impero
Territori occupati dalla Francia nel 1799
Territori annessi alla Francia dal 1795 al 1799
«Repubbliche sorelle»
1 Belgio
8 Repubblica batava
2 Renania
9 Repubblica cisalpina
3 Savoia
10 Repubblica ligure
4 Contea di Nizza
8 Repubblica di Lucca 11
5 Piemonte
9 Repubblica romana 12
6 Toscana
10 Repubblica napoletana 13
7 Repubblica elvetica
14 Sacro romano impero
a. Soffermati sulla carta A.
Isole de Manic
REGNO DI SPAGNA Madrid
Lisbona
1 Quali paesi sono annessi dalla Francia tra il 1792 e il 1799? 2 Quali sono le «Repubbliche sorelle»? Perché si chiamano in
questo modo? 3 Attraverso quali strumenti la Francia rivoluzionaria domina
Trafalgar Cadice 1805
l’Europa?
Gibilterra
b. Soffermati sulla carta B.
Quali sono i territori direttamente annessi alla Francia? Quali sono gli Stati governati dai sovrani napoleonici? Quali sono gli Stati dipendenti dalla Francia? Quali eredità della Rivoluzione francese e quali provvedimenti napoleonici trovano applicazione negli Stati del «blocco continentale»? 5 Attraverso quali strumenti la Francia napoleonica domina l’Europa? 1 2 3 4
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Impero francese
Territori sotto il dominio russo
Annessioni francesi
Jena 1806 vittorie napoleoniche
Stati guidati da sovrani napoleonici
Bailén 1808 sconfitte napoleoniche
Stati dipendenti dalla Francia
«Blocco continentale»
Stati teoricamente alleati
Basi britanniche
Stati ostili
Diffusione Codice civile
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B. L’EUROPA NEL 1812
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FINLANDIA
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DANIMARCA M
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Tilsit Eylau Friedland 1807 Danzica
Berlino
VESTFALIA
Parigi
Lipsia 1813 Jena 1806 Dresda 1813 CONFEDERAZIONE DEL RENO 1806 Ulma 1805
Fontainebleau
Wagram 1809 Vienna
BESSARABIA 1812
PROVINCE ILLIRICHE 1809
Genova 1805
CATALOGNA Barcellona
GRANDUCATO DI VARSAVIA Varsavia PR US 1807 SIA
IMPERO D’AUSTRIA
Milano REGNO Marengo 1800 D‘ITALIA Tolone
Borodino 1812
Austerlitz 1805
SVIZZERA
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Londra
Waterloo 1815
IMPERO RUSSO
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SVEZIA
REGNO DI GRAN BRETAGNA
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Stoccolma
Helgoland 1807
Isole della Manica
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ETRURIA 1807 Ragusa
Roma 1809
REGNO DI SARDEGNA
IMPERO OTTOMANO
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1805 Napoli REGNO DI NAPOLI
REGNO DI SICILIA Isole Ionie 1809
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Lo Stato accentrato Gran parte delle funzioni di governo che oggi spettano esclusivamente allo Stato fino all’età moderna sono state distribuite (o, per meglio dire, disperse) tra vari attori (signori, città, ceti). Con la nascita dello Stato moderno assoluto la tendenza cominciò a invertirsi: i poteri e le competenze vennero accentrati nelle mani del monarca a scapito degli altri corpi sociali. Durante la Rivoluzione francese furono definitivamente aboliti gli antichi privilegi feudali della nobiltà e continuò l’accentramento dei vari poteri nello Stato. L’esperienza napoleonica rappresentò la prima concreta realizzazione di questo processo: lo Stato come è conosciuto oggi nacque con l’organizzazione napoleonica del potere centrale. Lo Stato moderno ed europeo è dunque una forma di organizzazione del potere in cui tutte le funzioni politiche sono concentrate in un’unica istituzione – quella statale – ed esercitate, nei limiti della legge, per mezzo di una serie di istituzioni minori, dipendenti dal centro, a cui sono attribuite funzioni specifiche: l’apparato burocratico. In base al modo in cui il potere viene gestito, lo Stato contemporaneo può avere tre forme diverse: può essere federale, regionale o accentrato. In uno Stato federale come gli Stati Uniti, il potere è ripartito tra il governo centrale – che detiene solo le funzioni
U3 L’età delle rivoluzioni
fondamentali per garantire il benessere e la sicurezza del paese – e le singole comunità (gli Stati membri dell’Unione) che ne fanno parte e che di fatto hanno piena libertà decisionale su temi come la giustizia, l’ordine pubblico e l’istruzione. Nello Stato regionale (come l’Italia), invece, il potere è pur sempre diviso tra governo centrale e comunità locali (in questo caso le Regioni), ma queste hanno minore autonomia e indipendenza dal governo centrale. Nello Stato accentrato tutti i poteri sono concentrati nel governo centrale che esercita così la sua autorità direttamente sull’intero territorio dello Stato. Lo Stato assoluto dell’età moderna fu uno Stato accentrato, come lo Stato napoleonico. In linea di massima, si può dire che fino al secondo dopoguerra lo Stato accentrato sia stata la forma più diffusa nell’Europa occidentale: un cambiamento importante a livello internazionale si registra solo con le Costituzioni del secondo dopoguerra, nelle quali si concede molto più spazio alle autonomie locali. Anche in Italia, lo Stato costituitosi nel 1861 fu unitario e accentrato, secondo il consolidato modello europeo. La scelta per l’accentramento si concretizzò nelle cosiddette «leggi di unificazione amministrativa del Regno» promulgate nel 1865, in cui è scritto: «il Regno si divide in provincie, circondari, mandamenti e comuni. In ogni provincia vi è un prefetto e un Consiglio di prefettura. Il prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia». Figure principali del
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sistema furono quindi, come in Francia [Ź7_11], i 59 prefetti (facenti capo ad altrettante province), ai quali fu affidato il compito di unificare nei fatti lo Stato. La loro presenza sul territorio doveva essere capillare, ed efficace doveva essere la loro capacità di controllo della popolazione. La legge dispose che «alla fine di ogni mese ciascun prefetto deve inviare al Ministero una relazione sulle condizioni della provincia», dalla quale risulti in modo dettagliato il quadro «dell’attitudine, degli intendimenti e dell’influenza dei partiti politici, delle manifestazioni dell’opinione pubblica e del giornalismo». Con la Costituzione del 1948 l’Italia abbandona ufficialmente l’accentramento totale dei poteri per introdurre la forma di governo regionale (art. 114: «La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni»). L’applicazione del dettato costituzionale è lentissima e le Regioni vengono istituite solo nel 1970. Il passo decisivo era comunque stato fatto: lo Stato centralizzato aveva riconosciuto le Regioni come enti autonomi (ma non indipendenti dallo Stato centrale) capaci di legiferare in ogni settore che non fosse di competenza specifica dello Stato. Secondo quanto stabilito nell’articolo 117: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione». Nonostante la sostanziale apertura, l’autonomia legislativa delle Regioni ha carattere decisamente parziale: la Costituzione non dice infatti quali siano gli ambiti di competenza delle Regioni ma si limita a elencare i settori di esclusivo controllo dello Stato (politica estera, immigrazione, rapporti con le religioni, difesa, moneta, leggi elettorali, ordine pubblico, istruzione, previdenza sociale, ambiente) lasciando tutto il resto alle Regioni, tra cui l’organizzazione sanitaria.
Ż Auguste Couder, Installazione del Consiglio di Stato nel dicembre del 1799 1836 [Consiglio di Stato, Palais Royal, Parigi] Le riforme amministrative e giuridiche compiute da Napoleone tra il 1800 e il 1804, volte a riorganizzare la struttura statale francese, portano a compimento un processo di rafforzamento del potere centrale e influenzeranno molti Stati europei. Il Consiglio di Stato francese, istituito dalla Costituzione del 13 dicembre 1799, era il principale organo giuridico del governo ed ebbe una posizione importante durante il consolato e l’Impero, assumendo in particolare un ruolo chiave nella redazione del Codice civile francese.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
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Costruiamo il lessico del cittadino 1 Leggi la scheda e completa sul quaderno le seguenti definizioni: a. Si definisce Stato accentrato una forma di Stato in cui il potere è ....................................................................... b. Si definisce Stato federale una forma di Stato in cui il potere è ........................................................................... c. Si definisce Stato regionale una forma di Stato in cui il potere è ......................................................................... d. Le Regioni sono ...............................................................................................................................................
Prefetti di ieri e di oggi 2 Figura chiave dell’opera di centralizzazione dello Stato, la carica di prefetto fu istituita nel 1800 da Napoleone Bonaparte. Come abbiamo imparato, i prefetti amministravano i dipartimenti, dipendevano direttamente dal governo e rappresentavano l’autorità statale a livello locale. Anche nell’Italia postunitaria quella del prefetto fu una figura chiave per la costruzione dello Stato accentrato: nel 1865 se ne contavano ben 59, dislocati sull’intero territorio nazionale. La carica di prefetto esiste ancora oggi, con la funzione di rappresentante del governo territoriale di province e città metropolitane, posto a capo di un ufficio denominato “Prefettura-Ufficio territoriale del Governo”, dipendente dal Ministero dell’Interno. Per scoprire quali sono le sue attribuzioni, vai sul sito della Prefettura della tua città capoluogo di provincia; nel menu a sinistra, clicca su “Il Prefetto” e poi su “Funzioni”. Leggi il contenuto della pagina, prendi appunti e realizza un testo comparativo sulle funzioni/attribuzioni del prefetto oggi e in età napoleonica [Ź7_11] e nell’Italia postunitaria [Ź18_2 e p. 230]. Puoi servirti delle informazioni contenute nel manuale, integrandole eventualmente con altre reperibili in Rete. Il testo non deve superare le 8 righe di documento Word.
Le forme di Stato nell’UE 3 A seconda della modalità con cui i paesi aderenti all’Ue esercitano il potere sovrano sul proprio territorio, essi si distinguono in accentrati, federali e regionali. Vai sul sito istituzionale dell’Ue (europa.eu); nel menu “Informazioni essenziali sull’Ue” clicca su “Paesi”: si aprirà una pagina con la lista dei 27 paesi aderenti all’Ue. Clicca su ciascuno di essi e scopri se il modello di Stato è accentrato, federale o regionale; nella tabella sottostante inserisci l’informazione nella colonna corrispondente alla forma di Stato; infine riporta sulla carta dell’Ue le informazioni, attribuendo a ciascuna forma di Stato un colore diverso. Forme di Stato nell’Ue Accentrato
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Stato accentrato
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Stato regionale
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Quali autonomie per le Regioni italiane? 4 Come si evince dagli articoli 5, 114 e 117 della Costituzione, l’Italia è uno Stato regionale: Art. 5: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Art. 114: La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione. Art. 117: La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
Le Regioni, pur godendo di ampia autonomia, sono e rimangono enti subordinati allo Stato. Esse possono autodeterminarsi politicamente, cioè scegliere un proprio indirizzo politico, ma trovano un ostacolo invalicabile nel principio di unità e indivisibilità della Repubblica, che inibisce loro tutta una serie di attività. In cosa si esplicita dunque l’autonomia regionale? Per rispondere alla domanda, vai alla voce “Regione” dell’Enciclopedia online della Treccani, leggi il paragrafo La Regione dopo la l. cost. n. 3/2001 e completa la tabella dell’autonomia, fornendo per ciascuna voce la relativa definizione. Autonomia regionale
Definizione
Autonomia statutaria
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Autonomia legislativa e regolamentare
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Autonomia amministrativa
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Autonomia tributaria
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Potere estero
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ARTE E STORIA
Salon e musei: la rivoluzione in mostra La Rivoluzione francese si ripercuote sulle arti in maniera molto profonda. In primo luogo chiama gli artisti a una esplicita presa di posizione: chi, soprattutto in Francia, decide di schierarsi a favore della Rivoluzione, deve assumere pienamente il proprio ruolo di “educatore del popolo”; al fine educativo, già proprio dell’arte illuministica, si aggiunge anche un uso politico e propagandistico dell’arte. Una nuova iconografia pervade queste espressioni artistiche: l’albero della Libertà, il berretto frigio simbolo della libertà, la Marianne (personificazione della Repubblica) e molti altri simboli diventano familiari a tutti; al contrario, i simboli della monarchia e del passato oscurantista vengono distrutti perché ne sia cancellato il ricordo dalle menti degli uomini. Il fine educativo attribuito dalla Rivoluzione francese all’arte è anche alla base della politica statale volta a sollecitare la partecipazione di artisti e pubblico alle varie manifestazioni artistiche. Ai Salon parigini – periodiche mostre d’arte in cui si espongono opere prevalentemente pittoriche – il numero dei visitatori, delle opere esposte, degli artisti partecipanti conosce un decisivo
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aumento. I Salon parigini rappresentano l’avvenimento artistico più importante in Francia e in genere in Europa nel ’700-800. Organizzati saltuariamente sin dal 1663, crescono gradualmente d’importanza fino a diventare annuali e a svolgersi sotto la supervisione della Scuola di Belle Arti, istituzione di grande prestigio, i cui professori formano la giuria delegata a decidere l’ammissione degli artisti. L’unione tra intenti propagandistici e finalità educative è efficacemente attuata con l’apertura dei musei. Il Louvre è aperto a tutti il 10 agosto 1793, anniversario della caduta della monarchia. Grazie ai criteri con cui fu allestito e all’attenzione che a esso fu in seguito dedicata da Napoleone Bonaparte, che ne fece un efficacissimo strumento di propaganda, esso diventò presto il più importante museo d’Europa. Le fortunate campagne militari di Napoleone e le spoliazioni che ne seguirono consentirono di riunire nel Louvre grandi capolavori, e di rappresentare il ventaglio più ampio possibile di scuole artistiche e di secoli diversi. La spedizione d’Egitto (1798-1801) costituisce un esempio emblematico della convergenza tra programma politico e progetto di propaganda culturale: al seguito di Napoleone partono infatti geografi, scienziati, artisti, archeologi per studiare l’Egitto e la sua antichissi-
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ma civiltà. Essi riportano in patria grandissimi tesori dell’arte e della storia egiziana, inaugurando così sia lo studio scientifico dell’egittologia sia una pratica che diventerà la norma nel corso del XIX e XX secolo, quella che unisce strettamente la conquista militare o commerciale al prelevamento dei reperti archeologici: i reperti prelevati nei territori conquistati sono infatti sistematicamente trasportati nelle capitali europee e sistemati nei grandi complessi museali che proprio in quest’epoca si stanno definitivamente affermando. Tra gli esempi di reperti famosi trasportati in Europa possiamo ricordare: la stele di Rosetta, una lastra di basalto risalente al 196 a.C., recante un’iscrizione in tre diverse scritture (geroglifico, demotico, greco), rinvenuta nel 1799 dalle truppe napoleoniche (e divenuta poi di proprietà britannica) e interpretata nel 1822 dal grande studioso francese Jean-François Champollion (1790-1832); i frontoni del tempio di Egina, isola greca nell’Egeo, acquistati da Luigi I di Baviera; i marmi del Partenone di Atene, acquistati da Lord Thomas Bruce Elgin (1766-1841) e poi venduti al British Museum; il tempio di Pergamo, città dell’Asia Minore, dal III secolo capitale di un regno ellenistico, prelevato pezzo per pezzo dai prussiani e ora esposto a Berlino all’interno dell’omonima struttura museale appositamente costruita per ospitarlo; la col-
Ż La festa del 14 luglio in Francia Il 14 luglio del 1789, giorno della presa della Bastiglia (la fortezza simbolo dell’antico regime), era considerato la data iniziale della Rivoluzione francese. Durante la Terza Repubblica, a partire dal 1880, il 14 luglio divenne festa nazionale e tale è rimasta fino a oggi. Il simbolo della repubblica fu rappresentato sempre più spesso nelle vesti di una donna che aveva anche un nome, Marianne, con il berretto frigio (simbolo della lotta di liberazione degli schiavi) e la picca dei sanculotti, i popolani rivoluzionari di Parigi. In questa immagine si può notare in alto a destra la raffigurazione della Bastiglia assediata: la fortezza fu poi distrutta e in suo luogo fu eretta una colonna celebrativa della libertà. Al centro dell’immagine (di fine ’800) le bandiere circondano il simbolo con le lettere RF, che possono essere lette sia come “repubblica francese” sia come “rivoluzione francese”. La riscoperta e la valorizzazione di questi simboli della rivoluzione consentiva ai governanti repubblicani di presentarsi come i continuatori di una storia della Francia cominciata cento anni prima.
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ARTE E STORIA
U3 L’età delle rivoluzioni
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Ÿź Stele di Rosetta 196 a.C. [British Museum, Londra] Nel 1799, durante i lavori di scavo a Forte Giuliano, vicino a Rosetta (un porto poco lontano da Alessandria), venne alla luce una lastra di basalto nero con delle iscrizioni. Il testo, copia di un decreto del faraone Tolomeo V Epifane datato 196 a.C., era composto in tre scritture: geroglifico, demotico, greco. La presenza di quest’ultima lingua, conosciuta, fu preziosissima per la traduzione del testo, e fornì la chiave di lettura dei geroglifici, finalmente decifrati nel 1822 dallo studioso francese Jean-François Champollion.
Ÿ Hubert Robert, Progetto di allestimento della Grande Galerie del Louvre nel 1796 1796 [Musée du Louvre, Parigi] Subito aperto al pubblico di tutte le estrazioni sociali, il Louvre significò per l’arte la possibilità di svolgere quel compito che la Rivoluzione le aveva assegnato: «far avanzare il progresso dello spirito umano e trasmettere alla posterità gli impressionanti esempi degli sforzi di un grande popolo che, guidato dalla ragione e dalla filosofia, stava portando avanti sulla terra il regno della libertà, dell’uguaglianza e della legge» (Jacques-Louis David, 1791).
lezione del Museo Egizio di Torino che conserva, tra l’altro, gran parte delle opere scoperte dalla missione archeologica italiana guidata da Ernesto Schiaparelli (1856-1928). È dunque sufficiente pensare ai grandi musei occidentali – il Louvre, il British museum, il Pergamon museum – per rendersi conto dell’ampiezza del patrimonio prelevato da paesi colonizzati o acquistato a poco prezzo da popolazioni povere e/o contraddistinte da un rapporto con la propria storia diverso da quello occidentale (non legato cioè ad una ricostruzione scientifica basata sui documenti e i reperti del passato). Dopo la prima guerra mondiale iniziano a levarsi alcune voci critiche contro questa pratica, senza però che essa si interrompa: si pensi all’obelisco di Axum prelevato dall’Italia fascista in Etiopia
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dopo il 1936 per abbellire la Roma “imperiale”. Solo dopo la seconda guerra mondiale, parallelamente alla conquista dell’indipendenza dalle potenze occidentali da parte dei paesi extraeuropei, inizia a maturare in questi ultimi l’attenzione verso la conservazione del proprio patrimonio storico-artistico, e la volontà di mantenerlo in loco. La fondazione dell’Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, e di altri organismi internazionali, come il Consiglio internazionale dei musei e il Centro internazionale per la conservazione e il restauro dei beni culturali, favorisce tale evoluzione, contribuendo anche concretamente al finanziamento di costose operazioni di scavo e di restauro, altrimenti insostenibili per i singoli Stati.
PISTE DI LAVORO a. Osserva attentamente l’immagine commemorativa della festa del 14 luglio raffigurata a p. 233: Quali elementi cromatici spiccano all’interno della rappresentazione? Quale valenza simbolica assume, secondo te, la nave che, avanzando sullo sfondo, sovrasta l’iscrizione «Retour des absents» (“ritorno degli assenti”)? b. Visita il sito ufficiale del Museo del Louvre (http://www.louvre.fr/histoire-du-louvre) e redigi una scheda divulgativa sulla storia del museo e sulle collezioni custodite, destinate a una classe di liceali in procinto di partire per un viaggio d’istruzione a Parigi.
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C7 La Rivoluzione francese e Napoleone RICORDARE L’ESSENZIALE
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Audiosintesi per paragrafi
La fine dell’ancien régime Di fronte all’incapacità di risolvere la crisi finanziaria che attanagliava il regno e di vincere le resistenze di nobiltà e clero, ostili all’abolizione dei propri privilegi fiscali, Luigi XVI decise di convocare gli Stati generali, ovvero l’assemblea dei tre ordini che formavano la società francese (clero, nobiltà, Terzo stato), mai più riunitasi dal 1614. Le aspettative e le rimostranze del Terzo stato, come la richiesta di un numero di rappresentanti maggiore e una modalità di voto per testa, furono raccolte nei cahiers de doléances (quaderni di lagnanze). Luigi XVI raddoppiò il numero dei rappresentanti del Terzo stato, ma non modificò la procedura di votazione. Per questo motivo i deputati del Terzo stato abbandonarono gli Stati generali e si costituirono in Assemblea nazionale (9 luglio 1789). Intanto il processo rivoluzionario subiva un’accelerazione con l’assalto alla Bastiglia del 14 luglio, che segnò l’entrata in scena del popolo parigino, deciso a procurarsi le armi e a liberare i detenuti politici. Contemporaneamente nelle campagne scoppiavano disordini e aggressioni ai castelli signorili. Spinta da questi avvenimenti, l’Assemblea nazionale decretò, nella notte del 4 agosto, l’abolizione del regime feudale, mentre il 26 agosto approvò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Luigi XVI, costretto a prende atto della situazione, si trasferì con la sua famiglia a Parigi. L’ultima spallata all’ancien régime fu data dalla requisizione dei beni ecclesiastici, che divennero beni nazionali, e la cui vendita avrebbe contribuito a sanare il deficit pubblico.
La rivoluzione democratica (1792-93) In questa situazione, la decisione di dichiarare guerra all’Austria e alla Prussia, nell’aprile ’92, fu appoggiata, sia pure per motivi opposti, dal re (per sconfiggere la Rivoluzione) e dai girondini (per diffondere gli ideali rivoluzionari). Di fronte alle prime difficoltà militari, l’iniziativa fu ripresa dal popolo parigino: il 10 agosto 1792 gli insorti (detti sanculotti) deposero e arrestarono il re, accusato di essere un traditore della Nazione. Una nuova assemblea, la Convenzione, fu eletta a suffragio universale maschile. Il 20 settembre 1792, gli austriaci vennero sconfitti a Valmy e il giorno dopo fu proclamata la Repubblica. All’interno della Convenzione si accese subito un duro confronto circa il destino del re tra i girondini (repubblicani moderati e federalisti) e i montagnardi (radicali), guidati da Robespierre. Sottoposto a processo e giudicato colpevole, Luigi XVI fu ghigliottinato il 21 gennaio 1793. L’uccisione del re accentuò l’ostilità delle altre potenze europee. Di fronte al precipitare degli eventi (rivolta contadina in Vandea, rivendicazioni dei sanculotti, il nemico alle frontiere), Robespierre e i suoi si impadronirono del potere, dando vita, nel giugno del ’93, a un governo rivoluzionario.
La rivoluzione liberale e borghese (1789-91) Per essere meglio comprese, le vicende della Rivoluzione possono suddividersi in quattro fasi. La prima, quella liberale e borghese, si contraddistinse per l’acceso dibattito fuori e dentro l’Assemblea nazionale. Tra il 1789 e il 1791, infatti, proliferarono giornali di ogni tendenza e gruppi politici di vario orientamento, dai più radicali ai moderati, i cosiddetti clubs: i foglianti, i cordiglieri, i giacobini. Uno dei temi più dibattuti fu la definizione di chi avrebbe dovuto godere del diritto di voto. Nel 1790 fu votata la Costituzione civile del clero che trasformava gli ecclesiastici in funzionari pubblici stipendiati dallo Stato. Il 3 settembre 1791 veniva infine approvata la Costituzione che trasformava la Francia in una monarchia costituzionale, dove il potere esecutivo restava nelle mani del re, mentre quello legislativo era affidato a un’Assemblea eletta a suffragio
La dittatura giacobina (1793-94) La nuova Costituzione repubblicana del ’93 non entrò mai in vigore; fu invece instaurata una dittatura attraverso l’accentramento del potere esecutivo nelle mani del Comitato di salute pubblica e l’eliminazione fisica degli avversari politici mediante il Tribunale rivoluzionario e il Terrore. Fu repressa l’insurrezione “federalista” (guidata dai girondini) e domata la rivolta in Vandea. Contemporaneamente, l’imposizione della leva di massa e la riorganizzazione dell’esercito rivoluzionario portarono, alla fine dell’anno, a nuove vittorie. Per andare incontro alle richieste dei sanculotti, inoltre, i giacobini introdussero il maximum di prezzi e salari. La politica del Terrore finì per suscitare crescenti malumori non soltanto tra i moderati, ma anche tra i gruppi politici al potere, facendo maturare una congiura: il 9 termidoro (27 luglio 1794) Robespierre e i suoi vennero mandati a morte.
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C7 La Rivoluzione francese e Napoleone
censitario. Luigi XVI, però, rimase ostile al regime liberale della nuova Costituzione, e nel giugno 1791 tentò la fuga da Parigi per porsi sotto la protezione delle forze controrivoluzionarie presenti fuori e dentro il paese.
Continuità e stabilizzazione: il Direttorio e le conquiste rivoluzionarie (1794-99) Abbattuta la dittatura giacobina, venne approvata una nuova Costituzione (1795) che affidava il potere esecutivo a un Direttorio, composto da cinque membri, che accentuava il carattere censitario del sistema elettorale. La debolezza del Direttorio lasciò spazio alle opposizioni: tentativi insurrezionali della destra filomonarchica o di rivoluzione sociale della sinistra, come la “congiura degli Eguali” promossa dal suo leader, Babeuf. Nel settembre 1797, alcuni membri del Direttorio dettero vita a un nuovo colpo di Stato, sostenuto anche da parte dell’esercito. Quanto andava accadendo in Francia ridusse notevolmente, in Europa, il numero dei sostenitori della Rivoluzione: se, da un lato, i governi europei repressero il dissenso interno, dall’altro stimolò lo sviluppo dei nuclei di opposizione. L’influenza della Rivoluzione fu marcata in Belgio e Olanda, dove l’intervento francese portò, nel primo caso, all’annessione, e nel secondo, alla costituzione della Repubblica batava. Anche in Italia si formarono vari club giacobini, che, malgrado la repressione dei governi, appoggiarono l’intervento diretto francese nel 1796-97. Nel 1796, il generale Napoleone Bonaparte ottenne il comando dell’armata d’Italia. I suoi straordinari e rapidi successi costrinsero l’Austria alla pace. Con il trattato di Campoformio (1797), gli austriaci ottennero Venezia, riconoscendo ai francesi il controllo diretto di Lombardia, Emilia e Romagna. Sull’onda dell’entusiasmo rivoluzionario, tra il 1796 e il 1799 nacquero una serie di repubbliche giacobine, tra cui la Repubblica romana (1798) e la Repubblica partenopea (1799). Queste repubbliche ebbero Costituzioni modellate su quella francese del 1795 e i loro organi legislativi e di governo furono soggetti al controllo francese. L’estraneità dei ceti popolari al dominio francese, che introdusse un pesante prelievo fiscale e praticò requisizioni forzate, determinò frequenti episodi di rivolta. La sollevazione dei contadini guidata dal cardinale Ruffo, alla testa dell’armata della Santa Fede, fu decisiva per la restaurazione borbonica nel Regno di Napoli. Il colpo di Stato e la svolta autoritaria di Napoleone Dopo la campagna d’Italia, nel 1798, Bonaparte organizzò una spedizione in Egitto per colpire da lì gli interessi commerciali inglesi. I suoi iniziali successi militari (battaglia delle Piramidi) furo-
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U3 L’età delle rivoluzioni
no annullati dalla distruzione della flotta francese operata dall’ammiraglio inglese Horatio Nelson ad Abukir, mentre austriaci e russi attaccarono in Germania e Italia, annullando le precedenti conquiste francesi. La situazione di crisi politica si risolse con il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799), che poté realizzarsi solo grazie all’intervento militare di Bonaparte. Quest’ultimo e altri due membri del Direttorio divennero consoli della Repubblica francese. La nuova Costituzione del 1799 attribuiva a Bonaparte il titolo di primo console, cui spettavano il potere esecutivo e l’iniziativa legislativa, mentre gli altri due consoli ebbero solo un ruolo consultivo. Napoleone instaurò da subito un governo dittatoriale, basato sul consenso diretto del popolo ottenuto attraverso i plebisciti. I suoi poteri si ampliarono ulteriormente negli anni successivi: nel 1802 con la nomina a console a vita (1802) con diritto di nominare il proprio successore; nel 1804 con la nomina a imperatore dei francesi. Sul piano della riorganizzazione dello Stato, Napoleone procedette alla centralizzazione burocratica e amministrativa attraverso l’istituzione dei prefetti e riformò il sistema scolastico. Sconfitte le opposizioni più radicali di destra e di sinistra, il consolidamento del potere napoleonico fu sugellato dai successi militari raggiunti contro i principali nemici della Francia: nel 1801 fu conclusa la pace con
l’Austria e l’anno successivo con la Gran Bretagna. Sempre nel 1801 Napoleone firmò il Concordato con la Chiesa di Roma. Con la promulgazione del Codice civile del 1804, che accoglieva le più importanti conquiste dell’89, Napoleone completò la sua opera riformatrice. Napoleone e l’Europa Tra il 1805 e il 1809 Napoleone costruì il suo Impero grazie a una supremazia militare basata su un esercito di “cittadini”. L’esercito rappresentò anche la principale via di ascesa sociale, contribuendo alla formazione della nuova nobiltà napoleonica. Le vittorie di Napoleone costrinsero alla pace Austria, Prussia e Russia; in Olanda, Germania, Polonia furono istituiti Stati satelliti, mentre il Sacro romano impero fu soppresso e la Russia fu inserita nella politica internazionale francese. La vittoria britannica a Trafalgar segnò una svolta nella politica antinglese di Napoleone. Di fronte alla netta superiorità navale del nemico, Napoleone decise di colpirne la potenza commerciale, varando nel 1806 il blocco continentale che stabiliva il divieto per i paesi europei di commerciare con la Gran Bretagna. Questa decisione danneggiò l’economia degli Stati soggetti, contribuendo ad accrescere l’ostilità antifrancese. Il periodo relativamente pacifico tra il 1809 e il 1812 non portò a un consolida-
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
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mento dell’Impero, impedito dall’ostilità inglese (occupazione della Sicilia e della Spagna), dal conflitto con il papa, dalla ribellione spagnola, che sfociò nell’approvazione di una Costituzione moderata (1812), e dall’opposizione delle forze nazionali. A ciò si aggiunse lo sganciamento russo dall’alleanza con la Francia, cui Napoleone rispose con l’invasione della Russia, nel 1812. L’avanzata francese, di fronte a un nemico che faceva terra bruciata, si risolse in una ritirata che si trasformò poi in una rotta. Una nuova coalizione sconfisse Napoleone a Lipsia nell’ottobre 1813. Dopo l’occupazione di Parigi da parte delle truppe nemiche, nell’aprile 1814 Napoleone abdicò, ritirandosi nell’isola d’Elba. Nel marzo 1815 riuscì a fuggire e a tornare in Francia, dove riassunse il potere e riorganizzò l’esercito. Sconfitto definitivamente a Waterloo nel mese di giugno, Napoleone venne deportato nell’isola di Sant’Elena, dove morì il 5 maggio 1821. L’eredità politica e sociale Eredità della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico sono il rovesciamento della società dei privilegi e del feudalesimo, la conquista e l’affermazione dei diritti civili e politici, la mobilitazione delle masse popolari, il processo di accentramento e organizzazione dello Stato, infine il ruolo della guerra che assume valenze ideologiche e politiche.
Test interattivi
1 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Il Terzo stato... a. rappresentava circa l’1,5% della popolazione totale della Francia; b. si autoproclamò Assemblea nazionale con l’appoggio di alcuni membri del basso clero, il 17 giugno del 1789; c. confluì nel partito nazionale per sostenere il voto per ordine. 2. I cahiers de doléances furono... a. un tentativo del re di contenere i contropoteri e il malcontento interno allo Stato; b. la scintilla che permise ai tre Stati di allearsi per un obiettivo politico comune; c. redatti da funzionari del sovrano e ritraggono quindi una società ordinata. 3. La Costituzione del 1791 era basata sull’equilibrio tra... a. potere esecutivo del re e potere legislativo dell’Assemblea; b. potere giudiziario del re e potere legislativo dei giudici; c. potere esecutivo dei nobili e potere legislativo del senato.
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4. La politica del Terrore promossa dal Comitato di salute pubblica, fra il 1793 e il 1794, ... a. fece tra le sue vittime i rivoluzionari Desmoulins, Danton, Robespierre e Saint-Just; b. causò la condanna a morte di circa 600 mila cittadini francesi dichiarati sospetti; c. fu lo strumento vincente utilizzato dai giacobini per reprimere il colpo di Stato del 27 luglio 1794. 5. Con il trattato di Campoformio del 1797... a. Napoleone Bonaparte si arrese agli austriaci, a cui dovette cedere il Veneto; b. l’Austria perse il controllo dei territori che costituirono la Repubblica cisalpina; c. tutta l’Italia era sotto l’influenza francese, eccetto il Regno di Napoli e il Veneto. 6. Nelle Repubbliche «giacobine» in Italia, le riforme... a. furono spesso annunciate, ma raramente misero in discussione la proprietà agraria; b. scardinarono l’assetto feudale, soprattutto quello legato alle proprietà ecclesiastiche; c. favorirono la partecipazione delle masse popolari alla vita politica ed economica degli Stati.
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C7 La Rivoluzione francese e Napoleone
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2 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Il marchese di La Fayette, comandante della Guardia nazionale, fu uno dei protagonisti della Festa della Federazione. b. I rivoluzionari diffusero nuovi culti, tra cui quello dell’Essere supremo. c. Danton guidò i congiurati che, nel 1795, misero fine alla politica del Grande Terrore. d. Napoleone Bonaparte guidò, nel 1794, un tentativo di colpo di Stato dei realisti. e. Il Comitato di salute pubblica, istituito nel 1793, era diretto da Robespierre. f. Brissot era il leader dei girondini, l’ala destra della Convenzione nazionale. g. Saint-Just fu decapitato insieme agli altri leader girondini, nel 1793. h. Filippo Buonarroti cospirò contro il Direttorio e in seguito lavorò al suo servizio in Italia. i. François-Nöel Babeuf fu a capo della «congiura degli Eguali», un movimento contro la proprietà privata.
j. Secondo la Costituzione dell’anno VIII, il potere legislativo era affidato interamente al Senato. k. In cinque anni, dal 1799 al 1804, Napoleone ricorse per tre volte allo strumento del plebiscito. l. Il numero di cittadini francesi che parteciparono al primo plebiscito fu inferiore ai 4 milioni. m. Napoleone governò incontrastato fino all’occupazione di Mosca. n. La riforma amministrativa dello Stato francese non sopravvisse alla sconfitta di Napoleone. o. Il Codice civile del 1804 fu esteso con successo agli Stati vassalli dell’Impero napoleonico. p. Nessun cittadino francese, in condizione di arruolamento, poteva sottrarsi alla leva militare. q. Nella guerra contro la Russia, l’esercito napoleonico subì perdite per oltre 500 mila uomini. r. La coalizione antifrancese formatasi nel 1813 comprendeva Inghilterra, Russia, Prussia e Austria.
3 Completa la tabella relativa alle tre assemblee che operarono il cambiamento istituzionale in Francia, collocando le espressioni di seguito fornite: 1789 • 1791 • 1792 • clero, nobili, Terzo stato • Deputati moderati e costituzionali eletti a suffragio ristretto • Deputati eletti a suffragio universale • Abolizione della monarchia • Costituzione democratica • la proclamazione della Repubblica • la Costituzione liberale e moderata • la monarchia costituzionale • il raddoppio dei membri del Terzo stato • la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino Nasce nel...
È costituita da...
I successi e i traguardi raggiunti sono...
Assemblea nazionale costituente Assemblea legislativa Convenzione nazionale
4 Completa la linea del tempo relativa agli eventi salienti della Rivoluzione francese. 9 luglio 1789: nasce l’Assemblea nazionale costituente ..........................................: presa della Bastiglia 3 settembre 1791: il re firma la Costituzione liberale Aprile 1792: scoppia la guerra tra Francia e Austria ..........................................: viene eletta la Convenzione nazionale a suffragio universale ..........................................: Luigi XVI viene ghigliottinato Aprile 1793: Comitato di salute pubblica 1793: viene varata la Costituzione democratica 1793-94: la dittatura giacobina ..........................................: viene ucciso Robespierre 1796: congiura degli Eguali 1789
1796
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U3 L’età delle rivoluzioni
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5 Completa lo schema sulle caratteristiche dello Stato napoleonico, inserendo nelle apposite caselle le lettere corrispondenti alle affermazioni date: fai attenzione perché due affermazioni sono errate. a. Il clero doveva giurare fedeltà alla Repubblica, ma lo Stato si assumeva il compito di retribuirne i membri / b. Prefetti / c. Codice civile / d. Costituzione civile del clero / e. Assistenza sociale e sanitaria / f. Controllo dei mendicanti / g. Riforma dell’istruzione pubblica / h. Introduzione del diritto al divorzio / i. Controllo poliziesco sulla stampa / l. Abolizione della proprietà privata
STATO
Giustizia
Amministrazione
Controllo sociale
.............; .............
.............; .............
.............; .............; .............
6 Completa la linea del tempo relativa agli eventi salienti del governo di Napoleone fino alla sua morte. ........................................: Napoleone Primo console 1802: Napoleone diventa console a vita ........................................: Napoleone diventa imperatore 2 dicembre 1805: vittoria di Austerlitz 1812: campagna di Russia conclusasi con un insuccesso ........................................: sul trono francese viene rimesso un Borbone nella persona di Luigi XVIII 1º marzo 1815: Napoleone torna trionfante a Parigi che non vuole un nuovo Borbone ........................................: Napoleone viene sconfitto a Waterloo ........................................: Napoleone muore a Sant’Elena 1799
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1821
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COMPETENZE IN AZIONE 7 Scrivi un testo che riassuma le fasi principali della Rivoluzione francese e, per ciascuna fase, scrivi uno o più periodi che contengano le seguenti parole ed espressioni. Inoltre, seleziona, tra le immagini presenti nel capitolo, quelle che ritieni particolarmente utili all’illustrazione dell’esposizione. a. Stati generali; Assemblea nazionale; Pallacorda. e. Repubblica; morte del re; Valmy. b. Bastiglia; popolo; “grande paura”. f. Vandea; Comitato di salute pubblica; Terrore. c. riforme; beni della Chiesa; dipartimenti. g. Terrore bianco; Direttorio; congiura. d. nemici; re; Prussia; guerra. h. Bonaparte; “repubbliche sorelle”; colpo di Stato. 8 Scrivi un breve testo argomentativo sul rapporto dispotismo/rivoluzione nella politica napoleonica utilizzando la scaletta data. Inoltre, seleziona, tra le immagini presenti nel capitolo, quelle che ritieni particolarmente utili all’illustrazione dell’esposizione. a. Napoleone operò una serie di riforme dello Stato in direzione... d. Nei territori conquistati o annessi all’Impero la politica napoleonica consistette... b. Il governo della popolazione veniva realizzato mediante... e. Nei paesi cattolici l’atteggiamento della popolazione fu..., nel c. Gli oppositori del regime subivano... Nord
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C8 La prima rivoluzione industriale EXTRA ONLINE
Fare storia La nascita dell’industria moderna, p. 274
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meccanizzazione La meccanizzazione consiste nell’impiego parziale o totale delle macchine per sostituire, nella produzione, il lavoro manuale dell’uomo o la forza motrice degli animali. Diversamente dall’automazione, che può non dipendere da un operatore umano, la meccanizzazione prevede la partecipazione dell’uomo.
Focus Invenzioni e brevetti • Industria tessile e filatura meccanica •
La tecnologia siderurgica • Il lavoro minorile • La locomotiva a vapore • Arte e industria
Lezioni attive Innovazioni industriali e di organizzazione del lavoro
I caratteri della rivoluzione industriale I FATTORI DELLA TRASFORMAZIONE «Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto [...]. L’esercizio dell’industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura [...]. Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale subentrarono i milionari dell’industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni». In questo brano, tratto dalle pagine iniziali del Manifesto del Partito comunista scritto nel 1848, due profondi conoscitori delle trasformazioni della società come i filosofi politici tedeschi Karl Marx e Friedrich Engels [Ź9_7] individuavano i passaggi cruciali che avevano determinato la rivoluzione industriale e la nascita della grande industria: il ruolo del commercio internazionale nel sollecitare la domanda di nuovi prodotti e il passaggio dalla produzione delle corporazioni artigiane a quella delle manifatture; l’introduzione nel processo produttivo di nuove macchine che danno vita alla fabbrica meccanizzata* e la nascita di nuove classi sociali come la borghesia imprenditoriale
STORIA IMMAGINE La città inglese di Sheffield La città inglese di Sheffield, nello Yorkshire, alla metà del XIX secolo, nel pieno dell’industrializzazione: un vero e proprio centro urbano caratterizzato dalla presenza di un alto numero di edifici industriali. Un elemento si impone immediatamente all’attenzione di chi guarda: le colonne di fumo delle ciminiere che trasformano il paesaggio, diventandone parte integrante e caratterizzante.
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U3 L’età delle rivoluzioni
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e il proletariato industriale (composto dai lavoratori salariati* e dalle loro famiglie).
lavoro salariato Il lavoratore impiegato nella fabbrica presta la sua opera alle dipendenze del padrone della fabbrica in cambio di una somma di denaro giornaliera, il salario. Questo tipo di lavoratore non possiede altro che la sua capacità di lavorare e la vende in cambio del salario. Nella società preindustriale, invece, i lavoratori erano spesso proprietari degli strumenti di produzione, dai telai agli attrezzi agricoli, e li usavano per ottenere i prodotti che consumavano o vendevano sul mercato.
UNA RIVOLUZIONE ECONOMICA La rivoluzione industriale ebbe inizio in Gran Bretagna, in particolare in Inghilterra, a partire dagli anni ’60 del ’700 per poi estendersi nell’800 ad altri paesi europei e agli Stati Uniti. Il tasso di sviluppo dell’economia che si registrò in quegli anni, pari all’1,5%, può essere considerato basso se paragonato ai ritmi di crescita del ’900 (vicini e talora superiori al 6-8%), ma l’aspetto più importante è la continuità dello sviluppo accompagnato da profonde trasformazioni sociali. Le rivoluzioni economiche non hanno i tempi rapidi delle rivoluzioni politiche, misurabili in giorni e mesi, e qualche volta in un numero limitato di anni, ma producono effetti duraturi ed evidenti nel medio e lungo periodo. Grande produttrice di ricchezza, l’industrializzazione sarebbe divenuta, in tutto il pianeta e per oltre due secoli, la via obbligata per la conquista del benessere o almeno per l’uscita dalla povertà, anche se a prezzo di un iniziale peggioramento delle condizioni di lavoro per milioni di uomini, donne e bambini.
Perché in Gran Bretagna?
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Per comprendere le ragioni per cui la Gran Bretagna divenne la prima nazione industriale è dunque indispensabile individuare i prerequisiti ossia le condizioni preliminari e particolari che consentirono alla rivoluzione di prendere avvio sul suolo britannico e non altrove.
Storiografia 48 P.K. O’Brien, Perché l’Inghilterra?, p. 274
COMMERCIO INTERNAZIONALE E MATERIE PRIME A BASSO COSTO Dalla metà del ’700 la Gran Bretagna dominava il commercio internazionale. Posta al centro di questi traffici internazionali, Londra sviluppò una rete sempre più estesa di servizi di credito e assicurativi, assumendo il ruolo di capitale finanziaria di tutta l’Europa. Il controllo del mercato internazionale fornì alle manifatture britanniche la possibilità di un rapido e poco costoso approvvigionamento di I NUMERI DELLA STORIA
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Il commercio inglese (1700-1800) milioni di sterline 60 – 50 – 40 – 30 –
20 – 15 –
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1800 –
1790 –
1780 –
1770 –
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1750 –
1740 –
1730 –
1720 –
1710 –
7,5 –
1700 –
10 –
Salvo un breve periodo di crisi nei primi anni ’40 e uno più consistente durante il conflitto con le colonie americane (177583), lo sviluppo del commercio estero inglese del ’700 è costante, con un’impennata nella seconda metà degli anni ’80.
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STORIA IMMAGINE Ford Madox Brown, L’inaugurazione del Bridgewater Canal nel 1761 1869 [Murale nel Municipio di Manchester (Inghilterra)] Tra il 1759 e il 1761 venne progettato, e fatto realizzare dal duca di Bridgewater, il primo canale artificiale per scopi industriali: serviva per portare il carbone dalle miniere nel Worsley fino alle fabbriche dell’industriosa Manchester, collegando in parte questa con Liverpool, un’altra tra le più importanti città industriali inglesi del ’700.
materie prime, come il cotone grezzo, materia prima essenziale alla nascita della moderna industria tessile, e insieme garantì un ampio mercato di vendita per i prodotti delle industrie nazionali. Lo sviluppo commerciale favorì inoltre la formazione di operatori economici dotati di mentalità imprenditoriale, di disponibilità al rischio e di spirito di iniziativa, qualità indispensabili per avviare e sostenere una crescita economica. UNA SOCIETÀ PROSPERA E DINAMICA La società britannica si distingueva anche per una superiore diffusione delle libertà e della tolleranza, elementi strettamente connessi al commercio e all’ascesa delle classi medie. Paese già prospero e culturalmente vivacissimo, era in grado di offrire molti sbocchi allo spirito pragmatico, alla disponibilità al rischio e al dinamismo dei suoi imprenditori. IL RUOLO DELLA RIVOLUZIONE AGRICOLA: DISPONIBILITÀ DI CAPITALI E MANODOPERA La rivoluzione agricola – con la privatizzazione delle terre, sostenuta
Storiografia 49 D.S. Landes, Il mercato inglese, p. 275
con energia dal Parlamento – contribuì ad avviare e sostenere il processo di industrializzazione su vari piani. In primo luogo determinando un forte aumento della produzione sopperì al fabbisogno alimentare di una popolazione in rapida crescita. In secondo luogo, la crescita dei redditi agricoli ad essa legata favorì la formazione del mercato interno, che si rivelerà un’importante fonte di domanda per i prodotti britannici. Decisivo fu inoltre, seppure a industrializzazione già avviata, il ruolo della rivoluzione agricola nel determinare – con la riduzione delle opportunità per i piccoli proprietari e i contadini autonomi – quel massiccio esodo dalle campagne che consentì lo sviluppo del proletariato industriale. IL MIGLIORAMENTO DELLE VIE DI COMUNICAZIONE Nuovi sistemi di pavimentazione resero percorribili le strade anche durante la cattiva stagione. L’istituzione di pedaggi sulle arterie principali e l’ingresso dei privati nella gestione, prima affidata alle comunità locali, rappresentarono un incentivo alla manutenzione e al miglioramento della rete viaria. Ancora più significativa fu l’espansione dei canali navigabili (3200 km alla fine del ’700), poiché attraverso questi si svolse il traffico di materiali pesanti, come il carbone e il ferro, la cui disponibilità risultò determinante per la produzione industriale.
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LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE: LE PREMESSE
Carbone e ferro a basso costo
Attiva industria mineraria
Commercio internazionale
Cotone a basso costo
Ampliamento dei mercati
Società prospera e dinamica
Stabilità politica
Borghesia attiva e intraprendente
Rivoluzione agricola
Aumento demografico Aumento produttività Aumento manodopera
produzione/produttività Per produzione si intende l’insieme delle operazioni, semplici o complesse, attraverso le quali si crea un bene trasformando altri beni. La produttività è invece il rapporto fra la produzione e il lavoro svolto per ottenerla.
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Personaggi James Watt e la macchina a vapore, p. 244
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Accumulo di capitali da reinvestire
UNA CULTURA SCIENTIFICO-PRATICA Un altro fattore che distingueva la società britannica era la diffusione anche negli strati artigianali degli elementi della formazione di base – leggere, scrivere e soprattutto fare di conto – alla quale corrispondeva la presenza di una cultura scientifico-pratica che sollecitava la ricerca di nuove soluzioni tecniche per la nascente meccanizzazione. I principali inventori delle nuove macchine per l’industria tessile non furono scienziati ma ingegnosi praticanti. ENERGIA A BASSO COSTO Infine, in Gran Bretagna, un costo del lavoro relativamente alto (se paragonato a quello di altri paesi europei o asiatici) e una disponibilità di energia, idrica o prodotta dal carbone, a basso prezzo, resero conveniente puntare sull’innovazione tecnologica e sulle nuove macchine per aumentare la produzione* complessiva e la produttività* per lavoratore. Ciò fu particolarmente evidente nelle innovazioni applicate alla filatura del cotone. Altrove, sul continente europeo, per non parlare dell’India, il basso costo del lavoro non costituiva un incentivo alla meccanizzazione.
Storiografia 48 P.K. O’Brien, Perché l’Inghilterra?, p. 274
Storiografia J. Mokyr, Una rivoluzione tecnologica
Legislazione a sostegno delle recinzioni
Innovazioni e sviluppo tecnologico DALL’INVENZIONE ALLA INNOVAZIONE Numerose furono le invenzioni che accompagnarono i primi anni dello sviluppo industriale: ad esse è stato a lungo attribuito un ruolo determinante nella trasformazione economica. In realtà, un’osservazione più attenta del rapporto temporale tra invenzione, applicazione al processo produttivo e sviluppo della produzione consente di comprendere come il ruolo dell’invenzione risulti marginale nell’avviare il processo di industrializzazione, mentre sono piuttosto le esigenze poste da quest’ultima che determinano l’introduzione di nuove tecniche nel processo produttivo. Appare quindi opportuno rifarsi alla classica distinzione dell’economista austriaco Joseph A. Schumpeter (1883-1950) tra invenzioni e innovazioni. Il termine invenzione designa la scoperta
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macchine utènsili Le macchine utènsili sono fisse e alimentate da una forza motrice. Vengono usate per sagomare pezzi di legno, metallo o altro materiale in grande quantità. Queste macchine possono tagliare, tranciare, spremere la materia prima ma, in tempi molto recenti, anche agire sulla materia con l’energia elettrica o gli ultrasuoni. Storiografia 50 R.C. Allen, L’industria del cotone, p. 276
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di una determinata tecnica, quello di innovazione indica invece la sua applicazione. Così non è l’invenzione in quanto tale che provoca il cambiamento, ma è la sua applicazione diffusa e costante che costituisce il cuore della trasformazione tecnica. In questo campo la rivoluzione industriale segna il passaggio da una situazione nella quale il progresso scientifico era caratterizzato da scoperte sporadiche a una fase segnata da un flusso continuo e concatenato di innovazioni. I settori principalmente interessati dai cambiamenti tecnologici furono quelli delle macchine utènsili* e della generazione di forza motrice e, strettamente connessi a quest’ultima, della estrazione e lavorazione delle materie prime, in particolare del carbone e dei minerali ferrosi. LA MECCANIZZAZIONE DELLA FILATURA Nel settore dell’industria tessile, la reciprocità del rapporto tra invenzione e produzione risulta particolarmente evidente. In un breve giro di anni una serie di invenzioni consentì il passaggio alla completa meccanizzazione della filatura (l’operazione che trasforma il materiale grezzo in filo) e alla produzione di un filato sempre più sottile e resistente: venne messa a punto prima la macchina per filare azionata a mano, la jenny di James Hargreaves, brevettata nel 1765; poi, nel 1769, fu inventato da Richard Arkwright il filatoio idraulico, alimentato appunto con energia idrica; e nel 1779 il filatoio mule di Samuel Crompton, un ibrido fra le due precedenti macchine. La tessitura rimase invece prevalentemente manuale nonostante l’invenzione del telaio meccanico di Edmund Cartwright (1787), che tuttavia si affermò solo a partire dal 1820, mentre i telai tradizionali rimasero in attività fino al 1850 circa. LA MACCHINA A VAPORE Ancora nei primi decenni dell’800, a fornire l’energia per muovere le nuove macchine erano le ruote idrauliche installate lungo i
Ÿ Il filatoio idraulico di Arkwright del 1769 [National Museum of Science and Industry, Londra] Ź Interno di una manifattura tessile 1835 [Science Museum, Londra] L’immagine mostra il sistema della filatura intermittente operata da più macchine chiamate spinning jenny (in italiano “giannetta”). La spinning jenny venne messa a punto dall’inglese James Hargreaves fra il 1764 e il 1770 consentendo di filare con più fusi (fino a 120) contemporaneamente.
LE PRINCIPALI INNOVAZIONI
1765 Filatrice meccanica di Hargreaves (jenny)
1760
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Filatoio idraulico di Arkwright
1769 Macchina a vapore di Watt
1770
1787 Telaio meccanico di Cartwright
1779 Filatoio di Crompton (mule)
1780
1790
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corsi d’acqua e le fabbriche si chiamavano mills, “mulini”. Una svolta decisiva fu il passaggio allo sfruttamento dell’energia termica con la costruzione delle prime macchine a vapore – a cominciare da quella inventata da James Watt nel 1769. La macchina a vapore funzionava bruciando carbone per riscaldare l’acqua e produrre vapore. Generava così energia artificialmente e in base alle esigenze di produzione. Divenne allora sempre più conveniente utilizzare una forza motrice costante alimentata da un combustibile, il carbone appunto, di cui la Gran Bretagna possedeva ricchi giacimenti, senza sottostare più ai cicli naturali – che condizionavano l’impiego di energia eolica e idrica – o ai limiti della forza fisica umana e animale. Inizialmente impiegate per aspirare acqua nelle miniere, le macchine a vapore sostituirono progressivamente le ruote idrauliche anche in altri settori e in particolare, come vedremo, in quello tessile e siderurgico. A questo punto, vapore e carbone divennero gli strumenti del progresso. Nel 1800 erano in funzione 1000 macchine a vapore, nel 1815 la potenza installata era già cresciuta di 20 volte.
P
PERSONAGGI
James Watt e la macchina a vapore Nello sterminato elenco di ingegneri, tecnici, meccanici, imprenditori artefici della grande mole di innovazioni all’origine della rivoluzione industriale, il nome di James Watt (1736-1819) è sicuramente il più noto. Si deve a lui, infatti, la progettazione e la realizzazione di alcune fondamentali invenzioni che resero la macchina a vapore uno strumento capace prima di trasformare il modo di lavorare e produrre e poi, in un secondo momento, di rivoluzionare i sistemi di trasporto [Ź8_6]. La sua iniziale formazione si svolse a Greenock, la cittadina scozzese in cui nacque e crebbe: non tanto però nelle aule scolastiche, dove si dedicò principalmente allo studio delle materie classiche, quanto nel laboratorio del padre, architetto e costruttore navale, nel quale iniziò, già da bambino, a prendere confidenza con gli strumenti di lavoro e con i disegni dei progetti. Finite le scuole, si trasferì prima a Glasgow e poi a Londra per studiare matematica e scienze all’università. Dopo un anno nella capitale, senza portare a termine gli studi, decise di fare ritorno a Glasgow, dove fu assunto dall’università come tecnico responsabile dell’attrezzatura dei laboratori. Ebbe così modo di partecipare alle diverse attività di ricerca e conoscere alcuni dei maggiori scienziati attivi in Scozia come il fisico Joseph Black, che stava sviluppando il concetto di “calore latente”, e il chimico John Robinson. Fu proprio nel corso di questa
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collaborazione che Watt cominciò a interessarsi all’uso del vapore come fonte di energia motrice. Nel 1764 fu incaricato di lavorare su un piccolo esemplare della “macchina di Newcomen”. La macchina, messa a punto da Thomas Newcomen una cinquantina d’anni prima, era stato il primo strumento a usare il vapore per generare energia. Utilizzata soprattutto per pompare acqua dalle miniere, era un macchinario rudimentale dagli impieghi limitati, che richiedeva un’elevata quantità di carbone. In realtà, Watt da tempo aveva cominciato a elaborare progetti per macchine a vapore e a costruire alcuni prototipi. Si trattava, tuttavia, soltanto di tentativi, condotti per lo più senza una sperimentazione diretta del funzionamento delle macchine già esistenti. Per queste ragioni, il lavoro iniziato sulla macchina di Newcomen fu una tappa fondamentale per il procedere dei suoi studi. Watt impiegò circa un anno per venire a capo del problema del grande spreco di calore, solo una parte del quale era utilizzato direttamente per produrre il movimento. La soluzione fu trovata nel “condensatore separato”: a fianco al cilindro in cui, per effetto del vapore, si muoveva il pistone che attivava l’azione meccanica, inserì un secondo contenitore separato nel quale la temperatura poteva essere diminuita, in modo da non disperdere il calore dentro il cilindro. In questo modo si produceva energia motrice utilizzando una minore quantità di calore e, dunque, di carbone da bruciare. Watt giunse così – al termine di un lungo lavoro di studio e di rigo-
rose sperimentazioni – a realizzare la sua più grande invenzione. Poco dopo aver elaborato la sua invenzione, Watt lasciò l’impiego all’università per intraprendere l’attività di ingegnere civile, quale responsabile per la costruzione di canali nella zona di Glasgow. Oltre a garantirgli una maggiore sicurezza economica, il nuovo impiego gli consentiva di studiare le macchine a vapore in attività (impiegate per pompare acqua in superficie), portando avanti, anche se in tempi più lenti, le proprie sperimentazioni. Nel giro di alcuni anni riuscì a mettere a punto ulteriori miglioramenti: il più importante – per il quale registrò nel 1769 il suo primo brevetto – fu l’accorgimento che consentiva di utilizzare la pressione del vapore, e non quella atmosferica, per la discesa del pistone nel cilindro (il pistone, infatti, sospinto dal vapore, andava in alto e poi scendeva); in questo modo impedì che l’aria raffreddasse il cilindro, diminuendo quindi il dispendio di vapore e di combustibile. L’attività sperimentale, però, richiedeva consistenti investimenti economici. Per questa ragione, particolarmente im-
Ź Schema della macchina a vapore di Thomas Newcomen 1709 Il vapore prodotto nella caldaia passa nel cilindro e solleva il pistone. Viene quindi chiusa la valvola A e introdotta dell’acqua di raffreddamento attraverso la valvola B. Il vapore si condensa creando un vuoto che provoca la discesa del pistone: in questo modo si crea il movimento del pistone e quindi del bilanciere.
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libbra La libbra (dal latino libra, “bilancia”) è un’antica unità di misura di peso, che ha assunto valore diverso a seconda delle epoche e delle aree geografiche. La libbra britannica attuale (detta anche libbra internazionale) equivale a 453,59237 grammi.
Cotone e ferro L’INDUSTRIA COTONIERA «Se diciamo rivoluzione industriale, intendiamo cotone»: niente di più vero di questa affermazione dello storico Eric J. Hobsbawm. È il settore dell’industria cotoniera che determinò il decollo dell’industrializzazione, avvalendosi per primo delle nuove tecnologie produttive: il cotone fu infatti il battistrada del nuovo modo di produzione basato sulla fabbrica. Alla vigilia della rivoluzione industriale, intorno al 1760, la Gran Bretagna importava 2,5 milioni di libbre* di cotone grezzo, nel 1787 l’importazione era salita a 22 milioni, per giungere cinquant’anni dopo a 366 milioni. Questi dati lasciano chiaramente comprendere l’enorme incremento produttivo compiuto dall’industria cotoniera britannica. Tradizionale grande produttrice ed esportatrice di tessuti di lana, la Gran Bretagna cominciò a primeggiare anche nel settore cotoniero. I tessuti di cotone avevano un mercato molto più ampio di quello della lana, erano adatti a tutti i climi e in grado di sostituire la canapa e il lino. Per quasi tutto il ’700 il Bengala indiano, ormai sotto dominio britannico, era stato il maggior produttore di tessuti di cotone, imbattibili per costo e qualità,
portante fu la venticinquennale collaborazione con l’industriale metallurgico Matthew Boulton, avviata nel 1775, quando Watt lasciò l’incarico di ingegnere civile e si trasferì a Birmingham, dove Boulton viveva e aveva le proprie attività. La nuova disponibilità di capitali e la possibilità di dedicarsi a tempo pieno alla progettazione resero possibile mettere a punto, nell’arco di pochi anni, altre innovazioni, tra le quali il meccanismo che permetteva di trasformare il moto rettilineo alternato dello stantuffo nel moto rotatorio continuo di un volano. Intorno al 1790, la macchina di Watt poteva dirsi sostanzialmente completata: rispetto soltanto a pochi anni prima ora risultava più efficiente, più economica e, grazie al moto rotatorio, adattabile a un numero decisamente più ampio di attività. Gli ultimi anni furono dedicati prevalen-
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temente all’attività commerciale e al rapporto con gli acquirenti. Fino al 1800 Watt e Boulton riuscirono a vendere circa 450 macchine, la gran parte in Inghilterra e in Scozia, e una trentina nelle altre nazioni dell’Europa occidentale, in Russia e in India. Macchine a vapore vennero installate in cotonifici, fabbriche metallurgiche, cartiere, distillerie. Ne derivò, per l’inventore, oltre che numerosi riconoscimenti ufficiali per i suoi meriti scientifici, un grande profitto, nonostante i frequenti casi di spionaggio industriale e di pirateria. La diffusione della sua macchina nel corso dell’800 – impiegata ormai anche per far muovere i nuovi mezzi di trasporto, le locomotive e le navi a vapore – avvenne parallelamente alla celebrazione del suo nome. Nei decenni successivi Watt sarebbe stato incluso dalle autorità scozzesi nel novero degli “eroi” nazionali, e watt
verrà chiamata dal 1882 l’unità di misura della potenza.
ź Schema della macchina a vapore di James Watt 1769 Questo disegno mostra il funzionamento della macchina a vapore messa a punto da Watt. Il vapore entra nella parte bassa del cilindro (1) tramite la valvola A, il pistone sale in alto e spinge il vapore nel condensatore tramite la valvola B. Le valvole A e B si chiudono, C e D si aprono: il vapore entra nella parte alta del cilindro (2) passando per la valvola C. Il pistone è spinto verso il basso e spinge il vapore nel condensatore attraverso la valvola D. Ancora una volta D si chiude e il ciclo ricomincia. In questo modo il movimento è più rapido e il raffreddamento è portato avanti nel condensatore. Tramite il bilanciere e il sistema a biella, il moto alternato del pistone si trasforma nel moto rotatorio del volano, che funge da ruota motrice per altri meccanismi ad essa collegati.
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I NUMERI DELLA STORIA
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L’importazione di cotone grezzo in Inghilterra
Storiografia 50 R.C. Allen, L’industria del cotone, p. 276 Storiografia 51 J. Mokyr, La nascita della fabbrica moderna, p. 277
distillazione del carbon fossile La distillazione del carbon fossile avviene in impianti detti cokerie per la produzione di coke. I forni sono costituiti da una serie di celle rivestite internamente da mattoni refrattari silicei. Le celle hanno forma stretta e allungata: larghezza = 0,40 ÷ 0,60 m, altezza = 4 ÷ 6 m, profondità = 10 ÷ 16 m. Il carbon fossile viene caricato dall’alto in forni costituiti da celle riscaldate alla temperatura di 1200 ÷ 1400 °C, per un tempo di 14 ÷ 20 ore: durante il processo di distillazione il carbone si libera dello zolfo e delle materie volatili. Il coke così ottenuto viene trasportato, per mezzo di appositi vagoni, sotto una torre di spegnimento, dove è raffreddato tramite una pioggia d’acqua. puddellaggio Il puddellaggio (dall’inglese to puddle, “rimestare”) è il trattamento di ossigenazione e rimescolamento (puddling) a cui viene sottoposta, in appositi forni, la ghisa per ottenere una maggiore duttilità e malleabilità del metallo.
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200 milioni di libbre (1 libbra = 0,453 kg)
L’importazione di cotone grezzo, aumentata incredibilmente tra il 1740 e il 1830 (e poi ancora di più nei due decenni successivi), incrementò il suo volume d’affari in coincidenza con l’introduzione di alcune importanti innovazioni nel settore tessile. Si osservi come il primo importante aumento, tra il 1770 e il 1790, coincida con l’affermazione della spinning jenny e con l’applicazione del motore a vapore al filatoio. Nel 1816 il prodotto di cotone lavorato e finito costituiva il 40% delle esportazioni inglesi. Un altro grande balzo in avanti avvenne dopo il 1820, quando il telaio meccanico di Cartwright divenne metallico; esso si impose definitivamente tra gli anni ’30 e ’40 del XIX secolo (quando l’importazione di cotone grezzo superò i 350 milioni di libbre).
183,6
180 160 140 120
98,7
100 80 60 30,1
40 20 1,7 0 1740
3,7 1770
15,5
1790
1800
1820
1830
distribuiti in tutto il mercato internazionale dalle navi mercantili britanniche. Fu proprio questa competizione internazionale a sollecitare la meccanizzazione della filatura, con risultati straordinari tanto sul versante quantitativo quanto su quello qualitativo, e con un’alta remunerazione dei capitali investiti. Contemporaneamente all’aumento di produttività dovuto alle macchine, la diminuzione del costo del lavoro era favorita da un’ampia disponibilità di manodopera alla quale non era richiesta una particolare specializzazione, data l’elementarità della manovra delle nuove macchine tessili. L’espansione demografica e la possibilità di impiegare donne e bambini fornirono all’industria la necessaria quantità di forza-lavoro a basso costo per poter entrare sul mercato a prezzi competitivi e sostenere quindi l’ampliamento della domanda di un prodotto sempre più economico e sempre più richiesto. L’INDUSTRIA SIDERURGICA Quasi nello stesso periodo in cui si sviluppò il settore cotoniero, l’industria del ferro – la siderurgia – attraversò un processo di rapida espansione. La progressiva meccanizzazione, infatti, dipendeva da investimenti in nuove attrezzature e in macchine costruite prevalentemente in ferro. Ma anche qui era necessario introdurre innovazioni che eliminassero o riducessero le strozzature di una produzione legata al tradizionale impiego del carbone di legna per alimentare gli altiforni* che producevano la ghisa*. Il risultato era infatti una ghisa di scarsa qualità dovuta alle impurità del minerale ferroso locale: solo la dispendiosa importazione del ferro svedese, più puro, consentiva di ottenere un prodotto di qualità accettabile. Neppure l’impiego del coke, risultato dalla distillazione del carbon fossile*, materia prima largamente disponibile in Gran Bretagna, era riuscito a migliorare la qualità della ghisa data la difficoltà di raggiungere le alte temperature necessarie negli altiforni. La macchina a vapore e il sistema di Henry Cort per il puddellaggio*, brevettato nel 1783-84, mutarono totalmente questa situazione: permettendo non solo la produzione di ghisa di buona qualità anche a partire dal minerale britannico, ma soprattutto un notevole abbattimento dei costi di produzione. Infatti, l’insufflazione di aria negli altiforni, assicurata dalle macchine a vapore, consentiva la completa combustione del coke e il raggiungimento di temperature tali da rendere possibile la raffinazione del ferro. La macchina a vapore rendeva inoltre disponibili in modo continuo le grandi potenze necessarie per modellare la ghisa con i magli e i laminatoi.
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C8 La prima rivoluzione industriale
ghisa/altoforno La ghisa è una lega di ferro e carbonio (in quantità superiore all’1,7%) prodotta dalla fusione del ferro negli altiforni. In questi forni a funzionamento continuo l’alta temperatura permette la riduzione a metallo dei minerali di ferro, grazie all’ossido di carbonio prodotto dalla combustione del carbone. La ghisa può solo essere fusa in stampi, a una temperatura relativamente bassa (1060 ÷ 1200 ºC) ed è molto scorrevole allo stato liquido, resistente all’usura e all’ossidazione, e non facilmente deformabile.
Storiografia E.J. Hobsbawm, La cultura operaia
LA GHISA La produzione di ghisa crebbe costantemente dalle 68 mila tonnellate del 1788 alle 581 mila del 1825 e, dal 1812, la Gran Bretagna diventò un paese esportatore. Il ferro divenne il simbolo della modernità e della nuova civiltà della macchina e il suo impiego, oltre che in ogni tipo di strumenti, si affermò nell’edilizia pubblica e abitativa, in parte per le caratteristiche intrinseche e la convenienza del materiale, ma in parte anche per il suo valore simbolico. Fra il 1775 e il 1779 veniva costruito a Coalbrookdale, sul fiume Severn, il primo ponte interamente in ghisa con una luce di 30 metri. Il trionfo di questa funzione celebrativa del ferro si sarebbe avuto con la costruzione del Crystal Palace per l’Esposizione universale di Londra del 1851.
247
Ÿ L’Ironbridge sul fiume Severn
La nascita della fabbrica 5 e la condizione dei lavoratori
Storiografia 51 J. Mokyr, La nascita della fabbrica moderna, p. 277 Parole della storia Divisione del lavoro, p. 248
LA DIVISIONE DEL LAVORO L’avvento del sistema di fabbrica sconvolse i metodi di produzione e le forme di organizzazione del lavoro. In Gran Bretagna, fino alla metà del ’700, l’attività produttiva si svolgeva nelle botteghe artigiane o più spesso nei sobborghi e nelle campagne, dove il metodo di produzione era prevalentemente quello a domicilio [Ź1_5]. Con l’introduzione delle macchine questo sistema cambiò radicalmente: le prime fabbriche – soprattutto le filature tessili – erano grandi edifici a più piani sorti inizialmente lungo i corsi d’acqua anche in campagna per sfruttare l’energia idrica. L’adozione delle macchine a vapore consentì lo spostamento delle fabbriche nelle città. Inoltre, il lavoratore generico divenne un operaio salariato: abbandonò cioè tutte le altre attività che nell’impresa familiare continuava a svolgere, in particolare quelle agricole, ed ebbe nella fabbrica il suo unico impiego. Un impiego che non richiedeva particolare perizia, ma solo l’esecuzione dell’operazione parziale – spesso molto semplice ma continuamente ripetuta – affidatagli sulla base di una crescente divisione del lavoro.
STORIA IMMAGINE W.G. Mason, Una sistemazione auspicabile a Londra. Una camera per più persone in una casa a Gray’s Inn Lane 1850 [Wellcome Library, Londra] Nel 1850 Londra è la più grande città industriale del mondo e attira moltissime persone dalle campagne e dai borghi vicini. Le condizioni di vita però sono spesso pessime e colpiscono artisti e illustratori che decidono di ritrarre, in maniera realistica, la miseria della vita quotidiana: i lavori logoranti di adulti e bambini, l’angoscia di giovani e vecchi, la sporcizia di luoghi e persone lungo le strade della grande metropoli.
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U3 L’età delle rivoluzioni
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LO SFRUTTAMENTO DEI LAVORATORI L’avvento del sistema di fabbrica impose condizioni di lavoro molto gravose, che prevedevano orari oscillanti fra le 12 e le 16 ore giornaliere. La semplificazione del processo produttivo rese possibile il largo impiego, soprattutto nell’industria tessile, di donne e bambini che furono sottoposti a un duro sfruttamento. La condizione operaia era caratterizzata dalla estrema precarietà del posto di lavoro ed era inoltre aggravata da tutti i problemi connessi al processo di inurbamento. Gli operai erano costretti ad abitare in situazioni di sovraffollamento, in case fatiscenti e in pessime condizioni igieniche, potendo contare su un’alimentazione povera in quantità e qualità.
Storiografia 52 S. Mosley, Manchester: la prima città industriale, p. 278
LE TRASFORMAZIONI DEL PAESAGGIO URBANO E RURALE Il sistema di fabbrica trasformò, come abbiamo visto, la distribuzione territoriale delle unità produttive e ridisegnò con essa l’immagine topografica e architettonica delle città e il paesaggio. L’attività lavorativa, infatti, si concentrò progressivamente nei centri urbani che crebbero in misura considerevole secondo tipologie edilizie di tipo intensivo, mentre anche la campagna circostante modificava le sue colture in funzione di una popolazione urbana in forte aumento. Manchester, che divenne il principale centro dell’industria cotoniera, sestuplicò la sua popolazione da 20 mila a 120 mila abitanti tra il 1760 e il 1830.
LE PAROLE DELLA STORIA
Divisione del lavoro La divisione del lavoro consiste nella ripartizione dei compiti tra i membri di una società. La differenziazione delle funzioni non è un fatto recente, perché essa caratterizzava già le primissime forme di organizzazione sociale del passato (villaggi e città del Neolitico), e nei millenni si è evoluta in relazione allo sviluppo economico e sociale di ciascuna civiltà. Dalla semplice divisione dei mestieri sulla base dei diversi settori delle attività produttive (agricoltura, commercio, manifattura, ecc.) si è pervenuti, prima, alla distinzione tra professioni all’interno di uno stesso settore, poi, con la rivoluzione industriale e l’utilizzo delle prime macchine, a una divisione del lavoro definita “tecnica”, dove il lavoratore è adibito a una sola fase del processo produttivo e uno stesso mestiere o professione si scompone secondo varie specializzazioni. È in relazione a quest’ultimo processo che si delinea il ruolo del moderno operaio di fabbrica, cui spetta non l’intera lavorazione di un prodotto ma solo l’esecuzione di un numero limitato di operazioni. Benché dunque la divisione del lavoro sia un fenomeno antico, è solo con la diffusione della manifattura, prima, e del sistema di fabbrica, poi, che essa assume rilevanza, divenendo oggetto di analisi specifiche da parte di osservatori e studiosi. La prima e più nota è quella di Adam Smith, il padre dell’eco-
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nomia politica classica, secondo cui la divisione del lavoro consiste nella semplificazione e standardizzazione del lavoro affidato al singolo lavoratore. Comporta un netto aumento della produttività determinato dalla crescita della produttività del singolo operaio dedito a un’unica mansione, dal risparmio di tempo del lavoratore che non deve più impratichirsi in svariate operazioni, e infine dall’invenzione di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro. Nel saggio Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) Smith proponeva l’esempio della produzione di spilli: «Un uomo trafila il metallo, un altro raddrizza il filo, un terzo lo taglia, un quarto gli fa la punta, un quinto lo schiaccia all’estremità dove deve inserirsi la capocchia; fare la capocchia richiede due o tre operazioni distinte; inserirla è un’attività distinta, pulire gli spilli è un’altra, e persino il metterli nella carta è un’altra occupazione a sé stante; sicché l’importante attività di fabbricare uno spillo viene divisa, in tal modo, in circa diciotto distinte operazioni che, in alcune manifatture, sono tutte compiute da mani diverse». Contrariamente a Smith, molti osservatori posero l’accento sugli effetti negativi dell’eccessiva frammentazione delle mansioni. In particolare, denunciarono il fatto che questa rendeva noioso e monotono il lavoro, ridotto a pura ripetizione di gesti elementari. Il lavoratore in questo modo perdeva il senso della propria atti-
vità, e non riusciva più a cogliere il proprio ruolo e la propria funzione all’interno del processo di produzione complessivo. Il critico più deciso della divisione del lavoro fu Karl Marx (1818-1883), secondo il quale la divisione del lavoro era l’effetto della divisione in classi della società, e la classe degli imprenditori o “capitalisti”, dopo aver privato i lavoratori del controllo del loro lavoro e del potere di organizzare le condizioni tecniche della loro attività, si appropriavano anche della loro conoscenza e intelligenza, assoggettandoli alla macchina. L’effetto di questa appropriazione era per Marx l’«alienazione» dell’operaio, la sua riduzione a oggetto e la sua estraneità all’oggetto stesso del proprio lavoro. A partire dalla seconda rivoluzione industriale, e in misura massiccia dai primi anni del ’900, si è assistito a una sempre maggiore parcellizzazione del lavoro, in particolare in seguito all’adozione del taylorismo, un metodo di organizzazione del lavoro elaborato dall’ingegnere americano F.W. Taylor, basato su una estrema frammentazione dei gesti e delle operazioni. Ancora oggi, gli osservatori si dividono tra chi, sulla scia di Smith, sottolinea gli incrementi di produzione e quindi i miglioramenti per l’attività economica resi possibili dalla divisione del lavoro, e chi, anche senza richiamarsi esplicitamente a Marx, denuncia gli effetti negativi sulla qualità del lavoro e sull’identità del lavoratore.
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LEGGERE LE FONTI
Le drammatiche condizioni della classe operaia
Uno dei testi più noti sulle condizioni di vita della classe operaia durante la rivoluzione industriale, frutto di una attenta raccolta di materiale documentario, è il libro pubblicato nel 1845 da Friedrich Engels (1820-1895) con il titolo La situazione della classe operaia in Inghilterra. L’autore, figlio di un industriale tedesco, si recò in Inghilterra, a Manchester, alla fine del 1842 e qui, due anni dopo, iniziò il suo sodalizio intellettuale e politico con Karl Marx. Alla riflessione di Engels sugli
Nulla è più tremendo che dover fare tutti i giorni, dalla mattina alla sera, un lavoro che ripugna. E quanto più l’operaio ha sentimenti umani, tanto più deve odiare il suo lavoro, del quale egli sente la costrizione, l’inutilità per se stesso. Perché mai egli lavora? [...] Lavora soltanto per il denaro, cioè per una cosa che con il lavoro stesso non ha proprio nulla a che fare; lavora perché deve farlo, e per di più lavora così a lungo e in modo così ininterrottamente uniforme che già solo per questi motivi il lavoro fin dalle prime settimane deve diventare per lui un tormento, se ha ancora dei sentimenti umani. La divisione del lavoro poi ha ag-
effetti della divisione del lavoro e in generale del lavoro in fabbrica sulla vita dei lavoratori, abbiamo accostato la testimonianza di un anonimo filatore di cotone a giornata che nel settembre 1818 scrisse un appello al «Black Dwarf», giornale di critica sociale e di opposizione politica. In questo scritto viene dettagliatamente rappresentata la vita pesante e lugubre della fabbrica, in cui i lavoratori sembrano vivere in condizioni simili a quelle degli schiavi.
gravato ulteriormente l’abbrutimento derivante dal lavoro forzato. Nella maggior parte dei rami di lavoro, l’attività dell’operaio è ridotta ad una misera manipolazione meramente meccanica, che si ripete minuto per minuto e resta la stessa di anno in anno. Quanti sentimenti e quante capacità umane potrà aver salvato, giunto ai trent’anni, chi fin da fanciullo ha fatto ogni giorno per dodici ore e più capocchie di spillo o limato ruote dentate, vivendo per di più nelle condizioni di un proletario inglese? Le cose non mutano con l’introduzione del vapore e delle macchine. L’attività dell’operaio è divenuta facile, gli sforzi muscolari ven-
gono in gran parte evitati e il lavoro stesso e divenuto insignificante, ma monotono al massimo grado. Esso non consente all’operaio nessuna esplicazione di attività spirituale, e tuttavia incatena la sua attenzione al punto che, per poterlo eseguire bene, non può pensare a nient’altro. E una condanna ad un simile lavoro – un lavoro che esige tutto il tempo disponibile dell’operaio, gli lascia appena il tempo per mangiare e dormire, e non gli consente mai di fare del moto all’aria aperta, di godere la natura, per non parlare poi di attività spirituali – una simile condanna non dovrebbe degradare l’uomo al livello delle bestie!
F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Edizioni Rinascita, Roma 1955, pp. 142-43 Ai loro figli.
Timore.
Prima, dunque, gli imprenditori. [...] Decisi a dare alla loro progenie una razione doppia di ciò che a loro è mancato, essi fanno frequentare alle famiglie le scuole più costose, e, pur non avendo in testa un’idea che è un’idea, sono letteralmente dei piccoli monarchi, assoluti e dispotici, nei rispettivi distretti; e, per mantenere ciò, impiegano il tempo da mattina a sera nel cercar di estorcere la maggior quantità possibile di lavoro con la minima spesa. [...] Insomma, oso dire senza tema di smentite che v’è più distanza fra il padrone di qui e il suo filatore, che fra il primo mercante londinese e il suo servo o l’operaio meno qualificato [...]. I proprietari di filanda sono una classe d’uomini diversa da tutti gli altri padroni del regno: ignoranti, altezzosi e tirannici. Che cosa saranno dunque gli uomini, o meglio gli esseri, che ne sono gli strumenti? Be’, per una serie d’anni essi sono stati [...] la pazienza in carne ed ossa – schiavi e schiave di padroni crudeli. Vano è offendere l’intelligenza comune dicendo che sono liberi; che la legge protegge egualmente i ricchi e i poveri; che un filatore può lasciare il padrone se il salario non gli aggrada. È vero; lo può; ma dove andrà? Be’ da un altro! Ci va, infatti, e si sente chiedere dove lavorava prima: «Ti hanno licenziato?». No, non ci siamo messi d’accordo sul salario. «Allora non assumo né te, né chiunque lasci il padrone in questo modo». [...] Gli operai, in genere, sono inoffensivi, umili e ben informati [...]. Sono docili e trattabili se non gli si sta troppo al pelo; ma questo non può far meraviglia, se si pensa che dai sei anni di vita sono allenati a lavorare dalle ore cinque alle venti e alle ventuno. [...] Lì stanno [...], tappati fino a sera in locali più afosi del giorno più caldo che si sia avuto in questi mesi estivi, senza un attimo di riposo salvo i tre quarti d’ora del pasto di mezzodì [...]. Lo schiavo negro delle Indie Occidentali, se sgobba sotto un sole che toglie la pelle, almeno ogni tanto ha un soffio d’aria a sventagliarlo [...]. Il filatore inglese, schiavo anche lui, non gode l’aria aperta e le brezze del cielo. [...] Questi malanni per la manodopera sono il frutto del terribile monopolio esistente nei distretti in cui la ricchezza e il potere si sono concentrati nelle mani dei pochi che, nell’orgoglio dei loro cuori, si credono i padroni dell’universo. E.P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano 1969, vol. I, pp. 198-201
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Il filosofo ed economista Friedrich Engels pone in risalto il contrasto tra la dimensione umana dell’operaio e l’insopportabilità della sua attività lavorativa in fabbrica. Individua e spiega le ragioni di tale contrasto. b «La divisione del lavoro poi ha aggravato ul-
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teriormente l’abbrutimento derivante dal lavoro forzato.» Chiarisci il nesso tra la divisione del lavoro e l’aumento dell’alienazione dell’operaio. c L’anonimo filatore inglese coglie il legame tra il potere sociale e quello economico, sempre più concentrato nelle mani di pochi sogget-
ti. Con quale strategia gli imprenditori riescono a conservare la loro posizione dominante? d A giudizio dell’autore la condizione operaia nell’industria tessile risulta, per certi aspetti, peggiore di quella degli schiavi neri. Perché?
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STORIA IMMAGINE Eyre Crowe, L’ora di pausa, Wigan 1874 [Manchester Art Gallery, Manchester] Messo in mostra alla Royal Academy di Londra nel 1874, questo dipinto è una delle prime raffigurazioni ottocentesche della vita in una cittadina industrializzata a fare la sua comparsa negli spazi di una mostra d’arte ufficiale. La rappresentazione delle donne in pausa, vestite di abiti lindi e ritratte in un momento di tranquilla serenità sullo sfondo di fabbriche di mattoni rossi, sembra chiaramente
idealizzata: l’autore volle probabilmente andare incontro alla “sensibilità” delle classi sociali più agiate, certamente non avvezze alle immagini sicuramente più crude che potevano vedersi quotidianamente nei distretti industrializzati del CentroNord dell’Inghilterra. L’unica nota del dipinto che ricorda la difficile vita delle classi lavoratrici è il poliziotto, la figura nera visibile in fondo, alle spalle del gruppo in primo piano, che con il bastone in mano sorveglia le donne, pronto a riportare l’ordine in qualsiasi momento.
CONTRO LE MACCHINE: I LUDDISTI
La formazione dei grandi agglomerati di popolazione urbana e le nuove modalità di aggregazione sociale rappresentate dalla fabbrica e dal quartiere operaio, da un lato resero più omogenei bisogni e condizioni di vita, dall’altro, attraverso l’intensificarsi dei contatti, diffusero la consapevolezza di un destino comune. Questi furono i presupposti per il sorgere di forme nuove di analisi e di azione politica. Tuttavia la consapevolezza del processo di trasformazione in atto nelle condizioni di lavoro e nel ruolo sociale dei lavoratori maturò inizialmente negli strati tradizionali degli artigiani e tra i lavoranti a domicilio e non fra i nuovi operai di fabbrica. Tra essi si diffuse il luddismo, una delle prime manifestazioni di opposizione sociale. Questo movimento, organizzato in segrete e disciplinate “bande di guerriglia”, prese il nome dal leggendario tessitore Ned Ludd che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio meccanico per la fabbricazione delle calze di lana. I luddisti contrastavano il diffondersi della prima meccanizzazione adottando come principale, anche se non unica, forma di lotta la distruzione delle macchine, nel cui impiego veniva individuata la causa fondamentale della disoccupazione e dei bassi salari. Nonostante i timori suscitati nelle classi medio-alte della società britannica, le forme estreme di lotta adottate dai luddisti non erano affatto inedite. Per tutto il ’700, infatti, nei conflitti sviluppatisi nel mondo del lavoro, specie nel settore della manifattura e del lavoro a domicilio, la distruzione dei macchinari, ma anche delle materie prime, dei prodotti finiti e, nei casi estremi, delle proprietà individuali dell’imprenditore, rientrava tra le pratiche adottate dai lavoratori per esercitare pressione sui datori di lavoro al fine di strappare migliori condizioni lavorative. Nella fase di passaggio dal sistema di lavoro a domicilio a quello di fabbrica in realtà al centro della contestazione dei lavoratori c’era la questione del controllo del mercato del lavoro e non quella dell’introduzione delle macchine. In altre parole, per i lavoratori inglesi il problema era costituito non dalle macchine in sé, ma dall’uso che ne facevano i datori di lavoro, i quali le utilizzavano per licenziare le maestranze e ridurre i salari. In risposta alla protesta, la legislazione penale inglese, durissima non solo contro i distruttori di macchine ma contro qualsiasi forma di organizzazione, di sciopero e di rivendicazioni salariali, venne ulteriormente inasprita nel 1812 con l’introduzione della pena di morte contro i luddisti.
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L’industrializzazione dell’Europa 6 continentale e lo sviluppo delle ferrovie Leggere una carta storica 5 L’Europa industriale, p. 254
ź Inaugurazione della linea ferroviaria Stockton-Darlington Il 27 settembre 1826 venne inaugurata in Inghilterra la prima ferrovia del mondo sul tratto Stockton-Darlington, lungo 43 km. Alla guida della locomotiva vi era il suo inventore, George Stephenson.
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L’ARRETRATEZZA DELL’EUROPA CONTINENTALE
Il nuovo sistema produttivo si affermò nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti a partire dal 1830 circa. Da allora il capitalismo industriale cominciò a costituire il principale elemento propulsivo delle trasformazioni dell’intera realtà economica e sociale. Fino a quella data l’Europa si presentava come un’economia arretrata se paragonata ai contemporanei sviluppi della rivoluzione industriale britannica. L’economia dell’Europa continentale era essenzialmente agricola e l’agricoltura era ancora, nella media, tecnicamente arretrata. I principali cambiamenti introdotti in questo periodo – uso di aratri in grado di smuovere la terra più in profondità, sistemi più complessi di rotazione, estensione delle colture foraggere che consentivano di integrare agricoltura e allevamento – si limitavano al perfezionamento di tecniche già note. Le macchine agricole – mietitrici, trebbiatrici –, già usate in Gran Bretagna, erano pressoché sconosciute sul continente. Di concimi artificiali si cominciò a parlare solo dopo il 1840, grazie all’opera pionieristica del grande chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873). In questo periodo si ebbero anche due gravi carestie, quella del 1816-17 e quella del 1846-47, entrambe causate dai cattivi raccolti. La crisi del ’46-47 – l’ultima di questo genere nella storia europea – fu provocata soprattutto dal diffondersi della peronospora, una malattia della patata, che in alcune zone, come l’Irlanda e l’Europa centrale, era diventata la base dell’alimentazione. La carestia colpì soprattutto la poverissima Irlanda, dove quasi un milione di persone morirono – su un totale di circa 9 milioni – e almeno altrettante furono costrette a emigrare in Nord America. LE FERROVIE Quando l’Europa continentale cominciò a entrare stabilmente nel sistema produttivo industriale, era già iniziata la rivoluzione dei trasporti legata alla macchina a vapore. La prima nave a vapore fu costruita nel 1803 dallo statunitense Robert Fulton. Le prime locomotive furono realizzate in Gran Bretagna più o meno negli stessi anni: il tipo più perfezionato – quello costruito da George Stephenson nel 1813 – fu subito usato per il trasporto del carbone in una miniera. L’invenzione della locomotiva e l’affermazione delle ferrovie si possono considerare come una conseguenza diretta del grande sviluppo dell’industria carbonifera. Fu l’esigenza di trasportare quantità sempre maggiori di carbone dalle miniere ai luoghi di imbarco, o direttamente alle industrie consumatrici, a suggerire l’idea di far viaggiare i vagoni contenitori su rotaie fisse di ghisa e di farli trainare da macchine a vapore mobili, le locomotive. Il risparmio che così si otteneva, rispetto al trasporto su carri a trazione animale attraverso strade spesso accidentate e sconnesse, era tale da incoraggiare gli investimenti assai elevati che erano necessari per la costruzione di vere e
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proprie linee ferroviarie su percorsi sempre più lunghi, da adibire anche al trasporto dei passeggeri. LA COSTRUZIONE DELLA RETE FERROVIARIA
Ÿ La fabbrica Krupp 1835 Questo gruppo di edifici di modeste proporzioni, costruito dalla famiglia Krupp nel bacino della Ruhr in Renania, fu il primo passo di quello che diventò, nella seconda metà del XIX secolo, uno dei maggiori complessi siderurgici non solo tedeschi, ma di tutta Europa.
Fra il 1830 e il 1850 furono costruiti in Gran Bretagna 11 mila km di ferrovie, che già costituivano l’ossatura di un’efficiente rete nazionale. Anche gli altri paesi europei e gli Stati Uniti cominciarono in questi anni a progettare e a costruire treni e strade ferrate, ma con ritmi più lenti e con risultati meno significativi: solo dopo la metà del secolo le ferrovie conobbero un vero e proprio boom su scala europea. Comunque, già negli anni ’30 e ’40, la locomotiva e la ferrovia divennero – per le velocità, all’epoca quasi incredibili, che consentivano di raggiungere e per lo sconvolgimento traumatico che introducevano nel paesaggio rurale – un evidente simbolo del progresso. E costituirono anche un potente fattore per il diffondersi dell’industrializzazione: infatti lo sviluppo delle ferrovie, oltre a offrire nuove possibilità di trasportare merci, stimolava direttamente la produzione delle industrie siderurgiche e meccaniche. I NUOVI CENTRI INDUSTRIALI Nonostante la presenza di molti fattori sfavorevoli – come la scarsezza dei capitali e la propensione agli investimenti terrieri e immobiliari – alcuni nuclei di industria moderna – soprattutto nel settore tessile, ma anche in quello meccanico – riuscirono ad affermarsi nell’Europa continentale già nell’età della Restaurazione, ossia dopo il 1815. Ciò avvenne in alcune zone “privilegiate”, favorite dalle ricchezze del sottosuolo, dalla disponibilità di energia idrica – che restava, accanto al vapore, la principale forza motrice nelle fabbriche – e da particolari caratteristiche geografiche – presenza di vie d’acqua navigabili, vicinanza ai mercati dei grandi centri urbani – ma anche dalla crescita di una borghesia imprenditoriale. La più vasta di queste zone si estendeva dalle coste della Manica alle Alpi svizzere e comprendeva il Belgio, alcuni distretti della Francia nord-orientale – la zona di Lille e Roubaix –, l’Alsazia francese e la Renania tedesca [Ź _22]. Altri nuclei industriali si trovavano in Sassonia, in Slesia, in Boemia e nelle regioni di Parigi, Berlino e Vienna. IL BELGIO E LA FRANCIA Proprio grazie ai suoi stretti rapporti con la Gran Bretagna, oltre che alla ricchezza dei suoi giacimenti carboniferi, il Belgio riuscì ad assicurarsi in questo periodo un indiscusso primato in campo industriale fra i paesi dell’Europa continentale. La Francia ebbe invece una crescita più lenta. Progressi importanti si ebbero nel settore laniero e cotoniero e anche in quello siderurgico e meccanico: il numero delle macchine a vapore fisse passò da meno di 1000 nel 1833 a quasi 4500 nel 1846. Ma, ancora nel 1850, la potenza complessiva delle macchine installate in Francia era di 5-6 volte inferiore a quella della Gran Bretagna. A impedire un decollo più rapido, e probabilmente più traumatico, era la stessa struttura della società rurale francese, caratterizzata dalla diffusione della piccola e media proprietà contadina, che teneva legati alla terra capitali e forza-lavoro, anziché “liberarli”, com’era avvenuto in Gran Bretagna, e renderli disponibili per l’industria.
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LA GERMANIA E L’IMPERO ASBURGICO In Germania l’avvio dell’industrializzazione fu ancora più difficile. A metà secolo, l’area tedesca era di parecchie lunghezze indietro rispetto alla Francia per numero di macchine a vapore e per volume della produzione di ferro e di carbone. Ancora più grave, poi, era il ritardo nel settore tessile. Però in questi anni furono poste alcune premesse fondamentali: il completamento di un’unione doganale tra i singoli Stati, la costruzione di una rete ferroviaria abbastanza estesa, lo sviluppo dell’istruzione superiore e l’affermarsi di una prestigiosa scuola scientifica, soprattutto nei campi dell’ingegneria e della chimica. Diversa fu l’evoluzione dell’Impero asburgico, dove pure esistevano alcuni promettenti nuclei di sviluppo industriale – in Austria e in Boemia – ed erano presenti alcune condizioni favorevoli: una amministrazione efficiente, una buona rete stradale, un discreto livello di istruzione. Al di fuori dei paesi che abbiamo appena considerato – e di pochi isolati nuclei nell’Italia settentrionale, nella Spagna del Nord (Barcellona) e in Russia (la regione di Pietroburgo) – l’industria moderna era praticamente sconosciuta. I paesi dell’Europa orientale e di quella mediterranea mancarono l’appuntamento con la prima fase dell’industrializzazione. Alcuni di essi, come l’Italia e la Russia, avrebbero tentato, ispirandosi al modello tedesco, di rientrare nel gioco partendo dalle fasi successive. Ma le conseguenze del ritardo si sarebbero fatte sentire per molto tempo. LO SPAZIO DELLA STORIA
L’INDUSTRIALIZZAZIONE IN EUROPA NEL 1850 CIRCA
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MARE San Pietroburgo SVEZIA DEL NORD Glasgow GRAN DANIMARCA Belfast BRETAGNA Dublino Manchester Copenaghen MAR RUSSIA IRLANDA Liverpool Leeds BALTICO Amsterdam Birmingham PAESI Amburgo BASSI Brema Bristol Londra Poznan Rotterdam Varsavia Anversa BELGIO Berlino Lodz Düsseldorf Lille LUSS. GERMANIA Breslavia Parigi Bruxelles Praga FRANCIA Strasburgo Mulhouse Vienna Monaco Bordeaux
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Milano Genova Firenze Livorno Roma
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MAR NERO Istanbul
aree industrializzate
ALGERIA
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LEGGERE UNA CARTA STORICA
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B. SVILUPPO DELLA RETE FERROVIARIA IN EUROPA, 1850 A
Rete ferroviaria (in km) di alcuni Stati europei intorno al 1870 30000
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Tra la fine del XVIII secolo e la prima metà del XIX secolo, l’Europa si industrializza e accentua la sua urbanizzazione. Avviata in Gran Bretagna intorno al 1780, la rivoluzione industriale trasforma profondamente l’economia dei paesi europei e la struttura delle loro società. L’industrializzazione prende piede in modi e tempi differenti, a seconda delle risorse disponibili in ciascun paese e delle specifiche condizioni politiche, economiche e sociali. Gli studiosi hanno scandito questo processo sulla base delle “generazioni successive”, ossia dei paesi che giungono all’appuntamento con l’industrializzazione a intervalli di tempo sempre più distanziati. Alla prima generazione di paesi industrializzati appartiene la Gran Bretagna; alla seconda generazione il Belgio, la Francia, la Svizzera (1820-30 ca.); alla terza generazione la Germania (1840 ca.); alla quarta generazione, l’Italia e la Russia (tra la fine dell’ 800 e l’inizio del ’900). Dappertutto, i bacini carboniferi sono i principali poli di sviluppo dell’industria, ma essa si impianta anche intorno alle grandi città, ai grandi porti, ai principali nodi di comunicazione. Nel corso della metà del XIX secolo, la rete ferroviaria – dalla Gran Bretagna, dove è nata – si ramifica nel continente, a seconda delle specifiche condizioni economiche dei paesi e man mano che l’aumento del volume degli scambi la rende indispensabile.
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LEGGERE E INTERPRETARE 1 Qual è la prima potenza industriale nel 1850? Da quali elementi lo desumi? 2 Quali nuove regioni si industrializzano tra il 1820 e il 1850? 3 In quali regioni europee sono localizzati i bacini carboniferi e i giacimenti di ferro? 4 In quali aree europee sono localizzati i principali porti? 5 In quali aeree europee sono localizzate le industrie siderurgiche e metallurgiche? 6 Si possono distinguere differenti poli di sviluppo industriale in relazione al tipo di industrie impiantate? 7 In quali aree europee si è sviluppata la rete ferroviaria? 8 Che relazione esiste tra rete ferroviaria, densità di popolazione e poli di sviluppo industriale? 9 Quali informazioni ci trasmettono le aree dell’Europa mediterranea e orientale?
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A. L’EUROPA INDUSTRIALE NEL 1850
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Principali città industriali Tasso di urbanizzazione (popolazione totale vivente nelle città con più di 100.000 abitanti, statistiche del 1870)
Principali poli di sviluppo industriale
1 Bruxelles
1 Ruhr
5 Bassa Scozia
2 Lilla
2 Alsazia-Lorena
6 Catalogna
3 Le Havre
3 Nord-Le Havre
7 Asturie
4 Norimberga
4 Lancashire
Giacimenti di ferro Bacini carboniferi Industrie metallurgiche e meccaniche Industrie tessili
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C8 La prima rivoluzione industriale RICORDARE L’ESSENZIALE La rivoluzione industriale e la nascita del sistema di fabbrica Le trasformazioni economiche e sociali che si verificarono in Inghilterra, a partire dalla metà del ’700, presero il nome di «rivoluzione industriale». I tratti distintivi di questo processo storico furono: il ruolo del commercio internazionale, l’importanza delle macchine per dar vita alla fabbrica meccanizzata e la nascita di nuove classi sociali, come la borghesia imprenditoriale e il proletariato industriale. In Inghilterra il controllo del commercio internazionale favorì le manifatture tessili, permettendo un rapido e poco costoso approvvigionamento di cotone grezzo e fornendo un ampio mercato di vendita per i prodotti; esso contribuì inoltre alla diffusione di una mentalità imprenditoriale. La stessa rivoluzione agricola stimolò in vari modi il processo di industrializzazione: minore costo delle importazioni, disponibilità di capitali per impieghi industriali, una società vivace e dinamica, in cui andava diffondendosi una cultura scientifico-pratica, il basso costo dell’energia a fronte di un più alto costo del lavoro. Alla rivoluzione industriale si collegò l’introduzione di nuove tecnologie. Il rapporto di reciprocità tra invenzione e produzione è evidente nel settore tessile: nel giro di pochi anni, e grazie a una serie di invenzioni (la jenny di Hargreaves, il filatoio idraulico di Arkwright e il filatoio mule di Crompton), si passò alla completa meccanizzazione della
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Audiosintesi per paragrafi
filatura, che a sua volta stimolò l’invenzione del telaio meccanico (Cartwright). La fase successiva dell’innovazione tecnologica fu quella dell’utilizzazione del vapore come forza motrice (macchina a vapore di Watt) al posto delle ruote idrauliche azionate dai mulini, utilizzate fino ad allora. Nel corso dell’800 gli effetti economici e sociali della rivoluzione industriale si estesero al resto del mondo. La prima attività in cui si sviluppò il sistema di produzione basato sulla fabbrica fu quella cotoniera, la cui produzione aumentò enormemente grazie ai costi limitati delle nuove tecnologie, alla possibilità di alti profitti, alla disponibilità di manodopera a basso costo, all’espansione del mercato. La meccanizzazione favorì anche l’industria siderurgica, che riuscì a far fronte alla nuova domanda di ferro attraverso l’innovazione tecnologica. Grazie all’uso del coke come combustibile e al sistema di puddellaggio la produzione della ghisa crebbe costantemente e il ferro assurse a simbolo della nuova civiltà della macchina: il suo impiego, oltre che in ogni tipo di strumenti, si affermò anche nel campo dell’edilizia. Il sistema di fabbrica determinò la trasformazione del lavoratore in operaio salariato, soggetto a una crescente divisione dei compiti e a condizioni di lavoro e di vita durissime. Inoltre, la semplificazione del processo produttivo rese possibile, soprattutto nell’industria tessile, l’impiego di donne e bambini. La pri-
ma reazione contro il sistema di fabbrica fu il luddismo, una forma di protesta adottata dai lavoranti a domicilio e dagli artigiani del settore tessile. Il movimento prese il nome dal leggendario tessitore Ned Ludd, il quale nel 1779 avrebbe distrutto un telaio meccanico in segno di protesta contro i bassi salari. Le pesanti sanzioni e una legislazione repressiva riuscirono a controllare e a riassorbire abbastanza rapidamente il fenomeno. Le fabbriche si concentrarono per lo più nelle città mutando la fisionomia del paesaggio urbano e rurale. L’industrializzazione dell’Europa continentale e lo sviluppo delle ferrovie Nell’Europa continentale la diffusione dell’industria moderna fu assai lenta. Intorno al 1830 si verificò un’accelerazione del processo di industrializzazione, grazie anche alla costruzione e al progressivo incremento della rete ferroviaria. Stimolata dal bisogno di trasportare più velocemente il carbone, l’invenzione della locomotiva era destinata a rivoluzionare il sistema delle comunicazioni, prestandosi anche al trasporto dei passeggeri. Il primato dell’industrializzazione europea, in questo periodo, spettò al Belgio, leader nel settore siderurgico, seguito dalla Francia, attiva nel settore tessile. Più lenta fu l’industrializzazione nei paesi tedeschi. Tracce di industrializzazione si registrarono anche nell’Impero asburgico, in Russia, in Spagna e nell’Italia del Centro-Nord.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. L’evento noto come rivoluzione industriale si è sviluppato inizialmente in Germania grazie alle risorse minerarie disponibili in questa area geografica. b. L’innovazione consiste in un’applicazione diffusa e costante al processo produttivo dell’invenzione. c. La macchina a vapore bruciava carbone per riscaldare l’acqua e produrre vapore, generando artificialmente energia e movimento.
e. L’impiego del vapore come fonte energetica favorì lo sviluppo della siderurgia. f. Gli operai tessili potevano regolare il ritmo delle macchine a proprio piacimento. g. L’Inghilterra nel 1850 aveva 11 mila chilometri di linee ferroviarie. h. Il governo inglese adottò la pena di morte contro i luddisti nel 1812.
d. Le numerose invenzioni nel settore dell’industria tessile permisero il passaggio alla completa meccanizzazione della filatura.
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C8 La prima rivoluzione industriale
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2 Completa la seguente tabella relativa alle condizioni che resero possibile lo sviluppo della rivoluzione industriale in Gran Bretagna. Condizioni preliminari Culturali
Sociali
Economiche
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3 Per sintetizzare gli elementi di innovazione del sistema di produzione industriale, completa la tabella e successivamente rispondi alle domande. Sistema di produzione pre-industriale
Sistema di produzione industriale
I settori economici più sviluppati erano... Le fonti energetiche utilizzate erano… La ricchezza era costituita da… I mezzi di produzione appartenevano a … La forza lavoro era costituita da… Il lavoro durava … e si svolgeva …
1. Quale dei due sistemi è caratterizzato da una maggiore circolazione di ricchezza? 2. Le condizioni di vita dei lavoratori migliorarono?
4 Scrivi un testo di massimo 15 righe sull’espansione continentale dell’industria. Utilizza come scaletta le seguenti domande: a. b. c. d.
In quale Stato nacque il processo di industrializzazione? Grazie a quali condizioni? Perché lo sviluppo dell’industria fu più lento in Francia? Quali iniziative degli Stati tedeschi favorirono lo sviluppo industriale? Qual era la condizione economica e la divisione della proprietà nell’Europa orientale?
COMPETENZE IN AZIONE 5 Completa lo schema inserendo i termini relativi ai passaggi cruciali della rivoluzione industriale. Indica per ogni passaggio il significato delle frecce e scrivi un testo di circa 8 righe che ne spieghi la consequenzialità. a. proletariato industriale; b. produzione manifatturiera; c. fabbrica meccanizzata; d. ruolo del commercio internazionale.
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FARE STORIA
U3 L’età delle rivoluzioni
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Stati Uniti e Francia: nuove idee e nuovi modi di fare politica Le rivoluzioni che scoppiarono alla fine del ’700, prima nel Nord America e poi in Francia, oltre a far nascere nuove realtà nazionali come gli Stati Uniti, destinati a divenire una grande potenza e ad avere un ruolo dominante nei secoli successivi, crearono nuovi modi di fare e intendere la politica. Gli eventi rivoluzionari videro affermarsi princìpi e ideali fino a quel momento rimasti per lo più confinati nel dibattito e nelle riflessioni di intellettuali illuministi, di scrittori e filosofi: la libertà e l’uguaglianza degli uomini, i diritti naturali e universali dell’individuo. Questi princìpi trovarono spazio nelle Dichiarazioni e nei testi costituzionali adottati ufficialmente dai nuovi governi, diventando fondamenti del cambiamento in corso. La Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 (ŹLEGGERE LE FONTI, p. 180) e la Dichiarazione dei diritti del 1789 in Francia, come spiega nel brano d’apertura Lynn Hunt [Ź34], sono i documenti più rappresentativi delle novità introdotte dalle rivoluzioni politiche di fine ’700: entrambe le Dichiarazioni, infatti, affermarono e misero per iscritto i diritti universali che ogni governo era tenuto a garantire ai propri cittadini, primi fra tutti la libertà e l’uguaglianza degli uomini davanti alla legge. Di seguito riportiamo i Dieci emendamenti [Ź35] approvati dal Congresso statunitense tra il 1789 e il 1791, che riconoscevano e garantivano alcuni specifici diritti ai cittadini americani, ancora oggi ritenuti intoccabili. L’idea di uguaglianza, al centro della riflessione di Gordon S. Wood [Ź36], fu invece un principio fon-
STORIOGRAFIA 34 L. Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 89-91.
damentale negli eventi rivoluzionari del Nord America, in grado sia di accendere gli animi durante la guerra d’indipendenza sia di modellare la società statunitense negli anni a seguire. Come nel caso degli eventi americani, alcuni testi scritti ed emanati dai rivoluzionari francesi sintetizzarono in maniera chiara e dirompente le nuove idee e i nuovi princìpi che si affermarono dal 1789 in poi: proprio mettendo a confronto le Dichiarazioni dei diritti dell’89 e del ‘93 [Ź37] è possibile rendersi conto delle differenze e dei cambiamenti intervenuti tra la prima fase rivoluzionaria “borghese” e quella successiva, democratico-popolare. Come illustra Antonio Trampus [Ź38], a ogni fase corrispose anche un diverso modo in cui i governi rivoluzionari concepirono e provarono a garantire ai cittadini il diritto alla felicità pubblica. La Rivoluzione vide inoltre nascere nuove forme di aggregazione e lotta politica, come i numerosi club attivi a Parigi e in molte altre città: tra i più importanti fu quello dei giacobini, sul quale si sofferma François Furet [Ź39]. Nato per portare avanti le battaglie di carattere più radicale, si diffuse rapidamente con le sue sedi sul territorio nazionale per poi imprimere una svolta autoritaria agli eventi. Proprio alla dittatura giacobina e al suo strumento di controllo politico, il Terrore, è dedicato l’ultimo brano: Jonathan Israel [Ź40] chiarisce alcune caratteristiche del Terrore, che fu utilizzato sia per colpire ed eliminare fisicamente gli oppositori politici sia per provare a imporre una nuova morale e una nuova mentalità rivoluzionaria.
L. Hunt 1776 e 1789: perché i diritti devono essere enunciati in una Dichiarazione? La storica statunitense Lynn Hunt (nata nel 1945) chiarisce in questo brano l’importanza della Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamata in Francia nel 1789. Dopo aver spiegato che cosa si intendesse all’epoca, tradizionalmente, con il termine “dichiarazione” e aver messo in evidenza lo stretto legame che l’uso di questo termine aveva con il concetto di sovranità, Hunt afferma che entrambe le Dichiarazioni sancirono il successo dell’idea di governo fondato sulla garanzia dei diritti universali dell’uomo.
Perché gli Stati e i cittadini avvertono la necessità di una dichiarazione ufficiale? [...] Una dichiarazione pubblica e solenne sancisce i cambiamenti che si sono verificati negli atteggiamenti di fondo. Eppure le dichiarazioni dei diritti del 1776 e del 1789 si spinsero ancora oltre. Non si limitarono a dare atto delle trasformazioni intervenute negli atteggiamenti e nelle aspettative generali: contribuirono a determinare un trasferimento di sovranità da Giorgio III1 e dal Parlamento britannico a una nuova repubblica nel caso americano, e da una monarchia che pretendeva l’autorità assoluta a una nazione e ai suoi rappresentanti nel caso francese. Le dichiarazioni adottate nel 1776 e
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nel 1789 aprirono prospettive politiche interamente nuove. [...]. La storia del termine «dichiarazione» fornisce una prima indicazione del trasferimento di sovranità. Il termine inglese declaration deriva dal francese déclaration. In francese il termine era originariamente adoperato in relazione con un catalogo di terre che venivano concesse in cambio del giuramento di fedeltà a un signore feudale. Nel corso del XVII secolo venne sempre più utilizzato per indicare le dichiarazioni pubbliche del sovrano. In altre parole, l’atto di dichiarazione era legato alla sovranità. Quando l’autorità passò dai signori feudali al re francese, assieme ad essa fu trasferito anche il potere di emanare dichiarazio-
ni. In Gran Bretagna poteva avvenire anche il contrario: quando i sudditi volevano che il re riaffermasse i loro diritti, redigevano essi stessi le proprie dichiarazioni. Così la Magna Carta2 del 1215 formalizzò i diritti dei baroni britannici in relazione con il re inglese; la Petition of Right [Petizione sui diritti]
1. Giorgio III (1738-1820), re di Gran Bretagna
e Irlanda.
2. La “Carta di libertà” che il re Giovanni
Senzaterra rilasciò nel giugno 1215 a seguito della sollevazione dei baroni che si erano ribellati contro la riscossione di tributi imposti per finanziare la guerra contro la Francia.
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FARE STORIA
FARE STORIA Stati Uniti e Francia: nuove idee e nuovi modi di fare politica
del 1628 confermò «i vari diritti e libertà dei sudditi» e il Bill of Rights inglese del 1689 convalidò «i veri, antichi e incontestabili diritti e libertà del popolo di questo regno». Nel 1776 e nel 1789 i termini «carta», «petizione» e «disegno di legge» sembrarono tutti inadeguati ad assolvere il compito di garantire i diritti [...]. «Petizione» e «disegno di legge» implicavano entrambi una richiesta o una supplica a un potere superiore (un disegno di legge era originariamente «una petizione al sovrano»), e «carta» spesso si riferiva a un documento o un atto antico. «Dichiarazione» aveva un tono meno antiquato e remissivo. Inoltre, al contrario di «petizione», «disegno di legge» o persino di «carta», «dichiarazione» poteva esprimere l’intenzione di rivendicare la sovranità. Jefferson3 inserì quindi all’inizio della Dichiarazione di indipendenza la seguente spiegazione della necessità di proclamarla: «Quando nel corso degli eventi umani si rende necessario a un popolo sciogliere i legami politici che lo hanno unito a un altro e assumere fra le potenze della terra quella posizione separata e uguale a cui gli danno titolo le leggi della natura e del Dio della natura, un doveroso rispetto per le opinioni dell’umanità richiede che esso dichiari [corsivo di L. Hunt] le cause che lo spingono a tale separazione». Un’espressione di «doveroso rispetto» non poteva celare l’aspetto sostanziale: le colonie si dichiaravano uno Stato separato e uguale e rivendicavano la loro sovranità. Per contro, nel 1789
i deputati francesi non erano ancora pronti a disconoscere espressamente la sovranità del loro re. Eppure riuscirono a ottenere quasi lo stesso risultato omettendo intenzionalmente qualsiasi riferimento al re nella loro Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: «I Rappresentanti del Popolo francese costituiti in Assemblea nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione [corsivo di L. Hunt], i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo». L’Assemblea non poteva limitarsi a pronunciare discorsi o a preparare leggi su questioni specifiche. Dovette mettere per iscritto e tramandare ai posteri che i diritti derivavano non già da un patto tra il sovrano e i cittadini, e tanto meno da una petizione a lui rivolta o da una carta da lui concessa, bensì dalla natura stessa degli esseri umani. Questi atti di dichiarazione erano al tempo stesso conservatori e progressisti. In ciascun caso, i dichiaratori affermarono di ratificare dei diritti già esistenti e incontestabili. Così facendo, tuttavia, realizzarono un ribaltamento della sovranità e crearono una base completamente nuova per il governo. La Dichiarazione di indipendenza affermava che il re Giorgio III aveva calpestato i diritti preesistenti dei coloni e che le sue azioni giustificavano l’istituzione di un governo separato: «ogni qual volta una forma di governo tende
DOCUMENTO 35
I primi dieci emendamenti alla Costituzione degli Stati Uniti
La formazione degli Stati Uniti d’America. Documenti, a c. di A. Aquarone, G. Negri, C. Scelba, vol. II (1776-1796), Nistri-Lischi, Pisa 1961, pp. 502-4.
Articolo I Il Congresso non potrà emanare alcuna legge diretta a riconoscere ufficialmente qualsiasi religione od a proibire il libero culto; o a limitare la libertà di parola o di stampa; o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e di indirizzare petizioni al Governo per la riparazione di torti subìti. Articolo II Una ben ordinata milizia
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a distruggere questi fini [la garanzia dei diritti] è diritto del popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo ». Analogamente i deputati francesi dichiararono che questi diritti erano stati semplicemente ignorati, dimenticati o disprezzati; non affermarono di averli inventati. La dichiarazione proponeva tuttavia che «d’ora innanzi» tali diritti costituissero il fondamento del governo, anche se non lo erano stati in passato. Pur affermando che i diritti esistevano già ed essi si limitavano a difenderli, i deputati crearono qualcosa di radicalmente nuovo: governi fondati sulla garanzia dei diritti universali.
3. Thomas Jefferson (1743-1826) fu fra
i principali autori della Dichiarazione di indipendenza del 1776 e presidente degli Stati Uniti dal 1801 al 1809.
GUIDA ALLO STUDIO a. Realizza sul quaderno una tabella i cui indicatori siano “Gran Bretagna” e “Francia” e inserisci nelle rispettive colonne le caratteristiche che Lynn Hunt attribuisce alla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e alla Dichiarazione dei diritti del cittadino proclamata in Francia nel 1789. b. Spiega per iscritto: a. In che senso, perché e con quali conseguenze mutò il significato del termine “dichiarazione” nel XVII secolo; b. Cosa cambia nell’idea di sovranità con la proclamazione di queste due Dichiarazioni.
Tra il 1789 e il 1791 il Congresso degli Stati Uniti approvò dieci emendamenti, ovvero articoli aggiuntivi alla Costituzione redatta nel 1787. Furono soprattutto gli antifederalisti a sollecitare questa decisione, convinti che il testo costituzionale non elasse sufficientemente le libertà degli individui e dei singoli Stati. I nuovi dieci articoli rappresentarono infatti una garanzia per i diritti del cittadino di fronte ai possibili abusi delle autorità pubbliche federali. Oltre al riconoscimento delle libertà considerate inviolabili, come quella di religione, di opinione, di riunione e di proprietà, venne stabilito il «diritto del popolo a tenere e portare armi» (Articolo II), una prerogativa valida ancora oggi e al centro di polemiche e dibattiti. essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero, il diritto del popolo a tenere e portare armi non potrà essere violato. Articolo III Nessun soldato potrà essere acquartierato in tempo di pace in una casa privata senza il consenso del suo proprietario, né in tempo di guerra se non secondo le modalità previste dalla legge.
Articolo IV Il diritto dei cittadini di essere garantiti nelle loro persone, case, documenti ed effetti personali, contro perquisizioni e sequestri arbitrarî, non potrà essere violato, e nessun mandato potrà esser spiccato, se non su indizî fondati, basati su giuramento, e tale mandato dovrà descrivere particolareggiatamente ad arresto o sequestro.
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FARE STORIA
U3 L’età delle rivoluzioni
Articolo V Nessuno sarà tenuto a rispondere per un reato che importi la pena capitale, o per altro delitto infamante, se non in seguito a denuncia o accusa di un Gran Giurì, a meno che si tratti di reato compiuto da un appartenente alle forze armate di terra o di mare, o alla milizia, mentre si trovava in servizio effettivo in tempo di guerra o di pericolo pubblico; nessuno potrà esser sottoposto due volte, per un medesimo reato, a procedimento che importi la pena capitale o quella della mutilazione; nessuno potrà esser costretto, nel corso di un procedimento penale, a testimoniare contro se stesso, od essere privato della vita, della libertà o dei beni senza regolare procedimento giudiziario; nessuna proprietà privata potrà essere espropriata per pubblica utilità senza equo compenso. Articolo VI In tutti i procedimenti penali, l’imputato avrà diritto ad un giudizio celere e giusto, da parte di un giurì imparziale dello Stato e del distretto nel quale sia stato commesso il
reato, il quale distretto sarà stato preventivamente determinato dalla legge, ed avrà altresì diritto di essere informato della natura e del motivo dell’accusa; di essere messo a confronto con i testimoni d’accusa; di obbligare a comparire in giudizio i testimoni a suo favore e ad avere l’assistenza di un difensore. Articolo VII Nelle cause che dovranno essere giudicate in base alla Common Law1, il cui valore eccederà i venti dollari, sarà conservato il diritto ad un giudizio mediante giuria, e nessun fatto giudicato da una giuria, potrà essere riesaminato da una Corte degli Stati Uniti se non in conformità delle norme della Common Law. Articolo VIII Non potranno essere richieste cauzioni eccessive, od imposte ammende esorbitanti, o inflitte pene crudeli e contrarie alla consuetudine. Articolo IX L’elencazione di certi diritti, contenuta nella presente Costituzione, non potrà essere interpretata in
STORIOGRAFIA 36
G.S. Wood L’idea di uguaglianza
G.S. Wood, I figli della libertà. Alle radici della democrazia americana, Giunti, Firenze 1996, pp. 303-10.
La rivoluzione repubblicana fu il più grande movimento utopistico della storia americana. I rivoluzionari miravano nientemeno che a una ricostituzione della società americana. [...] Volevano edificare una società e dei governi fondati sulla virtù e su una dirigenza pubblica aliena da interessi personali, e mettere in moto un movimento morale che alla fine, sarebbe stato avvertito in tutto il pianeta. [...] Nei decenni successivi alla rivoluzione la società americana conobbe un profondo mutamento. Quale che sia il criterio usato, si verificò un’improvvisa esplosione non soltanto in termini di trasmigrazioni interne ma di energia imprenditoriale, di passione religiosa e di smanie di arricchimento. [...] Nulla contribuì a questa esplosione di energia più dell’idea di uguaglianza. Di fatto, l’uguaglianza costituì la forza ideologica più radicale e potente liberata
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maniera da negare o limitare altri diritti conservati dal popolo. Articolo X I poteri non delegati dalla Costituzione agli Stati Uniti, o il cui esercizio non sia da questa vietato agli Stati, s’intendono rispettivamente riservati agli Stati, ed al popolo. 1. Diritto comune, fondato su consuetudini e
sentenze giudiziarie.
GUIDA ALLO STUDIO a. Individua un titoletto per ogni articolo e trascrivilo in corrispondenza del testo. b. Evidenzia le parole chiave per ogni articolo e argomenta la tua scelta. c. Spiega per iscritto quali provvedimenti sono previsti dai primi dieci emendamenti nei seguenti casi: a. un membro del popolo viene trovato armato; b. un cittadino è stato processato per omicidio ma emergono nuove accuse contro di lui.
L’idea di uguaglianza costituì un forte principio di mobilitazione ideologica durante la rivoluzione americana, ma fu anche motore di una straordinaria trasformazione della società. In questo brano, tratto da un libro pubblicato nel 1991, lo storico statunitense Gordon S. Wood (nato nel 1933) analizza il ruolo che l’idea di uguaglianza ebbe nella formazione di un sentimento di appartenenza nazionale: un principio che l’autore non esita a giudicare la «spinta ideologica più forte e radicale di tutta la storia americana». dalla rivoluzione, con una capacità di attrazione molto maggiore di quanto alcuno dei rivoluzionari riuscisse a comprendere. Una volta evocata, l’idea dell’uguaglianza non poté essere arrestata, tanto da lacerare la società e la cultura americana con una forza immane [...]. Lo «Spirito dell’eguaglianza» non distinse solamente «i più eletti campioni dalla plebe regale», ma distese «un regale mantello di umanità» su tutti gli americani e conferì «democratica dignità» perfino al «braccio che vibra una picca o che pianta una caviglia». Nel giro di qualche decennio dopo la Dichiarazione di indipendenza, gli Stati Uniti diventarono la nazione più egalitaria nella storia e tali restano ancora oggi, se vogliamo prescindere dalle vistose disparità di ricchezza. L’uguaglianza costituiva il nucleo del repubblicanesimo [...]. La cittadinanza repubblicana comportava l’uguaglianza. [...]
Tuttavia, facendo propria l’idea dell’uguaglianza civica i rivoluzionari non avevano inteso livellare la società; sapevano che ogni società, per quanto repubblicana e fedele ai principî dell’uguaglianza, avrebbe comunque dovuto mantenere «alcune distinzioni e gradazioni di rango che nascono dall’educazione e altre circostanze accidentali», sebbene nessuna di tali distinzioni e gradazioni sarebbe stata altrettanto profonda di quelle di una società monarchica. Per uguaglianza intendevano, con tutta evidenza, uguaglianza di opportunità, ovvero stimolare all’azione l’ingegno e schiudere la carriera agli uomini dotati e virtuosi, distruggendo al tempo stesso la parentela e il patronage1 come fonti di autorità. Tuttavia,
1. Patronato, protezione.
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FARE STORIA
FARE STORIA Stati Uniti e Francia: nuove idee e nuovi modi di fare politica
grazie alla mobilità sociale, sia ascendente sia discendente, fondata sulla capacità e il carattere individuale, si presumeva che nessuna distinzione avrebbe avuto il tempo di consolidarsi o di perpetuarsi da una generazione all’altra, sicché l’uguaglianza di opportunità avrebbe contribuito a promuovere una relativa uguaglianza di condizione. Questa uguaglianza era in realtà essenziale per il repubblicanesimo: fin dall’antichità i teorici avevano ipotizzato che lo stato repubblicano richiedesse un generale livellamento di beni tra i cittadini, e sebbene nel 1776 la maggioranza degli americani non sostenesse apertamente questa tesi [...] tutti davano per scontato che una società non potesse restare a lungo repubblicana se soltanto una piccola minoranza controllava gran parte della ricchezza e il grosso della popolazione
continuava a essere costituito da servitori dipendenti o braccianti senza terra. L’uguaglianza era connessa all’indipendenza, tanto che la bozza originale della Dichiarazione di indipendenza di Jefferson affermava che «tutti gli uomini sono creati liberi e indipendenti». Gli uomini erano uguali nel senso che nessuno di loro avrebbe dovuto essere subordinato alla volontà di un altro, e la proprietà rendeva possibile tale indipendenza. [...] Ma in definitiva l’uguaglianza non significava soltanto questo agli occhi dei rivoluzionari, e per la verità se avesse significato soltanto pari opportunità o parità economica non avrebbe mai potuto diventare [...] la spinta ideologica più forte e radicale di tutta la storia americana. L’uguaglianza acquisì una simile forza tra gli americani perché in sostanza significava che ciascuno era davvero pari a chiunque altro, non sol-
DOCUMENTO 37
Diritti e doveri a confronto le Dichiarazioni del 1789 e del 1793
A. Saitta, Costituenti e Costituzioni della Francia moderna, Einaudi, Torino 1952, pp. 66-68; 118-21.
Dichiarazione dell’89 I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri [...]; affinché i reclami dei cittadini, fondati d’ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti. In conseguenza, l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Essere supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino: Art. 1 Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le
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tanto alla nascita né in fatto di talento, proprietà o ricchezza, e non solo nel senso religioso trascendentale dell’uguaglianza di tutte le anime. L’americano comune si convinse che nessuno fosse davvero migliore di chiunque altro in senso molto concreto, fondamentale, giorno dopo giorno. Era un genere di uguaglianza quale nessun’altra nazione ha mai avuto.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega per iscritto cosa contribuì al profondo mutamento che avvenne nella società americana con la rivoluzione e quali furono le conseguenze. b. Descrivi per iscritto il rapporto esistente, secondo Gordon S. Wood, fra: a. uguaglianza e mobilità sociale; b. uguaglianza, repubblicanesimo e indipendenza.
Mettendo a confronto le Dichiarazioni del 1789 e del 1793 è possibile osservare alcune significative differenze fra il momento liberale e quello democratico-popolare della Rivoluzione. La «resistenza all’oppressione» che è elencata fra i diritti naturali e insopprimibili nell’art. 2 dell’89 è oggetto di un intero articolo (il 35) nel ’93, ampliata a diritto-dovere all’insurrezione non solo del popolo nel suo insieme, ma anche di «ciascuna parte del popolo». Questa ulteriore specificazione, che attribuisce un ruolo decisivo alle minoranze rivoluzionarie, appare come una legittimazione della giornata del 2 giugno 1793 che aveva portato all’arresto dei girondini e alla loro espulsione dalla Convenzione. distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune. Art. 2 Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione. Art. 3 Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo o individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. Art. 4 La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così, l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge. Art. 5 La Legge ha il diritto di vietare solo le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non viene vietato dalla legge non può essere impedito [...].
Art. 6 La Legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti [...]. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti. [...] Art. 11 La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge. [...] Art. 17 La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità.
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FARE STORIA
U3 L’età delle rivoluzioni
Dichiarazione del ’93 Il popolo francese, convinto che l’oblio e il disprezzo dei diritti naturali dell’uomo sono le sole cause delle sventure del mondo, ha deciso di esporre in una dichiarazione solenne questi diritti sacri e inalienabili [...] affinché il popolo abbia sempre davanti agli occhi le basi della sua libertà e della sua felicità, il magistrato la regola dei suoi doveri, il legislatore l’oggetto della sua missione. Di conseguenza, esso proclama, al cospetto dell’Essere supremo, la seguente dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Art. 1 Lo scopo della società è la felicità comune. – Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili. Art. 2 Questi diritti sono l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà. Art. 3 Tutti gli uomini sono uguali per natura e davanti alla Legge.
Art. 4 La Legge è l’espressione libera e solenne della volontà generale; essa è la stessa per tutti [...]; può ordinare solo ciò che è giusto e utile alla società; non può vietare se non ciò che le è nocivo. Art. 5 Tutti i cittadini sono ugualmente ammissibili agli impieghi pubblici. I popoli liberi non conoscono altri motivi di preferenza nelle loro elezioni, che le virtù e le capacità. Art. 6 La libertà è il potere che appartiene all’uomo di fare tutto ciò che non nuoce ai diritti degli altri. [...] Art. 11 Ogni atto esercitato contro un uomo fuori dei casi e senza le forme che la Legge determina è arbitrario e tirannico; colui contro il quale lo si volesse eseguire con la violenza, ha il diritto di respingerlo con la forza. [...] Art. 25 La sovranità risiede nel popolo; essa è una e indivisibile, imprescrittibile e inalienabile. [...] Art. 33 La resistenza all’oppres-
STORIOGRAFIA 38
A. Trampus I rivoluzionari e la felicità pubblica
A. Trampus, Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 203-7.
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sione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo. [...] Art. 35 Quando il Governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri.
GUIDA ALLO STUDIO a. Dopo aver letto le due Dichiarazioni, leggi con attenzione il cappello introduttivo. Successivamente evidenzia nei documenti i rimandi ai contenuti del cappello e numerali in ordine progressivo. Quindi inserisci delle note nel testo introduttivo che rimandino agli elementi individuati. b. Individua un titoletto per ogni articolo e scrivilo in corrispondenza del testo. Quindi scrivi un testo comparativo che metta in rilievo le similitudini e le differenze fra la Dichiarazione dell’89 e quella del ’93.
Antonio Trampus (nato nel 1967) ha dedicato un suo recente libro alla storia dell’idea di felicità in Occidente, dall’Antichità fino ai tempi moderni. In questo brano ripercorre in maniera originale le varie fasi della Rivoluzione francese, analizzando il diverso significato che i governi rivoluzionari attribuirono al concetto di felicità nelle Dichiarazioni dei diritti e nelle Costituzioni elaborate nel corso degli anni: dapprima intesa come diritto individuale del cittadino, con l’arrivo al potere dei giacobini la felicità diventa sempre più un diritto comune e pubblico, che deve ispirare la società e soprattutto l’azione di governo. La Rivoluzione francese opera una profonda trasformazione, al punto di non rivendicare più il diritto alla ricerca della felicità, come nel caso americano, ma il diritto alla felicità. Si tratta di un passaggio decisivo e complesso, che merita però di essere attentamente ricostruito, perché segna una rottura irrimediabile con il mondo dei Lumi. [...] Nella stesura definitiva della dichiarazione dei diritti la felicità non è trattata in un articolo specifico, ma è trasferita all’interno del preambolo, laddove si afferma che i diritti dell’uomo e del cittadino sono riconosciuti e dichiarati «affinché i reclami dei cittadini, fondati da ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della costituzione e la felicità di tutti». [...] Così si riconosce nella felicità un diritto naturale senza però determinarne i contenuti, ma ribadendone il carattere
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programmatico. Come nel caso americano, anche la cultura francese riesce ad elaborare la tradizione giusnaturalistica, inserendo la felicità tra i diritti naturali e inalienabili dell’uomo. La felicità, così costituzionalizzata, può diventare allora una sorta di indirizzo politico cui ispirarsi per costruire una società migliore? In realtà, agli occhi dei rivoluzionari, essa rappresenta non tanto un programma per il futuro quanto una cesura rispetto al passato, perché pone una barriera rispetto al vecchio (e infelice) regime che si vuole lasciare definitivamente alle spalle. Anche per questo, nel dibattito che accompagna la preparazione alla costituzione del 3 settembre 1791, la felicità – nell’accezione di «felicità pubblica» – rimane essenzialmente un ideale filosofico ed etico, che corrisponde a un’idea abbastanza indistinta di benessere, di giustizia e di prosperità della nazione, cui dovrebbe
ispirarsi l’azione del potere legislativo e di quello esecutivo. [...] Nel preambolo del testo definitivo della dichiarazione dei diritti premessa alla nuova costituzione, infine, non si farà altro che ripetere quanto stabilito nel 1789 e cioè che i principi incontestabili della dichiarazione stessa devono servire al mantenimento della costituzione e della «felicità di tutti». Dopo la fuga di Varennes e la dichiarazione di guerra all’Austria, seguita dall’insurrezione del popolo di Parigi (20 giugno 1792) [...] l’Assemblea legislativa decide la sospensione del sovrano dalle sue funzioni, con l’elezione di un nuovo organo, la Convenzione nazionale. Ed è proprio la Convenzione a dichiarare il 21 settembre l’abolizione della monarchia e a celebrare il processo contro Luigi XVI, seguito dalla sua esecuzione [...]. Le successive sconfitte militari, la crisi economica e le agitazioni popolari
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FARE STORIA
FARE STORIA Stati Uniti e Francia: nuove idee e nuovi modi di fare politica
mettono in minoranza la componente moderata dei girondini e favoriscono la creazione di un tribunale rivoluzionario e di un Comitato di Salute pubblica. Si apre così il periodo dell’egemonia giacobina e del Terrore [...]. In questo clima concitato viene preparata e discussa la nuova costituzione del 1793, votata il 24 giugno e destinata a non entrare mai in vigore, ben diversa rispetto a quella di due anni prima: già in aprile Robespierre presenta un progetto che si differenzia rispetto alla dichiarazione girondina per il suo carattere fortemente antindividualistico. I diritti elencati non sono più quelli dell’uomo, ma quelli della società nel suo complesso, che devono essere affermati «affinché il popolo abbia sempre davanti gli occhi le basi della sua libertà e della sua felicità». Nel testo definitivo della dichiarazione, premessa alla costituzione, quest’affermazione viene ulteriormente rafforzata dall’art. 1 che dichiara, senza mezzi termini, che «lo scopo della società è la felicità comune. Il governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili». Si tratta di una formulazione che enfatizza il principio rousseauiano della sovranità popolare (non a caso le spoglie del filosofo vengono traslate
solennemente al Pantheon l’11 ottobre 1794), ma crea di fatto una gerarchia fra i diritti, ponendo la felicità comune e l’uguaglianza al di sopra della libertà e della proprietà, coerentemente con il programma politico del gruppo giacobino. Allo stesso periodo risale il celebre rapporto di Saint-Just1, uno dei membri del Comitato di Salute pubblica, che il 3 marzo 1794 dichiara alla Convenzione solennemente: «la felicità è un’idea nuova in Europa». La parola felicità è ormai parte del lessico politico e torna continuamente nei discorsi di Saint-Just stesso e Robespierre, ma non ha però più nulla a che fare con la tradizione illuministica ed è collegata strettamente, piuttosto all’idea di virtù espressa di dirigenti giacobini2, che la interpretano come un valore repubblicano contrario al piacere individuale, a qualsiasi manifestazione dell’epicureismo 3 vecchio e nuovo e che si può esprimere solo in modo collettivo. [...] Non bisogna quindi più parlare né di felicità privata né di felicità pubblica secondo l’uso antico, ma di «felicità sociale», ispirata alla morale rivoluzionaria e ad una nuova religiosità civile, la stessa che pone la felicità del popolo quale ultima delle 37 feste all’anno fissate dal calendario repubblicano. La felicità privata si dis-
STORIOGRAFIA 39
F. Furet Il club dei giacobini
F. Furet, Giacobinismo, in Dizionario critico della Rivoluzione Francese, vol. 2, a c. di F. Furet e M. Ozouf, Bompiani, Milano 1994, pp. 833-40; 844.
Prima ancora di essere un concetto, o una tradizione, o una mentalità politica, il termine giacobinismo evoca una storia di un club la cui azione, essenziale sin dall’inizio della rivoluzione, è a tal punto dominante tra il 1792 e il 1794 che l’aggettivo giacobino viene a indicare, in questo periodo e poi anche in seguito, i partigiani della dittatura di salute pubblica [...].
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solve in quella del corpo sociale e dello Stato, che deve difendersi dai nemici della Rivoluzione; l’interesse privato cede il posto all’interesse generale e la virtù repubblicana si contrappone agli interessi dell’individuo. [...] Raggiungerla non è quindi più compito del singolo individuo; è invece un dovere del potere politico promuovere la felicità dei cittadini. 1. Louis Antoine de Saint-Just (1767-1794),
amico di Robespierre, prima deputato alla Convenzione e poi membro del Comitato di salute pubblica. 2. A questo proposito ŹLEGGERE LE FONTI, p. 204. 3. Epicureismo: la dottrina del filosofo greco Epicuro che invitava a cercare l’equilibrio interiore perseguendo il soddisfacimento dei propri piaceri e bisogni.
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia le tappe che hanno portato alla definizione del concetto di felicità durante la Rivoluzione francese. Trascrivile sul quaderno e sintetizza per ogni tappa i cambiamenti avvenuti. b. Spiega quando, secondo Antonio Trampus, si crea una gerarchia fra i diritti e in cosa consiste.
Le vicende del club giacobino rappresentano un percorso esemplare per comprendere alcuni aspetti dell’evoluzione della Rivoluzione francese. Formatosi nel maggio-giugno 1789 come luogo in cui alcuni deputati del Terzo stato concordavano la condotta da tenere nelle sedute della Costituente, dal 1791, con l’emergere della figura di Robespierre, il club si impose come il principale centro di potere della Repubblica. In questo brano, a ricostruire lo sviluppo del giacobinismo e ad analizzare l’eredità politica che lasciò per i secoli successivi è lo storico francese François Furet (1927-1997), importante protagonista del dibattito che vide discutere animatamente gli storici, a partire dagli anni ’60, intorno alla definizione della Rivoluzione francese come «rivoluzione borghese». Egli fu il sostenitore di un’interpretazione dei processi rivoluzionari in chiave politico-ideologica più che economico-sociale: la novità della Rivoluzione, secondo Furet, va rintracciata nell’avvento di un diverso linguaggio politico e di una diversa rappresentazione del potere e non, come affermano gli storici d’ispirazione marxista, nella trasformazione delle strutture sociali ed economiche del paese. Ormai il club tiene le sue sedute in pubblico [...]; esso consolida la sua rete nazionale, sotto la bandiera del suffragio universale, cercando di estendere il suo magistero d’opinione alle società popolari sbocciate qua e là; si dà un’organizzazione interna più forte, aggiungendo ai comitati già esistenti un comitato dei rapporti e un comitato di sorveglianza; ma il principale tra questi comitati ri-
mane quello di corrispondenza, cuore dell’apparato giacobino, dove siedono ormai, tra gli altri, Robespierre, Brissot1,
1. Jacques-Pierre Brissot (1754-1793), esponente
di spicco dei girondini, deputato all’Assemblea legislativa e alla Convenzione, ghigliottinato dopo il colpo di Stato contro i girondini.
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U3 L’età delle rivoluzioni
Carra2, Desmoulins3, Clavière4, Collot d’Herbois5, Billaud-Varenne6, i futuri montagnardi e i futuri girondini, i futuri esagerati e i futuri indulgenti, per non parlare dei seguaci di Robespierre; insomma, tutto il futuro della rivoluzione, momentaneamente riunito. Il club non è più destinato essenzialmente a preparare i dibattiti dell’Assemblea, ma ha una vocazione più generale: quella di costituire un’altra Assemblea, che può essere anche una controassemblea. [...] Non esistono testimonianze scritte di una partecipazione diretta del club all’insurrezione del 10 agosto, benché questa partecipazione sia verosimile, per il tramite di un direttorio clandestino; la giornata porta troppo chiara l’impronta dei militanti giacobini perché non ci sia stata alcuna concertazione. E i giacobini si ritrovano ai posti di comando dopo la caduta delle Tuileries. Ma il contributo essenziale della società consiste nell’essere stata il crogiuolo in cui si è formato lo spirito del 10 agosto, un misto di disprezzo delle leggi e di idealismo repubblicano, di sospetto generalizzato e di utopia ugualitaria, dove si ritrovano i tratti caratteristici della pedagogia robespierrista. [...] Loro è lo spirito della seconda rivoluzione. E sono loro che designano la deputazione parigina alla Convenzione. Quando questa viene eletta in settembre, la nuova Assemblea costituente inaugura il periodo giacobino della rivoluzione francese. [...] Si instaura così un’inedita demo-
crazia diretta, nella quale i giacobini rappresentano in vivo la finzione rivoluzionaria del popolo: vale a dire un popolo unanime, che si trova dunque in uno stato di permanente autoepurazione, dal momento che l’esclusione ha lo scopo di purgare il popolo sovrano dai suoi nemici nascosti e di ristabilire così l’unità minacciata. [...] Il giacobinismo è stato nel XIX secolo il centro di conflitti politici e intellettuali molto vivaci. Dalla restaurazione alla fondazione della Terza repubblica, esso fa parte del bagaglio del partito repubblicano, a diverso titolo e in gradi diversi; esso rappresenta un’eredità indivisa, dove si trovano contemporaneamente la sovranità del popolo una e indivisibile, l’onnipotente Assemblea eletta a suffragio universale, la nazione francese alla testa dell’emancipazione dei popoli, l’ostilità verso la chiesa cattolica, la religione dell’uguaglianza, e per finire la società, segreta o pubblica, secondo i casi, di attivisti professionisti della politica rivoluzionaria. Ma l’eredità giacobina porta con sé anche il Terrore, inseparabile dalla Prima repubblica e dalla sanguinosa dittatura esercitata nel nome della virtù. Cristallizzando una tradizione politica, il giacobinismo crea anche un polo di repulsione, in special modo tra i borghesi e tra i contadini [...]. Il club dei giacobini avrà tuttavia molti imitatori. Esso fa parte, nel XIX secolo, non solo della rivoluzione, ma dei suoi insegnamenti: le società rivoluzionarie
STORIOGRAFIA 40
J. Israel Il Terrore
J. Israel, La Rivoluzione francese. Una storia intellettuale dai Diritti dell’Uomo a Robespierre, Einaudi, Torino 2015, pp. 569-70; 572-74; 611-12.
Con la sua esigua base di sostegno fuori da Parigi, la dirigenza robespierrista aveva bisogno del Terrore per mantenere la sua presa sul potere [...] In egual misura la dittatura necessitava della sua ideologia dell’uguaglianza intesa prepotentemente a livellare per fornire una giustificazione logica al Terrore e al brutale giro di vite contro ogni forma di opposizione e dissenso. I nuovi «comitati rivoluzionari» in seno alle sezioni e alle sociétés populaires si distinsero come guardiani – più spesso non tanto dell’an-
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di militanti convinti che lo scopo del loro agire sia la trasformazione dell’uomo e del mondo, sono un patrimonio neogiacobino comune a tutta l’Europa continentale del XIX secolo. [...] Di questo itinerario ancora mal esplorato, le tappe principali sono innanzi tutto Marx, e poi Lenin, l’inventore della variante soggettivista del marxismo. E attraverso il bolscevismo, il partito giacobino ha avuto un peso importante nel XX secolo. 2. Jean-Louis Carra (1742-1793), giornalista,
deputato alla Convenzione.
3. Camille Desmoulins (1760-1794), avvocato,
pubblicista, deputato alla Convenzione, segretario di Danton insieme al quale fu ghigliottinato per ordine di Robespierre. 4. Étienne Clavière (1735-1793), banchiere di origine svizzera, girondino, morto suicida in prigione. 5. Jean-Marie Collot d’Herbois (1749-1796), attore e commediografo, segretario del club dei giacobini nel 1791 e deputato alla Convenzione. 6. Jacques-Nicolas Billaud-Varenne (1756-1819), deputato alla Convenzione e membro del Comitato di salute pubblica.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea i contributi e i compiti della società dei giacobini durante la Rivoluzione francese. b. Descrivi e argomenta per iscritto il rapporto che, secondo François Furet, è possibile individuare fra il partito giacobino e il bolscevismo.
Lo storico britannico Jonathan Israel (nato nel 1946) è autore di un recente volume sulla Rivoluzione francese. Come spiega in questo brano, il Terrore giacobino non consistette soltanto in una caccia ai nemici della Rivoluzione, agli oppositori politici, agli aristocratici, al clero e ai nobili filomonarchici: la difesa dei princìpi rivoluzionari avvenne anche con l’imposizione violenta di una rigida moralità repubblicana e con la lotta alle pratiche quotidiane considerate degeneri dall’élite politica al potere. damento dei prezzi dei generi alimentari quanto invece delle attività dei negozianti e dei cittadini che afferivano alla sezione – imponendo i valori «patriottici» con un polso ferreo. La société populaire et républicaine della sezione di Parigi Droits-de-l’Homme, ad esempio, [...] si riuniva quotidianamente per esaminare questioni di interesse locale e assicurarsi che nessuno si scostasse dall’ortodossia. [...] Attraverso un sistema di direttive e denunce supportato da udienze, imponeva in modo inflessibile una condotta
«patriottica» e i modi di vedere «corretti», facendo rispettare i valori «patriottici» in ogni parte del quartiere. «Patriottico» divenne una parola in codice che stava per popolare, antielitario, antiphilosophique e aderente a una concezione della virtù estremamente intollerante. Chiunque veniva denunciato riceveva udienza davanti al corpo dei membri al completo. I comitati che nelle società popolari agivano da guardiani andavano in cerca e si sforzavano di sopprimere «monarchici», «aristocratici», «moderati» e fédérés1 e nel
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contempo rivolgevano un occhio ostile a negozi di generi alimentari e panetterie, caffè, teatri, possibili ritrovi di gioco d’azzardo, donne che ragionavano con la propria testa e cortigiane. L’iniziativa di mettere sotto chiave le prostitute e sopprimere il loro esercizio fu intrapresa con impegno sul finire dell’estate 1793 e presto estesa ad altre grandi città [...]. La vigilanza giacobina sembrava ansiosa di fare piazza pulita di ogni svago e piacere, terrorizzare le ragazze e bandire l’erotismo e l’immoralità stessa. Le prostitute erano ritenute un depravato retaggio dell’ancien régime, un oltraggio alla virtù, un simbolo di tutto quello che la virtù era tesa a sradicare [...]. Le esecuzioni non erano che la punta dell’iceberg. In sostanza il Terrore fu una generale soppressione di tutti i principi essenziali e della filosofia della Rivoluzione, specialmente la libertà di criticare e la libertà di pensiero e di opinione in generale. [...] Il bersaglio principale rimanevano sempre i più importanti esponenti dei valori cardine rivoluzionari: le radicali gens de lettres (i letterati), i philosophes, i giornalisti, i bibliotecari e gli intellettuali che avevano guidato la Rivoluzione. [...] I sospetti venivano arrestati nelle loro case e per strada semplicemente perché qualcuno aveva informato i locali comitati rivoluzionari che i loro discorsi o condotta facevano pensare che costoro fossero «non patriottici», «partigiani del fédéralisme e nemici della libertà». [...] Senza un certificato di civisme2, emesso dai comitati di sorveglianza del distretto, diventò arduo
FARE STORIA Stati Uniti e Francia: nuove idee e nuovi modi di fare politica
viaggiare, fare affari o partecipare a delle riunioni. Chiunque fosse sospettato di criticare il regime, perfino i più eminenti visitatori stranieri, veniva denunciato e imprigionato. [...] Sebbene i nobili in fuga e le loro consorti, gli ex dignitari e i preti refrattari e costituzionali avessero un ruolo di spicco in mezzo a coloro che venivano arrestati – processati e giustiziati durante il Terrore – i bersagli principali inizialmente non furono aristocratici, accaparratori, dignitari dell’ancien régime, oppure preti, ma repubblicani di sinistra e gens de lettres, gli intellettuali illuminati che avevano fatto la Rivoluzione. [...] Il terrore permeava ogni aspetto e dimensione della società e dell’esistenza. [...] I soli numeri bastano a provare che il Terrore interessò tutte le classi della popolazione, non soltanto gli intellettuali, i nobili, gli ufficiali dell’esercito e del clero. Ufficialmente, sotto il Terrore, i Tribunali rivoluzionari del governo giustiziarono in Francia un totale di 16.594 vittime, senza contare le migliaia fucilate o annegate extragiudizialmente dalle forze montagnarde a Lione, Tolone, Nantes, nella regione basca e nella Vandea. Le circa 17.000 esecuzioni sancite dalla legge furono certamente superate dalle uccisioni prive dei crismi delle autorità, che ammontarono forse intorno a 23.000. Alcune stime calcolano che il totale di quelli che furono imprigionati e uccisi abbia oltrepassato quota 300.000 [...]. Dei 17.000 circa ufficialmente giustiziati, approssimativamente il 31 per cento erano artigiani (democratici e realisti) e il 28 per cento contadini (so-
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vente realisti). Per converso, formavano contingenti meno numerosi, 1.158, appena sopra l’8 per cento, i nobili, conteggiando tanto la nobiltà «di spada» quanto quella «di toga» (i parlementaires) e i preti, pari a circa il 2 per cento. A Parigi, 9.249 persone furono incarcerate per motivi politici tra agosto 1792 e luglio 1794, delle quali 766, ossia ben sotto un decimo, erano nobili, sia maschi sia femmine. L’impatto psicologico fu enorme e difficile da valutare. [...] Sotto il Terrore il ritmo dell’emigrazione accelerò vertiginosamente. A luglio 1794, circa 145.000 émigrés, nobili, preti e comuni cittadini erano fuggiti dal paese. Si può affermare con sicurezza che il Terrore del periodo 1793-94 sia stato di gran lunga la principale causa di fuga dal paese durante la Rivoluzione. 1. Gli appartenenti alle milizie volontarie,
formatesi in occasione della Festa della federazione del 14 luglio 1790 con lo scopo di difendere la Rivoluzione. 2. Senso civico: qui nel senso di rispetto degli obiettivi patriottici e rivoluzionari.
GUIDA ALLO STUDIO a. Realizza uno schema per sintetizzare l’analisi di Jonathan Israel del terrore compilando le voci relative ai seguenti temi: a. i protagonisti; b. le modalità operative; c. i bersagli principali; d. gli strumenti utilizzati; e. il numero delle vittime; f. le conseguenze; g. le cause.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Scrivi un testo argomentativo dal titolo La Rivoluzione, il terrore e la virtù facendo riferimento ai testi di Israel [Ź40] e di Furet [Ź39], e al discorso di Robespierre [ŹLEGGERE LE FONTI, p. 204]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. 2. Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente, mettendo a confronto i princìpi che confluirono nella Dichiarazione di indipendenza americana [ŹLEGGERE LE FONTI, p. 180] e quelli che furono affermati con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino [Ź37]. Poni in rilievo i processi che portarono all’affermazione delle analogie e delle differenze. Prima di procedere con la scrittura, realizza una tabella comparativa basata sulle informazioni contenute nei documenti e utilizzala come scaletta per il tuo elaborato. Il confronto storiografico 3. Dopo aver letto i documenti presenti nella sezione, scegli una fra le seguenti posizioni storiografiche relative al confronto tra l’esperienza costituzionale americana e quella francese, e argomenta la tua risposta in un testo chiaro e coeso: a. In particolare, gli aspetti relativi al “monopolio della violenza” e al “diritto di ribellione contro il governo” rivelano chiaramente le differenti evoluzioni storiche nei due paesi. b. Dal punto di vista dei concetti chiave di “sovranità del popolo” e “uguaglianza dei cittadini”, le Costituzioni sono evidente espressione dello stesso movimento politico-intellettuale. c. La diversa attenzione posta sui temi della religione, delle libertà politiche, dei servizi sociali dimostra che le due Costituzioni sono state prodotte da e per società differenti.
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Gli uomini e le donne nelle rivoluzioni Le rivoluzioni americana e francese, oltre ad avere un forte impatto politico, trasformarono anche la vita quotidiana di uomini e donne che si trovarono a vivere quegli eventi. L’abbattimento delle tradizionali gerarchie di potere e l’introduzione dei princìpi di libertà e uguaglianza, infatti, cambiarono la mentalità degli individui e permisero l’emergere di nuove forme di socialità. Ad aprire questa sezione antologica è il brano di Arnaldo Testi [Ź41], il quale ci restituisce un quadro della società americana uscita dalla guerra d’indipendenza e analizza la progressiva messa in discussione dei tradizionali rapporti gerarchici, sia in ambito politico sia, sebbene in misura minore, in quello privato, all’interno di un’istituzione come la famiglia. Guido Abbattista [Ź42], invece, si interroga sui limiti della rivoluzione americana e si sofferma, in particolare, su chi rimase escluso dai diritti conquistati e affermati nella Dichiarazione di indipendenza e nella Costituzione repubblicana: gli schiavi neri e gli indiani. Riguardo alla Francia, Lynn Hunt [Ź43]
STORIOGRAFIA 41 A. Testi, La formazione degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2003, pp. 97-100; 128-29.
La Rivoluzione cambiò profondamente il Nord America. Creò una nuova entità politica, gli Stati Uniti, e una società diversa dalle precedenti. [...] I protagonisti della Rivoluzione erano convinti di assistere all’alba di un’epoca di libertà, anzi di contribuire ad alimentarla. Ritennero, proprio come fecero più tardi i rivoluzionari francesi con la data di fondazione della loro repubblica, che il 4 luglio 1776 segnasse un nuovo inizio dal quale contare il tempo, e lo scrissero nel testo delle carte costituzionali. Gli Articoli di confederazione (1777) furono datati «anno secondo dell’Indipendenza d’America»; la Costituzione di Filadelfia (1787), con maggiore precisione linguistica nel nominare la nuova realtà politica, fu datata «anno dodicesimo dell’Indipendenza degli Stati Uniti d’America». Questa pratica continuò a lungo, sia nei documenti di governo e nei messaggi presidenziali che nelle petizioni dei club politici, nei calendari e negli almanacchi popolari, nelle testate dei giornali. Tom Paine1, d’altra parte, era stato enfaticamente chiaro quando aveva scritto in Senso Comune (1776): «Abbiamo la possibilità di cominciare
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punta l’attenzione su uno degli effetti più evidenti della Rivoluzione: la straordinaria diffusione della politica e dei suoi simboli nella vita quotidiana, che cambiò la mentalità e il modo di vivere di moltissime persone. Un testimone d’eccezione di una seduta dell’Assemblea nazionale, lo scrittore francese Chateaubriand [Ź44], descrive in chiave polemica chi fossero questi uomini, in che modo si esprimessero e quanto diverse fossero le loro posizioni. Alle battaglie rivoluzionarie parteciparono in ogni modo non soltanto gli uomini, come ci mostra il caso delle “donne soldato” analizzato da Erica Joy Mannucci [Ź45] e come testimonia il più importante tentativo di rivendicazione del ruolo femminile portato avanti dalla rivoluzionaria Olympe de Gouges [Ź46], con la stesura della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina nel 1791. In chiusura, una selezione degli articoli sul matrimonio e sul divorzio del Codice civile napoleonico (1804) che mostrano chiaramente la subordinazione della moglie al marito [Ź46].
A. Testi Una nuova società americana? Lo storico italiano Arnaldo Testi (nato nel 1947), autore di importanti studi sulla storia degli Stati Uniti, descrive in questo brano i cambiamenti avvenuti nella società nordamericana l’indomani dell’indipendenza e della guerra che sancì la nascita del nuovo Stato, individuando gli elementi di continuità e quelli di rottura rispetto al periodo prerivoluzionario. Testi dedica una particolare attenzione agli aspetti simbolici e all’evoluzione delle gerarchie sociali fuori e dentro la famiglia, nonché al ruolo delle donne nella società americana. da capo a costruire il mondo. Una situazione simile all’attuale non si è verificata dai giorni di Noè». Gli sviluppi di quella «situazione» furono di ampia portata. Andarono al di là delle intenzioni, degli obiettivi e delle previsioni di molti di coloro che la scatenarono, e continuarono a dispiegare i loro effetti dopo che essa si era formalmente conclusa. I coloni pre-rivoluzionari erano sudditi di una monarchia imperiale; vivevano in comunità divise in caste e dominate dal rango, tenute insieme da relazioni paternalistiche di dipendenza personale e responsabilità reciproca, governate sulla base di principi gerarchici. Gli eventi rivoluzionari, cominciati come una difesa di privilegi, immunità e diritti «degli britannici», travolsero quest’ordine anche se non lo distrussero completamente. E portarono al trionfo moderno di un’idea repubblicana di libertà che aveva una travagliata storia nell’occidente europeo. La Rivoluzione repubblicana permise l’elaborazione di un discorso di diritti individuali e di eguaglianza che coinvolse tutti i ceti, anche quelli popolari, e tutte le relazioni, anche quelle attinenti alla sfera privata. Comportò
una crisi di autorità e consentì nuovi comportamenti. Soggetti, gruppi e interessi diversi acquisirono il diritto alla parola; crearono una vita sociale conflittuale e irriverente, e una vita pubblica articolata e caratterizzata dalla libertà di stampa e di organizzazione. Il mutamento più visibile e immediato riguardò la società politica, dove si modificarono i rapporti fra i governanti e i governati, e le definizioni stesse di chi avesse legittimità a governare. [...] Si erose insomma l’autorità sociale delle classi superiori e, soprattutto, il nesso fra l’autorità sociale e l’autorità politica. Si erose anche l’autorità patriarcale. Le affermazioni di indipendenza individuale erano connesse all’indebolimento dei legami gerarchici nelle famiglie, alla maggiore libertà dei figli e degli altri dipendenti maschi, come
1. Thomas Paine (1737-1809), filosofo,
intellettuale e polemista, partecipò alla rivoluzione americana ispirando con i suoi scritti l’indipendenza delle colonie dalla Gran Bretagna; trasferitosi in Francia negli anni della Rivoluzione francese, fu membro dell’Assemblea nazionale, prima di essere arrestato per essersi opposto all’uccisione di Luigi XVI.
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FARE STORIA
FARE STORIA Gli uomini e le donne nelle rivoluzioni
domestici, servi e apprendisti, rispetto ai patres familias. Queste tendenze, già presenti nel periodo pre-rivoluzionario, furono accelerate dalla Rivoluzione, che Paine evocò come una ribellione di «ragazzi» ormai cresciuti contro un re furfante che si atteggiava a «padre del suo popolo». Come era evidente da queste parole [...] si trattava di un discorso interno all’universo maschile. Anche le donne acquisirono spazi di autonomia, in casa e fuori. Durante la guerra furono loro a gestire in prima persona gli affari economici domestici, sostituendosi ai mariti soldati. Gruppi femminili organizzarono i boicottaggi delle merci britanniche, poi le campagne a sostegno della causa patriottica. Queste attività implicavano che le donne esercitassero responsabilità pubbliche, ma si fondavano sui loro ruoli di mogli e madri e sulla loro subordinazione dentro la famiglia; e non si tradussero in eguaglianza civile o politica. L’idea repubblicana era compatibile con tutto ciò, presupponeva che fossero gli uomini a rappresentare politicamente l’unità familiare. [...] Come in Europa, la cittadinanza politica rimase un at-
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G. Abbattista, La rivoluzione americana, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 92-96.
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STORIOGRAFIA 42
tributo maschile anche nella nuova repubblica americana, e fu il linguaggio patriarcale a definirne i fondatori come «Padri» fondatori. [...] Nella società post-rivoluzionaria le donne ebbero comunque un ruolo centrale, benché subordinato, e cioè quello di «madri repubblicane», la sopravvivenza della giovane repubblica, si disse, dipendeva dalla creazione di buoni cittadini, e ciò spettava all’azione congiunta di famiglia e scuola. Nelle famiglie le madri avevano importanza strategica. Dovevano fondere le abituali capacità di cura e affetto con la nuova competenza di inculcare nei figli le virtù civiche; per questo, si disse, si dovevano insegnare anche alle donne i principi della libertà e del governo, nonché i doveri del patriottismo. L’istruzione doveva quindi essere fornita dai governi repubblicani e essere accessibile anche alle ragazze; a cominciare dagli anni novanta, molti stati istituirono sistemi scolastici elementari pubblici, gratuiti e aperti a entrambi i sessi. Le donne acquistarono così un peso politico che, almeno a livello simbolico, era enorme; divennero le garanti morali del futuro della repubblica, un compito che
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svolgevano non solo singolarmente entro le mura domestiche ma anche collettivamente fuori di esse, promuovendo associazioni femminili culturali, filantropiche, riformatrici. [...] Si definì allora la separazione dello spazio sociale in due aree distinte per sesso. Rientravano nella «sfera della donna» le attività di ordine affettivo, educativo, etico, spirituale e i valori familiari e comunitari del disinteresse e del sacrificio di sé. Rientravano nella «sfera dell’uomo» le attività di ordine politico, istituzionale, affaristico, e i valori dell’interesse economico individuale e della competizione nel mercato.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega in che modo, secondo Arnaldo Testi, i rivoluzionari manifestarono l’idea di aver dato vita a una nuova società politica. b. Sottolinea con colori diversi le condizioni precedenti e quelle successive agli eventi rivoluzionari. c. Spiega per iscritto la frase «si trattava di un discorso interno all’universo maschile» e specifica quale fosse il ruolo assegnato alle donne dopo la rivoluzione.
G. Abbattista La rivoluzione e i suoi limiti: gli esclusi Lo storico italiano Guido Abbattista (nato nel 1953) nel suo libro La rivoluzione americana analizza anche quali furono i limiti del processo rivoluzionario che portò alla nascita degli Stati Uniti: in questo brano si sofferma in particolare sulla sorte di coloro che rimasero esclusi dai princìpi di libertà e uguaglianza affermati dai “padri fondatori” nella Dichiarazione di indipendenza del 1776 e nei testi costituzionali, ovvero gli schiavi neri, gli indiani e le minoranze religiose.
L’America coloniale [...] aveva già conosciuto nel secolo XVIII significative spinte verso l’emergere di relazioni sociali improntate a maggiore libertà ed elasticità. La rivoluzione assecondò dunque spinte preesistenti, come l’ampliamento della partecipazione politica dal basso, la democratizzazione dei comportamenti sociali, il progresso verso l’uguaglianza giuridica e religiosa e verso l’idea della pari dignità tra gli uomini. Ancora una volta, però, va precisato che tutto questo agì più nel senso dell’introduzione di un lievito egualitario nelle relazioni sociali, che non dell’effettiva attenuazione delle diseguaglianze di proprietà, cultura, prestigio, potere politico e condizione sociale. Ciò è vero soprattutto se si considerano la condizione femminile e
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il destino dei neri schiavi e delle minoranze etniche. Escluse dai diritti politici e in condizione di inferiorità nella famiglia e nella coppia, per esempio, le donne permasero in uno stato di subordinazione legale agli uomini. [...] Gli schiavi rimasero generalmente privi di libertà personale e di diritti politici e civili, evidenziando una delle più stridenti contraddizioni della storia della rivoluzione americana. [...] Nella prima parte del secolo XVIII, grazie anche all’impulso riformatore prodotto dal Risveglio1, si erano avuti significativi esempi di propaganda antischiavista e di campagne per migliorare la condizione degli schiavi e per l’abolizione della schiavitù. [...] Non si può negare che il periodo rivoluzionario espresse numerose voci contro la schiavi-
tù, come quelle di Samuel Hopkins, Benjamin Rush2, Thomas Jefferson, Thomas Paine (autore nel 1775 dell’opuscolo African Slavery in America) e dello stesso Primo Congresso continentale, da cui scaturì la dichiarazione del 1774 contro la tratta degli schiavi. È però altrettanto vero che ai progressi
1. Il Grande Risveglio fu un movimento di
rinnovamento religioso dal basso e critico nei confronti delle autorità esistenti, che investì il mondo protestante soprattutto delle colonie britanniche del Nord America. 2. Samuel Hopkins (1721-1803), teologo americano contrario alla schiavitù; Benjamin Rush (1746-1813), fisico, educatore e attivista dei diritti civili statunitense, considerato padre fondatore degli Stati Uniti e firmatario della Dichiarazione di indipendenza del 1776.
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FARE STORIA
di ordine ideologico o pratico-organizzativo (per esempio la fondazione della prima società abolizionista a Philadelphia nel 1775, con Franklin presidente3, e il sorgere di analoghe società in tutti gli Stati entro i primi anni Novanta) corrisposero mutamenti concreti solo graduali e geograficamente limitati. Dagli anni Settanta alla fine del secolo negli Stati settentrionali (Pennsylvania, Rhode Island, Connecticut, poi New York e New Jersey) si ebbero casi di legislazione proibitiva della tratta e a favore della manomissione e della graduale emancipazione. Ma ciò non comportò l’immediata ammissione paritaria degli ex schiavi nella comunità politica o il miglioramento delle loro condizioni economiche e sociali. Negli Stati meridionali, addirittura, dove si concentrava l’85 per cento degli schiavi, la schiavitù si estese e le importazioni dall’Africa proseguirono per soddisfare la richiesta di manodopera causata dall’espansione verso ovest. La difesa della schiavitù, inoltre, venne qui a coincidere con la difesa della proprietà in generale e a sovrapporsi alla causa dell’autodeterminazione sovrana degli Stati contro l’invadenza del potere federale [...] Quanto agli indiani – gli «spietati indiani» della dichiarazione d’indipendenza –, la rivoluzione non coincise certo con un miglioramento delle loro sorti, inaugurando anzi un processo che avrebbe portato alla loro pressoché totale cancellazione dalla storia americana. La nuova repubblica adottò inizialmente un atteggiamento punitivo per la scelta filobritannica generalmente compiuta dalle tribù dell’Est. E l’acquisizione dei territori ad est del Mississippi fece delle popolazioni indiane le vere vittime del lungo e doloroso conflitto tra le mire espansionistiche degli uomini della frontie-
ra e degli Stati e i tentativi di controllo federale, resi peraltro poco efficaci dall’assenza di un autentico impegno nazionale a favore dei diritti dei nativi. Nella sfera religiosa e dei rapporti tra potere civile e religioso – dove pure i margini di tolleranza erano più ampi che in Gran Bretagna – la rivoluzione intensificò i movimenti per il riconoscimento legale della tolleranza religiosa [...] Tuttavia, i principi di completa libertà religiosa e di separazione tra istituzioni civili e ecclesiastiche, di cui furono portabandiera George Mason, James Madison4 e soprattutto Thomas Jefferson, non furono immediatamente applicati. Tutti gli Stati, per esempio, ad eccezione del Rhode Island, continuarono a subordinare l’esercizio di pubbliche funzioni alla professione di dottrine cristiane, o specificamente protestanti. [...] La costituzione federale non contenne riferimenti a una materia, come quella religiosa e ec-
STORIOGRAFIA 43
L. Hunt La politicizzazione della vita quotidiana
La Rivoluzione francese mise particolarmente in rilievo il problema del processo di creazione dei simboli, per-
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clesiastica, che fu considerata di pertinenza dell’autorità degli Stati. Ciò nonostante, in seguito, nell’ambito del dibattito inteso a rafforzare le garanzie costituzionali, fu avvertito il bisogno di incorporare nella carta fondamentale una formulazione a tutela del diritto soggettivo alla libertà religiosa, del principio della laicità dello Stato e dell’autonomia statale. Il primo emendamento. Approvato nel 1789, stabilì così il divieto per il Congresso di varare leggi per la protezione legale della religione o che potessero limitare la libertà di fede e di culto.
3. Benjamin Franklin (1706-1790), statista
e scienziato statunitense, tra i redattori della Dichiarazione di indipendenza. 4. George Mason (1725-1792), redattore della costituzione dello Stato della Virginia; James Madison (1751-1836), sostenitore della libertà e della tolleranza religiosa, divenne il quarto presidente degli Stati Uniti nel 1809.
I RA N
L SI VA
PALESTRA INVALSI 1. Il messaggio principale del testo è che... [ ] a. nel XVIII secolo, in America erano già emerse relazioni sociali più libere ed elastiche. [ ] b. nel 1789 al Congresso fu imposto il divieto di varare leggi per la protezione legale della religione o che potessero limitare la libertà di fede e di culto. [ ] c. durante il periodo rivoluzionario numerose voci si levarono contro la schiavitù. [ ] d. con la rivoluzione, le disuguaglianze non furono realmente eliminate, ma fu introdotto un lievito egualitario nelle relazioni sociali. 2. Indica quali fra le seguenti condizioni sono attribuibili alle donne, quali agli schiavi, quali agli indiani nel periodo postrivoluzionario.
PALEST
L. Hunt, La rivoluzione francese. Politica, cultura, classi sociali, il Mulino, Bologna 1989, pp. 59-62; 72-73.
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U3 L’età delle rivoluzioni
Condizione
Donne
Schiavi
Indiani
Punizione per la scelta filobritannica Subordinazione legale agli uomini Privazione di libertà personali Esclusione dai diritti politici
Secondo la storica statunitense Lynn Hunt (nata nel 1945), con la Rivoluzione nasce una nuova cultura politica che sperimenta giorno per giorno la sua forza: il linguaggio, i simboli, l’abbigliamento, la retorica, tutto deve concorrere al cambiamento della società, al tentativo di costituire una nuova comunità nazionale «senza tracce dei costumi del passato». Nel brano seguente l’autrice spiega proprio questo “farsi” quotidiano della Rivoluzione e questo processo di politicizzazione che assorbe ogni momento della vita, basato su una concezione totalizzante della partecipazione alla politica. ché i rivoluzionari si trovarono in mezzo a una rivoluzione prima di avere modo di riflettere sulla loro situazio-
ne. I francesi non cominciarono da un partito organizzato o da un movimento compatto: non avevano bandiere, ma
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FARE STORIA
solo qualche semplice parola d’ordine. Inventarono simboli e rituali lungo il cammino. Dai philosophes i rivoluzionari avevano imparato che in altre società si usavano altri simboli e riti, ma nessuna società esistita sembrava del tutto degna di essere imitata. Come disse Robespierre, «La teoria del governo rivoluzionario è nuova come la rivoluzione che le ha dato luogo. Non è necessario cercarla nei libri degli autori politici, che non previdero questa rivoluzione, né nelle leggi dei tiranni, che, contenti di abusare del loro potere, non si preoccuparono molto di stabilirne la legittimità». Il passato, con le sue pratiche assurde, non aveva molti modelli da offrire. Ciò nondimeno la monarchia francese aveva dimostrato il potere dei simboli: non solo i Borbone avevano limitato in maniera drastica le responsabilità politiche dei sudditi francesi, come sostenne Tocqueville, ma erano anche riusciti ad attuare la virtuale identificazione del potere con il sistema simbolico della monarchia, specialmente con la persona del monarca. Il potere si misurava dalla prossimità al corpo del re. Per recuperare le loro responsabilità politiche di cittadini, prendendo su di sé il potere, i francesi dovevano eliminare tutte quelle associazioni simboliche intorno alla monarchia e al corpo del re. Alla fine questo fu fatto processando e giustiziando in pubblico il re. Proprio perché i Borbone avevano dato molto rilievo agli accessori simbolici del dominio i rivoluzionari erano particolarmente sensibili alla loro importanza. [...] Affermando la rottura completa con il passato, il discorso rivoluzionario discuteva tutti i costumi, tradizioni e modi di vita. La rigenerazione nazionale richiedeva niente meno che un uomo nuovo, e nuove abitudini: il popolo doveva essere riplasmato secondo il modello repubblicano. Bisognava esaminare ogni angolo della vita quotidiana, dunque, per scovarvi la corruzione dell’ancien régime e spazzarla via, per preparare il nuovo. L’impulso a investire tutto politicamente era l’altra faccia del rifiuto retorico della politica. Dato che la politica non aveva luogo in una sfera delimitata, allora tendeva a invadere la vita quotidiana. Questa politicizzazione del quotidiano fu tanto una conseguenza della retorica rivoluzionaria quanto un rifiuto più deliberato della politica organizzata. Politicizzando il quotidiano la Rivoluzione aumentò enormemente i luoghi di esercizio del
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FARE STORIA Gli uomini e le donne nelle rivoluzioni
potere, e moltiplicò le tattiche e le strategie per adoperarlo. Rifiutando il politico specifico, i rivoluzionari apersero campi prima inimmaginabili ai movimenti del potere. La politica non invase il quotidiano tutto in una volta, però fin dall’inizio sia i partecipanti sia gli osservatori capirono che in Francia succedeva qualcosa di inaudito, e vissero e spiegarono questi avvenimenti per mezzo di simboli. In una lettera del 16 luglio 1789 al governo inglese, il duca di Dorset1 parla della «più grande Rivoluzione di cui siamo a conoscenza», e commenta questa osservazione descrivendo la coccarda che stava comparendo su ogni cappello. Il 22 luglio riferisce che «la Rivoluzione della Costituzione e del Governo francese si può forse ora considerare completa», perché il re era stato appena costretto a recarsi a Parigi. In una processione simbolica di accettazione della rivoluzione di luglio, «è stato letteralmente portato in trionfo come un orso ammaestrato dai Deputati e dalla Milizia cittadina». I segnali più chiari del mutamento rivoluzionario erano atti simbolici, come la coccarda patriottica, e l’ingresso «umiliante» del re a Parigi, che erano anche i primi passi incerti della creazione della politica rivoluzionaria. La potenzialità dei simboli ai fini del conflitto politico e sociale divenne palese non appena i primi furono inventati. La coccarda fornisce un buon esempio. Secondo il duca di Dorset, le prime coccarde furono fatte con nastri verdi, ma questi vennero scartati perché il verde era il colore della livrea del conte di Artois, il malvisto fratello minore del sovrano. I nastri verdi vennero presto sostituiti da una combinazione di rosso, bianco e azzurro. Una volta accolta dalle moltitudini, la coccarda tricolore assunse un’importanza politica enorme. [...] Per la maggior parte della Rivoluzione, ma soprattutto nel 1792 e 1793, la mobilitazione politica fu in primo luogo un fatto esterno ai canali regolari ed ufficiali. I club, le società popolari e i giornali si assumevano direttamente la responsabilità di convertire le popolazioni locali, comprese le guarnigioni, alla causa repubblicana. I club femminili e le società di artigiani e di commercianti si dedicavano dichiaratamente all’auto-perfezionamento repubblicano. Nel 1790 si formò a Bordeaux, per esempio, una società di artigiani e commercianti, perché «dato che ognuno è membro dello stato, il nuovo ordine può chiamare chiunque all’amministrazione pubblica». La società aveva lo scopo di preparare
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ogni uomo a quelle responsabilità potenziali, con la discussione dei decreti dell’assemblea nazionale e la lettura di giornali d’informazione e periodici. In breve, il potere dello stato rivoluzionario non si estese tanto perché i leader seppero manipolare l’ideologia della democrazia e le pratiche della burocrazia a proprio vantaggio, quanto perché a ogni livello fu attuato da persone di varia posizione, che inventarono e impararono nuove «microtecniche» politiche. Tenere un verbale, presenziare a una riunione di club, leggere una poesia rivoluzionaria, portare la coccarda, cucire una bandiera, cantare una canzone, riempire un modulo: tutte queste azioni convergevano a produrre una cittadinanza repubblicana e un governo legittimo. Nel contesto rivoluzionario queste attività ordinarie erano investite di un’importanza straordinaria. Perciò il potere non era un’entità quantitativa finita posseduta dall’una o dall’altra fazione; era invece una serie complessa di attività e rapporti che creavano risorse prima inimmaginabili. Le sorprendenti vittorie delle armate rivoluzionarie costituirono solo la conseguenza più vistosa di questa scoperta di nuova energia sociale e politica. 1. John Frederick Sackville (1745-1799), duca
di Dorset, ambasciatore britannico in Francia dal 1783 al 1789.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le informazioni che spiegano in cosa consiste la politicizzazione del quotidiano, quali furono le cause e quali le conseguenze. b. Individua e numera le tappe che portarono la politica a invadere il quotidiano. c. Spiega per iscritto quale rapporto avevano instaurato i Borbone col potere e con i simboli e in che modo e con quali obiettivi i rivoluzionari attaccarono questo rapporto. d. Argomenta per iscritto la frase: Il potere dello stato rivoluzionario si estese soprattutto perché ad ogni livello fu attuato da persone di varia posizione, che inventarono e impararono nuove «microtecniche» politiche.
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FARE STORIA
DOCUMENTO 44 Chateaubriand, Memorie d’oltretomba, vol. I, Einaudi, Torino 2015, pp. 161-62.
U3 L’età delle rivoluzioni
François-Auguste-René de Chateaubriand Una seduta dell’Assemblea nazionale Il nobile bretone François-Auguste-René de Chateaubriand (1768-1848), scrittore, uomo politico e padre del Romanticismo francese, fu testimone delle giornate rivoluzionarie del 1789. Partito per gli Stati Uniti nel 1791, tornò in Francia dopo l’arresto del re Luigi XVI e si arruolò per combattere contro le armate repubblicane rivoluzionarie: ferito in battaglia, si trasferì in esilio in Gran Bretagna dove rimase dieci anni prima di poter rientrare in Francia. In questo brano, tratto dalle memorie che iniziò a scrivere nel 1803 e pubblicate subito dopo la sua morte, Chateaubriand descrive una giornata tipo all’Assemblea nazionale, dipingendo in maniera quasi grottesca l’atmosfera e i personaggi che la animavano: tra questi, anche il deputato Robespierre.
Le sedute dell’Assemblea nazionale presentavano un interesse da cui le sedute delle nostre camere sono ben lontane. Ci si alzava di buon’ora per trovare posto nelle tribune gremite. I deputati arrivavano mangiando, chiacchierando, gesticolando; si raggruppavano nelle diverse parti della sala secondo le loro opinioni. Lettura del verbale; dopo, discussione dell’argomento convenuto o mozione straordinaria. Non si trattava di qualche insipido articolo di legge; raramente, nell’ordine del giorno mancava una distruzione. Si parlava pro e contro; tutti improvvisavano bene o male. Il dibattito si faceva tempestoso; le tribune prendevano parte alla discussione, applaudivano e osannavano gli oratori, oppure li coprivano di fischi e di grida. Il presidente agitava il campanello; i deputati si apostrofavano da un banco all’altro. Il minore dei Mirabeau1 prendeva per il colletto il suo avversario; il maggiore gridava [...]. Un giorno, mi trovavo dietro all’opposizione realista; avevo davanti a me un gentiluomo del Delfinato2, di carnagione scura, basso di statura, che saltava di furore sul seggio e diceva agli amici: «Buttiamoci con la spada in pugno su quegli straccioni!». Indicava il lato della maggioranza. Le signore delle Halles3, che sferruzzavano nelle tribune, lo udirono, si levarono in piedi e gridarono tute insieme, col lavo-
ro a maglia in mano e la schiuma alla bocca: «Impicchiamolo al lampione!». Il visconte di Mirabeau, Lautrec4 e alcuni giovani nobili volevano dare l’assalto alle tribune. Di lì a poco questo pandemonio veniva coperto da un altro; un gruppo di latori di petizioni, armati di picche, comparivano davanti alla sbarra: «Il popolo muore di fame, – dicevano, – è tempo di prendere misure contro gli aristocratici e portarsi all’altezza delle circostanze». Il presidente assicurava a questi cittadini il suo rispetto: «Stiamo tenendo d’occhio i traditori, – rispondeva, – e l’assemblea farà giustizia». Al che il frastuono si rinnovava: i deputati di destra gridavano che si andava verso l’anarchia; i deputati di sinistra replicavano che il popolo era libero di esprimere la sua volontà [...] e indicavano i loro colleghi a quel popolo sovrano, che li aspettava accanto al lampione. Le sedute della sera superavano quelle del mattino in baccano; si parla meglio e più arditamente alla luce di lampadari. La sala del Maneggio5 diventava allora una vera e propria sala da spettacolo, dove si recitava uno dei più grandi drammi del mondo. I personaggi principali appartenevano ancora al vecchio ordine di cose; i loro terribili sostituti, nascosti dietro di essi, parlavano poco o nulla. Alla fine di una violenta discussione vidi salire in tribuna un deputato dall’aspetto ordinario, dal
STORIOGRAFIA 45
E.J. Mannucci Le donne soldato
E.J. Mannucci, Baionette nel focolare. La Rivoluzione francese e la ragione delle donne, Franco Angeli, Milano 2016, pp. 121-24.
Donne soldato, di solito travestite da uomo, a quell’epoca ce ne furono davvero, sia nell’esercito repubblicano che nelle armate contro-rivoluzionarie.
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volto grigio e inespressivo, con un’acconciatura normale, vestito decorosamente come l’intendente di una buona casa, o come un notaio di paese che ha cura di sé. Lesse un rapporto lungo e noioso; nessuno l’ascoltò; chiesi il suo nome: era Robespierre. La gente con le scarpe era pronta a uscire dai salotti, e già gli zoccoli battevano contro la porta6. 1. André Boniface Louis Riqueti, visconte di
Mirabeau (1754-1792), fratello del più celebre Gabriel-Honoré conte di Mirabeau (1749-1791), scrittore e politico francese, protagonista dei primi anni della Rivoluzione, straordinario oratore e presidente dell’Assemblea nazionale. 2. Regione della Francia. 3. Le venditrici del mercato. 4. Lautrec de Saint-Simon, amico di Mirabeau. 5. Era la grande sala dove si riuniva l’assemblea, prima adibita ad esercizi di equitazione. 6. L’autore allude in questo caso all’emergere della fase democratico-popolare della Rivoluzione. Gli zoccoli, a differenza delle scarpe, erano le calzature dei popolani.
GUIDA ALLO STUDIO a. Individua e descrivi i partecipanti alle sedute dell’Assemblea nazionale. b. Descrivi per iscritto gli aspetti di queste sedute che colpiscono René de Chateaubriand. Rispondi alla seguente domanda e argomenta la tua posizione facendo riferimento al testo: Cosa pensa l’autore dei partecipanti e dell’andamento delle sedute?
In questo brano, tratto da un suo recente libro, Erica Joy Mannucci (nata nel 1957) presenta il caso delle “donne soldato”, ovvero quelle donne che decisero di partecipare alle battaglie e alle guerre rivoluzionarie. Quasi sempre furono costrette a travestirsi da uomini per essere accettate nelle formazioni armate: a testimonianza di quanto i pregiudizi di genere fossero profondamente radicati anche tra coloro che stavano affermando e difendendo i princìpi rivoluzionari di libertà e uguaglianza del 1789. La storiografia ha mostrato che non si tratta di semplici casi curiosi e ha rilevato che le soldatesse repubblicane colpivano anche l’immaginazione del
nemico, come dimostrano le caricature tedesche delle «granatiere» francesi. Quelle combattenti – da non confondere con le donne presenti legalmente,
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FARE STORIA
FARE STORIA Gli uomini e le donne nelle rivoluzioni
vivandiere e lavandaie, e da queste distinte nell’immaginario dominante per la condotta casta – non furono, ovviamente, molto numerose. Furono forse un centinaio in tutto nelle file repubblicane: donne per lo più giovani e di estrazione popolare, spesso partite per il fronte spinte da motivazioni private – cioè con o per raggiungere il marito, il compagno, il padre o il fratello, in molti casi dei volontari – erano sostenute dall’ardore patriottico: «Molte di queste donne collegavano l’amore per il marito all’amore per della Patria: non volevano soltanto accompagnare uno sposo soldato, volevano stare con chi si batteva per la Rivoluzione, partecipare con lui e con loro alle vittorie e alle crisi»1 [...]. Furono in compenso integrate di fatto nell’esercito, nonostante i decreti specifici per contrastare il fenomeno [...] Nei casi documentati, dove ci fu richiesta di pensione o di medaglia, si registra un servizio nell’esercito durato parecchi mesi o addirittura anni e con ruoli precisi: cannoniere piuttosto che granatiere, conduttore di cavalli e via dicendo. Vi furono alcune donne soldato che divennero caporale, sergente, sottotenente (quindi elette dai compagni, almeno nei primi anni della Repubblica), tenente e, in quattro casi, aiutante di campo (di generali informati del loro sesso). La durata del servizio fa pensare che i compagni le avessero scoperte, ma le mantenessero all’interno delle proprie unità a dispetto degli ordini del governo rivoluzionario. Quest’ultimo, peraltro, fu all’atto pratico meno misogino di quanto si pensi, nella misura in cui riconobbe il coraggioso servizio alla patria e con-
cesse assistenza alle reduci in difficoltà, spesso ferite in guerra. C’è da considerare d’altra parte l’influenza di una tradizione culturale che nel condannare la confusione dei sessi considerava la trasgressione compiuta dalla donna che si traveste meno grave di quella inversa: si riteneva che l’uomo che si traveste si degradi, mentre la donna camuffandosi da uomo cerca di elevarsi [...] e appare confermare quindi la gerarchia dei generi. Le donne stesse, nel fare domande di pensione, utilizzavano argomenti come «Ce n’est point en femme que j’ai fait la guerre, je l’ai faite en brave» [Non ho fatto la guerra come donna, ma come persona coraggiosa], vantandosi in altri termini di avere vinto i limiti del proprio sesso. I dirigenti rivoluzionari a loro volta, pur adoperandosi per fermare il fenomeno, esprimevano ammirazione per il coraggio dimostrato dalle donne soldato, proprio perché si erano ai loro occhi elevate per patriottismo al di sopra della propria fragilità femminile. Collot d’Herbois2, quando la Convenzione votò nell’aprile 1794 una pensione per l’eroica Anne Quatre-Sous, la elevò a rango di maschio: «je ne la range même pas parmi les femmes; mais je déclare que cette fille est un mâle, puisque elle a, comme les plus intrépides guerriers, affronté la mort...» [“io non la considero una donna, ma dichiaro che questa ragazza è un maschio, perché ha affrontato la morte come i guerrieri più intrepidi”]. [...] L’uomo travestito da donna poteva invece, dal 7 agosto 1793, essere condannato a morte: non va dimenticato peraltro che questo tipo di provvedimento aveva di mira in quel momento non tanto com-
DOCUMENTO 46
Olympe de Gouges La dichiarazione dei diritti delle donne
Olympe de Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, il melangolo, Genova 2007, pp. 17-23.
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portamenti percepiti come libertini, ma soprattutto i casi di aristocratici e altri sospetti in fuga [...] Della scelta delle donne soldato la storiografia tende a sottolineare il carattere personale e privato, anche se vi furono casi di petizioni per richiedere l’autorizzazione a combattere, presentate da singole donne e, in un episodio famoso, da un gruppo di più di trecento parigine aspiranti «amazzoni della libertà»3. Guidate da Pauline Léon4, nel marzo 1792 furono ascoltate dall’Assemblea nazionale e applaudite, senza ottenere però che si passasse al voto. Nemmeno loro comunque chiedevano la leva delle donne: volevano formare una singola unità di volontarie. 1. Citazione da un lavoro di Dominique
Godineau (nata nel 1958), storica francese specialista in storia delle donne sotto l’antico regime e la Rivoluzione francese. 2. Jean-Marie Collot d’Herbois (1749-1796) attore e commediografo, segretario del club dei giacobini nel 1791 e deputato alla Convenzione. 3. Le Amazzoni sono una popolazione di donne guerriere presenti nella mitologia greca. 4. Pauline Léon (1768-1838) si impegnò affinché la Rivoluzione riconoscesse un più importante ruolo della donna nella società e fondò nel 1793 la Società delle rivoluzionarie repubblicane.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea i ruoli delle donne che parteciparono ai combattimenti. b. Rispondi per iscritto alle seguenti domande: a. La partecipazione delle donne alla Rivoluzione permette di affermare che i rivoluzionari erano per la parità dei sessi? b. Quali motivazioni spingevano le donne a combattere?
Di origini borghesi, scrittrice francese di teatro e intellettuale formatasi nei salotti dell’alta società parigina prerivoluzionaria, Olympe de Gouges (1748-1793) aderì con entusiasmo agli eventi rivoluzionari, pubblicando numerosi opuscoli su temi sociali e diventando l’emblema della battaglia per i diritti femminili e per l’uguaglianza tra i sessi: fu l’autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, letta davanti all’Assemblea costituente nel 1791 e di cui riportiamo alcuni passaggi; si noti come i singoli articoli riformulino il testo della Dichiarazione dei diritti del 1789 [Ź37] in funzione del ruolo delle donne. Allontanatasi dal movimento rivoluzionario perché contraria alla deriva violenta e radicale impersonata da Robespierre, Olympe de Gouges fu messa sotto accusa e ghigliottinata a Parigi nel 1793. Preambolo Le madri, le figlie, le sorelle, rappresentanti della Nazione, chiedono di costituirsi in Assemblea nazionale.
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Considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti della donna sono le sole cause del pubblico malessere e della corruzione dei governi, esse hanno
preso la decisione di enunciare, in una dichiarazione solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri della donna, affinché tale dichiarazione, esposta in modo per-
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FARE STORIA
manente all’attenzione di tutti i membri del corpo sociale, ricordi loro in ogni momento i loro diritti e i loro doveri; affinché gli atti che pertengono al potere delle donne e a quello degli uomini, potendo essere costantemente confrontati con lo scopo di ogni istituzione politica, vengano considerati con maggior rispetto; e affinché le rivendicazioni delle cittadine, incardinate su principi semplici e incontestabili, si volgano sempre al consolidamento della Costituzione, dei buoni costumi e della felicità di tutti. In conseguenza di ciò, il sesso superiore in bellezza, e in coraggio nelle sofferenze della maternità, riconosce e dichiara, al cospetto e sotto gli auspici dell’Essere supremo, i seguenti Diritti delle donne e della cittadina.
Art. 1. La donna nasce libera e mantiene parità di diritti con l’uomo. Le distinzioni sociali possono essere fondate unicamente sull’utilità comune. Art. 2. Lo scopo di ogni associazione politica è quello di preservare i diritti naturali e imprescrittibili della donna e dell’uomo: tali diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza, e innanzitutto la resistenza all’oppressione. Art. 3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione, la quale non è altro che la riunione della donna e dell’uomo: nessun corpo e nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa. Art. 4. La libertà e la giustizia con-
DOCUMENTO 47 Codice civile francese..., Siena 1829, pp. 20-27.
U3 L’età delle rivoluzioni
sistono nel restituire all’altro tutto ciò che gli appartiene; e poiché l’esercizio dei diritti naturali della donna ha come solo limite la perpetua tirannia che l’uomo le oppone, questo limite dev’essere riformato in base alle leggi della natura e della ragione. [...] Art. 6. La legge dev’essere l’espressione della volontà generale; tutte le cittadine e tutti i cittadini devono concorrere, personalmente o attraverso i loro rappresentanti, alla sua formazione; essa dev’essere uguale per tutti; tutte le cittadine e tutti i cittadini, essendo uguali di fronte ad essa, devono poter accedere con pari diritto ad ogni carica, posto e impiego pubblico, senza altre distinzioni che quelle derivanti dalle loro virtù e dalle loro capacità. Art. 7. Nessuna donna costituisce eccezione; ognuna è accusata, arrestata e detenuta nei casi determinati dalla legge. Le donne obbediscono come gli uomini a questa norma rigorosa. [...] Art. 10. Nessuno dev’essere perseguito per le sue opinioni, per quanto radicali; come la donna ha il diritto di salire al patibolo, così deve avere anche quello di salire alla tribuna, purché le sue esternazioni non turbino l’ordine pubblico stabilito dalla legge. Art. 11. La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei più preziosi diritti della donna, poiché tale libertà assicura la legittimità dei padri nei confronti dei figli. Ogni citta-
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dina può quindi affermare liberamente: sono madre di un figlio che vi appartiene, senza che un barbaro pregiudizio la costringa a dissimulare la verità; salvo rispondere all’abuso di tale libertà nei casi determinati dalla legge. [...] Art. 13. Per il mantenimento della forza pubblica e per le spese dell’amministrazione, il contributo della donna e quello dell’uomo sono uguali; la donna partecipa a tutte le mansioni e a tutti i compiti, anche i più ingrati; deve quindi partecipare ugualmente all’assegnazione dei posti, degli impieghi, delle cariche, delle dignità e delle responsabilità produttive. [...] Art. 17. La proprietà appartiene a entrambi i sessi, riuniti o separati. Essa è diritto sacro e inviolabile di ciascuno; trattandosi di autentico patrimonio naturale, nessuno può esserne privato se non quando lo esiga con evidenza una necessità pubblica legalmente constatata, e a condizione di un equo risarcimento preventivo.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le caratteristiche che l’autrice attribuisce alle donne. b. Sottolinea i limiti che l’autrice attribuisce alle donne e i diritti che essa rivendica per queste rispetto agli uomini. Numera questi aspetti in ordine progressivo. Quindi descrivi per iscritto lo stesso argomento inserendo fra parentesi le note di riferimento al documento.
Matrimonio e divorzio nel Codice civile Il Codice civile (1804) [Ź7_11], applicato in tutti i paesi dell’Impero napoleonico, caratterizzò, in molti casi, anche gli ordinamenti giuridici successivi: esso, infatti, viene considerato il primo codice moderno, scritto con l’obiettivo di unificare la molteplicità delle norme giuridiche (soprattutto quelle relative alla proprietà) superando la frammentazione e il particolarismo propri del diritto comune. Gli articoli sul matrimonio e il divorzio testimoniano la dipendenza dei figli nei confronti dei genitori e della moglie verso il marito. Profondamente diverso rispetto al marito era, per esempio, il trattamento riservato alla moglie nei casi di adulterio (cfr. gli artt. 229-230 e 298).
Delle qualità e condizioni necessarie per contrarre matrimonio Art. 144 L’uomo prima che abbia compiuti gli anni diciotto, la donna prima degli anni quindici pure compiuti, non possono contrarre matrimonio. [...] Art. 148 Il figlio, che non è giunto all’età di venticinque anni compiti, la figlia che non ha compiti gli anni ven-
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tuno, non possono contrarre matrimonio senza il consenso del padre e della madre: in caso che siano discordi, il consenso del padre è sufficiente. [...] Art. 151 I figli di famiglia giunti alla maggiore età determinata dall’articolo 148, sono tenuti, prima di contrarre matrimonio, a chiedere, con un atto rispettoso e formale, il consiglio
del padre e della madre loro, e quello dell’avo e dell’avola, qualora il padre e la madre fossero mancati di vita, o si trovassero nella impossibilità di manifestare la propria volontà. Art. 152 Dopo la maggiore età determinata dall’art. 148, fino all’età dei trent’anni compiti pei maschi, e degli anni venticinque compiti per le femmi-
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ne, l’atto rispettoso prescritto dall’articolo precedente, se non sarà susseguito dal consenso pel matrimonio, dovrà rinnovarsi altre due volte di mese in mese, e scaduto un mese dopo il terzo atto, si potrà passare alla celebrazione del matrimonio. Art. 153 Dopo l’età di trent’anni, mancando il consenso ad un atto rispettoso, si potrà, un mese dopo, passare alla celebrazione del matrimonio. [...] Dei diritti e dei rispettivi doveri dei coniugi Art. 212 I coniugi hanno il dovere di reciproca fedeltà, soccorso, assistenza. Art. 213 Il marito è in dovere di proteggere la moglie, la moglie di obbedire al marito. Art. 214 La moglie è obbligata ad abitar col marito, ed a seguirlo ovunque egli crede opportuno di stabilire la sua residenza: il marito è obbligato a riceverla presso di sé ed a somministrarle tutto ciò ch’è necessario ai bisogni della vita, in proporzione delle sue sostanze e del suo stato.
FARE STORIA Gli uomini e le donne nelle rivoluzioni
Art. 215 La moglie non può stare in giudizio senza l’autorizzazione del marito, quand’anche ella esercitasse pubblicamente la mercatura, o non fosse in comunione, o fosse separata di beni. [...] Art. 217 La donna, ancorché non sia in comunione o sia separata di beni, non può donare, alienare, ipotecare, acquistare, a titolo gratuito od oneroso, senza che il marito concorra all’atto, o presti il suo consenso in iscritto. [...] Delle cause del divorzio Art. 229 Potrà il marito domandare il divorzio per causa d’adulterio della moglie. Art. 230 Potrà la moglie domandare il divorzio per causa d’adulterio del marito, allorché egli avrà tenuta la sua concubina nella casa comune. [...] Degli effetti del divorzio Art. 298 In caso di divorzio ammesso in giudizio per causa d’adulterio, il coniuge colpevole non potrà mai maritarsi col suo complice. La donna
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adultera sarà condannata con la stessa sentenza, e ad istanza del ministero pubblico alla reclusione in una casa di correzione per un tempo determinato, che non potrà essere minore di tre mesi, né maggiore di due anni. Art. 233 Il consenso scambievole e perseverante de’ coniugi, espresso nella maniera prescritta dalla legge, e sotto le condizioni, dopo gli esperimenti determinati da essa, proverà sufficientemente, che la vita comune è loro insopportabile, e ch’esiste, relativamente ai medesimi, una causa perentoria di divorzio. [...]
GUIDA ALLO STUDIO a. Realizza una tabella comparativa i cui indicatori siano “Uomo” e “Donna” e compilala trascrivendo le informazioni relative contenute nel documento del Codice civile. b. Descrivi per iscritto gli equilibri familiari stabiliti nel Codice civile mettendo in rilievo le differenze fra i sessi e quelle fra le generazioni.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Scrivi un testo argomentativo dal titolo La Rivoluzione, dall’azione politica agli effetti sociali facendo riferimento ai brani di Testi [Ź41], Hunt [Ź43], e ai documenti di Chateaubriand [Ź44] e de Gouges [Ź46] . Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Lo storico racconta 2. Scrivi un testo chiaro e coeso sulla partecipazione delle donne alla Rivoluzione francese mettendo in rilievo la provenienza sociale delle rivoluzionarie e il ruolo loro destinato facendo riferimento al brano di Mannucci [Ź45], al documento di de Gouges [Ź46] e all’illustrazione “A Versailles”, 5 octobre 1789 [ŹLEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 3]. Prima di procedere con la scrittura, scegli un titolo e realizza una scaletta per il tuo elaborato. 3. Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente sui valori affermati nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e sulle contraddizioni che si verificarono nella pratica, con particolare riferimento a coloro che furono esclusi dai princìpi di libertà e uguaglianza affermati nei testi costituzionali facendo riferimento ai brani di Testi [Ź41] e di Abbattista [Ź42].
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La nascita dell’industria moderna La Gran Bretagna, e in particolare l’Inghilterra, fu il paese da cui prese il via il processo di industrializzazione che si diffuse poi, nel giro di pochi decenni, prima sul continente europeo e nel mondo occidentale e, in seguito, in tutto il mondo. Da sempre gli storici si sono chiesti perché proprio questo paese fu il motore di quella che è stata definita una vera e propria “rivoluzione industriale”. Patrick O’Brien [Ź48], mostra come la Gran Bretagna fosse dotata di risorse e specificità naturali dovute alla sua posizione geografica e alla conformazione del territorio: elementi importanti quanto la tecnologia e le disponibilità finanziarie, soprattutto nelle fasi iniziali di sviluppo. Il brano successivo, tratto da una classica e celebre opera di David S. Landes [Ź49], riporta l’attenzione sulla particolarità e l’unicità del mercato britannico, presupposto al processo di industrializzazione, mentre Robert C. Allen [Ź50]
STORIOGRAFIA 48 P.K. O’Brien, Provincializzare la prima Rivoluzione industriale, in La rivoluzione industriale tra l’Europa e il mondo, a c. di T. Detti e G. Gozzini, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 68-73.
Per secoli, prima del 1750, le isole britanniche erano state favorite da una collocazione geografica e da un settore agricolo adatto alle trasformazioni strutturali – esemplificate da rendimenti molto buoni (ma non straordinari) per ettaro di terreno arabile coltivato e, soprattutto, da alti livelli di produzione per lavoratore, se paragonati con quelli di altre parti d’Europa e più ancora con l’India e la Cina. Ma a parte i terreni e i climi favorevoli dell’isola, da dove derivavano questi preesistenti ma fondamentali vantaggi nell’agricoltura? I sostenitori della tradizionale visione anglocentrica ribadiscono che nelle isole britanniche è apparso prima che nella parte continentale dell’Eurasia un insieme piuttosto peculiare formato da diritti di proprietà e patti agrari relativi all’accesso alla terra. Con il passare dei secoli, l’evoluzione di questo sistema inglese di diritti di proprietà promosse la formazione di unità produttive su larga scala, mercati flessibili per la proprietà della terra, una concentrazione di rendite provenienti dal possesso di risorse naturali e soprattutto una riduzione costante nell’estensione e nel controllo da parte delle famiglie contadine sia della terra sia del lavoro: la prima potenzialmente dispo-
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mostra l’importanza di un settore economico trainante in quel periodo: l’industria del cotone. Sempre Joel Mokyr [Ź51] descrive la nascita della fabbrica moderna in questi anni: non un sistema di organizzazione del lavoro totalmente nuovo, in realtà, ma un sistema che con la rivoluzione industriale si cominciò a diffondere a macchia d’olio su tutto il territorio britannico. Con gli ultimi due brani si passa all’analisi delle conseguenze che il processo di industrializzazione portò con sé fin dalle sue prime fasi: Stephen Mosley [Ź52] si sofferma sulla nascita della prima vera città industriale, Manchester, e sui suoi problemi, in particolare ambientali. Infine, Carlo Maria Cipolla [Ź53] propone una breve riflessione sulle trasformazioni irreversibili introdotte dalla rivoluzione industriale, considerata come l’inizio di una nuova epoca.
P.K. O’Brien Perché l’Inghilterra? In questo brano, lo storico britannico Patrick Karl O’Brien (nato nel 1932) pone l’attenzione sulla specificità della situazione inglese e su quei fattori di lunga e breve durata che ci aiutano a capire perché la Gran Bretagna fu il motore della rivoluzione industriale. In particolare si sofferma sulla geografia e sulle risorse naturali proprie del territorio britannico, che determinarono scelte economiche e politiche fondamentali per un precoce sviluppo industriale. nibile per essere concessa a fattorie in enclosure1 su scala più larga e il secondo per l’impiego, inizialmente in qualità di lavoratori salariati dagli imprenditori agricoli capitalisti, e in seguito, quando emersero le richieste, per il lavoro protoindustriale e urbano. [...] Il sistema dei diritti di proprietà agraria (in funzione ben prima dei tempi della Rivoluzione industriale) avvantaggiò la precoce transizione del regno verso un’economia industriale che includeva le straordinarie capacità dell’agricoltura britannica di cedere («espellere») forza lavoro verso altri settori dell’economia. [...] Una spinta dall’alto unita a una crescente «attrazione» esercitata dagli alti salari potenzialmente disponibili per chi migrava dalla campagna verso Londra e altre città della costa, impegnate a realizzare guadagni attraverso il commercio e la specializzazione, fornì per secoli alla Gran Bretagna mercati eccezionalmente flessibili per la manodopera prima che l’industria urbana richiedesse una quota rapidamente crescente di forza lavoro della nazione. [...] Nondimeno, descrizioni più riduzionistiche dei vantaggi dell’isola in vista di una transizione precoce furono fornite dagli agronomi fisiocratici2 che visitarono l’Inghilterra nel
XVIII secolo. Sebbene essi ne lodassero l’insieme peculiare di patti agrari, unito alla struttura concentrata della proprietà terriera e alla gestione nobiliare delle grandi tenute, la maggior parte insisteva sul primato della geografia. La loro percezione che le favorevoli dotazioni ambientali (in particolare l’erba) incoraggiassero il costante accumulo di pecore, bovini, maiali e soprattutto cavalli, è oggi un luogo comune della storia dell’agricoltura. Prima della guerra civile3 il gran numero di animali permise produzioni di alto valore,
1. La recinzione dei terreni comuni, iniziata
già intorno al XIV secolo in Inghilterra, che ne determinò la privatizzazione e la conseguente perdita dei diritti spettanti tradizionalmente alle comunità agricole (diritto di pascolo, di raccolta della legna, ecc.). 2. La fisiocrazia è la dottrina economica sviluppatasi in Francia nella seconda metà del XVIII secolo, che riconosce una centralità all’agricoltura, ritenendola l’unica fonte di ricchezza (in quanto, ad esempio, assicura all’uomo le materie prime e i mezzi di sostentamento a chi vi lavora). 3. Si riferisce agli eventi rivoluzionari inglesi di metà ’600.
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approvvigionamenti extra di energia e circolazione di fertilizzanti organici che avevano portato l’agricoltura inglese in cima alle graduatorie europee e a un livello da cui il settore primario poteva (con il crescente aiuto delle terre e del lavoro dell’Irlanda colonizzata) sostenere la crescita accelerata della popolazione, la protoindustrializzazione e una urbanizzazione diffusa. La geografia non solo è più importante delle istituzioni, ma contribuisce in larga misura a spiegarne forma ed evoluzione. Wrigley4 ha ricondotto al centro della prima Rivoluzione industriale un altro vantaggio naturale altrettanto significativo che la Gran Bretagna derivò dal facile accesso tramite il trasporto via acqua ad abbondanti giacimenti di energia inorganica a basso costo, sotto forma di carbone. Certo anche i suoi concorrenti europei, particolarmente Belgio, Germania (anche Francia e Cina) possedevano foreste sotterranee, ma non della stessa qualità e neanche lontanamente così economiche per il trasporto verso le città costiere. La Gran Bretagna avviò e completò il passaggio dalle fonti di energia organiche a quelle inorganiche (minerali) diversi decenni prima del resto d’Europa. Agli inizi dell’Ottocento, famiglie e aziende consumavano circa quindici milioni di
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D.S. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino 1978, pp. 63-70.
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Nel mercato inglese il potere d’acquisto pro capite e il tenore di vita erano notevolmente più alti che sul continente. [...] Il contadino inglese non solo mangiava meglio; ma spendeva per il cibo una parte minore del suo reddito che non i suoi simili sul continente [...]. Di conseguenza aveva più denari da spendere per altre cose, compresi i manufatti. L’inglese era noto per portare scarpe di cuoio, mentre il fiammingo o il francese aveva ai piedi gli zoccoli; si vestiva di lana, mentre il contadino francese o tedesco rabbrividiva spesso
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tonnellate di carbone all’anno contro i tre milioni del resto d’Europa messo insieme. [...] Le economie e le città dell’Europa continentale e dell’Asia orientale trovarono sostituti nella torba, nel legno, nell’acqua, nel vento, nell’energia umana; ma dal punto di vista di una industrializzazione precoce, il vantaggio di usare la forma termica di energia più economica ed efficiente si dimostrò sostanziale. L’energia derivata dal vento e dall’acqua è per esempio meno affidabile e prevedibile. [...] Come combustibile sostitutivo del legno, il carbone permise che più terra e altre risorse fossero dedicate alla coltura di prodotti alimentari e di altre materie prime agricole. [...] I processi industriali intensivi a base di calore nella metallurgia, nella fabbricazione del vetro, nella fermentazione, nella raffinazione dello zucchero e del sale, nella chimica, nella cottura del pane e dei mattoni ecc. potevano tutti quanti essere condotti in maniera più efficiente per mezzo di un carbone a basso costo. Le ricadute e gli intrecci tecnologici provenienti da queste industrie per la metallurgia e per la fabbricazione di fornaci, pentole, vasche e contenitori risultarono importanti anche per lo sviluppo industriale. Il combustibile più economico che manteneva i lavoratori al caldo a casa e al lavoro ridusse
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le loro esigenze di calorie necessarie per gli sforzi umani maggiori richiesti dalla produzione. Allo stesso tempo mattoni e metalli a costo più basso usati per la costruzione di case in città, nei borghi e negli insediamenti industriali permisero di risparmiare capitale, che poteva essere investito in beni pubblici e nell’industria stessa. [...] In un tempo in cui il progresso tecnologico che aumentava la produttività del lavoro rimaneva lento e confinato a pochi settori dell’industria, i Paesi favorevolmente dotati di terra fertile, di minerali, di vie d’acqua naturali e soprattutto di un combustibile più economico collegato a una tecnologia ancora in sviluppo ma emergente (la forza motrice del vapore) presero la testa nel «salto in avanti» per diventare economie industriali di mercato. 4. Edward Anthony Wrigley (nato nel 1931),
storico e demografo britannico.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea gli elementi che favorirono il settore agricolo in Gran Bretagna. b. Spiega per iscritto il valore della geografia per lo sviluppo britannico facendo riferimento agli aspetti naturali, economici e tecnologici.
D.S. Landes Il mercato inglese Secondo lo storico statunitense David S. Landes (1924-2013), uno dei più autorevoli studiosi dei processi di industrializzazione e della storia dell’economia, le cause del primato britannico vanno ricercate principalmente nella particolarità della struttura sociale ed economica della Gran Bretagna di fine ’700, caratterizzata da un alto tasso di urbanizzazione, da un elevato reddito medio, da un mercato interno sostanzialmente libero e in forte espansione. Come spiega in questo brano, tratto da un suo celebre libro pubblicato nel 1969, furono una più equa distribuzione dei redditi e una maggiore mobilità sociale a favorire in Inghilterra un’espansione della domanda di manufatti e del mercato. in panni di lino, nobile tessuto per la tavola o il letto, ma riparo mediocre contro i rigori degli inverni europei. [...] Più di ogni altra comunità europea, probabilmente, quella inglese era una società aperta. Non soltanto il reddito era più egualmente distribuito che al di là della Manica; ma le barriere alla mobilità sociale meno alte, e le definizioni di rango meno rigide. [...] Nelle società non primitive, tecnicamente abbastanza avanzate e in cui si ha una certa accumulazione di ricchezza, l’ineguaglianza alimenta nei pochi il gusto
di lussi e servizi stravaganti, laddove l’eguaglianza incoraggia nei molti la domanda di agi più solidi e sobri. Le grandi ricchezze in un mare di povertà sono generalmente il prodotto di un basso rapporto capitale-lavoro (o di un cattivo investimento dei capitali). Esse danno origine a un prodigo dispendio di energie lavorative per i piaceri e l’eleganza del vivere: una sovrabbondanza di domestici [...]; abiti di gala di gran prezzo; residenze decorate sontuosamente; produzione di opere d’arte squisite e difficili.
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Una più eguale diffusione della ricchezza, invece, è il risultato di un alto costo del lavoro. Questo era appunto il caso dell’Inghilterra, dove i salari [...] risultavano all’incirca il doppio che in Francia e anche più alti rispetto alle regioni a est del Reno. In un’economia simile, si hanno funzioni produttive a più alta intensità di capitale, mentre il ricco consumatore è meno incline al capriccio e si accontenta di una maggiore abbondanza di quei beni che in quantità minore e in qualità inferiore sono accessibili anche ai suoi simili meno abbienti. D’altra parte, il potere d’acquisto relativamente elevato dei ceti meno abbienti della popolazione implica una domanda corrispettivamente maggiore delle cose di cui costoro hanno bisogno e che possono permettersi: gli articoli più a buon mercato e di più semplice fattura, suscettibili di essere prodotti in massa. La mobilità, in una società simile, agisce a favore della standardizzazione. Nella mobilità infatti è insita l’emulazione, e l’emulazione promuove la diffusione di modelli di spesa in tutto il corpo della popolazione. [...]
Nonostante la sporadicità dei dati, appare chiaro che il commercio inglese del XVIII secolo era a paragone di quello continentale singolarmente energico, intraprendente e aperto alle innovazioni. La spiegazione è in parte istituzionale: gli esercenti inglesi erano relativamente esenti da restrizioni consuetudinarie o legali circa l’oggetto o il carattere della loro attività; potevano vendere ciò che volevano e dove volevano, ed erano liberi
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R.C. Allen L’industria del cotone
L’industria del cotone fu il vero e proprio miracolo della rivoluzione industriale. Partendo da un modesto inizio l’occupazione raggiunse le 425 mila unità nel decennio 1830-40, quando rappresentava il 16% dei posti di lavoro nell’industria britannica e l’8% del PIL nazionale [...] Come d’incanto comparvero grandi città dove vivevano e lavoravano gli operai dei cotonifici. Spiegare come e perché l’industria del cotone divenne così grande è fondamentale per comprendere la rivoluzione industriale nel suo complesso. L’innovazione tecnologica è una parte centrale di questa storia. A metà del Settecento l’Inghilterra aveva ancora un’industria cotoniera ridotta rispetto agli standard mondiali, in cui erano lavorate circa 1.300 tonnellate di filati l’anno [...]. La Francia era l’altro grande produttore europeo, più o meno della stessa im-
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di farsi concorrenza, e se la facevano, con i prezzi, la pubblicità e il credito. [...] In conclusione, il mercato interno dei manufatti era in aumento, grazie al miglioramento delle comunicazioni, all’incremento della popolazione, all’elevato e crescente reddito medio, a un modello di acquisto favorevole a prodotti solidi, standardizzati e di modico prezzo, e a un’iniziativa commerciale libera da strettoie. I RA N
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PALESTRA INVALSI 1. L’espressione «l’inglese era noto per portare scarpe di cuoio [...] si vestiva di lana» significa che... [ ] a. in Inghilterra ha sempre fatto molto freddo ed era necessario utilizzare scarpe e vestiti più caldi che nel resto d’Europa. [ ] b. gli inglesi più ricchi avevano gusto per il lusso e per servizi stravaganti. [ ] c. la società inglese era una società aperta ai nuovi consumi. [ ] d. in Inghilterra anche i contadini inglesi guadagnavano abbastanza per sfamarsi e per acquistare beni che in altri Stati europei non erano loro concessi.
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R.C. Allen, La rivoluzione industriale inglese, il Mulino, Bologna 2011, pp. 225-27.
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2. Il messaggio principale del testo è che... [ ] a. gli esercenti inglesi potevano vendere ciò che volevano, dove volevano. [ ] b. in Inghilterra la distribuzione dei redditi era tale da favorire la mobilità sociale e l’aumento della domanda di manufatti. [ ] c. i contadini francesi e fiamminghi indossavano zoccoli di legno e abiti di lino. [ ] d. la mobilità sociale inglese aveva disincentivato il mercato interno dei manufatti.
Il brano seguente è tratto da un importante lavoro dello storico statunitense Robert C. Allen (nato nel 1947), il quale analizza la rivoluzione industriale inglese inserendola nel contesto economico mondiale dell’epoca. L’autore ripercorre le decisive fasi dello sviluppo tecnologico nell’ambito della produzione e della lavorazione del cotone in Inghilterra, che portarono alla meccanizzazione di un settore fondamentale, capace di trainare il processo di industrializzazione in questo paese. portanza della Gran Bretagna. Entrambi i paesi, però, erano degli gnomi rispetto al Bengala1, che produceva circa 38 mila tonnellate all’anno ed era un importante concorrente dei produttori europei in mercati come quello africano, dove il cotone veniva scambiato con gli schiavi. Il cotone veniva prodotto all’epoca con tecniche manuali. Prima dell’inizio della lavorazione, veniva pulito e mondato da impurità come semi e steli. Il passo successivo era rappresentato dalla cardatura: il cotone veniva collocato tra due carde2 manuali tempestate di spilli che venivano poi strusciate l’una contro l’altra, in modo che gli spilli pettinassero le fibre di cotone allineandole nella stessa direzione. Le fibre venivano quindi unite formando un «nastro» di lunghezza indefinita destinato a essere poi filato. La scelta della tecnica di filatura dipen-
deva dallo spessore del filato, misurato dai suoi count3. Un tessuto grezzo del tipo di quello usato per i jeans moderni, corrispondeva a 16-20 count, i tessuti più fini come quelli impiegati per le camice all’incirca 40, mentre le migliori mussole4 arrivavano a varie centinaia di count. I tessuti di meno di 50 count venivano ovunque filati con l’arcolaio5.
1. Regione asiatica corrispondente agli attuali
Bangladesh e parte dell’India orientale.
2. La carda è una macchina per la filatura
costituita da parti cilindriche rotanti rivestite di punte. 3. Unità di misura per classificare filati di cotone. 4. Tessuto leggero e morbido. 5. Macchinario domestico che serviva a ridurre in gomitoli le matasse di cotone.
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Le mussole di miglior qualità venivano prodotte solo in India ed erano filate per mezzo di un arcolaio a pedale. A prescindere dalla quantità dei count, comunque, i filati venivano trasformati in tessuti per mezzo di telai a mano. La storia tecnologica dell’industria del cotone coincide con la storia della meccanizzazione di ciascuno di questi processi. La filatura fu meccanizzata prima della tessitura [...]. Il problema della filatura attirò l’attenzione degli addetti ai lavori già durante tutta la prima metà del Settecento. Kerridge6 [...] afferma infatti di aver scoperto un filatoio utilizzato a Norwich già agli inizi di quel secolo. Lewis Paul e John Wyatt, dal canto loro, riuscirono quasi a inventarne uno con successo. Tra il 1740 e il 1760, infatti, essi sperimentarono un filatoio a rulli e, assicuratisi due brevetti, aprirono una fabbrica a Birmingham con cui però non riuscirono a fare soldi [...]. Il successo venne invece raggiunto per la prima volta da James Hargreaves, che attorno al 1765 inventò la «Spinning Jenny». Richard Arkwright lo seguì poi in fretta, perfezionando il filatoio idraulico a rulli. La filatura manuale era stata
organizzata fino ad allora come un’attività domestica e fu proprio nel contesto della lavorazione a domicilio che la «Jenny» si affermò velocemente. Il filatoio idraulico di Arkwright fu invece fin dall’inizio più adatto alle fabbriche. [...] Né la «Jenny» né il filatoio idraulico erano comunque adeguati per realizzare filati con un’elevata quantità di count. Tra il 1770 e il 1780 Samuel Crompton combinò gli elementi tipici della «Jenny» e del filatoio per costruire una nuova macchina chiamata «mulo», che poteva produrre filati in grado di competere con i migliori realizzati in India. Essa gettò quindi le basi del dominio mondiale britannico nel campo dei prodotti di cotone nel corso dell’Ottocento. La «Jenny», il filatoio idraulico e il «mulo» furono invenzioni chiave per la meccanizzazione della filatura del cotone, ma costituiscono solo una parte della storia. Non solo, infatti, queste macchine furono a loro volta oggetto di perfezionamenti, ma vennero meccanizzati in quell’epoca anche altri processi, come la pulitura, la cardatura e l’incannatura7. I macchinari dovettero inoltre essere sistemati entro un determinato
STORIOGRAFIA 51
J. Mokyr La nascita della fabbrica moderna
J. Mokyr, I doni di Atena. Le origini storiche dell’economia della conoscenza, il Mulino, Bologna 2004, pp. 177-81.
Prima della rivoluzione industriale la manifattura era [...] un’industria senza industriali. Di certo questo era vero per l’artigiano indipendente, che lavorava per conto proprio con l’aiuto dei familiari e di alcuni apprendisti cooptati nell’unità domestica. Anche coloro che, in una forma o nell’altra, dipendevano da un capitalista, lavoravano per lo più in casa propria. [...] I grandi stabilimenti industriali non erano del tutto sconosciuti prima della rivoluzione industriale. [...] La più «moderna» di tutte le industrie era forse quella della filatura della seta. Il setificio di Derby costruito da Thomas Lombe1 nel 1718 dava lavoro a trecento operai ed era situato in un palazzo
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spazio, fu poi necessario coordinare il passaggio da una macchina all’altra dei materiali che venivano lavorati e, infine, si dovette risolvere il problema della produzione e della distribuzione dell’energia. Ci volle poi un’adeguata divisione del lavoro. In altri termini si dovette «inventare» il cotonificio, proprio come si dovettero inventare i singoli macchinari per la filatura. 6. Eric Kerridge (nato nel 1919), storico della
rivoluzione industriale e dell’economia inglese.
7. Operazione attraverso la quale un nastro o un
filo vengono avvolti intorno a un supporto.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le informazioni che permettono di comprendere cosa rese possibile lo sviluppo dell’industria del cotone durante la rivoluzione industriale e perché è possibile definirlo “miracoloso”. b. Sottolinea e numera le tappe della modernizzazione della produzione del cotone. c. Argomenta per iscritto il significato della frase «Si dovette “inventare” il cotonificio».
Nel suo volume I doni di Atena lo storico Joel Mokyr (nato nel 1946) analizza il fondamentale ruolo che ha avuto la conoscenza tecnologica e scientifica nello sviluppo economico e sociale del mondo negli ultimi due secoli. In questo brano, l’autore spiega in che modo avvenne, nel corso della rivoluzione industriale, il graduale passaggio al sistema di fabbrica moderno: solo lo sviluppo della meccanizzazione e la nuova tecnologia fecero sì che questa soluzione potesse essere considerata più conveniente del lavoro a domicilio e che le fabbriche prendessero il posto delle piccole unità manifatturiere di carattere familiare. di cinque piani. Alla scadenza del brevetto di Lombe, grandi setifici costruiti sul modello del suo apparvero in altre località. Altrettanto famosa fu la ferriera di Crowley, fondata nel 1682 a Stourbridge nelle Midlands (non lontano da Birmingham) che arrivò a impiegare ottocento persone. Tuttavia queste aziende atipiche erano ancora piuttosto diverse dalla fabbrica moderna. Buona parte del lavoro era assegnata ad artigiani che lavoravano il ferro in casa propria o nella propria officina. L’azienda di Ambrose Crowley2 faceva eccezione nel senso che disponeva di un sistema di supervisione, monitoraggio e arbitrato del tutto peculiare. Altiforni, birrerie, cantieri
navali, miniere, cartiere, cantieri edili e alcune altre industrie producevano da tempo al di fuori del contesto del lavoro a domicilio, in quanto quest’ultima dimensione non era economicamente praticabile. Nel settore tessile, una produzione controllata in officina
1. Thomas Lombe (1685-1739), commerciante
inglese che insieme al fratello John Lombe (1693-1722) introdusse in Inghilterra un innovativo metodo di lavorazione della seta. 2. Ambrose Crowley (1658-1713), commerciante e creatore di un’importante azienda di lavorazione del ferro.
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FARE STORIA
U3 L’età delle rivoluzioni
si riscontra prima del 1770 nell’industria laniera del Devon [...]. Tuttavia in industrie come quella laniera dello Yorkshire e nell’industria dei metalli delle Midlands, la produzione accentrata controllava solo alcuni stati del prodotto e raramente vigeva quel grado di controllo e disciplina che si associa alla «fabbrica» vera e propria. Ogniqualvolta era possibile, il lavoro veniva affidato a piccoli artigiani che lavoravano in casa, i quali talvolta si riunivano in cooperative quando le economie di scala erano consistenti. Persino quelle fabbriche erano dunque un compromesso tra il sistema del lavoro a domicilio e la necessità di allocare la produzione lontano dalle abitazioni. La rivoluzione industriale dunque non «inventò» assolutamente il sistema di fabbrica, ma gradualmente e implacabilmente fece nascere fabbriche dove non ve n’erano. La maggior parte delle aziende non passò improvvisamente dal sistema del lavoro a domicilio alla fabbrica, ma continuò ad affidare alcuni processi ai lavoratori a domicilio fin quando la meccanizzazione e la complessità tecnologica si furono talmente estese da rendere proficuo radunare i lavoratori sotto uno stesso tetto. Il migliore esempio di questo sistema di fabbrica misto ci viene dall’industria cotoniera. Nel 1760 il cotone veniva lavorato generalmente a livello familiare. Il filatoio idraulico cambiò tutto. Le officine di Richard Arkwright a Cromford impiegavano circa trecento operai: lo stesso Arkwright contribuì a fondare gli opifici di New Lanark in Scozia, che nel 1815 impiegavano 1600 lavoratori (in gran parte all’interno degli
stabilimenti). Benché aziende di tali dimensioni fossero forse eccezionali, nel 1800 esistevano in Gran Bretagna circa novecento stabilimenti per la filatura del cotone, un terzo dei quali erano «opifici» con oltre cinquanta addetti e gli altri piccoli capannoni e laboratori con pochissimi addetti ma pur sempre di dimensioni superiori a quelle delle aziende familiari. Il filatoio intermittente cambiò rapidamente la dimensione delle aziende, soprattutto dopo che fu abbinato al vapore: dapprima, all’inizio degli anni novanta del XVIII secolo, la maggioranza dei cotonifici consisteva di piccole aziende fino a dieci addetti e poche fabbriche sul modello di quella di Arkwright con 300-400 lavoratori. All’inizio degli anni trenta del XIX secolo, quando le nostre stime cominciano a basarsi su statistiche fondate anziché sulle supposizioni e le dichiarazioni dei contemporanei, l’azienda media di Manchester aveva circa 400 addetti. Gli impianti grandissimi e piccolissimi cedettero il passo a quelli di medie dimensioni, con un numero di operai compreso tra i 150 e 400. A quell’epoca il filatore a domicilio era scomparso da tempo. [...] In altre industrie la transizione fu meno spettacolare, in quanto alcuni grandi stabilimenti esistevano già prima del 1760 o in quanto, per una ragione o per l’altra, la manifattura a domicilio riuscì a sopravvivere. Ciò vale soprattutto per la siderurgia. Nonostante le poche grandi ferriere che esistevano attorno al 1750, questa branca dell’industria era ancora imperniata su unità produttive di piccole dimensioni e una parte consistente della produzione avveniva in
STORIOGRAFIA 52
S. Mosley Manchester: la prima città industriale
S. Mosley, Storia globale dell’ambiente, il Mulino, Bologna 2013, pp. 162-64; 166-68.
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piccole fucine adiacenti alle abitazioni di fabbri e chiodai. La grande invenzione, nel 1785, del processo di pudellaggio e laminatura a opera di Cort3, cambiò il volto dell’industria e rese efficiente la produzione su grande scala nel processo di raffinazione. Alcune delle nuove ferriere assunsero dimensioni senza precedenti come quella di Cyfarthfa nel Galles, che dava lavoro a 1500 operai nel 1810 e 5000 nel 1830, e quella di Dowlais, di dimensioni analoghe. Contemporaneamente però nella ferramenta e nelle costruzioni meccaniche prevalevano le piccole officine [...]. Nelle attività correlate di Sheffield e Birmingham, come ad esempio la fabbricazione di posate, giocattoli, armi, chiodi e fibbie, le fabbriche di grandi dimensioni erano rare e buona parte della produzione si concentrava in piccole officine e abitazioni, inframmezzate qua e là da unità più grandi.
3. Ź10_5.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega cosa rese possibile il fatto che le fabbriche prendessero il posto della manifattura a carattere familiare. b. Sottolinea con colori diversi le differenze fra le aziende atipiche e le fabbriche moderne. c. Spiega per iscritto la frase «La rivoluzione industriale non inventò il sistema di fabbrica», facendo anche degli esempi. d. Spiega il ruolo del filatoio idraulico nella transizione al sistema industriale.
Le ricerche dello storico britannico Stephen Mosley (nato nel 1972) si concentrano sulla storia dell’ambiente e delle sue trasformazioni. In questo brano viene descritta la nascita di Manchester, la prima vera e propria città industriale. Il processo di industrializzazione modificò profondamente gli spazi cittadini e accelerò l’arrivo in quella città di migliaia di individui in pochi decenni. Inoltre, l’inquinamento delle industrie rovesciò i suoi deleteri effetti sull’uomo e sulla natura, determinando un rapido peggioramento delle condizioni di vita dei suoi abitanti. Manchester fu la prima città industriale moderna. [...] La città era il centro del commercio dei tessuti di cotone e nei primi quarant’anni del XIX secolo i prodotti della regione di Manchester
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rappresentavano oltre il 40% del valore delle esportazioni britanniche. La florida domanda di prodotti di cotone – in particolare indumenti confezionati – in Nord America, Europa, Africa e Asia ave-
va stimolato uno straordinario sviluppo industriale. [...] La popolazione di «Cotonopoli» – com’era notoriamente definita Manchester – passò dai circa 77.000 abitanti del 1801 agli oltre 316.000 del
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FARE STORIA
FARE STORIA La nascita dell’industria moderna
1851 (la popolazione della Grande Manchester superava i 2,1 milioni di abitanti nel 1901). La spettacolare trasformazione della città da centro rurale e in gran parte lussureggiante di vegetazione ad archetipo della città industriale produsse un’immagine nuova e dinamica di Manchester quale fucina della produzione, del progresso e della ricchezza, come pure una serie di giudizi negativi sui suoi quartieri sovrappopolati e insalubri e sul suo inquinamento ambientale. [...] Nel 1835 Tocqueville1 scriveva: «Da questa fogna ripugnante sfocia il fiume dell’industria umana per fecondare il mondo intero. Da questa sudicia cloaca proviene oro puro. Qui l’umanità raggiunge il suo più pieno sviluppo e il suo massimo livello di brutalità; qui la civiltà fa miracoli e l’uomo civilizzato ridiventa selvaggio». Diventare l’«officina del mondo» non si tradusse solo negli estremi della ricchezza e della povertà, dell’innovazione tecnologica e della caotica crescita urbana, ma accrebbe anche enormemente l’afflusso di risorse naturali verso Manchester come pure la sua produzione di rifiuti. Agli inizi del XIX secolo circa il 90% dell’industria britannica del cotone era concentrato nella regione di Manchester (Lancashire sudorientale, Derbyshire nordoccidentale e Cheshire nordorientale). Il consumo di cotone grezzo in Gran Bretagna passò dalle 2.265 tonnellate del 1780 a una media annua di 424.461 attorno al 1856, trasformando
di conseguenza il paesaggio del Sud degli Stati Uniti, dove si trovava la maggior parte delle coltivazioni. [...] Al volgere del XIX secolo, Manchester non era più in grado di nutrire la propria popolazione. Solo il 25% del suo fabbisogno naturale di cereali veniva soddisfatto localmente, sebbene gli agricoltori del Lancashire e del Cheshire svolgessero ancora un ruolo fondamentale rifornendo la città con patate e altre verdure. Nel 1842 si stimava che nei mercati di Manchester fossero vendute 50.000 tonnellate di patate ogni anno. A partire dagli anni Venti del XIX secolo furono importate dall’Irlanda, attraverso il porto di Liverpool, grandi quantità di bovini, pecore e maiali vivi. [...] La rapida industrializzazione e urbanizzazione comportarono un enorme aumento dei consumi energetici. Il carbone estratto in Lancashire, Staffordshire e Yorkshire alimentava le fabbriche della città e riscaldava le case dei suoi abitanti e il suo consumo passò bruscamente dalle 100.000 tonnellate del 1800 ai circa 3 milioni di tonnellate annue del 1876. Dal momento che raramente imprese e famiglie bruciavano il carbone in modo efficiente, l’inquinamento da fumo divenne un grave problema ambientale che impediva la penetrazione della luce solare, distruggeva la vegetazione, deturpava gli edifici e comprometteva la salute delle persone. Con il graduale miglioramento delle forniture idriche e delle infrastrutture sanitarie,
STORIOGRAFIA 53
C.M. Cipolla La fine del mondo che fu
C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, il Mulino, Bologna 2002, pp. 411-12; 421-22.
Tra il 1780 e il 1850, in meno di tre generazioni, una profonda Rivoluzione che non aveva precedenti nella storia dell’umanità cambiò il volto dell’Inghilterra. Da allora il mondo non fu più lo stesso. Gli storici hanno sovente usato e abusato del termine «Rivoluzione» per significare un mutamento radicale, ma nessuna rivoluzione è stata così drammaticamente rivoluzionaria come la Rivoluzione industriale salvo la Rivoluzione neolitica. [...] La Rivoluzione
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che ridusse notevolmente la mortalità causata dalle «malattie da sporcizia», al volgere del XX secolo i disturbi respiratori come la bronchite divennero la principale causa singola di morte a Manchester e in altre città industriali. A Manchester, nel quartiere operaio di Ancoats si registrò uno dei più alti livelli di inquinamento dell’aria del paese, come pure uno dei più alti tassi di mortalità per malattie respiratorie. [...] Il primo gruppo di pressione antinquinamento della città, l’Associazione per la prevenzione del fumo di Manchester, fu fondato già nel 1842. Ci volle però più di un secolo di campagne prima che la nube di fumo che aveva avviluppato la città cominciasse finalmente a diradarsi. 1. Alexis de Tocqueville (1805-1859), storico e
filosofo politico francese, tra i maggiori esponenti del liberalismo ottocentesco.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea i cambiamenti che avvennero a Manchester a causa dell’urbanizzazione e sintetizzali con dei titoletti al lato del testo. b. Spiega per iscritto in che modo e perché aumentarono, in seguito all’industrializzazione, i consumi, i bisogni e l’inquinamento. c. Descrivi gli aspetti negativi che si trovarono ad affrontare gli abitanti di Manchester in seguito all’industrializzazione.
Lo storico italiano Carlo Maria Cipolla (1922-2000) ha lungamente studiato il processo di sviluppo scientifico, economico e tecnologico che l’Europa conobbe tra il X e il XVIII secolo e che permise ai paesi di questo continente di diventare potenze mondiali. In questo brano si riportano alcune pagine delle conclusioni al suo libro Storia economica dell’Europa pre-industriale (pubblicato per la prima volta nel 1974), nelle quali si trova una chiara riflessione sulle differenze che separano la società preindustriale da quella moderna e industrializzata, non soltanto da un punto di vista economico e tecnologico, ma anche culturale. neolitica trasformò l’umanità da un insieme slegato di bande di cacciatori «piccoli, brutali e malvagi» in un insieme di più o meno interdipendenti società agricole. La Rivoluzione industriale trasformò l’uomo da agricoltore-pastore in manipolatore di macchine azionate da energia inanimata. Tra il cacciatore del paleolitico e l’agricoltore del neolitico c’è un abisso; la differenza è quella tra lo stadio selvaggio e quello della civiltà. Però il mondo dell’uomo
rimase un mondo di piante e di animali. La Rivoluzione industriale aprì le porte a un mondo completamente nuovo: un mondo di nuove e inusitate forme di energia, quali il carbone, il petrolio, l’elettricità, l’atomo, sfruttate mediante convertitori vari; un mondo in cui l’uomo si trova a poter disporre di masse di energia inconcepibili nel precedente mondo bucolico. Da uno stretto punto di vista tecnologico-economico, la Rivoluzione industriale può
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FARE STORIA
giustificatamente venir definita come il processo attraverso il quale una società acquisisce il controllo di vaste fonti di energia inanimata. Ma una simile definizione non fa giustizia al fenomeno né per quanto riguarda le lontane origini del fenomeno stesso, né per quanto riguarda tutte le sue implicazioni economiche, culturali, sociali e politiche. Precedentemente alla Rivoluzione industriale vi fu una profonda continuità nel processo storico. [...] Gli agronomi del Quattro e Cinquecento potevano ancora utilmente rifarsi ai trattati degli agronomi romani. [...] Non pareva assurdo a Machiavelli richiamarsi all’ordinamento romano quando faceva piani per un esercito del suo tempo. Alla fine del Settecento Caterina II di Russia fece trasportare dalla Finlandia a Pietroburgo un enorme masso erratico1 per porlo alla base del monumento dedicato a Pietro il Grande2: il trasporto del colossale sasso fu effettuato con sistemi sostanzialmente identici a quelli usati migliaia di anni prima dagli antichi Egizi nella costruzione delle piramidi. [...] Un’essenziale continuità caratterizzò il mondo pre-industriale pur attraverso rivolgimenti grandiosi, quali lo sviluppo e la decadenza dell’Impero romano, il trionfo e il declino dell’Islam, i cicli dinastici cinesi. [...] Questa continuità fu rotta tra il 1780 e il 1850 [...]. Una volta imboccata la strada
U3 L’età delle rivoluzioni
dell’industrializzazione è impensabile di tornare indietro e nemmeno ci si può fermare. Le macchine finiscono col dettare il ritmo dell’ulteriore, obbligato progresso. [...] La futura società industriale richiede un nuovo tipo di uomo. L’agricoltore poteva essere analfabeta. Ma non c’è posto per analfabeti nella società industriale. Per vivere e sopravvivere in tale società occorrono all’individuo numerosi anni di istruzione e la formazione di una mentalità nuova, in cui l’intuizione va sostituita con la razionalità, l’approssimazione con la precisione, l’emozione col calcolo. D’altra parte una società industriale è caratterizzata da continuo e rapido progresso tecnologico. In tale società gli impianti divengono rapidamente obsoleti e gli uomini non sfuggono alla regola. L’agricoltore poteva vivere beneficiando di poche nozioni apprese nell’adolescenza. L’uomo industriale è sottoposto a un continuo sforzo di aggiornamento e tuttavia viene inesorabilmente superato. Il vecchio nella società agricola è il saggio: nella società industriale è un relitto. [...] L’unità familiare pre-industriale è tradizionalmente un’istituzione numerosa, di carattere patriarcale, che oltre alla basilare funzione di procreare, allevare ed educare nuove generazioni, soddisfa entro il proprio ambito a funzioni economico-produttive e a numerose funzioni che oggi
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chiameremmo di «sicurezza sociale» (la cura dei membri ammalati e vecchi). La famiglia della società industriale è un’unità numericamente ristretta, relativamente meno stabile e più limitata nel tempo e con funzioni di gran lunga ridotte: perché la società e il mercato si assumono molte delle funzioni che nel mondo agricolo erano attribuite alla famiglia. Il mutato rapporto numerico riflette in maniera caratteristica il ruolo ridotto della famiglia: nel mondo agricolo la famiglia è un nucleo numeroso in società numericamente piccole; nel mondo industriale, la famiglia è un nucleo numericamente più limitato in società smisuratamente accresciute. 1. Blocco roccioso di grandi dimensioni trascinati
a valle dai ghiacciai e lì lasciati dopo il loro scioglimento. 2. Pietro il Grande (1672-1725), zar di Russia, fu l’artefice di un importante processo di modernizzazione del suo paese.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega il paragone che Carlo Maria Cipolla fa tra la rivoluzione industriale e quella neolitica. b. Evidenzia la definizione di industrializzazione data dall’autore. c. Descrivi per iscritto sotto quali aspetti l’industrializzazione portò dei cambiamenti radicali.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Lo storico racconta 1. Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente sulle condizioni che, secondo i brani degli storici presenti in questa sezione, portarono alla nascita della fabbrica moderna in Inghilterra. Prima di procedere con la scrittura, seleziona i testi storiografici utili al tuo ragionamento, individua per ognuno di essi le argomentazioni più significative e trascrivile sinteticamente sul quaderno, indicando fra parentesi il nome dello storico dal cui brano le hai tratte. Infine realizza una scaletta e scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. Il confronto storiografico 2. Partendo dal brano di Cipolla [Ź53], scrivi un testo sui cambiamenti introdotti dalla rivoluzione industriale dal titolo Da allora il mondo non fu più lo stesso. Prima di procedere con la scrittura, seleziona le argomentazioni di Cipolla e i testi storiografici proposti utili al tuo discorso. Individua ed evidenzia i passaggi che possono aiutarti a costruire il tuo testo. Individua delle parole chiave che li rappresentino e utilizzale per costruire una mappa concettuale. Scrivi quindi un testo argomentativo sulla base della mappa da te realizzata.
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U4 Nazione e libertà CHIAVE DI LETTURA
Liberali, democratici e socialisti Dal grande bacino di idee dell’Illuminismo erano nate le due correnti principali del pensiero politico ottocentesco: il liberalismo e la democrazia. Differenti per obiettivi e programmi, i liberali rivendicavano la libertà e i diritti individuali contro gli abusi di un potere dispotico, e la promozione del merito contro i privilegi di ceto, mentre i democratici si battevano per l’uguaglianza e l’allargamento della partecipazione politica ai ceti popolari. Tuttavia le due correnti avevano un obiettivo comune: la lotta contro i regimi assolutistici e la rivendicazione di carte costituzionali. Ma la novità più radicale del secolo è sicuramente il socialismo che, nella versione del socialismo scientifico di Marx ed Engels, prefigurava un nuovo ordine sociale in grado di porre fine – per mezzo della lotta di classe – alle ingiustizie prodotte dal capitalismo industriale. Il Romanticismo e l’idea di nazione Le nuove forme della cultura politica si intrecciano con la grande stagione del Romanticismo. Movimento letterario, artistico e musicale, il Romanticismo rifiutava il razionalismo illuminista ed esaltava il sentimento puro e tormentato, talora in forme morbose, enfatizzando l’insofferenza nei confronti delle convenzioni sociali. Sul piano storico, i romantici guardavano alle origini profonde dei popoli e al recupero delle tradizioni. Da queste suggestioni emerse l’idea di nazione, fondata sull’unità delle origini, della lingua, della terra e del sangue. Le aspirazioni e le lotte
GLI EVENTI
per l’indipendenza di paesi come il Belgio, la Grecia, la Polonia, l’Ungheria e l’Italia sono tutte manifestazioni di questa nuova idea nazionale, di un nazionalismo che esalta la tradizione e la storia e rivendica una missione da affidare ai popoli finalmente consapevoli di un proprio destino. Il Risorgimento e l’Unità d’Italia Viene denominato Risorgimento il movimento che portò l’Italia a farsi artefice del suo destino nazionale. Nonostante le antiche divisioni territoriali, il perdurare dei particolarismi, la dominazione austriaca diretta o indiretta su tanta parte della penisola e la presenza della Chiesa con un proprio ampio Stato territoriale, il ceto colto aveva continuato a immaginare un’unità culturale, linguistica e geografica dell’Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Tutto il movimento nazionale – e in particolare quello democratico guidato da Mazzini – aveva raccolto e rafforzato questa visione dando corpo a una nuova identità italiana. Tra i fattori politici che resero possibile l’unificazione, centrale fu il ruolo della dinastia sabauda, orientata da secoli a un’espansione verso la Pianura padana, e in particolare di un abile leader come il conte di Cavour, in grado prima di guidare il processo di modernizzazione del Piemonte, poi di convogliare larga parte del movimento nazionale al fianco del Regno di Sardegna; decisivo fu, infine, il ruolo di Garibaldi, capo audace e carismatico che guidò con successo la spedizione dei Mille in Sicilia e nel Meridione.
Ź Franz Wenzel, Garibaldi entra a Napoli il 7 settembre 1860, 1860-75 1830 Rivoluzione di luglio: Luigi Filippo d’Orléans re dei francesi
1814-15 Congresso di Vienna
1830-31 Moti insurrezionali in Belgio, Italia e Polonia 1820-21 Insurrezioni in Spagna, Grecia e Italia 1811-30 Lotte per l’indipendenza nell’America Latina
1810
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1820
1859 Seconda guerra d’indipendenza in Italia
1860 Spedizione dei Mille
1845-48 Annessione del Texas e della California agli Stati Uniti
1829 Indipendenza della Grecia
1830
1831 Mazzini fonda la Giovine Italia. Indipendenza del Belgio
1840
1852 Napoleone III imperatore. Cavour presidente del Consiglio
1850
1861 Unità d’Italia 1856 Partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea 1860
1870
1880
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C9 Politica, società e cultura nell’800 EXTRA ONLINE
1
Personaggi George Gordon Byron, eroe romantico
Focus L’École Polytechnique • Povertà e controllo sociale
Stato moderno e istituzioni politiche Nella prima metà dell’800, si definiscono e si consolidano istituzioni e modelli politici, sistemi ideologici e forme associative, scuole di pensiero e movimenti culturali destinati a improntare di sé l’intera età contemporanea e, in qualche caso, ancora presenti e operanti nel nostro tempo. È in questo periodo che entrano nell’uso corrente termini come “liberalismo” e “socialismo”. È in questo periodo che si affermano la cultura, gli ideali e le sensibilità legati al Romanticismo. È in questo periodo, soprattutto, che in Europa le istituzioni dello Stato acquistano una nuova centralità e assumono forme a noi familiari.
monopolio della forza legittima Nelle società moderne l’uso legittimo della violenza compete esclusivamente allo Stato e la violenza individuale di un cittadino contro un altro cittadino è illegittima. Il concetto di “monopolio della forza” presuppone dunque l’esistenza di uno Stato che emani le leggi e la presenza di una amministrazione (cioè degli organi e degli uffici facenti parte dello Stato) che, nell’ambito delle leggi, sia legittimata all’uso della forza.
•
IL COMPLETAMENTO DELLO STATO MODERNO
Durante gli anni del dominio napoleonico in Francia e nell’Europa continentale i poteri dello Stato, il sistema di governo e l’organizzazione amministrativa avevano raggiunto un livello elevato di efficienza: con la scomparsa dei privilegi della Chiesa e dei ceti nobiliari, con la codificazione delle norme giuridiche, con il rafforzamento dell’amministrazione, lo Stato ottenne allora in modo definitivo quel monopolio della forza legittima* che costituiva la sua principale attribuzione. Era il compimento di un processo plurisecolare di accentramento del quale si possono ricordare alcuni passaggi particolarmente significativi. Gli intendenti francesi del ’600 con funzioni di controllo del prelievo fiscale, le varie forme di codificazione giuridica in Prussia e nei domìni asburgici, infine i prefetti napoleonici dagli estesi poteri sulla società e sui ceti dirigenti locali: sono altrettante tappe della costruzione dello Stato moderno nell’Europa continentale. In Gran Bretagna, invece, l’itinerario fu diverso per l’assenza di una burocrazia tendenzialmente stabile e di forme di codificazione sistematica delle leggi. Furono invece le élite espressione dell’aristocrazia, della gentry – la piccola nobiltà di provincia – e della nascente borghesia a governare il paese in virtù dei collaudati meccanismi di patronage [Ź2_4].
• L’AFFERMAZIONE DELLO STATO BUROCRATICO-AMMINISTRATIVO Con l’eccezione della Gran Bretagna, dunque, lo Stato moderno assunse la forma dello Stato burocratico-amministrativo, emancipato da quel controllo della nobiltà e delle assemblee dei ceti che aveva rallentato la prima affermazione dell’assolutismo. I poteri tradizionali vennero sostituiti da un sistema di potere legale, fondato su norme di legge, mentre il rispetto e l’applicazione delle norme erano garantiti dalla burocrazia amministrativa. L’amministrazione e il suo personale dirigente, la burocrazia appunto, rappresentavano le ossa e i muscoli dell’organismo statale. Il funzionario statale aveva in genere una formazione giuridica e il suo reclutamento, inizialmente soggetto alla discrezionalità del potere politico, sarà sempre più regolato da verifiche obiettive come i pubblici concorsi. In alcuni paesi, prima di ogni altro in Francia e successivamente in Prussia, scuole superiori tecniche e militari (come l’École Polytechnique di Parigi, Ź7_11) formavano specialisti nel campo
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C9 Politica, società e cultura nell’800
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delle costruzioni stradali, dell’ingegneria edilizia e dell’artiglieria, la più “matematica” delle armi. L’amministrazione pubblica si dotava quindi di un personale tecnico, che si aggiungeva a quello di formazione giuridica, e che avrebbe accompagnato le nuove sfide nell’epoca dell’industrializzazione. statistica La statistica descrive, con metodologie matematiche e rappresentazioni numeriche, l’andamento dei fenomeni sociali ed economici – popolazione, attività produttive, scambi commerciali – fornendo allo Stato strumenti di conoscenza, di previsione e di intervento.
•
UNA SCIENZA AL SERVIZIO DELLO STATO A partire dal periodo napoleonico, inoltre, la Francia si pose all’avanguardia nelle applicazioni della statistica*, la nuova scienza al servizio dello Stato. Nel corso dell’800 tutti gli Stati si dotarono di organizzazioni di statistica la cui principale attività sarebbe stata quella legata ai censimenti effettuati con uniformi criteri scientifici, a partire da quello belga del 1846.
• L’AFFERMAZIONE DELLE ISTITUZIONI RAPPRESENTATIVE L’ampliamento dei poteri e la tendenziale autonomia dell’amministrazione contribuirono ben presto a innescare momenti di conflittualità con la nuova classe politica rappresentativa (cioè scelta attraverso le elezioni). L’espansione dello Stato burocratico-amministrativo nell’800, infatti, coincise con il progressivo affermarsi delle istituzioni rappresentative fondate sulla parità dei diritti civili e politici e su un Parlamento elettivo e con la nascita dei partiti politici. In questa fase l’amministrazione non si configurò sempre come un potere neutrale, al di sopra delle parti: fu invece il braccio più efficace dei vari sistemi di governo. La Rivoluzione francese aveva trasformato i sudditi in cittadini. E questo processo, esteso gradatamente al resto dell’Europa continentale sotto la spinta delle armate napoleoniche, non sarebbe stato più arrestabile. La sovranità non apparteneva più al solo principe ma anche al popolo e ai suoi rappresentanti: questo era il carattere della monarchia costituzionale rappresentativa. Nei regimi repubblicani la sovranità apparterrà invece interamente al popolo e ai suoi rappresentanti.
STORIA IMMAGINE La Barrière de la Villette 1785-89 Lo Stato moderno, via via che avanza nella costruzione del proprio apparato burocraticoamministrativo, procede anche alla realizzazione di edifici pubblici che richiedono un’architettura elegante e rappresentativa ma, allo stesso tempo, funzionale alle necessità di una società in trasformazione. Nel ’700, questa esigenza si coniuga con un generale ritorno di attenzione all’arte classica, con la ricerca di uno stile sobrio e privo di inutili decorazioni. Nel 1784 Claude-Nicolas Ledoux, rinomato architetto francese, fu incaricato dal governo di
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progettare le barrières, barriere che facevano parte di un ampio sistema destinato a circondare Parigi di una nuova cinta
daziaria, dove venivano riscosse le tasse sulle merci trasportate in città dal contado. Oggi rimangono solo quattro dei 46
caselli che segnavano gli ingressi a Parigi dalle principali strade di accesso. Uno di questi caselli è La Barrière de la Villette.
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U4 Nazione e libertà
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•
LO STATO DI DIRITTO E I SISTEMI POLITICI OTTOCENTESCHI Lo sviluppo dei sistemi politici era strettamente legato all’esistenza di una costituzione. Quest’ultima, analogamente a quanto era accaduto con le rivoluzioni americana e francese, definisce il nuovo patto che regge una comunità e fonda lo Stato come insieme di ordinamenti giuridici e politici. L’ordinamento politico retto da una legge fondamentale come la Costituzione, basato sul principio della separazione dei poteri – esecutivo, legislativo, giudiziario – e sulla superiorità della legge su ogni forma di privilegio e di arbitrio, si definisce Stato di diritto. Lo sviluppo dei sistemi politici rappresentativi nell’800 si caratterizzò in Europa per la presenza di due diverse forme di governo: il governo costituzionale, in genere nelle monarchie costituzionali, in cui il capo dell’esecutivo – primo ministro o presidente del Consiglio dei ministri – era responsabile solo di fronte al sovrano che lo aveva nominato; e il governo parlamentare in cui, invece, l’esecutivo rispondeva al Parlamento che gli aveva concesso la fiducia. Queste due forme di governo si alternarono in Europa: l’affermarsi del governo parlamentare fu determinato più da una prassi politica e da una consuetudine – come in Gran Bretagna nel ’700 e in Italia dopo l’Unità – che da una norma scritta.
• DIRITTO DI VOTO E DIBATTITO POLITICO Egualmente significativo fu, nello stesso arco di tempo, il contrasto sui sistemi elettorali. Si confrontarono su questo tema il principio liberale, sostenitore di un suffragio ristretto legato al censo e al livello culturale di una circoscritta élite sociale, e il principio democratico, fautore del suffragio universale maschile. Del resto non fu questo il solo terreno su cui liberalismo e democrazia si scontrarono: fu anzi proprio l’antagonismo fra liberali e democratici – che invece oggi associamo nel modello liberal-democratico – a caratterizzare la lotta politica per gran parte dell’800 [Ź11_4].
2
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Il Romanticismo • I CARATTERI DELLA CULTURA ROMANTICA Nei primi decenni dell’800 si diffuse in tutta Europa la cultura romantica. Essa rifiutava il primato della ragione che si era affermato nel ’700, da un lato esaltando la creatività e la spontaneità dei sentimenti e delle emozioni, dall’altro respingendo l’equilibrio formale del mondo classico: il suo carattere era, quindi, antilluminista e anticlassicista. L’arte per i romantici, infatti, è libera espressione dell’individuo che crea secondo i criteri di originalità, spontaneità, capacità di trasmettere emozioni e sentimenti, e non conformandosi a determinati modelli o regole di composizione. La cultura romantica, inoltre, attribuiva un ruolo decisivo alla storia, convinta che ogni realtà prendesse forma e significato dentro la storia. Di qui la rivalutazione di tutte le epoche del passato, comprese quelle fino ad allora considerate barbariche, come il Medioevo: in polemica con l’Illuminismo, che aveva definito quell’età come regno della superstizione e dell’ignoranza, i romantici videro nel Medioevo il momento in cui si formarono i grandi popoli europei, la radice della civiltà moderna e delle tradizioni religiose, linguistiche e culturali delle nazioni. Di qui anche l’interesse per le tradizioni, e le culture nazionali, per i canti popolari, le fiabe, le espressioni folcloriche, considerate la manifestazione primigenia dello spirito di un popolo.
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C9 Politica, società e cultura nell’800
idealismo In filosofia, qualsiasi concezione che risolva la realtà nell’idea (o nel pensiero). Secondo l’idealismo tedesco ottocentesco il pensiero è già realtà: esso contiene già la realtà di ogni cosa, perché non vi è alcuna cosa al di là del pensiero.
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LE ORIGINI E LA DIFFUSIONE Come corrente letteraria, artistica e filosofica, il Romanticismo era nato in Germania negli ultimi decenni del ’700. Aveva avuto i suoi primi assertori nel filosofo Herder e il suo nucleo originario in quel gruppo di poeti e drammaturghi – fra gli altri, lo stesso Herder, Goethe e Schiller – che diedero vita, attorno al 1780, al movimento detto Sturm und Drang (“tempesta e impeto”). Una più organica sistemazione teorica venne, negli anni tra la fine del ’700 e l’inizio dell’800, con la grande filosofia idealista di Fichte e Schelling. Romanticismo e idealismo* fornirono allora la base culturale a quel movimento di riscoperta della nazione e di riscossa patriottica che coinvolse buona parte degli intellettuali tedeschi, sull’onda delle lotte contro il dominio napoleonico [Ź9_3]. In quegli stessi anni a cavallo fra i due secoli, il Romanticismo si affermò in Gran Bretagna – con la poesia di Coleridge e col romanzo storico di Walter Scott – e cominciò a diffondersi anche in Francia, già patria dell’Illuminismo, nella versione cattolica e tradizionalista di Chateaubriand. Un contributo decisivo all’affermazione delle nuove tendenze anche nei paesi latini lo diede Madame de Staël, brillante scrittrice ginevrina, col libro De l’Allemagne (Sulla Germania), uscito nel 1810, che descriveva ed esaltava le esperienze intellettuali fiorite in Germania negli ultimi decenni. Fu soprattutto attraverso le discussioni suscitate da questo libro che la cultura romantica penetrò in Italia, dove trovò sostenitori entusiasti negli intellettuali lombardi della rivista «Il Conciliatore» [Ź10_2]. A partire dal 1815, il Romanticismo si diffuse un po’ ovunque, fino a costituire il quadro di riferimento comune a tutte le più importanti espressioni della cultura europea della prima metà dell’800: dalla poesia al romanzo, dalla musica sinfonica al melodramma, dalla storiografia alla filosofia, dalla pittura all’architettura.
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Documento 58 George Gordon Byron, La Grecia e l’Italia dei romantici, p. 402
LA CULTURA CHE DOMINÒ UN’EPOCA L’influenza del Romanticismo si estese ben oltre il mondo delle lettere e delle arti. Quella romantica fu una cultura nel senso più ampio del termine: fu una mentalità diffusa, un fenomeno di costume che investì in modo decisivo il modo di pensare, di agire e di apparire dell’élite colta, in particolare dei giovani intellettuali. Per le generazioni formatesi fra la fine del ’700 e l’inizio dell’800 – e in larga misura anche per quelle successive – il Romanticismo fu anche uno stile di vita, un modo di atteggiarsi. Muoversi, vestirsi, declamare (persino cercare il suicidio per amore) come il giovane Werther, protagonista del celebre romanzo di Goethe, oppure imitare in ogni sua forma quel singolare impasto di slanci eroici e di indolenza scettica e malinconica che si incarnava nella figura del poeta inglese George Gordon Byron appariva ai giovani inquieti come una prova della propria superiore sensibilità. STORIA IMMAGINE Joseph Severn, Shelley alle terme di Caracalla 1820 ca. [Keats-Shelley Memorial House, Roma] Il poeta inglese Percy Bysshe Shelley rappresenta il modello dell’artista romantico. Vestito con un abbigliamento “informale” – pantaloni lunghi, camicia sbottonata senza foulard –, Shelley è raffigurato in questo
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dipinto in una posa “tipicamente romantica”: lo sguardo verso l’osservatore, il mento poggiato sulla mano sinistra, mentre la destra tiene una penna pronta a scrivere sul taccuino aperto sulle gambe. Gli fanno da sfondo un paesaggio collinare e le antiche rovine di Roma, a simboleggiare l’importanza del rapporto dell’individuo con la natura e la storia.
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Una sensibilità che si esprimeva anche nell’attenzione ai dettagli esteriori, considerati come spie di qualcosa di più profondo: un certo accostamento di colori, un certo modo di incedere o di indossare un abito (l’età romantica coincise con un’autentica rivoluzione nell’abbigliamento maschile, con l’abbandono delle parrucche settecentesche e dei pantaloni al ginocchio) diventavano segni di riconoscimento e connotati di un nuovo modo di sentire. Persino la malattia fisica poteva essere idealizzata in quanto contrassegno di una personalità pura, non contaminata dalle convenzioni e dalle ipocrisie della società.
• ROMANTICISMO, CORRENTI DI PENSIERO, MOVIMENTI POLITICI Il Romanticismo, in quanto cultura dominante dell’epoca, non si identificò con una determinata tendenza ideologica, ma influenzò quasi tutte le correnti di pensiero e tutti i principali movimenti politici operanti all’inizio dell’800. Romantici e reazionari, romantici e liberali, romantici e democratici: tutte le combinazioni e gli intrecci erano possibili e praticati. Certo, nella cultura romantica c’erano molti elementi che si prestavano a essere fatti propri dai fautori del ritorno al passato. La critica al razionalismo illuminista dei giacobini e alla sua pretesa di rifondare la società senza tener conto delle tradizioni storiche e delle peculiarità nazionali – critica già presente negli scritti di liberali moderati come Edmund Burke, britannico di origine irlandese, o l’italiano Vincenzo Cuoco – fu una costante di tutta la polemica antirivoluzionaria dell’epoca. Il richiamo alla storia e alla tradizione si trasformò non di rado nella pura e semplice nostalgia del passato e nel tentativo di riportarne in vita questo o quell’aspetto. La riscoperta della dimensione religiosa divenne spesso ritorno alle religioni positive, in particolare al cattolicesimo con le sue gerarchie e i suoi culti tradizionali. Se molti intellettuali vissero l’esperienza romantica come un ritorno al passato, alla tradizione, all’autorità, molti altri vi trovarono le premesse per scelte di tutt’altro genere. Romanticismo significava anche libertà, rottura di norme consolidate, affermazione dell’individuo contro le convenzioni: gli stessi
STORIA IMMAGINE Eugène Delacroix, La barca di Dante 1822 [Musée du Louvre, Parigi] Nell’800 la storia e la cultura dell’Italia godono di un prestigio diffuso e profondo tra gli intellettuali europei e spesso gli artisti romantici scelgono di ambientare le loro opere in questo illustre e suggestivo paese. Il Medioevo diventa uno dei “luoghi della mente” preferiti del Romanticismo e così Dante, il cui genio è universalmente riconosciuto, viene ritratto dal pittore romantico francese Eugène Delacroix (1798-1863) mentre supera eroicamente con Virgilio le tenebrose acque paludose dell’Inferno, popolate da anime dannate che si mordono a vicenda attorno alla barca.
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valori che ispiravano le battaglie dei liberali, dei democratici e di quanti si opponevano alla Restaurazione. Per limitarci agli ambienti di lingua francese, si deve ricordare che fra i primi assertori del credo romantico vi erano, accanto al cattolico e legittimista Chateaubriand, personaggi di orientamento liberale come Madame de Staël, lo scrittore Benjamin Constant e lo storico Simonde de Sismondi; e che anche in seguito si sarebbero richiamati al Romanticismo molti intellettuali impegnati nelle lotte per il liberalismo e la democrazia.
Fare storia Una nuova idea di Nazione
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Fare storia Liberalismo, socialismo, nazionalismo: le origini delle ideologie contemporanee, p. 398
patria/nazione Il termine “patria” indica il territorio abitato da un popolo, i cui membri sentono di appartenervi per nascita (propria, dei genitori e degli avi, cioè dei patres), e per lingua, cultura, storia e tradizioni, cioè per identità nazionale.
Documento 60 Ernest Renan, «Una coscienza morale che si chiama nazione», p. 404
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Nazione e nazionalismi • L’IDEA DI NAZIONE Strettamente legato alla cultura romantica fu l’affermarsi dell’idea di nazione. Sino alla fine del ’700, il concetto di nazione* aveva infatti un contenuto generico e dei confini incerti e soprattutto non svolgeva un ruolo centrale nella cultura politica e nel sentire comune. Il senso di appartenenza a una nazione veniva, per importanza, dopo l’affiliazione a una confessione religiosa e dopo l’identificazione con una comunità locale o regionale: si era prima cristiani, poi lombardi (o bretoni o tirolesi), e solo in terzo luogo italiani (o francesi o tedeschi). Il principio che lo Stato dovesse coincidere con una nazione era poi sostanzialmente estraneo alla cultura dell’ancien régime, anche se Stati a base nazionale, come la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, si erano costituiti già in età medievale. L’idea moderna di nazione nacque con Rousseau e con la sua concezione dello Stato come espressione di un popolo, di una comunità di cittadini, di un «corpo morale e collettivo» capace di esprimere una volontà comune: concezione che la Rivoluzione francese avrebbe per la prima volta cercato di tradurre in realtà e che le guerre napoleoniche avrebbero diffuso in tutta Europa determinando un doppio processo di imitazione e di reazione. Ma fu soprattutto la cultura romantica tedesca del ’700-800 a scoprire la nazione, a esaltarla in quanto comunità «naturale» – unita da legami indissolubili di lingua, cultura e sangue – e a vedere in essa il fondamento di ogni organizzazione sociale e politica. Le due componenti che stavano alla base dell’idea di nazione – quella democratica di origine rousseauiana e quella naturalistica dei romantici tedeschi – erano molto diverse fra loro e furono alla base di tradizioni profondamente distinte. • IL NAZIONALISMO CONSERVATORE In Germania, il movimento nazionale cresciuto negli anni delle guerre napoleoniche assunse spesso un carattere conservatore. Un carattere ben visibile, per esempio, nei celebri Discorsi alla nazione tedesca (1807-8) del filosofo Johann Gottlieb Fichte – in cui si proclamava la superiorità intellettuale e morale dei tedeschi sugli altri popoli e si delineava il progetto di uno Stato nazionale dai tratti fortemente autoritari –, o nelle stesse opere del grande filosofo Friedrich Hegel, che concepiva lo Stato come un’entità organica e gerarchica, espressione degli interessi generali della società al di là e al di sopra dei diritti individuali. Anche in altri paesi, particolarmente in quelli che avevano alle spalle una lunga storia unitaria, l’idea di nazione poteva esprimersi in forme tradizionaliste o reazionarie: nella stessa Francia, accanto al nazionalismo democratico, erede della Rivoluzione, ne esisteva uno cattolico e legittimista (che rivendicava la “legittimità” del potere dinastico dei sovrani spodestati in seguito alla Rivoluzione. [Ź10_1]
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LEGGERE LE FONTI
Johann Gottlieb Fichte, La nazione tedesca J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, Utet, Torino 1965, pp. 75-78
Il Medioevo.
Stirpe.
L’occupazione napoleonica fu un’esperienza fondamentale per molti paesi europei: molti sostenitori dei rivoluzionari francesi, in seguito a essa, si sentirono servi e diventarono avversari degli occupanti. Tra essi, il filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), dal cui ripensamento scaturirono i celebri Discorsi alla nazione
tedesca. Tenuti a Berlino nel 1807, essi invitavano alla riscossa il popolo tedesco e segnarono l’atto di nascita del nazionalismo tedesco nella sua versione più autoritaria. Nel brano qui riportato, Fichte definisce le caratteristiche che farebbero del popolo tedesco l’unico degno di questo nome fra le popolazioni europee.
Quarto discorso I tedeschi sono un ramo dei germani; di questi ultimi basterà dire che essi furono coloro che seppero accoppiare l’ordine sociale, fondato nella vecchia Europa, colla vera religione, conservatasi nella vecchia Asia, e così sviluppare un’èra nuova contrastante colla tramontata antichità. Inoltre, a definire la stirpe tedesca in contrasto con le altre stirpi germaniche sorte al suo fianco [...] è sufficiente che se ne possa dare una determinata caratteristica, la quale differisca da quella di altre stirpi parimenti germaniche [...]. La prima differenza tra il destino dei tedeschi e quello degli altri popoli di origine germanica è questa: che i tedeschi rimasero nelle sedi primitive del popolo originario, gli altri migrarono verso nuove contrade; i tedeschi conservarono la loro lingua e la svilupparono, gli altri adottarono una lingua straniera che a poco a poco a modo loro trasformarono. Da questa differenza iniziale si svolsero le differenze ulteriori (sarebbe assurdo volerle spiegare in ordine inverso) e, per esempio, che nella sede primitiva, secondo l’antica usanza germanica, si mantenesse la confederazione statale sottoposta a una sovranità con potere limitato; mentre nelle sedi straniere, secondo l’anteriore usanza romana, si trapassasse più facilmente alla forma monarchica. Dei cambiamenti da noi indicati, il primo, il cambiamento di sede, è insignificante. L’uomo si ricostruisce una patria sotto qualsiasi lembo di cielo; e i costumi nazionali, lungi dal modificarsi col mutar di paese, molto più spesso si impongono al nuovo paese e lo modificano. [...] Ma ben più importante, e tale da porre un’assoluta antitesi tra i tedeschi e gli altri popoli dischiatta germanica è la seconda differenza: quella della lingua. E voglio dire subito ben chiaro che l’importanza del fatto non sta nella natura specifica della lingua che una stirpe mantiene o di quell’altra che un’altra stirpe assume, ma sta in ciò che il primo popolo mantiene la propria lingua, e quegli altri ne assumono una straniera; né quel che importa è sapere da chi discendano coloro che continuano a parlare la propria lingua, ma se questa lingua sia stata parlata senza interruzione, poiché molto più sono foggiati gli uomini dalla lingua che non la lingua dagli uomini.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nel documento il filosofo Johann Gottlieb Fichte descrive quelli che, a suo giudizio, sono i caratteri distintivi del popolo tedesco rispetto alle altre tribù cosiddette germaniche. Il primo fattore riguarda la stabilità e la continuità della dimora. Quali
conseguenze giuridiche e politiche ha determinato questo fattore? b Spiega le ragioni per le quali l’autore considera non rilevante la permanenza nel luogo originario ai fini della costruzione dell’identità nazionale tedesca.
c La lingua rappresenta il secondo elemento di differenziazione del popolo tedesco. Per quali motivi il fattore linguistico viene considerato decisivo nell’affermazione storica della supremazia tedesca sugli altri popoli europei?
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Storiografia 57 D. Losurdo, Lotta di classe e indipendenza nazionale, p. 401
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IL NAZIONALISMO DEMOCRATICO Invece, soprattutto nei movimenti nazionali di quei paesi in cui l’indipendenza andava conquistata o riconquistata – la Polonia, la Grecia, l’Ungheria e l’Italia – il sentimento nazionale assunse un carattere patriottico* e rivoluzionario, collegandosi con le ideologie liberali e democratiche e acquistando spesso un respiro sovranazionale. Nella storia delle rivoluzioni ottocentesche si incontra spesso la figura del patriota che combatte per la libertà di altri popoli. La distinzione fra i due principali filoni dell’idea nazionale finiva tuttavia con l’annullarsi nel pensiero e nell’opera dei grandi interpreti ottocenteschi della nazionalità – il polacco Adam Mickiewicz, l’ungherese Lajos Kossuth, e soprattutto l’italiano Giuseppe Mazzini –, che univano la fede nella democrazia col richiamo alle tradizioni nazionali e con la concezione, tutta romantica, della nazione come comunità di sangue e di cultura.
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STORIA IMMAGINE Eugène Delacroix, La Libertà guida il popolo 1830 [Musée du Louvre, Parigi] Questo dipinto di Eugène Delacroix divenne presto un’immagine emblematica degli ideali di libertà che negli anni ’30 dell’800 si affacciavano in tutta Europa: in esso viene rappresentata l’identificazione della Libertà con la Francia, con la nazione, e con l’ideale patriottico in cui si rispecchiano la temperie romantica e le istanze rivoluzionarie. La raffigurazione della Francia rivoluzionaria nelle vesti di una giovane donna col tricolore e il berretto frigio avrebbe avuto definitiva consacrazione con la Terza Repubblica, dopo il 1870.
Quasi tutti i paesi europei coltivarono e talora inventarono una propria idea di nazione, coniugandola con l’idea di un primato nazionale particolare – talora una vera e propria missione – destinato a confrontarsi e ad affermarsi sugli altri popoli. Questo elemento contribuirà, come vedremo, a determinare gli aspri conflitti nazionalistici di fine ’800.
Storiografia R. Romanelli, La nascita di nuove ideologie
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Documento 55 B. Constant, La libertà degli antichi e dei moderni, p. 399
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Il pensiero liberale e il pensiero democratico • LE DIFFERENZE TRA LIBERALISMO E DEMOCRAZIA Le due grandi ideologie dell’800 sono il liberalismo e la democrazia. Ma in che cosa differivano? Il liberalismo era fondato sull’idea di libertà quale si era venuta definendo nella cultura illuminista – che si rifaceva a Locke e Montesquieu – e nelle concrete esperienze politiche del ’600-700: il parlamentarismo britannico, la rivoluzione americana, la Rivoluzione francese. I suoi fondamenti erano la tolleranza e la libertà di opinione, il principio rappresentativo e la divisione dei poteri, la difesa dell’individuo contro gli abusi dell’autorità e coincidevano per gran parte con i valori e gli interessi materiali della borghesia, ma anche con quelli di ampi settori della nobiltà aperta alle nuove concezioni intellettuali e allo sviluppo delle attività produttive. I privilegi di ceto e le monarchie assolute stavano evidentemente agli antipodi del liberalismo. Il modello istituzionale del liberalismo europeo si ispirava a quello britannico. Un regime in cui i diritti fondamentali del cittadino – libertà di pensiero, di stampa, di associazione – erano rispettati, in cui la proprietà, l’iniziativa
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STORIA IMMAGINE Frédéric Sorrieu, La repubblica democratica e sociale. Il trionfo 1848 [Musée Carnavalet, Parigi] L’opera di Frédéric Sorrieu si colloca nel bel mezzo del fervore ideologico e politico che anima la prima metà dell’800 e pone al centro la società civile, la rappresentanza cittadina e l’economia liberale. Nel Trionfo viene raffigurata la personificazione della Repubblica universale su una preziosa quadriga le cui redini sono tenute da quattro bambini che rappresentano i quattro continenti. Gli edifici dipinti a destra richiamano Parigi, da cui proviene il grande corteo cittadino diretto verso un monumento celebrativo della Rivoluzione francese. Alla base uno schiavo ha rotto le catene e un leone, simbolo della forza del popolo sovrano, schiaccia le insegne militari a indicare la pace raggiunta.
Storiografia 54 N. Bobbio, Democrazia, liberalismo e socialismo, p. 398
libertà in negativo/ libertà in positivo Nel linguaggio politico la libertà in negativo (freedom from, “libertà da”) è la libertà intesa come assenza di impedimento o costrizione e circoscrive il fare ciò che le leggi non proibiscono: in termini più semplici, quello che è lecito fare per legge. La libertà in positivo (freedom to, “libertà di”) esprime un concetto vicino alla possibilità di prendere decisioni in autonomia (senza essere mossi a farlo). La prima esprime piuttosto un’azione non costretta o non impedita, la seconda la volontà non determinata da altri, ma autodeterminata.
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privata e il libero commercio erano tutelati e incoraggiati, in cui l’autorità del potere centrale veniva limitata e controllata da organismi rappresentativi espressi da una élite più o meno ristretta di cittadini: coloro che, per posizione sociale, per ricchezza o per istruzione, si supponeva fossero i soli realmente interessati al buon andamento della cosa pubblica. In questo senso il pensiero liberale si distaccava nettamente da quello democratico, che ne rappresentava per molti aspetti uno sviluppo. La democrazia aveva come cardine l’idea di sovranità popolare, intesa come governo di tutto il popolo, e che si riallacciava al pensiero di Rousseau e all’esperienza della Rivoluzione francese. Per i democratici la forma di governo ideale era la repubblica e il canale legittimo di espressione della volontà popolare era l’assemblea eletta a suffragio universale maschile. Mentre i liberali si preoccupavano soprattutto di costituire meccanismi giuridici e istituzionali atti a garantire i diritti individuali, e dunque a limitare i pericoli insiti in qualsiasi forma di esercizio del potere, i democratici, legati per lo più a una visione utopistica, insistevano sulla libertà “in positivo”* e vedevano nella politica il mezzo per l’attuazione del “bene comune”. In parte coincidente con quella liberale era la base sociale dei democratici: ai borghesi, nelle varie gradazioni di reddito e di cultura, si aggiungevano infatti ceti artigianali e anche popolari alfabetizzati o dotati di una cultura di base.
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GLI OBIETTIVI COMUNI La linea divisoria fra liberali e democratici, molto netta sul piano teorico, era però assai più sfumata nella pratica politica, che li vedeva uniti nella lotta contro i regimi assolutistici. La Costituzione, il Parlamento elettivo, la garanzia delle libertà fondamentali erano obiettivi validi per gli uni come per gli altri. Questi obiettivi – che si possono genericamente definire “liberali” – costituirono il programma minimo e il terreno comune di lotta per tutte le forze politiche che si battevano contro quanti intendevano restaurare l’antico regime sconfitto dalla Rivoluzione francese e da Napoleone.
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JOHN STUART MILL Il rapporto fra liberalismo e democrazia fu al centro della riflessione di due fra i pensatori politici più importanti e originali del loro
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Documento 56 John Stuart Mill, Il governo del popolo e la libertà dell’individuo, p. 400
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secolo: l’inglese John Stuart Mill e il francese Alexis de Tocqueville. Economista, filosofo e politico impegnato, Mill partì dalle premesse teoriche comuni al liberalismo inglese del primo ’800 ma, nelle sue opere politiche più importanti, uscite negli anni attorno alla metà del secolo, contestò l’ottimismo implicito nelle tesi liberiste, sostenne la necessità di un intervento dei pubblici poteri per risolvere i problemi delle classi più disagiate, si batté per tutte le riforme politiche e sociali (ampliamento del suffragio esteso anche alle donne, libertà sindacale, istruzione obbligatoria, tasse sulla proprietà fondiaria) che consentissero una più equa distribuzione della ricchezza e una più ampia partecipazione popolare al governo della cosa pubblica.
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società civile Questa espressione designa l’insieme dei membri della società nei loro rapporti, in contrapposizione allo Stato e al mondo politico. reazionario Nel linguaggio politico è colui che appoggia un movimento di reazione politica. Il termine, originariamente riferito agli oppositori della Rivoluzione francese, venne successivamente esteso a coloro che avversano ogni riforma e innovazione, mostrandosi tendenzialmente ostili al progresso.
5 ź Jean-Baptiste Guerin, Hugues Félicité Robert de Lamennais 1827 [Musée National du Château, Versailles]
ALEXIS DE TOCQUEVILLE Diversamente da Mill, Alexis de Tocqueville non fu un teorico della politica in senso stretto, né un riformatore impegnato sul terreno sociale. Fu piuttosto un attentissimo osservatore della realtà del suo tempo e un lucido indagatore di alcune tendenze di fondo della società moderna. La sua opera più celebre, La democrazia in America – uscita fra il 1835 e il 1840 e ispiratagli da un viaggio negli Stati Uniti –, contiene, oltre che una vivace descrizione della società nordamericana, un’acuta riflessione sulla democrazia, destinata, secondo lui, ad affermarsi anche in Europa. Ma per Tocqueville, aristocratico di orientamento liberal-moderato, il prevalere delle tendenze democratiche ed egualitarie rischiava di risolversi in un appiattimento delle diversità, in una distruzione delle autonomie della società civile*, ponendo le premesse per nuove forme di autoritarismo. A questi pericoli, segnalati anche da Mill, non si poteva reagire, a suo avviso, bloccando lo sviluppo della democrazia, impresa del resto impossibile, ma incanalandola negli istituti del pluralismo liberale: separazione dei poteri, libertà di stampa, autonomie locali.
Il cattolicesimo liberale e il cattolicesimo sociale •
LA CHIUSURA DELLA CHIESA NELL’ETÀ DELLE RIVOLUZIONI Di fronte ai grandi rivolgimenti politici e ideologici dall’Illuminismo in poi, la Chiesa cattolica e il cattolicesimo reagirono sia sul piano teorico che su quello organizzativo. Ma ci vorrà ben più di un secolo perché la più grande organizzazione del cristianesimo cominci a venire a patti col mondo moderno. Agli inizi buona parte del mondo cattolico si attestò su posizioni di radicale rottura con la tradizione illuminista e con gli ideali liberali e democratici, dando vita, in alcuni casi, a vere e proprie utopie reazionarie*: come quella a sfondo teocratico del savoiardo Joseph de Maistre, sostenitore di un assolutismo monarchico fondato sul diritto divino dei re. De Maistre giunse a invocare, in una celebre opera del 1819 intitolata Du Pape (Sul Papa), la sottomissione dei sovrani all’autorità suprema del pontefice di Roma.
• IL PROGRESSISMO DEI CATTOLICI LIBERALI Non mancavano nemmeno allora, tuttavia, cattolici schierati su posizioni progressiste o addirittura rivoluzionarie: in realtà le prime formulazioni di un cattolicesimo liberale, che sosteneva la possibilità e l’opportunità di affermare i valori della religione nel quadro delle libertà costituzionali, si ebbero in Francia nei tardi anni ’20, a opera di un gruppo di intellettuali raccolti attorno all’abate Félicité de Lamennais, protagonista di una singolare evoluzione che lo avrebbe fatto schierare su posizioni democratiche. Nel 1830 Lamennais fondò una rivista intitolata «L’Avenir»
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(«L’Avvenire»), che si proponeva di suscitare un moto di riforma all’interno della Chiesa per indurla ad abbandonare i progetti teocratici. Intanto il cattolicesimo liberale si era diffuso in altri paesi europei: soprattutto in Belgio – dove l’alleanza fra liberali e cattolici fu una delle chiavi del successo della lotta per l’indipendenza – ma anche in Italia, in Germania e in Irlanda. Il programma dei cattolici liberali era generalmente improntato a notevole moderazione. Il loro principale obiettivo era quello di salvare la Chiesa dai pericoli derivanti da una troppo stretta identificazione con il passato prerivoluzionario. Il loro laicismo non si spingeva al punto di invocare la separazione fra Chiesa e Stato, teorizzata invece da ampi settori del mondo protestante. Per i cattolici liberali lo Stato doveva non solo rispettare i diritti della Chiesa, ma anche mantenere un carattere cristiano alla sua legislazione (in materia, per esempio, di matrimonio e di istruzione), pur assicurando piena libertà alle altre confessioni religiose. Queste idee, per quanto moderate, non potevano però essere accettate dai vertici ecclesiastici: in un’epoca caratterizzata da grandi mutamenti sociali e dalla crescente diffusione delle ideologie laiche, la Chiesa cattolica era infatti preoccupata soprattutto di riaffermare la sua autorità e il suo magistero sulle masse popolari, in particolare su quelle contadine.
• IL CATTOLICESIMO SOCIALE Una parte dei cattolici liberali preferì trasferire il proprio impegno sul terreno sociale: un impegno per certi aspetti nuovo – e reso attuale dall’esplodere della questione operaia [Ź9_8] – ma per altri versi in linea con la tradizione caritativa della Chiesa cattolica e, comunque, tale da evitare problemi di ordine dottrinario o teologico. Pioniere di questa nuova forma di impegno fu ancora una volta un francese, Antoine-Frédéric Ozanam, fondatore nel 1833 della Società di San Vincenzo de’ Paoli che riuniva, con fini assistenziali e caritativi, numerosi esponenti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. Richiamando le classi agiate ai doveri della solidarietà, ma incoraggiando anche la formazione di associazioni di mestiere sul modello delle corporazioni medievali, Ozanam inaugurò una corrente – quella del cattolicesimo sociale – destinata a notevoli sviluppi in molti paesi cattolici nella seconda metà dell’800.
Storiografia R. Romanelli, La nascita di nuove ideologie
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capitalismo Sistema socio-economico caratterizzato da una larga formazione e mobilità dei capitali, dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, dalla ricerca del profitto individuale e dalla separazione dei produttori in classi detentrici dei capitali (la borghesia) e classi lavoratrici (il proletariato).
Il socialismo • IL SOCIALISMO UTOPISTICO
La diffusione in Europa delle ideologie socialiste rappresentò una risposta al diffondersi dell’industrializzazione, alla crescita del proletariato e alle nuove dimensioni assunte dalla “questione sociale”. Il nucleo centrale del pensiero socialista consisteva nella convinzione che, per superare i mali e le ingiustizie del capitalismo* industriale (in particolare quelli inerenti alla condizione operaia), non era sufficiente la pratica delle riforme dall’alto né tantomeno il ricorso alla carità e alle iniziative filantropiche. Era invece necessario colpire alla radice i princìpi informatori della società capitalistico-borghese – l’individualismo, la concorrenza, il profitto – e sostituirli con i valori della solidarietà e dell’uguaglianza: costruire insomma una società completamente nuova, non solo nelle istituzioni politiche, ma anche e soprattutto nelle strutture economiche.
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GLI ANTESIGNANI DEL SOCIALISMO Per questa sua carica utopica, il pensiero socialista del primo ’800 si collegava a progetti ed esperienze maturati nell’ambito della società preindustriale, in particolare alle correnti radicali ed egualitarie che si erano manifestate nel corso della prima Rivoluzione inglese e della Rivoluzione
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cooperative di consumo Le cooperative di consumo hanno per soci i consumatori, e questi – per il tramite della cooperativa – fanno acquisti in comune a condizioni migliori di quelle di mercato. movimento operaio L’insieme delle associazioni e delle organizzazioni dei lavoratori.
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francese, in parte confluite nelle società segrete del periodo successivo. Rispetto a tali esperienze il socialismo ottocentesco si distingueva proprio per il suo costante riferirsi alla nuova realtà dell’industrializzazione. Questo legame con i problemi della rivoluzione industriale è particolarmente evidente nell’esperienza dei due principali antesignani del socialismo moderno: il gallese Robert Owen e il francese Claude-Henri de Saint-Simon. Imbevuto di ideali illuministi e umanitari, l’industriale cotoniero Robert Owen (1771-1858) tentò dapprima di mettere in pratica le proprie idee nel suo stabilimento-modello di New Lanark, in Scozia, poi si dedicò prevalentemente alla formazione delle prime organizzazioni operaie, le Trade Unions, cercando di promuoverne l’unificazione a livello nazionale [Ź9_8]. In una fase successiva, si fece promotore e organizzatore di cooperative di consumo* fra i lavoratori, dando vita a un movimento che avrebbe conosciuto notevoli sviluppi soprattutto a partire dagli anni ’50. Per queste sue iniziative nel campo dell’associazionismo, Owen ebbe un ruolo di fondamentale importanza nella storia del movimento operaio* inglese e mondiale.
•
IL SOCIALISMO IN FRANCIA
Fu nella Francia degli anni ’30 e ’40 dell’800 che il socialismo conobbe i suoi più ampi sviluppi teorici: qui, in assenza di un movimento operaio già organizzato come quello che stava crescendo in Gran Bretagna, questi sviluppi assunsero o una connotazione utopistica o una declinazione marcatamente rivoluzionaria.
• CHARLES FOURIER Il rappresentante più tipico della tendenza utopista fu certamente Charles Fourier. Quella delineata nei suoi scritti, apparsi all’inizio degli anni ’30, era un’utopia radicalmente anti-industriale (dunque lontana dalle idee dei sansimoniani), che mirava non solo ad assicurare un’equa distribuzione delle risorse, ma anche a risolvere il problema della felicità in-
STORIA IMMAGINE Lo stabilimento cotoniero di Robert Owen a New Lanark, in Scozia Robert Owen, figlio di un sellaio, diventa dirigente di fabbriche tessili e quindi comproprietario delle filande di New Lanark, in Scozia. Qui Owen rende operativa una vera e propria comunità industriale modello, dove le condizioni generali di vita sono di gran lunga migliori rispetto ad altre situazioni coeve (per esempio, si lavora soltanto per dieci ore e mezza al giorno, con una pausa per il pranzo, e non vengono assunti bambini sotto i dieci anni). Nonostante il discreto successo, Owen abbandona l’impresa e tenta di mettere in pratica le proprie
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teorie negli Stati Uniti, dove fonda la comunità di New Harmony (1824-28), nell’Indiana. Fallito questo tentativo, Owen torna
in Gran Bretagna per dedicarsi all’attività sindacale. Le officine di New Lanark sono rimaste attive sino al 1968 e oggi, insieme al
vicino villaggio, sono diventate un museo; dal 2001 fanno parte del Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco.
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dividuale attraverso una nuova concezione del lavoro. Per raggiungere questi obiettivi, Fourier pensava a una società organizzata in tante piccole comunità – i falansteri – autosufficienti dal punto di vista economico: i componenti di queste comunità si sarebbero alternati nelle diverse attività lavorative in base alle loro inclinazioni.
anarchismo Le idee anarchiche, fin dalle prime formulazioni rintracciabili nell’Illuminismo e in alcune tendenze radicali della Rivoluzione francese, propugnavano l’emancipazione totale dell’uomo da ogni autorità e da ogni forma di oppressione. Massimo teorizzatore dell’anarchismo fu, nell’800, il russo Michail Bakunin (1814-1876) che sosteneva l’abolizione dello Stato, considerato la principale fonte di oppressione sociale. Secondo l’ideologia anarchica i lavoratori possono organizzarsi da sé, partendo dai più piccoli nuclei e in un modo più autonomo.
7 Parole della storia Socialismo/Comunismo, p. 295
• AUGUSTE BLANQUI E LOUIS BLANC Instancabile organizzatore di trame rivoluzionarie per oltre un quarantennio, Auguste Blanqui (1805-1881) si dedicò non tanto a descrivere la futura società socialista, quanto a studiare i mezzi per abbattere il sistema borghese tramite l’insurrezione che avrebbe consegnato il potere nelle mani del popolo: fu lui a elaborare per primo il concetto di dittatura del proletariato, che sarebbe poi stato ripreso da Karl Marx e Friedrich Engels [Ź9_7]. Un altro francese, Louis Blanc (1811-1882), può essere considerato sotto molti aspetti il capostipite del socialismo riformista. Blanc era infatti convinto che la soluzione dei mali del capitalismo poteva venire solo da un intervento dello Stato come regolatore, e al limite come gestore in proprio, dei processi produttivi. Il primo e più importante intervento doveva consistere nella creazione di ateliers sociaux (“officine sociali”) che avrebbero avuto il doppio scopo di combattere la disoccupazione e di soppiantare progressivamente le imprese private. • PROUDHON E LE ORIGINI DELL’ANARCHISMO Un posto a parte nel panorama del primo socialismo francese è occupato infine da Pierre-Joseph Proudhon, che divenne celebre nel 1840 per un saggio intitolato Che cos’è la proprietà?; la risposta, provocatoria, era: «la proprietà è un furto». Successivamente Proudhon sviluppò il suo pensiero in direzione di un cooperativismo a sfondo anarchico* più che socialista destinato a esercitare una forte influenza su strati consistenti del movimento operaio europeo. In particolare le idee proudhoniane influenzarono in modo significativo le elaborazioni dei primi teorici socialisti italiani, soprattutto Carlo Pisacane [Ź13_2] e Giuseppe Ferrari [Ź12_5].
Marx ed Engels •
IL SOCIALISMO TEDESCO Negli anni ’30 e ’40, le idee socialiste conobbero una certa diffusione anche in Germania, dove trovarono sostenitori non tanto nell’ancora scarso proletariato industriale locale, quanto tra le comunità abbastanza numerose di lavoratori tedeschi che operavano in Belgio, in Gran
STORIA IMMAGINE Honoré Daumier, La rivolta 1860 ca. [The Phillips Collection, Washington] Fra gli artisti che nella seconda metà dell’800 desiderarono interpretare il proprio tempo, un posto rilevante è occupato dal francese Honoré Daumier (1808-1879). Con una attenzione appassionata e quasi carica di rabbia, Daumier rivolge il proprio sguardo alla società
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moderna, al “prodotto sociale” della rivoluzione industriale: il proletariato urbano. Attraverso l’uso di un segno rapido e incisivo, che produce forme volutamente grottesche e deformate, Daumier raffigura l’amara realtà che lo circonda, esprimendo un profondo senso di comprensione per la miseria e le sofferenze altrui. Un critico suo contemporaneo gli scrisse: «Grazie a voi il popolo potrà finalmente parlare al popolo».
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Bretagna e soprattutto in Francia. Nel 1847 uno di questi gruppi, la Lega dei comunisti, affidò l’incarico di stendere il suo manifesto programmatico a due intellettuali non ancora trentenni: Karl Marx e Friedrich Engels. Engels, nato nel 1820, era figlio di un ricco industriale, aveva soggiornato a lungo in Inghilterra, aveva studiato le opere degli economisti “classici” Smith e Ricardo [Ź4_3] ed era noto soprattutto come autore di un saggio sulla Situazione della classe operaia in Inghilterra, uscito nel 1845. Marx, più anziano di due anni, aveva una formazione essenzialmente filosofica ma era insoddisfatto di un’attività puramente speculativa: era convinto che compito degli intellettuali fosse non tanto “interpretare il mondo”, come fino ad allora avevano fatto i filosofi, quanto “cambiarlo”.
•
Storiografia 57 D. Losurdo, Lotta di classe e indipendenza nazionale, p. 401
IL MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA Nel Manifesto del Partito comunista, uscito a Londra in lingua tedesca all’inizio del 1848, Marx ed Engels si fecero assertori di un nuovo socialismo – da loro definito scientifico in contrapposizione a quello utopistico – che univa una fortissima carica rivoluzionaria a un solido fondamento economico e filosofico. Il nucleo fondamentale del «socialismo scientifico» sta in una concezione materialistica e dialettica della storia, vista essenzialmente come un susseguirsi di lotte di classe, di scontri fra interessi economici. I rapporti economici costituiscono, per gli autori del Manifesto, la base portante, la «struttura» di ogni società. Le ideologie e le istituzioni politiche, a cominciare dallo Stato, sono solo «sovrastrutture» che servono a organizzare e a legittimare il dominio di una classe sulle altre. Anche i regimi liberali e democratici sono l’espressione di un dominio di classe, quello della borghesia giunta alla fase matura della sua ascesa rivoluzionaria. Infatti, dando vita al capitalismo industriale, la borghesia ha accresciuto enormemente le capacità produttive dell’umanità e ha abbattuto le disuguaglianze giuridiche della società feudale. Ma, al tempo stesso, ha suscitato
LE PAROLE DELLA STORIA
Socialismo/Comunismo Nel linguaggio politico dell’800 e del ’900, il termine socialismo indica un progetto di riorganizzazione della società volto ad abolire – o a limitare fortemente – la proprietà privata dei mezzi di produzione (macchinari, impianti, utensili, terre, ecc.), a porre le risorse economiche sotto il controllo della collettività, a promuovere in questo modo l’eguaglianza sostanziale – e non solo giuridica – fra i membri della collettività stessa. In questo senso, il termine si cominciò a usare negli anni ’20 dell’800 in Francia e in Gran Bretagna per opera dei gruppi sansimoniani e dei seguaci di Owen, legandosi strettamente alle prime lotte e ai primi tentativi di organizzazione della classe operaia. Nel decennio successivo, altri pensatori e agitatori (Cabet e Blanqui in Francia, Weitling in Germania) preferirono servirsi del termine comunismo, che già si usava, a partire dal ’700, in riferimen-
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to alle utopie collettivistiche ed egualitarie sviluppatesi nell’ambito della società preindustriale. Anche Marx ed Engels si dissero comunisti e parlarono di società comunista per definire lo stadio finale dell’evoluzione storica: quello in cui, scomparse le classi e abolito il diritto borghese, ognuno avrebbe potuto dare secondo le proprie capacità e ricevere secondo i propri bisogni. Da allora si intese per “comunismo” una variante più radicale del socialismo, in cui l’accento era posto sugli obiettivi finali più che sulle tappe intermedie delle lotte proletarie. Nello stesso tempo – cioè negli anni attorno alla metà del secolo – il termine “socialismo” veniva assumendo una caratterizzazione più generica ed era usato anche per designare l’atteggiamento di chi cercava soluzioni nuove alla questione operaia, o semplicemente per indicare la tendenza dei poteri pubblici a intervenire attivamente nelle vicende economico-sociali (in questo senso il socialismo era l’antitesi del liberismo).
Nonostante queste oscillazioni di significato, il termine socialismo continuò a essere il più usato per designare il programma e l’organizzazione politica del movimento operaio europeo. Socialisti o socialdemocratici si chiamarono i partiti nati negli ultimi decenni dell’800 come espressione politica delle classi lavoratrici. Socialista si chiamò l’organizzazione internazionale (la Seconda Internazionale) che riuniva quei partiti. La distinzione tra socialismo e comunismo tornò d’attualità – e si tradusse in scissione fra due modelli di partito e fra due Internazionali – dopo la rivoluzione russa del 1917. Da allora continuarono a chiamarsi socialisti i partiti che restavano fedeli alla tradizione e ai metodi della Seconda Internazionale e che tendevano gradualmente ad abbandonare le strategie rivoluzionarie; mentre presero il nome di comunisti quelli che si ispiravano direttamente all’esperienza russa dell’ottobre ’17, all’ideologia leniniana e al modello organizzativo del Partito bolscevico.
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contraddizioni che non riesce più a risolvere e ha prodotto il suo antagonista storico, il nuovo soggetto sociale destinato a soppiantarla: il proletariato. È infatti la logica stessa del sistema capitalistico-industriale che fa crescere continuamente il numero dei proletari e, contemporaneamente, li riduce a una massa indifferenziata, dequalificata, e fatalmente destinata a diventare sempre più misera e pronta alla rivoluzione.
•
LA RIVOLUZIONE PROLETARIA Secondo Marx ed Engels, ribellandosi al sistema capitalistico, il proletariato* non ha da perdere nulla «se non le proprie catene»: è dunque una classe naturalmente rivoluzionaria, in quanto rappresenta, al contrario della borghesia, gli interessi dell’enorme maggioranza della
F
LEGGERE LE FONTI
Karl Marx • Friedrich Engels, La società senza classi K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, a c. di E. Cantimori Mezzomonti, Laterza, Bari 1958, pp. 98-101
Criterio di imposizione fiscale in base al quale le tasse aumentano in proporzione al reddito dei contribuenti.
Nel Manifesto del Partito comunista, da cui è tratto il brano seguente, Karl Marx e Friedrich Engels delineano le fasi dell’evoluzione del processo rivoluzionario dopo la presa del potere da parte del proletariato. In una prima fase la società sarà rivoluzionata con misure
Il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s’eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia. Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive. Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell’economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell’intero sistema di produzione. Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi. Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti: 1. Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato. 2. Imposta fortemente progressiva. 3. Abolizione del diritto di successione. 4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli. 5. Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo. 6. Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato. [...] 10. Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale e così via. [...] Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe. Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Quali misure il proletariato è chiamato a porre in essere una volta conquistato il potere politico? b In quali settori sono previsti interventi radicali di tipo autoritario? c Come saranno regolamentati nei paesi più progrediti il regime della fiscalità e il sistema bancario?
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«anche dispotiche» al fine di produrre quelle trasformazioni fondamentali che porteranno alla seconda fase, segnata dalla scomparsa dello sfruttamento economico delle classi e quindi dello stesso potere politico che ne è espressione.
d Quali direttive verranno applicate al mondo dell’istruzione pubblica e dell’infanzia? e. Quale evoluzione subiranno i rapporti tra la borghesia e il proletariato nel corso del processo rivoluzionario?
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popolazione. Per far valere i suoi interessi, il proletariato deve organizzarsi non solo all’interno dei singoli Stati, ma anche su scala sovranazionale, rifiutando la logica dei nazionalismi: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» è il celebre appello con cui si conclude il Manifesto. Una volta organizzata, la classe operaia profitterà dell’inevitabile crisi del capitalismo – che colpirà per primi i paesi più industrializzati – e assumerà il potere. In una prima fase, questo potere prenderà le forme della dittatura, necessaria per contrastare i prevedibili tentativi di reazione della borghesia e per assicurare il passaggio alla vera società comunista: la società senza privilegi, senza classi, senza proprietà privata e senza Stato, in cui le enormi potenzialità produttive di cui la tecnica umana è capace saranno messe al servizio dell’intera collettività. Ÿ Bandiera di un’organizzazione sindacale tedesca XIX sec. La frase di chiusura del Manifesto del Partito comunista («Proletarier aller Länder, vereinigt euch!», «Proletari di tutti i paesi, unitevi!») diventa subito uno slogan estremamente popolare ed è ricamata su questa bandiera rossa che al centro ha la stretta di mano, simbolo della fratellanza operaia, e il Sole nascente, simbolo del futuro radioso che dissipa le nuvole dell’oppressione.
8 Storia e educazione civica I diritti e le associazioni dei lavoratori, pp. 299
proletariato Nella Roma antica il proletario (in latino proletarius) era il nullatenente, colui che non aveva altra ricchezza che la sua prole e occupava quindi l’ultimo gradino della scala sociale. Il termine “proletariato” – ossia l’insieme, la classe dei proletari – venne introdotto nel linguaggio politico moderno agli inizi dell’800 e, con la diffusione del pensiero socialista, divenne poi di uso comune per definire i lavoratori salariati e le loro famiglie.
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• DEBOLEZZA DEL MOVIMENTO OPERAIO IN EUROPA
Queste proposte e queste indicazioni non trovarono un seguito ampio e immediato in un movimento operaio europeo che era ancora disorganizzato e frammentato e mantennero quindi un inevitabile carattere utopistico. Le rivoluzioni del 1848 [Ź10_8] – scoppiate in coincidenza con l’uscita del Manifesto – se da un lato avrebbero portato in primo piano, soprattutto in Francia, le istanze di una classe operaia sempre meno disposta a subordinare i suoi obiettivi a quelli della borghesia, dall’altro avrebbero rivelato quanto questa classe operaia fosse debole e isolata e quanto la stessa borghesia fosse ancora lontana dall’aver compiutamente realizzato i suoi progetti politici.
La questione operaia •
BORGHESI E PROLETARI Lo sviluppo e la diffusione dell’industria moderna provocarono in tutti i paesi coinvolti in questo processo profonde trasformazioni nella struttura sociale. Al concetto di ceto, legato alla posizione occupata per nascita o al godimento di particolari diritti, si venne sostituendo quello di classe, definito soprattutto in rapporto al ruolo svolto nel processo produttivo in una società che, almeno dal punto di vista formale, tendeva ad assicurare l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L’antagonismo fondamentale che si veniva profilando non era più quello fra l’aristocrazia e il popolo, ma quello fra il borghese, proprietario dei mezzi di produzione, e il proletario, lavoratore salariato, dotato soltanto della forza delle sue braccia e della sua capacità di generare figli, la “prole”.
•
IL CONFRONTO SOCIALE IN GRAN BRETAGNA Nei paesi dell’Europa continentale questo dualismo, fino alla metà dell’800, aveva aspetti marginali. Imprenditori e salariati erano invece protagonisti del confronto sociale in Gran Bretagna. Qui la borghesia svolgeva, già negli anni ’30 e ’40, un ruolo politico di primo piano e una parte della stessa aristocrazia tendeva a farsi imprenditrice; lo sviluppo della grande fabbrica stava concentrando in alcune città industriali una massa operaia sempre più consistente e agguerrita. Nel 1850, i lavoratori impiegati nelle manifatture e nelle fabbriche inglesi erano 3.250.000. Il solo settore tessile impiegava oltre un milione di operai. Per la gran massa dei
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lavoratori dell’industria le condizioni di vita rimanevano estremamente difficili. E il fatto che il lavoro in fabbrica rappresentasse per molti un’alternativa alla fame o alla pubblica carità e che il livello medio delle retribuzioni nell’industria risultasse, nonostante tutto, superiore a quello dei lavoratori agricoli non toglieva nulla alla drammaticità di una condizione tanto dura da apparire inumana anche a molti osservatori contemporanei.
•
Ÿ Emilio Longoni, L’oratore dello sciopero 1891 [Collezione privata, Pisa] Nei diversi paesi europei, il diritto di sciopero e la tutela dei partiti e delle associazioni sindacali sono stati sanciti dalle diverse legislazioni nazionali solo in epoche relativamente recenti. Per tutto l’800, e ancora nei primi decenni del secolo successivo, lo sciopero era ritenuto una manifestazione illegale e la repressione da parte delle forze dell’ordine nei confronti degli scioperanti era una pratica assai diffusa.
LE TRADE UNIONS Da questa realtà derivava da un lato l’impulso delle classi dirigenti a farsi carico in qualche misura – seppur in forme sostanzialmente paternalistiche – degli aspetti più gravi della questione operaia, dall’altro la spinta degli operai stessi ad associarsi fra loro e a ribellarsi alla propria condizione. Quest’ultima era una tendenza favorita dal lavoro in fabbrica e dal fatto di vivere a stretto, continuo contatto gli uni con gli altri. I primi episodi di ribellione contro il sistema di fabbrica avevano assunto, come sappiamo, la forma del luddismo [Ź10_5]. Negli anni ’20 gli operai inglesi, guidati per lo più da leader democratico-radicali, avevano cominciato a sperimentare forme di agitazione pacifica – manifestazioni, comizi, scioperi –, in cui le rivendicazioni economiche si mescolavano a quelle politiche, e avevano lottato per ottenere l’abrogazione di quelle leggi che – in Gran Bretagna come in altri paesi – dichiaravano illegali le associazioni fra i lavoratori e proibivano il ricorso allo sciopero. Da queste lotte – in parte coronate da successo grazie alla legge del 1824 che legalizzava le associazioni operaie – nacquero le prime Trade Unions (“unioni o associazioni di mestiere”), nucleo originario di un movimento sindacale destinato a grandi sviluppi. Nei paesi dell’Europa continentale, il processo di formazione del proletariato di fabbrica e di crescita delle organizzazioni operaie fu naturalmente molto più lento. In Francia e in Germania, attorno alla metà del secolo, gli occupati nell’industria erano circa un quarto della popolazione attiva – mentre già raggiungevano il 50% in Gran Bretagna. E in questa percentuale era compresa una quota consistente di addetti alle tradizionali attività artigiane.
•
LA QUESTIONE OPERAIA Tuttavia, anche nei paesi “secondi arrivati” sulla via dell’industrializzazione, la questione sociale o operaia si venne sempre più imponendo all’attenzione dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti. L’addensarsi di masse proletarie numerose e compatte in alcuni fra i maggiori centri urbani, soprattutto nelle capitali, suscitava ovunque diffuse preoccupazioni di ordine igienico-sanitario, crescenti timori per l’ordine pubblico, ma anche reazioni di tipo moralistico. Nelle periferie operaie dilagavano infatti l’alcolismo e la prostituzione, aumentavano le nascite illegittime, salivano gli indici della criminalità. Si diffondeva fra i ceti urbani benestanti l’equazione fra classi lavoratrici e «classi pericolose». D’altro canto, cresceva il numero di coloro che individuavano nella classe operaia non solo la principale vittima di un ordine sociale ingiusto, ma anche la maggiore protagonista di un processo rivoluzionario destinato a dar vita a un nuovo assetto economico e politico.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
I diritti e le associazioni dei lavoratori Le trasformazioni provocate dalla rivoluzione industriale, con il degrado delle condizioni di lavoro e del tenore di vita delle masse operaie, fecero emergere la cosiddetta “questione sociale” e la conseguente necessità di migliorare le condizioni dei lavoratori. Si sviluppò così, gradualmente, il diritto del lavoro, che comprende il diritto sindacale (esistenza e modalità di azione e contrattazione delle organizzazioni sindacali), la legislazione sui rapporti di lavoro (salari, orario di lavoro, licenziamenti, ecc.) e la previdenza sociale (tutela del lavoratore in caso di infortunio, malattia, disoccupazione, vecchiaia): si parla, a questo proposito, di diritti economico-sociali. All’inizio dell’800 la condizione degli operai era difficile (giornate lavorative che potevano arrivare a 16 ore, assenza di giorni di ferie o di riposo per malattia o gravidanza, salari bassissimi) e precaria (gli imprenditori potevano liberamente licenziare). La reazione a questo tipo di subordinazione fu l’organizzazione sindacale: i lavoratori, infatti, iniziarono a riunirsi in associazioni che, mediante azioni di protesta come gli scioperi, volevano costringere gli im-
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prenditori ad una contrattazione collettiva sui salari e sulle condizioni di lavoro. In Gran Bretagna, negli anni ’70 dell’800 fu legalizzata l’attività del sindacato, che venne sancita come diritto nel 1906. Negli anni successivi, attraverso la contrattazione collettiva, vennero raggiunti molti accordi sui salari e sulla tutela del lavoro femminile e minorile. Con il tempo, il reato di sciopero fu soppresso, anche se i lavoratori che si astenevano dal lavoro continuarono a rischiare il licenziamento. Alla metà del ’900 il diritto allo sciopero era ormai garantito più o meno ovunque, senza possibilità di sanzioni penali o civili (licenziamento, multe) per i lavoratori; ne è un esempio l’articolo 40 della Costituzione italiana, del 1948: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». Oltre ai diritti di associazione e di sciopero e alla fissazione di salari dignitosi («un giusto prezzo per un giusto lavoro»), le principali rivendicazioni del movimento operaio di fine ’800 riguardarono la definizione dell’orario di lavoro giornaliero a otto ore. Gradualmente questo traguardo è stato raggiunto in tutta Europa e oggi l’orario massimo di lavoro è fissato a 48 ore a settimana: in Italia, la legge 196/1997 lo ha ridotto a 40; in Francia, dal 1998 è stato fissato a 35 ore a settimana. Sempre nel corso dell’800, inoltre, ovunque lo Stato ha cominciato a intervenire nei rapporti di lavoro. Inizialmente, l’intervento statale si è limitato alla tutela del lavoro minorile e femminile, ma poi si è esteso a tutti gli aspetti dei rapporti di lavoro: la Costituzione italiana, ad esempio, afferma che il lavoro è un diritto, lo tutela in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), garantisce una giusta retribuzione e il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite (art. 36). In tutti i paesi occidentali, inoltre, lo sviluppo del sindacalismo è andato di pari passo con quello della legislazione sociale, che tutela i lavoratori ammalati, le vittime di infortuni sul lavoro o gli anziani. A livello mondiale, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo), l’agenzia delle Nazioni Unite (Onu) che si occupa di «promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne», ha identificato quattro aree di diritti irrinunciabili dei lavoratori, che dovrebbero essere rispettati da tutti gli Stati membri e dalle imprese multina-
zionali: 1) la libertà di azione sindacale e di contrattazione collettiva; 2) l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato; 3) l’abolizione effettiva del lavoro minorile; 4) l’eliminazione della discriminazione in materia di lavoro e di impiego. Queste dichiarazioni, tuttavia, non sono state in grado di frenare nel mondo contemporaneo gli effetti della globalizzazione dell’economia sui diritti dei lavoratori, che sono sempre più erosi in nome della produttività e della competitività. In Italia, l’industrializzazione, e con essa il sindacalismo, si è sviluppata piuttosto tardi, solo a partire dall’ultimo decennio dell’800. Nel 1889, con il Codice Zanardelli, lo sciopero fu reso legale, mentre le prime leggi a tutela del lavoro femminile e minorile e per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro furono approvate nel 1889 e nel 1904. Durante il regime fascista furono varate leggi sull’orario di lavoro, sul riposo settimanale e sull’assicurazione per l’invalidità, la vecchiaia e le malattie (1933) ma molte delle conquiste realizzate nei decenni precedenti (a cominciare dal diritto di sciopero) furono cancellate. Il Codice civile del 1942 stabiliva inoltre la piena libertà di licenziamento. Nel secondo dopoguerra, furono emanate importanti leggi a tutela dei lavoratori, come quella sul divieto di licenziamento delle donne a causa di matrimonio nel 1963, e, nel 1965, quella sugli infortuni e le malattie professionali e quella sulle pensioni. Il 20 maggio 1970 fu approvato lo Statuto dei lavoratori (legge 300), che prevede, tra l’altro, un giustificato motivo per i licenziamenti nelle imprese con più di 15 dipendenti (art. 18, poi reso più flessibile nel 2015). A partire dagli anni ’80, anche in Italia – come nei paesi anglosassoni – si è cominciato a parlare della possibilità di deregolamentare i rapporti di lavoro e, di fatto, molti passi in questa direzione sono stati compiuti con il crescente ricorso al lavoro degli immigrati clandestini (spesso sottoposti a dure condizioni di sfruttamento, soprattutto nel settore agricolo) e a quello “parasubordinato” o precario, in gran parte non tutelato dalle normative sul lavoro. Queste nuove forme di lavoro rendono difficile ogni rivendicazione da parte dei precari, che rischiano spesso il mancato rinnovo del contratto, non di rado valido solo per pochi mesi. Anche la situazione dei lavo-
Ż James Sharples, Tessera del sindacato dei metallurgici 1852 ca. [Trade Unions Congress, Londra] Le prime associazioni dei lavoratori nacquero in Inghilterra e presero il nome di Trade
Unions. Da questi primi nuclei ebbe origine il movimento sindacale che conosciamo ancora oggi. La figura mostra la tessera del sindacato degli operai metallurgici realizzata su disegno di James Sharples, egli stesso operaio.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO ratori subordinati è tuttavia peggiorata: se da un lato, già con la legge 146 del 1990, è stato limitato lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, dall’altro anche la contrattazione collettiva (il rapporto tra un datore di lavoro – o un gruppo di datori di lavoro – e una o più organiz-
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zazioni di lavoratori, allo scopo di stabilire salari minimi e condizioni di lavoro alle quali dovranno attenersi i singoli contratti individuali) e la rappresentanza sindacale stanno perdendo valore. Si sta tornando, infatti, alla contrattazione aziendale o individuale e, in alcuni casi
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(ad esempio, in alcuni stabilimenti della Fiat nel 2010-11 e in decine di imprese più piccole), importanti piani di ristrutturazione aziendale che prevedono limitazioni di diritti sindacali sono stati imposti dalle imprese nonostante la dura opposizione di una parte dei lavoratori.
Lavora sul testo 1 Leggi la scheda e rispondi sul quaderno ai seguenti quesiti. Ɣ Indica quali furono le principali rivendicazioni operaie di fine ‘800 a tutela delle quali i nascenti sindacati lottarono. Ɣ Completa la tabella sulla legislazione sul lavoro in Italia dal 1889 al 1990. L’esercizio è già avviato. Data
Fonte (ove specificata)
Oggetto
1889
Codice Zanardelli
Legalizzazione dello sciopero
1889
.................................................................................................
1904
.................................................................................................
1963
.................................................................................................
1965
.................................................................................................
1970
Statuto dei lavoratori (legge 300)
.................................................................................................
1990
Legge 146
.................................................................................................
La tutela del lavoro nella Costituzione italiana 2 Negli articoli dal 35 al 40 della Costituzione italiana è dedicato ampio spazio alla tutela del lavoro, con particolare attenzione a quello subordinato. Questo accade in considerazione del fatto che i lavoratori dipendenti versano in una situazione di maggiore debolezza sociale rispetto ad altre categorie di lavoratori e, quindi, della necessità che lo Stato li protegga con specifici provvedimenti. I principali diritti costituzionali dei lavoratori sono: Ɣ Art. 35: La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme al bambino una speciale adeguata protezione. [...] ed applicazioni. [...] Ɣ Art. 38: [...] I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed Ɣ Art. 36: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia involontaria. [...] un’esistenza libera e dignitosa. Ɣ Art. 39: L’organizzazione sindacale è libera. [...] Ɣ La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla Ɣ I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, legge. rappresentati unitariamente in proporzione dei loro Ɣ Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia retribuite, e non può rinunziarvi. obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce. Ɣ Art. 37: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le Ɣ Art. 40: Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della leggi che lo regolano. sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e Leggi con attenzione gli articoli costituzionali, cerchia le parole chiave, sintetizza il contenuto in una mappa concettuale dal titolo Tutela del lavoro subordinato (artt. 35-40 Cost.) che utilizzerai come timone per un’esposizione orale.
Cosa fa nel concreto l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO)? 3 Come abbiamo imparato, l’Ilo è l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di «promuovere il lavoro dignitoso e produttivo in condizioni di libertà, uguaglianza, sicurezza e dignità umana per uomini e donne». I suoi principali obiettivi sono: promuovere i diritti dei lavoratori, incoraggiare l’occupazione in condizioni dignitose, migliorare la protezione sociale e rafforzare il dialogo sulle problematiche del lavoro. Per saperne di più sui quattro obiettivi strategici che costituiscono l’asse portante del cosiddetto ‘’lavoro dignitoso’’, vai sul sito istituzionale dell’Ilo; nel menu a sinistra clicca su “Norme internazionali del lavoro”: si aprirà una tendina con l’elenco dei quattro obiettivi strategici. Clicca su di essi, leggi il contenuto e realizza un PowerPoint informativo in cui evidenziare i punti salienti di ciascuna azione
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C 9 Politica, società e cultura nell’800 RICORDARE L’ESSENZIALE Stato moderno e istituzioni politiche Uno dei grandi lasciti del periodo napoleonico all’Europa continentale fu il modello di Stato burocratico-amministrativo. Lo Stato divenne sempre più efficiente dotandosi di un personale burocratico e tecnico e utilizzando i dati prodotti dalla nuova scienza statistica, come i censimenti. La Rivoluzione francese aveva trasformato i sudditi in cittadini e questo processo fu esteso a tutto il continente. La sovranità non apparteneva più al sovrano, ma al popolo e ai suoi rappresentanti. Nacquero i sistemi politici rappresentativi e la Costituzione divenne la carta fondamentale dei nuovi diritti. Due furono le forme di governo in cui i regimi rappresentativi trovarono espressione: costituzionale e parlamentare. E il dibattito sui sistemi elettorali animò gli aderenti alle due grandi ideologie: il liberalismo, sostenitore del suffragio ristretto, e la democrazia, che sosteneva quello universale. Romanticismo, nazione e nazionalismi Nei primi decenni dell’800 si diffuse in tutta Europa la cultura romantica. Il Romanticismo segnava un mutamento profondo rispetto alla cultura e alla mentalità illuminista, perché esaltava la spontaneità del sentimento, la libertà, la rottura delle norme consolidate e, al contempo, i valori della tradizione e della nazione, guardando con nuovo interesse alla storia. Il Romanticismo influenzò profondamente la società europea, cambiandone il costume, il modo di pensare e la sensibilità, e costituì anche la premessa delle battaglie liberali e democratiche dell’epoca, stimolando, con il culto del passato e dei valori nazionali, lo sviluppo del nazionalismo. L’idea moderna di nazione nacque con Rousseau e con la sua concezione dello Stato come espressione di una comunità di cittadini capace di esprimere una volontà comune. Ma fu soprattutto la cultura romantica tedesca a scoprire la nazione, a esaltarla in quanto comunità “naturale”, unita da legami indissolubili di lingua, di cultura e di sangue. Si formarono così due tradizioni distin-
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Audiosintesi per paragrafi
te: un nazionalismo democratico e un nazionalismo conservatore. Le ideologie dell’ottocento Il liberalismo si caratterizzava per l’adesione al sistema monarchico-parlamentare a suffragio censitario (il modello britannico), oltre che per il rispetto del diritto di proprietà, dell’iniziativa privata e del libero mercato. Di contro, i democratici aspiravano alla repubblica parlamentare a suffragio universale come unica espressione legittima della volontà popolare. Ma le due correnti si trovavano vicine nella comune lotta per la Costituzione, il Parlamento elettivo e la garanzia delle libertà fondamentali. Il rapporto tra liberalismo e democrazia fu al centro della riflessione di due pensatori politici del tempo; l’inglese John Stuart Mill e il francese Alexis de Tocqueville. Mill riteneva che il liberalismo dovesse dare una risposta alle nuove esigenze di giustizia sociale e di partecipazione politica; Tocqueville sosteneva invece l’inevitabilità dell’avvento della democrazia, ma denunciò i rischi di appiattimento e di autoritarismo che tale avvento avrebbe comportato. Per quanto concerne il pensiero cattolico, questo si attestò su posizioni di radicale rottura con gli ideali liberali e democratici. Non mancarono, tuttavia, anche cattolici schierati su posizioni progressiste. Le prime formulazioni di un cattolicesimo liberale si ebbero in Francia a opera di un gruppo di intellettuali raccolti attorno all’abate Lamennais. Per i cattolici liberali lo Stato doveva non solo rispettare i diritti della Chiesa, ma anche mantenere un carattere cristiano alla sua legislazione, assicurando piena libertà alle altre confessioni religiose. Alcuni cattolici progressisti cercarono di trasferire il loro impegno sul terreno sociale. Pioniere di questo nuovo cattolicesimo sociale fu il francese Antoine-Frédéric Ozanam, fondatore della Società di San Vincenzo de’ Paoli, che riuniva per fini caritativi e assistenziali numerosi esponenti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia. Il pensiero socialista e il movimento operaio I primi decenni del secolo videro un grande sviluppo del pensiero sociali-
sta. L’industriale inglese Robert Owen ebbe un ruolo di rilievo nell’organizzazione del movimento operaio. Più articolato fu lo sviluppo delle teorie socialiste in Francia. Se il pensiero di Fourier si qualificava in senso chiaramente utopista e anti-industriale, quello di Saint-Simon si legava invece a una piena accettazione della realtà dell’industrialismo. Più radicale la visione di Blanqui, il primo a teorizzare la dittatura del proletariato come unico mezzo per abbattere il sistema borghese. Su posizioni molto diverse si collocava, invece, il pensiero di Blanc, che, sostenendo l’importanza del ruolo dello Stato, fu per certi versi il capostipite del socialismo riformista. Ancora diverse le posizioni di Proudhon, che condannava la proprietà privata come un furto e sosteneva iniziative politiche anarchiche. La principale novità, nel panorama delle teorie socialiste, fu la formulazione del socialismo «scientifico» a opera di Marx ed Engels. Nucleo fondamentale del loro pensiero, già presente nel Manifesto del Partito comunista (1848), fu la concezione materialistica della storia, concepita nei termini della lotta di classe, e la sottolineatura del ruolo rivoluzionario che il proletariato era destinato a svolgere, facendo leva sulle contraddizioni del capitalismo per abbattere la società borghese e fondare la nuova società comunista, senza privilegi, senza classi, senza proprietà privata e senza Stato. Nelle aree di diffusione dell’industria moderna si sviluppò la classe operaia, costituita dai lavoratori salariati e dalle loro famiglie. Le condizioni di vita degli operai di fabbrica erano estremamente pesanti e favorirono la spinta a raccogliersi in associazioni e a ribellarsi. Nei paesi più industrializzati cominciò così a delinearsi una nuova contrapposizione tra gli operai salariati e i borghesi proprietari dei mezzi di produzione. Furono gli operai britannici a ottenere per primi una legge che legalizzava le associazioni operaie (1824), e sempre in Gran Bretagna nacquero le prime associazioni di operai, le Trade Unions. La «questione operaia» era destinata a imporsi sempre più all’attenzione dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti.
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VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
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Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Con la diffusione dell’industria moderna, il concetto di classe prese il posto di quello di ceto. b. Il cattolicesimo liberale sosteneva la possibilità di una coesistenza tra i valori della religione e le libertà costituzionali e si affermò inizialmente in Germania. c. Poiché nel programma dei cattolici liberali era previsto che lo Stato dovesse rispettare i diritti della Chiesa, esso era ben accetto dai vertici ecclesiastici. d. Il cattolicesimo sociale nacque quando, con l’avvento della questione operaia, una parte dei cattolici liberali si impegnò anche sul terreno sociale.
e. Con la diffusione dell’industria moderna, la contrapposizione sociale fondamentale divenne quella fra borghesia e proletariato. f. Il socialismo aveva come nucleo centrale l’idea che per combattere le ingiustizie fossero sufficienti opere di carità e di filantropia. g. Saint-Simon teorizzò l’avvento di una nuova società governata dai tecnici e dai produttori nell’interesse della collettività. h. Il socialismo teorizzato da Marx ed Engels era nuovo rispetto a quello utopistico. i. Secondo la teoria socialista di Marx, ed Engels, il proletariato doveva organizzarsi solo all’interno del proprio Stato.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. I princìpi politici del liberalismo difendevano gli interessi... a. della sovranità popolare. b. dei ceti oppressi. c. della borghesia. 2. La posizione ufficiale della Chiesa nei confronti della tradizione illuminista fu... a. schierata su posizioni progressiste o addirittura rivoluzionarie. b. inizialmente di rottura. c. favorevole nel quadro delle libertà costituzionali.
3. Il Romanticismo... a. affermava la priorità dei valori universali rispetto a quelli nazionali. b. cambiò il costume, il modo di pensare e la sensibilità in Europa. c. esaltava l’idea di futuro e di progresso. 4. Secondo Pierre-Joseph Proudhon, «la proprietà è... a. il «bene comune». b. «un furto». c. Una forma di dominio dello Stato.
3 Completa la mappa concettuale relativa all’idea di nazione e alle correnti nazionalistiche che si affermarono in Europa, inserendo le seguenti affermazioni. Democratica • volontà comune • patriottico • poco sentita e poco definita • internazionale • democratica • Stato nazionale autoritario • naturalistica • superiorità • Rivoluzione • legittimità Idea di nazione
fino alla fine del ’700: era .........................
nella cultura romantica tedesca si affermò la concezione: .........................................................
con Rousseau: coincideva con l’espressione di un popolo ed era capace di esprimere una ...................................................................... Concezione: .........................................................
Il movimento nazionale
in Polonia, Grecia, Ungheria e Italia
assunse un carattere ......................., rivoluzionario e uno sguardo ........................................................
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in Germania
in Francia
affermava la ............................. dei tedeschi sugli altri popoli; proponeva la creazione di uno ............................ e poco attento ai diritti individuali.
aveva una corrente ......................
aveva una corrente cattolica, che rivendicava la “......................” del potere dei sovrani deposti con la .............................................
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4 Completa la e tabella inserendo, ove possibile, le relative informazioni. Quindi scrivi un testo argomentativo partendo dalle risposte alle seguenti domande: a. A quale ceto sociale appartengono i socialisti di cui hai raccolto informazioni? b. Quali, tra loro, definiresti comunisti? c. In quali paesi europei vivono e agiscono questi leader del movimento socialista? d. Quali sono le esigenze e condizioni storiche a cui cercano una risposta?
QUANDO È VISSUTO?
QUALI ERANO LE SUE ORIGINI? CHE PROFESSIONE HA SVOLTO?
HA SCRITTO OPERE IMPORTANTI? QUALI?
QUALI SONO I PRINCÌPI FONDATIVI DEL SUO PENSIERO?
HA PARTECIPATO ATTIVAMENTE ALLA POLITICA? IN CHE MODO?
Robert Owen
C.-H. de Saint- Simon
Charles Fourier
Auguste Blanqui
Louis Blanc
P-J. Proudhon
Friedrich Engels e Karl Marx
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5 Inserisci nei due insiemi i seguenti termini, distinguendo quelli che afferiscono al pensiero liberale da quelli che afferiscono al pensiero democratico. Quindi, argomenta le tue scelte. Attento, alcuni termini potrebbero riferirsi a entrambi. a. sovranità popolare;
i. libertà di stampa;
b. tolleranza;
l. suffragio universale maschile;
c. libertà di opinione;
m. Costituzione;
d. repubblica;
n. monarchia costituzionale britannica;
e. principio rappresentativo;
o. tutela della proprietà;
f. divisione dei poteri;
p. tutela del libero commercio;
g. bene comune;
q. diritti individuali;
h. dell’individuo nei confronti dell’autorità;
r. Parlamento elettivo.
ensiero liberale 1. P
ro democra ensie tico 2. P
6 Scrivi un testo breve sulla concezione dello Stato nel primo ’800 utilizzando la seguente scaletta: a. I compiti dello Stato secondo il liberalismo b. La tradizione illuminista e l’idea di Stato c. Il ruolo dei cattolici in politica nel pensiero dell’epoca d. Le principali divisioni in merito al ruolo dello Stato nel movimento socialista
COMPETENZE IN AZIONE 7 Collega i personaggi della colonna di sinistra alla corrispondente definizione dell’idea di nazione o di Stato nazionale, nella colonna di destra. Quindi scrivi un testo che abbia come titolo L’idea di nazione, argomentando le quattro definizioni e utilizzando tutte le immagini pertinenti presenti nel capitolo. a. Rousseau
1. comunità di sangue e di cultura
b. Fichte
2. entità organica e gerarchica
c. Hegel
3. espressione di un popolo
d Mazzini
4. superiorità intellettuale e morale
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C10 Dalla Restaurazione alle rivoluzioni in Europa EXTRA ONLINE
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Focus La Carboneria • Intellettuali e rivoluzioni • Le Corn Laws • Le barricate
Lezioni attive La Restaurazione. Politica, miti e spirito del tempo
La Restaurazione e la nuova carta d’Europa •
UN PROGRAMMA IRREALIZZABILE
Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, le potenze europee si accordarono per la ricostituzione del vecchio ordine, infranto prima dall’ondata rivoluzionaria poi dalle conquiste delle armate francesi: iniziava l’età della Restaurazione, in primo luogo dei sovrani spodestati, ma anche delle gerarchie sociali tradizionali, degli ordinamenti prerivoluzionari, dei modi di governare tipici dell’ancien régime. Il progetto ottenne alcuni iniziali successi politici, ma ben presto mobilitazioni rivoluzionarie e indipendentistiche avrebbero preso il sopravvento. I cambiamenti intervenuti nelle istituzioni e le nuove spinte di una società in mutamento avrebbero dimostrato che si trattava di un progetto velleitario. Impossibili da rimuovere erano i risultati ottenuti sul piano della certezza del diritto e dell’uguaglianza formale fra i cittadini, ma anche su quello dell’organizzazione burocratica e della razionalizzazione delle attività economiche. Tutto ciò rispondeva alle aspirazioni e ai bisogni di una borghesia – della proprietà terriera e delle professioni, del commercio e dell’industria – che aveva acquisito una nuova consapevolezza del suo ruolo nella società.
• IL CONGRESSO DI VIENNA Il terreno su cui la volontà restauratrice si manifestò con maggior decisione e con risultati più evidenti fu certamente quello dei rapporti internazionali, che furono definiti dal congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815) il più affollato consesso di sovrani e governanti che mai si fosse visto in Europa. Le decisioni più importanti, tuttavia, vennero prese tra i delegati delle quattro maggiori potenze vincitrici: Gran Bretagna, Russia,
STORIA IMMAGINE Il grande Congresso della Pace a Vienna nel 1814 [Bibliothèque Nationale, Parigi] In questa stampa i principi si affollano intorno al tavolo per definire in maniera precisa, con l’aiuto di mappamondi, squadre e compassi, i nuovi confini d’Europa. Al centro, l’imperatore d’Austria affiancato alla sua destra dal sovrano di Prussia e dal rappresentante inglese (seduto) e alla sinistra dallo zar di Russia e dal cancelliere Metternich, di profilo in uniforme bianca.
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LO SPAZIO DELLA STORIA
Prussia, Austria. Il ministro degli Esteri austriaco Metternich fu l’autentico regista dei lavori. Ma in questo gruppo riuscì a inserirsi anche il rappresentante della Francia sconfitta, Talleyrand, già ministro degli Esteri negli anni della Rivoluzione e dell’Impero. Uomo di grande abilità, Talleyrand riuscì a far valere a vantaggio del suo paese il principio di legittimità*: il principio, cioè, in base al quale dovevano essere anzitutto restaurati i diritti “legittimi” violati dalla Rivoluzione e, dunque, anche quelli dei Borbone di Francia. Era, del resto, interesse delle stesse potenze vincitrici fare della Francia monarchica un pilastro del nuovo equilibrio conservatore piuttosto che rischiare, umiliandola, di creare il terreno propizio per nuovi esperimenti rivoluzionari. Per questo motivo la Francia non subì alcuna amputazione rispetto alle frontiere del 1791.
• IL NUOVO ASSETTO EUROPEO Scopo degli statisti riuniti a Vienna era infatti non solo cancellare le conseguenze degli eventi rivoluzionari dell’ultimo venticinquennio, ma anche evitarne il ripetersi, costruendo un equilibrio il più possibile solido e duraturo. Il nuovo assetto territoriale fu realizzato senza il minimo riguardo per i princìpi di nazionalità, ma comportò ugualmente una certa razionalizzazione della geografia politica europea in relazione ai rapporti di forza che si erano consolidati nelle guerre antinapoleoniche. Fu confermata l’abolizione del Sacro romano impero, che era stato cancellato da Napoleone nel 1806, mentre i mutamenti più importanti rispetto alla situazione prerivoluzionaria si verificarono nel Centro e nel Nord dell’Europa. La Russia si espanse verso occidente, occupando la Finlandia e buona parte della Polonia. Anche la Prussia si ingrandì a ovest, annettendo una serie di territori nella zona del Reno che si sarebbero poi rivelati di decisiva importanza L’EUROPA NEL 1815
23 REGNO DI NORVEGIA
REGNO DI SVEZIA
legittimismo Il termine “legittimismo” risale al congresso di Vienna, dove i rappresentanti della Francia sconfitta, per difendere l’integrità territoriale del loro paese, si richiamarono al “principio di legittimità”, come base per l’assetto europeo. La legittimità a cui ci si riferiva era quella dinastica, fondata sul diritto divino dei sovrani, contrapposta, nel pensiero dei teorici della Restaurazione, a quella rivoluzionaria, che invece vedeva nella volontà popolare l’unica fonte del potere. Furono definiti legittimisti tutti coloro che difendevano i diritti delle antiche dinastie, se violati da eventi rivoluzionari o da vere e proprie usurpazioni; e, più in generale, coloro che si battevano per il ritorno ai princìpi e alle gerarchie sociali dell’antico regime e all’assolutismo monarchico.
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Christiania
REGNO DI GRAN BRETAGNA E IRLANDA Londra OCEANO ATLANTICO
REGNO DI D A
MARE DEL NORD
MARCA NI
Stoccolma
San Pietroburgo
Mosca
IMPERO RUSSO Berlino
REGNO DEI PAESI BASSI
Varsavia
REGNO DI PRUSSIA Parigi
Kiev
Praga
REGNO DI FRANCIA
Monaco Vienna
IMPERO D’AUSTRIA LOMBARDOVENETO Torino Milano REGNO DI SARDEGNA STATO DELLA CHIESA Roma SVIZZERA
REGNO DEL PORTOGALLO Lisbona
Madrid
REGNO DI SPAGNA
REGNO Napoli DI SARDEGNA
REGNO DELLE DUE SICILIE
Bucarest
MAR NERO
Sofia Istanbul IMPE RO OTTO MAN O Atene
MAR MEDITERRANEO
confini della Confederazione germanica
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C10 Dalla Restaurazione alle rivoluzioni in Europa
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economica. Gli Stati tedeschi si ridussero drasticamente di numero e furono riuniti in una Confederazione germanica, la cui presidenza era tenuta dall’imperatore d’Austria. Il Belgio e il Lussemburgo, uniti all’Olanda, formarono il Regno dei Paesi Bassi. Nessun mutamento di rilievo si ebbe nella penisola iberica, né nei Balcani. La Gran Bretagna non accampò pretese territoriali sul continente, ma si preoccupò di assicurare in Europa [Ź _23] un equilibrio tale da impedire l’emergere di nuove ambizioni egemoniche.
• L’IMPERO ASBURGICO E L’ITALIA L’Impero asburgico, sotto l’abile guida di Metternich, si affermò come il fulcro dell’equilibrio continentale ed ebbe riconosciuto anche un ruolo egemone sull’intera penisola italiana, riportata, con poche varianti, alla situazione precedente alle guerre napoleoniche. Gli austriaci ottennero non solo la sovranità sul Lombardo-Veneto, ma stabilirono anche una serie di legami militari e dinastici con gli altri Stati della penisola,
F
LEGGERE LE FONTI
Klemens W.L. Metternich, Libertà e ordine da R. Romeo, G. Talamo, Documenti storici, III. L’età contemporanea, Loescher, Torino 1972, pp. 18-21 Forma di governo nella quale il potere si concentra nelle mani di una sola persona o di una cerchia ristretta, i quali lo esercitano in modo arbitrario e personalistico.
Cura di ogni male.
Klemens Wenzel Lothar principe di Metternich (1773-1859), ministro degli Esteri austriaco fra il 1809 e il 1848, fu uno dei maggiori artefici della Restaurazione. I princìpi basilari della politica metternichiana
Ho sempre considerato il dispotismo, qualunque fosse, come un sintomo di debolezza. Là dove esso si mostra, è un male che trova in se stesso la sua punizione; ma è funesto soprattutto quando si maschera col nome di progresso della libertà! [...] La parola libertà ha per me, non il significato di un punto di partenza, ma quello di un effettivo punto di arrivo. Il punto di partenza è significato dalla parola ordine. Il concetto di libertà può basarsi soltanto sul concetto di ordine. Senza una base di ordine l’aspirazione alla libertà non è altro che la tendenza di un qualsiasi partito verso uno scopo che si è fissato. Nella sua applicazione effettiva questa aspirazione necessariamente si risolverà in tirannide. Poiché in tutti i tempi, in tutte le situazioni, io sono sempre stato propugnatore dell’ordine, le mie aspirazioni erano rivolte alla libertà vera e non a quella ingannevole. La tirannia di qualsiasi genere ha, ai miei occhi, soltanto il significato di mera assurdità; come fine a se stessa io la definisco come la cosa più vuota che il tempo e le circostanze possano mettere a disposizione dei regnanti. L’idea di ordine, considerata dal punto di vista della legislazione, fondamento dell’ordine, è suscettibile delle più diverse applicazioni, a seguito delle condizioni a cui è soggetta la vita degli Stati. Considerato come «costituzione», l’ordine migliore per uno Stato sarà quello che risponde alle condizioni materiali e morali che determinano il carattere nazionale. Non v’è ricetta universale in materia di costituzioni, come non v’è una panacea nell’ordine fisico. [...] Che le costituzioni abbiano una influenza importante sulla formazione dello spirito nazionale è una verità incontestabile. Il rovescio di questa verità è che una costituzione deve essere il prodotto di questo sentimento, e non il prodotto di uno spirito inquieto e, come tale, passeggero.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nel documento il cancelliere austriaco Metternich afferma che «il concetto di libertà può basarsi soltanto sul concetto di ordine». Chiarisci il significato e le ragioni di questa posizione.
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sono espressi in questo brano, tratto da una raccolta di riflessioni e note autobiografiche scritte fra il 1849 e il 1855, dopo il suo forzato ritiro dalla vita pubblica, e pubblicate nel 1883.
b Quali conseguenze possono determinarsi nella vita politica se viene meno il legame tra l’ordine e l’aspirazione alla libertà?
L’ideale politico di Metternich è quello della monarchia di stampo conservatore nella quale il potere sovrano ottiene il sostegno dei ceti sociali dominanti. Per questo motivo il dispotismo gli appare come un «male funesto» in particolare nella forma del giacobinismo ovvero una tirannide mascherata sotto le insegne della rivoluzione e della libertà.
c Individua e spiega il valore politico e la funzione storica che Metternich assegna alle Costituzioni giuridiche degli Stati.
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24 IMPERO D’AUSTRIA
SVIZZERA
REGNO DI SARDEGNA
Torino
RE
GN
O LO
Milano
-V MBARDO
EN
ET
O
Trieste
Venezia
O IM TT P O ER M O A N O
DUCATO DI PARMA
DUCATO DI MODENA
Nizza
Firenze SSA MA A DI C . C C LU DU DI GRANDUCATO C. DU DI TOSCANA
CORSICA (fr.)
REP. DI S. MARINO
DE STAT LLA O CH IES A
Nell’Italia del 1815 il Regno Lombardo-Veneto univa sotto il dominio asburgico il Ducato di Milano (austriaco dal 1713) e la Repubblica di Venezia. Il Granducato di Toscana era tornato invece a Ferdinando III di Lorena, fratello di Francesco I d’Austria. A Maria Luisa, ex imperatrice dei francesi e figlia di Francesco I, era stato assegnato il Ducato di Parma e Piacenza, mentre il Ducato di Modena e Reggio era andato a Francesco IV d’Asburgo-Este. I Ducati di Massa e Lucca passarono rispettivamente a Modena (nel 1829) e alla Toscana (nel 1847). Lo Stato della Chiesa venne reintegrato nei suoi vecchi confini, consentendo però all’Austria di mantenere guarnigioni a Ferrara e Comacchio.
L’ITALIA NEL 1815
REGNO DI FRANCIA
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MAR ADRIATICO
RE GN O
Roma
LIE ICI ES DU
REGNO DI SARDEGNA
D
LE EL
Napoli
MAR TIRRENO
Palermo
MAR IONIO
domìni dei Savoia domìni dei Borbone egemonia austriaca
fra cui il Regno di Napoli, ricostituito sotto la dinastia dei Borbone e ribattezzato Regno delle Due Sicilie. L’unico tra gli Stati italiani a mantenere una certa autonomia rispetto all’Impero asburgico fu il Regno di Sardegna, ingranditosi con l’acquisto di alcuni territori della Savoia e soprattutto di una regione ricca e popolosa come la Liguria [Ź _24].
•
LE NUOVE ALLEANZE A presidio di questi assetti furono varate due alleanze: la prima fu la Santa alleanza, nata nel settembre 1815 da un’iniziativa dello zar Alessandro I, cui aderirono anche l’imperatore d’Austria e il re di Prussia. Si trattava di una sorta di alleanza personale fra i tre sovrani, il cui testo era ricco di riferimenti alla religione cristiana. Alla Santa alleanza aderirono successivamente molti altri Stati europei, fra cui la Francia. Non vi aderì invece la Gran Bretagna, che giudicò il testo dell’alleanza inutile riguardo agli effetti pratici e che, nel novembre dello stesso anno, propose un secondo accordo alle potenze vincitrici (Austria, Russia e Prussia), la cosiddetta Quadruplice alleanza: i quattro contraenti si impegnavano a vigilare contro possibili tentativi di rivincita da parte della Francia e a intervenire contro ogni minaccia all’equilibrio europeo.
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LA RESTAURAZIONE
CHI?
DOVE E QUANDO?
Austria, Gran Bretagna, Russia, Prussia...
Congresso di Vienna
...e Francia
COSA E PERCHÉ?
Riportare l’Europa alla situazione prerivoluzionaria
1814-15 Restaurazione dei sovrani e degli ordinamenti dell’ancien régime
COME?
Principio di legittimità
CON QUALI CONSEGUENZE?
Nuovo assetto europeo Francia: nei confini del ’91
Equilibrio dei rapporti di forza internazionali
Confederazione di Stati tedeschi Regno dei Paesi Bassi (Olanda, Belgio e Lussemburgo) Egemonia asburgica in Italia
Questo sistema di alleanze dava vita a una sorta di direttorio che aveva il compito di risolvere pacificamente eventuali contrasti fra Stato e Stato. Nasceva così quello che fu chiamato il concerto europeo, ossia un dialogo costante fra le grandi potenze che contribuì a ridurre le tensioni sul continente e ad assicurare all’Europa un quarantennio di pace.
Il ritorno all’ordine e i limiti 2 della Restaurazione Sul piano politico, dopo la gran ventata rivoluzionaria e napoleonica si ebbe, quasi ovunque in Europa, un assestamento degli equilibri interni in senso conservatore, sostenuto anche dall’alleanza tra i sovrani e il potere religioso delle Chiese.
• IN GRAN BRETAGNA Persino in Gran Bretagna, il paese in cui le istituzioni parlamentari erano nate, gli anni successivi al 1815 videro il prevalere dell’ala destra del partito conservatore: quella che aveva la sua base nell’aristocrazia terriera e nell’alto clero anglicano. Il dominio della destra tory si tradusse in una politica volta a favorire gli interessi della grande proprietà terriera, attraverso l’imposizione di un forte dazio di importazione sul grano, che proteggeva la produzione interna e manteneva elevati i prezzi al consumo. Questa politica sacrificava gli interessi dell’industria esportatrice – che costituiva da tempo la vera base della potenza economica britannica – e inaspriva le tensioni sociali, alzando il costo della vita. Si ebbero infatti in questi anni numerose agitazioni operaie, sempre duramente represse, come nel caso del “massacro di Peterloo” a Manchester nel 1819. •
IN SPAGNA E NELL’EUROPA DEL NORD La Restaurazione assunse forme particolarmente dure in Spagna, dove il re Ferdinando VII si affrettò ad abrogare la Costituzione di Cadice del 1812 [Ź7_12] e mise in atto una durissima repres-
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sione nei confronti delle correnti liberali. Regimi a base parzialmente rappresentativa (con Parlamenti eletti a suffragio ristretto e dotati di poteri assai limitati) furono invece mantenuti nel Regno dei Paesi Bassi e in alcuni Stati della Confederazione germanica, oltre che in Svezia, Danimarca e Svizzera.
• IN FRANCIA Il caso più interessante per i legami col passato e per gli sviluppi futuri fu quello della Francia. Appena insediato sul trono, nel giugno 1814, il nuovo re Luigi XVIII aveva concesso una Costituzione, ma si preferì chiamarla col nome generico di Carta, che proclamava l’uguaglianza di tutti i francesi davanti alla legge, garantiva le libertà fondamentali (di opinione, di stampa e di culto) e prevedeva un Parlamento bicamerale, composto da una Camera dei pari di nomina regia e da una Camera dei deputati elettiva. Il limitato contenuto liberale della Carta era ulteriormente diminuito sia dagli scarsi poteri di cui godeva la Camera dei deputati, sia dal carattere restrittivo della legge elettorale, che legava il diritto di voto all’età (30 anni) e al livello di reddito: in pratica godevano di tale diritto non più di 100 mila cittadini. Nonostante ciò, la Francia “restaurata” era pur sempre uno dei pochi regimi costituzionali esistenti in Europa. Vi furono inoltre mantenute molte delle più importanti innovazioni del periodo napoleonico – dal Codice civile all’ordinamento amministrativo, al sistema scolastico statale – e soprattutto fu garantita l’inviolabilità di tutte le proprietà vecchie e nuove, comprese dunque quelle derivate dall’acquisto di terre confiscate alla nobiltà e al clero. La moderazione del re scontentava naturalmente i legittimisti più intransigenti, soprattutto quei nobili emigrati che, rientrati in patria, si aspettavano di tornare interamente in possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi feudali. • IN ITALIA In Italia, la restaurazione dei vecchi Stati e delle vecchie dinastie comportò un arresto del processo di sviluppo civile e politico che si era avviato durante il periodo francese. Nel Regno sabaudo il re Vittorio Emanuele I abrogò in blocco la legislazione napoleonica, epurò drasticamente la pubblica amministrazione, ristabilì il controllo della Chiesa sull’istruzione e riportò in vigore le discriminazioni contro le minoranze religiose (ebrei e valdesi). Nello Stato della Chiesa la relativa moderazione di papa Pio VII fu presto sconfitta dalla linea di pura restaurazione teocratica sostenuta dall’ala intransigente del collegio cardinalizio e dalla Compagnia di Gesù (ricostituita nel 1814). Nel Regno di Napoli la legislazione antifeudale fu mantenuta ed estesa anche alla Sicilia. Lo Stato fu unificato dal punto di vista amministrativo, quando assunse nel STORIA IMMAGINE Merry-Joseph Blondel, La Francia, al centro fra re legislatori e giureconsulti francesi, riceve da Luigi XVIII la Carta costituzionale 1827 [Musée du Louvre, Parigi] Al di sopra di un gruppo di personaggi che rappresentano i re francesi, Luigi XVIII assiso in trono e accompagnato dalle personificazioni di Giustizia
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e Prudenza porge la Carta costituzionale alla Francia, che si inchina. In alto vola Minerva, la dea della conoscenza e della saggezza, mentre a sinistra c’è Enrico IV e a destra Luigi XIV. In basso la personificazione della Carta regge un codice di giustizia e le tavole della Legge, che proteggono il sonno del bambino, a indicare la raggiunta sicurezza del cittadino.
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1816 il nuovo nome di Regno delle Due Sicilie: un’opera di cauta razionalizzazione, che però, oltre a suscitare la protesta autonomistica della nobiltà siciliana, non comportò alcuna liberalizzazione in campo politico e culturale né alcun inizio di modernizzazione economica. Da questo punto di vista, le cose andavano meglio nei territori direttamente amministrati dall’Austria e negli Stati minori del Centro-Nord – Granducato di Toscana, Ducati di Parma e Modena – da essa controllati. In Toscana, il governo del granduca Ferdinando III si riallacciò alla miglior tradizione dell’assolutismo illuminato. Particolari cure furono dedicate al progresso dell’agricoltura, sempre caratterizzata dalla prevalenza della mezzadria [Ź1_3]. Qualche segno di apertura politico-culturale poté svilupparsi in un clima di relativa tolleranza: la rivista «Antologia», fondata nel 1821 da Giovan Pietro Vieusseux e Gino Capponi, sarebbe rimasta per oltre un decennio il principale punto di riferimento per gli intellettuali liberali di tutta Italia. Autoritarismo e buona amministrazione caratterizzarono il dominio austriaco nel Lombardo-Veneto. La Lombardia continuò a essere la regione economicamente più avanzata d’Italia, nonostante fosse sottoposta a un regime fiscale e doganale che ne penalizzava lo sviluppo. Inoltre, lo stretto controllo esercitato dalle autorità austriache sulla vita politica e intellettuale non impediva il manifestarsi di una vivace attività culturale, che aveva le sue radici nella tradizione dell’Illuminismo settecentesco. Dall’incontro fra questa tradizione e i nuovi fermenti della cultura romantica ebbe origine l’esperienza, breve ma significativa, della rivista «Il Conciliatore». Nata nel settembre 1818 e soppressa un anno dopo per l’intervento della censura, la rivista svolse un ruolo importante, come espressione delle correnti liberali e patriottiche, ma anche per l’attenzione alle tendenze più avanzate della cultura europea.
Aristocrazia e borghesia 3 nell’Europa restaurata •
LA BORGHESIA E LA PROPRIETÀ TERRIERA Sul piano dei rapporti sociali, da un lato la Restaurazione non interruppe completamente il processo di crescita della borghesia e di emancipazione dai vincoli feudali che la Rivoluzione francese aveva accelerato. Dall’altro nei paesi che avevano conosciuto la dominazione napoleonica, le aristocrazie tornarono a occupare tutti i posti chiave nei governi e negli alti gradi della burocrazia e delle forze armate, anche se non recuperarono completamente il ruolo sociale di cui godevano nell’ancien régime. Nei decenni della Restaurazione in Europa, al sistema di dominio politico ed economico dell’aristocrazia, prevalentemente terriera, faceva dunque ormai riscontro l’ascesa della borghesia: una borghesia che, pur connotata da una vocazione professionale, commerciale e imprenditoriale, cercava in molti casi di imitare gli stili di vita e la propensione alla proprietà terriera tipica dei ceti nobiliari. Questa commistione avrebbe caratterizzato gran parte della storia sociale dei ceti superiori nell’800.
• GLI EFFETTI DELLA DEFEUDALIZZAZIONE Il periodo dagli anni ’20 agli anni ’40 del secolo rappresenta una fase importante di questo processo perché vede il definitivo smantellamento del sistema dei privilegi e vincoli feudali che ostacolavano la circolazione delle proprietà. Zone estese dominate da rapporti feudali rimarranno ancora nell’Europa orientale fino al 1848 e in Russia (dove la
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Ÿ Giuseppe Canella, La Corsia dei Servi 1834 [Museo di Porta Romana, Milano] Nonostante il clima restrittivo imposto dal governo austriaco nel periodo della Restaurazione, Milano (di cui il dipinto riproduce l’odierno corso Vittorio Emanuele) continuò a essere una grande capitale europea e un grosso polo di attrazione per commerci e iniziative imprenditoriali.
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servitù della gleba costituiva ancora il fulcro dell’ordine sociale delle campagne) fino al 1861, ma nel resto del continente la defeudalizzazione era ormai molto avanzata. In Francia e nei paesi vicini passati attraverso la dominazione napoleonica, come le regioni occidentali della Germania, i Paesi Bassi e l’Italia settentrionale, la rivoluzione antifeudale si era compiuta in modo irreversibile e la borghesia aveva aumentato considerevolmente la sua quota di partecipazione alla proprietà della terra. Ma ciò non si era sempre tradotto in una generale modernizzazione delle tecniche agricole né in un apprezzabile miglioramento delle condizioni di vita delle masse rurali. La vendita delle terre già appartenenti al clero e alla nobiltà non aveva avvantaggiato i piccoli coltivatori e i contadini senza terra, ma era servita soprattutto a incrementare la grande proprietà borghese. Nell’Europa del Sud (penisola iberica, Italia meridionale e insulare) la defeudalizzazione fu più rapida, ma non intaccò se non in minima parte le tradizionali gerarchie sociali né modificò la struttura della proprietà terriera, caratterizzata dalla persistenza del latifondo e della grande proprietà ecclesiastica.
•
I TEMPI DIVERSI DELLA MODERNITÀ Queste trasformazioni confermavano il permanente sovrapporsi di tradizione e modernità nel mondo rurale, tanto nei rapporti economici che in quelli tra proprietari e contadini: una considerazione che vale, in diversi gradi, per tutta l’Europa se teniamo presenti i diversi livelli dei punti di partenza. In ogni caso la modernità politica non toccava le campagne, ma rimaneva espressione prevalentemente urbana: è dalle città e dai ceti urbani, infatti, che si sarebbero mosse tutte le iniziative rivoluzionarie degli anni successivi.
I moti rivoluzionari del 1820-21 A partire dall’inizio degli anni ’20 l’ordine imposto all’Europa dalla Restaurazione fu contrastato da tre successive ondate rivoluzionarie: nel 182021, nel 1830 e nel 1848-49. Limitate inizialmente ad alcuni paesi, soprattutto dell’Europa meridionale, più estese nel 1830, culminarono nella “rivoluzione dei popoli” del 1848-49.
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LE SOCIETÀ SEGRETE Quanti lottavano contro l’ordine costituito, per l’affermazione degli ideali liberali, democratici e nazionali, facevano inizialmente capo a organizzazioni clandestine che, nate per lo più alla fine del ’700 o in età napoleonica, si diffusero in questo periodo con grande rapidità: sètte e società segrete divennero nell’età della Restaurazione il principale strumento di lotta politica. Le più numerose e importanti erano quelle di tendenza democratica o liberale. Alcune di esse traevano origine e ispirazione dalla Massoneria [Ź3_3]: a essa era collegata la più importante e la più diffusa fra le società segrete attive nell’età della Restaurazione, la Carboneria, presente soprattutto in Italia e in Spagna. I carbonari – che riprendevano i loro simboli e i loro rituali dal lavoro, appunto, dei carbonai (come i massoni da quello dei muratori) – ispiravano per lo più la loro azione a ideali di costituzionalismo e di liberalismo moderato.
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L’ORGANIZZAZIONE SETTARIA E IL RUOLO DEI MILITARI Ma i confini tra le società segrete erano spesso abbastanza incerti: sia perché le diverse associazioni
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erano unite tra loro da molti legami, sia perché la struttura verticistica e rigorosamente clandestina delle organizzazioni – i cui aderenti erano per lo più tenuti all’oscuro sia del contenuto completo del programma sia dell’identità dei capi – favoriva la coesistenza nella stessa società di diversi progetti politici, corrispondenti ai diversi gradi di iniziazione. A prescindere dai fini che si proponevano, queste associazioni poggiavano tutte su una base piuttosto ristretta: pochissimi artigiani e popolani, qualche membro dell’aristocrazia liberale, qualche esponente della borghesia del commercio e delle professioni, ma soprattutto intellettuali, studenti e militari. I militari, in particolare gli ufficiali e i sottufficiali formatisi nel periodo napoleonico, costituivano i nuclei più preparati e intraprendenti delle sètte: i soli che, potendo disporre di una «forza armata», fossero in grado di minacciare seriamente la stabilità di troni e governi.
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LE RIVOLUZIONI DEL ’20-21 Furono proprio i militari a dare inizio alla prima ondata rivoluzionaria che scosse l’Europa all’inizio degli anni ’20. Il moto partì dalla Spagna, dove era cresciuta la tensione per la rivolta delle colonie latino-americane [Ź11_2], che il re Ferdinando VII cercò di soffocare inviando oltreoceano forti contingenti di truppe. Il 1° gennaio 1820, alcuni reparti concentrati nel porto di Cadice in attesa di essere imbarcati per l’America si ammutinarono. In pochi giorni la rivolta si estese ad altri reparti, rendendo vani i tentativi di repressione e costringendo il re a richiamare in vigore la Costituzione del 1812 [Ź7_12] e a indire le elezioni per le Cortes (ossia la Camera elettiva). In Spagna si costituiva così un regime liberal-democratico, reso però fragile dall’ostilità del re e, soprattutto, dallo scarso consenso di cui godeva presso le masse contadine, influenzate dalla Chiesa.
LO SPAZIO DELLA STORIA
I MOTI DEL 1820-21 IN EUROPA
OCEANO ATLANTICO
IMPERO RUSSO
Parigi REGNO DI FRANCIA
Porto REGNO DEL PORTOGALLO Lisbona
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Vienna REGNO DI SARDEGNA
IMPERO D’AUSTRIA
Torino 1821 Madrid REGNO DI SPAGNA
Cadice 1820 GIBILTERRA
IMPERO OTTOMANO
MAR NERO
Napoli REGNO 1820 REGNO DI SARDEGNA MAR DELLE TIRRENO DUE SICILIE Palermo GRECIA 1820 Atene 1821 MAR MEDITERRANEO
Stati interessati da moti insurrezionali rivolte
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Gli avvenimenti di Spagna ebbero come immediata conseguenza una generale ripresa dell’attività rivoluzionaria. Nell’estate del 1820, moti insurrezionali, sempre iniziati da militari, scoppiarono a poche settimane di distanza nel Regno delle Due Sicilie e in Portogallo. Nel marzo 1821 una rivolta scoppiò in Piemonte [Ź _25].
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L’INTERVENTO DELLE POTENZE E LA REPRESSIONE Le rivoluzioni costituzionali di Spagna e d’Italia rappresentavano una grave minaccia per l’equilibrio uscito dal congresso di Vienna. Le potenze aderenti alla Santa alleanza decisero così di intervenire militarmente. Mentre l’Austria restaurava il potere assoluto di Ferdinando I nel Regno delle Due Sicilie e aiutava i Savoia a sconfiggere i rivoluzionari in Piemonte, la Francia si assumeva il compito di restaurare l’ordine in Spagna sia per ragioni di politica interna, sia per equilibrare il peso della presenza austriaca in Italia. Il fronte conservatore usciva rinsaldato dalla crisi, mentre le forze liberali avevano dato prova di scarsa unità, di carenze sul piano dell’organizzazione e soprattutto di un’assoluta mancanza di legami con le masse popolari.
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L’indipendenza della Grecia •
PATRIA E RELIGIONE L’insurrezione dei greci contro il dominio turco, cominciata nel 1821 e protrattasi per quasi un decennio, fu l’unica tra le rivoluzioni degli anni ’20 a concludersi con un sostanziale successo. Fu anche la sola che, pur essendo nata dall’iniziativa delle società segrete, finì con l’assumere il carattere di una guerra di popolo, nazionale e religiosa a fondamento cristiano ortodosso. Ma il successo della lotta per l’indipendenza greca si dovette anche e soprattutto a fattori di carattere internazionale. Se l’Impero ottomano era considerato ancora da Austria e Gran Bretagna un prezioso elemento di equilibrio continentale, altre potenze, come la Russia e la Francia, erano attratte dalle possibilità di espansione che il suo indebolimento avrebbe aperto nell’area mediterranea e nei Balcani.
•
LA DEBOLEZZA DELL’IMPERO OTTOMANO In realtà l’antico Impero ottomano faticava sempre più, come sappiamo, a tenere uniti i suoi vastissimi possedimenti [Ź4_2]. Sempre più problematico per il governo turco era poi il controllo dei popoli balcanici (greci, serbi, macedoni, albanesi, bulgari, romeni). Nei confronti di questi, in prevalenza cristiani ortodossi, l’Impero aveva sempre praticato una politica tollerante sul piano religioso, ma discriminatoria su quello politico e sociale. In tutta la penisola balcanica, i cristiani si trovavano nella condizione di popolo soggetto: non potendo accedere alla proprietà terriera, detenuta a titolo feudale dai signori turchi, erano nella grande maggioranza servi della gleba, contadini poveri, pastori nomadi dediti non di rado al brigantaggio, ma formavano anche, coi loro strati superiori, la maggioranza del ceto mercantile e una parte importante della burocrazia imperiale.
• LA RIVOLTA Nel 1815 già i serbi erano riusciti a conquistarsi un’ampia autonomia. Nel 1821 insorsero i greci che svolgevano un ruolo chiave nella vita economica dell’Impero ottomano, grazie a una forte borghesia mercantile che si era sviluppata nelle isole dell’Egeo, a Smirne, a Salonicco e nella stessa Istanbul. La setta patriottica greca Eterìa (“associazione, fratellanza”), che or-
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STORIA IMMAGINE Theodoros Vryzakis, La sortita di Missolungi, particolare 1853 [Galleria Nazionale, Atene] Questo dipinto di Theodoros Vryzakis (il cui padre era morto, impiccato dai turchi, durante la guerra d’indipendenza) raffigura uno degli episodi cruciali della guerra dei greci contro l’Impero ottomano: l’assedio e la capitolazione di Missolungi. Nodo strategico sul Golfo di Patrasso, la città venne ripetutamente attaccata e i suoi abitanti, sostenuti finanziariamente e spronati da Lord Byron (che qui trovò la morte nel 1824), subirono una tragica fine. Il 10 aprile 1826, non potendo più sostenere l’assedio, i 7 mila abitanti tentarono una sortita, raffigurata nel particolare del quadro: uomini e donne, armati, cercano di uscire dal paese su un ponte di legno, brandendo la bandiera della Grecia mentre i turchi
assaltano le mura. Fu un massacro. Si salvarono in 1800. Tra quelli rimasti in città, alcuni si fecero
esplodere, altri vennero uccisi o venduti come schiavi. L’eco della vicenda in Occidente procurò alla
causa greca il sostegno europeo e portò alla definitiva vittoria delle forze indipendentiste.
ganizzò l’insurrezione, contava numerosi aderenti tra le file di questa borghesia e trovò immediato sostegno anche fra le masse popolari. Per fermare la guerriglia, i turchi ricorsero a una serie di durissime repressioni che suscitarono condanna e riprovazione in tutta Europa.
• LA SOLIDARIETÀ INTERNAZIONALE E L’INDIPENDENZA Si creò allora in favore degli insorti una forte corrente di opinione pubblica internazionale, in cui confluivano motivazioni politico-ideologiche (la solidarietà con chi combatteva per la libertà), religiose (la difesa dei cristiani) e anche culturali, fondate sul mito della Grecia classica. Da tutta Europa accorsero volontari per unirsi alla guerra contro i turchi: fra gli altri il poeta inglese Byron e l’italiano Santorre di Santarosa [Ź12_2], che trovarono entrambi la morte in Grecia. La spinta dell’opinione pubblica impose una svolta nella politica delle potenze. La Russia, che si atteggiava a protettrice dei cristiani ortodossi, ruppe nel ’22 le relazioni diplomatiche con la Turchia. La Gran Bretagna riconobbe nello stesso anno la Grecia come paese belligerante, attribuendole così il ruolo di Stato autonomo. Fu proprio l’intervento delle potenze europee – che nel luglio ’27 distrussero a Navarino una flotta turco-egiziana – a imporre all’Impero ottomano la firma della pace di Adrianopoli (1829), con cui si riconosceva l’indipendenza greca. Al nuovo Stato – che nasceva con una estensione limitata a poco più del Peloponneso e dell’Attica – le grandi potenze imposero un regime monarchico costituzionale e come sovrano un principe della casa di Baviera. La soluzione della questione greca rappresentò un precedente di grande importanza per le lotte di indipendenza nazionale dell’800 e un colpo letale per l’equilibrio conservatore europeo. Per l’Impero ottomano – ulteriormente indebolito, nell’estate del 1830, dall’occupazione di Algeri da parte della Francia [Ź10_6] –
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la sconfitta fu la conferma di una lunga crisi, in atto ormai da oltre un secolo e destinata a protrarsi per altri ottant’anni fino agli inizi del ’900.
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I moti rivoluzionari del 1830-31 Nel 1830 una nuova ondata rivoluzionaria partita dalla Francia portò a trasformazioni profonde e durature negli assetti politici europei: la cacciata della dinastia dei Borbone in Francia e l’indipendenza del Belgio.
ultrarealisti/ultras Furono così definiti, nella Francia restaurata dei Borbone, i legittimisti più intransigenti, soprattutto quelli emigrati che, tornati in patria, si aspettavano di rientrare pienamente in possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi feudali: il termine indica, in generale, tutti coloro che sognavano il ritorno puro e semplice all’antico regime.
LO SPAZIO DELLA STORIA
•
LA RIVOLUZIONE IN FRANCIA La rivoluzione che scoppiò a Parigi nel luglio 1830 fu la diretta conseguenza del tentativo messo in atto dal re Carlo X (salito al trono nel 1824) e dagli ambienti ultrarealisti (ultras)* di restringere il più possibile le libertà costituzionali garantite dalla Carta del ’14. Contro la politica di Carlo X si schierarono non solo i democratici e gli intellettuali liberal-moderati, ma anche la grande borghesia degli affari e della finanza e un’ala consistente della stessa aristocrazia. Nelle elezioni del 1827, le forze di opposizione ottennero una netta maggioranza alla Camera. Il re scelse allora la strada dello scontro col potere legislativo: nel maggio 1830 sciolse la Camera e indisse nuove elezioni. Contemporaneamente cercò di distogliere l’opinione pubblica inviando, all’inizio di luglio, un corpo di spedizione in Algeria. L’occupazione di Algeri, che costituì la premessa per la successiva espansione francese in Nord Africa, non ottenne però i risultati sperati. Nelle elezioni che si tennero subito dopo, l’opposizione fece ulteriori progressi. A questo punto Carlo X diede avvio a un vero e proprio colpo di
I MOTI DEL 1830-31 IN EUROPA
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MARE DEL NORD IMPERO RUSSO
PAESI BASSI Varsavia
Berlino BELGIO
REGNO DI POLONIA
Parigi
FRANCIA IMPERO AUSTRIACO
SVIZZERA
Torino
Milano Modena
REGNO DI SARDEGNA Firenze
Venezia
Bologna STATO DELLA CHIESA
MAR NERO IMPERO OTTOMANO
Roma Napoli
REGNO DI SARDEGNA
paesi coinvolti dall’ondata rivoluzionaria rivolte confini della Confederazione germanica
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Palermo
REGNO DELLE DUE SICILIE GRECIA
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Stato, emanando quattro ordinanze che sospendevano la libertà di stampa, scioglievano la Camera appena eletta, modificavano la legge elettorale rendendola ancora più restrittiva e convocavano nuove elezioni. Subito dopo la pubblicazione delle ordinanze, il popolo di Parigi scese in piazza, come non accadeva più dai tempi della grande Rivoluzione e, dopo tre giorni di duri scontri con le truppe regie (27, 28 e 29 luglio), costrinse Carlo X ad abbandonare la capitale. Il 29 luglio le Camere riunite in seduta comune dichiararono la decadenza della dinastia borbonica e affidarono temporaneamente il potere regio a Luigi Filippo d’Orléans, cugino del re appena deposto. La scelta di Luigi Filippo – che era stato, negli anni della Restaurazione, uno dei punti di riferimento dell’aristocrazia “illuminata” e dei gruppi liberal-moderati – andava incontro in qualche modo alle richieste della piazza, che chiedeva prima di tutto la cacciata dei Borbone. Ma aveva anche lo scopo di bloccare un processo rivoluzionario di cui erano in molti a temere gli sviluppi: protagoniste delle tre gloriose giornate di luglio erano state infatti le masse popolari, soprattutto artigiane, guidate dai club repubblicani e giacobini. Il 9 agosto Luigi Filippo fu proclamato dal Parlamento «re dei francesi per volontà della nazione»: una formula che conciliava il principio monarchico con quello della sovranità popolare. Il tricolore della Francia rivoluzionaria – blu, bianco e rosso – tornò a essere la bandiera nazionale. Fu varata una nuova Costituzione che accresceva il controllo del Parlamento sul potere esecutivo, allargava il diritto di voto, in misura peraltro modesta, e realizzava una più netta separazione fra Stato e Chiesa.
•
I MOTI IN BELGIO, ITALIA E POLONIA Il successo dell’insurrezione di luglio aprì nuovi spazi all’iniziativa delle forze liberali e democratiche europee: in agosto insorse il Belgio annesso, per decisione del congresso di Vienna, al Regno dei Paesi Bassi. L’Olanda chiese l’aiuto delle grandi potenze, ma Francia e Gran Bretagna si opposero e riconobbero l’indipendenza del Belgio. Era una decisione di portata storica perché segnava, col delinearsi dell’intesa franco-britannica, la fine del sistema di rapporti disegnato nel 1815. Esito diverso ebbero i moti rivoluzionari scoppiati in Italia centro-settentrionale [Ź12_2] e in Polonia, schiacciati dall’intervento militare rispettivamente di Austria e Russia [Ź _26].
7 Parole della storia Liberismo/Protezionismo, p. 319
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L’Europa tra liberalismo e autoritarismo •
LA SCELTA CONSERVATRICE DELLA MONARCHIA DI LUGLIO In Francia il regime orleanista, pur essendo nato da un’insurrezione popolare, si resse su una base di consenso piuttosto ristretta e precaria: la monarchia di luglio finì infatti per identificarsi gradatamente con i valori e con gli interessi dell’alta borghesia degli affari, che vide costantemente crescere il suo peso economico e la sua influenza politica. L’alta borghesia e l’aristocrazia liberale a essa alleata – che in pratica detenevano il monopolio della rappresentanza politica, dato il carattere ristretto del suffragio – costituivano però uno strato esiguo della società francese ed erano peraltro prive dell’appoggio del clero. Sul fronte dell’opposizione, particolarmente attivi furono i gruppi democratico-repubblicani che erano stati i protagonisti dell’insurrezione parigina del ’30 e che erano collegati ai primi nuclei socialisti già attivi nei grandi centri urbani. Organizzati in una fitta rete di associazioni più o meno clandestine, repubblicani
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Ÿ Charles Jameson Grant, La battaglia tra Whigs e Tories 1832 Il disegno di legge di riforma elettorale che puntava a modificare le circoscrizioni ed estendere il diritto di voto, approvato dal Parlamento britannico nel giugno 1832, aveva fatto arroventare gli animi: in questa caricatura i Whigs a destra, con lo stendardo della «Riforma» elettorale su cui poggia un berretto frigio simbolo della Rivoluzione francese, combattono contro i Tories a sinistra. Mattoni, mazze e scope volano da una parte all’altra e altre bandiere con i nomi delle divisioni distrettuali sventolano in campo.
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e socialisti costituirono un costante pericolo per la stabilità del regime orleanista, costretto a fronteggiare una lunga serie di agitazioni e di veri e propri tentativi insurrezionali. La ricorrente minaccia rivoluzionaria provocò per contraccolpo un’involuzione conservatrice della monarchia di luglio, che si tradusse in alcune misure limitative della libertà di stampa e di associazione. Questa involuzione si accentuò a partire dal 1840, quando François Guizot divenne la figura dominante della scena politica francese. Guizot attuò una politica sostanzialmente conservatrice, tutta centrata sulla ricerca dell’ordine e della stabilità, volta a favorire le velleità speculative della borghesia degli affari. Ciò finì con l’accentuare i caratteri oligarchici del regime, scavando un fossato sempre più profondo fra il paese e la classe dirigente.
•
IL LIBERALISMO IN GRAN BRETAGNA: DIRITTO DI ASSOCIAZIONE E RIFORMA ELETTORALE Una svolta liberale si era aperta invece in Gran Bretagna fin dalla
metà degli anni ’20, quando nelle file del partito conservatore (tory) si affermò la figura di Robert Peel. Fino alla metà dell’800 il paese fu guidato alternativamente dal partito whig e da quello conservatore, sebbene il primo avesse governato per ben 16 anni e il secondo per 5. Con Peel furono attuate alcune importanti riforme interne, prima fra tutte quella del 1824, che riconosceva ai lavoratori il diritto di unirsi in libere associazioni [Ź9_8]. Sorsero così numerose unioni di mestiere, Trade Unions, organizzate su base di classe, formate cioè dai soli operai per la tutela dei loro diritti e per il sostegno alle loro rivendicazioni economiche. Il nodo principale da sciogliere era tuttavia quello dell’ampliamento del diritto di voto, allora limitato a una ristretta minoranza della popolazione (poco più del 3%). Un problema a sé era poi quello delle circoscrizioni elettorali, che non tenevano ancora conto degli sviluppi dell’urbanizzazione legati alla rivoluzione industriale. Accadeva così che le circoscrizioni urbane fossero gravemente sacrificate nella distribuzione dei seggi a vantaggio di quelle rurali: vi erano minuscoli collegi rurali, i cosiddetti “borghi putridi” (rotten boroughs), in cui bastavano poche decine di voti per eleggere un deputato, con evidente vantaggio per gli esponenti della grande proprietà terriera, visto che l’eletto era spesso il signore del luogo. La legge, approvata dal Parlamento nel giugno 1832 con un governo a guida whig, allargava il corpo elettorale di oltre il 50% e, cosa ancora più importante, ridisegnava le circoscrizioni, aumentando il numero di quelle urbane. Il sistema restava censitario, ma era pur sempre il più aperto nell’Europa di allora. Alla riforma elettorale si accompagnarono, negli anni ’30, misure legislative per migliorare le condizioni delle classi più disagiate. La legge sul lavoro nelle fabbriche, del 1833, proibiva il lavoro ai minori di nove anni (fino ad allora mai esplicitamente vietato), fissava a dodici ore l’orario lavorativo massimo per i ragazzi sotto i diciotto anni e a otto per i bambini sotto i dodici anni. La legge sui poveri, del 1834, affidava a istituzioni ed enti locali l’assistenza ai bisognosi.
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Ÿ Alphonse Legros, Il pasto dei poveri [Tate Gallery, Londra] Le leggi sui cereali che fissavano il prezzo del frumento – e di conseguenza del pane – avvantaggiavano i proprietari terrieri a spese dei poveri; braccianti agricoli e operai erano costretti a lottare giornalmente contro la povertà e contro la scarsità di risorse alimentari a loro disposizione. Spesso l’unica possibilità per un pasto decente era la mensa per i poveri.
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• IL MOVIMENTO CARTISTA Tentativi di modificare ulteriormente il sistema politico britannico furono avanzati dall’opposizione democratica, che faceva capo agli intellettuali radicali e agli operai organizzati nelle Trade Unions. Proprio dai leader delle Trade Unions partì l’iniziativa di una grande mobilitazione popolare, per imporre alla classe dirigente l’adozione del suffragio universale, considerato il solo mezzo per far valere gli interessi dei lavoratori nella Camera e nel governo. Nel 1838 fu elaborata la Carta del popolo che chiedeva, oltre al suffragio universale maschile, la garanzia della segretezza del voto e una nuova riforma dei collegi elettorali. Il movimento cartista (così chiamato appunto dalla Carta del popolo) non riuscì a raggiungere tuttavia alcuno dei suoi obiettivi e, dopo un decennio di lotte, finì con l’esaurirsi, anche perché i leader delle Trade Unions abbandonarono progressivamente il terreno della mobilitazione politica per concentrarsi su quello delle rivendicazioni economiche. •
L’ABOLIZIONE DEL DAZIO SUL GRANO
Tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’40, il centro dell’impegno dei progressisti, appoggiati questa volta dai Whigs, fu quello per la riforma doganale, e in particolare per l’abolizione del dazio sul grano (cioè delle Corn Laws). Questa rivendicazione chiamava in causa i bisogni delle classi popolari, poiché il dazio protettivo manteneva elevato il prezzo dei cereali – che sarebbe sceso detassando le importazioni – a esclusivo vantaggio dei produttori interni e a scapito dei consumatori. Essa esprimeva inoltre gli interessi del mondo industriale, desideroso di veder rimossi tutti gli ostacoli che si opponevano all’affermazione dei propri prodotti sui mercati stranieri. Il dazio sul grano era certamente uno di questi ostacoli, in quanto provocava l’imposizione, da parte dei paesi esportatori di cereali, di analoghe tariffe sui prodotti industriali britannici. Non a caso il movimento per la riforma doganale ebbe il suo centro a Manchester, capitale dell’industria tessile, e il
LE PAROLE DELLA STORIA
Liberismo/ protezionismo Il “liberismo” è quella dottrina che affida al mercato – e solo al mercato – il compito di regolare l’attività economica, che si oppone all’intervento dello Stato nel mondo della produzione e del commercio, che sostiene il principio del libero scambio nei traffici fra paese e paese. In quest’ultimo senso il liberismo si oppone al “protezionismo”: ossia a quella pratica che tende a proteggere la produzione nazionale imponendo sui prodotti di importazione dazi doganali così elevati da scoraggiarne l’acquisto. Al contrario del protezionismo – che è solo una prassi adottabile, e adottata, da regimi diversi per motivazioni diverse – il liberismo è anche un’ideologia a sfondo ottimistico, che ha il suo fondamento nelle teorie di Adam Smith [Ź3_5]. Un’ideologia che vede nella libertà economica non
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solo il mezzo più sicuro per ottenere il maggior benessere possibile per l’intera collettività (attraverso il perseguimento del benessere privato da parte dei singoli soggetti), ma anche il complemento indispensabile della libertà politica. Il momento di maggior fortuna del liberismo si può collocare attorno alla metà del XIX secolo, proprio nel periodo che seguì l’abolizione del dazio sul grano in Gran Bretagna (1846). In questo periodo, come abbiamo visto, il liberismo fu, non solo in Inghilterra, l’ideologia delle correnti progressiste, che vedevano in esso anche un mezzo per sconfiggere i privilegi dell’aristocrazia terriera; e finì quasi con l’identificarsi col liberalismo politico. A partire dagli anni ’70 dell’800, le fortune del liberismo andarono declinando in tutti i paesi, salvo che in Gran Bretagna. Negli ultimi decenni del secolo si assisté ovunque all’imposizione di elevati dazi protezionistici e, più in ge-
nerale, a un intervento crescente dei poteri pubblici nelle vicende economiche (sotto forma sia di leggi sociali, sia di provvedimenti a favore di singoli comparti produttivi). Nel corso del XX secolo, l’intervento statale si è andato continuamente sviluppando in quantità e in qualità, anche all’interno dei sistemi economici fondati sulla proprietà privata e sulla libera impresa. Soprattutto negli anni della grande crisi economica seguita al crollo della Borsa di New York nel ’29, l’era del liberismo sembrò definitivamente conclusa. Nel secondo dopoguerra il liberismo ha conosciuto una fase di rilancio, grazie anche alle opere di economisti come Friedrich Hayek e Milton Friedman. Alle loro teorie si sono in parte ispirate le politiche “neoliberiste” affermatesi verso la fine degli anni ’70 e applicate nei decenni successivi soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
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suo principale portavoce in Richard Cobden, industriale cotoniero e deputato liberale, leader dal 1838 della Lega contro il dazio sul grano (Anti-Corn Laws League), divenuto in questi anni il più autorevole e popolare assertore delle teorie liberiste. La battaglia antiprotezionista fu vinta nel 1846 quando il governo, allora guidato da Peel, sotto la pressione della grave carestia che stava imperversando in Irlanda, prese la storica decisione di abolire il dazio di importazione sui cereali.
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IMMOBILISMO E AUTORITARISMO NELLE MONARCHIE DELL’EUROPA CENTRO-ORIENTALE
Al dinamismo politico e sociale manifestato dalla Gran Bretagna e, in minor misura, dalla Francia negli anni 1830-48, faceva riscontro l’immobilismo politico delle monarchie autoritarie dell’Europa centro-orientale, in particolare dell’Austria e della Russia. La chiusura a ogni fermento innovativo, lo strapotere delle aristocrazie, il rifiuto di introdurre qualsiasi istituto rappresentativo, la conservazione dei vecchi e arretrati ordinamenti agrari – caratterizzati in Russia, ma anche in molte zone dell’Impero asburgico e della Prussia orientale, dalla permanenza della servitù della gleba – bloccavano il progresso civile e inasprivano le tensioni economiche e sociali. Se per la Russia il problema maggiore era costituito dalle continue rivolte contadine (a carattere spontaneo e prive di qualsiasi direzione politica), l’Impero asburgico cominciava a soffrire in questi anni delle tensioni che lo avrebbero accompagnato sino alla sua dissoluzione: le spinte autonomistiche delle diverse componenti nazionali – cechi e polacchi, italiani e ungheresi, croati e sloveni – tutte divise fra loro, ma unite nell’avversione al centralismo di Vienna.
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L’UNIONE DOGANALE TEDESCA Elemento di crisi per la monarchia asburgica, il nazionalismo costituì invece un fattore di coesione per la Prussia e per gli Stati della Confederazione germanica. Deluse le speranze di unificazione coltivate negli anni delle guerre napoleoniche, le aspirazioni della borghesia tedesca si concentrarono soprattutto sull’attuazione di un’Unione doganale, lo Zollverein, fra tutti gli Stati della Confederazione. L’abolizione dei dazi doganali, avviata nel 1818, accelerata dopo il 1830 e in gran parte compiuta nel 1834, rappresentò non solo una tappa importante sulla via dell’unità politica degli Stati tedeschi. Fu anche un potente fattore di sviluppo economico, che avrebbe favorito il loro decollo industriale su un ampio mercato nazionale, collegato da una fitta rete di vie di comunicazione stradali e fluviali.
Storiografia M. Rapport, Il 1848 Storiografia R. Price, Le eredità del ’48
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Le rivoluzioni del 1848-49 • LE PREMESSE E I CARATTERI COMUNI DELLE RIVOLUZIONI Nel 1848 l’Europa fu sconvolta da una crisi rivoluzionaria di ampiezza e intensità straordinarie. Non a caso l’espressione “quarantotto” è diventata da allora sinonimo di “disordine, sconvolgimento improvviso”. Straordinaria fu innanzitutto l’estensione dell’area geografica interessata dalle agitazioni. Ma straordinaria fu anche la rapidità con cui il moto rivoluzionario si diffuse in tutta l’Europa continentale, dalla Francia all’Italia, all’Impero asburgico e alla Confederazione germanica. Un moto così ampio non sarebbe stato possibile se non fosse stato favorito da alcune premesse comuni, presenti nell’intera società europea. Un primo elemento comune era dato dalla situazione economica: nel
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biennio 1846-47, l’Europa aveva attraversato una fase di crisi, che aveva investito prima il settore agricolo, poi quello industriale e commerciale, provocando carestie, miseria, disoccupazione e un clima di diffuso malessere. Il disagio economico e l’inquietudine sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una crisi di così vaste proporzioni, se su di essi non si fosse inserita l’azione svolta dai democratici di tutta Europa [Ź _27], in particolare dagli intellettuali, depositari di una tradizione comune che affondava le sue origini nella Rivoluzione francese. Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la richiesta di libertà politiche e di democrazia, variamente intrecciata – in Italia, in Germania e nell’Impero asburgico – alla spinta verso l’emancipazione nazionale. Simile fu anche la dinamica dei moti, che si svilupparono tutti secondo lo schema delle «giornate rivoluzionarie»: iniziarono cioè con grandi dimostrazioni popolari nelle capitali, sfociate poi in scontri armati.
• IL PROTAGONISMO DELLE MASSE POPOLARI URBANE A Parigi come a Vienna, a Berlino come a Milano, furono gli artigiani e gli operai a svolgere il ruolo principale nelle sommosse. A Parigi la componente popolare e operaia si mosse in relativa autonomia e, spesso in contrasto con le forze democratico-borghesi, cercò di imporre propri specifici obiettivi di lotta. Nel gennaio del ’48, poche settimane prima dello scoppio dei moti, era stato scritto il Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels [Ź9_7], destinato a diventare in seguito il testo-base della rivoluzione proletaria. Questa convergenza di date ci aiuta a capire come mai il 1848 sia stato spesso considerato l’anno ufficiale di nascita del movimento operaio. LO SPAZIO DELLA STORIA
LE RIVOLUZIONI DEL 1848-49
La cartina segnala anche i disordini del 1845-47 e perciò include la Svizzera e la Galizia austriaca tra le aree toccate dall'ondata rivoluzionaria
27
MARE DEL NORD IMPERO RUSSO
PAESI BASSI
Berlino
BELGIO
Lipsia Francoforte
Parigi
Praga Cracovia
Monaco
FRANCIA Lucerna SVIZZERA
IMPERO AUSTRIACO Vienna 13-14 marzo Budapest
Milano Venezia
Zagabria Bucarest
STATO PONTIFICIO
MAR NERO IMPERO OTTOMANO
Roma
Palermo
paesi coinvolti dall’ondata rivoluzionaria rivolte e centri di attività rivoluzionaria confini della Confederazione germanica
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REGNO DELLE DUE SICILIE GRECIA
MAR MEDITERRANEO
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LE CAUSE DELLA SCONFITTA DEMOCRATICA Le rivoluzioni del 1848-49 si chiusero tutte con una sconfitta: la causa principale di questo generale fallimento va individuata nelle profonde fratture ideologiche e programmatiche che attraversavano al loro interno le forze del cambiamento e della rivoluzione, dividendo sempre più le correnti democratico-radicali dai gruppi liberal-moderati. Questi ultimi, spaventati dalla minaccia della rivoluzione sociale, si riaccostarono alle vecchie classi dirigenti. I democratici, lasciati soli a sostenere lo scontro politico e militare con i governi e privi di una consistente base di massa, erano inevitabilmente destinati a essere sconfitti. Paradossalmente in Francia l’esito fu la nascita di un sistema politico autoritario fondato su un ampio consenso popolare legato alla tradizione rivoluzionaria di matrice napoleonica [Ź10_9]. Altrove la sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria non cancellò però quanto di nuovo era emerso dall’esperienza del ’48-49. Le aspirazioni verso una più ampia partecipazione al potere politico e gli ideali di unificazione e di indipendenza nazionale costituivano ormai un passaggio obbligato per alcuni paesi europei, come la Germania e l’Italia.
Il ’48 in Francia. 9 Dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero •
L’OPPOSIZIONE ALLA MONARCHIA LIBERALE In Francia, la rivoluzione prese avvio ancora una volta da Parigi. I limiti della monarchia borghese apparivano ormai intollerabili a un vasto fronte di opposizione che andava dai liberali progressisti ai democratici, dai bonapartisti ai socialisti. Per i democratici, in particolare, l’obiettivo da raggiungere era il suffragio universale, ossia la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi senza distinzione di reddito o di condizione sociale. Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici cercarono di trasferire la loro protesta nel «paese reale». Lo strumento scelto fu la cosiddetta campagna dei banchetti: grandi incontri svolti in forma privata che aggiravano i divieti governativi di riunione e consentivano ai capi dell’opposizione e ai loro seguaci di tenersi in contatto e di far propaganda per la riforma elettorale.
ź Eugene Hagnauer, Incendio nel posto di guardia di Château d’Eau del Palais-Royal a Parigi 1848 [Musée Carnavalet, Parigi]
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L’INSURREZIONE DI FEBBRAIO E LA PROCLAMAZIONE DELLA SECONDA REPUBBLICA
Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il 22 febbraio 1848 a Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria. Lavoratori e studenti parigini organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla, il governo ricorse alla Guardia nazionale, il corpo volontario di cittadini armati che era stato istituito nel 1789 ed era rinato dopo l’insurrezione del luglio 1830. Espressione della borghesia cittadina, la Guardia nazionale era stata impiegata più volte per reprimere agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo largamente impopolare, finì col fare causa comune con i dimostranti. Il 24 febbraio, dopo due giorni di barricate e di violenti scontri, che provocarono più di 350 morti, gli insorti erano padroni della città e Luigi Filippo abbandonò Parigi. La sera stessa veniva costituito un governo che si pronunciava decisamente a favore della Repubblica – la cosiddetta Seconda Re-
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pubblica, dopo quella rivoluzionaria del 1792 – e annunciava la convocazione di un’Assemblea costituente da eleggere a suffragio universale maschile. Nel governo figuravano tutti i capi dell’opposizione democratico-repubblicana ed erano presenti anche due socialisti: Louis Blanc e l’operaio Alexandre Martin, detto Albert. L’inclusione di due rappresentanti dei lavoratori nel governo – una novità assoluta nella storia europea – rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle giornate di febbraio, e sottolineava il carattere “sociale” della nuova Repubblica.
• L’ESPERIMENTO DEGLI ATELIERS NATIONAUX Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva fissato in undici ore la durata massima della giornata lavorativa e – cosa ancora più importante – aveva stabilito il principio del diritto al lavoro: una decisione di portata rivoluzionaria, che affrontava per la prima volta un nodo fondamentale dell’economia capitalistica, quello del pieno impiego. Per dare attuazione al diritto al lavoro, furono istituiti degli ateliers nationaux (alla lettera: “officine nazionali”). Il nome faceva pensare a quegli ateliers sociaux che Louis Blanc aveva teorizzato [Ź9_6], come vere e proprie cooperative di produzione, capaci di sostituirsi all’impresa privata. Ma la realtà era più modesta, legata alla necessità immediata di aiutare i disoccupati. Gli operai degli ateliers furono infatti impiegati in lavori di pubblica utilità (scavo di canali, riparazione di strade) e posti alle dipendenze del Ministero dei Lavori pubblici. Anche entro questi limiti, l’esperimento poneva gravi problemi alle finanze statali e introduceva un motivo di profondo contrasto in seno allo schieramento repubblicano, la cui ala moderata considerava incompatibile con i princìpi del liberismo economico un intervento diretto dello Stato nel mercato del lavoro. •
IL GOVERNO DEI MODERATI E L’INSURREZIONE DI GIUGNO Una prima netta sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle elezioni per l’Assemblea costituente, che si tennero in aprile, a suffragio universale maschile. I vincitori furono i repubblicani moderati, che costituirono l’ossatura del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti Blanc e Albert. Il governo emanò subito un decreto con cui si stabiliva la chiusura degli ateliers nationaux. La reazione dei lavoratori di Parigi fu immediata e spontanea. Il 23 giugno, oltre 50 mila popolani (fra cui molti lavoratori degli ateliers) scesero in piazza. Nei quartieri popolari ricomparvero le barricate. In risposta, l’Assemblea costituente concesse pieni poteri all’esercito per procedere alla repressione, che fu condotta nei giorni successivi con spietata durezza. Migliaia di insorti trovarono la morte sulle barSTORIA IMMAGINE Jean-Jacques Champin, Proclamazione della Seconda Repubblica il 4 Marzo 1848 XIX sec. [Musée Carnavalet, Parigi] La Seconda Repubblica fu proclamata con una solenne cerimonia svoltasi all’aperto, davanti al
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Palais Bourbon, il palazzo dell’Assemblea nazionale, riprendendo i rituali della Prima Repubblica francese, quella nata nel settembre 1792. Col febbraio del 1848, Parigi tornò a essere la capitale della rivoluzione europea e il principale centro di irradiazione degli ideali democratici e repubblicani.
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STORIA IMMAGINE Thibault, Barricate in via Saint-Maur 25 giugno 1848 [Musée d’Orsay, Parigi] Straordinario e duplice è l’interesse che ha questa foto, scattata a Parigi durante le “giornate di giugno” del 1848: da un lato è considerata la prima fotografia che illustra un servizio giornalistico, per il
giornale «L’Illustration» del 1°-8 luglio 1848, e dall’altro mostra le barricate di una via cittadina, come si presentava il 25 giugno, con porte e finestre sigillate lungo la strada e le barricate disposte a intervalli regolari. L’attacco dell’esercito avviene il giorno dopo, lo scontro è violento. In quei giorni muoiono a ridosso delle barricate migliaia di persone, fra militari e civili.
ricate o nelle esecuzioni sommarie che seguirono gli scontri. Le tragiche giornate di giugno segnarono una svolta decisiva nella breve storia della Seconda Repubblica. Agli occhi della borghesia di tutta Europa, la rivolta dei lavoratori parigini dava corpo all’incubo della rivoluzione sociale, allo “spettro del comunismo”. Gran parte della società francese – dalla borghesia urbana al clero, ai contadini irritati per l’aumento delle tasse – fu attraversata da un’ondata di riflusso conservatore.
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L’ASCESA DI LUIGI NAPOLEONE BONAPARTE In novembre l’Assemblea costituente approvò a stragrande maggioranza la nuova Costituzione democratica, ispirata al modello statunitense, che prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e un’unica Assemblea legislativa eletta anch’essa a suffragio universale. Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori sostennero compatti la candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di un fratello dell’imperatore (quel Luigi Bonaparte che aveva occupato il trono olandese). Nonostante avesse un passato da cospiratore, l’allora quarantenne Luigi Napoleone seppe offrire ampie assicurazioni alla destra conservatrice e clericale mentre garantiva, per la sola forza del suo nome, una sicura presa su vasti strati di elettorato popolare. Il calcolo si rivelò esatto: una vera e propria valanga di voti si riversò su Bonaparte. Si chiudeva così definitivamente la fase democratica della Seconda Repubblica.
• LA NASCITA DEL SECONDO IMPERO DI NAPOLEONE III Nel giro dei successivi tre anni le conquiste democratiche furono spazzate via. Intorno alla figura del presidente della Repubblica si raccolse un consenso che poggiava sugli elementi conservatori, sui clericali e sulla tradizione napoleonica che reclutava aderenti in tutta la Francia urbana e rurale. Nel dicembre 1851, con un colpo di Stato sostenuto dall’esercito, la Camera fu sciolta e 10 mila oppositori arrestati e deportati. Secondo la prassi napoleonica un plebiscito a suffragio universale convalidò l’operato di Bonaparte. La Seconda Repubblica era ormai tale solo di nome. E la finzione fu abolita, nel dicembre 1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una maggioranza ancor più schiacciante di quella dell’anno precedente, la restaurazione dell’Impero. Luigi Napoleone assumeva così il nome di Napoleone III (veniva dunque incluso nella serie anche il figlio di Napoleone I, morto nel 1832 a Vienna), col diritto di trasmettere il titolo imperiale ai suoi eredi.
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10 Leggere una carta storica 6 I moti insurrezionali in Europa, p. 328 Storia e educazione civica I diritti di cittadinanza, p. 330
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Il ’48 nell’Europa centrale Il moto rivoluzionario iniziato a Parigi alla fine di febbraio si propagò in poche settimane a gran parte dell’Europa. Ma, diversamente da quanto era accaduto in Francia, la componente “sociale” rimase in secondo piano e lo scontro principale fu combattuto fra le borghesie liberali – con l’appoggio di consistenti settori delle classi popolari – e le strutture politiche tradizionali.
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LA RIVOLTA NELL’IMPERO ASBURGICO Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna, il 13 marzo. L’occasione della rivolta fu una grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente repressa dall’esercito. Dopo due giorni di combattimenti, la corte fu costretta ad allontanare il cancelliere Metternich: l’uomo-simbolo dell’età della Restaurazione dovette rifugiarsi all’estero. Le notizie dell’insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la situazione nelle irrequiete province dell’Impero asburgico e nella vicina Confederazione germanica. Il 15 marzo vi furono tumulti a Budapest. Il 17 e il 18 si sollevavano Venezia e Milano [Ź12_7]. Negli stessi giorni una violenta sommossa scoppiava a Berlino, capitale della Prussia. Il 19 marzo i cittadini di Praga inviavano una petizione all’imperatore chiedendo autonomia e libertà politiche per i cechi. In maggio l’imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere la convocazione di un Parlamento dell’Impero, il Reichstag, eletto a suffragio universale.
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LA RIVOLUZIONE A BUDAPEST E PRAGA In Ungheria le promesse del governo imperiale di concedere una Costituzione e un Parlamento non riuscirono a fermare l’agitazione autonomistica. Sotto la spinta dell’ala democratico-radicale, che faceva capo a Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi per creare a Budapest un governo nazionale e per agire in totale autonomia da Vienna. Fu decretata la fine dei rapporti feudali nelle campagne, una misura che contribuì a ottenere l’appoggio dei contadini. Fu eletto un nuovo Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine, Kossuth cominciò a organizzare un esercito nazionale, primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva ormai l’obiettivo finale degli insorti. Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento liberale, non mettevano in discussione i legami con la monarchia asburgica e si limitavano a chiedere più ampie autonomie. Ma alcuni incidenti scoppiati fra la popolazione e i militari fornirono all’esercito il pretesto per una dura repressione: Praga fu assediata e bombardata e il governo ceco fu sciolto d’autorità.
• LA REPRESSIONE AUSTRIACA La sottomissione di Praga segnò l’inizio della riscossa per il potere imperiale. Essa mostrava che l’efficienza e la fedeltà dell’esercito non erano state intaccate dagli ultimi rivolgimenti politici. Nel corso dell’estate la svolta si consolidò. Mentre il Reichstag, riunitosi per la prima volta in luglio, era paralizzato dai contrasti fra le diverse nazionalità – l’unica decisione di portata storica fu l’abolizione della servitù della gleba in tutti i territori dell’Impero in cui era ancora in vigore –, il governo centrale riprendeva gradualmente il controllo della situazione. In agosto, sotto la protezione dell’esercito, l’imperatore rientrava a Vienna. Ma ai primi di ottobre nella capitale scoppiava una nuova insurrezione di studenti e lavoratori per impedire la partenza di nuove truppe per il fronte ungherese. Alla fine del mese Vienna fu
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cinta d’assedio e occupata dopo tre giorni di durissimi combattimenti. La rivoluzione nell’Impero asburgico veniva così stroncata nella sua punta più avanzata. Poche settimane dopo, l’imperatore Ferdinando I abdicava in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nel marzo 1849 il nuovo imperatore sciolse d’autorità il Reichstag e promulgò una Costituzione che prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri molto limitati, e ribadiva al tempo stesso la struttura centralistica dell’Impero.
•
Ÿ Anton Klaus, La battaglia di Alexanderplatz XIX sec. [Sächsische Landesbibliothek, Dresda] Questa litografia rappresenta, in tutta la sua forza, l’insurrezione di Berlino del 18-19 marzo 1848.
L’INSURREZIONE DI BERLINO E L’ASSEMBLEA DI FRANCOFORTE Un corso simile ebbero gli avvenimenti in Germania. A Berlino, il 18 marzo del 1848, imponenti manifestazioni popolari costrinsero il re di Prussia Federico Guglielmo IV a convocare un Parlamento (Landtag). Intanto agitazioni e sommosse erano scoppiate nella Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi spontaneamente, la richiesta di un’Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi, Austria compresa. A metà maggio l’Assemblea aprì i suoi lavori a Francoforte in un clima di generale entusiasmo. Ben presto fu chiaro però che la Costituente di Francoforte non aveva i poteri necessari per imporre le proprie decisioni ai sovrani degli Stati tedeschi e per avviare un processo di unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che dipendere da quanto accadeva nello Stato più importante, la Prussia. Ma proprio in Prussia il movimento liberal-democratico rientrò rapidamente, anche perché la borghesia era spaventata dalle agitazioni sociali che nel frattempo si andava-
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 5
L’Assemblea nazionale tedesca, 1848 Philipp Veit Germania 1848 Il dipinto qui sotto riproduce l’Assemblea nazionale tedesca che si tenne dal 18 maggio 1848 al 31 maggio 1849 e permette di individuare alcuni dettagli dell’edificio ospitante, la chiesa di S. Paolo (Paulskirche) a Francoforte sul Meno. La chiesa, di forma ovale, è protestante ed è temporaneamente concessa ai parlamentari. Alle spalle della tribuna, in alto, campeggia l’enorme allegoria di Germania, dipinta da Philipp Veit (1793-1877) e mostrata nel particolare a destra: ai suoi piedi giacciono le catene spezzate e le mani stringono l’asta della bandiera nazionale, simbolo di unità, e una spada circondata di alloro, simbolo delle intenzioni pacifiche della rinata nazione, ma anche della capacità di difendersi, se e quando ce ne sarà bisogno. Il sole che si vede sorgere sullo sfondo rappresenta una nuova era e la sua luce è la promessa di un nuovo futuro. GUIDA ALLA LETTURA a Cerchia i simboli che compongono l’allegoria della Germania e b In quale contesto è attestata la presenza di questa allegoria della Germania e perché? Quale messaggio voleva trasmettere il descrivili per iscritto. dipinto e il luogo in cui è collocato?
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I MOTI RIVOLUZIONARI
MOTI DEL ’20-21
MOTI DEL ’30-31
RIVOLUZIONI DEL ’48-49
CHI/DOVE?
PERCHÉ?
CON QUALI CONSEGUENZE?
Spagna, Portogallo, Regno delle Due Sicilie e Piemonte
Tentativo di instaurare regimi liberali e introduzione di una Costituzione
Intervento della Francia in Spagna e della Santa alleanza in Italia per riportare l’ordine
Grecia
Indipendenza dall’Impero ottomano
La Grecia diventa uno Stato sovrano grazie all’appoggio delle potenze europee, interessate a indebolire l’Impero ottomano
Francia: rivoluzione di luglio
Bloccare il tentativo di restaurazione assolutista di Carlo X
Luigi Filippo d’Orléans «re dei francesi per volontà della nazione»
Belgio
Indipendenza dai Paesi Bassi, contro la decisione presa nel congresso di Vienna
Francia e Inghilterra non intervengono e il Belgio vede riconosciuta la sua indipendenza
Italia centro-settentrionale e Polonia
Ripresa del movimento liberale e richiesta di Costituzioni
L’intervento dell’Austria in Italia e della Russia in Polonia reprime i moti
Francia
Opposizione dei democratici alla politica conservatrice della monarchia orleanista
A febbraio il popolo parigino insorge con l’appoggio della Guardia nazionale e viene proclamata la Seconda Repubblica. Presidente della Repubblica diventa Luigi Napoleone che nel giro di pochi anni restaurerà l’Impero (Napoleone III)
Austria
Opposizione della borghesia liberale al conservatorismo della monarchia asburgica
A marzo una manifestazione induce Metternich a lasciare Vienna e l’imperatore promette l’elezione di un Parlamento
Richiesta di regimi liberali e indipendenza da Vienna: scoppiano rivolte a Venezia, Milano, Budapest, Praga e Berlino
L’imperatore concede la costituzione di un Parlamento che approva l’abolizione della servitù della gleba; Budapest e Praga si danno governi provvisori, ma tra luglio e agosto le truppe austriache riportano l’ordine riaffermando l’autorità imperiale
Province dell’Impero e Confederazione germanica
no intensificando (in estate vi furono sommosse di lavoratori a Berlino, in Slesia e a Francoforte). Ai primi di dicembre Federico Guglielmo sciolse il Parlamento prussiano ed emanò una Costituzione assai poco liberale. Frattanto, i lavori dell’Assemblea di Francoforte erano quasi completamente assorbiti dalle dispute sulla questione nazionale e dalla contrapposizione fra “grandi tedeschi” e “piccoli tedeschi”: i primi miravano a un’unione di tutti gli Stati germanici intorno all’Austria imperiale, i secondi sostenevano invece uno Stato nazionale più compatto, da costruirsi intorno al nucleo principale del Regno di Prussia. A prevalere, dopo lunghe discussioni, fu alla fine la tesi “piccolo-tedesca”. Ma quando, nell’aprile 1849, una delegazione offrì al re di Prussia la corona imperiale, questi la rifiutò in quanto gli veniva offerta da un’assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario. Il rifiuto di Federico Guglielmo segnò in pratica la fine della Costituente, che fu sciolta nel giugno 1849.
•
LA SCONFITTA DEI DEMOCRATICI Si andavano frattanto spegnendo gli ultimi fuochi della rivoluzione che, a partire dal marzo 1848, aveva attraversato l’intero Impero asburgico compresa l’Italia. In marzo gli austriaci sconfiggevano definitivamente i piemontesi, in luglio si concludeva, grazie all’intervento francese, l’esperienza della Repubblica romana [Ź12_8], in agosto le truppe imperiali schiacciavano l’ultima resistenza di Venezia e dell’Ungheria. Per aver ragione degli indipendentisti ungheresi, che avevano ripreso il controllo del paese profittando anche dell’impegno austriaco in Italia, il governo di Vienna dovette chiedere l’aiuto militare della Russia. La sconfitta dei democratici era a questo punto completa.
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6
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I moti insurrezionali in Europa
A. I MOTI INSURREZIONALI DEL 1820-31 Mare del Nord
ic
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A
o
al
PAESI BASSI
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GRAN BRETAGNA
B
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M Hannover (1830) 1830 PRUSSIA POLONIA (1830) 0 (1830) 183 (1830) SASSONIA (1830-1831) 0 (1830) Parigi 83 WÜRTTEMBERG (1830) 1 BADEN BAVIERA IMPERO D’AUSTRIA FRANCIA SVIZZERA 1821
PORTOGALLO
IMPERO RUSSO
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SPAGNA (1834)
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BELGIO
18
(1821)
(1831)
PIEMONTE- (1831)(1831) IMPERO OTTOMANO SARDEGNA STATO (1820-1821) DELLA REGNO CHIESA M a r M e d i t DELLE Isole e DUE Ionie r (1821-1829) r a SICILIE GRECIA n Francia, Gran Bretagna
Madrid (1820-1823)
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Tra il 1815 e il 1848 “due Europe” convivono e si combattono l’una contro l’altra: l’«Europa dei re» e l’«Europa dei popoli». La prima è figlia del Congresso di Vienna del 1815 e si fonda sulla restaurazione delle antiche dinastie; sulla riaffermazione dei poteri monarchici; sulla ridefinizione dei confini degli Stati; su un regime di polizia. La seconda è figlia della Rivoluzione francese e si fonda: sull’idea di nazione; sulle aspirazioni nazionali, cioè sul diritto dei popoli sottoposti a dominazione straniera di dotarsi di uno Stato e di scegliere autonomamente il proprio regime politico; sulle aspirazioni liberali e democratiche, cioè sulla volontà di vedere applicati i princìpi rivoluzionari (la concessione di una Costituzione, l’uguaglianza dei diritti, le libertà individuali e politiche, la sovranità popolare). L’«Europa dei re» tenta di difendere l’ordine costituito attraverso un sistema di alleanze che le consente di intervenire militarmente ovunque scoppino disordini e rivolte, mentre l‘«Europa dei popoli» insorge a più riprese, rivendicando le aspirazioni liberali e nazionali negate. Accanto a esse, nella primavera del 1848, i rivoluzionari cercano di imporre riforme sociali (tutela del lavoro) e democratiche (suffragio universale maschile). In Italia e in Germania la rivoluzione assume anche una dimensione di lotta per l’unità nazionale. Il fallimento dei moti rivoluzionari, dappertutto repressi nel sangue, impedisce all’«Europa dei popoli» di sostituirsi all’«Europa dei re».
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18 18 30 182 30 1
LEGGERE UNA CARTA STORICA
PRUSSIA
Monarchie autoritarie
Insurrezioni
Monarchie firmatarie della Santa Alleanza nel 1815
Stati diventati indipendenti
Monarchie liberali
Aiuto dall’esterno
Monarchie liberali nel 1830
Repressione straniera
Repubbliche
PORTOGALLO S
P
A
G
N
A
LEGGERE E INTERPRETARE a. Soffermati sulla carta A. 1 Qual è il regime politico dominante nell’Europa del 1815? 2 Quali sono i paesi firmatari della Santa Alleanza? 3 In quali paesi scoppiano insurrezioni nel 1820-21? E in quali nel 1830-31? 4 Quali paesi offrono aiuto agli insorti? Come lo spieghi? 5 Le due ondate insurrezionali sono coronate dal successo? Spiega perché. b. Soffermati sulla carta B. 1 Qual è l’epicentro delle rivoluzioni del 1848? 2 Verso quali paesi si propaga l’onda rivoluzionaria? 3 Le rivoluzioni del 1848 sono coronate dal successo? Spiega perché.
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Stati interessati dalle rivoluzioni nel 1848 Centri di rivolta liberale Centri di liberazione nazionale Napoli
Centro della controrivoluzione Direttrici del movimento rivoluzionario Interventi eserciti controrivoluzionari
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C10 Dalla Restaurazione alle rivoluzioni in Europa
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B. LE RIVOLUZIONI DEL 1848-49
GRAN BRETAGNA
PRUSSIA
PAESI BASSI
Berlino IMPERO RUSSO
BELGIO
Francoforte
Praga
Parigi
Vienna F R
A
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IMPERO D’AUSTRIA
SVIZZERA Budapest Milano
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
I diritti di cittadinanza In termini moderni, per cittadinanza si intende sia il rapporto di appartenenza di un individuo a un dato Stato sia tutta la serie di diritti e doveri (come la fedeltà allo Stato), stabiliti per legge, che da questa relazione derivano. La “scoperta” del cittadino si ebbe solo con la Rivoluzione francese, quando la società cominciò a essere riconosciuta come l’insieme degli individui che ne fanno parte – singolarmente considerati – e non dei ceti, come avveniva nella prima età moderna. L’articolo 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) significativamente recitava: «La legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno diritto di concorrere, personalmente o mediante i loro rappresentanti, alla sua formazione. Essa deve essere uguale per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo le loro capacità». Dunque, si può parlare di cittadinanza in modo più specifico quando tutti gli individui che fanno parte di uno Stato sono uguali di fronte alla legge e hanno – per legge – pari dignità civile e la possibilità di partecipare alla vita politica e sociale della propria comunità. Quali sono, dunque, i diritti (ovvero le condizioni) che caratterizzano questa appartenenza? Elementi essenziali della cittadinanza sono i diritti politici, che permettono a tutti gli individui di partecipare attivamente (tramite il voto o l’esercizio di un pubblico ufficio) al gover-
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no del proprio paese. Ancora una volta, fu la Rivoluzione francese a dare avvio al progresso della società. Questi diritti, però, vennero revocati dai regimi politici successivi che introdussero criteri restrittivi – di titoli e di censo – per la partecipazione alla vita politica. La strada da percorrere per la piena affermazione del suffragio universale era infatti ancora molto lunga, tanto che in Italia, nei primi anni dopo l’Unità, poteva votare solo il 2% della popolazione e il diritto di voto venne riconosciuto alle donne solo nel 1945. [STORIA E EDUCAZIONE CIVICA, p. 568] Altrettanto importanti sono i diritti civili, quelli più strettamente connessi con il godimento della libertà individuale, come il diritto alla libertà personale, la libertà di parola, di pensiero, di religione e l’uguaglianza di fronte alla legge. Un ruolo significativo rivestono infine i diritti sociali, che permettono all’individuo di conquistare almeno un livello minimo di benessere economico e di partecipare alla vita sociale della propria comunità. Negli ultimi due secoli il concetto di cittadinanza si è progressivamente arricchito di nuovi elementi, nuove garanzie della piena partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato e in tempi molto recenti si è cominciato a parlare di diritti di terza e di quarta generazione, che riguardano non solo il cittadino ma l’umanità intera, come i diritti dei consumatori, il diritto a un ambiente pulito e sano (terza generazione) o quello alla difesa dai rischi connessi al dilagare delle nuove tecnologie: Internet, manipolazione genetica, ecc. (quarta generazione). Per quanto riguarda l’acquisizione del diritto di cittadinanza in Italia, la Costi-
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tuzione italiana tutela tale diritto all’articolo 22: «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome». Il criterio guida per ottenere la cittadinanza italiana, comunque, è tradizionalmente il cosiddetto ius sanguinis (letteralmente “diritto di sangue”), per cui è cittadino italiano chi nasce da altri cittadini italiani. In qualche misura trova applicazione anche lo ius soli (“diritto del luogo”), in base al quale chi nasce in territorio italiano risiedendo legalmente e ininterrottamente dalla nascita può su richiesta, al raggiungimento della maggiore età, diventare cittadino della Repubblica. La cittadinanza può essere acquisita anche per matrimonio, dopo tre anni di convivenza e residenza legale in Italia successivi al matrimonio. Vi è infine la cosiddetta “naturalizzazione”, quando l’individuo riesce a provare di essere stato legalmente residente in Italia per gli ultimi dieci anni. Recentemente si è affermato il concetto di cittadinanza europea. Con i trattati di Maastricht (1992) prima e di Amsterdam (1997) e di Lisbona (2007) poi, l’Unione europea ha infatti stabilito che «È istituita una cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell’Unione costituisce un completamento della cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima» (art. 17). Si è configurato in tal modo un nuovo diritto per i cittadini europei: la possibilità di rivolgersi alle istituzioni europee (il Parlamento, la Corte di giustizia, ecc.) quando i propri diritti non trovino tutela negli Stati membri o siano di esclusiva competenza dell’Unione.
Costruiamo il lessico del cittadino 1 Leggi la scheda e completa sul quaderno le seguenti definizioni: Ɣ Si definisce “cittadinanza” la condizione giuridica in virtù della quale gli individui ..................................................................... Ɣ Lo ius sanguinis è il criterio per cui si considera cittadino di uno Stato ...................................................................................... Ɣ Lo ius soli è il criterio per cui si considera cittadino di uno Stato ............................................................................................... Le generazioni dei diritti umani 2 Gli studiosi distinguono i diritti umani in tre generazioni, a cui negli ultimi anni ne è stata aggiunta una quarta che riguarda gli sviluppi della ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche. Adoperando le informazioni contenute nella scheda e integrandole con quelle reperibili in Rete, realizza un PowerPoint in 4 slide, una per ciascuna generazione di diritti umani, adducendo degli esempi concreti. L’acquisto della cittadinanza italiana 3 Immagina di dover realizzare una brochure informativa sull’acquisto – cioè sull’acquisizione – della cittadinanza italiana per conto dell’Ufficio Servizi al cittadino.
Vai sul sito istituzionale del Ministero dell’Interno e cerca la L. 91/1992 che ne regolamenta l’acquisto. Leggi il documento e classifica le informazioni all’interno dello schema in basso, a partire dal quale dovrai poi sviluppare la brochure informativa.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
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Acquisto della cittadinanza italiana Per nascita o adozione
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Per matrimonio
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Per elezione
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Per naturalizzazione
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4 L'Italia è uno dei paesi europei con le regole più severe per l’acquisto della cittadinanza. La maggior parte degli Stati europei adotta lo ius sanguinis ma con norme meno rigide che in Italia. Nel nostro paese, infatti, la possibilità di acquisto iure soli è piuttosto residuale e il principio non è mai applicato in forma così semplice e diretta. Questo significa, ad esempio, che la condizione giuridica dei bambini figli di immigrati nati in Italia è strettamente legata alla condizione dei genitori: se i genitori hanno ottenuto la cittadinanza (dopo dieci anni di residenza legale), questa si trasmette anche ai figli per “discendenza”.
Qual è la tua opinione riguardo all’acquisto della cittadinanza italiana da parte di minori stranieri o extracomunitari che sono nati e che vivono nel nostro paese? Nella tua classe o nella tua scuola ci sono alunni stranieri o extracomunitari? Ti sei mai confrontato con loro su questo argomento? Discutine in classe con i compagni e con l’insegnante, avendo cura di scrivere un resoconto del dibattito da cui emergano i differenti punti di vista. Redigi poi un testo di sintesi (minimo 8 righe di documento Word) sull’argomento. Che cos’è la cittadinanza europea? Che cos’è la cittadinanza europea? 5 I cittadini dei paesi membri dell’Ue sono automaticamente cittadini dell’Unione. Si tratta di un principio contenuto in vari trattati europei (trattato di Maastricht, 1992; trattato di Amsterdam, 1997; trattato di Lisbona, 2007) ed è un fattore fondamentale dello sviluppo di un’identità europea. La cittadinanza europea non sostituisce la cittadinanza nazionale, ma si aggiunge ad essa e garantisce agli individui diritti specifici. Ɣ Quali sono i diritti garantiti e in che modo possiamo esercitarli? Vai su Google e digita nella maschera di ricerca “europa.eu cittadinanza”; clicca sul link: si aprirà la pagina istituzionale dell’Ue dedicata al tema. Leggi il contenuto, prendi appunti, rielaborali e utilizzali per integrare con le informazioni mancanti l’ultima sequenza della scheda dedicata all’argomento.
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C10 Dalla Restaurazione alle rivoluzioni in Europa RICORDARE L’ESSENZIALE Il congresso di Vienna e la Restaurazione La sconfitta di Napoleone segnò la fine delle guerre tra la Francia rivoluzionaria e le monarchie europee e inaugurò l’età della Restaurazione. Ma “restaurare” in tutto e per tutto il vecchio ordine non era in realtà possibile dopo le conquiste politiche rivoluzionarie e il ruolo assunto dalla borghesia in seno alle società europee. Nel corso del congresso di Vienna, che si celebrò dal novembre 1814 al giugno 1815, la carta geopolitica d’Europa fu profondamente ridisegnata per opera delle quattro maggiori potenze vincitrici (Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria), nonché della stessa Francia. l princìpi di base della Restaurazione furono quello della «legittimità», ovvero il ripristino sui troni dei legittimi sovrani spodestati e dei confini precedenti il 1789, e quello dell’«equilibrio», che prevedeva il mantenimento dello status quo internazionale attraverso due trattati: la Santa alleanza (Russia, Prussia, Austria) e la Quadruplice alleanza, promossa dalla Gran Bretagna. La Restaurazione ebbe caratteri diversi nei singoli paesi, sempre però nel quadro di un indirizzo conservatore e tradizionalista. In Gran Bretagna si ebbe la prevalenza dell’ala destra del partito conservatore, che favorì gli interessi della grande proprietà terriera (dazio sul grano) a scapito di quelli dell’industria esportatrice. In Spagna venne seguita una linea che si richiamava all’assolutismo e ostacolava ogni evoluzione in senso liberale. Più moderata fu la Restaurazione in molti paesi dell’Europa del Nord, in cui si mantennero in molti casi regimi a ristretta base rappresentativa. Il caso più significativo di Restaurazione “morbida” fu invece quello della Francia: Luigi XVIII di Borbone promulgò una Costituzione, che tra l’altro prevedeva un Parlamento bicamerale, e conservò molte innovazioni del periodo napoleonico, scontentando così i legittimisti. In Italia la Restaurazione assunse forme piuttosto dure (salvo che nel Granducato di Toscana), temperate a stento dalla presenza di correnti moderate (Regno delle Due Sicilie, Stato della Chiesa). Una certa vivacità culturale si manifestò nel Lombardo-Veneto, amministrato con efficienza e autoritarismo dagli austriaci. Dal punto di vista sociale, la Restaurazione non interruppe il processo di crescita della borghesia e di emancipazione
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Audiosintesi per paragrafi
dai vincoli feudali, seppure in un quadro generale che confermava il sistema di dominio del ceto aristocratico. In buona parte dell’Europa dell’Est il processo di emancipazione dai vincoli feudali fu assai più lento. Diversa la situazione in Francia e nei paesi dell’Europa occidentale passati per la dominazione napoleonica: qui la borghesia aumentò la quota della sua proprietà sulla terra, senza però che ciò si risolvesse in una generale modernizzazione dell’agricoltura. Nell’Europa del Sud (ma non nell’Italia settentrionale) la defeudalizzazione lasciò intatte gerarchie sociali e assetti della proprietà terriera. In generale, nel mondo rurale si sovrapposero a lungo modernità e tradizione. I moti rivoluzionari del 1820-21 In quasi tutti i paesi europei il dissenso nei confronti dell’Europa della Restaurazione si espresse in forme clandestine nelle società segrete, di tendenza democratica o liberale. La più importante e diffusa era la Carboneria, che si ispirava a un liberalismo moderato. In massima parte la base sociale delle società segrete era costituita da intellettuali, studenti e militari: furono loro i protagonisti delle rivoluzioni degli anni ’20. L’ondata rivoluzionaria del 1820-21 partì dalla Spagna, con la ribellione a Cadice di alcuni reparti militari (gennaio ’20): il re fu costretto a concedere la Costituzione ma il nuovo regime non riuscì a consolidarsi, anche per i contrasti interni allo schieramento costituzionale. Successivamente ci furono moti nel Regno delle Due Sicilie (luglio 1820) e in Piemonte (marzo 1821). Le rivoluzioni del ’20-21 suscitarono l’allarme dei conservatori d’Europa. Nel ’21, infatti, gli austriaci posero fine alla rivoluzione napoletana, mentre la rivoluzione spagnola fu schiacciata dall’intervento militare della Francia (1822). Tra i motivi principali della sconfitta delle rivoluzioni del ’20-21 vanno ricordate le divisioni interne allo schieramento rivoluzionario, nonché la mancanza di seguito tra le masse. L’unica rivolta indipendentista che si concluse positivamente fu quella greca che, nel 1821, si trasformò in una lunga guerra contro l’Impero ottomano, conclusasi nel 1829 con la Pace di Adrianopoli. Il suo successo fu dovuto in misura determinante alle simpatie dell’opinione pubblica europea e all’intervento militare di Gran Bretagna, Francia e Russia. Nella sconfitta e nel riconoscimento dell’indipendenza della Grecia trovò conferma
la lunga crisi dell’Impero ottomano che si protrasse fino ai primi del ’900. I moti rivoluzionari del 1830-31 La seconda ondata dei moti europei del 1830-31 ebbe conseguenze più durature, portando alla rottura dell’equilibrio sancito dal congresso di Vienna. Il centro di irradiazione questa volta fu la Francia, dove nel luglio 1830 il popolo di Parigi scese in piazza per protestare contro la politica repressiva di Carlo X di Borbone, costringendolo alla fuga. Il Parlamento nominò «re dei francesi per volontà della nazione» Luigi Filippo d’Orléans e varò una nuova Costituzione. L’esempio francese incoraggiò una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria a livello europeo. Nell’agosto 1830 in Belgio scoppiò una rivolta indipendentista che portò alla costituzione, nel 1831, del Regno del Belgio, indipendente dall’Olanda. Esito diverso ebbero i moti rivoluzionari scoppiati in Italia e in Polonia, schiacciati dall’intervento militare rispettivamente di Austria e Russia La monarchia di luglio francese e il liberalismo inglese La monarchia di luglio francese, benché prodotta da una rivoluzione, si basava su una ristretta e precaria base di consenso che si identificava con gli interessi dell’alta borghesia degli affari e dell’aristocrazia liberale. Il liberalismo moderato che l’aveva connotata all’inizio, presto lasciò il posto a una linea conservatrice, che accentuò i caratteri oligarchici del regime e la frattura tra ceto dirigente e società civile. Forte era anche l’opposizione democratico-repubblicana, che fu protagonista di vari tentativi insurrezionali. In Gran Bretagna, a metà ‘800, vennero varate alcune decisive riforme: diritto per i lavoratori di unirsi in associazioni, che stimolò la nascita delle Trade Unions, riforma elettorale, leggi sociali. La lotta politica degli anni ’30-40 vide l’emergere di due movimenti: quello cartista, che si batteva per il suffragio universale e che si esaurì dopo un decennio di lotte senza aver raggiunto i suoi obiettivi; quello per la riforma doganale, che si risolse in una vittoria delle tesi liberiste con l’abolizione del dazio sul grano. A fronte delle trasformazioni avvenute in Gran Bretagna e Francia, le monarchie autoritarie dell’Est europeo apparivano prigioniere di un radicato immobilismo politico e sociale. Mentre per la Russia il maggior problema era co-
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stituito dalle continue rivolte contadine, l’Austria vedeva il primo manifestarsi delle spinte autonomistiche delle varie nazionalità dell’Impero. Il nazionalismo costituì un fattore di coesione nell’area tedesca, dove le aspirazioni della borghesia si indirizzarono verso l’attuazione di una Unione doganale. Le rivoluzioni del 1848-49 Nel 1848 l’Europa fu nuovamente sconvolta da un moto rivoluzionario che coinvolse Francia, Italia, Impero asburgico e Confederazione germanica. All’origine della rivolta, scatenata dai democratici, ci fu un clima di acuto malessere sociale determinato da una crisi economica che attanagliava tutto il continente. La richiesta di libertà politiche e di democrazia, come pure le modalità insurrezionali furono evidenti nei caratteri comuni dei moti. Nonostante la totale sconfitta, in particolare dei democratici, abbandonati dai liberal-moderati che temevano una rivoluzione sociale, il 1848 aprì una nuova epoca caratterizzata dall’intervento delle masse popolari urbane e dall’emergere degli obiettivi sociali accanto a quelli politici.
Il centro di irradiazione del moto rivoluzionario fu ancora una volta la Francia. L’insurrezione parigina di febbraio portò alla fuga del re e alla proclamazione della Repubblica, che ebbe all’inizio un indirizzo democratico-sociale. Tuttavia, le elezioni per l’Assemblea costituente dell’aprile ’48 sancirono la vittoria dei repubblicani moderati. L’insurrezione di giugno dei lavoratori di Parigi, a seguito della decisione del governo di chiudere gli ateliers nationaux, fu duramente repressa e segnò la svolta in senso conservatore della Repubblica, concretizzatasi in dicembre con l’elezione a presidente di Luigi Napoleone Bonaparte. Nel dicembre 1851 Bonaparte attuò un colpo di Stato e riformò la Costituzione. L’anno successivo un plebiscito sanzionò la restaurazione dell’Impero: Luigi Napoleone Bonaparte divenne imperatore con il nome di Napoleone III. In marzo il moto rivoluzionario si propagò all’Impero asburgico, agli Stati italiani e alla Confederazione germanica. A Vienna il cancelliere Metternich venne allontanato e l’imperatore fu costretto a promettere la convocazione di un Parlamento dell’Impero. In Ungheria l’agitazione eb-
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE 1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Il Sacro romano Impero fu dissolto da Napoleone nel 1806. b. Le società segrete erano in contatto e agivano in accordo fra loro. c. L’insurrezione greca del 1821-29 fu vissuta e percepita come una «guerra di popolo». d. Con la pace di Adrianopoli fu instaurata la prima Repubblica greca indipendente. e. La legge sul lavoro nelle fabbriche, varata nel 1833, vietava il lavoro ai minori di 12 anni.
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be un accentuato carattere indipendentistico e portò all’elezione di un Parlamento a suffragio universale. Anche a Praga furono avanzate rivendicazioni di autonomia che però furono immediatamente soffocate. La repressione militare della sollevazione di Praga (giugno 1848) segnò l’inizio della riscossa del potere imperiale che si estese in seguito anche all’Ungheria. Nell’area tedesca, la rivoluzione di Berlino portò inizialmente ad alcune concessioni da parte del re di Prussia, Federico Guglielmo IV, e alla nascita di un’Assemblea costituente, con sede a Francoforte, dove sarebbero stati rappresentati tutti gli Stati tedeschi. L’Assemblea fu presto assorbita dal dibattito sulla questione nazionale tra «grandi tedeschi» e «piccoli tedeschi»: i primi erano favorevoli all’unione degli Stati germanici intorno all’Austria imperiale, i secondi intorno al Regno di Prussia, lo Stato più importante della Confederazione germanica. A prevalere fu la tesi “piccolo-tedesca”, ma quando una delegazione dell’Assemblea offrì a Federico Guglielmo la corona imperiale, questi la rifiutò, segnando la fine dell’’Assemblea costituente, che venne sciolta subito dopo.
Test interattivi
f. L’Unione doganale fra gli Stati tedeschi favorì il decollo industriale del paese. g. Louis Blanc e Alexandre Martin furono due uomini politici dell’ala «legittimista». h. Praga, Berlino e Budapest furono fra i centri rivoluzionari dei moti del 1848. i. L’imperatore Francesco Giuseppe avviò una durissima repressione contro gli insorti del ’48. j. Luigi Bonaparte divenne imperatore utilizzando lo strumento democratico del plebiscito.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Il principio di legittimità invocato da Talleyrand a Vienna... a. fu respinto con forza da Metternich, che preferì insediare la famiglia degli Asburgo; b. permise e alla dinastia dei Borbone di riottenere la sovranità sul Regno francese; c. intendeva legalizzare le acquisizioni di proprietà durante il periodo rivoluzionario. 2. I contadini russi... a. erano riusciti, grazie a numerose rivolte, a ottenere l’abolizione della servitù della gleba; b. furono emancipati dalla servitù della gleba grazie a un editto dello zar del 1848; c. furono legati da obblighi feudali nei confronti dei loro proprietari terrieri fino al 1861.
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3. Durante i moti del 1820-21, in base agli accordi di Vienna, a. Austria e Francia intervennero per reprimere gli insorti nel Regno delle Due Sicilie, in Piemonte e in Spagna; b. nessuno Stato estero poteva interferire nelle vicende interne degli altri Stati europei; c. Austria e Francia sostennero i rivoltosi nei paesi europei a maggioranza protestante. 4. Il movimento cartista in Inghilterra... a. richiese il suffragio universale per tutti, uomini e donne; b. si occupava di questioni salariali e di tutela sul lavoro; c. non ottenne alcun risultato concreto sul piano politico.
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5. Nel 1848, lo stesso anno in cui scoppiavano moti rivoluzionari in tutta Europa, ... a. Marx pubblicò con Engels il Manifesto del Partito comunista; b. Luigi Bonaparte fu destituito dal trono del Regno di Francia; c. l’Inghilterra reintrodusse il dazio sul grano, abolito tre secoli prima.
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6. La Santa alleanza, ... a. entrò in conflitto con la Quadruplice alleanza per motivi di carattere religioso; b. vide fra i suoi maggiori sostenitori la Gran Bretagna; c. era un’alleanza personale fra lo zar Alessandro I, l’imperatore d’Austria e il re di Prussia.
3 Associa i nomi dei seguenti uomini politici e organizzazioni statali alle relative azioni intraprese, o posizioni assunte, durante il congresso di Vienna. • Francia • Talleyrand • Metternich
• Russia • Confederazione germanica
• Regno dei Paesi Bassi • Impero asburgico • Regno delle Due Sicilie
• Regno di Sardegna • Austria
1. 2. 3. 4. 5. 6.
Guidato da Metternich, si affermò come il fulcro dell’equilibrio continentale ed ebbe riconosciuto un ruolo egemone in Italia. Riuscì a far valere il principio di legittimità a vantaggio del suo paese e a restaurare i diritti “legittimi” dei Borbone di Francia. Acquisì alcuni territori della Savoia e la Liguria. I suoi confini rimasero immutati rispetto al 1791 e vi fu restaurata la monarchia dei Borbone. Nacque dall’unione di una parte degli Stati tedeschi ed era presieduta dall’imperatore d’Austria. Si tratta di una delle quattro maggiori potenze vincitrici. Ottenne la sovranità sul Lombardo-Veneto e l’affermazione di legami militari e dinastici con gli altri Stati della penisola italiana. 7. Si tratta di una delle quattro maggiori potenze vincitrici, si espanse verso occidente, occupando la Finlandia e buona parte della Polonia. 8. Fu ricostituito sotto la dinastia dei Borbone dall’antico Regno di Napoli. 9. Nacque dall’unione di Belgio, Lussemburgo e Olanda. 10. Fu ministro degli Esteri austriaco e il reale regista dei lavori al congresso di Vienna.
4 Completa la seguente tabella relativa agli effetti politici, sociali, culturali ed economici della Restaurazione, indicando per ogni Stato gli eventi di stampo conservatore e quelli apportatori di innovazione. Azioni e situazioni di stampo conservatore
Innovazioni politiche/culturali/sociali/economiche
Spagna Gran Bretagna Francia Regno sabaudo Stato della Chiesa Regno di Napoli/Regno delle Due Sicilie Toscana Lombardo-Veneto
5 Colloca sulla linea del tempo le date relative ai seguenti eventi rivoluzionari. a. b. c. d.
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Alcuni reparti militari danno avvio, nel porto di Cadice, alla rivolta in Spagna. In Spagna il re reintroduce la Costituzione del 1812 e indice le elezioni per le Cortes. Moti insurrezionali scoppiano nel Regno delle Due Sicilie e in Portogallo. Moti insurrezionali scoppiano in Piemonte. I greci insorgono contro il dominio turco.
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e. Le potenze europee distruggono a Navarino la flotta turco-egiziana. f. Con la pace di Adrianopoli viene riconosciuta l’indipendenza greca. g. A Parigi scoppia una rivolta che porterà alla caduta della dinastia borbonica. In Belgio l’insurrezione porta all’indipendenza dall’Olanda. Nell’Italia centro-settentrionale e in Polonia, i moti rivoluzionari falliscono.
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6 Completa la mappa concettuale della rivoluzione parigina del 1830, inserendo la lettera corrispondente alle affermazioni negli appositi spazi. a. La dinastia borbonica viene sostituita e le Camere riunite in seduta comune affidano temporaneamente il potere regio a Luigi Filippo d’Orléans. b. Carlo X scioglie la Camera e indice nuove elezioni. Contemporaneamente invia un corpo di spedizione in Algeria. c. Con il nuovo sovrano viene varata una nuova Costituzione. d. Di fronte al successo elettorale dell’opposizione, Carlo X avvia un colpo di Stato. e. Le aree politiche e sociali contrarie a Carlo X manifestano la loro opposizione. f. La monarchia di luglio finisce per far propri i valori e gli interessi dell’alta borghesia degli affari e introduce misure limitative della libertà di stampa e di associazione. g. A Parigi scoppia un moto rivoluzionario nel luglio 1830.
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7 Rispondi brevemente alle seguenti domande sulla guerra d’indipendenza in Grecia combattuta tra il 1821 e il 1829: a. b. c. d. e. f.
Quali erano le condizioni sociali e politiche nello Stato ottomano? Chi organizzò materialmente l’insurrezione? Quali fattori culturali interni favorirono il successo dell’insurrezione? Perché l’opinione pubblica internazionale appoggiò gli insorti? Come si comportarono gli Stati europei durante le diverse fasi della guerra? Gli indipendentisti raggiunsero infine i propri obiettivi?
COMPETENZE IN AZIONE 8 Scrivi un testo che illustri i conflitti tra forze della Restaurazione e forze liberal-democratiche in Europa, tra XVIII e XIX secolo, a partire dalla seguente scaletta di argomenti. Inoltre, seleziona, tra le immagini presenti nel capitolo, quelle che ritieni particolarmente utili all’illustrazione dell’esposizione. • • • •
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una nuova economia e una nuova società la restaurazione politica e l’accentramento del potere obiettivi politici dei liberali e dei democratici strumenti e lotte dei liberali e dei democratici
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C11 Le rivoluzioni latino-americane e lo sviluppo degli Stati Uniti EXTRA ONLINE
Storiografia L. Zanatta, L’indipendenza dell’America Latina e la politica moderna
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Personaggi Tocqueville e la democrazia americana
Focus La conquista del West
Le Americhe tra indipendenza e sviluppo •
LA RIVOLUZIONE A HAITI Gli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la precedente guerra d’indipendenza americana avevano aperto la strada a profondi mutamenti anche in America Latina. Nel 1790 si ribellò la colonia francese di Santo Domingo nei Caraibi e la popolazione nera, composta prevalentemente da schiavi, prese il potere sotto la guida di un ex schiavo, Toussaint Louverture. L’esperimento di Louverture non ebbe vita facile perché nel 1802 Napoleone ripristinò la schiavitù che Robespierre aveva abolito e combatté duramente i ribelli. Tuttavia nel 1804 Santo Domingo proclamò l’indipendenza riassumendo il nome precolombiano di Haiti. Nella rivoluzione di Haiti furono raggiunti rilevanti cambiamenti economici e sociali, nonostante il carattere autoritario ed etno-nazionalista che assunse il nuovo Stato.
• L’INDIPENDENZA DELLE COLONIE DELL’AMERICA LATINA Dopo la caduta di Napoleone, mentre in Europa le potenze della Santa alleanza cercavano di ristabilire un solido equilibrio conservatore, le colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina portarono a compimento la loro lotta per l’indipendenza. Nei progetti dei suoi iniziatori, la lotta di liberazione delle colonie latino-americane avrebbe dovuto avere un esito simile a quello già conseguito dalle colonie inglesi del Nord America: la formazione di una grande unione di Stati liberamente associati da un vincolo federativo. La realtà fu completamente diversa: perché diversi erano i dati geografici, diversa la situazione sociale, diversa la condizione economica lasciata in eredità dalle monarchie iberiche.
Ÿ La rivolta dei neri a Santo Domingo 1791 [Musée Carnavalet, Parigi]
Personaggi Simón Bolívar, el Libertador, p. 339
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• L’ESPANSIONE DEGLI STATI UNITI Mentre l’America Latina si affacciava all’indipendenza già divisa e afflitta dai molti problemi che ne avrebbero reso più lento e difficile lo sviluppo, gli Stati Uniti si espandevano, si irrobustivano, rafforzavano il vincolo unitario: fino a proporsi come potenza egemone per tutto il continente e come interlocutore paritario delle stesse potenze europee.
L’indipendenza dell’America Latina •
L’ECONOMIA DELLE COLONIE LATINO-AMERICANE Alla fine del ’700, l’America Latina svolgeva un ruolo di notevole importanza nell’economia mondiale, non più soltanto come produttrice di metalli preziosi, ma anche come fornitrice di molti prodotti agricoli (zucchero di canna, cacao, tabacco e, più tardi, caffè) destinati a soddisfare le nuove abitudini di consumo che si erano diffuse in quel secolo fra le classi alte europee. Diversi, nelle varie zone, erano i metodi di conduzione della terra e le colture. Ma comune era la prevalenza delle aziende di grandi dimensioni, che impegnavano manodopera indigena in condizione servile o semiservile, oppure si basavano – come nel caso delle piantagioni brasiliane e cubane – sul lavoro di schiavi neri “importati” dall’Africa.
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creolo Agli inizi della colonizzazione dell’America il termine indicava i nati nel nuovo continente da genitori bianchi europei. I creoli, dunque, si distinguevano dai bianchi immigrati dall’Europa e dai neri deportati dall’Africa. Oggi invece creoli sono detti anche i figli di un genitore bianco e di uno di colore. indio “Indio” è il termine con cui si designano gli abitanti indigeni dei paesi dell’America centromeridionale. A partire dal ’500, il termine “indiano” e il suo corrispondente spagnolo indio (indios al plurale) furono usati impropriamente per indicare le popolazioni indigene dell’America: questo perché i primi esploratori, a cominciare da Colombo, credevano di essere sbarcati nelle Indie, ossia in Asia. Anche quando l’errore fu scoperto, si continuò a parlare di “Indie orientali” e di “Indie occidentali”.
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DEMOGRAFIA E SOCIETÀ Comune, in larga misura, era anche la stratificazione sociale, che coincideva quasi perfettamente con la divisione razziale. Al vertice stavano i 4.350.000 creoli* (criollos), ossia i bianchi di origine europea, discendenti dalle prime generazioni di coloni. In basso c’erano gli oltre 8 milioni di indios* (in fase di netta ripresa demografica dopo lo sterminio subìto nella prima fase della colonizzazione), la cui condizione variava da quella di servo a quella di salariato o, più di rado, di contadino povero. I neri, presenti soprattutto in Brasile e nelle Antille, erano più di 4 milioni. I meticci (poco più di 6 milioni) occupavano le fasce sociali medio-basse e lavoravano nell’artigianato, nel piccolo commercio o nella conduzione delle aziende agricole, alle dipendenze di proprietari creoli [Ź _6].
• L’INDIPENDENZA DALLA SPAGNA E DAL PORTOGALLO Contrariamente a quanto era accaduto a Haiti, nelle colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina la spinta all’indipendenza venne non dagli strati inferiori (le rivolte degli indios, che pure si verificarono con una certa frequenza nel ’700, erano dirette contro i proprietari terrieri, più che contro il potere lontano e impersonale delle monarchie europee), ma dagli stessi creoli, desiderosi di liberarsi dal controllo dei funzionari governativi inviati dall’Europa e insofferenti dei vincoli che il legame con la madrepatria poneva ai loro commerci. Queste aspirazioni si manifestarono già alla fine del ’700, in seguito all’eco suscitata dalla rivoluzione americana e, più in generale, alla diffusione degli ideali illuministi, a cui contribuì, anche in America Latina, una fitta rete di società segrete. L’occasione per realizzare le aspirazioni all’indipendenza si presentò con l’invasione della Spagna da parte di Napoleone. A partire dal 1808, le colonie spagnole furono di fatto governate da giunte locali, che divennero presto centri di rivendicazione indipendentista. Nel 1810, dopo che i francesi ebbero scacciato la dinastia borbonica dalla Spagna, le giunte di alcune delle principali città latino-americane deposero i rappresentanti della monarchia e assunsero il potere. Nel 1811 la giunta di Caracas proclamò l’indipendenza della Repubblica del Venezuela. Cominciava così una lunga lotta di liberazione, combattuta con fasi alterne in tutto il continente dai movimenti indipendentisti creoli, che godettero dell’appoggio della Gran Bretagna, interessata a subentrare alla Spagna nel ruolo di principale partner commerciale del Sud America. •
SAN MARTÍN E BOLÍVAR Due furono i centri principali del movimento indipendentista: nel Nord i paesi della costa dei Caraibi – Venezuela e Nuova Granada, ossia l’attuale Colombia – dove la guida della lotta fu assunta da Simón Bolívar; nel Sud le province del Rio de la Plata (l’attuale Argentina) dove era attivo José de San Martín, un ufficiale spagnolo passato dalla parte dei ribelli. Nel 1816 i patrioti argentini proclamarono l’indipendenza del loro paese. Nel 1817 le forze di San Martín liberarono il Cile. Nel 1819, Bolívar dava vita
I NUMERI DELLA STORIA
6
La popolazione dell’America centrale e meridionale ai primi del XIX secolo AREA
BIANCHI
NERI
Messico, America centrale e Antille America meridionale spagnola Brasile America centrale e meridionale
1.992.000 1.437.000 920.000 4.349.000
1.960.000 268.0002 1.960.0001 4.188.0001
1 2
1
METICCI, MULATTI
INDIOS
2.681.000 2.871.000 700.000 6.252.000
4.580.000 3.271.301 360.000 8.211.301
Per Messico e America centrale, sotto mulatti. In parte sotto mulatti.
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alla Repubblica di Gran Colombia [Ź _28]. La rivoluzione liberale scoppiata in Spagna nel 1820, interrompendo l’afflusso di truppe dall’Europa, diede nuovo respiro alle forze rivoluzionarie, mentre si faceva più aperto e consistente il sostegno economico e logistico agli insorti da parte della Gran Bretagna. Un nuovo importante appoggio veniva dagli Stati Uniti, che nel 1823 avrebbero proclamato, per bocca del presidente Monroe, la loro decisa opposizione a ogni intervento armato europeo sul continente americano [Ź11_4]. lealista Si definisce “lealista” una persona che mantiene la lealtà nei confronti di un governo o un partito durante sconvolgimenti politici, ad esempio una guerra civile o una rivoluzione.
LO SPAZIO DELLA STORIA Gli Stati dell’America centrale si unirono, dopo l’indipendenza, nella Federazione delle Province Unite, poi scioltasi nel 1839. Anche la “Gran Colombia”, formatasi nel 1819 sotto la guida di Bolívar, si suddivise nel 1830. Santo Domingo rimase spagnola fino al 1822, poi fu assorbita da Haiti, ma nel 1844 divenne indipendente. Le Malvine (o Falkland), dal 1820 dominio dell’Argentina, passarono nel 1833 alla Gran Bretagna.
• LA FINE DEL DOMINIO EUROPEO Terreno di scontro, nella fase finale del conflitto, furono i territori del Perù, ultima roccaforte dei lealisti*, che furono attaccati da nord dalle forze di Bolívar e da sud da quelle di San Martín. Nel dicembre 1824 gli spagnoli furono definitivamente sconfitti ad Ayachuco, in Perù. A questo punto l’intera America Latina, salvo la Guyana e le isole dei Caraibi, era libera dal dominio europeo. Il Messico si era costituito in impero nel 1821. Sempre nel 1821, i paesi dell’America centrale si erano dichiarati indipendenti riunendosi poi (1823) nella Federazione delle Province Unite dell’America centrale [Ź _28]. Anche il Brasile portoghese – il più vasto fra i possedimenti europei in America Latina – divenne un impero indipendente nel 1822. Ma il progetto L’AMERICA CENTRALE E MERIDIONALE (1810-39)
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STATI UNITI
MESSICO 1821 Città del Messico
YUCATÁN CUBA (sp.) OCEANO SANTO 1821 ATLANTICO DOMINGO GIAMAICA H.B. (brit.) HAITI PUERTO RICO (sp.) 1804 G. H. S. N. Caracas C.R. VENEZUELA 1811-30 brit. GUYANA Bogotá olan. fr. COLOMBIA 1831 ECUADOR 1830 BRASILE 1822
PERÙ 1824 Lima La Paz BOLIVIA 1825
PARAGUAY 1811-13
OCEANO PACIFICO
CILE 1818 Santiago
Gran Colombia, 1819-30
1822 C.R. = G. = H. = H.B. = N. = S. =
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Province Unite dell’America centrale, 1823-39 anno di indipendenza Costa Rica 1821 Guatemala 1821 Honduras 1821 Honduras britannico Nicaragua 1821 El Salvador 1821
San Salvador (Bahia)
Rio de Janeiro San Paolo
ARGENTINA 1816
URUGUAY 1828 Buenos Aires
MALVINE (FALKLAND)
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PERSONAGGI
Simón Bolívar, el Libertador
Simón Bolívar (1783-1830) è stato l’eroe dell’indipendenza di diversi paesi latino-americani dal colonialismo spagnolo. Da due secoli la sua figura è rappresentata su francobolli e monete (quella venezuelana si chiama bolívar) e a lui sono dedicati i monumenti e le strade principali delle città sudamericane. Negli ultimi anni, è divenuto il riferimento ideale del nuovo corso politico di alcuni paesi latino- americani che cercano forme di integrazione e di cooperazione politica, sociale ed economica, rifiutando l’influenza straniera nei loro affari. Il «bolivarismo», soprattutto su spinta di Hugo Chávez, alla guida del Venezuela dal 1999 al 2013, si è trasformato in vera e propria corrente del pensiero politico assumendo un carattere marcatamente populista (che esalta cioè il rapporto diretto fra capo e masse). Nato a Caracas in una ricca famiglia creola, Simón Bolívar ricevette un’educazione accurata. Trasferitosi in Spagna per affinare gli studi, tra il 1803 e il 1806 visitò la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, la Svizzera, la Germania, assistendo alle incoronazioni di Napoleone – da cui rimase affascinato – prima come imperatore dei francesi e poi come re d’Italia. Si avvicinò, inoltre, alla Massoneria [Ź3_4] e conobbe da vicino il modello politico inglese e l’Illuminismo, che influenzarono profondamente il suo pensiero politico. Uomo d’azione più che
pensatore, Bolívar aveva ideali liberali e repubblicani, pur ritenendo il popolo latino-americano ancora troppo immaturo per applicarli. Giunto a Roma, il 15 agosto 1805 Bolívar promise nella zona di Montesacro – dove, secondo la tradizione, nel 494 a.C. si era ritirata la plebe romana ribellatasi ai patrizi – che avrebbe liberato l’America meridionale: «Giuro sul Dio dei miei genitori, giuro su loro, giuro sul mio onore e sulla mia Patria, che non darò riposo al mio braccio né pace alla mia anima finché non avrò rotto le catene che ci opprimono per volontà del potere spagnolo» sono le parole del juramento, da allora simbolo dell’indipendenza latino-americana. Dopo un soggiorno negli Stati Uniti, tornò in Sud America, dove stava iniziando la lotta per l’indipendenza. Nel 1810 il Venezuela, su spinta delle élite creole, disconobbe l’autorità spagnola: Bolívar entrò nella Sociedad Patriótica e contribuì alla stesura della Dichiarazione di indipendenza del Venezuela (5 luglio 1811). Nel 1812 gli spagnoli e quanti erano rimasti fedeli alla Spagna (realisti) riconquistarono il Venezuela. Bolívar, fuggito nella Nuova Granada (Colombia), ricominciò a combattere contro le truppe realiste, alla testa di un esercito di poche centinaia di volontari, principalmente creoli: il 15 giugno 1813 emanò il decreto di «guerra a muerte» (“guerra all’ultimo sangue”), che prometteva la morte a ogni spagnolo presente nella colonia. Intanto, compreso che era necessario armare anche le classi inferiori, cercò e ottenne l’appoggio degli agricoltori e dei pastori delle Ande, delle popolazioni di colore del litorale, dell’ex movimento monarchico dei llanos, le savane a nord dell’Orinoco. Iniziò così la riconquista del Venezuela e il 7 agosto, alla testa di un esercito che ormai contava 10 mila uomini, Bolívar entrò a Caracas e la liberò: il Consiglio della città lo acclamò come Libertador. Tra il 1815 e il 1816, gli spagnoli riassoggettarono però tutte le colonie: Bolívar riparò prima nella Nuova Granada e, poi, in Giamaica – dove scrisse la Lettera dalla Giamaica, in cui riassunse nei princìpi di «unità e in-
Ż José Gil de Castro, Ritratto di Simón Bolívar 1825 Simón Bolívar si guadagnò il titolo di Libertador diventando il capo indiscusso della lotta di liberazione nell’intera America del Sud. Nel suo pensiero l’America Latina unita avrebbe potuto far sentire maggiormente il suo peso.
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dipendenza» il suo programma politico per l’America Latina – e a Haiti. Alla fine del 1816 tornò in Venezuela e riprese la lotta per l’indipendenza, installandosi nella città di Angostura (oggi Ciudad Bolívar), sull’Orinoco. Dopo essere stato nominato, il 15 febbraio 1819, presidente della futura Repubblica venezuelana indipendente, attraversò le Ande con 2500 uomini e liberò Santa Fe (Bogotá). Il 17 dicembre 1819 creò la Repubblica della Gran Colombia – che doveva comprendere Venezuela, Colombia ed Ecuador – di cui fu nominato presidente. La nuova Repubblica esisteva, però, solo sulla carta e la lotta per la liberazione continuava. L’esercito venezuelano – agli ordini di Bolívar e del suo vice, il generale José Antonio Sucre – riuscì a ottenere una serie di successi, fino alla vittoria di Carabobo (24 giugno 1821), che assicurò l’indipendenza del Venezuela. El Libertador riprese con Sucre la sua marcia verso sud: il loro esercito comprendeva ormai grancolombiani, argentini e, mandati da José de San Martín, circa 1700 peruviani e altoperuviani. Il 16 giugno 1822 entrò a Quito e il 13 luglio concluse la liberazione della Colombia. In Ecuador conobbe Manuela “Manuelita” Sáenz (1797-1856), che diventò la sua compagna di lotta e di vita. Donna colta e intelligente, Sáenz è una figura di spicco nella storia latino-americana, per le sue battaglie per l’indipendenza – fu assimilata all’esercito patriottico come colonnella – e per l’emancipazione femminile. Tra il 1823 e il 1824, Bolívar e Sucre liberarono il Perù. Bolívar lasciò quindi il comando dell’esercito al vice, che sconfisse le ultime truppe spagnole nell’Alto Perù, dichiaratosi indipendente il 6 agosto 1825 col nome di Repubblica Bolívar, poi Bolivia. El Libertador fu proclamato presidente di tutti i nuovi Stati. Nella Gran Colombia, intanto, si rafforzarono le spinte separatiste, provenienti soprattutto dal Venezuela: al progetto unionista del presidente Bolívar si opponeva, infatti, quello federalista del suo vice, Francisco de Paula Santander, che dopo alterne vicende riuscì, nel gennaio 1830, a separare il Venezuela dalla Colombia. Amareggiato per il fallimento del suo sogno unitario e per il tradimento di molti amici, Bolívar lasciò ogni carica e lasciò il Venezuela, dove fu dichiarato fuorilegge. Nonostante il desiderio di tornare in Europa, l’aggravamento della tubercolosi che lo affliggeva da anni gli impedì di partire: si fermò in Colombia, dove si spense il 17 dicembre 1830.
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LEGGERE LE FONTI
Simón Bolívar, I vantaggi dell’unità politica S. Bolívar, L’unico scopo è la libertà. Scritti scelti, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Direzione Generale delle Informazioni, dell’Editoria e della Prosperità letteraria, artistica e scientifica, Roma 1983, p. 122 Dipartimento della Colombia.
In questa lettera scritta nel dicembre 1819, pochi giorni dopo l’approvazione della Legge fondamentale della Repubblica di Colombia, Simón Bolívar sottolinea i vantaggi politici
che dovrebbero derivare dall’unione del Venezuela e della Nuova Granada in un solo Stato.
Il voto unanime dei deputati del Venezuela e della Nuova Granada ha gettato le fondamenta di un edificio solido e stabile, conferendogli il nome, il rango e la dignità con cui deve essere conosciuta al mondo la nostra nascente Repubblica e sotto i quali essa dovrà stabilire le sue relazioni politiche. Pur non essendo questo documento provvisorio provvisto di tutte le formalità, e malgrado la mancata partecipazione ad esso di tutte le province libere di Cundinamarca gli incalcolabili vantaggi che esso produce e, soprattutto, l’imperiosa necessità di approfittare della disponibilità delle potenze estere, hanno indotto i responsabili del Venezuela e della Nuova Granada a compiere questo passo a cui sono vincolate la stabilità, la permanenza e la prosperità della Colombia. In dieci anni di lotta e di lavoro indicibili; in dieci anni di sofferenze sovrumane, abbiamo sperimentato l’indifferenza con cui tutta l’Europa, e persino i nostri fratelli del Nord, sono rimasti tranquilli spettatori del nostro sterminio. Tra gli altri motivi c’è – e lo metterei in testa a tutti gli altri – quello della molteplicità delle sovranità costituite fino ad oggi. La mancanza di unità e di consolidamento, la mancanza di accordo e di armonia e, soprattutto, la carenza di mezzi che produceva necessariamente la separazione delle repubbliche, è, ripeto, la vera causa del disinteresse che fino adesso i nostri vicini e gli europei hanno sentito per la nostra sorte. Del resto, pezzi di territorio, frammenti di nazione – sia pure di grandi estensioni, ma senza popolazione né strutture – non potevano ispirare interesse o certezze a chi avesse desiderato allacciare delle relazioni con essi. La Repubblica di Colombia i mezzi e le risorse necessarie al rango e all’importanza raggiunti non solo li ha, ma agli stranieri ispira fiducia e tranquillità la sua capacità di gestione. E da qui nasce quella facilità di farsi degli alleati e di procurarsi quegli aiuti di cui ha bisogno per il consolidamento della propria indipendenza. Le ricchezze di Cundinamarca, del Venezuela, il rispettivo numero di abitanti e la vantaggiosa posizione del porto venezuelano, conferiranno alla Colombia una importanza che né il Venezuela né la Nuova Granada, se separate, potrebbero avere.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nel documento proposto il rivoluzionario venezuelano Simón Bolívar denuncia l’atteggiamento di indifferenza tenuto dall’Europa e dagli Stati Uniti nei confronti dell’America
Latina. Individua e chiarisci le motivazioni che, secondo l’autore, hanno determinato questa situazione.
Unità territoriale e amministrativa comprendente i territori coloniali spagnoli dell’area nord-occidentale del Sud America (Panama, Colombia, Ecuador e Venezuela).
b Quali fattori interni ed esterni conferiranno alla Repubblica di Colombia enormi vantaggi a seguito della sua unione politica con il Venezuela e la Nuova Granada?
di Bolívar di unire le ex colonie spagnole, per lo più rette da regimi costituzionali, in una grande confederazione sul modello degli Stati Uniti si scontrò con le rivalità politiche e i contrasti territoriali subito sorti fra i nuovi Stati. Invece dell’auspicata unione, negli anni successivi all’indipendenza ci fu un ulteriore processo di frammentazione.
•
L’INSTABILITÀ DEI NUOVI REGIMI Risultarono inoltre aggravati gli squilibri sociali ereditati dall’età coloniale. Voluta e conquistata dall’elemento creolo, l’indipendenza non portò alcun miglioramento nelle condizioni della popolazione india, ovunque condannata alla povertà e all’analfabetismo. Vi furono, è vero, progressi indubbi sul piano dei diritti civili. Le discriminazioni razziali si attenuarono, favorendo in alcuni paesi un progressivo ricambio della classe di-
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STORIA IMMAGINE Arturo Michelena, La consegna della bandiera spagnola a Simón Bolívar il 24 giugno 1821 1883 [Museo Boliviano, Caracas] Il 24 giugno 1821, nella battaglia di Carabobo, le truppe di Simón Bolívar – capo del movimento indipendentista venezuelano e soprannominato el Libertador – prendono il controllo del Venezuela battendo le forze spagnole. Nel particolare del dipinto il momento della consegna della bandiera spagnola a Bolívar e al suo battaglione.
rigente. La schiavitù fu ovunque abolita, almeno sulla carta, negli anni successivi all’indipendenza – salvo che in Brasile, dove rimase in vigore fino al 1888. Ma questo non significò la fine dello sfruttamento dei contadini ad opera dei grandi proprietari latifondisti: il peso di questi ultimi, anzi, andò accrescendosi a spese della borghesia urbana che era stata la principale iniziatrice del moto indipendentista. L’arretratezza dei rapporti sociali incise negativamente sulla stabilità delle istituzioni rappresentative che quasi tutti i nuovi Stati si erano date, ispirandosi al modello dei regimi costituzionali europei e soprattutto a quello degli Stati Uniti. Dai frequenti conflitti interni venne sempre più emergendo il ruolo dei capi militari (caudillos), depositari di un potere reale conquistato nel corso delle guerre contro gli spagnoli e fatalmente portati ad assumere la parte di arbitri fra le fazioni in lotta. Si delineavano così, già all’indomani dell’indipendenza, quei caratteri della lotta politica in America Latina che erano destinati a perpetuarsi, pur nel mutare delle condizioni economiche e sociali, fin quasi ai nostri giorni.
Dinamismo economico e democrazia 3 negli Stati Uniti •
IL DINAMISMO DEGLI STATI UNITI All’inizio dell’800, le ex colonie inglesi che nel 1776 avevano dato vita agli Stati Uniti d’America occupavano solo una striscia della costa atlantica, fra l’Oceano e la catena degli Appalachi, con una popolazione di circa 5 milioni di abitanti, in massima parte dediti all’agricoltura. Fra di essi c’erano 700 mila schiavi di origine africana, impiegati nelle piantagioni del Sud, che producevano riso, tabacco e soprattutto cotone, destinati in gran parte all’esportazione. Solo negli Stati del Nord esistevano centri commerciali e manifatturieri di qualche rilevanza. Le comunicazioni interne erano difficili e affidate in gran parte alle vie fluviali. Eppure questa società di agricoltori e di pionieri dava prova di un dinamismo e di una vitalità che avevano pochi confronti nella storia dei popoli. Attorno alla metà del secolo gli Stati erano diventati 31, rispetto ai 13 fondatori, e ospitavano una popolazione di 23 milioni di abitanti. L’agricoltura si era sviluppata con ritmi rapidissimi, soprattutto nei nuovi territori dell’Ovest, e gli Stati del Nord
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STORIA IMMAGINE Charles Parsons, Il ponte ferroviario sulle cascate del Niagara, visto dal lato americano 1856-57 [Library of Congress, Washington] Nei primi decenni dell’800 anche gli Stati Uniti intraprendono la via dello sviluppo industriale. Gli insediamenti industriali della parte nord-orientale del paese cominciano il loro decollo intorno al 1830 e conoscono un vero e proprio boom nel decennio 1850-60, con tassi di crescita spettacolari: il 77% per la produzione di stoffe di cotone, il 42% per le stoffe di lana, il 142% per il carbone, il 54% per la ghisa e il 66% per le macchine a vapore e utensili. La rete ferroviaria, che nel 1850 è di 14.500 km, raggiunge in dieci anni quasi i 50 mila km.
avevano visto nascere e crescere nuclei di grande industria moderna. I centri più importanti erano collegati da una rete, già abbastanza fitta, di strade e di ferrovie, che si andava ampliando man mano che, per effetto dell’espansione territoriale, la frontiera degli Stati Uniti andava spostandosi progressivamente verso ovest [Ź11_4].
• UNA SOCIETÀ DEMOCRATICA Il carattere aperto e mobile della frontiera ebbe effetti profondi anche sulla mentalità, sui costumi, sulle inclinazioni politiche dei cittadini. Il clima della frontiera favoriva la diffusione di uno spirito democratico, individualista ed egualitario, insofferente di discipline, ma anche di ogni sorta di privilegi. La tendenza verso la democrazia era peraltro uno dei caratteri costitutivi della società nordamericana. La rivoluzione borghese che aveva dato origine agli Stati Uniti non aveva trovato sul suo cammino gli ostacoli derivanti da un passato feudale e dalla presenza di potenti aristocrazie: si era quindi potuta dispiegare liberamente, sviluppando tutte le sue potenzialità innovatrici sul piano della crescita economica e su quello della mobilità sociale. • GLI SCHIERAMENTI POLITICI Anche la lotta politica – imperniata, secondo il modello britannico, sulla competizione fra due partiti – restava legata ai princìpi liberali e democratici, che costituivano il quadro di riferimento comune alle diverse forze in campo. Fino agli anni ’20, la scena fu dominata dal contrasto tra federalisti e repubblicani [Ź6_4]. Nella seconda metà degli anni ’20, il quadro politico subì un profondo mutamento. Scomparsi dalla scena i federalisti, il Partito repubblicano si spaccò in due correnti: quella dei repubblicani nazionali (in seguito chiamati Whigs, ossia liberali), che tendevano a ereditare la base sociale e il programma dei federalisti, e quella dei repubblicani democratici – poi chiamati semplicemente democratici –, che miravano a una più larga democratizzazione della vita politica, in polemica con le oligarchie industriali e bancarie del Nord-Est. Durante la presidenza del democratico Andrew Jackson (1829-37) fu ampliato il diritto di voto e furono ridotti i dazi doganali.
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L’espansione degli Stati Uniti 5 a ovest e a sud Nella prima metà dell’800 lo sviluppo territoriale degli Stati Uniti si svolse secondo due linee direttrici. L’una, verso ovest, era la naturale conseguenza della spinta colonizzatrice dei pionieri. L’altra, rivolta soprattutto verso sud, derivava invece da una precisa strategia di espansione perseguita da tutti i governi dell’Unione, a prescindere dalle loro tendenze politiche.
•
LA FRONTIERA Questo eccezionale espansionismo non si può spiegare se non si tiene conto di alcuni caratteri peculiari della società nordamericana, connaturati alla storia stessa del paese. C’era innanzitutto un fattore geografico. Il nucleo originario degli Stati Uniti non confinava con altri Stati sovrani. A ovest c’erano immensi spazi vuoti o più esattamente abitati dai pellerossa – come venivano chiamati per l’abitudine dei guerrieri di alcune tribù di tingersi il volto di rosso –, o indiani d’America, ridotti ormai a poche centinaia di migliaia. In questi spazi cominciarono a riversarsi, già dalla fine del ’700, ondate sempre più numerose di pionieri: prima cacciatori e avventurieri d’ogni tipo, poi agricoltori alla ricerca di nuove terre da dissodare e da coltivare stabilmente. Il risultato di questa spinta inarrestabile fu la tendenza dell’Unione a spingere i suoi confini sempre più verso ovest.
•
L’ESPANSIONE A OVEST E I CONFLITTI CON GLI INDIANI La corsa verso l’Ovest era seguita e incoraggiata anche dal potere centrale, che da una parte sanzionava l’acquisizione delle nuove regioni, concedendo dapprima lo status di territori, poi, una volta superati i 60 mila abitanti, riconoscendo quello di Stati e il diritto di essere ammesse nell’Unione; dall’altra appoggiava militarmente i coloni nei frequenti conflitti che li opponevano alle tribù indiane. Quelle indiane erano per lo più popolazioni nomadi. Vivevano in accampamenti mobili e si sostentavano principalmente con la caccia (ma vi erano anche tribù più progredite, come i Creek, i Cherokee, i Seminole, che praticavano un’agricoltura stanziale). La loro consistenza numerica, non facilmente accertabile, si era ridotta, dall’inizio della colonizzazione, a poche centinaia di migliaia.
LE PAROLE DELLA STORIA
Frontiera Nell’uso corrente, e nel senso letterale, il termine “frontiera” è un sinonimo di “confine”. In senso figurato, la parola ha acquistato un significato più ampio, legato a una dimensione non solo materiale: quello di un limite che si tende continuamente a superare (si parla quindi di “frontiere della scienza”, di “frontiere del sapere”). Fu uno storico statunitense, Frederick Jackson Turner (1861-1932), a usare questo termine, alla fine dell’800, per indicare il carattere costitutivo e peculiare della storia del suo paese. Contrariamente ai vecchi Stati europei, confinanti con altri Stati e costretti a combattere contro di essi per accrescere i loro territori, gli Stati Uniti
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d’America, originariamente dislocati lungo la costa atlantica, avevano come unico limite alla loro espansione continentale una frontiera “mobile”, costituita dagli immensi spazi disabitati, o abitati da popolazioni seminomadi di pellerossa, che si estendevano a ovest fino all’Oceano Pacifico. La conquista e la colonizzazione di questi spazi, durata per oltre un secolo, aveva, secondo Turner, forgiato il carattere nazionale, stimolando l’individualismo e lo spirito di iniziativa e favorendo il radicamento e la crescita della democrazia: nell’Ovest, a contatto con la natura selvaggia, non esistevano infatti gerarchie sociali consolidate e ognuno si sentiva responsabile del proprio destino. Le tesi di Turner (esposte compiutamente in un volume pubblicato nel 1920 e
intitolato appunto La frontiera nella storia americana) sono state spesso criticate per aver idealizzato eccessivamente una vicenda che in realtà fu intessuta anche di molta violenza e prevaricazione, ma certamente riflettevano l’immagine prevalente che i cittadini degli Stati Uniti avevano di sé e del loro paese. Non a caso, un uomo politico del ’900, John Fitzgerald Kennedy, nel suo discorso di accettazione della candidatura a presidente degli Usa per il Partito democratico (Los Angeles, 15 luglio 1960), avrebbe ripreso quell’immagine additando ai suoi concittadini i traguardi di una «nuova frontiera» tutta immateriale, al di là della quale si estendevano i territori ancora inesplorati della scienza e dello spazio, della pace e della giustizia sociale.
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Ÿ Indumento di un capo sioux Gli indiani si vestivano e vivevano con ciò che offriva il bisonte. Nonostante la resistenza opposta da tutte le tribù, furono spinti sempre più a ovest e in aree sempre più ristrette chiamate “riserve”.
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La convivenza fra indiani e coloni fu sin dall’inizio difficile. Gli indiani, abituati a muoversi liberamente in grandi spazi, mal sopportavano gli insediamenti agricoli dei bianchi, che sottraevano loro terre e selvaggina. I coloni consideravano la presenza degli indiani come un pericolo oggettivo per la propria sicurezza e per quella delle vie di comunicazione e cercavano di allontanarli con ogni mezzo. Dopo una serie di sanguinosi conflitti, i pellerossa furono costretti a emigrare in massa nelle zone a ovest del Mississippi, giudicate inospitali e poco adatte agli insediamenti agricoli. Ma, nella seconda metà del secolo, sotto la spinta di nuove ondate di coloni, anche questa frontiera sarebbe stata superata; e le guerre indiane si sarebbero protratte fin quasi alla fine dell’800.
• L’ESPANSIONE A SUD L’espansione verso sud avvenne approfittando delle difficoltà dei francesi e degli spagnoli che vendettero agli Stati Uniti i loro possessi. Nel 1803 il presidente Jefferson, facendo leva sulle difficoltà militari e finanziarie in cui allora si trovava il regime napoleonico, acquistò dalla Francia, per 15 milioni di dollari, la colonia della Louisiana, una vastissima regione di oltre 2 milioni di kmq che andava dai Grandi Laghi, al confine col Canada, fino al Golfo del Messico. Più tardi, nel 1819, gli Stati Uniti acquistarono la Florida dalla Spagna, allora impegnata nel vano tentativo di difendere i suoi possessi in America Latina. • LA SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA E LA DOTTRINA DI MONROE Nel frattempo, tra il 1812 e il 1814, gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Gran Bretagna, duramente impegnata in Europa contro Napoleone, con l’obiettivo di prendersi il Canada ed eliminare così la presenza britannica dal continente. Ma la guerra, nota come la seconda guerra d’indipendenza, fu un insuccesso, con i britannici che giunsero a incendiare la capitale. Tuttavia, la pace che seguì non solo riconfermò i vecchi confini, ma inaugurò una lunga e ininterrotta stagione di buoni rapporti fra Stati Uniti e Impero britannico. Consapevoli ormai del ruolo di potenza egemone in America, gli Stati Uniti affermarono, con una dichiarazione del presidente James Monroe nel 1823, che da quel momento in poi il continente americano non doveva essere considerato «oggetto di futura colonizzazione da parte di nessuna potenza europea», un principio riassunto nella formula «l’America agli americani»; e che STORIA IMMAGINE Una carovana arriva ad una stazione di posta, sulla Sierra Nevada (California, Usa) 1865 ca. [foto di Lawrence & Houseworth, San Francisco; Library of Congress, Washington] Nonostante la dura resistenza delle popolazioni pellerossa e le asperità del territorio, che rendevano il viaggio lungo e pericoloso, la conquista
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del West procedette a grandi passi. Man mano che i pionieri si stabilivano in nuovi territori, questi venivano colonizzati e “attrezzati”. Lungo le strade carovaniere, poi, si creavano stazioni di posta, spesso tramutatesi nel tempo in piccoli villaggi, dove le famiglie di pionieri potevano sostare e rifocillarsi. Questa fotografia d’epoca riprende la Swift’s Station, una stazione di posta sul fianco di una montagna della Sierra Nevada.
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C11 Le rivoluzioni latino-americane e lo sviluppo degli Stati Uniti
LO SPAZIO DELLA STORIA
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POSSEDIMENTI BRITANNICI
Territorio di WASHINGTON 1853-59 Territorio dell’OREGON
Territorio del NEBRASKA 1854-61
Territorio del MINNESOTA 1849-58
MAINE
Vt. N.H. WISCONSIN 1848-53 NEW YORK M. Boston 1848 A C. R.I. I AN IOWA New York LV Y S Chicago N.J. 1846 OHIO NN Territorio dello UTAH PE Md. D. 1850-61 ILLINOIS San Francisco Washington Territorio del KANSAS VIRGINIA CALIFORNIA 1854-61 KY C U MISSOURI T 1850 KEN LINA ARO HC Territorio del Territori TENNESSEE NORT ARKANSAS Los Angeles NUOVO MESSICO INDIANI SOUTH 1836 1850-54 CAROLINA
A
IPP I
BAM
ALA
NA MIS SISS
ISIA
TEXAS 1845
GEORGIA
New Orleans
A ID OR 5 4 18
FL
C. = D. = M. = Md. = N.H.= N.J. = R.I. = Vt. =
prima del 1800 1800-40 1840-60 venduto dal Messico (1853) Connecticut Delaware Massachusetts Maryland New Hampshire New Jersey Rhode Island Vermont
LOU
Avanzamento della “frontiera” densità minima di 2 abitanti per miglio quadrato
IND IAN
A
AN IG CH 7 MI 183
Nella cartina, l’espansione e l’avanzamento della frontiera verso occidente sono espressi in rapporto al raggiungimento della densità minima di 2 abitanti per miglio quadrato. Le date indicano la formazione dei nuovi Stati e dei nuovi territori.
GLI STATI UNITI NEL 1822-54
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MESSICO
CUBA
gli Stati Uniti, mentre si impegnavano ad astenersi da qualsiasi intromissione negli affari europei, consideravano come un atto ostile nei propri confronti ogni intervento europeo in America. Gli Stati Uniti – una volta stabiliti buoni rapporti con la Gran Bretagna – si trovavano così, oggettivamente, nella posizione di potenza egemone in un continente ormai occupato quasi esclusivamente da Stati indipendenti, tutti più o meno deboli e instabili.
• IL TEXAS E LA CALIFORNIA Uno di questi Stati, il Messico (che al momento dell’indipendenza occupava ancora vaste regioni del Nord America oggi appartenenti agli Usa), dovette subire direttamente la pressione espansionistica del potente vicino. Oggetto principale del contrasto fu il Texas che, diventato meta di una forte immigrazione proveniente dal Sud degli Stati Uniti, si staccò dal Messico e si costituì in repubblica indipendente, per essere poi, nel ’45, ammesso nell’Unione [Ź _29]. Ne seguì una guerra fra gli Stati Uniti e il Messico, che durò tre anni (dal 1845 al 1848) e si concluse con una netta vittoria degli Usa. Gli Stati Uniti si impadronivano così di tutti quei vastissimi territori che si estendevano dal Golfo del Messico fino alla costa del Pacifico. Particolarmente importante si rivelò l’annessione della California, dove, in quello stesso 1848, furono scoperti importanti giacimenti auriferi. La corsa all’oro che si sarebbe scatenata negli anni successivi, con l’accorrere in California di cercatori provenienti da tutto il mondo, avrebbe contribuito ad accelerare la colonizzazione dei nuovi territori.
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U4 Nazione e libertà
C 11 Le rivoluzioni latino-americane e lo sviluppo degli Stati Uniti RICORDARE L’ESSENZIALE
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Audiosintesi per paragrafi
L’America Latina tra indipendenza e sviluppo La rivoluzione americana e la rivoluzione francese aprirono la strada a profondi mutamenti anche in America Latina, dove scoppiarono tra fine ‘700 e anni ’20 dell’800 insurrezioni indipendentiste. La prima a ribellarsi fu, nel 1790, la colonia francese di Santo Domingo nei Caraibi, che dopo alterne vicende proclamò l’indipendenza con il nome precolombiano di Haiti (1804). Approfittando dell’invasione napoleonica della Spagna (1808), anche le colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina intrapresero la lotta indipendentista sotto la guida di Simon Bolívar e José de San Martín, ottenendola nel 1824. La fase successiva registrò il fallimento dei progetti di unificazione dei nuovi Stati in una grande confederazione sul modello degli Stati Uniti: ne derivò invece una grande frammentazione politica. Gli squilibri sociali ereditati dall’età coloniale non si attenuarono e, anzi, il peso dei grandi proprietari
terrieri divenne maggiore. Tutti questi fattori contribuirono a determinare una costante instabilità politica, che favorì la presa del potere da parte di capi militari che assunsero il ruolo di arbitri delle fazioni in lotta tra loro. Una nuova potenza egemone: gli Stati Uniti Intanto gli Stati Uniti si avviavano a diventare una potenza egemone, grazie a un eccezionale sviluppo economico e territoriale che traeva origine da alcuni caratteri peculiari della società americana: anzitutto l’intraprendenza e la vocazione imprenditoriale, che avevano consentito lo sviluppo agricolo e favorito l’ampliamento della rete ferroviaria, ma soprattutto il carattere “mobile” della frontiera, che contribuì a plasmare profondamente la mentalità nordamericana, favorendo uno spirito individualista ed egualitario. L’espansione territoriale degli Stati Uniti si attuò, nella prima metà dell’800, secondo due direttrici: verso l’Ovest, a
danno delle tribù indiane dei pellerossa, e verso il Sud. La corsa all’Ovest fu il risultato dell’iniziativa dei pionieri, ma venne anche appoggiata dal governo centrale. L’espansione a Sud si realizzò attraverso l’acquisto della Louisiana dalla Francia e della Florida dalla Spagna. Con la seconda guerra d’indipendenza fu tentata la conquista del Canada e l’eliminazione definitiva della Gran Bretagna dal continente. L’impresa fallì, ma gli Stati Uniti videro riconosciuta la loro supremazia nel continente americano, secondo la famosa formula del presidente Monroe «L’America agli americani». Negli anni ’40, dopo una guerra contro il Messico, gli Stati Uniti ottennero il Texas e la California. Sul piano politico, fino agli anni ’20 la scena statunitense fu dominata dal contrasto tra federalisti e repubblicani. Scomparsi i federalisti, i repubblicani si divisero in due correnti: liberali e democratici. Durante la presidenza del democratico Jackson fu ampliato il diritto di voto e furono ridotti i dazi doganali.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. I creoli erano i discendenti degli schiavi affrancati. b. L’ufficiale spagnolo José de San Martín riuscì a contenere con il suo esercito i moti indipendentisti del Sud America. c. Dopo l’indipendenza, i quadri dirigenti delle popolazioni indie assunsero le cariche più alte dello Stato. d. In Brasile, il regime di schiavitù rimase in vigore fino al 1888. e. Negli Stati del Sud America, negli anni successivi all’indipendenza, il peso politico dei grandi proprietari terrieri diminuì a vantaggio della borghesia cittadina.
f. Nella prima metà dell’800, la popolazione degli Stati Uniti aumentò di quasi 5 volte. g. La frontiera americana costituiva il limite mobile dell’espansione dei coloni verso ovest. h. L’espansione degli Stati Uniti verso sud avvenne a scapito dei territori francesi e spagnoli. i. A partire dagli anni ’20 dell’800, la scena politica americana fu caratterizzata dallo scontro tra liberali e democratici.
2 Indica la data degli eventi relativi alle principali tappe dell’indipendenza dell’America Latina e collocali sulla linea del tempo. a. b. c. d. e. f. g. h.
Nelle più importanti città latino-americane le giunte locali assunsero il potere (.............). Gli uomini di San Martín liberarono il Cile (.............). Gli spagnoli furono definitivamente sconfitti ad Ayachuco, in Perù (.............). Bolívar diede vita alla Repubblica di Gran Colombia (.............). Il Messico si costituì in Impero (.............). La giunta di Caracas proclamò l’indipendenza della Repubblica del Venezuela (.............). I paesi indipendenti dell’America centrale si riunirono nella Federazione delle Province Unite dell’America centrale (.............). Il Brasile portoghese divenne un impero indipendente (.............).
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C11 Le rivoluzioni latino-americane e lo sviluppo degli Stati Uniti
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3 Rispondi alle seguenti domande sul processo di indipendenza dell’America Latina: 1. 2. 3. 4.
A quale modello politico si ispirava l’idea confederativa di Bolívar? Che cosa impedì la confederazione degli Stati del Sud America? Quali gruppi sociali assunsero il controllo dei nuovi Stati? In che modo la dottrina Monroe influenzò il processo di indipendenza sudamericano?
4 Completa lo schema relativo alle caratteristiche economiche e politiche degli Stati Uniti. Nord: ...................... ................................
Sud: ........................ ................................
Ovest: ...................... .................................
Caratteristiche economiche
STATI UNITI
Sistema politico: ...................
Caratteristiche politiche
Partiti politici: ................................ ................................
COMPETENZE IN AZIONE 5 Scrivi un breve testo che racconti la colonizzazione degli Stati Uniti nella prima metà del XIX secolo, a partire dalla seguente scaletta di argomenti. Inoltre, seleziona, tra le immagini presenti nel capitolo, quelle che ritieni particolarmente utili all’illustrazione dell’esposizione. a. gli attori sociali b. lo sviluppo economico c. le relazioni con gli indigeni d. il mito della frontiera 6 Indica se i seguenti termini relativi alla guerra fra coloni e pellerossa rientrano fra le motivazioni dei primi o dei secondi. Quindi argomenta le tue scelte in un testo breve. Attento, alcune motivazioni potrebbero appartenere sia ai coloni sia ai pellerossa. a. ricerca di nuove zone di caccia; b. acquisizione di nuovi terreni agricoli; c. mantenimento dei propri terreni agricoli; d. pratica di caccia e raccolta; e. difesa della propria sicurezza; f. mantenimento del controllo delle vie di comunicazione. • Soluzioni Motivazioni dei coloni: ............................................................................................................................................... • Motivazioni dei pellerossa: .......................................................................................................................................................
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Storia e Letteratura Le confessioni d’un italiano di Nievo Focus Letteratura e Risorgimento • Il melodramma
1 Fare storia Risorgimento e Unità d’Italia. Le idee e il dibattito, p. 407
Laboratorio dello storico Epistolari, memorie, diari
Lezioni attive Immaginare la nazione italiana. Il Risorgimento
Atlante I moti insurrezionali in Europa
L’Italia e la questione nazionale Come molti altri paesi europei – dalla Polonia all’Irlanda, dalla Grecia all’Ungheria – anche l’Italia conobbe, nella prima metà dell’800, un processo di graduale riscoperta e di sempre più netta rivendicazione della propria identità nazionale. Questo processo, che avrebbe portato nel giro di pochi decenni alla conquista dell’indipendenza, fu definito dai contemporanei, e poi dagli storici, col nome di Risorgimento: una definizione che ne sottolineava il carattere di rinascita culturale e politica, di riscatto da una condizione di servitù e di decadenza morale, di ritorno a un passato glorioso (non importa se reale o mitico).
• STATO E NAZIONE Per la verità l’Italia, diversamente dalla Polonia o dall’Ungheria, non aveva mai conosciuto, lungo tutto il corso della sua storia, l’esperienza di uno Stato unitario. Era stata unita politicamente solo ai tempi dell’Impero romano, ma all’interno di un’entità statale di tipo universalistico e sovranazionale. In seguito, era sempre rimasta divisa e, almeno in parte, subordinata a sovranità straniere: una dipendenza politica che era diventata pressoché completa a partire dal ’500, proprio in coincidenza con una stagione di splendore artistico e di indiscusso primato culturale. Tuttavia, se uno Stato italiano non era mai esistito, una nazione italiana, in quanto comunità linguistica, culturale, religiosa e in parte anche economica, esisteva almeno fin dall’epoca dei comuni. E l’idea di Italia come entità ben definita, seppure non coincidente con uno Stato, era sempre stata viva nel pensiero di molti autorevoli intellettuali italiani, da Petrarca a Machiavelli ad Alfieri. Nel ’700, in alcune componenti della cultura illuminista questa consapevolezza si era fatta più viva e, assieme a essa, si era manifestata in misura crescente l’aspirazione a una rinascita, a un rinnovamento culturale e morale STORIA IMMAGINE Ferdinando Folchi, Il suicidio di Lucrezia de’ Mazzanti 1860 [Sala delle Eroine, Palazzo Sansoni Trombetta, Pontassieve, Firenze] Il dipinto raffigura un evento accaduto durante l’assedio di Firenze del 1529, all’epoca del predominio spagnolo in Italia a opera di Carlo V: un ufficiale delle truppe spagnole aveva tentato di abusare di una giovane donna, Lucrezia Mazzanti, che per non subire la violenza preferì gettarsi nell’Arno, morendo annegata. L’estremo gesto della ragazza diventa nell’800 il simbolo della purezza, dell’onore e dell’orgoglio italiano.
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di tutto il popolo italiano: anche se questa aspirazione non si era tradotta immediatamente in una precisa rivendicazione politica.
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L’ESPERIENZA DELLE REPUBBLICHE GIACOBINE Voci unitarie e indipendentiste erano emerse, negli ultimi decenni del secolo, all’interno del movimento giacobino, soprattutto fra le correnti più radicali. Ma erano rimaste soffocate dalla contraddizione tipica di tutto il giacobinismo italiano: quella di essere portatore di idee rivoluzionarie anche nel campo dei rapporti fra le nazioni e di dover legare al contempo la realizzazione di queste idee alle sorti della potenza francese. La stessa esperienza delle Repubbliche “giacobine” e poi del Regno d’Italia – esperienza per molti aspetti positiva, se non altro per aver unito in un unico organismo statale la parte più progredita del paese – era stata indebolita da questa contraddizione di fondo, aggravata dalla politica nazionalista e assolutista di Napoleone.
•
INDIPENDENZA E UNITÀ Con la Restaurazione e con il consolidamento di un’egemonia austriaca su tutta la penisola [Ź12_1], la situazione dell’Italia peggiorò sotto molti punti di vista. Ma certamente per i patrioti italiani i problemi risultarono semplificati: la lotta per gli ideali liberali e democratici poteva ora coincidere con quella per la liberazione dal dominio straniero. Questo, però, non significava ancora battersi per l’indipendenza e per l’unità italiana. Nei primi moti rivoluzionari, nel 1820-21, la questione nazionale fu infatti pressoché assente, o comunque subordinata alle rivendicazioni di ordine costituzionale, alle spinte per un mutamento politico all’interno dei singoli Stati. Nei moti che ebbero luogo dieci anni dopo nelle regioni del Centro-Nord, l’assenza di una visione unitaria risultò ancora in modo evidente. Dal fallimento di queste iniziative, come vedremo, avrebbe tratto spunto Giuseppe Mazzini per elaborare una nuova concezione, che aveva il suo punto centrale proprio nella rivendicazione dell’unità e dell’indipendenza nazionale.
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ź Insurrezione a Palermo 1820 [Museo del Risorgimento, Palermo]
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I moti del 1820-21 e del 1831 • L’INSURREZIONE NEL NAPOLETANO E IN SICILIA Anche la penisola italiana, in particolare il Regno delle Due Sicilie e il Regno di Sardegna, prese parte alla prima ondata rivoluzionaria che scosse l’Europa all’inizio degli anni ’20. Il 1° luglio 1820, infatti, pochi mesi dopo l’insurrezione spagnola, la rivolta scoppiò a Nola, nel Napoletano, ed ebbe subito l’adesione di numerosi alti ufficiali ex murattiani (cioè in carica durante il regno di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone), fra cui il generale Guglielmo Pepe. Il re Ferdinando I fu costretto a concedere una Costituzione simile a quella spagnola del 1812. Questa rivoluzione seguì un corso analogo a quella di Spagna e si trovò ad affrontare problemi molto simili: le divisioni fra democratici e moderati; il comportamento ambiguo del re, profondamente ostile alla Costituzione; la inevitabile opposizione del governo austriaco a un esperimento che sembrava minacciare l’intero assetto politico della penisola. A questi problemi si aggiunse la questione siciliana. Il 15 luglio, infatti, anche Palermo diede vita a una violenta ribellione che, al contrario di quella del Napoletano, registrò un’ampia partecipazione di popolo. Agli operai e agli artigiani si unirono anche gli esponenti
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separatismo È la tendenza di un gruppo o di una parte della popolazione con particolari caratteristiche storiche, linguistiche o religiose a separarsi dallo Stato di cui fa parte. In Italia movimenti separatisti sono nati in Sicilia e Sardegna, ma anche in Lombardia, Alto Adige e Valle d’Aosta.
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dell’aristocrazia locale, delusi dalla politica accentratrice della monarchia napoletana che aveva fatto perdere a Palermo il rango di capitale, e la rivolta assunse subito un chiaro carattere separatista*. A queste velleità indipendentiste dei palermitani il governo di Napoli reagì inviando in Sicilia un corpo di spedizione e la rivolta palermitana fu domata in pochi giorni, alla fine di ottobre.
• IN PIEMONTE E NEL LOMBARDO-VENETO Il successo della rivoluzione napoletana accese le speranze dei liberali italiani, attivi soprattutto in Piemonte e in Lombardia. Questi avevano l’obiettivo di una Costituzione e soprattutto della cacciata degli austriaci dal Lombardo-Veneto per la formazione di un regno costituzionale indipendente nell’Italia settentrionale. In Lombardia ogni ipotesi insurrezionale fu però stroncata dalla scoperta, nell’ottobre 1820, di un’organizzazione carbonara e dal conseguente arresto dei suoi capi, Silvio Pellico e Pietro Maroncelli, condannati poi a pesanti pene detentive. In Piemonte, invece, dopo molte esitazioni dovute soprattutto ai contrasti fra i democratici e i moderati, il moto scoppiò nel marzo 1821, quando alcuni reparti dell’esercito si ammutinarono, costringendo il re Vittorio Emanuele I ad abdicare in favore del fratello Carlo Felice. Dato che il nuovo re si trovava lontano dal Regno, la reggenza fu affidata al nipote Carlo Alberto – allora ventiduenne –, che aveva manifestato qualche simpatia per la causa liberale. Carlo Alberto si impegnò dapprima a concedere una Costituzione simile a quella spagnola ma poi, sconfessato e richiamato all’ordine da Carlo Felice, si unì alle truppe rimaste fedeli al re che, all’inizio di aprile, con l’aiuto di contingenti austriaci, sconfissero a Novara i rivoluzionari guidati dal conte Santorre di Santarosa. •
L’INTERVENTO AUSTRIACO A NAPOLI E LA REPRESSIONE La fine dell’esperienza liberale piemontese si inquadrava nella generale sconfitta delle correnti costituzionali e patriottiche, delineatasi già alla fine del marzo 1821 con la conclusione della rivoluzione napoletana. Era stato il cancelliere austriaco Metternich a decidere un intervento armato: l’Austria, infatti, egemone nella penisola, aveva imposto una serie di legami militari e politici anche al Regno delle Due Sicilie [Ź10_1]. Così gli austriaci entrarono a Napoli e restaurarono il potere assoluto di Ferdinando I, che mise in atto una dura repressione contro i protagonisti della rivoluzione. Anche in Piemonte la fine del moto costituzionale fu seguita da una serie di condanne contro i militari ribelli e da un massiccio esodo all’estero di patrioti.
• LE RIVOLTE DEL 1831
Anche la seconda fase delle insurrezioni italiane finì rapidamente con la repressione militare ad opera degli austriaci e con la condanna dei principali promotori. Questa volta la cospirazione prese avvio nel Ducato di Modena dove lo stesso duca Francesco IV sembrava appoggiare i cospiratori: STORIA IMMAGINE
Lettura pubblica in piazza San Marco a Venezia della sentenza per Silvio Pellico e Pietro Maroncelli 1821 [Fototeca Storica Nazionale, Milano] In quanto iscritti alla Carboneria, Silvio Pellico, Pietro Maroncelli e altri carbonari furono arrestati e condannati a morte dal governo austriaco. La pena fu poi
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commutata nella reclusione nelle prigioni dello Spielberg a Brno, in Moravia. La lettura pubblica del verdetto assunse i connotati di un monito del governo austriaco per il popolo italiano: gli arrestati furono fatti salire su un palco, in catene, mentre un cordone di gendarmi teneva lontana la folla.
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il duca sperava infatti di profittare di un eventuale sommovimento politico per diventare sovrano di un Regno dell’Italia centro-settentrionale. Per questo entrò in contatto con alcuni esponenti delle società segrete, fra cui Ciro Menotti, imprenditore e industriale, che lavorò per allargare allo Stato pontificio e alla Toscana la trama di una cospirazione destinata a porre le premesse per un’Italia unita sotto una monarchia costituzionale. Francesco IV non era però l’uomo più adatto per realizzare progetti di questo genere. Quando si rese conto che l’Austria si sarebbe opposta con le armi a qualsiasi mutamento politico in Italia, abbandonò rapidamente ogni idea di cospirazione e fece arrestare, nel febbraio 1831, i capi della congiura riuniti in casa di Menotti. La rivolta tuttavia si era ormai estesa a Bologna e a tutti i centri principali delle Legazioni pontificie, ossia la Romagna con Pesaro e Urbino, oltre alle attuali province di Bologna e Ferrara (territori amministrati dai rappresentanti del pontefice, i “cardinali legati”): dalle Legazioni il moto dilagò nel Ducato di Parma e in quello di Modena.
•
Ÿ Edoardo Matania, Arresto e supplizio di Ciro Menotti 1889 [in Francesco Bertolini, Storia del Risorgimento italiano, Milano 1899]
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TENTATIVI UNITARI E REPRESSIONE Rispetto ai moti del ’20-21, le insurrezioni dell’Italia centro-settentrionale del ’31 presentarono alcuni caratteri di novità. Questa volta a muoversi non furono tanto i militari, quanto i ceti borghesi appoggiati dall’aristocrazia liberale e sostenuti in qualche caso da una non trascurabile mobilitazione popolare, soprattutto nelle Legazioni, dove molto forte e diffuso era lo scontento nei confronti del malgoverno pontificio. Sia a Bologna sia nei Ducati, questa mobilitazione fu sufficiente per aver ragione di un potere debole e poco preparato a una repressione militare. Nonostante i tentativi di dare alla rivolta un carattere unitario, le persistenti divisioni municipali e il contrasto tra democratici e moderati indebolirono le iniziative insurrezionali. L’ipotesi di un intervento della Francia orleanista in favore dei ribelli si rivelò un’illusione, mentre l’esercito austriaco sconfisse a Rimini le forze degli insorti (marzo 1831). Il ritorno al vecchio ordine fu accompagnato dall’inevitabile repressione. Ciro Menotti fu condannato a morte e impiccato. Anche gli insorti emiliani e romagnoli furono condannati a lunghissime pene detentive, quando non riuscirono a riparare all’estero per ingrossare le file dell’ormai numerosa emigrazione politica italiana.
La penisola italiana tra arretratezza e sviluppo I quasi due decenni successivi ai moti insurrezionali furono caratterizzati ovunque da un ritorno a forme di assolutismo autoritario, non solo in Piemonte o nello Stato della Chiesa, ma anche nella più illuminata Toscana.
• LA MANCATA MODERNIZZAZIONE DI AGRICOLTURA E INDUSTRIA Anche il settore economico, nonostante una tendenza alla crescita produttiva, continuava comunque a essere caratterizzato da una condizione di notevole arretratezza rispetto alle zone più progredite d’Europa. Il settore agricolo, infatti, restava per lo più legato a tecniche e sistemi di conduzione tradizionali: solo in alcune zone della Lombardia e, in minor misura, del Piemonte si erano realizzati progressi consistenti nella cerealicoltura e nell’allevamento. L’industria, poi, era rimasta sostanzialmente estranea alla tecnologia delle macchine: il settore tessile, in particolare, si fondava ancora sulla manifattura tradizionale e sul lavoro a domicilio.
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STORIA IMMAGINE Salvatore Fergola, La ferrovia Torre Annunziata-Nocera XIX sec. [Museo di San Martino, Napoli] La prima ferrovia italiana fu realizzata nel Regno delle Due Sicilie: la Napoli-Portici, inaugurata il 3 ottobre 1839 insieme con le relative stazioni. Negli anni successivi furono raggiunte altre città (Torre del Greco, Castellammare di Stabia, Nocera) proseguendo fino a Salerno. Frattanto un secondo tronco ferroviario raggiunse Caserta nel 1843 e Capua nel 1844. Ferdinando II diede avvio a questo moderno progetto più per motivi di prestigio che per un preciso piano di sviluppo.
Anche le ferrovie ebbero un inizio assai lento e ritardato: solo nel corso degli anni ’40 la costruzione di strade ferrate assunse un carattere sistematico, limitatamente al Piemonte, al Lombardo-Veneto e alla Toscana.
•
I FATTORI DI SVILUPPO Questo avvio delle costruzioni ferroviarie fu comunque uno degli elementi che contribuirono a dare nuovo slancio all’economia degli Stati italiani. Altri fattori furono i progressi del sistema bancario (soprattutto in Toscana e in Piemonte), lo sviluppo dei porti e della marina mercantile, il generale incremento del commercio internazionale che ebbe ricadute positive anche sull’Italia. Si trattava, nel complesso, di progressi limitati, non tali da permettere agli Stati italiani di ridurre il ritardo che stavano accumulando nei confronti dell’Europa in via di industrializzazione. Ma furono sufficienti a far riflettere la parte più avvertita dell’opinione pubblica sui danni derivanti all’economia dalla mancanza di un mercato nazionale e di un efficiente sistema di comunicazioni: venne così riproposto il progetto di una unione doganale italiana da realizzare sul modello dello Zollverein tedesco [Ź10_7] e divennero argomenti centrali di discussione il confronto con gli altri paesi europei e la necessità di elaborare un nuovo e più razionale assetto politico di tutta la penisola.
Storiografia L. Riall, Le ideologie nazionaliste
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Il progetto mazziniano • UNA NUOVA STRATEGIA L’esito negativo
delle insurrezioni nell’Italia centro-settentrionale segnò la crisi irreversibile della Carboneria e, più in generale, mise in evidenza i limiti della strategia che aveva fino ad allora guidato le rivoluzioni italiane: la necessità di affidarsi all’appoggio di sovrani rivelatisi poi inaffidabili; la segretezza delle trame settarie che ostacolava una più ampia partecipazione; e soprattutto l’assenza di una direzione unitaria, capace di agire in una prospettiva autenticamente nazionale. Progetti unitari e repubblicani si erano affacciati negli ambienti dell’emigrazione italiana già nel
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decennio 1820-30, ma solo all’inizio degli anni ’30 l’ideale dell’unità italiana da conseguirsi attraverso un’autentica lotta di popolo si diffuse fra i patrioti di orientamento democratico e si tradusse in concreto programma d’azione, grazie soprattutto all’opera di Giuseppe Mazzini. Personaggi Giuseppe Mazzini, il profeta della nazione, p. 354
Documento 63 Giuseppe Mazzini, La necessità dell’insurrezione, p. 408
• MAZZINI: L’ITALIA INDIPENDENTE, UNITA, REPUBBLICANA Nato a Genova nel 1805, Giuseppe Mazzini si era avvicinato fin da giovane alle idee democratiche e patriottiche e aveva aderito alla Carboneria. Arrestato nel 1830, era stato costretto a emigrare a Marsiglia, dove era entrato in contatto con i maggiori esponenti degli esiliati democratici e delle voci più importanti della cultura politica dell’epoca. Erede della tradizione giacobina, Mazzini non ammetteva alcun compromesso con il principio monarchico e rifiutava ogni soluzione di tipo federalistico. Il suo programma politico era di un’estrema chiarezza: l’Italia doveva rendersi indipendente e darsi una forma di governo unitaria e repubblicana; la via per giungere all’unità e all’indipendenza era solo una, l’insurrezione di popolo, di tutto il popolo senza distinzioni di classe. •
UNA RELIGIONE POLITICA Per Mazzini, la fede nella libertà e nel progresso umano doveva essere vissuta come una fede religiosa. La rivendicazione dei diritti degli individui e delle nazioni non poteva essere separata dalla consapevolezza dei doveri dell’uomo e dalla coscienza di una missione spettante ai popoli, considerati strumenti di un disegno divino: di qui la celebre formula mazziniana «Dio e popolo». Nel pensiero di Mazzini, convinto sostenitore del principio di associazione, al di sopra dell’individuo c’era la famiglia, al di sopra della famiglia la nazione, al di sopra di tutto l’umanità, e così come gli individui, anche le nazioni dovevano associarsi per cooperare al bene comune. Per lui, pervaso da una sensibilità tipicamente romantica, l’idea di nazione aveva un posto fondamentale. Intesa come entità culturale e spirituale, prima ancora che naturale e geografica, la nazione era l’elemento sul quale si sarebbe realizzato il sogno di un’umanità libera e affratellata. All’Italia, in particolare, spettava il compito di porsi alla testa delle nazioni oppresse, di abbattere il vecchio ordine – l’Impero asburgico e lo Stato della Chiesa – e di farsi iniziatrice di un generale movimento di emancipazione. Se la Roma dei Cesari aveva unificato politicamente l’Europa, se la Roma dei papi l’aveva assoggettata a un’unica autorità religiosa, la Terza Roma sarebbe stata il centro di una nuova e più alta unità morale e sociale di tutti i popoli della terra. STORIA IMMAGINE Andrea Castaldi, L’addio dell’esiliato all’Italia XIX sec. [Museo del Risorgimento, Istituto Mazziniano, Genova] In un brano delle sue Note autobiografiche (scritte nel 1861), Giuseppe Mazzini ricorda quando nell’aprile 1821, ancora sedicenne, assistette a Genova alla partenza degli esuli scampati alle persecuzioni successive al fallimento del moto piemontese e come questa visione influì profondamente sui suoi pensieri e sulla sua futura attività politica.
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«Gli insorti s’affollavano [...] poveri di mezzi, erranti in cerca d’aiuto per recarsi nella Spagna dove la Rivoluzione era tuttavia trionfante. I più erano confinati in Sanpierdarena aspettandovi la possibilità dell’imbarco; ma molti s’erano introdotti ad uno ad uno nella città, ed io li spiava fra i nostri, indovinandoli [...] al dolore muto, cupo, che avevano sul volto. [...] Quel giorno fu il primo in cui s’affacciasse confusamente all’anima mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria.»
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Ÿ Bandiera della Giovine Italia XIX sec. [Museo del Risorgimento, Istituto Mazziniano, Genova] Raro esempio di bandiera tricolore a bande orizzontali appartenuta ad Antonio Dodero, mazziniano esiliato a Marsiglia nel 1833.
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• LA QUESTIONE SOCIALE Nelle idee di Mazzini non c’era posto né per le teorie materialistiche (fondate sull’idea che la realtà derivi unicamente dalla materia e che dunque non possa spiegarsi con l’intervento divino) né per le tematiche legate alla lotta di classe (il contrasto permanente fra borghesia e proletariato, secondo Marx ed Engels [Ź9_7]). Non per questo, però, Mazzini ignorava i problemi sociali: era favorevole a riforme anche audaci (tra cui la divisione tra i contadini delle terre incolte), ma difendeva al contempo il diritto di proprietà come base dell’ordine sociale, considerando pericolosa qualsiasi teoria che tendesse a dividere la collettività nazionale e a incrinare l’unità spirituale del popolo. Per lui anche la questione sociale si sarebbe dovuta risolvere attraverso il principio di associazione e, infatti, si impegnò personalmente nella promozione di cooperative e società di mutuo soccorso fra gli operai. •
LA GIOVINE ITALIA Lo strumento per realizzare il progetto mazziniano di una Italia indipendente, unita e repubblicana era una nuova organizzazione che, anziché nascondere agli affiliati i suoi scopi ultimi, li rendesse subito evidenti e propagandasse apertamente i suoi princìpi fondamentali svolgendo così, accanto all’azione cospirativa, un’opera di continua educazione politi-
PERSONAGGI
Giuseppe Mazzini, il profeta della nazione Quando nel 1861 un editore gli propose di scrivere delle note autobiografiche, Mazzini rispose che le sue vicende illustravano il dramma italiano, e cioè «come un uomo nel quale aspirazioni, inclinazioni e sogni erano tutti di natura letteraria, artistica e filosofica fosse stato spinto a spendere tutta la sua vita nell’organizzare associazioni segrete, nel raccogliere denaro per comprare moschetti, e nel dannarsi l’anima a forza di scrivere ogni anno tante migliaia di lettere, note e istruzioni». Questa fu in effetti la vita di Giuseppe Mazzini, capo in esilio di un movimento politico clandestino e perseguitato dalle polizie di tutta Europa. Nato nel 1805 nella Genova napoleonica, si laureò in legge, ma ciò a cui aspirava era diventare un critico letterario. Impregnato già in gioventù di ideali romantici, leggeva accanitamente le opere di Walter Scott, Shelley, Wordsworth, ma anche Dante, il suo preferito. Abbracciò gli ideali del nazionalismo sull’onda dell’entusiasmo dei primi moti per l’indipendenza. Inizialmente aderì alla Carboneria e partecipò alle cospirazioni contro il governo sabaudo, ma finì arrestato nel 1830. Rilasciato per mancanza di prove, cominciò a 26 anni la sua vita da esule, un dato biografico che contribuì ad alimentare la leggenda di Mazzini come martire della patria. Stabili-
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tosi a Marsiglia, entrò in contatto con altri patrioti e si applicò allo studio come non aveva mai fatto prima. Nel frattempo, l’attività politica prendeva tutto il suo tempo e non ne restava molto per gli affetti. Il padre, medico, era lontano dalle convinzioni repubblicane del figlio, ma fu comunque solidale con i suoi sforzi e lo sostenne finché fu in vita. Più coinvolta nella sua battaglia era la madre, Maria: patriota, molto religiosa e convinta che il figlio fosse stato destinato da Dio a grandi imprese per l’Italia. Mazzini l’avrebbe rivista solo una volta nel 1848 per un breve incontro. Fu a Marsiglia che nel 1831 Mazzini fondò insieme ad altri esuli la Giovine Italia, inizialmente una comunità dedita alla propaganda rivoluzionaria, diventata in seguito un modello per tutto il mondo (nacquero poi una Giovine Boemia, una Giovine Argentina, una Giovine Ucraina, ecc.). Fu uno degli elementi di novità portati da Mazzini nella vita pubblica: la politica doveva funzionare attraverso associazioni libere e aperte, con un programma, degli iscritti, una corrispondenza regolare tra la sede centrale e le sezioni locali. La Giovine Italia ebbe da subito un grandissimo successo nel raccogliere adesioni dall’Italia e dagli esuli, per di più provenienti da tutte le classi sociali. Presto Mazzini si ritrovò a disporre di una estesa rete cospirativa segreta. Molto meno successo ebbero i primi tentativi insurrezionali, subito
repressi. Dopo l’ennesimo tentativo rivoluzionario, nel 1833 i tribunali sabaudi emisero sentenze esemplari con centinaia di incarcerati, esuli e una dozzina di giustiziati. Mazzini stesso fu condannato a morte in contumacia e il suo più caro amico, Jacopo Ruffini, si suicidò in carcere per paura di tradire sotto tortura i compagni: una tragedia che non avrebbe mai smesso di tormentarlo. Si trasferì
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ca. La nuova organizzazione nacque a Marsiglia, nell’estate del ’31, si chiamò Giovine Italia, adottò la bandiera tricolore – bianca, rossa e verde – e riunì attorno a Mazzini numerosi emigrati politici dell’ultima generazione e molti giovani democratici che operavano in Italia.
• I TENTATIVI INSURREZIONALI Convinti della necessità di un legame strettissimo tra «pensiero e azione» (la famosa formula mazziniana), Mazzini e i suoi seguaci non aspettarono il maturare di condizioni internazionali favorevoli per mettere in atto i loro progetti e organizzarono, negli anni ’30-40, una serie di tentativi insurrezionali in Italia. Nell’aprile del 1833 fu scoperta una congiura in Piemonte, dove la Giovine Italia aveva numerosi seguaci tra le file dell’esercito: vi furono decine di arresti e 12 fucilati, mentre oltre 200 patrioti furono costretti a fuggire all’estero. Nel febbraio 1834, invece, fu bloccato sul nascere un progetto rivoluzionario basato su una spedizione di un corpo di volontari che sarebbe dovuto penetrare in Savoia dalla Svizzera e su una contemporanea insurrezione da organizzare a Genova. In questo piano ebbe una parte attiva anche Giuseppe Garibaldi, allora ventiseienne marinaio di Nizza che, sfuggito miracolosamente alla cattura e condannato a morte in contumacia, dovette riparare in Sud America.
in Svizzera, dove visse tre anni elaborando ambiziosi progetti rivoluzionari, a volte utopici. A questi momenti di entusiasmo, però, seguivano acutissime crisi depressive. Mazzini ne usciva solo facendo appello alla sua fede incrollabile nei destini della nazione italiana, secondo una concezione religiosa eccentrica e mai sistematizzata. Espulso anche dalla Svizzera, nel 1837 arrivò a Londra, dove visse quasi tutta la sua vita. I suoi esordi nella capitale britannica furono difficili, ma Mazzini ben presto poté contare sulla rete di contatti italiani e su alcuni influenti protettori, come lo scrittore Charles Dickens. Per guadagnarsi da vivere offrì la sua penna a qualsiasi rivista fosse disposta a pagarlo. Scrivendo di pittura, letteratura e storia d’Italia sperava di far interessare l’opinione pubblica inglese alle vicende italiane, un fattore che riteneva decisivo per il successo della sua rivoluzione politica. Dedicò le sue energie anche a migliorare le condizioni degli artigiani italiani a Londra, creando una società di mutuo soccorso e una scuola dove insegnare italiano e fare proseliti. Nonostante queste sue attività, da Marx e da altri socialisti gli arrivarono molte critiche: i suoi propositi rivoluzionari trascuravano il mondo contadino e i rapporti di classe. Effettivamente, benché Mazzini avvertisse il fascino delle promesse socialiste, fu semŻ Ritratto fotografico di Giuseppe Mazzini 1865 ca.
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pre contrario a far deviare la rivoluzione nazionale in uno scontro tra le classi sociali. La chiusura di Mazzini alle istanze socialiste non era forse solo dettata dalla coerenza del suo nazionalismo, che presentava i membri della nazione come parte di una comunità solidale perché legata da vincoli profondi. Doveva pesare molto anche la sua ignoranza sulle reali condizioni dei contadini italiani. Come lo accusò Marx, Mazzini non conosceva che le città, con la loro nobiltà liberale e i loro cittadini illuminati, ciò che limitò sempre la sua attività politica. Il suo rifiuto manifesto delle istanze socialiste era però anche tattico, convinto com’era che fosse necessario cercare l’appoggio dei moderati per portare a termine la rivoluzione italiana. In effetti, Mazzini non smise mai di cercare di includere i monarchici nei suoi piani, perfino nel biennio 1848-49, quando voleva incoraggiare la corte di Torino a cooperare con i movimenti rivoluzionari. La precedenza doveva essere data all’unità: «Serbiamo intatte le nostre credenze; e l’avvenire deciderà». Nonostante i suoi sforzi, però, la stampa piemontese continuò a dipingerlo come un nemico peggiore degli austriaci, addirittura come la causa del fallimento della prima guerra d’indipendenza. Fu durante i cento giorni alla guida della Repubblica romana che il suo talento al governo fu finalmente messo alla prova. Mazzini stupì gli osservatori stranieri presenti a Roma con il suo pragmatismo, ma anche con la
tenacia con cui si oppose alla capitolazione. Dalla sconfitta militare la sua figura venne trasfigurata: ormai era un eroe agli occhi dell’opinione pubblica europea. La sua fama toccò l’apice, come dimostrava la diffusione dei suoi ritratti in tutto il Nord Italia. Negli anni ’50 Mazzini fondò il Partito d’azione, impegnato a provocare piccole insurrezioni locali nel tentativo di accendere la miccia della rivoluzione. I clamorosi insuccessi finirono per sbiadire in parte la fama dell’eroe della Repubblica romana; ma, tenendo in continuo stato d’allarme tutta la penisola italiana, mantennero vivo l’interesse per la questione italiana all’estero. Il successo della strategia moderata e i trionfi di Garibaldi finirono però per emarginarlo dalle fasi finali dell’unificazione italiana [Ź13_4]. Dopo il 1861, Mazzini continuò a opporsi violentemente a Cavour e ai monarchici di Torino, senza mai smettere di tramare tentativi insurrezionali, sempre sterili. La morte lo trovò a Pisa nel 1872, sotto falso nome. Il corteo del suo funerale a Genova qualche giorno dopo contò decine di migliaia di persone, prova ulteriore del suo carisma. Passarono anni prima che la sua memoria pubblica venisse riscattata: prima da ex mazziniani come Crispi, poi dal fascismo che vi trovò un precedente del proprio culto della nazione; e infine dalla Repubblica italiana, inaugurata nel 1946 anche con l’ostensione, a Genova, della salma di Giuseppe Mazzini.
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LA CRISI DELLA GIOVINE ITALIA E I DUBBI DI MAZZINI L’esito fallimentare della spedizione in Savoia rappresentò un duro colpo per il prestigio di Mazzini e per l’attività della Giovine Italia. Privato, nel giro di pochi mesi, di molti dei suoi migliori collaboratori, Mazzini dovette affrontare in questi anni una vera e propria crisi di coscienza e notevoli difficoltà personali (espulso prima dalla Francia e poi dalla Svizzera, si trasferì a Londra). La «tempesta del dubbio» (così la chiamò Mazzini stesso) fu in breve superata. Come i grandi rivoluzionari di ogni tempo, Mazzini era convinto che la «santità» della causa per cui lottava giustificasse anche i sacrifici più dolorosi. Nell’aprile del ’34, poco dopo il fallimento della spedizione in Savoia, aveva dato vita, assieme a esuli di altre nazionalità, alla Giovine Europa: un’iniziativa che aveva però un valore soprattutto simbolico e che ebbe scarsi effetti sul piano operativo.
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LA SPEDIZIONE DEI FRATELLI BANDIERA Nella prima metà degli anni ’40 ci furono altri tentativi di insurrezione. Nel 1843 e nel 1845 furono soffocati due moti nelle Legazioni pontificie. Nel giugno-luglio 1844, invece, fallì una spedizione in Calabria organizzata da due giovani veneziani, i fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, ufficiali della marina austriaca aderenti alla Giovine Italia, che avevano sperato di far sollevare i contadini contro il governo borbonico: la popolazione locale rimase indifferente e i due fratelli vennero catturati e fucilati insieme con altri sei compagni. In realtà, né i moti nelle Legazioni né la spedizione dei Bandiera erano stati organizzati da Mazzini, che anzi aveva espresso un parere negativo sulla opportunità di queste iniziative. Ma il ripetersi di episodi insurrezionali ispirati dai repubblicani e immancabilmente destinati al fallimento contribuì ad alimentare le critiche nei confronti dei metodi mazziniani e fornì nuovi argomenti alle polemiche dei moderati contro le strategie rivoluzionarie.
5 Parole della storia Federalismo, p. 358
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Moderati, cattolici e federalisti •
I MODERATI E IL CATTOLICESIMO LIBERALE Negli anni ’40, il dibattito politico italiano si ampliò e si arricchì di nuove voci. La principale novità fu l’emergere di un orientamento moderato, che si differenziava nettamente sia dal conservatorismo tradizionale e legittimista sia, ovviamente, dal radicalismo repubblicano di Mazzini. Per il problema italiano i moderati miravano a soluzioni graduali, tali da non comportare l’uso della violenza e lo scontro con le autorità costituite. La base principale del pensiero moderato stava nel tentativo di conciliare la causa liberale e patriottica con la religione cattolica – considerata il più importante fattore di unità della nazione italiana – e, di conseguenza, con la Chiesa di Roma. Una corrente cattolico-liberale esisteva in Italia fin dagli anni della Restaurazione e aveva i suoi esponenti più illustri in Alessandro Manzoni e nel filosofo Antonio Rosmini, fautore di una riforma interna alla Chiesa, nel solco dell’ortodossia cattolica. Su posizioni analoghe erano quegli intellettuali toscani – come Gino Capponi e Bettino Ricasoli – che si erano formati attorno all’«Antologia» di Vieusseux. La condanna papale del 1832 del cattolicesimo liberale, per quanto fosse rivolta soprattutto contro il gruppo francese de «L’Avenir» [Ź9_4], si ripercosse anche sul movimento italiano, limitandone gli spunti più apertamente
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LA QUESTIONE NAZIONALE: PROTAGONISTI E OPERE DEL DIBATTITO POLITICO AUTORI
Storiografia 62 A.M. Banti, La diffusione del patriottismo, p. 407
OPERE
Cesare Balbo (1789-1853)
Le speranze d’Italia, 1844
Massimo d’Azeglio (1798-1866)
Degli ultimi casi di Romagna, 1846 Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana, 1847
Vincenzo Gioberti (1801-1852)
Del primato morale e civile degli italiani, 1843 Del rinnovamento civile d’Italia, 1851
Carlo Cattaneo (1801-1869)
Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, 1849
Giuseppe Mazzini (1805-1872)
Fede e avvenire, 1835 Pensieri sulla democrazia in Europa, 1846
Giuseppe Ferrari (1811-1876)
La federazione repubblicana, 1851
riformatori. Ma non impedì al pensiero cattolico-moderato di esprimersi per altre vie: come i romanzi, per lo più di ambiente medievale, di Cesare Cantù; o come le opere storiche del piemontese Cesare Balbo, che rivalutavano il ruolo della Chiesa e del papato nella storia nazionale e ne esaltavano quello di difensori delle «libertà d’Italia». Definiti “neoguelfi”, con un termine tratto dalla storia medievale, i cattolici liberali suscitarono, per reazione, la nascita dei “neoghibellini”, tra cui emerse uno scrittore toscano di orientamento repubblicano e anticlericale come Francesco Domenico Guerrazzi.
• GIOBERTI E IL NEOGUELFISMO Il neoguelfismo conobbe il suo momento di maggior popolarità dopo il 1843, con la pubblicazione del Primato morale e civile degli italiani, un libro dell’abate torinese Vincenzo Gioberti. Riprendendo da Mazzini il concetto di una speciale «missione» spettante al popolo italiano, Gioberti ne capovolse il significato, identificando questa missione col ruolo della Chiesa. Il “primato” era quello che veniva all’Italia dall’essere sede del papato e dall’averne condiviso nel corso dei secoli la missione di civiltà. Gioberti era convinto che, per tornare alle glorie passate, l’Italia avesse bisogno di ampie riforme politiche e amministrative. Ma riteneva che per raggiungere questo scopo non fosse necessario puntare all’unità politica: la soluzione da lui proposta era una confederazione fra gli Stati italiani, fondata sull’autorità superiore del papa (che ne avrebbe assunto la presidenza) e sulla forza militare del Regno di Sardegna. Era un’ipotesi non meno utopistica di quella mazziniana, anche perché puntava su un’evoluzione liberale e nazionale della Chiesa al momento inimmaginabile. Ma presentava all’opinione pubblica moderata un progetto che non prevedeva rivoluzioni, si accordava con il sentimento cattolico dominante e soddisfaceva al tempo stesso gli ideali patriottici, poiché rivendicava all’Italia un «primato morale e civile» fra le nazioni europee. •
Ÿ Antonio Puccinelli, Ritratto di Gioberti seconda metà XIX sec. [Galleria d’arte moderna, Firenze]
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IL LIBERALISMO MODERATO DI BALBO E D’AZEGLIO L’opera di Gioberti aprì un intenso dibattito politico e fu seguita da una serie di altre proposte che ne riecheggiavano, pur con notevoli varianti, i temi fondamentali. Nel 1844 uscì Le speranze d’Italia di Cesare Balbo, che auspicava anch’esso la formazione di una lega – doganale e militare – fra gli Stati italiani. A differenza di Gioberti, però, Balbo si poneva il problema della presenza dell’Austria, principale ostacolo per qualsiasi ipotesi indipendentista, e proponeva di risolvere la questione con mezzi diplomatici, assecondando la tendenza dell’Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi verso l’Europa centro-orientale.
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Un altro esponente del liberalismo moderato piemontese, Massimo d’Azeglio, prendendo spunto dal fallimento dei moti del ’45 nelle Legazioni pontificie, espresse in un opuscolo uscito all’inizio del 1846, Degli ultimi casi di Romagna, una dura critica sia del malgoverno pontificio sia delle iniziative insurrezionali, giudicate inutili e persino dannose per la causa nazionale. In alternativa, indicava la via delle riforme graduali, senza escludere, in prospettiva, una soluzione militare affidata alle armi del Regno sabaudo.
Documento 65 Carlo Cattaneo, La soluzione federale, p. 411
• IL FEDERALISMO REPUBBLICANO DI CATTANEO La scelta a favore delle riforme e la tendenza alle soluzioni federalistiche non erano patrimonio esclusivo dei moderati. Negli stessi anni in cui il neoguelfismo conosceva i suoi maggiori successi e i moderati piemontesi proponevano la candidatura del Regno sardo al ruolo di guida del Risorgimento nazionale, una corrente federalista, democratica e repubblicana si sviluppava in Lombardia. Principale esponente di questa tendenza era il milanese Carlo Cattaneo, direttore dal ’39 al ’45 della rivista «Il Politecnico», erede della tradizione di pragmatismo e di riformismo tipica della cultura illuminista dei Verri e di Beccaria [Ź3_5]. Cattaneo aveva interessi culturali vastissimi, orientati soprattutto verso il campo economico e sociale. Da una parte la sua formazione laica e illuminista lo portava a diffidare della mistica romantica di Mazzini, dall’altra la profonda avversione che nutriva per il dominio austriaco non gli impediva di considerare con ostilità la prospettiva di un assorbimento del Lombardo-Veneto da parte di un Piemonte assolutista e clericale [Ź12_4]. La via da lui indicata per la soluzione del problema italiano non si discostava nella sostanza da quella dei moderati, in quanto puntava sulle riforme politiche e sullo sviluppo economico all’interno dei singoli Stati, con particolare insistenza sui temi del liberismo doganale, delle vie di comunicazione e dell’istruzione pubblica. Ma molto diverso era l’obiettivo finale, che consisteva in una confederazione repubblicana, sul modello degli Stati Uniti [Ź7_4] o della Svizzera, che lasciasse
LE PAROLE DELLA STORIA
Federalismo Per federalismo (dal latino foedus, “patto”) si intende quella teoria politica che propugna l’associazione fra diversi Stati e la creazione di entità sovranazionali capaci di assicurare la convivenza e la cooperazione fra diverse realtà salvaguardandone al tempo stesso la reciproca autonomia. Presente come ipotesi teorica nel pensiero illuminista (in particolare in Kant), il federalismo, nella sua versione sovranazionale, trovò le sue prime applicazioni e i suoi primi modelli nella Svizzera e negli Stati Uniti d’America. In concreto, il federalismo è stato fatto proprio, in tempi e in contesti diversi, da correnti politiche molto diverse tra loro. Federalisti si definirono quegli intellettuali americani (Hamilton, Madison, Jay) che, ai tempi del dibattito sulla costituzione degli Usa, si schierarono per un rafforzamento degli organi federali pur nel rispetto dell’autonomia dei
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singoli Stati. Successivamente il federalismo è stato spesso invocato, in polemica col modello di Stato accentrato, proprio dai fautori delle autonomie, sia di ispirazione liberale, come Cattaneo, sia di tendenza socialista, come Proudhon: capostipite quest’ultimo di una nutrita corrente di federalismo socialista e anarchico. Un caso a parte è quello di Mazzini, strenuo sostenitore dello Stato nazionale unitario, ma favorevole a una federazione tra le nazioni d’Europa (e, in prospettiva, del mondo intero). Nel ’900, l’ideale federalista ha tratto nuovi spunti dall’esperienza delle due guerre mondiali per invocare il superamento dello Stato nazionale e la creazione di entità sovranazionali capaci di bloccare l’insorgere di altri conflitti. Nell’Europa del secondo dopoguerra, questa corrente ha dato origine al movimento federalista (rappresentato in Italia soprattutto da Altiero Spinelli), attivo nel promuovere e nello stimolare i processi di inte-
grazione politica fra i paesi europei. Negli ultimi decenni del XX secolo, mentre il progetto di Unione europea procedeva verso una lenta e contrastata realizzazione (sia pure con modalità diverse da quelle auspicate dai federalisti), si manifestava in alcuni paesi europei un nuovo tipo di federalismo, a vocazione non più sovranazionale ma infranazionale: orientato cioè non all’unione fra Stati già sovrani, ma, al contrario, alla divisione di Stati già accentrati in entità autonome, individuate in base a criteri etnici, culturali o anche economici e considerate, al contrario degli “artificiali” Stati nazionali, più vicine ai bisogni e ai sentimenti delle popolazioni. Questo federalismo può facilmente sfociare in forme di vero e proprio separatismo. In Italia ciò è accaduto in tempi recenti ad opera del movimento leghista, sviluppatosi prima in Veneto e in Lombardia e poi diffusosi in buona parte delle regioni settentrionali.
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LE IDEOLOGIE DEL RISORGIMENTO COME FARE L’ITALIA?
Mazzini
Gioberti
Balbo
d’Azeglio
Cattaneo
Italia unita, indipendente e repubblicana
Confederazione di Stati italiani
Lega doganale e militare tra gli Stati italiani
Auspica riforme graduali
Riforme politiche e sviluppo economico
Attraverso un’insurrezione di popolo
Orientamento democratico
Presieduta dal papa e difesa dai Savoia
Orientamento neoguelfo
Patrocinata dal Regno sabaudo
Compensando l’Austria attraverso acquisizioni in Europa dell’est
Prospetta un intervento del Regno sabaudo
Orientamento liberale
Confederazione repubblicana sul modello Usa
Orientamento federalista democratico
ampi spazi di autonomia a tutte le istanze della vita locale e fosse la premessa per la costituzione degli Stati Uniti d’Europa. Un altro esponente del federalismo repubblicano fu Giuseppe Ferrari. Milanese, emigrato a Parigi alla fine degli anni ’30, Ferrari criticò sia il moderatismo cattolico dei neoguelfi sia il nazionalismo unitario dei mazziniani, sostenendo la necessità di inserire la soluzione del caso italiano nel quadro di una rivoluzione europea che avrebbe dovuto avere il suo centro in Francia. Nell’esilio parigino Ferrari si accostò anche alle teorie socialiste (soprattutto quelle di Proudhon) e fu tra i primi a collegare strettamente la questione nazionale ai temi della questione sociale.
STORIA IMMAGINE La barca dell’indipendenza italiana 1848 [Museo del Risorgimento, Milano] In questa allegoria di chiaro sapore giobertiano, la barca dell’indipendenza italiana, guidata da Pio IX e Carlo Alberto, veleggia nella tempesta verso l’orizzonte dove il sole
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sta già sorgendo a schiarire le nubi nere che incombono. Sull’albero sono issati la croce e il tricolore; sulla vela piccola è scritto «Primato d’Italia», su quella grande è disegnata la carta geografica d’Italia. Nel cielo, un fulmine colpisce l’aquila a due teste, simbolo dell’Impero austro-ungarico, mentre in mare una naufragante Italia è salvata dalla mano di Pio IX.
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statuto È la legge fondamentale in cui sono elencati i princìpi che regolano struttura e funzionamento dello Stato, diritti e doveri dei cittadini. Nel Medioevo e nel periodo rinascimentale, il termine “statuto” indicava la raccolta delle leggi e delle consuetudini che guidavano non solo l’attività di organismi statali o pubblici, ma anche di organizzazioni private (per esempio, gli statuti delle corporazioni mercantili o professionali) e in questo significato è usato largamente anche oggi.
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Pio IX e il movimento per le riforme • LE RIFORME DI PIO IX Tra il 1846 e il 1847 l’opinione pubblica italiana visse un periodo di intensa mobilitazione e di febbrile attesa di grandi mutamenti. L’evento decisivo fu l’elezione, nel giugno 1846, di papa Pio IX, l’arcivescovo di Imola Giovanni Maria Mastai Ferretti (sul soglio pontificio fino al 1878). Il nuovo papa era noto soprattutto come un pastore di anime, dalla religiosità sincera e profonda. Aveva un tratto umano bonario che lo aveva reso popolare nella sua diocesi, ma non sembrava avere una personalità politica molto spiccata, né gli si riconoscevano simpatie liberali. I primi atti del suo pontificato – in particolare la concessione di un’ampia amnistia per i detenuti politici – suscitarono però un vero e proprio entusiasmo. Liberali e moderati di tutta Italia credettero di aver trovato in Pio IX il loro eroe, l’uomo capace di dar corpo al programma neoguelfo. Anche da parte democratica vennero al nuovo papa aperture e riconoscimenti. Le piazze delle principali città italiane si riempirono di manifestazioni inneggianti al pontefice. Questo clima di entusiasmo finì per coinvolgere lo stesso Pio IX e spingerlo a una serie di concessioni che probabilmente non rientravano nei suoi programmi iniziali. Nella primavera-estate del ’47 fu convocata una Consulta di Stato, formata da rappresentanti delle province scelti dall’autorità centrale, venne istituita una Guardia civica e fu attenuata la censura sulla stampa. Questi provvedimenti, tutt’altro che rivoluzionari, ebbero un effetto superiore al loro valore reale, dando ulteriore stimolo alla mobilitazione per le riforme e alla propaganda patriottica in tutti gli Stati italiani e nello stesso Lombardo-Veneto. • IL MOVIMENTO PER LE RIFORME NEGLI ALTRI STATI ITALIANI Fra l’estate e l’autunno del ’47, il movimento per le riforme dilagò in tutta Italia, accompagnato da una mobilitazione popolare a sfondo sociale, legata alle conseguenze della crisi economica europea che, in questo periodo, fece salire anche in Italia i prezzi dei generi alimentari. Sovrani e governanti – preoccupati dal rischio di una svolta democratica – furono indotti a prudenti concessioni. Nel Regno di Sardegna, Carlo Alberto (diventato re nel 1831) varò, in ottobre, un nuovo ordinamento amministrativo, che rendeva elettivi i consigli comunali e provinciali, e allentò i controlli sulla stampa. In novembre, Piemonte, Toscana e Stato della Chiesa sottoscrissero gli accordi preliminari per una Lega doganale italiana. Estraneo al progetto di Lega – e a tutto il moto riformatore – rimase il Regno delle Due Sicilie, che godeva dell’appoggio dell’Austria ma doveva fare i conti con la crescente ostilità dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Proprio nel Regno borbonico sarebbe iniziata l’ondata insurrezionale che avrebbe coinvolto l’Italia intera, nel più ampio quadro delle rivoluzioni europee del 1848. •
L’INIZIO DELLE SOLLEVAZIONI In Italia la rivoluzione del ’48 ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei. Già all’inizio dell’anno, tutti gli Stati italiani apparivano percorsi da un generale fermento. Primo e fondamentale obiettivo comune a tutte le correnti politiche era la concessione di Costituzioni o statuti* fondati sul sistema rappresentativo. Fu la sollevazione di Palermo del 12 gennaio 1848 (legata soprattutto alle rivendicazioni autonomistiche dei siciliani, già all’origine del moto di ribellione del 1821) a determinare il primo successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone – il più retrogrado di tutti i regnanti della penisola – ad annunciare la concessione di una Costituzione nel Regno delle Due Sicilie.
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ź Frontespizio dello Statuto albertino [Museo del Risorgimento, Torino]
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La mossa inattesa di Ferdinando II non bastò a spegnere l’autonomismo siciliano ed ebbe inoltre l’effetto di rafforzare la mobilitazione per le Costituzioni in tutta Italia.
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LE COSTITUZIONI Spinti dalla pressione dell’opinione pubblica e dalle continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio IX decisero di concedere la Costituzione. Annunciate – salvo quella di Pio IX – prima dello scoppio della rivoluzione di febbraio in Francia [Ź10_9], le Costituzioni del ’48 avevano tutte un carattere moderato ed erano ispirate al modello di quella francese del 1830 [Ź10_6]. La più importante di tutte, lo Statuto albertino, promulgato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848, sarebbe poi diventato la legge fondamentale del Regno d’Italia, rimasta in vigore per un secolo fino alla Costituzione repubblicana del 1° gennaio 1948. Prevedeva una Camera dei deputati – le cui modalità di elezione, definite da apposita legge, legavano il diritto di voto a un censo piuttosto elevato –, un Senato nominato dal re e una stretta dipendenza del governo dal sovrano.
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Il ’48 italiano. La guerra 7 contro l’Austria •
LE RIFORME DI PIO IX Proprio mentre nei maggiori Stati italiani si andava delineando una soluzione costituzionale-moderata, lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell’Impero asburgico mutò i termini del problema, dando nuovo spazio all’iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione nazionale, fino ad allora rimasta in ombra.
• LE RIVOLTE DI VENEZIA E MILANO Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano. A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l’avvoSTORIA IMMAGINE Rivoluzione in piazza San Marco a Venezia il 18 marzo 1848 XIX sec. [Museo Correr, Venezia] Il 18 marzo 1848 a Venezia, a un solo giorno di distanza dalla liberazione richiesta a gran voce dal popolo di due detenuti politici (Daniele Manin e Niccolò Tommaseo), fu innalzato il tricolore in piazza San Marco, scatenando la reazione delle truppe austriache e la successiva rivolta. La cronaca di quei giorni fu raccontata qualche mese più tardi da Cristina Trivulzio di Belgioioso (aristocratica milanese attiva sostenitrice dei patrioti italiani) sulla rivista francese «Revue
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des Deux Mondes»: «Le grida “viva la costituzione” risuonavano ancora quando, tutt’a un tratto, una voce formidabile, questa volta la vera voce del popolo, lanciò un grido inaspettato: “abbasso il governo!” e mille voci lo ripeterono immediatamente. Da quel momento, l’atteggiamento della folla, fino ad allora incurante e beffardo, mutò in fosca esaltazione. [...] Non si trattava più di qualche concessione illusoria: si trattava dell’indipendenza stessa, era la grande lotta dell’Italia contro l’Austria che ricominciava, e che si prendeva Venezia per palcoscenico».
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cato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell’Arsenale militare cui si unirono numerosi marinai e ufficiali (la marina asburgica era composta in larga parte da veneti) costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 marzo un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la Costituzione della Repubblica veneta. A Milano l’insurrezione iniziò il 18 marzo, con un assalto al palazzo del governo, e si protrasse per cinque giorni, le celebri «cinque giornate» milanesi. Borghesi e popolani combatterono, fianco a fianco, sulle barricate contro i soldati austriaci del maresciallo Joseph Radetzky. Ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso degli scontri, che costarono agli insorti circa 400 vittime. La direzione delle operazioni fu assunta da un consiglio di guerra composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell’aristocrazia liberale finirono, dopo molte esitazioni, per appoggiare la causa degli insorti e formarono, il 22 marzo, un governo provvisorio. Il giorno stesso Radetzky, preoccupato per l’eventualità di un intervento del Piemonte, decise di ritirare le sue truppe all’interno del cosiddetto quadrilatero, l’area definita dal perimetro delle fortezze di Verona, Legnago, Mantova e Peschiera.
• LA PRIMA GUERRA D’INDIPENDENZA Il 23 marzo, all’indomani della cacciata degli austriaci da Venezia e da Milano, il Piemonte dichiarava guerra all’Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione: la pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi dell’Impero asburgico l’occasione per liberare l’Italia dagli austriaci; la tradizionale aspirazione della monarchia dei Savoia ad ampliare verso est i confini del Regno; infine il timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di propaganda repubblicana. Anche in questo caso, com’era avvenuto per la concessione degli statuti, l’esempio di un sovrano finì col condizionare le decisioni degli altri. Preoccupati dal diffondersi dell’agitazione democratica e patriottica che minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II di Napoli, Leopoldo II di Toscana e Pio IX decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca e inviarono truppe regolari che partirono, in un’atmosfera di grande entusiasmo popolare, affiancate da numerosi contingenti di volontari. La guerra piemontese si trasformava così nella prima guerra di indipendenza nazionale, benedetta dal papa e combattuta da tutte le forze patriottiche. •
LA CRISI DELL’ALLEANZA E LA SCONFITTA Ma l’illusione durò poco. Carlo Alberto mostrò scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari e si preoccupò soprattutto di preparare l’annessione del Lombardo-Veneto al Piemonte, suscitando l’irritazione dei democratici e la diffidenza degli altri sovrani, già poco entusiasti della partecipazione al conflitto. Particolarmente imbarazzante era la posizione di Pio IX, che si trovava in guerra contro una grande potenza cattolica. Il 29 aprile il papa annunciò il ritiro delle sue truppe. Pochi giorni dopo lo imitava il granduca di Toscana. A metà maggio Ferdinando di Borbone richiamò il suo esercito. Rimasero a combattere contro l’Austria, disobbedendo agli ordini dei sovrani, molti fra i componenti dei corpi di spedizione regolari. Tra questi i volontari toscani, guidati da Giuseppe Montanelli, che furono protagonisti, in maggio, di un glorioso scontro a Curtatone e Montanara. Accorse dal Sud America Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del governo provvisorio lombardo. Ma il contributo dei volontari fu poco e male utilizzato
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da Carlo Alberto, deciso a combattere la “sua guerra” e a non lasciare spazio all’azione dei democratici. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, l’iniziativa tornò nelle mani dell’esercito asburgico. Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia
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PERSONAGGI
Giuseppe Garibaldi, il campione della nazione italiana La vita di Giuseppe Garibaldi abbracciò gli eventi principali del XIX secolo. Nacque nel 1807 a Nizza, antico porto della Savoia e del Piemonte. Suo padre era proprietario di una tartana, un’imbarcazione impiegata per il commercio marittimo, grazie alla quale era in grado di mantenere in condizioni agiate la famiglia. Peppino, come veniva chiamato in famiglia, era destinato a diventare un professionista, un notabile, e per questo motivo era stato inviato a Genova. Ben presto fu chiaro che non aveva l’indole dello studioso e più volte si ribellò alla disciplina scolastica. Dopo l’ennesima ragazzata, appena adolescente ottenne finalmente dal padre il permesso di abbandonare gli studi. Cominciava così la vita da marinaio di Giuseppe Garibaldi. Oltre che sulla piccola tartana paterna, già a sedici anni cominciò a imbarcarsi su grandi navi commerciali. Fu un’esperienza esaltante. Conobbe le coste del Mar Egeo e del Mar Nero fino a Taganrog, in Crimea; si spinse oltre lo Stretto di Gibilterra fino alle Canarie; visse tre anni a Costantinopoli; fu assalito più volte dai pirati ed ebbe il suo battesimo del fuoco, il primo combattimento. I lunghi viaggi per mare non furono solo l’occasione per mettere alla prova la sua sete di avventure e il suo coraggio. Sulle sue navi capitarono anche esuli e rivoluzionari che lo incoraggiavano a farsi una coscienza politica. Non è però ancora chiaro come avvenne la sua conversione al mazzinianesimo e al movimento nazionalista italiano in genere – non scontata per chi come lui era nato nella Nizza amministrata dai francesi e aveva imparato a esprimersi bene in italiano solo in seguito. Con ogni probabilità, proprio per propagandare le idee di Mazzini abbandonò la carriera mercantile ed entrò nella marina sabauda. Fu però coinvolto in una rivolta organizzata a Genova dalla Giovine Italia nel 1834 e costretto a riparare a Marsiglia, dove presto apprese di essere stato condannato a morte per i fatti di Genova. Costretto a vivere sotto falso nome e in difficoltà economiche, l’anno
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successivo prese ancora la via del mare, imbarcandosi nell’equipaggio di una nave diretta a Rio de Janeiro. In America del Sud trascorse gli anni centrali della vita, dai ventotto ai quarant’anni. Qui divenne un eroe: nel 1837 aderì alla causa indipendentista della regione del Rio Grande do Sul, radunò un equipaggio su una barca battezzata significativamente Mazzini e tormentò di attacchi corsari le imbarcazioni brasiliane. Furono quattro anni passati a combattere per mare e per terra, pieni di esperienze anche tragiche, come quando venne imprigionato e torturato. In questo difficile contesto conobbe anche Anita (Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva), che abbandonò il marito per seguire questo rivoluzionario italiano un po’ insolente. Si sarebbero sposati solo nel 1842, quando Anita restò vedova. Quando la battaglia per l’indipendenza del Rio Grande fu perduta, la famiglia Garibaldi si trasferì in Uruguay, a Montevideo, ma anche qui venne presto coinvolta in una guerra, quella degli uruguaiani contro la Confederazione argentina. L’eco delle sue imprese arrivò in tutta Europa e nelle comunità italiane di tutto il mondo. Fu uno dei primi uomini nella storia a raggiungere una fama mondiale attraverso i nuovi mezzi di comunicazione, litografie, fotografie e stampe in primo luogo. Giornalisti delle principali testate internazionali gli davano la caccia per raccontarne le gesta. Mazzini ne intuì il possibile ruolo nel movimento nazionale, e ne scrisse in questi termini in una lettera a un compagno del 1843: «Garibaldi è un uomo di cui il paese dovrà giovarsi per l’azione». Nel 1848 Garibaldi rientrò in Italia in piena rivoluzione e offrì subito la sua spada a Carlo Alberto, che la rifiutò. Partecipò così alla prima guerra d’indipendenza sotto le bandiere del governo provvisorio milanese [Ź12_7]. Seguì poi l’ondata rivoluzionaria fino alla difesa epica della Repubblica romana e in un disperato tentativo
di sfuggire alla caccia degli austriaci perse Anita, morta nelle valli di Comacchio. Garibaldi avrebbe avuto altre due mogli, ma l’epopea nazionale avrebbe ricordato solo questa amazzone brasiliana. Le imprese del 1848-49 lo consacrarono come campione della nazione italiana, l’eroe condottiero, ma lo convinsero pure che fosse necessario collaborare di più con lo Stato sabaudo. L’autonoma iniziativa della spedizione dei Mille, che portò alla conquista della Sicilia e dell’Italia meridionale, contribuì ulteriormente alla sua fama. Dopo l’Unità la sua fedeltà al governo sabaudo fu incrinata dai tentativi di conquistare Roma con legioni di volontari. Due volte sconfitto, si ritirò definitivamente a Caprera, dove aveva comprato una grande proprietà. Faceva comunque sentire la sua voce per sostenere le correnti democratiche italiane o per pronunciarsi in favore del socialismo. Nel frattempo, oltre che alle sue memorie, si era dedicato alla redazione di alcuni romanzi, che ebbero un discreto successo. Dopo la morte, nel 1882, fu utilizzato da forze politiche diversissime come propria bandiera, un segno ulteriore del fascino che fu capace di suscitare. ź La “santificazione” di Garibaldi Questa testata di un calendario del 1863 fa parte di una cospicua serie di stampati destinati ai ceti meno abbienti delle città e delle campagne, il cui valore documentario risiede nell’evidente intento di litografi e incisori di interpretare i sentimenti e i gusti di larghe fasce della popolazione.
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STORIA IMMAGINE La resa di Vicenza l’11 giugno 1848 XIX sec. [Museo Centrale del Risorgimento Italiano, Roma] Giovanni Durando, capo dell’esercito pontificio, nel 1848 disobbedì agli ordini di Pio IX portando le sue truppe oltre il Po per sbarrare la strada agli austriaci. Bloccato a Vicenza dall’avanzata del generale austriaco Nugent, fu costretto alla resa l’11 giugno 1848. Trentamila soldati imperiali con cinquanta cannoni invasero la città.
campale che si combatté a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l’armistizio con gli austriaci.
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ź Decreto fondamentale che istituisce la Repubblica romana (9 febbraio 1849)
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La sconfitta dei democratici italiani • GLI OBIETTIVI DEI DEMOCRATICI Dopo la sconfitta del
Piemonte, a combattere contro gli austriaci restavano solo i democratici italiani e ungheresi [Ź12_9]. Mentre in Ungheria lo scontro assunse il carattere di una vera e propria guerra nazionale, in Italia i patrioti democratici dovettero combattere una serie di battaglie locali – a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia – geograficamente divisi e senza poter dare alla loro lotta una dimensione autenticamente popolare. L’ideale di una guerra di popolo che unisse la prospettiva della liberazione nazionale a quella dell’emancipazione politica e sociale contrastava con la ristrettezza della loro base sociale formata dalla piccola e media borghesia urbana, soprattutto quella intellettuale, e dai ceti artigiani delle città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza della popolazione italiana, rimasero invece estranee, e spesso apertamente ostili alle loro battaglie.
• LA FASE DEMOCRATICA DELLA RIVOLUZIONE ITALIANA Tuttavia, nell’autunno del ’48, la situazione in Italia rimaneva incerta. La Sicilia era sotto il controllo dei separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria Costituzione democratica. A Venezia, in mano degli insorti anche dopo la sconfitta di Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la Repubblica. In Toscana, alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione popolare a formare un ministero democratico, capeggiato da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi. A Roma, in novembre, l’uccisione in un attentato del primo ministro pontificio, il liberale moderato Pellegrino Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione dei Borbone. Nella capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i gruppi democratici. Nel gennaio del 1849, in tutti i territori dell’ex Stato della Chiesa, si tennero le elezioni a
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suffragio universale per l’Assemblea costituente. Fra gli eletti, in maggioranza democratici, c’erano anche Mazzini e Garibaldi. A febbraio l’Assemblea proclamò la decadenza del potere temporale dei papi e annunciò che lo Stato avrebbe assunto «il nome glorioso di Repubblica romana», avrebbe adottato come forma di governo «la democrazia pura» e avrebbe stabilito col resto d’Italia «le relazioni che esige la nazionalità comune», in vista dell’unità nazionale, da realizzare su basi democratiche e non dinastiche. Gli sviluppi della situazione nello Stato della Chiesa ebbero immediate ripercussioni in Toscana. A febbraio il granduca Leopoldo II abbandonò il paese e venne convocata un’Assemblea costituente: i poteri, intanto, passarono a un triumvirato composto da Montanelli, Guerrazzi e Mazzini.
• LA SCONFITTA DI NOVARA E LA RESTAURAZIONE DELL’ORDINE Anche in Piemonte i democratici ripresero l’iniziativa. Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto, schiacciato tra la pressione di questi ultimi e l’intransigenza degli austriaci che ponevano condizioni molto pesanti per la firma della pace, decise di entrare di nuovo in guerra. Ma le truppe di Radetzky, penetrate in territorio piemontese, affrontarono l’esercito sabaudo il 22-23 marzo nei pressi di Novara e gli inflissero una gravissima sconfitta. La stessa sera del 23 marzo, Carlo Alberto, per non mettere in pericolo le sorti della dinastia, abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II. Il giorno dopo, il nuovo re firmò un nuovo armistizio con gli austriaci. Una rivolta democratica scoppiata a Genova fu duramente repressa dall’esercito. Sconfitto il Regno sabaudo, gli austriaci potevano ora procedere alla restaurazione dell’ordine in tutta la penisola. Alla fine di marzo, un’insurrezione a Brescia fu schiacciata dopo durissimi combattimenti, le «dieci giornate» di Brescia. In aprile, le truppe imperiali strinsero d’assedio Venezia, che avrebbe resistito eroicamente per quasi cinque mesi e si sarebbe arresa per fame solo alla fine di agosto. In maggio, mentre Ferdinando di Borbone riusciva finalmente
STORIA IMMAGINE Quinto Cenni, Le dieci giornate di Brescia 1897 [Museo del Risorgimento, Milano] Il 23 marzo del 1849, la popolazione bresciana, ignara della sconfitta dell’esercito sabaudo a Novara, insorse sotto la guida del patriota Tito Speri. Dopo dieci giorni di insurrezione, accerchiata e bombardata dalle truppe austriache, la città dovette arrendersi.
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a riconquistare la Sicilia, gli austriaci occuparono il territorio delle Legazioni pontificie e contemporaneamente posero fine all’esperienza della Repubblica toscana.
Ÿ Gerolamo Induno, Un volontario alla difesa di Roma XIX sec. [Museo del Risorgimento, Milano] Attaccata dai francesi, venuti in soccorso del papa, la Repubblica romana resistette a lungo, guidata dal triumvirato e protetta da molti volontari accorsi per difendere i valori e gli ideali democratici del nuovo Stato.
Storiografia C. Duggan, I patrioti italiani e l’Europa Storiografia S. Patriarca, Virtù e vizi degli italiani Storia e educazione civica Il federalismo ieri e oggi, p. 369
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• LA RESISTENZA DELLA REPUBBLICA ROMANA Più lunga e gloriosa fu la resistenza della Repubblica romana, dove erano affluiti esuli e patrioti da tutta Italia: da Mazzini e Garibaldi al romagnolo Aurelio Saffi, al genovese Mameli (che scrisse l’inno Fratelli d’Italia), al napoletano Pisacane, ai milanesi Cernuschi e Manara, eroi delle «cinque giornate». Fin dai suoi primi atti, il governo repubblicano romano, sotto la guida di Mazzini, si qualificò per l’energia con cui cercò di portare avanti l’opera di laicizzazione dello Stato e di rinnovamento politico e sociale. Furono aboliti i tribunali ecclesiastici e venne decretata la confisca dei beni del clero. Fu varato – caso unico nella storia delle rivoluzioni italiane dell’800 – un progetto di riforma agraria che prevedeva la concessione in affitto perpetuo alle famiglie più povere di parte delle terre confiscate al clero. Frattanto però, dal suo esilio di Gaeta, Pio IX si era rivolto alle potenze cattoliche per essere ristabilito nei suoi territori. A questo appello avevano risposto non solo l’Austria, la Spagna e il Regno di Napoli, ma anche la Repubblica francese, ormai dominata dalle forze cattoliche e conservatrici [Ź12_9]. •
LA FINE DEGLI ESPERIMENTI DEMOCRATICI Il presidente Bonaparte si riservò il ruolo principale nella restaurazione pontificia, inviando nel Lazio un corpo di spedizione che all’inizio di giugno attaccò la capitale. I repubblicani – che avevano affidato i pieni poteri a un triumvirato composto da Mazzini, Saffi e dal romano Carlo Armellini – organizzarono una difesa efficace ma destinata inevitabilmente a soccombere. Il 3 luglio, subito prima della capitolazione, fu promulgata la Costituzione della Repubblica romana che, sebbene rimasta come pura enunciazione, divenne il documento-simbolo degli ideali democratici e un modello alternativo rispetto alle Costituzioni liberali e moderate. Mentre i francesi entravano a Roma, Garibaldi lasciò la città con qualche centinaio di volontari, nel tentativo di raggiungere Venezia. Ma il 26 agosto gli austriaci, dopo aver soffocato la rivolta in Ungheria, riuscirono a spegnere anche la resistenza della città veneta. Si concludeva così, con la duplice sconfitta sia dell’ipotesi liberale e moderata, sia di quella democratica, la stagione rivoluzionaria del 1848-49.
Il patriottismo risorgimentale •
GLI OBIETTIVI DEI DEMOCRATICI Le insurrezioni, le lotte rivoluzionarie e la guerra contro l’Austria avevano visto all’opera, accanto agli eserciti regolari, un numero sempre maggiore di patrioti disposti a mettere in gioco la propria vita nella lotta per l’indipendenza dallo straniero e insieme per la nascita di nuovi organismi politici. I patrioti italiani erano per gran parte giovani o nella prima età matura. I più anziani si erano formati nelle organizzazioni segrete, eredi del giacobinismo, salvo trovare poi motivi di aggregazione comune nelle nuove ideologie politiche tra i moderati neoguelfi o liberali, ma anche nell’adesione al mazzinianesimo dove affluivano invece soprattutto i più giovani.
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LEGGERE LE FONTI
Costituzioni a confronto da Costituzione italiana, Einaudi, Torino 1975
Cittadini del Regno.
Lo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto in Piemonte era ispirato ai testi costituzionali più moderati del primo ’800 e affermava il ruolo del sovrano nel governo. Esso ha avuto una grande importanza nella storia italiana: nel 1861 divenne la legge fondamentale del nuovo Regno d’Italia e tale rimase fino al 1947, quando fu sostituito dalla Costituzione repubblicana. La Costituzione della Repubblica romana
fu promulgata poco prima della fine dell’esperienza repubblicana nella capitale, il 4 luglio 1849, e in pratica non entrò mai in vigore. Espressione della corrente democratica, i «princìpi fondamentali» della Costituzione romana sono ispirati agli ideali di uguaglianza e di sovranità popolare, introducono il suffragio universale e attribuiscono un maggior peso al potere legislativo.
Lo Statuto albertino Art. 1 La religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi. Art. 2 Lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo. [...] Art. 3 Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere: il Senato, e quella dei deputati. [...] Art. 5 Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il capo supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra; fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. [...] Art. 7 Il Re solo sanziona le leggi e le promulga. Art. 8 Il Re può far grazia e commutare le pene. [...] Art. 10 La proposizione delle leggi apparterrà al Re ed a ciascuna delle due Camere. [...] Art. 24 Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi. Art. 25 Essi contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato. Art. 26 La libertà individuale è guarentita. Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme che essa prescrive. [...] Art. 28 La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. [...] Art. 32 È riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi, uniformandosi alle leggi che possono regolarne l’esercizio nell’interesse della cosa pubblica. [...] Art. 65 Il Re nomina e revoca i suoi ministri.
La Costituzione della Repubblica romana Princìpi fondamentali I La sovranità è per diritto eterno nel popolo. Il popolo dello Stato romano è costituito in Repubblica democratica. II Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta. III La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini. IV La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana. [...] VII Dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici. [...] Art. 3 Le persone e le proprietà sono inviolabili. Art. 4 Nessuno può essere arrestato che in flagrante delitto, o per mandato di giudice, né esser distolto da suoi giudici naturali. [...] Art. 5 Le pene di morte e di confisca sono proscritte. Art. 6 Il domicilio è sacro: non è permesso penetrarvi che nei casi e nei modi determinati dalla legge. Art. 7 La manifestazione del pensiero è libera: la legge punisce l’abuso senza alcuna censura preventiva. Art. 8 L’insegnamento è libero. [...] Art. 16 L’Assemblea è costituita da’ rappresentanti del popolo. Art. 17 Ogni cittadino, che gode i diritti civili e politici, a 21 anni è elettore, a 25 eleggibile. [...] Art. 20 I comizi generali si radunano ogni tre anni, nel 21 aprile. Il popolo vi elegge i suoi rappresentanti con voto universale, diretto e pubblico. [...] Art. 29 L’Assemblea ha il potere legislativo. Decide della pace, della guerra e dei trattati.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Quali forme di governo sono previste dallo Statuto albertino e dalla Costituzione romana? b Quali compiti e funzioni lo Statuto albertino assegna alla figura del sovrano?
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c Come viene regolamentato il potere legislativo nello Statuto albertino e nella Costituzione romana? d Quali analogie e quali differenze sussistono tra i due testi costituzionali in materia di diritti civili e politici?
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STORIA IMMAGINE Il teatro Carignano in Torino la sera del 18 gennaio 1847 XIX sec. [Museo Centrale del Risorgimento Italiano, Roma] Durante il Risorgimento i teatri lirici si trasformarono in luoghi di rivendicazione politica. In particolare le opere di Giuseppe Verdi (1813-1901) furono motivo di preoccupazione per le autorità del LombardoVeneto. Il coro «Va’ pensiero sull’ali dorate», che nell’opera Nabucco (rappresentata nel 1842)
piange la sorte degli ebrei prigionieri in Babilonia, aveva assunto per i patrioti un valore simbolico della “prigionia” italiana. Verdi stesso era diventato un simbolo politico e i patrioti moderati che affidavano ai Savoia il compito di unificare l’Italia attribuivano alle lettere del suo cognome un significato cifrato: V come Vittorio, E come Emanuele, R come Re, D come Di, I come Italia. Perciò per le strade e nei teatri i patrioti gridavano «Viva Verdi».
Queste adesioni e queste militanze erano sostenute da un discorso patriottico nazionale che si era venuto costruendo non solo sul terreno ideologico e politico, ma anche riprendendo elementi letterari, musicali e delle arti figurative. Le memorie di Silvio Pellico, I sepolcri di Foscolo, le poesie di Giovanni Berchet, le opere musicali o singoli brani di Giuseppe Verdi, alcuni quadri di Francesco Hayez costituivano un repertorio collettivo di parole, suoni e immagini in grado di diffondere il messaggio nazionale. In particolare il melodramma, ascoltato e riproposto in chiave patriottica, forniva un terreno comune ad ampi strati sociali, dalla nobiltà ai ceti popolari urbani, come principale mezzo di comunicazione, veicolo degli ideali risorgimentali e di formazione politica e civile.
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Ÿ Foglio volante con le parole dell’inno Fratelli d’Italia scritto da Goffredo Mameli Il Canto degli italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli, fu scritto nell’autunno del 1847 dall’allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli e musicato poco dopo da Michele Novaro, il canto nacque in quel clima patriottico che preludeva alla guerra contro l’Austria. Il 12 ottobre 1946 diventò l’inno nazionale della Repubblica italiana.
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LA NASCITA DI UNA TRADIZIONE
Privo di riferimenti consolidati a un comune passato nazionale, se non a quello “inventato” della continuità con l’antica Roma o con l’Italia dei comuni, il patriottismo italiano riprendeva singoli episodi di rivalsa contro lo straniero dove si era manifestato vincente l’orgoglio ferito degli italiani: la battaglia di Legnano (tra i comuni italiani e l’imperatore Federico Barbarossa, 1176), i Vespri siciliani (la rivolta scoppiata a Palermo contro gli Angiò che determinò la cacciata dei francesi dall’isola, 1282), la disfida di Barletta (il duello tra cavalieri italiani e francesi in terra di Puglia, 1503). Si veniva costruendo, proprio lungo il filo degli avvenimenti, una tradizione patriottica con i suoi martiri da celebrare – i fratelli Bandiera, i volontari di Curtatone e Montanara, i caduti nella difesa della Repubblica romana – e da portare come esempio. Una tradizione che esaltava gli elementi di fratellanza e di valore guerresco – come nelle esplicite strofe dell’inno Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli (1827-1849) – per rovesciare l’immagine diffusa in Europa degli italiani «che non sanno battersi». Una tradizione che aveva dei riferimenti obbligati in alcune figure carismatiche: Mazzini e in seguito soprattutto Garibaldi.
11/02/2020 12:35:55
STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
Il federalismo ieri e oggi Nel 1787 la Convenzione di Philadelphia approvava la Costituzione degli Stati Uniti d’America, dando vita a quella forma di governo basata sull’equilibrio tra potere locale e potere centrale (o federale) che allora si cominciò a chiamare federalismo. Duecento anni dopo più del 40% della popolazione mondiale viveva in regimi politici formalmente federali e ben 58 Stati si dicevano ispirati al federalismo. Già nell’800 il fascino per il modello statunitense indusse molti paesi a darsi un ordinamento federalista, in Europa (Impero germanico, Impero austro-ungarico, Confederazione Elvetica), in America (Canada, Messico, Argentina, Brasile, Venezuela) e in Australia. In realtà, a uno sguardo più attento non sfuggono le grandi differenze tra gli ordinamenti che nel corso di più di due secoli si sono definiti federalisti. I princìpi del federalismo sono stati adattati alle esigenze delle varie comunità politiche, al loro contesto storico, geografico ed economico, finendo spesso per allontanarsi dall’esempio nordamericano. Il successo precoce del modello federalista in molte ex colonie (Venezuela, 1818; Messico, 1824; Brasile, 1834; Argentina, 1853; Canada, 1867; Australia, 1900) è in parte dovuto all’esigenza di governare grandi spazi, spesso già suddivisi in unità amministrative separate durante il colonialismo. Altrove (Confederazione Elvetica o Belgio, per guardare solo all’Europa), il sistema federalista è stato preferito ad altri per garantire autonomia alle diverse comunità etniche e linguistiche che componevano lo Stato. Dopo la seconda guerra mondiale, il crollo di molti regimi totalitari o dittatoriali ha coinciso con il declino del modello di Stato centralizzato, così diffuso in Europa a partire dall’Impero napoleonico. Molti paesi hanno dato avvio a un processo di decentramento (o devolution), trasferendo competenze sempre più importanti dal centro alla periferia, pur lasciando allo Stato centrale gran parte del potere decisionale. Ciò ha portato alla nascita di un nuovo modello di Stato costituzionale, in cui il principio di autogoverno degli enti locali viene considerato elemento essenziale per la vita democratica di un paese. Nella sezione dei princìpi fondamentali della Repubblica italiana, l’articolo 5 della Costituzione italiana del 1948 afferma: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce
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e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». Al modello originario americano si sono dunque accostate forme ibride di organizzazione politica, tanto che oggi sarebbe più corretto parlare di “federalismi”. In generale il termine “federalismo” continua a essere utilizzato per definire qualsiasi assetto istituzionale in cui il potere è diviso su base territoriale, ma è utile stabilire quali sono gli elementi essenziali dell’organizzazione federale degli Stati. In primo luogo, in un ordinamento federale la Costituzione attribuisce in via esclusiva allo Stato centrale competenze ben precise (la difesa, la politica monetaria ed estera), lasciando agli Stati membri le competenze generali rimaste. Gli Stati membri di una federazione possono darsi proprie Costituzioni o statuti; godono di autonomia impositiva, cioè possono imporre tasse locali oppure gestiscono in proprio una quota dei tributi nazionali (in entrambi i casi si parla di federalismo fiscale); partecipano alle decisioni del governo centrale attraverso un organo di rappresentanza eletto su base regionale; devono essere coinvolti in qualsiasi processo di revisione della Costituzione federale. Eventuali conflitti
di competenze tra gli Stati membri o tra questi e lo Stato centrale sono poi risolti da un organo di giustizia costituzionale (di solito la Corte Costituzionale). Perché il federalismo si realizzi concretamente, però, una Costituzione non basta. In primo luogo, per essere realizzato, l’ordinamento federale sottintende il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. L’esempio delle repubbliche dell’America Latina, formalmente federaliste dal XIX secolo, è illuminante: attraverso provvedimenti “federali” di urgenza, i presidenti della Repubblica hanno potuto allargare il proprio potere a spese delle autonomie locali, dando vita a forme di governo autoritarie fino agli anni ’80 del ’900. In secondo luogo, la ragion d’essere di un assetto istituzionale federale è la volontà di dotare lo Stato di strumenti istituzionali in grado di tutelare la diversità pur garantendo l’unità della comunità politica. In questi anni, in Italia, è in atto una vivace discussione sui compiti che spettano allo Stato centrale e alle autonomie locali e sulle conseguenti innovazioni in campo fiscale, anche dietro l’impulso di partiti politici come la Lega per Salvini premier che al primo punto del suo statuto dichiara di perseguire «la pacifica trasformazione dello Stato italiano in un moderno Stato federale attraverso metodi democratici ed elettorali»
Ÿ Manifestanti della Lega Nord a Pontida [© DANIEL DAL ZENNARO/epa/Corbis] Da sempre sostenitrice del federalismo, negli anni ’90, la Lega propone la secessione delle
regioni settentrionali, indicate collettivamente come “Padania”. Oggi propone il progetto di uno Stato federale, da realizzarsi attraverso il federalismo fiscale e la “devoluzione” alle Regioni di alcune funzioni esercitate dallo Stato.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
U4 Nazione e libertà
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Per saperne di più 1 Adoperando le informazioni contenute nella scheda e quelle reperite in Rete su un sito affidabile, realizza il profilo biografico di Emmeline Pankhurst. a. Nell’ordinamento federale la Costituzione regolamenta la ripartizione delle competenze tra ........................................ e ............................... Al primo spettano ............................... ..........................; ai secondi spettano ................................... ............................................................................................. ............................................................................................. .............................................................................................
b. Gli Stati membri possono dotarsi di proprie ........................ .........................; godono di ..............................................; partecipano alle decisioni del governo centrale attraverso .........................................................................................; sono coinvolti in qualsiasi processo di ................................; i conflitti di competenza tra Stati membri o tra questi e lo Stato centrale sono risolti .............................................
Gli Stati multinazionali dell’UE 2 Nel XIX secolo alcuni paesi europei come la Confederazione Elvetica o il Belgio si dotarono di un ordinamento federalista per garantire autonomia alle diverse comunità etniche e linguistiche che componevano lo Stato. Nell’ambito dell’Ue ci sono degli Stati che possiamo considerare multinazionali. Per scoprire il perché, consulta il sito istituzionale dell’Ue (europa.eu), o, più genericamente, lancia una ricerca su Internet, digitando nella maschera di ricerca di Google i nomi dei paesi di seguito elencati e indicando le diverse etnie presenti (l’esercizio è avviato). • Belgio: nel Nord del paese (Fiandre) vivono gli olandesi; nel Sud (Vallonia) la maggioranza è francese. • Cipro: ...................................................................... • Lettonia: ..................................................................
• Slovacchia: .............................................................. • Romania: ................................................................ • Bulgaria: .................................................................
La tutela delle minoranze linguistiche nella Costituzione italiana 3 In alcune sue regioni sono presenti delle minoranze etnico-linguistiche. Poiché in passato le minoranze linguistiche sono state oggetto di discriminazione, la nostra Costituzione, nel rispetto del diritto di uguaglianza fra tutti i cittadini italiani, ha regolamentato anche questo aspetto all’articolo 6: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche». Nelle zone interessate è dunque consentito il bilinguismo, a scuola e nella pubblica amministrazione. Ricerca su Internet quali minoranze etnico-linguistiche abitano le aree geografiche di seguito elencate. • Trentino-Alto Adige/Südtirol: ........................................
• Calabria, Sicilia: ..........................................................
• Valle d’Aosta: ..............................................................
• Salento (Grecìa salentina): ..........................................
• Friuli-Venezia Giulia: ....................................................
• Sardegna: ...................................................................
• Abruzzo meridionale, Molise, Campania, Puglia, Basilicata,
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11/02/2020 12:36:07
C 12 Il Risorgimento italiano RICORDARE L’ESSENZIALE La questione nazionale Nella prima metà dell’800 l’Italia conobbe un processo di graduale riscoperta della propria identità nazionale, definito dai contemporanei, e poi dagli storici, «Risorgimento». Per la verità l’Italia non aveva mai conosciuto, lungo il corso della sua storia, l’esperienza di uno Stato unitario. Eppure l’idea di una nazione italiana, in quanto comunità linguistica, culturale, religiosa, esisteva fin dall’epoca dei comuni ed era sempre stata viva nel pensiero degli intellettuali, da Petrarca ad Alfieri. La cultura romantica, nei primi decenni dell’800, contribuì all’affermazione di un discorso nazional-patriottico cui parteciparono scrittori, poeti, intellettuali e artisti. Si costituì un repertorio comune, una tradizione patriottica e un messaggio nazionale. I moti del 1820-21 e del 1831 I moti del ’20-21 e del ’31 non furono animati dalla questione nazionale; essi furono in primo luogo subordinati a rivendicazioni di ordine costituzionale e politico, ma all’interno dei singoli Stati. Nel luglio 1820 un’insurrezione nel Napoletano, guidata da alcuni ufficiali, obbligò Ferdinando I di Borbone a concedere una Costituzione simile a quella spagnola. Nel marzo 1821, invece, una rivolta liberale scoppiò in Piemonte e, dopo essere stata inizialmente appoggiata dal principe Carlo Alberto, venne schiacciata dal re Carlo Felice. Nel ’21 l’intervento armato degli austriaci pose fine alla rivoluzione napoletana. Anche l’ondata insurrezionale del 1831 fu soffocata dalla repressione militare austriaca. Nel Ducato di Modena l’insurrezione ebbe origine, oltre che dalla rivoluzione di luglio in Francia, da una trama cospirativa che tentò di coinvolgere lo stesso duca, Francesco IV. Quest’ultimo, però, temendo la reazione dell’Austria, fece arrestare i capi della congiura. La rivolta scoppiò ugualmente nelle Legazioni pontificie (Romagna con Pesaro e Urbino) e di qui si estese ai Ducati di Modena e Parma. La novità dei moti del ’31 stava nel fatto che i protagonisti furono i ceti borghesi, appoggiati dall’aristocrazia liberale e da una certa mobilitazione popolare. Con la soppressione dei moti insurrezionali liberali, negli Stati italiani si tornò a forme di assolutismo autoritario. Intanto il divario con l’Europa più avanzata era piuttosto evidente: lo sviluppo economico precedeva lentamente, l’industria
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C12 Il Risorgimento italiano
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Audiosintesi per paragrafi
non recepiva ancora le più avanzate conquiste tecnologiche europee e le ferrovie si diffondevano in modo irregolare. Fu allora che si cominciò a riflettere sui limiti posti allo sviluppo economico dalla mancanza di un mercato comune nazionale. Venne così proposto il progetto di una unione doganale italiana sul modello di quella tedesca. Il movimento nazionale italiano: democratici e liberal-moderati All’interno del movimento nazionale italiano convivevano due correnti: una democratica e l’altra liberal-moderata. La sconfitta dei moti del ’31 provocò la crisi definitiva della Carboneria a favore del programma d’azione dei democratici che ebbe in Giuseppe Mazzini il principale artefice. Non privo di attenzione per le questioni sociali, il pensiero mazziniano era tuttavia incentrato sugli obiettivi nazionali – la costituzione di un Repubblica unitaria italiana – e sulla convinzione che unico mezzo per raggiungerli fosse l’insurrezione popolare. Fondata la Giovine Italia (1831), Mazzini si impegnò nell’organizzazione di insurrezioni, ma il ripetuto fallimento delle iniziative democratiche suscitò le critiche dell’opinione pubblica, favorendo l’affermazione di altre correnti politiche. Il successo delle correnti liberal-moderate era dovuto al fatto che esse sembravano offrire soluzioni graduali e federaliste al problema nazionale che non implicavano vie insurrezionali e rivoluzionarie. Uno dei maggiori esponenti di questo orientamento fu Vincenzo Gioberti, padre del neoguelfismo. Questi era convinto che il primato morale e civile della nazione italiana derivasse dal fatto che ospitava la sede del Papato, attorno al quale si sarebbe dovuta coagulare una Confederazione di Stati. Elementi di riformismo graduale caratterizzavano il liberalismo moderato del piemontese Massimo D’Azeglio, il quale non escludeva, in prospettiva, l’intervento militare del Regno sabaudo a favore della causa nazionale. La soluzione federalista caratterizzava pure la corrente democratica e repubblicana lombarda, il cui maggior esponente fu Carlo Cattaneo. Questi auspicava l’attuazione di un programma di riforme politiche e di sviluppo economico all’interno dei singoli Stati italiani, premessa indispensabile per la costituzione di una confederazione repubblicana, sul modello degli Stati Uniti o della più vicina Svizzera.
Il ’48 e il ’49 in Italia L’elezione al soglio pontificio di Pio IX, nel 1846, suscitò un’ondata di grande entusiasmo in tutta Italia, perché sembrò dare corpo al programma neoguelfo di Gioberti. Nell’immediato, infatti, Pio IX attuò una politica riformistica tutt’altro che rivoluzionaria: concessione dell’amnistia ai detenuti, convocazione della Consulta di Stato, istituzione della Guardia civica, attenuazione della censura. Nel corso del 1847, di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica e alle manifestazioni popolari, gli altri Stati italiani – a esclusione del Regno delle Due Sicilie – si trovarono costretti a concedere anch’essi alcune limitate riforme. All’inizio del ’48 a Palermo scoppiò un’ insurrezione che costrinse Ferdinando II di Borbone a concedere una Costituzione moderata, sul modello di quella francese del 1830. Successivamente lo imitarono Carlo Alberto di Savoia, Leopoldo II di Toscana e Pio IX. Intanto, gli echi delle vicende rivoluzionarie in Francia e in Austria diedero nuova spinta all’iniziativa dei democratici italiani, che riportarono in primo piano la questione nazionale. A Milano, dopo le «cinque giornate» di insurrezione (18-22 marzo), fu costituito un governo provvisorio. Il 22 marzo a Venezia fu proclamata la Repubblica. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria, ottenendo l’appoggio del re delle Due Sicilie, del granduca di Toscana e del papa, con l’intento di annettere il Lombardo-Veneto al Piemonte. Ma, di lì a poco, questo appoggio fu ritirato. I piemontesi vennero sconfitti a Custoza (luglio 1848) e costretti a firmare un armistizio con l’Austria. A combattere contro l’Impero asburgico restarono i democratici. Mentre in Sicilia resistevano i separatisti, a Venezia fu proclamata di nuovo la Repubblica e lo stesso accadde in Toscana e a Roma dopo la fuga del papa (novembre 1848). Anche per la spinta dei democratici, il Piemonte riprese la guerra contro l’Austria. Subito battuto a Novara, Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II (marzo 1849). I governi rivoluzionari vennero sconfitti in tutta Italia: terminò la rivoluzione autonomistica siciliana, gli austriaci posero fine alla Repubblica toscana e occuparono le Legazioni pontificie, i francesi intervennero militarmente sconfiggendo la Repubblica romana. L’ultimo focolaio rivoluzionario a soccombere fu quello veneto a opera degli austriaci.
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U4 Nazione e libertà
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
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Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. La rivolta scoppiata a Nola il 1° luglio 1820 costituì la scintilla dell’insurrezione spagnola. b. La rivolta di Palermo del 1820 fu caratterizzata dall’insorgenza di rivendicazioni di tipo autonomistico. c. Il cancelliere austriaco Metternich propose l’intervento della Santa alleanza nel Napoletano. d. Le insurrezioni scoppiate nel 1831 a Modena e a Parma furono conseguenti alla rivoluzione del 1830 in Francia. e. Le iniziative promosse negli anni ’30 dalla Giovine Italia furono di tipo esclusivamente propagandistico.
f. Anche i moti del 1831 furono repressi dall’intervento dell’esercito asburgico nei territori insorti. g. I fratelli Bandiera riuscirono a far sollevare i contadini contro il governo borbonico. h. La politica riformatrice intrapresa da Pio IX tra il ‘46 e il ‘47 stimolò l’agitazione patriottica in tutta Italia. i. Al termine delle «cinque giornate» di Milano, le truppe austriache riconquistarono il controllo della città. j. La prima guerra di indipendenza nazionale si concluse con la sconfitta delle truppe piemontesi.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Il limite principale dimostrato dalla Carboneria fu... a. il carattere separatista delle rivendicazioni; b. la mancanza di una direzione nazionale unitaria; c. il non coinvolgimento del ceto intellettuale. 2. La Giovine Italia di Mazzini si proponeva di... a. organizzare e mettere in atto l’insurrezione popolare; b. diffondere una visione materialistica dello Stato; c. stringere alleanze tra i diversi gruppi rivoluzionari. 3. La corrente neoguelfa di Gioberti sosteneva... a. l’esclusione dello Stato sabaudo dai moti rivoluzionari; b. l’estensione delle leggi pontificie a tutti gli Stati italiani. c. il primato della Chiesa di Roma nella questione nazionale.
5. Secondo Cattaneo, la forma politica più adatta al contesto italiano era... a. il modello inglese di monarchia costituzionale; b. lo Stato assoluto, guidato da un sovrano illuminato; c. il modello confederativo, simile a quello svizzero. 6. Diversamente da Mazzini, Ferrari proponeva di... a. unificare i movimenti rivoluzionari presenti nei diversi Stati italiani; b. inserire la questione italiana nel contesto rivoluzionario europeo; c. escludere dal movimento rivoluzionario i contadini e gli artigiani.
4. Secondo i moderati, per risolvere il problema nazionale occorreva... a. riconoscere la legittimità e l’autorità dei poteri costituiti; b. promuovere riforme graduali, senza l’uso della violenza; c. coinvolgere attivamente le masse popolari nella rivolta.
3 Scegli, tra le affermazioni dell’elenco, quelle che spiegano meglio i motivi dell’insuccesso della Carboneria nella penisola italiana. a. Era stato fallimentare condividere le azioni rivoluzionarie con sovrani spesso rivelatisi inaffidabili. b. Mancavano uomini militarmente addestrati a combattere i sovrani. c. C’erano troppe spie che riferivano i programmi rivoluzionari al nemico.
d. Le sètte carbonare erano state troppo segrete e ciò aveva impedito un’ampia partecipazione. e. Le risorse economiche per mantenere in piedi questa organizzazione erano troppo esigue. f. Le rivolte spesso erano state condotte in maniera non unitaria.
4 Abbina gli elementi disposti nelle due colonne sottostanti e poi descrivi, in brevi testi di 4 righe, i caratteri principali di ogni corrente politica. Esponenti più illustri della corrente politica Nome della corrente politica a. Antonio Rosmini b. Vincenzo Gioberti c. Massimo d’Azeglio d. Carlo Cattaneo
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1. neoguelfismo 2. federalista-repubblicana 3. cattolico-liberale 4. liberalismo moderato piemontese
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C12 Il Risorgimento italiano
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5 Confronta i diversi momenti del movimento insurrezionale italiano della prima metà dell’800, completando la seguente tabella: Moti del...
1820-21
1831
1848
Scoppiarono in...
Furono promossi da...
Erano finalizzati a...
Furono contrastati da...
Si conclusero con...
Rispondi ora alle seguenti domande: a. In che direzione mutarono le finalità delle insurrezioni? b. Vi fu un allargamento dei soggetti coinvolti? In quale misura? c. Che ruolo ebbero i sovrani dei diversi Stati italiani? d. Che ruolo ebbe l’Austria?
6 Completa la scansione cronologica dei moti del ’48 e della prima guerra d’indipendenza in Italia abbinando gli eventi alle relative date. inizio delle «cinque giornate» di Milano; prima guerra d’indipendenza italiana (il Piemonte dichiara guerra all’Austria); battaglia di Custoza; Carlo Alberto abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II; liberazione di Daniele Manin; nascita della Repubblica romana; Statuto albertino; sollevazione di Palermo per la separazione dal Regno di Napoli. 12 gennaio 1848 ........................................................................... 9 agosto 1848 Carlo Alberto firma l’armistizio con l’Austria 4 marzo 1848 ................................................................................ febbraio 1849 ............................................................................... 17 marzo 1848 .............................................................................. 20 marzo 1849 Carlo Alberto riprende la guerra contro l’Austria 18 marzo 1848 .............................................................................. 23 marzo 1849 .............................................................................. 23 marzo 1848 nasce la Repubblica veneta. 23 marzo 1848...............................................................................
24 marzo 1849 Vittorio Emanuele II firma l’armistizio con l’Austria
29 aprile 1848 Pio IX ritira le sue truppe contro l’Austria 23-25 luglio 1848 ..........................................................................
COMPETENZE IN AZIONE 7 Scrivi un breve testo sull’idea di Risorgimento utilizzando la seguente scaletta: a. b. c. d. e.
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La rivendicazione dell’identità nazionale venne sollevata, in Italia, a partire... In assenza di una tradizione politica unitaria, l’identità italiana era ricercata nel... Per dare legittimità e valore storico al processo di costruzione nazionale, fu utilizzato il termine... Si trattava di un’operazione promossa soprattutto da... La condivisione del sentimento nazionale da parte delle masse popolari era...
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C13 L’Unità d’Italia EXTRA ONLINE
Personaggi Cavour, l’artefice dell’Unità, p. 376
1
imposte dirette/imposte indirette Imposte dirette sono quelle che lo Stato applica ai redditi e ai patrimoni – soprattutto case e terreni – dei singoli cittadini e che i cittadini pagano direttamente al fisco. Le imposte indirette sono quelle applicate ai consumi – nell’800, per esempio, la tassa sul macinato, oggi quelle sulla benzina o sulle sigarette –: il cittadino le paga indirettamente nel momento in cui acquista una certa merce, il cui prezzo verrà poi in parte versato allo Stato. Le imposte dirette possono essere proporzionali al reddito e al patrimonio, o progressive, quando la loro incidenza aumenta con l’aumentare della somma tassata. Le imposte indirette colpiscono invece in egual misura tutti i consumatori: per questo sono considerate impopolari, soprattutto quando si applicano a generi di largo consumo.
Storia e Letteratura Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
Focus Chi erano i Mille Atlante Società ed economia nell’Italia unita
Lezioni attive Fare l’Italia: il processo di unificazione e la nascita del Regno
Il Piemonte liberale del conte di Cavour Nel marzo 1861 fu proclamata a Torino l’Unità d’Italia. Questo risultato, imprevedibile dopo le sconfitte delle rivoluzioni del ’48-49, fu dovuto al successo dell’iniziativa diplomatica e militare del Piemonte guidata dal conte di Cavour e alle vittorie sul Regno borbonico della spedizione dei Mille comandata da Garibaldi.
• LA SECONDA RESTAURAZIONE Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 184849, il ritorno dei sovrani legittimi e il consolidamento dell’egemonia austriaca bloccarono ogni esperimento riformatore e frenarono pesantemente lo sviluppo economico dei vari Stati. Il distacco tra i sovrani e l’opinione pubblica borghese divenne più profondo, soprattutto nei due Stati che più perseguirono una politica repressiva e autoritaria: lo Stato della Chiesa, che fu riorganizzato secondo il vecchio modello teocratico-assolutistico, con qualche lieve ritocco che non ne mutava i caratteri di fondo, e il Regno delle Due Sicilie, dove il ritorno al sistema assolutistico fu totale e la repressione durissima. Un fattore che contribuì in quegli anni a fare dello Stato borbonico una specie di modello negativo per l’opinione pubblica liberale di tutta Europa. Anche il Lombardo-Veneto, che era stato fino a quel momento la regione economicamente più avanzata della penisola, fu sottoposto a un pesante regime di occupazione militare cui si accompagnò un inasprimento della già forte pressione fiscale che colpiva gli imprenditori, i commercianti e soprattutto i ceti popolari, su cui cadeva il maggior peso delle imposte indirette*. •
VITTORIO EMANUELE II E LO SCONTRO COL PARLAMENTO Ben diversa da quella degli altri Stati italiani fu la vicenda politica del Piemonte sabaudo, dove, pur fra molte difficoltà e contrasti, poté sopravvivere l’esperimento costituzionale inaugurato con la concessione dello Statuto albertino. Il regno di Vittorio Emanuele II cominciò con un duro scontro fra la Corona e la Camera elettiva, composta in maggioranza da democratici. Quando, nell’agosto del ’49, fu conclusa la pace di Milano con l’Austria – in base alla quale il Piemonte si impegnava a pagare una forte indennità di guerra, senza però subire mutilazioni territoriali – la Camera rifiutò di approvarla. La Corona e il governo, presieduto dal moderato Massimo d’Azeglio, decisero di sciogliere la Camera e di indire nuove consultazioni, mentre nel proclama di Moncalieri il re invitava gli elettori a scegliersi dei rappresentanti di orientamento più moderato, lasciando intendere che, in caso contrario, lo stesso Statuto avrebbe corso seri pericoli. L’intervento era tutt’altro che ortodosso, ma raggiunse il suo scopo. La nuova Camera, formata in maggioranza da moderati, approvò la pace di Milano. La crisi istituzionale fu evitata e l’esperimento liberale poté proseguire senza che, dal punto di vista formale, le norme dello Statuto fossero state violate.
• IL GOVERNO D’AZEGLIO E LE LEGGI SICCARDI Fu così che il governo d’Azeglio poté portare avanti, senza ostacoli da parte della Corona e con l’appoggio della maggioranza parlamentare, l’opera di modernizzazione dello Stato già avviata
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C13 L’Unità d’Italia
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negli ultimi anni del regno di Carlo Alberto. Una decisione di grande rilievo fu quella di porre fine agli anacronistici privilegi di cui il clero ancora godeva – tribunali riservati, diritto d’asilo per le chiese e i conventi, censura sui libri –, adeguando la legislazione ecclesiastica del Piemonte a quella degli altri Stati cattolici europei. Nella battaglia parlamentare per l’approvazione di queste norme, note come “leggi Siccardi” dal nome del ministro della Giustizia, emerse nelle file della maggioranza liberal-moderata la figura di un nuovo e dinamico leader: il conte Camillo Benso di Cavour, aristocratico e uomo d’affari, proprietario terriero e giornalista, direttore di un combattivo organo di stampa dal titolo «Il Risorgimento».
Ÿ Camillo Benso di Cavour XIX sec. [Château de Sales, Sales]
Storiografia 66 L. Cafagna, Cavour e l’idea di progresso, p. 412
• CAVOUR: POLITICO E IMPRENDITORE Liberalismo e intraprendenza borghese furono le due componenti decisive nella formazione di Cavour. Il suo era un liberalismo moderato dai tratti fortemente pragmatici, molto lontano dai programmi della democrazia ottocentesca. Cavour era infatti convinto che l’ampliamento della partecipazione politica doveva essere attuato con gradualità nell’ambito di un sistema monarchico-costituzionale promotore di riforme e trasformazioni: l’unico antidoto, a suo giudizio, contro la rivoluzione e il disordine sociale. Alla concreta esperienza di uomo d’affari e di imprenditore agricolo, Cavour univa una buona conoscenza delle teorie economiche e vedeva nello sviluppo produttivo la premessa indispensabile per il progresso civile e politico: ammiratore del liberalismo britannico, nutriva quella fiducia pressoché illimitata nella libertà economica che era tipica della moderna cultura borghese. •
IL «CONNUBIO» E IL SISTEMA PARLAMENTARE Cavour entrò a far parte del governo d’Azeglio nel 1850, come ministro per l’Agricoltura e il Commercio. Due anni dopo fu incaricato di formare un nuovo governo (novembre 1852). Prima ancora di diventare presidente del Consiglio dei ministri, Cavour si era reso protagonista di un rovesciamento degli equilibri politici, promuovendo un accordo fra l’ala più progressista della maggioranza moderata, il cosiddetto “centro-destra”, di cui egli stesso era il leader, e la componente più moderata della sinistra democratica, il “centro-sinistra” capeggiato da Urbano Rattazzi. Dal «connubio» (come fu allora definito), nacque una nuova maggioranza di centro, che emarginava sia i clericali-conservatori sia i democratici più radicali. In questo modo Cavour poté ampliare la base parlamentare del suo governo e spostarne l’asse
STORIA IMMAGINE Carlo Binelli, Inaugurazione della ferrovia liguresubalpina con l’intervento di sua maestà Vittorio Emanuele II 1854 [Museo del Risorgimento, Istituto Mazziniano, Genova] I governi presieduti da Cavour impressero un notevole impulso alla costruzione della rete ferroviaria. Il 20 febbraio 1854 il re, Cavour e altri ministri presenziarono a Genova all’inaugurazione della ferrovia che collegava la città ligure con Torino. Il treno delle autorità giunse in piazza Caricamento, dove era stato allestito un palco a forma di tempio ottagonale sorretto da colonne corinzie. Le celebrazioni durarono sei giorni, con rappresentazioni teatrali, feste popolari e fuochi d’artificio.
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verso sinistra: il che gli consentì non solo di far propria la politica patriottica e antiaustriaca sostenuta fino ad allora dai democratici, ma anche di rendere più incisiva la sua azione riformatrice in campo politico ed economico. Negli stessi anni si affermò in Piemonte un sistema di governo di tipo parlamentare (analogo a quello britannico), che modificava nella prassi lo Statuto albertino facendo dipendere il governo non più esclusivamente dalla fiducia accordatagli dal sovrano, ma anche e soprattutto dal sostegno di una maggioranza in Parlamento.
• I SUCCESSI DELLA POLITICA ECONOMICA Cavour si adoperò per sviluppare l’economia del suo paese e per integrarla nel più ampio contesto europeo. Premessa essenziale fu l’adozione di una politica decisamente liberoscambista: furono stipulati trattati commerciali con Francia, Belgio, Austria e Gran Bretagna e, fra il ’51 e il ’54, venne gradualmente abolito il dazio sul grano. Notevoli progressi si registrarono anche nel campo delle opere pubbliche: furono costruiti strade e canali ma soprattutto venne sviluppato il sistema dei trasporti ferroviari, favorendo l’espansione del commercio e dell’industria meccanica. Alla vigilia dell’Unità, dopo dodici anni di regime liberale, il Piemonte poteva vantare un’agricoltura in fase di espansione e di modernizzazione, tanto da reggere il confronto con quella della Lombardia; un’industria che poneva il Piemonte all’avanguardia degli Stati italiani; un sistema creditizio potenziato intorno a una banca centrale, la Banca nazionale; una rete di trasporti efficiente e collegata con l’Europa tramite l’avvio della costruzione del traforo del Fréjus; un volume di scambi commerciali con l’estero che, rapportato alla popolazione, era quasi il doppio di quello medio del resto d’Italia. Con il progresso economico e politico il Piemonte divenne inevitabilmente il polo di attrazione di moltissimi esuli politici e di intellettuali dal resto d’Italia. Gli emigrati parteciparono alla vita politica del Regno, inserendosi nella classe dirigente piemontese che diventava così sempre più rappresentativa dell’intero paese.
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PERSONAGGI
Cavour, l’artefice dell’Unità Camillo Benso di Cavour, il nobile piemontese che puntò sull’Italia, sulla liberalizzazione del proprio Stato, sul progresso economico, sulla diplomazia europea, sulla libertà del Parlamento rispetto al sovrano, nacque a Torino nel 1810. Come secondogenito di nobile famiglia, Camillo fu destinato alla carriera militare e inviato in Accademia nel 1820. Il suo temperamento vivace e perfino ribelle non gli semplificò la vita in quegli anni: refrattario ai regolamenti e ai rituali a cui era costretto insieme ai suoi compagni, quando nel 1824 fu scelto come paggio di Carlo Alberto, un titolo onorifico per cui era necessario però indossare una livrea rossa, fece sapere sdegnoso di ritenersi offeso da quest’obbligo che lo accostava a un valletto più che a uno del suo rango. All’Accademia militare, però, Cavour scoprì pure la sua passione per le discipline scientifiche, che si trasformò
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ben presto in un’entusiastica fiducia nel progresso e nella tecnica, un elemento fondamentale anche nella formazione politica di Cavour. Questo giovane aristocratico considerava infatti di importanza strategica lo sviluppo economico e istituzionale di un paese e arrivò così a ritenere che a portare benessere a una società fosse il lavoro, e non i nobili oziosi che affollavano le corti d’Italia e d’Europa: erano le classi medie a dover ricevere più attenzioni da parte dello Stato. Conclusa l’Accademia, fu inviato in varie località del Regno come ufficiale del genio militare (la sezione delle forze armate che si occupa della realizzazione delle infrastrutture), addetto ad alcuni lavori di fortificazione. Furono anni inquieti: intrecciò amori e amicizie pericolose dalla Savoia alla Riviera di Ponente, o a Ginevra, ed ebbe scontri durissimi con i suoi familiari per il suo stile di vita e per le sue frequentazioni. Una di queste, il barone Cassio, un liberale che la famiglia provò ad allontanare con ogni mezzo, incoraggiava Cavour a but-
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La sconfitta dei repubblicani • I MAZZINIANI E IL PARTITO D’AZIONE L’attività cospirativa dei mazziniani,
guidati dal loro leader in esilio a Londra, proseguì nonostante le sconfitte del ’48-49. Ma la repressione austriaca ebbe la meglio come nel drammatico caso delle nove impiccagioni avvenute nella fortezza di Belfiore, presso Mantova, tra la fine del ’52 e l’inizio del ’53. Allora Mazzini, sempre convinto che l’Unità d’Italia dovesse ottenersi attraverso l’insurrezione di popolo [Ź12_4], ritenne opportuno correggere la sua strategia rafforzando gli aspetti organizzativi e fondando nel 1853, a Ginevra, una nuova formazione politica cui diede il nome di Partito d’azione, quasi a sottolinearne il carattere di puro strumento di battaglia. Nel contempo intensificò i suoi sforzi per crearsi una base fra gli artigiani e gli operai delle città del Nord: molte fra le società operaie di mutuo soccorso nate in questo periodo, soprattutto in Piemonte e in Liguria grazie alla libertà di associazione garantita dallo Statuto, furono infatti controllate dai mazziniani.
• L’IPOTESI SOCIALISTA Nel frattempo tra i democratici si diffondeva il dissenso sulla fallimentare strategia mazziniana: vi era chi riteneva ormai necessario evitare un atteggiamento intransigente e puntare su una più ampia collaborazione con tutte le forze interessate al conseguimento dell’unità e chi pensava che si dovesse mirare invece a un programma socialista aperto ai problemi sociali e alle esigenze delle classi subalterne. Nel 1851 due libri – La Federazione repubblicana del milanese Giuseppe Ferrari e La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 del napoletano Carlo Pisacane – introdussero il tema del socialismo nel dibattito interno al movimento risorgimentale. Sostenevano entrambi che la lotta per l’indipendenza nazionale avrebbe avuto possibilità di successo solo se avesse saputo legare a sé le classi popolari, identificandosi con la loro lotta per l’emancipazione tarsi in politica nel campo progressista. Dopo scontri violentissimi col padre, Camillo troncò per un breve momento l’amicizia, per poi riprenderla e radicalizzare le sue opinioni liberali contro le posizioni reazionarie di suo padre. Nei lunghi soggiorni in località isolate, del resto, Cavour poteva leggere molti classici del pensiero liberale, soprattutto francesi e inglesi, e così ne scrive in una lettera allo zio svizzero (1829): «Ho letto i libri che mi erano stati dipinti come empii, e non potei non accorgermi del fragile fondamento delle nostre credenze religiose». Estremamente critico dei dogmi cattolici, Cavour finì così per polemizzare sempre più con il clero e la sua influenza nel Piemonte assolutista. Allo scoppio della riŻ Statuetta di Camillo Benso conte di Cavour XIX sec. [Museo del Risorgimento, Istituto Mazziniano, Genova] Una raffigurazione satirica di Cavour, con barba, occhiali e fisico un po’ obeso, molto somigliante al vero: questa statuina in creta colorata è un piccolo portagioie, con la parte superiore “removibile”.
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voluzione del 1830 a Parigi [Ź10_6], gli ambienti del liberalismo italiano andarono in fermento e Cavour stesso osservava con impazienza gli avvenimenti sperando in analoghi sviluppi in Piemonte. Dall’osservazione degli eventi francesi maturò le sue convinzioni politiche di sempre: avversione ai metodi violenti in politica; distinzione tra causa liberale, che sosteneva, e causa rivoluzionaria, che rifiutava; preoccupazione per l’ordine sociale ed economico. Per paura di restare coinvolto nella repressione della polizia, decise nel 1831 di abbandonare l’esercito e dedicarsi ai suoi possedimenti. Dimostrò un talento eccezionale, innovando le tecniche agricole e investendo in settori industriali promettenti, non trascurando le solite puntate in Borsa. La sua fama di imprenditore e i contatti presi in ripetuti viaggi in Europa lo lanciarono sulla scena pubblica, come giornalista e come animatore di circoli e salotti politici. Dagli articoli per «Il Risorgimento», un giornale fondato nel 1847 insieme al gruppo dei patrioti moderati, le sue proposte per la
modernizzazione del Piemonte venivano strettamente connesse ora con i destini della nazione italiana. Il giovane conte di Cavour aveva ormai sposato la causa nazionale. La sua carriera politica fu rapidissimamente avviata: nel pieno del 1848 diventava deputato alla Camera e presto leader della Destra moderata, nel 1850 ministro dell’Agricoltura e del Commercio, nel 1852 presidente del Consiglio e di lì fino alla morte regista pressoché incontrastato della politica sabauda. In politica più che mai mise alla prova il suo temperamento da giocatore di Borsa. Convinto com’era che l’unificazione italiana sarebbe dovuta arrivare solo attraverso un moto nazionale non rivoluzionario, preparò la guerra all’Austria e le annessioni dei vecchi Stati con cura certosina, aspettando il momento giusto per schierare le truppe volontarie o quelle dell’esercito, prevedendo le mosse dell’avversario e contando sull’appoggio di un nutrito numero di spie e informatori. Morì solo qualche mese dopo l’Unità, il 6 giugno 1861.
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STORIA IMMAGINE Giuseppe Sciuti, Morte di Pisacane 1890 [Museo Civico, Catania] Il 28 giugno 1857 una spedizione guidata da Carlo Pisacane approdò a Sapri, in Campania, al grido di «Viva l’Italia! Viva la Repubblica!». Ma la mancanza di collegamenti con i democratici del Mezzogiorno, l’assenza nella zona di molti braccianti (in passato attivi nella lotta contro le usurpazioni di terre demaniali, ma in quel periodo emigrati per il raccolto), le voci diffuse dal governo partenopeo di una banda di briganti sbarcata per compiere saccheggi fecero sì che dopo alcuni scontri la spedizione fosse sopraffatta dalle forze borboniche, sostenute dalla popolazione. Molti morirono in combattimento; Pisacane, ferito, si uccise con un colpo di pistola.
economica e sociale. In particolare Pisacane pensava che l’Italia meridionale offrisse, per le sue caratteristiche di paese arretrato con una borghesia ancora debole, il terreno più adatto per la rivoluzione. Si trattava in realtà di una visione utopistica e velleitaria, come si vide quando cercò di mettere in atto il suo progetto insurrezionale.
• IL FALLIMENTO DELLA SPEDIZIONE DI SAPRI E LA SOCIETÀ NAZIONALE Nel giugno del 1857 Pisacane si imbarcò a Genova con alcuni compagni su un piroscafo di linea, se ne impadronì e con esso fece rotta verso l’isola di Ponza, sede di un penitenziario borbonico. Accresciuta da circa 300 detenuti liberati dal carcere, la spedizione si diresse verso le coste meridionali della Campania e sbarcò a Sapri, iniziando la marcia verso l’interno. Ma qui i rivoluzionari furono rapidamente sbaragliati dalle truppe borboniche subendo anche la violenza dei contadini che li trattarono come briganti. Pisacane, ferito, si uccise per non cadere prigioniero. Il fallimento della spedizione di Sapri coincise con la nascita di un movimento indipendentista filopiemontese promosso da Daniele Manin – il capo del governo repubblicano di Venezia nel ’48-49 [Ź12_7] – che puntava all’unione di tutte le correnti, moderate e democratiche, intorno all’unica forza in grado di raggiungere l’obiettivo dell’unità: la monarchia di Vittorio Emanuele II. Alla proposta di Manin, oltre a numerosi esponenti democratici emigrati in Piemonte, aderì anche Giuseppe Garibaldi, rientrato in Italia nel ’55 dal Sud America. Nel luglio 1857 il movimento si diede una struttura organizzativa e assunse il nome di Società nazionale. L’associazione dichiarava nel suo manifesto costitutivo di anteporre la causa dell’unità ad ogni altro obiettivo e di ritenere indispensabile il «concorso governativo piemontese»: di appoggiare quindi la monarchia sabauda per l’affermazione della causa italiana.
L’alleanza franco-piemontese 3 e la seconda guerra di indipendenza Parole della storia Plebiscito, p. 381
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•
LA POLITICA ESTERA DI CAVOUR Inizialmente la politica estera di Cavour rimase legata agli obiettivi tradizionali della monarchia sabauda: ampliare i confini del Piemonte verso l’Italia settentrionale, a scapito dei domìni austriaci. Cavour, però, perseguì questa strategia con insolita abilità e spregiudicatezza ottenendo
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risultati imprevedibili, al di là delle sue originarie intenzioni. Sfruttando al massimo le ambizioni politiche di Napoleone III, riuscì a trascinare la Francia in una guerra contro l’Austria a tutto vantaggio del Piemonte.
• LA GUERRA DI CRIMEA Questo esito fu ottenuto attraverso alcuni passaggi decisivi. Il primo fu quello di inviare un contingente militare di 18 mila uomini, al comando del generale Alfonso La Marmora, in Crimea al fianco della Gran Bretagna e della Francia, impegnate a difendere l’Impero ottomano dall’espansionismo russo, che rischiava di alterare l’equilibrio tra le potenze e minacciava gli interessi inglesi e francesi in quella zona [Ź18_1]. In questo modo il Piemonte poté partecipare come Stato vincitore al congresso di Parigi del 1856. In quella sede Cavour sollevò la questione italiana, protestando contro la presenza militare austriaca nelle Legazioni pontificie e denunciando il malgoverno dello Stato della Chiesa e del Regno delle Due Sicilie come causa di tensioni rivoluzionarie e, dunque, come minaccia alla pace. A questo punto Cavour poté puntare sulle ambizioni egemoniche di Napoleone III, desideroso di riprendere la politica italiana del primo Napoleone, e anche sulla paura suscitata in lui dalle agitazioni mazziniane. Questi timori trovarono conferma nel gennaio del 1858, quando il repubblicano Felice Orsini attentò alla vita dell’imperatore francese con l’intento di vendicare la repressione della Repubblica romana [Ź12_8]. A quel punto Napoleone III si persuase definitivamente della necessità di una iniziativa francese in Italia per soppiantare l’egemonia austriaca, eliminando al tempo stesso un pericoloso nucleo di tensione rivoluzionaria. • L’ALLEANZA CON LA FRANCIA La strada era ormai aperta per la conclusione di un’alleanza franco-piemontese, che fu definita in un incontro segreto fra l’imperatore e Cavour svoltosi nel luglio 1858 nella cittadina termale di Plombières. Gli accordi ipotizzavano una nuova sistemazione dell’intera penisola italiana, che avrebbe dovuto essere divisa in tre Stati: un regno dell’Alta Italia comprendente, oltre al Piemonte, il Lombardo-Veneto e l’Emilia-Romagna, sotto la monarchia sabauda, che in cambio avrebbe ceduto alla Francia
STORIA IMMAGINE H. Vittori Romano, L’attentato di Felice Orsini contro Napoleone III 1862 [Musée Carnavalet, Parigi] Il 14 gennaio 1858, con alcuni complici, Felice Orsini gettò tre bombe contro la carrozza di Napoleone III che si stava fermando davanti al teatro dell’Opéra a Parigi. Otto persone morirono e 156 rimasero ferite. Rimasto incolume, l’imperatore decise di proseguire con il programma della serata recandosi comunque alla rappresentazione del Guglielmo Tell di Rossini. Durante il processo seguito al suo arresto, Felice Orsini tenne di fronte ai
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giudici un atteggiamento fermo e dignitoso che fece grande impressione sull’opinione pubblica francese: si dichiarò colpevole e unico responsabile dell’attentato, non si appellò alla clemenza della Corte e non fece domanda di grazia all’imperatore.
Gli inviò anzi due lettere, esortandolo al tempo stesso a non abbandonare la causa italiana. L’imperatore fece pubblicare le lettere, lasciando intendere, in questo modo, che gli accordi con il Regno di Sardegna sarebbero stati rispettati.
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i territori di Nizza e della Savoia; un regno dell’Italia centrale formato dalla Toscana e dalle province pontificie; un regno meridionale liberato dalla dinastia borbonica (e che sarebbe ricaduto sotto l’influenza francese). Al papa, che avrebbe conservato la sovranità su Roma e dintorni, sarebbe stata offerta la presidenza della futura Confederazione italiana. I guadagni territoriali erano prevalentemente a vantaggio del Piemonte in cambio di un’ipotetica egemonia esercitata dalla Francia sulla nuova sistemazione italiana. Ma per raggiungere questi obiettivi era indispensabile la guerra contro l’Austria. Anzi, era necessario che la guerra apparisse provocata dall’Impero asburgico perché l’alleanza con la Francia potesse diventare operativa.
•
LA GUERRA DEL 1859 Il governo piemontese fece il possibile per far salire la tensione con lo Stato vicino: particolare effetto suscitarono le manovre militari al confine e l’armamento di corpi volontari, i Cacciatori delle Alpi, comandati da Garibaldi. E il governo asburgico finì col cadere nella provocazione inviando, nell’aprile 1859, un duro ultimatum al Piemonte, respinto da Cavour. Scoppiata la guerra – la seconda guerra d’indipendenza –, le truppe franco-piemontesi sconfissero gli austriaci a Magenta, aprendosi la via per Milano [Ź _30]. Un successivo contrattacco austriaco fu respinto, il 24 giugno, nelle
F
LEGGERE LE FONTI
Camillo Benso di Cavour, La questione italiana e l’Europa C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, vol. XII (1855-56), a c. di A. Saitta, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 362-63
Nei congressi di Lubiana (1821) e di Verona (1822) le grandi potenze, riunite n ella Santa alleanza, si accordarono per il mantenimento dell’assetto territoriale e politico sancito dal congresso di Vienna.
La partecipazione del Piemonte, come Stato vincitore nel conflitto di Crimea, al congresso di Parigi del maggio 1856 fu una tappa importante per l’unificazione: Cavour poté parlare della situazione italiana in una
Rispetto alla questione italiana non si è, per vero, arrivati a gran risultati positivi; tuttavia si sono guadagnate, a mio parere, due cose: la prima che la condizione anomala ed infelice dell’Italia è stata denunziata all’Europa, non già da demagoghi (Si ride), da rivoluzionari esaltati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito, ma bensì da rappresentanti delle primarie potenze dell’Europa, da statisti che seggono a capo dei loro Governi, da uomini insigni avvezzi a consultare assai più la voce della ragione che a seguire gli impulsi del cuore. [...] Il secondo si è che quelle stesse potenze hanno dichiarato essere necessario, non solo nell’interesse d’Italia, ma in un interesse europeo, di arrecare ai mali d’Italia un qualche rimedio. Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni quali sono la Francia e l’Inghilterra siano per rimanere lungamente sterili. Sicuramente, se da un lato abbiamo da applaudirci di questo risultato, dall’altro io debbo riconoscere che esso non è scevro di inconvenienti e di pericoli. (Movimento d’attenzione.) Egli è sicuro, o signori, che le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l’Austria! (Sensazione.) [...] La via che abbiamo seguito in questi ultimi anni ci ha condotti ad un gran passo: per la prima volta nella storia nostra la questione italiana è stata portata e discussa avanti ad un congresso europeo, non come le altre volte, non come al congresso di Lubiana, ed al congresso di Verona, coll’animo di aggravare i mali d’Italia e di ribadire le sue catene, ma coll’intenzione altamente manifestata di arrecare alle sue piaghe un qualche rimedio, col dichiarare altamente la simpatia che sentivano per essa le grandi nazioni. Terminato il Consiglio, la causa d’Italia è portata ora al tribunale della pubblica opinione, a quel tribunale al quale, a seconda del detto memorabile dell’imperatore dei Francesi, spetta l’ultima sentenza, la vittoria definitiva. La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte; ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspettiamo con fiducia l’esito finale. (Applausi generali.)
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Nel suo discorso alla Camera dei deputati Cavour rivendica i risultati positivi ottenuti al congresso di Parigi del 1856. Di quali successi si tratta? b Perché Cavour è convinto che le dichia-
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riunione internazionale. In questo brano, tratto dal discorso che Cavour tenne alla Camera il 6 maggio, lo statista piemontese espone i risultati ottenuti a quel congresso.
razioni favorevoli verso l’Italia, espresse a Parigi da Inghilterra e Francia, non rimarranno soltanto parole vuote? c Quale ostacolo, secondo lo statista piemontese, continua a rappresentare una
fonte di preoccupazione per la causa italiana? d La causa d’Italia è portata ora al tribunale della pubblica opinione.» Chiarisci il significato politico della frase di Cavour.
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LO SPAZIO DELLA STORIA
LA SECONDA GUERRA D’INDIPENDENZA
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30 IMPERO D’AUSTRIA
SVIZZERA
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Magenta 1859
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territorio annesso al Regno di Sardegna Magenta 1859 battaglie
due contemporanee, sanguinose battaglie di Solferino e San Martino, dove le vittime francesi furono il doppio di quelle italiane. A questo punto, nonostante la vittoria, Napoleone III, impressionato dai costi umani della guerra, timoroso delle reazioni ostili dell’opinione pubblica francese e del possibile intervento della Confederazione germanica, offrì un armistizio agli austriaci che fu accettato e firmato a Villafranca, presso Verona, l’11 luglio. Con questo accordo l’Impero asburgico rinunciava alla Lombardia e la cedeva alla Francia che l’avrebbe poi “girata” al Piemonte, mantenendo il
LE PAROLE DELLA STORIA
Plebiscito Nella Roma repubblicana con il termine plebiscitum (“decisione della plebe”) si indicavano le deliberazioni che venivano espresse in assemblea dalla plebe, e che, in alcuni casi, assumevano valore di legge. Il termine riapparve nella Francia rivoluzionaria per indicare un solenne pronunciamento del popolo, unico depositario della sovranità. Il primo vero plebiscito dell’età moderna fu quello a cui Napoleone Bonaparte fece ricorso per legittimare a posteriori il colpo di Stato del 1799. Anche le successive tappe della costruzione del potere napoleonico – dalla nomina a Primo console in quello stesso anno all’assunzione del titolo imperiale nel 1804 – furono segnate da plebisciti: si trattava di consultazioni popo-
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lari, a suffragio universale maschile, in cui gli elettori dovevano semplicemente approvare decisioni già prese, conferendo ad esse la ratifica della sovranità popolare. L’istituto del plebiscito fu ripreso in Francia da Luigi Napoleone Bonaparte, che ripercorse un cammino analogo a quello del primo Napoleone. Successivamente la monarchia sabauda se ne servì per legittimare le annessioni con cui nacque e poi si ingrandì il Regno d’Italia e per rendere omaggio al principio della sovranità popolare, rompendo con la tradizione della monarchia per diritto divino. Gli elettori furono chiamati a pronunciarsi con un «sì» o con un «no», senza alcuna garanzia di segretezza del voto, sulla scelta di una «Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale». Nel ’900 il ricorso alle forme plebiscitarie fu
ampiamente praticato dai regimi totalitari, come quello fascista in Italia e quello nazista in Germania. In Italia ebbero, per esempio, forma plebiscitaria le elezioni fasciste del 1929 e del 1934: gli elettori potevano solo approvare o rifiutare in blocco i candidati di una lista unica. Da allora il termine, usato per lo più in senso negativo, sta a indicare lo strumento di cui si servono i regimi autoritari per trovare una legittimazione popolare e rafforzare così il ruolo del capo, senza correre i rischi connessi alla libera espressione del voto democratico, che presuppone la possibilità di scegliere senza costrizioni fra alternative reali. Più in generale si parla di “voto plebiscitario” o di “consenso plebiscitario” per designare l’esito schiacciante (e per questo a volte sospetto) di una consultazione elettorale.
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Veneto e le fortezze di Mantova e Peschiera. Per il resto d’Italia, il trattato prevedeva il ripristino della situazione precedente lo scoppio della guerra: tra aprile e giugno, infatti, una serie di insurrezioni nelle regioni centro-settentrionali della penisola – a Modena, a Bologna, in Romagna e Toscana – aveva costretto alla fuga i vecchi sovrani. La notizia dell’armistizio suscitò lo sdegno dei democratici italiani e colse di sorpresa lo stesso Cavour, che rassegnò subito le dimissioni.
• LE ANNESSIONI DELL’ITALIA CENTRO-SETTENTRIONALE A differenza di quanto era accaduto nel ’48, i moti della primavera del ’59 furono saldamente controllati dai moderati e dagli uomini della Società nazionale, e i governi provvisori che subito si costituirono si pronunciarono per l’annessione al Piemonte. Di fronte a questa realtà, dopo alcuni mesi Napoleone III decise di accettare il fatto compiuto capendo che la nuova situazione nell’Italia centro-settentrionale vanificava il progetto definito a Plombières. Cavour, tornato a capo del governo nel gennaio 1860, poté così negoziare la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia – cui il Piemonte non era più tenuto dopo Villafranca – in cambio dell’assenso francese alle annessioni del Granducato di Toscana, dei Ducati di Modena e di Parma, delle Legazioni pontificie. Nel marzo dello stesso anno, le popolazioni di Emilia, Romagna e Toscana, chiamate a scegliere, nella forma del plebiscito, fra l’annessione al Piemonte e la creazione di regni separati, si pronunciarono a schiacciante maggioranza per la soluzione unitaria.
Le parole della storia Plebiscito, p. 381
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I Mille e la conquista del Mezzogiorno •
L’ORGANIZZAZIONE DELLA SPEDIZIONE IN SICILIA Con la cessione alla Francia dei suoi territori d’oltralpe – in particolare della Savoia, terra di origine della casa regnante, ma abitata da popolazioni di lingua francese – e dopo le annessioni della Lombardia, dell’Emilia-Romagna e della Toscana, lo Stato sabaudo aveva posto le premesse di uno Stato nazionale italiano. Questi risultati sollecitarono i democratici a rilanciare l’iniziativa rivoluzionaria nel Mezzogiorno e nello Stato della Chiesa. Esclusa l’opportunità di un’azione nei confronti di Roma, protetta da truppe francesi, si ripropose l’idea di una spedizione di volontari nel Regno delle Due Sicilie dove, nel maggio del ’59, era salito al trono il giovane Francesco II. Furono due mazziniani siciliani esuli in Piemonte, Francesco Crispi e Rosolino Pilo, a concepire il progetto di una spedizione in Sicilia come prima tappa di un movimento insurrezionale che avrebbe dovuto estendersi al continente. I due cercarono da una parte di organizzare una rivolta locale prima dello sbarco dei volontari, dall’altra di assicurarsi un’efficiente guida politica e militare e di garantirsi nel contempo un qualche appoggio del governo piemontese. Ai primi di aprile del 1860, un’insurrezione popolare scoppiava a Palermo. Mentre Pilo accorreva in Sicilia per assumere la direzione del moto, sanguinosamente represso nel capoluogo, ma attivo nelle campagne nella forma della guerriglia contadina, Crispi riuscì a convincere un esitante Garibaldi ad assumere la guida della spedizione.
• IL RUOLO DI GARIBALDI Garibaldi era non solo il capo militare più prestigioso di cui disponesse il movimento nazionale, ma anche l’unico leader capace di unificare attorno a sé le diverse componenti dello schieramento unitario, dai democratici intransigenti ai moderati filocavouriani. Quando accettò di capeggiare la spedizione in Sicilia, Garibaldi era l’unico fra i leader democratici in grado di assicurare qualche possibilità di riuscita all’impresa, ritenuta
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ź Filippo Palizzi, Gruppo di garibaldini 1860 [Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma] La camicia rossa, divisa e simbolo dei volontari garibaldini, nacque attorno al 1843 nell’America del Sud, a Montevideo, dove Garibaldi, esule dall’Italia, combatteva per la libertà dell’Uruguay contro l’Argentina. Secondo la testimonianza dell’ammiraglio inglese Ingram, l’adozione della camicia rossa sarebbe stata causata, molto semplicemente, dalla necessità di vestire nella maniera più economica l’esercito appena costituito: «Queste camicie in origine erano state preparate per gli operai dei macelli, perché col loro colore sopportavano meglio le macchie di sangue».
Storiografia 67 L. Riall, Il mito di Garibaldi, p. 414
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estremamente rischiosa. Cavour, che temeva le complicazioni internazionali e vedeva nella spedizione un’occasione di rilancio per i mazziniani, la avversò pur senza far nulla per impedirla. Vittorio Emanuele II, che guardava invece con favore al tentativo di Garibaldi, non poté intervenire concretamente in suo aiuto.
•
LA SPEDIZIONE DEI MILLE La spedizione fu così preparata in fretta, con scarso equipaggiamento e pessimo armamento. Nella notte fra il 5 e il 6 maggio 1860, poco più di mille volontari, provenienti da diverse regioni – ma in maggioranza settentrionali – e di varia estrazione sociale (borghese-intellettuale, operaia o artigiana), in larga parte veterani delle campagne del ’48 e del ’59, partirono da Quarto presso Genova, dopo essersi impadroniti di due navi a vapore, la Piemonte e la Lombardo. Pochi giorni dopo, eludendo la sorveglianza della flotta borbonica, i volontari sbarcavano a Marsala [Ź _31], nell’estremità occidentale della Sicilia, e penetravano nell’interno, accolti con entusiasmo dalla popolazione. Il 15 maggio, a Calatafimi, le colonne garibaldine, accresciute da poche centinaia di insorti siciliani, nonostante l’inferiorità numerica, riuscirono a battere un contingente borbonico. Galvanizzati dal successo, i volontari puntarono su Palermo e la raggiunsero dopo una difficile marcia fra le montagne. All’arrivo delle avanguardie garibaldine, la città insorse contro i Borbone. Alla fine di maggio, dopo tre giorni di combattimenti, le truppe governative furono costrette ad abbandonare la città dove Garibaldi – che appena sbarcato in Sicilia aveva assunto la dittatura in nome di Vittorio Emanuele II – proclamò la decadenza della monarchia borbonica. Mentre nell’isola si formava un governo civile provvisorio sotto la guida di Crispi e si tentava di mettere in moto un primo processo di riforma sociale (riduzione del carico fiscale, assegnazione di terre ai contadini combattenti nelle file garibaldine), nell’Italia settentrionale si raccoglievano uomini e mezzi da inviare in Sicilia: fra giugno e luglio sbarcarono a Palermo quasi 15 mila volontari. Col loro apporto, Garibaldi poté muovere all’attacco delle truppe borboniche e sconfiggerle, il 20 luglio, a Milazzo, costringendole a rifugiarsi sul continente. Nel giro di poche settimane, l’impresa garibaldina aveva assunto le dimensioni di una vera e propria epopea, cui gran parte dell’opinione pubblica europea guardava con simpatia e ammirazione. La rapidità con cui era stato abbattuto il regime borbonico in Sicilia aveva inoltre colto di sorpresa la diplomazia delle grandi potenze e aveva costretto Cavour e i moderati italiani a rivedere la loro strategia e a immaginare un’ulteriore politica di annessioni.
LA SPEDIZIONE DEI MILLE 1860
5-6 maggio Partenza dei Mille da Quarto 11 maggio I Mille sbarcano a Marsala
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14 maggio Garibaldi assume la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele
15 maggio Battaglia di Calatafimi
27 maggio I Mille conquistano Palermo
20 luglio I Mille sconfiggono definitivamente i borbonici nella battaglia di Milazzo
luglio
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LO SPAZIO DELLA STORIA Garibaldi sbarca a Marsala (11 maggio 1860) e giunge a Caserta, dove il 9 novembre 1860 scioglie il suo esercito di volontari. Alle annessioni seguite alla spedizione garibaldina e all’intervento piemontese, nel 1866 e nel 1870 si aggiungono rispettivamente quelle del Veneto e del Lazio. La Venezia Giulia e il Trentino restano, invece, ancora all’Austria.
LA SPEDIZIONE DEI MILLE E L’ITALIA UNITA
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31
VENETO LOMBARDIA Milano
SAVOIA
Venezia
Torino Custoza EMILIA Genova CONTEA DI NIZZA
Quarto
Bologna SAN MARINO Ancona Castelfidardo
Firenze
MARCHE
TOSCANA Talamone
Regno di Sardegna
Pescara ABRUZZI
LAZIO
territori ceduti alla Francia nel 1860
Roma
Mentana Bari Teano-Vairano Capua PU GL IE Gaeta Caserta BASILICATA Napoli Sapri
Volturno
territori annessi al Regno di Sardegna a seguito della seconda guerra d’indipendenza
LAB RI A
territori borbonici e pontifici annessi al Regno di Sardegna a seguito della spedizione garibaldina e dell’intervento piemontese
CA
territori ceduti dall’Austria a seguito della terza guerra d’indipendenza
Palermo
territori occupati dal Regno d’Italia nel 1870
Milazzo
Reggio C. Melito
Taormina
Calatafimi Marsala Salemi SICILIA
itinerario dei piemontesi itinerario dei Mille battaglie
•
I CONTRASTI CON I CONTADINI IN SICILIA Il clima di entusiastica concordia che aveva accolto i garibaldini al loro sbarco in Sicilia si era dissolto quando i contadini avevano intravisto la possibilità di liberarsi non solo dal malgoverno borbonico, ma anche dal secolare sfruttamento cui li condannava una struttura sociale ancora semifeudale: era così scoppiata una serie di violente agitazioni. Dal canto loro, Garibaldi e i suoi collaboratori avevano cercato di venire incontro alle esigenze dei contadini, ma senza mettere in discussione il quadro dei rapporti di proprietà. Nacque così un contrasto insanabile, sfociato in episodi di dura repressione: il più noto si verificò ai primi di agosto nella cittadina di Bronte, ai piedi dell’Etna. Dopo alcuni giorni di rivolta, incendi e saccheggi, e il massacro di alcuni notabili, i supposti capi dei ribelli furono sommariamente processati e fucilati per ordine di Nino Bixio, braccio destro di Garibaldi. Intanto i proprietari terrieri, spaventati dalle agitazioni agrarie, guardavano sempre più all’annessione al Piemonte come all’unica efficace garanzia per la tutela dell’ordine sociale.
•
LA CONQUISTA DI NAPOLI Fino a tutta l’estate del 1860, l’iniziativa restò nelle mani di Garibaldi che riuscì a sbarcare in Calabria e poi risalì rapidamente la penisola senza che l’esercito borbonico, ormai in via di disgregazione, fosse in grado di opporgli un’efficace resistenza. Il 6 settembre, Francesco II abbandonò la capitale per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta. Il giorno dopo Garibaldi fece il suo ingresso trionfale a Napoli. Cavour si trovò ancora una volta battuto sul tempo. Napoli liberata rischiava di trasformarsi in un quartier generale dei
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STORIA IMMAGINE Pierre Tetar van Elven, La partenza dei Mille 1889 [Museo del Risorgimento, Istituto Mazziniano, Genova] Il tema della “partenza dei Mille”, molto frequente fra gli artisti del Risorgimento, è qui raffigurato con toni pacati, lontani dagli accenti enfatici con cui è di solito trattato. L’autore ci dà un quadro realistico dell’evento, con molti dei personaggi riconoscibili; i protagonisti appaiono tutti sullo stesso piano e anche l’immagine di Garibaldi è evidenziata solo da un piccolo bagliore di luce, a sottolineare che i protagonisti del quadro sono proprio loro, i “Mille” volontari.
F
LEGGERE LE FONTI
Giuseppe Cesare Abba, L’epopea garibaldina G.C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, Zanichelli, Bologna 1951, pp. 68-76 La compagnia comandata da Benedetto Cairoli.
Il piemontese Giuseppe Cesare Abba (1838-1910) combatté come volontario nella guerra del 1859 e partecipò l’anno successivo all’impresa dei Mille. Dal taccuino redatto nel corso della spedizione trasse le Noterelle di uno dei Mille, stampate nel 1880 e ripubblicate nel 1891 nel libro Da Quarto
al Volturno, che ebbe enorme successo e contribuì a far nascere la leggenda dei Mille. Le pagine qui riportate sono quelle relative alla battaglia di Calatafimi del 15 maggio 1860, primo scontro fra i volontari garibaldini e le truppe borboniche.
Dopo breve tratto sostammo. E allora vidi la nostra bella bandiera portata al centro della settima, quel centinaio e mezzo di giovani quasi tutti dell’Università di Pavia, fior di Lombardi e di Veneti, la compagnia più numerosa e più bella. A GIUSEPPE GARIBALDI GLI ITALIANI RESIDENTI IN VALPARAISO
Città del Cile.
Grandine. Sottintendi: vedeva il numero dei nemici.
Giuseppe Missori (1829-1911), patriota e comandante garibaldino.
Lessi queste parole, trapunte a caratteri grandi d’oro su d’un lato della bandiera. Sull’altro trionfava l’Italia, figurata in una donna augusta, che, rotte le catene, sorge ritta su d’un trofeo, cannoni, schioppi, tutt’oro e argento. Io contemplava la bandiera, pensando che in quelle terre lontane dove fu fatta, tra quei patriotti donatori, vive un fratello del padre mio; e intanto vedeva un gran correre di ufficiali e di Guide. Poi comparve il Generale, le trombe squillarono, lasciammo la strada consolare, ci mettemmo pei campi e su per la collina brulla, una compagnia incalzando l’altra. Di lassù scoprimmo il nemico. Il colle in faccia sfolgorava tutto armi, pareva coperto di diecimila soldati. […] Ci levammo, ci serrammo, e precipitammo in un lampo al piano. Là ci copersero di piombo. Piovevano le palle come gragnuola, e due cannoni dal monte già tutto fumo, cominciarono a trarci addosso furiosamente. La pianura fu presto attraversata, la prima linea di nemici rotta; ma alle falde del colle chi guardava in su!... Là vidi Garibaldi a piedi, colla spada inguainata sulla spalla destra, andare innanzi lento e tenendo d’occhio tutta l’azione. Cadevano intorno a lui i nostri, e più quelli che indossavano camicia rossa. Bixio corse di galoppo a fargli riparo col suo cavallo, e tirandoselo dietro alla groppa, gli gridava: «Generale, così volete morire?». «Come potrei morire meglio che pel mio paese?» rispose il Generale, e scioltosi dalla mano di Bixio, tirò innanzi severo. Bixio lo seguì rispettoso. […] Già tutta l’erta era ingombra di caduti, ma non si udiva un lamento. Vicino a me il Missori comandante delle Guide, coll’occhio sinistro tutto pesto e insanguinato, pareva porgesse l’orecchio ai rumori che venivano dalla vetta, donde si udivano i battaglioni moversi pesanti, e mille voci, come fiotti di mare in tempesta, urlare a tratti: «Viva lo Re!».
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Con quale immagine viene raffigurata l’Italia sulla bandiera menzionata nel brano? b Quali parole campeggiano sulla bandiera e quale stato d’animo suscita nel protagonista del racconto la lettura di quella scritta?
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1855
c Quale reazione ebbero le truppe borboniche di fronte all’assalto dei volontari garibaldini? d In quali termini viene descritta la figura del generale Garibaldi dall’autore del documento?
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democratici – dove giunsero anche Mazzini e Cattaneo – e di diventare la base per una spedizione nello Stato della Chiesa. Un’impresa che avrebbe provocato l’intervento francese e che, se avesse avuto successo, avrebbe potuto mettere in discussione l’assetto monarchico e moderato dello stesso Regno sabaudo.
• L’INTERVENTO MILITARE PIEMONTESE E I PLEBISCITI DI ANNESSIONE Non restava, per il governo piemontese, altra scelta se non quella di prevenire l’iniziativa garibaldina con un intervento militare. In settembre – dopo che Cavour ebbe ottenuto l’assenso di Napoleone III, impegnandosi a non minacciare Roma e il Lazio – le truppe regie invasero l’Umbria e le Marche e sconfissero l’esercito pontificio nella battaglia di Castelfidardo. Ai primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borbonici nella grande battaglia campale del Volturno, l’esercito sabaudo iniziò la marcia verso il Sud. Pochi giorni dopo, il Parlamento piemontese approvò quasi all’unanimità una legge proposta da Cavour, che autorizzava il governo a decretare l’annessione, senza condizioni, di altre regioni italiane allo Stato sabaudo, purché le popolazioni interessate esprimessero la loro volontà in tal senso mediante plebisciti. L’iniziativa tornava così – e questa volta definitivamente – nelle mani di Cavour e dei moderati. Il 21 ottobre, in tutte le province del Mezzogiorno continentale e in Sicilia – e, due settimane dopo, anche nelle Marche e in Umbria – si tennero plebisciti a suffragio universale maschile nella forma voluta da Cavour: agli elettori non veniva lasciata altra scelta che quella di accettare o respingere “in blocco” l’annessione allo Stato sabaudo con la sua forma di governo, i suoi ordinamenti, le sue leggi. Molto ampia (75-80%) fu l’affluenza alle urne e addirittura LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 6
Pietro Bouvier Garibaldi e il maggiore Leggiero in fuga attraversano le paludi di Comacchio con Anita morente, 1864 [Museo del Risorgimento, Milano] Le vicende e le avventure di Garibaldi suscitarono un vivo interesse in larghi settori sociali ed è proprio la copiosa e differenziata produzione iconografica ad attestarlo. In modo particolare le stampe, immagini destinate ad un pubblico vasto, avevano soggetti in grado di suscitare una maggior presa emotiva. Esse riflettono, in virtù del fine commerciale, poiché li assecondano, i gusti dell’epoca e le caratteristiche che ci si aspettava fossero proprie dell’eroe. Non è un caso che questo dipinto, realizzato da un pittore della Scapigliatura, sia stato anche riprodotto in stampe a testimoniare l’interesse per gli aspetti più romantici della vita dell’eroe. Garibaldi e Anita, assieme al maggiore Leggiero, sono ritratti durante l’avventurosa fuga seguita alla caduta della Repubblica romana. La giovane Anita era al quinto mese di gravidanza e morì dopo poco. Quando i due si erano conosciuti, la donna era già sposata, ma aveva lasciato tutto per seguire il nuovo amore e per dieci anni era stata la sua inseparabile compagna. Le circostanze in cui i due si erano innamorati, l’avventurosa fuga da Roma e la morte di Anita sono degne di una scena madre di un’opera lirica e concorsero alla costruzione della figura romantica dell’eroe. GUIDA ALLA LETTURA a Chi sono i personaggi rappresentati nel dipinto e cosa stanno facendo? Da cosa li riconosci?
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b Quali sentimenti puoi attribuire a Garibaldi? Quali sono gli elementi grafici in grado di trasmetterli?
c Perché il pittore realizza questo quadro? Che senso ha nella costruzione del mito garibaldino?
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schiacciante – tanto da giustificare qualche sospetto sulla regolarità delle operazioni di voto e di scrutinio – la maggioranza dei «sì». A Garibaldi non restò che attendere l’arrivo dei piemontesi – l’incontro con Vittorio Emanuele II avvenne a Teano, presso Caserta, il 25 ottobre – per cedere loro ogni responsabilità nel governo delle province liberate. Mentre Garibaldi si ritirava sull’isola di Caprera in volontario isolamento rinunciando a ogni progetto di liberare Roma e Mazzini partiva per l’ennesimo esilio, l’esercito sabaudo eliminava le ultime resistenze borboniche.
Storiografia B. Croce, Il “sorgimento” Storiografia S. Patriarca, La rigenerazione morale degli italiani Storia e educazione ambientale Il paesaggio agrario italiano, p. 392
5
L’Unità d’Italia: caratteri e limiti • IL REGNO D’ITALIA Il 17 marzo 1861, il primo Parlamento proclamava Vittorio Emanuele II re d’Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione». L’Italia era ormai uno Stato unitario, con capitale Torino, ma al suo completamento territoriale mancava tutto il Veneto (il confine con l’Austria correva lungo il lago di Garda e il fiume Mincio) e il Lazio con Roma. Grazie alle annessioni l’Italia unita si presentava come il risultato dell’ampliamento di uno Stato regionale rivelatosi forte e dinamico al punto da poter assorbire territori di gran lunga più ampi e popolazioni molto più numerose rispetto al suo nucleo originario, imponendo all’intero paese il proprio sovrano e le proprie istituzioni, leggi e ordinamenti. A questo risultato si era arrivati non solo per l’iniziativa militare e diplomatica del Piemonte o per l’azione di un uomo politico geniale come Cavour, ma anche per l’ampia mobilitazione di un’opinione pubblica che coinvolgeva gli strati sociali più attivi e più dinamici d’Italia, seppur minoritari: intellettuali, studenti, ceti popolari urbani politicizzati e soprattutto una borghesia produttiva desiderosa di creare quel mercato nazionale che era considerato una premessa indispensabile allo sviluppo economico. Per quanto minoritaria nel paese, questa opinione pubblica era largamente disseminata anche per la presenza degli innumerevoli centri urbani, grandi e piccoli, che da secoli caratterizzavano l’Italia e che ospitavano élite illuminate e favorevoli al risorgimento nazionale. •
I CARATTERI DELL’UNIFICAZIONE In Italia, dunque, lo Stato nazionale nacque dalla combinazione di un’iniziativa dall’alto – la politica di Cavour e l’egemonia del Piemonte sabaudo – e di un’iniziativa dal basso – le insurrezioni nell’Italia centrale e la spedizione garibaldina nel Sud. E l’esito dei plebisciti, per quanto forzati dagli avvenimenti e solo parzialmente rispettosi dei reali
21 ottobre Gli abitanti del Napoletano e della Sicilia votano a favore dell’annessione al Regno di Sardegna
L’UNITÀ D’ITALIA 16 settembre Le truppe piemontesi sconfiggono quelle pontificie a Castelfidardo
19 agosto Garibaldi sbarca in Calabria, per risalire l’Italia 6 settembre Francesco II si rifugia a Gaeta
agosto
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settembre
7 settembre Garibaldi conquista Napoli
1º ottobre Nella battaglia del Volturno Garibaldi sconfigge definitivamente l’esercito borbonico
ottobre
26 ottobre A Teano, Garibaldi incontra Vittorio Emanuele
4-5 novembre Gli abitanti di Umbria e Marche votano a favore dell’annessione al Regno di Sardegna
novembre
21 gennaio 1861 Elezioni dei l primo Parlamento nazionale italiano
gennaio
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Storiografia 68 D. Beales, E.F. Biagini, Patriote straniere, p. 415
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orientamenti delle popolazioni coinvolte, rappresentò un omaggio all’idea della sovranità popolare. Nell’incontro fra la componente democratica e la componente moderata e dinastica, quest’ultima alla fine risultò nettamente vincente: ma senza le rivoluzioni democratiche che l’avevano preceduto, l’esito dell’Unità non sarebbe stato possibile. Un ruolo decisivo ebbero anche i fattori internazionali: in primo luogo l’intervento della Francia di Napoleone III, che combatté nel ’59 una guerra a totale beneficio del Piemonte [Ź13_3], a cui si aggiunsero l’isolamento del Regno delle Due Sicilie e dello stesso Impero asburgico, e la sostanziale neutralità della Gran Bretagna. Un decisivo contributo alla causa italiana venne, infine, dalla solidarietà internazionale mostrata da parte di uomini e donne provenienti da diversi paesi europei e non che parteciparono al Risorgimento come volontari o vi contribuirono attraverso un’opera di propaganda ideologica.
• VINCITORI E VINTI Se dunque la mobilitazione risorgimentale aveva riportato un indiscutibile successo proprio in virtù dell’intreccio positivo delle sue due principali componenti, una parte consistente degli italiani aveva subìto o si era adattata di malavoglia al nuovo corso. In primo luogo il cattolicesimo organizzato della Chiesa romana e delle istituzioni ecclesiastiche, che avrebbero visto di lì a poco (1866-67) la requisizione e la vendita delle loro proprietà a vantaggio delle finanze del nuovo Stato. Incombeva inoltre la conquista di Roma, acclamata capitale italiana dal Parlamento già il 27 marzo 1861, il che avrebbe segnato la fine di quel che rimaneva dello Stato pontificio e del secolare potere temporale dei papi. Tra gli sconfitti vanno ricordati anche tutti i nostalgici degli antichi regimi assolutistici e i difensori delle dinastie abbattute: tra questi si contavano molti nobili, ufficiali e funzionari, ma anche strati di popolo minuto e di contadini, legati alla monarchia borbonica. Le campagne erano rimaste in tutta Italia, come sappiamo, sostanzialmente estranee al movimento nazionale. Quando le agitazioni contadine, spesso violente, esplosero in Sicilia alimentate dalle speranze che il cambiamento legato alla spedizione garibaldina favorisse il recupero delle terre comuni usurpate dalla nobiltà e dalla borghesia, la repressione apparve giustificata e inevitabile, non solo a Bronte, come abbiamo visto, ma anche in altre località del catanese. Del resto persisteva un’estraneità incolmabile tra le agitazioni sociali ed economiche di quella parte del mondo contadino – così diversa dal resto d’Italia – e il programma politico di moderati e democratici volti a realizzare l’obiettivo primario della loro azione, l’unità e l’indipendenza. A ciò si aggiungeva il timore del possibile ripetersi di rivolte sociali nelle campagne (come era già accaduto in Sicilia nel 1820 e nel 1848) col rischio di una loro evoluzione reazionaria e filoborbonica, mentre andava evitata accuratamente una cesura con le classi dirigenti locali. •
Storiografia 69 R. Romeo, I valori dello Stato unitario, p. 417
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L’ITALIA IN EUROPA Per l’Italia unita cominciava allora a porsi il problema di un confronto con il resto d’Europa, innanzitutto per garantire la continuità del nuovo Stato unitario, per trovare un proprio ruolo tra le potenze e per ottenere senza troppi contrasti il completamento dell’Unità. Rispondere alle ambizioni, spesso dense di retorica nazionale, di un paese politicamente giovane si sarebbe rivelato meno agevole del previsto, mentre duratura e spesso radicale rimase la divisione tra i vincitori e gli sconfitti del Risorgimento. L’unità rappresentò in ogni caso una decisiva svolta modernizzatrice per l’Italia, tanto sul piano delle istituzioni politiche quanto su quello delle prospettive economiche, anche se la costruzione del nuovo Stato avrebbe richiesto scelte difficili e altri momenti conflittuali.
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C 13 L’Unità d’Italia RICORDARE L’ESSENZIALE Il Piemonte cavouriano Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del ’48-49 in tutti gli Stati italiani si registrò una seconda Restaurazione, a eccezione del Piemonte sabaudo, dove venne conservato il regime costituzionale (lo Statuto albertino) e intrapresa un’opera di modernizzazione, a partire dal ridimensionamento dei privilegi ecclesiastici con le leggi Siccardi. Nel 1852 il conte Camillo Benso di Cavour divenne presidente del Consiglio: si affermava, così, un politico dai vasti orizzonti culturali e dall’ampia conoscenza dei problemi economici, animato dalla fede in un liberalismo pragmatico e moderno. Spostato a sinistra l’asse del governo con il cosiddetto «connubio» Cavour-Rattazzi, che di fatto emarginava le ali estremiste (i clericali-conservatori e i democratici più radicali), il presidente del Consiglio pose mano anzitutto alla modernizzazione economica del paese, attraverso la liberalizzazione degli scambi, il sostegno dello Stato all’industria, le opere pubbliche. La conservazione delle libertà costituzionali, lo sviluppo economico, l’accoglienza data agli esuli politici del ‘48 fecero del Piemonte cavouriano il punto di riferimento per l’opinione pubblica liberale di tutta la penisola. Sul fronte democratico, invece, i ripetuti insuccessi insurrezionali spinsero Mazzini a creare il Partito d’azione (1853) con l’intento di correggere la strategia di azione, migliorandone gli aspetti organizzativi. D’altro canto, crescevano i dissensi all’interno del movimento stesso. Molti erano infatti i democratici che vedevano nell’alleanza con la monarchia sabauda l’unica possibilità di successo per la causa italia-
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Audiosintesi per paragrafi
na: nel 1857 si costituì così la Società nazionale. Il 1857 fu anche la data dell’ennesima spedizione democratica, quella di Sapri, guidata da Carlo Pisacane, che si concluse tragicamente soprattutto a causa dell’ostilità delle popolazioni del Sud. Il processo di unificazione dell’Italia A Cavour si deve la partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea (185356), al fianco di Gran Bretagna e Francia, che si rivelò un vero e proprio successo diplomatico, perché riuscì a portare all’attenzione del consesso internazionale la questione italiana. Cavour, infatti, era convinto che l’appoggio di Napoleone III fosse indispensabile per scacciare gli austriaci dalla penisola e in questo fu favorito dagli effetti che ebbe sull’imperatore il fallito attentato alla sua vita compiuto dal repubblicano Felice Orsini nel 1858. Cavour stipulò allora un’alleanza militare con Napoleone III, a Plombières (1858), in vista della guerra contro l’Austria che scoppiò nell’aprile 1859. Le sorti del conflitto volsero subito a favore dei franco-piemontesi. Ma l’armistizio di Villafranca, improvvisamente stipulato da Napoleone III con l’Austria, a seguito delle ingenti perdite francesi e delle insurrezioni che frattanto erano scoppiate nell’Italia centro-settentrionale, assegnò allo Stato sabaudo la sola Lombardia. Le rivolte scoppiate a Modena, a Bologna, in Romagna e Toscana costrinsero i sovrani alla fuga, mentre le popolazioni locali si espressero a favore dell’annessione al Piemonte, mediante plebiscito, nel 1860. Intanto i democratici pensavano a
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
una prosecuzione della lotta attraverso una spedizione nel Mezzogiorno. Nel maggio 1860 Garibaldi sbarcò in Sicilia con mille volontari e, sconfitte le truppe borboniche, formò un governo provvisorio. Spaventati dalle agitazioni agrarie, i proprietari terrieri siciliani guardarono con favore all’annessione al Piemonte. Dalla Sicilia Garibaldi risalì la penisola, facendo il suo ingresso trionfale a Napoli. A questo punto, per il governo piemontese divenne urgente un’iniziativa militare tale da evitare complicazioni internazionali e garantire alla monarchia sabauda il controllo della situazione. Con l’intervento dell’esercito piemontese nell’Italia centrale e la celebrazione dei plebisciti di annessione nel Mezzogiorno, nelle Marche e in Umbria, nel settembre 1860, l’unificazione della penisola poteva dirsi conclusa. Il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele II fu proclamato re d’Italia. Il nuovo Stato aveva come capitale Torino e appariva come il risultato del progressivo ampliamento di uno Stato regionale, il Regno sabaudo. A favorire il processo di unificazione furono, da un lato, la politica di Cavour e del Piemonte (un’iniziativa diretta dall’alto), dall’altro, le azioni insurrezionali nel Centro Italia e la spedizione dei Mille in Sicilia (iniziative condotte invece dal basso). Importante fu anche il contesto internazionale: la neutralità della Gran Bretagna, la scelta di Napoleone III di intervenire in Italia a favore del Piemonte, l’isolamento del Regno delle Due Sicilie e dell’Impero asburgico. Ora l’Italia doveva ritagliarsi un ruolo in Europa e agire per ottenere senza contrasti il completamento dell’Unità a cui mancavano ancora il Veneto e Roma.
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Dopo l’armistizio di Villafranca, alla Francia furono donate la Lombardia e l’Emilia Romagna. b. I mazziniani Crispi e Pilo progettarono una spedizione in Sicilia con lo scopo di provocare un’insurrezione che sarebbe poi dilagata in tutta la penisola. c. Pochi giorni dopo lo sbarco in Sicilia, Garibaldi proclamò l’annessione dell’isola alla monarchia sabauda.
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d. Garibaldi entrò trionfate a Napoli, dopo aver risalito dalla Sicilia la penisola, il 7 settembre 1860. e. Preoccupato dai successi di Garibaldi, il Piemonte decise di intervenire militarmente per bloccare ulteriori iniziative garibaldine. f. Il 17 marzo 1861 nasceva lo Stato italiano con a capo Vittorio Emanuele II. g. All’atto della proclamazione dell’Unità d’Italia, mancavano ancora il Veneto e il Lazio con Roma.
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2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Gli esuli politici rifugiatisi in Piemonte dopo il 1848... a. conquistarono le cariche più importanti dello Stato sabaudo; b. si amalgamarono con la classe dirigente piemontese; c. furono relegati ai margini della vita politica del Piemonte. 2. Il fallimento della spedizione di Sapri fu dovuto... a. allo scarso consenso popolare suscitato dall’impresa; b. alla scelta di Pisacane di abbandonare le operazioni; c. al carattere moderato e attendistico dell’impresa. 3. Cavour non aveva tra i suoi obiettivi l’unità italiana, ma... a. la cacciata degli austriaci perché di religione protestante; b. l’ampliamento dei confini del Piemonte a danno degli austriaci; c. la creazione di uno Stato federale con a capo il papa. 4. All’invito di Francia e Inghilterra di associarsi alla guerra di Crimea Cavour rispose... a. rifiutando l’invito perché privo di un contingente militare attrezzato; b. soprassedendo all’invito nella speranza di diventare indispensabile per il buon esito delle operazioni; c. inviando in Crimea un contingente militare come supporto. 5. Dopo l’attentato di Felice Orsini, Napoleone III prese l’iniziativa in Italia per... a. sostituirsi all’egemonia austriaca; b. aiutare Cavour nel suo progetto egemonico; c. collaborare col papa Pio IX. 6. Nell’aprile 1859 scoppiò la seconda guerra d’indipendenza e le truppe franco-piemontesi... a. sconfissero gli austriaci a Magenta; b. vennero sconfitte dagli austriaci a Magenta; c. vennero sconfitte a Custoza.
7. Con l’armistizio di Villafranca l’Impero asburgico... a. cedeva alla Francia (e poi al Piemonte) il LombardoVeneto e tutta l’Italia settentrionale; b. cedeva alla Francia (e poi al Piemonte) il LombardoVeneto; c. cedeva alla Francia (e poi al Piemonte) la Lombardia. 8. L’annessione dell’Emilia Romagna e della Toscana al Piemonte avvenne attraverso... a. la conquista militare; b. un plebiscito popolare; c. una cessione politica. 9. La repressione dei contadini in Sicilia fu causata da... a. l’estensione della lotta in senso economico e sociale; b. la partecipazione dei contadini alla resistenza filoborbonica; c. l’ostilità dei contadini all’abolizione della proprietà privata. 10. A capo del nuovo Regno d’Italia fu proclamato... a. un Parlamento eletto dal popolo; b. un governo formato dai leader risorgimentali; c. il re sabaudo Vittorio Emanuele II. 11. Il Partito d’azione fondato da Mazzini nel 1853... a. si diffuse in particolare tra le classi contadine del Sud d’Italia; b. raccolse il consenso di artigiani europei del Nord urbanizzato; c. era inserito nel movimento internazionale di ispirazione socialista.
3 Completa lo schema sulla figura politica di Cavour scegliendo l’espressione corretta fra quelle indicate tra parentesi. CARATTERISTICHE SOCIALI
Ɣ ............................................. (aristocratico/borghese) Ɣ proprietario terriero Ɣ imprenditore Ɣ................................................ (giornalista/banchiere)
INCARICHI POLITICI
Ɣ ministro dell’................................. (Agricoltura/Industria) Ɣ capo ....................................... (del governo/dell’esercito)
IDEOLOGIE POLITICHE CAVOUR
Ɣ ............................................................................... (assolutismo illuminato/liberale moderato) Ɣ fautore di riforme ........................................................... (moderate e graduali/rivoluzionarie) Ɣ sostenitore della ...................................... (repubblica democratica/monarchia costituzionale) Ɣ sostenitore di una politica economica .......................................... (liberoscambista/statalista)
OPERE E PROVVEDIMENTI REALIZZATI
Ɣ trattati commerciali con ................................ (Francia, Gran Bretagna, Belgio e Austria/Spagna, Gran Bretagna e Belgio) Ɣ abolisce il dazio sul ........................................................................................................................................... (grano/sale) Ɣ realizza opere pubbliche quali: ........................................................... (strade, canali, ferrovie/ponti, autostrade, ferrovie) Ɣ crea una ................................................................................................... (corporazione degli industriali/Banca nazionale)
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4 Abbina le date agli eventi corrispondenti, poi scegli quelli che si riferiscono alla seconda guerra d’indipendenza ed elabora un testo di massimo 15 righe che ne spieghi i momenti salienti. • • • • • • • •
Armistizio di Villafranca congresso di Parigi Vittorio Emanuele II viene proclamato re d’Italia seconda guerra d’indipendenza sbarco dei Mille a Marsala accordi di Plombières incontro a Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II
1856 gennaio 1858 Attentato di Felice Orsini a Napoleone III luglio 1858 ................................................................................................................................................................................ aprile 1859 ................................................................................................................................................................................. 24 giugno 1859 Battaglie di Solferino e San Martino 11 luglio 1859............................................................................................................................................................................. gennaio 1860 Cessione di Nizza e della Savoia alla Francia aprile 1860 Scoppia la rivoluzione popolare a Palermo maggio 1860 .............................................................................................................................................................................. 20 luglio 1860 Sconfitta dei Borbone a Milazzo 7 settembre 1860 Garibaldi fa il suo ingresso trionfale a Napoli e Federico II di Borbone si rifugia a Gaeta 25 ottobre 1860 ........................................................................................................................................................................ 17 marzo 1861 ..........................................................................................................................................................................
5 Completa la tabella relativa ai caratteri dell’unificazione nazionale inserendo negli appositi spazi le lettere associate alle seguenti espressioni: a. b. c. d. e. f. g. h.
estensione delle leggi sabaude al Regno d’Italia spedizione garibaldina plebisciti politica diplomatica di Cavour proclamazione di Vittorio Emanuele II re d’Italia insurrezioni nell’Italia centrale guerra del Piemonte contro l’Austria coinvolgimento dell’opinione pubblica Caratteri popolari del Risorgimento
Iniziative dall’alto
Rispondi ora alle seguenti domande: 1 Quale carattere assunse, secondo te, un peso maggiore nel processo risorgimentale? 2 Con quale definizione è possibile spiegare il Risorgimento italiano?
COMPETENZE IN AZIONE 6 Sintetizza le fasi del processo di formazione del Regno d’Italia sviluppando in un testo la seguente scaletta di argomenti. Puoi servirti delle immagini e delle carte presenti nel capitolo. a. b. c. d. e.
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La politica delle alleanze di Cavour. Le imprese militari. Le iniziative dei democratici. Il consenso popolare. L’appoggio internazionale
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Il paesaggio agrario italiano
Stefano Jacini, che nel 1881 parlava di diverse Italie agricole distinte fra loro, per ragioni fisico-naturali, climatiche, ma anche storiche e amministrative.
Le diverse Italie agricole
Il paesaggio agrario del Nord e del Centro
Cosa avremmo visto se avessimo avuto la possibilità di sorvolare la penisola italiana, da nord a sud, all’indomani della sua unificazione politica? Quali agglomerati urbani, quali paesaggi agrari (cioè quelli modellati dall’uomo, per fini e attività agricole) avremmo incontrato? La varietà, la diversità regionale e sub-regionale sembra essere l’impronta particolare dei sistemi agrari italiani, come scrive lo storico Piero Bevilacqua: Dal sistema dell’alpeggio [pascolo del bestiame in alta montagna] estivo raccordato all’economia di valle – praticato dalla famiglia alpina – al giardino di agrumi della Sicilia, un’infinità di soluzioni, di assetti agrari, […] percorre l’intero territorio. Non suggeriscono, d’altro canto, un’immagine multicolore di varietà le stesse caratteristiche fisiche del paese, dominato da montagne e colline e frammentato in una infinita serie di bacini naturali, che ne diversificano il clima, la natura e l’acclività [la pendenza] della terra, il rapporto col mare e con i territori interni, le vocazioni botaniche locali e le suscettività agricole? [P. Bevilacqua, Tra Europa e Mediterraneo. L’organizzazione degli spazi e i sistemi agrari, in Id. (a c. di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I, Marsilio, Venezia 1989, p. 7] Era questo il tratto dominante rilevato anche dal deputato e presidente della giunta per l’inchiesta agraria,
Parte dell’area lombardo-piemontese era dominata dalle colture irrigue, caratterizzate dalla presenza di una fitta rete di canali di irrigazione. Qui il processo di reintegrazione della fertilità del terreno era infatti affidato all’irrigazione sistematica di ampie superfici, su cui si avvicendavano le colture (frumento, granturco, lino, riso): si riuscivano così ad ottenere alti livelli di produttività. Questo il paesaggio, descritto dallo storico statunitense Kent Robert Greenfield: Per chiunque viaggi da Milano a Pavia è familiare il quadro del verde fresco dei prati artificiali, tagliato in piccoli quadrati da una rete argentea di acqua che scorre lentamente. Questo tipo di coltivazione è portato al suo grado più alto nelle cosiddette “marcite”, sopra le quali si fa scorrere ogni anno un velo d’acqua in modo che i prati permettono un taglio di fieno nel colmo dell’inverno. [...] L’altro tipo di prato, il “prato stabile”, non era irrigato di inverno ed era costituito da campi sui quali si alternava la coltivazione dei cereali con quella del foraggio. Dove nel sottosuolo vi era argilla sufficiente perché la superficie trattenesse l’umidità necessaria, l’acqua era usata per creare delle piantagioni di riso, l’altra produzione caratteristica della pianura. [K.R. Greenfield, Economia e liberalismo nel Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848, Laterza, Bari 1940, pp. 37-38]
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La pianura irrigua padana era caratterizzata dalla presenza della cascina, un complesso di edifici disposti in forma rettangolare, che chiudevano al centro un ampio cortile, fulcro delle attività agricole. Vera e propria «officina rurale», nella cascina abitavano stabilmente più nuclei familiari e vi si trovavano aia, porcili, stalle con i fienili, magazzini, depositi per il frumento, la paglia e gli attrezzi, rimesse per i carri, talvolta edifici per la prima lavorazione dei prodotti (dal riso ai formaggi). Nelle cascine più grandi potevano comparire anche altri elementi, come il forno, la lavanderia, una piccola cappella o un’osteria, che le rendevano strutture quasi autosufficienti. Era un mondo raccolto in sé, con un grande portone d’accesso e la campana che regolava il ritmo dei lavori. Se ci spostiamo nelle zone della pianura asciutta lombardo-veneta ed emiliano-romagnola dell’arco collinare pedemontano incontriamo, invece, un assetto colturale fondato su grano, mais, vite e gelso, vale a dire con un ampio sviluppo del seminativo*. Per tutto il corso del XIX secolo l’impegno, nella zona della Pianura padana, sarà imponente, perché le colture del granturco e della canapa, come di altre piante industriali*, necessitavano di un’abbondante concimazione, di un razionale avvicendamento, di sistemazioni del terreno che potessero garantire il defluire delle precipitazioni. Proseguendo verso sud, nella zona della Toscana, dell’Umbria, delle Marche, entriamo nell’area classica della mezzadria, fondata sull’insediamento rurale sparso e caratterizzato dal podere, il fondo agricolo coltivato con annessa la casa colonica, dove abita la famiglia contadina. Qui la campagna si presentava urbanizzata, disseminata di case, da cui partivano i flussi di prodotti agricoli destinati alle città. Le «colline di Toscana, con i loro celebri poderi, le ville, i paesi» costituiscono «la più commovente campagna che esista», scrisse lo storico france-
seminativo Terreno destinato alla semina e coltivazione di cereali, ortaggi, piante, legumi, piante foraggere e industriali. piante industriali Piante destinate alla trasformazione industriale, ad uso alimentare e non, come le piante da zucchero per l’estrazione del saccarosio, i semi destinati alla estrazione degli oli vegetali, le piante per la produzione di fibre tessili (cotone, lino, canapa), i cereali per l’estrazione delle farine.
Ż Risaie piemontesi in provincia di Vercelli 2011 [foto Giovanni Dall’Orto] Nella pianura tra Vercelli e Novara si susseguono anche oggi a perdita d’occhio le risaie: canali e specchi d’acqua trattenuti da argini bassi e intervallati da filari di pioppi. La diffusione della coltura del riso inizia nel ‘700 e trova in queste aree del paese il clima ideale. Nel 1880 gli ettari messi a coltura saranno 233 mila.
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Ż Cascina Frisasca, Arluno (Milano) La Cascina Frisasca, situata nel territorio di Arluno, risale al XVI secolo. La struttura agricola, in attività sino agli anni ’70 del ’900, poteva ospitare sino a ottanta persone.
se Fernand Braudel [Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1953, p. 49]. È il «bel paesaggio» per eccellenza: Il paesaggio dell’appoderamento, delle case coloniche e dei rustici sparsi, della coltivazione promiscua, delle piantagioni di viti e di ulivi che attraversano e delimitano in file regolari e armoniose i campi a forma tendenzialmente geometrica alternati ora al bosco ora al sodo [terreno non dissodato, incolto], racchiusi dai fossi e dalle vie campestri, sostenuti, sui terreni declivi [terreni in pendio, che si abbassano gradualmente], dalle linee trasversali dei muri a secco e dei ciglioni erbati [terrapieni, bordi]. [...] Le figure regolari degli appezzamenti, delle piantagioni, delle fosse di raccolta delle acque, si iscrivono a loro volta in un quadro più generale dalle forme lineari e ordinate, suggerite dalla rete dell’insediamento, delle strade principali e delle vie vicinali e dal sistema dei canali maestri con il loro andamento rettilineo. Un quadro nel quale il lavorativo, arborato, vitato, olivato, gelsato [terreno coltivato a gelsi], pomato [terreno coltivato ad alberi da frutto], fruttato, con le sue partizioni e la sua policromia legata alle diverse colture e alle stagioni, si perde a vista d’occhio, punteggiato dai cipressi confinari isolati, dagli edifici rurali e dai campanili delle chiese. [C. Pazzagli, Il paesaggio degli alberi in Toscana, in P. Bevilacqua (a c. di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, cit., pp. 549-74]
del proprietario terriero. La presenza dell’ulivo segnava la principale differenza rispetto al sistema e al paesaggio agrario del Nord Italia, in cui questa coltivazione risulta assente, tranne che per la Liguria e la zona a sud del Garda. Nei primi decenni dopo l’Unità in quest’area procedettero rapidi i dissodamenti, che ridussero le aree prima dedicate al pascolo o al bosco, per svilupparvi piantagioni arboree ed arbustive. Qui i campi si presentavano con un andamento ordinato e un disegno regolare, le viti, piantate in filari, erano sostenute da sostegni o da alberi, come pioppi o ontani. Divergeva da questo quadro l’area della maremma toscana e laziale, dove l’insediamento stabile della popolazione era ostacolato dalla presenza di zone paludose e dalla diffusione della malaria. Queste zone, come quella del Tavoliere delle Puglie, erano caratterizzate dalla combinazione di forme economiche agrarie e pastorali, che si innestavano
in paesaggi rudi e difficili, poco abitati stabilmente. Nello specifico, queste aree vivevano del binomio grano-pascolo, ed erano teatro delle migrazioni stagionali dei lavoratori delle regioni circostanti. Le pianure erano il luogo della transumanza* degli ovini, che provenivano dall’Appennino. Era un paesaggio piuttosto desolato, di pascoli e campi aperti, solcati dagli archi dell’antico acquedotto, con capanne sparse e rari casali, quellote dalle istituzioni federali del governo che caratterizzava l’Agro romano. Ancor più desolato appariva l’Agro pontino (nella zona di Latina), i cui circa 1180 km2 di terreno erano segnati da
transumanza Migrazione stagionale delle greggi, che consiste nel trasferimento verso i pascoli di montagna nella stagione estiva e verso i pascoli a valle nella stagione invernale.
L’agricoltura, anche nelle aree di Marche e Umbria, era caratterizzata da forme intense di coltivazione mista che associava colture arboree e colture erbacee: alberi da frutto, viti, cereali, legumi, ortaggi – prodotti necessari per i bisogni della famiglia colonica e Ź Casale Satriano, Montefalco (Perugia) La zona di Montefalco, in provincia di Perugia, con i suoi antichi casali e i suoi vigneti è nota per la produzione del vino Sagrantino.
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paludi e acquitrini, da precarie colture di cereali e dall’allevamento brado delle bufale. Proprio l’unificazione e la conquista di Roma, proclamata capitale dello Stato italiano, resero prioritario da un lato contrastare la malaria che colpiva, con diversa gravità, oltre alla Maremma, anche le campagne del Polesine, della Sicilia e della Sardegna, e dall’altro procedere – o accelerare il ritmo – con le bonifiche. Sotto il nuovo Stato unitario ripresero così le bonifiche nel territorio padano, nel Ferrarese e nel Ravennate, nell’Agro romano e nel bacino del Fucino.
I cambiamenti nel Sud d’Italia
Ÿ Terrazzamenti a Pantelleria L’Italia ha circa 170 mila chilometri di terrazzamenti, un elemento tipico del nostro paesaggio, ora a rischio per il degrado e l’abbandono in cui queste strutture versano in molte zone o per le esigenze della meccanizzazione della agricoltura. La regione con la più ampia superficie di terrazzamenti in considerazione della sua estensione totale è la Liguria (oltre 42 mila ettari, circa l’8% del territorio), seguita da Sicilia (63 mila), Toscana (22 mila), Campania (11 mila), Lazio (5 mila). Pantelleria è il comune italiano con la maggiore estensione di terrazzamenti. I terrazzamenti, frutto di una conquista da parte dell’uomo nell’agricoltura di terreni impervi, hanno una funzione fondamentale, in quanto preservano la fertilità del suolo e proteggono da frane e smottamenti.
ź Masseria fortificata a Rignano Garganico (Foggia) Nelle masserie, tipiche costruzioni del Sud Italia costruite all’interno di vaste proprietà di stampo latifondista, si svolgeva il ciclo completo della produzione agricola. Spesso fortificate per difendersi da briganti, o da eserciti, ospitavano i padroni ma anche i lavoratori della terra.
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Dopo l’Unità d’Italia le aree meridionali, invece, furono investite dal processo di ripartizione dei demani ex feudali, che comprese anche la liquidazione dei beni ecclesiastici. Ne derivò la frammentazione delle quote in un numero sempre maggiore di piccoli proprietari, che però spesso non erano nelle condizioni finanziarie di poterle gestire adeguatamente. Tale situazione determinò una nuova concentrazione delle proprietà terriere, questa volta nelle mani di esponenti della nuova borghesia terriera meridionale. Con il trasferimento di terre ai ceti borghesi, aumentarono i campi chiusi, dove si affermarono ed estesero le grandi piantagioni di viti, ulivi, mandorli, agrumi. Gli agrumeti non occupavano più solo le ristrette pianure fertili di Campania, Puglia e Sicilia [Ź18_7], ma risalivano i versanti collinari, grazie ai terrazzamenti, come accadde nella costiera amalfitana. La coltura degli agrumi presentava alcune caratteristiche specifiche, come descrive lo storico Salvatore Lupo:
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STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER Fino a Novecento inoltrato, luoghi d’elezione dell’agrume sono le colline e le coste alte degradanti spesso in maniera piuttosto brusca verso il mare, con pendenze anche del 60%, che hanno bisogno prima dell’impianto di un complesso lavoro di sistemazione a terrazze o a gradoni. Le piante sono molto sensibili al freddo, e nelle zone più settentrionali della loro diffusione, come la Liguria, necessitano di ripari particolari; più al Sud, se esposte alle correnti, di filari frangivento. I terreni sono spesso poveri e vengono arricchiti con abbondanti concimazioni oltre che ispessiti con materiale di riporto, come avviene nella Conca d’Oro [zona intorno a Palermo]. [S. Lupo, Il giardino degli aranci. Il mondo degli agrumi nella storia del Mezzogiorno, Marsilio, Venezia 1990, pp. 41-42] Nella coltivazione degli agrumi era importante anche l’assetto idrogeologico del terreno: erano necessarie delle operazioni per imbrigliare ed incanalare le acque piovane, dato che le piogge nel Mezzogiorno risultavano tradizionalmente concentrate nel tempo ed irregolari. Mentre al Nord Italia l’obiettivo della bonifica era quello di eliminare le troppe acque, nel Sud bisognava regolarne il corso per cercare di non sprecarne neanche una goccia. Nelle campagne meridionali si tornò a diffondere anche il gelso, pianta antica da tempo in declino; si estese l’ulivo, soprattutto nelle Puglie; la vite, elemento consueto del paesaggio agrario meridionale, riprese a popolare le terre coltivate in prossimità dei centri abitati o le campagne aperte, dove si diffuse in coltura specializzata o promiscua (cioè associata ad altre). A viti e mandorli si unirono noccioli e fichi, piantagioni che non erano bisognose di molte cure, e a differenza di ulivi e agrumi non richiedevano capitali e organizzazioni propri della grande o media azienda. Ad aumentare, nel Meridione, però, fu anche l’entità dei dissodamenti e dei disboscamenti, che ridussero il territorio dei boschi di quasi la metà in poco più di un settantennio, facendolo passare dai 2 milioni di ettari del 1860 a poco più di 1 milione nel 1929, e minacciando l’integrità stessa del suolo agrario, la sua tenuta idrogeologica. Eppure, già negli anni ’70 dell’800 era stata approvata una legge forestale, che doveva tutelare i boschi, riconosciuti di fondamentale importanza per la “consistenza territoriale” dell’Italia. Il paesaggio agrario di fine ’800 – nell’Italia meridionale come in tutta la
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penisola – fu modellato, non solo fisicamente, anche dall’irruzione di un nuovo agente: le ferrovie. Il periodo delle grandi costruzioni ferroviarie coincise proprio con quello dell’unificazione politica e dell’abbattimento delle barriere doganali interne [Ź18_7]. Si posero così le condizioni per la formazione di un mercato nazionale dei prodotti agricoli – chiamato a rispondere alle leggi della concorrenza e del profitto – e per la conseguente specializzazione regionale delle colture. Il mercato italiano si ristrutturò guardando al contesto europeo ed internazionale, in conseguenza sia dei collegamenti ferroviari aperti con Austria e Francia (tra gli anni ’50 e ’70 dell’800), sia dello sviluppo della navigazione a vapore, che trasportava i prodotti italiani oltreoceano. L’apertura del mercato americano, ad esempio, che ora poteva essere raggiunto in modo più facile ed economico, influì sulla specializzazione del Mezzogiorno nelle colture arboree e soprattutto negli agrumi.
La geografia del popolamento In un paese fortemente agricolo, come era l’Italia ai tempi della sua unificazione, non può sfuggire il legame fra la geografia del popolamento – cioè la localizzazione e l’ampiezza degli insediamenti – e i rapporti di produzione agricola. Consultando i dati del censimento del 1911, che mettono in luce tendenze non diverse da quelle dei primi decenni seguiti all’unificazione, emerge, per quanto riguarda la densità della popolazione, una suddivisione del territorio in tre grandi aree. La prima comprendeva Lazio, Mezzogiorno continentale ed isole, e vedeva percentuali alte di popolazione concentrata nei centri urbani. Al contrario le regioni di Veneto, Emilia, Toscana,
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Marche ed Umbria si segnalavano per percentuali elevate di popolazione sparsa. Qui, come abbiamo visto, era diffuso l’appoderamento e la mezzadria. Fra i due casi estremi si collocavano, in posizione intermedia, le regioni nord-occidentali di Piemonte, Liguria e Lombardia. Oltre alla densità della popolazione differivano le caratteristiche dei centri urbani. Nelle regioni del Centro-Nord, con l’eccezione delle aree montane, la rete urbana era fitta ed articolata. Le città svolgevano le funzioni di centro direzionale, di mercato, di governo politico-amministrativo. Nell’Italia meridionale, invece, il numero delle città era minore, ma queste erano più densamente popolate: si pensi ai casi più eclatanti, come Napoli e Palermo. Nei decenni seguiti all’Unità, si assistette, però ad un progressivo mutamento nella dislocazione degli agglomerati urbani, nota lo storico Emilio Sereni: Dai borghi inerpicati, ove le popolazioni erano state costrette per ragioni economiche e produttive, oltre che dalla malaria e dal brigantaggio, i coltivatori cominciano ora più sovente a digradare verso il piano, in prossimità delle marine, o delle stazioni ferroviarie, dei nodi stradali. L’habitat agglomerato – che resta tuttavia caratteristico per gran parte del Mezzogiorno – comincia qua e là a sciamare per le campagne circostanti: e a questa maggiore dispersione contribuirà, col largo rimaneggiamento dei rapporti di proprietà e con la costruzione di qualche più stabile nucleo aziendale, l’acquisto di terre e la costruzione di case rurali da parte degli “americani”, gli emigranti che in patria tornano ad investire i loro risparmi. [E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 413-15]
Ź Ulivi secolari e muretti a secco in Puglia 2010 I secolari uliveti delle terre salentine, con i caratteristici muri a secco, sono uno dei tanti paesaggi storici presenti in Puglia.
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Ż Collina fiesolana 2010 La collina fra Fiesole e Firenze costituisce uno dei più preziosi paesaggi periurbani italiani. Qui si conserva il sistema delle ville e dei paesaggi agrari storici ad esse associati.
Con l’Italia unita aumentò anche la popolazione urbana e il numero e l’estensione delle città, e parallelamente si crearono tra i centri urbani gerarchie diverse, determinate da diversi fattori: il ruolo amministrativo, lo sviluppo di vie di comunicazione, la crescente industrializzazione. Si svilupparono rapidamente, ad esempio, città nuove o recenti, come La Spezia, Terni, Taranto, Piombino, sedi dell’industria pesante (cantieristica navale o siderurgica). Lo sviluppo dell’industria meccanica e poi dello specifico settore automobilistico (con la Fiat) diede slancio, a inizio ’900, al Piemonte, e in particolare a Torino. Si formò il cosiddetto «triangolo industriale» fra Torino, Genova – che dal 1896 era il primo porto in Italia per volume di traffico – e Milano, con la sua vocazione commerciale e le imprese meccaniche e tessili diffuse nell’area centrale della Val Padana. Cominciava così, a inizio secolo, a profilarsi il divario fra le regioni nord-occidentali della penisola ed il resto del paese, soprattutto il Meridione.
Il quadro attuale Le trasformazioni del mondo agricolo, conseguenti allo sviluppo industriale e alla stessa meccanizzazione del lavoro nei campi, hanno cambiato profondamente la geografia del popolamento della penisola. Nel secondo dopoguerra le campagne avevano bisogno di una percentuale minore di manodopera, che, dall’altro lato, era sempre più attratta nelle città e nei luoghi in cui si concentrava la produzione indu-
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striale. I flussi migratori si indirizzavano soprattutto verso le grandi città del Nord, verso la capitale e verso i centri capoluoghi di provincia e di regione; le campagne assistevano ad un vero e proprio spopolamento. Nel ventennio compreso fra il 1951 e il 1971 gli occupati in agricoltura scesero di quasi il 60%, passando dagli 8 milioni a più di 3. Figure sociali tipiche del nostro passato, come mezzadri e contadini, uscivano di scena. Cambiava la geografia del popolamento del paese, con la crescita dei nuclei urbani e l’abbandono di aree montane e collinari più povere di risorse. Complice la diffusione del trasporto su gomma, l’industrializzazione si diffondeva dalle regioni dell’Italia nord-occidentale in direzione del Veneto, del Friuli, dell’Emilia e dell’Italia centrale, e in forme più limitate lungo le coste adriatiche e tirreniche. Cambiava anche il paesaggio agrario, che si riduceva per effetto di un’urbanizzazione sparsa e diffusa, o in cui mutavano le colture, come ci racconta Vittorio Vidotto: Solo l’occhio inesperto e immemore del cittadino può illudersi di ritrovare nelle campagne il paesaggio rurale di un tempo. Il completo abbandono di molte zone collinari alle quote più elevate e lungo tutta la dorsale appenninica, la drastica riduzione di quell’agricoltura promiscua che aveva modellato nei secoli non solo il paesaggio collinare, ma anche quello delle pianure; gli alberi sparsi, i filari dei gelsi, le macchie si mescolavano sempre meno alle coltivazioni spe-
cializzate. [...] Come può essere ancora lo stesso un paesaggio agrario dal quale sono stati sottratti, per abbandono o altra utilizzazione, oltre cinque milioni di ettari, tra il 25% e il 30% della superficie agricola utilizzata? Un paesaggio che ha visto dimezzata la superficie a grano (dai 4,8 milioni di ettari della metà degli anni Cinquanta ai 2,4 milioni di quarant’anni dopo) e diffondersi la coltivazione della soia e del girasole; che ha visto con le nuove colture cambiare anche i colori dei campi. [V. Vidotto, Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 39-40] Anche lo storico Carlo Pazzagli, chiudendo il suo saggio sulle trasformazioni del mondo rurale e la diffusione di nuove monocolture al posto di quelle tradizionali, si interroga: Rimane tutta la curiosità di sapere come reagirebbe un mezzadro di cinquanta anni fa se tornasse oggi al suo vecchio campo […], seminato a grano e a granturco, circondato dai fossi di prima e seconda raccolta e racchiuso dall’alberata di viti alte e basse, di aceri, di vinchi, di olivi, di alberi da frutto, e trovasse al suo posto una folle distesa di sgargianti girasoli. [C. Pazzagli, Colture, lavori, tecniche, rendimenti, in R. Cianferoni, Z. Ciuffoletti, L. Rombai (a c. di), Storia dell’agricoltura italiana. L’età contemporanea. Dalle “Rivoluzioni agronomiche” alle trasformazioni del Novecento, vol. III.1, Polistampa, Firenze 2002, p. 89]
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LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE La varietà dei paesaggi agrari italiani 1 Leggi attentamente il testo e sintetizzane il contenuto in una presentazione in PowerPoint dal titolo I paesaggi agrari italiani. Dedica a ciascun paesaggio due slide, sottolineando il rapporto tra territorio e forme di conduzione della terra e caratteristiche pedologiche del suolo e attività agricole e pastorali impiantate. Correda le slide di immagini esemplificative della varietà di paesaggi ricercate su Internet.
Com’è cambiata la geografia del popolamento in italia dall’unificazione a oggi? 2 Redigi un testo comparativo sul mutamento della geografia del popolamento in Italia dall’unificazione al secondo dopoguerra, adoperando la seguente scaletta: • • • • •
Una breve introduzione in cui presenti il problema (max 2 righe) La densità della popolazione nelle differenti aree della penisola Le caratteristiche dei centri urbani Le trasformazioni del paesaggio agrario e del mondo rurale Conclusioni
Alla scoperta delle vie della transumanza 3 Sai cos’è un tratturo? È un largo sentiero erboso, pietroso o in terra battuta, adoperato sin dalla notte dei tempi per la transumanza stagionale delle greggi. I tratturi sono tipici delle regioni dell’Italia centro-meridionale e sono disposti in maniera tale da formare una rete viaria che copre in modo uniforme tutto il territorio rurale un tempo interessato dalla transumanza. Reti di tratturi della transumanza sono presenti in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Umbria. Se in passato i tratturi erano utilizzati come vie di comunicazione di persone, animali e merci, oggi sono diventati dei grandi musei a cielo aperto che costituiscono delle preziose testimonianze naturalistiche, storiche e culturali. Da tempo le regioni italiane che ospitano reti di tratturi hanno lanciato progetti interregionali volti al recupero, tutela e valorizzazione del patrimonio tratturale, mentre nel 2006 il Ministero per l’Ambiente ha presentato con le Regioni Abruzzo, Molise, Campania e Puglia la candidatura dei “Regi Tratturi’’ a Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Per saperne di più sulle vie della transumanza e per scoprire le bellezze paesaggistiche e ambientali che gli itinerari della transumanza offrono oggi ai visitatori, digita nella maschera di ricerca di Google “Le vie dei tratturi”. Il sito http://www. leviedeitratturi.com/ offre molteplici possibilità: dall’approfondimento storico al turismo naturalistico lungo gli itinerari della transumanza.
Paesaggi terrazzati 4 Se abiti in una regione d’Italia dove sono diffusi i terrazzamenti, realizza un dépliant illustrato su questo sistema di coltivazione che contenga le seguenti informazioni: • L’epoca o il contesto storico in cui la coltivazione a terrazza è stata introdotta • Il genere di coltivazione al quale i terrazzamenti erano e/o sono adibiti • Il loro impatto sull’organizzazione del paesaggio e sulle attività umane
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FARE STORIA
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Liberalismo, socialismo, nazionalismo: le origini delle ideologie contemporanee Nel corso dell’800 nacquero e si affermarono le principali ideologie politiche della storia contemporanea: il liberalismo, il socialismo, la democrazia e il nazionalismo. In alcuni casi si trattava di idee diffuse già nei decenni precedenti, che irruppero però con forza a seguito soprattutto delle rivoluzioni politiche scoppiate in Nord America e in Francia alla fine del ’700. Nel primo brano, Norberto Bobbio [Ź54] riflette sul rapporto che lega le tradizioni di pensiero liberale e socialista e al concetto di democrazia. Seguono poi le testimonianze di due importanti esponenti liberali dell’epoca, che si concentrano sul concetto di “libertà”: Benjamin Constant [Ź55] propone una distinzione tra la concezione di libertà che avevano gli antichi e quella che caratterizza l’epoca moderna, mentre John Stuart Mill [Ź56] mette in guardia dai pericoli della democrazia e difende con forza la libertà dell’individuo. Domenico Losurdo [Ź 57], invece, analizza in cosa consista la lotta di classe teorizzata da Marx ed Engels e individua un punto d’incontro con un’altra idea desti-
STORIOGRAFIA 54 N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, Utet, Torino 2004, pp. 238-39.
Lungo tutto il sec. XIX la discussione attorno alla democrazia si venne svolgendo principalmente attraverso un confronto con le prevalenti dottrine politiche del tempo, il liberalismo da un lato e il socialismo dall’altro. Per quel che riguarda il rapporto con la concezione liberale dello Stato, il punto di partenza fu il celebre discorso di Benjamin Constant su La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni. Per Constant la libertà dei moderni, che deve essere promossa e accresciuta, è la libertà individuale nei riguardi dello Stato, quella libertà di cui sono manifestazione concreta le libertà civili e la libertà politica (se pur non necessariamente estesa a tutti i cittadini), mentre la libertà degli antichi, che l’espansione dei commerci ha reso impraticabile, anzi dannosa, è la libertà intesa come partecipazione diretta alla formazione delle
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nata ad avere enorme diffusione nell’800 (e non solo): il nazionalismo. Segue un documento tratto da un’opera di Lord Byron [Ź58] che testimonia come agli inizi del XIX secolo lo spirito romantico influenzi la descrizione di due luoghi che divennero mete di viaggi reali e immaginari da parte di intellettuali e scrittori: la Grecia e l’Italia. Il brano di Alessandro Campi [Ź59] chiarisce innanzitutto che cosa si intenda con il termine “nazione” dalla Rivoluzione francese in poi, mentre nel documento di Ernest Renan [Ź60] si pone in luce una concezione dell’identità nazionale basata su princìpi etici e spirituali. Diversi furono i fattori con i quali intellettuali, scrittori e uomini politici dell’800 identificarono, costruirono e “inventarono” l’esistenza di una nazione e di una patria: la storia e la cultura di un popolo, le sue antiche tradizioni, la lingua e l’appartenenza etnica. Il testo conclusivo della sezione di Anne-Marie Thiesse [Ź61] pone l’attenzione proprio sulla comparsa delle lingue “nazionali” come uno degli elementi portanti del processo di costruzione dell’identità nazionale.
N. Bobbio Democrazia, liberalismo e socialismo In questo brano, tratto dal Dizionario di politica pubblicato per la prima volta nel 1976, Norberto Bobbio (1909-2004), uno dei più importanti intellettuali italiani del ’900, analizza la differente concezione che il liberalismo e il socialismo hanno della democrazia. Il liberalismo, opponendosi all’ideale rousseauiano della democrazia diretta, si fa sostenitore di una forma di democrazia rappresentativa: secondo i liberali, a fianco di libertà fondamentali come quella di parola o di religione, lo Stato è tenuto a garantire al cittadino il diritto di partecipare al governo mediante l’elezione di un suo rappresentante. Anche per il socialismo l’ideale democratico costituisce un principio importante: il rafforzamento del potere “dal basso” non deve però riguardare solo l’ambito politico, ma anche e soprattutto quello economico e i rapporti sociali. leggi attraverso il corpo politico di cui l’assemblea dei cittadini è la massima espressione. Identificata la democrazia propriamente detta senz’altra specificazione, con la democrazia diretta, che era poi l’ideale rousseauiano, si venne affermando attraverso gli scrittori liberali, da Constant a Tocqueville, a John Stuart Mill, l’idea che la sola forma di democrazia compatibile con lo Stato liberale, cioè con lo Stato che riconosce e garantisce alcuni diritti fondamentali, quali i diritti di libertà di pensiero, di religione, di stampa, di riunione, ecc., fosse la democrazia rappresentativa o parlamentare, ove il compito di fare le leggi spetta non a tutto il popolo riunito in assemblea ma a un corpo ristretto di rappresentanti eletti da quei cittadini cui vengano riconosciuti i diritti politici. In questa concezione, che si può chiamare liberale, della democrazia, la partecipazione al potere
politico, che è sempre stata considerata l’elemento caratterizzante del regime democratico, viene risolta anch’essa in una delle tante libertà individuali che il cittadino ha rivendicato e conquistato contro lo Stato assoluto, e ridefinita come la manifestazione di quella particolare libertà che, andando oltre il diritto di esprimere la propria opinione, di riunirsi o di associarsi per influire sulla politica del Paese, comprende anche il diritto di eleggere rappresentanti al parlamento e di essere eletti. [...] Il fatto stesso che il diritto di partecipare se pure indirettamente alla formazione del governo venga compreso nella classe delle libertà, mostra che nella concezione liberale della democrazia l’accento viene posto più che sul mero fatto della partecipazione [...], sull’esigenza che questa partecipazione sia libera, cioè sia una espressione
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e un risultato di tutte le altre libertà. Da questo punto di vista, se è vero che non può chiamarsi propriamente liberale uno Stato che non riconosca il principio democratico della sovranità popolare, se pure limitatamente al diritto di una parte, anche ristretta, dei cittadini, a dar vita a un corpo rappresentativo, è ancor più vero che secondo la concezione liberale dello Stato non vi può essere democrazia se non là dove siano riconosciuti alcuni diritti fondamentali di libertà che rendano possibile una partecipazione politica guidata da un’autonoma determinazione della volontà di ciascun individuo. In generale, la linea di sviluppo della democrazia nei regimi rappresentativi è da rintracciarsi essenzialmente in due direzioni: a) nel graduale allargamento del diritto di voto, che primariamente ristretto a un’esigua parte dei cittadini in base a criteri fondati sul censo, sulla cultura e sul sesso, si è andato estendendo secondo un’evoluzione costante, graduale e generale a tutti i cittadini di ambo i sessi che abbiano raggiunto un certo limite di età (suffragio universale); b) nella moltiplicazione degli organi rappresentativi (cioè degli organi composti di rappresentanti eletti), che in un primo tempo sono limitati ad una delle due assemblee legislative, e poi si estendono via via all’altra
assemblea, agli enti del potere locale, o, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, anche al capo dello Stato. Nell’una e nell’altra direzione il processo di democratizzazione, che consiste in un sempre più pieno adempimento del principio limite della sovranità popolare, s’innesta nella struttura dello Stato liberale inteso come Stato in primis garantistico. [...] Anche rispetto al socialismo nelle sue differenti versioni, l’ideale democratico rappresenta un elemento integrante e necessario, ma non costitutivo. Integrante, perché una delle mete che si sono sempre posti i teorici del socialismo è stato il rafforzamento della base popolare dello Stato; necessario perché senza questo rafforzamento non verrebbe mai raggiunta quella profonda trasformazione della società che i socialisti delle diverse correnti si sono sempre prospettati. Ma anche non costitutivo, perché l’essenza del socialismo è sempre stata l’idea del rivoluzionamento dei rapporti economici e non dei soli rapporti politici, dell’emancipazione sociale, come disse Marx, e non della sola emancipazione politica dell’uomo. Ciò che muta nella dottrina socialista rispetto alla dottrina liberale è il modo di intendere il processo di democratizzazione dello Stato. Nella teoria marx-engelsiana1 (ma non solo
DOCUMENTO 55
Benjamin Constant La libertà degli antichi e dei moderni
B. Constant, Antologia di scritti politici, a c. di A. Zanfarino, il Mulino, Bologna 1982, pp. 37-39; 44-45.
Chiedetevi, prima di tutto, Signori, che cosa intende oggi per libertà un Inglese, un Francese, un abitante degli Stati Uniti d’America. È, per ognuno di loro, il diritto di non essere sottoposto che alle leggi, di non poter essere né arrestato, né tenuto in carcere, né condannato a morte, né maltrattato in alcun altro modo, a causa della volontà arbitraria di uno o più individui. È per ognuno il diritto di
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in questa) il suffragio universale, che per il liberalismo nel suo svolgimento storico è il punto di arrivo del processo di democratizzazione dello Stato, costituisce soltanto il punto di partenza. Oltre il suffragio universale, l’approfondimento del processo di democratizzazione da parte delle dottrine socialiste avviene in due modi: attraverso la critica della d. soltanto rappresentativa e la conseguente ripresa di alcuni temi della d. diretta, e attraverso la richiesta che la partecipazione popolare, e quindi il controllo del potere dal basso, si estenda dagli organi di decisione politica a quelli di decisione economica, da alcuni centri dell’apparato statale all’impresa, dalla società politica alla società civile, onde si è venuto parlando di d. economica, industriale. 1. Ovvero nella teoria di Marx ed Engels.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le libertà che Constant attribuisce agli antichi e quelle che attribuisce ai moderni, quindi descrivi per iscritto il risultato della tua analisi. b. Spiega perché, secondo l’autore, a noi moderni è precluso il godimento della libertà degli antichi.
Svizzero naturalizzato francese, Benjamin Constant (1767-1830) fu protagonista della vita intellettuale del primo trentennio del XIX secolo: scrittore e romanziere, fu autore soprattutto di opere letterarie a sfondo autobiografico, come il celebre romanzo Adolphe (1816), la cui storia era ispirata alla sua sofferta vita sentimentale. Nella Francia della Restaurazione divenne uno dei leader dell’opposizione liberale e il maggior teorico del costituzionalismo liberale. In un suo celebre discorso tenuto a Parigi nel 1819, di cui si riportano alcuni passaggi, propose, in polemica con le idee giacobine, una distinzione tra la libertà concepita dagli antichi e dai moderni: con quest’ultima si intende soprattutto la libertà dell’individuo, al quale deve essere garantito il diritto ad esercitarla. esprimere la propria opinione, di scegliere il proprio lavoro e di esercitarlo; di disporre della sua proprietà e perfino di abusarne, di andare e venire senza chiedere permessi, e senza render conto delle sue intenzioni o dei suoi passi. È, per ognuno, il diritto di unirsi con altri individui, sia per ragione dei propri interessi, sia per professare il culto che egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per occupare il pro-
prio tempo nel modo più conforme alle proprie inclinazioni e fantasie. E infine è il diritto, per ognuno, di esercitare la propria influenza sull’amministrazione del governo, sia concorrendo alla nomina di tutti o di alcuni dei funzionari, sia con rimostranze, petizioni, domande, che l’autorità è in qualche modo obbligata a prendere in considerazione. Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi.
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Essa consisteva nell’esercitare collettivamente, ma direttamente, molte funzioni della sovranità, nel deliberare, sulla piazza pubblica, sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare giudizi, nell’esaminare i bilanci, gli atti, la gestione dei magistrati, nel farli comparire davanti a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli o nell’assolverli. Era questo ciò che gli antichi intendevano per libertà; ma essi ammettevano contemporaneamente che questa libertà collettiva era compatibile con l’asservimento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme. [...] Tutte le azioni private sono sottomesse a una sorveglianza severa. Niente è concesso all’indipendenza individuale, né per
quanto riguarda le opinioni personali, né in materia di attività economica, né, soprattutto, in materia di religione. [...] Così, presso gli antichi, l’individuo, quasi sempre sovrano negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. [...] Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita privata, è, anche nel più libero degli Stati, sovrano solo in apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se a epoche fisse, ma rare, durante le quali è ancora più circondato di precauzioni e di restrizioni, esercita questa sovranità; non è che per abdicarvi. [...] Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi, che si basava sulla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve
DOCUMENTO 56
John Stuart Mill Il governo del popolo e la libertà dell’individuo
I liberali vittoriani, a c. di O. Barié, il Mulino, Bologna 1962, pp. 53-57; 60-61.
La lotta fra la libertà e l’autorità costituisce il carattere più cospicuo della storia con cui noi abbiamo familiarità, in particolare della storia della Grecia, di Roma e dell’Inghilterra. Ma anticamente questa lotta avveniva fra i sudditi, o una parte di essi, e il governo. Per libertà si intendeva protezione contro la tirannia dei governanti. I governanti venivano considerati (salvo in alcuni regimi popolari della Grecia) in posizione necessariamente antagonistica al popolo che essi governavano. [...] Intento dei patrioti era quindi quello di porre un limite al potere che il governante avrebbe esercitato sulla comunità; e questo limite era quel che essi intendevano per libertà. [...] Giunse tuttavia un tempo, nel progresso degli eventi umani, in cui gli uomini cessarono di considerare una necessità della natura che i loro governanti dovessero costituire un potere indipendente, di interessi opposti ai loro. Sembrò loro assai meglio che i vari magistrati dello Stato dovessero
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basarsi sul pacifico godimento dell’indipendenza privata. [...] Il fine degli antichi era la divisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria; era questo che essi chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamiamo libertà le garanzie accordate a questi godimenti dalle istituzioni.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le libertà che Constant attribuisce agli antichi e quelle che attribuisce ai moderni, quindi descrivi per iscritto il risultato della tua analisi. b. Spiega perché, secondo l’autore, a noi moderni è precluso il godimento della libertà degli antichi.
Il filosofo ed economista britannico John Stuart Mill (1806-1873) fu tra i principali teorici del liberalismo ottocentesco: con i suoi scritti e nel corso della sua attività politica si batté per vedere realizzate alcune riforme in campo politico e sociale, come l’allargamento del suffragio anche alle donne e l’istruzione obbligatoria, e sostenne la democrazia quale forma migliore di governo. In queste pagine, tratte dall’introduzione a una delle sue più celebri opere, il Saggio sulla libertà (pubblicato nel 1859), l’autore riflette tuttavia sui pericoli che nasconde la democrazia: in un governo esercitato dal popolo, infatti, il rischio è che possa avere la meglio la cosiddetta «tirannia della maggioranza». L’unico argine a questa forma di dispotismo è dunque la difesa e la protezione della libertà d’azione del singolo individuo. essere i loro delegati, revocabili a loro piacimento. Soltanto in quel modo, sembrava, essi avrebbero potuto avere la certezza che i poteri di governo non venissero usati a loro danno. Gradualmente questa nuova esigenza di avere governanti elettivi e temporanei divenne l’intento principale degli sforzi del partito popolare, nei paesi in cui tale partito esisteva; e sostituì in misura considerevole gli sforzi precedenti diretti a limitare il potere dei governanti. [...] Ora, era necessario che i governanti si identificassero con il popolo, che i loro interessi e la loro volontà fossero gli interessi e la volontà della nazione. La nazione non aveva bisogno di essere protetta contro la sua stessa volontà. Non v’era timore che essa si tiranneggiasse da sé. [...] Ma [...] la nozione secondo cui il popolo non ha bisogno di limitare il suo potere sopra se stesso, poteva sembrare assiomatica quando il governo popolare era soltanto un’entità di cui si sognava o si leggeva come di cosa
esistita in qualche lontano periodo del passato. [...] Nelle speculazioni sulle teorie politiche la «tirannia della maggioranza» è ora generalmente posta fra i mali contro cui la società deve premunirsi. Come altre tirannie, la tirannia della maggioranza venne dapprima temuta, e lo è ancor oggi, sopra tutto perché agisce attraverso atti delle autorità pubbliche. [...] La società può eseguire ed eseguisce i suoi propri mandati: e se emana mandati errati invece che giusti, o ne emana riguardo a cose in cui non dovrebbe immischiarsi, pratica una tirannia sociale assai più grave di molti altri generi di oppressione politica. Tale tirannia, infatti, sebbene non sia sostenuta da sanzioni penali, lascia aperte più scarse vie di scampo, penetrando più profondamente negli aspetti particolari della esistenza, e assoggettando a schiavitù la stessa anima. [...] Si devono quindi imporre alcune regole di condotta, in primo luogo attraverso le leggi, e attraverso
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l’opinione in molti campi che non si prestano all’azione delle leggi. Quali debbono essere queste regole è il principale problema dei rapporti umani [...]. Quel principio è che il solo fine per cui l’umanità ha il diritto, individualmente o collettivamente, di interferire nella libertà d’azione del singolo è quello della autoprotezione; e che il solo scopo per il quale il potere può essere esercitato a buon diritto su un
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D. Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 8-13.
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E, dunque, cosa intendono Marx ed Engels per lotta di classe? [...] I due filosofi e militanti rivoluzionari non hanno esposto e chiarito in modo sistematico una tesi che pure svolge un ruolo centrale nell’ambito del loro pensiero. [...] Il punto di partenza è ben noto: pur avendo conseguito risultati importanti, il rovesciamento dell’Antico regime e la cancellazione del dispotismo monarchico e dei rapporti feudali di produzione non costituiscono la conclusione del processo di radicale trasformazione politica e sociale che s’impone. È necessario andare ben al di là dell’«emancipazione politica», che è il risultato della rivoluzione borghese: si tratta di realizzare l’«emancipazione umana», l’«emancipazione universale». [...] Una nuova rivoluzione si affaccia all’orizzonte, ma quali sono i suoi obiettivi? Occorre rovesciare il potere della borghesia al fine di spezzare le «catene» da essa imposte, le catene della «schiavitù moderna» [...], della «schiavitù salariata» [...]; occorre conseguire la «liberazione della classe operaia» [...], «l’emancipazione economica della classe operaia» mediante l’«annientamento di ogni dominio di classe» [...]. Non ci sono dubbi: costante è l’attenzione riservata alla lotta che il proletariato è chiamato a condurre contro la borghesia. Ma si esaurisce in ciò la lotta per l’«emancipazione umana», per l’«emancipazione universale»? Poco prima di lanciare l’appello finale
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membro di una comunità civile contro la sua volontà, è quello di impedire che venga fatto danno ad altri. Il bene materiale o morale dell’individuo non costituisce motivo sufficiente. [...] La sola parte della condotta del singolo di cui egli deve render conto alla società, è quella che riguarda gli altri. Nella parte che riguarda soltanto lui stesso, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sul suo corpo e il suo spirito, l’individuo è sovrano.
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GUIDA ALLO STUDIO a. Individua e trascrivi le tappe che, secondo Stuart Mill, definiscono l’evoluzione del conflitto fra la libertà e l’autorità. b. Spiega per iscritto quali cause spinsero gli uomini a desiderare governanti elettivi e temporanei. c. Spiega in cosa consiste e come agisce la tirannia della maggioranza e in che modo, secondo l’autore, è possibile arginarla e perché.
D. Losurdo Lotta di classe e indipendenza nazionale Domenico Losurdo (nato nel 1941), filosofo, saggista e storico del pensiero politico, ha ripercorso in un suo recente volume la storia e il successo della teoria della lotta di classe, dai suoi ideatori Marx ed Engels fino ad oggi. In questo brano, analizzando quanto scritto dai due stessi filosofi tedeschi, l’autore pone l’attenzione su un particolare aspetto della loro teoria: la lotta per la liberazione e l’emancipazione dell’uomo non riguarda in realtà solo gli operai opposti alla borghesia, ma anche i popoli e le nazionalità che sono oppressi dagli imperi dominanti. alla «rivoluzione comunista» e al «rovesciamento violento di tutto l’ordine sociale esistente», il Manifesto del partito comunista invoca la «liberazione nazionale» della Polonia1 [...]. Ecco emergere una nuova parola d’ordine. Sin dai suoi primi scritti e interventi Engels si pronuncia per la «liberazione dell’Irlanda» [...] ovvero per la «conquista dell’indipendenza nazionale» [...] da parte di un popolo che subisce un’«oppressione di cinque secoli»2 [...]. A sua volta, dopo aver rivendicato già alla fine del 1847 la «liberazione» delle «nazioni oppresse», Marx non si stanca di chiamare alla lotta per l’«emancipazione nazionale dell’Irlanda» [...]. Facciamo il punto: la radicale rivoluzione invocata da Marx ed Engels persegue non solo la liberazione/ emancipazione della classe oppressa (il proletariato), ma anche la liberazione/emancipazione delle nazioni oppresse. Dopo aver accennato rapidamente al problema della «liberazione nazionale» della Polonia, il Manifesto si chiude con un’esortazione: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!». Questo celeberrimo appello costituisce la conclusione anche dell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai fondata nel 1864. Ma in quest’ultimo testo amplissimo è lo spazio dedicato a una «politica estera» che impedisca l’«assassinio dell’eroica Polonia» come dell’Irlanda e di altre nazioni oppresse, che s’im-
pegni per l’abolizione della schiavitù nera negli USA, che metta fine alle «guerre piratesche» dell’«Occidente europeo» nelle colonie3 [...]. La lotta per l’emancipazione delle nazioni oppresse non è meno importante della lotta per l’emancipazione del proletariato. Le due lotte sono seguite e promosse con la medesima passione. [...] In un articolo del 3 settembre 1848, Engels richiama l’attenzione sullo smembramento e la spartizione della Polonia, messi in atto da Russia, Austria e Prussia. Nella nazione che la subisce tale tragedia provoca una risposta pressoché corale. Ne emerge un movimento di liberazione cui partecipa la stessa nobiltà. Pur di conseguire la fine dell’oppressione e dell’umiliazione nazionale, questa classe è disposta a rinunciare ai suoi privilegi feudali per allinearsi alla «rivoluzione democratico-agraria con uno spirito di sacrificio senza precedenti» [...]. L’entusiasmo che traspare da questo testo non va messo sul conto dell’ingenuità o del semplicismo spesso
1. A seguito delle guerre scoppiate nella seconda
metà del ’700, il Regno di Polonia venne diviso tra l’Austria, la Russia e la Prussia. 2. In Irlanda era molto forte un movimento che voleva l’indipendenza dalla Gran Bretagna. 3. Ovvero la politica di sfruttamento del territorio e ai danni delle popolazioni locali portata avanti nelle colonie dalle potenze europee.
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rimproverati a Engels. A tale proposito Marx [...] si esprime in termini ancora più enfatici: «la storia universale non conosce nessun altro esempio di tale nobiltà d’animo della nobiltà». È un linguaggio che dà da pensare. La «nobiltà d’animo» (Adel) celebrata negli operai francesi viene ora largamente riconosciuta anche all’aristocrazia polacca e, indirettamente, a una grande lotta di liberazione nazionale nel suo complesso. E, tuttavia, non bisogna perdere di vista le differenze. Se il proletariato è il protagonista del processo di liberazione/emancipazione che spezza le catene del dominio capitalista, più largo è lo schieramento chiamato a infrangere le catene dell’oppressione nazionale. Lo abbiamo visto per la Polonia, ma ciò vale anche per l’Irlanda. In una lunga lettera dell’aprile 1870, Marx caldeggia un’unione che balza agli occhi per le sue caratteristiche eterogenee: essa dovrebbe vedere come protagonisti da un lato gli operai inglesi, dall’altro la nazione irlandese in quanto tale. I primi sono chiamati ad appoggiare la «lotta nazionale irlandese» e a prendere le distanze dalla politica che «aristocratici e capitalisti» inglesi conducono «contro l’Irlanda» nel suo complesso. Dura e spietata è l’oppressione esercitata dalle classi dominanti inglesi, ma per fortuna si può contare sul «carattere rivoluzionario degli irlandesi» [...], ancora una volta considerati nel loro complesso. E questo slancio rivoluzionario è chiamato a trovare applicazione in primo luogo nella lotta di liberazione nazionale. Se la nazione oppressa
è invitata a condurre la sua lotta a partire da una base nazionale quanto più larga possibile, nella nazione che opprime il compito del proletariato è di sviluppare l’antagonismo rispetto alla classe dominante, in tal modo promuovendo la propria emancipazione «umana» e contribuendo al tempo stesso all’emancipazione nazionale della nazione oppressa. A questa piattaforma teorica Marx ed Engels non giungono senza oscillazioni: «si può considerare l’Irlanda come la prima colonia inglese» – scrive il secondo al primo in una lettera del maggio 1856 [...]. Siamo così condotti al mondo coloniale extraeuropeo e in particolare all’India che tre anni prima è definita da Marx «l’Irlanda dell’Oriente» [...]. Vediamo il quadro che emerge da un articolo di Marx del luglio 1853. Dopo aver descritto la tragica condizione dell’India e i fermenti nuovi che l’attraversano in seguito all’incontro-scontro con la cultura europea (rappresentata dai colonizzatori inglesi), il testo così prosegue:
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George Gordon Byron La Grecia e l’Italia dei romantici
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Gli indiani non raccoglieranno i frutti degli elementi di una società nuova seminati in mezzo a loro dalla borghesia britannica, finché nella stessa Inghilterra le classi dominanti non saranno abbattute dal proletariato industriale, o finché gli stessi indù non saranno abbastanza forti per scrollarsi di dosso il giogo della dominazione inglese [...] Sono qui ipotizzati due diversi scenari rivoluzionari: il primo (in Inghilterra) vede come protagonista della rivoluzione anticapitalistica il «proletariato industriale», il secondo (nella colonia assoggettata) ha come protagonista gli «indù»4. Ogni volta che è in ballo l’«emancipazione nazionale» ovvero la «liberazione nazionale», il soggetto è costituito dalla nazione oppressa in quanto tale: i polacchi, gli irlandesi, gli indù. Nei due teorici del materialismo storico e militanti rivoluzionari è dileguata l’attenzione per la lotta di classe? 4. Il popolo dell’India in generale.
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PALESTRA INVALSI 1. Il messaggio principale del testo è che... [ ] a. Marx definisce l’India come l’Irlanda d’Oriente. [ ] b. la lotta per l’emancipazione del proletariato è importante quanto quella per l’emancipazione delle nazioni oppresse. [ ] c. Marx e Engels sostengono che il rovesciamento dell’antico regime non costituisce il termine del processo rivoluzionario. [ ] b. la rivoluzione proletaria è un nuovo tipo di rivoluzione. 2. Il testo che hai letto è... [ ] a. uno studio tratto da una rivista di ricerca storico-sociale. [ ] b. luna voce di enciclopedia storica. [ ] c. un paragrafo di un testo storiografico. [ ] b. un articolo divulgativo.
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G.G. Byron, Aroldo, Sansoni, Firenze 1924, vol. I, pp. 22-23; 142-43; vol. III, pp. 42-43.
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George Gordon Byron (1788-1824) fu uno dei più importanti esponenti del Romanticismo inglese ed europeo, sia per la sua produzione poetica, sia per lo strettissimo intreccio fra la sua opera e la sua vita avventurosa, che si concluse con la morte precoce nella guerra di indipendenza greca. Nel poema in quattro canti Childe Harold’s Pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, 1812-1818), Byron narra le peregrinazioni di un giovane cavaliere dai caratteri tipici dell’eroe romantico (un alter ego dell’autore): disgustato dalla sua vita in Inghilterra, che trascorreva tra le feste e l’amore infelice per una donna, Aroldo decide di lasciare il suo paese. Riportiamo qui alcuni passaggi tratti dai canti I, II e IV, nei quali vengono descritte le bellezze della Grecia e dell’Italia e le virtù dei popoli che le abitavano: luoghi simbolici per gli intellettuali romantici dell’epoca e mèta di loro pellegrinaggi. Dalle antiche rovine e dal passato glorioso di questi due paesi sarebbero dovute rinascere delle nazioni moderne.
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And now Childe Harold was sore sick at heart, And from his fellow Bacchanals would flee; ’Tis said, at times the sullen tear would start, But Pride congealed the drop within his ee: Apart he stalked in joyless reverie, And from his native land resolved to go, And visit scorching climes beyond the sea; With pleasure drugged, he almost longed for woe, And e’en for change of scene would seek the shades below. Ed ora Aroldo il Cavaliere era profondamente triste, e dai suoi compagni d’orgia voleva fuggire; dicesi che talvolta una triste lagrima solesse spuntare, ma che l’orgoglio gli ghiacciasse quella goccia nell’occhio: se n’andava in disparte, assorto in mesti pensieri, e risolse di abbandonare la patria e visitare ardenti climi al di là del mare; intossicato di piacere, quasi agognava il dolore, e, per cambiare scena, avrebbe cercato le ombre infernali. [...] Fair Greece! sad relic of departed Worth!
STORIOGRAFIA 59 A. Campi, Nazione, il Mulino, Bologna 2004, pp. 121-26.
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Immortal, though no more; though fallen, great! Who now shall lead thy scattered children forth, And long accustomed bondage uncreate? Not such thy sons who whilome did await, The hopeless warriors of a willing doom, In bleak Thermopylæ’s sepulchral strait – Oh! who that gallant spirit shall resume, Leap from Eurotas’ banks, and call thee from the tomb? Bella Grecia! Mesto avanzo di una gloria svanita! Immortale, benché tu più non sia; grande, benché caduta! Chi guiderà ormai alla lotta i tuoi sparsi figli, e spezzerà la schiavitù alla quale da lungo tempo sono abituati? Non così erano i tuoi figli, che una volta – guerrieri senza speranza votati a morte volontaria – l’attesero nella sepolcrale valle delle squallide Termopili1 – oh, chi riconquisterà quell’animo ardito, si lancerà dalle sponde dell’Eurota2 e ti rievocherà dalla tomba? [...] Italia! oh Italia! thou who hast The fatal gift of Beauty, which became A funeral dower of present woes and past – On thy sweet brow is sorrow ploughed by shame,
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And annals graved in characters of flame. Oh, God! that thou wert in thy nakedness Less lovely or more powerful, and couldst claim Thy right, and awe the robbers back, who press To shed thy blood, and drink the tears of thy distress; Italia! o Italia! Tu che avesti il fatale dono della bellezza che divenne la funerea dote di dolori presenti e passati, sulla tua dolce fronte il solco della sofferenza è stato inciso dalla vergogna ed i tuoi annali impressi con lettere di fiamma. Volesse Iddio che nella tua nudità tu fossi men bella o più forte, e potessi rivendicare il tuo diritto, e ricacciare atterriti i briganti che s’accalcano per versare il tuo sangue e bevere le lagrime del tuo dolore.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le caratteristiche che, nei versi di Byron, il popolo greco avrebbe ormai perso. b. Cerchia le caratteristiche peculiari dell’Italia e sottolinea gli auspici pronunciati da Aroldo.
A. Campi Definire la nazione In questo brano, tratto da un saggio pubblicato nel 2004, Alessandro Campi (nato nel 1961), studioso del pensiero politico, esamina il nuovo significato che assume l’idea di “nazione” a partire dalla Rivoluzione francese: la sovrapposizione dei concetti di “nazione”, “popolo” e “patria” è uno dei fenomeni culturali più complessi e significativi, infatti, per comprendere le origini e gli sviluppi dei nazionalismi ottocenteschi. L’autore mostra in particolare la progressiva politicizzazione dell’idea di nazione, che diventa uno strumento di lotta capace di coinvolgere e mobilitare anche le masse popolari, non soltanto le élite intellettuali.
Nel corso del XIX secolo il concetto di «nazione» non solo si arricchisce di nuovi significati, in parte irriducibili a quelli che avevano caratterizzato la sua storia precedente, ma assume sul piano della lotta politica e della discussione storico-filosofica un’assoluta centralità, sino a diventare il sigillo di una fase storica che ancora oggi si tende a definire, in modo convenzionale, come «l’epoca della nazionalità». [...] Con le teorizzazioni del periodo rivoluzionario [...] si allarga a dismisura il campo semantico all’interno del quale, sino a quel momento, l’idea di nazione era stata pensata, articolata e utilizzata da una schiera di dottrinari: da semplice realtà collettiva caratterizzata da usi e costumi specifici
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essa diviene «la comunità fondamentale, il soggetto originario, da cui [discende] la legittimità delle istituzioni» chiamate, in un dato contesto spazio-temporale, ad organizzare la vita della collettività; in questa sua nuova funzione la «nazione» si pone al centro di una costellazione concettuale che comprende termini che prima non avevano con essa alcun rapporto oppure ne avevano uno estremamente blando: «popolo», «patria», «libertà», «cittadinanza», «Stato», «volontà», «sovranità». Dall’altro cambia in profondità il contesto storico, culturale e sociale nel quale il termine viene impiegato, nelle sue nuove accezioni e con modalità e finalità a loro volta originali e innovative. [...]
Occorre segnalare come la nazione [...] nell’Ottocento finisca per diventare un concetto globale e inclusivo: essa non denota più un settore o gruppo particolare, ma indica una totalità che comprende tutti gli abitanti di un paese. La nazione, in altre parole, tende sempre più a coincidere, simbolicamente e fisicamente, con il popolo. Quest’ultimo, a sua volta, non è più la populace1: cessa d’essere sinonimo di plebaglia, di folla o di moltitudine tumultuosa e informe, nell’accezione negativa tipica di tutta l’epoca prerivo-
1. “Plebaglia”, in francese.
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luzionaria, per divenire (nella versione «francese» e volontaristica di nazione) un soggetto politico unitario composto non da sudditi politicamente passivi ma da cittadini tendenzialmente eguali, una realtà sociologicamente dinamica e attiva portatrice di valori, istanze e diritti che solo all’interno della sfera politico-giuridica definita dalla nazione – una, indivisibile e sovrana – possono realizzarsi in modo compiuto; ovvero (nella versione «tedesca» e romantica del concetto) un’unità organica e solidale composta da individui accomunati dalla lingua, dalla storia e dalla cultura, una totalità dotata di una fisionomia spirituale assolutamente unica e irriducibile, la cui specificità, per molti versi insondabile sul piano razionale, si riflette nel modo con cui si organizza ogni singola comunità nazionale. All’equivalenza o alla stretta correlazione tra nazione e popolo (tipicamente ottocentesca e ancora del tutto negata prima del 1789) si accompagna, in epoca post-rivoluzionaria, anche quella tra nazione e patria: termini che divengono, nel loro nuovo significato politico, in larga parte intercambiabili. Nel linguaggio filosofico settecentesco la patria indicava, da un lato, una dimensione affettiva e morale spazialmente assai circoscritta: il pays2 nel quale si è nati e cresciuti, la piccola comunità territoriale alla quale ogni uomo è le-
gato dal ricordo, da un senso di riconoscenza filiale e da un sentimento intriso sovente di nostalgia e rimpianto. Dall’altro, era invece considerata come una sorta di luogo elettivo, nel quale gli spiriti illuminati possono riconoscersi a prescindere da qualunque vincolo di natura etnica, culturale o linguistica: la patria è dove si sceglie di vivere in funzione delle proprie esigenze, in particolare del grado di libertà e di benessere che essa può garantirci in quanto individui culturalmente maturi. [...] La scelta della patria non risponde ad un appello sentimentale, a una necessità politica indotta dell’esterno o imposta dalla consuetudine, ma a un bisogno dell’animo umano, a una disposizione intellettuale, che nella celebre espressione di Goethe3, «dove sono utile, là è la mia patria», si carica anche di un preciso senso morale e del dovere. Nel linguaggio politico ottocentesco [...] si assiste invece a una progressiva «nazionalizzazione del patriottismo». Quest’ultimo fenomeno, a sua volta, si accompagna da un lato con la definitiva politicizzazione del concetto di nazione (che diviene lo strumento di una lotta per la libertà, l’indipendenza e l’autodeterminazione guidata da élite politico-intellettuali ma in grado di coinvolgere anche le masse popolari) e dall’altro con la sempre più stretta connessione tra quest’ultimo concetto e la
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Ernest Renan «Una coscienza morale che si chiama nazione»
E. Renan, Che cos’è una nazione?, con introd. di S. Lanaro, Donzelli, Roma 1998, pp. 15-17.
Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose, che in realtà sono una cosa sola, costituiscono quest’anima e questo principio spirituale; una è nel passato, l’altra nel presente. Una è il comune possesso di una ricca eredità di ricordi; l’altra è il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di
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realtà – effettuale o potenziale – dello Stato unitario, che della nazione-patria rappresenta ormai il «confine» e l’ambito privilegiato in senso spaziale-territoriale, simbolico-normativo e politico-legale.[...] La nazione s’impone progressivamente sia come concreta realtà storico-politica sia come idea destinata a contagiare e condizionare in modo più o meno diretto tutte le famiglie politico-ideologiche ottocentesche.
2. “Paese”, in francese. 3. Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832),
scrittore e poeta tedesco, fu fra i più importanti esponenti del Romanticismo. Il suo romanzo epistolare I dolori del giovane Werther (pubblicato nel 1774), in cui il protagonista si suicida per amore, ebbe un enorme successo in tutta Europa.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia i termini che diventano correlati al concetto di nazione nel corso del XIX secolo. b. Spiega sinteticamente per iscritto i seguenti temi affrontati da Campi: a. come cambia l’utilizzo del temine “nazionale”; b. le cause e le conseguenze dell’allargamento semantico dell’idea di nazione; c. il rapporto tra i termini “nazione” e “popolo”, “nazione” e “patria”; d. le conseguenze della politicizzazione del concetto di nazione e il rapporto con lo Stato unitario.
Nella seconda metà del XIX secolo si compiono due grandi processi di unificazione nazionale: quello italiano e quello tedesco. Quest’ultimo, in particolare, è influenzato da uno spirito nazionalistico ben lontano da ogni ispirazione democratica: si compie infatti grazie alla guerra che la Prussia vince prima contro l’Austria (1866) e poi contro la Francia (1870). È proprio come conseguenza di quest’ultimo evento che si arriva alla proclamazione del Reich. Proprio ai danni della Francia il nuovo Impero tedesco strapperà i territori dell’Alsazia-Lorena, ritenuti storicamente tedeschi e abitati da popoli di “stirpe” germanica. In questo contesto va analizzato il brano seguente, tratto da una conferenza intitolata Che cos’è una nazione?, tenuta l’11 marzo 1882 alla Sorbona da Ernest Renan (1823-1892), storico francese delle religioni e delle origini del cristianesimo, filosofo e studioso di linguistica, tra i più importanti teorici del nazionalismo ottocentesco. Da queste pagine emerge una concezione morale e spirituale della nazione, basata sul libero consenso dei cittadini, da cui la celebre definizione della nazione come frutto di un «plebiscito di tutti i giorni». continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa. L’uomo, signori, non s’improvvisa. La nazione, come l’individuo, è il punto d’arrivo di un lungo passato di sforzi, di sacrifici e di dedizione. Il culto degli antenati è fra tutti il più legittimo; gli antenati ci hanno fatti ciò che siamo. Un passato eroico, grandi uomini,
gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale. Avere glorie comuni nel passato, una volontà comune nel presente; aver compiuto grandi cose insieme, volerne fare altre ancora, ecco le condizioni essenziali per essere un popolo. Si ama in proporzione ai sacrifici fatti, ai mali
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sofferti insieme. Si ama la casa che si è costruita e che si lascia in eredità. [...]. Nel passato, un’eredità di gloria e di rimpianti da condividere, per l’avvenire uno stesso programma da realizzare; aver sofferto, gioito, sperato insieme, ecco ciò che vale più delle dogane in comune e più delle frontiere conformi ai principi strategici; ecco ciò che si comprende malgrado le diversità di razza e di lingua. Dicevo poco fa: «aver sofferto insieme»; sì, la sofferenza comune unisce più della gioia. In fatto di ricordi nazionali, i lutti valgono più dei trionfi, poiché impongono doveri e uno sforzo comune. La nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni, come l’esistenza dell’individuo è una affermazione perpetua di vita. Nell’ordine di idee che vi espongo, una nazione non ha il diritto, più di quanto non lo abbia un re, di dire a una provincia: «Tu mi appartieni; ti prendo». Per
noi, una provincia sono i suoi abitanti; se c’è qualcuno in questa faccenda che ha il diritto di essere consultato, è chi ci abita. Una nazione non ha mai un vero interesse ad annettersi un paese contro la sua volontà. Il voto delle nazioni è, in definitiva, il solo criterio legittimo, quello al quale bisogna sempre tornare. [...] Le nazioni non sono qualcosa di eterno. Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine. La confederazione europea, probabilmente, prenderà il loro posto. Ma non è questa la legge del secolo in cui viviamo. Oggi l’esistenza delle nazioni è un bene, persino una necessità. La loro esistenza è garanzia della libertà, che sarebbe perduta se il mondo avesse una sola legge e un solo padrone. [...] Signori, riassumo. L’uomo non è schiavo né della sua razza, né della sua lingua, né della sua religione, né del corso dei fiumi, né della direzione delle catene montagnose. Una grande aggregazione di uomini, sana di spirito e generosa di cuore, crea una coscienza morale che si chiama nazione. Fintanto che questa coscienza morale mette alla prova la sua forza attraverso i sacrifici richiesti dall’abdicazione dell’individuo a favore di una comunità, essa è legittima, ha il diritto di esistere. Se si sollevano
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A.-M. Thiesse Le lingue nazionali
A.-M. Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, il Mulino, Bologna 2001, pp. 63-68.
Sono diverse le attuali lingue nazionali europee che non esistevano prima dell’Ottocento: al pari delle nazioni, sono state in seguito gratificate da una storia che risale alla notte dei tempi, ma la loro nascita è recentissima. L’Europa illuminista offre un paesaggio linguistico quanto meno complesso, poiché la gran massa della popolazione, rurale e analfabeta, parla dialetti che non sono in genere oggetto di trascrizioni, mentre esistono lingue che hanno un’espressione scritta di vario genere: lingue di corte, lingue letterarie o filosofiche, lingue liturgiche o amministrative, lingue dell’insegnamento primario, superiore e universitario. All’interno di uno stesso
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dubbi sulle sue frontiere, consultate le popolazioni contese. Esse hanno ben diritto di dare un parere sulla questione. Ecco una cosa che farà sorridere i geni della politica, quegli esseri infallibili che passano la vita a sbagliare e che, dall’alto dei loro superiori principi, hanno compassione della nostra modesta proposta. «Consultare le popolazioni, oibò! che ingenuità! È proprio una di quelle misere idee francesi che pretendono di sostituire la diplomazia e la guerra con mezzi di infantile semplicità». – Aspettiamo, Signori; facciamo passare il regno dei geni; sopportiamo il disprezzo di chi si sente forte. Forse, dopo tanti tentativi infruttuosi, si tornerà alle nostre modeste soluzioni empiriche. Il modo per avere ragione in futuro è, in certi momenti, sapersi rassegnare a esser fuori moda.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea tutti gli elementi che, secondo Renan, concorrono alla formazione dell’idea di nazione. b. Spiega in quale situazione potrebbe essere utile consultare le popolazioni e per quale motivo. c. Spiega per iscritto chi è l’autore del brano, che tipo di documento è questo e in quale contesto è stato realizzato.
Alcune delle attuali lingue nazionali europee non esistevano prima dell’800: l’idea che a ogni nazione corrisponda una lingua è infatti un prodotto del nazionalismo moderno. Del resto, dopo aver “inventato” la nazione, per i nazionalisti diventò urgente creare un’unica lingua parlata da tutta la popolazione che ne faceva parte. La storica francese Anne-Marie Thiesse, autrice di un saggio pubblicato nel 1999 sulla formazione delle identità nazionali in Europa, spiega in questo brano perché la questione delle lingue nazionali fu una delle principali preoccupazioni dei governi e come la diffusione della carta stampata abbia svolto un ruolo importante nella nascita di comunità linguisticamente omogenee. stato, non vi è necessariamente identità tra queste diverse funzioni: negli stati tedeschi protestanti, per esempio, la lingua dell’insegnamento religioso e dell’insegnamento primario è il tedesco, mentre l’insegnamento secondario viene di solito impartito in latino, e la lingua di corte e quella della cultura prediligono il francese. [...] La diffusione di una lingua vernacolare1 standardizzata dalla stampa può essere stato uno degli elementi di maggiore importanza nel risveglio del sentimento nazionale? [...] La diffusione della carta stampata svolge un ruolo importante nella presa di coscienza di un’identità linguistica e nazionale. Non è certo un
caso se l’idea di una stretta unione tra lingua e nazione si forma soprattutto nei paesi che hanno conosciuto la Riforma2 [...], ma questo fenomeno non è suscet-
1. Lingua parlata in una determinata area: si
pensi a questo proposito al vernacolo “toscano” parlato in una precisa regione della penisola italiana, poi adottato come lingua ufficiale dell’Italia unita. 2. La Riforma protestante, che determinò una frattura nel mondo cristiano nel XVI secolo e la nascita di una nuova confessione a fianco di quella cattolica, fu accompagnata dalla stampa della Bibbia tradotta dal latino in lingua volgare: in questo modo poteva essere letta da molte più persone e non soltanto da eruditi ecclesiastici.
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tibile di venire esteso a tutta quanta l’Europa, in quanto alcune zone sono state appena sfiorate dalla diffusione di scritti in lingua vernacolare: vuoi perché la popolazione non era alfabetizzata in quelle lingue, vuoi perché non esistevano in luogo delle vere e proprie stamperie. In quei casi, alla creazione di una lingua vernacolare scritta destinata a diventare lingua nazionale fa quasi subito seguito la produzione volontaria di libri e periodici destinati a promuovere il nuovo mezzo, e contemporaneamente, nei paesi che ne erano sprovvisti, sorgono stamperie. In realtà, dalla formulazione iniziale: «La nazione esiste perché ha una lingua», si passa, quando per tutta l’Europa si diffonde l’idea nazionale, a una formulazione completamente diversa: «La nazione esiste, dunque bisogna darle una lingua». Resta nondimeno evidente che la creazione di giornali svolge un ruolo importante nella diffusione del sentimento identitario, dando al dibattito una nuova forma e una nuova struttura. La stampa, che in un primo tempo considera l’informazione evenemenziale3 più della discussione politica e ideologica, forma e sviluppa l’opinione pubblica, definisce i temi e i termini di discussione ripresi oralmente nelle cerchie frequentate dai suoi lettori, che si trovano così inclusi in uno spazio eccedente quello delle loro esperienze personali e professionali. [...] La questione delle lingue nazionali è uno dei grandi problemi europei alla fine del Settecento. Fino a quel momento le lingue parlate dai vari sudditi erano state un problema secondario per i sovrani, più preoccupati della riscossione delle imposte, delle condizioni del loro esercito o delle possibili opposizioni nobiliari in loro potere. [...] La proclamazione della repubblica 4 cambia radicalmente la prospettiva: l’uso della «lingua del re» era
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per i sudditi una questione d’educazione e scelta, per i cittadini l’uso della lingua della nazione è un dovere. Il compito di una lingua nazionale è da un lato quello di sostituirsi a una eterogeneità di modi linguistici rispondenti a usi diversificati e, dall’altro, di rappresentare la nazione: il suo «capitolato d’oneri» è perciò pesante e costrittivo. Essa deve garantire la comunicazione orizzontale e verticale in seno alla nazione: quale che sia la loro origine geografica e sociale, tutti i suoi membri devono comprenderla e utilizzarla. Deve quindi permettere l’espressione di ogni idea e realtà, dalle più antiche alle più moderne, dalle più astratte alle più concrete. Deve inoltre permettere alla nazione di illustrarsi e di mostrare che è pari in grandezza a tutte le altre. Deve infine confondersi con la nazione, radicandosi nel suo passato storico e recando l’impronta del popolo. In funzione delle differenti situazioni iniziali, gli ideatori di lingue nazionali accentuano più o meno questo o quel requisito. In Francia il lavoro riguarda più che altro la storia della lingua, strettamente collegata alla storia della nazione (il che spiega l’episodio della ricerca frenetica dell’antica lingua dei galli all’inizio del XIX secolo), e l’estensione del suo insegnamento. In Germania lo studio delle origini e la diffusione della lingua si accompagnano a un altro compito: convincere le élite che il tedesco è una vera lingua di cultura, bisognosa soltanto di qualche ritocco per potere prendere il posto del francese, come gli scrittori dello Sturm und Drang5 e del romanticismo cercheranno, con successo, di dimostrare. In genere, per le nazioni già dotate di una letteratura scritta viva, la formazione della lingua nazionale è soprattutto questione d’insegnamento, di arricchimento stilistico e semantico, di sviluppo della produzione
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scritta e di accrescimento del capitale simbolico. [...] Quando non esiste una lingua scritta che possa servire da fondamento a una lingua nazionale, la costituzione della lingua consiste nell’individuare uno o più dialetti, scelti per il loro posizionamento linguistico intermedio o dominante (in termini economici e sociali) nella zona d’uso. La valorizzazione della lingua orale si compie di solito mediante la pubblicazione preliminare di raccolte di canti popolari o di un’epopea; il materiale linguistico vivente viene quindi codificato mediante la messa a punto di una grammatica, di una trascrizione grafica e di un dizionario, costituiti dal riferimento alle descrizioni delle lingue già esistenti, mentre la formazione di termini astratti o moderni si compie tramite prestiti da lingue straniere o processi creativi su radici «nazionali». 3. Degli eventi. 4. Si riferisce in questo caso alla proclamazione
della Repubblica e all’abbattimento della monarchia durante la Rivoluzione francese. 5. Espressione in tedesco (che si traduce con i termini “tempesta e impeto”) che identifica un movimento culturale preromantico che si diffuse in Germania alla fine del ’700 e rivalutò le passioni dell’individuo, in opposizione al razionalismo illuministico.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega in cosa consiste il paesaggio linguistico dell’Europa illuminista e descrivine le cause. b. Sottolinea i compiti della lingua nazionale. c. Spiega in che modo si favorisce l’affermazione di una lingua nazionale laddove non ne esista una storicamente predominante.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coesa in cui affronti la questione sociale e la lotta di classe durante i moti e le “tempeste rivoluzionarie” dell’800. Fai riferimento al documento di Marx ed Engels [ŹLEGGERE LE FONTI p. 296] e al brano di Losurdo [Ź57]. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. 2. Dopo aver analizzato i documenti storici e i brani storiografici, scrivi un testo argomentativo nel quale viene discussa e approfondita la seguente affermazione: «Durante l’800 l’esistenza della nazione e della patria venne “inventata” attraverso molteplici elementi e “strumenti” politici e culturali». Evidenzia nei brani i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerali in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Il confronto storiografico 3. Dopo aver letto il brano di Bobbio [Ź54] e i documenti di Constant [Ź55] e Stuart Mill [Ź56], descrivi i concetti di liberalismo, democrazia e socialismo mettendo in rilievo le similitudini e le differenze fra le argomentazioni apportate dai tre pensatori. Quindi scrivi un testo argomentativo chiaro e coeso mettendo in rilievo i seguenti temi: • Rapporto fra l’individuo e il governo della comunità • Libertà individuale e collettiva • I pericoli della democrazia. Evidenzia nei testi i passi che intendi citare nelle tue argomentazioni e numerali in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento.
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FARE STORIA Risorgimento e Unità d’Italia. Le idee e il dibattito
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Risorgimento e Unità d’Italia. Le idee e il dibattito Il processo che portò all’unificazione italiana ebbe caratteristiche strettamente legate alla situazione politica ed economica della penisola, ma fu anche largamente dipendente dagli eventi europei di quegli stessi anni. Il Risorgimento italiano non fu dunque un fenomeno che riguardò solo l’Italia, ma venne influenzato e a sua volta influenzò la storia di tutto il continente. Nel primo brano Alberto Mario Banti [Ź62] ricostruisce le tappe che resero possibile la diffusione, grazie all’opera soprattutto di scrittori e intellettuali, di un ideale nazional-patriottico nell’Italia della prima metà dell’800: un paese diviso politicamente e nel quale andava costruito e “inventato” il sentimento di appartenenza a una comunità nazionale. Seguono poi alcune testimonianze dell’epoca che mostrano l’appassionato dibattito sulle modalità per realizzare l’unificazione nato in seno al movimento risorgimentale, diviso al suo interno in correnti politiche diverse ispirate alle nuove ideologie ottocentesche. Ad aprire la rassegna è Giuseppe Mazzini [Ź63], che sosteneva con forza la necessità dell’insurrezione, al quale si contrapponeva Massimo d’Azeglio [Ź64], rappresentante invece della corrente moderata favorevole a riforme graduali; infine, il terzo brano documenta la linea politica di Carlo Cattaneo [Ź65], sostenitore di una soluzione di tipo federale, sul modello statunitense, sia per l’Italia che per tutto il
STORIOGRAFIA 62 A.M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 8-10; 12-15.
Nei primi decenni dell’Ottocento, nemmeno un solo osservatore neutrale avrebbe scommesso un centesimo sulla riuscita dei vari piani di rinnovamento formulati dall’uno o dall’altro gruppo di intellettuali o di politici di ispirazione nazional-patriottica. Del resto, come pensare diversamente? La proposta nazional-patriottica vuole parlare a masse che a stento capiscono l’italiano, cercando addirittura di muoverle all’azione politica contro i rigori delle polizie e dei tribunali degli Stati preunitari [...]. Eppure ciò che è particolarmente affascinante dell’esperienza risorgimentale è che questa «missione impossibile» viene compiuta con sorprendente efficacia. Nell’arco di tempo che va dal 1815 al 1861 una gran parte dell’opinione colta, e anche una parte significativa delle classi popolari urbane, viene convinta
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continente europeo, lanciando il progetto degli Stati Uniti d’Europa. Un ruolo fondamentale nel raggiungimento dell’Unità nazionale nel 1861 lo ebbero però due personaggi molto distanti tra loro politicamente. Da una parte Camillo Benso di Cavour, dall’altra Giuseppe Garibaldi. Luciano Cafagna [Ź66] si sofferma sull’idea che lo statista piemontese aveva per l’Italia in tema di modernizzazione e sviluppo economico: una visione strettamente legata a quanto aveva avuto modo di studiare all’estero fin da giovane e di osservare nei suoi successivi viaggi in Europa. Giuseppe Garibaldi, rappresentante degli ideali repubblicani e democratici, protagonista di molte battaglie risorgimentali e della spedizione dei Mille, fu capace di suscitare l’entusiasmo popolare: la sua fama e il suo mito, come mostra il contributo di Lucy Riall [Ź67], superarono i confini italiani e si diffusero rapidamente in tutta Europa e nel mondo. A ulteriore testimonianza di quanto il processo di unificazione italiana si sia intrecciato con gli eventi europei di quegli anni, Derek Beales ed Eugenio Federico Biagini [Ź68] si soffermano sulla partecipazione delle “patriote” straniere al movimento risorgimentale. Conclude questa sezione un brano dello storico liberale Rosario Romeo [Ź69] che traccia un bilancio dei risultati dell’Unità d’Italia.
A.M. Banti La diffusione del patriottismo Lo storico italiano Alberto Mario Banti (nato nel 1957) è autore di originali studi sul Risorgimento, che attribuiscono una particolare importanza ai fenomeni culturali e ai processi di trasformazione delle mentalità. In questo brano, l’autore spiega come e perché sia stato possibile che, in un paese come l’Italia, si sia rapidamente diffuso un sentimento nazional-patriottico capace di coinvolgere un numero crescente di persone, in realtà tra loro molto diverse. La chiave di questo successo, secondo Banti, va ricercata nell’attività di un gruppo di intellettuali, scrittori, poeti, artisti e militanti, che seppero trovare nuove forme di comunicazione nel contesto di una nuova «estetica della politica». della bontà dell’idea nazionale, tanto da spingere molti a unirsi alla Giovine Italia, a partecipare ai tentativi insurrezionali che si susseguono dal 1820 in avanti, a partecipare in forme diverse alle manifestazioni, agli scontri urbani e alle guerre che caratterizzano il quadriennio 1846-49, a continuare a militare in gruppi segreti negli anni Cinquanta, a trasferirsi in esilio nel Piemonte costituzionale dopo il 1849, a partire a migliaia come volontari per le guerre del 1859 o del 1860. Ancor più importante di questi dati numerici [...] è la trasformazione del discorso politico che attraversa l’Italia del Risorgimento. Un numero crescente di persone – non solo i mazziniani più radicali, ma anche i nobili o gli intellettuali o i politici moderati di varia provenienza e di varia inclinazione politico-culturale [...] – si trovano, in alcuni
casi anche loro malgrado, a parlare il linguaggio della nazione italiana e ad agire di conseguenza: questo è l’indicatore più evidente del successo del movimento nazional-patriottico. [...] Ma che cosa rende possibile un fenomeno di tali proporzioni? Se tutto ciò avviene è perché i leader intellettuali e politici del nazionalismo italiano sanno presentare il discorso nazionale attraverso modalità comunicative che fanno appello non tanto alla ragione degli illuministi, alla solida cultura, all’indagine lucida e distaccata, quanto all’universo pre-razionale delle emozioni. [...] Come potrebbe essere altrimenti, se si vogliono coinvolgere nel discorso politico anche persone analfabete o semi-analfabete? E come potrebbe essere altrimenti, se si vuole diffondere un discorso politico altamente innovativo e – almeno nelle sue formulazioni
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iniziali – radicalmente eversivo degli assetti politici dominanti? La realizzazione di una proposta politica che sappia parlare al cuore del «popolo», passa attraverso la formazione di quella che è stata chiamata una «estetica della politica». Con questo termine si indica una modalità della comunicazione politica [...] sollecitata dalla constatazione secondo la quale strumenti che normalmente servono per divertirsi e rilassarsi (romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue, opere liriche) possono anche riempirsi di messaggi politici, senza per questo perdere niente del loro fascino. Per la formazione di questa nuova «estetica della politica» è essenziale lo stretto rapporto che gli intellettuali nazional-patriottici intrecciano con l’esperienza culturale europea comunemente nota col termine «romanticismo». [...] Parlare al popolo con narrazioni plausibili, né troppo arbitrarie, né troppo localizzate, ma saldamente collegate alle tradizioni «nazionali»; questo è ciò che bisogna fare. [...] È ad opera di persone [...] come Ugo Foscolo1, Giovanni Berchet2, Alessandro Manzoni3, Massimo D’Azeglio, Francesco Domenico Guerrazzi4, Francesco Hayez5, Giuseppe Verdi6 e molti altri con loro, che il discorso nazionale può avvalersi di un’estetica della politica che prende forma attraverso una vasta costellazione di romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica. Sono questi gli strumenti comunicativi che fondano la narrazione e la mitografia risorgimentale. Il pubblico di riferimento è in primo luogo quello nobiliare e borghese: un pubblico di persone che sa leggere, e che ha tempo per farlo. Ma molto rapidamente le storie, i miti, le immagini, le figure-simbolo della mitografia risorgimentale trovano la strada della diffusione anche tra le classi popolari urbane attraverso altri circuiti comu-
nicativi. In primo luogo la propaganda capillare dei militanti delle organizzazioni mazziniane, dalla Giovine Italia in avanti, capaci di svolgere un’azione di proselitismo particolarmente efficace prima in città portuali o universitarie, come Genova, Livorno, Pisa o Pavia, e poi, man mano anche altrove. Inoltre un grande impatto ha anche la messa in scena di melodrammi con intrecci di ispirazione nazional-patriottica, uno strumento comunicativo potente sia perché moltissime città, anche molto piccole, dispongono di teatri [...], sia perché i biglietti per i posti meno costosi sono alla portata di molti e l’azione scenica può essere facilmente seguita anche da analfabeti. Determinante è anche l’azione diffusiva di predicatori itineranti come Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi7, e di una parte importante del clero che tra il 1846 e il 1848 dà un sostegno decisivo all’ampio radicamento degli ideali e dei valori nazional-patriottici8. Infine, niente affatto trascurabile è l’effetto diffusivo esercitato da altri media, dalle stampe monocromatiche vendute per pochi soldi sui mercati, alle storie cantate o raccontate dai cantanti girovaghi o dai burattinai, che spesso adattano gli hit letterari o operistici alle loro cornici comunicative [...]. Nelle campagne tutto ciò arriva con difficoltà o addirittura non arriva per niente. Le campagne sono più sorvegliate da campieri, fattori, soprastanti, niente affatto inclini a far circolare individui sospetti (come per esempio i militanti della Giovine Italia) tra cascine, poderi e latifondi. L’analfabetismo, la difficoltà degli spostamenti, l’assenza di luoghi deputati al divertimento e tempo libero, fa sì che mai, o quasi mai, vi arrivino anche gli altri media più popolari (melodrammi, stampe, cantanti girovaghi, burattinai, predicatori itineranti). Questo per sottolineare che la diffusione del discorso nazionale ha una sua geogra-
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Giuseppe Mazzini La necessità dell’insurrezione
G. Mazzini, Antologia degli scritti politici, a c. di G. Galasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 33-36.
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fia piuttosto precisa, che è quasi esclusivamente urbana. 1. Ugo Foscolo (1778-1827). 2. Giovanni Berchet (1783-1851), poeta milanese
famoso soprattutto per la sua opera Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo (1816), uno dei manifesti della rivoluzione romantica in Italia. 3. Alessandro Manzoni (1785-1873). 4. Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873), patriota e romanziere, protagonista del movimento risorgimentale in Toscana. 5. Francesco Hayez (1791-1882), pittore prima classico poi romantico. Molti suoi quadri di soggetto storico contenevano un chiaro messaggio nazional-patriottico. 6. Giuseppe Verdi (1813-1901), musicista e compositore italiano, autore di numerose opere liriche. Alcune sue arie a tema patriottico (come il Va’ pensiero, nel terzo atto dell’opera Nabucco del 1842) furono accolte con entusiasmo nei teatri e cantate nelle piazze, tanto che Verdi divenne un personaggio simbolo delle battaglie risorgimentali. 7. Ugo Bassi (1801-1849), sacerdote bolognese che seguì come cappellano militare le truppe pontificie nel 1848 e poi si arruolò al seguito di Garibaldi nella difesa della Repubblica romana del 1849, rimanendo ucciso quello stesso anno nel corso della fuga da Roma; Alessandro Gavazzi (1809-1889), da sacerdote predicò i valori liberali e patriottici, partecipò inoltre alle principali battaglie risorgimentali: dopo aver rinunciato ai voti, pronunciò numerosi discorsi antipapali. 8. È il periodo che corrisponde ai primi anni di pontificato di Pio IX, caratterizzati da una politica aperta a moderate riforme liberali.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le informazioni che riguardano quello che secondo Banti è l’indicatore più evidente del successo del movimento nazional-patriottico. b. Spiega in cosa consiste quella che Banti definisce «missione impossibile» e in che modo viene compiuta. c. Evidenzia cosa vuol dire «estetica della politica» e sottolinea gli strumenti che consentirono di metterla in pratica. d. Spiega per iscritto in che modo città e campagne accolsero gli ideali risorgimentali e perché.
Giuseppe Mazzini (1805-1872) fu autore di numerosi scritti politici, che ebbero grande diffusione in Italia e in Europa. In questo brano, tratto da un opuscolo uscito in francese nel 1835 e intitolato Fede e avvenire, critica con molta chiarezza chi sostiene un orientamento moderato e un processo graduale di riforme e cambiamenti: al contrario, Mazzini crede fermamente nella validità del metodo insurrezionale, il solo che possa avere successo nei paesi oppressi da regimi dispotici. Secondo l’autore, ciò non vale soltanto per l’Italia, ma anche per tutti gli altri popoli europei che si trovano nella stessa situazione di oppressione.
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Due cose sono essenziali al progresso da compiersi: la manifestazione d’un principio e la sua incarnazione nei fatti. Apostoli d’una credenza che intende fondare, noi non possiamo innoltrare1 se non a bandiera spiegata e affrontando una mortale battaglia tra la nostra e l’avversa credenza. Aspettate, dicono2 Ma qual cosa? Le circostanze? Or che mai sono le circostanze se non una particolare disposizione degli elementi chiamati a generar fatti? E d’onde possono sorgere se non dal nostro lavoro? – La guerra? Tra chi? Tra quei che camminano di pieno accordo, che hanno stretto nuovamente pur ora un patto di fratellanza, che hanno lo stesso fine, gli stessi nemici, le stesse paure? Contro popoli prostrati e nel fango! La guerra non sorgerà in Europa se non dall’insurrezione. – I Colpi di Stato? Solo una lotta energica, ostinata, può renderli inevitabili. Or come sostenerla? Colla cospirazione? I predicatori di pazienza la rifiutano come rifiutano le sommosse. Colla stampa? I Governi la uccidono: avete per ogni dove leggi che incatenano, censori che tormentano lo scrittore, giudici che condannano e chiudono il pensiero in una prigione. Potrete superare questi ostacoli? In Francia forse. Ma ponete un paese privo assolutamente di stampa, senza Parlamento o Consigli che discutano, senza giornali letterari, senza teatro nazionale, senza insegnamento popolare, senza libri stranieri. Ponete che quel paese soffra, soffra tremendamente, nelle sue moltitudini come nelle classi agiate, di miseria, d’oppressione straniera e domestica, di violazioni continue del suo principio nazionale, d’assenza d’ogni sviluppo intellettuale e industriale. Che mai farà quel paese? Da qual parte potrà originare poi esso il lento progresso a gradi che vagheggiate? Or quel paese esiste. Quel paese ha nome Italia, Polonia, Germania da qualche tempo. Quel paese abbraccia i due terzi d’Europa. Guardate all’Italia. In essa non è progresso né via aperta al progresso, se non quella delle rivoluzioni. La tirannide ha innalzato un muro impenetrabile lungo la sua frontiera. Un triplice esercito di spie, di doganieri, di birri3 vigila notte e giorno a impedire la circolazione del pensiero. L’insegnamento mutuo è proscritto4. Le università sono schiave o chiuse. Condanne mortali pendono su chi non solamente stampi segretamente, ma possieda e
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legga il libro vietato. E vietata è l’introduzione dei giornali indipendenti stranieri. L’intelletto more nell’infanzia per difetto d’alimento. I giovani si fanno apostati5 nell’egoismo e consumano ogni vigore in accessi d’una sterile misantropia6. [...] Chi darà, io lo chiedo nuovamente, il progresso a quel popolo? chi lo darà alla Polonia che versa in eguali condizioni? chi alla Germania che verserà tra non molto in esse, quando, abbracciando il vostro consiglio, i suoi patrioti avranno interrotto il combattere che popola le prigioni, ma desta a poco a poco le moltitudini? Come potremo noi introdurre in quelle contrade il santo pensiero invocato da tutti, ma non definito, se ci arretriamo, per calcolo individuale, davanti al pericolo, se non osiamo difendere coll’armi in pugno, come il contrabbandiere dei Pirenei, il contrabbando dell’intelletto? L’insurrezione: io non vedo, per quei popoli, altro consiglio possibile: l’insurrezione appena le circostanze concedano: l’insurrezione energica, generale: l’insurrezione delle moltitudini: la guerra santa degli oppressi: la repubblica per creare repubblicani: il popolo in azione per iniziare il progresso. L’insurrezione annunzi terribile i decreti di Dio: sommova e spiani il suolo sul quale deve innalzarsi il suo edificio immortale: inondi, come il Nilo, le contrade ch’essa deve rendere fertili. [...] Noi qui parliamo per quei soprattutto che giacciono alla base della gerarchia europea [...], per le razze incatenate che cercano invano da lunghi secoli la missione assegnata ad esse da Dio – per la Polonia, per l’Ungheria, per l’Italia, per la Spagna, paesi di grandi fati che logorano oggi le forze tra due sistemi, traduzione ambi d’un falso principio – per la Germania pure [...]. Parliamo per tutti, perché tutti sono elementi indispensabili alla futura sintesi europea – perché superiore alla missione speciale, che ciascun di noi è chiamato a compir sulla terra, vive una missione generale che abbraccia tutta quanta l’Umanità – e perché non vediamo che l’importanza della unificazione morale del Partito repubblicano [...]. Abbiamo oggi uomini, scrittori repubblicani di merito, che ritengono nessuna luce poter guidare i popoli al meglio se non scendente dall’alto, dagli orli dell’abisso in cui giacciono, dalle mani di quei che vegliano a mantenerli – altri che
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si limitano a implorare per essi, quasi elemosina, una frazione qualunque di libertà – altri che vorrebbero l’associazione europea maturasse al sole della monarchia costituzionale, che respingono quasi dannoso ogni tentativo di rigenerazione per mezzo d’un grande principio religioso, che protestano come contro dimostrazioni importune e inefficaci contro ogni moto ardito di popolo, contro ogni credenza radicalmente organica manifestata dai difensori dei popoli. Ed io protesto contro la falsa teoria che, confondendo l’espressione materiale del progresso medesimo, raddoppia in certo modo fatica ai popoli e li condanna a una iniziazione per gradi, parallela alla serie dei patimenti che attraversano. [...] Quale è dunque il da farsi? Predicare, Combattere, Agire. 1. Avanzare, progredire. 2. Si riferisce alle tendenze moderate, che
propongono un percorso più graduale di riforme.
3. “Sbirri”, agenti di polizia. 4. Si tratta di un sistema di insegnamento nel
quale i migliori scolari collaborano con i maestri nell’istruzione degli altri compagni. Si diffuse a inizio ’800 in Gran Bretagna e solo parzialmente nel resto d’Europa; in Italia alcune scuole di mutuo insegnamento nacquero in particolare in Toscana, in Lombardia e in Piemonte, ma furono abolite dopo i moti del 1820-21. 5. Chi rinnega o abbandona il proprio credo per seguirne un altro. 6. Asocialità.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi gli elementi che, secondo Mazzini, potrebbero favorire il rinnovamento e quelli che, invece, lo ostacolano. b. Mazzini parla di una «missione generale che abbraccia tutta quanta l’Umanità». Sottolinea la definizione che ne dà nel testo e spiega in che modo propone di perseguirla.
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DOCUMENTO 64 M. d’Azeglio, Proposta d’un programma per l’Opinione Nazionale Italiana, Le Monnier, Firenze 1847, pp. 7; 10; 13-14; 44-45.
Partendo dal principio, che in politica la sola cosa reale e da cercarsi è il possibile ed il pratico, intendiamo prender per base l’ordinamento della penisola quale esiste di fatto oggidì. Per questa via ci mostriamo conseguenti alla massima accennata ne’ Pensieri Preliminari1, di non volerci mettere in ostilità se non col minor numero possibile d’interessi. Non per questo intendiamo portar pregiudizio2 all’insieme della causa italiana, né rinunziare al diritto ed alla speranza della intera ed assoluta nostra indipendenza in un avvenire indeterminato. Crediamo però che il suo compimento non possa fissarsi ad epoca precisa, per mezzo degli sforzi e molto meno in ragione de’ desideri d’un numero anche esteso d’individui, e neppur d’una intera generazione; che la formazione e limitazione degli Stati sia conseguenza di fatti regolati dalla necessità delle circostanze e dei tempi. Crediamo che le sole e reali fondamenta d’un migliore ordinamento futuro, impossibile ad ottenersi oggi coi nostri attuali mezzi, stia nel cercare intanto di ottener quello che è possibile, per trovarsi a portata dei mezzi de’ quali possiam disporre. Crediamo nostro dovere e nostro diritto l’usarli con piena ed assoluta pubblicità. [...] Crediamo che la politica più naturale dei Principi italiani avrebbe dovuto, e dovrebbe essere sempre, il far causa comune tra loro, stringendosi insieme onde mantenersi sciolti da ogni influenza estera. Essi non hanno nulla a temere gli uni degli altri, e sono invece nel pericolo comune di venir offesi nella loro libertà d’azione o nella dignità della loro corona dalle potenze maggiori. [...] Sarebbe sola e veramente sapiente politica, e di primo interesse de’ Principi italiani, quella di dirigere gli atti del loro governo in modo da rendere i loro sudditi, e la parte italiana dell’Italia, la più felice e la meglio ordinata. Se non si sono sempre mostrati fedeli a questa politica, crediamo ciò sia avvenuto, come
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Massimo D’Azeglio Il programma dei moderati Romanziere e pittore di una certa fama, il marchese Massimo d’Azeglio (17981866) si dedicò attivamente alla politica a partire dagli anni ’40, nello stesso periodo in cui Carlo Alberto intraprese in Piemonte una politica riformatrice. L’opuscolo polemico Degli ultimi casi di Romagna, del 1846, ebbe un notevole successo in tutta Italia e lo fece diventare uno dei capifila della corrente liberal-moderata. Le pagine che seguono sono tratte da un’altra opera, scritta nel 1847: la Proposta d’un programma per l’Opinione Nazionale Italiana. Rivolto a un’opinione pubblica moderata e liberale, che considerava ormai maggioritaria dopo i fallimenti dei moti insurrezionali degli anni ’20 e ’30, l’autore sosteneva la necessità di un programma politico graduale, caratterizzato da prudenza e concretezza, al quale dare pubblicità e non più segreto, che coinvolgesse i governanti dei vari Stati italiani. Una posizione molto lontana da quella di Giuseppe Mazzini. accennammo, perché stimassero aver a temer più de’ loro Popoli, che non della preponderanza straniera. Crediamo però che quel pericolo fosse minore che non pensavano, e certamente poi stesse a noi l’evitarlo. [...] Essendo convinti, dunque, che la prima e più attendibile condizione di miglioramento sta per noi nella stretta unione de’ Principi italiani tra loro, e nella loro assoluta indipendenza d’azione, onde possano condurci al pieno sviluppo de’ nostri mezzi morali e materiali, ed al libero impiego di tutte le nostre forze nel modo più vantaggioso all’Italia, indipendentemente da interessi non italiani; essendo persuasi che questa desiderabile unione è stata turbata unicamente sinora dal sospetto nutrito nei Sovrani da quel principio rivoluzionario che ha fin qui professato il culto della forza materiale, e cercato quell’appoggio nelle società segrete, che n’è la conseguenza; crediamo sia primieramente da togliersi la cagione di tali sospetti, e che la miglior via per giungere a questo scopo, stia: 1. Nell’abbandonar assolutamente il principio rivoluzionario, protetto dalla forza materiale e dalle società segrete; e questa riforma, come abbiam detto, è oramai eseguita; 2. L’adottar il principio di cercare miglioramenti pratici e ragionevoli, condotti dalla forza morale, dalla ragione, cioè, appoggiata al giudicio3 dell’opinione per mezzo della più intera pubblicità: – l’adottare, in una parola, le idee d’un progresso moderato, e perciò possibile: che non porti offesa agli interessi dei Principi, e favorisca invece il pieno e libero esercizio della loro potestà. [...] Noi crediamo che la tendenza generale della civiltà moderna verso il sistema rappresentativo, sia la conseguenza de’ vari stadii4 che ha sin qui attraversati, e sia l’espressione delle necessità sociali portate dalle sue condizioni presenti. Questa tendenza, che giungerà alla sua meta probabilmente prima della fine del secolo, crediamo sia quella che principalmente lo
distingue, abbia a lasciargli il suo nome, e che il XIX sia presso le generazioni future per dirsi il secolo della restaurazione del sistema rappresentativo. Noi crediamo che una nuova via s’apra innanzi a molti Principi italiani come a molti stranieri, per la quale posson giungere a collocarsi in alto ed onorato luogo nella stima delle future generazioni, ed avervi luminosa fama di sapienza e virtù. Crediamo insieme ch’essa sia pienamente conforme ai loro veri interessi. Questa via sta nel saper conoscere le tendenze generali dell’età presente; persuadersi dell’impossibilità di mutarle o distruggerle; non soddisfarle in modo ed in tempo inopportuno e disordinato: ma regolarne il cammino, favorirne il regolare progresso, piegandosi a successive modificazioni, coordinate alle analoghe modificazioni dello stato sociale. Questa via sta non nel voler soffocare con violenza e ciecamente un germe che nessuna forza umana ha oramai la facoltà di annientare; ma nell’adoperarsi onde germogli e cresca regolarmente, senza prendere le false direzioni che imprime una forza contro natura: forze e direzioni che porrebbero in grave pericolo gli stessi Principi, e comprometterebbero egualmente la quiete e il benessere futuro de’ Popoli che governano. 1. Premessa, considerazioni iniziali. 2. Recare danno. 3. Giudizio. 4. Fasi.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea i princìpi in cui d’Azeglio afferma di credere e sintetizzali in titoletti che scriverai a margine del testo. b. Spiega in cosa consiste la prima e più attendibile condizione di miglioramento descritta dall’autore e in che modo la giustifica.
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DOCUMENTO 65 C. Cattaneo, Opere scelte, vol. III, Scritti 1848-1851, Einaudi, Torino 1972, pp. 271-76; 282-83.
Ogni stato d’Italia deve rimaner sovrano e libero in sé. Il doloroso esempio dei popoli della Francia, che hanno conquistato tre volte la libertà, e mai non l’hanno avuta, dimostra vero il detto del nostro antico savio1, non potersi conservare la libertà se il popolo non vi tien le mani sopra; sì, ogni popolo in casa sua, sotto la sicurtà2 e la vigilanza delli altri tutti. Così ne insegna la sapiente America. Ogni famiglia politica deve avere il separato suo patrimonio, i suoi magistrati, le sue armi. Ma deve conferire alle communi necessità e alle communi grandezze la debita parte; deve sedere con sovrana e libera rappresentanza nel congresso fraterno di tutta la nazione; e deliberare in commune le leggi che preparano, nell’intima coordinazione e uniformità delle parti, la indistruttibile unità e coesione del tutto. Finché l’Italia avrà governi sconnessi, muniti di forze ineguali, infetti dalla barbarica ambizione d’assoggettarsi i vicini, la parte debole o corrotta sarà sempre tentata d’invocare contro il fratello la spada straniera; e si ripeterebbe eternamente la scelerata istoria della nostra servitù. Non v’è modo a obliterare3 le diseguaglianze, e disarmare le ambizioni e le insidie dei reguli4 d’Italia e dei municipii, se non la mutua tutela d’un congresso nazionale; essendoché i deboli vi costituiranno sempre la maggioranza; e perciò il voto uscirà sempre propizio all’equità e avverso alla prepotenza. E non vi è grandezza, né forza, né maestà che sia maggiore di quella dell’universa nazione. Solo l’Italia può parlare da eguale alla Germania, alla Francia, all’Inghilterra. [...] L’errore più grave, assai vulgare però in Italia, e generale in Europa, si è che la causa italiana sia questione principalmente, anzi unicamente, militare. Giova ripetere: l’Italia non è serva delli stranieri, ma de’ suoi. L’Austriaco venne in Italia, e vi può rimanere solamente come mercenario d’una minoranza retrograda, la quale si conosce impotente a do-
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Carlo Cattaneo La soluzione federale Liberale di tendenze radicali, massimo esponente della corrente federalista-repubblicana italiana, Carlo Cattaneo (1801-1869) ha lasciato numerosi scritti su temi diversi (dall’economia alla storia, dalla letteratura al diritto e alle scienze umane in generale), ma non un’opera organica che riassumesse il suo pensiero politico. La soluzione federale per l’Italia e l’idea di una federazione di Stati Uniti d’Europa sono da lui proposte nel brano seguente, tratto dalla conclusione di uno dei suoi libri più celebri, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, scritto nel 1849 dopo il fallimento dei moti milanesi, di cui era stato protagonista, e dopo la sconfitta piemontese nella prima guerra d’indipendenza. minare da sé la nazione. E l’Austriaco si è perduto per l’arroganza sua di far da padrone, ove i suoi patti erano solo d’essere il servo armato, e l’aguzzino d’un popolo che monsignori e ciambellani volevano tenere in catena. Come mai ottantamila stranieri, che vengono da una regione povera, semibarbara e discorde, potrebbero opprimere colla nuda forza 25 millioni d’un popolo, cui la natura privilegiò di sì alto animo e sì vario intelletto? Come lo potrebbero, se non combattesse per loro l’ambizione e la perfidia dei prelati e dei cortigiani? [...] La popolazione dell’Italia è pari di numero a quella che la Francia aveva al tempo della irresistibile sua rivoluzione! E oso dire, e potrei dimostrare, che il nostro popolo, se non in Piemonte, certamente in Toscana, e nel Lombardo Veneto, e nell’Emilia, è più culto5 che non fossero allora, e che oggidì non siano, in Francia i dipartimenti del ponente sopratutto, e del centro, e del mezzodì. Né il volere6 finalmente manca ai popoli, purché solo vi sia chi decreti l’armamento in loro nome. La questione non è dunque tanto militare, quanto civile. Ora qual sarà il magistrato che lo decreti? Certo, dovrebb’essere il magistrato dittatorio creato dalla Costituente Italica, per governare la guerra, per attivare le finanze, e le banche, e le vendite dei beni nazionali, per assegnare le quote dell’esercito ai singoli Stati, per eleggere i comandanti, per infliggere l’infamia ai vili, la morte ai traditori. Ma tra il magistrato nazionale e li eserciti stanno le corti dei prìncipi. E i soldati obbediranno alle corti, e terranno fisso lo sguardo nel volto del prìncipe. [...] Necèssita dunque che i decreti della Costituente trovino eserciti pronti a obbedirla fedelmente; ossia che trovino in ogni Stato un esercito cittadino e non un satellizio7 di corte; al quale torni lo stesso combattere i nemici, o trucidare i cittadini. Perché dunque l’efficacia della Co-
stituente sul campo di battaglia si faccia sentire, vuolsi che abbiano vigor popolare i parlamenti d’ogni Stato. [...] La Costituente sarà all’Italia un’insegna gloriosamente e irrevocabilmente spiegata, una meta finale e infallibile, un faro. Ma l’efficacia dipende dalla potenza e popolarità dei singoli parlamenti, dall’uniformità e genialità della loro origine elettorale, insomma dal progresso effettivo della libertà nei singoli Stati. Col che vorrei avere adombrato ché siasi per me inteso, quando più volte dissi che non si perviene all’indipendenza, cioè alla vittoria nazionale, se non per la via della libertà. [...] Ora le nazioni europee devono congiungersi [...] non coll’unità materiale del dominio, ma col principio morale dell’eguaglianza e della libertà. La Francia, già da sessanta anni scrisse questa verità nei Diritti dell’Uomo 8. E le nazioni ora sono mature perché la parola s’incarni nel fatto. Solamente quando la Francia avrà intorno a sé cento milioni d’uomini liberi, non sarà più costretta a tenere in armi seicentomila soldati, né ad affamare il popolo per disfamare l’esercito, i cui capitani conculcheranno sempre la sua libertà. Poco importa che il telegrafo ingiunga ai docili e silenziosi dipartimenti il comando d’un imperatore o d’un re o d’un presidente; il destino della moltitudine dei Francesi, fuori della cerchia di Parigi, fu sempre l’obbedienza; ed è una dura necessità per conservare a fronte della Europa regia l’unità militare. Ma in mezzo a un’Europa tutta 1. Niccolò Machiavelli (1469-1527). 2. Sicurezza. 3. Cancellare. 4. Piccoli re. 5. Civile. 6. La volontà. 7. Sgherro, scagnozzo. 8. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789.
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libera e tutta amica, l’unità soldatesca potrà far luogo alla popolare libertà; e l’edificio costrutto dai re e dalli imperatori potrà rifarsi sul puro modello americano9. Il principio della nazionalità, provocato e ingigantito della stessa oppressione militare che anela10 a di-
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L. Cafagna, Libertà del mercato e modernizzazione economica in Cavour, l’Italia e l’Europa, a c. di U. Levra, il Mulino, Bologna 2011, pp. 115-16; 124-27.
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STORIOGRAFIA 66
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La visione della modernità in Cavour è strettamente connessa [...] alla percezione del dislivello tra la penisola arretrata e l’«Europa in marcia». Cavour scopre infatti l’Italia nella «differenza». La scopre quando, per le ragioni passionali della gioventù, avverte sensibilmente lo scarto tra il mondo in cui vive e i mondi più ricchi di valori e di prospettive. Era stata la rivoluzione di luglio francese1 a dare forma politica, nei convincimenti del Cavour ventenne, al problema dell’arretratezza italiana. L’Italia da allora comincia a comparire nelle sue riflessioni come entità complessiva, laddove, fino a quel momento, era praticamente assente: ma compare come sofferenza, nella forma di distanza dal resto del mondo, di mancanza di qualcosa. Si può dire dunque che Cavour scoprì l’Italia, appunto, come carenza di Europa: e resterà, questa, una costante del suo modo di vedere le cose. «Mentre tutta l’Europa marcia con passo fermo sulla via progressiva, l’infelice Italia resta sempre curva sotto lo stesso sistema di oppressione civile e religiosa» scrive all’amico inglese Brockedon2 nel dicembre di quel fatidico 1830. [...] Che cosa è l’«Europa in marcia» di cui parla il Cavour ventenne? È l’Europa del «progresso» e della «libertà». Si tratta di un binomio nel quale la convivenza dei due termini non è sempre del tut-
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struggerlo, dissolverà i fortuiti imperii dell’Europa orientale; e li tramuterà in federazioni di popoli liberi.
9. Il modello federale degli Stati Uniti. 10. Aspira.
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GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega a quale proposito Cattaneo cita come esempi la Francia e l’America. b. Sottolinea i motivi per cui l’autore scrive che «l’Italia è serva de’ suoi» ed evidenzia il significato di questa espressione. c. Cerchia i fattori che possono consentire, secondo l’autore, la rivoluzione in Italia. d. Spiega per iscritto quale formula politica propone Cattaneo per l’Europa e per quali motivi.
L. Cafagna Cavour e l’idea di progresso Lo storico Luciano Cafagna (1926-2012), studioso dell’età contemporanea e dello sviluppo economico italiano, è autore di un’importante biografia di Camillo Benso di Cavour (1810-1861), pubblicata nel 1999. In questo brano, tratto da un saggio scritto qualche anno dopo, Cafagna analizza la visione che Cavour aveva del processo di modernizzazione dell’Italia: come mostra l’autore, lo statista piemontese, fin dalla sua gioventù, fu un attento osservatore di ciò che accadeva nel resto d’Europa. Progresso economico e libertà sono due concetti fondamentali nel suo pensiero e devono accompagnare la formazione della nazione italiana: secondo Cavour, questa non potrà nascere se rimane isolata dai cambiamenti sociali, economici e politici in corso in Europa, ma soltanto se tiene il passo dei paesi europei più sviluppati (come la Francia e la Gran Bretagna). to pacifica. Eppure nella formazione di Cavour si tratta di un binomio indissolubile. [...] Per Cavour [...] il nesso fra progresso e libertà è un nesso necessario, intrinseco e immediato: prima di tutto perché la civilisation3 per lui è realtà già conosciuta, perché altro già esistente, e quindi possibile di mimesi nella realtà economica, sociale e politica che include l’adozione della libertà. In secondo luogo perché l’accesso alla civilisation – che è un atto di rottura verso abitudini, schemi, tradizioni – implica subito un’apertura diffusa a energie nuove e apre ulteriormente lo spazio alla diffusione di altri atti di rottura. È liberazione di forze, non invenzione e produzione di forze: è quindi atto di libertà. La peculiarità cavouriana [...] fu la costante motivazione liberale, e non autoritario-modernizzante, della sua passione per il progresso. E questa è anche la chiave del suo liberismo. Il liberalismo di Cavour è infatti un liberalismo liberista: in esso non è possibile dissociare [...] il liberalismo politico e quello economico. La libertà è per lui liberazione di energie positive; e il liberismo economico è esattamente questo oppure non è nulla: un liberismo che non produca energie supplementari non ha infatti senso. Ma se non vi è liberismo economico manca la libertà in un punto essenziale: la libertà di pro-
gredire e di applicare le energie individuali al progresso. Il mondo di Cavour è dunque quello occidentale di Inghilterra e Francia, non quello prussiano o zarista. Il suo modo di impostare il problema del rapporto fra ordine, progresso e libertà, del modo in cui si può riuscire, cioè, a mutare, innovare, cambiare, senza aprire le cateratte a forze incontrollabili, è un modo saldamente liberale. Non vi è momento della carriera politica di Cavour nel quale egli ritenga, per esempio, di potere o dovere derogare autoritariamente dal principio del governo parlamentare. [...] Relativamente alla problematica operativa e non solo ideale, vediamo ora, per concludere, come Cavour potesse rifarsi, nel suo confronto con l’Europa, a un’entità Italia e non al solo Piemonte. [...] Furono le ferrovie – grande simbolo dell’idea di progresso – il tema che, per la sua sostanza non localistica, fece maturare in Cavour il
1. L’insurrezione del luglio 1830. 2. William Brockedon (1787-1854), pittore,
scrittore e inventore britannico.
3. Parola francese (in italiano “civilizzazione”)
che si lega al concetto di progresso e indica il processo che conduce un popolo dallo stato selvaggio e barbaro alla civiltà.
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Per la prima volta Cavour, in quello scritto del 1846, parla di indipendenza nazionale della «Italie», della prospettiva di uno Stato della Valle del Po, dunque di un vero mutamento politico, per quanto ancora circoscritto. [...] L’imperativo era non restare indietro rispetto all’Europa che progredisce. Ma come mantenersi al passo? Non certo isolandosi. Né arroccandosi in un protezionismo [...]. L’unica strada era quella dell’inserimento nell’espansione europea e dell’incremento di domanda che questa determinava, attraverso il libero scambio. L’effetto sarebbe stato molteplice: il paese avrebbe venduto all’estero più prodotti per i quali vi era specializzazione e competitività; le produzioni manifatturiere interne sarebbero state sollecitate dalla concorrenza alla maggiore produttività e competitività; i consumatori avrebbero tratto benefici da ribassi nei prezzi al consumo per effetto delle riduzioni daziarie; investitori stranieri – particolarmente importanti per le costruzioni ferroviarie e per i prestiti pubblici – sarebbero stati attratti dalle prospettive generali di crescita del paese; le finanze dello Stato sarebbero state compensate – forse anche più che compensate – della perdita per i minori introiti daziari im-
mediati, dagli effetti di gettito derivanti dalla crescita del reddito. Questo, in poche parole, il «modello di sviluppo» cavouriano per il Piemonte degli anni Cinquanta. Si trattava di un modello di sviluppo che avviava un’armoniosa integrazione del Piemonte, come del resto dell’Italia settentrionale, nel mutamento europeo. Ancora nel suo ultimo grande discorso alla Camera, prima della morte, quando parlò non come politico piemontese ma come primo ministro del governo italiano – siamo alla data del 27 maggio 1861 – Cavour tracciò, del tutto fedele al suo «modello di sviluppo», una strategia della futura crescita economica italiana. Quel modello che si basava sul principio liberista delle «industrie naturali» era estraneo a misure protezionistiche ed era una continuazione della linea di sviluppo allora in atto e da lui promossa [...]. Essa aveva infatti permesso di integrare le risorse economiche di un paese in posizione di periferia relativa, entro la dinamica della Europa in corso di industrializzazione. 4. L’Étude des chemins de fer en Italie (Studio sulla ferrovia in Italia) fu pubblicato nel maggio 1846 sulla «Revue nouvelle», rivista edita a Parigi.
PALESTRA INVALSI 1. L’espressione «Cavour scoprì l’Italia come carenza d’Europa» significa che... [ ] a. l’Italia era uno Stato forte e che poteva essere indipendente dall’Europa. [ ] b. l’Italia era un’entità politica ancora carente, secondo i maggiori uomini politici europei, e tale sarebbe rimasta. [ ] c. all’Europa mancava, per diventare una realtà politica forte, l’esistenza dello Stato italiano [ ] d. l’Italia poteva diventare una realtà statale, ma era mancante di qualcosa rispetto all’Europa.
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problema italiano come problema nazionale. Un ragionamento, il suo, che è la conclusione logica e articolata della nitida visione che già in gioventù – come abbiamo visto – si era venuta formando di un’«Europa in marcia» e di un’«infelice Italia» rimasta indietro. Con l’idea di progresso egli aveva, poi approfondito la percezione dell’ineguaglianza geografica dello sviluppo economico e della differenziazione del mondo in paesi che «marciano alla testa del processo di civilisation» e paesi che «nella marcia ascensionale dei popoli moderni sono rimasti attardati». [...] La locomotiva era proprio il progresso che si muoveva attraverso il mondo, e con essa la nuova macchina a vapore, cioè quella scoperta che «per l’ampiezza delle sue conseguenze» gli appariva comparabile solo a quella della stampa o alla scoperta del continente americano. Leggendo, nel suo scritto, Des chemins de fer en Italie4, il quadro dei progetti dello sviluppo ferroviario italiano che si susseguono, minuziosi, nei dettagli e nella concreta considerazione dei vantaggi e delle difficoltà, città per città, regione per regione, sembra di vedere una grande carta geografica che si viene illuminando pezzo dopo pezzo, su una parete, in attesa dell’applauso finale.
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2. Il messaggio più importante del testo è che... [ ] a. Cavour era un liberista. [ ] b. Cavour sognava di costruire una solida rete ferroviaria in Italia. [ ] c. il libero scambio, per Cavour, era uno strumento per l’Italia per non restare indietro in Europa. [ ] b. Il modello politico cui Cavour si ispira è quello di Francia e Inghilterra.
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STORIOGRAFIA 67 L. Riall, Garibaldi. L’invenzione di un eroe, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 243-45; 353; 369-70.
La rappresentazione della guerra del 1859 ebbe un’importanza cruciale per dar vita a un culto di dimensioni europee per Garibaldi, e fu una componente essenziale per la costruzione del mito del «risorgimento» italiano, una narrazione completa, ricca di personaggi, in parte inventata e in parte riferita a fatti storici. Garibaldi sembrava simboleggiare tutto ciò che vi era da ammirare (di giusto, di eroico, di poetico) nella lotta per l’indipendenza italiana, ed esercitò un richiamo sufficiente a mobilitare attorno all’idea di nazione interi settori della società italiana (in particolare nei contesti urbani). Sulla popolarità di Garibaldi non sembra esservi il minimo dubbio. Forse ci possiamo interrogare sull’attendibilità delle numerose cronache riferite alle dimostrazioni di entusiasmo patriottico [...], in quanto molte di esse furono scritte in un secondo tempo e con un evidente intento politico. Il gran numero di articoli, libri e immagini relativi a Garibaldi sono, in ogni modo, una prova evidente della diffusione del culto per il personaggio e del suo successo commerciale [...]. Altrettanto significativa è la sua notorietà internazionale. Oltre che in Italia, anche negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Olanda, in Germania, in Svizzera e soprattutto in Francia vennero pubblicate biografie e testi di altro tipo, i cui particolari vennero copiati e riprodotti da scrittori di lingue e paesi diversi. Questa letteratura costituisce un chiaro segno di come a metà Ottocento esistesse una «comunità» di lettori liberale e cosmopolita, a carattere internazionale ma impegnata in lotte di rivendicazione nazionale nelle quali rappresentava idealmente se stessa. Si deve ricordare che questo culto di Garibaldi non coinvolgeva esclusivamente gli uomini. Sebbene non si sappia quasi niente su chi effettivamente fossero i lettori di queste biografie, un numero significativo di
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L. Riall Il mito di Garibaldi Giuseppe Garibaldi (1807-1882), l’«Eroe dei due mondi», è certamente uno dei personaggi più popolari della storia italiana, ben conosciuto anche al di fuori della penisola. Intorno a lui, già negli anni in cui era in vita, si costruì un vero e proprio mito, come mostra la storica britannica Lucy Riall (nata nel 1962), studiosa del Risorgimento italiano, in un volume dedicato interamente all’“invenzione” della figura eroica di Garibaldi nel corso dell’800. Per l’autrice, a far nascere il mito contribuirono sia il carisma e le effettive capacità militari di Garibaldi, sia l’entusiasmo che molti intellettuali e scrittori dell’epoca suscitarono intorno a lui e alle sue imprese. In questo brano, in particolare, Riall analizza il momento in cui si afferma definitivamente il mito: la guerra del 1859 e, soprattutto, la spedizione dei Mille. coloro che le scrissero erano donne. [...] Si può inoltre ritenere che almeno alcune di queste opere fossero destinate anche a un pubblico femminile; la particolare attenzione che molte di esse dedicano alla sensibilità e alla sensualità del protagonista, alle sue storie d’amore e al suo rapporto con Anita1 sembrano indicare una preoccupazione degli autori per un tipo di lettore che, se non esclusivamente femminile, era chiaramente interessato non tanto alle battaglie e alle gesta audaci, quanto a qualcosa d’altro, o di più. [...] Dal punto di vista politico Garibaldi aveva una dote particolare, quella di saper sfruttare il proprio carisma personale per influenzare e ispirare la collettività, e nel 1859-60 aggiunse a ciò una grandiosa serie di vittorie militari. Allo stesso tempo, questi concreti successi vennero sostenuti, celebrati e reinterpretati dalla sua controparte immaginaria, generata dagli articoli e dalle biografie che venivano modellati in base a uno specifico complesso di priorità politiche e di regole letterarie. [...] Nel 1859 [...] fra il capo politico e l’eroe letterario non venne stabilita una chiara distinzione. Accadeva così che nelle descrizioni e nelle «vite» di Garibaldi le fonti documentarie fossero a seconda dei casi utilizzate, ignorate o infiorettate per produrre un racconto immaginario che risultava tanto più potente quanto più appariva vero. Nella primavera del 1860, quando Garibaldi si imbarcò per la Sicilia, l’originario obiettivo mazziniano di creare un eroe che simboleggiasse e rendesse visibile l’esistenza di un popolo italiano poteva dirsi pienamente realizzato. Tuttavia il suo vasto successo non fu privo di problemi. Da un punto di vista politico, la posizione di Garibaldi non era affatto chiara; il suo scopo, almeno per Cavour, era mascherare la Realpolitik del 18592, e vale la pena di ricordare che in questa
fase gran parte dei dirigenti moderati aborriva la sua capacità di attirare a tal punto l’attenzione pubblica. E in effetti si assisté a una sorta di deliberato tentativo di offuscarne il culto, fenomeno questo ampiamente dimostrato dall’iconografia del 1859, con le sue innumerevoli versioni di un imbarazzato Garibaldi in uniforme da generale3. Allo stesso tempo, questa versione più blanda dell’eroe non riuscì mai a oscurare del tutto il bandito pittoresco, che ricomparve in vario modo nelle illustrazioni del tempo e nelle biografie parzialmente romanzate, e il cui messaggio politico aveva un significato molto più sovversivo [...] Nel Garibaldi immaginario è possibile osservare una tendenza a fluttuare in modo autonomo rispetto ai politici, o ad adottare una logica e un tipo di vita del tutto personali. [...] Le biografie uscite fra il 1859 e i primi del 1860 furono anche strumenti di intrattenimento, i cui specifici elementi dipendevano dall’abilità del singolo scrittore e dalle richieste dei lettori. In altre parole, nel 1859 il culto di Garibaldi venne confezionato ed elaborato con modalità tali da renderlo, se non altro, meno soggetto ad essere controllato dall’alto da quanti in Italia erano impegnati nella costruzione della nazione. Per i moderati italiani e le
1. Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva
(1821-1849), nata in Brasile, prima moglie di Garibaldi, morta durante la fuga seguita alla fine della Repubblica romana. 2. Termine tedesco che indica la prassi di prendere decisioni politiche valutando solo gli interessi concreti, anche in modo cinico e opportunistico. A proposito degli eventi italiani del 1859, il riferimento va alla politica di Cavour, il quale intendeva attirare e mobilitare, a sostegno dei piani politici del Piemonte e dei moderati liberali, anche le forze più democratiche e popolari. 3. Imbarazzato perché inquadrato in un esercito regolare e sottoposto ai suoi ordini, non più capo di formazioni autonome e volontarie.
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autorità piemontesi, già preoccupati della sua statura di capo militare, la dimensione popolare e fantastica del fascino politico che egli esercitava costituiva un ulteriore problema, e che forse in parte può spiegare l’origine di una variante nel culto per la sua persona, secondo la quale egli non risultava adatto alla politica4. Questa impostazione, destinata a consolidarsi negli anni seguenti, implicava sia un riconoscimento della forza di Garibaldi che un tentativo di ridimensionarne, e quindi di contrastarne l’importanza. [...] Il numero e l’entusiasmo dei volontari sono il segno che Garibaldi nel 1859-60 aveva centrato almeno uno dei suoi obiettivi politici. Dal 1848 in poi i suoi discorsi, le sue apparizioni e la sua azione avevano dato vita a una tradizione di volontariato nell’Italia settentrionale e centrale; egli cioè aveva creato e diffuso un ethos5 e un ideale nazional-militare rispetto al quale una parte della popolazione ora si sentiva appassionatamente e praticamente vincolata. Il fatto che la partecipazione alla guerra in Sicilia fosse da molti percepita come una vicenda nella quale dimostrare la propria appartenenza nazionale e la propria fede politica è confermato anche dal loro linguaggio. Gli scriventi6 non si limitavano a chiedere di unirsi a Garibaldi, ma tenevano a mettere in mostra
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D. Beales, E.F. Biagini, Il Risorgimento e l’unificazione dell’Italia, il Mulino, Bologna 2015, pp. 196-98.
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La più famosa di tutte le donne combattenti fu la sudamericana Anita Garibaldi, che infranse tutte le convenzioni europee del suo tempo sulla rispettabilità femminile per seguire ovunque il suo vulcanico sposo. Come altre donne «virili»1, ella fu anche una sorta di «femminista» nel senso moderno del termine. In realtà, la militanza
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la propria familiarità col discorso nazionale. Così leggiamo che i siciliani sono «sgraziati»7 e «nostri fratelli», al cui grido di libertà bisogna rispondere (e a fine giugno la Sicilia è ormai «una terra di Eroi»); i Borboni sono «vili», «tiranni oppressori, nemici della nostra nazionalità, ed indipendenza», mentre Garibaldi è il «nostro Generale», «il nostro Leonida»8, il «prode» e «illustre» «Eroe di Varese»9 e «della libertà italiana». Gli scriventi stessi [...] si definiscono «ardenti», desiderosi solo di offrire le loro vite per la «sacra» o «santa» causa della libertà italiana. [...] Garibaldi fu l’artefice del proprio personaggio, ma non fu l’unica fonte ad alimentare il culto che lo riguardò. Nel vasto teatro che nel 1860 caratterizza la produzione del culto garibaldino – simboli e associazioni, discorsi e giornali, memorie, romanzi, drammi teatrali e lettere – non è sempre chiaro chi controllava chi, o quali fossero in questo processo comunicativo i soggetti che trasmettevano e quelli che ricevevano. La creazione del culto di Garibaldi può forse essere più esattamente definita, riprendendo le parole di Marjan Schwegman10 come «un’opera d’arte dinamica, prodotta da tanti uomini e donne diversi con modalità interattive, in un contesto spiccatamente internazionale», un prodotto che era politico in quanto
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promuoveva e ispirava l’adesione a un progetto politico che si riteneva «il pubblico dovesse replicare nell’ambito della propria vita». 4. Non adatto alla politica “parlamentare” ma
soltanto all’azione militare.
5. Etica, morale. 6. I volontari che scrissero a Garibaldi e ai
suoi collaboratori militari lettere nelle quali chiedevano di arruolarsi nelle formazioni garibaldine. 7. Disgraziati, in quanto sotto il dominio dei Borbone. 8. Il re spartano che combatté per la difesa delle Termopili nel 480 a.C. a capo di trecento uomini contro l’esercito di Serse, trovando la morte in battaglia. 9. Città dove nel corso della seconda guerra d’indipendenza (maggio 1859) Garibaldi aveva ottenuto un successo militare alla testa di una formazione di volontari. 10. Marjan Schwegman (nata nel 1951), storica olandese.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega per iscritto quali media alimentarono il mito di Garibaldi, a chi erano destinati e da cosa è possibile comprenderlo. b. Descrivi per iscritto il Garibaldi immaginario e il rapporto esistente con quello reale e con la politica. c. Cerchia le parole significative del linguaggio patriottico ispirato a Garibaldi e presente nelle lettere dei volontari..
D. Beales • E.F. Biagini Patriote straniere Il carattere internazionale del Risorgimento è ben rappresentato dalla partecipazione di molti volontari stranieri al movimento di lotta per l’indipendenza nazionale italiana e dal fascino che questa ebbe su molti intellettuali, scrittori e uomini politici europei. Tra questi, anche numerose “patriote straniere”, come vengono definite in questo brano da due storici, il britannico Derek Beales (nato nel 1931) e l’italiano Eugenio Federico Biagini (nato nel 1958), autori di un volume sull’unificazione dell’Italia pubblicato per la prima volta nel 2005. Si tratta di donne provenienti da tutta Europa, in particolare dalla Francia e dalla Gran Bretagna, ma anche da altre parti del mondo, come dagli Stati Uniti, che abbracciarono politicamente la causa italiana, combatterono in prima fila per questa e si unirono sentimentalmente a celebri protagonisti del Risorgimento. patriottica fu spesso solo un aspetto di un impegno più vasto nei confronti di una serie di riforme sociali e politiche. Ciò è più evidente nel caso delle garibaldine inglesi e americane: ricettive verso il vangelo mazziniano della «sorellanza2 delle nazioni», e affascinate dall’impetuosa leadership di Garibaldi, esse infusero nei volontari
una dose supplementare di intransigente idealismo. Alcune di loro – come
1. «Virili» perché la militanza politica e la partecipazione alle battaglie erano ritenute attività maschili, mentre proprio alla mancanza di virilità era addebitata la decadenza del popolo italiano. 2. Femminile di “fratellanza”.
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Anita Garibaldi e Rosalie Montmasson Crispi3 – vennero coinvolte attraverso i rispettivi mariti. Molte altre, tuttavia – tra cui Elizabeth Barrett Browning, Barbara Leigh Smith, Caroline Stansfeld ed Emilia Ashurst Venturi (la traduttrice inglese delle opere di Mazzini)4 – abbracciarono la causa per puro entusiasmo personale. Questa adesione poteva prendere la forma quasi di una conversione religiosa. Gli esempi più rilevanti sono forse quelli dell’americana Margaret Fuller Ossoli e dell’inglese Jessie White Mario5. Entrambe provenivano da solide famiglie borghesi con forti tradizioni religiose nell’ambito del nonconformismo radicale6. Entrambe sposarono patrioti italiani, ma il loro interesse per la causa precedette il loro coinvolgimento sentimentale, e i loro matrimoni furono alleanze politiche oltre che affettive. Margaret Fuller, una trascendentalista americana7 e nota giornalista, fu corrispondente del «New York Tribune» durante la rivoluzione romana del 1848-49. Dopo il suo appassionato coinvolgimento nella causa repubblicana, a cui diede il suo contributo sia come giornalista sia come infermiera, lasciò Roma prima del ritorno del papa. Perse la vita insieme al marito nel naufragio della nave su cui facevano ritorno negli Stati Uniti nel 1850. Jessie White, un’indomita garibaldina [...], ebbe un legame molto più lungo con l’Italia. Figlia di un ricco imprenditore nonconformista, Jessie, nel 1854, mentre studiava a Parigi, conobbe Emma Roberts, una ricca vedova inglese ammiratrice di Garibaldi, che la invitò ad accompagnarla in un viaggio in Italia. All’epoca Jessie – una convinta liberale – era già giornalista freelance e scrittrice. La sua formazione era stata influenzata dal pensiero di George Dawson, il grande predicatore congregazionalista radicale8, il cui vangelo fondato su dovere, self-help9 e riforme sociali era molto vicino a quello di Mazzini. In effetti, era stato proprio da Dawson, ammiratore e sostenitore dell’esule italiano, che Jessie aveva sentito parlare per la prima volta di Mazzini. Dopo aver trascorso sei settimane con Garibaldi, Emma Roberts e Jessie White si recarono a Firenze, dove conobbero i Browning, Barbara Leigh Smith e altri residenti britannici. Nei circoli dell’alta società toscana, esse incontrarono un clima di grande ammirazione nei confronti del Piemonte e di Cavour, ma fin dall’inizio Jessie
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si schierò con il «partito» democratico. Nel 1855 ritornò in Inghilterra portando con sé Ricciotti10, uno dei figli di Garibaldi, che aveva bisogno di cure mediche specialistiche. Dopo aver aderito alla «Society of the Friends of Italy», cercò di iscriversi alla facoltà di medicina, che pensava le avrebbe consentito di svolgere un ruolo attivo e «femminile» nell’allora già prevedibile nuova guerra contro l’Austria: ma il suo tentativo di ottenere una formazione accademica fallì quando l’Università di Londra respinse la sua domanda. [...]. Nel 1857 ripartì per l’Italia, apparentemente come corrispondente del «Daily News». Gli operai di Genova e di Torino l’accolsero come un’eroina, ma all’indomani di una rivoluzione fallita ella venne imprigionata insieme ad altri democratici. In carcere conobbe Alberto Mario, un rifugiato veneziano che aveva ospitato Mazzini a Genova. Dopo un corteggiamento romantico, Jessie e Alberto si sposarono civilmente in Inghilterra nel dicembre dello stesso anno. Fu l’inizio di un’unione anticonvenzionale, femminista, che durò per oltre venticinque anni, fino alla morte di Alberto nel 1883. Nel 1858-59 Jessie si imbarcò per un fortunato giro di conferenze negli Stati Uniti, in parte sotto l’egida della lobby antischiavista di William Lloyd Garrison11. Nel frattempo, sotto l’influenza di suo marito, convertitosi al federalismo, aveva maturato un certo scetticismo nei riguardi del repubblicanesimo centralista di Mazzini. Nell’estate del 1859 i Mario tornarono in Italia, dove frequentarono Carlo Cattaneo, il leader federalista. Nel giugno 1860 partirono per la Sicilia su una nave a vapore opportunamente chiamata Washington, che trasportava rinforzi, armi e rifornimenti per le truppe di Garibaldi. Finalmente Jessie fu in grado di svolgere un ruolo attivo nel servizio di ambulanza garibaldino [...], mentre Alberto si unì alle truppe [...]. Dopo il successo della spedizione e la proclamazione del regno d’Italia, continuò a essere coinvolta nelle attività politiche e militari garibaldine. Nel 1862 fu l’infermiera che aiutò il chirurgo a estrarre il proiettile dalla caviglia di Garibaldi in Aspromonte. Successivamente lo accompagnò nella campagna in Tirolo (1866), alle riunioni della Lega della Pace e della Libertà a Ginevra12 e nella spedizione del 1870 a sostegno della neoproclamata repubblica francese in guerra contro
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la Prussia. [...] Pubblicò molti libri, tra cui biografie critiche e penetranti di Garibaldi, Mazzini e altri patrioti.
3. Rosalie Montmasson (1823-1904), francese,
proveniente da una famiglia contadina si trasferì per motivi economici a Torino nel 1849, dove conobbe il suo futuro marito, l’avvocato siciliano Francesco Crispi (1818-1901), patriota repubblicano e democratico, futuro presidente del Consiglio negli anni tra il 1887 e il 1896. Con lui partecipò alla spedizione dei Mille. 4. Elizabeth Barrett Browning (1806-1861), poetessa inglese che si stabilì a Firenze col marito Robert (1812-1889), anch’egli poeta; Barbara Leigh Smith Bodichon (1827-1891), inglese, educatrice e attivista per i diritti delle donne; Caroline Ashurst Stansfeld (1816-1889), attivista inglese, intrattenne una fitta corrispondenza con Mazzini e, insieme al marito James (1820-1898), uomo politico, fondò nel 1851 la Society of the Friends of Italy, associazione a sostegno della causa risorgimentale italiana; Emilia Ashurst Venturi (1819-1893), sorella di Caroline, sposata al patriota veneto Carlo Venturi. 5. Margaret Fuller (1810-1850) sposò a Roma nel 1847 il marchese Angelo Ossoli (1821-1850), mazziniano e appartenente a una famiglia nobiliare decaduta; Jessie White (1832-1906), sposata allo scrittore e patriota italiano Alberto Mario (1825-1883). 6. Movimento formato da puritani dissidenti che rifiutavano di conformarsi alle pratiche della Chiesa anglicana. 7. Il trascendentalismo è un movimento filosofico e poetico sviluppatosi negli Stati Uniti dall’inizio del XIX secolo, che si opponeva al razionalismo ed esaltava l’originalità della cultura americana in rapporto a quella europea. 8. George Dawson (1821-1876). Il congregazionalismo è un movimento religioso di teologia calvinista, animato da un radicale spirito autonomistico e democratico: si diffuse in Inghilterra a partire dal XVI secolo e, in seguito, soprattutto in Nord America. 9. Il puntare sulle proprie forze e le proprie capacità [126]. 10. Ricciotti Garibaldi (1847-1924), quarto figlio di Anita e Giuseppe Garibaldi. 11. William Lloyd Garrison (1805-1879), giornalista statunitense, fondò nel 1843 la Società antischiavista americana. 12. La Lega della Pace e della Libertà si riunì per la prima volta al congresso di Ginevra del 1867, e vide l’adesione di importanti esponenti di diverso orientamento politico, provenienti da tutta l’Europa e il mondo.
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PALESTRA INVALSI 1. L’espressione «Come altre donne “virili”, ella fu anche una sorta di “femminista”» significa che... [ ] a. le donne che parteciparono ai moti risorgimentali lottarono per diritti maschili (virili) e femminili [ ] b. si fa riferimento a donne che, con gli stessi strumenti utilizzati dalle femministe in seguito, lottavano “da uomini” per i diritti delle donne. [ ] c. Anita Garibaldi compiva azioni ritenute maschili e rivendicava la libertà di poter esercitare i diritti delle donne. [ ] d. Anita Garibaldi, come le altre donne, rientrava nel novero delle donne simbolo della decadenza d’Italia (priva di virilità reale).
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2. Un messaggio importante del testo è che... [ ] a. Anita Garibaldi era la moglie di Garibaldi. [ ] b. le donne che combatterono durante il Risorgimento lo fecero solo per accompagnare i propri mariti. [ ] c. la presenza di patriote straniere conferma il carattere internazionale del Risorgimento italiano. [ ] b. le garibaldine inglesi e americane erano affascinate dalle teorie di Mazzini e dalla leadership di Garibaldi.
STORIOGRAFIA 69 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. III, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 945-48.
Si è detto che lo Stato unitario, proprio perché disegnato alla luce della cultura politica della Restaurazione, era già vecchio al momento della sua fondazione, nel 1860. E certamente il movimento operaio organizzato, l’avvento delle masse, la cultura attivistica, l’espansione coloniale e l’imperialismo restarono in larga misura estranei all’orizzonte mentale di un Cavour. Ma all’uomo politico spetta di risolvere i problemi della sua epoca, non quelli dell’avvenire: al quale egli contribuisce soprattutto creando realtà nuove che pongono nuovi problemi. Al superamento della propria epoca Cavour contribuì avviando a compimento la soluzione della questione italiana, che aveva costituito uno dei grandi temi della vita europea nella prima metà del secolo, a livello dei movimenti rivoluzionari e delle relazioni internazionali fra gli Stati. Insieme con la Germania di Bismarck, anche se con un peso assai minore, l’Italia unita sarà il grande fatto nuovo nell’Europa degli ultimi decenni del secolo XIX; e la sua esistenza come Stato agirà profondamente sulle vicende delle nazionalità dell’impero asburgico nel successivo cinquantennio e dopo la caduta della Duplice Monarchia. Fu la creazione del regno d’Italia a rendere del tutto anacronistici i
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R. Romeo I valori dello Stato unitario Nella Conclusione della sua grande biografia di Cavour – di cui si riporta un brano – lo storico liberale Rosario Romeo (1924-1987) svolge alcune considerazioni che non riguardano solo l’opera dello statista piemontese ma tracciano un bilancio sul significato dell’unità italiana. Per Romeo i difetti e i limiti del processo risorgimentale e dello Stato unitario – tante volte sottolineati dalla storiografia – non possono far dimenticare il fatto che il 1861 segna un momento di indubbio progresso. Al raggiungimento dell’Unità si accompagnano il ritorno dell’Italia tra le potenze europee, la nascita di un’etica laica e moderna, la formazione di valori politici basati sul nuovo sentimento nazionale. tentativi mazziniani di dar vita a una impossibile riedizione del 1848 negli anni successivi al 1860. E, per quanto riguarda la vita interna dell’Italia, è persino superfluo insistere sul carattere più avanzato dello Stato liberale nei confronti della società che era chiamato a governare. La libertà politica ed economica, avviando l’industrializzazione del paese e ponendo le premesse di una moderna vita politica, rese essa stessa possibile il tramonto del «mondo dei savi», la creazione di nuove élite, lo sviluppo del movimento operaio, i successivi allargamenti del suffragio elettorale e la lenta integrazione delle masse socialiste e cattoliche nello Stato, come si scorgerà nel momento della crisi più profonda della vita nazionale italiana, dopo il 1945. Nel processo di sviluppo dello Stato italiano andarono certamente perdute molte cose che Cavour aveva tentato di salvare, a cominciare dalla egemonia di quei ceti terrieri illuminati di cui egli stesso era stato l’esponente maggiore: ma ciò appartiene alla logica di tutti i movimenti davvero portatori di avvenire. [...] Nonostante il senso che poi si avvertì di delusione e sconforto, nel raffronto degli ideali della vigilia con la realtà delle molte miserie e dei molti problemi dell’Italia unita, non sarebbe
legittimo identificare l’età successiva alla fine del potere temporale come l’avvento di un’epoca di scetticismo e di crisi dei valori. Allora cominciò ad affermarsi nella società italiana, pur con molte remore e limitazioni, l’etica della civiltà moderna, laica e terrena, e si avviò a prendere il posto della vecchia morale cattolica, dapprima negli strati borghesi e cittadini e più tardi nell’ambiente rurale e nei centri minori così numerosi nella penisola. E fra i nuovi valori un posto sempre più ampio occupavano i valori politici, da secoli presso che assenti dalla vita italiana ma che ora cominciavano ad alimentarsi del nuovo sentimento di sé che, nonostante tutte le polemiche, cominciava a riempire gli animi dei migliori fra gli italiani. Da gran tempo essi erano avvezzi a restare esclusi dalle più serie ed energiche manifestazioni della vita europea, dai conflitti delle potenze alla nascita del moderno capitalismo commerciale e industriale, ed erano rimasti spettatori delle grandi battaglie di idee del mondo moderno, e intenti al vano culto delle glorie passate – se si eccettuano personalità singole ed esigue minoranze culturali, la cui opera non era mai riuscita, nella mancanza di un adeguato contesto sociale e
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politico, a tradursi, come invece riusciva altrove, in concrete realtà della vita nazionale. Sullo sfondo del nuovo sentimento nazionale erano possibili sfumature diversissime, che tuttavia esprimevano una nuova coscienza politica, nella quale confluivano insieme la mazziniana idea di nazione e la tradizione militare di Casa Savoia. E soprattutto, questa nuova coscienza politica si caratterizzava con l’identificazione, tenacemente perseguita e profondamente radicata nel ceto dirigente risorgimentale, della idea di nazione e di quella di libertà, sì che l’una appariva concreta realizzazione e sostegno dell’altra. E non a caso la nuova Italia, erigendo il monumento a quel re nella cui figura si vedeva simboleggiata tutta la rinascita nazionale, volle dedicarlo insieme «all’unità della patria» e «alla libertà dei cittadini», a quell’unione dei due termini nella quale si concreta l’ideale etico-politico trasmesso dalla generazione del Risorgimento a quelle che governarono
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l’Italia unita fra il 1860 e il 1922. Certo, ideali siffatti sono sempre condivisi, nella loro integrità, solo da ridotte minoranze: ma nell’Italia liberale essi furono tuttavia operanti abbastanza per costituire la cornice ideale e l’ispirazione morale sulla quale si fondavano i nuovi princìpi direttivi della vita politica e civile, e che tutti si riassumono nel senso severo del bene pubblico, nella coscienza del dovere verso il paese, avvertito e praticato con maggiore o minore purezza, ma indiscusso come supremo criterio regolativo delle coscienze. Su questo fondamento si formò un ceto di servitori dello Stato, funzionari, militari, magistrati, insegnanti, dignitosamente consapevoli di sé e della propria funzione; una cultura che nella ispirazione nazionale della scuola carducciana trovò lo strumento più valido per tradurre i propri valori in cerchie più estese; una borghesia di professionisti, di tecnici e dirigenti economici impegnati a realizzare una società italiana di tipo moderno.
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Le molte ombre del quadro dell’Italia unita non possono nascondere il significato di queste nuove realtà morali e non consentono, neppure come paradosso, di dubitare del salto in avanti che la nuova collettività nazionale aveva compiuto in confronto alla realtà sonnacchiosa degli staterelli preunitari, che dietro la facciata quieta e aggraziata celavano tante miserie e tanta impotenza.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega per iscritto i seguenti punti affrontati nel testo: a. contributo di Cavour al superamento della propria epoca; b. cambiamenti a livello nazionale e internazionale legati alla creazione del Regno d’Italia; c. le cause del senso di sconforto dopo l’Unità d’Italia; d. il valore del monumento al primo re d’Italia. b. Sottolinea con colori diversi le “ombre” dell’Italia unita e i nuovi princìpi della vita politica e civile che in essa si afferma.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Scrivi un testo argomentativo sul ruolo dell’eroe nella costruzione dell’identità nazionale facendo riferimento ai brani di Banti [Ź62], Mazzini [Ź63], d’Azeglio [Ź64], Riall [Ź67]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerali in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. 2. Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente dal titolo Le correnti politiche del Risorgimento italiano, facendo riferimento alla seguente scaletta: • Mazzini e l’insurrezione nazionale [Ź63] • L’orientamento moderato: d’Azeglio e Cavour [Ź64 e ŹLEGGERE LE FONTI p. 380] • Cattaneo e la soluzione federale [Ź65] Lo storico racconta 3. Dopo aver letto i brani di Mazzini [Ź63], Cafagna [Ź66], Cavour [ŹLEGGERE LE FONTI p. 380], Romeo [Ź69], scrivi un testo chiaro e coeso in cui descrivi la visione che Cavour aveva dell’Italia, il progetto e la visione politica che questi aveva elaborato, il peso politico che aveva acquisito e gli eventi che hanno condizionato tutti questi aspetti. Prima di procedere con la scrittura, realizza uno schema basato sulle informazioni contenute nei testi e utilizzalo come scaletta per il tuo elaborato. Scegli un taglio e un titolo.
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Classi sociali e innovazioni produttive Tra il 1850 e il primo decennio del ’900 profonde trasformazioni sociali riguardano le realtà più avanzate dell’Occidente: ascesa della grande borghesia degli affari e dell’industria, vistosa crescita della classe operaia, ampliarsi dei ranghi della piccola borghesia degli impiegati e dei funzionari. A queste dinamiche sociali corrispondono importanti mutamenti economici, in particolare un’espansione di molti nuovi settori delle attività produttive (acciaio, elettricità, chimica) che hanno importanti ricadute sulla vita quotidiana: dalle nuove architetture urbane che ridisegnano il volto delle città alla lampadina elettrica, al telefono, al motore a scoppio, infine al cinematografo. La seconda metà dell’800 è segnata infatti dall’incessante sviluppo delle invenzioni e delle loro applicazioni nelle attività produttive: una fase a cui è stato dato il nome di seconda rivoluzione industriale.
GLI EVENTI
Verso i consumi di massa Con la seconda rivoluzione industriale nascono le premesse delle profonde trasformazioni dei consumi individuali e collettivi del ’900: mentalità, consumi e stili di vita, un tempo
tipici di un’esigua minoranza, si diffondono tra strati sociali sempre più larghi, tendendo a uniformarsi, grazie anche a un progressivo aumento dei salari e del reddito pro capite. Ora anche operai e piccoli impiegati, sotto gli stimoli dei primi cartelloni pubblicitari, possono acquistare nei grandi magazzini abiti e oggetti decorativi prodotti in serie. Si tratta di fenomeni di lungo periodo che accrescono il loro carattere nel corso del ’900 e fino ad oggi. L’ideologia del progresso Parallelamente, intorno alla metà dell’800, si afferma una nuova tendenza culturale e una mentalità, il positivismo, che ha tra i suoi fondamenti una visione ottimistica del futuro del genere umano, confermata dallo sviluppo economico e dalle conquiste della scienza. Tra gli scienziati ha un ruolo decisivo il naturalista inglese Charles Darwin: la sua teoria dell’origine e dell’evoluzione delle specie, sganciata da ogni visione religiosa e ancorata all’osservazione scientifica, rovescia una concezione millenaria del mondo e dell’uomo. La rivoluzione darwiniana partecipava al trionfo di una concezione razionale e controllabile della realtà in una linea di ininterrotto progresso.
LA RETE FERROVIARIA IN EUROPA (1850-1870)
1852-70 Ristrutturazione urbanistica di Parigi a opera di Haussmann
1864 Costituzione a Londra della Prima Internazionale. Emanazione dell’enciclica Quanta cura e del Sillabo
1859 Pubblicazione dell’opera di Ch. Darwin L’origine delle specie, in Gran Bretagna 1873-95 Caduta dei prezzi 1856 Henry Bessemer brevetta il convertitore per la produzione di acciaio
1850
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1860
1870
1879 Invenzione della lampadina elettrica da parte di T.A. Edison 1879-80 Inizio della crisi agraria in Europa
1885 Realizzazione delle prime automobili
1880
1876 Invenzione del primo motore a scoppio da parte di N. Otto
1889 Seconda Internazionale. Esposizione universale di Parigi
1890
1896-1913 Aumento dei prezzi e dei salari nei paesi industrializzati
1900
1910
1920
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Fare storia Borghesia e classe operaia, p. 461
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Il Libro Eric J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia
Storia, società, cittadinanza La famiglia e le sue trasformazioni
Focus La casa borghese e la donna • Il romanzo sociale • La comunicazione istantanea: il telegrafo
Lezioni attive Innovazioni industriali e di organizzazione del lavoro
I caratteri della borghesia Le rivoluzioni del ’48-49 si erano concluse con un totale fallimento. Nessuno degli esperimenti democratici aveva retto all’urto dell’ondata restauratrice. I vecchi sovrani erano tornati sui loro troni dappertutto, salvo che in Francia (dove però l’istituto monarchico era stato ripristinato sotto altra forma: [Ź10_9]. Le istituzioni rappresentative erano state quasi ovunque cancellate o soffocate dal ritorno dei metodi assolutistici. Al clima di generale conservatorismo e alla sostanziale staticità delle strutture politiche faceva però riscontro un processo di profondo mutamento della società: un processo che aveva per principali protagonisti i ceti borghesi, ma che coinvolgeva anche, sia pure più lentamente, le classi proletarie. Tra il 1850 e il 1870 la borghesia europea conobbe una stagione di crescita e di affermazione. Nonostante fosse ancora condizionata dalla persistenza delle vecchie gerarchie sociali e fosse pesantemente sacrificata nella distribuzione del potere, la borghesia riuscì in questo periodo a presentarsi come portatrice e depositaria degli elementi di novità e trasformazione – lo sviluppo economico, il progresso scientifico –, a far valere la sua influenza e le sue idee-guida: il merito individuale, la libera iniziativa, la concorrenza, l’innovazione tecnica.
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LE STRATIFICAZIONI DELLA BORGHESIA Chi erano i protagonisti di questa fase della storia europea, che non a torto è stata definita come «età della borghesia»? Allora come oggi il termine “borghesia” serviva a definire una gamma molto ampia di figure e posizioni sociali. Al vertice si collocavano i magnati dell’industria e della finanza, che aspiravano ad assumere gli stili di vita tipici dell’aristocrazia e, dove ciò fosse possibile, a mescolarsi con essa grazie
STORIA IMMAGINE Pierre-Auguste Renoir, Il pomeriggio dei bambini a Wargemont 1884 [Alte Nationalgalerie, Berlino] La tela del pittore impressionista Renoir ci propone una scena domestica di pomeriggio nel salotto di casa: la madre intenta in una tipica occupazione femminile (il cucito), le figlie alle prese con bambole e libri. Nonostante il taglio ravvicinato dell’inquadratura, si
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intuisce un caratteristico interno borghese: non fastoso come le dimore aristocratiche né altrettanto spazioso, ma molto curato nei dettagli. L’atmosfera di serena intimità fra le figure rimanda da un lato al ruolo di educatrice della donna all’interno della famiglia borghese, dall’altro ricorda l’emergere nell’800 di una nuova attenzione verso il mondo dell’infanzia.
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soprattutto ad accorte politiche matrimoniali che univano i privilegi del denaro a quelli del lignaggio. Al di sotto si collocavano i gruppi e le categorie sociali che più propriamente si possono definire borghesi. Innanzitutto i ceti “emergenti”, la cui fortuna era legata allo sviluppo dell’industria e del commercio: imprenditori e dirigenti d’azienda, mercanti e banchieri. Accanto a loro, la borghesia più tradizionale: quella che traeva i suoi proventi dalla terra, quella che esercitava le professioni (avvocati, medici, ingegneri) e quella che occupava i gradi medio-alti della burocrazia statale. Un gradino più in basso si situavano impiegati e insegnanti, piccoli commercianti e piccoli professionisti: insomma quell’area dai confini non ben definiti che già allora veniva indicata come ceto medio o piccola borghesia. Nel complesso, la borghesia costituiva una fascia piuttosto ristretta della popolazione: in Gran Bretagna, intorno al 1870, i borghesi in senso lato non erano più del 20%; e la percentuale scendeva al 2% circa se si prendevano in considerazione solo gli strati urbani superiori (senza contare, dunque, il ceto medio e la borghesia agraria).
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LO STILE BORGHESE Nonostante la varietà delle sue componenti, la borghesia europea tendeva a esprimere una propria cultura e un proprio stile di vita, i cui tratti essenziali si possono ricondurre a un modello unitario. Lo stile di vita borghese doveva essere visibile nei segni esteriori. Ad esempio, nell’abbigliamento, cui uomini e donne delle classi superiori dedicavano molta cura e che rappresentava, assai più di quanto accade oggi, il principale segno distintivo di una condizione sociale. Grandi cure erano destinate anche all’arredamento. Le abitazioni borghesi non avevano certo lo sfarzo né l’ampiezza dei palazzi aristocratici. Requisiti tipici della casa borghese erano piuttosto la solidità e la razionalità senza sprechi degli spazi e delle funzioni domestiche. All’interno, però, l’abbondanza degli addobbi, dei quadri e dei soprammobili, l’attenzione al particolare e il gusto della decorazione rivelavano l’esigenza di tradurre il successo e la ricchezza in simboli visibili e tangibili. Accanto a questa esigenza – e nonostante l’adozione dei modelli aristocratici, presenti soprattutto negli strati superiori – i valori fondamentali dell’etica
STORIA IMMAGINE Ź Jean Béraud, La Pasticceria Gloppe 1889 [Musée Carnavalet, Parigi]
Giuseppe De Nittis, In tribuna 1881 [Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma] ŹŹ
In abiti eleganti e alla moda la borghesia ottocentesca si lancia alla conquista di luoghi e momenti di divertimento fino ad allora riservati ai nobili. Le corse dei cavalli, i concerti, le feste da ballo, ma anche semplicemente frequentare luoghi
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considerati alla moda come la Pasticceria Gloppe sugli Champs Élysées, a Parigi: sono tutte occasioni ideali in cui far sfoggio della propria eleganza e della raggiunta posizione sociale.
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società/famiglia patriarcale È detto “patriarcale” un sistema sociale che si basa sull’autorità del più anziano dei discendenti maschi (in opposizione a “matriarcale” in cui il predominio è della donna); allo stesso modo la famiglia patriarcale è il nucleo familiare diretto dall’autorità del più anziano, generalmente il padre.
Storiografia 70 J. Kocka, La cultura borghese, p. 461
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e della cultura borghese restavano quelli tradizionali. L’austerità, la moderazione, la propensione al risparmio, la capacità di reprimere gli istinti erano le virtù capitali per il borghese-tipo, quelle che gli permettevano di legittimare moralmente la propria posizione nella società. Questa componente moralistica si rifletteva in particolare nella struttura della famiglia: una struttura patriarcale* basata sull’autorità del capofamiglia e sulla subordinazione della donna. Nella società borghese, la donna era generalmente esclusa dalle attività lavorative anche se aveva un ruolo decisivo nella sfera privata della tutela della famiglia e della cura dei figli.
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MORALE E RISPETTABILITÀ Come si giustificava l’intransigenza borghese in materia di morale familiare e sessuale? Proprio in quanto protagonista di un’ascesa sociale recente, priva di una consolidata accettazione, la borghesia doveva costruire e difendere un’immagine di rispettabilità (che non derivava, come per gli aristocratici, dall’appartenenza a un ordine privilegiato) e doveva quindi dotarsi di quei saldi princìpi morali che ne giustificavano la nuova posizione sociale. In realtà, non tutti i borghesi praticavano scrupolosamente queste virtù: le cronache della borghesia ottocentesca pullulano di speculatori disonesti, di
LEGGERE LE FONTI
Samuel Smiles, Una ideologia borghese: aiuta te stesso S. Smiles, Aiutati che Dio t’aiuta!, Napoli 1912, pp. 3-4; 7
Nella seconda metà del XIX secolo ebbe larga diffusione in tutta Europa l’ideologia del self help (“aiuta te stesso” o, meglio, “aiutati che Dio t’aiuta”), resa popolare dalle opere del giornalista scozzese Samuel Smiles (1812-1904), che presentavano storie di uomini di umili origini che riuscivano a raggiungere i massimi successi. La
filosofia del self help, basata sulla fiducia nella capacità dell’individuo di costruirsi il proprio destino al di là delle proprie origini familiari, esprimeva bene i valori della cultura borghese ottocentesca. Il seguente brano riporta alcuni passi caratteristici dell’opera più celebre di Smiles, intitolata, appunto, Self Help (1859).
«Chi s’aiuta Dio l’aiuta» è il vecchio adagio che chiude in breve cerchia una vasta esperienza. Il contare sopra se stessi è radice feconda nell’individuo; diffuso in molti, è sorgente di vigore nazionale. L’aiuto che vien di fuori spesso infiacchisce, ma quel che da noi stessi deriva rianima e tempra. Checché si faccia a pro di singoli uomini o di classi, attenua in certo modo lo stimolo e la necessità dell’iniziativa; e dovunque gli uomini son soggetti a una guida, che per loro pensi e provveda, accade inevitabilmente ch’essi diventino inetti ad agir da sé. Anche le migliori istituzioni non sono di aiuto efficace all’individuo. Tutt’al più, gli daranno la libertà di svilupparsi e di migliorare la propria condizione. […] Le biografie dei grandi, e specialmente dei buoni, sono molto istruttive ed utili, come aiuto, guida, incentivo. Alcune fra le migliori equivalgono quasi ad un vangelo, come quelle che inspirano nobiltà ed energia di atti e di pensieri per il bene individuale e generale. Gli esempi autorevoli che vi si riscontrano di iniziativa, proposito paziente, lavoro assiduo, integrità incrollabile, come fattori di nobili e virili caratteri, mostrano all’evidenza quanto possa ciascuno far da sé, con le proprie forze, e mettono in luce l’efficacia del rispetto individuale e della fiducia in sé, perché anche i più umili raggiungano, a furia di sforzi, uno stato onorevole e una salda riputazione. I grandi uomini, scienziati, letterati, artisti, apostoli di grandi idee e di nobili sentimenti non appartennero ad una classe esclusiva. Vennero dai collegi, dalle officine, dalle fattorie, dalle capanne dei poveri e dalle magioni dei ricchi. Alcuni fra i maggiori apostoli emersero dalle file dei semplici militi. I più poveri conquistarono a volte i posti più elevati, né furon loro d’ostacolo le difficoltà apparentemente più insuperabili. Queste anzi, in molti casi, furon loro di ausilio, spronandoli al lavoro e alla sopportazione, e destando speciali e sopite energie. PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Per quale ragione l’autore non ritiene conveniente il supporto di un sostegno esterno all’individuo? b Quali insegnamenti possono offrire all’umanità le biografie dei personaggi più eccelsi, in particolare sul piano morale?
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c Quali fattori rendono possibile, a giudizio di Smiles, l’ascesa sociale anche degli individui provenienti dai ceti economicamente più svantaggiati?
d Quali argomenti l’autore porta a sostegno della sua convinzione che anche gli individui più umili possono accedere ai gradi più elevati della considerazione sociale?
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avventurieri senza scrupoli, di individui dalla doppia moralità. Ma l’idea secondo cui solo certe doti morali potevano garantire il mantenimento o il miglioramento delle posizioni acquisite era largamente accettata (e difesa spesso da una larga dose di ipocrisia.
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LA POVERTÀ COME PECCATO Ne discendeva la convinzione, ampiamente condivisa e ripetutamente enunciata, secondo cui chi occupava i gradini inferiori della scala sociale era colui che di quelle doti era sprovvisto. In altre parole, la povertà era un difetto morale o quanto meno il frutto di colpe ataviche. I poveri rimanevano poveri perché non conoscevano l’arte del risparmio e non erano in grado di dominare i loro bassi istinti. Così veniva spiegata, fra l’altro, la diffusione tra le classi subalterne della delinquenza, dell’alcolismo, della prostituzione. Al contrario, si pensava che chiunque possedesse accortezza, moderazione e capacità di sacrificio potesse raggiungere i traguardi più ambiziosi, in termini di ricchezza e di rispettabilità.
Personaggi Darwin e la teoria evoluzionistica, p. 424
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La cultura del positivismo •
OTTIMISMO BORGHESE E PROGRESSO SCIENTIFICO Profondamente convinto della validità dei suoi princìpi e fiducioso nelle proprie capacità, il borghese europeo della seconda metà dell’800 era anche animato da una illimitata certezza nel progresso generale dell’umanità. Questo diffuso ottimismo poggiava soprattutto su due pilastri: lo sviluppo economico [Ź14_3] e le conquiste della scienza. Negli anni 1850-70, la chimica, la fisica, la biologia e tutte le scienze della natura conobbero importanti progressi teorici e tornarono a occupare, come nell’età dell’Illuminismo, una posizione di preminenza nell’ambito della cultura europea [Ź15].
• IL POSITIVISMO Sui progressi della scienza si fondò essenzialmente una nuova corrente intellettuale, il positivismo, che cominciò ad affermarsi verso la metà del secolo e venne poi allargando la sua influenza fino a contrassegnare una lunga stagione della cultura occidentale e diventare una sorta di mentalità diffusa, un metodo generale di ricerca e di interpretazione della realtà. Il positivismo fu prima di tutto un indirizzo filosofico che considerava la conoscenza scientifica – quella basata su dati “positivi”, cioè reali, oggettivi – come l’unica valida e applicava i metodi delle scienze naturali a tutti i campi dell’attività umana, dall’arte all’economia, dalla psicologia alla politica. LE PAROLE DELLA STORIA
Progresso Nel linguaggio comune, “progresso” è sinonimo di “avanzamento” o di “sviluppo”. In termini storico-filosofici, credere nel progresso significa pensare che il corso della storia sia necessariamente orientato verso un graduale miglioramento della condizione umana, verso un aumento del benessere materiale o della ricchezza spirituale dei singoli e della collettività. L’idea moderna di progresso è
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nata con l’Illuminismo: tipica della cultura illuministica è infatti una concezione laica della storia, che considera la natura umana in grado di perfezionarsi e la felicità realizzabile nel mondo degli uomini (e non solo nell’aldilà). Ma è certamente l’epoca del positivismo quella in cui l’ideale di progresso ha conosciuto la sua maggiore affermazione, fino a costituire il nucleo centrale della cultura borghese nella seconda metà dell’800. Per i positivisti il progresso è il risultato di leggi
insite nello sviluppo storico, più che della volontà dei singoli (gli uomini possono tutt’al più agire per accelerare il progresso o per rallentarlo). Ma si tratta di leggi scientifiche, analoghe a quelle che regolano l’evoluzione del mondo naturale; e l’accento è posto non tanto sul progresso “spirituale”, quanto sullo sviluppo tecnico e materiale. Questa idea di progresso è entrata in crisi alla fine dell’800, assieme a tutto il sistema culturale e filosofico legato al positivismo.
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Il pensatore francese Auguste Comte (1798-1857) fu il fondatore della nuova filosofia e il primo a tracciare i lineamenti di una “scienza della società”, ossia della moderna sociologia. In seguito il filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903) ne elaborò un’interpretazione in chiave evoluzionistica, fondata sulla convinzione che mondo sociale e mondo biologico obbedissero a leggi analoghe, che trovò largo seguito soprattutto nel mondo anglosassone. Dal settore degli studi filosofici il positivismo venne allargando la sua influenza a tutti gli altri campi del sapere. Fra i maggiori esponenti della cultura positivista si annoveravano infatti studiosi di economia e di politica, giuristi, storici, letterati e soprattutto scienziati. Ÿ Charles Darwin, fotografia di Julia Margaret Cameron 1868 Il saggio L’origine delle specie per selezione naturale (1859) è un clamoroso successo editoriale. L’intera tiratura della prima edizione dell’opera viene esaurita lo stesso giorno della sua comparsa nelle librerie. Entro il 1885 ne saranno stampate 28 mila copie (in un periodo di alfabetizzazione relativamente bassa) e diverse traduzioni nelle principali lingue.
P
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DARWIN. UNA NUOVA STORIA DEL GENERE UMANO Il rappresentante più significativo e più noto del nuovo spirito “positivo” fu appunto uno scienziato: il grande naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882). In un’opera dal titolo L’origine delle specie, uscita nel 1859 e diventata subito celebre, Darwin formulò, sulla base di lunghe osservazioni scientifiche sul mondo animale, una compiuta teoria dell’evoluzione, destinata a divenire pietra miliare degli studi biologici successivi. Secondo questa teoria, la natura è soggetta a un incessante processo evolutivo, guidato da un meccanismo di selezione naturale che determina la sopravvivenza (e la riproduzione) degli individui meglio attrezzati per reagire alle sollecitazioni dell’ambiente e la scomparsa degli elementi meno adatti. L’uomo stesso, secondo Darwin, non è che il risultato dell’evoluzione di organismi più elementari, l’ultimo anello di una catena biologica che procede dai protozoi fino ai mammiferi più complessi. La teoria evoluzionistica contraddiceva le credenze religiose sulla creazione dell’uomo direttamente ad opera della divinità e forniva gli elementi per una storia del genere umano radicalmente alternativa a quella offerta dalle Sacre Scritture. In questo modo il darwinismo si inseriva nel quadro più generale della cultura “positiva”, che
PERSONAGGI
Darwin e la teoria evoluzionistica Appena ventiduenne, Charles Darwin (nato nel 1809 vicino Birmingham), dopo aver interrotto gli studi di medicina si avviò alla carriera ecclesiastica a Cambridge; appassionatosi alle scienze naturali, salpò nel dicembre 1831 a bordo del brigantino Beagle alla volta del Brasile; da lì avrebbe poi circumnavigato l’emisfero meridionale per fare ritorno in Inghilterra dopo cinque anni, nel 1836. Questa esperienza decisamente avventurosa, nel quadro complessivo di una vita che da lì in avanti sarebbe trascorsa per Darwin in maniera tranquilla, fu da lui stesso definita come l’evento più importante della sua vita: sulla base di quell’esperienza avrebbe elaborato la teoria dell’evoluzione, destinata a cambiare radicalmente, con l’idea dell’origine umana, la scienza e la cultura occidentali. Dopo aver contribuito a scardinare il vecchio ordine di valori, nell’era dell’in-
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dustrializzazione le sue tesi sulla selezione naturale avrebbero travalicato di gran lunga l’ambito scientifico per diventare una componente essenziale dei valori ideologici e culturali della borghesia, accanto al liberismo economico e all’idea di progresso. Al suo ritorno in Inghilterra Darwin iniziò a trascrivere le sue riflessioni in una serie di taccuini segreti che contengono i fondamenti della sua teoria, che nel 1839 era già delineata. In anni in cui neanche i pensatori più radicali ammettevano la possibilità che le specie più complesse potessero derivare da quelle più semplici – e meno che mai che ci fosse qualcosa in comune tra la specie umana e gli animali – Darwin arrivava alla conclusione che l’uomo discende per selezione da specie precedenti. Era come proclamare un’eresia. Infatti, la teoria darwinia-
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tendeva a liberare l’uomo da ogni forma di condizionamento soprannaturale, a immergerlo completamente nel mondo della natura, a sostituire le certezze delle religioni rivelate con quelle delle scienze esatte.
• IL DARWINISMO SOCIALE Se da un lato la teoria dell’evoluzione si prestava a essere interpretata in chiave ottimistica, come prova della possibilità di progresso indefinito della specie umana, dall’altro il principio della selezione naturale poteva essere utilizzato per consacrare il diritto del più forte nei rapporti fra gli individui, tra le classi e anche fra gli Stati. Una concezione divenuta popolare alla fine dell’800, anche per le sue implicazioni razziste, e definita dai suoi oppositori come «darwinismo sociale».
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Lo sviluppo dell’economia All’ascesa della borghesia corrispose, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’70, un periodo di forte espansione economica non solo nel nuovo settore industriale, ma anche in quello tradizionale dell’agricoltura: entrambi si avvantaggiarono dello sviluppo delle ferrovie, che favorirono la circolazione e lo scambio delle merci e aprirono anche le campagne alla penetrazione dell’economia di mercato.
•
I FATTORI DELLO SVILUPPO Diversi sono gli elementi portanti che concorrono a sostenere questa fase di sviluppo. Alcuni sono nuovi, altri rappresentano l’applicazione diffusa o il perfezionamento di fattori già presenti soprattutto in Gran Bretagna. Sul piano produttivo questa è l’età del ferro (o più precisamente della ghisa) e del carbone, e la macchina a vapore costruita in ferro e alimentata a carbone
na – compiutamente esposta nel saggio L’origine delle specie pubblicato solo nel 1859 – metteva in discussione l’immutabilità delle specie, e quindi l’idea stessa della creazione divina. Essa si basava su due concetti fondamentali, la selezione naturale e l’adattamento: all’interno di ogni specie esiste una variabilità tra i soggetti che ne rende alcuni più adatti a sopravvivere, ad essere quindi oggetto di selezione naturale e ad avere maggiori possibilità di trasmettere il proprio baŻ Caricatura di Darwin [«The London Sketch Book»] Darwin ricevette in vita numerosi riconoscimenti, sia da parte del pubblico sia da parte di istituzioni scientifiche internazionali, ma la sua teoria sull’evoluzione della specie provocò nella Chiesa anglicana, nel governo britannico e generalmente presso i conservatori un forte sdegno, che si espresse spesso in forma satirica. Alla sua morte, dunque, fu solo per istanza di una minoranza parlamentare che il suo corpo fu sepolto nell’Abbazia di Westminster, tra i grandi d’Inghilterra.
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gaglio genetico, determinando un ininterrotto cambiamento all’interno di ogni specie; ma anche una selezione tra specie diverse, in ragione della loro capacità di adattamento. Un simile approccio aveva conseguenze di enorme portata: l’ordine della natura appariva frutto del caso e della lotta per la sopravvivenza più che di un disegno provvidenziale, la specie umana perdeva la sua posizione privilegiata e da diretta emanazione divina al centro della creazione si ritrovava ad essere discendente di un mollusco bisessuato e senza testa, semplice anello di una lunga catena. Darwin, consapevole che le implicazioni del suo lavoro oltrepassavano l’ambito strettamente scientifico, con una inevitabile ricaduta sul piano religioso, sociale e politico, fece la scelta del silenzio: sposatosi nel 1839 con una cugina, si ritirò in una proprietà di campagna nel Kent, Down House, una specie di eremo dove avrebbe vissuto per tutta la vita, coltivando gli studi e schivando abilmente le visite. Da allora
Darwin, che aveva accettato di pubblicare il libro solo per l’insistenza degli amici, evitò accuratamente ogni dibattito pubblico. La difesa delle sue tesi fu assunta da Thomas Henry Huxley (1825-1895), scienziato e discepolo di Darwin, che si fece appassionato promotore dell’evoluzionismo. Nel 1860, in occasione di una sessione dell’Associazione britannica per il progresso delle scienze in cui si dovevano discutere le sue tesi, Darwin gli scriveva: «Onore al vostro fegato: io sarei morto prima di tentare di rispondere al vescovo in un’assemblea come quella». Di lì a poco la Royal Society, la più prestigiosa istituzione scientifica inglese, avrebbe conferito a Darwin il massimo riconoscimento, evitando però di menzionare nelle motivazioni la teoria sull’evoluzione, a riprova della delicatezza dell’argomento. Solo alla data della sua morte, nel 1882, le polemiche erano ormai sopite, tant’è che Darwin venne seppellito nell’Abbazia di Westminster, con tutti gli onori, accanto a Newton.
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vi svolge un ruolo da assoluta protagonista: sia come forza motrice nelle fabbriche, che abbandonano la ruota idraulica e si convertono alla meccanizzazione alimentata dal vapore, sia come locomotiva nelle ferrovie e come motore per la navigazione [Ź14_4]. Fra il 1850 e il 1870, la potenza in cavalli vapore delle macchine fisse per l’industria crebbe di tre volte in Gran Bretagna, di cinque volte in Francia, di quasi dieci volte in Germania. Questi dati suggeriscono che lo sviluppo economico avvantaggiava le “nuove” potenze industriali – la Francia del Secondo Impero e la Germania in via di unificazione – consentendo loro di ridurre il divario che le separava dalla Gran Bretagna.
• LE NUOVE NORMATIVE E IL LIBERO SCAMBIO Nell’Europa centro-orientale, dove più forti erano le sopravvivenze dell’antico regime, furono smantellati gli ordinamenti corporativi che regolamentavano l’esercizio dei mestieri ostacolando la mobilità del lavoro e l’innovazione tecnologica. Furono definitivamente abrogate le vecchie leggi (mai seriamente applicate) che proibivano il prestito a interesse. A questa larga liberalizzazione, risultata dalla rimozione dei vincoli giuridici, si affiancava la diffusione del libero scambio. Nel giro di pochi anni caddero le numerose barriere che si frapponevano alla libera circolazione delle merci: dazi interni e soprattutto ai confini fra gli Stati. Una serie di trattati commerciali, che prevedevano forti riduzioni delle tariffe doganali, fu stretta tra le principali potenze europee. Il libero scambio favorì in primo luogo la Gran Bretagna che, grazie al suo ruolo di maggiore potenza industriale e commerciale, poteva offrire i suoi prodotti a prezzi competitivi sui mercati stranieri; ma finì col giovare anche agli altri paesi europei, in quanto, provocando la scomparsa delle imprese meno attrezzate per reggere alla concorrenza, favorì la modernizzazione dell’apparato produttivo.
STORIA IMMAGINE Jules Arnout, La Banca d’Inghilterra, la Borsa valori e la Residenza del sindaco a Londra 1840-68 [Library of Congress, Washington] Questa litografia illustra il centro di Londra verso la metà dell’800 con le carrozze, i calessi e i pedoni impegnati a sbrigare i propri affari nel cuore al City. C’è chi va al Royal Exchange, la Borsa valori a sinistra del disegno, chi va e viene dalla Mansion
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House, la residenza ufficiale – in stile neoclassico, al centro – del sindaco della City, e chi passeggia a ridosso della Bank of England (lungo il margine destro della stampa), il più importante centro finanziario dell’Inghilterra.
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società per azioni Una S.p.A. è un ente a carattere economico nel quale i soci detengono dei titoli azionari come quote di proprietà o di partecipazione. I proprietari delle azioni hanno diritto di partecipare agli utili sotto forma di dividendi che la società distribuisce annualmente fra gli azionisti.
Storiografia W. Schivelbusch, La stazione
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CAPITALI E BANCHE Un ruolo decisivo giocò in questa fase lo sviluppo delle organizzazioni finanziarie. Da un lato si moltiplicarono le società per azioni*, che permettevano agli imprenditori di ridurre il rischio degli investimenti e di sopperire al bisogno di capitale raccogliendolo fra numerosi sottoscrittori. Dall’altro le banche assunsero una funzione decisiva nel promuovere lo sviluppo, incanalando i capitali disponibili verso gli investimenti produttivi. Nacquero a questo scopo, soprattutto in Francia e in Germania, “banche di investimento” (o “banche d’affari”), la cui funzione principale non consisteva tanto nel fornire prestiti a breve termine per operazioni commerciali, quanto nel sostenere iniziative di ampio respiro con finanziamenti a lunga durata. Fu questo il caso delle banche di credito mobiliare sorte nella Francia del Secondo Impero o delle banche miste tedesche, chiamate così perché svolgevano contemporaneamente due funzioni: quella tradizionale della raccolta del risparmio e dell’offerta di credito a breve termine e quella nuova dell’investimento a lungo termine nelle imprese industriali.
La rivoluzione dei trasporti 4 e delle comunicazioni La costruzione di linee ferroviarie, treni e navi a vapore fu certamente un prodotto della rivoluzione industriale, ma al tempo stesso contribuì potentemente ad alimentarla. La rivoluzione dei trasporti non ebbe solo conseguenze di ordine economico, ma influenzò significativamente abitudini e modi di pensare della gente comune: dei borghesi che commerciavano o viaggiavano per istruzione e per turismo, ma anche dei ceti popolari (lavoratori che emigravano, manovali impiegati nelle costruzioni ferroviarie, contadini che vendevano i loro prodotti sul mercato). La stessa immagine del mondo cambiò radicalmente, com’era avvenuto ai tempi delle grandi scoperte geografiche; e l’idea di un mondo unito, le cui parti erano legate fra loro da stretti rapporti di interdipendenza, cominciò a farsi strada nella coscienza di molti.
Storiografia 80 A. Giuntini, Le ferrovie, p. 474
• IL BOOM DELLE FERROVIE All’inizio degli anni ’50 esistevano in tutto il mondo circa 40 mila km di ferrovie: 15 mila negli Stati Uniti e 25 mila in Europa (di cui 11 mila nella sola Gran Bretagna). Dieci anni dopo, l’estensione della rete ferroviaria mondiale era quasi triplicata (110 mila km, di cui più del-
STORIA IMMAGINE Frontespizio del Giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne [Edizione Hetzel; Collezione privata] I progressi tecnici dei trasporti spinsero gli esploratori fino ai confini più remoti. Nacque in questo periodo la
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figura del “viaggiatore”, incarnata dal protagonista del romanzo di Verne, Phileas Fogg: la sua impresa testimoniava come la navigazione a vapore, il telegrafo, la ferrovia mettessero ormai in comunicazione quasi tutto il globo.
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LO SPAZIO DELLA STORIA
LA RETE FERROVIARIA NEGLI STATI UNITI D’AMERICA NEL 1870
32
MINNESOTA WISCONSIN
MASSACHUSETTS
ILLINOIS Territorio di WASHINGTON
IOWA
NEW HAMPSHIRE
MICHIGAN
VERMONT
INDIANA Territorio del MONTANA
OHIO
NEW YORK
Territorio del DAKOTA
OREGON Territorio dell'IDAHO
MAINE RHODE ISLAND
Territorio del WYOMING
CONNECTICUT PENNSYLVANIA NEW JERSEY DELAWARE
Territorio del NEBRASKA NEVADA Territorio dello UTAH
MARYLAND
KANSAS
WEST VIRGINIA VIRGINIA
RN
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Territorio del COLORADO
SA N
CAROLINA DEL NORD
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OKLAHOMA
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Territorio del NUOVO MESSICO
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MISSOURI Territorio dell’ARIZONA
LO
GEORGIA
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TEXAS
CAROLINA DEL SUD
FLORIDA ALABAMA
MISSISSIPPI
telegrafo Il telegrafo elettrico è un apparecchio trasmittente che, aprendo e chiudendo i contatti di un circuito elettrico, consente di inviare messaggi a un apparecchio ricevente. Realizzato dall’americano Samuel Finley Morse (17911872), il telegrafo utilizza uno speciale alfabeto fatto di punti e linee detto, dal nome del suo inventore, «alfabeto Morse». Tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900, il fisico italiano Guglielmo Marconi (1874-1937) inventò un tipo di telegrafo senza fili che trasmetteva e riceveva utilizzando le onde radio o elettromagnetiche. Nel 1901 Marconi riuscì a trasmettere segnali attraverso l’Atlantico. transazione finanziaria Operazione di compravendita di strumenti finanziari: valute, azioni, obbligazioni (cioè titoli di credito emessi da una società privata), titoli di Stato (obbligazioni emesse dallo Stato per far fronte al debito pubblico).
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TENNESSEE
KENTUCKY
la metà nel Nord America). La crescita continuò, con un ritmo di poco inferiore, nei due decenni successivi, favorita dai grandi progressi dell’ingegneria civile, che permisero di superare gli ostacoli naturali e di portare le linee ferroviarie anche nelle zone più impervie. Nel 1871 con l’inaugurazione del primo grande traforo delle Alpi, quello del Fréjus tra Francia e Italia, furono abbreviati di ventiquattr’ore i collegamenti con l’Europa del Nord. Ma gli sviluppi più spettacolari si ebbero negli Stati Uniti, dove le costruzioni ferroviarie accelerarono notevolmente la conquista dei territori dell’Ovest: nel ’69 fu aperta la prima linea transcontinentale da New York a San Francisco, fino ad allora raggiungibile solo via mare [Ź _32]. Fra il 1860 e il 1880, le ferrovie penetrarono in vaste aree dei continenti extraeuropei, soprattutto nelle colonie britanniche (India e Australia) e nell’America Latina.
• LA NAVIGAZIONE A VAPORE Più lenta fu l’affermazione del vapore nel campo dei trasporti marittimi. Nell’800, le navi a vela avevano raggiunto un notevole grado di efficienza: i clippers (velieri veloci impiegati per il trasporto transoceanico soprattutto di merci leggere come il tè e le spezie) battevano in velocità gli steamers, battelli a vapore inizialmente azionati da grandi ruote a pale e dotati di vele ausiliarie, appesantiti dall’esigenza di imbarcare il carbone necessario per alimentare le macchine. Perciò solo dopo il 1860, con l’introduzione dell’elica al posto della ruota e con la sostituzione degli scafi in legno con quelli in ferro, le navi a vapore furono potenziate e divennero decisamente competitive in termini di velocità, oltre che di capacità di carico, soprattutto nelle rotte verso l’Asia dopo l’apertura del Canale di Suez (1869) [Ź17_2], dove i velieri non potevano manovrare.
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STORIA IMMAGINE tonnellate di carico. Fu usata nella posa di cavi telegrafici: ben quattro attraverso l’Atlantico e uno attraverso l’Oceano Indiano, a partire dal 1866. Da allora i cavi telegrafici transatlantici si moltiplicarono rapidamente, rendendo possibile lo scambio di telegrammi tra l’Europa e gli altri continenti. La rete telegrafica mondiale passò dai 24 mila km del 1860 ai 1,9 milioni di km nel 1900, estendendosi in Africa, Asia e Oceania.
La nave a vapore Great Eastern nella posa del primo cavo telegrafico sottomarino nell’Atlantico 1865 [illustrazione di Robert Dudley per The Atlantic Telegraph di William Howard Russel (1866)] Varata in Inghilterra nel 1859, era la più grande nave dell’epoca (210 metri di lunghezza, 19 mila tonnellate di stazza); fu progettata per il trasporto di 4000 passeggeri e aveva spazio per oltre 6000
•
LA RIVOLUZIONE DELLE COMUNICAZIONI Contemporaneamente alla rivoluzione dei trasporti, un’altra trasformazione non meno radicale si ebbe nel campo della comunicazione dei messaggi, grazie alla diffusione del telegrafo*. Negli anni ’50 e ’60, tutti i paesi europei si dotarono di un sistema di comunicazioni telegrafiche. Nello stesso periodo, nuove tecniche di isolamento dei fili metallici consentirono la posa dei primi cavi telegrafici sottomarini: la Manica fu attraversata nel 1851, l’Atlantico nel 1866 [Ź _33]. La comunicazione dei messaggi era così svincolata per sempre dalla dipendenza dai mezzi di trasporto e la velocità di diffusione delle notizie aumentò in modo vertiginoso. Da allora diventò possibile concludere istantaneamente transazioni finanziarie* con paesi lontani, impartire direttive diplomatiche in tempi rapidissimi, guidare gli eserciti da zone distanti dal fronte. Una rivoluzione nella rivoluzione si verificò nel settore giornalistico, dove l’uso del telegrafo
Storiografia 81 A. Cavallari, Il giornale di massa, p. 475
LO SPAZIO DELLA STORIA
COMUNICAZIONI POSTALI E TELEGRAFICHE (1852-75)
Glasgow Amburgo Liverpool Manchester Londra
AMERICA DEL NORD Chicago San Francisco 45 giorni
New York Philadelphia 12 giorni
OCEANO PACIFICO
Parigi Napoli
Berlino Vienna Istanbul
St. Thomas 15 giorni Fernando Poo 26 giorni OCEANO ATLANTICO
Cavi telegrafici principali in funzione nel 1875 Tempo medio impiegato dalla posta per raggiungere l’Inghilterra nel 1852
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San Pietroburgo Mosca
Alessandria 13 giorni Tampico 29 giorni
Valparaíso 48 giorni Montevideo Buenos 42 giorni Aires 42 giorni
33
Trebisonda 20 giorni
Pechino CINA
Tokyo Shanghai 57 giorni (via Capo di Buona Speranza)
INDIA Calcutta 44 giorni Bombay (via Mediterraneo) 33 giorni (via Mediterraneo) Singapore 45 giorni OCEANO INDIANO
AUSTRALIA Città del Capo 33 giorni
Sydney 73 giorni NUOVA ZELANDA
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potenziò il ruolo delle agenzie di stampa, come la francese Havas, la britannica Reuters, la tedesca Wolff, l’italiana Stefani (fondata nel 1853 con l’appoggio di Cavour): fornendo notizie ad altri organi di informazione – quotidiani, riviste, ecc. –, esse divennero veicoli indispensabili per l’acquisizione e diffusione delle notizie in tempi rapidissimi da tutto il mondo.
5 Storiografia 74 A.J. Mayer, I limiti dell’egemonia borghese, p. 465
Dalle campagne alle città • IL MONDO RURALE Intorno alla metà dell’800, in tutta l’Europa continen-
tale erano i lavoratori della terra a costituire la grande maggioranza della popolazione attiva. Il mondo contadino presentava tuttavia forti differenze fra Stato e Stato e fra regione e regione. La Gran Bretagna, con una popolazione agricola formata in buona parte da lavoratori salariati, rappresentava un caso isolato. Così come un caso limite era costituito dalla Russia, con i suoi 20 milioni e più di servi della gleba, liberati solo nel 1861 [Ź18_7]. In Francia la tendenza all’aumento della piccola proprietà contadina, favorita in parte dalla rivoluzione del 1789, continuò a manifestarsi per tutto l’800. Negli Stati tedeschi e nei paesi dell’Impero asburgico una serie di leggi di emancipazione emanate fra il 1815 e il 1850 aveva gradualmente abolito le ultime forme di lavoro servile e avviato il processo di privatizzazione della terra. Diversi furono però i beneficiari di queste trasformazioni. Nel Sud e nell’Ovest della Germania, la scomparsa del regime feudale lasciò il posto alla piccola e media proprietà. Nelle regioni tedesche a est dell’Elba, nonché in buona parte dell’Europa orientale, la privatizzazione della terra andò invece a vantaggio dei grandi proprietari, mentre, per la maggior parte dei contadini, l’emancipazione significò semplicemente il passaggio dalla condizione di servi a quella di braccianti senza terra e non sempre comportò la rottura dei vincoli di subordinazione agli antichi signori. Una condizione in parte analoga, aggravata dalla scarsa produttività dei suoli, era quella in cui versavano i contadini del Mezzogiorno d’Italia e dell’intera Europa mediterranea. La situazione era ancora più complessa in altre zone del continente (Germania centrale, Italia centro-settentrionale, Austria, Boemia), dove coesistevano azienda capitalistica e piccola proprietà, lavoro salariato e mezzadria.
STORIA IMMAGINE Jean-François Millet, Le spigolatrici 1857 [Musée d’Orsay, Parigi] Per i contadini, la vita nei campi non è meno dura di quella degli operai in città: le spigolatrici erano donne autorizzate dal proprietario terriero a seguire i mietitori e a raccogliere le poche
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spighe rimaste. In questo famoso quadro, il pittore realista francese Millet mette in contrasto la fatica delle donne piegate in due in primo piano per una manciata di semi con i carri in secondo piano a sinistra, stracolmi e pronti per portare il raccolto a destinazione.
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• L’ABBANDONO DELLE CAMPAGNE I progressi, peraltro limitati, realizzati dall’agricoltura europea nel periodo di generale sviluppo economico degli anni ’50 e ’60 non valsero a modificare le condizioni di vita delle masse contadine. Quasi dappertutto i lavoratori agricoli versavano in condizioni di notevole disagio: i redditi erano bassi o bassissimi salvo rare eccezioni, l’alimentazione povera, l’analfabetismo diffuso, la partecipazione alla vita politica quasi inesistente. Dappertutto i ceti rurali costituivano l’elemento statico della società, quello più legato alle religioni tradizionali e alle consuetudini del mondo preindustriale. La novità più rilevante stava nel fatto che lo sviluppo industriale e la rivoluzione dei trasporti offrivano ai lavoratori della terra maggiori possibilità di allontanarsi dal luogo d’origine. Fra il 1840 e il 1870, milioni di lavoratori – in buona parte contadini poveri provenienti dalla Gran Bretagna e dall’Europa centrale – emigrarono per andare a dissodare le terre vergini del Nord America, dove trovarono condizioni più favorevoli e più occasioni per liberarsi dalla condanna alla povertà. Ancora più imponente fu, nello stesso periodo, il numero di coloro che abbandonarono definitivamente le campagne per trovare lavoro nelle città come manovali, muratori o operai di fabbrica.
urbanesimo/ urbanizzazione Il termine “urbanesimo” indica il processo di formazione delle città, e in particolare il loro progressivo sviluppo spaziale, demografico e sociale determinato dallo spostamento della popolazione dalle campagne e dall’immigrazione. “Urbanizzazione” è sinonimo di urbanesimo, ma si può riferire anche al tasso di diffusione delle città in un determinato territorio. Inoltre le “opere di urbanizzazione” indicano gli interventi indispensabili per rendere abitabile una località: reti stradali, fognature, sistemi di trasporto, reti idriche, elettriche, del gas, ecc.
• L’URBANESIMO Ebbe allora inizio quel grande processo storico che va sotto il nome di urbanesimo* e che avrebbe portato gradualmente la maggioranza della popolazione dei paesi sviluppati a trasferirsi dalle campagne nelle città. Intorno al 1850, la grande città – intendendo per grande città ciò che si intendeva allora, cioè un centro con almeno 100 mila abitanti – era ancora un fenomeno molto raro. Unica eccezione, la Gran Bretagna, dove già negli anni ’40 la popolazione urbana aveva uguagliato e superato quella rurale e dove, nel 1850, esistevano una trentina di grossi centri industriali. In Germania, invece, il pareggio tra i residenti in città e quelli in campagna venne raggiunto solo all’inizio del ’900, in Francia una trentina di anni dopo, in Italia solo a metà del XX secolo.
I NUMERI DELLA STORIA
CRESCITA DELLA POPOLAZIONE IN ALCUNE CITTÀ EUROPEE TRA 1800 E 1900 7
7.000.000 1800 6.000.000
1850 1900
5.000.000
[dati tratti da B.R. Mitchell, International Historical Statistics, vol. I, Europe 1750-1993, Macmillan-Stockton Press, LondonBasingstoke-New York 1998, pp. 74-76]
4.000.000 3.000.000 2.000.000 1.000.000 0 ra
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Nell’800 si moltiplicò il numero delle grandi città. Se all’inizio del secolo soltanto Londra aveva già superato il milione di abitanti, nel 1914 ben 22 città avevano oltrepassato quella soglia: 8 in Europa, 10 in Asia e 4 in America. Fu uno sviluppo impetuoso, stimolato in gran parte dall’espansione del commercio europeo nel mondo: anche in Asia, infatti, crebbero soprattutto le cosiddette “città-emporio”, ovvero i centri di scambio situati vicino alle foci di fiumi navigabili o ai terminali di linee ferroviarie, come Canton in Cina o Calcutta e Bombay in India.
• LE CITTÀ IN EUROPA E NEGLI STATI UNITI
Ÿ Claude Monet, Gare Saint-Lazare a Parigi 1877 [National Gallery, Londra]
Alla metà dell’800 Londra, con oltre 2 milioni e mezzo di abitanti, era di gran lunga la più grande metropoli del mondo e continuava a espandersi a un ritmo impressionante. In Francia, nello stesso periodo, le città con più di 100 mila abitanti erano solo sei, compresa Parigi, che superava ormai il milione. In Germania erano otto, fra cui Berlino, che raggiungeva appena i 400 mila residenti. Solo trent’anni dopo, la situazione era molto cambiata. In Francia e in Germania, il numero delle grandi città era più o meno raddoppiato. Le grandi capitali si erano ampliate a dismisura: Parigi era passata da poco più di 1 a oltre 2 milioni di abitanti, Berlino da 400 mila a oltre 1 milione, mentre Londra manteneva largamente il suo primato, superando i 4 milioni e mezzo. Alla base di questo fenomeno c’erano cause diverse, ma strettamente legate fra loro. In Gran Bretagna l’industrializzazione ridisegnò la geografia delle città, favorendo lo sviluppo di piccoli centri in passato ai margini della vita economica e sociale del paese: infatti Birmingham, Glasgow, Liverpool e Manchester avevano superato abbondantemente, alla metà dell’800, i 200 mila abitanti mentre un secolo prima nessuna di loro oltrepassava i 30 mila. In Francia e in Italia, invece, lo sviluppo delle città ebbe caratteri diversi sia per le peculiarità del sistema urbano dei due paesi, sia per il più lento sviluppo dell’industrializzazione: qui furono le città già preminenti durante l’ancien régime a registrare gli incrementi demografici più significativi, lasciando così quasi intatte le tradizionali gerarchie urbane. Nella seconda metà dell’800, furono soprattutto gli Stati Uniti a elaborare un nuovo modello di sviluppo della città, con la costruzione dei grattacieli e l’espansione dei sobborghi periferici. Questo nuovo modello era ben rappresentato da New York e Chicago. La prima passò da poco più di 50 mila abitanti all’inizio dell’800 a 3 milioni e mezzo nel 1900. La seconda fu protagonista di un vero e proprio boom demografico in solo mezzo secolo: dai 5 mila residenti nel 1850 a 1.700.000 nel 1900.
• I NUOVI CENTRI DELLA VITA URBANA L’ampliamento delle dimensioni urbane e le trasformazioni delle città avevano dato vita a nuovi centri che si affiancavano e si sostituivano a quelli tradizionali (la cattedrale, il municipio, la piazza del mercato). Punti di riferimento essenziali erano in primo luogo le stazioni ferroviarie, spesso costruite come grandiosi monumenti alla modernità dell’età industriale, poi la Borsa, i grandi magazzini, il tribunale e, nelle capitali, i palazzi dei ministeri. Attorno a questi poli si sviluppava il quartiere degli affari, che
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tendeva a svuotarsi dei suoi abitanti di condizione meno agiata e a riempirsi di uffici e di negozi. I ceti popolari espulsi dai centri storici andavano ad addensarsi, assieme ai nuovi immigrati, nelle grandi periferie, costruite completamente da zero o nate dall’assorbimento e dalla trasformazione di villaggi già separati dal centro principale, come i sobborghi che costituivano la “cintura operaia” di Parigi. Diventava sempre più netta la separazione fra le periferie operaie, sovraffollate, malsane, prive di servizi e spesso afflitte dal fumo delle fabbriche, e i quartieri residenziali borghesi, che erano situati in zone più amene e cominciavano a essere provvisti di acqua corrente e di impianti di riscaldamento centralizzato. Anche questa separazione costituiva una differenza importante rispetto alla città tradizionale, dove ricchi e poveri coabitavano nelle stesse strade e spesso nei medesimi edifici: i ricchi ai piani bassi, i poveri ai piani alti e nelle soffitte.
•
LE INFRASTRUTTURE URBANE Lo sviluppo urbano impose presto di affrontare i gravi problemi igienici e sanitari derivanti dal sovrappopolamento che favoriva la diffusione di malattie infettive – in primo luogo il colera e il tifo – e manteneva la mortalità a livelli molto elevati. Dovunque fu migliorata o ricostruita la rete fognaria e l’acqua potabile divenne più diffusa e più regolare, anche se doveva passare ancora parecchio tempo prima che la disponibilità di acqua corrente e di servizi igienici nelle case diventasse un fatto generalizzato. Le autorità pubbliche cercarono anche di facilitare gli spostamenti all’interno dell’area urbana. Le strade in terra, polverose d’estate e fangose d’inverno, furono sostituite dal selciato. I quartieri della periferia, bui e malsicuri nelle ore notturne, furono, come già il centro, illuminati da lampioni a gas. Attraversare la città divenne più facile anche per chi non disponeva di mezzi privati, grazie all’organizzazione di reti di trasporto pubbliche. Un caso unico era quello di Londra che, già negli anni ’70, aveva un efficiente sistema di ferrovie metropolitane. Ma in tutte le grandi città, molto prima dell’avvento delle metropolitane e
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 7
Gustave Doré I quartieri poveri di Londra sotto i viadotti ferroviari, 1872 [da W. Blanchard Jerrold, G. Doré, London. A Pilgrimage] Il pittore e incisore francese Gustave Doré (1832-1883), dopo due viaggi compiuti a Londra, pubblicò nel 1872 insieme al giornalista William Blanchard Jerrold (1826-1884) un libro illustrato intitolato London. A Pilgrimage (Londra. Un pellegrinaggio), che traccia una visione della Londra urbana, con le sue strade affollate, i sobborghi miseri e popolari, il lavoro minorile e il dramma del proletariato nella quotidiana povertà. In particolare, dalle incisioni emerge lo spettacolo di miseria e sofferenze offerto dagli slums, quartieri periferici pianificati dagli speculatori edilizi per i salariati dei sobborghi industriali delle grandi città inglesi, i cui edifici, di infima qualità, erano costruiti ignorando qualsiasi norma di igiene e sicurezza. GUIDA ALLA LETTURA a Osserva con attenzione l’incisione, quindi segna su di essa e descrivi al lato: a. gli elementi visibili che permettono di percepire il successo industriale di Londra; b. gli elementi che caratterizzano gli edifici abitativi; c. le persone e le attività in cui sono occupate.
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b Rispondi alle seguenti domande: a. Quanto e quale spazio occupano nell’immagine gli edifici e le persone? b. Chi ti sembra il soggetto dell’incisione? Perché? c. Quale messaggio ti sembra che Doré volesse trasmettere?
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delle tramvie elettriche, gli itinerari più importanti erano serviti dagli omnibus, grandi carrozze su rotaie trainate da cavalli. Man mano che l’area urbana si ampliava, si moltiplicavano i servizi commerciali (mercati, botteghe, grandi magazzini), i luoghi di svago e di riunione (teatri, caffè, ristoranti), i punti di riferimento culturali (scuole, musei, biblioteche), ma anche le istituzioni preposte al controllo sociale: uffici comunali, posti di polizia, tribunali, carceri.
•
AMMINISTRARE LE CITTÀ L’intervento sempre più sistematico dei pubblici poteri, statali e municipali; lo sviluppo di più ampi apparati burocratici per il governo delle città; la creazione di nuovi corpi di polizia sempre più numerosi e più “professionali”; la formazione di nuovi quadri tecnici (amministratori, architetti, ingegneri) specializzati nei problemi della convivenza urbana: tutto ciò servì a disciplinare i processi di urbanizzazione e ad attenuarne il carattere spontaneo, talora “selvaggio”. Pur conservando al suo interno squilibri giganteschi, la grande città tendeva a perdere il suo aspetto caotico e si avviava a diventare un sistema organizzato e funzionale, specchio della civiltà moderna e dei suoi progressi e al tempo stesso luogo di tutte le sue contraddizioni.
Storiografia P. Villani, Il rinnovamento della città Storiografia G. Zucconi, Parigi e Londra: due metropoli a confronto
Quattro esempi di rinnovamento urbano: 6 Parigi, Londra, Vienna e Chicago • LA PARIGI DI HAUSSMANN La ristrutturazione di Parigi negli anni ’60 dell’800 fu un esempio di intervento attuato dallo Stato, in base a un progetto consapevolmente studiato. Su incarico di Napoleone III, il prefetto Georges-Eugène Haussmann operò in profondità sul vecchio tessuto urbano,
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 8
Sezione di una strada di Parigi dopo il risanamento, XIX sec. [incisione su disegno di Edouard Renard, particolare; Musée Carnavalet, Parigi] L’incisione mostra la sezione di una strada parigina mettendo in luce, sotto il manto stradale, i tubi dell’acqua corrente, delle fogne e del gas (che, all’epoca, serviva solo ad alimentare i lampioni per l’illuminazione pubblica). La riqualificazione urbana prevedeva anche l’abbattimento di molte case private e la costruzione di nuovi edifici.
GUIDA ALLA LETTURA a Osserva con attenzione l’incisione, quindi segna su di essa e descrivi al lato: a. gli elementi visibili che permettono di percepire il successo industriale di Londra; b. gli elementi che caratterizzano gli edifici abitativi; c. le persone e le attività in cui sono occupate. b Realizza una legenda in cui siano elencati gli impianti specificando se si tratta di quelli idrici, delle fogne o del gas e utilizzando i colori già selezionati. b Realizza una didascalia a commento in cui descrivi la scena rappresentata soffermandoti sulla struttura e la collocazione degli impianti e sul ruolo delle persone che se ne occupano o che ne godono i benefici.
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sventrando buona parte del centro medievale, col suo intrico di vicoli strettissimi, e aprendo una serie di larghi viali, i boulevard, che avevano lo scopo di rendere più piacevole e meglio percorribile il centro cittadino, ma servivano anche a scoraggiare il ripetersi di sommosse urbane come quelle del ’48: nei grandi boulevard, infatti, erano più facili gli spostamenti delle forze di polizia ed era impossibile la costruzione di barricate. L’opera di Haussmann non si limitò alla risistemazione della rete viaria: nell’arco di un ventennio, tra gli anni ’50 e ’60 dell’800, Parigi fu dotata di ben quindici nuovi ponti sulla Senna, di quattro nuove stazioni ferroviarie, di un nuovo sistema di fognature, di parchi e di edifici pubblici.
• LONDRA E LO SVILUPPO DELL’EDILIZIA PRIVATA Da princìpi completamente diversi fu guidato lo sviluppo di Londra nell’800. Qui l’intervento pubblico risultò quasi assente: mentre a Parigi il governo indicava con minuzia i caratteri e le direttrici dell’attività edilizia, a Londra non esisteva nemmeno uno strumento di pianificazione generale. L’espansione della città era nelle mani dell’iniziativa privata, ovvero dei proprietari terrieri che, attraverso un meccanismo di leasing, cedevano agli imprenditori edilizi diritti di superficie e usufrutto per periodi determinati (fino a 99 anni), rimanendo però in possesso del terreno e garantendo così un’omogeneità tra i complessi immobiliari. A Londra, infatti, i quartieri venivano chiamati con i nomi delle famiglie proprietarie dei terreni: Bedford, Grosvenor, Hannover (ovvero la dinastia regnante, anch’essa promotrice di attività edilizie private). Nell’800, soprattutto nella parte occidentale della città (West End), nacquero eleganti complessi residenziali dove si concentrarono i ceti più benestanti. • VIENNA E LA RIORGANIZZAZIONE DEL CENTRO CITTADINO Nell’800 Vienna rappresentò un modello urbanistico per la riorganizzazione del suo nucleo centrale e la dislocazione degli edifici connessi alle sue funzioni di capitale imperiale. Tra il 1815 e il 1857, infatti, furono abbattute le antiche mura e nella zona liberata venne costruita la Ringstrasse, ovvero un’ampia strada circolare dove successivamente furono collocati i principali edifici pubblici – Parlamento, municipio, università, musei nazionali, teatro lirico – e una serie di eleganti palazzi con abitazioni private. Il Ring divenne presto il luogo più importante e prestigioso della città, al confine tra il centro antico e i borghi esterni: al pari dei boulevard parigini, costituì una via di passeggio e un punto di ritrovo per la vita intellettuale e mondana, con una forza di attrazione irresistibile per la ricca borghesia cittadina. • CHICAGO E LA COSTRUZIONE DEI PRIMI GRATTACIELI Nell’ultimo decennio dell’800 Chicago costituì uno dei simboli più evidenti del dinamismo americano. Metropoli “nata dal nulla”, centro della macellazione delle carni e dell’immagazzinamento dei cereali, nodo strategico delle comunicazioni ferroviarie tra l’Est e l’Ovest degli Stati Uniti, venne quasi completamente distrutta da un incendio nel 1871. In breve tempo fu ricostruita e da allora cominciò a espandersi a ritmi straordinari. Fu un luogo privilegiato di sperimentazione per la costruzione dei grattacieli: qui, infatti, i migliori architetti, tra cui Louis Henry Sullivan, misero in pratica le loro teorie per uno sviluppo verticale della città. Nacquero un avveniristico centro degli affari e una serie di efficienti infrastrutture urbane. Con la Fiera colombiana, nel 1893, Chicago divenne famosa in tutto il mondo come una delle metropoli più moderne e dinamiche del pianeta.
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La nascita del movimento operaio 7 e la Prima Internazionale Storiografia 71 A. Dewerpe, La fabbrica, p. 462
Documento 72 Émile Zola, Vita da minatori, p. 463
Storiografia 73 E.J. Hobsbawm, Coscienza di classe e cultura operaia, p. 464
Con lo sviluppo della grande industria, il proletariato di fabbrica veniva assumendo sempre maggiore consistenza [Ź8_5]. I salari nell’industria erano mediamente superiori a quelli del settore agricolo e crebbero lentamente negli anni ’50 e ’60, pur senza mai elevarsi molto al di sopra del livello di sussistenza, salvo che per alcune categorie di lavoratori specializzati. Ma per altri aspetti – orari di lavoro, condizioni abitative, assenza di sicurezza sul proprio futuro – la vita dell’operaio non era migliore di quella del lavoratore agricolo.
• LA FORMAZIONE DI UNA COSCIENZA DI CLASSE Il movimento operaio britannico – l’unico che potesse vantare una struttura organizzativa ormai solida e si potesse muovere in condizioni di relativa libertà – si era concentrato sul rafforzamento delle Trade Unions, che conobbero un notevole sviluppo negli anni ’50 e ’60 [Ź9_8]. Questo sviluppo fu coronato, nel 1868, dalla costituzione del Trade Unions Congress, che riuniva i delegati di tutti i maggiori sindacati e che rappresentò da allora il nucleo basilare del movimento operaio in Gran Bretagna. Peggiore era la situazione del movimento operaio francese, decimato nei suoi quadri più attivi dalle sconfitte del ’48 e del ’51. I pochi nuclei organizzati su base locale erano influenzati soprattutto dalle teorie di Proudhon, fautore di una sorta di cooperativismo a sfondo anarchico. I princìpi proudhoniani – che ben si adattavano alla struttura sociale di un paese caratterizzato dalla presenza di molti piccoli proprietari contadini e in cui l’artigianato e il commercio minuto conservavano un peso notevole anche nelle città – ebbero una certa fortuna anche in Italia, dove, peraltro, il proletariato di fabbrica era ancora pressoché inesistente e i pochi nuclei di operai e artigiani organizzati in società di mutuo soccorso avevano subìto soprattutto l’influenza di Mazzini [Ź12_4], fautore della cooperazione e ostile alla lotta di classe e a ogni forma di collettivismo. Molto diversa era la situazione in Germania, dove un movimento socialista esisteva già prima del ’48. Alla fine degli anni ’50, questo movimento trovò un leader abile e autorevole in Ferdinand Lassalle, che basava le sue concezioni socialiste su una teoria dello sfruttamento capitalistico molto simile a quella marxista, ma, diversamente da Marx,
STORIA IMMAGINE William Logsdail, St. Martin in the Fields a Londra 1888 [Tate Gallery, Londra] Nonostante l’immagine idealizzata della piccola fioraia dalle guance
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rosate, questo dipinto dà un’idea di quanto fosse dura in città la vita dei ceti poveri, in continuo contatto con le manifestazioni esteriori – vestiti, carrozze e case – delle classi più agiate.una pratica assai diffusa.
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credeva nella possibilità per i lavoratori di conquistare lo Stato borghese e di trasformarlo dall’interno attraverso il suffragio universale. Lassalle svolse nel suo paese, la Prussia, un’intensa attività politica e riuscì a fondare, nel 1863, una Associazione generale dei lavoratori tedeschi, che raccolse vaste adesioni negli Stati della Confederazione germanica e rappresentò il primo importante esempio di partito operaio organizzato su scala nazionale.
•
IL MOVIMENTO OPERAIO SI ORGANIZZA. L’INTERNAZIONALE DEL 1864 La crescente contrapposizione tra proletariato e borghesia favorì la nascita di un’organizzazione internazionale di coordinamento del movimento operaio. La riunione inaugurale della nuova organizzazione, che prese il nome di Associazione internazionale dei lavoratori, si tenne a Londra nel settembre 1864. Vi presero parte rappresentanti delle organizzazioni operaie inglesi e francesi. Un emissario di Mazzini rappresentava le società operaie italiane. Gli altri partecipanti alla riunione erano esuli di vari paesi invitati a titolo personale, fra cui Karl Marx. Quest’ultimo, assuntosi il compito di redigere lo statuto provvisorio, riuscì a inserire nel documento alcuni punti che qualificavano l’Associazione in senso classista, nonostante l’opposizione del rappresentante italiano: da allora i mazziniani non ebbero più parte alcuna nell’Internazionale. Ciò che risultava più evidente era l’affermazione dell’autonomia del proletariato e la priorità data alla lotta contro lo sfruttamento. La fondazione dell’Associazione internazionale dei lavoratori – o Prima Internazionale, come venne successivamente chiamata – fu senza dubbio un evento capitale nella storia del movimento operaio, ma lo fu più per il suo significato simbolico che per i suoi effetti pratici. L’Internazionale costituì subito un punto di riferimento ideale per i lavoratori di tutta Europa, oltre che uno spauracchio per i governi, sempre pronti ad attribuirle la responsabilità di agitazioni e complotti. Ma la sua capacità di rappresentare realmente le organizzazioni operaie dei singoli paesi e di guidare la loro attività fu assai scarsa e il suo funzionamento venne gravemente compromesso dall’eterogeneità delle sue componenti e dalle aspre rivalità che dividevano i suoi capi. socializzazione L’espropriazione di una proprietà privata di pubblica utilità e interesse da parte dello Stato che ne diviene proprietario e gestore.
• LA CONTRAPPOSIZIONE TRA SOCIALISTI E PROUDHONIANI Fino alla fine degli anni ’60, il dibattito ai vertici dell’Internazionale vide contrapposti da un lato i socialisti veri e propri (coloro, cioè, che sostenevano la socializzazione* dei mezzi di produzione), dall’altro i proudhoniani, fautori di un sistema fondato sulle cooperative e sulle autonomie locali. Nei primi congressi dell’Associazione le tesi dei proudhoniani furono ripetutamente sconfitte. Ma gli ideali libertari conobbero nuova fortuna nella versione assai più radicalmente rivoluzionaria che ne diede il russo Michail Bakunin (1814-1876), massimo teorico dell’anarchismo [Ź9_6]. • IL CONTRASTO TRA BAKUNIN E MARX Una divergenza radicale separava le posizioni di Marx, che era la personalità di maggiore spicco dell’Internazionale, e quelle di Bakunin. Per Bakunin l’ostacolo principale che impediva all’uomo il conseguimento della piena libertà era costituito non tanto dai rapporti di produzione, quanto dall’esistenza stessa dello Stato. Lo Stato era, assieme alla religione, lo strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la stragrande maggioranza della popolazione in condizioni di inferiorità economica e intellettuale. Così, abbattuto il potere statale, il sistema di sfruttamento economico basato sulla proprietà privata sarebbe inevitabilmente caduto. Il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente come l’ordine più consono alle esigenze naturali delle masse, senza che allo Stato dovesse sostituirsi alcuna organizzazione di tipo centralizzato e coercitivo.
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Ÿ Rafael Farga i Pellicer, Bakunin parla al Congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori a Basilea 1869
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Marx aveva pubblicato nel 1867 il primo volume della sua opera fondamentale Il Capitale in cui non solo analizzava i meccanismi del modo di produzione capitalistico, ma sosteneva che la realizzazione del socialismo sarebbe derivata dalle leggi stesse dello sviluppo economico. Anche Marx vedeva nella religione e nello Stato degli strumenti al servizio delle classi dominanti, ma collocava l’uno e l’altra nella sfera della «sovrastruttura», li considerava cioè come un prodotto della «struttura» economica basata sullo sfruttamento: solo la distruzione di quella struttura – ossia del sistema capitalistico – avrebbe reso possibile la distruzione dello Stato borghese. Si doveva dunque partire dallo scardinare la struttura economica. Pertanto, anche per Marx, l’avvento del comunismo e della società comunista – senza privilegi, senza classi, senza proprietà privata e senza Stato, ma le cui potenzialità produttive e tecniche fossero a disposizione di tutti i suoi membri – avrebbe portato con sé l’«estinzione dello Stato»; tuttavia, questo stadio finale sarebbe stato raggiunto solo dopo una fase transitoria, quella della «dittatura del proletariato», necessaria per neutralizzare la reazione delle classi dominanti (perché le organizzazioni operaie avrebbero rifondato, in quel tempo, la struttura sociale e produttiva). Per Marx, quindi, il protagonista del processo rivoluzionario non poteva essere che il proletariato industriale dei paesi più avanzati. Per Bakunin, invece, il vero soggetto della rivoluzione erano le masse diseredate in quanto tali, senza distinzione fra operai, contadini e sottoproletari.
• LA CRISI DELL’INTERNAZIONALE E LA SORTE DEL BAKUNINISMO Il contrasto tra marxisti e bakuniniani, esploso agli inizi degli anni ’70, mise in crisi le fragili strutture dell’Internazionale che fu sciolta ufficialmente nel 1876. Gli anarchici riuscirono tuttavia a conservare in molti paesi europei un seguito e un’influenza considerevoli. Il bakuninismo, infatti, si adattava meglio del marxismo a quei paesi e a quei ceti sociali che non avevano ancora conosciuto la rivoluzione industriale e si innestava spesso sul tronco di un antico ribellismo contadino. Fu questa la forza dell’anarchismo bakuniniano. Ma fu anche la causa del suo inarrestabile declino di fronte allo sviluppo dell’industria e alla crescita di una classe operaia moderna.
La Chiesa cattolica 8 contro la modernità borghese •
LA DIFESA DELL’ORTODOSSIA Negli stessi anni in cui il movimento operaio internazionale muoveva i suoi primi passi, anche il mondo cattolico assunse, sia pure da posizioni opposte, un atteggiamento duramente critico nei confronti di una civiltà che si basava su presupposti laici e individualistici e che tendeva a relegare la religione nell’ambito delle superstizioni e delle credenze popolari. Alla testa di questa crociata ideologica fu quello stesso papa Pio IX che inizialmente aveva suscitato tante speranze tra i cattolici liberali [Ź12_6]. Ferito e disilluso dalle esperienze del ’48-49, Pio IX abbandonò qualsiasi ipotesi innovatrice e, per il restante corso del suo lungo pontificato (morì nel 1878), si preoccupò soprattutto di riaffermare la più rigida ortodossia dottrinaria e di incoraggiare le pratiche di devozione, soprattutto quelle relative al culto mariano. Nel 1854 fu proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione, con cui si stabiliva che la Vergine era stata concepita libera dal peccato originale. Dal 1858, la cittadina francese di Lourdes, luogo di una miracolosa apparizione della Madonna, divenne meta di ininterrotti pellegrinaggi.
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STORIA IMMAGINE Fritz von Uhde, La preghiera prima del pasto 1885 [Nationalgalerie, Berlino] Questa tela, nota anche con il titolo Vieni Gesù, sii nostro ospite, raffigura con efficace realismo un umile interno rurale, dove una famiglia, riunita intorno al tavolo, invita Cristo, evocato nella preghiera di ringraziamento e fisicamente apparso al suo desco, a sedersi e a condividere il pasto. Quest’opera, come altre dello stesso pittore tedesco, esprime appieno la convinzione molto diffusa nell’800 che la semplice devozione, lontana dalla “corruzione” del pensiero borghese, era ancora rintracciabile fra i ceti meno abbienti.
enciclica È una parola di derivazione latina che alla lettera significa “circolare”: è un documento, indirizzato dal pontefice ai vescovi e ai prelati di tutto il mondo, per far conoscere il pensiero della Chiesa cattolica su particolari aspetti della dottrina o della liturgia, o su specifici argomenti sociali o filosofici. Nella storia della Chiesa, le encicliche hanno spesso segnato tappe importanti nell’evoluzione del cattolicesimo.
•
IL SILLABO E IL CONCILIO VATICANO I Lo scontro fra la Chiesa cattolica e la cultura laico-borghese ebbe il suo culmine nel 1864, quando Pio IX emanò l’enciclica* Quanta cura, nella quale accomunava in una condanna senza appello il liberalismo, la democrazia, il socialismo e l’intera civiltà moderna. Per dare maggior forza alla condanna, il papa fece pubblicare, assieme all’enciclica, una sorta di elenco – il Sillabo – degli «errori del secolo», dove in ottanta proposizioni erano raccolti tutti i princìpi basilari della tradizione illuministica e della cultura liberale ottocentesca: dalla sovranità popolare alla laicità dello Stato, alla libertà di stampa e di opinione. La pubblicazione del Sillabo suscitò sorpresa e scalpore in tutta Europa, anche tra i cattolici e i loro alleati: Napoleone III, per esempio, ne proibì la diffusione in Francia, poiché lo giudicava imbarazzante e nocivo per la convivenza fra Chiesa e Stato. La frattura si allargò ulteriormente pochi anni dopo quando, nel Concilio Vaticano I conclusosi nell’estate del 1870, fu proclamato il dogma dell’infallibilità del papa nelle sue pronunce ufficiali in materia di fede e di morale. Una decisione che rafforzava l’autorità del pontefice nei confronti dell’episcopato e che anche per questo non piacque ai governi degli Stati cattolici, accentuando così l’isolamento della Santa Sede. Quando, nel settembre 1870, le truppe italiane entreranno a Roma per annetterla al Regno d’Italia e completare così l’unificazione della penisola, nessuno dei governi europei si muoverà per salvare il potere temporale del papa [Ź18_4].
• IL CRISTIANESIMO SOCIALE La condanna intransigente della civiltà borghese, se schiacciava e riduceva al silenzio le correnti cattolico-liberali, lasciava in compenso un certo spazio ai movimenti cristiano-sociali presenti in Belgio, Francia, Austria e Germania [Ź9_5]. Sostenitori di un intervento dello Stato, sotto forma di iniziative assistenziali a favore dei lavoratori, auspicavano lo sviluppo della cooperazione e del mutuo soccorso fra i lavoratori stessi. Su questa base si realizzarono, soprattutto nei paesi dell’Europa centrale, i primi esperimenti di un moderno associazionismo cattolico, fondato sulle unioni di mestiere, sulle cooperative, sulle casse rurali e artigiane: una rete organizzativa che avrebbe in seguito permesso ai movimenti cattolici di contare su una propria base organizzata, non solo fra i ceti rurali ma anche fra i lavoratori urbani, soprattutto artigiani.
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U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale
RICORDARE L’ESSENZIALE L’età della borghesia La seconda metà dell’800 vide la crescita della borghesia, un ceto sociale attraversato da notevoli differenziazioni interne (magnati dell’industria e della finanza, imprenditori, banchieri, professionisti, ceto medio impiegatizio e commercianti) e tuttavia portatore di uno stile di vita e di un insieme di valori sostanzialmente unitari: merito individuale, libera iniziativa, concorrenza, innovazione e, nella sfera familiare e privata, austerità, moderazione, vocazione al risparmio. Centrale, tra i valori borghesi, era la fede nel progresso generale dell’umanità, che poggiava sull’imponente sviluppo economico e scientifico dell’epoca. Sul piano culturale, il progresso scientifico diede origine a una nuova corrente filosofica, il positivismo, che diventò l’ideologia della borghesia in ascesa e influenzò tutta la mentalità dell’epoca. Il rappresentante di punta del positivismo fu Charles Darwin, cui si deve la teoria dell’evoluzione e della selezione naturale. Secondo Darwin, la specie umana è, come tutte le specie viventi, il risultato dell’evoluzione da forme di vita più semplici a forme di vita più complesse, che è riuscita a non estinguersi e a sopravvivere adattandosi al contesto, perdendo gli individui con minore capacità di adattamento. Lo sviluppo economico Negli anni ’50-’60 dell’800, l’economia europea conobbe una fase di forte sviluppo che interessò anzitutto l’industria siderurgica e meccanica. I fattori principali del boom industriale furono: la rimozione dei vincoli giuridici che ostacolavano le attività economiche; l’affermarsi del libero scambio; il ruolo assunto dalle banche nelle operazioni di investimento sul lungo e medio termine e la nascita di numerose società per azioni. Lo sviluppo di nuovi mezzi di trasporto, come navi a vapore e, soprattutto, ferrovie, rendeva più agevoli la mobilità delle persone e lo scambio delle merci, alimentando a sua volta il processo di industrializzazione: da una parte, infatti, la costruzione di questi nuovi mezzi stimolava l’industria siderurgica e meccanica, dall’altra consentiva un ampliamento dei mercati. Infine le innovazioni nel campo della comunicazione (per esempio il telegrafo) consen-
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Audiosintesi per paragrafi
tivano alle notizie di viaggiare molto più velocemente, dando impulso allo sviluppo della stampa, che rispose con la creazione di agenzie specializzate per la raccolta e la diffusione delle informazioni. Questi ultimi fattori di sviluppo contribuirono a mutare l’immagine che la gente aveva del mondo: esso appariva, ed era effettivamente, sempre più unito. L’urbanizzazione Alla metà dell’800, in tutta l’Europa continentale erano ancora i lavoratori della terra a costituire la grande maggioranza della popolazione attiva. Anche la realtà del mondo agricolo era piuttosto eterogenea: in alcune aree dominava la grande proprietà terriera (Russia, Impero asburgico, Stati tedeschi), in altre la piccola e media proprietà terriera (Francia), in altre ancora convivevano forme di azienda capitalistica e la piccola proprietà terriera, lavoro salariato e mezzadria. Tra i fattori di omogeneità, la progressiva scomparsa di forme di lavoro servile e il fatto che ovunque i lavoratori agricoli occupavano i gradini inferiori della scala sociale. Fra il 1840 e il 1870 milioni di persone lasciarono l’Europa per andare a lavorare le terre vergini del Nord America o si trasferirono nelle aree urbane in cerca di nuova occupazione. Ebbe allora inizio il processo di urbanesimo, caratterizzato non solo dall’aumento della popolazione urbana ma anche dal numero delle grandi città. Nella seconda metà dell’800 furono soprattutto gli Stati Uniti a offrire un nuovo modello di sviluppo della città, con la costruzione dei grattacieli e l’espansione dei sobborghi periferici. In molti grandi centri punti di riferimento essenziali divennero le stazioni ferroviarie, la Borsa, i centri commerciali, il tribunale, i palazzi dei ministeri. I ceti popolari andarono ad addensarsi nelle grandi periferie, ben distinte dai quartieri residenziali borghesi. Nello stesso periodo, quasi tutte le grandi città europee videro moltiplicarsi le iniziative dei poteri pubblici per favorire lo sviluppo dei trasporti e per cercare di risolvere i più urgenti problemi igienici. La ristrutturazione di Parigi fu un esempio di intervento attuato dallo Stato. Il prefetto Haussmann sventrò buona parte del centro medievale e aprì una serie di larghi viali, i boulevards, con
lo scopo di rendere più piacevole il passeggio cittadino, ma anche di agevolare i movimenti delle truppe in caso di sommosse. Princìpi completamente diversi guidarono lo sviluppo di Londra, la più grande metropoli del mondo, dove l’espansione della città rimase nelle mani dell’iniziativa privata. Vienna rappresentò invece un modello urbanistico per la costruzione della Ringstrasse, dove furono collocati i principali edifici pubblici e una serie di eleganti palazzi privati. Alla fine dell’800 Chicago fu uno dei simboli più efficaci del dinamismo americano. Distrutta da un incendio nel 1871, la città venne in breve tempo ricostruita e da allora cominciò a espandersi a ritmi straordinari. La Prima Internazionale e l’associazionismo cattolico Con lo sviluppo della grande industria, il proletariato di fabbrica andava assumendo sempre maggiore peso. Le dure condizioni di vita e di lavoro degli operai favorivano il formarsi di una coscienza di classe e delle prime associazioni operaie, soprattutto in Gran Bretagna, Germania e Francia. Nel 1864 venne fondata a Londra la prima Associazione internazionale dei lavoratori, la cui vicenda fu segnata dai contrasti tra marxisti e anarchici che avrebbero presto condotto alla sua dissoluzione. Il maggior teorico dell’anarchismo fu Bakunin, secondo il quale, una volta abbattuto il potere statale, il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente, senza dunque la fase di «dittatura del proletariato» prevista da Marx. Egli considerava, inoltre, le masse diseredate il soggetto della rivoluzione. Per quest’ultimo motivo il bakuninismo si diffuse soprattutto nei paesi più arretrati e declinò progressivamente coll’avanzare dell’industrializzazione e la crescita della classe operaia. Di fronte alla società borghese il mondo cattolico ebbe una duplice reazione: da un lato, assunse un atteggiamento di dura condanna della civiltà moderna e delle sue ideologie (liberalismo, democrazia, socialismo), con Pio IX che fece pubblicare l’enciclica Quanta cura con annesso Sillabo degli «errori del secolo» (1864); dall’altro, si fece promotore, con i movimenti cristiano-sociali, di un intervento dello Stato a favore dei lavoratori e dei primi esperimenti di associazionismo cattolico.
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VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
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Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. I borghesi erano intransigenti per quel che riguardava la morale familiare e sessuale. b. Il pensatore francese Auguste Comte fu il fondatore del Positivismo. c. Tra le cause del boom economico degli anni ‘50-’60 vi fu la rigida applicazione del protezionismo. d. Intorno alla metà dell’800, in tutta l’Europa continentale gli operai costituivano la grande maggioranza della popolazione attiva. e. I grandi imprenditori industriali e i piccoli proprietari contadini facevano parte della borghesia. f. I salari degli operai di fabbrica erano mediamente più alti di quelli del settore agricolo. g. In Italia, la rapida crescita del proletariato industriale favorì la diffusione delle idee di Proudhon. h. L’esclusione dei mazziniani dall’Internazionale fu determinata dall’orientamento in senso classista dell’organizzazione. i. L’Associazione generale dei lavoratori tedeschi può essere considerato il primo esempio di partito operaio. j. Nell’enciclica Quanta cura, la teoria liberalista fu preferita al socialismo. k. L’associazionismo cattolico fu una diretta conseguenza della politica riformatrice di Pio IX.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. Agli inizi del XIX secolo, la struttura della famiglia borghese... a. si trasforma a causa dell’ingresso della donna nel mercato del lavoro; b. resta ancorata a un modello patriarcale e a una rigida divisione dei ruoli; c. ricalca, nella mentalità contemporanea, la struttura aperta della società. 2. L’ottimismo borghese poggiava sulla... a. fiducia in un progresso scientifico ed economico senza fine; b. consapevolezza di aver definitivamente raggiunto il benessere; c. teoria rivoluzionaria dell’origine divina dell’essere umano. 3. Secondo i positivisti, il metodo scientifico era... a. incapace di cogliere la complessità sociale; b. applicabile a tutti i campi dell’attività umana; c. applicabile solo ai fenomeni fisici e naturali. 4. La teoria evoluzionistica di Darwin considerava l’uomo... a. un entità biologicamente estranea alla lotta per la sopravvivenza; b. il risultato dell’evoluzione progressiva di organismi inferiori; c. l’anello debole di una catena biologica destinata a interrompersi. 5. Nelle regioni tedesche ad est del fiume Elba, la proprietà della terra... a. fu concentrata nelle mani di pochi grandi latifondisti; b. era distribuita fra una larga fascia di popolazione rurale; c. era gestita esclusivamente da tecnici e funzionari statali.
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6. All’inizio del ’900 le città con più di un milione di abitanti erano concentrate... a. tutte in Europa e in America settentrionale; b. ben dieci si trovavano in Asia; c. nelle aree industriali dell’Inghilterra. 7. I «boulevards» di Parigi furono costruiti dopo il 1848... a. da un cartello di finanziatori composto da banchieri e industriali; b. per agevolare i movimenti delle truppe in caso di sommosse; c. rispettando l’antica pianta stradale di origine medievale. 8. I grattacieli di Chicago furono... a. distrutti completamente dall’incendio del 1871; b. realizzati dopo l’incendio del 1871; c. destinati ad ospitare gli sfollati dell’incendio del 1871. 9. Nelle periferie delle città europee, ricchi e poveri... a. condividevano sempre gli stessi caseggiati; b. lasciarono il posto ai grandi edifici pubblici; c. abitavano in quartieri sempre più separati. 10. Secondo la teoria marxista, la merce-lavoro... a. produce un valore superiore al costo della sua riproduzione, cioè un plus-valore; b. è l’unica merce che nel sistema capitalistico è sottratta alla legge del valore; c. è il valore ultimo del processo di produzione delle merci, rappresentato dal profitto. 11. Il «Sillabo», pubblicato dalla Chiesa nel 1864, conteneva... a. un parziale riconoscimento degli errori compiuti dalla Chiesa nel campo scientifico; b. l’invito ai sovrani europei a emettere leggi che tutelassero il lavoro degli operai; c. un elenco degli «errori del secolo», che occorreva rifiutare in nome dell’ortodossia.
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U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale
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3 Per confrontare le teorie politiche, di Marx e Bakunin, emerse all’interno della Prima Internazionale, completa la seguente tabella: Teorie di...
Marx (socialismo)
Bakunin (anarchismo)
L’ostacolo principale alla libertà dell’uomo era costituito... Il lavoro veniva inteso come... La religione era percepita come... Il soggetto della rivoluzione era... Le forme di lotta da praticare erano... Una volta preso il potere...
Rispondi ora alle seguenti domande: 1. Quali rapporti di forza intercorrono tra le classi sociali, secondo le due teorie? 2. Quale delle due teorie pone maggiore attenzione sugli aspetti economici dei rapporti di potere? 3. Dove emerge, con più forza, un’idea naturale o primitiva di «società di uguali»? 4. Perché, secondo te, le teorie di Bakunin trovarono maggior seguito nei paesi a economia pre-industriale?
4 Descrivi in un breve testo il fenomeno dell’urbanizzazione nel corso del XIX secolo, utilizzando la seguente scaletta: a. Rapporto città-campagna (crisi delle campagne, inurbamento,...) b. Morfologie della città (centri storici e periferie, mura, grattacieli,...) c. Chi controlla la città (istituzioni statali, autorità municipali, mercato e speculazione,...)
COMPETENZE IN AZIONE 5 Descrivi in un breve testo gli elementi di fondo della cultura borghese ottocentesca, utilizzando la seguente scaletta e le fonti iconografiche presenti nel capitolo. a. L’ideologia borghese era basata su un’idea di società come... b. All’interno di tale contesto, l’identità borghese si manifestava attraverso... c. I segni tangibili dello status borghese erano infatti... d. Permanevano tuttavia valori e comportamenti «tradizionali», come... e. La perdita di tali virtù veniva associata a..., perché... 6 Osserva il documento iconografico e rispondi alle domande. Analizzerai così la visione che i contemporanei avevano del mondo industriale. a. Quali spazi urbani e quali classi sociali vengono raffigurati? b. Quale contesto temporale l’autore del dipinto sceglie di rappresentare? c. Come si svolge la domenica degli operai? Quale contrasto viene evidenziato? d. Secondo te, nel dipinto prevale un intento moralistico o un tono di denuncia sociale? Da che cosa lo deduci?
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Ż La domenica, illustrazione per un libro francese di catechismo [Bibliothèque Nationale, Parigi]
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Storia e Letteratura La signora delle Camelie di Dumas Focus Riprodurre la realtà: la nascita della fotografia • L’età dell’acciaio
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Storia e Ambiente I costi ambientali della rivoluzione industriale
Lezioni attive Innovazioni industriali e di organizzazione del lavoro
Laboratorio dello storico L’archeologia industriale
Crisi e protezionismo Tra il 1870 e il 1914 l’economia capitalistica subì una serie di trasformazioni di tale profondità e di tale portata da giustificare, in riferimento a questo periodo, la definizione di “seconda rivoluzione industriale”. SOVRAPPRODUZIONE E CADUTA DEI PREZZI La nuova fase dell’economia ebbe inizio con una improvvisa crisi di sovrapproduzione che, scoppiata nel 1873, continuò a far sentire i suoi effetti nei due decenni successivi, caratterizzati da una prolungata caduta dei prezzi. In realtà la caduta dei prezzi fu, più che un sintomo di crisi, un prodotto delle trasformazioni organizzative e delle innovazioni tecnologiche che permisero di ridurre progressivamente i costi di produzione. In nessun paese, infatti, si registrarono sostanziali diminuzioni della produzione industriale. Il volume degli scambi commerciali continuò a crescere ovunque. Il tenore di vita della popolazione nelle aree urbane non subì riduzioni: al contrario, i lavoratori salariati si giovarono della diminuzione dei prezzi e riuscirono, grazie anche all’azione delle organizzazioni di classe, a difendere meglio che in passato il livello reale delle loro retribuzioni. LA CRISI AGRARIA IN EUROPA Il settore dell’economia europea in cui la caduta dei prezzi si fece sentire con maggiore intensità e con effetti più drammatici fu senza dubbio quello agricolo. Quando i progressi della navigazione a vapore, determinando un notevole abbassamento dei costi di trasporto, consentirono ai prodotti dell’agricoltura nordamericana – che avevano prezzi competitivi – di raggiungere l’Europa, tutta l’agricoltura europea, in particolare quella più arretrata, ne ricevette un colpo durissimo. A partire dagli anni ’79-80, i prezzi dei prodotti agricoli calarono bruscamente. Questo ribasso avvantaggiò i consumatori delle città, ma provocò la rovina di molte aziende agricole piccole e grandi: e quindi disoccupazione, fame, miseria crescente nelle campagne, soprattutto in quelle dove le tecniche produttive erano rimaste più arretrate. Si difesero meglio dalla crisi i settori agricoli presenti nell’Europa centro-settentrionale in cui erano state introdotte nuove tecniche di coltivazione volte ad aumentare la produttività: l’uso di concimi chimici; l’impiego di mietitrici e trebbiatrici a trazione animale (l’uso del vapore, dell’elettricità e del motore a scoppio si sarebbe affermato solo nel ’900); l’estensione delle opere di bonifica e di irrigazione; l’introduzione di nuove colture (come la barbabietola da zucchero) e di nuovi sistemi di rotazione. L’EMIGRAZIONE EUROPEA Conseguenza immediata della crisi fu l’intensificarsi dell’emigrazione verso le aree industriali e verso i paesi d’oltreoceano, soprattutto l’America del Nord, ma anche verso il Brasile e l’Argentina. Il flusso degli emigranti dall’Europa raggiunse le 500 mila unità annue intorno all’80, per superare le 800 mila alla fine del decennio e per sfondare infine il tetto del
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U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale
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STORIA IMMAGINE Ź Una donna slava appena giunta a Ellis Island, New York 1905 ca. [International Museum of Photography, George Eastman House, Rochester (Usa)]
Emigrante europea sottoposta a visita medica a Ellis Island, New York inizio XX sec. ŹŹ
Al loro arrivo negli Stati Uniti, le navi cariche di immigranti venivano fatte attraccare a Ellis Island, un isolotto nella Baia di New York. Qui, i nuovi arrivati venivano trattenuti per essere sottoposti a una prima identificazione e a un rapido esame medico teso
ad accertare eventuali patologie da sottoporre ad ulteriori esami. Chi passava queste prime due procedure veniva poi registrato e infine riceveva un permesso per sbarcare a Manhattan. I non idonei, «i vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che
soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità», venivano rimpatriati. Attualmente, l’edificio, che fra il 1892 e il 1924 ha “vagliato” l’ingresso in America di 12 milioni di immigranti, ospita l’Ellis Island Immigration Museum.
milione nei primi anni del ’900. Mutò anche, progressivamente, la provenienza geografica degli emigranti: fino a circa il 1880 erano stati in prevalenza inglesi, irlandesi, tedeschi e scandinavi. Alla fine del secolo erano per due terzi originari di paesi latini e slavi: qui, infatti, le conseguenze della crisi agraria si erano fatte sentire più pesantemente e minori erano le capacità di assorbimento della manodopera da parte dei settori industriali. commessa Ordinazione di merci o beni da produrre. La commessa statale (o pubblica) è l’ordinazione, ad aziende o industrie, da parte dello Stato.
IL PROTEZIONISMO Fu anche per far fronte alle conseguenze della crisi agraria e per venire incontro alle pressioni dei grandi proprietari, e degli agricoltori in genere, che i governi europei finirono per imboccare la strada del protezionismo. Tutte le nuove tariffe adottate dai vari Stati stabilivano dazi elevati per numerosi prodotti agricoli, in particolare per i cereali. Ma le politiche protezionistiche ebbero anche come obiettivo la tutela delle produzioni industriali dai rischi della concorrenza estera: tutti gli Stati europei adottarono nuove misure protezionistiche, a cominciare dalla Germania nel 1879, seguita dalla Russia (1881-82), dall’Italia (1887) e dalla Francia (1892). Accanto a questa politica gli Stati diedero avvio a varie forme di sostegno diretto alla grande industria, attuato per lo più mediante le commesse* per l’esercito e la marina militare. IL DECLINO DELLA GRAN BRETAGNA Solo la Gran Bretagna, patria del liberoscambismo e primo paese esportatore del mondo, restò estranea alla tendenza generale, ma ne fu doppiamente danneggiata in quanto vide ridursi gli sbocchi di mercato per le sue merci e dovette assistere allo sviluppo delle industrie nei paesi concorrenti, protette dalle barriere doganali. Nell’ultimo decennio del secolo, le industrie tedesche e statunitensi riuscirono a superare quelle inglesi nella produzione di acciaio e si assicurarono un vantaggio decisivo in settori nuovi e strategicamente importanti come quelli chimico ed elettrico. Fra il 1880 e il 1914 la partecipazione britannica al commercio mondiale si dimezzò, passando dal 25 al 12%. Alla perdita del primato industriale e alla riduzione
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cartello/trust Il cartello è l’accordo fra imprese di uno stesso settore mirante a limitare la concorrenza e a stabilire i prezzi dei loro prodotti. Il trust è invece una concentrazione di industrie diverse sotto un’unica direzione strategica, senza che però vi sia un’integrazione fra le imprese. pool Consorzio di imprese la cui attività è coordinata da un organo centrale che si occupa di acquistare le materie prime e vendere i prodotti finiti per conto delle imprese consorziate. monopolio In economia è la situazione in cui l’offerta di un bene o di un servizio è concentrata nelle mani di un solo soggetto, che può imporre il prezzo che vuole. In generale si parla di monopolio per indicare una posizione di privilegio esclusivo.
Storiografia U. Wengenroth, L’età del carbone e dell’acciaio
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Arte e storia Disegnare col ferro: l’industria al servizio dell’architettura urbana, p. 458
acciaio Lega di ferro e carbonio che si realizza a temperature molto elevate. L’acciaio contiene più carbonio del ferro, ma meno della ghisa; ha una straordinaria resistenza, ma anche una buona elasticità ed è dunque facilmente lavorabile. Le qualità dell’acciaio erano note fin da epoca antica, ma solo nella seconda metà dell’800 furono inventate tecniche e costruiti altiforni adatti per produrre su grande scala questo materiale a basso costo: il convertitore Bessemer (che depura la ghisa dal carbonio), il forno ad altissima temperatura realizzato da Karl Wilhelm Siemens e perfezionato da Pierre Martin (1864) e il metodo di depurazione delle scorie, inventato da Sidney Gilchrist Thomas nel 1878-79.
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dei suoi spazi commerciali in Europa, la Gran Bretagna reagì rinsaldando e ampliando il suo già vasto impero d’oltremare e intensificando gli scambi con le colonie. IL CAPITALISMO FINANZIARIO L’abbandono del liberismo non fu l’unico modo per aggirare le crescenti difficoltà create alle imprese dal regime di prezzi calanti. Nacquero così grandi consociazioni per il controllo finanziario di diverse imprese; consorzi – cartelli o pools* – fra aziende dello stesso settore che si accordavano sulla produzione e sui prezzi; infine vere e proprie concentrazioni, trusts*, fra imprese prima indipendenti. Questi fenomeni assunsero dimensioni imponenti, soprattutto negli Stati Uniti e in Germania, fino a determinare in qualche caso situazioni di monopolio*. Un ruolo decisivo, in questi processi, fu svolto dalle istituzioni finanziarie. Solo le grandi banche potevano assicurare i flussi di denaro necessari alla crescita dei colossi industriali per i quali i profitti, per quanto elevati, non erano sufficienti a ricostituire in tempi brevi il capitale di investimento. Fra banche e imprese si venne così a creare uno stretto rapporto di compenetrazione: le imprese dipendevano sempre più dalle banche per il loro sviluppo e le banche legavano in misura crescente le loro fortune a quelle delle imprese. Le banche controllavano quote rilevanti dei pacchetti azionari delle industrie, ma d’altro canto i magnati dell’industria sedevano spesso nei consigli di amministrazione delle banche. Questo intreccio fra industria e finanza fu definito dagli economisti marxisti «capitalismo finanziario.
Acciaio, chimica ed elettricità Durante la seconda metà dell’800 e nei primi anni del ’900 si affermò in Europa e in Nord America un processo, la seconda rivoluzione industriale, che fece sentire i suoi effetti con una diffusione capillare, mutando le abitudini, i consumi e i comportamenti di milioni di individui. Se il cotone, il ferro, il carbone e la macchina a vapore erano stati i fattori trainanti della prima rivoluzione industriale [Ź8_4], nella seconda si affermarono l’acciaio, la chimica, il motore a scoppio e l’elettricità. L’ETÀ DELL’ACCIAIO Le nuove tecniche di fabbricazione – il metodo Bessemer e il forno Martin-Siemens, sperimentati già negli anni ’50 e ’60, quindi il procedimento Gilchrist Thomas, introdotto nel 1879 – consentirono di produrre grandi quantità di acciaio* a costi relativamente modesti. Da allora l’acciaio vide crescere la sua produzione a ritmi rapidissimi (fra il 1870 e il 1913 il consumo mondiale aumentò di circa ottanta volte) e trovò infinite applicazioni nei campi più svariati. Fu usato per le rotaie delle ferrovie al posto del ferro, per le corazze delle navi da guerra, per gli utensili domestici e per le macchine industriali, che divennero più leggere, precise e potenti, dando così una spinta decisiva ai processi di meccanizzazione. Ma fornì anche le strutture che resero possibile la costruzione di grandi edifici e di grandi ponti, ancor prima che, nel 1892, fosse introdotto nell’ingegneria civile l’uso del cemento armato, ossia del calcestruzzo rinforzato da barre di ferro. Il primo palazzo con strutture in acciaio, il Tower Building di New York, alto dieci piani, fu costruito nel 1889. Nello stesso anno, in occasione dell’Esposizione universale di Parigi, l’ingegnere francese Alexandre-Gustave Eiffel realizzò una torre alta 300 metri e pesante 8 mila tonnellate, destinata a diventare il simbolo più celebre dell’età dell’acciaio.
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STORIA IMMAGINE Manifesto reclamizzante il solfato d’ammonio 1911 Questa pubblicità, pubblicata su un almanacco francese dell’inizio del XX secolo, mostra bene la fiducia nei fertilizzanti generatasi a seguito delle ricerche nel campo della chimica.
Da un lato una coppia di contadini se la ride ammirando i prodotti di dimensioni esagerate del proprio campo fertilizzato, dall’altro due poveri contadini, che non hanno usato il solfato d’ammonio, non possono che piangere guardando i sassi che emergono dal loro terreno inaridito.
L’INDUSTRIA CHIMICA L’industria chimica abbracciava una grandissima varietà di produzioni: dalla carta al vetro, dai medicinali ai concimi, dai saponi ai coloranti, dagli esplosivi al cemento, dalla gomma alla ceramica. La stessa siderurgia, nel momento in cui usava procedimenti chimici per combinare diversi elementi, poteva essere considerata un settore della chimica applicata. Fu, per esempio, un processo chimico che, nel 1886, permise di ricavare dalla bauxite l’alluminio, divenuto presto un utile sostituto del ferro e dell’acciaio. Sotto la spinta incessante di nuove scoperte e invenzioni, intorno al 1870 fu sperimentata per la prima volta, in Gran Bretagna e soprattutto in Germania, la produzione dei coloranti artificiali, i cui princìpi furono alla base di molti successivi sviluppi della chimica organica. Nel 1875 un chimico svedese, Alfred Nobel, depositò il brevetto della dinamite. Nel 1888 l’invenzione dello pneumatico da parte dello scozzese John Boyd Dunlop aprì nuovi orizzonti all’industria della gomma. Fra l’89 e il ’92, furono realizzate in Francia e in Gran Bretagna le prime fibre tessili artificiali, derivate dalla cellulosa. La chimica ebbe un ruolo decisivo anche nel settore alimentare con l’invenzione di nuovi metodi per la sterilizzazione, la conservazione e l’inscatolamento dei cibi, e con lo sviluppo delle tecniche di refrigerazione. La diffusione degli alimenti in scatola, più rapida negli Stati Uniti, molto più lenta in Europa, e la costruzione dei vagoni e delle celle frigorifere rappresentarono un’autentica innovazione nell’ambito della più generale rivoluzione dei trasporti. Per tutto il mondo industrializzato, la possibilità di conservare cibi deperibili e di trasportarli a grande distanza dai luoghi di produzione significava la liberazione definitiva dal rischio delle carestie. IL MOTORE A SCOPPIO E IL PETROLIO Risultato di lunghi studi ed esperimenti, il motore a combustione interna o a scoppio (quello in cui è il combustibile a fornire la spinta motrice, esplodendo ed espandendosi in uno spazio limitato) vide una prima realizzazione ad opera del tedesco Nikolaus Otto che, nel 1876, costruì un motore a quattro tempi. Successivamente due ingegneri tedeschi, Gottlieb Daimler e Carl Friedrich Benz, riuscirono, separatamente, a montare
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petrolio Miscela di idrocarburi liquidi, nei quali sono disciolti idrocarburi solidi o gassosi, che si forma nei giacimenti sottomarini o del sottosuolo, in seguito a trasformazioni di sostanze organiche di origine vegetale e animale. Dopo l’estrazione, il petrolio viene lavorato nelle raffinerie. Se ne traggono numerosi prodotti, largamente in uso nella società odierna: combustibili come la benzina, il gasolio, il cherosene (che alimenta gli aerei e anche molte stufe domestiche) e il gas di petrolio liquefatto o Gpl (diffuso in bombole anche in ambiente domestico per la cucina o il riscaldamento); gli oli lubrificanti, gli asfalti e naturalmente tutti i prodotti petrolchimici, in primo luogo le materie plastiche. pila/dinamo La pila è un dispositivo che serve a convertire energia chimica in energia elettrica. Fu realizzata nel 1799 da Volta alternando dischi di rame e zinco, separati da strisce di tela imbevuta di acqua acidulata; inseriti verticalmente in un supporto di legno, i dischetti erano collegati da due fili di rame alle due estremità della colonna. La corrente elettrica era generata dalla differenza di potenziale elettrico fra i due metalli, sollecitata dalla reazione chimica provocata dal panno umido. La pila restò l’unico modo per produrre corrente elettrica sino all’invenzione da parte del fisico pisano Antonio Pacinotti della prima dinamo (1869), una macchina rotante in un campo magnetico capace di generare elettricità attraverso il movimento, cioè mediante l’energia meccanica.
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dei motori a scoppio su autoveicoli a ruote, realizzando così, nel 1885, le prime automobili. Il combustibile usato era un distillato del petrolio che prese poi il nome di benzina, mentre, nel 1897, un altro ingegnere tedesco, Rudolf Diesel, inventò il motore a gasolio che porta ancora il suo nome. Tuttavia la diffusione dell’automobile fu lenta e avventurosa e solo all’inizio del ’900 si cominciarono a produrre autovetture a motore abbastanza veloci e affidabili. Questo sviluppo limitato fu tuttavia sufficiente a dare un impulso decisivo all’estrazione del petrolio*, soprattutto negli Stati Uniti dove, alla fine dell’800, era concentrata la metà della produzione mondiale. La diffusione dei prodotti petroliferi, usati anche come lubrificanti e come combustibili da riscaldamento e da illuminazione, era però ostacolata dagli alti costi di produzione: il prezzo del petrolio era molto più alto di quello del carbone, che rimaneva il combustibile di gran lunga più diffuso. UNA NUOVA FONTE D’ENERGIA: L’ELETTRICITÀ Oggetto di studi e di esperimenti fin dai tempi del primo generatore di energia elettrica – la pila* di Alessandro Volta (risalente al 1800 circa) – l’elettricità divenne una nuova e straordinaria fonte di energia tra il 1860 e il 1880, quando fu possibile realizzare congegni in grado di trasformare il movimento di un corpo entro un campo magnetico in corrente elettrica (dinamo* e generatori), di immagazzinarla (accumulatori), di trasmetterla e distribuirla a grandi distanze, di utilizzarla per l’illuminazione o il riscaldamento o di ritrasformarla in movimento (motori elettrici). Ma l’invenzione decisiva per lo sviluppo dell’industria elettrica fu la lampadina a filamento incandescente, ideata dallo statunitense Thomas Alva Edison nel 1879. Nacquero
Ÿ La lampadina di Thomas Alva Edison
STORIA IMMAGINE La produzione delle lampadine a incandescenza 1895 [copertina della rivista «Scientific American», n. 15, 13 aprile 1895]
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L’illustrazione della rivista scientifica mostra le varie fasi di produzione delle lampadine a incandescenza, dalla montatura e inserimento del filamento alla sigillatura.
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Ÿ L’invenzione del telefono Così la rivista «Scientific American» rappresentò, sulla prima pagina del 6 ottobre 1877, l’invenzione del telefono.
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così, all’inizio degli anni ’80, in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti e anche in Italia, le prime centrali termiche (azionate cioè da motori a vapore), capaci di fornire energia elettrica soprattutto all’illuminazione privata. Più lenta fu l’affermazione dell’elettricità come mezzo di illuminazione pubblica: ai primi del ’900, le principali città europee erano ancora illuminate con lampade a gas. A partire dalla fine dell’800, comunque, l’energia elettrica cominciò a essere adoperata anche per i mezzi di trasporto – come le tramvie – e per gli usi industriali: essa fornì alle fabbriche una nuova forza motrice e rese possibili nuove lavorazioni nella chimica e nella metallurgia. Contemporaneamente si fece strada l’idea di ricorrere per la produzione di elettricità, anziché alle macchine a vapore, all’energia idraulica che sfrutta la caduta, naturale o artificiale, dei corsi d’acqua. La costruzione di centrali idroelettriche ebbe impulso, nell’ultimo decennio del secolo, soprattutto in quei paesi, come l’Italia del Nord, che erano poveri di carbone ma ricchi di bacini idrici. TELEFONO, GRAMMOFONO E CINEMATOGRAFO Sempre legate all’elettricità furono altre novità non meno rivoluzionarie: il telefono, inventato nel 1871 dall’italiano Antonio Meucci e perfezionato pochi anni dopo in Nord America
PERSONAGGI
Marie Curie, la scienziata che vinse due Nobel Il nome Maria Skłodowska suona poco conosciuto, eppure è così che fu registrata all’anagrafe di Varsavia Marie Curie (1867-1934). La scelta di naturalizzare il nome in francese e di assumere il cognome del marito non deve far pensare che fosse poco legata alla sua terra natia. Dalla famiglia, appartenente alla piccola (e impoverita) nobiltà polacca, Marie ereditò le simpatie per il movimento patriottico, in lotta per l’indipendenza della Polonia (divisa sotto il dominio della Russia zarista, dell’Impero asburgico e della Prussia). Dai genitori, entrambi insegnanti, ereditò anche la predisposizione allo studio. Concluso il ginnasio con successo, a Marie era precluso l’accesso all’università, che non ammetteva le donne. L’unica possibilità per lei e la sorella Bronia, con cui manterrà sempre un solido legame, era la Sorbona di Parigi. Qui, in un ambiente prevalentemente maschile (non erano ammesse le donne francesi), si fece strada con dedizione e impegno ed ebbe come docenti alcuni fra i più brillanti scienziati dell’epoca. Li ricordò come anni di studio monotoni, eppure fra i più belli della sua vita. Ottenute
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con successo la laurea in scienze e quella in matematica, Marie pensava di tornare a Varsavia, per prendersi cura del padre e lavorare come insegnante. Così non fu, grazie all’incontro con Pierre Curie (1859-1906): insieme costruirono un matrimonio felice e uno dei sodalizi più riusciti nella storia della scienza. Marie rimase a Parigi e intraprese un dottorato alla Sorbona, in cui indagò il fenomeno, appena scoperto, delle radiazioni emesse dai sali di uranio. Pierre la aiutò costantemente nelle ricerche, come dimostrano i diari di laboratorio, fittamente annotati da entrambi. Quando si imbatté in alcuni composti dell’uranio e del torio che dimostravano un’attività radioattiva molto più alta dell’uranio stesso, Marie intuì che dovevano contenere un altro elemento. Nel 1898 scoprì due elementi chimici fino ad allora sconosciuti: il polonio (che chiamò così in onore della sua patria) e il radio. Sul secondo si concentrò la ricerca di Marie, che lavorò, in condizioni difficili, per isolarlo, estrarlo, e determinarne il peso atomico. I Curie osservarono come il radio sviluppasse calore in modo continuo e costante, contravvenendo al principio della conservazione dell’energia (il fenomeno fu spiegato in seguito da Rutherford e Soddy in base alle conoscenze sulla disintegrazione atomica).
Scoprendo che maneggiare il radio provocava ustioni, i Curie per primi ne indagarono gli effetti fisiologici, tanto che si cominciarono ad usare le sue emanazioni per curare, con successo, il cancro della pelle. Nacque una terapia, tuttora in uso, e la necessità di estrarre il radio su scala industriale. Con generosità i Curie scelsero di non brevettare il loro metodo d’estrazione, perché tutti potessero ricavare
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dallo scozzese Alexander Graham Bell; il grammofono, ideato da Edison nel 1876; e infine il cinematografo, sperimentato in Francia nel 1895 dai fratelli Louis e Auguste Lumière. Queste invenzioni erano destinate a produrre i loro effetti soprattutto nel ’900. Ma, già al loro apparire, fecero intravedere la possibilità di nuovi sviluppi nel campo delle comunicazioni, e anche di nuovi linguaggi e di nuove forme di espressione artistica.
Storiografia 81 A. Cavallari, Il giornale di massa, p. 475
Storiografia G. Cosmacini, La medicina
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Storia e educazione civica Medicina e sanità pubblica, p. 456
Nuovi traguardi per la scienza medica LA MEDICINA DIVENTA UNA SCIENZA Negli ultimi decenni dell’800 la medicina si trasformò in una disciplina scientifica abbandonando le pratiche empiriche della tradizione. Questa trasformazione si basava su quattro princìpi: la diffusione delle pratiche igieniste e la conseguente adozione di efficaci strategie di prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche; lo sviluppo della microscopia, che consentì di identificare i microrganismi responsabili di alcune malattie infettive; i progressi della farmacologia che permise la sintesi e l’estrazione di numerose sostanze in grado di modificare il corso naturale delle malattie; la nuova ingegneria sanitaria, che rese possibile, con la costruzione dei grandi “policlinici” (con reparti specializzati), l’osservazione sistematica del malato.
il radio liberamente. Gli studi sulla radioattività valsero a Marie un insigne primato: fu la prima donna a ricevere il premio Nobel, conferito a lei e Pierre nel 1903, per la fisica. Pierre, dopo diversi rifiuti, venne ammesso alla prestigiosa Académie des Sciences e divenne docente di fisica alla Sorbona. Nel frattempo nacque Ève, seconda figlia della coppia (la primogenita Irène era nata nel 1897). La felicità, però, si interruppe bruscamente un pomeriggio piovoso del 1906, quando Pierre morì in un incidente stradale. Marie perse in un colpo solo il marito e il più prezioso collega. Per superare la depressione si dedicò intensamente alle figlie e al lavoro. Fu nominata a ricoprire l’incarico del marito, divenendo la prima donna ad insegnare alla Sorbona. In un vasto studio, il Traité de radioactivité, analizzò con precisione le ricerche fino ad allora condotte sulla radioattività – «la chimica dell’invisibile», come lei la definì. Si occupò, inoltre, di preparare il campione di misura del radio, che doveva essere usato come termine di confronto per tutte le ricerche internazionali, e riuscì ad ottenere il radio allo stato metallico.
Ż Marie Curie nel suo laboratorio 1905
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L’importanza degli studi che continuava a svolgere le valse, nel 1911, un secondo premio Nobel, questa volta per la chimica. La sua attività aveva aperto, inoltre, le porte ad ulteriori studi sulla fisica dell’atomo. Mentre fioccavano i riconoscimenti internazionali, la Francia si dimostrava insolitamente ostile: l’Académie des Sciences rifiutò di accogliere Marie fra i suoi membri, rimanendo un’istituzione esclusivamente maschile. Nel frattempo alcuni quotidiani di destra avevano orchestrato una campagna diffamatoria ai suoi danni, dopo la scoperta della sua relazione con Paul Langevin, suo collaboratore all’epoca sposato. Lo scandalo, oltre a causare la fine della sua relazione con Langevin, accentuò i tratti del suo carattere più rigidi e austeri. Nonostante quest’episodio, non esitò, allo scoppio della prima guerra mondiale, ad aiutare la sua patria adottiva. Sospese l’insegnamento per prestare aiuto nel Servizio Sanitario Nazionale, dove realizzò le petites curies, unità mobili attrezzate con apparecchi ai raggi X, che si muovevano lungo la linea del fronte. Finita la guerra, dopo un trionfale viaggio negli Usa, riuscì a realizzare il sogno che era stato anche del marito: la creazione a Parigi (e poi a Varsavia) dell’In-
stitut du Radium, il primo centro per lo studio fisico e chimico degli elementi radioattivi e per la ricerca sulle loro applicazioni mediche. Il radio era usato contro il cancro e per il trattamento di diverse malattie, ma non si comprendevano ancora appieno gli effetti che le radiazioni potevano avere sulla salute umana. Proprio in questo periodo molti dei collaboratori della Curie si ammalarono, e anche lei cominciò a riscontrare danni alla vista e all’udito. Cercò di tenere segrete le sue sofferenze e non si sottrasse mai alla direzione del laboratorio, affiancata dalla figlia Irène e da suo marito Frédéric Joliot, premiati col Nobel per la chimica, nel 1935, per la scoperta della radioattività artificiale. Marie non poté assistere alla premiazione: morì nel 1934, in seguito ad un’anemia causata dall’esposizione eccessiva alle radiazioni. Senza cerimonie ufficiali, alla sola presenza di amici e colleghi, venne sepolta accanto al marito Pierre, in un cimitero fuori Parigi. I fratelli sparsero sulla sua tomba una manciata di terra polacca. Nel 1995, per volere del presidente Mitterrand, le salme dei coniugi Curie sono state traslate nel Panthéon di Parigi, segnando l’ultimo primato di Marie, l’unica donna ad essere stata accolta nel mausoleo dove riposano le glorie della Francia.
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STORIA IMMAGINE William Heath, Una zuppa di mostri comunemente chiamata Acqua del Tamigi 1828 [Wellcome Library, Londra] In questa caricatura inglese, l’osservazione al microscopio di una goccia di tè lascia inorridita una donna borghese, che fa cadere
la sua tazza dopo aver visto con la lente centinaia di esseri mostruosi e sconosciuti. Si tratta dei batteri che pullulano nell’acqua inquinata del Tamigi, una delle cause principali della diffusione di colera e tifo all’inizio dell’800.
LA DIFFUSIONE DELLE PRATICHE IGIENISTE Partendo da osservazioni empiriche e dati statistici inoppugnabili e proponendo una serie di interventi dimostratisi poi efficaci (la canalizzazione delle acque di scarico, la lotta contro il sovraffollamento nelle abitazioni, la rigida circoscrizione dei focolai di epidemie), gli igienisti riuscirono a diffondere alcune pratiche preventive e a imporle, nonostante l’ostilità di gran parte della medicina “accademica”, all’attenzione dei poteri pubblici. Il rispetto dell’igiene si diffuse gradualmente anche negli ospedali, luoghi spesso di contagio e di infezione più che di cura, con l’adozione di alcune pratiche, che oggi a noi paiono elementari, come quella di lavarsi le mani tra una visita e l’altra. Parallelamente il francese Louis Pasteur e il tedesco Robert Koch identificarono dei microrganismi come agenti di alcune gravi malattie infettive: la peste, il colera e la tubercolosi. Una scoperta che, accertando la responsabilità dei germi nella genesi delle malattie infettive, dimostrava anche come le condizioni ambientali non fossero di per sé sufficienti a provocare l’insorgere del male, e che fu usata da molti medici per svalutare l’importanza dei fattori igienici.
Personaggi Marie Curie, la scienziata che vinse due Nobel, p. 448
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NUOVI FARMACI E NUOVI OSPEDALI Un’ulteriore e decisiva spinta ai progressi della medicina venne, sempre nella seconda metà dell’800, dalle scoperte della chimica – tra cui quelle dei coniugi Pierre e Marie Curie sulla radioattività –, che consentirono di agire sui processi fisiologici con l’isolamento di una serie di sostanze e la sintesi di numerosi farmaci. Già nel 1846, la scoperta degli effetti anestetici dell’etere dietilico aveva aperto la strada alla pratica dell’anestesia chirurgica. Nel 1860 fu la volta dell’acido acetilsalicilico, che dal 1875 avrebbe costituito la base della più diffusa fra le medicine dei nostri tempi, l’aspirina. Sempre al 1875 risale la sintesi del diclorodifeniltricloroetano (meglio noto come Ddt), un potente insetticida che consentì progressi decisivi nella lotta contro la malaria. Grazie a scoperte come queste, si sviluppò rapidamente una nuova industria farmaceutica, le cui fortune coincisero in molti casi con le fortune personali di celebri ricercatori come i tedeschi Friedrich Bayer e Heinrich Emanuel Merck. La radicale trasformazione delle terapie andò dispari passo con la contemporanea evoluzione subìta dagli ospedali, fino ad allora più ospizi per i poveri e i
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trovatelli che luoghi di cura per malati. Le nuove strutture realizzate in Europa negli ultimi decenni del secolo, i policlinici, si basavano su un’organizzazione razionale dello spazio, su padiglioni con ampie stanze ventilate, sulla suddivisione dei pazienti in reparti specializzati per tipi di malattie e sul rispetto delle più essenziali norme igieniche.
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LEGGERE LE FONTI
I nuovi ospedali dal Regolamento igienico-sanitario dell’Ospedale Maggiore e del Pio Istituto S. Corona, Milano 1884
Il seguente brano riproduce alcuni articoli del Regolamento igienico-sanitario dell’Ospedale Maggiore e del Pio Istituto S. Corona (1884) di Milano, che documenta la trasformazione
degli ospedali da ricoveri indifferenziati in luoghi di cura e di studio dei malati, organizzati razionalmente secondo i criteri della scienza medica e delle teorie igieniste.
Nosografia [descrizione della malattia] 41. Sopra il letto d’ogni infermo è appesa alla parete una tavola metallica che porta in tre spazi distinti le indicazioni del giorno dell’ingresso dell’ammalato nell’Ospedale, della sua malattia e della dieta assegnatagli. […] Assieme al foglio d’inscrizione si tengono i fogli del diario clinico, detti cedole, dove si ripetono alcune delle indicazioni espresse sul foglio d’inscrizione, e vi si registrano la diagnosi e le cause della malattia, l’anamnesi e lo stato dell’ammalato al giorno dell’ingresso, e giorno per giorno i sintomi, compreso lo stato della temperatura, della circolazione e della respirazione, le ordinazioni mediche, i soccorsi chirurgici e la dieta. […] Disposizioni igieniche
Materiale che riguarda il letto (lenzuola, federe, coperte ecc.).
68. Mediante ventilatori, preferibilmente costrutti in modo da aspirare l’aria esterna dall’alto, verrà mantenuta una conveniente aereazione nelle infermerie e nei locali annessi. Nella rigida stagione, ad evitare un soverchio raffreddamento degli ambienti, si attiveranno sistemi economici di ventilazione artificiale ad aria calda. 73. Le latrine costruite coi migliori sistemi, dovranno essere opportunamente isolate dalle infermerie, ed avere sufficiente spazio, luce e ventilazione con opportuno servizio d’acqua, tanto per la pulizia quanto per impedire nocive esalazioni. Le fogne stabili dovranno essere vuotate con sistema pneumatico. 74. I pozzi d’acqua potabile situati a debita distanza dai pozzi neri o da condotti che possano influire a rendere l’acqua meno pura, dovranno mantenersi costantemente espurgati e difesi in modo che non vi possano penetrare immondizie di sorta. [...] 78. Saranno rigorosamente osservate le disposizioni atte a mantenere la massima pulitezza degli ambienti e degli ammalati, delle biancherie dei letti e personali, degli abiti, delle suppellettili e degli utensili, dei recipienti per vitto e medicinali. Nei casi di morte e in quelli di malattia contagiosa il corredo dei letti dovrà essere rinnovato. Non si risparmieranno bagni di pulizia e lavature. Le spazzature, biancherie sporche, verranno tosto asportate dalle infermerie colle maggiori cautele onde evitare dannose esalazioni. [...] 81. In apposito locale verrà attivato un forno per la disinfezione e distruzione de’ parassiti esistenti negli abiti e negli effetti letterecci. [...] Riparto delle malattie contagiose 85. In questo riparto saranno adottati tutti quei provvedimenti che, compatibilmente colle condizioni di costruzione e di località, valgano ad assicurare il maggior possibile isolamento da ogni esterna comunicazione di persone ed effetti, e che per alcuni inevitabili contatti di persone e di cose sia attivata e controllata una rigorosa e metodica disinfezione coi mezzi riconosciuti più efficaci e praticamente applicabili. [...] 87. Le suppellettili e gli oggetti, come pure le biancherie in uso nel comparto contagiosi non verranno mai adoperati pel servizio delle infermerie comuni.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Quali sono le informazioni principali che vengono riportate sulla tavola metallica posta al di sopra del letto di ogni paziente? b Quali disposizioni vengono adottate per garantire un’adeguata areazione e pulizia delle infermerie e dei servizi igienici?
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c Quali misure igienico-sanitarie sono prescritte nei casi di morte o di patologie contagiose? d A quale scopo devono mirare i provvedimenti igienico-sanitari che riguardano i reparti delle malattie infettive?
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LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 9
Ospedale Pammatone, Genova [particolare di cartolina spedita nel 1905] Grandi ospedali furono costruiti in Italia già all’epoca dei Comuni. Si trattava di edifici grandiosi e dai cortili monumentali, con grandissime camerate alte 9 o 10 metri, male illuminate e ventilate, con una capienza di 40 o 50 letti ciascuna e con rari locali di servizio. I malati venivano collocati, da 2 a 4, su enormi letti e talvolta sullo stesso letto il morto si trovava accanto al convalescente, o questi accanto al malato infettivo. Dopo il 1850 l’ospedale iniziò ad essere considerato un luogo di assistenza e di cura dei malati. Fu necessario cambiare forme e arredamento dell’edificio. Quando non fu possibile costruire nuovi appositi edifici, in quelli già esistenti furono divise le grandi sale, e furono costruiti nuovi locali di servizio, coerentemente con il rafforzamento dell’orientamento igienista che, già da molto tempo, insisteva sull’importanza di adottare misure igieniche e di applicare norme di profilassi individuali e pubbliche. In queste fotografie dell’inizio del ’900 vediamo il cortile e una corsia dell’ospedale Pammatone di Genova. Questa struttura venne edificata nel 1751 e fu utilizzata fino al 1907-11 quando fu costruito e poi inaugurato il nuovo ospedale cittadino San Martino.
GUIDA ALLA LETTURA a Chi sono le persone fotografate? Da quali elementi le puoi ricono- b Alla luce delle informazioni contenute nel cappello introduttivo, scere? Rispondi alle domande facendo riferimento a quanto puoi come puoi spiegare le novità messe in rilievo dalle fotografie? osservare. Quindi descrivi il cortile, la corsia e la qualità degli ambienti.
Leggere una carta storica 7 Città, ferrovie, acciaio ed energia alla fine del XIX secolo, p. 454
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4
La crescita demografica L’INNALZAMENTO DELLA VITA MEDIA A partire dalla seconda metà dell’800, i progressi della medicina e dell’igiene, assieme agli sviluppi dell’industria alimentare, determinarono un vistoso aumento della popolazione. I grandi fattori che nei secoli precedenti avevano inciso negativamente sull’andamento demografico (epidemie e carestie) sembravano ormai definitivamente eliminati, nonostante alcuni episodi significativi ma marginali che ancora colpivano le aree più depresse, come il colera a Napoli e a Palermo nel 1884-85. La vita media dell’uomo europeo, che era di 30-35 anni prima della rivoluzione industriale, poté salire a 50 anni alla fine del secolo. La popolazione europea, che fra il 1800 e il 1850 era passata da 190 a 270 milioni, raggiunse nel 1900 i 425 milioni: l’aumento fu dunque di quasi il 60% in cinquant’anni, senza contare i circa 30 milioni di
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C15 La seconda rivoluzione industriale
LA CRESCITA DEMOGRAFICA Pratiche igieniche + industria farmaceutica
Industria chimica conserviera + celle frigorifere
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individui che avevano abbandonato l’Europa e si erano in buona parte trasferiti negli Stati Uniti; qui l’immigrazione, sommandosi all’incremento naturale della popolazione, fece quasi quadruplicare il numero degli abitanti – da poco più di 20 milioni nel 1850 a quasi 80 nel 1900.
•
LA DIMINUZIONE DELLE NASCITE Questo aumento della popolazione fu tanto più notevole in quanto Riduzione Riduzione era dovuto soprattutto alla diminuzione significativa della mortalità delle carestie della mortalità e si accompagnava a una progressiva riduzione della natalità: questo duplice andamento individuava quella che i demografi hanno chiamato la seconda transizione demografica tipica del mondo contemporaneo. La tendenza al calo delle nascite, per effetto del controllo della fecondità e della AUMENTO diffusione delle pratiche contraccettive, si era DEMOGRAFICO manifestata precocemente in Francia già alla fine del ’700 e si diffuse in seguito in tutto l’Occidente. Questo comportamento demografico, proprio dei paesi economicamente più avanzati, esprimeva un nuovo atteggiamento nei confronti della vita e dei figli: un atteggiamento meno soggetto al tradizionale controllo delle norme religiose e orientato invece a programmare razionalmente la famiglia e il suo futuro. Agli inizi dell’età industriale i principali paesi europei avevano un tasso di natalità medio che si aggirava intorno al 35‰ (ossia 35 nati per anno ogni mille abitanti). Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, in Gran Bretagna, in Germania e negli Stati Uniti, il tasso scese sotto il 30‰. In Francia la natalità era inferiore al 30‰ già nel decennio 1830-39. In Italia e in altri paesi mediterranei, ancora alla fine dell’800, il tasso si manteneva invece ben al di sopra del 35‰: sarebbe sceso sotto il 30‰ solo negli anni ’20 del ’900. Per quanto riguarda l’Asia e l’Africa, anch’esse conobbero nella seconda metà dell’800, nonostante il permanere di alti tassi di mortalità, un incremento della popolazione abbastanza consistente (rispettivamente del 30 e del 20%), anche se molto più limitato di quello dell’Europa. Il rapporto fra la crescita demografica delle aree industrializzate e quella dei paesi non ancora toccati dalla modernizzazione avrebbe cominciato a invertirsi solo con l’inizio del ’900.
STORIA IMMAGINE Mary Cassatt, Madre e figlio 1890 ca. [Wichita Art Museum, The Roland P. Murdock Collection, Kansas] ŹŹ
Berthe Morisot, La culla, 1872 [Musée d’Orsay, Parigi] Ź
Nell’ambito della pittura impressionista francese, occupano un posto di rilievo le esperienze artistiche di alcune donne. La francese Berthe Morisot (1841-1895), risentì dell’influenza di Édouard Manet, di cui fu anche modella. Sposatasi con Eugène Monet, fratello dell’artista Claude, predilesse nella sua pittura paesaggi e scene familiari. La sua opera più celebre, La culla del 1872, propone un doppio ritratto: quello di Edma Morisot, sorella dell’artista, e quello della piccola figlia Blanche. Nel dipinto i lineamenti della madre sono attentamente descritti, mentre la neonata, coperta dalla tendina, appare come avvolta in un bozzolo, reso con lievi strati di colori bianchi e grigi punteggiati di rosa. Anche la pittrice statunitense Mary Cassatt (1845-1926), che dopo aver studiato l’arte antica si trasferì a Parigi per legarsi al movimento impressionista, privilegiò scene
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di vita intima e familiare, come si vede nel quadro qui riportato in cui madre e figlio sono colti in un momento di quotidiana tenerezza.
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Aree industrializzate prima del 1850
Industrie chimiche
Aree industrializzate fra XIX e XX secolo
Industrie metallurgiche e meccaniche
Aree ad alta concentrazione di attività industriali
Centrali idroelettriche
ITALIA Confini moderni
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Principali città al 1900 1.000.000 - 2.000.000 ab.
Giacimenti di ferro
2.000.000 - 4.000.000 ab.
Giacimenti di carbone
Oltre i 6.000.000 ab.
e
Nel 1850 l’Europa del nord-ovest è largamente industrializzata, mentre a sud e a est del continente la presenza di industrie è assai rada e la rete ferroviaria pressoché inesistente. A questa data l’industrializzazione prende piede nel nord-est degli Stati Uniti, mentre tra il 1870 e l’inizio del XX secolo essa guadagna il resto del continente europeo e il Giappone. Un fenomeno che accompagna dappertutto il processo di industrializzazione è l’aumento del tasso di urbanizzazione: la popolazione tende spostarsi dalle campagne nelle città, dove è più facile trovare lavoro nel settore industriale. I decenni di fine secolo sono anche quelli della seconda rivoluzione industriale, che ha nell’integrazione tra ricerca scientifica e innovazione tecnologica la sua cifra caratteristica e nella produzione dell’acciaio e dell’energia elettrica il suo emblema. Decisivo per lo sviluppo dei nuovi settori industriali (chimica, elettricità, automobile) è l’investimento di ingenti capitali. La seconda rivoluzione industriale determina cambiamenti epocali, modificando profondamente l’economia, i modi e le abitudini di vita dei paesi industrializzati.
U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale
c
Città, ferrovie, acciaio ed energia alla fine del XIX secolo
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O
LEGGERE UNA CARTA STORICA
Industrie tessili
IIRLAN
B. SVILUPPO DELLA RETE FERROVIARIA IN EUROPA, 1870
C. L’INDUSTRIA NEGLI STATI UNITI
LEGGERE E INTERPRETARE
Alaska (USA)
Boston New York
a. Soffermati sulla carta A. 1 Quali paesi europei sembrano aver conosciuto un elevato sviluppo industriale tra il 1850 e la fine del secolo? 2 Quale industria è la più sviluppata nel 1850? E a fine secolo? 3 Quali sono le nuove fonti d’energia utilizzate e in quali aree del continente sono localizzati i giacimenti o gli impianti? 4 Dove sono localizzati i più grandi agglomerati urbani europei? Come si spiega il fenomeno? 5 Come si spiega la localizzazione dei principali centri industriali europei? Per rispondere, metti in relazione le risposte precedentemente fornite. b. Soffermati sulle carte A-D. 1 In quali paesi extraeuropei l’industrializzazione prende piede tra il 1850 e la fine del XIX secolo? 2 Quali sono i maggiori poli industriali nel mondo alla fine del XIX secolo?
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Philadelphia
Aree ad alta concentrazione di attività industriali
Pozzi petroliferi
Giacimenti di ferro
Industrie chimiche
Giacimenti di carbone Industrie tessili Industrie metallurgiche e meccaniche
Principali città 1.000.000 - 2.000.000 ab. 2.000.000 - 4.000.000 ab.
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C15 La seconda rivoluzione industriale
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A. L’EUROPA INDUSTRIALE (FINE XIX SEC.)
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San Pietroburgo SVEZIA
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D. L’INDUSTRIA IN GIAPPONE ton Aree ad alta concentrazione di attività industriali
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Giacimenti di ferro Giacimenti di carbone M
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Principali città 1.000.000 - 2.000.000 ab.
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Tokyo
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
Medicina e sanità pubblica La sanità pubblica è costituita da tutti gli organismi statali (centrali, come in Italia il Ministero della Salute, e periferici, come le Aziende sanitarie locali) chiamati a tutelare lo stato di salute di una comunità prevenendo le cause delle malattie e predisponendo appositi meccanismi di intervento per controllare e curare la malattia. Consiste quindi in un intervento dello Stato per la tutela di un diritto fondamentale dell’individuo, quello alla salute. Esempi di sanità pubblica sono riscontrabili già nel passato: provvedimenti come la quarantena, l’isolamento degli appestati e gli ospedali, per quanto assolutamente inadeguati, rappresentavano un esempio di intervento “pubblico” volto a tutelare la salute della popolazione. Fu la Francia rivoluzionaria, nel 1793, a riconoscere il diritto alla salute tra i diritti fondamentali dell’uomo e a indicare nello Stato il principale garante di questo diritto. Ma i primi passi concreti furono compiuti in Gran Bretagna dove, a partire dal 1802, furono varate una serie di leggi per tutelare, con una riduzione delle ore di lavoro, i lavori più faticosi come quelli in miniera e nelle fabbriche. Nel frattempo, dopo le scoperte del medico Edward Jenner (1749-1823), si andava diffondendo la
U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione U4 Nazione industriale e libertà
vaccinazione contro il vaiolo e le nuove conoscenze scientifiche spingevano la classe politica a intervenire in modo sempre più concreto. Così, con il Public Health Act (1848) si istituì nelle principali città degli uffici sanitari con il compito di controllare acque, fogne e alimenti. Quello britannico fu di fatto il primo esempio nella storia di sistema sanitario nazionale. Molto incisive furono anche le iniziative in campo sanitario in Germania dove, nel 1876, furono introdotti un Ufficio di igiene pubblica e una legislazione igienico-sanitaria unica per tutto il paese. Pochi anni dopo, nel 1883, il cancelliere tedesco Otto von Bismarck introdusse il sistema delle assicurazioni obbligatorie contro le malattie (gli operai avrebbero ricevuto un’indennità di malattia per le prime tredici settimane di assenza dal lavoro per motivi di salute). Negli anni ’70 dell’800, con la nascita della batteriologia, gli interventi sanitari ebbero finalmente una base scientifica e affidabile. Ciò permise di unificare la ricerca medica sulle cause e le terapie delle malattie. Fu così che nacquero le prime organizzazioni sanitarie internazionali, come l’Ufficio sanitario panamericano (1902) di Washington e l’Ufficio internazionale di igiene pubblica (1907) con sede a Roma. Nel secondo dopoguerra, l’Organizzazione mondiale della sanità fu la prima istituzione a porsi come obiettivo la tutela della salute a livello mondiale. In Italia, dove nel 1800 erano stati Ż Un intervento chirurgico seconda metà XIX sec.
ŹŹ Heinrich Hoffmann, Pierino Porcospino 1847 Pierino Porcospino è un personaggio creato dal medico tedesco Heinrich Hoffmann, come modello negativo del bambino ribelle alle regole dell’educazione e dell’igiene. I rigidi schemi pedagogici ottocenteschi nascevano anche dalla necessità di imporre norme per la difesa dalle malattie in un periodo in cui si andava diffondendo la tutela per l’igiene personale e pubblica. Gli stessi princìpi sono alla base della riorganizzazione ottocentesca degli ospedali, dove reparti e sale operatorie vengono progettati secondo criteri igienici e funzionali, come mostrato nella foto sotto: le pareti sono tutte piastrellate per assicurare la pulizia, una lampada è disposta al di sopra del tavolo operatorio per assicurare la migliore illuminazione, gli strumenti custoditi e protetti in apposite vetrine, il tavolo, snodato, consente di sollevare le spalle del paziente facilitandone la respirazione, infermieri e medici vestono con uniformi. Sul volto del paziente la maschera per l’anestesia, che negli stessi anni diviene una pratica diffusa.
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vaccinati solo 400 bambini contro il vaiolo, verso la fine del XIX secolo si fece molto acceso il dibattito sulla necessità di un intervento pubblico in materia sanitaria. Essenziale fu il contributo di medici e ricercatori. Secondo il parlamentare e medico Augusto Murri (1841-1932), quando un medico «è condannato tutta la vita a contemplare, impotente, di quante calamità gli ordinamenti sociali e politici son fecondi per tanti sventurati, egli diventa nemico di questo che pomposamente si suole chiamare ordine [...]. Per questo noi ci schieriamo tra coloro che combattono più ardentemente per un ordine nuovo». Per i medici attivisti italiani dell’800 la salute pubblica era una missione. «L’ora è propizia. I medici colgano il destro del risveglio che nelle popolazioni manifestasi per tutto che tocca la salute pubblica»: così scriveva il medico e senatore Giacinto Pacchiotti (1820-1893). Le parole e le pressioni di questi autorevoli e appassionati esponenti della politica italiana non rimasero inascoltate e nel 1887, presso il Ministero dell’Interno, nacque il primo Ufficio di sanità. Un ruolo di avanguardia nel contesto internazionale fu svolto ancora dall’Italia con la Costituzione del 1948, la prima a livello mondiale a contemplare il diritto alla salute tra i diritti fondamentali. Infatti l’articolo 32 dichiara che: «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Criteri ispiratori della norma furono i princìpi di libertà e uguaglianza e la possibilità, per tutti i cittadini, di accedere alle cure mediche secondo la propria volontà, come garantito dal secondo comma dell’articolo: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». L’attuale Sistema sanitario nazionale (Ssn) italiano è nato nel 1978, sulla scorta dei princìpi costituzionali. A differenza dei sistemi sanitari assicurativi (come quelli bismarckiano e statunitense), il modello del Sistema sanitario nazionale prevede la copertura sanitaria dell’intera popolazione nazionale tramite strutture pubbliche (o convenzionate) e viene finanziato per mezzo del prelievo fiscale. Il sistema sanitario italiano, se da una parte assicura il pieno godimento di un diritto fondamentale, dall’altra ha il grave inconveniente di essere molto oneroso per le casse dello Stato, unico responsabile di una lunga serie di prestazioni che vanno dalla prevenzione alla cura e riabilitazione del malato.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
C15 La seconda rivoluzione industriale
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Costruiamo il lessico del cittadino 1 Leggi la scheda e completa sul quaderno le seguenti definizioni: a. Si definisce tutela della salute il principio costituzionale in base al quale lo Stato .....................................................
b. Si definisce Sistema sanitario nazionale il sistema di .... ..................................................................................
Il diritto alla salute nella Storia 2 Completa la tabella inserendo i provvedimenti presi dai governi europei, tra fine XVIII e inizio XIX secolo, a tutela del diritto alla salute dei cittadini Paese
Data/e
Provvedimento/i
Francia
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Gran Bretagna
• ..................................... • ............................................................................................................................. • ..................................... • .............................................................................................................................
Germania
• ..................................... • ............................................................................................................................. • ..................................... • .............................................................................................................................
Italia
........................................ .................................................................................................................................
3 Spiega in che modo la classe politica italiana ha modificato in positivo il proprio atteggiamento nei confronti della salute pubblica tra la fine dell‘800 e l’avvento della Repubblica. Noi e il Sistema sanitario nazionale (Ssn) 4 Per scoprire come nel concreto lo Stato tutela la nostra salute, consulta il sito ufficiale del Ministero della Salute (www.salute.gov.it). Sulla barra di navigazione in alto, clicca su “La nostra salute”, poi su “Tu e il Servizio Sanitario Nazionale”, ancora su “Il Servizio Sanitario Nazionale”. Rispondi ora ai seguenti quesiti, navigando all’interno di questa sezione: a. Quali sono i princìpi fondamentali su cui il Ssn si basa? e. In quali casi il cittadino può rivolgersi gratuitamente a strutture sanitarie private? b. Quali i suoi princìpi organizzativi? f. Che cos’è la tessera sanitaria? Come la si può richiedere? c. In che modo il cittadino contribuisce al funzionamento del Ssn? g. Che cosa sono i Livelli essenziali di assistenza (Lea) e in cosa consiste la loro importanza? d. Che cos’è il ticket? Chi ha diritto all’esenzione? h. Come si finanzia il Ssn? Clicca ora su “Servizi al cittadino e al paziente” e rispondi alle domande: a. I cittadini iscritti al Ssn possono ricevere cure nei paesi b. I cittadini non comunitari hanno diritto all’assistenza dell’Ue? sanitaria? Proteggiamo la nostra salute 5 Lo Stato tutela la salute non solo attraverso interventi finalizzati alla cura delle malattie già intervenute, ma anche attraverso campagne di informazione, prevenzione e diagnosi precoce. Una adeguata informazione è importante ai fini della prevenzione, poiché ci consente di evitare comportamenti dannosi per il nostro equilibrio fisico e psichico o che possono favorire l’insorgere di certe patologie. Dalla barra di navigazione del sito del Ministero della Salute (www.salute.gov.it) clicca su “Temi e professioni”, su Indice A-Z e poi su “Guadagnare salute-Stili di vita”. Leggi in cosa consiste il programma e approfondisci uno dei seguenti temi: attività fisica, alcol, alimentazione, fumo. Immagina di lavorare per un’agenzia di comunicazione incaricata di realizzare uno spot pubblicitario per una campagna di prevenzione. Puoi utilizzare i mezzi tradizionali o i nuovi media: l’importante è veicolare in maniera semplice, chiara ed efficace il messaggio di prevenzione. Che cos’è l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms)? 6 Per saperne di più sull’istituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), i suoi obiettivi e gli strumenti di cui si serve per perseguirli, dalla barra di navigazione del sito del Ministero della Salute (www.salute.gov.it) clicca su “Temi e professioni”, poi su “Sanità internazionale” e infine su “Organizzazione Mondiale della Sanità”. Leggi il documento e riassumilo in tre slide di PowerPoint: storia/obiettivi/organi di governo.
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ARTE E STORIA
Disegnare col ferro: l’industria al servizio dell’architettura urbana I nuovi processi industriali avevano messo a disposizione l’uso del ferro anche per gli architetti. I progettisti delle città potevano contare su leghe metalliche come la ghisa, che fondendo a temperature non troppo elevate può essere utilizzata per creare con degli stampi colonne, travi, ringhiere e inferriate. Costruendo col ferro, infatti, i progettisti non dovevano tenere conto delle esigenze statiche e meccaniche proprie delle strutture murarie tradizionali. Le potenzialità di questo materiale per le infrastrutture delle città industriali del XIX secolo erano enormi, e il paesaggio urbano tradizionale accolse così ponti, acquedotti, padiglioni e antenne, elementi che dovevano sembrare avveniristici agli uomini e alle donne del tempo. Del resto, era uno degli scopi di queste realizzazioni e non è un caso che le costruzioni in ferro fossero il materiale prediletto per le esposizioni universali. La Tour Eiffel, inaugurata proprio per l’Esposizione di Parigi del 1889, doveva servire proprio a mostrare quanto fossero superiori le tecniche ingegneristiche francesi, prima ancora di essere utilizzata come stazione meteorologica e antenna radio. Per intervenire nella realtà trasformandola in funzione delle nuove esigenze, i progettisti dell’800 attinsero dunque agli ambiti più diversi. Calcolo strutturale, fattore economico e prodotto industriale erano i nuovi criteri che dovevano ora guidare la realizzazione delle infrastrutture. Grazie all’apporto degli ingegneri, anche l’architettura urbana si industrializzò. In primo luogo, si cominciarono a utilizzare elementi prefabbricati realizzati per mezzo delle tecniche messe a punto negli stabilimenti manifatturieri (blocchi di cemento armato, segmenti metallici, lastre di vetro, ecc.). Soprattutto, però, per i suoi progetti venne messa in piedi una vera e propria organizzazione industriale. I cantieri furono fabbriche dentro le città, per il numero di persone coinvolte, per l’indotto produttivo in grado di generare, per il rapporto sempre più stretto tra ideazione architettonica e soluzioni ingegneristiche di avanguardia. Basti pensare alla complessa macchina industriale necessaria a realizzare con l’acciaio il ponte di Brooklyn, che
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U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale
ancora oggi attraversa il fiume East River a New York. John August Roebling (1806-1869) propose l’idea per la prima volta nel 1855, ma i lavori iniziarono solo nel 1868. Il primo progettista morì per una brutta ferita sul cantiere e la direzione dei lavori passò allora al figlio Wa-
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shington. Riuscire a trovare i capitali e a calcolare la tenuta statica dell’opera non era però la parte più difficile dell’impresa. Le condizioni di lavoro erano pessime, soprattutto per gli operai impegnati nelle fondazioni subacquee del ponte. Costoro dovevano calarsi sotto le acque del fiume dentro delle casse pneumatiche ad alta pressione (i cosiddetti “cassoni”), in modo da non far entrare l’acqua dall’esterno. Gli incidenti furono però frequenti e molti persero la vita per annegamento o per le conseguenze dirette del lavoro in profondità. Washington Roebling stesso rimase paralizzato per un’embolia gassosa che si era procurato durante un sopralluogo nelle camere di scavo sottomarine. I lavori furono completati solo grazie alla caparbietà di sua moglie, Emily Warren Roebling, che diresse i lavori facendo la spola tra il cantiere e il letto del marito. Quando fu inaugurato nel 1883 era il più grande ponte sospeso mai costruito al mondo.
PISTE DI LAVORO a. Realizza una piccola scheda divulgativa sulla Torre Eiffel, che non superi le 50/60 parole. Ricordati di digitare nella maschera di ricerca di Google “parigi.eu/monumenti/ eiffel”. b. Spiega in che senso il ponte di Brooklyn è un esempio di industrializzazione dell’architettura urbana Ÿ Alexandre-Gustave Eiffel, Torre Eiffel 1887-89, acciaio, altezza totale 324 m. Parigi
ź John Augustus Roebling, Il ponte di Brooklyn a New York 1868-83
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C15 La seconda rivoluzione industriale
C15 La seconda rivoluzione industriale
RICORDARE L’ESSENZIALE Crisi e protezionismo L’ultimo trentennio dell’800 fu caratterizzato da una profonda trasformazione economica. La crisi di sovrapproduzione del 1873 diede inizio a una fase di rallentamento dello sviluppo e di caduta dei prezzi, conseguenza soprattutto delle trasformazioni dell’organizzazione del lavoro e delle innovazioni tecnologiche. In Europa gli effetti più gravi della caduta dei prezzi si ebbero nell’agricoltura, anche per la concorrenza dei prodotti americani, più convenienti sul mercato. Si affermò nei vari Stati una politica di sostegno all’economia nazionale attraverso il protezionismo. Anche la crisi agraria favorì l’affermazione di politiche doganali per proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza estera. Un altro effetto della crisi fu l’ingente migrazione europea verso l’America del Nord, il Brasile e l’Argentina. Solo la Gran Bretagna rimase estranea alla tendenza generale protezionistica, allargando, di contro, i commerci internazionali con le colonie. Sempre di ispirazione protezionista fu la tendenza di varie imprese, spesso afferenti a uno stesso settore, a consociarsi e accordarsi per una più efficace azione sul mercato, stabilendo, per esempio, il prezzo dei prodotti per ridurre al minimo la concorrenza. Queste complesse operazioni finanziarie (cartelli, trusts, pools) richiedevano un ingente impiego di ca-
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Audiosintesi per paragrafi
pitali, per cui sempre più determinante risultò il sodalizio tra banche e industrie, che diede vita al cosiddetto capitalismo finanziario. La seconda rivoluzione industriale Caratteristica fondamentale della seconda rivoluzione industriale fu il rinnovamento tecnologico nei nuovi settori dell’industria chimica, elettrica e dell’acciaio. Quest’ultimo, in particolare, conobbe applicazioni d’uso in svariati campi, da quello industriale a quello della nuova edilizia urbana. Furono soprattutto gli sviluppi della chimica ad aprire nuove prospettive in quasi tutti i settori produttivi: dalla produzione di alluminio a quella dei coloranti e delle fibre tessili artificiali, ai nuovi metodi di conservazione degli alimenti. Tuttavia furono l’invenzione del motore a scoppio e la produzione di energia elettrica ad assurgere a simbolo della seconda rivoluzione industriale: la prima produceva energia motrice per gli autoveicoli, dando così un impulso decisivo all’estrazione del petrolio; la seconda rivoluzionava la vita quotidiana, con l’invenzione della lampadina a opera di Edison, e forniva, con le centrali idroelettriche, forza motrice per gli usi industriali. Anche il campo delle comunicazioni venne rivoluzionato da innovazioni epocali: basti pensare al telegrafo (che consentiva la trasmissione
quasi in tempo reale delle informazioni da un capo all’altro del mondo), al grammofono e al cinematografo (che consentivano una riproduzione di suoni e immagini in movimento). La rivoluzione investì anche la medicina, che si trasformò in una disciplina scientifica fondata su quattro princìpi. In primo luogo, la prevenzione e il contenimento delle malattie epidemiche attraverso la diffusione delle pratiche igieniste e lo sviluppo della microscopia, che consentì l’identificazione dei microrganismi responsabili delle malattie infettive. Queste e altre malattie vennero controllate e combattute grazie ai progressi della farmacologia e dalla nascita delle prime industrie farmaceutiche. Infine, la nuova ingegneria sanitaria, che garantì migliori condizioni di trattamento e degenza ai malati, accolti ora in moderni ospedali (policlinici), organizzati in reparti. I progressi della medicina e dell’igiene, sommandosi allo sviluppo dell’industria alimentare, favorirono una riduzione della mortalità, che, a sua volta, determinò un sensibile aumento della popolazione. Ciò avvenne nonostante il calo delle nascite, verificatosi nei paesi economicamente più avanzati, in virtù della diffusione di pratiche contraccettive e di una nuova mentalità tesa a programmare razionalmente la famiglia.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Alla fine dell’800 si ebbero delle trasformazioni economiche tali che si è parlato di “seconda rivoluzione industriale”. b. La caduta dei prezzi, tra il 1873 e il 1895, incise negativamente sul tenore di vita dei lavoratori salariati. c. L’Inghilterra fu il primo Stato europeo a intraprendere politiche protezionistiche in campo economico. d. Con il declino del liberismo si venne a creare uno stretto rapporto di compenetrazione fra banche e imprese. e. Si venne a creare uno stretto intreccio tra imprenditori e operai chiamato trust. f. Fino al 1913, l’impiego di acciaio fu limitato al settore cantieristico e militare. g. Grazie ai bassi costi di produzione, alla fine dell’800, il petrolio divenne il combustibile più utilizzato. h. L’utilizzo dell’elettricità come mezzo di illuminazione pubblica fu più lento rispetto all’impiego domestico. i. Il rispetto dell’igiene fu inizialmente osteggiato da gran parte della medicina “accademica”. j. L’aumento della popolazione, nella seconda metà dell’800, fu accompagnato dal calo delle nascite in Occidente.
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U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale 460
2 Per schematizzare i fenomeni che caratterizzarono la «grande depressione» di fine ’800, completa la mappa concettuale inserendo negli appositi spazi i numeri corrispondenti ai termini elencati: 1. nuova organizzazione del lavoro / 2. tariffe doganali / 3. intreccio tra banche e imprese / 4. aumento del potere d’acquisto / 5. economia / 6. aumento della forza contrattuale / 7. ricerca di nuovi mercati / 8. innovazioni tecnologiche / 9. commesse per le forze armate / 10. Formazione di holding
crisi di sovrapposizione
lavoro
Stato
capitale
3 Completa la tabella sinottica relativa allo sviluppo dei nuovi settori industriali, potenziati o introdotti con la seconda rivoluzione industriale. Settore di ricerca
Campi di applicazione/Nuovi prodotti
Nuovi materiali: l’acciaio
....................................................................................................................................................
............................................
Alluminio, coloranti artificiali, dinamite, pneumtici, fibre tessili artificiali; nuovi metodi per la conservazione e l’inscatolamento.
I combustibili: il petrolio
....................................................................................................................................................
Nuove tecnologie
Motore a scoppio ............................................................................................................................
L’elettricità
....................................................................................................................................................
4 Rispondi alle seguenti domande inerenti ai fenomeni che caratterizzarono la crisi agraria europea: a. L’Europa costituiva una realtà omogenea sul piano agricolo? Per quali ragioni? b. Che cosa rese possibile la formazione di un mercato internazionale dei prodotti agricoli? Quali ripercussioni ebbe sull’economia europea? c. Attraverso quali interventi i governi nazionali cercarono di sostenere le economie locali? Con quali conseguenze sociali? d. In che modo l’economia statunitense beneficiò della crisi europea? Quali flussi alimentò?
COMPETENZE IN AZIONE 5 Seguendo i punti proposti in scaletta, e utilizzando le immagini presenti nel capitolo, scrivi un testo (max 40 righe) dal titolo «Popolazione, salute e risorse nella seconda rivoluzione industriale»: a. b. c. d. e.
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Diversamente che in passato, la crescita della popolazione durante il XIX secolo non fu dovuta a... ma... La speranza di vita dell’uomo europeo divenne... Sul piano medico e farmacologico si ebbero importanti innovazioni come... Sul piano alimentare, invece, i progressi nel campo... comportarono... Al boom demografico non seguì questa volta una ciclica diminuzione della popolazione, ma...
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FARE STORIA Borghesia e classe operaia
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Borghesia e classe operaia Lo sviluppo dell’industrializzazione ebbe profonde conseguenze in campo sia economico sia sociale. Nella seconda metà dell’800 la borghesia si affermò come classe dirigente in ascesa. Era una classe molto eterogenea, ma esprimeva valori, comportamenti e mentalità simili, che tendevano a differenziarla sia dal vecchio ceto aristocratico che dagli strati sociali inferiori. È su questi aspetti che si concentra Jürgen Kocka [Ź70], guardando anche al successo che ebbe il “modello borghese”. L’industrializzazione, oltre all’ascesa della borghesia, provocò la crescita della classe operaia. Alain Dewerpe [Ź71] ci guida all’interno della fabbrica, simbolo della
STORIOGRAFIA 70 J. Kocka, Borghesia e società borghese nel XIX secolo, in Id. (a c. di), Borghesie europee dell’Ottocento [1989], Marsilio, Venezia 1995, pp. 19-23., pp. 355-66.
Osservate da questa prospettiva di storia della cultura, la borghesia economica e quella colta ci appaiono egualmente dominate da una grande considerazione per le prestazioni individuali, su cui fondavano le loro pretese al benessere economico, alla stima sociale e all’influenza politica. Vi si intrecciava un atteggiamento positivo nei confronti del lavoro ordinato ed un’inclinazione tipica ad una condotta di vita razionale e metodica. In questo senso, caratteristicamente borghese era l’aspirazione all’autonomia organizzativa, anche nella forma dei circoli e delle associazioni, dei consorzi e dell’autogoverno, in contrapposizione all’intervento autoritario dall’alto. L’enfasi sull’istruzione (invece che sulla religione) permeava l’immagine che il borghese aveva di sé e del mondo. Essa, testimoniata dall’uso delle citazioni o dalla facilità di conversazione, era al tempo stesso un segno di appartenenza ed un mezzo di distinzione. Un rapporto estetico con l’alta cultura (arte, letteratura, musica) le era proprio, non meno che il rispetto per la scienza. E sicuramente il mondo borghese era caratterizzato in modo determinante da uno specifico ideale familiare; la famiglia come una comunità autofondante con un fine autonomo, come una sfera modellata da
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rivoluzione industriale, concentrando la sua attenzione sull’organizzazione del lavoro e sul suo disciplinamento. Un importante romanziere francese dell’800 come Émile Zola [Ź72] descrive la vita lavorativa e sociale di un gruppo di minatori. Lo storico Eric J. Hobsbawm [Ź73], invece, riflette sull’emergere sia di una cultura operaia, con alcune precise caratteristiche, sia di una coscienza di classe, veicolo di coesione interna e di antagonismo verso le classi capitalistiche. Arno J. Mayer [Ź74], infine, rilegge in modo critico il tradizionale ruolo di innovazione assegnato alla borghesia, mettendo in luce la persistenza dell’antico regime nelle società europee.
J. Kocka La cultura borghese Lo storico tedesco Jürgen Kocka (nato nel 1941) è stato uno degli esponenti di spicco della Neue Sozialgeschichte (“nuova storia sociale”) e ha dedicato numerosi studi specifici alle trasformazioni delle società europee fra ’800 e ’900. Per Kocka, ad unificare i diversi settori di una classe eterogenea come quella della borghesia, erano lo sforzo di differenziarsi da nobiltà e ceti inferiori, la cultura e lo stile di vita. Nel brano proposto si analizzano gli elementi distintivi della mentalità, dei valori, del modo di vivere borghese. Questi si diffusero progressivamente in altri gruppi e strati sociali (il processo di cosiddetto «imborghesimento»), ma incontrarono sempre un limite nelle condizioni economiche e materiali da soddisfare per accedere alla borghesia (ad esempio il reddito). rapporti emozionali, invece che dall’utilità e dalla concorrenza, e in contrasto con l’economia e la politica; la famiglia come spazio della privacy giuridicamente protetto, liberato dalle incombenze materiali dal «lavoro delle domestiche», e completamente separato dal mondo esterno. La cultura borghese fu un fenomeno urbano. Forse ad essa appartenne anche una certa parte delle virtù liberali come la tolleranza, la disponibilità al conflitto e al compromesso, la critica all’autorità e l’amore per la libertà [...]. Se dunque si sceglie di individuare la coesione dei borghesi e la loro differenziazione dagli altri attraverso norme, mentalità e modi di vita, si sarà indotti ad apprezzare l’enorme importanza delle forme simboliche per la costruzione di un’identità borghese: il modo di stare a tavola e le conversazioni, i titoli e le buone maniere, l’abbigliamento o i cappelli (oggi fuori moda). Questo insieme di momenti culturali che definiscono la borghesia è ciò a cui si allude quando si parla del modo di essere dei borghesi. [...] Indubbiamente la «borghesia», quando più, quando meno, fu sempre soltanto una formazione sociale sfaccettata, mal delimitata verso l’esterno e quindi dotata di una precaria unità. [...]
Bisogna infine ricordare che la cultura borghese trasse dalle sue ascendenze illuministiche una componente generalizzante che era estranea alla cultura nobiliare, o patrizia, o contadina: l’aspirazione alla diffusione universale di norme borghesi come il riconoscimento delle capacità, una condotta di vita metodica e l’amore per il lavoro ordinato. Se qualcosa era vero, buono e bello, per principio lo doveva essere per tutti. Ai valori illuministici apparteneva anche la pretesa di costituire un modello educativo per l’umanità. [...] Con ciò la cultura borghese, per quanto funzionasse da segno di distinzione, finì per oltrepassare i confini dell’ambiente sociale d’origine. Quanto più essa fu forte, attraente o egemonica, tanto più si sottrasse a una precisa attribuzione sociale, diventando idonea per l’esatta definizione di una borghesia chiaramente distinta, al punto che i confini esterni della borghesia diventarono tanto più incerti, quanto più solidamente si affermò il suo modello culturale. [...] Determinati elementi della cultura borghese esercitarono una considerevole forza di attrazione e di influenza. Si pensi al modello della famiglia borghese, al quale presto si aspirò anche
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negli ambienti operai. Istituzioni e strategie fra le più diverse operarono per diffondere stile di vita e valori, forme di relazione e di educazione di stampo borghese, superando le opposizioni che pure vi furono con l’aiuto del potere e della forza. Si pensi alla scuola e, in modo diverso, alla fabbrica. Indubbiamente l’«imborghesimento» di gruppi, strati e classi non borghesi – dai nobili ai contadini, agli operai, agli impiegati – fece dei progressi in parte stupefacenti, in parte almeno apprezzabili. Ma, al tempo stesso, tutta questa capacità espansiva aveva i suoi limiti: c’erano, infatti (e ci sono), determinate condizioni da soddisfare, perché la cultura borghese possa trovare realizzazione. Fra queste condizioni vi sono un reddito costante e ben al di sopra del minimo di sussistenza (qualunque ne sia la fonte), da cui dipende – sebbene non esclusivamente – una certa sicurezza e capacità di pianificare la vita; all’interno delle famiglie, una certa libertà della madre e dei figli da un lavoro manua-
le precoce e soffocante, in modo che sia loro possibile conservare e riprodurre quella cultura; di sicuro anche un certo distacco borghese dal lavoro manuale, e soprattutto: tempo libero. Quando queste condizioni non erano soddisfatte, l’imborghesimento trovava i suoi limiti, nonostante gli auspici dei riformatori o di coloro che desideravano diventare borghesi. Si capisce, così, perché i piccoli artigiani ed i piccoli impiegati restassero ai margini della borghesia e altri – operai e contadini – ne fossero del tutto esclusi. [...] Indubbiamente, dalla seconda metà del XIX secolo, col miglioramento dei livelli di vita e con la diffusione generalizzata dell’istruzione scolastica, i confini del mondo borghese subirono un ampliamento. Alcuni aspetti di questa cultura (per esempio l’alfabetismo, l’igiene, più tardi i viaggi) ebbero una diffusione universale. Ma nemmeno oggi quei limiti sono completamente scomparsi. La cultura borghese si è sempre trovata di fronte alla contraddizione tra la sua pretesa di universalità ed il suo
STORIOGRAFIA 71
A. Dewerpe La fabbrica
A. Dewerpe, Il sistema di fabbrica e il mondo del lavoro, in V. Castronovo (a c. di), Storia dell’economia mondiale. L’età della rivoluzione industriale, vol. III, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 200-8; 213.
Con la fabbrica, che è insieme spazio, istituzione e disciplina, fa la sua comparsa un nuovo principio organizzatore della produzione industriale: la continuità del lavoro dei produttori, ormai privati dei mezzi di produzione e costretti in modo permanente a vendere sul mercato la propria forza lavoro a chi ora li detiene. Il fenomeno è garantito in duplice modo: la divisione del processo lavorativo in segmenti assegnabili alla forza lavoro più adatta e l’introduzione del macchinismo. Come si sa, i principi essenziali della divisione del lavoro formulati da Adam Smith sono stati ridefiniti da Charles Babbage e Andrew Ure1: assegnare ai lavoratori una sola operazione aumenta la produttività e rende possibile l’applicazione a essa del macchinismo; il capitalista si assicura così il controllo monopolistico del processo lavorativo [...]. Nel sistema di fabbrica i padroni
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esclusivismo reale. La conseguenza è stata che essa, nonostante la sua aspirazione ad oltrepassare i confini della borghesia, alla fine non ha mai smesso del tutto di confermarli (almeno «verso il basso»).
GUIDA ALLO STUDIO a. Evidenzia con colori diversi i valori e modelli di riferimento borghesi e quelli a cui la borghesia si contrapponeva. b. Definisci per iscritto le norme mentali e i modi di vita borghesi descritti dall’autore. c. Spiega in che senso la cultura borghese oltrepassò i confini dell’ambiente sociale d’origine e quali erano i limiti di quella che Kocka definisce la «capacità espansiva» del modello di vita borghese.
Lo storico francese Alain Dewerpe (1952-2015) si è a lungo occupato di storia economica e del lavoro. In questo saggio analizza l’avvento della fabbrica e le sue conseguenze. Nel brano scelto si evidenzia la novità rappresentata dalla fabbrica per i lavoratori che provenivano dall’universo artigiano: si imponeva una nuova disciplina, nuovi rapporti gerarchici, nuovi ritmi di lavoro e procedure di controllo più rigide. impongono ritmi e tempi cui nessun lavoratore si sarebbe da solo assoggettato. La dimensione sociale e disciplinare della parcellizzazione dei compiti non è peraltro separabile dall’introduzione delle macchine, strumenti per «domare gli operai» (Andrew Ure), creare un «esercito disciplinato» (secondo l’espressione di un industriale di Manchester), «neutralizzare la cattiva volontà dei lavoratori» (Costaz2). La concentrazione e la meccanizzazione del sistema di fabbrica rappresentano una rilevante trasformazione del rapporto fra l’uomo e il lavoro: tale trasformazione, intervenuta a dispetto degli interessati, si traduce nell’invenzione di nuove norme di comportamento, imposte da un ordine disciplinare. L’obiettivo è quello di far lavorare in modo continuativo una manodopera la cui cultura professionale è fondata sulla padronanza delle procedure e sul controllo dei ritmi
lavorativi: l’apprendimento di un tempo meccanico attraverso il rispetto degli orari, la pressione per assicurare la presenza costante dei dipendenti sul luogo di lavoro grazie a un sistema di multe graduali e, infine, lo stretto controllo dei movimenti all’interno degli opifici con l’introduzione di regolamenti e scale gerarchiche, costituiscono tutta una serie di obblighi che, lentamente, la fabbrica impone ai propri operai. [...] Attraverso l’arte della compartimentazione spaziale (recinzioni, suddivisioni interne, aree funzionali) e il controllo delle attività lavorative (impiego del tempo, elaborazione
1. «Virili» perché la militanza politica e la
partecipazione alle battaglie erano ritenute attività maschili, mentre proprio alla mancanza di virilità era addebitata la decadenza del popolo italiano. 2. FLouis Costaz (1767-1842), geometra e amministratore francese.
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FARE STORIA Borghesia e classe operaia
temporale delle operazioni produttive, correlazione del corpo e del gesto, del corpo e dell’oggetto), la nuova disciplina mira a trasformare la manodopera in creatura docile, adatta a sopportare una continuità di processi produttivi implicante orari e gesti obbligati. [...] Lavoratori di fabbrica provenienti da famiglie rurali, operai a tempo pieno qualificati e non qualificati, operaie che lavoravano soltanto fino al matrimonio, operai a tempo parziale: si incontrano tutte queste possibili variazioni e altrettanti gruppi sociali dalla configurazione complessa, caratterizzati da confini mobili e comportamenti eterogenei. [...] Certo, per molti versi si è potuto distinguere fra un proletariato di fabbrica salariato e fortemente meccanizzato, il cui lavoro era regolato da una fonte d’energia centralizzata, e un gruppo più tradizionale (che riproduceva all’interno della fabbrica modi tipici dell’antico regime industriale), costituito da artigiani trasferiti nella nuova struttura produttiva. Lo spartiacque è rappresentato dal grado di qualificazione, di competenza
professionale e, conseguentemente, di autonomia nel processo lavorativo. Da una parte una classe operaia di artigiani organizzati, dall’altra un proletariato meno organizzato, meno cosciente, provinciale, eterogeneo (donne, fanciulli, stranieri, poco qualificati e scarsamente alfabetizzati). Ma tale distinzione costituisce un esempio estremo. Le trasformazioni introdotte dalla meccanizzazione – ma anche dalle molteplici novità d’ordine tecnologico e organizzativo – sul piano delle innovazioni e della divisione del lavoro producono effetti incrociati: gli artigiani fanno il proprio ingresso nelle fabbriche; la logica della meccanizzazione e divisione del lavoro riorganizza l’ambito di competenze specifiche degli operai. [...] Il regno della fabbrica comporta una modificazione del lavoro manuale, vale a dire l’affermazione di una condizione operaia che, per quanto provvisoria, si presenta assai nuova e così pregnante da essere descritta nei termini di una vera e propria esperienza collettiva. I ritmi lavorativi, le assunzioni precoci e
DOCUMENTO 72
Émile Zola Vita da minatori
É. Zola, Germinal, Rizzoli, Milano 1997, pp. 113-14; 225.
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la disoccupazione periodicamente ricorrente provocano una «esistenza a sobbalzi», e attraverso il mutamento della «maniera di vivere» si affermò un modo di vita radicalmente nuovo. Lo sfruttamento del lavoro pagato «al pezzo», l’assenza di forme di protezione, la fatica, gli infortuni, il reddito insufficiente e instabile, provocano un rapido logoramento. La condizione operaia è una lotta permanente, condotta sul filo del rasoio, per evitare di sprofondare nella miseria e nell’indigenza: ecco la faccia nascosta dell’esperienza di fabbrica.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega per iscritto in cosa consistono la concentrazione e la meccanizzazione del sistema di fabbrica e le nuove norme disciplinari qui imposte. Quindi descrivi il rapporto esistente tra questi elementi secondo Dewerpe. b. Evidenzia gli elementi e i meccanismi propri del processo di meccanizzazione del nuovo sistema di fabbrica. Quindi trascrivili sul quaderno e descrivili sinteticamente.
Numerosi furono i romanzi di argomento sociale pubblicati in Francia nella seconda metà dell’800. Germinal, pubblicato nel 1885, fu uno dei più noti. Émile Zola (1840-1902), con stile naturalista, racconta le condizioni di vita di un gruppo di minatori nel Nord della Francia e la loro organizzazione politica e sindacale. Il titolo si riferisce al mese di germinale, che apriva la primavera (istituito nel calendario rivoluzionario del 1792), ed allude alle speranze operaie di rinascita. Ne presentiamo due brani: il primo descrive le condizioni all’interno della miniera; il secondo, invece, offre uno sguardo sulla vita quotidiana oltre il lavoro (condizioni abitative, alimentazione, tempo libero). I quattro staccatori1 si erano buttati a ventre in giù, l’uno sopra l’altro, per tutto lo spessore della vena 2. Separati dai tavoloni muniti di ganci che trattenevano il carbone estratto, essi intaccavano ciascuno quattro metri di filone; e questo era così sottile in quel punto – una cinquantina di centimetri appena di spessore – che si trovavano come appiattiti tra la volta e la parete ed erano costretti a strisciare avanti puntellandosi sui gomiti e le ginocchia, né potevano voltarsi indietro senza ammaccarsi le spalle. Dovevano, per picconare il materiale, rimaner coricati sul fianco, torcere il collo e, a braccia levate, manovrare il piccone di sbieco. [...] Chi sof friva maggior mente era Maheu. In alto, la temperatura arrivava a toccare anche i trentacinque gradi, l’aria non circolava, e a lungo andare il
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soffoco diventava mortale. Per vederci, aveva dovuto appendere la lampada a un chiodo vicino alla propria testa, e la lampada, che gli scaldava il cranio, finiva di arroventargli il sangue. Quel supplizio, poi, era reso particolarmente grave dall’umidità. La roccia, sopra di lui, a qualche centimetro dal suo volto, era tutto un ruscellare d’acqua: continui e fitti goccioloni, battendo con una specie di ritmo ostinato, percuotevano sempre nello stesso punto. Aveva un bel torcere il collo, rovesciare indietro la nuca, quei goccioloni lo colpivano in faccia, vi si spiaccicavano con uno schiocco, senza mai tregua. In capo a un quarto d’ora, era zuppo, al tempo stesso madido di sudore, e da tutta la sua persona si sprigionava una calda fumata di vapore come un panno tolto dal bucato. Quella mattina, poi, una
goccia, accanendosi a cadergli dentro un occhio, lo faceva bestemmiare. [...] Quei quattro uomini non si scambiavano una parola. Tutti battevano, e non si udiva altro che quei tonfi irregolari, velati e come lontani. I rumori assumevano una sonorità sorda, senza nessuna eco nell’aria morta. E pareva che le tenebre fossero d’un nero mai visto, inspessito dalla polvere di carbone alitante in ogni dove, appesantito dai gas che gravavano sugli occhi. I lucignoli3 delle lampade, sotto il cappuccio di reticella, non riuscivano a mettere in
1. Minatori. 2. Filone sotterraneo di un minerale. 3. Bagliori.
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quel nero che punti rossastri. Non si discerneva un ben nulla: il cunicolo si apriva, si spingeva in alto come un’ampia cappa di camino, piatta e obliqua, in cui la fuliggine di dieci inverni aveva accumulato una notte profonda. [...] I picconi battevano a grandi colpi sordi, e non si sentiva più, sotto l’oppressione dell’aria e lo stillicidio delle acque sorgive, che l’ansito dei petti, il grugnir di ciascuno per il disagio e la fatica. Adesso, in casa Maheu, si attardavano ogni sera una mezz’oretta prima di salire a coricarsi. Stefano ripigliava sempre il medesimo discorso. Via via che la sua natura andava affinandosi, si trovava sempre più a disagio e come urtato dalla promiscuità4 del villaggio operaio. O che si era delle bestie, forse, per essere così rinchiusi in un recinto, gli uni addosso agli altri, in mezzo
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.J. Hobsbawm, Gente che lavora [1984], Rizzoli, Milano 2001, pp. 184-94.
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ai campi, pigiati al punto che uno non poteva cambiare la camicia senza mostrare il di dietro al suo vicino? E come favoriva la salute, quello stato di cose! [...] Gira e rigira, la va a finire sempre ad un modo: uomini ubriachi e ragazze ingravidate. A questo, tutti dicevano la loro, mentre il petrolio della lampada viziava l’aria della stanza, già appestata dall’odore di cipolla fritta. Oh, la vita non era allegra di sicuro! Si lavorava come bruti a un lavoro cui un tempo venivano condannati i galeotti; vi si lasciava spesso la pelle prima del tempo, senza riuscire, con tutto ciò, ad avere nemmeno un po’ di carne in tavola, la sera. Certo, certo, il loro mangime l’avevano di sicuro, ma proprio quanto bastava appena per continuare a soffrire senza crepar di fame, oberati dai debiti e perseguitati come se anche quel poco
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pane lo rubassero. Quando arrivava la domenica, poi, erano tramortiti dalla stanchezza. Non avevano altri piaceri che quello di ubriacarsi e ingravidare la moglie. [...] No, non c’era proprio niente di allegro nella vita che si faceva! 4. Presenza in uno stesso luogo di maschi
e femmine, mescolanza.
GUIDA ALLO STUDIO a. Individua da tre a cinque parole chiave che afferiscono alle condizioni di lavoro dei minatori e argomenta per iscritto la tua scelta. b. Descrivi i temi principali affrontati dalle riflessioni di Stefano e gli elementi su cui si basano.
E.J. Hobsbawm Coscienza di classe e cultura operaia EIn questo brano, tratto da un saggio pubblicato per la prima volta nel 1979 e poi inserito in un volume uscito nel 1984, lo storico britannico Eric J. Hobsbawm (1917-2012), autore di importanti studi sul movimento operaio, riflette sulla nascita di una cultura operaia. Anche se in parte questa si modellò su valori e stili di vita del passato, cruciali risultarono i decenni della seconda metà dell’800, con l’espansione dell’industrializzazione. Oltre ad una cultura specifica (fatta di abitudini, riti e luoghi, come il calcio o il pub), gli operai espressero una coscienza di classe, fondata sulla solidarietà, sul mutuo soccorso e sull’opposizione alle classi capitalistiche.
I decenni successivi al 1848 gettarono le basi della futura cultura della classe operaia, in quanto (eccezion fatta per la Poor Law1, per un certo controllo legale sull’orario e sulle condizioni di lavoro e, dopo il 1870, per l’educazione elementare a carico dello Stato) la fornitura di beni e servizi per i lavoratori venne lasciata quasi completamente alle loro organizzazioni volontarie e agli imprenditori (in genere piccoli) che riuscivano a guadagnare rifornendo i poveri. La cultura operaia che divenne dominante negli anni Ottanta del secolo rifletteva sia la nuova economia totalmente industriale, sia le crescenti dimensioni della classe operaia come mercato potenziale, sia infine il sorprendente miglioramento del salario reale medio durante il periodo di rapida caduta del costo della vita (circa 187396). A partire dal 1890 circa essa prese sempre più a riflettere una crescente coscienza di classe e il ruolo mutato – e assai aumentato – dello Stato nella vita nazionale. Le accresciute dimensioni
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della classe operaia erano il risultato naturale di un’economia ancora largamente basata sul lavoro manuale. Così l’aumento della produzione di carbone – la fonte di energia di gran lunga predominante – comportò un aumento proporzionale del numero dei minatori, sicché nel 1914 l’economia britannica richiedeva per questo solo settore qualcosa come 1.250.000 lavoratori, più le loro famiglie. La crescente coscienza di classe fu il risultato non solo delle acuite tensioni di classe nel periodo della cosiddetta «grande depressione» (187396) e nel successivo periodo di rapida trasformazione industriale, ma anche dello spettacoloso aumento dell’occupazione nel terziario. Una nuova «classe medio-bassa», composta essenzialmente di impiegati, si inserì tra l’antico strato operaio specializzato e la classe media. Dato che la sua situazione economica non era apprezzabilmente superiore, il suo scopo principale fu distinguersi il più nettamente possibile dalla classe operaia, [...] per mezzo di un’ideologia militante di marca conser-
vatrice, patriottica e perfino imperialistica [...]. Questa cultura operaia era così saldamente radicata che è facile dimenticare che aveva origini cronologicamente precise. Il calcio come sport proletario di massa – quasi una religione laica – era un prodotto del decennio 1880-90 [...] Anche le tipiche vacanze al mare delle classi lavoratrici, e le località balneari a esse specificatamente associate – soprattutto Blackpool nel Lancashire –, presero forma nel ventennio 1880-1900. Il famoso berretto floscio che divenne in pratica la divisa del lavoratore britannico nelle ore di riposo sembra trionfasse nel ventennio 1890-1910. Anche la friggitoria, il fishand-chips shop2, fu inventata non prima del 1865 nel Lancashire. [...]
1. Sistema assistenziale rivolto alle fasce più
povere, risalente all’età elisabettiana e rivisto nel 1834. 2. Negozio che fornisce piatti di pesce fritto e patatine.
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Anche la forma tipica della settimana del lavoratore – conosciuta caratteristicamente all’estero come la semaine anglaise – non trionfò completamente fino al decennio 1870-80, quando la pratica di pagare il salario settimanale il venerdì trasformò il weekend, o piuttosto il sabato, nella giornata principale per le attività del tempo libero. [...] Ovviamente i lavoratori britannici non persero le loro caratteristiche regionali, e nemmeno quelle locali [...]. Anzi, a differenza delle classi medie, i lavoratori britannici non abbandonarono del tutto i dialetti locali per l’inglese standard. [...] La vita del lavoratore era più varia di quella della moglie, giacché trascorreva in gran parte nell’ambiente socializzato del suo lavoro, e in quei centri di svago ancor più esclusivamente maschili costituiti dal pub e dalla partita di calcio. Le due istituzioni erano strettamente collegate, perché lo sport, discusso da esperti, era l’argomento di conversazione di gran lunga più comune nel pub. La socievolezza maschile era inseparabile dall’alcol. [...] In tutto questo mondo di donne e uomini sacrificati, perseveranti, stoici
e senza pretese, dove troviamo la coscienza di classe? In ogni luogo. La vita dei lavoratori britannici ne era così permeata che quasi ciascuna loro azione attestava il loro senso della divergenza e del conflitto tra «noi» e «loro». «Loro» non erano chiaramente definiti, salvo nell’officina e nella fabbrica, anche se la virtuale fusione tra aristocrazia terriera, classe capitalistica e nuova classe medio-bassa in un partito conservatore unificato, avvenuta tra il 1886 e il 1922, rendeva superflua una esatta definizione. [...] Tre cose caratterizzavano la coscienza di classe dei lavoratori britannici: un
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A.J. Mayer I limiti dell’egemonia borghese
Il vecchio ordine europeo era da un capo all’altro preindustriale e preborghese. Per troppo tempo, e in troppo grande misura, gli storici si sono concentrati sull’avanzata della scienza e della tecnica, del capitalismo industriale e mondiale, della borghesia e della classe media professionale, della società civile liberale, della società politica democratica e del modernismo culturale. Si sono occupati assai più di queste forze innovatrici, e della formazione della nuova società, che non delle forze dell’inerzia e della resistenza, che hanno rallentato il deperimento del vecchio ordine. [...]
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profondo senso della diversità del lavoro manuale; un codice morale implicito ma potente fondato sulla solidarietà, sull’«onestà», sul mutuo soccorso e sulla cooperazione, e la prontezza a lottare per un equo trattamento. [...] Si trattava della convinzione morale che la gente ha diritto a un trattamento onesto, a un salario decoroso in cambio di una vita faticosa, a «parti giuste» anche della povertà che li dominava. E si trattava della consapevolezza, acquisita in un secolo di industrializzazione che aveva trasformato la Gran Bretagna in una nazione di proletari, che i lavoratori debbono aiutarsi reciprocamente contro «loro».
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PALESTRA INVALSI 1. Il messaggio principale del testo è che... a. nella cultura operaia la socievolezza maschile era inseparabile dall’alcol. b. i lavoratori britannici non abbandonarono del tutto i dialetti locali per l’inglese standard. c. la cultura operaia si accompagnava ad una coscienza di classe. d. il calcio divenne lo sport proletario di massa. 2. Indica quali eventi e processi, fra quelli elencati, concorsero alla crescita della coscienza di classe. [ ] a. Aumento della produzione di carbone. [ ] b. Tensioni sociali legate alla «grande depressione». [ ] c. Aumento del numero di operai. [ ] d. Aumento di occupazione nel terziario.
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A.J. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale [1982], Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 2-11.
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In questo volume del 1981 lo storico statunitense Arno J. Mayer (nato nel 1926) rilegge in chiave critica le forme e i tempi dell’ascesa della borghesia in Europa, ridimensionandone la portata innovatrice. La storiografia, secondo Mayer, ha trascurato la «persistenza dell’antico regime», testimoniata dal predominio delle economie agricole, dalla forza economica e sociale delle nobiltà terriere, dalle istituzioni politiche in prevalenza ancora monarchiche, dalla ricerca, da parte della stessa borghesia, di emulare stili e cultura della nobiltà. Il vero momento di cesura andrebbe collocato nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale. Un’interpretazione così netta è parsa talvolta poco convincente, ma è stata utile nel ricordare agli storici di non presentare le trasformazioni di questo periodo come le tappe di un’inarrestabile e inevitabile ascesa della borghesia. Studiosi di ogni tendenza ideologica hanno minimizzato l’importanza degli interessi economici preindustriali, delle élites preborghesi, dei sistemi di autorità predemocratici, dei linguaggi artistici premoderni e delle mentalità «arcaiche». [...] Gli elementi «premoderni» non erano i residui fragili e in dissoluzione di un passato quasi completamente svanito, ma l’essenza medesima delle società civili e politiche d’Europa. Con ciò non si vuol negare la crescente importanza delle forze moderne che minavano e contestavano il vecchio ordine. Ma si vuole sostenere che fino al 1914 le forze
dell’inerzia e della resistenza hanno mantenuto e raffrenato questa dinamica e rigogliosa nuova società entro la cornice degli anciens régimes che dominavano il paesaggio storico dell’Europa. [...] La società civile del vecchio ordine era innanzitutto e soprattutto un’economia contadina ed una società rurale dominate da nobiltà ereditarie e privilegiate. Eccettuati pochi banchieri, mercanti e armatori, le grosse fortune e i grossi redditi avevano la loro base nella terra. In tutta Europa le nobiltà terriere occupavano il primo posto in campo non soltanto economico, sociale e culturale, ma anche politico.
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In effetti, la società politica era il perno di questa società d’ordini agraria. Essa assunse ovunque la forma di sistemi d’autorità assolutistici, in diverso grado illuminati, e capeggiati da monarchi ereditari. Le corone regnavano e governavano con l’appoggio di vaste famiglie reali e di partiti della corte, ma anche di ministri, generali e burocrati arrendevoli. La Chiesa era un’altra componente e pilastro vitale dell’ancien régime. Strettamente legata sia alla corona che alla nobiltà, essa era, al pari di queste, radicata nella terra, che costituiva la sua principale fonte di reddito. [...] Le economie europee fornivano il supporto materiale di questa perdurante supremazia delle nobiltà terriere e di servizio. La terra restò fino al 1914 la forma principale di ricchezza e di reddito delle classi dominanti e di governo. Non meno significativo è il fatto che il peso relativo della manifattura di beni di consumo continuò a superare quello della produzione di beni capitali1 nella ricchezza nazionale, nel prodotto globale e nell’occupazione. Ciò era vero persino in Inghilterra, dove l’agricoltura aveva registrato una drastica riduzione della sua importanza economica, e in Germania, che tra il 1871 e il 1914 conobbe un’impennata spettacolare dello sviluppo industriale. In tutta Europa, i settori manifatturiero e commerciale delle economie nazionali erano dominati da imprese di piccole e medie dimensioni a proprietà, finanziamento e gestione familiari. Questo capitalismo imprenditoriale generò una borghesia ch’era, nel caso migliore, protonazionale2. In quanto classe, tale borghesia aveva interessi economici comuni, ma la sua coesione sociale e politica era limitata. Questa borghesia manifatturiera e mercantile non poteva gareggiare con la nobiltà terriera quanto a identità di classe, status o potere. Certo, nell’ultimo terzo dell’Ottocento la crescita delle industrie di beni strumentali ad alta intensità di capitale dette origine ad una borghesia industriale. Ma, prescindendo dal fatto che fino al 1914 la loro importanza economica restò modesta, questi magnati dell’industria ed i loro associati nelle grandi banche per azioni e nelle professioni liberali erano meglio disposti a collaborare con gli agrari e con le classi di governo costituite, che non con la più vecchia borghesia di manifatturieri, mercanti e banchieri. [...] Se gli elementi feudali presenti nella
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società sia politica che civile perpetuarono con tanta efficacia il loro dominio, ciò si dové in buona parte al fatto che seppero adattarsi e rinnovarsi. Le nobiltà di servizio, sia civili che militari, assorbirono ambiziosi rampolli, accuratamente selezionati, dei ceti imprenditoriali e delle professioni liberali, badando al tempo stesso a regolare attentamente questo afflusso di sangue nuovo e di nuove capacità. I nuovi arrivati dovevano passare attraverso scuole di élite, digerire l’ethos3 di gruppo, e dimostrare la propria fedeltà al vecchio ordine: tutti requisiti indispensabili per la promozione. Non solo, ma i posti più elevati della burocrazia statale e della gerarchia militare continuavano ad esser riservati ad uomini di alti natali e comprovata assimilazione. L’azione dei magnati terrieri fu altrettanto efficace per quanto concerne l’adattamento al mutare dei tempi. Soprattutto, essi assorbirono e praticarono i princìpi del capitalismo e la politica degli interessi, ma senza rinunciare alla loro visione del mondo aristocratica, al loro stile di comportamento, ai loro legami. Alcuni proprietari nobili si impegnarono in una politica di migliorie. [...] Altri ancora si volsero allo sfruttamento del legname, del carbone e in genere dei minerali presenti nelle loro terre, ed investirono in intraprese industriali. Inoltre, tutti appresero le arti del raggrupparsi e dello scambio di favori, delle pressioni e della politica dei partiti, per proteggere o promuovere i propri interessi. [...] Questo vasto e multilaterale processo di adattamento è in genere considerato come prova che il vecchio ordine si de-nobilitava e si de-aristocraticizzava, e che, correlativamente, le classi dominanti e di governo europee venivano, com’era fatale, gradualmente imborghesendosi. Ma c’è un altro modo di guardare a questo accomodamento. Come l’industrializzazione s’innestò sulle strutture sociali e politiche precostituite, così gli elementi feudali conciliarono il loro razionalizzato comportamento burocratico ed economico con la loro prassi sociale e culturale e con il loro orizzonte mentale preesistenti. In altre parole, le vecchie élites eccelsero nell’assorbire selettivamente, nell’adattare e nell’assimilare le nuove idee e pratiche senza compromettere seriamente il loro status, il loro temperamento e la loro mentalità tradizionali. La nobiltà subì sicuramente un processo di diluizione e di rimpicciolimento, ma in maniera graduale e benigna.
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Questa politica di prudenti, circoscritti aggiustamenti fu facilitata dalla frenesia di cooptazione e di nobilitazione della borghesia. Se la nobiltà si mostrò abile nell’adattarsi, la borghesia eccelse nell’emulazione. Per tutto l’Ottocento, e ancora nel primo Novecento, i grandi borghesi insisterono nel rinnegarsi, imitando e appropriandosi del modo di vivere della nobiltà nella speranza di inserirvisi. I grandi degli affari e della finanza acquistarono tenute, costruirono case di campagna, mandarono i propri figli nelle scuole di élite, e assunsero pose e stili di vita aristocratici. Cercarono anche di introdursi a forza di gomiti nei circoli aristocratici e di corte, e di imparentarsi con la nobiltà titolata. Infine – ma non è la cosa meno importante – sollecitarono decorazioni e, soprattutto, patenti di nobiltà. [...] Il borghese cercava la promozione sociale per ragioni di vantaggio materiale, di status sociale, e di remunerazione psichica. 1. I beni di consumo sono i prodotti destinati
a un consumo immediato consistente nella loro distruzione o trasformazione fisica (alimenti, abiti, ecc.), mentre i beni capitali sono quelli destinati a essere impiegati nel processo di produzione di altri beni (macchinari, ecc.). 2. Il primo nucleo di una borghesia nazionale. 3. Il “costume”, la norma di vita.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le forze d’inerzia che, secondo Mayer, hanno rallentato in Europa il deperimento dell’ancien régime. b. Individua i processi che, secondo l’autore, hanno frenato lo sviluppo della nuova società, quindi mettili in evidenza attraverso dei titoletti che scriverai al lato del testo. c. Evidenzia i nomi delle due classi sociali antagoniste protagoniste del processo descritto e tratteggiane per iscritto le caratteristiche e gli equilibri
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LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Dopo aver letto il brano di Kocka [Ź70] e il documento di Smiles [ŹLEGGERE LE FONTI, p. 422], scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente sulla borghesia in ascesa facendo riferimento alla seguente scaletta e citando opportunamente i testi: • valori e modelli di riferimento • capacità attrattiva nei confronti degli esponenti delle altre classi sociali • atteggiamenti distintivi rispetto agli altri gruppi sociali. 2. Scrivi un testo argomentativo sulla nascita della classe operaia, sulle sue condizioni e sull’emergere di una coscienza di classe facendo riferimento all’illustrazione di Gustave Doré [ŹLEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 7], al documento di Zola [Ź72] e ai testi di Dewerpe [Ź71], Hobsbawm [Ź73] e Mayer [Ź74]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerali in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. Il confronto storiografico 3. Leggi con attenzione i documenti e i brani degli storici relativi all’ascesa della borghesia e al suo mondo e individua i passaggi che ti sembrano più rilevanti. Trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale. Quindi scegli una fra le seguenti posizioni storiografiche, relative all’ascesa della borghesia europea nel XIX secolo, e argomenta la tua posizione in un testo chiaro e coeso facendo riferimento alla mappa da te realizzata che, se necessario, potrai integrare: • La borghesia ha sofferto, nel corso dell’800, di una fortissima dipendenza dai modelli economici, sociali, culturali del ceto aristocratico dominante. • L’egemonia culturale della borghesia europea fu assicurata dal successo generalizzato dei suoi valori: il progresso economico e la mobilità sociale. • L’ascesa della cultura della borghesia si può interpretare come lenta e progressiva affermazione di nuovi modelli etico-sociali nella sfera privata.
Le donne e i bambini nella società industriale dell’800 I cambiamenti innescati dal diffondersi dell’industrializzazione ebbero ulteriori ripercussioni sociali, oltre alla crescita della borghesia e della classe operaia. Soprattutto in una prima fase, proprio nelle fabbriche e nelle miniere, si diffuse il lavoro delle donne e dei minori, come testimonia un’intervista a due operaie inglesi raccolta per un’inchiesta parlamentare negli anni ‘40 dell’800 [Ź75]. La storica Daniela Lombardi [Ź76] analizza il complesso tema del lavoro e della maternità: la tute-
STORIOGRAFIA 75 Great Britain Parliamentary Papers, 1842, voll. XV e XVII, in G. Dall’Olio, Storia moderna. I temi e le fonti [2004], Carocci, Roma 2007, pp. 300-1.
Betty Harris, 37 anni Mi sono sposata a 23 anni e, dopo il matrimonio, sono entrata in miniera. Prima, all’età di dodici anni circa, ero tessitrice; non so leggere né scrivere. Lavoro per Andrew Knowles, di Little Bolton (Lancashire) e qualche volta faccio sette giorni su sette, qualche volta non così tanto. Sono un’estrattrice di carbone e lavoro dalle 6 del mattino alle 6 di sera. Mi fermo circa un’ora per consumare il pranzo, che consiste in pane e burro, senza niente da bere. Ho due figli, ma sono troppo giovani per lavorare. Ho estratto car-
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la della maternità, infatti, spinse a legiferare sul lavoro femminile nelle fabbriche, tutelandolo maggiormente, ma anche a riorientare le donne delle classi medie verso professioni ritenute più consone, che si andavano diffondendo con l’espansione dei servizi. Parallelamente, spinta da un diverso atteggiamento verso l’infanzia, influenzato dalla sensibilità del Romanticismo, si cercò di limitare anche il lavoro minorile, come ci racconta Hugh Cunningham [Ź77].
Intervista a due operaie I due brani sono tratti dagli atti di una commissione parlamentare inglese, che si occupò di studiare le condizioni di lavoro di donne e bambini nelle miniere. In alcuni distretti carboniferi dello Yorkshire e del Lancashire era frequente che donne giovani e adulte venissero fatte scendere nelle miniere per compiere lo stesso tipo di lavoro che compivano gli uomini, spesso per lo stesso numero di ore. bone anche mentre ero incinta. Conosco una donna che [dopo il lavoro] andò a casa, si lavò, fu messa a letto, aiutata a partorire un bambino e poi tornò a lavorare in settimana. Porto una cintura ai fianchi e una catena che mi passa in mezzo alle gambe; cammino a quattro zampe. Il sentiero è molto ripido e dobbiamo tenerci a una corda e, quando non c’è corda, a qualsiasi altra cosa che possiamo afferrare. Ci sono sei donne e circa sei ragazzi e ragazze nella miniera in cui lavoro; è un lavoro molto duro
per una donna. Il pozzo in cui lavoro è molto umido e il livello dell’acqua supera sempre quello dei nostri zoccoli e l’ho visto arrivarmi fino alle cosce; piove tremendamente dal soffitto. I miei vestiti sono bagnati quasi per tutto il giorno. Non mi sono mai ammalata nella mia vita, tranne da quando sono lì dentro. Mia cugina bada ai miei bambini durante il giorno. Quando torno a casa la sera sono molto stanca; qualche volta mi addormento prima di lavarmi. Non sono più così robusta
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come un tempo e non posso sopportare il mio lavoro così bene come facevo prima [...]. La cintura e la catena sono peggiori [da sopportare] quando siamo incinte. Il mio uomo mi ha picchiato molte volte perché non ero pronta. All’inizio non ero abituata e lui ha poca pazienza. Ho conosciuto più di un uomo che picchia la sua compagna in miniera. Ho conosciuto uomini che si prendono delle libertà con le operaie e alcune donne hanno dei figli bastardi.
STORIOGRAFIA 76 D. Lombardi, Storia del matrimonio. Dal Medioevo a oggi, il Mulino, Bologna 2008, pp. 229-33.
Può apparire paradossale che, in un periodo in cui si afferma il principio della non interferenza dei poteri pubblici nella sfera privata e si valorizza la libertà individuale, gli Stati ottocenteschi invadano con tanta pertinacia l’ambito della maternità e della cura dei bambini. In realtà è proprio l’esclusione delle donne dai diritti politici a mantenere intatta la percezione della condizione femminile come condizione di vulnerabilità e subordinazione: di conseguenza bisognosa di protezione. È con questo spirito che nascono le leggi di tutela delle lavoratrici salariate, a cominciare dall’Inghilterra degli anni 1830-1840. Non è un caso che in queste leggi le donne siano assimilate ai fanciulli: entrambi soggetti deboli, per il sesso e l’età, che hanno bisogno di essere protetti. Un grande impegno caratterizza l’azione dei governi su questo terreno. [...] Le leggi di tutela fanno del lavoro femminile una questione a sé, che ha poco a che vedere con il lavoro maschile. Non solo perché le donne non godono degli stessi diritti dei loro compagni, ma soprattutto perché è la loro funzione riproduttiva che allo Stato interessa tutelare. Scopo delle leggi è porre dei limiti allo sfruttamento, all’orario, alle man-
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Patience Kershaw, 17 anni Vado in miniera alle 5 del mattino e ne esco alle 5 della sera; prima faccio colazione con porridge1 e latte; porto con me il pranzo – una focaccia – e lo mangio mentre lavoro. Non mi fermo e non mi riposo mai per mangiare; non mangio nient’altro fin quando arrivo a casa, dove mangio patate e carne, ma la carne non tutti i giorni. 1. Cereali o legumi bolliti in latte o acqua.
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GUIDA ALLO STUDIO a. Se leggi con attenzione le interviste ti renderai conto che si tratta di testi che contengono le risposte a domande ben precise. Prova a ipotizzare sul quaderno le domande che ti sembrano più pertinenti alle risposte date. b. Realizza un grafico a torta che possa rappresentare la durata delle attività svolte dalle due donne durante la giornata. Ipotizza la durata dei dati non esplicitati (es. sonno notturno). c. Sottolinea le informazioni relative al rapporto fra uomini e donne all’interno della miniera.
D. Lombardi Lavoro e maternità Nell’800 si afferma progressivamente il principio della separazione tra Stato e Chiesa. La laicità dello Stato (con il rispetto delle diverse appartenenze religiose) si accompagna all’estensione delle competenze dei poteri secolari in materia di vita familiare – soprattutto nell’ambito del matrimonio e della nascita – sottratti alla giurisdizione ecclesiastica. La storica Daniela Lombardi esamina come la tutela della capacità di procreazione e della maternità giocò un ruolo determinante nella legislazione sul lavoro femminile nelle fabbriche. L’attenzione verso la funzione materna spinse anche le donne verso i nuovi lavori diffusisi con l’espansione del terziario, meno pesanti fisicamente e più “rispettabili”, cioè le professioni di educazione e di cura. sioni cui le operaie erano destinate, per salvaguardarne la capacità di procreazione. La priorità, per il sesso femminile, resta la famiglia: il lavoro di cura, che è stato efficacemente definito travail d’amour1, nei confronti del marito e soprattutto dei figli. Perciò maternità e lavoro in fabbrica appaiono inconciliabili agli uomini di governo, agli economisti, agli scienziati sociali che discutono di questi temi con grande enfasi. Per la prima volta la donna lavoratrice viene percepita come un problema che va risolto. [...] È la sua visibilità il dato nuovo dell’epoca dell’industrializzazione. Nei secoli precedenti la lavoratrice era ben poco visibile: sfuggiva alle rilevazioni dei censimenti e alle dichiarazioni delle proprie generalità, perché era il suo stato civile – il fatto di essere figlia, moglie o vedova di un uomo – che interessava le autorità pubbliche, laiche o religiose che fossero. Solo l’uomo era percepito come lavoratore, nonostante il lavoro femminile rappresentasse una risorsa essenziale e, nei periodi di crisi e disoccupazione maschile, l’unica in grado di mantenere l’intero nucleo familiare. La fabbrica non ha dunque creato la figura della lavoratrice ma l’ha portata alla ribalta, l’ha posta sotto lo sguardo indagatore di esperti interessati a tute-
lare la salute del suo corpo in quanto corpo destinato a diventare fecondo. È la sua vocazione alla maternità che va protetta da condizioni di lavoro troppo dure e pericolose. Una vocazione che ovviamente presuppone che il matrimonio continui a essere la destinazione prioritaria per una donna, ma al tempo stesso delinea una nuova identità femminile che gradualmente conquista tutti i ceti sociali. Non si capirebbe insomma il senso della legislazione di tutela del lavoro femminile se non si tenesse conto della valorizzazione del ruolo materno che, come si è detto, si afferma prepotentemente tra le élite sullo scorcio del Settecento e più tardi coinvolge anche i ceti medio-bassi. Se per le donne di Antico regime il lavoro rappresentava una priorità, affrontata mandando a balia o affidando ad altri i figli, nella convinzione che la loro sopravvivenza dipendesse comunque dalla volontà divina, le donne dell’età contemporanea devono invece, con l’aiuto di medici e legislatori, di un sapere scientifico e razionale, dedicarsi innanzitutto alla cura dei loro bambini. Il lavoro femmi-
1. Letteralmente: “lavoro d’amore”.
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nile continua così a essere discontinuo e fluttuante, concentrato nel periodo precedente il matrimonio e di conseguenza non specializzato, mal pagato, flessibile. Ma la sua subalternità ha ora una diversa giustificazione ideologica che non si basa più sull’inferiorità del sesso femminile, bensì sul primato del ruolo materno e domestico. È il riconoscimento della specifica funzione materna dei corpi femminili a creare l’opposizione tra produzione e riproduzione, lavoro e famiglia. La lavoratrice madre è considerata un’anomalia, facilmente identificabile con la cattiva madre per antonomasia. [...] Perciò la legislazione di tutela si preoccupa di porre dei limiti all’orario di lavoro femminile e di vietare il lavoro notturno, perché lo scopo è contenere gli effetti negativi che il lavoro ha sui corpi delle donne, rendendoli inadatti a generare e allevare bambini sani. [...] Va detto che l’applicazione di queste leggi si rivelò ovunque insoddisfacente, perché limitate in genere al lavoro in fabbrica e in miniera e soggette a un’infinità di deroghe. [...] Non solo: laddove le leggi vennero applicate sortirono l’effetto di consolidare la divisione sessuale del lavoro perché non fecero che ratificare le differenze di paga e
l’attribuzione di status differenti a uomini e donne. Inoltre contribuirono, da un lato, a scoraggiare gli imprenditori ad assumere coniugate e, dall’altro a ritardare l’età del matrimonio delle operaie, unico rimedio per evitare il licenziamento. [...] Dobbiamo anche aggiungere che l’enfasi sulla maternità non ebbe come esito unicamente il ridimensionamento della presenza femminile nelle fabbriche. La valorizzazione del ruolo materno contribuì a giustificare l’occupazione, da parte di una minoranza di donne (dapprima solo delle nubili, in seguito anche delle coniugate), di nuovi percorsi lavorativi che si presentavano come una proiezione esterna alla famiglia della figura materna o si caratterizzavano per la loro «rispettabilità»: basti pensare alle insegnanti, alle infermiere o alle impiegate delle Poste. L’espansione del terziario e del pubblico impiego, con un’organizzazione del tempo di lavoro più favorevole alle donne, consentì di conciliare famiglia e lavoro con minore fatica. [...] Per le donne contadine, invece, abituate a non risparmiarsi e a essere disponibili per qualsiasi tipo di attività, anche le più pesanti, che smettevano di lavorare quasi alla vigilia del parto e ricomincia-
STORIOGRAFIA 77
H. Cunningham Contro il lavoro infantile
H. Cunningham, Storia dell’infanzia [1995], il Mulino, Bologna 1997, pp. 170-78.
Fu intorno alla questione del lavoro infantile in Gran Bretagna nelle nuove condizioni imposte dalla rivoluzione industriale che la nuova ideologia dell’infanzia divenne per la prima volta uno dei fattori determinanti della programmazione politica. [...] La legge del 1802 aveva in gran parte come oggetto gli apprendisti poveri, ma ben presto divenne necessario estenderne l’ambito al cosiddetto «lavoro libero», cioè il lavoro dei bambini che vivevano con le loro famiglie invece che essere affidati allo Stato, e
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vano poco tempo dopo aver dato alla luce il figlio, fare le madri continuò a essere molto difficile. La cultura della maternità, così come la cultura dell’infanzia, che abbiamo visto affermarsi a partire dallo scorcio del XVIII secolo, ebbero dunque un ruolo importante nel forgiare la politica della famiglia degli Stati tardo-ottocenteschi e nel delineare relazioni famigliari che, pur rimanendo improntate a valori gerarchici e autoritari, attribuivano un’importanza prioritaria alla dimensione affettiva. Solo madri e mogli amorevoli potevano svolgere adeguatamente i compiti loro affidati e confermati dalle legislazioni statali.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le informazioni che permettono di comprendere perché le donne e i bambini siano messi sullo stesso piano dalle leggi a tutela delle lavoratrici salariate nell’Inghilterra del 1830-40. b. Sottolinea i motivi per cui la donna lavoratrice appare come un problema da risolvere e l’elemento nuovo che porta a questo cambiamento. c. Illustra per iscritto gli effetti delle leggi descritte e della conseguente attenzione dedicata alla maternità.
Le condizioni di lavoro dei bambini nella rivoluzione industriale furono un fenomeno inedito e suscitarono attenzione e reazioni profonde. Lo storico inglese Hugh Cunningham (nato nel 1921) analizza come si sviluppò la regolamentazione e il controllo del lavoro infantile nelle fabbriche. Le leggi per tutelare i bambini, che si diffusero a partire dalla Gran Bretagna anche in altri Stati europei e nordamericani, rivelano un atteggiamento mutato rispetto all’infanzia, vista come un periodo da tutelare. Sulle motivazioni della protezione divergevano, però, i punti di vista. Secondo una prospettiva utilitaristica si doveva tutelare l’infanzia perché i bambini dovevano sviluppare la forza e il vigore fisico necessari per vivere l’età adulta; dal punto di vista romantico l’infanzia, invece, era ritenuta la stagione più bella e preziosa della vita. che le fabbriche avevano cominciato a reclutare. [...] Un punto fermo venne raggiunto all’inizio degli anni Trenta, in esatta coincidenza con le campagne per l’emancipazione degli schiavi nelle colonie britanniche; parte del suo impatto emotivo derivava per l’appunto dall’affermazione che il governo britannico sembrava preoccuparsi più dei suoi schiavi neri che di quelli bianchi. [...] Il governo riconobbe che si doveva fare qualcosa, ma era risoluto a non cedere alle richieste dei sostenitori della giornata lavorativa di
dieci ore, in quanto ciò avrebbe avuto come effetto una limitazione dell’orario di lavoro non solo per i bambini ma anche per gli adulti; si concentrò invece sui bambini, vietando loro il lavoro nelle fabbriche se avevano meno di nove anni e limitando a otto ore al giorno il lavoro dei bambini fino a quattordici anni. Rafforzando la legge con l’istituzione di un ispettorato il governo in realtà definiva l’infanzia come un periodo della vita per cui era necessaria la tutela della legge; e l’estensione temporale dell’infanzia fu
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accuratamente definita dall’utilitarista commissione regia che aveva svolto opera di consulenza per il governo. La commissione sostenne che all’inizio del quattordicesimo anno «cessa il periodo dell’infanzia propriamente detto e si inizia quello della pubertà, in cui il corpo acquista la capacità di sopportare un lavoro prolungato». Questo cambiamento fisiologico coincideva con un mutamento dello status sociale in quanto «in generale nel quattordicesimo anno o all’incirca in quel periodo i giovani non vengono più trattati da bambini [...] Per lo più essi smettono di essere sotto il controllo completo dei loro genitori e tutori. Cominciano a trattenere una parte dei loro guadagni. Spesso pagano l’alloggio, il vitto e il vestiario. Di solito sottoscrivono in prima persona i loro contratti e sono, nel senso proprio dell’espressione, liberi agenti». Il bambino veniva definito come un soggetto che non era un «libero agente», una persona dipendente e pertanto meritevole della tutela della legge. In parte tale protezione era intesa come rivolta contro quei genitori privi di scrupoli che mandavano i figli piccoli a fare lavori pericolosi. [...] I proprietari delle manifatture, in concorrenza l’uno con l’altro, cercavano di ridurre il costo del lavoro, ed un modo per ottenere questo risultato passava per l’introduzione di macchinari che potevano essere manovrati dalla manodopera più a buon mercato, quella infantile. I difensori del sistema fabbrica facevano notare che ciò risolveva il problema che era stato endemico per secoli, ossia quello di trovare lavoro sufficiente per i bambini. Altri però, e tra questi gli utilitaristi, che influenzarono considerevolmente il pensiero ufficiale britannico tra il 1830 e il 1850, furono costretti a riconoscere che la mano nascosta del capitalismo non sempre lavorava per il vantaggio di tutti, e che era necessario un corpo di leggi, rafforzato dalle ispezioni, per impedire che le forze del mercato impiegassero sempre più bambini e meno adulti. È necessario sottolineare fino a che punto le forze di mercato già operassero in tale direzione. I giovani furono determinanti per la redditività dell’industria tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Nell’industria britannica nel 1835 il 43% degli operai aveva meno di diciotto anni. Negli Stati Uniti nordorientali la
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percentuale di donne e bambini nella forza lavoro delle manifatture passò dal 10% all’inizio del XIX secolo al 40% nel 1832. Nel 1852, a Manchester e a Salford, il 76% delle quattordicenni e il 61% dei quattordicenni lavorava in fabbrica. [...] Gli utilitaristi non contestavano il lavoro infantile in linea di principio, ma solo i suoi eccessi. Nell’infanzia era necessario, sostenevano, che del tempo fosse dedicato all’istruzione e allo sviluppo fisico. A parte questo, però, e al di là di un’età minima, non c’era motivo perché i bambini non dovessero andare a lavorare per contribuire al bilancio familiare. I bambini dunque dovevano dedicare metà del loro tempo al lavoro e metà alla scuola: soluzione al problema del lavoro nelle fabbriche che conquistò ampi consensi nei decenni centrali del XIX secolo. [...] A coloro però che erano stati toccati dalle idee romantiche cominciava ad apparire innaturale un’infanzia in cui i bambini svolgessero un qualsiasi lavoro. La concezione romantica dell’infanzia fu ampiamente divulgata ed elaborata e divenne parte degli anni Trenta e Quaranta. [...] L’infanzia era vista qui come una sorgente che irrigava l’arido terreno dell’età adulta. Essa veniva addirittura a essere considerata una sorta di ricompensa all’umanità per la perdita dell’Eden. [...] La ragione faceva largo al sentimento, e tale sentimento si rivolgeva ai bambini che lavoravano nelle fabbriche e nelle miniere e che si arrampicavano su per i camini. I diritti dei genitori divenivano nulli al cospetto dei diritti dei bambini. La questione anzi non si poneva più nei termini di un confronto tra bambini e genitori, bensì tra bambini e «sistema di fabbrica», un modo di produzione nuovo e innaturale. Mentre in natura i giovani dedicavano il loro tempo a crescere e a giocare, nella società umana, o almeno nel sistema di fabbrica, i giovani erano messi al lavoro. [...] Fino a metà Ottocento i dibattiti sul lavoro infantile nell’industrializzazione si concentrarono in Gran Bretagna. Con l’industrializzazione però anche altri paesi cominciarono a produrre leggi per la protezione dell’infanzia. Nel 1841 in Francia una legge sul lavoro infantile «fu il preannuncio di una seria attenzione da parte dello Stato per la supervisione e la protezione dell’in-
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fanzia». Sebbene questa legge non venisse applicata in maniera molto efficace, essa fu seguita nel corso degli anni Sessanta da una «sensazionale intensificazione dell’attenzione per il lavoro infantile», cosa che lo storico di questi sviluppi spiega in parte come conseguenza del fatto che una «nuova concezione dell’infanzia come periodo da prolungare e da consacrare all’educazione e alla crescita era un aspetto normativo della mentalità delle classi agiate francesi verso la fine degli anni Sessanta del XIX secolo». L’impulso riformistico fu frenato solo brevemente dagli avvenimenti del 1870-71, e nel 1874 la Francia approvò una legge sul lavoro infantile che fissava in dodici anni l’età minima per il lavoro. In Prussia la legge del 1853 stabilì che i dodici anni erano l’età minima per l’arruolamento nell’industria, ma una concreta applicazione di tale principio si ebbe solo dopo un’ulteriore legge del 1878. [...] Va sottolineata la radicalità del mutamento che si era verificato; infatti la maggior parte dei governi e dei filantropi del XVIII secolo aveva cercato di creare opportunità di lavoro per i bambini a partire dall’età in cui alla fine del XIX secolo essi sarebbero stati invece mandati a scuola, e pochi avrebbero negato pubblicamente, a quell’epoca, che i bambini dovessero essere salvati dal lavoro.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega di cosa si occupava la legge del 1802, quale differenza viene indicata dagli anni ’30 fra i bambini e i quattordicenni e quali le motivazioni di questa distinzione. b. Sottolinea con colori diversi le informazioni relative alla concezione dell’infanzia degli utilitaristi e a quella dei romantici. Quindi descrivile sinteticamente per iscritto. c. Individua le tappe della legislazione del lavoro infantile e trascrivile sul quaderno. Quindi descrivile sinteticamente mettendo in rilievo gli anni di riferimento.
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LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1 Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente dal titolo Il lavoro operaio e la condizione femminile facendo riferimento al documento che riporta l’intervista a due operaie [Ź75] e al brano di Lombardi [Ź76]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerali in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento.
2 Scrivi un testo argomentativo sulle condizioni di vita dell’infanzia con il diffondersi dell’industrializzazione facendo riferimento al brano di Cunningham [Ź77]. Evidenzia nel testo preso in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni. Quindi, indica fra parentesi i concetti a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e non dimenticare di affrontare i seguenti temi: • i compiti dei bambini in fabbrica e in miniera • le leggi a tutela dell’infanzia • l’immagine romantica e utilitaristica dell’infanzia.
La seconda rivoluzione industriale La seconda rivoluzione industriale fu caratterizzata dallo sviluppo di nuovi settori produttivi: siderurgico, chimico, elettrico. L’avvento dell’elettricità, con le scoperte tecnologiche che ne furono alla base e i vantaggi in termini di trasmissione e di flessibilità di utilizzo che permise, sono al centro del brano dello storico David S. Landes [Ź78]. Gli storici Jürgen Osterhammel e Niels P. Petersson [Ź79], invece, si concentrano su un ulteriore mutamento che ebbe avvio a fine ’800: la crescente interrelazione e interdipendenza fra i diversi paesi, grazie allo sviluppo dei commerci internazionali e alla crescita delle comu-
STORIOGRAFIA 78 D.S. Landes, Prometeo liberato. La rivoluzione industriale in Europa dal 1750 ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1978, pp. 368-69; 371-74.
Dal punto di vista dello storico dell’economia, l’importanza della elettricità sta nella combinazione unica di due caratteristiche: trasmissibilità e flessibilità. Col primo termine intendiamo la sua capacità di spostare energia attraverso lo spazio senza perdita notevole; con il secondo la sua convertibilità facile ed efficiente in altre forme di energia: calore, luce e movimento. La corrente elettrica può essere usata per produrre una o tutte queste cose, insieme o separatamente, e l’utente può passare dall’una all’altra a volontà. Inoltre può prendere esattamente la quantità di energia di cui ha bisogno, grande o piccola, e può cambiarla se necessario senza adattamenti impli-
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nicazioni e delle migrazioni. La seconda rivoluzione industriale fu caratterizzata anche da un forte legame fra scienza e tecnologia, dalla nascita di nuove professioni e dal numero crescente di innovazioni, che segnarono la nuova epoca in diversi ambiti. Se guardiamo all’ambito dei trasporti, l’innovazione più significativa fu sicuramente quella delle ferrovie, come illustra Andrea Giuntini [Ź80]. Rispetto alle comunicazioni, invece, Alberto Cavallari [Ź81] analizza gli sviluppi tecnologici nel mondo della stampa, che porteranno alla nascita del giornale di massa, e poi a quella di radio e cinema.
D.S. Landes L’avvento dell’elettricità Lo storico statunitense David Saul Landes (1924-2013) ha dedicato numerosi studi alla storia dell’economia, fra cui il volume, divenuto un classico, dal titolo Prometeo liberato, che indaga le cause e lo sviluppo dell’industrializzazione in Europa. Nel passo scelto Landes prende in esame quella che fu, a partire dalla seconda metà dell’800, un’innovazione epocale: la diffusione dell’elettricità. La corrente elettrica permise, infatti, di trasportare, trasmettere e poter usare in modo diversificato l’energia, aprendo nuovi scenari sia per la produzione industriale che per la vita quotidiana. canti perdite di tempo o sacrifici di efficienza; e paga ciò che consuma. Da queste caratteristiche emergono due conseguenze principali. Da un lato l’elettricità liberò la macchina e l’utensile dalla schiavitù di un luogo determinato; dall’altro rese l’energia onnipresente, e la mise a portata di tutti. [...] Fino alla seconda metà dell’Ottocento la macchina era stata sempre strettamente legata al suo motore primo. Non poteva essere collocata troppo lontano da questo per l’inefficienza delle cinghie e degli alberi quali mezzi di trasmissione dell’energia: ogni ingranaggio, giunto o ruota era fonte di perdita di potenza [...] Inoltre la macchina era
radicata al suo posto, o limitata a posizioni attigue al percorso degli alberi di trasmissione, perché soltanto là poteva attingere alla fonte di energia. [...] Questi non erano inconvenienti gravi in industrie come la manifattura tessile, dove batterie di attrezzi bene allineati lavoravano gli uni accanto agli altri nello stesso posto, ma davano origine a ogni sorta di difficoltà in campi come la siderurgia e la meccanica, dove il lavoro era disperso, il ritmo ineguale, e buona parte dell’attrezzatura veniva spostata di continuo. La soluzione in questi casi era una moltiplicazione delle macchine a vapore, grandi e piccole, ma era una soluzione dispendiosa non solo per spese d’im-
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pianto ma per costo di esercizio. [...] L’energia si può trasmettere economicamente per distanze che superano le poche decine di metri soltanto mediante fluidi o gas, che possono essere somministrati sotto pressione in condutture rigide o in tubi flessibili, oppure mediante la corrente elettrica. [...] A partire dagli ultimi anni dell’Ottocento l’elettricità ebbe per sé tutto il campo della trasmissione dell’energia. La storia di questo sviluppo merita di essere seguita: come esempio di collaborazione scientifica e tecnica, di molteplicità di invenzioni, di progresso attraverso un’infinità di piccoli miglioramenti, di iniziativa creativa, di domanda derivata e di possibili conseguenze impreviste. Questa crescita simbiotica dell’energia elettrica e dei motori elettrici assomiglia a quella delle macchine tessili e della macchina a vapore nel XVIII secolo: erano infine comparsi una tecnica e un sistema nuovi di produzione, dalle possibilità illimitate. Si era di nuovo alla Genesi. All’inizio dell’Ottocento l’elettricità era una curiosità scientifica, un balocco di laboratorio. Tuttavia grazie a ricerche e esperimenti diffusi essa divenne una forma di energia commercialmente utile, prima nelle comunicazioni, poco tempo dopo nei processi metallurgici e di chimica leggera, e infine nell’illuminazione. [...] Qui l’invenzione cruciale fu quella della lampada a filamento incandescente specialmente nella varietà ad alta resistenza di Edison. Per la prima volta l’elettricità forniva qualcosa di utile non solo all’industria o al commercio, o al palcoscenico, ma a ogni famiglia. Nessuna delle applicazioni precedenti era stata particolarmente vorace di energia; e ogni impresa aveva potuto generare con profitto l’elettricità che le occorreva. Adesso però esisteva un domanda di dimensioni globali in-
calcolabili, e tuttavia atomizzata in una moltitudine di bisogni individuali, che poteva essere soddisfatta soltanto da un sistema centralizzato di generazione e distribuzione dell’energia. Anche questa fu un’idea di Edison, e da essa dipese che l’illuminazione elettrica fosse accessibile a tutti, e non riservata a pochi ricchi. Lo sviluppo dell’energia elettrica centralizzata fu opera dell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Fu una realizzazione tecnologica grandiosa, resa possibile da quasi un secolo di grandi progressi teorici e innovazioni pratiche. Le pietre miliari sono note: la batteria chimica di Volta, 1800; la scoperta dell’elettromagnetismo fatta da Oersted, 1820; la legge del circuito elettrico formulata da Ohm, 1827; gli esperimenti di Arago, Faraday e altri, culminati nella scoperta di Faraday dell’induzione elettromagnetica, 1831; l’invenzione del generatore elettromagnetico autoeccitato (Wilde, Varley, E.W. von Siemens, Wheatstone e altri), 1866-67; la dinamo ad anello di Z.T. Gramme, il primo generatore commerciale di corrente continua, 1870; lo sviluppo di alternatori e trasformatori per la produzione di corrente alternata ad alta tensione negli anni 1880. Meno noti ma altrettanto vitali furono i progressi nella fabbricazione di cavi e di materiali isolanti, nei particolari costruttivi dei generatori, nel funzionamento dei motori primi, nel collegamento delle unità componenti del sistema, nella scelta delle caratteristiche della corrente, nella registrazione del flusso e del consumo. La prima centrale elettrica pubblica d’Europa fu creata a Godalming in Inghilterra dai fratelli Siemens nel 1881. Nel quindicennio successivo altre ne sorsero in tutta l’Europa occidentale, un mosaico di unità locali situate secondo le convenienze del mercato,
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J. Osterhammel • N.P. Petersson Un’economia mondiale
J. Osterhammel, N.P. Petersson, Storia della globalizzazione. Dimensioni, processi, epoche, il Mulino, Bologna 2005, pp. 65-68.
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ciascuna con attrezzature e metodi di trasmissione propri. [...] Molto presto tuttavia gli imprenditori capirono che si potevano ottenere grossi risparmi se l’impianto generatore era situato alla fonte dell’energia o nelle vicinanze, e se la corrente veniva emanata da quel posto. È vero bensì che più lunghe erano le linee e maggiore era la perdita di energia, ma essa si poteva ridurre al minimo utilizzando corrente alternata ad alta tensione. La prima grande centrale di questo genere fu quella costruita nel 1887-80 dalla Ferranti a Deptford sul Tamigi, per rifornire Londra a 10 mila volt. Nel frattempo esperimenti condotti nell’Europa continentale, dove c’era un forte incentivo a usare energia idroelettrica, dimostravano la possibilità di trasmettere l’energia per distanze anche maggiori. Nel 1885 fu inviata sperimentalmente energia a Parigi da un generatore di 150 kW installato a Creil (un percorso di 56 chilometri); e il passo decisivo fu compiuto nel 1891, quando Oscar Müller e la ditta svizzera Brown, Boveri e Co. trasmisero 225 kW per 179 chilometri a 30 mila volt, e si era affermato il principio della rete di distribuzione regionale. Era possibile ormai creare grandi distretti elettrici integrati, in cui le imprese agricole e industriali di ogni genere, per non parlare delle case e dei negozi, potevano attingere a una fonte efficiente di energia in comune.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le informazioni principali relative all’importanza dell’elettricità e alle conseguenze del suo utilizzo. b. Cerchia l’invenzione definita “cruciale” e sottolinea i motivi della sua rilevanza. c. Spiega per iscritto cosa rese possibile lo sviluppo dell’energia elettrica centralizzata, in che modo questo sviluppo fu messo a frutto e perché.
Già nell’ultimo trentennio dell’800 e fino allo scoppio della prima guerra mondiale le economie nazionali erano fortemente integrate. Nel brano seguente, tratto da una ricerca degli storici tedeschi Jürgen Osterhammel (nato nel 1952) e Niels P. Petersson (nato nel 1968), vengono descritti i processi alla base della prima ondata di globalizzazione. Oltre alla crescita del commercio mondiale, la crescente integrazione sociale e culturale fu determinata dai progressi nei mezzi di comunicazione e di trasporto, che resero possibili sia il trasferimento a lunga distanza dei beni che le migrazioni.
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Nell’età del libero commercio (184680) si stabilirono numerose relazioni economiche mondiali sottratte in larga misura a qualsiasi regolamentazione statale. Cause tecnologiche e politico-ideologiche agirono in questo caso di concerto con una concezione della statualità secondo la quale le pretese d’intervento degli Stati nazionali erano sì più assolute, ma nello stesso tempo più limitate di quanto non lo siano oggi [...]. D’altro canto già a partire dal Cinquecento si era verificata una crescita economica («accumulazione del capitale») all’interno di strutture intercontinentali, in particolare nelle piantagioni e nel commercio asiatico. Che cosa c’era quindi di nuovo nell’Ottocento? 1) Il volume del commercio mondiale aumentò tra il 1800 e il 1913 di 25 volte. Un grande impulso all’espansione commerciale si verificò negli anni Cinquanta dell’Ottocento; dalla metà degli anni Settanta la crescita del commercio conobbe una nuova straordinaria accelerazione. Il commercio mondiale crebbe molto più velocemente della produzione mondiale. Tre quarti del commercio internazionale si concentravano però in Europa e all’interno di un triangolo i cui vertici erano rappresentati dall’Europa occidentale, dal Nordamerica e dall’Australia-Nuova Zelanda; tra le colonie solo India e Sudafrica erano importanti centri commerciali. I paesi in via di industrializzazione, in primo luogo la Gran Bretagna, erano i dominatori e i promotori della nuova fase d’integrazione dell’economia mondiale. Rimanevano tuttavia nicchie per reti regionali di commercianti indiani, cinesi, armeni, ecc. L’economia mondiale conservò le tracce del suo antico policentrismo. 2) Nessuno fece più diretta esperienza della globalizzazione di coloro che si trasferirono in un altro paese. All’interno dell’Europa, che aveva una popolazione già straordinariamente mobile per tradizione, sorse nel corso dell’Ottocento «una nuova topografia transnazionale delle migrazioni». Le aree d’emigrazione erano l’Europa
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meridionale, sudorientale e orientale, mentre le zone di maggiore immigrazione erano la Germania, la Francia e la Svizzera. Questi movimenti di popolazioni impallidivano di fronte alle migrazioni in altre parti del mondo. È stato calcolato che tra il 1850 e il 1914 circa 60-70 milioni di persone hanno abbandonato il proprio paese d’origine senza farvi più ritorno. Di questi, circa 40-45 milioni erano europei che emigravano oltreoceano, prevalentemente verso l’America del Nord e l’America Latina, 7 milioni erano gli immigrati nella Russia asiatica e 11 milioni gli indiani, i cinesi e i giapponesi che giungevano in paesi stranieri (Sudest asiatico, Stati Uniti, Caraibi, Africa orientale e meridionale) per lo più come lavoratori a contratto («coolies»). Tra il 1811 e il 1867 non meno di 2,7 milioni di africani furono venduti come schiavi in America, nonostante il commercio degli schiavi fosse in continuo calo dopo la sua messa fuori legge da parte del parlamento britannico nel 1807. La maggior parte degli immigrati non si trovava disorientata nel nuovo ambiente. Formavano delle comunità di arrivo – in casi estremi «chinatowns» autosufficienti –, rafforzando così il carattere multietnico dei paesi che li accoglievano. Poiché le diaspore mantenevano per lo più dei legami con i paesi d’origine, le migrazioni del XIX secolo ricoprirono il globo con una rete di rapporti transoceanici di parentela. Anche dal punto di vista economico i migranti contribuivano all’integrazione globale. Essi lavoravano le terre di frontiera (frontiers), erano buoni acquirenti dei prodotti dei loro paesi di provenienza, contribuivano ad aumentare la produttività globale complessiva con un’utilizzazione più efficace delle risorse (divisione del lavoro, migliori posizioni) e spesso fondavano essi stessi nuove imprese e settori commerciali. L’ascesa e il duraturo successo degli Stati Uniti come potenza economica dominante non sarebbero spiegabili senza il contributo degli immigrati nel corso dell’Ottocento.
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3) Per la prima volta fu possibile inviare beni di massa a grande distanza. Anche da questo punto di vista intorno al 1880 si superò una soglia. Il progresso nel processo d’integrazione del nucleo atlantico cominciò infatti a rivelarsi nella crescente parificazione dei prezzi delle merci e dei salari reali in Europa occidentale e Nordamerica. Il declino della coltivazione britannica di cereali e la conversione della Gran Bretagna all’esportazione di prodotti finiti, e all’importazione di cereali dopo l’abolizione delle Corn Laws1 nel 1846, sono i primi effetti della trasformazione strutturale prodotta da questa nuova forma di divisione internazionale del lavoro. I mercati regionali reagirono uno dopo l’altro con rapidità e sensibilità nuove. 4) Il segno più incontrovertibile dell’esistenza di una stretta connessione globale fu il presentarsi di movimenti congiunturali con effetti percepibili in tutto il mondo. La cosiddetta «Grande Depressione» o «Grande Crisi» cominciata nel 1873 fece crollare i prezzi delle merci su tutti i mercati mondiali. Con effetti ancor più duraturi si fece positivamente sentire in tutti i continenti l’espansione della domanda dopo il 1896: la prima congiuntura globale favorevole.
1. Leggi sui cereali, introdotte dal governo
inglese nel 1815, prevedevano forti misure protezionistiche sul grano.
GUIDA ALLO STUDIO a. Parti dalla domanda del brano “Che cosa c’era di nuovo nell’800?” e spiega per quale motivo è stata fatta. Quindi sintetizza le risposte fornite dagli autori. b. Rispondi per iscritto alle seguenti domande: a. In che misura il fenomeno migratorio contribuì all’integrazione globale dell’economia? b. Quali sono, secondo i due storici, i segnali più evidenti della globalizzazione economica avviatasi nella seconda metà dell’800?
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STORIOGRAFIA 80 A. Giuntini, Il boom delle ferrovie, in V. Castronovo (a c. di), Storia dell’economia mondiale. Tra espansione e recessione, vol. IV, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 21-27; 30-31.
Il treno sconvolge completamente i rapporti fra uomo e spazio e sviluppa un nuovo concetto di mobilità. Quello che prima era lontano grazie al treno non lo è più, l’impossibile viene trasferito nella sfera della quotidianità. I ritmi di vita mutano completamente, non sono più i giorni la scansione principale, ma le ore. Pochi oggetti sono in grado di descrivere visivamente meglio delle ferrovie l’Ottocento. L’immagine di un treno in corsa è stata innumerevoli volte associata all’idea di progresso, che il XIX secolo riassume più di qualsiasi altro. Vapore, ferro, carbone e il genio dell’uomo che spinge sempre più avanti i confini del sapere tecnico: tutto questo trova nelle ferrovie la sintesi ideale. [...] Gli storici si sono chiesti più volte se quella ferroviaria abbia effettivamente costituito una rivoluzione dei trasporti. [...] Il livello quantitativo e qualitativo dei cambiamenti porta a ragionare in termini di rivoluzione: natura dei servizi da una parte e prodotto e modalità del trasporto dall’altra hanno subito tali modificazioni, secondo i sostenitori di questa seconda tesi, da giustificare il richiamo all’idea di rottura. Se effettivamente si prende in considerazione l’impegno del capitale necessario all’impianto di una ferrovia, ci si trova sicuramente di fronte a un fenomeno rivoluzionario: non esisteva all’epoca alcuna impresa che ne richiedesse un ammontare altrettanto cospicuo. Ma anche dal punto di vista tecnologico appaiono evidenti le straordinarie novità apportate dalle ferrovie: il salto in termini costruttivi, in particolare delle locomotive, che rappresentarono il prodotto più sofisticato in ambito ferroviario, induce a ragionare in termini di profonda rivoluzione rispetto al passato. Se poi allarghiamo la considerazione anche alle linee, appare immediatamente come l’approntamento di accorgimenti particolari – si pensi soltanto alle ferrovie di montagna – costituisca un passo in avanti gigantesco
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A. Giuntini Le ferrovie Lo storico dell’economia Andrea Giuntini (nato nel 1955) approfondisce in questo saggio la nascita e il rapido sviluppo delle ferrovie. Si trattò di una rivoluzione nei trasporti, sotto diversi punti di vista: quello tecnologico (con le innovazioni nelle tecniche costruttive), quello economico (con la nuova scala degli investimenti finanziari necessari per realizzare le linee), quello spaziale – perché le ferrovie aumentarono la mobilità, favorirono la concentrazione di imprese e agglomerati, permisero la comunicazione fra luoghi prima isolati, mutando radicalmente i rapporti fra uomo e spazio. compiuto dagli ingegneri di ogni paese d’Europa. [...] Ci fu rottura anche dal punto di vista fisico, della velocità, della possibilità di collegarsi in maniera assai diversa di quanto non accadeva precedentemente, e tale rottura è ancora più evidente in quanto le ferrovie funzionarono contestualmente agli altri mezzi di trasporto, facendo risaltare dunque in pieno le poderose differenze. Sotto il profilo più strettamente economico, occorre sottolineare poi che le ferrovie, che furono il primo sistema tecnico a grande scala, innescarono un giro complessivo di interessi che i precedenti mezzi di trasporto non erano stati in grado di alimentare. Le ferrovie infatti stimolarono investimenti enormi, come probabilmente nessuna altra iniziativa riuscì a fare nel corso del secolo. In questo senso si può affermare che influirono sulla struttura dei primi mercati maturi dei capitali, inducendo pratiche borsistiche moderne e favorendo l’invenzione di nuovi prodotti finanziari, ma finendo anche per gonfiare il fenomeno della speculazione. In una parola sola, dettero un contributo decisivo alla maturazione del sistema finanziario. [...] Le ferrovie inoltre mutarono profondamente il territorio e gli insediamenti. Favorirono l’addensamento della popolazione e la concentrazione delle imprese così come l’apertura di nuovi territori al popolamento e alla messa a coltura. L’aumento della mobilità commerciale e dei viaggiatori mise per la prima volta in collegamento paesi e genti, togliendoli da un isolamento in certi casi secolare. In definitiva crearono nuovi paesaggi – modellati dalle opere d’arte disseminate lungo le linee – e modificarono ovunque l’ambiente geografico. [...] La fase pionieristica delle ferrovie dura grosso modo fino al 1850; la si fa generalmente coincidere con la fine della prima rivoluzione industriale. Al termine di questa prima fase erano stati stesi nel mondo 38.600 chilometri
di binari; l’Europa ne contava 25.900. [...] L’apertura della linea Stockton-Darlington1 il 27 settembre 1825 viene comunemente considerata il primo atto dell’era ferroviaria. La locomotiva costruita per l’occasione da George Stephenson, reputato a ragione il padre della ferrovia, portava il semplice nome di Locomotion; coprì l’intero percorso alla media di 20 chilometri orari. Sul treno inaugurale, come riportano le cronache entusiaste, montarono almeno 500 persone, in parte a bordo e in parte aggrappate esternamente ai 33 vagoni. [...] Le varie reti nazionali crebbero senza seguire modelli prestabiliti. La loro forma dipendeva talora da motivi di ordine geografico, come nel caso dell’Italia, in cui la configurazione non poteva che essere longitudinale, o in quello della Russia, dove su tutto si impose l’immensità degli spazi. Ma prevalsero talvolta ragioni di centralità della capitale, che spinsero verso la formazione di reti radiali, come in Francia, Gran Bretagna e Spagna. [...] In tutti i paesi che si dotarono della nuova infrastruttura nacque inizialmente una miriade di piccole compagnie per la costruzione e la gestione delle linee; col tempo fu avviato un chiaro processo di concentrazione in realtà societarie di dimensioni maggiori, che si trovarono a esercitare anche migliaia di chilometri di linee. In questa prima fase dell’era ferroviaria fecero passi da gigante le tecniche costruttive. Migliorarono sia gli impianti sia il materiale rotabile, per il quale eccelsero Gran Bretagna e Belgio. Sarà opportuno ricordare che i binari di acciaio fecero la propria comparsa nel 1857 in Inghilterra. Si distinsero nell’ambito dell’attività costruttiva in particolare gli ingegneri e i grandi
1. Le due località si trovano nel Nord-Est
dell’Inghilterra.
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FARE STORIA La seconda rivoluzione industriale
appaltatori di lavori ferroviari inglesi, i quali giravano l’Europa insieme con i propri operai specializzati, esportando un sapere di cui furono i primi depositari. [...] Quella che comunemente viene chiamata la seconda rivoluzione industriale rappresenta anche la fase della maturità delle ferrovie. Il mutamento di maggior rilievo riguarda gli investimenti. Terminata l’epoca in cui poteva bastare anche una fortuna personale per la costruzione di una linea, nella seconda metà dell’Ottocento si fanno avanti nuovi modi di approvvigionamento del denaro dovuti al passaggio a reti sempre più vaste e complesse. Si tratta dunque di un salto di scala decisivo sotto il profilo finanziario, che, ove si presenti troppo oneroso, prevede un crescente intervento dello Stato. Nella seconda metà degli anni Settan-
ta la Germania decide la nazionalizzazione delle ferrovie, seguita da altri paesi quali Romania, Serbia, Bulgaria, mentre in Austria, Danimarca, Russia e Svizzera i vari governi acquistano le linee principali. Anche dove i privati restano i protagonisti del mondo ferroviario aumentano comunque controlli e regolamentazioni, mentre si afferma l’idea che le ferrovie sono un servizio sociale necessario nei confronti del quale l’impegno statale deve tendere all’allargamento. [...] I grandi istituti di credito sostituiscono le piccole banche prima coinvolte nell’investimento ferroviario. [...] In quest’epoca le reti già formate tendono al completamento attraverso la realizzazione di linee secondarie e locali. [...] Complessivamente, nel 1890 in Europa esistevano 216.000 chilometri di binari contro i 151.000
STORIOGRAFIA 81
A. Cavallari Il giornale di massa
A. Cavallari, La fabbrica del presente. Lezioni d’informazione pubblica, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 124-37.
È solo con l’Ottocento che si verificherà l’esplosione della stampa, la nascita del giornale di massa, l’egemonia degli strumenti d’informazione nel mondo sempre più moderno. Sono quattro i fattori che producono il grande cambiamento. Tre sono tecnologici, uno è commerciale: l’applicazione dell’energia a vapore alle macchine da stampa (1812), la fotografia di Niépce (1826), il telegrafo elettrico di Morse (1832-37), l’introduzione sistematica della pubblicità commerciale nei giornali (1836). [...] Il concetto di produzione di massa si afferma solo col vapore applicato alla macchina; quello di contemporaneità, di ubiquità, e trasmissione a distanza, si realizza solo col telegrafo elettrico, cioè mosso da un’altra energia artificiale prodotta dopo il vapore. La fotografia sembra soltanto un’evoluzione dell’illustrazione prodotta dalla somma di più scienze, ma diventa presto anch’essa un linguaggio nuovo, trasmissibile a distanza, preparando il terreno al ci-
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del 1860; anche il traffico merci era sensibilmente cresciuto, passando da 340 a 1.750 milioni di tonnellate. Negli Stati Uniti nel 1860 la rete raggiungeva il Mississippi e contava 50.000 chilometri di estensione, che alla fine del secolo erano aumentati di otto volte.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia gli ambiti del settore dei trasporti in cui le ferrovie rappresentarono una vera e propria rivoluzione. Individua per ognuno di essi da tre a cinque parole chiave e argomenta la tua scelta per iscritto. b. Individua le fasi dello sviluppo delle ferrovie e rendile riconoscibili con dei titoli che scriverai al lato del testo. Quindi trascrivili sul quaderno e sintetizzane i contenuti. c. Spiega cosa determinò la forma delle reti ferroviarie nazionali citando alcuni esempi.
Alberto Cavallari (1927-1998), giornalista e a lungo direttore del «Corriere della Sera», ha scritto diversi reportage e inchieste storico-politiche, ma anche saggi, come La fabbrica del presente, che raccoglie un ciclo di lezioni sull’informazione pubblica, tenute all’università di Parigi. Nel brano proposto Cavallari analizza la nascita del giornale di massa, prendendo in considerazione i fattori tecnologici che concorsero al miglioramento e alla diffusione della stampa nella seconda metà dell’800. Proprio grazie alle significative innovazioni tecnologiche, nasceranno però a fine secolo i concorrenti dei giornali: radio e cinema. nema, alla televisione, al mondo futuro dei multimedia. Pertanto le rivoluzioni energetiche (vapore ed elettricità) sono alla base della grande espansione. Parallelamente, una rivoluzione chimica fa la sintesi di lunghi studi sulla riproducibilità, cominciati da Leonardo, proseguiti con l’ottica, con gli studi dei colori e della luce, e lancia l’informazione visiva di massa, la rende più ricca di prospettive. Già nel 1832 sono infatti in atto gli esperimenti d’immagini in movimento. Nel 1889 nasce il cinema. Mentre la stampa realizza la propria egemonia, prepara con la fotografia anche i nuovi strumenti d’informazione e di comunicazione che le saranno concorrenziali. [...] Ma veniamo ai dati che compongono il quadro di questa gigantesca esplosione. Il colpo d’inizio è dato nel 1812 dall’applicazione del vapore al torchio metallico di Stanhope, su brevetto Koenig, e dalla pressa meccanica, che il settecentesco «Times» installa nella sua tipografia di Londra. Così comin-
cia l’accelerazione produttiva che, con le rotative della metà del secolo, giunge alle 15.000 copie orarie e produce in tutti i paesi, in tempi diversi, ovviamente, fenomeni d’espansione uguale. [...] Il grande balzo avviene tra il 1830 e il 1860. Infatti, in questo trentennio, le ferrovie si espandono. Morse trasmette (1844) il suo famoso messaggio «elettrico» sulla linea Washington-Baltimora («What hath God wrought»1) e poi l’utilizza per la prima volta per «informare» trasmettendo i nomi dei delegati alla Convenzione nazionale Whig. Come scrive Stefan Zweig sugli esperimenti che precedono l’avvenimento, «l’anno 1837 è raramente menzionato nei nostri manuali di storia. Ma il fatto che il telegrafo trasmetta simultaneamente attraverso il mondo notizie sconvolgendo la nozione del tempo,
1. Frase biblica, che suona come “cosa ha fatto
Dio”.
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con effetti psicologici enormi, fa sì che nessun’altra data della nostra storia è paragonabile». È così infatti che nascono le prime grandi agenzie mondiali: la francese Havas (nel 1832-5), l’americana Associated Press (1848), la tedesca Wolf, l’inglese Reuter (1851). È così che nel 1845 il «Morning Chronicle» di Londra utilizza per primo il telegrafo Morse nella trasmissione di messaggi a stampa. [...] Sopravviene poi la rivoluzione commerciale, prodotta dalla pubblicità partita dalla Francia. Nel trentennio il «sistema» editoriale è formato definitivamente. Ci sono i «grossisti di notizie»: le agenzie. Sono nate le industrie di produzione. Sono tracciati gli allargamenti di mercato. Funzionano le prime organizzazioni pubblicitarie. Sono praticate le riduzioni dei prezzi per rendere di «massa» il giornale. Si consolida soprattutto un nuovo circuito tra potere politico e potere economico per controllare e organizzare la crescita che inizia. [...] La seconda fase di grande espansione è quella compresa nel quarantennio 1860-1900. Ormai funziona il primo cavo telegrafico transatlantico di Cyrus Field tra l’Islanda e Terranova, utilizzato dalla Associated Press (1858-66). Il compositore a tasti di Kasteinbein troneggia al «Times» (1872) fondendo 6000 caratteri l’ora, utilizzando solo quattro operai. Nel 1880 il «Daily Graphic» di Londra pubblica la prima riproduzione di una fotografia.
U5 L’età del positivismo e della seconda rivoluzione industriale
Nel 1866 il «New York Tribune» impianta la prima linotype2. [...] In Francia, nel 1863 nasce il primo quotidiano veramente popolare, il «Petit Journal» di Moise Millaud. Costa cinque centesimi, nel 1869 tocca le 350.000 copie, prosegue la rivoluzione commerciale, che porta al «boom» del giornalismo popolare, sensazionale, spregiudicato, unicamente teso al successo e al guadagno, sovente legato al potere politico. [...] Quando il secolo finisce, la fabbrica del presente sembra aver toccato il massimo della sua capacità di produrre e della sua eterogeneità. L’egemonia dell’informazione scritta e visiva, ma sempre stampata, è totale. Ma il secolo nuovo riserva le sue grandi sorprese e nel 1895, a Parigi, nella penombra di un salotto, i fratelli Lumière hanno già proiettato il primo film. Lo stesso anno, Marconi, a Bologna, ha fatto le prime esperienze di radio senza fili. Nel 1896 «The World» di Pulitzer ha pubblicato i primi comics. Nel 1898 due stazioni Marconi hanno consentito il primo radio-reportage delle regate di Kingston per il «Daily Express» di Dublino. Nessuno intravede che nel 1908 Pathé3 inaugurerà già le attualità filmate con il suo «Pathé Journal». Ma presto si salderanno la trasmissione hertziana4 a distanza, il cinema, la radio. La stampa non sarà più sola a utilizzare le nuove tecnologie mettendole al proprio servizio, come è accaduto finora. Per la prima volta,
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la fabbrica del presente, dopo secoli diventerà sonora e visiva, sarà cogestita dalle teletrasmissioni. Mentre lo sviluppo dell’informazione scritta è al massimo, si prepara la grande «rottura» che cambierà tutto.
2. Macchina tipografica che compone in piombo
le linee intere di caratteri per i testi a stampa.
3. Charles Pathé (1863-1957), pioniere
dell’industria cinematografica, produttore e artefice del primo cinegiornale. 4. Dal nome del fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz (1857-1894), che scoprì le onde elettromagnetiche e diede avvio alla tecnica delle radiotrasmissioni.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi i fattori che produssero il grande cambiamento descritto da Cavallari. b. Cerchia le innovazioni descritte e sottolinea i relativi campi d’azione e i conseguenti cambiamenti. c. Individua le fasi della grande espansione e rendile riconoscibili con dei titoli che scriverai al lato del testo. Quindi trascrivi questi ultimi sul quaderno e sintetizzane i contenuti mettendo in rilievo le date di riferimento..
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME La storia racconta 1. Avendo come riferimento i brani storiografici della sezione, individua i cambiamenti imprese determinati dall’avvento dell’elettricità e dal punto di vista e del commercio mondiale. Trascrivi sinteticamente le informazioni da te raccolte sul quaderno e indica fra parentesi il nome dell’autore dal cui brano le hai tratte. Infine scrivi un testo righe chiaro e coeso sullo stesso tema, scegliendo un taglio e un titolo per il tuo elaborato.
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2. Quali furono le principali innovazioni nel settore dei trasporti e delle comunicazioni introdotte durante la seconda rivoluzione industriale? Individua nei brani storiografici del tema trattato i concetti e i passaggi logici che possono aiutarti a costruire il tuo discorso. Trascrivili sinteticamente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale. Rispondi quindi alla domanda di partenza con un testo righe argomentativo costruito sulla base della mappa da te realizzata.
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo CHIAVE DI LETTURA
Le potenze imperialiste Lo storico britannico Eric J. Hobsbawm definisce «età degli imperi» il periodo dal 1875 al 1914: un’epoca in cui la politica di potenza e di espansione territoriale ed economica delle grandi potenze europee ed extraeuropee (Stati Uniti e Giappone), il cosiddetto “imperialismo”, raggiunse il suo apice, mentre si registravano molte altre significative trasformazioni politiche e sociali destinate a produrre effetti duraturi lungo tutto il corso del ’900. Quasi l’intera Africa, una parte rilevante dell’Asia – eccetto la Cina e il Giappone – e tutta l’Oceania erano, agli inizi del ’900, sotto il controllo di quella parte d’Europa che rappresentava il nucleo più sviluppato dell’economia mondiale e disponeva anche di una larga supremazia tecnologica e culturale. In nessun altro momento della sua storia millenaria l’Europa aveva esercitato un dominio così esteso sul resto del mondo. Le ideologie imperialiste trovavano un largo sostegno tra i diversi ceti sociali nella diffusa convinzione di una superiorità culturale e razziale sui popoli di colore da sottomettere alla missione civilizzatrice europea.
GLI EVENTI
La nascita dell’Impero tedesco e la pacificazione europea Una delle principali ragioni che consentirono, accanto allo sviluppo economico e industriale, la rinnovata espansione coloniale di fine ’800 fu la pacificazione europea seguita alla vittoria della Prussia sulla Francia nel 1870. La guerra franco-prussiana poneva termine
al primato politico e geopolitico della Francia nell’Europa continentale fondato sulla divisione della Germania. La sconfitta francese e la nascita dell’Impero tedesco rovesciarono i tradizionali rapporti di forza affidando all’abile e determinato cancelliere tedesco Bismarck il ruolo di arbitro della politica europea. Bismarck esercitò questo ruolo stemperando gli attriti tra Austria e Russia nei Balcani, e contribuendo alla definizione di nuove regole per la spartizione dell’Africa, un continente nel quale anche i tedeschi ottennero le loro colonie negli anni ’80 e ’90 dell’800. Un’Italia simile e diversa Completato il processo di unificazione con l’acquisizione di Veneto e Roma, grazie anche alle favorevoli condizioni internazionali create dalle vittorie prussiane su Austria e Francia, l’Italia, la più recente e la più piccola delle potenze europee, attraversò negli ultimi decenni del secolo una fase per molti aspetti simile a quella degli altri grandi Stati dell’Europa continentale. Simile fu la tendenza alla democratizzazione e all’estensione del suffragio, simile la vocazione imperialista. Diverse erano in realtà le basi economiche di partenza – con un reddito pro capite degli italiani che nel 1870 era la metà di quello britannico e l’80% di quello francese e tedesco –, con una profonda diversità nello sviluppo tra Nord e Sud e con un tardivo avvio del processo di industrializzazione, anche se in significativo recupero dalla fine dell’800.
GLI IMPERI COLONIALI (FINE XIX-INIZIO XX SECOLO) 1869 Apertura del Canale di Suez 1862-90 1868 Bismarck presidente Inizio dell’era del Consiglio della Meiji Prussia e poi cancelliere in Giappone dell’Impero tedesco 1866 Terza guerra d’indipendenza italiana 1861-65 Guerra di secessione americana
1839-42 Guerra dell’oppio tra Cina e Gran Bretagna
1835
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1845
1855
1865
1870 1878 Guerra francoIndipendenza prussiana; degli Stati balcanici sconfitta della sancita dal congresso Francia di Berlino 1870 Conquista di Roma, capitale del Regno 1880-81 e 1884-85 d’Italia 1899-1902 Conferenza 1871 di Berlino per Guerre Nascita dell’Impero la spartizione boere in tedesco. dell’Africa Africa Insurrezione centrale di Parigi: la Comune
1875
1885
1896 Sconfitta italiana ad Adua nella guerra d’Africa 1892 Nascita del Partito socialista dei lavoratori italiani
1895
1905
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C16 La politica di potenza EXTRA ONLINE
1 Parole della storia Potenza, p. 480
Ÿ Napoleone III XIX sec. [Godsmiths’ Hall, Londra] In questo dipinto è rappresentato Luigi Napoleone Bonaparte che, dopo il colpo di Stato del 1851, si fece eleggere imperatore con il nome di Napoleone III. Attuò una politica di forte espansione coloniale.
Storia, società, cittadinanza Schiavitù vecchie e nuove
Focus La morale vittoriana
Laboratorio dello storico La fotografia
Le potenze continentali Il ventennio 1850-70 fu caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità e di instabilità tra le tre principali potenze dell’Europa continentale: instabilità originata soprattutto dal tentativo della Francia di Napoleone III di riaffermare la sua posizione di massima potenza continentale europea (sullo scacchiere mondiale la superiorità britannica era fuori discussione), rovesciando il sistema sancito dal congresso di Vienna e contrapponendosi all’Impero asburgico, che di quel sistema era il cardine principale [Ź10_1]. Ma l’indebolimento dell’Austria, derivato da un sostanziale immobilismo politico e sociale [Ź10_7], favorì l’ascesa della potenza prussiana. La crescita della Prussia e la sua aspirazione a riunire attorno a sé un grande Stato nazionale tedesco costituivano una minaccia intollerabile per la Francia, che dalla pace di Vestfalia del 1648 aveva fondato la sua egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla frammentazione politica della Germania: la strada dell’unità tedesca passava quindi inevitabilmente attraverso lo scontro con la Francia. LA FRANCIA DI NAPOLEONE III Nell’Europa di metà ’800 la Francia di Napoleone III rappresentava un caso anomalo. Per molti aspetti, il nuovo regime (instaurato nel 1852) – che pure ricalcava le forme istituzionali del Primo Impero napoleonico – inaugurò un modello politico di nuovo genere, che da allora fu detto “bonapartismo”. Nel bonapartismo l’omaggio formale al principio della sovranità popolare – espressa attraverso i plebisciti – legittimava un
STORIA IMMAGINE William Simpson, La “carica dei Seicento” durante la battaglia di Balaklava 1855 [Library of Congress, Washington] Il 25 ottobre del 1854 a Balaklava, durante la guerra di Crimea, una brigata di cavalleria leggera britannica diede l’assalto ad alcune postazioni di artiglieria russe, attestate in una stretta valle. L’episodio, passato alla storia come la “carica dei
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Seicento”, provocò altre 100 morti. 130 feriti e l’uccisione di 375 cavalli. Quello che allora apparve come un gesto di audacia e di valore militare fu in realtà la dimostrazione che la cavalleria era stata superata come arma efficace di sfondamento. La “carica dei Seicento” è stata rappresentata in molte opere letterarie, pittoriche e cinematografiche. In
questa litografia, il generale Lord Cardigan, alla testa della brigata di cavalleria britannica, al centro della valle, guida i suoi uomini all’attacco dell’artiglieria russa, sulla sinistra. In primo e terzo piano, sulle colline, altri reparti di artiglieria russa sparano sugli inglesi, mentre sulla sinistra, in primo piano, la cavalleria russa attende pronta al contrattacco.
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LO SPAZIO DELLA STORIA
LA GUERRA DI CRIMEA, 1853-55
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Valacchia SERBIA
Danubio MONTENEGRO
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GRECIA
MAR MEDITERRANEO
attacco russo attacco alleato battaglie
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potere fondato in realtà sulla forza delle armi, in cui il centralismo autoritario si univa a una certa dose di riformiRUSSIA smo sociale e il conservatorismo si mescolava con la demagogia: tutti elementi che ritroveremo in molti regimi autoritari tipici delle moderne società Crimea di massa. L’autoritarismo e il centraSebastopoli Balaklava lismo di Napoleone III (all’imperatore, 1854-55 1854 titolare del potere esecutivo, spettavaCeduto alla Moldavia no anche il controllo del potere giudiMAR NERO dalla Russia, ziario, la facoltà di proporre leggi e il 1856 comando dell’esercito) si fondavano Sinope su un vasto consenso popolare, deri1854 Istanbul vante anche dalla tradizione napoleonica che si manteneva viva in tutta la Stretto dei Dardanelli Francia. Oltre al sostegno delle campagne l’imperatore cercò e ottenne quelO T T lo della borghesia urbana, del mondo O M A N O degli affari, della finanza e dell’industria. Questa borghesia fu, negli anni del Secondo Impero, attiva e influente come non era mai stata prima. Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal regime svolsero la funzione di motore dello sviluppo, sia per l’edilizia sia per i settori di punta come il siderurgico e il meccanico. Conseguentemente, un aspetto importante della cultura e della società del Secondo Impero fu quello che potremmo definire “tecnocratico”: la tendenza cioè ad affidare sempre maggior potere ai tecnici (scienziati, ingegneri, esperti di economia e finanza) e a vedere nel trionfo della tecnica e della civiltà industriale la via più sicura per la realizzazione del bene comune. Ma la tradizione bonapartista portava inevitabilmente la Francia a intraprendere una politica estera ambiziosa e aggressiva. La prima occasione fu la guerra di Crimea, quando Gran Bretagna e Francia si impegnarono a difendere l’Impero ottomano dall’espansionismo russo. Nell’estate del 1854 una flotta anglo-francese penetrò nel Mar Nero: gli eserciti alleati sbarcarono nella penisola di Crimea e posero l’assedio alla piazzaforte russa di Sebastopoli. La guerra, alla quale partecipò anche il Piemonte con un corpo di spedizione [Ź13_3], si risolse nel lunghissimo assedio di Sebastopoli, durato circa un anno e conclusosi nel settembre 1855 con la caduta della città [Ź _34]. Il successivo congresso di Parigi confermò la neutralizzazione del Mar Nero, stabilendo che restasse chiuso alle navi da guerra di tutti i paesi, compresa la Russia. L’Impero ottomano vide garantita la sua integrità e confermata la sua sovranità nominale sui Principati autonomi di Serbia, Moldavia e Valacchia: questi ultimi due si sarebbero uniti nel 1859 per formare il nuovo Stato di Romania. Una seconda occasione fu quella della vittoriosa guerra contro l’Austria al fianco del Piemonte cavouriano nel 1859 [Ź13_3]. Ma il risultato principale della guerra – la formazione di uno Stato nazionale italiano sotto la guida del Piemonte – fu ben lontano dai progetti di Napoleone III, che mirava in realtà a subentrare all’Austria come potenza egemone in un’Italia che doveva rimanere divisa.
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IMPERO D’AUSTRIA
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
Junker Originariamente il termine “Junker” era riferito, in Germania, ai figli maschi di famiglie nobili che, non essendo primogeniti, si dedicavano alla carriera militare. Nell’800 furono chiamati Junker i grandi proprietari terrieri prussiani. Essi formavano un gruppo compatto, fortemente conservatore nelle abitudini e negli orientamenti politici, che esercitava un notevole peso nella vita dello Stato: gli Junker, infatti, costituivano la quasi totalità degli ufficiali di carriera e buona parte dei vertici della burocrazia.
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LA DEBOLEZZA DELL’IMPERO D’AUSTRIA Dopo le rivoluzioni del ’48-49, l’Impero asburgico si era riorganizzato sulla base del vecchio sistema assolutistico: il potere tornò a concentrarsi nelle mani dell’imperatore, l’apparato poliziesco fu consolidato, il centralismo amministrativo rafforzato. La Costituzione concessa nel 1849, e mai realmente applicata, fu revocata nel 1851: solo dieci anni dopo fu ricostituito un Parlamento bicamerale, dotato peraltro di poteri molto limitati. Del resto, nonostante il persistere dei contrasti di nazionalità – che erano stati aggravati dalle vicende del ’48 – il potere imperiale poteva contare sul sostegno della maggioranza dei contadini, favoriti dall’abolizione della servitù della gleba, e su quello della Chiesa cattolica. Appoggiandosi su queste forze, lo Stato sacrificò le esigenze dei settori industriali (soprattutto quelli delle zone più progredite, come la Boemia e la Lombardia), chiamati a pagare i costi di un imponente apparato amministrativo e militare, e mancò in sostanza l’appuntamento con lo sviluppo economico degli anni ’50 e ’60 senza peraltro mantenere, anche a causa delle ripetute sconfitte militari, il ruolo da protagonista della scena europea che aveva prima del ’48. LA FORZA DELLA PRUSSIA
Negli stessi anni la Prussia proponeva con autorità la sua candidatura alla guida della nazione tedesca, fidando soprattutto sulla forza trainante del suo sviluppo industriale e sulla stretta integrazione della sua economia con quella degli altri Stati germanici, uniti fin dal 1834 in una Lega doganale (Zollverein) da cui era invece esclusa l’Austria. La Prussia, infatti, si era sviluppata, a partire dagli anni ’50, a un ritmo che non aveva uguali in Europa. Questa espansione industriale e la crescita di una forte borghesia si concentrarono soprattutto nella parte occidentale dello Stato prussiano (cioè nella Renania-Vestfalia). Lo sviluppo economico non era stato accompagnato, però, da un’evoluzione delle istituzioni in senso liberal-parlamentare: al contrario i vertici dello Stato continuavano a essere occupati dagli esponenti degli Junker*, gli aristocratici proprietari terrieri. Proprio il conservatorismo sociale si rivelò una componente essenziale di quella “via prussiana” allo sviluppo, guidato dall’alto e legato al potenziamento militare, che avrebbe finito col costituire una sorta di modello alternativo a quello britannico. Inoltre, elementi di modernità come un efficiente sistema di comunicazioni interne (strade, canali), una rete ferroviaria relativamente sviluppata e un’alta
LE PAROLE DELLA STORIA
Potenza Nel linguaggio della diplomazia, sono definiti “potenze” quegli Stati che si dimostrano in grado, in virtù della loro forza economica e militare o della loro capacità politica, di essere soggetti attivi, e non solo oggetti, della politica internazionale, di assumere autonomamente impegni ed iniziative senza essere condizionati da vincoli di subordinazione. Si parla poi di «grandi potenze» in riferimento a quegli Stati che, in un dato periodo, acquistano un ruolo egemonico in una determinata area e sono chiamati per questo ad assumere responsabilità speciali nella conduzione degli affari internazionali. Nell’800, le grandi potenze erano cinque:
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Francia, Gran Bretagna, Russia, Prussia (poi Germania) e Austria. Negli ultimi decenni del secolo a esse si aggiunsero l’Italia (cui non tutti, per la verità, riconoscevano questo ruolo) e le nuove potenze extraeuropee, gli Stati Uniti e il Giappone. Dopo la prima guerra mondiale, l’Austria, non più centro di un impero, uscì dal novero delle grandi potenze, e ne furono escluse, ma solo temporaneamente, la Germania e la Russia (che vi sarebbe rientrata come Unione Sovietica). All’indomani del secondo conflitto mondiale, emerse un nuovo equilibrio internazionale, basato sull’esistenza di due sole superpotenze, Stati Uniti e Urss, capaci di far sentire il loro peso sull’assetto dell’intero pianeta. Con la crisi del blocco
comunista e la fine dell’Urss (1991), gli scenari mutarono di nuovo. Gli Stati Uniti restarono l’unica superpotenza planetaria. Ma nel frattempo emergevano altri candidati al ruolo di grandi potenze internazionali: le due nazioni sconfitte della seconda guerra mondiale, la Germania riunificata e il Giappone, e la stessa Russia, portata a ereditare il ruolo dell’ex Unione Sovietica, affiancata dalla Cina, grande potenza economica e commerciale. Si aggiungevano poi le nuove potenze regionali come il Brasile e l’Argentina, la Turchia e l’Iran, l’India e l’Indonesia, pronte a inserirsi in una realtà internazionale diventata di nuovo fluida dopo la fine del bipolarismo Usa-Urss durato quasi mezzo secolo.
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diffusione dell’istruzione rappresentarono un fattore decisivo per i successi della Prussia nel campo economico come in quello militare. Così il tradizionalismo degli Junker e le aspirazioni nazionali della borghesia finirono col trovare un terreno di convergenza nella politica di potenza dello Stato prussiano e nel suo necessario complemento, ossia lo sviluppo di un forte esercito. L’artefice principale di questa politica fu Otto von Bismarck, un tipico rappresentante degli Junker che non aveva mai fatto mistero della sua avversione alla democrazia e al liberalismo. Nominato primo ministro nel 1862 dal re Guglielmo I, Bismarck si impegnò a realizzare, anche contro le riserve del Parlamento, una riforma dell’esercito che prevedeva l’aumento degli organici e il prolungamento del servizio di leva in funzione dell’obiettivo dell’unificazione. Per raggiungere questo obiettivo la Prussia doveva sconfiggere sul campo di battaglia Austria e Francia, i due nemici di un’unità tedesca a guida prussiana. Del resto il programma politico di Bismarck era stato chiaramente enunciato quando aveva sostenuto che le grandi questioni si sarebbero risolte «non con discorsi né con deliberazioni della maggioranza – questo era stato l’errore del ’48-49 – bensì col ferro e col sangue».
2 Personaggi Bismarck, il cancelliere di ferro, p. 482
ź Bismarck forgia la spada dell’unità dell’Impero tedesco 1900 ca. [Deutsches Historisches Museum, Berlino] Otto von Bismarck, nella raffigurazione allegorica, è rappresentato nelle vesti di un fabbro, mentre forgia la spada dell’unità tedesca. In pochi anni, consente infatti alla Prussia di portare a termine il processo di unificazione.
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Le guerre di Bismarck e l’unità tedesca LA GUERRA CONTRO L’AUSTRIA La contesa tra Austria e Prussia relativamente all’amministrazione dei Ducati di Schleswig, Holstein e Lauenburg, sottratti dalle due potenze alla Danimarca nel 1864, costituì il pretesto di una guerra nel 1866. Garantitasi la neutralità della Russia e della Francia, e alleatasi con l’Italia, la Prussia sconfisse l’Austria nella grande battaglia campale di Sadowa in Boemia (3 luglio). A conferma della preponderante superiorità militare prussiana, la guerra era durata solo tre settimane. Giocarono a favore dei prussiani la perfetta organizzazione dell’esercito, guidato dal generale von Moltke, la miglior qualità degli armamenti (le truppe erano dotate per la prima volta di fucili a retrocarica, che consentivano una superiore rapidità di tiro), la tempestività degli spostamenti dovuta a un razionale sfruttamento delle ferrovie. Fu, quella del ’66, la prima delle numerose guerre di movimento che avrebbero reso celebre e temuta la macchina militare tedesca. Nella successiva pace di Praga l’Austria non subì mutilazioni territoriali, salvo quella del Veneto ceduto all’Italia [Ź18_4]. Ma dovette accettare lo scioglimento della vecchia Confederazione germanica, e dunque la fine di ogni sua influenza nell’Europa centro-settentrionale, dove a nord del fiume Meno si formò la nuova Confederazione della Germania del Nord a guida prussiana [Ź _35]. I nuovi equilibri spinsero l’Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi verso l’area danubiano-balcanica e a cercare una nuova soluzione per il problema delle nazionalità che convivevano al suo interno [Ź10_5]. Nel 1867 l’Impero fu diviso in due Stati, l’uno austriaco, l’altro ungherese (da ora in poi si parlerà infatti di Impero austro-ungarico), uniti fra loro nella persona del sovrano, ma ciascuno con un proprio Parlamento e un proprio governo, salvo che per i ministeri preposti agli affari di interesse comune (Esteri, Guerra e Finanze). Col “compromesso” del ’67, la dinastia asburgica si accordava col gruppo nazionale più forte e compatto, ma scontentava soprattutto gli slavi che avrebbero rappresentato da allora il pericolo più grave per l’unità dell’Impero [Ź16_4].
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LA GUERRA FRANCO-PRUSSIANA Il cammino verso l’unificazione tedesca procedeva secondo un programma di politica di potenza che la borghesia liberale era costretta ormai a subire e che era fuori dal controllo del Parlamento, nel quale le posizioni liberali erano state sconfitte dal rapporto diretto del cancelliere con il sovrano: sulle spese militari Bismarck decise infatti di scavalcare il Parlamento e di farle approvare per decreto reale. L’ultimo ostacolo sulla via dell’unità era rappresentato dalla Francia di Napoleone III, deciso a non consentire ulteriori ingrandimenti alla Prussia. L’occasione per il conflitto fu offerta da una questione dinastica. Nel 1868 il trono di Spagna era rimasto vacante e la corona era stata offerta a un parente del re di Prussia. La prospettiva di un principe tedesco sul trono di Spagna spaventava ovviamente la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento. L’opinione pubblica francese insorse compatta e la reazione del governo fu fermissima. Bismarck esasperò abilmente queste tendenze bellicose rilasciando, all’indomani di un incontro fra Guglielmo I e l’ambasciatore francese, un comunicato stampa formulato in modo volutamente provocatorio: vi si lasciava intendere che l’ambasciatore era stato messo alla porta dal re. Quel comunicato provocò in Francia, e soprattutto a Parigi, un’ondata di furore nazionalistico. Il governo francese e lo stesso imperatore, fino ad allora esitante, si lasciarono trascinare dalla spinta dell’opinione pubblica e, il 19 luglio 1870, dichiararono guerra alla Prussia.
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PERSONAGGI
Bismarck, il cancelliere di ferro «Un vero servitore tedesco dell’imperatore Guglielmo I»: così fu inciso sulla tomba di Otto von Bismarck. Ma lo statista fu molto di più. Era nato nel 1815 a Schönhausen, nell’antica marca di Brandeburgo. Il padre era uno Junker (un esponente della nobiltà terriera a est dell’Elba), mentre la madre era figlia di uno stimato amministratore prussiano. Bismarck ammirava il padre e rivendicò sempre le origini Junker, ma fu la madre, a cui era poco legato, ad avere maggiore influenza sulla sua formazione. Intelligente e raffinata, poco amante della vita di campagna, insistette perché il figlio ricevesse un’istruzione intellettuale piuttosto che militare. Fece spostare la famiglia a Berlino e introdusse il figlio a corte, dove strinse amicizia con i giovani principi Hohenzollern. Per suo volere Bismarck andò all’università di Göttingen, dove condusse una vita disordinata, tra bevute, avventure galanti e duelli. Alla morte della madre, scelse di condurre la vita dello Junker e si ritirò in Pomerania, dove amministrò con successo le proprietà familiari, ma si distinse soprattutto per le cavalcate notturne nei boschi e per i tentativi di sedurre le figlie dei contadini. A trent’anni non poteva dirsi soddisfatto della sua vita,
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ma un importante cambiamento era alle porte. Grazie all’influenza di alcuni amici si avvicinò alla religiosità pietista (più intima e più attiva nella società), trovando nella fede forza e serenità. Il matrimonio, di poco successivo, con Johanna von Puttkamer, una donna semplice, paziente e devota, gli regalò una felicità duratura. Ancora più significativa fu la svolta che avvenne nella sua carriera. Chiamato a sostituire uno dei delegati presso la Dieta regionale prussiana, si fece conoscere negli ambienti reazionari grazie alla ferma opposizione ad ogni proposta liberale e alla notevole abilità oratoria. Quando la rivoluzione del 1848 toccò la Prussia tentò di organizzare i conservatori in inconcludenti intrighi e prese il vezzo di firmarsi “von Bismarck”, per ribadire le sue origini nobiliari. L’anno successivo fu eletto alla Camera prussiana. Sarebbe uscito dalla politica quarant’anni dopo, e non di sua volontà. Nonostante la scarsa esperienza, fu scelto come delegato prussiano alla Dieta federale di Francoforte, dove non si comportò come un diplomatico tradizionale: non scriveva resoconti né seguiva le istruzioni del governo, ma agiva personalmente. Andava e veniva tra Francoforte e Berlino e conduceva una vita non priva di eccessi, soprattutto nel fumare, nel mangiare e nel bere. Quando Guglielmo divenne re di Prussia, ritenendo Bismarck
troppo reazionario, lo allontanò da Francoforte per nominarlo ambasciatore a San Pietroburgo. Tagliato fuori dal confronto
Ÿ A. Bockmann, Otto von Bismarck nel parco di Friedrichsruh con i suoi due mastini 14 giugno 1886 [Bismarck-Museum Friedrichsruh]
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STORIA IMMAGINE Anton von Werner, Acquartieramento delle truppe tedesche alle porte di Parigi 1894 [Nationalgalerie, Staatliche Museen, Berlino] Il pittore tedesco Anton von Werner completa questo dipinto nel 1894 sulla base di uno schizzo realizzato 24 anni prima: il 24 ottobre 1870, mentre l’artista accompagna il maggiore generale prussiano Helmuth von Moltke e le sue truppe nei territori occupati in Francia. La tela mostra alcuni militari in una delle sale del castello di Brunoy, alle porte di Parigi, requisito durante la guerra francoprussiana. Con estremo realismo, von Werner enfatizza il contrasto fra il raffinato mobilio della stanza e i militari con le facce rubiconde e gli stivali sporchi di fango. Eppure non sembra esserci rimprovero nei confronti delle truppe. Anzi, molti particolari ne suggeriscono le alte qualità morali e culturali: gli oggetti preziosi sono ancora al loro posto e nulla sembra essere stato portato via; diversamente dalle usanze degli eserciti, nessun mobile è stato distrutto per accendere il fuoco; i soldati si allietano suonando il piano e la donna con la bambina (probabilmente la governante della casa con sua figlia) non sembrano soffrire della compagnia imposta.
con il sovrano e i ministri, Bismarck soffrì di un senso di frustrazione, che diede origine ad un disturbo nervoso, destinato a ripresentarsi. In seguito ad una crisi istituzionale, proprio Guglielmo fu spinto a richiamare Bismarck a Berlino, nel 1862. Confidava che il suo decisionismo potesse risolvere il conflitto che lo opponeva al Parlamento, e lo nominò così primo ministro (ma divenne anche ministro degli Esteri). Pur non avendo molta esperienza alle spalle, Bismarck non mostrò cedimenti e inaugurò una peculiare prassi di governo, che portò avanti anche quando divenne cancelliere tedesco: convocava raramente il Consiglio dei ministri, conduceva la politica estera senza badare al parere degli ambasciatori, lasciava che di politica interna si occupassero i suoi ministri, ma non esitava ad intervenire. Era un uomo solitario, ma aveva una conversazione brillante, e con il suo fascino incantò lo zar Alessandro III come la regina Vittoria. Diceva di non essere un oratore, ma i suoi discorsi si possono considerare fra le più alte composizioni letterarie tedesche. «Di tutte le grandi figure pubbliche del passato, Bismarck è l’unico che varrebbe la pena risuscitare per avere con lui un’ora di conversazione», ha scritto lo storico britannico A.J.P. Taylor (Bismarck. L’uomo e lo statista, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 51). L’unificazione tedesca dimo-
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stra, ancora oggi, la sua notevole capacità strategica, dall’abilità diplomatica con cui preparò la guerra contro l’Austria alla prontezza con cui volse a suo favore i contrasti con la Francia, al modo in cui si destreggiò nelle trattative con i principi della Germania meridionale, fino a raggiungere l’obiettivo di fare del sovrano prussiano l’imperatore tedesco. Non amava le guerre, a cui pure ricorse, perché lo privavano del controllo sugli avvenimenti. Perseguiva la pace e la sicurezza, come dimostra anche il sistema di alleanze in politica estera, ma trovava stimolo solo nelle situazioni di tensione. A Berlino visse quasi da accampato, presso l’abitazione del Ministero degli Esteri prussiano, sottraendosi, nonostante il ruolo, alle esigenze di rappresentanza. Cancelliere imperiale per quasi vent’anni, Bismarck non si appoggiò mai a un unico partito di maggioranza: il suo successo fu legato all’ascendente che seppe esercitare su Guglielmo I, che in lui nutriva grande fiducia. Bismarck si schierava, a seconda degli eventi, ora con il sovrano ora con il Parlamento e usava abilmente l’uno contro l’altro, come usava i diversi partiti. Non era rilevante per lui essere considerato un liberale o un conservatore, ma avere uno Stato tedesco forte, l’unico obiettivo che perseguì costantemente. Aveva una capacità di risposta agli eventi rapida e istintiva, e un grande rea-
lismo, che gli permetteva di cambiare con opportunismo le strategie, pur di raggiungere lo scopo prefissato. Sapeva costruire le crisi politiche, come le campagne elettorali, per apparire l’unico uomo in grado di guidare il paese. Mentre l’imperatore invecchiava, Bismarck nominò il figlio Herbert segretario di Stato, sognando di fondare una dinastia di statisti. Lo attendevano, però, alcune sorprese. Spiazzato dalla morte di Guglielmo I, che annunciò fra le lacrime in Parlamento, pensò che nulla sarebbe cambiato con il giovane Guglielmo II. Il calcolo si rivelò errato. Quando, nelle elezioni del 1890, i tre partiti anti-bismarckiani (socialdemocratici, centristi e progressisti) conquistarono la maggioranza, Guglielmo II si rifiutò di sciogliere il Parlamento, come chiedeva Bismarck, e sfiduciò il cancelliere. Riluttante ad uscire di scena, Bismarck attaccò il nuovo governo e l’imperatore nei discorsi pubblici. Cominciò anche a stendere le sue memorie, più che un bilancio oggettivo, un ultimo strumento di battaglia politica. I suoi ottant’anni furono celebrati in tutto il paese, ma l’omaggio era ormai rivolto all’uomo dell’unificazione, considerato un eroe nazionale, non allo statista del presente. Per la sua morte, avvenuta nel 1898, Bismarck rifiutò i funerali di Stato, lui che dello Stato aveva fatto il fulcro della sua politica e della sua vita.
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LA FORMAZIONE DELL’IMPERO TEDESCO SVEZIA Copenaghen
MAR BALTICO
Fredericia
Königsberg
BARNHOLM
HELGOLAND (br.)
REGNO DI OLANDA
RÜGEN
NIA
RA
ME
HOLSTEIN Lubecca
PO
LAUENBURG Brema
REGNO DI PRUSSIA
MECLEMBURGOAmburgo SCHWERIN
PRUSSIA ORIENTALE
PRUSSIA OCCIDENTALE Ostroleka
Stettino
PROV. DEL RENO
Varsavia
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la Prussia nel 1865 Stati annessi alla Prussia nel 1866 Stati membri della Confederazione del Nord (1866-71) Alsazia e Lorena, all’Impero dal 1871 al 1919 confine della Confederazione del Nord nel 1866 confini dell’Impero tedesco nel 1871
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LO SPAZIO DELLA STORIA
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La Francia affrontò il conflitto in un clima di grande entusiasmo, ma con scarsa preparazione militare. L’esercito, che pure poteva contare su un armamento moderno ed efficiente, era nettamente inferiore a quello prussiano sia per il numero degli effettivi sia per l’organizzazione. Come nella guerra contro l’Austria del ’66, le truppe comandate dal generale von Moltke si mossero con grande rapidità: il 1° settembre, mentre metà dell’esercito francese veniva circondata a Metz in Lorena, l’altra metà venne accerchiata a Sedan, presso il confine col Belgio, e costretta ad arrendersi. Lo stesso imperatore fu preso prigioniero dai tedeschi. Pochi giorni dopo, nella capitale francese minacciata dai prussiani, abbattuto l’impero e proclamata la repubblica, si formava un governo provvisorio. Invano il ministro della Guerra Léon Gambetta, fuggito con un pallone aerostatico da Parigi assediata, tentò di rianimare la resistenza organizzando la leva in massa nelle province e mobilitando il popolo contro gli invasori (in questa occasione intervenne in difesa della nuova Francia repubblicana anche un corpo di volontari italiano comandato da Garibaldi). Dopo una serie di sconfitte il governo fu costretto a chiedere l’armistizio nel gennaio 1871.
Ÿ La dea Vittoria Particolare della Colonna della Vittoria, Berlino La colonna della Vittoria – alla cui sommità si erge la Dea Vittoria realizzata da Friedrich Drake per celebrare la vittoria militare della Prussia contro la Francia nel 1871 – è uno dei monumenti simbolo di Berlino.
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L’UNIFICAZIONE TEDESCA E IL DESIDERIO DI RIVINCITA FRANCESE Nel frattempo, il 9 dicembre 1870, era stato proclamato l’Impero tedesco – il secondo Reich (“impero”, in tedesco) dopo il Sacro romano impero di Carlo Magno – che nasceva dalla fusione della Prussia e degli Stati della Confederazione del Nord con gli Stati della Germania meridionale tra cui il Regno di Baviera. Il 18 gennaio 1871 nella Reggia di Versailles, luogo-simbolo della potenza dei re di Francia, Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco (Deutscher Kaiser). L’unità tedesca era compiuta: un’unità calata dall’alto, attuata in seguito a una guerra combattuta fuori dai confini nazionali contro il nemico tradizionale, soprattutto per l’iniziativa di uno statista abile e autoritario; mai ratificata, dunque, da un plebiscito o da una qualsiasi forma di consultazione popolare.
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Con la successiva pace di Francoforte non solo la Francia fu costretta a corrispondere una pesante indennità di guerra, ma dovette cedere al Reich l’Alsazia e la Lorena, due regioni di confine di notevole importanza economica e strategica. La disfatta di Sedan, l’invasione del paese, la caduta di Parigi e la perdita dell’Alsazia-Lorena rappresentarono per la Francia molto più che una sconfitta militare. Si trattò di una vera e propria umiliazione nazionale. Il desiderio di riparare a questa umiliazione – il cosiddetto “revanscismo”, dal francese revanche, “rivincita” – avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese determinando un’insanabile rivalità.
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Comune La parola “Comune” (in francese, sostantivo femminile) non aveva in origine altro significato che quello, usuale, di organo attraverso il quale i cittadini si autogovernano. Ma il termine, soprattutto in Francia, richiamava alla mente l’immagine della prima Comune, quella giacobina del 1793-94 che, sia pure per un solo anno, aveva goduto di un’enorme autorità su tutto il paese. Anche la Comune del 1871 assunse subito i tratti di un’esperienza rivoluzionaria, avviando il più radicale esperimento di democrazia diretta mai tentato in Europa.
La Comune di Parigi LO SCONTRO TRA LA CAPITALE E LA FRANCIA RURALE Dopo la battaglia di Sedan, che aveva sancito la vittoria prussiana, era stato il popolo della capitale francese a insorgere, a costituire una Guardia nazionale e a decretare la fine del regime napoleonico. Parigi aveva vissuto la caduta dell’Impero come una nuova occasione rivoluzionaria e al tempo stesso come l’inizio di una riscossa nazionale. Molto diverso era l’orientamento nelle campagne e nei centri minori, dove prevalevano le tendenze conservatrici. La frattura si delineò con chiarezza dopo le elezioni della nuova Assemblea nazionale, che si tennero nel febbraio 1871. Grazie al voto delle campagne, l’Assemblea, che tenne le sue prime riunioni a Bordeaux, risultò composta in stragrande maggioranza da moderati e conservatori. A presiedere il governo fu chiamato Adolphe Thiers, un esponente della Francia moderata, già ministro di Luigi Filippo d’Orléans [Ź10_6]. Appena entrato in carica, il nuovo governo si affrettò ad aprire trattative di pace. Ma, quando furono note le durissime condizioni imposte da Bismarck (che prevedevano fra l’altro l’ingresso delle truppe tedesche nella capitale), il popolo di Parigi protestò in massa e decise di difendere la città. Lo scontro fra la Parigi rivoluzionaria e la Francia rurale e conservatrice diventava inevitabile, né Thiers fece nulla per evitarlo. Quando, a metà marzo, il governo ordinò la consegna delle armi raccolte per la difesa della capitale, il comando della Guardia nazionale rifiutò di obbedire e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune*. L’ESPERIENZA RIVOLUZIONARIA DELLA COMUNE In queste elezioni, tenutesi in marzo, l’elettorato conservatore si astenne in gran parte dalle urne – anche perché i ricchi avevano abbandonato in massa la capitale – e il potere restò nelle mani dei gruppi di estrema sinistra, democratico-giacobini ma anche socialisti e anarchici. Per quanto divisi da seri contrasti, i dirigenti della Comune diedero vita nel giro di poche settimane a un esperimento radicale di democrazia diretta [Ź4_2]. Fu abolita la distinzione fra potere esecutivo e legislativo, tutti i funzionari furono resi elettivi e continuamente revocabili, l’esercito venne sostituito da milizie popolari armate. Queste misure provocarono l’allarme dei conservatori e dei moderati e suscitarono l’entusiasmo dei rivoluzionari di tutta Europa. Marx e Bakunin [Ź9_7 e 14_7] videro nella Comune il primo esempio di gestione diretta del potere da parte delle masse, quasi un modello per la futura società socialista. Racchiusa entro i confini di una sola città, isolata dal resto del paese, occupato per giunta da truppe straniere, la Comune non riuscì a coinvolgere anche i piccoli centri e le campagne. Gli appelli lanciati da Parigi agli altri
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STORIA IMMAGINE Ernest-Eugène Appert, Il massacro dei domenicani di Arcueil, a Parigi, il 25 maggio 1871 1871 [Metropolitan Museum of Art, New York] Poco dopo la fine dell’esperienza della Comune, il fotografo ritrattista parigino Ernest-Eugène Appert pubblicò una serie di nove fotografie, intitolata Crimini della Comune, con cui denunciava la brutalità criminale dei ribelli. Nonostante fossero basate su eventi realmente accaduti, le fotografie erano frutto di una elaborazione successiva. Appert, infatti, prima fotografò nel suo studio la messa in scena di quegli eventi da parte di alcuni attori da lui
ingaggiati, poi “costruì” fotografie il più possibile simili al vero con un abile lavoro di taglia e incolla: gli “episodi” così ricostruiti furono sovrapposti alle foto dei luoghi reali in cui erano accaduti e alle teste degli attori furono sostituite le foto dei principali protagonisti della Comune. Le fotografie furono successivamente censurate dal governo francese perché arrecavano «disturbo della quiete pubblica».
comuni di Francia perché si associassero alla capitale in una libera federazione caddero nel vuoto. E l’esperienza della Comune durò non più di due mesi: il tempo necessario a Thiers per raccogliere, con l’assenso degli occupanti tedeschi, un esercito abbastanza forte per muovere alla conquista della capitale. Fra il 21 e il 28 maggio le truppe governative procedettero all’assalto di Parigi, che fu difesa strada per strada dalle milizie popolari. La battaglia fu condotta da ambo le parti con estrema determinazione. Alle esecuzioni sommarie – circa 20 mila uomini furono passati per le armi senza processo durante la “settimana di sangue” – i difensori della Comune risposero con sanguinose rappresaglie, che contribuirono ad accentuare nell’opinione pubblica moderata i sentimenti di paura e odio per i rivoluzionari. Per la seconda volta in poco più di vent’anni, il movimento rivoluzionario francese si ritrovava alla fine sconfitto e decimato.
4 Personaggi Bismarck, il cancelliere di ferro, p. 482
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L’Impero tedesco e la politica di Bismarck IL TRIONFO DELLA POLITICA DI POTENZA All’inizio degli anni ’70, all’indomani della guerra franco-prussiana, una nuova concezione dei rapporti internazionali si andò diffondendo in tutta Europa. Il modo stesso in cui era stata preparata e realizzata l’unità tedesca aveva fatto tramontare, agli occhi di molti uomini politici e di molti intellettuali, alcuni fra i princìpi fondamentali della
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cultura liberal-democratica ottocentesca, come il diritto di nazionalità e la libertà dei popoli. Si affermava sempre più l’ideologia della forza, del fatto compiuto, della pura politica di potenza, fondata sullo sviluppo degli eserciti permanenti e degli armamenti di terra e di mare. A questo nuovo clima contribuì il mutamento della congiuntura economica, che, come abbiamo visto [Ź15_1], indusse quasi tutti gli Stati europei a ripudiare la politica del libero scambio e ad accentuare le misure protezionistiche. ISTITUZIONI POLITICHE E CLASSE DIRIGENTE DEL NUOVO REICH Con 40 milioni di abitanti, una vasta disponibilità di materie prime, un’economia in continua crescita, un esercito di provata efficienza e un sistema di istruzione altrettanto qualificato, il nuovo Stato tedesco si presentava come la maggiore potenza continentale europea. Dal punto di vista istituzionale, il Reich ereditava la struttura della vecchia Confederazione germanica: era infatti diviso in venticinque Stati – alcuni vastissimi, come la Prussia, altri piccoli o piccolissimi – con propri governi e Parlamenti (che avevano però funzioni prevalentemente amministrative) e in qualche caso un proprio esercito, come la Baviera. La grande politica era di competenza del governo centrale, presieduto da un cancelliere responsabile di fronte all’imperatore. Il potere legislativo era esercitato dal Parlamento, diviso in due Camere, una Camera elettiva, il Reichstag, eletta a suffragio universale, e un Consiglio federale, il Bundesrat, composto da rappresentanti dei singoli Stati. Come nella Prussia preunitaria, il Parlamento aveva limitate possibilità di condizionare il potere esecutivo, concentrato nelle mani dell’imperatore e del cancelliere. Come in Prussia, il blocco sociale dominante era costituito da una solida alleanza fra il mondo industriale e bancario e l’aristocrazia terriera e militare: un blocco che fu rinsaldato dalla politica protezionista adottata da Bismarck, a vantaggio soprattutto dell’industria pesante e della cerealicoltura. I PARTITI POLITICI
Una vivace dialettica politica caratterizzò la Germania con la nascita di nuovi e forti movimenti politici di massa. Alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici che avevano dominato la scena parlamentare in Prussia negli anni ’60 – il Partito conservatore, espressione degli Junker, il Partito nazional-liberale, che rappresentava la borghesia industriale e commerciale, e il piccolo raggruppamento degli intellettuali liberal-progressisti – si aggiunse, nel 1871, il partito cattolico del Centro. Nel 1875, dall’accordo fra la corrente marxista e quella che si ispirava a Lassalle, nacque il Partito socialdemocratico tedesco (Spd). Mentre la socialdemocrazia traeva la sua forza dalla massiccia adesione operaia delle regioni e città industriali, il Centro poggiava su una base sociale formata per lo più da agricoltori e ceti medi urbani presenti in Renania e in Baviera. BISMARCK CONTRO I CATTOLICI E I SOCIALDEMOCRATICI Nei primi anni ’70 Bismarck iniziò una politica duramente anticattolica – il Kulturkampf, la “battaglia per la civiltà” – emanando una serie di misure volte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato (obbligo del matrimonio civile, abolizione di ogni controllo religioso sull’insegnamento), ma anche a porre sotto sorveglianza l’attività del clero cattolico. La lotta scatenata da Bismarck ebbe però l’effetto di stimolare l’orgoglio e la compattezza dei cattolici tedeschi, che, sotto la guida di un leader di grandi capacità, Ludwig Windthorst, riuscirono nel giro di pochi anni a raddoppiare la loro rappresentanza parlamentare. Bismarck fu costretto, così, ad attenuare le misure anticattoliche e a varare una nuova legislazione ecclesiastica, molto più moderata della precedente.
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STORIA IMMAGINE
Bismarck reprime i socialisti [dalla rivista britannica «Punch», 1878] Le vignette satiriche, apparse in anni diversi sulla rivista britannica «Punch», prendono in giro due aspetti della politica bismarckiana. Sul fronte interno Bismarck chiude in una scatola il “pupazzo socialista”, mentre in politica estera opera come un burattinaio, muovendo i fili di tre pupazzi: (da destra) lo zar Alessandro I di Russia, l’imperatore Guglielmo I di Germania e Francesco Giuseppe d’Austria-Ungheria. Ÿ
I tre imperatori manovrati dal burattinaio Bismarck [dalla rivista britannica «Punch», 20 settembre 1884] Ź
L’abbandono del Kulturkampf fu imposto al cancelliere anche dalla necessità di fronteggiare la minaccia che veniva dall’ascesa della socialdemocrazia. Già nel 1878, traendo pretesto da due attentati falliti contro l’imperatore, il governo varò una serie di leggi eccezionali specificamente rivolte contro il movimento socialdemocratico. Le «leggi contro le tendenze sovvertitrici» ponevano gravi limitazioni alla libertà di stampa e di riunione e dichiaravano illegali tutte le associazioni «aventi lo scopo di provocare il rovesciamento dell’ordinamento statale o sociale esistente», costringendo così la socialdemocrazia a una condizione di semiclandestinità. LE LEGGI SOCIALI Nel tentativo di soffocare sul nascere lo sviluppo del movimento operaio, Bismarck non si limitò però alle misure repressive. Fra il 1883 e il 1889 il Parlamento approvò, su proposta del governo, alcune importanti leggi di tutela delle classi lavoratrici, che istituivano assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro, le malattie e la vecchiaia, facendone gravare il peso in parte sugli imprenditori, in parte sullo Stato, in parte sui lavoratori stessi. In un’epoca in cui le attività previdenziali e assistenziali erano affidate all’iniziativa dei privati o delle istituzioni religiose, la legislazione sociale varata da Bismarck era obiettivamente molto avanzata. Dando soddisfazione ad alcune delle esigenze più sentite dalla classe operaia e al tempo stesso rifiutando di riconoscere legittimità alla sua rappresentanza organizzata, Bismarck mirava a integrare le masse lavoratrici nello Stato in una posizione subalterna.
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I SUCCESSI DELLA SOCIALDEMOCRAZIA Questa operazione andò però incontro a un insuccesso politico analogo a quello subìto nella lotta contro i cattolici. Il varo della legislazione sociale non impedì la nascita, alla fine degli anni ’80, di un forte movimento sindacale guidato dai socialdemocratici. D’altra parte le leggi eccezionali, prorogate periodicamente fino al 1890, non riuscirono a bloccare la crescita elettorale della socialdemocrazia, che passò dai circa 500 mila voti del 1878 a quasi 1 milione e mezzo (il 18% dei suffragi, con 35 deputati al Reichstag) nel 1890. L’affermazione socialdemocratica sancì il fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio e contribuì a provocare, nel 1890, l’allontanamento dal governo dell’onnipotente cancelliere. LA POLITICA ESTERA E IL SISTEMA BISMARCKIANO Nel ventennio in cui rimase al potere Bismarck fu l’arbitro dell’equilibrio europeo. Dopo la vittoria sulla Francia, infatti, il cancelliere tedesco costruì un sistema di alleanze che aveva come scopo principale quello di impedire che la Francia potesse uscire dal suo isolamento politico-diplomatico. A questo fine si alleò con l’Austria-Ungheria, con la Russia e con l’Italia, contando sul fatto che la Gran Bretagna non si sarebbe mai avvicinata alla Francia, sia per la sua riluttanza a impegnarsi sul continente europeo, sia per la rivalità che opponeva le due potenze nell’espansione coloniale in Africa [Ź17_2]. Fulcro iniziale del sistema bismarckiano fu il patto dei tre imperatori, stipulato nel 1873 fra Germania, Austria-Ungheria e Russia: un patto difensivo che si fondava soprattutto sulla solidarietà fra le tre monarchie autoritarie e aveva per obiettivo palese la tutela degli equilibri conservatori all’interno dei singoli Stati. L’alleanza aveva però un punto debole: la vecchia rivalità fra Austria e Russia nella penisola balcanica, dove le popolazioni slave erano in perenne ribellione contro il dominio ottomano. Fra il 1875 e il 1876 il governo turco represse con grande spargimento di sangue una serie di rivolte scoppiate in Bosnia, in Erzegovina e in Bulgaria. Nella primavera del ’77 la Russia, grande protettrice dei popoli slavi, dichiarò guerra alla Turchia ottomana e la sconfisse, imponendole una pace quanto mai onerosa, che in pratica avrebbe sancito l’egemonia russa nei Balcani. Come era avvenuto nel 1854, in occasione della guerra di Crimea [Ź16_1], questa prospettiva allarmò le altre potenze europee. Austria-Ungheria e Gran Bretagna, in particolare, minacciarono di intervenire contro la Russia. DAL CONGRESSO DI BERLINO ALLA TRIPLICE ALLEANZA A questo punto fu Bismarck a prendere l’iniziativa, nel ruolo del mediatore. Un congresso delle potenze europee fu convocato a Berlino nell’estate del ’78, dove si giunse a un accordo che limitava notevolmente i vantaggi ottenuti dalla Russia, pur ridisegnando radicalmente gli equilibri della penisola balcanica. La Bulgaria ottenne l’indipendenza, ma entro confini assai più ristretti rispetto a quelli determinati dall’esito del conflitto russo-turco dell’anno precedente. La Bosnia e l’Erzegovina furono dichiarate autonome, ma affidate in “amministrazione temporanea” all’Austria. La Gran Bretagna ottenne l’isola di Cipro, in posizione strategica per il controllo del Canale di Suez che collega ancora oggi il Mediterraneo al Mar Rosso [Ź17_4]. La Francia ebbe mano libera per una eventuale espansione in Tunisia nel Nord Africa. In questo modo Bismarck non solo indirizzava verso obiettivi extraeuropei le velleità espansionistiche della Francia, ma creava le premesse per un contrasto con l’Italia. Scongiurato il pericolo di un conflitto, Bismarck cercò di ricucire l’alleanza con l’Austria e la Russia. Ci riuscì nel 1881, quando fu rinnovato il patto dei
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LEGGERE LE FONTI La firma della Triplice alleanza tra Germania, Austria e Italia, avvenuta a Vienna il 20 maggio 1882, rappresentò un elemento essenziale dell’equilibrio costruito da Bismarck. Come quasi tutti i trattati del periodo, l’alleanza aveva carattere difensivo (scattava cioè solo in
La Triplice alleanza da E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, Ipsi, Milano 1941, pp. 224-25 Loro Maestà
Caso che impone l’aiuto reciproco tra alleati.
caso di aggressione a uno dei contraenti da parte di terzi) e si proponeva il fine di tutelare l’equilibrio fra le potenze: in realtà serviva a isolare e indebolire la Francia, contro cui implicitamente era diretta.
Le LL. MM. l’Imperatore d’Austria, Re di Boemia, ecc., e Re Apostolico di Ungheria, l’Imperatore di Germania, Re di Prussia e il Re d’Italia, animati dal desiderio di accrescere le garanzie della pace generale, di rafforzare il principio monarchico e di assicurare con ciò stesso il mantenimento intatto dell’ordine sociale e politico nei loro rispettivi Stati, si sono accordati di concludere un trattato che, per la sua natura essenzialmente conservatrice e difensiva, non persegue che lo scopo di premunirli contro i pericoli che potrebbero minacciare la sicurezza dei loro Stati e la pace dell’Europa. Art. I Le alte parti contraenti si promettono reciprocamente pace ed amicizia, e non entreranno in nessuna alleanza od impegno diretto contro uno dei loro Stati. […] Art. II Nel caso che l’Italia, senza provocazione diretta da parte sua, fosse per qualsiasi motivo attaccata dalla Francia, le due altre parti contraenti saranno tenute a prestare alla parte attaccata aiuto e assistenza con tutte le loro forze. Questo stesso obbligo incomberà all’Italia nel caso di una aggressione non direttamente provocata dalla Francia contro la Germania. Art. III Se una o due delle alte parti contraenti, senza provocazione diretta da parte loro, venissero ad essere attaccate e a trovarsi impegnate in una guerra con due o più grandi potenze non firmatarie del presente trattato, il «casus foederis» si presenterà simultaneamente per tutte le alte parti contraenti. Art. IV Nel caso che una grande potenza non firmataria del presente trattato minacciasse la sicurezza degli Stati di una delle alte parti contraenti e la parte minacciata si vedesse perciò obbligata a farle la guerra, le due altre si obbligano ad osservare verso il loro alleato una benevola neutralità. Ciascuna di esse in questo caso si riserva la facoltà di prendere parte alla guerra, se lo giudicherà opportuno, per fare causa comune con il suo alleato.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Individua e descrivi i princìpi e le finalità del trattato istitutivo della Triplice alleanza.
b Quali conseguenze sono previste in caso di aggressione non provocata della Francia contro l’Italia e della Francia contro la Germania?
Titolo storicamente assegnato dal papa ai sovrani d’Ungheria in segno di riconoscenza per la loro attività di conversione della tribù dei magiari.
c Quali obblighi e possibili scelte prevede il trattato nel caso in cui uno Stato terzo minacci la sicurezza di una della potenze della Triplice?
tre imperatori. Un anno dopo l’edificio fu completato con la stipulazione della Triplice alleanza, che inseriva nel sistema bismarckiano anche l’Italia come alleata della Germania e dell’Austria.
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La Repubblica in Francia Dopo i traumi della sconfitta e la “settimana di sangue” con cui si chiuse l’esperienza della Comune, la Francia non tardò a manifestare segni di ripresa. Nel luglio del ’72, quasi a dimostrare la volontà di rivincita del paese, l’Assemblea nazionale decise l’introduzione del servizio militare obbligatorio. Nel settembre ’73 fu ultimato il pagamento dell’indennità di guerra dovuta ai tedeschi. Alla fine degli anni ’70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale, disponeva di un forte esercito e cominciava a incamminarsi con decisione sulla strada delle conquiste coloniali.
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Ÿ André Gill, À la foire aux pains d’épices. Un amateur distingué (Alla fiera del pan di zenzero. Un dilettante distinto) 1879 [dalla rivista francese «La Petite Lune», n. 42; Bibliothèque Nationale, Parigi] La caricatura mostra il presidente del Consiglio francese Jules Ferry mentre addenta un prete di pan di zenzero. L’allusione è alle leggi approvate dal suo governo che di fatto estromettono la Chiesa dal sistema scolastico del paese.
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LA TERZA REPUBBLICA E LA NUOVA COSTITUZIONE Più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica. La stessa forma di governo repubblicana fu a lungo in forse, dato che i membri dell’Assemblea nazionale, incaricata di redigere la nuova Costituzione, erano in maggioranza favorevoli alla restaurazione della monarchia. Solo le fratture interne allo schieramento monarchico – diviso fra i legittimisti, fautori di un ritorno dei Borbone, e gli orleanisti, che volevano sul trono gli eredi di Luigi Filippo – e un accordo raggiunto in extremis fra orleanisti e repubblicani moderati consentirono il varo di una Costituzione repubblicana. La Costituzione della Terza Repubblica del 1875 prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da una Camera eletta a suffragio universale maschile e da un Senato composto da membri in parte vitalizi e in parte elettivi. Un elemento di stabilità era costituito dalla figura del presidente della Repubblica, capo dell’esecutivo, che veniva eletto dalle Camere riunite e godeva in teoria di poteri molto ampi. La Carta costituzionale, così concepita, rappresentava un compromesso fra una soluzione di tipo presidenziale, all’americana [Ź7_4], preferita dai moderati, e una di stampo parlamentare, sostenuta dai democratici: la prima avrebbe conferito amplissimi poteri al presidente della Repubblica, la seconda maggiori poteri al Parlamento. La Costituzione del 1875 rappresentò un indubbio successo per i repubblicani francesi che, nelle elezioni del 1876, riuscirono a capovolgere la tendenza conservatrice fino ad allora prevalente nell’elettorato e ad assicurarsi una solida maggioranza. OPPORTUNISTI E RADICALI A dominare la scena politica furono i repubblicani dell’ala moderata, i cosiddetti “opportunisti”, la cui forza stava essenzialmente in un solido legame con l’elettorato “medio”, quello dei commercianti, degli impiegati e soprattutto dei piccoli agricoltori. Di questo elettorato essi seppero interpretare la generica aspirazione al progresso, ma anche le tendenze conservatrici in materia di rapporti sociali. Di qui le critiche dei repubblicani più avanzati – o radicali, come allora si definirono in contrapposizione agli opportunisti – che costituirono un forte raggruppamento autonomo capeggiato da Georges Clemenceau. L’OPERATO DEI GOVERNI REPUBBLICANI Fu comunque sotto la guida dei governi repubblicano-moderati che la Francia poté consolidare le sue istituzioni democratiche e superare gradualmente le fratture provocate dalla Comune del ’71. Nel 1880 fu approvata un’amnistia per i comunardi incarcerati o deportati, che permise al movimento operaio francese di ricostituire lentamente le sue file. Nel 1884 il Senato divenne completamente elettivo. Sempre nel 1884, furono approvate tre leggi di notevole importanza: quella che garantiva la libertà di associazione sindacale, quella che ampliava le autonomie locali, stabilendo fra l’altro l’elettività dei sindaci, e quella che introduceva il divorzio. L’azione dei governi repubblicani fu incisiva soprattutto nell’affermazione della laicità dello Stato, in particolare nel settore della scuola, tradizionale terreno di scontro fra cattolici e laici, fra democratici e conservatori. Con una serie di leggi approvate fra l’80 e l’85, l’istruzione elementare fu resa obbligatoria e gratuita e posta sotto il controllo statale, mentre le università e gli istituti superiori gestiti dal clero furono privati del diritto di rilasciare titoli legali di studio. CORRUZIONE POLITICA E SPECULAZIONE FINANZIARIA L’indebolimento dei poteri del presidente della Repubblica a favore dell’instaurarsi di una prassi di governo sempre più centrata sull’attività del Parlamento ebbe come conseguenza negativa un’altissima instabilità degli esecutivi, aggravata dalla mancanza di schieramenti politici compatti. Un altro male storico della Terza Repubblica fu la corruzione diffusa nelle alte sfere del potere. Una corruzione
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che – come già nella monarchia di Luigi Filippo e nel Secondo Impero – affondava le sue radici nello stretto legame fra il mondo politico e gli ambienti della speculazione finanziaria, e che trovava nuovo alimento nelle rapide possibilità di guadagno offerte dall’espansione coloniale [Ź17_2 e 4]. Il susseguirsi di scandali politico-finanziari mise spesso a dura prova la solidità delle istituzioni e seminò disagio e sfiducia in larghi settori dell’opinione pubblica. Un segno eloquente di questo disagio si ebbe alla fine degli anni ’80, quando un generale in fama di repubblicano, Georges Boulanger, si mise a capo di un vasto ed eterogeneo movimento che invocava una riforma delle istituzioni in senso autoritario e antiparlamentare. L’avventura neobonapartista di Boulanger ebbe breve durata: nel 1889, accusato di aver preso parte a un complotto contro la Repubblica, il generale fuggì all’estero dove si uccise poco dopo. L’episodio rivelava, tuttavia, che le tentazioni autoritarie erano sempre vive nella società francese e toccavano anche settori politici diversi dalla destra tradizionale.
6 Personaggi La regina Vittoria, simbolo di un’epoca, p. 494 Storia e educazione civica Il sistema parlamentare, p. 506
Il liberalismo in Gran Bretagna LA GRAN BRETAGNA A METÀ ’800 La Gran Bretagna rimaneva, alla metà dell’800, la più progredita fra le grandi potenze europee. Produceva i due terzi del carbone e la metà del ferro di tutto il mondo. Aveva la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e una flotta mercantile pari alla metà di quella di tutti gli altri paesi europei messi insieme. Era il centro commerciale e finanziario cui facevano capo i traffici di tutti i continenti. Possedeva un impero coloniale già vasto e, come vedremo, in via di ulteriore espansione. Aveva un tasso di analfabetismo fra i più bassi del mondo. Aveva infine le istituzioni politiche più libere d’Europa. Il ventennio ’46-66, caratterizzato dalla presenza quasi ininterrotta dei liberali al governo, segnò un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare, cioè di quel sistema, nato proprio in Gran Bretagna, che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest’ultimo l’arbitro indiscusso della vita politica. Alla Corona era invece affidato un ruolo essenzialmente simbolico di personificazione dell’identità nazionale, ruolo che si manifestò pienamente nel corso del lunghissimo regno della regina Vittoria (dal
LA FRANCIA E LA GRAN BRETAGNA DELLA SECONDA METÀ DELL’800 A CONFRONTO FRANCIA
GRAN BRETAGNA
Forma di governo
Terza Repubblica
Monarchia parlamentare
Composizione del Parlamento
Camera eletta a suffragio universale maschile e Senato composto da elementi in parte vitalizi, in parte elettivi
Camera dei Comuni eletta a suffragio ristretto e Camera dei Lord vitalizia a nomina regia
Ruolo del capo di Stato
Il presidente della Repubblica era a capo del potere esecutivo
La Corona svolgeva un ruolo simbolico di personificazione dell’identità nazionale
Forze che dominano il Parlamento
Repubblicani dell’ala moderata, detti “opportunisti” (guidati da Gambetta e poi da Ferry), e repubblicani radicali (guidati da Clemenceau)
Si alternano al governo liberali, capeggiati da Gladstone, e conservatori, guidati da Disraeli
Riforme
Libertà di associazione sindacale, ampliamento delle autonomie locali, elettività dei sindaci, divorzio, istruzione elementare statale obbligatoria e gratuita
Sotto il governo dei conservatori: Reform Act (1867), che amplia il diritto di voto ai lavoratori dell’industria, e riforme sociali (salute pubblica, edilizia popolare) Sotto il governo dei liberali: ulteriore allargamento del suffragio ai lavoratori agricoli
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1837 al 1901). Il sistema parlamentare non era però sinonimo di democrazia. In Gran Bretagna molti poteri spettavano ancora alla Camera alta, ossia alla Camera dei Lord, alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia. La stessa Camera elettiva, la Camera dei Comuni, era espressione di uno strato piuttosto ristretto della popolazione: in base alla legge elettorale del 1832, avevano diritto al voto negli anni ’60 circa 1.300.000 persone, ossia il 15% del totale dei maschi adulti. Inoltre la pratica del voto palese, che sarebbe stata abolita solo nel 1872, rappresentava, soprattutto nelle zone rurali, un potente mezzo di condizionamento a vantaggio dell’aristocrazia terriera. RIFORMA ELETTORALE E ALTERNANZA AL GOVERNO DI LIBERALI E CONSERVATORI
Nel 1865 il leader dei liberali William Gladstone, facendosi interprete della parte più dinamica della società britannica – la borghesia industriale alleata con le frange più qualificate della classe operaia –, presentò un progetto di legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto. La proposta provocò però, nel 1866, la caduta del governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori. Ma furono proprio i conservatori, sotto la spinta di un nuovo e dinamico leader, Benjamin Disraeli (un ebreo di origine veneziana convertito adolescente all’anglicanesimo), ad assumere l’iniziativa di una riforma elettorale più avanzata di quella proposta da Gladstone. La nuova legge, o Reform Act, varata nel 1867, aumentava di quasi un milione la consistenza del corpo elettorale, ammettendo al voto i lavoratori urbani a reddito più elevato. Spingendo i conservatori a farsi promotori della riforma, Disraeli mostrava di riconoscere il peso che i lavoratori dell’industria avevano assunto nella società britannica e cercava di allargare in quella direzione la base di consenso del suo partito. Fino alla fine degli anni ’70 Gladstone e Disraeli si alternarono al governo, distinguendosi soprattutto per lo stile politico e per la diversa impostazione
STORIA IMMAGINE John Tenniel, A Leap in the Dark [dalla rivista britannica «Punch», 3 agosto 1867] In questa vignetta Britannia, personificazione della Gran Bretagna, monta un cavallo con la faccia di Disraeli e si copre gli occhi mentre sta per saltare nel “folto buio della Riforma”. Dietro di lei, John Bright (deputato liberale), Gladstone e Lord Derby (deputato conservatore favorevole alla riforma elettorale) tirano le redini dei loro cavalli per evitare l’“azzardo”. Lo stesso Disraeli, sulla stampa, definì il Reform Act come un «leap in the dark», ossia un “salto nel buio”.
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della politica estera: più legato Gladstone agli ideali del liberalismo, più proiettato sugli obiettivi imperiali della politica britannica Disraeli [Ź17_1], che cercò di assicurarsi un solido consenso popolare, promuovendo importanti riforme sociali in tema di salute pubblica e di edilizia popolare. A partire dal 1880 i liberali tornarono a dominare la scena politica promuovendo, nel 1884, una nuova riforma elettorale che allargava ulteriormente il diritto di voto estendendolo alla maggioranza dei lavoratori agricoli. IL PROBLEMA IRLANDESE In questa fase, però, il governo liberale fu costretto a dedicare buona parte delle sue energie alla “questione irlandese”. Negli irlandesi convivevano infatti fedeltà al cattolicesimo (e alla Chiesa di Roma) e tendenze indipendentiste di marca nazionalista, entrambi fattori che mettevano in discussione l’appartenenza al Regno Unito. Alla fine degli anni ’70, inoltre, l’Irlanda aveva visto aggravare le sue già disagiate condizioni economiche a causa della grave crisi che aveva colpito l’agricoltura europea [Ź15_1]. Alla pressione del movimento indipendentista – che si esprimeva sia con le lotte parlamentari sia con gli atti terroristici – Gladstone rispose presentando in Parlamento un progetto che prevedeva la concessione di ampie autonomie all’isola seppure nella cornice istituzionale del Regno Unito. Questo progetto (Home Rule) provocò una forte opposizione nello stesso partito liberale e la secessione degli esponenti unionisti, cioè contrari alla autonomia dell’Irlanda, guidati da Joseph Chamberlain, leader della corrente di sinistra, che vantava forti legami con l’elettorato operaio. L’apporto
P
PERSONAGGI
La regina Vittoria, simbolo di un’epoca Vittoria (1819-1901), che regnò per sessantaquattro anni, dal 1837, quando successe allo zio Guglielmo IV, in realtà non era destinata alla successione, ma la morte di due cugine le assicurò il trono del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Nel suo debutto di fronte al Consiglio reale, politici esperti e vecchi cortigiani ne poterono ammirare la dignità, il senso di autorità e l’autocontrollo, rimanendo sorpresi dal modo in cui, appena diciottenne, seppe entrare nel nuovo ruolo di sovrana, con sicurezza e spontaneità. Doti innate, visto che Vittoria aveva una formazione politica molto carente e poca esperienza. L’infanzia, infelice e solitaria, fu segnata dalla precoce perdita del padre e dal difficile rapporto con la madre, autoritaria e poco affettuosa. Fu lo zio Leopoldo I, re del Belgio, a rappresentare un padre per lei, dal punto di vista affettivo e intellettuale, guidandone anche la formazione. Vittoria strinse un importante rapporto di confidenza anche con il primo ministro Lord Melbourne, consigliere e guida all’inizio del suo regno. Regina da tre anni, Vittoria sposò il principe Alberto di Sassonia-Coburgo, dal quale fu subito affascinata. Il matrimonio si rivelò molto felice, nonostante Alberto
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fosse poco incline ai divertimenti mondani, che tanto piacevano a Vittoria, più frivola, e nonostante l’iniziale reticenza della regina ad includerlo negli affari pubblici. Progressivamente, tuttavia, gli assegnò un ruolo politico crescente, fino a farne il suo primo consigliere. Alberto fu anche un padre affettuoso per i nove figli della coppia. Se la regina non dimostrò uno slancio materno istintivo, attenta soprattutto a correggere e controllare i figli, il principe era più benevolo e comprensivo. Anche in questo i due si completavano. E sempre anche grazie a lui la regina raggiunse una posizione di equilibrio istituzionale, imparando a rispettare la dialettica parlamentare e il primato del governo. Fece sua la teoria che limitava i diritti del sovrano britannico essenzialmente a tre: «essere informati, incoraggiare, mettere in guardia» e sostenne sempre, da dietro le quinte, la politica che riteneva più avveduta. Il 1861 – quando a soli quarantadue anni il principe Alberto morì, a causa di una febbre tifoidea – segnò uno spartiacque nel lungo regno di Vittoria. «Il mio regno è finito», proclamò la regina, mentre il primo ministro Disraeli riconobbe che il principe tedesco aveva governato con un’energia e una saggezza maggiori di quelle dei sovrani britannici. Dopo la morte di Alberto la regina Vittoria rinun-
ciò per anni alle apparizioni pubbliche e a tutti gli aspetti rappresentativi del suo ruolo. Si chiuse nel dolore, instaurando il lutto a Palazzo, ma non abbandonò mai il suo lavoro, che svolgeva con dedizione. Una forte avversione per Londra la spinse a soggiornarvi il meno possibile, preferendo la Scozia, l’isola di Wight, Windsor. Non rinunciò mai a viaggiare, in Italia, Spagna o Francia. Nonostante lo facesse in incognito era riconosciuta ovunque: il suo profilo inconfondibile compariva su francobolli e confezioni di tè, era ormai la «madre d’Europa». Proprio attraverso i contatti personali (spesso di parentela), cercò di influenzare la politica estera britannica, tessendo trattative matrimoniali, che si estenderanno come una ragnatela in tutta Europa. Il caso più evidente fu il matrimonio della figlia Vittoria con Federico Guglielmo di Prussia, da cui nascerà Guglielmo II, imperatore di Germania. Con Napoleone III strinse invece un forte rapporto d’amicizia, tanto da accoglierlo in Gran Bretagna dopo la sconfitta di Sedan. Altalenanti furono i suoi rapporti con i primi ministri: nutriva una profonda diffidenza per il liberale Gladstone, mentre fu legata da un’intima amicizia con il conservatore Disraeli. Proprio lui volle la sua incoronazione come imperatrice delle Indie nel 1876, suggellando così i suc-
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degli unionisti consentì ai conservatori di affermarsi nelle elezioni del 1886 e di mantenere a lungo il potere rinnovando il tentativo, che era stato già di Disraeli, di coniugare la politica imperialistica con una certa dose di riformismo sociale.
La Russia tra arretratezza 7 e modernizzazione
autocrazia Forma di governo in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo, che governa senza alcun limite costituzionale e vincolo legislativo e senza il controllo del Parlamento.
Nella seconda metà dell’800, la Russia conservava, fra le grandi potenze europee, il primato dell’arretratezza politica e civile. Era ancora uno Stato autocratico*, il cui controllo supremo era riposto nelle mani dello zar. Inoltre, all’inizio degli anni ’50 più del 90% della popolazione era occupato nell’agricoltura e oltre 20 milioni di contadini (su un totale di circa 60 milioni di abitanti) erano soggetti alla servitù della gleba: erano cioè legati alla terra che coltivavano – dunque comprati e venduti assieme a essa – e subordinati personalmente ai proprietari. Un’aristocrazia terriera assenteista, propensa a consumare le proprie rendite in spese di prestigio più che a investirle in impieghi produttivi, dominava ancora incontrastata come nell’Europa dell’ancien régime. All’immobilismo delle strutture politiche e sociali faceva singolare riscontro l’eccezionale livello della vita intellettuale. L’800 fu il secolo d’oro della letteratura russa: grandi scrittori come Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij, ýechov ci offrono un
cessi dell’imperialismo britannico. L’India affascinò molto la regina, che si fece insegnare la lingua hindi-urdu dal suo ultimo favorito, Abdul Karim detto Munshi, suo ex cameriere.
Ÿ Bertha Müller da Heinrich von Angeli, La regina Vittoria 1899 ca. [National Portrait Gallery, Londra]
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Invecchiando Vittoria cominciò a cedere le redini del potere al primogenito Edoardo, prediligendo alla fatica dell’attività pubblica il calore domestico, assicuratole dai numerosi nipoti. Più invecchiava più la regina era popolare (anche se subì tre attentati, in cui rimase sempre illesa). I giubilei d’oro e di diamante, per i cinquanta e i sessant’anni dalla sua ascesa al trono, furono salutati da imponenti manifestazioni popolari, che festeggiarono il regno più lungo e pacifico della storia britannica. Erano ormai riconosciute unanimemente l’esperienza e la capacità della regina, che legava il suo regno ad un’epoca di espansione e progresso. Con il suo carattere e la sua personalità aveva rafforzato l’istituto monarchico, che pure all’inizio del secolo non era stato immune dalle minacce del repubblicanesimo. Conducendo una vita austera, sia nel matrimonio sia nella vedovanza, divenne un modello di rispettabilità e ristabilì l’onore, spesso compromesso, della dinastia. Soprattutto la classe media stabilì un rapporto d’affetto con questa regina, bruttina, grassoccia, sgraziata e inelegante (neanche per il giubileo sostituì la sua solita cuffia con la corona). Anche la sua sfortuna (vide morire il marito, tre figli e un nipote, oltre ai suoi più cari confidenti) contribuì alla sua popolarità, soprattutto fra le donne, di cui, però, ignorò e ostacolò le aspirazioni al suffra-
gio. Era, in fondo, conservatrice, come dimostrarono le sue scelte nel quotidiano (l’avversione per la luce elettrica o per il telefono) e la scarsa consapevolezza che ebbe delle conseguenze sociali della rivoluzione industriale e della condizione delle classi più povere. Fu così che divenne – come nella storia è capitato a pochi altri sovrani – simbolo di un’epoca: l’aggettivo “vittoriano” non indica solo la storia della Gran Bretagna negli anni del suo regno (si parla di “età vittoriana”) ma è stato esteso alla cultura e alla morale del tempo, finendo per indicare da un lato un periodo fiorente sotto il punto di vista artistico, dall’altro un modello di comportamento, proprio soprattutto delle classi superiori, ispirato all’etica cristiana e conforme ai valori borghesi, segnato da un rigido codice sociale, da un atteggiamento perbenistico (e talora ipocrita) e da una spiccata attenzione per la sfera privata. In un’età ricca di trasformazioni e contraddizioni, fra il consolidarsi del sistema parlamentare, il rafforzarsi dell’espansionismo britannico e l’affermarsi della rivoluzione industriale, la regina Vittoria incarnò un simbolo di tradizione, stabilità e autorità, moltiplicando il prestigio della Corona britannica. Alla sua morte, nel 1901, le successe il primogenito Edoardo VII, bisnonno della regina Elisabetta II. Un’epoca era finita, non la monarchia britannica.
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quadro vivissimo di una società diversa in ogni suo aspetto da quella dell’Europa occidentale e ci restituiscono gli echi di un dibattito ideologico quanto mai vivace. LO ZAR ALESSANDRO II Nel 1855 salì sul trono imperiale Alessandro II. Il nuovo zar iniziò il suo regno concedendo un’amnistia ai detenuti politici e varando una serie di riforme che avevano lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola, nel sistema giudiziario e nell’esercito. Ma la riforma di gran lunga più importante cui Alessandro II legò il suo nome fu l’abolizione della servitù della gleba. Grazie a una serie di decreti imperiali emanati nel febbraio 1861, i servi acquistarono la libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente, ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano e di trasformarsi così in piccoli proprietari. L’assegnazione delle terre agli ex servi, tuttavia, avvenne con criteri non uniformi, e comunque tali da salvaguardare le grandi proprietà. Agli entusiasmi che avevano accompagnato l’inizio della riforma subentrò ben presto nelle campagne un clima di delusione e di malcontento, rivolto soprattutto contro i signori accusati (a torto) di aver deliberatamente travisato e tradito l’autentica volontà dello zar. Vi furono proteste e vere e proprie ribellioni, represse con l’intervento dell’esercito. I POPULISTI Con le travagliate vicende legate all’emancipazione dei servi si chiuse la breve stagione liberalizzante del regno di Alessandro II. Dopo il 1861 si assisté, infatti, a un appesantimento del clima politico e a un nuovo inasprimento dei controlli polizieschi, che accentuarono la frattura fra il potere statale e la borghesia colta. Fra le giovani generazioni andò diffondendosi un atteggiamento di rifiuto totale dell’ordine costituito, unito a uno sforzo sincero di avvicinarsi ai problemi delle classi subalterne. Fu questo il senso della parola d’ordine «andare al popolo» che ebbe ampia eco fra i giovani negli anni ’60 e ’70: da questo slogan derivò il nome di populisti (narodniki, da narod, “popolo”) col quale vennero designati gli intellettuali rivoluzionari che in questo periodo tentarono, senza troppa fortuna, di compiere opera di educazione culturale e di proselitismo politico fra le masse. Base fondamentale del loro programma era l’utopia di un socialismo agrario che facesse leva sul proletariato delle campagne e si inserisse nella tradizione comunitaria della società rurale russa. L’incomprensione delle masse contadine e la durezza della repressione poliziesca finirono però con l’isolare sempre più i narodniki e con lo spingerli verso la pratica cospiratoria. Quando, nel 1881, Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico, le speranze che avevano accompagnato i suoi primi anni di regno non erano ormai che un lontano ricordo.
Documento Frederick Douglass, La vita degli schiavi neri nel Sud Storiografia B. Levine, La democrazia multirazziale e i suoi problemi
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Gli Stati Uniti e il problema della schiavitù NORD, SUD, OVEST Nei primi decenni del XIX secolo, gli Stati Uniti si erano affermati come una potenza egemone nel continente americano: le fratture interne tra le diverse zone del paese rimanevano, però, consistenti. Negli Stati del Nord-Est, nucleo originario dell’Unione, si andava affermando una società in continua trasformazione, profondamente influenzata dai valori del capitalismo imprenditoriale, dominata dai gruppi industriali, commerciali e bancari, oltre che dalla presenza di un numeroso proletariato urbano. Negli Stati del Sud, invece, resisteva una società agricola profondamente tradizionalista, in cui la principale attività economica era quella delle grandi piantagioni di cotone, di tabacco e di canna da zucchero che occupavano circa 4 milioni di schiavi
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LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 10
La vita di uno schiavo americano [litografie pubblicate da W.A. Stephens, Philadelphia 1863; Library of Congress, Washington] Questa serie di piccole litografie (composta in tutto da 12 pezzi) racconta la vita di un nero negli anni che videro gli Stati Uniti teatro della guerra civile e molti neri passare dalla condizione di schiavi a quella di uomini liberi. La prima immagine rappresenta il protagonista nei campi di cotone: nessun indizio lo dice, ma tutti capiscono che non è un bracciante libero, è uno schiavo. Le figure successive, infatti, lo vedono portato via in catene, costretto ad abbandonare il
figlioletto e la moglie, che implora il nuovo padrone di comprarli insieme. Nelle mani del nuovo padrone, l’uomo viene maltrattato (le punizioni con la frusta erano molto frequenti) tanto da decidere di ribellarsi, uccidere il suo sovrintendente e fuggire attraverso le paludi per andare ad arruolarsi nell’esercito dell’Unione. Il giovane ha conquistato la libertà, ma trova la morte combattendo per i nordisti: la sua ricompensa sta nell’aver donato la sua vita per la gloria della nazione.
GUIDA ALLA LETTURA a Descrivi il protagonista di queste vignette e le sue vicende. b Osserva con attenzione le espressioni dei protagonisti e le loro azioni. Descrivi quindi il carattere che l’autore attribuisce al protagonista principale.
c Spiega qual è, secondo te, il messaggio di queste immagini e argomenta la tua posizione facendo riferimento a quanto hai potuto osservare.
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neri. A dominare la vita politica e sociale del Sud, erano alcune centinaia di grandi famiglie di proprietari terrieri, che rivestivano una funzione sociale simile a quella che, in Europa, era appartenuta alla nobiltà. Essi giustificavano la schiavitù affermando che le condizioni di vita degli operai industriali fossero più dure e precarie di quelle degli schiavi, ai quali erano garantiti vitto, alloggio e istruzione religiosa. Gli Stati dell’Ovest, abitati da liberi coltivatori e allevatori di bestiame, costituivano invece una società in rapida evoluzione, legata all’etica della frontiera: l’iniziativa individuale, l’indipendenza, l’uguaglianza delle opportunità e l’idea di una missione di colonizzazione dei territori selvaggi ne erano gli elementi principali e, nel corso del tempo, erano diventati i valori caratterizzanti della società statunitense.
Ÿ Abraham Lincoln con il generale McClemand e Allan Pinkerton sul campo di battaglia di Antietam, Maryland Fotografia di Alexander Gardner, 1862 Nel 1866 Alexander Gardner pubblicò il Gardner’s Photographic Sketch Book of the War, la prima raccolta di fotografie della guerra civile realizzate, oltre che da lui stesso, da altri undici fotografi.
LO SCONTRO SULLA SCHIAVITÙ Le differenze culturali ed economiche tra queste zone, e soprattutto quelle tra gli Stati del Nord e gli Stati del Sud, erano molto forti. Nel Nord, dove la schiavitù era stata vietata tra la fine del ’700 e i primi anni dell’800, era da tempo attivo un movimento abolizionista: esso rifiutava la schiavitù anche in nome della necessità del capitalismo moderno di disporre di una manodopera mobile per un mercato interno in espansione. Negli anni ’40 e ’50, in seguito alla diminuzione dell’importanza dell’industria cotoniera nel Sud e all’allargamento dello sviluppo industriale a nuovi settori, soprattutto quello meccanico, nel Nord, gli Stati occidentali e quelli settentrionali strinsero i loro legami: i primi fornivano ai secondi prodotti alimentari e cereali e costituivano, nel contempo, un mercato di sbocco per le macchine agricole prodotte dall’industria del Nord. In questo contesto, non c’era più spazio per soddisfare le aspirazioni degli Stati del Sud, che avrebbero voluto destinare le terre vergini del West non alla coltivazione dei cereali, ma a un’estensione dell’economia di piantagione basata sulla schiavitù. IL PARTITO REPUBBLICANO E LINCOLN Contemporaneamente, i tradizionali schieramenti politici stavano attraversando una fase di crisi. Mentre i democratici si identificavano sempre più con i grandi proprietari terrieri del Sud, lo schieramento liberale subì una scissione e dalla sua ala più progressista, nel 1854, nacque una nuova formazione politica, il Partito repubblicano. Decisamente antischiavista, esso si rivolse alla borghesia industriale del Nord e ai coloni dell’Ovest, che ne diventarono la base elettorale. Nel 1860 fu eletto presidente degli Stati Uniti il candidato repubblicano, Abraham Lincoln, un avvocato proveniente dall’Illinois: egli non sosteneva l’abolizione totale della schiavitù, ma pensava che essa non andasse consentita negli Stati di nuova acquisizione. La sua vittoria elettorale, però, fu interpretata come l’inizio di un processo che avrebbe portato all’affermazione degli interessi industriali e alla progressiva perdita di importanza degli Stati schiavisti.
Storiografia R. Mitchell, Le donne bianche nella guerra civile americana Fare storia Guerra di secessione e guerre coloniali, p. 580 Eventi chiave La battaglia di Gettysburg e la sconfitta sudista, p. 500
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La guerra di secessione e gli Stati Uniti 9 potenza mondiale DALLA SECESSIONE AL CONFLITTO Tra la fine del 1860 e l’inizio del 1861, i timori nei confronti della politica di Lincoln spinsero dieci Stati meridionali a costituirsi in Confederazione e a staccarsi dall’Unione. Il governo centrale si oppose a questa secessione* e nell’aprile 1861 esplose la guerra civile tra Unione e Confederazione. La prima poteva contare sulla superiorità numerica
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Nella cartina sono indicati a parte gli Stati schiavisti che rimasero fedeli all’Unione: Missouri, Kentucky, West Virginia, Maryland, Delaware.
GLI STATI UNITI AL TEMPO DELLA GUERRA CIVILE
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CANADA Territorio di WASHINGTON SO TA
Territorio del MONTANA
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A
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SA
Territori INDIANI
KA
Territorio del Territorio NUOVO dell'ARIZONA MESSICO
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TEXAS
New Orleans
ES
A
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D RI
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Connecticut Delaware Maryland Massachusetts New Hampshire New Jersey Pennsylvania Rhode Island Vermont West Virginia
IA
Los Angeles
KANSAS
New York
O FL
C. = D. = Md. = M. = N.H. = N.J. = Pa. = R.I. = Vt. = W.Va. =
Territorio del COLORADO
Pa. Gettysburg 1863
N.H. M. Boston C. R.I.
Antietam 1862 Md. N.J. ILLINOIS D. OHIO Washington W.Va. Richmond Appomattox Y K C TU KEN MISSOURI LINA CARO TENNESSEE NORSTH CA OU RO TH LI OCEANO Atlanta N A ATLANTICO GEORGIA
AR
Stati dell’Unione Stati confederati Stati schiavisti unionisti territori liberi Antietam 1862 battaglie
Territorio dello UTAH
San Francisco CA LI FO RN
Chicago
IOWA
NEW YORK
N
Territorio del NEBRASKA
NEVADA
Vt.
AN
NS
M
AK
el D
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tor erri
MAINE
W
IG H IC
Territorio dell'IDAHO
A OT
M
OREGON
IA
LO SPAZIO DELLA STORIA
UNA RIVOLUZIONE SOCIALE MANCATA La guerra di secessione, comunque, non fu seguita da alcuna rivoluzione sociale: la legge sulla concessione della terra fu ritirata, gli schiavi acquisirono la libertà ma continuarono a vivere in condizioni economiche e sociali difficilissime. I pregiudizi razziali si mantennero così radicati che fu emanata una serie di leggi che limitavano le libertà politiche e civili dei neri. Si affermò così, negli Stati del Sud, un regime di segregazione razziale* di fatto, terminato solo nella seconda metà del ’900. I vincitori, inoltre, procedettero alla riunificazione del paese con una durezza tale da provocare, nel Sud, reazioni di rigetto, che prima si espressero in forme di
IN
segregazione razziale La segregazione o separazione delle razze e una pratica politica razzista che mira a tenere separati, in uno Stato, i gruppi sociali di colore da quello bianco in vari settori della vita civile, pubblica e politica. Negli Stati Uniti si fondò sul principio della «separazione in condizioni di uguaglianza», sancito dal XIV emendamento della Costituzione. Bianchi e neri avevano dunque diritto agli stessi servizi ma erogati separatamente: diverse erano le zone residenziali, i luoghi di ritrovo, diverse le modalità di fruizione degli esercizi commerciali e dei servizi pubblici – mezzi di trasporto, scuola, ospedali. Forti discriminazioni sul piano dei diritti politici e civili derivarono da questa scelta. Un regime segregazionista – l’apartheid – è stato in vigore in Sud Africa fino al 1991.
della sua popolazione e sul maggiore potenziale economico, la seconda sulla migliore qualità delle sue forze armate e sulla speranza del sostegno britannico. Inizialmente, le forze sudiste sembrarono destinate a prevalere, ma il mancato sostegno della Gran Bretagna trasformò il conflitto in una lunga guerra di logoramento. Per aumentare i consensi e rafforzare il suo esercito, Lincoln decise di assegnare gratuitamente quote di terre statali ai cittadini che ne facevano richiesta e decretò, a partire dal 1° gennaio 1863 la liberazione degli schiavi negli Stati del Sud (anche per consentirne l’arruolamento nell’esercito dell’Unione). La guerra si concluse nel 1865, con la sconfitta dei sudisti. Con i suoi 3 milioni di soldati coinvolti e i 600 mila morti che provocò, la guerra di secessione americana può essere considerata la prima guerra totale dei nostri tempi: la prima cioè che avesse coinvolto così a lungo la società civile in un grande paese moderno, la prima in cui fossero stati utilizzati sistematicamente i nuovi mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico e industriale, come la ferrovia e il telegrafo, e nuovi micidiali armamenti, come la mitragliatrice.
IPP I AL AB AM A
secessione La “secessione” è la separazione di una parte dall’insieme politico o sociale cui apparteneva.
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SI
OCEANO PACIFICO
CO
CUBA
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lotta clandestina – fu quello in periodo nel quale fu creata l’organizzazione paramilitare e razzista Ku Klux Klan, che prese a organizzare attacchi terroristici contro i neri – e poi in una riscossa del Partito democratico negli Stati del Sud. LA COLONIZZAZIONE DELL’OVEST Dopo la guerra di secessione e la ricostruzione postbellica, riprese con slancio la colonizzazione del West: nel 1890 essa poteva dirsi conclusa e gli Usa avevano raggiunto le dimensioni attuali. Questa espansione restrinse ulteriormente gli spazi utilizzati dalle tribù di nativi: nonostante i vani tentativi di resistenza, essi furono decimati e, dopo il 1890, confinati nelle riserve e ridotti a un gruppo sociale marginale e non integrato, la cui consistenza, alla fine del secolo, non superava i 250 mila individui. SVILUPPO E TENSIONI SOCIALI Proseguiva intanto e si intensificava l’impetuoso sviluppo capitalistico, soprattutto nei settori (siderurgico, meccanico, elettrico, petrolifero) in cui dominavano le corporations, grandi società
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EVENTI CHIAVE
La battaglia di Gettysburg e la sconfitta sudista La battaglia di Gettysburg (1-3 luglio 1863) rappresenta un episodio centrale nella guerra civile americana: lo scontro più sanguinoso di tutto il conflitto vide, infatti, la netta sconfitta dell’esercito sudista e produsse una svolta decisiva nell’andamento della guerra, da questo momento in poi avviata a concludersi con la vittoria delle forze del Nord. Nell’estate del 1863 il conflitto era iniziato già da due anni: l’illusione che potesse durare poche settimane era svanita ben presto di fronte alle nuove forme della guerra industriale e all’abilità dei due schieramenti di contrapporre eserciti numerosi, ben armati e molto motivati. Alle vittorie riportate dai confederati nelle prime fasi belliche, l’Unione aveva saputo rispondere armando ed equipaggiando in breve tempo un grande esercito di volontari, traendo vantaggio soprattutto dal maggiore sviluppo industriale degli Stati settentrionali rispetto a quelli del Sud. Due anni di aspri combattimenti avevano fatto emergere tre fronti principali, tutti in territori confederati, sui quali si sarebbe giocato l’esito della guerra: ad ovest, il corso del Mississippi e la città di Vicksburg; al centro, il varco di Chattanooga, via di accesso alla Georgia; infine ad est, la Virginia, roccaforte delle armate confederate [Ź _37]. L’attacco sferrato dal generale nordista Ulysses Grant nel maggio del 1863 contro Vicksburg aveva posto il comando militare della Confederazione davanti a una scelta quanto mai difficile: con-
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centrare ogni sforzo militare per evitare la caduta della linea del Mississippi oppure attaccare su un altro fronte e provare a riportare, altrove, una vittoria decisiva sulle armate del Nord? Fautore di questa seconda ipotesi era il generale sudista Robert Lee, comandante della potente armata della Virginia settentrionale: egli riteneva che la sola difesa del fronte occidentale, seppur vincente, avrebbe al massimo ritardato l’avanzata delle truppe dell’Unione, in quel momento superiori. Al contrario, un attacco nel cuore degli Stati federali, da realizzare mediante l’invasione dei territori del Nord, avrebbe costretto l’avversario a spostare l’attenzione lontano dal Mississippi; avrebbe inoltre suscitato un grande entusiasmo tra i combattenti: in caso di vittoria, infatti, le armate sudiste sarebbero potute entrare, in breve tempo, nella capitale Washington. Il piano di Robert Lee ricevette l’approvazione del presidente della Confederazione, Jefferson Davis. I primi di giugno i soldati agli ordini del generale sudista superarono il confine della Virginia e nelle settimane successive penetrarono in territorio nemico con l’obiettivo di aggirare l’esercito nordista e costringerlo a combattere in campo aperto nei pressi di Gettysburg, cittadina dello Stato della Pennsylvania. File di profughi cominciarono a fuggire di fronte all’invasione sudista, ma il Nord non si fece prendere dal panico: gli abitanti delle zone invase si dimostrarono ostili alle forze occupanti, informando come potevano i comandi federali dei movimenti nemici. Alla vigilia dello scontro, l’esercito sudista sembrava possedere qualcosa in più rispetto all’avversario: nonostante l’infe-
riorità numerica in termini di uomini e armi, il generale Lee aveva saputo riorganizzare efficacemente l’armata della Virginia settentrionale. I soldati in uniforme grigia riponevano grande fiducia nel loro capo: erano soprattutto animati dalla speranza che la vittoria avrebbe rovesciato le sorti della guerra e portato il successo della Confederazione. Al contrario, l’armata nordista del Potomac (un fiume che corre per un lungo tratto tra Maryland e Virginia) stava attraversando un periodo difficile: tra la fine del 1862 e l’inizio del 1863 era uscita sconfitta per ben due volte dallo scontro con gli eserciti sudisti e adesso si era fatta sorprendere dall’attacco sudista sul proprio territorio. Pochi giorni prima della battaglia, il presidente Lincoln sostituì il comandante dell’armata, affidando il ruolo al generale George Gordon Meade, non un geniale stratega ma un militare dalle grandi capacità. All’alba del 1° luglio, la più grande battaglia della guerra civile americana scoppiò in realtà per un incidente tra due singoli corpi d’armata nemici, che aprirono il fuoco senza aspettare di ricevere ordini dall’alto. Nei primi due giorni di combattimento i confederati conquistarono terreno, ma si scontrarono sempre con la tenace resistenza nordista. Il terzo giorno, invece, la tattica del generale Robert Lee, orientata esclusivamente all’attacco, rivelò tutti i suoi limiti: nel torrido pomeriggio del 3 luglio, dopo un intenso fuoco d’artiglieria sulle posizioni nemiche durato più di un’ora e mezza, il grande assalto frontale da parte di 15 mila fanti sudisti, la cosiddetta “carica di Pickett” (dal nome del generale che la condusse), fu respinto sanguinosamente
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industriali e finanziarie. Alla fine del secolo, gli Usa avevano superato la Gran Bretagna e la Germania nel volume di produzione industriale ed erano diventati un paese esportatore di capitali e di prodotti dell’industria. Questo sviluppo fu reso possibile, oltre che dall’abbondanza di terre e di risorse naturali, anche da un mercato interno in continua crescita, grazie all’afflusso di immigrati europei. A causa del bisogno di manodopera, infatti, nel 1882 il governo aprì le porte all’immigrazione: nella società statunitense si verificarono così un incontro e una fusione tra culture e tradizioni di diversi paesi. Lo sviluppo non fu però esente da tensioni sociali, che esplosero tanto tra i contadini del Midwest – la zona centro-occidentale degli Usa, colonizzata nella prima metà dell’800 – quanto tra gli operai, che nel 1886 diedero vita all’American Federation of Labor, una confederazione di sindacati autonomi privi di una caratterizzazione politica precisa. Questo malcontento, tuttavia, non sfociò nella costituzione di forti movimenti socialisti come quelli che, in Europa, aspiravano al rovesciamento del sistema capitalistico.
dai colpi dell’artiglieria dell’armata del Nord, danneggiata ben poco dal bombardamento avversario. Solo pochi uomini, alla fine, riuscirono ad arrivare al contatto con la prima linea del Nord, mentre la maggior parte di loro rimase sul campo. Il 4 luglio l’armata di Robert Lee iniziò una drammatica ritirata sotto una pioggia battente e su strade ricoperte di fango: i soldati avevano il morale a pezzi, consapevoli di aver perso l’unica occasione per rovesciare l’esito della guerra a loro favore. In tre giorni di battaglia, l’Unione aveva avuto 23 mila tra morti e feriti, su un totale di circa 90 mila effettivi; i confederati invece ben 29 mila su circa 80 mila (di questi, quasi 13 mila caddero prigionieri). Lo stesso giorno, il generale Grant conseguiva sul fronte occidentale un’importante vittoria, conquistando
Vicksburg dopo settimane d’assedio. Solo una strenua resistenza dei confederati ritardò di due anni la fine della guerra, sancita con la sconfitta definitiva di Lee ad Appomattox (9 aprile 1865). La decisione strategica di attaccare sul fronte della Virginia e non difendere Vicksburg, a sud, nonché le scelte tattiche del generale sudista, sono sempre state al centro di un animato dibattito. Senza dubbio Lee era un grande comandante, cresciuto e formatosi nell’esercito degli Stati Uniti: dopo la secessione degli Stati del Sud, si era rifiutato di restare nelle fila dell’Unione perché non poteva accettare di combattere contro la sua terra natale, la Virginia. Secondo autorevoli studiosi, alla base delle scelte del generale ci sarebbe la sua concezione napoleonica della
guerra, tutta sbilanciata verso l’attacco e la ricerca dell’annientamento del nemico: « Se il nemico è lì domani, dobbiamo attaccarlo», disse a un suo generale dopo il primo giorno di combattimenti a Gettysburg, senza rendersi conto che le forme della guerra erano cambiate. Ma l’introduzione di armi più rapide e potenti (come quelle a canne rigate e a retrocarica) aveva dato alle artiglierie una maggiore capacità di fuoco e le rendeva capaci di respingere i grandi assalti delle fanterie in campo aperto: rispetto al passato, quindi, era la tattica difensiva, e non quella offensiva, a risultare vincente in questi casi. L’importanza di questi tre giorni di scontri risiede anche nel loro valore simbolico, oltre che strategico-militare. Quattro mesi dopo la battaglia, il 19 novembre, il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln pronunciò uno storico discorso, seppur brevissimo (circa 3 minuti), alla cerimonia di inaugurazione del cimitero dei caduti dell’Unione a Gettysburg. Senza fare alcun riferimento alle parti in lotta, si soffermò sul significato della morte di migliaia di americani in quell’occasione, ponendo così le basi per la rinascita della nazione e per il superamento della conflittualità civile: «possiamo qui decidere solennemente che questi morti non siano caduti invano», concluse, «che la nazione, con l’aiuto di Dio, trovi una nuova nascita nella libertà, e che il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra».
Ż Timothy H. O’Sullivan, Vite falciate, Gettysburg, Pennsylvania 1863 [George Eastman House, New York]
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LO SPAZIO DELLA STORIA
L’ESPANSIONISMO STATUNITENSE NEI CARAIBI E NEL PACIFICO
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ALASKA (1867) CANADA RUSSIA
STATI UNITI San Francisco
COREA Tokyo
N
Pechino
Seattle Portland
MANCIURIA
E
MONGOLIA
CI
NA
BIRMANIA Hong Kong
GIA
PP
San Diego
O
ISOLE MIDWAY Hawaii (1867) (1898)
FORMOSA Manila 2200 km
3
CUBA (1898)
GUAM (1898) 5
NICARAGUA (1911)
PORTORICO (1898) HAITI (1915)
PANAMA (1903)
0 km
BORNEO NU OV SUMATRA AG CELEBES
CUBA
m
k 500
000 km
INDOCINA FRANCESE FILIPPINE (1898) MALESIA
possedimenti giapponesi possedimenti britannici possedimenti olandesi possedimenti francesi basi e possedimenti Usa territori occupati dagli Usa (con data)
E
TIN
EU
AL
720
UI
NE A
GIAVA
ISOLE SAMOA (1899) TUTUILA (1900)
AUSTRALIA
NUOVA ZELANDA
L’ESPANSIONISMO NEI CARAIBI E NEL PACIFICO A partire dalla fine dell’800, gli Usa adottarono una nuova politica espansionistica, soprattutto verso i Caraibi [Ź _8]. Il primo obiettivo fu Cuba, paese in cui gli Usa avevano molti interessi nelle piantagioni di canna da zucchero, e dove dal 1895 era in corso una rivolta contro i dominatori spagnoli. Nel 1898, in seguito all’affondamento di una nave statunitense nel porto cubano dell’Avana, gli Usa iniziarono una guerra con la Spagna, che fu velocemente sconfitta: Cuba divenne una repubblica indipendente, posta sotto il controllo politico ed economico statunitense. Gli Usa ottennero anche Portorico e l’arcipelago delle Filippine, già colonia spagnola nel Sud-Est asiatico. Parallelamente, annessero le isole Hawaii, al centro dell’Oceano Pacifico: nel giro di pochi mesi avevano assunto così il ruolo di potenza mondiale. I NUMERI DELLA STORIA [nostra elaborazione da Atlante storico del mondo, Touring Club Italiano, Milano 1994]
IMMIGRATI NEGLI STATI UNITI (1821-1921) 8 2,2
immigranti (in milioni)
Dati non disponibili
2 1,8
Russia
Italia
1
Austria-Ungheria
1,2
Germania
1,4
IIrlanda
Inghilterra Scozia e Galles
1,6
0,8 0,6 0,4 0,2
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1921
1871
1921 1821
1871
1921 1821
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10 Fare storia La modernizzazione: una sfida per Italia e Giappone, p. 584
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La via giapponese alla modernità LA FINE DELL’ISOLAMENTO Il Giappone, alla metà dell’800, conservava la struttura politica di tipo feudale che si era consolidata con l’ascesa al potere degli shogun Tokugawa all’inizio del ’600 [Ź5_5]. E dal 1639 aveva scelto l’isolamento commerciale dai paesi occidentali, salvo mantenere una linea di scambi con la Cina. Furono gli Stati Uniti a rompere l’isolamento del Giappone, verso la metà dell’800: nel 1854, inviarono una squadra navale nelle acque giapponesi e chiesero formalmente allo shogun il libero accesso nei porti e l’apertura di relazioni commerciali. L’iniziativa americana – cui subito si unirono Gran Bretagna, Francia e Russia – trovò il Giappone del tutto impreparato. Lo shogun fu costretto a firmare nel 1858 una serie di accordi commerciali (i cosiddetti trattati ineguali) che assicuravano alle potenze occidentali ampie possibilità di penetrazione economica. LA RESTAURAZIONE MEIJI E LA MODERNIZZAZIONE DEL PAESE La firma dei “trattati ineguali” del ’58 suscitò in tutto il paese un’ondata di risentimento nazionalistico, che fu guidata dai grandi feudatari (daimyo) e da una parte dei samurai, e si indirizzò contro lo shogun, principale responsabile della capitolazione. A esso fu contrapposta la figura dell’imperatore, che in teoria rappresentava ancora la vera fonte del potere. I daimyo si resero sempre più indipendenti dal governo centrale e, nel gennaio del 1868, dichiararono decaduto lo shogun, dando vita a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all’autorità dell’imperatore, un ragazzo di quindici anni, Mutsuhito, salito da poco al trono. Ma la cosiddetta “restaurazione Meiji”, dal nome dato all’imperatore dopo la sua morte nel 1912, non si limitò a sostituire il potere dello shogun con quello dell’imperatore o a rafforzare l’autorità dei daimyo. La nuova élite
LE PAROLE DELLA STORIA
Modernizzazione “Modernizzazione” è un termine creato dalla sociologia e dalla scienza politica del ’900 per designare quell’insieme di trasformazioni politiche, economiche e sociali che hanno avuto luogo nelle società occidentali tra ’800 e ’900 (a partire, grosso modo, dalle grandi rivoluzioni politiche del ’700 e dalla rivoluzione industriale) e si sono successivamente verificate – o si stanno ancora verificando, pur fra molte resistenze e contraddizioni – nella maggior parte del mondo. Nel linguaggio politico contemporaneo il concetto di modernizzazione tende a sostituirsi a quello di progresso e a superarne la genericità mediante il riferimento a una serie di parametri “oggettivi”. Sul piano politico, si ha una modernizzazione quando l’autorità statale acquista autonomia dagli altri poteri (in particolare da quello religioso) e capacità di far rispettare le proprie decisioni; quando esistono leggi valide per tutti; quando, per la
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popolazione, si verifica il passaggio dalla condizione di sudditi a quella di cittadini dotati, almeno in teoria, di uguali diritti. Sul piano economico, la modernizzazione è quel processo mediante il quale un sistema acquista razionalità ed efficienza e accresce la sua capacità di produrre beni e di soddisfare bisogni: in questo senso la modernizzazione coincide col passaggio da un’economia agricola a una economia industriale e si misura con indici quali il prodotto nazionale, il reddito pro capite e, soprattutto, il tasso di sviluppo annuo. Sul piano sociale, la modernizzazione si identifica con una serie di processi tutti in qualche modo legati fra loro: la diffusione dell’istruzione, premessa essenziale per lo sviluppo della partecipazione politica e per la stessa crescita economica; l’urbanizzazione, conseguenza dello sviluppo industriale; l’aumento della mobilità geografica e sociale della popolazione; la rottura delle vecchie stratificazioni legate alla società tradizionale e la creazione di gerarchie basate non più sulla
appartenenza dalla nascita a un ceto sociale, ma piuttosto sul merito individuale e sulla possibilità di ascesa economica e sociale. Tutti i processi cui abbiamo accennato hanno, nella tradizione culturale occidentale, un valore implicitamente positivo; e il processo di modernizzazione nel suo complesso è considerato, in questo contesto, come un fenomeno auspicabile e in qualche misura necessario. Ma una simile prospettiva non è condivisa universalmente, né all’interno delle società industrializzate, né, soprattutto, in molti di quei paesi che oggi si definiscono “in via di sviluppo”. Se alcuni di questi paesi hanno imboccato con decisione la strada dell’industrializzazione, cercando, con alterna fortuna, di imitare l’esempio del Giappone (o quello delle economie pianificate dell’Est europeo), in altri la modernizzazione è stata vista come una “occidentalizzazione” più o meno forzata, e ha provocato reazioni talora molto aspre, a sfondo nazionalistico o religioso-tradizionalistico.
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Parole della storia Modernizzazione, p. 503
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dirigente – intellettuali, militari, funzionari provenienti dal ceto dei samurai – era ben consapevole del legame esistente fra l’inferiorità politica e militare del Giappone rispetto alle potenze occidentali e l’arretratezza delle sue strutture economico-sociali: era dunque decisa a colmare il dislivello in tempi il più possibile rapidi, senza paura di ricalcare i modelli degli Stati europei più avanzati. La modernizzazione del paese fu condotta con risolutezza eccezionale. Nel giro di pochi anni, senza sommovimenti sociali, il Giappone compì quella transizione dal sistema feudale allo Stato moderno, che nella maggior parte dei paesi europei si era realizzata in tempi lunghissimi, accelerati solo da traumatiche svolte rivoluzionarie. Nel 1871 furono proclamate l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, l’abolizione dei diritti feudali e la trasformazione dei feudi in circoscrizioni amministrative. I feudatari vennero indennizzati, mentre ai samurai fu assegnata una pensione vitalizia. Negli anni seguenti fu introdotto l’obbligo dell’istruzione elementare, venne unificata la moneta, fu creato un sistema fiscale moderno in luogo dei vecchi tributi in natura, venne organizzato un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria. IL DECOLLO INDUSTRIALE Eccezionale fu anche la crescita dell’industria, che si sviluppò praticamente da zero grazie al massiccio investimento di capitali statali – ricavati in parte dalla vendita delle terre sequestrate allo shogun – e alla rapidissima importazione di tecnologia straniera (acquisto di brevetti, assunzione di esperti occidentali, invio di giovani all’estero per soggiorni di studio).
STORIA IMMAGINE
La fregata a vapore statunitense Susquehanna [Library of Congress, Washington] Ż
Ritratto del comandante Matthew Perry 1854 [Library of Congress, Washington] Ź
Nel 1853 il comandante statunitense Matthew Perry approdò con una squadra di 4 navi a vapore nel porto di Uraga, presso Edo (la moderna Baia di Tokyo), allo scopo di ottenere un trattato commerciale con i giapponesi. Un risultato ottenuto con la minaccia di una prova di forza: alla richiesta di allontanare le navi dal porto da parte dei giapponesi, infatti, Perry rispose negativamente, insistendo per presentare
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una lettera all’imperatore da parte del presidente degli Usa e minacciando l’uso dei cannoni di cui erano ben equipaggiate le sue navi. Costretti a cedere, i giapponesi ricevettero la lettera e prepararono un trattato in cui accettavano tutte le richieste americane. L’anno seguente, quando Perry tornò con un numero doppio di navi, fu firmato l’accordo commerciale. L’impatto di queste missioni sui giapponesi fu grande.
Il contatto con gli stranieri era stato fino ad allora vietato e le navi americane che arrivarono nel porto erano cinque volte più grandi di qualsiasi nave i giapponesi avessero mai visto. Tanto che, sebbene la legge giapponese vietasse la rappresentazione grafica di avvenimenti contemporanei, le fregate di Perry, come anche lo stesso comandante, furono oggetto di numerose stampe poi vendute in tutto il paese.
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Non meno rapida fu la crescita delle infrastrutture: dalle ferrovie – la prima linea fu aperta nel ’71 – alle comunicazioni telegrafiche, all’organizzazione bancaria. Nell’ultimo ventennio del secolo il Giappone vantava un tasso di crescita del prodotto interno lordo fra i più alti del mondo e, pur restando ancora distante dai paesi occidentali più avanzati, aveva sviluppato un suo consistente nucleo di industrie moderne, soprattutto nei settori tessile e meccanico.
Storiografia 92 R. Caroli, F. Gatti, Centralizzazione del potere e politiche modernizzatrici nel Giappone Meiji, p. 588
Storiografia 93 M. Morishima, Confucianesimo e capitalismo in Giappone, p. 589
IL MODELLO GIAPPONESE Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria “rivoluzione dall’alto”, realizzata senza alcuna partecipazione attiva delle classi inferiori, non preparata, com’era avvenuto in Occidente, da un’autonoma crescita della borghesia e non seguita da uno sviluppo delle istituzioni liberali e della democrazia politica: solo nel 1889 il Giappone ebbe un suo Parlamento, eletto a suffragio ristretto e con poteri molto limitati. Furono le classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione e a gestirla in prima persona, spogliandosi spontaneamente dei loro antichi diritti, senza per questo perdere la loro posizione privilegiata nella società, investendo le loro rendite nella terra, nelle banche o nell’industria protetta, convertendosi insomma da oligarchia feudale in oligarchia industriale e finanziaria. Il processo di rapida modernizzazione sul piano delle strutture economiche e politiche risultò tanto più straordinario in quanto si accompagnò alla conservazione dei tradizionali valori culturali e religiosi. Per alcuni aspetti l’esperienza giapponese è stata accostata a quella della Germania bismarckiana, dove il passaggio dalle strutture tradizionali a quelle della società industriale si effettuò senza che fosse messo in pericolo il potere dell’aristocrazia terriera e militare. Ma, per quante analogie si possano istituire, l’esperienza del Giappone dopo la “restaurazione Meiji” resta un caso assolutamente unico. Non era mai accaduto che un paese passasse, in pochi decenni, da una condizione di estrema debolezza e di assoluta emarginazione a una realtà di grande potenza, quale il Giappone si sarebbe rivelato già alla fine dell’800.
Ź Yoshitoshi, Trittico che mostra tutti gli shogun che dominarono il Giappone durante il periodo Tokugawa (1603-1867) 1875
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
Il sistema parlamentare Il sistema parlamentare è un tipo di organizzazione politica nella quale è riservata particolare importanza al Parlamento, eletto da una parte più o meno ampia dei cittadini. Organi fondamentali dei moderni sistemi politici, le assemblee parlamentari sono le istituzioni dello Stato deputate alla rappresentanza del corpo elettorale e all’esercizio del potere legislativo. Inoltre, nei sistemi parlamentari i Parlamenti svolgono una funzione di controllo dei governi che, per confermare la loro legittimità, necessitano del consenso (la fiducia) dell’organo rappresentativo per eccellenza. In un sistema parlamentare governo e Parlamento dovrebbero bilanciarsi vicendevolmente concorrendo alla definizione delle scelte politiche. Ma il primato spetta al Parlamento, da cui dipende in ultima analisi la vita dei governi. Tendenzialmente, i sistemi parlamentari possono essere costituiti da uno o due organismi (le “Camere”): si parla così di sistemi bicamerali (come quello italiano, composto da Camera e Senato) e di sistemi monocamerali, meno diffusi (in Europa tale sistema è stato adottato in Grecia, Portogallo, Svezia, Danimarca e Finlandia). In Italia, ebbe un ruolo decisivo il Parlamento del Regno di Sardegna, riconosciuto nello Statuto albertino del 1848
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che, all’articolo 3, precisava: «Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal re e da due Camere; il Senato, e quella dei Deputati». Per evitare lo squilibrio in favore del solo organo rappresentativo come era avvenuto nella Francia rivoluzionaria, si scelse il modello britannico della monarchia rappresentativa, basato sul bilanciamento dei poteri tra gli organi di governo più importanti: il re e il Parlamento. Il principio di rappresentatività dell’organizzazione statale era assicurato dall’adozione del bicameralismo. Il Senato era di nomina regia, mentre la Camera dei deputati era elettiva, anche se il suffragio era concesso solo a una parte esigua della popolazione. In realtà lo Statuto non prefigurava un sistema autenticamente parlamentare (basato cioè sullo stretto legame fra governo e Camere), ma ne prevedeva piuttosto uno costituzionale, simile a quelli che sarebbero stati adottati negli imperi del Centro Europa, in cui la vita dell’esecutivo dipendeva dalla fiducia del sovrano e al Parlamento spettava la sola funzione legislativa. Fu soprattutto con Cavour che, prima in Piemonte poi nel Regno d’Italia, si impose una prassi parlamentare, che vincolava il governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest’ultimo il centro della vita politica. Con l’avvento del fascismo, questa prassi fu interrotta. E le istituzioni rappresentative furono progressivamente svuotate di significato, fino a quando, nel 1939, la Camera
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dei deputati – soppressa anche la residua finzione elettorale – fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni a cui si accedeva in virtù delle cariche ricoperte negli organismi del regime. Dopo la caduta del fascismo, con la nuova Costituzione repubblicana nacque il moderno sistema parlamentare italiano, ancora bicamerale e interamente elettivo a suffragio universale maschile e femminile. Le funzioni e le attività del Parlamento italiano sono regolate dagli articoli 55-82 della Costituzione. Il rapporto tra i cittadini e il Parlamento è mediato dai partiti politici, che non solo rappresentano le diverse esigenze della popolazione ma anche una particolare linea politica che gli elettori possono scegliere o meno votando per un determinato partito. Il meccanismo che anima la vita politico-istituzionale italiana è relativamente semplice: il governo (ministri e presidente del Consiglio dei ministri) è composto in modo da rispecchiare, attraverso la maggioranza eletta in Parlamento, la linea politica scelta dalla maggioranza degli elettori. Secondo un noto costituzionalista italiano, Gustavo Zagrebelsky, «Sistema parlamentare [contemporaneo e italiano] vuole [...] dire sistema di partiti, nel quale il luogo di elaborazione dei grandi indirizzi politici è il parlamento, mentre il governo è appunto l’organo esecutivo di tali indirizzi ed è responsabile di fronte al parlamento».
Ż La Camera dei deputati del Parlamento italiano, Montecitorio, Roma 2015 Il Parlamento della Repubblica italiana è composto da due Camere: la Camera dei deputati, con sede a Palazzo Montecitorio, e il Senato della Repubblica, con sede a Palazzo Madama. Le due Camere si riuniscono in seduta comune, per eleggere il presidente della Repubblica, nell’Aula di Palazzo Montecitorio e presiede l’assemblea il presidente della Camera. Il governo ha invece la sede ufficiale a Palazzo Chigi, sempre a Roma, ed è composto dal Consiglio dei ministri guidato dal presidente del Consiglio.
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
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Costruiamo il lessico del cittadino 1 Leggi la scheda e completa sul tuo quaderno le seguenti definizioni: a. Si definisce “sistema parlamentare” una forma di organizzazione politica in cui il .................................., eletto dal popolo, .................. ................, cioè esprime .................................. e ne controlla .................................. b. Il sistema parlamentare si definisce .................................. quando è costituito da ..................................; si definisce ........................... ....... quando è costituito da ..................................
La monarchia rappresentativa 2 In un testo di massimo 5 righe spiega l’evoluzione dello Stato unitario italiano da monarchia costituzionale ‘’pura’’ a monarchia costituzionale parlamentare. ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... ...........................................................................................................................................................................
Le ragioni del bicameralismo nella nostra Costituzione 3 L’Italia è una Repubblica parlamentare a sistema bicamerale, come sancito dall’articolo 55 della Costituzione: Il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione.
Perché l’Assemblea costituente, nel discutere l’articolo 55, confermò la scelta bicamerale, nonostante al suo interno avesse avuto luogo un acceso dibattito circa la necessità di mantenere in vita due Camere anziché istituirne una sola? Ascoltiamo la voce di un testimone autorevole, quella dell’onorevole Umberto Elia Terracini, presidente dell’Assemblea costituente e dirigente del Partito comunista italiano: II concetto che prevalse nel decidere il sistema bicamerale fu quello del cosiddetto “ripensamento” per offrire la possibilità a due assemblee diverse, ma pur sempre scaturite dalla votazione popolare, di discutere più a lungo su una stessa legge con la garanzia che un errore iniziale
commesso dalla prima possa essere riparato in un secondo momento dalla seconda. In questo caso, la legge corretta dalla seconda assemblea deve tornare alla prima ed essere nuovamente discussa e approvata da questa nella versione della seconda.
[dall’intervista di P. Balsamo a U.E. Terracini, Come nacque la Costituzione, Editori Riuniti, Roma 1978]
Alla luce della testimonianza di Terracini, rispondi sul tuo quaderno alle seguenti domande: a. Da cosa dipese la scelta bicamerale dell’Assemblea costituente? b. Come si caratterizza il bicameralismo italiano?
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C16 La politica di potenza RICORDARE L’ESSENZIALE Bismarck e l’unità tedesca Nella seconda metà del XIX secolo, le maggiori potenze europee si impegnarono nella lotta per l’egemonia. Il ruolo più attivo fu svolto dalla Francia del Secondo Impero, che però, nel suo tentativo di indebolire l’Austria con una politica estera ambiziosa e aggressiva (guerra di Crimea, 1854-55), finì col facilitare l’ascesa della Prussia, che sotto la guida del cancelliere Bismarck (1862) si avviava all’unificazione. La contesa per l’amministrazione dei Ducati dello Schleswig e Holstein costituì il pretesto per una guerra tra Prussia e Austria (1866), che portò alla formazione di una Confederazione della Germania del Nord. Per far fronte alla crisi che da tempo investiva l’Impero asburgico, Francesco Giuseppe, nel 1867, lo divise in due parti, una austriaca e l’altra ungherese, unite nella persona del sovrano, ma di fatto autonome. Nel 1870, attraverso un’astuta politica diplomatica, Bismarck riuscì a provocare una guerra con la Francia, ultimo ostacolo ai suoi progetti di unificazione tedesca, che fu rovinosamente sconfitta a Sedan. Nel gennaio 1871, a Versailles, Guglielmo I veniva incoronato imperatore (Kaiser) del nuovo Reich tedesco. La sconfitta di Sedan comportò per la Francia la caduta di Napoleone III, la proclamazione della repubblica e la cessione dell’Alsazia-Lorena. Più in generale, rappresentò un’umiliazione nazionale che, per il desiderio di rivincita (il cosiddetto revanchismo) avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese. Tra le conseguenze della sconfitta militare vi fu la ribellione di Parigi e la proclamazione della Comune, un esperimento di democrazia diretta rivoluzionaria (marzo-maggio 1871), guidato da gruppi di estrema sinistra. Isolata dal resto del paese, la Comune tentò inutilmente di coinvolgere nella rivolta la popolazione delle altre città e delle campagne per lo più di tendenze conservatrici e moderate, e presto venne sconfitta dalle truppe governative dopo durissimi combattimenti. Questa vicenda contribuì a diffondere nell’opinione pubblica moderata un senso di paura e di odio per i rivoluzionari. La Germania unita era ora il più potente Stato dell’Europa continentale. La supremazia del potere esecutivo sul legislativo e un blocco sociale dominante, formato dal mondo dell’industria e della finanza e dall’aristocrazia degli Jun-
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Audiosintesi per paragrafi
ker, non impedirono la nascita, negli anni ’70, di due nuovi partiti: il Centro cattolico e il Partito socialdemocratico. In politica interna Bismarck lavorò per affermare il carattere laico dello Stato e fronteggiare il nuovo pericolo rappresentato dalla socialdemocrazia, affiancando alle tendenze autoritarie una legislazione sociale molto avanzata, secondo un modello di stampo paternalistico. In politica estera creò un sistema di alleanze per l’isolamento della Francia. Questo sistema, che si fondava sul patto dei tre imperatori (1873), si scontrò con le rivalità che opponevano nei Balcani gli altri due contraenti (Austria e Russia), che determinarono la guerra russo-turca (1877) e il successivo congresso di Berlino (1878). Nel 1882 la Germania stipulò il trattato della Triplice alleanza con Austria e Italia. Francia, Gran Bretagna, Russia In Francia, l’Assemblea nazionale, ripreso il controllo del paese, varò nel 1875 una nuova Costituzione. La struttura costituzionale della Terza Repubblica prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da un Parlamento bicamerale, con la Camera dei deputati eletta a suffragio universale maschile, e un Presidente della Repubblica a capo dell’esecutivo. La scena politica era dominata dai repubblicani, che riuscirono gradualmente a consolidare il nuovo regime, spesso però messo a repentaglio dalla notevole instabilità dei governi e dalla grande corruzione che dominava il mondo politico e finanziario. Tra le conquiste della Terza Repubblica ricordiamo l’affermazione della laicità dello Stato e la riforma dell’istruzione elementare che divenne obbligatoria, gratuita e statale. In Gran Bretagna, gli anni dal 1850 al 1870 videro il rafforzamento del sistema parlamentare, una notevole prosperità economica e il varo di alcune importanti riforme, tra cui quella elettorale, che allargava di quasi un milione il numero degli aventi diritto al voto. Fra il ’66 e l’86 si alternarono al potere il conservatore Disraeli, fautore di una politica imperialistica non priva di aperture sociali, e il liberale Gladstone, che realizzò nuove riforme, fra cui un ulteriore ampliamento del suffragio dopo quelli attuati da Disraeli, e tentò senza fortuna di concedere l’autonomia all’Irlanda. In Russia, paese connotato da una forte arretratezza politico-sociale, l’avvento al trono di Alessandro II nel 1855
alimentò forti speranze di rinnovamento, soprattutto in conseguenza delle riforme attuate dal nuovo sovrano, tra le quali l’abolizione della servitù della gleba (1861). Presto, tuttavia, si tornò a un indirizzo autocratico, con il conseguente accrescimento del distacco tra potere statale e borghesia colta. Fra gli intellettuali intanto si andava diffondendo un atteggiamento di rifiuto dell’ordine costituito e uno sforzo di avvicinamento ai problemi delle classi subalterne: nasceva così il movimento populista, il cui scopo era di compiere un’opera di educazione e proselitismo politico tra le masse. Stati Uniti e Giappone Alla metà dell’800 gli Stati Uniti erano un paese in crescente espansione territoriale, economica e demografica, benché attraversato da forti differenze tra le diverse zone: il Nord-Est industrializzato, il Sud agricolo e tradizionalista, nelle cui grandi piantagioni lavoravano gli schiavi neri, gli Stati dell’Ovest con una popolazione di liberi agricoltori e di allevatori di bestiame. Il dibattito sull’estensione della schiavitù ai nuovi territori dell’Unione determinò una contrapposizione tra gli Stati dell’Ovest e del NordEst e quelli del Sud. Al Nord, in particolare, aveva attecchito un capitalismo moderno, che assorbiva molta manodopera operaia, soprattutto per la fiorente industria meccanica. Le divisioni trovarono riscontro nella crisi del Partito democratico, che restò su posizioni schiaviste, e nella nascita del Partito repubblicano abolizionista. Nel 1860 fu eletto presidente degli Stati Uniti il candidato repubblicano, Abraham Lincoln, il quale sosteneva che la schiavitù non andasse consentita negli Stati di nuova acquisizione. Questo provocò la secessione di dieci Stati del Sud dal resto dell’Unione (1861) che diedero vita alla Confederazione indipendente. Scoppiò così la guerra civile (186165), che si concluse con la vittoria degli “unionisti”, superiori come popolazione e per potenza economica. La liberazione degli schiavi, decretata da Lincoln nel 1863, fu uno dei risultati più rilevanti della guerra. Malgrado le innovazioni legislative introdotte per colmare le disuguaglianze sociali e i pregiudizi razziali, queste non valsero a evitare alla popolazione nera una situazione di segregazione di fatto, destinata a perdurare fino alla metà inoltrata del ‘900.
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C16 La politica di potenza
Superati i traumi della guerra civile, gli Stati Uniti si concentrarono soprattutto sullo sviluppo dell’economia e sull’espansione a ovest, che fu completata intorno al 1890 dopo una serie di conflitti con le tribù dei pellerossa. In politica estera gli Stati Uniti scelsero la via dell’espansionismo, consolidando la loro presenza nei Caraibi, in particolare dopo la guerra con la Spagna (1898), che rese l’isola di Cuba una repubblica controllata dagli Usa, e nel Pacifico (Filippine, Hawaii).
A metà dell’800, in Giappone la società era ancora organizzata secondo uno schema tipicamente feudale. La penetrazione commerciale delle potenze occidentali, imposta con i “trattati ineguali” del 1858, fu vissuta dai grandi feudatari, dai giovani nobili di corte e dai samurai come un’umiliazione del paese e scatenò una rivolta contro lo shogun, che di fatto esercitava il potere di sovrano assoluto, a favore del ripristino dell’autorità dell’imperatore. La cosiddetta “restaurazione Meiji”
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(1868) avviò una modernizzazione accelerata dello Stato e dell’intera società giapponese, guidata dall’alto: vennero introdotte l’istruzione obbligatoria e la coscrizione militare, così da dotare il paese di un esercito nazionale; fu dato un forte impulso all’industrializzazione, attraverso l’importazione di tecnologia straniera e lo sviluppo di infrastrutture. Nell’ultimo ventennio dell’800 il Giappone raggiunse un tasso di crescita del prodotto interno lordo fra i più alti del mondo.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Il “bonapartismo” comportava una politica interna accentratrice e una politica estera di conservazione dei propri domìni. b. Dopo la sconfitta con la Prussia, l’Austria perse la sua supremazia nell’Europa del centro nord ma mantenne il Veneto. c. Il processo di unificazione nazionale fu attuato in Germania in seguito a guerre combattute fuori dai confini nazionali. d. Con la pace di Francoforte, la Francia subì una vera e propria umiliazione nazionale. e. I comunardi parigini, durante la resistenza, trovarono il sostegno degli abitanti delle campagne francesi. f. Il congresso di Berlino del 1878 decretò la divisione dei Balcani tra Germania e Francia. g. Durante il cancellierato di Bismarck furono varate in Germania leggi di tutela dei lavoratori. h. Il generale Boulanger invocò una riforma delle istituzioni in senso parlamentare.
i. Il Reform Act promosso dal conservatore Disraeli allargò il suffragio ai lavoratori delle campagne. j. Dopo l’abolizione della servitù della gleba, in Russia scoppiarono numerose rivolte contadine. k. Gli Stati Uniti d’America, nella seconda metà dell’800, erano una realtà omogenea. l. Nel Nord degli Stati Uniti era ancora molto praticata la schiavitù. m. Nel 1854 negli Usa nacque il Partito repubblicano antischiavista. n. Nel 1860 fu eletto presidente degli Stati Uniti il candidato democratico Abraham Lincoln. o. Nel 1861 dieci Stati del Sud si staccarono dall’Unione e si costituirono in una Confederazione indipendente. p. La nascita dell’Impero del Messico fu appoggiata dagli Stati Uniti.
2 Completa lo schema inserendo le affermazioni di seguito. Metterai a confronto le istituzioni di Francia, Gran Bretagna e Russia e sintetizzerai le riforme operate dai vari tipi di governo. Elettività dei sindaci • Governo assoluto dello zar • Camera dei Lord (per diritto ereditario o per nomina regia) • Ampliamento del diritto di voto • Monarca (per diritto ereditario) • Furono avviate riforme sociali in tema di salute pubblica e di edilizia popolare • Camera (eletta a suffragio universale maschile) • Senato (membri in parte a vita, in parte eletti) • Abolizione della servitù della gleba • Libertà di associazione sindacale • Presidente della Repubblica (eletto dalle Camere riunite) • Fu introdotto il divorzio • Laicità dello Stato • Modernizzazione della burocrazia, della scuola, del sistema giudiziario, dell’esercito • Camera dei Comuni (per voto di una minoranza di cittadini) • Istruzione elementare statale obbligatoria. FRANCIA
GRAN BRETAGNA
RUSSIA
Terza Repubblica 1875: .............................................................................
Monarchia parlamentare: .............................................................................
Autocrazia dello zar: .............................................................................
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Riforme del governo repubblicano: .............................................................................
Riforme del governo conservatore e liberale: .............................................................................
Riforme dello zar Alessandro II: .............................................................................
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
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3 Inserisci nei due insiemi i seguenti eventi della seconda metà dell’800, distinguendo quelli che vedono come protagonista la Francia da quelli che si riferiscono alla Germania. Realizza quindi due cronologie distinte, una per paese, inserendo le date relative agli eventi stessi. a. Firma del patto dei tre imperatori / b. Guerra di Crimea / c. Esperienza rivoluzionaria della Comune/ d. Nasce l’Impero / e. Vengono varate le «leggi contro le tendenze sovvertitrici», contro il movimento socialdemocratico / f. Dichiara guerra alla Prussia / g. Firma della Triplice alleanza / h. Sconfitta di Sedan / i. Organizza il congresso di Berlino. Francia
Germania
4 Abbina i dati della colonna di destra al relativo trattato tedesco, a sinistra. Indica quindi che tipo di informazione fornisce ogni voce (es. data, ecc.). a. Triplice alleanza b. Patto dei tre imperatori
1. 2. 3. 4. 5. 6.
1873 1882 Germania, Russia, Austria-Ungheria Germania, Italia, Austria-Ungheria Patto militare difensivo Accordo difensivo per mantenere l’isolamento politico-diplomatico della Francia
5 Abbina i soggetti della colonna di sinistra, alle relative azioni della colonna di destra: a. b. c. d.
Le classi dirigenti tradizionali I daimyo Lo shogun Mutsuhito
1. 2. 3. 4. 5.
firmò nel 1858 i “trattati ineguali”. si convertirono da oligarchia feudale in oligarchia industriale e finanziaria. nel gennaio del 1868 dichiararono decaduto lo shogun. divenne imperatore a 15 anni. diedero vita a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all’autorità dell’imperatore.
COMPETENZE IN AZIONE 6 Scrivi un testo in cui spiegherai gli eventi legati alla guerra di secessione americana. Utilizza la scaletta di seguito fornita e seleziona, tra le immagini e le carte presenti nel capitolo, quelle che ritieni particolarmente utili all’illustrazione dell’esposizione. • I protagonisti • I motivi dello scontro • Le idee politiche dei due schieramenti • Le economie degli Stati del Nord e del Sud • Gli esiti • I motivi che determinarono il successo degli Stati del Nord
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C17 Gli imperi coloniali EXTRA ONLINE
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Storia e Geografia Il canale di Suez
Focus Il colonialismo culturale: le missioni • Progresso tecnologico e imperialismo
L’imperialismo I CARATTERI DEL NUOVO COLONIALISMO
Fare storia Le grandi potenze e i loro imperi coloniali, p. 575 Arte e storia Il fascino per l’esotico nella pittura di Gauguin, p. 530 Leggere una carta storica 8 Gli imperi coloniali tra fine ’800 e inizio ’900, p. 528
protettorato Con questo termine si indica uno Stato che, pur conservando l’indipendenza, è posto sotto la protezione (e quindi il controllo) di uno Stato più forte, sia negli affari internazionali sia in quelli interni.
Storiografia 94 F. Barbagallo, Napoli: una metropoli ancora europea, p. 591
Fin dai tempi delle grandi scoperte geografiche, l’Europa si era lanciata alla conquista del mondo, disseminando in tutti i continenti soldati e missionari, commercianti e coloni. Ma negli ultimi decenni dell’800, questo processo raggiunse il suo apice, con dimensioni nuove e forme diverse. Fu questo uno degli aspetti più evidenti di quel grande fenomeno di espansione economica e politica noto come imperialismo. Se la colonizzazione tradizionale era rimasta legata soprattutto all’iniziativa delle grandi compagnie mercantili, la nuova espansione venne assunta sempre più come un obiettivo di politica nazionale da parte dei governi. Alla penetrazione commerciale subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e di sfruttamento economico. La tendenza prevalente divenne quella di imporre un controllo a vastissimi territori dell’Africa, dell’Asia e del Pacifico, che furono ridotti alla condizione di vere e proprie colonie o di protettorati*. I territori detenuti dalle potenze europee vennero enormemente ampliati nel giro di pochi decenni – un’espansione che si avvalse anche della supremazia tecnologica occidentale, per esempio nel campo degli armamenti e dei trasporti. Tra il 1876 e il 1914, la Gran Bretagna aggiunse al suo già vastissimo impero 11 milioni di km2 (con 142 milioni di abitanti), raggiungendo così un’estensione complessiva di circa 30 milioni di km2, quasi cento volte la superficie del Regno Unito. Nello stesso periodo la Francia acquistò nuovi possedimenti per 10 milioni di km2 (con 50 milioni di abitanti). Alla competizione coloniale si
LE PAROLE DELLA STORIA
Imperialismo Coniato in Francia ai tempi del Secondo Impero in riferimento ai disegni egemonici di Napoleone III, il termine “imperialismo” si affermò in Gran Bretagna alla fine degli anni ’70 per indicare il programma di espansione coloniale del governo Disraeli, per entrare poi nell’uso comune come sinonimo di politica di potenza e di conquista territoriale su scala mondiale. In generale, l’imperialismo rappresentò la tendenza degli Stati europei a proiettare aggressivamente verso l’esterno i propri interessi economici, le proprie esigenze di difesa, la propria immagine nazionale e la propria cultura: la fusione di queste diverse componenti (economiche, politiche, ideologiche) si tradusse in una politica di potenza realizzata con la forza e spesso perseguita senza altro scopo che l’affermazione del prestigio nazionale. Nel tentativo di identificare le forze profonde che erano alla base di questi sviluppi, molte delle teorie sull’imperialismo
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avanzate all’inizio del ’900, soprattutto – ma non soltanto – da parte di studiosi marxisti, hanno posto l’accento sui suoi moventi economici (la ricerca di materie prime a buon mercato e di nuovi sbocchi per merci e capitali in eccedenza) e sui suoi legami con le trasformazioni interne del sistema capitalistico (la svolta protezionistica, le concentrazioni industriali, la prevalenza del capitale finanziario), lasciando in secondo piano gli aspetti ideologici e politico-militari. Sia per il liberale progressista John A. Hobson sia per la marxista rivoluzionaria Rosa Luxemburg, per esempio, la causa principale del fenomeno stava nel «sottoconsumo», ossia nel divario fra la capacità sempre crescente del sistema capitalistico di produrre merci e la possibilità di acquistarle da parte di un numero di consumatori che non cresceva allo stesso ritmo: donde la necessità di trovare sbocchi nei mercati esteri. Per Lenin, il massimo esponente della rivoluzione comunista del 1917 in Russia, l’imperialismo era legato alla
concentrazione industriale e alla formazione del capitale finanziario e costituiva la «fase suprema» dello sviluppo capitalistico (quella che l’avrebbe condotto alla sua catastrofe). Le varie teorie divergono non solo sugli elementi caratterizzanti dell’imperialismo, ma anche sui suoi termini cronologici. Secondo molti studiosi il fenomeno va collocato fra gli anni ’70 dell’800 e la prima guerra mondiale. Altri ne spostano in avanti la data finale, comprendendovi la seconda guerra mondiale, o, come alcuni marxisti, lo considerano tuttora operante. In sede storica, si può comunque affermare che, se da un lato è scorretto identificare l’imperialismo col colonialismo (iniziato, fra l’altro, alcuni secoli prima), dall’altro non sarebbe utile dilatare fino ai giorni nostri l’estensione del concetto, staccandolo dal contesto in cui nacque e si affermò: che è appunto quello della grande espansione delle potenze europee tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
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unirono anche Stati privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente: la Germania, malgrado l’iniziale scetticismo di Bismarck sull’utilità delle colonie, il Belgio, l’Italia – fra le potenze europee, l’unica assente di rilievo fu l’Austria-Ungheria – e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli Stati Uniti. INTERESSI ECONOMICI E MOTIVAZIONI POLITICO-IDEOLOGICHE Le ragioni di questo fenomeno erano numerose e
Ÿ Il dominio imperialista fine XIX sec. In questa vignetta è disegnato un rappresentante dell’esercito coloniale britannico che schiaccia un militare egiziano. Il disegno, critico nei confronti della politica colonialista britannica, ritrae la vera essenza della politica imperialista europea: schiacciare le popolazioni autoctone e sottometterle alle proprie volontà.
complesse ed erano legate principalmente agli interessi economici. Un ruolo fondamentale ebbero, in questa direzione, la spinta all’accaparramento di materie prime a basso costo e la ricerca di sbocchi commerciali, che erano sempre stati i moventi principali della politica coloniale e che vennero assumendo un nuovo peso in coincidenza con la svolta protezionistica adottata dai paesi europei [Ź15_1]. Più recente era la spinta proveniente dall’accumulazione di capitali finanziari, alla ricerca di occasioni di investimenti ad alto profitto nei territori d’oltremare. Questi aspetti non devono però essere sopravvalutati: alla vigilia della prima guerra mondiale (1914-18), la Gran Bretagna indirizzava verso le nuove colonie conquistate dopo il 1870 appena il 3% dei suoi investimenti, la Francia il 9%. Inoltre, anche nell’età dell’imperialismo, gran parte del commercio mondiale si svolse tra i paesi industrializzati. Ciò non toglie nulla al fatto che proprio la prospettiva dei benefici economici ottenibili dalle colonie – teorizzati nelle opere di illustri economisti e al centro delle discussioni politiche e dell’opinione pubblica – finì con l’influenzare in modo decisivo le scelte dei governanti europei. LE CAUSE DELL’IMPERIALISMO
IMPERIALISMO
Fattori economici
Sviluppo industriale
Fattori politico-ideologici
Politiche protezioniste
Portarono alla ricerca di
Materie prime
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Sbocchi commerciali
Occasioni di investimento
Fattori culturali
Nazionalismo
Razzismo
Esplorazioni
Politica di potenza
Missione civilizzatrice dei bianchi
Fascino per l’esotico
Missioni evangelizzatrici
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C17 Gli imperi coloniali
Storiografia A. Stephanson, Il razzismo nell’ideologia colonialista
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Le motivazioni politico-ideologiche ebbero spesso un’importanza pari a quelle economiche. Esse affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e di politica di potenza, di razzismo e di spirito missionario. In Gran Bretagna, per esempio, l’idea di appartenere a una nazione eletta, che il premier conservatore Disraeli chiamava «una razza dominatrice, destinata dalle sue virtù a spargersi per il mondo», fu comune a scrittori come Thomas Carlyle e Rudyard Kipling e a uomini politici anche di estrazione liberale, come Joseph Chamberlain. Questo mito di una vocazione imperiale delle singole nazioni si legò a quello di una missione nel mondo della civiltà europea nel suo complesso. Kipling, per esempio, parlava di un «fardello dell’uomo bianco», ovvero del dovere dei bianchi europei di civilizzare le “popolazioni selvagge”. Così, il paternalismo si univa a un razzismo di matrice positivistica. Spesso l’azione coloniale era determinata anche dall’intento di prevenire e controbattere le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò rispondesse a un piano di conquista prestabilito. Il risultato fu comunque che, alla fine del processo di espansione, il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di influenza fra le maggiori potenze. ESPLORAZIONI E CONQUISTE L’interesse dell’opinione pubblica europea nei confronti delle colonie – già sollecitato dall’opera, per molti versi anticipatrice, dei missionari, da tempo impegnati nell’evangelizzazione dei popoli non cristiani – fu fortemente alimentato dall’eco delle grandi esplorazioni che, a partire
F
LEGGERE LE FONTI
Joseph Rudyard Kipling, Il fardello dell’uomo bianco J.R. Kipling, Poesie, Mursia, Milano 1987, pp. 126-29
Alla fine dell’800, l’idea del colonialismo come missione civilizzatrice si diffuse nei paesi occidentali, tanto tra i ceti dirigenti, quanto in grande parte dell’opinione pubblica. Uno dei sostenitori più convinti delle imprese coloniali fu lo scrittore e poeta britannico Joseph Rudyard Kipling (1865-1936), nato a Bombay (oggi Mumbay). Nella poesia Il fardello dell’uomo bianco (The White Man’s Burden), scritta
nel 1899, Kipling rappresenta quella anglosassone come una stirpe eletta e invita gli statunitensi, appena entrati in possesso delle Filippine, a non scoraggiarsi di fronte all’«ingratitudine» dei popoli sottomessi. Il poeta elogia la difficile missione dell’uomo bianco, incaricato di diffondere un messaggio di civiltà in terre inospitali. Un «fardello» da sostenere, che nobilita i colonizzatori.
Addossatevi il fardello del Bianco – Mandate i migliori della vostra razza – Andate, costringete i vostri figli all’esilio Per servire ai bisogni dei sottoposti; Per custodire in pesante assetto Gente irrequieta e sfrenata – Popoli truci, da poco soggetti, Mezzo demoni e mezzo bambini. […] Addossatevi il fardello del Bianco – Le barbare guerre della pace – Riempite la bocca della Carestia E fate cessare la malattia; E quando più la mèta è vicina, Il fine per altri perseguito, Osservate l’Ignavia e la Follia pagana Ridurre al nulla tutta la vostra speranza. […]
Addossatevi il fardello del Bianco – E cogliete la sua antica ricompensa: Le accuse di chi fate progredire, L’odio di chi tutelate – Il grido delle masse che attirate (Ah, lentamente!) verso la luce: «Perché ci avete tolto dalla schiavitù, La nostra amata notte egiziana?». […] Addossatevi il fardello del Bianco – Basta coi giorni dell’infanzia – L’alloro offerto con leggerezza, La lode facile e non lesinata. Mette ora alla prova la vostra maturità Per gli anni ingrati che attendono, Reso cauto da una dura esperienza, Il giudizio dei vostri pari!
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Individua e sottolinea i termini con i quali l’autore descrive le popolazioni destinate alla dominazione dell’uomo bianco.
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b Descrivi i compiti e le responsabilità che, secondo Joseph Rudyard Kipling, spettano alle potenze coloniali nei confronti dei paesi da assoggettare.
c Individua e spiega le parole chiave con le quali l’autore descrive le reazioni dei popoli colonizzati di fronte alla «missione civilizzatrice» dell’uomo bianco.
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STORIA IMMAGINE L’esploratore Pietro Savorgnan di Brazzà riceve una delegazione del re congolese Makoko 1882 Questa illustrazione, tratta da «L’Illustration» dell’8 luglio 1882, fa parte della ricca produzione di testi e immagini che fiorì durante il periodo coloniale. Le incisioni e le fotografie che accompagnavano questi testi erano fortemente stereotipate: ricorrenti, infatti, sono le scene in cui l’indigeno nudo è ritratto in atteggiamento di omaggio e devozione di fronte all’uomo bianco.
dalla metà del secolo, ebbero per teatro soprattutto l’Africa. In questo interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da esplorare, la curiosità scientifico-geografica tipica della cultura del positivismo, la moda dell’esotismo presente in molta letteratura della seconda metà dell’800, l’alone romantico da cui erano circondate – grazie anche all’amplificazione che la stampa faceva delle loro imprese – le figure dei grandi esploratori: il missionario scozzese David Livingstone che, già all’inizio degli anni ’50, esplorò per primo la zona del fiume Zambesi, nel cuore dell’Africa meridionale, e, nei vent’anni successivi, attraversò tutta l’Africa centro-meridionale, da un oceano all’altro; il giornalista americano di origine britannica Henry Morton Stanley che negli anni ’70 esplorò, per incarico del re del Belgio, il bacino del fiume Congo e pose le basi per la successiva conquista belga della regione, di cui divenne governatore; l’italo-francese Pietro Savorgnan di Brazzà che, nel decennio successivo, aprì la strada alla penetrazione francese in Africa equatoriale; il tedesco Karl Peters che, nello stesso periodo, esplorò l’Africa orientale per conto del governo tedesco.
Documento Joseph Conrad, L’“uomo preistorico”
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La conquista dell’Africa COLONIZZATORI E MISSIONARI
Gli sviluppi più spettacolari dell’espansione coloniale di fine ’800 si ebbero nel continente africano. Nel 1870 i paesi europei ne controllavano appena un decimo: i francesi occupavano l’Algeria e il Senegal, i portoghesi l’Angola e il Mozambico, i britannici la Colonia del Capo, ossia la parte meridionale dell’odierna Repubblica Sudafricana. Meno di quarant’anni dopo, i possedimenti europei comprendevano più dei nove decimi del continente. Contestualmente all’espansione coloniale europea, si assistette, nella seconda metà dell’800, a un rilancio dell’attività missionaria, soprattutto nelle zone di nuova colonizzazione come l’Africa centrale e meridionale. La Chiesa cattolica strinse accordi con diversi paesi europei, come Francia, Belgio e Italia, per partecipare con personale missionario alle rispettive avventure coloniali. L’AFRICA SETTENTRIONALE: TUNISIA ED EGITTO I primi atti della nuova espansione, che contribuirono in buona parte a innescare la gara di conquista che ne
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seguì, furono l’occupazione francese della Tunisia, nel 1881, e l’anno successivo quella britannica dell’Egitto. In entrambi i paesi, nominalmente appartenenti ancora all’Impero ottomano, ma di fatto resi indipendenti dai rispettivi governanti (il bey di Tunisi e il khedivè d’Egitto), le potenze europee avevano consistenti interessi economici e strategici. La Tunisia era rivendicata dalla Francia, già padrona della vicina Algeria, nonostante la presenza di consistenti interessi italiani. L’Egitto aveva acquistato un’importanza fondamentale per la Gran Bretagna dopo che, nel 1869, era stato aperto il Canale di Suez tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, che permetteva di raggiungere rapidamente l’Asia, e i possedimenti britannici in India, senza dover più circumnavigare l’intero continente africano. Negli anni ’70 sia l’Egitto sia la Tunisia si erano lanciati in ambiziosi programmi di modernizzazione che però avevano finito per provocare il dissesto delle finanze dei due paesi costringendo i governi, tra le proteste popolari, ad aumentare la pressione fiscale per far fronte ai debiti contratti con le banche europee. Proprio per tutelarsi contro il rischio di una bancarotta, Francia e Gran Bretagna, principali paesi creditori, scelsero la strada dell’intervento militare. La prima a muoversi fu la Francia che, avendo avuto mano libera dalle altre grandi potenze nel congresso di Berlino del 1878 [Ź16_4], trasse pretesto da un incidente avvenuto nel 1881 alla frontiera con l’Algeria per inviare un contingente militare a Tunisi e imporre al bey un regime di protettorato. Gli avvenimenti tunisini ebbero immediate ripercussioni in Egitto, dove la nascita di un forte movimento nazionalista, guidato dal colonnello Arabi Pascià, sembrò mettere in pericolo non solo il recupero dei crediti esteri, ma anche il controllo internazionale sul Canale di Suez. Nell’estate 1882, in seguito allo scoppio di moti anti-europei ad Alessandria, il governo britannico inviò in Egitto un corpo di spedizione che sconfisse gli egiziani e assunse il controllo del paese. Da allora l’Egitto, pur conservando la sua indipendenza formale, divenne di fatto una sorta di colonia britannica.
STORIA IMMAGINE Albert Rieger, Il Canale di Suez 1864 [Civico Museo Revoltella, Trieste] Il primo scavo di un canale di collegamento tra il Mediterraneo e il Mar Rosso si fa risalire al 1800 a.C.; in epoca romana lo scavo fu migliorato e prese il nome di “Canale di Traiano”, poi fu abbandonato all’incuria, causa del successivo interramento. Esistono progetti per il taglio di un canale attraverso l’istmo di Suez a opera dei veneziani nel ’400 e dei francesi nei secoli successivi, ma nessuno conobbe esiti concreti. Finalmente aperto nel 1869, il Canale di Suez fu inaugurato al cospetto dell’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, e all’ombra delle piramidi si svolse una fastosa rappresentazione dell’Aida di Giuseppe Verdi.
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Il dipinto qui riprodotto fu commissionato dall’imprenditore Pasquale Revoltella, personalmente impegnato nell’impresa di Suez al pittore e fotografo triestino Giuseppe Rieger (Trieste, 1802-1883), noto per le sue vedute ad olio e ad
acquerello. Rieger dipinse una veduta dall’alto del canale in via di costruzione e, per ottenere una resa topografica obiettiva, rinunciò alle regole canoniche della prospettiva che avrebbero comportato delle variazioni nelle forme degli oggetti.
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STORIA IMMAGINE Ź Vignetta satirica inglese, Sua maestà Leopoldo, re del Congo, nel costume nazionale 1908 Vignette satiriche e fotografie testimoniano l’atroce pratica di recidere gli arti in uso nello Stato indipendente del Congo. Le donne subivano amputazioni (piede, mano, naso, orecchio) nel caso i loro uomini non fossero tornati o ritardassero il rientro dalla raccolta della gomma. Stime approssimative sulle perdite umane dovute ai sistemi di sfruttamento in Congo all’epoca di Leopoldo II oscillano fra i 3 e i 10 milioni di morti.
Ÿ Una donna congolese inizio XX sec.
IL SUDAN Ben presto la Gran Bretagna si trovò impegnata nel Sudan, un vastissimo territorio sotto il controllo egiziano, dove era scoppiata una rivolta capeggiata dal Mahdi (profeta) Mohammed Ahmed, un carismatico leader islamico, fautore di una teocrazia musulmana che mirava ad allargare a tutto il mondo arabo. Il Mahdi lanciò le truppe sudanesi in una guerra santa contro le forze anglo-egiziane sconfiggendole a più riprese, conquistando la città di Khartum nel 1885 e fondando un proprio Stato che i britannici sarebbero riusciti a rovesciare solo nel 1898. LA CONQUISTA BELGA DEL CONGO
L’azione unilaterale della Gran Bretagna in Egitto provocò il risentimento della Francia, suscitando tra le due potenze una rivalità destinata a durare per quasi un ventennio, e contribuì a scatenare la corsa alla conquista dell’Africa nera. I primi contrasti tra i conquistatori europei si delinearono nel bacino del Congo. Qui re Leopoldo II del Belgio, sotto la copertura di una Associazione internazionale africana fondata nel 1876 con scopi apparentemente umanitari (evangelizzazione e lotta contro la tratta degli schiavi), si era costruito una sorta di impero personale. Dopo la scoperta di importanti giacimenti minerari nella regione del Katanga, il sovrano belga cercò di consolidare il suo dominio attraverso uno sbocco sull’Atlantico, ma suscitò l’opposizione del Portogallo, che rivendicava la foce del Congo per la contiguità con la sua antica colonia dell’Angola.
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LA CONFERENZA DI BERLINO E LA SPARTIZIONE DELL’AFRICA La questione del Congo fu oggetto di una conferenza internazionale convocata a Berlino, per iniziativa di Bismarck, nel 1884-85. Questa conferenza, oltre a dare una prima sanzione alla spartizione dell’Africa, codificò le norme che avrebbero dovuto regolarla anche nell’avvenire. Il principio adottato fu quello dell’effettiva occupazione, ufficialmente notificata agli altri Stati, come unico titolo valido per legittimare il possesso di un territorio. Questo principio, in realtà, lasciava larghi margini di incertezza – allora le occupazioni “effettive” si limitavano spesso a pochi scali commerciali posti nelle zone costiere – e stimolò anche un’accelerazione della corsa all’occupazione di territori ritenuti di qualche interesse economico o strategico. In concreto, la conferenza di Berlino riconobbe la sovranità personale di re Leopoldo sull’immenso territorio che poi sarebbe stato denominato Congo belga (dopo l’indipendenza Zaire e nel 1996 Repubblica democratica del Congo), ma che allora venne chiamato Stato libero del Congo – un paradossale eufemismo per indicare quella che fu, per il trattamento delle popolazioni e lo sfruttamento delle risorse, una delle forme più rapaci e disumane di dominio coloniale –, e gli assegnò un piccolo sbocco sull’Atlantico. Alla
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LEGGERE LE FONTI
Mark Twain, La colonizzazione e gli stermini nel Congo M. Twain, Soliloquio di re Leopoldo, Dedalo, Bari 1982, pp. 40-49
Gli orrori e le violenze della colonizzazione africana furono oggetto di accese denunce. Una delle più clamorose fu senza dubbio quella dello scrittore statunitense Mark Twain (1835-1910) contro il re del Belgio Leopoldo II, responsabile del brutale sfruttamento del Congo. Pubblicata nel 1905, sulla base dei resoconti dei giornali statunitensi e britannici,
l’opera è un immaginario lungo monologo del monarca, che descrive lo sterminio di milioni di uomini e donne realizzato dai colonizzatori europei nel paese africano. In queste pagine Twain rappresenta la cinica difesa del re di fronte alle accuse dei giornali e dell’opinione pubblica occidentale, sconvolta dalle notizie sull’uccisione di tante persone.
I miei detrattori non dimenticano di rilevare che, giacché sono un sovrano assoluto e con una parola posso impedire in Congo qualsiasi cosa decida di impedire, di conseguenza qualsiasi cosa venga fatta col mio permesso è una mia azione, una mia azione personale, la faccio io [...]. Pensano che sia assurdo. Vanno in giro a spargere raccapriccio, a rimuginare sulla diminuzione della popolazione del Congo da 25 milioni a 15 milioni nei vent’anni della mia amministrazione; poi sbottano e mi definiscono «il Re con 10 milioni di Omicidi sulla Coscienza». Mi definiscono un «record». E la maggior parte di loro per accusarmi non si limita solo ai 10 milioni. No, considerano che, se non fosse stato per me, la popolazione, per l’incremento naturale, sarebbe ora di 30 milioni, così me ne addebitano altri 5 milioni e calcolano che il totale del mio raccolto di morte è di 15 milioni di omicidi. [...] Molti cominceranno a chiedersi di nuovo, come già ora e in tempi passati, come posso sperare di ottenere e conservare il rispetto della razza umana se continuo a dedicare la mia vita ad omicidi e saccheggi. [Con sdegno.] Quando mai mi hanno sentito dire che volevo il rispetto della razza umana? Mi hanno confuso col volgo? Hanno dimenticato che sono un re? Quale re ha mai considerato prezioso il rispetto della razza umana? Nel profondo del suo cuore, intendo. Se riflettessero, saprebbero che è impossibile che un re consideri prezioso il rispetto della razza umana. [...] La specie umana, quando parla, sembra fatta da balene, ma un re sa che non è fatta che da girini. Lo dice la sua storia. Se gli uomini fossero davvero uomini, come sarebbe possibile uno zar? e come sarei possibile io? Ma noi siamo possibili; noi siamo totalmente al sicuro, e con l’aiuto di Dio continueremo così, alle vecchie condizioni. Si scoprirà che la specie continuerà a sopportarci nello stesso modo remissivo di sempre. Può, certo, sfoderare una faccia di disappunto, e fare un gran parlare, ma starà ugualmente in ginocchio. Fare un gran parlare è una delle sue specialità. Si eccita da sola, e ha la schiuma alla bocca, e proprio quando pensi che sta per lanciare un mattone... leva una poesia! Signore, che gente! PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Per quali ragioni gli accusatori di Leopoldo II definiscono il re del Belgio un “record”? b Quale sarebbe il totale delle vittime sterminate in Congo dalle politiche coloniali di Leopoldo II?
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c Per quale motivo Leopoldo II non ritiene possibile che un sovrano possa avere rispetto del genere umano? d Qual è la previsione di Leopoldo II in merito al corso degli eventi storici futuri?
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LO SPAZIO DELLA STORIA
L’AFRICA DEL SUD NEL 1899
Transvaal Stato libero dell’Orange Rhodesia Colonia del Capo, Basutoland e Beciuania (colonie britanniche)
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LE LINEE DIRETTRICI DELL’ESPANSIONE BRITANNICA La Gran Bretagna non si oppose alle conquiste francesi, che considerava di scarso interesse, e concentrò invece le sue mire sull’Africa sud-orientale, importante per il controllo dell’Oceano Indiano – e dunque per la sicurezza dei traffici con l’India. Fra il 1885 e il 1895, partendo dalla Colonia del Capo e muovendosi per lo più in appoggio alle iniziative delle grandi compagnie private, i britannici risalirono il continente fino al bacino dello Zambesi e al lago Niassa, mentre più a nord si impadronivano del Kenya e dell’Uganda, ossia dei territori compresi fra le sorgenti del Nilo, il lago Vittoria e l’Oceano Indiano. La tendenza era quella di saldare i possedimenti britannici a sud dell’equatore con quelli della regione del Nilo, assicurandosi un L’AFRICA NEL 1914 39 dominio ininterrotto dall’estremità meridionale a quella settentrionale del continente. Questo disegno, però, IMPERO OTTOMANO si scontrava con la presenza della Germania che dal 1885 si era assicurata il controllo dell’area a est del lago Tripoli Il Cairo Tanganika e a sud del lago Vittoria. Il EGITTO LIBIA contrasto fu regolato da un accordo Nilo
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Francia andarono i territori sulla riva destra del fiume (l’attuale Repubblica del Congo). In Africa occidentale, la Germania, ultima arrivata nella corsa alle colonie, si vide riconosciuto il protettorato sul Togo e sul Camerun. La Gran Bretagna ebbe il controllo del basso Niger (l’attuale Nigeria), mentre la Francia si assicurò il possesso dell’alto corso del fiume. Partendo da questa regione, in dieci anni di sanguinose guerre di conquista contro gli Stati musulmani del Sahara, i francesi riuscirono ad assicurarsi il possesso di territori immensi, anche se in gran parte desertici, che si estendevano dall’Atlantico al Sudan, dal bacino del Congo al Mediterraneo.
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LO SPAZIO DELLA STORIA
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Fra il 1884 e il 1914 si definì la spartizione coloniale dell’Africa. Le più importanti modifiche seguite alla prima guerra mondiale furono la suddivisione dei possedimenti tedeschi fra Gran Bretagna e Francia e, dopo la guerra del 1935-36, il passaggio dell’Etiopia sotto il dominio italiano. Nel 1912 il Marocco diventa protettorato francese.
possedimenti coloniali britannici francesi portoghesi spagnoli tedeschi italiani belgi Impero ottomano
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nel 1890: la Gran Bretagna riconobbe l’Africa orientale tedesca, rinunciando al sogno del dominio «dal Capo al Cairo», ricevendo in compenso l’isola di Zanzibar, nodo importantissimo delle rotte commerciali nell’Oceano Indiano, e ottenendo di tener lontana la Germania dalla regione dell’alto Nilo, considerata essenziale per il controllo dell’Egitto. TENSIONI TRA FRANCIA E GRAN BRETAGNA Proprio in questa regione i britannici si trovarono in rotta di collisione con i francesi che, nella loro marcia dalla costa atlantica verso l’interno dell’Africa, si erano spinti fino al Sudan. Nel settembre del 1898 un contingente dell’esercito britannico, allora impegnato nella riconquista del Sudan, si incontrò con una colonna francese che aveva occupato la fortezza di Fashoda sul Nilo. L’incontro rischiò di trasformarsi in un conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Ma il governo francese, che non era preparato a una guerra, ritirò le sue truppe e rinunciò alle sue mire sulla regione. Ne seguì una distensione nei rapporti franco-britannici, che avrebbe poi aperto la strada a una più stretta intesa fra le due potenze. All’inizio del ’900 la spartizione dell’Africa era pressoché completa. Oltre alla piccola Repubblica di Liberia (fondata nel 1822 da ex schiavi neri degli Stati Uniti), restavano indipendenti solo l’Impero etiopico e, ancora non per molto, la Libia (sotto il dominio ottomano), il Marocco e le Repubbliche boere del Sudafrica. Tutto il resto del continente era diviso in colonie e in protettorati di nome o di fatto, separati da confini spesso arbitrari, tracciati sulla carta geografica – a volte in corrispondenza di meridiani e paralleli – senza tenere alcun conto delle divisioni tribali e delle diverse realtà etnico-linguistiche.
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Le guerre boere In Africa australe (o meridionale) l’imperialismo della Gran Bretagna si scontrò con un nazionalismo locale anch’esso di origine europea, quello boero, scatenando un inedito conflitto coloniale tra due popoli bianchi e cristiani. LE REPUBBLICHE BOERE I boeri erano i discendenti degli agricoltori olandesi che nel ’600 avevano colonizzato la regione del Capo di Buona Speranza – che fu denominata Colonia del Capo –, ai quali si erano aggiunti immigrati ugonotti francesi, ed erano caduti sotto la sovranità della Gran Bretagna quando questa aveva ottenuto la colonia al tempo delle guerre napoleoniche. Per sfuggire alla sottomissione, molti di loro avevano dato vita a un massiccio esodo verso nord – il cosiddetto Grande Trek, ossia “grande marcia” –, dove avevano fondato le due Repubbliche dell’Orange (1845) e del Transvaal (1852). Alla fine degli anni ’60 la scoperta di importanti giacimenti di diamanti nel Transvaal risvegliò l’interesse della Gran Bretagna, che lasciò mano libera alla politica aggressiva della classe dirigente della Colonia del Capo, minacciata dalla crescita economica delle due repubbliche. IL PROGETTO IMPERIALISTA DELLA GRAN BRETAGNA Se nella prima guerra boera (1880-81) i britannici vennero sconfitti e il Transvaal riuscì a mantenere una propria autonomia, nel periodo successivo la politica britannica si fece più aggressiva. Protagonista e promotore principale se ne fece Cecil Rhodes, politico e uomo d’affari, presidente e padrone della British South Africa Company, primo ministro della Colonia del Capo fra il 1890 e il 1898. Rhodes mise una
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colossale fortuna personale, accumulata con il quasi-monopolio della produzione diamantifera, al servizio di un disegno imperiale: sua fu l’idea di estendere la sovranità britannica «dal Capo al Cairo». Proprio grazie alla sua frenetica attività, la Gran Bretagna poté espandere i suoi domìni in buona parte dell’Africa meridionale, fino alla zona dello Zambesi – che appunto da Rhodes avrebbe avuto il nome di Rhodesia –, circondando completamente le due Repubbliche boere. Un ulteriore elemento di tensione fu costituito dalla scoperta, nel 188586, di nuovi giacimenti auriferi nell’Orange e nel Transvaal, che attirò nelle due repubbliche un gran numero di immigrati (uitlanders), soprattutto di origine britannica. In questo afflusso di forestieri i boeri videro l’inizio di un processo che minacciava di stravolgere il carattere patriarcale e contadino della loro società: una società che coltivava il mito della propria indipendenza e superiorità, che si ispirava a un calvinismo rigidamente conservatore e si fondava sull’imposizione agli indigeni di un regime di semischiavitù, avversato invece dai britannici. Gli uitlanders furono duramente discriminati e Rhodes ne appoggiò la protesta. LA SCONFITTA DEI BOERI
La tensione crebbe ulteriormente finché, nell’ottobre del 1899, il presidente del Transvaal, Paul Krüger, dichiarò guerra alla Gran Bretagna. La seconda guerra boera fu lunga e sanguinosa. I boeri combatterono con grande tenacia, riportando all’inizio notevoli successi e suscitando un’ondata di simpatie nell’opinione pubblica europea, soprattutto in quella tedesca. Anche dopo la sconfitta – che si consumò nel maggio 1902 e fu seguita dall’annessione del Transvaal e dell’Orange all’Impero britannico – i boeri condussero un’accanita lotta di resistenza che durò vari anni e fu piegata dai britannici solo con una serie di spietate azioni antiguerriglia. In seguito l’Orange e il Transvaal ottennero uno statuto di autonomia simile a quello della Colonia del Capo, alla quale vennero uniti nel 1910, dando vita all’Unione sudafricana. Britannici e boeri avrebbero poi trovato un terreno concreto di collaborazione nello sfruttamento delle immense risorse del paese e nella politica di dura segregazione praticata ai danni della popolazione nera.
STORIA IMMAGINE Frank Arthur Nankivell, La religione dei boeri [illustrazione della copertina della rivista americana «Puck», 7 febbraio 1900] L’immagine sintetizza il carattere del popolo boero: un uomo, seduto su una roccia, tiene in grembo un fucile e in mano una Bibbia; di fronte a lui un bambino con un fucile giocattolo;
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in fondo, una donna (probabilmente moglie e madre dei due in primo piano). La didascalia della vignetta riporta il dialogo fra il padre e il figlio. Quest’ultimo chiede: «Padre, se stessi portando la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra e il nemico si stesse avvicinando, quale dovrei far cadere per primo?»; la risposta del padre è eloquente: «Il nemico, figlio mio!».
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STORIA IMMAGINE John S. Pugh, La rana che cercò di essere grande quanto un toro 1900 [Library of Congress, Washington] La vignetta satirica commenta il conflitto anglo-boero, richiamandosi alla fiaba di Esopo che vede come protagonista una rana, la quale, nel tentativo di assomigliare a un toro, si gonfia così tanto da scoppiare. Nei pressi di uno stagno, il presidente della Repubblica del Transvaal, Paul Krüger, interpreta il ruolo
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della rana, con la tipica barba boera e la cartucciera a tracolla. Nei pressi, appena nascosto dalle canne, il toro britannico, con il volto di Joseph Chamberlain
(all’epoca segretario di Stato per le colonie) e il tipico casco coloniale britannico, sta a guardare con aria pensierosa.
La conquista dell’Asia LA PRESENZA EUROPEA IN ASIA A differenza di quanto accadeva in Africa, agli inizi dell’età dell’imperialismo gli europei avevano già messo radici profonde nel continente asiatico. I britannici, oltre all’India, possedevano Ceylon (attuale Sri Lanka), Hong Kong, Singapore e numerose basi nell’Oceano Indiano e nel Sud-Est asiatico. Gli olandesi dominavano l’arcipelago indonesiano. I portoghesi controllavano Macao in Cina, Goa in India e una parte dell’isola di Timor. La Spagna possedeva le Filippine (che passarono agli Stati Uniti nel 1898: Ź16_9). La Russia aveva avviato da oltre un secolo la sua espansione verso la Siberia e l’Asia centrale. La Francia, ultima a giungere sul continente, aveva gettato negli anni ’50 le basi di un vasto dominio nella penisola indocinese. A dare nuovo impulso alla corsa verso oriente contribuì potentemente l’inaugurazione del Canale di Suez, avvenuta nel novembre 1869 dopo dieci
I POSSEDIMENTI COLONIALI DELLE POTENZE EUROPEE IN AFRICA E ASIA ALLA FINE DELL’800 AFRICA
ASIA
Gran Bretagna
Sudan, Niger, Colonia del Capo (dal 1910 nell’Unione sudafricana con le ex Repubbliche boere), Kenia, Uganda, Zanzibar
India, Ceylon, Hong Kong, Singapore, Birmania, isole del Pacifico (Fiji, Marianne e Salomone) e Nuova Guinea (spartita con la Germania)
Francia
Tunisia, Algeria, Congo francese, regione del Sahara
Indocina, Laos
Belgio
Congo belga
/
Portogallo
Angola, Mozambico e Guinea portoghese
Macao, Goa e isola di Timor
Germania
Togo, Camerun, Africa occidentale e Africa orientale tedesca
Nuova Guinea (spartita con la Gran Bretagna)
Olanda
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Indonesia
Italia
Eritrea
/
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anni di lavori: questo canale artificiale, che tagliò l’istmo di Suez, mise in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso, abbreviando di parecchie settimane i collegamenti marittimi fra l’Europa e l’Asia. La nuova via d’acqua, gestita da una compagnia internazionale controllata da Francia e Gran Bretagna, sanzionava e simboleggiava la supremazia tecnica e commerciale dell’Europa e ne facilitava l’espansione verso il continente asiatico.
CAR NAT IC
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L’INDIA BRITANNICA L’India fu a lungo amministrata dalla Compagnia delle Indie orientali, che agiva come un rappresentante del governo britannico. A metà ’800 il territorio controllato era vastissimo – si estendeva su buona parte dell’area oggi occupata da India, Pakistan e Bangladesh – e, con una popolazione in continua crescita (130 milioni nel 1845, oltre 200 nel 1881), offriva ampi sbocchi di mercato per i manufatti provenienti dalla Gran Bretagna, verso la quale venivano invece esportati grandi quantità di tè e di cotone. Cent’anni di dominazione britannica non avevano mutato di molto i caratteri della società indiana. L’effetto principale della presenza britannica era stato quello di distruggere, con l’importazione di tessuti dal Regno Unito, l’industria cotoniera locale, abbastanza estesa anche se a livello artigianale. Il potere statale, formalmente ancora rappresenLO SPAZIO L’INDIA BRITANNICA A METÀ ’800 40 tato dall’antico Impero Moghul, era DELLA STORIA carente o addirittura assente: il senso dell’appartenenza alla casta o alla coKabul KASHMIR munità locale prevaleva su qualsiasi AFGHANISTAN legame con l’autorità centrale. I colonizzatori britannici si erano PUNJAB appoggiati sulle gerarchie sociali preo TIBET esistenti – i signori locali, i sacerdoti Ind Brahmaputra Delhi HIM RAJPUTANA induisti (brahmini) – per assicurare il ALA YA OUDH Jodhpur NEP Agra mantenimento dell’ordine e la riscosAL Hyderabad Lucknow Darjiling SINDH sione delle imposte. I loro tentativi di l Kanpur Benares ba AR m J H a u I avviare un prudente processo di momn Gange B Ch a Ahmedabad ALTA dernizzazione, diffondendo la cultura BENGALA da BIRMANIA Baroda Narma occidentale e combattendo alcune delle Chandernagor Diu Calcutta Surat (fr.) Nagpur pratiche più crudeli della tradizione (port.) A Dama˜o ISS (port.) induista – come l’usanza di bruciare le OR Godavar Bombay i vedove insieme con i cadaveri dei mariti HYDERABAD MARE (NIZAM) –, provocarono reazioni di stampo ARABICO Vijagapatnam Hyderabad tradizionalistico-religioso. La più Yanaon (fr.) a Goa importante fu la cosiddetta rivolta dei Kistn (port.) GOLFO Nellore COSTA DEL Sepoys, scatenata nel 1857 da un amPenn DEL BENGALA COROMANDEL er COSTA DEL Mangalore MYSORE mutinamento dei reparti indigeni dell’eMadras MALABAR Couv Arcot (fr.) Mahé ery Pondichéry (fr.) sercito (chiamati appunto Sepoys). Andamane Fort St. David Calicut Tranquebar Questa rivolta, che richiese una lunga Tiruchirapalli Cochin Karikal (fr.) e sanguinosa repressione, indusse il Madura TRAVANCORE governo britannico a riorganizzare la Trincomali OCEANO CAPO COMORIN CEYLON propria presenza in India. Nel 1858 la INDIANO Colombo Compagnia delle Indie fu soppressa e il paese passò sotto la diretta amminipossedimenti britannici strazione della Corona, rappresentata nel 1805 da un viceré. L’esercito e la burocrazia vennero ristrutturati: furono promossi conquiste dal 1805 al 1858 gli elementi indigeni e i notabili fedeli al Regno Unito, affiancandoli a elementi Stati dipendenti britannici. La costruzione di nuove ferrovie consentì non solo un incremento degli dalla Gran Bretagna
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STORIA IMMAGINE La regina Vittoria e un principe indiano [National Portrait Gallery, Londra] Il dipinto raffigura la regina Vittoria che regala una Bibbia a un principe indiano durante un’udienza al Palazzo di Windsor. L’imperialismo non fu solo un fenomeno economico e politico ma anche culturale: tutta la civiltà europea cercava di diffondere nelle colonie le proprie tradizioni e valori.
Storiografia 88 T. Ballantyne, A. Burton, Modernità imperiale e ferrovie, p. 583
scambi, ma anche un più stretto controllo militare su tutto il territorio indiano. Nel 1876, a coronamento di quest’opera di riorganizzazione, la regina Vittoria fu proclamata imperatrice delle Indie. LA FRANCIA IN INDOCINA Negli anni ’50 i francesi, spinti dalla concorrenza con i britannici, cominciarono ad avanzare in Indocina. La penisola indocinese, abitata da popolazioni di religione buddista, era divisa in una serie di regni dipendenti dall’Impero cinese: i più importanti erano quello dell’Annam (oggi Vietnam), quello del Siam (oggi Thailandia) e quello della Cambogia. All’inizio i francesi si limitarono a costruire qualche stazione commerciale accanto alle numerose missioni cattoliche già da tempo presenti nella regione. Furono proprio le persecuzioni contro i missionari a fornire alla Francia il pretesto per un intervento militare: nel 1862 venne occupata la Cocincina, ossia la parte meridionale del Regno dell’Annam e, l’anno dopo, fu imposto il protettorato alla Cambogia. Una seconda fase dell’espansione francese in Indocina si aprì all’inizio degli anni ’80. Dopo una guerra con la Cina (1883-85), la Francia riuscì a estendere il suo protettorato a tutto l’Annam. Dal canto suo la Gran Bretagna, per evitare che i possedimenti francesi giungessero a ridosso dell’India, tra il 1885 e il 1887 procedette all’occupazione del Regno di Birmania. La Francia rispose, nel 1893, assicurandosi il controllo del Laos. Quanto al Siam, Gran Bretagna e Francia si accordarono per mantenerlo indipendente come Stato-cuscinetto. LA COLONIZZAZIONE RUSSA E LA SPARTIZIONE DEGLI ARCIPELAGHI DEL PACIFICO Intanto l’Impero russo seguiva in Asia due direttrici di espansione: la
prima verso la Siberia e l’Estremo Oriente, la seconda verso l’Asia centrale. La colonizzazione della Siberia, che ebbe un decisivo impulso già a partire dagli anni ’30, fu realizzata soprattutto sotto la spinta e il controllo dell’autorità statale, contrariamente a quanto avveniva negli Stati Uniti, dove l’espansione verso ovest era dovuta alla libera iniziativa individuale. I risultati furono comunque notevoli: nella prima metà dell’800 la Siberia vide più che raddoppiata la sua popolazione
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Ÿ Detenuti russi a lavoro lungo la Transiberiana [Library of Congress, Washington]
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e notevolmente incrementate le attività produttive e commerciali. La Russia cercò anche di consolidare le proprie posizioni strategiche verso la Cina e il Pacifico: nel 1860 impose alla Cina la cessione di due distretti – Ussuri e Amur – e avviò la costruzione del porto di Vladivostok sul Mar dell’Est o Mar del Giappone. Il governo zarista ritenne invece opportuno rinunciare all’Alaska, dove fin dal 1799 operava una compagnia privata russa: il territorio, il cui controllo fu giudicato troppo costoso dal punto di vista economico e militare, venne venduto agli Stati Uniti nel 1867 per 7 milioni di dollari. Nel 1891, quasi a sancire il completamento di uno sterminato impero che si estendeva senza soluzione di continuità dal Baltico al Pacifico, fu avviata la costruzione della ferrovia Transiberiana, la più lunga del mondo che, una volta completata nel 1904, collegò Mosca a Vladivostok con un percorso di oltre 9 mila km. In Asia centrale l’Impero zarista riuscì a incamerare, fra 1876 e 1885, l’intera regione del Turchestan: una zona importante in quanto forte produttrice di cotone, ma pericolosamente vicina alle frontiere dell’India. Proprio in questa area, tra Turchestan, Afghanistan e Pakistan, Russia e Gran Bretagna si fronteggiarono a lungo fino a quando, nel 1885, giunsero a un accordo per definire le frontiere tra il Turchestan e il Regno dell’Afghanistan, che restò indipendente, ma sotto l’influenza britannica. Mentre si compiva la spartizione dell’Asia, anche gli arcipelaghi del Pacifico vennero inglobati negli imperi coloniali, soprattutto in quelli britannico e tedesco. La Gran Bretagna, che già dominava su Australia e Nuova Zelanda, occupò le isole Fiji, le Salomone e le Marianne, mentre la Nuova Guinea fu divisa fra tedeschi e britannici. Inoltre alla colonizzazione nell’area del Pacifico parteciparono anche gli Stati Uniti e il Giappone.
Gli europei in Cina L’ISOLAMENTO CINESE Dall’inizio dell’800 l’Impero cinese era rimasto pressoché inaccessibile ai viaggiatori e ai commercianti occidentali. Non aveva neanche relazioni diplomatiche con l’esterno, in omaggio all’idea che l’imperatore fosse l’unica fonte di potere sulla Terra e che gli altri sovrani potessero avere con lui solo rapporti di vassallaggio. Agli stranieri era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza. Da tempo ormai la società cinese, irrigidita e chiusa in sé stessa, aveva perso quel primato scientifico e tecnologico di cui aveva goduto fino al ’700. Il ceto burocratico dei mandarini [Ź5_4], profondamente tradizionalista e legato alla propria formazione filosofico-letteraria, ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il risultato fu che, al primo traumatico scontro con l’Occidente, la Cina imperiale entrò in una crisi irreversibile.
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STORIA IMMAGINE Il porto internazionale di Canton 1850 [Aabenraa Museum, Aabenraa (Danimarca)]
Il dipinto mostra una veduta dell’area portuale di Canton, l’attuale città cinese di Guangzhou, tra il 1850 e il 1860. Le bandiere che sventolano sugli edifici (istituti commerciali) sono quelle delle nazioni che intrattengono rapporti commerciali con il paese:
ź La distruzione dell’oppio nel 1839 XIX sec. [Museum of Art, Hong Kong] Nel 1839 il governo cinese fa distruggere 1300 tonnellate di oppio per un valore di circa 3 milioni di sterline. Le operazioni di smaltimento richiedono 23 giorni e il lavoro di 500 operai che frantumano nelle trincee le balle di oppio, sciogliendole nell’acqua posta nelle buche.
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da sinistra, la bandiera di Amburgo e poi quelle degli Stati Uniti, della Francia, della Gran Bretagna e della Danimarca. Tra le imbarcazioni cinesi e occidentali si nota anche una nave a vapore battente bandiera britannica.
LE GUERRE DELL’OPPIO Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni ’30 fra il governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio dell’oppio. La droga, prodotta in grandi quantità nelle piantagioni indiane, veniva esportata clandestinamente in Cina, dove il suo consumo era largamente diffuso, benché ufficialmente proibito da oltre un secolo. Era nata così un’acuta tensione tra la Cina e la Gran Bretagna, la principale responsabile e beneficiaria del traffico. Quando, nel 1839, un funzionario cinese fece sequestrare il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il governo britannico decise di intervenire militarmente. Dopo una guerra durata più di due anni, i britannici ebbero partita vinta, conquistando tutti gli accessi agli estuari dei grandi fiumi e dei porti cinesi. Con il trattato di Nanchino del 1842, la Cina dovette cedere alla Gran Bretagna la città di Hong Kong, situata su un’isola costiera vicina al grande porto fluviale di Canton, e aprire al commercio straniero altri quattro porti, fra cui Shanghai. Questa prima guerra dell’oppio, mettendo a nudo la debolezza militare della Cina e aprendola alla penetrazione commerciale europea, ebbe il duplice effetto di sconvolgere gli equilibri sociali su cui si reggeva l’Impero e di far convergere su di esso le mire espansionistiche di altre potenze. Così, nel decennio 1850-60, la Cina si trovò ad affrontare contemporaneamente una gravissima crisi interna – culminata nella lunga e sanguinosissima ribellione contadina nota come rivolta dei Taiping – e un nuovo sfortunato scontro con la Gran Bretagna, coadiuvata questa volta dalla Francia. Il conflitto, chiamato impropriamente seconda guerra dell’oppio, cominciò nel 1856 in seguito all’attacco a una nave britannica nel porto di Canton e si concluse quattro anni dopo con una nuova capitolazione della Cina, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie fluviali interne e a stabilire normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali.
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
6 Storia e educazione ambientale Economia coloniale e ambiente, p. 533
Storiografia 84 W. Reinhard, Lo sfruttamento economico delle colonie, p. 577
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Il dominio coloniale I CARATTERI DELLA CONQUISTA Nel corso della sua espansione coloniale, l’Europa portò in tutto il mondo l’impronta della sua tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito non ne portò la faccia migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono segnate dall’uso sistematico e indiscriminato della violenza contro le popolazioni indigene, da un campionario di crudeltà sconosciuto agli ultimi conflitti combattuti sul Vecchio Continente. Soprattutto nell’Africa nera, dove più schiacciante era la superiorità tecnologica degli europei, le frequenti rivolte delle popolazioni locali contro i nuovi dominatori si concludevano spesso con veri e propri massacri: fu terribile, per esempio, quello perpetrato dai tedeschi nell’Africa del Sud-Ovest ai danni della tribù bantu degli Herero, che venne quasi completamente sterminata. SVILUPPO E SFRUTTAMENTO Dal punto di vista economico, l’esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi sui paesi che ne furono investiti: vennero messe a coltura nuove terre, introdotte nuove tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività industriali e commerciali, esportati migliori ordinamenti amministrativi e finanziari. Ma tutto ciò avveniva a prezzo di un continuo impoverimento di risorse materiali e umane, ovvero di un vero e proprio sfruttamento coloniale: i lavoratori indigeni, infatti, venivano pagati per lo più con salari irrisori, quando non erano costretti a forme di lavoro forzato. La trasformazione delle economie dei paesi sottomessi, che furono generalmente orientate verso l’esportazione, ebbe un doppio esito: in molti casi portò alla rottura di sistemi economici di pura sussistenza, basati sul circolo vizioso dell’autoconsumo e della povertà; in altri, invece, stravolse un meccanismo produttivo modellato in funzione del mercato interno. Fu comunque messo in moto un processo di sviluppo in funzione degli interessi dei colonizzatori. Nuovi paesi entrarono in un più vasto mercato mondiale, ma vi entrarono in una posizione dipendente: passarono cioè dalla povertà al sottosviluppo. POLITICA DELLA RAZZA E STRATIFICAZIONI SOCIALI Il razzismo condizionò la politica degli Stati europei nelle colonie. Ovunque furono “censite le razze” e accentuate le divisioni all’interno delle società indigene anche allo scopo di controllare meglio i colonizzati. Le nuove città coloniali furono spesso caratterizzate da quartieri separati e dalla creazione di “confini” che dividevano la vita degli indigeni da quella degli europei: anche in alcuni centri fondati dagli italiani in Eritrea e Libia, per esempio, furono tracciate “linee” per separare gli spazi destinati agli africani da quelli destinati ai bianchi. In generale, dunque, il razzismo era largamente diffuso nelle società coloniali. Non bisogna però immaginare i rapporti tra colonizzatori e colonizzati dominati esclusivamente da pregiudizi razzisti. Nelle colonie, a volte, si instaurarono legami di solidarietà tra i funzionari europei e i notabili locali proprio in virtù della comune appartenenza agli strati superiori delle rispettive società. Accadde così, per esempio, nell’India britannica di fine ’800, dove gli aristocratici inviati dalla Corona ad amministrare la colonia non esitavano a considerare i notabili indiani “superiori” ai britannici di basso ceto. Per molti aspetti, infatti, i governatori cercarono di riprodurre in India la stessa rigida struttura di distinzione di classe presente nel Regno Unito, preoccupandosi di trattare con riguardo gli elementi locali che consideravano loro pari rango.
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C17 Gli imperi coloniali
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STORIA IMMAGINE Uomo d’affari in una fabbrica di malacca in Malesia 1875
Numerosi imprenditori europei stabilirono impianti nei diversi domìni coloniali per la lavorazione dei più svariati manufatti, quasi sempre destinati a rientrare in Europa per essere commercializzati. Questo tipo di impresa, se da un lato forniva lavoro (anche se
animismo È così definita la credenza in esseri spirituali che animano ogni elemento naturale.
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molto mal pagato) alle popolazioni locali, dall’altro non portava benefici alla loro economia. Nella foto, una manifattura per la lavorazione della malacca, o canna d’India, utilizzata per bastoni, manici di ombrelli, ecc.
L’IMPATTO SOCIALE E CULTURALE DELLA COLONIZZAZIONE Gli effetti della colonizzazione sulle culture dei paesi afro-asiatici furono drammatici, pur variando a seconda delle diverse realtà locali e delle diverse politiche attuate dai paesi colonizzatori: quella britannica, per esempio, fu più rispettosa degli usi locali, mentre quella francese risultò più oppressiva nel tentativo di introdurre elementi di modernizzazione forzata. I sistemi culturali legati a strutture politico-sociali e religiose bene organizzate e con una solida tradizione alle spalle – come quelli dell’Asia e del Nord Africa – si difesero meglio, opponendo una resistenza più consapevole e assimilando in qualche misura gli apporti esterni. Ben diverso, invece, fu il caso dell’Africa più arcaica e animista*. Qui l’effetto dell’incontro con la civiltà del colonizzatore fu dirompente: le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali, religiose e linguistiche prodotte dalla presenza degli europei alterarono dalle fondamenta non solo gli equilibri secolari delle comunità di tribù e di villaggio, ma gli stessi universi culturali che ne erano espressione. Interi sistemi di vita, di riti e di credenze, di costumi e di valori entrarono rapidamente in crisi. Nei molti casi in cui mancava una tradizione scritta, rimasero a malapena tracce delle culture “cancellate”. Sul piano politico, però, l’espansione coloniale finì per favorire, in tempi più o meno lunghi, la formazione o il risveglio di nazionalismi locali a opera soprattutto di nuovi dirigenti formatisi proprio nelle scuole europee, dove avevano avuto la possibilità di assorbire gli ideali democratici e i princìpi del nazionalismo. L’Europa si trovò così a esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere il proprio destino.
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LEGGERE UNA CARTA STORICA
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
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Gli imperi coloniali tra fine ’800 e inizio ’900
Alaska (USA)
Canada 5,0
33,5 O
USA c
Tra il 1880 e il primo decennio del XX secolo le potenze europee – Gran Bretagna e Francia per prime, ma anche Olanda, Spagna, Portogallo – ingrandiscono i loro imperi coloniali in Asia, nel Pacifico e in Africa. Altri paesi ne imitano subito l’esempio, acquistando propri possedimenti coloniali: Germania, Belgio, Italia. La Conferenza di Berlino (1884-85) fissa le regole della spartizione del pianeta tra i paesi colonizzatori e così, nel 1914, l’Europa domina su tutti i continenti. Le potenze coloniali europee esercitano direttamente la loro sovranità su popoli che perdono la loro indipendenza, oppure impongono indirettamente la loro egemonia politica ed economica. Dall’incontro/scontro tra gli europei e le civiltà locali si originano delle società basate su una profonda ineguaglianza, nelle quali prende comunque avvio un processo di acculturazione. Le ragioni dell’imperialismo europeo vanno ricercate nel dinamismo demografico delle società industriali, nella loro potenza commerciale e finanziaria, nella superiorità tecnologica e militare, infine nel particolare sentimento di superiorità culturale che induce gli europei a credere di essere investiti di una missione: quella di “civilizzare” gli altri popoli, ritenuti inferiori.
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Colombia
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Cile i
1 Perché nel 1914 si parla di dominazione europea nel mondo? 2 Quale continente è il più colonizzato dagli europei? Ricordi quale accordo diplomatico ne fissa le regole di spartizione? Secondo quali princìpi? 3 Qual è il più vasto impero coloniale europeo? 4 Metti a confronto gli imperi coloniali britannico e francese in termini di presenza su scala continentale. 5 In che cosa questi due imperi si differenziano dagli altri imperi europei? 6 Attraverso quali altri mezzi gli europei controllano il mondo? 7 Quali Stati sovrani sono sottoposti all’influenza economica europea? 8 In quale continente si trovano i possedimenti coloniali tedeschi, belgi e italiani?
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LEGGERE E INTERPRETARE
Argentina 2,5
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C17 Gli imperi coloniali
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Europa
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India Goa (port.)
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Giappone
Cina Hong Macao Kong (port.) (br.)
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Impero ottomano
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Etiopia
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Brasile
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3,6 Madagascar Australia 2,0 Unione Sudafricana a
Nuova Zelanda
Cile
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Possedimenti inglesi
Possedimenti belgi
Possedimenti francesi
Possedimenti olandesi
Possedimenti tedeschi
Possedimenti spagnoli
Possedimenti portoghesi
Stati africani indipendenti
Possedimenti italiani
Possedimenti giapponesi
Paesi sovrani sotto l’influenza economica europea
Canada Dominions britannici 5,0
Principali immigrazioni di origine europea in milioni
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ARTE E STORIA
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
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Il fascino per l’esotico nella pittura di Gauguin La vita del pittore francese Paul Gauguin (1848-1903) racconta molto del nuovo rapporto con il mondo che gli uomini e le donne europei sperimentarono in quegli anni: nascita a Parigi, infanzia a Lima, in Perù, giovinezza nella marina mercantile francese, poi di nuovo in Francia con un lavoro regolare e per mettere su famiglia, in fuga dalla vita cittadina verso la Bretagna e poi di nuovo verso l’America Latina, con molti ripensamenti e ritorni. Il suo percorso doveva assomigliare a molte delle biografie di coloro che nell’800 approfittarono dell’allargamento degli spazi europei oltremare per rispondere al richiamo dell’avventura. Gauguin si avvicinò alla pittura da dilettante quando già aveva cinque figli e un lavoro da impiegato. Una passione che divenne presto la missione di una vita, facendolo avvicinare prima al gruppo degli impressionisti, la principale tendenza artistica francese di quegli anni, poi ad alcuni artisti impegnati a semplificare le forme della pittura: Paul Cézanne (1839-1906), Vincent Van Gogh (18531890), Émile Bernard (1868-1941). Soprattutto con quest’ultimo il sodalizio fu particolarmente intenso. Già fuggito dalla vita cittadina e dai suoi doveri familiari per ritirarsi in Bretagna, dopo un lungo soggiorno a Panama e in Martinica, nell’America centrale, Gauguin tornò in Francia per fondare insieme a Bernard la Scuola di Pont-Aven. Rispetto agli impressionisti, gli artisti raccolti in questa città bretone non si accontentavano di rappresentare l’“impressione”, l’effetto della realtà sull’occhio dello spettatore, ma aspiravano quasi a cogliere la struttura delle cose. Gauguin disse di ispirarsi anche alle stampe giapponesi che arrivavano dall’Oriente e dipingeva soggetti semplici, coloratissimi ma racchiusi dentro linee ben definite e molto scure. L’obiettivo era rendere le figure semplicissime, senza orpelli o effetti ottici, per come erano realmente. Questo desiderio di superare il naturalismo, la rappresentazione realista del mondo, per avvicinarsi sempre di più all’arte primitiva era estremamente legato al fascino che su Gauguin esercitava la vita rustica delle colonie, e che il pittore conosceva per esperienza diretta. Ben presto sentì di nuovo la «terribile smania di cose sconosciute», come ebbe a scrivere, e si trasferì a Tahiti, l’isola più grande della Polinesia, spesso rappre-
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Ź Paul Gauguin, La regina 1896, olio su tela, 97 x 130 cm [Museo Puškin, Mosca]
ź Paul Gauguin, Fatata te miti (Vicino al mare) 1892, olio su tela, 68 x 92 cm [National Gallery of Art, Washington]
sentata nella stampa come il paradiso terrestre. Fu proprio liberandosi an cora una volta delle convenzioni delle società europee che Gauguin abbandonò del tutto le regole pittoriche del suo tempo, per accogliere le influenze del paesaggio e delle popolazioni locali. Quelle del periodo tahitiano sono le sue opere più famose, note al grande pubblico: le contraddistinguono i ritratti colorati delle donne polinesiane, rappresentate in maniera semplice ma solenne, quasi fossero divinità antiche. I colori accesi riflettevano l’immaginario esotico di Gauguin e il suo amore per quelle terre selvagge. Per il carattere dirompente e del tutto stravagante di queste opere rispetto alla tradizione europea, Gauguin rimase un artista incompreso agli occhi dei suoi contemporanei, e anche per questo si legò sempre di più alla sua ter-
ra adottiva. Morì nel 1903 a Hiva Oa, nelle isole Marchesi polinesiane, sconfitto dal mercato e dalla solitudine.
PISTE DI LAVORO a. Realizza una piccola scheda divulgativa sulla corrente artistica dell’Impressionismo. Non superare le 50/60 parole. Digita nella maschera di ricerca di Google “Impressionismo” e seleziona un sito affidabile (ti consigliamo di consultare l’Enciclopedia online della Treccani). b. Schematizza le tappe principali della carriera pittorica di Gauguin. c. Spiega in cosa consiste l’immaginario esotico della pittura di Gauguin. d. Perché la pittura di Gauguin non fu compresa dai suoi contemporanei?
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C17 Gli imperi coloniali
C17 Gli imperi coloniali RICORDARE L’ESSENZIALE L’imperialismo Diverse furono le cause della corsa alla conquista coloniale che, negli ultimi decenni dell’800, connotò la politica estera di molti Stati europei, presto affiancati dalle potenze emergenti di Stati Uniti e Giappone. Vi fu certamente la spinta esercitata dagli interessi economici – materie prime a basso costo, sbocchi per i prodotti industriali e i capitali d’investimento –, ma non meno importante fu l’affermarsi di tendenze politico-ideologiche che affiancavano a un acceso nazionalismo la convinzione nella missione civilizzatrice dell’uomo bianco. L’opinione pubblica infine fu particolarmente colpita e influenzata dalle notizie sui viaggi in Africa compiuti da esploratori, viaggiatori, missionari. La conquista dell’Africa Fu in Africa che l’espansione coloniale si realizzò con la velocità più sorprendente, portando nel giro di pochi decenni alla conquista quasi completa di tutto il continente, sotto forma di colonie o protettorati. Poco dopo la conferenza di Berlino (1884-85), convocata per risolvere i contrasti internazionali suscitati dall’espansione belga in Congo, stabilì i princìpi della spartizione dell’Africa, in primo luogo quello dell’effettiva occupazione, e riconobbe il possesso di vari territori a Belgio, Francia, Germania e Gran Bretagna. Nel 1900 i territori africani rimasti indipendenti erano pochi: l’Impero etiopico, la Li-
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Audiosintesi per paragrafi
bia (ottomana), il Marocco (fino al 1912), la piccola Liberia e le Repubbliche boere del Sudafrica. In Sudafrica, l’iniziativa di Cecil Rhodes, proprietario della British South Africa Company, mirò a estendere il dominio britannico dalla Colonia del Capo alle due Repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal, ricche di giacimenti d’oro e di diamanti. Il disegno poté realizzarsi solo dopo due lunghe e sanguinose guerre contro i boeri (1880-81 e 1899-1902). Nel 1910 l’Orange e il Transvaal confluirono nell’Unione sudafricana insieme alla Colonia del Capo. La conquista dell’Asia A metà ‘800, in India gli inglesi tentarono di introdurre elementi di modernizzazione, provocando però violente reazioni (rivolta dei Sepoys, 1857). La colonia fu allora riorganizzata sotto la diretta amministrazione della Corona britannica. L’apertura del Canale di Suez (1869) diede nuovo impulso alla penetrazione europea in Asia. In questo periodo ci furono la conquista francese dell’Indocina e lo sviluppo della colonizzazione russa della Siberia. L’altra direttrice dell’espansionismo russo, quella verso l’Asia centrale, portò l’Impero zarista a un duro contrasto con la Gran Bretagna, minacciata alle frontiere con l’India. Da segnalare, infine, la presenza britannica nel Pacifico, insieme a Germania, Stati Uniti e Giappone.
VERIFICARE LE PROPRIE CONOSCENZE
Le due guerre scoppiate tra Cina e Gran Bretagna per il commercio dell’oppio (1839-42 e 1856-60), vietato in Cina ma molto lucroso per i trafficanti britannici, pose fine al secolare isolamento del Celeste impero. I britannici infatti imposero al paese l’apertura al commercio straniero, prima attraverso l’accesso ai principali porti, poi con l’accesso anche alle vie fluviali interne. Il dominio coloniale Le potenze conquistatrici fecero generalmente un uso indiscriminato della forza contro le popolazioni indigene, sconvolsero l’economia dei paesi afroasiatici sottoponendola a un sistematico sfruttamento finalizzato all’esportazione di materie prime e, in questo modo, colpirono, spesso irrimediabilmente, antiche culture, danneggiando inoltre il mercato interno. Gli effetti della conquista, tuttavia, non furono sempre e solo negativi. Sul piano economico ci fu, in molti casi, un inizio di modernizzazione, sia pur finalizzata agli interessi dei dominatori. Su quello culturale, alcuni paesi con tradizioni e strutture politico sociali più solide riuscirono a difendere la loro identità, ovvero ad assimilare alcuni aspetti della cultura dei dominatori. Sul piano politico, infine, la colonizzazione favorì, a più o meno lunga scadenza, la formazione di nazionalismi locali che avrebbero successivamente alimentato le lotte per l’indipendenza.
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Nel 1914 il territorio del Regno Unito era circa un centesimo dei territori coloniali inglesi. b. Gli effetti della colonizzazione sulle culture dei paesi afro-asiatici furono blandi. c. La colonizzazione francese fu molto rispettosa degli usi locali, a differenza di quella britannica. d. I programmi di modernizzazione in Egitto e in Tunisia provocarono il dissesto delle relative finanze. e. I territori dell’Alaska furono venduti agli Stati Uniti dallo zar di Russia. f. All’inizio del ’900 quasi tutta l’Africa era passata sotto il controllo delle potenze europee. g. Nel 1858 la Compagnia delle Indie cedette il controllo della colonia al governo britannico. h. La ferrovia Transiberiana collegava la Siberia alla Cina.
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i. L’apertura del Canale di Suez favorì il dominio coloniale delle potenze europee. j. Il continente asiatico fu preda delle conquiste europee prima di quello africano. k. L’India venne controllata dalla Compagnia delle Indie orientali fino alla prima guerra mondiale. l. Nel 1876 la regina Vittoria venne proclamata imperatrice. m. Dall’India la Gran Bretagna importava soprattutto il sale e le spezie. n. In Asia, la Francia occupò soprattutto il territorio dell’Indocina. o. La Russia occupava un territorio immenso che andava dal Baltico al Pacifico.
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. I paesi che parteciparono alla corsa coloniale nella seconda metà dell’800 furono... a. numerosi: a quelli storici si aggiunsero anche Italia, Belgio, Germania, Giappone, ecc.; b. esclusivamente europei, a dimostrazione della superiorità militare del continente; c. solo quelli che erano dotati di una solida economia industriale: Francia e Inghilterra. 2. La conferenza di Berlino del 1884-85 sancì... a. la restituzione delle colonie francesi alla Gran Bretagna; b. il principio coloniale della «effettiva» occupazione; c. il diritto di autodeterminazione delle popolazioni africane. 3. In seguito alla conferenza di Berlino del 1884-85, il re del Belgio Leopoldo II... a. dovette cedere i suoi territori personali in Africa, che furono spartiti tra le grandi potenze; b. fu obbligato a concedere, nei territori del Congo, una forma di blando protettorato; c. vide riconosciuto a livello internazionale il suo intervento militare privato in Africa centrale. 4. Nell’Africa meridionale il nazionalismo locale dei boeri si scontrò con... a. l’imperialismo britannico; b. l’imperialismo francese; c. l’imperialismo belga. 5. I Boeri erano... a. comunità indigene delle foreste; b. ex schiavi deportati in America; c. discendenti degli agricoltori olandesi.
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6. Nel 1910 l’Unione Sudafricana sancì definitivamente... a. l’annessione dei territori boeri alla Colonia del Capo; b. la fine della segregazione razziale tra bianchi, neri e boeri; c. l’autonomia di Orange e Transvaal dall’Impero britannico. 7. Secondo l’ideologia imperialista, il «fardello dell’uomo bianco» era... a. il senso di colpa degli europei di fronte al colonialismo; b. il compito di civilizzare le popolazioni selvagge; c. il peso economico da sostenere per la colonizzazione. 8. La «rivolta dei Sepoys» in India... a. indusse gli inglesi ad assumere il controllo diretto di tutte le cariche politiche e militari; b. dimostrò la necessità di integrare i poteri locali per il controllo della popolazione; c. costrinse la Compagnia delle Indie a concedere una forte autonomia amministrativa.
3 Seleziona, tra le espressioni proposte di seguito, quelle che meglio rappresentano le caratteristiche della colonizzazione europea di fine ‘800. a. Penetrazione commerciale b. Assoggettamento politico c. Sfruttamento economico d. Diffusione della solidarietà e. Appropriazione delle materie prime f. Condivisione delle tecnologie g. Investimento di capitali finanziari h. Propagazione delle lingue europee i. Presunzione di superiorità dell’uomo bianco
4 Completa la tabella che riassume le informazioni relative alle guerre coloniali nella seconda metà dell’800. Dove e quando si svolge?
Chi sono i contendenti?
Qual è il pretesto che innesca lo scontro/guerra?
Quali sono gli interessi economici coinvolti?
Qual è l’esito finale per i territori interessati?
Rivolta di Arabi Pascià Incidente di Fashoda Guerra anglo-boera «Rivolta dei Sepoys» Guerre franco-cinesi Scontro russo-inglese
Rispondi poi alle seguenti domande: 1. Quali sono le reali motivazioni che spinsero gli Stati europei agli interventi militari?
2. Quali furono le ripercussioni delle guerre coloniali nella politica estera degli Stati europei?
5 Scrivi sul quaderno un testo informativo dal titolo La conquista dell’Africa. A tal fine utilizza la scaletta di seguito. • La conquista dei territori prima del 1870. • La conferenza di Berlino (1884-85). • I rapporti tra l’Impero ottomano e i paesi europei conquistatori. • Le tensioni tra Germania e Gran Bretagna. • Le conquiste di Gran Bretagna, Francia, Belgio, Germania. COMPETENZE IN AZIONE 6 Scrivi un testo sulle caratteristiche principali della colonizzazione di fine ’800. Puoi utilizzare la seguente scaletta e le immagini del capitolo che ritieni più significative. • Le differenze tra la colonizzazione di fine ’800 e quella precedente. • L’utilizzo della violenza per le conquiste. • Il significato del termine “imperialismo”. • Effetti positivi e negativi della colonizzazione per i paesi colonizzati. • Le conquiste degli europei in Asia e in Africa. • Il colonialismo, il razzismo e le culture locali. • Il rapporto tra gli abitanti dei luoghi conquistati e i conquistatori.
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STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER
Economia coloniale e ambiente Imperialismo e ambiente Nella seconda metà del ’700 il botanico francese Bernardin de Saint Pierre notava: Non so se caffè e zucchero siano essenziali alla felicità dell’Europa, so però bene che questi due prodotti hanno avuto molta importanza per l’infelicità di due grandi regioni del mondo: l’America fu spopolata in modo da avere terra libera per piantarli; l’Africa fu spopolata per avere le braccia necessarie alla loro coltivazione. [da S.W. Mintz, Storia dello zucchero. Tra politica e cultura, Einaudi, Torino 1990, epigrafe] Enormi furono le conseguenze sull’ambiente della colonizzazione europea: l’introduzione di nuove piante, animali e, se pur involontariamente, di malattie nelle colonie determinò una radicale trasformazione dell’ecosistema dei paesi colonizzati. Analizzeremo ora gli effetti ambientali dello sfruttamento economico delle colonie, negli anni in cui le politiche imperialiste di espansione territoriale ed economica delle grandi potenze europee ed extraeuropee raggiunsero i massimi livelli di intensità.
Industrializzazione e deforestazione Il primo e principale effetto dello sfruttamento coloniale fu una generalizzata deforestazione. Il legname era considerato una risorsa strategica fondamentale per i paesi europei, necessario per la costruzione e la manutenzione delle flotte militari e mercantili. Se durante il Medioevo e la prima età
STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE Economia coloniale e ambiente
moderna gli europei avevano abbattuto le foreste del continente, soprattutto in Gran Bretagna, Olanda, Spagna e Portogallo, con l’espansione degli imperi si cominciò a prelevare il legname dalle colonie. L’Europa impiantò nel Nuovo Mondo «una segheria apparentemente incessante, capace di tenere a galla le sue navi e i suoi salotti riforniti di tavoli, sedie e scrivanie eleganti», scrisse lo storico David Arnold. Questo processo si intensificò durante le prime fasi dell’industrializzazione, perché il carbone di legna alimentava le fornaci che producevano ferro e ghisa. Il legno era fortemente richiesto anche nelle industrie minerarie, per i puntelli dei pozzi, come nella costruzione delle strade ferrate.
Il sistema delle piantagioni e le conseguenze sull’ambiente: il caso del Brasile Le foreste furono abbattute anche per ricavare un’altra risorsa: la terra coltivabile. L’espansione dell’agricoltura giocò un ruolo significativo nel declino delle foreste nelle colonie delle zone tropicali, soprattutto quando in Occidente crebbe la domanda di prodotti come zucchero, tè, caffè, cioccolato e tabacco, le cui coltivazioni furono localizzate nelle colonie. La canna da zucchero è un prodotto tropicale e subtropicale, che ha un ciclo di coltivazione lungo anche più di un anno. Spagnoli e portoghesi ne inaugurarono la coltivazione su piccola scala a Madeira e nelle Canarie, finché il sistema di piantagione non fu messo a punto nei Tropici, soprattutto nelle isole caraibiche (Grandi Antille) e nel Nord-Est del Brasile. Le piantagioni non erano solo imprese agricole: poiché gran parte del processo di trasformazione industriale della canna (bollitura, scrematura e riduzione del succo) avveniva nelle stesse piantagioni, erano una sorta di sintesi fra campo e fabbrica. Richiedevano alti
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investimenti di capitali: c’era bisogno di impianti, di numerosa manodopera (per la quale si ricorse alla importazione di schiavi africani) e di ampi spazi, perché la coltivazione causava il rapido depauperamento del terreno. L’agricoltura intensiva basata sulle piantagioni ebbe un impatto devastante sulle foreste dei paesi produttori. Complice anche l’industria dell’estrazione di oro e diamanti, il Brasile perse più della metà della foresta subtropicale della costa atlantica. La monocoltura dello zucchero, inoltre, lasciava poco spazio alle colture ad uso alimentare, determinando nuovi flussi di esportazioni dall’Europa alle colonie, come chiarisce lo storico francese Fernand Braudel: «Per nutrire una colonia in America – spiega l’abate Raynal [che scrisse nel 1770 Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes, N.d.A.] – bisogna coltivare una provincia in Europa», poiché le colonie zuccheriere non sono in grado di nutrirsi da sole: la canna lascia poco spazio ai rari “quadri” di colture ad uso alimentare. È il dramma della monocoltura zuccheriera del Nord-Est brasiliano, delle Antille, del Sous marocchino. Nel 1783 l’Inghilterra invia nelle proprie Indie occidentali – soprattutto in Giamaica – 16526 barili di carne salata di bue e di maiale, 5188 pezzi di lardo, 2559 barili di trippe conservate. In Brasile l’alimentazione degli schiavi è assicurata con i barili di merluzzo di Terranova, con la carne do sol dell’interno e ben presto il charque [carne disidratata, N.d.A.], trasportato dalle navi dal Rio Grande do Sul. Nelle Antille la provvidenza è il bue salato e la farina delle colonie inglesi d’America: queste si procurano in cambio lo zucchero e il rum. [F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino 2006, p. 201]
L’impatto ambientale della diffusione del tè: le colonie inglesi in India Insieme con lo zucchero si diffusero in Europa, oltre al tabacco, tre bevande eccitanti originarie di territori d’oltremare: il tè (Cina), il caffè (penisola Araba) e il cacao (Messico): vennero alla ribalta insieme allo zucchero ed i loro successi coincisero e si legarono. Consumate inizialmente dalle classi ricche per il loro alto costo, progressivamente tè, caffè e cioccolato entrarono a far parte dei desideri anche delle classi più basse. L’antropologo Sidney Mintz ci racconta della diffusione del tè fra le classi popolari inglesi:
Ż La pianta della canna da zucchero tagliata
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Ż Raccoglitrici di una piantagione di tè in Sri Lanka [foto di Dannis Keller] La coltura del tè, introdotta fra ’700 e ’800 in alcuni paesi orientali, come l’India, lo Sri Lanka, la Cina, dai colonizzatori europei (soprattutto inglesi e olandesi), ha profondamente modificato, oltre che impoverito, il paesaggio e l’economia di questi luoghi.
Dal momento in cui il tè e le bevande gemelle divennero consumo dei lavoratori, vennero servite calde e dolcificate. Adatte ai bisogni di persone per le quali l’apporto di calorie doveva diminuire nel corso del XVIII secolo e per le quali una bevanda dolce e calda doveva sembrare particolarmente gradita considerata la loro dieta e il clima inglese, queste bevande divennero rapidamente popolari. Man mano che gli inglesi ne bevvero quantità sempre maggiori, le bevande stesse divennero sempre più tipicamente inglesi almeno in due sensi: da un lato per un processo di ritualizzazione, dall’altro per il fatto che – almeno per un altro secolo o due – esse sarebbero state prodotte sempre più nelle colonie britanniche. [S.W. Mintz, Storia dello zucchero. Tra politica e cultura, cit., p. 113] Dopo la rivoluzione industriale, il tè divenne la bevanda ideale per i lavoratori dell’industria. Infatti, l’apporto energetico prodotto dal tè (che aumenta se viene zuccherato) non solo accresce l’efficienza muscolare ma favorisce la concentrazione. Pane, formaggio e tè divennero gli elementi principali della dieta delle famiglie operaie inglesi; il carrello del tè fu introdotto su larga scala nelle fabbriche, i chioschi per la sua distribuzione nelle nuove stazioni ferroviarie e alla fine del XIX secolo il tè entrò a far parte delle razioni degli eserciti britannico e americano. Con l’aumento della domanda interna di tè si rafforzò l’esigenza per l’Inghilterra di rendersi indipendente dalla produzione e dalle importazioni cinesi. Fin quando se ne importavano piccole quantità, infatti, il tè poteva essere pagato con altre merci, ma con l’aumento del consumo questo sistema di pagamento si fece troppo esoso. Far uscire dalla Cina semi di tè, per piantare gli arbusti in climi a loro congeniali, era un’impresa rischiosa: il governo cinese aveva promesso una ricompensa a chi catturasse mercanti sospettati di aver fatto uscire illegalmente semi o piante,
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un atto ritenuto una sorta di «sabotaggio botanico». La Royal Society of Arts di Londra promise un premio a chi si dimostrasse in grado di produrre e lavorare il tè cinese nelle colonie britanniche; il governatore generale dell’India, lord Bentinck, creò un comitato per analizzare la questione, tra i cui membri figuravano uomini d’affari e studiosi di botanica. All’inizio del XIX secolo, l’acquisizione dei possedimenti indiani in Birmania e nella zona nord-orientale dell’Assam permise agli inglesi di trovare un luogo non solo adatto alla coltivazione, ma anche dove la pianta selvatica del tè era già diffusa. Nell’Assam le foreste furono rase al suolo con il fuoco (perché la pianta del tè cresceva bene sulla cenere), per fare spazio a piantagioni grandi migliaia di ettari, come raccontano gli antropologi Alan e Iris Macfarlane: Il processo aveva inizio con il disboscamento della giungla, seguito dalla semina dei cespugli di tè e di alberi che, con la loro ombra, li proteggessero dal sole. [...] Nelle piantagioni dell’Assam i cespugli di tè erano disposti con cura in file ordinate, non sparsi casualmente nello stato quasi selvatico di quelle cinesi, o in lunghe siepi come in Giappone; e l’applicazione delle conoscenze di chimica e di agraria, unita alla continua sperimentazione dei terreni e dei pesticidi, dei metodi di coltivazione, potatura ed essiccamento, erano attuate con rigore quasi pari a quello di un’operazione militare. I braccianti erano stipati nelle “linee”, minuscole abitazioni simili a tende o baracche, e sottoposti a rigidissimi orari di lavoro. [A. Macfarlane, I. Macfarlane, Oro verde. La straordinaria storia del tè, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 208-9] Staccata la delicata gemma apicale e le giovani foglie dell’arbusto, iniziava la trasformazione della materia prima (le foglie verdi) nel prodotto finale (il tè nero, seccato e confezionato), con l’uso sempre più ampio di tecniche e macchinari industriali (rullatrice, essiccatrice,
frantumatrice, impacchettatrice). L’isola di Ceylon (Sri Lanka) e l’India sostituirono così la Cina come fornitore di tè, mentre il capitale britannico controllava sia la produzione che il mercato dell’esportazione e l’accesso al consumatore dell’«oro verde». Attorno al 1900 in Assam esistevano 764 piantagioni che ogni anno producevano circa 66 milioni di tonnellate di tè per l’esportazione. Oltre al tè non dobbiamo dimenticare la presenza in India delle piantagioni di indaco (un colorante naturale), cotone, oppio. La conquista britannica ebbe, in generale, un forte impatto sulle foreste pluviali della regione e sulla vita delle comunità locali. Le foreste, infatti, erano sfruttate da più villaggi e costituivano una parte vitale dell’economia locale: fornivano grandi quantitativi di bambù, legna da ardere, erbe medicinali, resina, miele, incenso, tinture, spazi per il pascolo. Foreste, quelle tropicali e subtropicali, che erano molto più ricche di biodiversità, cioè di specie diverse sia di animali che di piante, rispetto a quelle delle zone boreali e temperate. La sistematica distruzione delle foreste era stata portata avanti dalla Compagnia delle Indie orientali, anche come misura contro i gruppi tribali che vi si rifugiavano e tendevano a sottrarsi al suo controllo, con lo scopo di ottenere la sedentarizzazione forzata dei gruppi nomadi o seminomadi. Era una pratica che gli inglesi avevano già applicato in Irlanda e Scozia, ma questa volta ebbe caratteristiche peculiari, come mette in luce lo storico Michelguglielmo Torri: In particolare la distruzione delle foreste, attuata sia per impedire che potessero servire da copertura per ribelli potenziali o attuali, sia per depredarne le risorse, assunse dimensioni tali da essere, probabilmente, la causa di percepibili variazioni nell’ecosistema verificatesi nel medesimo periodo, quali l’aumento dei venti caldi nella pianura gangetica e la diminuzione del livello dei fiumi nell’estremo Sud. Il processo d’espansione della frontiera interna non era, in effetti, nulla di nuovo nella storia del subcontinente. Esso era stato portato avanti con vigore se non da tutti, da alcuni almeno degli stati precoloniali modernizzatori. Tuttavia, ciò che fece della politica perseguita dalla Compagnia qualcosa di qualitativamente nuovo (comportando, fra l’altro, la quasi completa distruzione delle foreste nella maggior parte del subcontinente) furono la sistematicità e le dimensioni di tale politica. [M. Torri, Storia dell’India, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 397]
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STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER Nel Sud-Est asiatico, soprattutto in Malesia e Indonesia, si diffusero anche le piantagioni di caucciù, che alla fine del XIX secolo si rivelarono particolarmente redditizie vista la domanda di gomma innescata dalla nuova industria automobilistica.
L’economia di rapina. Il caso dell’Africa In Africa l’economia coloniale esordì come economia di rapina, un saccheggio su vasta scala, in cui si prelevarono il più rapidamente possibile prodotti naturali, sfruttando brutalmente le popolazioni locali e senza effettuare investimenti nel paese. La produzione delle colture da esportazione, le cosiddette cash crops (che si può tradurre con “colture da reddito”) avvenne in modalità diverse da colonia a colonia. In alcuni casi la proprietà della terra fu lasciata ai piccoli contadini, in altri furono privilegiate le grandi piantagioni gestite da società europee, in altri ancora (come in Togo e Camerun) scoppiarono conflitti perché i proprietari di piantagioni si erano appropriati delle terre più fertili. Le conseguenze furono ad ogni modo simili: uno sviluppo orientato al commercio estero in modo unilaterale, vale a dire agli interessi economici degli europei anziché all’economia africana; la forte dipendenza delle monocolture dal mercato mondiale, con il rischio di un’elevata debolezza nei periodi di crisi, quando i prezzi delle colture da esportazione scendevano. L’Africa era fornitrice di caffè, cacao, banane, prodotti ricavati dalla palma da olio, arachidi, cotone. Si scoprì che diverse colonie erano anche ricche di giacimenti minerari: il
STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE Economia coloniale e ambiente
Sudafrica, la Rhodesia del Nord, ossia l’attuale Zambia (dotata di giacimenti di rame), la regione meridionale del Congo (ricca di rame, oro, diamanti). Fu nel Congo Belga che l’economia di rapina raggiunse il culmine, quando il sovrano Leopoldo II, che governò la colonia come un dominio personale fra il 1885 e il 1908, si assicurò il monopolio sull’avorio e sul caucciù, estratto sfruttando duramente la popolazione locale. Questi sviluppi complessivi, con la crescente interrelazione nell’economia globale di diverse zone, non cambiarono forma e caratteri dei paesi industrializzati, come mette in luce Eric Hobsbawm:
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nati con la decolonizzazione, ossia la conquista dell’indipendenza da parte dei paesi afro-asiatici sin allora soggetti al dominio coloniale che si verificò dopo la seconda guerra mondiale. Anzi risultano ancora drammaticamente attuali. La crisi finanziaria scoppiata nel 2007-8, con il crollo di Wall Street e delle borse mondiali, stimolò diversi attori del settore finanziario ad investire nei cosiddetti beni rifugio, l’oro, il petrolio, ma anche i prodotti alimentari di base, come mais, grano e riso. Il corollario è stato l’investimento diretto nelle
Trasformarono il resto del mondo, in quanto lo mutarono in un complesso di territori coloniali e semicoloniali che si andarono sempre più specializzando nella produzione di uno o due prodotti primari da esportare nel mercato mondiale, dai cui capricci dipendevano interamente. La Malesia significò sempre più gomma e stagno, il Brasile caffè, il Cile nitrati, l’Uruguay carne, Cuba zucchero e sigari. [...] Le fortune dei paesi in questione erano sempre più una funzione del prezzo del caffè (che nel 1914 già produceva il 58% del valore delle esportazioni brasiliane e il 53% di quelle colombiane), del caucciù e dello stagno, del cacao, della carne e della lana. [E.J. Hobsbawm, L’età degli Imperi. 1875-1914, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 75-77]
Dopo la decolonizzazione I rapporti commerciali iniqui ed ecologicamente distruttivi non sono termi-
Ÿ Locandina del network Pan Asia Pacific che inaugura il “Giorno dei senzaterra” Il Pan Asia Pacific è una rete formata da oltre 100 organizzazioni nella regione dell’Asia del Pacifico, che combatte l’uso di pesticidi, promuove un’agricoltura ecologica e sostenibile e la conservazione della biodiversità. Scopo finale delle sue campagne è promuovere una società basata sulla giustizia sociale e di genere, sulla distribuzione equa delle risorse produttive, sulla sicurezza ambientale e sulla sostenibilità. Con la campagna «No Land, No Life!» (“Nessuna terra, nessuna vita!”), il Pan Ap vuole contrastare il fenomeno del land grabbing, che impoverisce la biodiversità, oltre che le popolazioni locali, a favore dei grandi gruppi industriali. Ż La deforestazione di numerosi ettari di foresta pluviale nel Borneo (Malesia) [foto di M. Klum] Un primo passo verso l’impoverimento del suolo e la desertificazione è la deforestazione, attuata per ricavare legname pregiato ma anche, e soprattutto, per fare spazio all’agricoltura (di solito grandi monocolture come la palma da olio) o all’urbanizzazione. Le antiche foreste pluviali del Sarawak, uno dei due Stati del Borneo, sono state eradicate per far posto alle piantagioni di palme e alle strade di accesso.
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STORIA E EDUCAZIONE AMBIENTALE DOSSIER terre da coltivare, con gruppi finanziari che hanno comprato partecipazioni nello sfruttamento di appezzamenti agricoli in Brasile, Indonesia o in paesi africani. Negli ultimi anni si è così innescato il fenomeno del land grabbing, la “corsa alle terre”: milioni di ettari in buona parte del Sud del mondo sono stati dati in affitto a imprenditori stranieri, aziende multinazionali, fondi di investimento, per essere destinati a produrre alimenti o biocarburanti destinati alle esportazioni, in prevalenza verso il Nord del mondo. L’Etiopia, ad esempio, ha lanciato un piano di affitto a lungo termine di un’ampia parte dei suoi terreni ad investitori sauditi e indiani, ma anche europei. I canoni di affitto molto bassi, sommati al basso costo della manodopera, hanno reso particolarmente allettante la prospettiva di investire nel paese africano. La domanda è cresciuta dopo la crisi alimentare del 2007-8, quando i prezzi degli alimenti di base sono saliti alle stelle e i tumulti per fame hanno incendiato alcuni Stati africani, asiatici e centro-americani, ma hanno suscitato allerta e preoccupazione anche nei paesi arabi del Golfo. Negli Emirati e in Arabia Saudita si è rafforzata la necessità di garantirsi altrove la produzione dei beni alimentari di cui i paesi avevano bisogno, in luoghi più fertili e dal clima migliore, come l’Etiopia, appunto – destinata a diventare il «granaio del Golfo Persico». I casi sono numerosi, come quello del governo del Madagascar, che stipulò un accordo con la Daewoo per cedere gratis alla multinazionale sud-coreana la metà della terra coltivabile del paese, per produrre mais e palma da olio. Svelato dal «Financial Times» l’accordo suscitò proteste tali da costringere il capo del governo alle dimissioni. In Tanzania, invece, sono state frequenti le espropriazioni fatte con l’inganno ai danni di numerosi piccoli villaggi e delle loro terre comuni, cedute da poteri pubblici spesso corrotti ad investitori (prevalentemente europei) che si sono lanciati nel business dei biocarburanti. La Tanzania, infatti, è un luogo ideale per la coltivazione della canna da zucchero per etanolo, della palma da olio, della jatropha, dal cui seme si estrae un olio che può essere usato come combustibile nei motori. La coltivazione della soia (gestita da un ristretto numero di multinazionali) non ha avuto conseguenze ambientali e sociali meno gravi nel Mato Grosso do Sul, regione occidentale del Brasile al confine con il Paraguay – come ci racconta il giornalista Stefano Liberti:
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
versità. Oggi, ci sono prevalentemente colture di soia. Il Mato Grosso do Sul, insieme allo stato gemello più a nord (il Mato Grosso), al Paraguay, a parte della Bolivia e all’Argentina orientale, costituisce la cosiddetta «repubblica unita della soia», una distesa di milioni di ettari dove si coltiva la «piantina miracolosa» i cui semi sono usati in tutto il mondo come mangime per gli animali, ma anche sotto forma di olio in diversi alimenti per gli esseri umani. I campi di soia, di cui il Brasile è il secondo esportatore mondiale, sono stati creati e spianati nel corso degli ultimi decenni da una corsa all’Ovest che ricorda da vicino quella del Far West nordamericano. [...] Sloggiati dal proprio territorio, confinati in riserve anguste, spesso usati come manodopera a basso costo, gli indios continuano a rivendicare – con scarse possibilità di successo – il possesso delle terre occupate dai latifondisti, i cosiddetti fazenderos. Oggi nel Mato Grosso do Sul 11.000 guaranì vivono in una riserva di 3500 ettari, letteralmente assediata dalle grandi piantagioni di soia. Chi si ribella a questa situazione, che l’ex ministro dell’Ambiente e leader ecologista brasiliana Marina Silva non ha esitato a definire «apartheid sociale», spesso viene ucciso: nel 2008, ci sono stati 60 omicidi di indigeni in Brasile, 42 dei quali a danno di guaranì nel Mato Grosso do Sul. [S. Liberti, Land Grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo, Minimum Fax, Roma 2015, p. 181] Inoltre, dal 1950 più di 5 milioni di chilometri quadrati di foresta tropicale sono stati abbattuti per produrre legname e beni agricoli da esportare (caffè, carne di manzo, biocarburanti derivanti da canna da zucchero e soia). Mentre la deforestazione continua, soprattutto nel Sud del mondo, non è cessata né mutata l’importanza delle foreste. Queste, infatti, forniscono da sempre i cosiddetti «servizi ecologici»: prevengono l’erosione del suolo, riducendo il rischio di inondazioni e frane, proteggono le riserve idri-
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che, restituiscono umidità all’atmosfera, aiutando a regolare il clima. Funzioni a cui, di fronte alle minacce del riscaldamento globale e della sovrappopolazione del pianeta, non possiamo rinunciare.
Verso la gestione sostenibile dell’ecosistema terrestre «Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre» è uno degli obiettivi (il numero 15) dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile 2030 sottoscritta nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Secondo i dati reperibili sul sito (https://unric.org/ it/agenda-2030/) le foreste costituiscono l’habitat di oltre l’80 per cento di tutte le specie terrestri di animali, piante ed insetti e circa 1,6 miliardi di persone dipendono dalle foreste per il loro sostentamento. A partire dal 2008, il deterioramento del suolo ha prodotto un impatto su 1,5 miliardi di persone a livello globale; a causa della siccità e della desertificazione, vengono persi 12 milioni di ettari ogni anno (23 ettari al minuto) di terreni dove avrebbero potuto essere coltivate 20 milioni di tonnellate di cereali, tenendo conto che tre colture cerealicole da sole– riso, mais e grano – forniscono il 60% dell’apporto calorico della intera umanità. Per ognuno dei 17 obiettivi fissati, l’Agenda per lo sviluppo sostenibile fissa dei traguardi da raggiungere tra il 2020 e il 2030. Promuovere una gestione sostenibile di tutti i tipi di foreste, arrestare la deforestazione e ripristinare le foreste degradate; combattere la desertificazione e ripristinare le terre degradate; arrestare la distruzione della biodiversità e fornire incentivi adeguati ai paesi in via di sviluppo perché possano migliorare la gestione sostenibile delle foreste e per la conservazione e la riforestazione, sono alcuni dei traguardi fissati per l’obiettivo 15.
ź I 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile
Il paesaggio è verde ma piatto: non ci sono alberi. Solo piantagioni che si estendono a perdita d’occhio. Un tempo qui c’era il cerrado, un ambiente tropicale simile alla savana, ecosistema con un elevatissimo tasso di biodi-
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LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE Le carte raccontano. Sistema delle piantagioni e impatto ambientale (secoli XVIII-XIX) 1 Immagina di essere il cartografo dell’«Atlante-Nigrizia», la rivista mensile edita dai missionari comboniani: ti è stata commissionata la realizzazione di una carta tematica sul sistema delle piantagioni (piante alimentari e industriali) introdotto nei secoli XVIII-XIX dagli europei nei loro possedimenti coloniali. Per avere una rappresentazione d’insieme del fenomeno, riporta sul planisfero le piante coltivate in ciascun continente; per ciascuna di esse inventa un simbolo e inseriscilo nella legenda. Correda infine la carta di un commento di sufficiente ampiezza (minimo 150 parole), in cui metti in evidenza il rapporto tra deforestazione e agricoltura intensiva delle piantagioni nei possedimenti coloniali europei, secoli XVIII-XIX.
canna da zucchero
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Il Sud del mondo tra cash crops e land grabbing 2 Abbiamo imparato che i rapporti commerciali iniqui tra paesi industrializzati e paesi afro-asiatici sono andati ben oltre la metà del XX secolo. Spiega in un testo (max 10 righe) in che modo i paesi industrializzati continuano a perpetrare l’economia di rapina nei confronti dei paesi afro-asiatici, soffermandoti su un caso di studio a scelta tra quelli proposti nel testo. Allarme foresta Amazzonica! 3 All’inizio del XX secolo la foresta amazzonica si estendeva su quasi 6 milioni di km2; oggi invece essa è ridotta a circa 4 milioni di km2. Dal 1960, infatti, quasi un terzo del patrimonio boschivo è stato abbattuto per fare spazio ad altre attività economiche. • Quali attività economiche si sono sviluppate grazie alla deforestazione e a vantaggio di chi va l’arricchimento in questi settori? • Che effetto ha tutto questo sull’ambiente naturale e su chi vive all’interno della foresta? • È proprio vero che lo sviluppo economico dei paesi su cui essa si estende dipende dalla deforestazione? Per rispondere a questi interrogativi lancia una ricerca su Internet, digitando “deforestazione foresta amazzonica”. Discuti in classe il risultato della tua ricerca con i compagni e l’insegnante di Storia e insieme valutate se esistono interventi sulla foresta amazzonica che possono portare reali benefici alle popolazioni locali.
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LABORATORIO DI EDUCAZIONE AMBIENTALE SOS narco-deforestazione! 4 Hai mai sentito parlare del «Corridoio Biologico Mesoamericano», l’area verde ricompresa fra Honduras, Guatemala e Nicaragua famosa per la sua biodiversità? Bene (anzi, male!), essa è oggetto da qualche decennio a questa parte di un fenomeno chiamato narco-deforestazione. L’allarme è stato dato nel 2014 da un ricercatore della Northern Arizona University che ha scoperto il fenomeno casualmente, monitorando la biodiversità di alcune zone, e ha poi pubblicato un articolo sulla rivista americana «Science». Per saperne di più sulla narco-deforestazione, lancia una ricerca su Internet e indaga su quali siano le ragioni che spingono i narcotrafficanti sudamericani a operare una tale distruzione dell’ambiente e quali sono i rischi per la preziosa biodiversità del «Corridoio Biologico Mesoamericano». Realizza infine un PowerPoint in cui sintetizzare i risultati della tua ricerca, corredandola di immagini. L’economia di rapina ai tempi della globalizzazione 5 Come abbiamo imparato, il controllo del territorio e delle sue risorse naturali e umane è stato il principio-guida dell’espansione coloniale europea sin dal suo avvio, nel XVI secolo. In tempi recenti, una nuova forma di colonizzazione ha preso piede: è il cosiddetto land grabbing, che in italiano significa “accaparramento di terre” (suoli agricoli e acqua) e di territori (sistemi sociali e ambientali). Il fenomeno consiste in investimenti speculativi da parte dei poteri forti della finanza (europei, americani, arabi) e delle multinazionali operanti nel settore agroalimentare, i quali si assicurano concessioni o contratti d’affitto pluridecennali su grandi estensioni di terra fertile in Africa, America Latina e Asia. Per approfondire questo fenomeno di dimensioni planetarie, ti invitiamo a fare una ricerca in Rete sull’argomento. Digita nella maschera di ricerca di Google “unimondo.org”: nella barra di navigazione, clicca su “Guide”, poi ancora su “Sviluppo” e infine su “Land grabbing” e prendi appunti. Leggi attentamente le domande di seguito proposte e reperisci le risposte nel documento. Crea poi uno spot pubblicitario per sensibilizzare l’opinione pubblica sul fenomeno. Per la realizzazione dello spot puoi utilizzare i mezzi tradizionali o i nuovi media. • • • • • •
Da quali scopi è guidato il land grabbing? Chi sono gli attori politici, economici e sociali direttamente coinvolti nel land grabbing? Quali sono le aree maggiormente attraenti per gli investitori? Cosa fa la Banca Mondiale di fronte al land grabbing? Come l’Onu concilia l’obiettivo della sicurezza alimentare con il land grabbing? Le Ong e la lotta al land grabbing.
Cosa puoi fare tu? 6 Il land grabbing è strettamente connesso al problema dell’accesso al cibo da parte dei paesi del Sud del mondo. Unimondo. org ha lanciato nel 2012 una campagna di sensibilizzazione intitolata Sulla fame non si specula. Digita nella maschera di ricerca di Google “sullafamenonsispecula.org” e informati su cosa puoi fare tu per combattere la speculazione alimentare.
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C18 Governare l’Italia unita EXTRA ONLINE
Fare storia Città e campagne nell’Italia postunitaria, p. 590 Leggere una carta storica 9 Società ed economia nell’Italia unita, p. 566 Arte e storia Arte e paesaggio agrario italiano. Il verismo e i macchiaioli, p. 570
1
prodotto interno lordo (Pil) La somma di tutti i beni e i servizi prodotti in un determinato paese in un particolare periodo di tempo, generalmente rilevata su base annua. settore terziario Nel settore terziario sono comprese quelle attività economiche, definite generalmente “commercio, servizi e amministrazione”, che non appartengono all’agricoltura (settore primario) e all’industria (settore secondario): dagli assicuratori agli agenti di Borsa, agli impiegati comunali e statali, ai negozianti, ecc.
Eventi chiave L’avventura coloniale italiana: il disastro di Adua
Storia e Letteratura Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa
Il Libro F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896
Focus Scuola e lingua nazionale • Il brigantaggio • L’industria della seta
Lezioni attive Fare l’Italia: il processo di unificazione e la nascita del Regno
Demografia, economia e società POPOLAZIONE E ALFABETIZZAZIONE Al momento dell’Unità gli italiani erano circa 22 milioni (arrivavano a poco più di 25 calcolando anche il Veneto e il Lazio). La percentuale degli analfabeti, di quanti cioè non sapevano né leggere né scrivere, era molto alta, il 75% (ma nei decenni successivi diminuì costantemente) [Ź _9]. L’analfabetismo era inoltre molto più diffuso tra le donne. Solo il 10% degli italiani era da considerare “italofono”, ossia parlava la lingua italiana, mentre tutti gli altri comunicavano attraverso i dialetti, di cui la stessa minoranza colta si serviva nella comunicazione familiare e nei rapporti con la gente del popolo (pratica largamente diffusa fino a tempi recenti). Inoltre, nonostante da tempo l’italiano fosse impiegato dalla Chiesa nella predicazione, i dialetti affiancavano la lingua colta nelle scuole elementari. Nell’insieme la grande maggioranza degli italiani non possedeva ancora una lingua comune. Misurata sul terreno delle conoscenze di base, l’Italia era dunque molto meno istruita di paesi come la Prussia e la Francia, dove gli alfabetizzati erano rispettivamente il 70% e il 50% della popolazione.
CITTÀ E CAMPAGNE Intorno al 1860 l’Italia era, come già in passato, uno dei paesi europei con il maggior numero di città. Una decina erano i centri con più di 100 mila abitanti – il più grande era Napoli con 450 mila, seguivano Torino, Palermo, Milano e Roma con circa 200 mila – e la popolazione urbana propriamente detta (quella che viveva in comuni con oltre 20 mila abitanti) era pari al 20% del totale. La grande maggioranza degli italiani viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali e traeva i suoi mezzi di sostentamento dalle attività agricole: era quindi costituita prevalentemente da contadini. L’agricoltura occupava infatti il 70% della popolazione attiva (cioè di quelli in età lavorativa) contro il 18% dell’industria e dell’artigianato e il 12% del settore terziario (che comprende I NUMERI DELLA STORIA 9 commercio e servizi), contribuendo per il 58% al prodotto interno lordo* di tutto il paese, mentre industria e settore terziario* vi contribuivano ciascuno L’analfabetismo in Italia (1871-1901) per il 20% circa [Ź _10 e _11]. E le attività agricole fornivano i principali Anni Percentuale di analfabeti prodotti di esportazione: seta grezza dalle regioni settentrionali, e i prodotti delle colture specializzate come agrumi, frutta secca, vino e olio (per fini 1871 68,8% industriali) da quelle meridionali. 1881 62% Contrariamente a quanto una tradizione, prevalentemente letteraria, 1891 / aveva tramandato, l’agricoltura italiana nel suo complesso non era affatto favorita dalle condizioni naturali. Le zone pianeggianti, le più adatte all’a1901 48,7% gricoltura intensiva, costituivano poco più del 20%, mentre tutto il resto Dopo gli anni dell’Unità era terreno collinare o montagnoso. Inoltre il 20% della superficie del paese era l’analfabetismo diminuì occupato da terre incolte o da terreni paludosi infestati dalla malaria. gradualmente in Italia, pur continuando a interessare una parte consistente della popolazione. Nel 1891 il censimento non fu tenuto. [da T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 63]
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PAESAGGIO AGRARIO E ASSETTI PRODUTTIVI In generale, quella italiana era prevalentemente un’agricoltura povera, caratterizzata da una grande varietà di colture e di tipologie di proprietà fondiaria. Solo nella zona irrigua della Pianura padana si erano ormai sviluppate numerose aziende agricole moderne
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I NUMERI DELLA STORIA
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che univano l’agricoltura all’allevamento bovino, erano condotte con criteri capitalistici, producevano per il mercato e impiegavano soOccupati in Italia intorno al 1860 prattutto manodopera salariata. Accanto a esse coesistevano, nelle regioni del Nord, le grandi proprietà coltivate a cereali e le piccole Terziario 12% unità produttive in affitto a conduzione familiare, diffuse queste ultime soprattutto nelle zone collinari del Piemonte, della Lombardia e del Veneto. Industria e artigianato Nell’Appennino e in tutta l’Italia centrale, in particolare in 18% Toscana, Marche e Umbria, dominava invece la mezzadria [Ź1_3 e 3_8]. La terra era divisa in poderi, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, dove le colture cerealicole si mescolavano agli olivi, alle viti e agli alberi da frutto. Ciascun podere produceva quanto era necessario per il mantenimento della famiglia che viveva Agricoltura 70% sul fondo e per il pagamento del canone in natura, pari alla metà del prodotto, dovuto al padrone. Il mezzadro era tenuto inoltre a concorrere alle spese di manutenzione e a I NUMERI quelle per gli attrezzi agricoli e il bestiame. DELLA STORIA 11 Manodopera impiegata in agricoltura (1850) Il contratto di mezzadria, con la sua rigida ripartizione delle spese, non favoriva gli 90% investimenti e le innovazioni tecniche in 80% funzione dello sviluppo di un’agricoltura 70% moderna, orientata verso il mercato. In 60% compenso consentiva una relativa pace 50% sociale – per questo era apprezzato da 40% molti conservatori – e assicurava un certo 30% grado di tutela del territorio: ne è testimo20% nianza il tipico paesaggio vario e ordinato, che ancora oggi sopravvive in buona parte 10% dell’Italia centrale. 0% Gran Bretagna Olanda Germania Francia Italia (1861) Spagna Stati Uniti Svezia In molte zone dell’Italia meridionale, oltre che nella vasta campagna intorno a Il grafico descrive la percentuale Roma, la coltivazione prevalente era il latifondo: grandi distese, per lo più semi(sul totale della popolazione) nate a grano o lasciate alla pastorizia, con la popolazione concentrata in pochi dei lavoratori agricoli nel 1850 in alcuni dei maggiori paesi e grossi borghi rurali. Le tracce dell’ordinamento feudale si facevano sentire europei e negli Stati Uniti. Il dato pesantemente negli arcaici contratti agrari – basati spesso su compensi di quota relativo all’Italia risale al 1861 e fotografa la situazione nel paese parte del raccolto – e nei rapporti fra i proprietari e i contadini, caratterizzati da appena unificato.L’Italia unita forme di dipendenza personale, ma anche da ricorrenti contrasti derivanti dall’irè un paese contadino, secondo solo alla Svezia per manodopera risolto problema della utilizzazione contadina delle terre soggette agli usi civici impiegata nelle campagne. [Ź1_3]. Non mancavano tuttavia nel Mezzogiorno, per esempio in Campania, in Puglia e in Sicilia, zone fertili e pianeggianti dove erano diffuse le colture specializzate – ortaggi, frutta, agrumi, vino, olio – destinate all’esportazione. Una parte molto estesa dell’Italia, soprattutto nelle zone altocollinari o montane, continuava a praticare un’agricoltura di pura sussistenza, dove l’autoconsumo era la regola. pellagra Malattia provocata dalla carenza di vitamina PP che provoca infezioni della pelle e, aggravandosi, può portare alla pazzia e alla morte. Colpiva soprattutto le campagne del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia che avevano il mais come alimento base della loro dieta (dalla cui farina non può essere assimilata la vitamina PP).
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LE CONDIZIONI DI VITA DELLE POPOLAZIONI RURALI Tutto ciò si rifletteva nel bassissimo livello di vita della popolazione rurale. I contadini italiani, nella loro grande maggioranza, vivevano ai limiti della sussistenza fisica. Si nutrivano quasi esclusivamente di pane – per lo più non di frumento, ma di cereali “inferiori” come granturco, avena e segale – e di pochi legumi: andavano quindi soggetti alle malattie da denutrizione, prima fra tutte la pellagra*. Vivevano, soprattutto nel Sud, ammucchiati in abitazioni piccole e malsane, non di rado in capanne o in caverne che spesso servivano da ricovero anche per gli animali.
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IL DIVARIO TRA NORD E SUD Per gran parte sconosciute alla classe dirigente del paese erano le condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno. Lo stesso Cavour non si era mai spinto a sud di Firenze. Quando, nell’autunno del 1860, il romagnolo Luigi Carlo Farini fu inviato nelle province meridionali in qualità di luogotenente generale (cioè rappresentante del governo) non seppe nascondere il proprio stupore e il proprio disprezzo: «Che barbarie! – scriveva in una lettera a Cavour – Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civili». Impressioni che, se da un lato segnalavano pregiudizi e incomprensioni destinati a durare nel tempo, dall’altro poggiavano su un reale divario tra Nord e Sud del paese e ne testimoniavano anche la distanza culturale e la diversità di comportamenti e mentalità.
F
LEGGERE LE FONTI
Giuseppe Colombo, A una Italia agricola e arretrata si affiancavano anche zone caratterizzate Milano da un’economia moderna e collegata ai industriale G. Colombo, Milano Industriale, in L. Cafagna (a c. di), Il Nord nella storia d’Italia. Antologia politica dell’Italia industriale, Laterza, Bari 1962, pp. 39-46.
principali mercati internazionali, soprattutto nel Nord Italia. È questo il contesto in cui si sviluppò la città di Milano. Nel seguente articolo, Giuseppe Colombo (1836-1921), ingegnere, imprenditore e uomo politico (fu più volte ministro e presidente della Camera
nel 1899), descrive il carattere industriale della città lombarda. Lo sviluppo economico milanese si differenziava dai modelli consueti, basati soprattutto sulle grandi fabbriche meccaniche e siderurgiche: Milano aveva infatti un’economia di tipo manifatturiero, incentrata su produzioni artigianali di altissima qualità e raffinatezza.
Milano non ha né la forza idraulica necessaria, né la mano d’opera a buon mercato che si richiede per le grandi industrie tessili, come quelle del cotone, del lino e della lana; [...] Tuttavia la fabbricazione delle stoffe operate di seta, dei velluti, dei nastri, dei passamani, dei veli, dei tessuti elastici, degli scialli di lana, la tintoria, la stampa e l’apparecchiatura dei tessuti ne compensano la mancanza senza offrire gli stessi pericoli, poiché si tratta di industrie, nelle quali l’arte, la moda, la sceltezza della mano d’opera hanno un valore predominante, e che, perciò, trovano in una città gli elementi più adatti a farle nascere e sviluppare. [...] All’infuori delle officine di costruzione di macchine, di una cartiera, e di pochissime altre fabbriche, Milano manca di opifici a grande impianto [...]. Gli opifici a grande impianto non possono, è vero, fiorire in Milano; ma i capitali milanesi li vanno a installare dove le circostanze sono loro più propizie, dove c’è abbondanza d’acqua e maestranza numerosa e a buon mercato, allo sbocco delle valli che confluiscono dalle Alpi alla pianura di cui Milano è il centro. In Milano ha la sua sede la direzione dell’azienda, qui si fa il commercio delle materie prime e dei prodotti delle vaste fabbriche sparse lungo il corso dell’Olona e del Lambro e persino di quelle installate allo sbocco delle valli bergamasche e bresciane. [...] È in questo senso che Milano può essere considerato come il centro industriale più attivo d’Italia. [...] La grande industria, adunque, fa sentire alla città i suoi benefici effetti, ma non è localizzata nella città stessa. In questa, invece, fioriscono tutte quelle fabbricazioni, che non troverebbero al di fuori l’alimento senza cui non possono vivere. Tali sono le industrie che, in più o meno grande misura, dipendono dall’elemento artistico, dalla moda. [...] Si sarà visto come l’attività industriale milanese si estrinsechi soprattutto [...] nelle manifatture che mirano a soddisfare ai bisogni del lusso, che si esercitano senza sussidio di forza motrice, o per lo meno senza esigere un grande consumo di forza, che si fanno meglio in piccoli laboratori o col sistema della fabbricazione a domicilio per conto e sotto la direzione di forti ditte commerciali, piuttosto che in quelle manifatture che si esercitano in colossali opifici, con un numeroso personale operaio e con un vistoso dispendio di forza. In una parola, l’industria milanese è piuttosto un’industria di dettaglio; essa produce più nel genere fino, elegante, costoso, che si smercia in misura modesta, ma compensa col prezzo le minori proporzioni della vendita, che non nel genere usuale e a buon mercato, che si fabbrica in grande scala, e che richiede appunto perciò dei mezzi adeguati alla produzione, cioè molta forza e molta mano di opera a poco prezzo. PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a In quale modo il settore tessile della città di Milano riesce a compensare la mancanza dei fattori richiesti per uno sviluppo industriale su larga scala?
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b Quali strategie di mercato adottano gli imprenditori milanesi per la realizzazione di opifici di grandi dimensioni?
d Per quale ragione l’attività dell’industria tessile milanese può essere definita «un’industria di dettaglio»?
c In quali settori produttivi si specializzano le industrie tessili presenti a Milano?
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STORIA IMMAGINE Telemaco Signorini, La campagna nei dintorni di Siena 1868-70 [Collezione privata, Firenze] Nell’800 il sistema agricolo dell’Italia centrale, soprattutto in Toscana, Umbria e Marche, si basa sul contratto di mezzadria con il quale il proprietario concede la sua terra a un contadino, che si impegna a lavorarla con l’aiuto dei suoi familiari. L’essenza del contratto è che i prodotti devono essere divisi a metà tra proprietario e contadino, e questi deve impegnarsi a riservarne una parte per le coltivazioni future. Non si tratta, come accade al Sud, di una agricoltura intensiva di grano ma di colture differenziate: grano, vite, alberi da frutto e olivo, come si vede anche nel dipinto di Telemaco Signorini che ritrae un contadino che ara in un podere nella campagna nei dintorni di Siena.
Al momento dell’Unità questo divario si misurava anche sul piano della disponibilità di infrastrutture, della produttività agricola e dell’istruzione di base. Se al Nord, nella Pianura padana e in particolare in Piemonte, esisteva già una rete ferroviaria sviluppata, al Sud, salvo qualche breve tratto intorno a Napoli, le ferrovie erano inesistenti. Il valore della produzione agricola per ettaro era al Sud pari a un terzo di quello della Lombardia e a metà di quello del Piemonte. Molto significativo risultava inoltre il differenziale di alfabetizzazione: in Piemonte e in Lombardia gli analfabeti erano intorno al 54%, in Puglia salivano all’86% e in Sicilia all’89%. Il divario tra Nord e Sud segnalava già l’emergere di un problema nazionale che sarebbe stato definito in seguito come «questione meridionale»: tuttavia allora nel confronto con l’Europa le differenze tra le “due Italie” risultavano appiattite e accomunate da una generale arretratezza rispetto ai paesi più sviluppati del continente.
La classe politica 2 e i primi procedimenti legislativi
Parole della storia Accentramento/ decentramento, p. 544 Storia e educazione civica Il diritto di voto, p. 568
Tutt’altro che agevole fu governare l’Italia dopo la sua unificazione. L’improvvisa e precoce morte di Cavour (giugno 1861) lasciava priva di guida la classe dirigente moderata, anche se i successori di Cavour si attennero sostanzialmente alla politica da lui già impostata nelle grandi linee: una politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme accentratrice, liberista in campo economico, laica in materia di rapporti fra Stato e Chiesa. LA DESTRA STORICA Il gruppo dirigente che governò ininterrottamente il paese nel primo quindicennio non era molto diverso da quello che si era formato dopo il ’49 in Piemonte [Ź13_3]. Il nucleo centrale era costituito dai moderati
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piemontesi, cioè dalla vecchia maggioranza della Camera subalpina. A essa si erano uniti i gruppi moderati lombardi, emiliani e toscani. Meno numerosa era la rappresentanza delle regioni meridionali, che pure contava personalità di tutto rilievo. Diversi per provenienza geografica, per formazione culturale e per esperienze politiche, questi uomini formavano tuttavia un gruppo abbastanza omogeneo, sia dal punto di vista sociale – appartenevano prevalentemente ai ceti superiori – sia sotto il profilo politico. Nei primi Parlamenti dell’Italia unita, la maggioranza si collocava a destra e come Destra essa venne definita nel linguaggio politico corrente (l’aggettivo «storica» fu aggiunto più tardi, per sottolineare la funzione decisiva svolta da quella classe dirigente nella storia d’Italia). In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato: la vera destra – quella dei clericali e dei nostalgici dei vecchi regimi – si era infatti autoesclusa dalle istituzioni in quanto non riconosceva la legittimità del nuovo Stato. LA SINISTRA Anche i mazziniani di stretta osservanza e, in genere, i repubblicani intransigenti rifiutarono di partecipare all’attività politica ufficiale. Sui banchi dell’opposizione in Parlamento sedettero gli esponenti della vecchia sinistra piemontese, insieme con un numero via via crescente di patrioti mazziniani o garibaldini che avevano deciso di inserirsi nelle istituzioni monarchiche, sia pure per cambiarle: essi formavano la cosiddetta Sinistra. Rispetto alla Destra, la Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, formata essenzialmente dai gruppi borghesi delle città – professionisti e intellettuali, ma anche commercianti e imprenditori – e comprendeva anche gruppi di operai e artigiani del Nord, esclusi dall’elettorato. Nei primi anni dopo l’Unità, la I PROVVEDIMENTI DELLA DESTRA STORICA
DESTRA STORICA
Accentramento statale
Unificazione ordinamenti
Burocrazia
Repressione del brigantaggio
Legato al malessere delle masse per la...
Politica liberista
Introduzione della tassa sul macinato Abolizione barriere doganali
Leggi unificatrici
Legge Casati
Legge Rattazzi
Istruzione elementare obbligatoria
Sindaci e prefetti di nomina regia
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Unificazione economica
Leva obbligatoria
Costruzione rete ferroviaria
Pesante fiscalità
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Sinistra fece proprie e portò avanti le rivendicazioni democratiche risorgimentali: il suffragio universale, il decentramento amministrativo (che comportava la concessione di margini di autonomia alle comunità locali) e soprattutto il completamento dell’Unità, da raggiungersi tramite la ripresa dell’iniziativa popolare. collegio uninominale Nel linguaggio politico il sistema elettorale “uninominale” prevede l’elezione di tanti candidati quanti sono i collegi, ovvero le circoscrizioni territoriali di voto (determinate in base al numero degli elettori residenti). Nel sistema elettorale uninominale puro a ogni collegio corrisponde un seggio e in ognuno viene eletto un candidato. Esistono sistemi uninominali a un turno, nei quali il seggio è assegnato al candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti – anche nel caso in cui questa maggioranza non sia assoluta –, e sistemi uninominali a due turni che, nel caso in cui nessuno abbia conquistato la maggioranza assoluta nel primo turno, prevedono un ballottaggio tra i due candidati più votati. Il sistema postunitario italiano prevedeva il ballottaggio.
IL SISTEMA ELETTORALE Destra e Sinistra erano comunque entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta, di un “paese legale” assai poco rappresentativo del “paese reale”. La legge elettorale piemontese, estesa a tutto il Regno, concedeva infatti il diritto di voto solo a quei cittadini maschi che avessero compiuto i 25 anni, sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all’anno. Nelle prime elezioni dell’Italia unita gli iscritti nelle liste elettorali erano circa 400 mila, meno del 2% della popolazione totale e del 7% dei maschi adulti. Se poi si calcola che la percentuale di coloro che si astenevano era molto elevata – sfiorando spesso il 50% – si capirà come, grazie anche al sistema del collegio uninominale*, bastassero poche centinaia o addirittura poche decine di voti per eleggere un deputato. La vita politica assumeva così un carattere oligarchico e personalistico. Nell’assenza di partiti organizzati nel senso moderno del termine, la lotta politica si imperniava su singole personalità più che su programmi definiti: era dominata da pochi notabili in grado di sfruttare la propria influenza e le proprie relazioni per ottenere i voti necessari all’elezione e pesantemente condizionata dal potere esecutivo che facilmente poteva favorire la riuscita dei candidati “governativi”, indirizzando il voto dei militari e degli impiegati nella pubblica amministrazione. Per quanto ristretta, la classe dirigente era tuttavia convinta di rappresentare la parte migliore del paese: e, in effetti, gli uomini della Destra storica si distinsero per onestà e per rigore, tanto da costituire, da questo punto di vista, un esempio mai più superato nella storia dell’Italia unita. LA SCELTA DELL’ACCENTRAMENTO D’altro canto, gli esponenti della Destra storica furono portati a identificare le sorti del proprio gruppo politico con quelle delle istituzioni statali, sottoposte alla duplice minaccia dei “neri” e dei “rossi”, ossia dei clericali reazionari e dei repubblicani rivoluzionari, e a considerare i fermenti e le inquietudini della società come attentati al bene supremo dell’unità appena raggiunta. La preoccupazione quasi ossessiva dell’unità da salvaguardare contro nemici veri o presunti condizionò pesantemente le scelte dei primi governi postunitari e determinò in larga parte la stessa fisionomia del nuovo Stato. I leader della Destra, ammiratori dell’esempio britannico, erano disposti a riconoscere in teoria la validità di un sistema decentrato, basato sull’autogoverno (self-government) delle comunità locali. Nei fatti,
LE PAROLE DELLA STORIA
Accentramento/ decentramento Per tutto il secolo XIX la scena politica europea fu dominata dallo scontro fra conservatori, liberal-moderati e democratici: tale scontro riguardava da un lato le forme e i modi della partecipazione al potere, dall’altro l’organizzazione del potere, ovvero la forma delle istituzioni statali, accentrata o decentrata. La linea di divisione fra i sostenitori dell’uno e dell’altro modello non coinci-
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deva con quella fra conservatori e progressisti. Nell’800 furono soprattutto i democratici a sostenere l’accentramento e l’unità amministrativa, vista come strumento di uguaglianza, mentre conservatori e moderati difesero le autonomie e le diversità locali come il contesto più adatto a far valere i tradizionali privilegi sociali delle classi alte. In Italia, invece, esisteva fra i democratici una forte corrente autonomista e federalista (si pensi a Cattaneo), mentre i moderati, al potere dopo l’unificazione, realizzarono
un ordinamento fortemente accentrato. Presi in sé, dunque, l’accentramento e il decentramento non sono né “di destra”, né “di sinistra”: entrambi possono essere usati con scopi politici opposti. È vero invece che la propensione all’accentramento è propria in qualche misura di chi detiene il potere centrale (e cerca di rafforzarne le basi), mentre il decentramento è solitamente rivendicato dalle forze che da quel potere sono escluse o non vi si sentono adeguatamente rappresentate.
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STORIA IMMAGINE Pierre Tetar van Elven, Inaugurazione del primo Parlamento del Regno d’Italia XIX sec. [Museo del Risorgimento, Torino] Nel dipinto, le due Camere riunite ascoltano il discorso di inaugurazione pronunciato da Vittorio Emanuele II: il 18 febbraio 1861 si apre l’VIII legislatura del Regno d’Italia (la numerazione continua quella delle legislature del Regno di Sardegna), a Torino, che sarà la capitale fino al 1864. Nelle tribune riservate al pubblico, che circondano in alto la sala, si possono distinguere diverse signore, mentre i deputati e i senatori eletti sono tutti uomini.
Fare storia Dopo l’Unità italiana: brigantaggio e “guerra per il Mezzogiorno”, p. 595
3 Storiografia 89 R. Romanelli, Il centralismo liberale: origini e motivazioni, p. 585
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però, prevalsero le esigenze pratiche immediate, che spingevano i governanti a stabilire un controllo il più possibile stretto e capillare su tutto il paese e dunque a scegliere un modello di Stato accentrato molto vicino a quello napoleonico [Ź9_1]: basato cioè su ordinamenti uniformi per tutto il Regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro. L’accentramento era anche il risultato inevitabile della unificazione, ottenuta attraverso l’annessione delle varie province al Regno di Sardegna e la conseguente adesione al suo impianto istituzionale e alle sue leggi. Tra il giugno ’59 e il gennaio ’60, grazie ai poteri straordinari conferiti al governo dallo stato di guerra con l’Austria, erano state varate senza alcun controllo parlamentare numerose leggi riguardanti i settori chiave della vita del paese: oltre ad estendere, con piccole modifiche, le leggi piemontesi alle province appena annesse (così fu, ad esempio, per la legge elettorale), furono emanate leggi nuove: la legge Casati sull’istruzione, che creava un sistema scolastico nazionale e stabiliva il principio dell’istruzione elementare obbligatoria (demandandone però l’attuazione ai comuni); la legge Rattazzi sull’ordinamento comunale e provinciale, che affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a un sindaco di nomina regia. Il territorio nazionale era suddiviso in province, che rappresentavano le circoscrizioni amministrative più importanti, poste sotto lo stretto controllo dei prefetti, rappresentanti del potere esecutivo centrale su tutto il paese. Anche questa legge fu successivamente estesa, con poche modifiche, a tutto il Regno.
Le rivolte contro l’Unità e il brigantaggio L’OSTILITÀ DEI CONTADINI MERIDIONALI Tra i motivi che spinsero la classe politica a scegliere l’accentramento e ad accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito certamente dalla situazione che si era venuta a creare nel Mezzogiorno. Nelle province meridionali liberate
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dal regime borbonico, il malessere antico delle masse contadine si sommò a una diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico, che non aveva portato alcun mutamento radicale nella sfera dei rapporti sociali, anzi aveva visto la borghesia rurale schierarsi dalla parte dei “conquistatori”. E a questo si erano aggiunte la nuova pesante fiscalità e la leva militare obbligatoria osteggiate duramente dal mondo contadino. Già nell’ultima fase dell’impresa garibaldina erano scoppiate, soprattutto in Campania, rivolte contadine di una certa gravità: rapidamente i disordini si fecero più estesi e più frequenti, fino a trasformarsi in una generale insorgenza, incoraggiata da una parte del clero e finanziata dalla corte borbonica in esilio a Roma. IL BRIGANTAGGIO Dall’estate del 1861, in tutte le regioni del Mezzogiorno continentale si erano formate bande di irregolari, dove i contadini insorti si mescolavano agli ex militari borbonici (per i quali la fine del Regno delle Due Sicilie si era trasformata in una catastrofe personale), ai cospiratori legittimisti italiani e stranieri, ai banditi veri e propri. Le bande assalivano di preferenza i piccoli centri e li occupavano per giorni, massacrando i notabili liberali e incendiando gli archivi comunali: quindi si ritiravano sulle montagne per attaccare subito dopo altrove. A queste aggressioni, che parevano mettere in gioco il controllo territoriale di intere regioni, il governo reagì con spietata energia, rafforzando in primo luogo la presenza militare nel Sud. Fin dai primi tempi di queste sollevazioni si registrarono, in risposta agli eccidi delle bande, rappresaglie indiscriminate compiute dall’esercito: come quella di Pontelandolfo, nei pressi di Benevento, dove nell’agosto 1861 furono uccisi 400 civili e incendiato il paese. Nel 1863 il Parlamento approvò una legge che istituiva, nelle province dichiarate in stato di “brigantaggio”, un vero e proprio regime di guerra: tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi avesse opposto resistenza con le armi. Sia per l’efficacia delle misure repressive, sia per
LEGGERE LE FONTI ICONOGRAFICHE 11
Immagini del brigantaggio Le fotografie dei briganti a nostra disposizione sono state realizzate in studio o comunque a partire da pose statiche, per “ricostruire” episodi particolari o atteggiamenti e tecniche dei protagonisti. La maggior parte di esse sono state realizzate da fotografi al seguito dell’esercito unitario o presso i luoghi di detenzione e intendono trasmettere l’idea che i briganti siano di innata indole criminale.
Ź Il brigante Nicola Napolitano fotografato dopo la sua fucilazione ottobre 1863 [Istituto per la Storia del Risorgimento, Roma] ŹŹ Briganti della banda di Crocco, attiva in Basilicata, fotografati dopo la cattura 1864 [Istituto per la Storia del Risorgimento, Roma]
GUIDA ALLA LETTURA a Osserva attentamente le due fotografie e ricava, per ognuna di esse, informazioni sui personaggi raffigurati: sul modo in cui sono vestiti, sulla posizione che hanno assunto nello spazio e sugli atteggiamenti tenuti.
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b Descrivi per iscritto, per ogni fotografia, chi sono i personaggi raffigurati e che ruolo hanno facendo riferimento agli elementi individuati nell’esercizio precedente. c Spiega quale messaggio intendono passare queste immagini e in che modo.
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la stanchezza della popolazione, il brigantaggio fu sconfitto nel giro di qualche anno, e nel 1865 le bande più importanti erano state isolate e distrutte.
asse ecclesiastico Questa espressione, che indica i beni degli enti ecclesiastici, compare nella legislazione per la soppressione degli istituti religiosi, dalle leggi piemontesi del 1855 fino al Concordato lateranense del 1929, che sancì la pacificazione tra Stato e Chiesa.
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IL PROBLEMA DELLA TERRA Rimasero però irrisolti i nodi politici e sociali che avevano reso possibile la diffusione del fenomeno. Mancò ai governi della Destra la capacità o la volontà di attuare una politica per il Mezzogiorno capace di ridurre le cause del malcontento: cause legate in gran parte alla mancata realizzazione delle secolari aspirazioni contadine alla proprietà della terra. La divisione dei terreni demaniali – ossia delle terre pubbliche di origine feudale o comunale – fu portata avanti con scarsa incisività, mentre la vendita dei terreni dell’asse ecclesiastico*, attuata col sistema delle vendite all’asta, non migliorò la situazione dei piccoli proprietari e dei contadini senza terra, che non erano in grado di concorrere all’acquisto dei fondi, e si risolse in tutta Italia in un rafforzamento della grande proprietà. In generale le scelte di politica economica della Destra accentuarono il divario fra le regioni del Sud e quelle del Centro-Nord.
L’economia e la politica fiscale L’UNIFICAZIONE ECONOMICA Parallelamente all’unificazione amministrativa e legislativa, i governi della Destra dovettero affrontare il complesso problema dell’unificazione economica del paese. Vennero uniformati a quello del Piemonte i diversi sistemi monetari presenti nella penisola, con l’adozione di un’unica moneta, la lira italiana, e fu creato un unico regime fiscale. La legislazione doganale liberista vigente nel Regno sardo, basata su dazi di entrata molto bassi, fu estesa a tutta l’Italia, penalizzando, come vedremo, il Mezzogiorno fino ad allora inserito in un sistema protezionistico. Molto rapido fu lo sviluppo delle vie di comunicazione stradali e ferroviarie, premessa indispensabile per la formazione di un mercato nazionale ma anche simbolo visibile di modernità e di progresso civile: in particolare della rete ferroviaria che nel primo decennio unitario passò da poco più di 2 mila a circa 6 mila chilometri, collegando il Nord al Sud. Anche se la nuova rete ferroviaria, per gli alti costi, rimase inizialmente poco utilizzata: per le lunghe distanze si continuò a preferire il trasporto delle merci via mare. L’INDUSTRIA E L’AGRICOLTURA Nei primi decenni dopo l’Unità il settore agricolo conobbe un significativo incremento di produttività di cui si avvantaggiarono soprattutto le colture specializzate del Mezzogiorno e la produzione della seta greggia (ossia di quella giunta solo allo stadio della filatura), principali voci dell’esportazione italiana. Invece il settore industriale fu nel complesso penalizzato dall’accresciuta concorrenza internazionale favorita dalla politica liberista. Declinarono la produzione laniera e, cosa ancora più grave, i settori siderurgico e meccanico, ancora lontanissimi dal potersi giovare dell’occasione che in altri paesi era stata offerta dallo sviluppo delle ferrovie, la cui costruzione si avvalse di materiali d’importazione e di imprese prevalentemente straniere. Gli effetti negativi della scelta liberista colpirono soprattutto i pochi nuclei industriali del Mezzogiorno, inesorabilmente cancellati dalla caduta dei dazi protettivi che ne avevano sostenuto lo sviluppo. Le attività industriali non erano del resto al centro dell’attenzione degli uomini politici italiani, tanto della Destra quanto della Sinistra, convinti che la vocazione dell’Italia risiedesse nell’agricoltura, base del suo sviluppo economico, mentre lo sviluppo industriale sarebbe venuto semmai più tardi.
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L’espansione dell’agricoltura degli anni ’60 e ’70, derivante da queste scelte, consentì un’accumulazione di capitali che rese possibile un ulteriore potenziamento delle infrastrutture (strade, ferrovie), indispensabile per il futuro sviluppo industriale del paese. Ma nel complesso, dopo un ventennio di vita unitaria, l’Italia aveva perso terreno nei confronti dei paesi più progrediti e il tenore di vita della maggioranza dei suoi abitanti non aveva registrato mutamenti di rilievo: anzi, in alcuni casi, era addirittura peggiorato.
Ÿ Attilio Pusterla, Alle cucine economiche di Porta Nuova 1886-87 [Galleria d’Arte Moderna, Milano] Proposta per la prima volta da Quintino Sella nel 1862, la tassa sul macinato fu approvata solo nel 1868, per un giusto timore circa le reazioni che avrebbe provocato da parte delle fasce sociali più deboli già colpite dalle dure condizioni economiche postunitarie.
UNA PESANTE FISCALITÀ Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica fiscale, legata alla necessità di coprire i costi dell’unificazione. La costruzione del nuovo Stato aveva infatti comportato spese altissime, sia nel campo delle comunicazioni sia in quelli dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione e dell’esercito. Per far fronte a queste spese, i governi della Destra dovettero ricorrere a una serie di inasprimenti fiscali, che colpivano sia i redditi e i patrimoni sia i consumi (tasse su sali e tabacchi, dazi locali sui generi alimentari). La situazione si aggravò ulteriormente dopo il 1866, in conseguenza delle spese sostenute per la guerra contro l’Austria (la terza guerra d’indipendenza, di cui si dirà nel paragrafo successivo). Nell’estate del 1868 fu introdotta infatti una tassa sulla macinazione dei cereali, meglio nota come tassa sul macinato: si trattava in pratica di una tassa sul pane, cioè sul consumo popolare per eccellenza, che colpiva duramente le classi più povere, tanto da scatenare all’inizio del 1869 le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell’Italia unita. Scoppiati spontaneamente un po’ in tutto il paese, i moti contro la tassa sul macinato assunsero dimensioni preoccupanti soprattutto nelle campagne padane. La repressione fu anche in questo caso durissima.
STORIA IMMAGINE Locomotiva nel Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa Al compimento dell’Unità d’Italia era attivo nell’ex Regno delle Due Sicilie l’Opificio di Pietrarsa (alla periferia di Napoli), un’industria siderurgica che da poco più di 15 anni lavorava a pieno regime producendo locomotive a vapore e facendo concorrenza alle analoghe industrie britanniche. Proprio a scapito di questa officina andarono le manovre del governo unitario che appaltò buona parte delle sue commesse alla società Ansaldo, società di Sampierdarena (Genova) nata nel 1853 grazie al forte impegno di Cavour. La mancanza delle commesse statali e la scelta liberista del governo colpirono quindi Pietrarsa, insieme agli altri pochi nuclei industriali del Mezzogiorno. L’opificio campano fu ceduto in affitto a privati e rimase attivo fino al 1975. Dal 1989 è stato trasformato in un museo ferroviario.
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Eventi chiave Roma capitale, p. 550
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La conquista del Veneto 5 e la presa di Roma A pochi anni dalla proclamazione dell’Italia unita la Destra e la Sinistra avevano il comune obiettivo di completare il processo di unificazione annettendo il Veneto e soprattutto il Lazio con Roma. Mentre i leader della Destra si affidavano ai tempi lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava fedele all’idea della guerra popolare e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma l’occasione per un rilancio dell’iniziativa democratica. In realtà, le acquisizioni del Veneto e di Roma, che avvennero rispettivamente nel 1866 e nel 1870, furono fortemente condizionate dal mutare degli equilibri europei sui quali pesò il rinnovato dinamismo politico e militare della Prussia [Ź16_1 e 2]. LA QUESTIONE ROMANA
Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla questione di Roma, proclamata formalmente capitale del nuovo Stato già nel marzo 1861, ma sede di un pontificato ostile all’Unità e difesa dalle truppe francesi. La questione romana andava risolta con prudenza perché da un lato la Francia rimaneva l’alleato più sicuro e il principale partner economico dell’Italia, dall’altro il paese era cattolico al 99% e il clero continuava a svolgere un ruolo decisivo nel controllo sociale e culturale delle campagne. Lo stesso Cavour era stato dell’avviso di muoversi con cautela: fedele al principio «libera Chiesa in libero Stato», aveva avviato trattative in vista di una soluzione che assicurasse al papa e al clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale in cambio della rinuncia al potere temporale e del riconoscimento del nuovo Stato. Su questa stessa linea si mossero i governi italiani anche in seguito, registrando tuttavia l’impraticabilità di una conciliazione osteggiata fermamente da Pio IX.
STORIA IMMAGINE Vincenzo Malinverno, Aspromonte fine XIX sec. [Museo Civico del Risorgimento, Bologna] Lo scontro avvenuto sull’Aspromonte fra le truppe italiane e quelle garibaldine, durante il quale Garibaldi fu ferito e arrestato, suscitò un’ondata di sdegno verso la
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politica del Regno sabaudo, tanto che anche il poeta Giosuè Carducci (1835-1907) se ne fece portavoce, già nel settembre 1862. Il ferimento e successivo arresto del generale diedero vita a una serie di aneddoti e canti popolari e furono d’ispirazione a
diverse opere pittoriche, fra le quali questa, creata da Gerolamo Induno e copiata da Malinverno: come un santo patrono, Garibaldi è portato a spalla e sostenuto da una moltitudine di persone, come in una processione tra le montagne calabre.
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Storiografia 89 R. Romanelli, Il centralismo liberale: origini e motivazioni, p. 585
E
IL FALLIMENTO DEI TENTATIVI GARIBALDINI Di fronte a questa situazione di stallo apparve possibile una ripresa della mobilitazione patriottica democratica guidata ancora una volta da Garibaldi. Ma i due tentativi del 1862 e del 1867 si rivelarono male organizzati, in larga misura velleitari e destinati all’insuccesso. Nel 1862 Garibaldi raccolse in Sicilia qualche migliaio di volontari, varcò lo Stretto di Messina ma fu fermato (e ferito) sull’Aspromonte dalle truppe regie intervenute ad arrestare la spedizione che minacciava di provocare un intervento militare della Francia di Napoleone III. Due anni dopo, nel 1864, fu trovato un accordo con la Francia – la cosiddetta Convenzione di settembre – in base al quale l’Italia si impegnava a garantire il rispetto dei confini dello Stato della Chiesa, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. A garanzia del suo impegno, il governo decideva di trasferire la capitale da Torino a Firenze in quella che sembrava una rinuncia a Roma. La decisione suscitò nella città piemontese violenti disordini popolari che vennero duramente repressi dai militari causando oltre 50 morti. Nel 1867 prese avvio una nuova iniziativa garibaldina, che avrebbe dovuto appoggiarsi su un’insurrezione preparata dai patrioti romani. Si sperava in tal modo di giustificare il colpo di mano, presentandolo come un atto di volontà popolare, e di evitare l’intervento francese. Napoleone III inviò invece un
EVENTI CHIAVE
Roma capitale La conquista di Roma fu resa possibile da un fatto imprevisto, e difficilmente prevedibile: la sconfitta della Francia a Sedan per mano della Prussia di Bismarck (1° settembre 1870, Ź16_2). Qualche giorno dopo, mentre la Germania completava il processo d’unificazione, in Francia cadeva il Secondo Impero e con esso anche la tutela esercitata sui domìni pontifici da Napoleone III. Era l’occasione che l’Italia stava aspettando. Il 10 settembre un inviato del re Vittorio Emanuele II propose a papa Pio IX di rinunciare pacificamente alla sovranità sullo Stato pontificio – che ormai comprendeva solo il Lazio – garantendogli la piena indipendenza spirituale della Santa Sede. La risposta del pontefice fu negativa. Due giorni dopo il generale Raffaele Cadorna, alla testa di 60 mila uomini, entrò nello Stato pontificio, e in cinque giorni, senza incontrare resistenze, raggiunse Roma. Al papa fu offerta una seconda occasione per arrendersi, ma la risposta rimase negativa, anche se la città era ormai quasi interamente circondata e stava per sopraggiungere anche un contingente da Civitavecchia, guidato da Nino Bixio. Pio IX non era intenzionato a resistere ad oltranza, ma a difendersi quanto bastava per dimostrare di essere oggetto di una violenza da parte italiana. Le truppe regie si erano concentrate fra Porta Salara (oggi piazza Fiume) e Porta Maggiore.
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L’inizio dell’attacco era previsto per l’alba del 20 settembre. Dalle cinque del mattino le artiglierie cominciarono a bersagliare Porta San Giovanni e Porta San Lorenzo, ma si concentrarono prevalentemente su Porta Pia e Porta Salara. Alle nove e mezza una breccia si aprì alla destra di Porta Pia. Dopo qualche minuto i bersaglieri, insieme ad altri reparti di fanteria, superarono la breccia, fra squilli di tromba, grida che inneggiavano ai «Savoia!» e colpi d’artiglieria. Il combattimento non durò a lungo: gli italiani entrarono in città senza incontrare resistenze, accolti da una popolazione romana non troppo stupita dall’esito della battaglia. Poco dopo, quando sulla cupola di San Pietro fu issata la bandiera bianca della resa, i combattimenti cessarono ovunque: si sarebbero contati 19 morti tra i soldati pontifici e 48 tra gli italiani. Mentre i soldati regi entravano a Roma, quelli del pontefice si ritiravano nel rione di Borgo, accanto al Vaticano. Il giorno seguente anche questa zona fu occupata e Pio IX si chiuse in Vaticano, per non uscirne più. Dopo oltre un millennio cessava l’esistenza dello Stato pontificio. Il 2 ottobre 1870 si tenne il plebiscito che doveva decidere le sorti di Roma. Alla formula «Vogliamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il governo costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori» 40.875 furono i “sì” e 46 i “no”. Gli iscritti al voto, a suffragio universale maschile, non superavano i due terzi
dei maschi maggiorenni, ma l’affluenza fu elevata, raggiungendo l’87,6% degli aventi diritto. In un clima allegro, con cortei di persone vestite a festa, Roma votò la sua annessione al Regno, segnando il raggiungimento di una tappa che il percorso di unificazione del 1861 aveva lasciato incompiuta e a cui avevano tentato di rimediare due sfortunate spedizioni garibaldine. Il 9 ottobre, con il decreto d’accettazione del plebiscito, Roma diventava ufficialmente italiana e si univa alla monarchia costituzionale dei Savoia. Due questioni, di fondamentale rilevanza per tutta la nazione, erano ancora da sciogliere: la definizione giuridica dei rapporti fra Stato e Chiesa e il trasferimento della capitale da Firenze a Roma. Il 13 maggio 1871, con la legge delle Guarentigie, lo Stato italiano riconobbe al papa, in modo unilaterale, una serie di garanzie. Il papa respinse in toto la legge, che continuò a regolare i rapporti fra Stato e Chiesa fino ai Patti lateranensi del 1929. Ben oltre questa data, con echi che si avvertono ancora oggi, le questioni della libertà della Chiesa e della laicità dello Stato sarebbero rimaste rilevanti, costituendo un elemento di divisione nella società italiana. Sullo status di Roma capitale, invece, c’era una convergenza ampia. Roma è stata sempre una capitale, della Repubblica e dell’Impero romano, della Cristianità, del cattolicesimo e di uno Stato ecclesiastico. Dall’idea di Roma capitale non po-
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corpo di spedizione nel Lazio, mentre l’insurrezione a Roma falliva per la sorveglianza della polizia e per la scarsa partecipazione popolare. Il 3 novembre 1867, le truppe francesi da poco sbarcate a Civitavecchia si scontrarono presso Mentana, alle porte di Roma, con i volontari garibaldini e li sconfissero dopo un duro combattimento [Ź _31]. LA TERZA GUERRA D’INDIPENDENZA E LA CONQUISTA DEL VENETO Intanto, l’anno precedente alla sconfitta di Mentana l’Italia era riuscita ad assicurarsi il possesso del Veneto. Nel 1866 il governo italiano aveva infatti accettato la proposta di alleanza militare con la Prussia rivolta da Bismarck, che si apprestava ad affrontare la guerra con l’Impero asburgico. La partecipazione italiana fu decisiva per l’esito del conflitto, in quanto impegnò una parte dell’esercito austriaco agevolando la vittoria prussiana. Ma, per le forze armate nazionali chiamate alla loro prima prova impegnativa, la guerra si risolse in un clamoroso insuccesso. Gli italiani, infatti, furono sconfitti sia per terra, a Custoza, sia per mare, presso l’isola di Lissa, nonostante le forze austriache fossero inferiori di numero: gravi errori di valutazione dei comandi trasformarono in dure sconfitte quelli che in realtà erano stati degli scontri brevi e confusi, con perdite limitate da ambo le parti. Solo Garibaldi, con i suoi volontari, era riuscito ad aprirsi la via verso Trento, ma aveva dovuto fermarsi perché i prussiani, raggiunti i loro
teva prescindere il Risorgimento, che alla città aveva legato un patriottismo intriso di richiami alla gloria e alla grandezza del passato. Proclamata l’Unità d’Italia, a dieci giorni di distanza (27 marzo 1861), Roma era stata acclamata dal Parlamento capitale del nuovo Stato. Ecco le ragioni della scelta, esposte da Cavour: «Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio; di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato». Dovevano passare dieci anni perché questa prospettiva si realizzasse. La Roma pontificia, che per molti era stata il simbolo di una società arretrata, ostile ai valori liberali e democratici, diventava la capitale amministrativa e politica del Regno d’Italia. L’annessione e poi la designazione a capitale scatenarono intense e accelerate trasformazio-
ni a livello urbanistico, sociale e culturale. Oltre al trasferimento del re, la città diventava la sede del Parlamento, della presidenza del Consiglio dei ministri, dei vari ministeri. A Roma, che all’epoca non era la città più popolosa d’Italia (contava circa 226 mila abitanti ed era di gran lunga superata da Napoli), si riversarono migliaia di immigrati: impiegati statali, professionisti, commercianti ma anche manovali, attratti dall’inizio dell’espansione edilizia che avrebbe cambiato la fisionomia della città. Dal 1870 il destino di Roma si è saldato a quello nazionale, come il ricordo della breccia di Porta Pia si è legato alle vi-
cende politiche cittadine e nazionali. Nel 1895 il 20 settembre divenne festa nazionale. La data alimentò lo scontro fra clericali e anticlericali, che progressivamente si stemperò, finché il fascismo nel 1930 non abolì la festa, in ossequio alla conciliazione tra Stato e Chiesa. In città resta tuttora visibile la memoria di un evento che ebbe conseguenze epocali. Di fronte alla breccia fu inaugurata nel 1895 la Colonna della Vittoria, una colonna antica sormontata dalla statua di una Vittoria alata in bronzo, mentre nel piazzale antistante Porta Pia il Monumento al Bersagliere (eretto nel 1932) celebra l’assalto di quel corpo militare.
Ź Michele Cammarano, La breccia di Porta Pia 1871 [Museo di Capodimonte, Napoli] Il 20 settembre 1870, un corpo di bersaglieri entrò a Roma attraverso una breccia aperta nelle mura della città all’altezza di Porta Pia. Questa tela, che fu commissionata al pittore direttamente da Vittorio Emanuele II per ricordare l’avvenimento, non raffigura la breccia (solo intuibile), ma si concentra sull’incedere impetuoso dei bersaglieri che sembrano essere sul punto di travolgere chi guarda.
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obiettivi, avevano stipulato l’armistizio con gli austriaci. Dalla successiva pace di Vienna (ottobre 1866) l’Italia ottenne, non direttamente ma con la mediazione della Francia, solo il Veneto e i territori del Friuli fino a Udine. L’ultima delle guerre di indipendenza si concludeva così con un bilancio deludente: rimanevano sotto l’Austria il Trentino e la Venezia Giulia. Ciò avrebbe costituito, ancora per mezzo secolo, un ricorrente motivo di agitazione patriottica. La sconfitta, poi, non solo aveva chiaramente dimostrato l’impreparazione militare italiana, ma aveva diffuso in larga parte dell’opinione pubblica l’amara convinzione che il nuovo Stato non era ancora pronto a inserirsi fra le potenze europee su un piano di parità. Ÿ La battaglia di Lissa 1866 [Museo Centrale del Risorgimento Italiano, Roma] La battaglia presso l’isola di Lissa, nel Mare Adriatico, è la prima delle grandi battaglie sul mare in cui vengono impiegate navi a vapore corazzate. Il dipinto illustra lo scontro tra le flotte dell’Impero austriaco e della Regia Marina italiana. La disfatta italiana è cocente e due navi corazzate vengono affondate dalla flotta nemica.
Storiografia 95 V. Vidotto, Roma capitale d’Italia, p. 592
extraterritorialità Condizione giuridica di ciò che, pur trovandosi nel territorio di uno Stato, non è soggetto alla sua sovranità.
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ROMA CAPITALE Anche la presa di Roma dipese direttamente dai successi militari della Prussia. Questa volta fu la Francia a essere sconfitta [Ź16_2]. Nel settembre 1870, subito dopo la battaglia di Sedan, il governo italiano, non sentendosi più vincolato ai patti sottoscritti con Napoleone III, decise di inviare un corpo di spedizione nel Lazio. Contemporaneamente cercò un accordo col pontefice, ma Pio IX respinse ogni proposta, deciso a mostrare al mondo intero di essere stato costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre le truppe italiane, dopo aver aperto con l’artiglieria una breccia nelle mura presso Porta Pia e dopo un breve combattimento, entravano in città accolte festosamente dalla popolazione. Pochi giorni dopo, un plebiscito confermava a schiacciante maggioranza l’annessione di Roma e del Lazio. Il 20 settembre 1870 rappresenta una data epocale non solo per l’Italia unita che otteneva la sua capitale, ma soprattutto per la Chiesa cattolica. Quel giorno poneva fine al potere temporale dei papi durato oltre un millennio – dal 752 – e dava inizio a una nuova storia per il cattolicesimo romano. IL TRASFERIMENTO DELLA CAPITALE E IL NON EXPEDIT Nell’estate del 1871 la capitale con tutte le sue strutture politiche e amministrative – Parlamento, governo, ministeri – fu trasferita da Firenze a Roma. Nel frattempo era stata approvata una legge detta delle Guarentigie, cioè delle “garanzie”, con la quale il Regno d’Italia si impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale, secondo le linee del progetto cavouriano. Al papa venivano riconosciute prerogative simili a quelle di un capo di Stato: onori sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica, extraterritorialità* per i palazzi del Vaticano e del Laterano, libertà di comunicazioni postali e telegrafiche col resto del mondo. Pur rifiutando la legge e con essa la somma annuale che lo Stato italiano aveva previsto di corrispondere alla Santa Sede, Pio IX di fatto si avvalse delle prerogative assicurate dalle Guarentigie. Non per questo si ridusse l’ostilità di Pio IX nei confronti del Regno d’Italia. Anzi, l’invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato rivolto dal clero ai cittadini italiani all’indomani dell’Unità si trasformò, nel 1874, in un esplicito divieto di partecipare alle elezioni politiche con la formula del non expedit, che significa “non giova, non è opportuno”. L’acquisto di Roma, nel momento stesso in cui coronava il processo di unificazione nazionale, lasciava aperto un conflitto con la Chiesa che sarebbe stato sanato solo nel 1929 con i Patti lateranensi.
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Il governo della Sinistra LA FINE DEL GOVERNO DELLA DESTRA Nel 1876 il governo passò dalla Destra alla Sinistra. L’anno precedente, grazie alla severa politica fiscale impostata dal ministro delle Finanze Quintino Sella, era stato raggiunto il pareggio nel bilancio statale. Ma ormai, in Parlamento e nel paese, erano molti a chiedere una politica meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi margini alla formazione della ricchezza privata. Furono comunque le divisioni della Destra ad aprire alla Sinistra la via del governo. Nel marzo 1876 il governo Minghetti, messo in minoranza sul suo progetto di passaggio alla gestione statale delle ferrovie, fino ad allora affidate ai privati, presentò le dimissioni. Pochi giorni dopo, il re chiamò a formare il nuovo governo Agostino Depretis, leader della Sinistra all’opposizione, che costituì un ministero interamente composto da uomini della Sinistra. Nelle elezioni politiche del novembre di quell’anno, il successo della Sinistra fu nettissimo e confermò il carattere irreversibile del declino della Destra.
ź Demetrio Cosola, Il dettato 1891 [Gam, Torino]
LA SINISTRA E I GOVERNI DEPRETIS Col 1876 si apriva una nuova fase nella storia politica dell’Italia unita. Giungeva al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo a esperienze di governo, diverso per formazione e per estrazione sociale da quello che aveva retto il paese nel primo quindicennio di vita unitaria. La Sinistra parlamentare aveva in realtà fortemente attenuato la sua originaria connotazione radical-democratica e aveva accolto nel suo seno componenti moderate o addirittura conservatrici. Ciononostante, la nuova classe dirigente riuscì a esprimere il desiderio di democratizzazione della vita politica diffuso in larga parte della società: tentò infatti, pur con molte incertezze e cautele, di ampliare le basi della politica e seppe venire incontro alle esigenze di una borghesia in crescita. Il protagonista indiscusso di questa fase, Agostino Depretis, fu capo del governo, salvo brevi interruzioni, per oltre dieci anni. Mazziniano in gioventù, approdato poi a posizioni più moderate, parlamentare espertissimo, Depretis riuscì a contemperare con molta abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici presenti nella nuova maggioranza. Il programma della Sinistra era basato su pochi punti fondamentali: ampliamento del suffragio elettorale, maggiore sostegno all’istruzione elementare, sgravi fiscali soprattutto nel settore delle imposte indirette, decentramento amministrativo. Quest’ultimo impegno fu accantonato mentre gli altri ebbero attuazione, anche se a volte tardiva. LA RIFORMA DELL’ISTRUZIONE ELEMENTARE La prima riforma fu quella dell’istruzione elementare. Una legge del 1877 – nota come legge Coppino dal nome del ministro che la presentò – prolungò l’obbligo della frequenza scolastica a nove anni di età e inasprì le sanzioni per i genitori inadempienti. Tuttavia, a causa delle ristrettezze in cui versava la maggioranza delle famiglie italiane e della scarsa capacità dei comuni di provvedere ai compiti loro spettanti, non ci fu una reale attuazione dell’obbligo scolastico: fino alla fine del secolo la percentuale di analfabeti si mantenne molto elevata, pur diminuendo costantemente. LA RIFORMA ELETTORALE DEL 1882 Legato al problema dell’istruzione era quello dell’ampliamento del suffragio. La nuova legge elettorale, approvata dalla Camera all’inizio del 1882, introduceva infatti come requisito
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STORIA IMMAGINE L’armamentario dello scolaro e la divisione di genere nella scuola XIX sec. In Italia la scuola elementare pubblica fu istituita sin dall’unificazione con la legge Casati del 1859, ma solo la legge Coppino del 1877 sancì l’obbligatorietà e la gratuità del primo biennio dell’istruzione elementare. La legge, però, pur prevedendo pene per i trasgressori dell’obbligo, non ne specificò la natura evitando anche di rimandare al Codice penale. Questa lacuna, unita alle difficoltà di avviare il sistema scolastico per la mancanza di strutture e di insegnanti e alla materiale impossibilità delle famiglie a rinunciare alle entrate del lavoro dei figli minori, determinò l’ampia disattesa delle disposizioni sull’obbligo scolastico, soprattutto nelle regioni meridionali.
ź Il governo Depretis in una vignetta satirica La vignetta mostra i ministri del governo Depretis mentre “saltano la cavallina”: in questo modo gli oppositori interpretavano la politica del “trasformismo”.
fondamentale l’istruzione, concedendo il diritto di voto a tutti i cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno d’età – la legge precedente fissava l’età minima a 25 anni – e avessero superato l’esame finale del corso elementare obbligatorio, o dimostrassero comunque di saper leggere e scrivere. Il requisito del censo era mantenuto, in alternativa a quello dell’istruzione, e abbassato di circa la metà (da 40 a 20 lire di imposte annue pagate). A causa dell’alto tasso di analfabetismo, la consistenza numerica dell’elettorato restava sempre piuttosto esigua: poco più di 2 milioni, pari al 7% della popolazione e a circa un quarto dei maschi maggiorenni. Il corpo elettorale risultava tuttavia più che triplicato rispetto alle ultime consultazioni e, quel che più conta, profondamente modificato nella composizione. Grazie alla nuova legge accedeva alle urne anche una frangia non trascurabile di artigiani e operai del Nord. Per questo, le prime elezioni a suffragio allargato (ottobre 1882) videro l’ingresso alla Camera del primo deputato socialista, il romagnolo Andrea Costa. IL TRASFORMISMO La riforma elettorale dell’82 segnò il coronamento, ma anche il punto terminale, della breve stagione di riforme della Sinistra. Furono proprio le preoccupazioni suscitate dall’ampliamento del suffragio e dal conseguente prevedibile rafforzamento dell’estrema Sinistra a favorire quel processo di convergenza fra le forze moderate di entrambi gli schieramenti, che nacque da un accordo elettorale fra Depretis e il leader della Destra
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Minghetti e che prese il nome di trasformismo. La sostanza del trasformismo non stava – come sosteneva Depretis – nella “trasformazione” dei moderati in progressisti, ma piuttosto nel venir meno delle tradizionali distinzioni ideologiche fra Destra e Sinistra e nella rinuncia, da parte di quest’ultima, a una precisa caratterizzazione. Si compiva così un mutamento irreversibile nella fisionomia della Camera e nei caratteri stessi della lotta politica. A un modello “bipartitico” di stampo britannico – Destra contro Sinistra, maggioranza contro opposizione, conservatori contro progressisti – se ne sostituiva un altro basato su un grande Centro che tendeva a inglobare le opposizioni moderate e a emarginare le ali estreme (i conservatori più intransigenti da un lato, l’estrema Sinistra dall’altro). La maggioranza non era più definita sulla base di discriminanti programmatiche, ma veniva “costruita” giorno per giorno a forza di compromessi e patteggiamenti: una situazione che provocava un sostanziale rallentamento nell’azione di governo, oltre che un netto scadimento nella qualità della vita politica. I RADICALI La svolta moderata di Depretis ebbe come conseguenza il definitivo distacco dalla maggioranza dei gruppi democratici più avanzati che, pur avendo accantonato la pregiudiziale repubblicana, continuavano a battersi per il suffragio universale, per una politica estera antiaustriaca, per una politica ecclesiastica più decisamente anticlericale e per un più vasto impegno in favore delle classi disagiate. Sotto la guida di Agostino Bertani, e poi di Felice Cavallotti, questo gruppo – che, con termine mutuato dalla Francia della Terza Repubblica [Ź16_5], fu chiamato radicale – svolse negli anni ’80 un ruolo di combattiva opposizione contro le maggioranze trasformiste.
La crisi agraria e la politica 7 economica protezionista SGRAVI FISCALI E SPESA PUBBLICA In campo economico, la Sinistra allentò la dura politica fiscale fino ad allora praticata: la contestata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotta nel 1880, per essere poi del tutto abolita nell’84 [Ź18_4]. Venne contemporaneamente aumentata la spesa pubblica*, sia per coprire le accresciute esigenze militari sia per accontentare le richieste dei vari gruppi di interesse su cui si reggeva la maggioranza. Questa politica provocò, fin dall’inizio degli anni ’80, la ricomparsa di un crescente deficit nel bilancio statale, senza peraltro riuscire a superare le difficoltà economiche dovute in primo luogo all’arretratezza del settore agricolo.
spesa pubblica Insieme delle uscite o spese dello Stato e degli altri enti territoriali minori per il mantenimento delle pubbliche amministrazioni e delle forze armate, per l’esercizio dei servizi pubblici, per i sussidi a enti o privati.
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LA CRISI AGRARIA I pochi miglioramenti avevano riguardato infatti le zone e i settori già relativamente progrediti: le terre irrigue della pianura lombarda e le colture specializzate del Mezzogiorno (olivi, agrumi e soprattutto uva da vino). Altri mutamenti significativi si erano avuti, fin dall’inizio degli anni ’70, in alcune zone della Bassa padana, in particolare nel Ferrarese: qui grandi lavori di bonifica promossi da imprenditori capitalisti avevano trasformato la fisionomia del paesaggio agrario e attirato vaste masse di braccianti. In tutto il resto d’Italia la situazione dell’agricoltura non era molto cambiata rispetto ai primi anni dell’Unità né erano migliorate le condizioni dei lavoratori delle campagne, oppressi da contratti arcaici, sottopagati, malnutriti, analfabeti nella stragrande maggioranza.
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L’INCHIESTA JACINI Questa realtà fu ampiamente documentata dalla grande Inchiesta agraria deliberata dal Parlamento nel 1877 e presieduta dal senatore lombardo Stefano Jacini. Dall’Inchiesta, che fu conclusa nel 1884, emergeva un quadro drammatico dello stato dell’agricoltura italiana. Nella relazione finale si indicavano come rimedi un’estensione delle opere di bonifica e di irrigazione, un più razionale avvicendamento delle colture e una loro maggior diversificazione. Ma ciò richiedeva abbondanza di capitali e disponibilità all’investimento da parte dei privati: tutte condizioni che allora mancavano, soprattutto nel Mezzogiorno.
ź Raffaello Gambogi, Gli emigranti 1895 ca. [Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno] Alla fine dell’800 la vita degli emigranti e alcuni momenti tipici della loro esperienza, come l’attesa della partenza o il viaggio di trasferimento, furono un soggetto frequente nella fotografia e nell’arte figurativa italiana.
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GLI EFFETTI DELLA CONGIUNTURA NEGATIVA EUROPEA La situazione si aggravò quando, a partire dal 1881, l’Italia cominciò a risentire gli effetti della crisi che investì in quegli anni l’agricoltura europea [Ź15_1]: un brusco abbassamento dei prezzi colpì in primo luogo i cereali e poi tutto l’insieme dei prodotti agricoli, a eccezione delle colture da esportazione che non subivano la concorrenza d’oltreoceano. Al calo dei prezzi seguì un calo della produzione, con conseguenze gravissime per tutte le categorie produttive legate all’agricoltura. Anche gli effetti sociali della crisi agraria furono analoghi a quelli già osservati per l’insieme dei paesi europei: aumento della conflittualità nelle campagne e rapido incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e soprattutto verso l’estero. Fra il 1881 e il 1901 abbandonarono definitivamente l’Italia più di 2 milioni di persone. La crisi non solo distolse capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso altri impieghi, ma fece cadere le illusioni di chi ancora credeva che lo sviluppo economico italiano potesse fondarsi solo sull’agricoltura e sull’esportazione dei prodotti della terra. LA SVOLTA PROTEZIONISTICA Gli esponenti della Sinistra erano, come i loro predecessori, avversi in linea di principio all’intervento dello Stato nell’economia. Queste convinzioni liberiste furono però scosse dall’andamento tutt’altro che brillante dell’economia nazionale e dall’esempio che veniva dagli altri Stati europei, soprattutto dalla Germania. Una decisa svolta in senso protezionistico era del resto invocata ormai da quasi tutti gli industriali e dagli stessi proprietari terrieri, un tempo incondizionatamente favorevoli al liberismo ma ora colpiti dalle conseguenze della crisi agraria. Si giunse così nel 1887 al varo di una nuova tariffa doganale che proteggeva dalla concorrenza straniera importanti settori dell’industria nazionale (i più favoriti, oltre al siderurgico, furono il laniero, il cotoniero e lo zuccheriero), colpendo le merci di importazione con pesanti dazi di entrata. In campo agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali: il dazio sul grano fu quasi triplicato fra l’87 e l’89. La tariffa dell’87 segnava una rottura definitiva con la prassi liberoscambista seguita negli anni ’60 e ’70 e poneva le basi di un nuovo blocco di potere economico fondato
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sull’alleanza fra l’industria protetta e i grandi proprietari terrieri (settentrionali e meridionali) e sull’intreccio non sempre limpido fra i maggiori gruppi di interesse e i poteri statali. GLI EFFETTI NEGATIVI È ormai opinione comune che la scelta protezionistica costituisse per l’Italia una sorta di passaggio obbligato sulla strada di quel decollo industriale poi realizzatosi a partire dagli ultimi anni dell’800. È certo tuttavia che, almeno nell’immediato, la tariffa dell’87 produsse una serie di conseguenze negative e accentuò gli squilibri fra i vari settori dell’economia e fra le varie zone del paese. I dazi doganali non proteggevano in modo uniforme i diversi comparti produttivi. Al forte sostegno accordato alla siderurgia, anche per motivi strategici legati agli armamenti, faceva riscontro la scarsa protezione di cui godeva l’industria meccanica (danneggiata oltretutto dal rialzo dei prezzi dei prodotti siderurgici). Per quanto riguarda l’agricoltura, l’introduzione del dazio sul grano provocò un immediato rialzo del prezzo dei cereali che, se da un lato rappresentò una boccata d’ossigeno per le aziende in crisi, dall’altro danneggiò i consumatori e contribuì a tenere in vita, soprattutto nel Mezzogiorno, arretrate realtà produttive. Contemporaneamente l’agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più moderno: quello delle colture specializzate, che si reggeva soprattutto sulle esportazioni e che vide bruscamente chiudersi il suo principale mercato di sbocco. La tariffa dell’87 ebbe infatti come conseguenza una rottura commerciale, poi degenerata in vera e propria guerra doganale con la Francia, che era stata fino ad allora il principale partner economico dell’Italia e il maggior acquirente dei prodotti agricoli italiani (soprattutto seta e vino), la cui esportazione diminuì di oltre il 50%.
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La politica estera e il colonialismo LA TRIPLICE ALLEANZA Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una svolta decisiva: nel maggio 1882 il governo Depretis stipulò con la Germania e l’Austria-Ungheria il trattato della Triplice alleanza [Ź16_4]. Questa scelta rappresentava una netta rottura, poiché abbandonava la politica seguita dai governi precedenti basata sul mantenimento di buone relazioni con le grandi potenze e sul rapporto preferenziale con la Francia. La motivazione principale di questa decisione fu il desiderio di uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva insopportabile in un’epoca dominata dalla logica di potenza. Questo isolamento era apparso chiaramente nel 1881 quando la Francia, col consenso delle altre potenze, aveva occupato la Tunisia [Ź17_2] e l’Italia – che da tempo nutriva aspirazioni su quel territorio, anche per la presenza di una forte comunità di emigrati italiani – non aveva potuto far nulla per opporsi. Ne era seguito un grave deterioramento dei rapporti italo-francesi, destinato a far sentire i suoi effetti per oltre un quindicennio. Per uscire dall’isolamento, l’Italia non aveva dunque altra strada se non quella dell’accordo con Germania e Austria, insistentemente sollecitato da Bismarck. La Triplice era un’alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione da parte di altre potenze. In concreto, l’Italia veniva coinvolta nel sistema di sicurezza bismarckiano senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato, anzi
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rinunciando implicitamente alla rivendicazione storica sul Trentino, la Venezia Giulia e Trieste, le terre irredente, cioè “non redente” ovvero non liberate dal dominio austriaco [Ź18_4]. Un problema questo che fu drammaticamente riproposto dal caso di Guglielmo Oberdan, un giovane triestino impiccato nel dicembre 1882 per aver progettato di attentare alla vita dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe. La Triplice fu rinnovata a più riprese, ma le garanzie ottenute sulla carta dall’Italia nel 1887 – in particolare la clausola secondo cui ogni eventuale espansione austriaca nei Balcani doveva essere bilanciata da adeguati “compensi” per l’Italia – non vennero praticamente mai applicate. Come si sarebbe visto nel 1908 con l’annessione austriaca della Bosnia e dell’Erzegovina.
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L’ESPANSIONE COLONIALE IN AFRICA ORIENTALE Contemporaneamente alla stipulazione della Triplice, il governo Depretis, spinto da considerazioni di prestigio e dalla pressione di ristretti gruppi di interesse, aveva ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in Africa orientale. Il punto di partenza fu costituito dall’acquisto, nel LO SPAZIO L’ITALIA IN AFRICA ORIENTALE 41 1882, della Baia di Assab, sulla costa DELLA STORIA occidentale del Mar Rosso [Ź _41]. Tre anni dopo fu inviato un corpo di spedizione che occupò una striscia di territorio tra la Baia di Assab e la città di Massaua. Questa zona, abitata IMPERO da popolazioni nomadi, confinava con Dogali 1887 OTTO MANO Massaua l’Impero etiopico, il più forte e il più San’a Asmara vasto fra gli Stati africani indipendenHalai 1894 EN D IA Adua 1896 FO D Macallè Beilul GOL ti. L’Etiopia (o Abissinia, come veniva Assab 1896 Aden Amba Alagi (br.) allora chiamata in Italia) era un paese Obock 1895 Bender Cassim Gibuti Zeila economicamente molto arretrato, con Hafun ES M E Berbera I AL DE I I SOMALIA una popolazione di fede cristiana e di O IN BRITA AT T NNICA N IUR G Gidessa confessione copta (secondo la tradiEil zione dell’antica Chiesa cristiana d’Egitto); dedita in prevalenza alla pastoObbia rizia, essa aveva un’organizzazione di Neghelli tipo feudale in cui l’autorità dell’impeBagallé ratore, il negus, era fortemente limiAFRICA S M ORIE Uarsceich NTALE SO tata da quella dei signori locali, i ras, BRIT Mogadiscio ANNICA Merca Lago Kyoga che disponevano di propri eserciti. In Brava un primo tempo gli italiani cercarono di stabilire buoni rapporti con gli etiopi e di avviare una penetrazione commerciale. Ma, quando tentarono di ampliare il loro controllo territoriaprimi acquisti territoriali le verso l’interno, dovettero scontrarsi con la reazione del negus e dei ras locali. territori italiani nel 1889 Nel gennaio 1887 una colonna di 500 militari italiani fu sorpresa dalle truppe porti del Benadir affittati nel 1892 e riscattati nel 1905 abissine del ras Alula e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia della disfatColonia Eritrea secondo ta suscitò un’ondata di proteste in tutto il paese, in particolare tra i gruppi di i trattati del 1898-1908 estrema sinistra che si erano sempre opposti alla politica coloniale. Prevalse Somalia italiana secondo i trattati del 1894-1908 però l’esigenza di tutelare il prestigio nazionale: così la Camera accordò al goEtiopia (Abissinia) verno i finanziamenti richiesti per l’invio di rinforzi e per il consolidamento della battaglie della guerra presenza italiana sulla fascia costiera. italo-abissina O SS RO
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STORIA IMMAGINE Michele Cammarano, La battaglia di Dogali 1896 [Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma] Assieme a quella di Adua (1896), la sconfitta subita dalle truppe italiane a Dogali nel 1887 fu particolarmente traumatica per l’opinione pubblica perché sminuì il mito della superiorità bellica dei bianchi. In questa immagine è interessante notare come all’ardore composto e plastico delle truppe italiane si contrapponga il confuso, violento e per questo spiazzante attacco etiope. Lo sparuto reparto italiano, composto da 500 soldati, si trovò infatti a fronteggiare un numero di nemici molto più elevato.
Storiografia F. Cammarano, Il movimento operaio e gli anarchici Storiografia M.G. Rossi, L’opposizione cattolica
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Socialisti e cattolici LE SOCIETÀ DI MUTUO SOCCORSO
Il ritardo nello sviluppo industriale e la conseguente assenza di un proletariato di fabbrica numericamente consistente rallentarono in Italia la crescita di un movimento operaio organizzato. Del resto gli oltre 3 milioni di individui (pari al 20% della popolazione attiva) che il censimento del 1871 indicava come addetti all’industria erano per gran parte lavoranti di botteghe artigiane. Anche nelle unità produttive di maggiori dimensioni (specie nel settore tessile, dove era molto numerosa la manodopera femminile e minorile) accadeva spesso che gli operai alternassero stagionalmente il lavoro in fabbrica con quello nei campi; e molto diffuso, sempre nel settore tessile, restava il lavoro a domicilio. Fino all’inizio degli anni ’70, l’unica organizzazione operaia di una certa consistenza diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso, associazioni in parte controllate dai mazziniani e in parte organizzate da esponenti moderati. Concepite come strumenti di educazione del popolo più che come organismi di lotta, le società di mutuo soccorso avevano essenzialmente scopi di solidarietà, rifiutavano la lotta di classe e lo sciopero. Era dunque naturale che perdessero terreno quando cominciò a diffondersi nel paese l’internazionalismo socialista, che in Italia si ispirò, almeno in un primo tempo, più alle teorie anarchiche di Bakunin che a quelle di Marx [Ź14_7]. ANARCHICI E OPERAISTI La crescita del movimento internazionalista si dovette soprattutto all’opera di alcuni instancabili agitatori, come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta, che, fedeli a Bakunin, concentrarono i loro sforzi nell’organizzazione di moti insurrezionali, facendo leva soprattutto sul proletariato delle campagne. Il completo fallimento di questi tentativi convinse Andrea Costa che era necessario elaborare un programma concreto, impegnandosi nelle lotte di tutti i giorni e dando vita a un vero e proprio partito. La “svolta” di Costa trovò una prima attuazione con la nascita, nell’estate del 1881, del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che rese possibile l’elezione di Costa nell’82. In realtà il partito rimase sempre una formazione locale, priva di legami con i nuclei operai più maturi e avanzati che intanto si
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andavano costituendo soprattutto in Lombardia. Fin dall’inizio degli anni ’70, circoli operai e leghe di resistenza (queste ultime esplicitamente finalizzate alla organizzazione degli scioperi) erano venuti sorgendo in numerosi centri industriali e avevano dato un forte impulso all’azione rivendicativa dei lavoratori. Nell’82 alcune associazioni operaie milanesi decisero di dar vita a una formazione politica autonoma che prese il nome di Partito operaio italiano e che si presentò come un organismo rigidamente classista. Fermissimi nel respingere ogni apporto borghese, gli “operaisti” cercarono di stabilire un contatto con quel proletariato rurale della Bassa padana che fu protagonista dei primi grandi scioperi agricoli nella storia dell’Italia unita: particolarmente imponenti quelli che si svolsero nel Mantovano e nel Polesine nel 1884-85. FILIPPO TURATI Fra il 1887 e il 1893 sorsero le prime organizzazioni sindacali a carattere nazionale – le federazioni di mestiere –, vennero fondate le prime Camere del lavoro (organizzazioni sindacali a base locale), si accelerò anche la penetrazione del socialismo fra i lavoratori della terra grazie al movimento associativo fra i braccianti e i contadini della Val Padana. Per tutto il movimento di classe si poneva a questo punto il problema di una organizzazione politica unitaria capace di guidare e coordinare le lotte a livello nazionale. Il problema non era di facile soluzione a causa della frammentazione organizzativa e ideologica del movimento operaio italiano. Le opere di Marx erano peraltro poco conosciute e l’unico autentico e originale teorico marxista allora attivo in Italia era il filosofo napoletano Antonio Labriola, amico e corrispondente di Engels. Ma Labriola era una figura sostanzialmente isolata tra i leader socialisti. Fu invece un intellettuale milanese, Filippo Turati, il principale protagonista delle vicende che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano. Nato nel 1857 da una famiglia dell’alta borghesia lombarda, Turati aveva militato da giovane nelle file della democrazia radicale. Decisivo per la sua formazione politica era stato l’incontro con Anna Kuliscioff, una giovane esule russa che aveva già alle spalle una notevole esperienza politica e una larga conoscenza del
STORIA IMMAGINE Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato 1895-1901 [Galleria d’Arte Moderna, Milano] Iniziato nel 1895 e portato a termine nel 1901, questo famoso dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo propone, per la prima volta in Italia, il
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proletariato come soggetto di un’opera d’arte. Dalla tela del pittore piemontese emerge chiaramente come ormai in Italia, anche se tardivamente rispetto agli altri paesi europei, lo sviluppo industriale era decollato con tutte le sue conseguenze sociali, oltre
che economiche. Usando come modelli i suoi parenti e i suoi concittadini, Pellizza da Volpedo raffigura l’avanzare compatto verso la conquista dei propri diritti di una folla di lavoratori cosciente della propria forza.
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mondo socialista europeo. Ma non meno decisivo fu il contatto con l’ambiente operaio di Milano, già allora indiscussa capitale economica d’Italia e sede degli esperimenti più avanzati di associazionismo fra i lavoratori. La posizione di Turati, meno rigorosa sul piano teorico di quella di Labriola, fu molto chiara nelle scelte politiche di fondo: l’affermazione dell’autonomia del movimento operaio dalla democrazia borghese; il rifiuto dell’insurrezionalismo anarchico; il riconoscimento del carattere prioritario delle lotte economiche; l’esigenza di collegare queste lotte con quelle politiche e di inquadrarle in un progetto generale che aveva come obiettivo finale la socializzazione dei mezzi di produzione. Ÿ Bandiera socialista inizio XX sec. Fondato nel 1892, il Partito socialista italiano adottò subito come proprio emblema la bandiera rossa. Solo dopo il 1919 fecero la loro comparsa, sullo sfondo rosso, la falce e il martello, simboli dell’unità tra lavoratori dei campi e operai.
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LA FONDAZIONE DEL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO Nell’agosto del 1892 si riunirono a Genova i delegati di circa 300 fra società operaie, leghe contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò la frattura tra una maggioranza favorevole all’immediata costituzione di un partito e una minoranza contraria, formata dagli anarchici e da una parte degli aderenti al Partito operaio. Vista l’impossibilità di trovare un accordo, i delegati della maggioranza, guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitisi in altra sede, dichiararono costituito il Partito dei lavoratori italiani, approvandone subito il programma e lo statuto. Il programma indicava come
LEGGERE LE FONTI
Filippo Turati, La fondazione del Partito socialista da Il socialismo nella storia d’Italia, a c. di G. Manacorda, Laterza, Bari 1966, pp. 177-82
Termine riferito, in senso spregiativo, a esponenti del socialismo che propagandano idee astratte e azioni inefficaci
Filippo Turati (1857-1932), insieme con la sua compagna russa Anna Kuliscioff (1854-1925), fu il protagonista della nascita del Partito socialista italiano. Nella sua rivista milanese «Critica sociale», l’intellettuale
Nella classe operaia italiana – partito in formazione – covano ancora i fermenti che troviamo, agli inizi, nella storia di tutti i partiti operai. Essa non ha ancora superato tutte le malattie dell’infanzia e rimane ancor dubbio se potrà schivarne taluna, con qual esito affrontare le altre. [...] L’antagonismo – di cui acquista lentamente coscienza – colla classe borghese, si traduce, nelle menti rozze, in una specie di diffidenza irrazionale e istintiva verso tutto ciò che dalla classe borghese proceda, quand’anche si tratti di forze essenzialmente contrarie al dominio borghese o di armi adattissime e indispensabili a rovesciarlo. [...] Di qui quell’anarchismo e quel semianarchismo che ha tuttora in Italia gran presa, mezzo fatto d’impazienza e mezzo d’indolenza, e che dove pare più violento ed estremo è invece più conservatore e più reazionario, come è sempre reazionaria e conservatrice, anche suo malgrado, la beata ed innocente ignoranza. Di qui quella tendenza a gittar via, come vana o corrompitrice, l’arma poderosa del voto, utilissima come strumento all’organizzazione e allo sviluppo della coscienza di classe, indispensabile alla graduale conquista del potere sociale, condizione quest’ultima d’ogni mutamento radicale economico. Di qui il disinteresse sistematico dall’azione politica, la sfiducia preventiva in tutti quei vantaggi immediati – siano leggi o siano vantaggi d’altra qualsivoglia natura – che il proletariato organizzato può, con tenace sforzo, strappare alle classi dirigenti per servirsene a invigorirsi e volgerli contro di quelle. [...] Finché il socialismo era un partito utopistico, una specie di filantropia liberale da filosofanti, e finché l’organizzazione operaia non aveva fatte le sue prime, lunghe e dolorose prove, un movimento operaio divelto dal partito socialista si spiegava – era anzi inevitabile. Ma oggimai il socialismo, disceso dalle regioni utopistiche, è diventato non altro che la coscienza scientifica e chiara dello stesso movimento operaio: è l’intelletto che vede lungi e che addita all’organizzazione dei lavoratori la meta finale e sicura e la via da seguirsi, affrettandone il corso, salvandolo dalle illusioni e dai disinganni. Il socialismo è del movimento istintivo operaio il prodotto diretto, la spiegazione, l’anima, la difesa, la guida: esso funge nella compagine della classe proletaria come, nell’organismo animale, funge il cervello. [...] Il partito operaio o sarà socialista anche in Italia – o non sarà.
PER COMPRENDERE E PER INTERPRETARE a Individua e descrivi le «malattie dell’infanzia» che, secondo Turati, contraddistinguono in larga misura il pensiero e l’azione politica del movimento operaio italiano.
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lombardo pose i fondamenti dell’azione del nuovo partito, come si vede in questo testo, tratto dall’editoriale scritto in occasione del congresso di Genova del 1892.
b Spiega le ragioni per le quali l’autore ritiene politicamente strategico l’esercizio del diritto di voto da parte delle masse proletarie.
c Quali sono i compiti e gli obiettivi finali che, a giudizio di Turati, il movimento operaio e il Partito socialista sono chiamati a perseguire in Italia?
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fine la «gestione sociale» dei mezzi di produzione e, come mezzo atto a raggiungerlo, «l’azione del proletariato organizzato in partito [...] esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia [...]; 2) di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici». Divenuto Partito socialista dei lavoratori italiani nel ’93, due anni dopo il partito assunse il nome definitivo di Partito socialista italiano. I CATTOLICI Se per la classe dirigente liberal-moderata il movimento socialista rappresentava una presenza minacciosa, sull’opposto versante politico non meno preoccupante era l’atteggiamento della massa dei cattolici militanti, fermi nella fedeltà al papa e nel conseguente rifiuto dello Stato uscito dal Risorgimento [Ź12_5]. I cattolici costituivano dunque una forza eversiva nei confronti delle istituzioni unitarie di cui non riconoscevano la legittimità: una forza tanto più pericolosa in quanto profondamente radicata nel tessuto sociale, in particolare nel mondo delle campagne. Il divieto papale di partecipare alle elezioni, formulato col non expedit del 1874, non si applicava alle elezioni amministrative né significava per il movimento cattolico la rinuncia a una presenza autonoma nella vita del paese. Proprio nel 1874, in un convegno tenuto a Venezia, un gruppo di autorevoli esponenti del mondo cattolico italiano (ecclesiastici e laici) decise di dar vita a un’organizzazione nazionale che fu chiamata Opera dei congressi: saldamente controllata dal clero, ebbe il compito di convocare periodicamente congressi delle associazioni cattoliche operanti in Italia, assicurando loro un più stretto collegamento. Il suo programma si riduceva a una dichiarazione di ostilità nei confronti del liberalismo laico, della democrazia e del socialismo, a una professione di fedeltà al magistero del pontefice e alla dottrina cattolica. Qualche segno di apertura si ebbe dopo il 1878, in coincidenza con l’avvento al soglio pontificio di papa Leone XIII. Sotto il suo pontificato il movimento cattolico italiano accentuò il suo impegno sul terreno sociale, cui lo spingeva fatalmente la stessa tendenza a raccogliere una base di massa [Ź14_8]. Sorsero così, soprattutto in Lombardia e nel Veneto, società di mutuo soccorso, cooperative agricole e artigiane controllate dal clero e ispirate alla dottrina sociale cattolica.
Personaggi Francesco Crispi, democratico e autoritario, p. 564
Crispi: rafforzamento dello Stato 10 e tentazioni autoritarie IL PRIMO GOVERNO CRISPI: RIFORME E REPRESSIONE Alla morte di Depretis, nel 1887, fu nominato presidente del Consiglio Francesco Crispi, la personalità più rilevante della Sinistra. Siciliano, temperamento forte e autoritario, primo meridionale a salire alla presidenza del Consiglio, Crispi poteva contare, in virtù del suo passato mazziniano e garibaldino, su ampie simpatie a sinistra, ma anche sulla fiducia dei gruppi conservatori, attratti dalle sue promesse di uno stile di governo più deciso ed efficiente, di chiara impronta “bismarckiana”. Accentrando nella sua persona per quasi quattro anni, oltre alla presidenza del Consiglio, i Ministeri dell’Interno e degli Esteri, Crispi impresse in effetti una svolta all’azione di governo: si fece promotore di un’opera di riorganizzazione e di razionalizzazione dell’apparato statale, ma accentuò anche le spinte autoritarie e repressive. Nel 1888 fu approvata una legge comunale e provinciale che ampliava il diritto di voto per le elezioni amministrative e rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più di 10 mila abitanti (fino ad allora di nomina regia). Nel 1889 fu varato
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domicilio coatto o confino Provvedimento che consisteva nell’obbligo, imposto dalle autorità di polizia senza bisogno di un processo, di dimorare in una località isolata, lontano dal proprio luogo di residenza o di attività.
Storiografia 85 N. Labanca, Gli aromi e i sogni somali, p. 578
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un nuovo Codice penale – noto come Codice Zanardelli, dal nome dell’allora ministro della Giustizia – che aboliva la pena di morte, ancora in vigore in tutti i maggiori Stati europei, e non negava il diritto di sciopero, riconoscendone implicitamente la legittimità. Questo riconoscimento fu di fatto contraddetto dalla nuova legge di Pubblica sicurezza che poneva gravi limiti alla libertà sindacale e lasciava alla polizia ampi poteri discrezionali, come quello di inviare al domicilio coatto*, senza l’autorizzazione della magistratura, gli elementi ritenuti pericolosi. Di questi poteri Crispi si avvalse con molta frequenza, intervenendo duramente contro il movimento operaio, ma anche contro le organizzazioni cattoliche e contro i circoli irredentisti di ispirazione repubblicana. I PROGETTI COLONIALI DI CRISPI Crispi fu anche sostenitore dell’ascesa dell’Italia a grande potenza coloniale. Per realizzare il suo programma, puntò sul rafforzamento della Triplice alleanza e, all’interno di essa, sul consolidamento dei legami con l’Impero tedesco. Nelle intenzioni di Crispi, la Triplice doveva non solo garantire l’Italia da nuove iniziative francesi nel Mediterraneo, ma anche servire da base per una più attiva presenza in Africa. Nel 1890 i possedimenti italiani furono ampliati e riorganizzati col nome di Colonia Eritrea, mentre venivano poste le basi per una nuova espansione sulle coste della vicina Somalia [Ź _41]. La politica coloniale di Crispi suscitava, però, perplessità in seno alla stessa maggioranza, in quanto risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato. Messo in minoranza, Crispi si dimise all’inizio del 1891. IL PRIMO GOVERNO GIOLITTI Nel maggio 1892, la presidenza del Consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti. Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana, Giolitti, allora cinquantenne, si presentava con un programma piuttosto avanzato. In politica finanziaria mirava a una più equa ripartizione del carico fiscale, che risparmiasse i ceti disagiati e colpisse con aliquote più alte i redditi maggiori secondo il principio della progressività delle imposte (oggi universalmente accettato). In politica interna aveva idee innovatrici, contrarie all’intervento repressivo contro il movimento operaio e le organizzazioni popolari. Si rifiutò infatti di ricorrere a misure eccezionali contro i Fasci dei lavoratori, associazioni popolari (il termine “fascio” stava per “unione”) sviluppatesi in Sicilia, che protestavano contro le tasse troppo pesanti e il malgoverno locale e chiedevano per i contadini terre da coltivare e patti agrari più vantaggiosi. Non si trattava di un movimento rivoluzionario, anche se diede luogo ad alcune manifestazioni violente, né di un movimento socialista in senso stretto, ma suscitò tuttavia forti preoccupazioni fra i conservatori, ai quali non piacque l’atteggiamento, ritenuto debole, del presidente del Consiglio. L’ostilità dei conservatori – contrari anche ai progetti giolittiani di riforma fiscale – contribuì a indebolire il governo e ad accelerarne la caduta, che fu dovuta tuttavia alle conseguenze del grave scandalo della Banca Romana, responsabile dell’emissione fraudolenta di carta moneta e di finanziamento occulto di uomini politici e giornalisti per influenzare la stampa e l’opinione pubblica in occasione delle campagne elettorali. Giolitti, implicato nello scandalo, cadde e fu sostituito da Crispi, anche lui coinvolto nelle vicende della banca, ma ritenuto l’uomo forte, capace di rimettere ordine nel paese e di arrestare la crescita delle organizzazioni operaie. IL RITORNO DI CRISPI E LE LEGGI ANTISOCIALISTE Tornato al governo nel dicembre del 1893, Crispi affrontò con risolutezza una situazione che vedeva l’opinione pubblica allarmata dalla crisi economica, sconcertata dagli scandali bancari, spaventata dall’intensificarsi delle agitazioni in Sicilia. In campo economico il nuovo governo avviò una politica di risanamento del bilancio basata su pesanti
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inasprimenti fiscali e completò la riorganizzazione del dissestato sistema bancario, già iniziata da Giolitti, con una legge che istituiva la Banca d’Italia. Questa, nel 1926, avrebbe ottenuto il monopolio della emissione di carta moneta (e, a partire dal 1947, avrebbe svolto compiti di controllo sull’intero sistema bancario). In materia di ordine pubblico Crispi non esitò a ricorrere a misure eccezionali, convinto com’era che le agitazioni sociali costituissero un pericolo non solo per l’ordine costituito, ma per la stessa sicurezza dello Stato uscito dal Risorgimento. Ai primi di gennaio del 1894 lo stato d’assedio fu proclamato in Sicilia e successivamente esteso alla Lunigiana, tra Toscana e Liguria, dove si era verificato, senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani, un tentativo di insurrezione anarchica. La repressione militare fu dura e sanguinosa e venne accompagnata da una più generale repressione poliziesca estesa a tutto il paese e rivolta soprattutto contro circoli, leghe e giornali facenti capo al Partito socialista, che pure non aveva responsabilità dirette nel moto siciliano. Nel luglio 1894 il governo volle dare alla sua azione repressiva un carattere organico, facendo approvare dal Parlamento un complesso di leggi limitative della libertà di stampa, di riunione e di associazione. Queste leggi, definite “antianarchiche”, avevano in realtà come obiettivo principale il Partito socialista, che nell’ottobre fu dichiarato fuori legge: un provvedimento simile a quello varato da Bismarck nel 1878 [Ź16_4]. Gli effetti non furono però quelli sperati da Crispi. Le persecuzioni, infatti, non riuscirono a distruggere la già solida rete
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PERSONAGGI
Francesco Crispi, democratico e autoritario La storia di Francesco Crispi è la storia di un siciliano ambizioso, ma guardando con attenzione alla sua biografia si trova molto di più: la difesa del suffragio universale e del federalismo, l’attenzione per il popolo, la modernizzazione della macchina statale. Crispi era nato nel 1818 a Ribera, un comune dell’Agrigentino. La sua famiglia veniva in realtà da Palazzo Adriano e faceva parte della locale comunità greco-albanese (gli albanesi si erano installati in Sicilia nel ’400, in fuga dai turchi). Francesco, però, lasciò sempre credere che la famiglia avesse in realtà origini latine e che fosse arrivata nella penisola balcanica a seguito dell’esercito romano. Evidentemente, doveva aver provato imbarazzo per le sue lontane origini albanesi nell’Italia di quegli anni ossessionata dal mito della continuità della stirpe italica dai Romani in poi. Tuttavia, il primo meridionale alla presidenza del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia parlava albanese in famiglia e siciliano con i suoi conoscenti di Ribera, raramente in italiano. Come per molte altre icone risorgimentali, da Foscolo a Garibaldi, la scoperta della propria italianità sarebbe stata anche per lui una tappa fondamentale della sua formazione politica. I Crispi erano commercianti e proprietari terrieri. Avevano però subìto qualche rovescio economico quando nacque il loro primogenito. L’ansia di riuscire nel-
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la vita di Francesco doveva forse nascere dal desiderio di rinverdire la fortuna familiare. Sulla sua giovinezza sappiamo pochissimo, ma forse le difficoltà economiche della famiglia aumentarono, visto che nel 1835 abbandonò la prospettiva del sacerdozio (per tradizione ogni primogenito Crispi diventava prete) per iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo. Erano anni in cui la carriera forense faceva sperare guadagni ben più consistenti delle rendite ecclesiastiche o dell’amministrazione degli affari di famiglia. L’università non gli servì solo ad apprendere le basi del diritto. Si buttò con l’entusiasmo della sua giovane età nei dibattiti politici e letterari di quegli anni: il progresso contro la tradizione; il Romanticismo contro il classicismo. Con lo stesso entusiasmo fece le sue prime prove d’amore, intrecciando molte relazioni. Non era bello, ma attraeva le donne con la sua energia. Finì per innamorarsi della figlia di un orefice, Rosina, che sposò incinta contro il parere dei genitori. Fu un matrimonio breve e finito tragicamente: nel 1839 morirono Rosina e i due bambini, piccolissimi. Già l’anno dopo, però, Francesco avrebbe conosciuto Felicita, che gli diede un figlio. Nel 1839 uscì il primo numero del giornale fondato da Crispi, «L’Oreteo». Il suo fondatore e direttore aveva vent’anni, ma abbastanza ambizione per raccogliere con-
Ÿ Ritratto fotografico di Francesco Crispi fine XIX sec. [Museo di Storia della Fotografia Fratelli Alinari, Firenze]
tributi di autorevoli intellettuali di orientamento romantico e progressista. Nel 1843, dopo ulteriori dissesti finanziari dell’azienda paterna per i quali Crispi non era stato più in grado di pagarsi le tasse universitarie, si laureò, e si presentò subito al concorso per magistrato. L’esame fu superato con successo, ma la sua carriera di giudi-
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organizzativa del partito e accrebbero i favori di cui i socialisti godevano nella sinistra democratica e soprattutto negli ambienti intellettuali. ADUA E LA CADUTA DI CRISPI
Ÿ Henri Meyer, Caricatura di Francesco Crispi 1896 [da «Le Petit Journal», 9 febbraio 1896] In questa vignetta è rappresentato in chiave satirica l’assedio di Macallè dopo la resa italiana. Il negus Menelik II colpisce con un filone di pane Francesco Crispi.
Ma il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento della sua politica coloniale. Già durante il suo primo governo, Crispi aveva cercato di stabilire una qualche forma di protettorato sull’Etiopia, intavolando col nuovo negus Menelik trattative che portarono, nel 1889, alla firma del trattato di Uccialli. Ma questo trattato, considerato dagli italiani come un implicito riconoscimento del loro protettorato, fu interpretato diversamente dagli etiopi, che reagirono energicamente ai tentativi italiani di penetrazione ripresi dopo il ritorno al potere di Crispi. Fra Italia ed Etiopia si giunse così allo scontro armato, culminato nel disastro di Adua del 1° marzo 1896, quando un contingente italiano di 20 mila uomini (comprese le truppe coloniali) venne praticamente annientato dalle forze etiopiche. La sconfitta ebbe immediate ripercussioni in Italia: violente manifestazioni contro la guerra d’Africa scoppiarono a Roma, a Milano e in molte altre città, mentre Crispi fu costretto a dimettersi e uscì dalla scena politica. L’episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto la guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e da larghi strati della stessa classe dirigente e quanto illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere successi di prestigio, per sé e per il paese, in un’avventura imperialistica a cui mancavano le indispensabili premesse ideologiche, politiche ed economiche.
ce non si avviò: probabilmente il Ministero della Giustizia borbonico era preoccupato dalla sua attività giornalistica e politica. Scelse allora di cercare fortuna a Napoli, dove trovò lavoro presso uno studio legale. L’ordine forense napoletano fu la sua scuola di liberalismo: entrò in contatto con autorevoli liberali, partecipò alle discussioni sul futuro italiano e sulle occasioni d’insurrezione. Quando la rivoluzione scoppiò davvero, a Palermo il 12 gennaio del 1848, Crispi partì subito per collaborare col comitato di guerra, assumendo un ruolo centrale. Cominciò così la fase rivoluzionaria della sua vita. Agì soprattutto in difesa dell’indipendenza della Sicilia, e in particolare del suo antico Parlamento, soppresso dai Borbone nel 1815. Per questo motivo, si diceva favorevole a una soluzione federale della questione italiana. La questione dell’autogoverno delle comunità locali era al centro della sua proposta politica: «senza il Municipio la Nazione non esiste», avrebbe scritto qualche anno dopo. Nel corso della rivoluzione le sue posizioni si fecero sempre più democratiche, fino alla fondazione del “club dell’Apostolato”, un circolo impegnato nell’educazione del popolo. Assunte maggiori responsabilità in seno al comitato rivoluzionario, si impegnò a formare un esercito popolare, attraverso la coscrizione obbligatoria e l’assegnazione di terre demaniali alle famiglie che arruolavano un componente. Era un modo per coinvolgere nella rivoluzione gli strati popolari.
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Nel 1849 la fine dell’esperimento rivoluzionario palermitano gli aprì la via dell’esilio: non poteva più tornare a esercitare la professione di avvocato. Si mantenne col giornalismo, scrivendo soprattutto per i giornali patriottici animati dagli esuli. E a Marsiglia conobbe la savoiarda Rosalie Montmasson, sua moglie fino al 1875. Fu il trasferimento a Torino a fargli fare il salto di qualità. Entrò in contatto con Cattaneo e Mazzini, e abbandonò definitivamente la linea dell’indipendentismo siciliano. Malta, Londra, Parigi, Lisbona, la Grecia, varie città italiane: come cospiratore dovette cambiare spesso domicilio prima di partire per la Sicilia con Garibaldi, il 6 maggio 1860. Lì divenne il potente “segretario di Stato” della dittatura garibaldina, distinguendosi per i suoi provvedimenti popolari e anticlericali, ma anche per il suo pragmatismo. Si guadagnò così l’ingresso nel Parlamento italiano. «Il tempo delle rivoluzioni è finito», sosteneva, e fu l’inizio della sua vita da statista. Si impegnò per diventare leader della Sinistra parlamentare, che si riconosceva ormai nella monarchia sabauda. Da questa posizione arrivò ad assumere ruoli sempre più istituzionali, come la presidenza della Camera, nel 1876, o vari ministeri, fino all’attesa nomina a capo del governo, nel 1887. Non erano mancati momenti di difficoltà, come quando, nel 1878, accusato di bigamia, si dimise da ministro: aveva sposato con rito civile la giovane Lina
Barbagallo nonostante il matrimonio religioso contratto con Rosalie. Tutta la sua attività politica fu volta a dare all’Italia un apparato statale forte, un insieme di istituzioni che rendessero viva la presenza dello Stato nella società. Per questo si sforzò di creare una tradizione culturale condivisa promuovendo il culto degli eroi della nazione, di rafforzare istituti come la scuola o gli ospedali, di organizzare la burocrazia, di inaugurare l’espansione coloniale in Africa per dare al paese maggior peso internazionale. L’eredità più importante lasciata da Crispi fu il potenziamento della macchina dello Stato, lo strumento di modernizzazione della società negli anni successivi. Sempre in equilibrio tra varie correnti, nella fase finale della sua vita politica Crispi dovette fronteggiare l’ostilità dell’estrema sinistra, che non gli perdonava i metodi repressivi in politica interna; intanto si faceva sempre più accesa la rivalità con Giolitti: coinvolti entrambi nello scandalo della Banca Romana, i due furono protagonisti nel 1894 di uno scontro a base di dossier e di accuse scandalistiche. Il consenso interno sembrava in effetti affievolirsi. Perfino sul fronte africano, su cui tanto aveva puntato, la situazione andò peggiorando, fino alla disfatta di Adua del 1896. Le violente manifestazioni di piazza che seguirono il fallimento della sua politica africana lo costrinsero alle immediate dimissioni. Morì così, lontano dal potere e depresso, nel 1901.
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LEGGERE UNA CARTA STORICA
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Società ed economia nell’Italia unita Il quadro economico e sociale del neonato Regno d’Italia, alla data del 1871, è quello di un paese ancora piuttosto arretrato. Molteplici sono le sfide che attendono i primi governi postunitari per sollevare le sorti del paese. La grande maggioranza degli italiani vive nelle campagne o nei borghi rurali e trae sostentamento dall’agricoltura: il 70% circa della popolazione attiva lavora nel settore agricolo. Solo il 20% della popolazione vive nelle città, perché esse sono prive di attività produttive di rilievo: le poche industrie presenti sul territorio, infatti, sono localizzate lontano dai grossi centri abitati. Appena il 18% degli italiani è impiegato nel settore industriale. Una delle principali emergenze sociali che i governanti devono affrontare riguarda l’istruzione. Secondo il censimento del 1861, solo il 2,5% degli italiani è in grado di parlare la lingua italiana con fluidità, mentre gli analfabeti costituiscono il 75% della popolazione. Questa cifra globale non tiene conto delle differenze regionali, così come si evincono dalla carta. Stesso discorso per la frequenza scolastica: nelle regioni settentrionali l’80% dei bambini in età scolare va a scuola, nel Meridione soltanto il 10-15%. A questa emergenza si cerca di porre rimedio con l’estensione all’intero paese della Legge Casati, entrata in vigore nel 1860, che prescrive l’obbligatorietà di frequenza dei primi due anni dei quattro previsti dalla scuola elementare.
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
A.
Densità demografica (ab./km2)
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Popolazione città
0 - 40
100.000 - 200.000 ab.
40 - 80
200.000 - 300.000
80 - 120
300.000 - 400.000
120 - 160
600.000 - 700.000
Percentuale di analfabeti
B.
C.
30 - 45
60 - 75
45 - 60
75 - 90
Percentuale di occupati in agricoltura
50 - 60
70 - 80
60 - 70
> 80
a. Soffermati sulla carta A. 1 Quali sono le aree a maggiore densità abitativa? Qual è la megalopoli italiana? Quali sono le altre grandi città italiane? b. Soffermati sulla carta B. 1 Quante Italie dell’analfabetismo esistono nel 1871? In quali regioni il tasso di analfabetismo raggiunge punte elevatissime? In quale, invece, è piuttosto contenuto? Prova a spiegare il fenomeno alla luce dei dati desumibili dalla carta e delle tue conoscenze. c. Soffermati sulla carta C. 1 In quali regioni il tasso di popolazione attiva impiegato in agricoltura è più elevato? Qual è la situazione nel resto della penisola? 2 Qual è dunque il settore trainante dell’economia italiana nel 1871? d. Soffermati sul grafico. 1 Sai spiegare che cos’è un censimento, a che cosa serve e con quale cadenza è effettuato dallo Stato italiano? Se non lo sai, fai una ricerca in Internet. 2 In quale anno la popolazione residente in Italia risulta raddoppiata rispetto al 1871? Di quanto è variata da quella data al 2011?
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70000000
60000000
50000000
40000000
30000000
20000000
10000000
LEGGERE E INTERPRETARE
0
La popolazione italiana nei censimenti dal 1871 al 2011 (milioni di abitanti)
1871 1881 1901 1911 1921 1931 1936 1951 1961 1971 1981 1991 2001 2011
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C18 Governare l’Italia unita
B. Analfabetismo della popolazione di età superiore a 6 anni
A. Densità della popolazione TRENTINOA LT O A D I G E VA L L E D ’ A O S TA
LOMBARDIA
Milano
FRIULIVENEZIA GIULIA
V E N E TO
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Venezia
Torino PIEMONTE Genova
LIGURIA
Bologna
EMILIA-ROMAGNA
Firenze TO S C A N A MARCHE UMBRIA
ABRUZZO
Roma
LAZIO
MOLISE
PUGLIA
Napoli
C A M PA N I A
B A S I L I C ATA
SARDEGNA
CALABRIA
Messina Palermo SICILIA
Catania
TRENTINOA LT O A D I G E VA L L E D ’ A O S TA
LOMBARDIA
FRIULIVENEZIA GIULIA
C. Occupati in agricoltura rispetto al totale della forza-lavoro
V E N E TO
PIEMONTE LIGURIA
EMILIA-ROMAGNA
TO S C A N A MARCHE UMBRIA
ABRUZZO LAZIO MOLISE
C A M PA N I A
PUGLIA
B A S I L I C ATA
SARDEGNA
CALABRIA
SICILIA
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO
Il diritto di voto Il suffragio è la manifestazione della propria volontà attraverso un voto che consenta ai cittadini di eleggere i propri rappresentanti o di esprimersi su singoli temi (il referendum). È dunque un diritto politico, che permette di partecipare alla vita pubblica. Si definisce “ristretto” quando è attribuito solo ad alcune categorie di cittadini – individuate in base al sesso, al reddito, al possesso di beni immobili, al raggiungimento di un certo grado di istruzione – e “universale” quando è concesso a tutti coloro (uomini e donne) che abbiano raggiunto la maggiore età. Nell’Antichità romana, il diritto di suffragio (ius suffragii) consisteva nella facoltà di votare nelle assemblee dei cittadini. Esso fu progressivamente concesso anche agli stranieri: nell’88 a.C. fu riconosciuto ai socii italici, in seguito a tutti gli abitanti dell’Italia settentrionale. Nel 212 d.C., con la Constitutio antoniniana, l’imperatore Caracalla lo attribuì a ogni abitante libero dell’Impero. Dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.), il concetto di suffragio in ambito politico fu dimenticato: nel Medioevo trovò la sua applicazione solo all’interno degli “ordini” (Arti, Corporazioni, ordini religiosi, ecc.), delle diete, dei concili, degli Stati generali. Nell’età moderna, la pratica del voto si diffuse lentamente, e solo in quei paesi
Ÿ Ź Donne iraniane al voto per le elezioni presidenziali del 2017 [© Ebrahim Noroozi/AP] Mentre in alcuni paesi europei le donne non avevano ancora accesso al suffragio universale – per esempio in certi cantoni della Svizzera – nel 1963 le iraniane ottennero il diritto al voto. Si trattò di una misura inclusa nella cosiddetta “rivoluzione bianca”, e cioè in quel programma di riforme lanciato dallo scià Mohammad Reza Pahlavi per modernizzare l’Iran il più velocemente possibile.
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
(come la Gran Bretagna) dove esistevano organismi rappresentativi, per poi affermarsi, nel corso dell’800, in quasi tutta Europa. Nella maggior parte dei casi, le elezioni si tenevano a suffragio ristretto in base a criteri censitari e di genere: potevano votare, infatti, soltanto gli uomini (e in Francia, a volte, anche le donne) che avevano un certo reddito o che appartenevano ai ceti sociali superiori. Nel 1776, con la Dichiarazione di indipendenza, negli Stati Uniti fu proclamato il suffragio universale maschile, con alcune eccezioni di censo – oltre che relative al colore della pelle (alcuni Stati permettevano però il voto ai neri, purché liberi) –: all’inizio dell’800 furono abolite le barriere di censo mentre, dopo la guerra civile e l’abolizione della schiavitù, con il XV emendamento (1870) i neri conquistarono il diritto di voto e molti di essi furono eletti nelle assemblee statali e al Congresso. Dopo il 1877, tuttavia, alcune leggi statali limitarono i diritti dei neri a cui, con vari stratagemmi (come l’introduzione di test di alfabetizzazione e di tasse sul voto quali requisiti per partecipare alle elezioni), fu impedito di votare. Solo con il Voting Rights Act del 1965, promosso dall’attivista politico nero Martin Luther King (1929-1968), furono vietate le pratiche che limitavano il diritto di voto, garantendo così il suffragio ai cittadini americani neri. Le donne americane ottennero il diritto di voto nel 1920, anche se in alcuni Stati era stato già concesso loro negli ultimi decenni dell’800. In Francia, con la Rivoluzione si affermò il suffragio universale maschile: esso fu abolito con la Restaurazione e fu poi ripristinato nel 1848. Escludendo brevi esperienze come la Comune di Parigi del 1871 [Ź16_3], le donne ne rimasero escluse fino al 1946. La teorizzazione degli illuministi e le rivoluzioni americana e francese segnarono il passaggio dallo Stato assoluto al-
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lo Stato di diritto e la trasformazione dei sudditi in cittadini: cominciarono così ad essere ricercati e richiesti strumenti che garantissero una maggiore estensione e libertà del suffragio. Nel XIX secolo i movimenti politici progressisti rivendicarono l’ampliamento del diritto di voto: furono approvate, in tutti i paesi europei, delle riforme del sistema elettorale che, però, rimaneva limitato agli uomini. La Grecia, nel 1844, fu il primo paese europeo a riconoscere il suffragio universale maschile. In Gran Bretagna, si ebbe un primo allargamento del diritto di voto, con il Reform Act del 1832, che incluse i proprietari di immobili tra i detentori del diritto di voto [Ź10_7]; quello del 1867 abbassò poi il censo necessario per votare, estendendo il suffragio agli artigiani e agli operai più agiati dei centri urbani, mentre quello del 1884 lo concesse anche ai lavoratori agricoli. Solo nel 1918, tuttavia, fu riconosciuto il suffragio maschile e femminile. Il primo paese al mondo ad introdurre il suffragio universale maschile e femminile era stato la Nuova Zelanda, nel 1893. In generale, in tutti i paesi dopo la prima guerra mondiale si giunse al suffragio universale, almeno maschile: non era infatti più possibile escludere dalla vita politica i milioni di uomini che avevano combattuto per il proprio paese. Fu ciò che accadde anche in Italia. La legge elettorale del Regno sardo del 1848, entrata poi in vigore anche nell’Italia unita, stabiliva, per votare, dei rigidi criteri di genere, di istruzione e di censo (40 lire annue di tasse). Alle prime elezioni politiche dell’Italia unita poterono votare meno di 420 mila cittadini (1,89%) su una popolazione di oltre 22 milioni di abitanti. Nel 1872 la Sinistra parlamentare abbassò la soglia della maggiore età da 25 a 21 anni, ampliando leggermente il diritto di voto, mentre con la riforma del 1882 si ebbe un primo sostanziale allargamento del corpo elettorale: fu concesso il suffragio a tutti gli uomini maggiorenni alfabeti che versavano 19,8 lire annue di imposte o che avevano concluso il primo biennio di istruzione elementare. Nel 1912 si raggiunse il suffragio quasi universale maschile (furono ammessi al suffragio tutti gli uomini alfabeti o che avevano fatto il servizio militare con più di 21 anni e tutti quelli con più di 30), reso poi totale nel 1918, quando il voto fu concesso a tutti gli uomini maggiorenni e a quelli minorenni che avevano partecipato alla prima guerra mondiale. La Costituzione del 1948, con l’articolo 48, garantì poi il suffragio universale maschile e femmini-
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STORIA E EDUCAZIONE CIVICA LABORATORIO le, limitato solo dal raggiungimento della maggiore età (fissata inizialmente a 21 anni e poi a 18 anni dal 1975). Nel secondo dopoguerra, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) dell’Onu affermò che la volontà popolare «deve essere espressa con elezioni serie, che devono aver luogo periodicamente, a suffragio universale uguale, e con voto segreto, o secondo una procedura equivalente che garantisce libertà di voto» (art. 21). Il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966), sempre adottato dall’Onu, ribadì poi questi concetti (art. 25).
C18 Governare l’Italia unita
Alcuni paesi hanno concesso il suffragio universale solo in tempi recenti: in Sudafrica, ad esempio, il diritto di voto, sospeso ai neri e ai coloureds durante il periodo dell’apartheid (1948-94), fu garantito a tutti i cittadini solo nel 1994, mentre in Arabia Saudita nel 2011 era ancora limitato agli uomini. In tutti gli altri Stati, anche quelli autoritari o dittatoriali, il suffragio universale è dichiarato ufficialmente, anche se spesso le elezioni non vi si svolgono o si riducono a farse, falsate da brogli elettorali o dall’assenza di una vera libertà di scelta. I principali dibattiti sul diritto di vo-
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to riguardano oggi la possibilità di concederlo agli immigrati: il suo stretto legame con la cittadinanza, infatti, rende problematico il suo riconoscimento a coloro che si trovano a vivere stabilmente in uno Stato diverso da quello di provenienza. In quest’ottica si è cominciato a riflettere sulla possibilità di legare l’acquisizione della cittadinanza alla permanenza in uno Stato, oppure di allentare il rapporto tra cittadinanza e diritti politici, magari concedendoli (per le elezioni locali o nazionali) agli immigrati residenti da un certo numero di anni nello Stato.
Costruiamo il lessico del cittadino 1 Leggi la scheda e completa sul tuo quaderno le seguenti definizioni: a. Si definisce suffragio ristretto il riconoscimento del diritto di voto ........................................................................................................ b. Si definisce suffragio universale il riconoscimento del diritto di voto .....................................................................................................
Le tappe del suffragio universale 2 Costruisci un cronogramma con le date di introduzione del suffragio universale nei paesi di seguito elencati. Ɣ Nuova Zelanda: ................................................................................................................................................................................. Ɣ Gran Bretagna: ................................................................................................................................................................................. Ɣ Francia: ............................................................................................................................................................................................ Ɣ Italia: 1946 (1948 nella Costituzione) Ɣ Sudafrica: ........................................................................................................................................................................................
Il diritto di voto nella Costituzione italiana 3 Il diritto di voto in Italia è regolato dall’articolo 48 della Costituzione: Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero
per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge. Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.
A partire dal dettato costituzionale disegna una mappa concettuale sul diritto di voto (art. 48 Cost.), in cui specificare: a. b. c. d.
A chi compete Quali caratteri ha A chi è riconosciuto I casi in cui può essere limitato
Agli articoli 56 e 58 la Costituzione distingue anche tra «elettorato attivo» (età per votare) ed «elettorato passivo» (età per essere votati). Reperisci gli articoli online e completa il punto “a” della mappa con le informazioni aggiuntive.
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ARTE E STORIA
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
Arte e paesaggio agrario italiano. Il verismo e i macchiaioli Non era solo il paesaggio agrario a mutare dal Nord al Sud Italia. A cambiare erano anche le tecniche impiegate per rappresentarlo. La varietà agricola sembrava riflettersi anche negli sguardi degli artisti italiani di quegli anni, accomunati dalla spinta a riprodurre la realtà, ma distinti in varie scuole regionali. Ciò che comunemente viene chiamato “verismo”, richiamando l’omonima corrente letteraria, nell’ambito pittorico era un insieme piuttosto variegato di esperienze, anche molto distanti tra loro. In generale, i pittori veristi erano ispirati dall’esempio della pittura naturalista francese, e di Millet in particolare, oltre che dalle opere di scrittori come Verga, ovviamente. Dagli anni ’60 agli anni ’90 del XIX secolo, infatti, questi artisti italiani si impegnarono a studiare attentamente la realtà per rappresentarla fedelmente, prestando particolare attenzione ai colori effettivamente osservabili dal vivo, senza divagazioni fantastiche o esotiche, senza i giochi di luce degli impressionisti. Ovviamente, anche i soggetti dovevano essere scelti tra quelli ben riconoscibili dal pubblico, cioè le scene familiari della vita quotidiana. In questo contesto generale, al paesaggio agrario era assegnata particolare importanza: come già nelle opere letterarie di Verga, Capuana o Grazia Deledda, il
paesaggio rurale era un soggetto privilegiato perché considerato il teatro ideale per rappresentare l’espressione più autentica della vita umana. Per di più, lo studio realistico della natura doveva sembrare una sfida particolarmente avvincente a questi artisti, così desiderosi di smarcarsi dalle rappresentazioni idilliache della campagna che per molto tempo avevano caratterizzato la tradizione pittorica occidentale. A variare non erano soltanto le tecniche utilizzate – talvolta più tradizionali, altre volte più sperimentali, come nel caso dei macchiaioli – ma anche gli obiettivi che si prefissavano questi artisti. Per alcuni, la rappresentazione della realtà era prima di tutto uno studio sulla natura e sui modi per riprodurla, oggettivamente, senza caricare l’opera di significati politici. Per altri, invece, scegliere di rappresentare il paesaggio rurale in tutta la sua crudezza era la premessa per una forte denuncia sociale. A questa seconda categoria apparteneva senz’altro il pittore abruzzese Teofilo Patini (1840-1906), particolarmente influente sulla scena napoletana. Nelle sue opere la realtà contadina era rappresentata fedelmente, ma mettendo in primo piano la miseria degli uomini e delle donne che l’abitavano. In Bestie da soma, ad esempio, la fatica dei lavorato-
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ri della terra era accostata sin dal titolo a quella degli animali, come se le condizioni di lavoro anziché nobilitarli distruggessero la loro dignità umana. Spostandoci in Toscana, era inevitabile che la struttura ordinata e apparentemente equilibrata della sua campagna attirasse gli sguardi di numerosi artisti. Tra i tanti che si dedicarono a raccontarne la bellezza meritano una menzione speciale i macchiaioli, come vennero ben presto chiamati quei pittori che amavano riunirsi al Caffè Michelangelo di Firenze. Il nome era arrivato da un critico che dimostrava così di non apprezzare lo stile di questi artisti, caratterizzato dalla prevalenza del colore sul disegno: i quadri sembravano un insieme di macchie, appunto, non legate tra loro, o almeno non disciplinate secondo uno schema ben individuabile. Ai pittori fiorentini questo nomignolo in realtà piacque tantissimo, tanto che cominciarono ad appropriarsene per definire sé stessi. Del resto, costoro desideravano proprio superare l’impianto tradizionale della pittura paesaggistica, rifacendosi alla lezione della scuola francese di Barbizon e precorrendo in un certo senso anche l’impressionismo: bisognava rendere la realtà per come era effettivamente, mettendone in risalto i contrasti di luce, i colori, gli effetti del sole sui soggetti rappresentati. Bisognava prendere direttamente dalla realtà, dal vivo, le immagini da rappresentare sulla tela, restituendo l’impressione del momento per poi continuare l’opera nei propri studi, completandola con un disegno preciso. Ma mentre gli impressionisti fondevano i colori con piccoli tratti di pennello, lasciando che il soggetto si rivelasse se visto nel suo insieme, i macchiaioli accostavano grosse “macchie” di colore ben distinte dal disegno e dalla prospettiva. Il pergolato di Silvestro Lega (1826-1895) è un buon esempio di questo modo di rappresentare la realtà. Questo pittore romagnolo trapiantato a Firenze vi rappresentava una scena di vita familiare ambientata nel piccolo paese di Piagentina, appena fuori dal capoluogo toscano. L’integrazione tra la vita domestica di queste donne borghesi e la natu-
Ż Teofilo Patini, Bestie da soma 1886 [Salone di Rappresentanza della Prefettura, L’Aquila]
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ARTE E STORIA
C18 Governare l’Italia unita
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ra ben ordinata dello sfondo sembra restituire le caratteristiche del paesaggio toscano. La campagna non era una distesa infinita di terre, ma una sequenza di piccoli borghi cittadini e poderi curati. Il più celebre dei macchiaioli, però, è senz’altro Giovanni Fattori (1825-1908). Livornese, di umili origini ma arrivato alla pittura con una for mazione accademica, quest’artista dipinse alcune delle tele più belle dell’800 italiano. Tra queste, Contadino con maiali presso un carro di buoi appare tra le più significative per capire come operavano i macchiaioli. Pochi colori, raccolti in grosse macchie accostate, costruivano l’immagine del contadino, delle bestie e del paesaggio. Tuttavia, i profili delle figure erano ben delineati, restituendo con nettezza l’aspetto di una calda giornata di sole estivo nella campagna toscana. Si tratta di un soggetto semplice, scelto proprio per la sua capacità di rappresentare il placido andamento e la nobiltà della vita agricola.
PISTE DI LAVORO a. Redigi un piccolo profilo biografico dei pittori Teofilo Patini, Silvestro Lega e Giovanni Fattori. Vai su Google, digita il nome dell’artista nella maschera di ricerca, leggi la sua biografia e redigi il testo, cercando di non superare le 50/60 parole. Ti consigliamo di consultare l’Enciclopedia online della Treccani. b. Sintetizza in tre punti il manifesto della pittura verista. c. In che modo Patini rappresenta la durezza del lavoro agricolo? d. Sintetizza in tre punti il manifesto pittorico dei macchiaioli. e. In che modo Silvestro Lega rappresenta la realtà della campagna toscana? f. In che modo Fattori mette in risalto l’armonia della campagna toscana?
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Ÿ Silvestro Lega, Il pergolato 1868 [Pinacoteca di Brera, Milano]
ź Giovanni Fattori, Contadino con maiali presso un carro di buoi 1894 [Galleria d’arte moderna, Firenze]
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C18 Governare l’Italia unita RICORDARE L’ESSENZIALE Demografia, economia e società Al momento dell’Unità la grande maggioranza degli italiani era analfabeta. Soltanto il 20% della popolazione viveva in città; l’agricoltura era l’attività economica prevalente, caratterizzata da una grande varietà negli assetti produttivi: aziende agricole moderne (Pianura padana), mezzadria (Italia centrale), latifondo (Mezzogiorno). La condizione di vita dei contadini era generalmente ai limiti della sussistenza fisica. Questa realtà di arretratezza economica e disagio sociale era assai poco conosciuta dalla classe dirigente nazionale. Inoltre, pur essendoci un divario reale tra il Nord e il Sud del paese (in termini di sviluppo, infrastrutture, produttività e istruzione), l’Italia tutta appariva complessivamente arretrata al confronto con i paesi più sviluppati d’Europa. Il governo della Destra storica Alla morte di Cavour (giugno ’61), il governo del paese rimase nelle mani della Destra storica, composta dai rappresentanti della classe dirigente moderata. Le si contrapponeva la Sinistra, che faceva proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: suffragio universale, decentramento amministrativo, completamento dell’unità attraverso l’iniziativa popolare. Destra e Sinistra, ben lungi dall’essere partiti politici nel senso moderno del termine, erano espressione di una ristretta élite sociale – meno del 2% della popolazione aveva diritto di voto – e questo conferiva un carattere oligarchico e personalistico alla vita politica del paese. I governi della Destra realizzarono, sul piano amministrativo e legislativo, una rigida centralizzazione, temendo le conseguenze disgregatrici dei fermenti sociali e facendo proprio il modello di Stato accentrato napoleonico. Furono infatti estese a tutto il paese la legge Casati, che introduceva l’obbligatorietà dell’istruzione elementare, e la legge Rattazzi, che organizzava le amministrazioni locali in comuni e province, con le ultime affidate ai prefetti. Tra le circostanze che spinsero il governo verso la centralizzazione va ricordata soprattutto la situazione del Mezzogiorno, dove l’ostilità delle masse contadine verso l’introduzione della leva obbligatoria e la pesante fiscalità assunse col brigantaggio caratteristiche di vera e propria guerriglia. Il brigantaggio fu sconfitto grazie a un massiccio impie-
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Audiosintesi per paragrafi
go dell’esercito. Restò tuttavia irrisolto il problema di fondo del Mezzogiorno, cioè quello della distribuzione delle proprietà agricole: né la divisione dei terreni demaniali né la vendita dei beni ecclesiastici favorirono i contadini, al contrario quest’ultima in particolare rafforzò la grande proprietà terriera. Sul piano economico, il governo si impegnò nella creazione di strade e ferrovie, necessarie allo sviluppo di un mercato nazionale, mentre la politica doganale liberista favorì le esportazioni agricole italiane, penalizzando il settore industriale, a causa dell’accresciuta concorrenza internazionale. Nell’immediato, infatti, il tenore di vita della popolazione non migliorò e diminuì il peso percentuale delle attività industriali. L’idea dei politici italiani che il paese avesse essenzialmente una vocazione agricola non giovò affatto allo sviluppo industriale, accrescendo il divario fra l’Italia e i paesi più progrediti. La distanza tra il “paese legale” (la classe dirigente) e il “paese reale” fu aumentata dalla dura politica fiscale seguita dalla Destra per colmare i costi dell’unificazione. Particolarmente impopolare fu la tassa sul macinato (1868), che provocò violente agitazioni sociali in tutta la penisola. Il completamento dell’unità costituì uno dei problemi più difficili per la Destra storica. Falliti i tentativi di conciliazione con la Chiesa, riacquistò spazio l’iniziativa dei democratici: nel 1862 una spedizione di volontari garibaldini si risolse in uno scontro con l’esercito regolare (Aspromonte). Nel 1864 fu firmata la “Convenzione di settembre” con la Francia, che prevedeva il trasferimento della capitale a Firenze, ma anche il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. L’alleanza con la Prussia contro l’Austria e la vittoria prussiana consentirono all’Italia l’acquisto del Veneto, nonostante le sconfitte subìte a Lissa e a Custoza (1866). Il problema della conquista di Roma, dopo il fallimento del nuovo tentativo garibaldino a Mentana (1867), fu risolto dalla sconfitta francese a Sedan, che permise al governo italiano di inviare un corpo di spedizione per prendere la città (20 settembre 1870). Col plebiscito di annessione di Roma e del Lazio finiva il potere temporale dei papi e Roma diveniva capitale del Regno d’Italia. Con la legge delle Guarentigie lo Stato italiano si impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del suo magistero spirituale. L’intransi-
genza di Pio IX, tuttavia, si manifestò nel “non expedit”, ovvero il divieto per i cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche: un ulteriore ostacolo che si frapponeva al processo di reale unificazione del paese. Il governo della Sinistra liberale Nel marzo 1876 salì al potere la Sinistra liberale, guidata dal suo leader Agostino Depretis, che segnò l’inizio di una nuova fase, con una classe dirigente più giovane che avrebbe perso le componenti radical-democratiche. Approvate la legge Coppino sull’istruzione, che prolungava l’obbligo scolastico e introduceva sanzioni per i genitori inadempienti, e la riforma elettorale del 1882, che abbassava a 21 anni l’età minima, riduceva il livello di reddito e introduceva il requisito dell’alfabetismo, gran parte del programma riformatore della Sinistra fu accantonato. Il sistema politico italiano perse, col trasformismo di Depretis, il suo carattere bipartitico, finendo con l’essere dominato da un grande Centro che emarginava le ali estreme. La Sinistra abolì la tassa sul macinato e aumentò la spesa pubblica, ma non riuscì a fronteggiare la grave crisi che in quegli anni investiva l’agricoltura europea, e di conseguenza anche quella italiana. Furono così introdotte le tariffe protezionistiche del 1887 a sostegno dell’industria e dell’agricoltura. Tra gli effetti della crisi vi fu un rapido incremento dell’emigrazione verso l’estero e, in tempi più lunghi, il decollo industriale italiano. Ne derivarono però anche alcuni importanti effetti negativi: la guerra doganale con la Francia, l’aumento degli squilibri tra Nord e Sud, la penalizzazione delle esportazioni agricole italiane. La stipulazione della Triplice alleanza con Germania e Austria-Ungheria (1882) segnò nella politica estera italiana una svolta, determinata sia dal timore di un isolamento internazionale, sia dal trauma rappresentato dall’occupazione francese della Tunisia, su cui puntavano anche i progetti espansionistici italiani. Il trattato costringeva l’Italia a rinunciare implicitamente alla rivendicazione di Trentino, Venezia Giulia e Trieste, le cosiddette “terre irredente” ancora in mano agli austriaci. Fu anche avviata in quegli anni un’espansione coloniale sulle coste del Mar Rosso, in Africa, ma il tentativo di estendersi verso l’interno portò al contrasto con l’Etiopia e all’eccidio di Dogali (1887).
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Socialisti e cattolici Dati i ritardi nello sviluppo industriale, la classe operaia italiana era costituita solo per una minoranza dal proletariato di fabbrica. Le società di mutuo soccorso, inizialmente dominate da mazziniani e moderati, persero via via terreno a favore del movimento internazionalista che in Italia ebbe essenzialmente indirizzo anarchico. Gli anni ’80 videro una notevole crescita del movimento operaio, con la fondazione di federazioni di mestiere e Camere del lavoro. Nel 1892 fu fondato il Partito dei lavoratori italiani (poi Partito socialista). Benché il non expedit (1874) vietasse la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, la presenza cattolica nella società italiana, soprattutto nelle campagne, era massiccia.
L’Opera dei congressi sorse proprio per organizzare tale presenza, secondo una linea di rigida opposizione al liberalismo e al socialismo. L’elezione di papa Leone XIII (1878), più aperto ai problemi della società moderna, favorì l’impegno sociale dei cattolici e lo sviluppo delle loro organizzazioni. Il governo di Crispi Alla morte di Depretis (1887) divenne presidente del Consiglio Francesco Crispi, la cui politica autoritaria e repressiva si accompagnò a un’importante riorganizzazione dell’apparato statale (leggi comunale e provinciale, varo del Codice Zanardelli, legge di Pubblica sicurezza). Di segno opposto fu la politica di Giovanni Giolitti, capo del governo nel
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1892-93, imperniata su una linea non repressiva nei confronti dei conflitti sociali. Il rifiuto di Giolitti di adottare misure eccezionali contro i Fasci siciliani, che protestavano contro le tasse pesanti e il malgoverno locale, e lo scandalo della Banca Romana provocarono però le sue dimissioni. Tornato al governo nel 1893, Crispi adottò una linea d’intervento risoluta, con la riforma del sistema bancario, che istituiva la Banca d’Italia, la proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia e Lunigiana e il varo di leggi antisocialiste. Crispi si lanciò anche in una fallimentare politica colonialista, cercando di conquistare l’Etiopia: una nuova disastrosa sconfitta ad Adua (1896) determinò la fine politica dello statista siciliano.
Test interattivi
1 Segna con una crocetta le affermazioni che ritieni esatte: a. Nel 1861 esisteva una minoranza intellettuale che parlava solo la lingua italiana. b. I contratti di mezzadria favorirono l’abbandono e la decadenza delle campagne nel Nord. c. Il Meridione era ricco di zone fertili e pianeggianti dove erano diffuse le colture specializzate. d. I partiti di estrema destra e di estrema sinistra non parteciparono alle prime elezioni. e. La legge elettorale del 1882 prevedeva, fra le altre cose, che potessero votare coloro che erano in grado di dimostrare di saper leggere e scrivere.
f. Lo Stato, con la legge Casati, costruì e attivò scuole statali pubbliche e gratuite su tutto il territorio. g. La tassa sul macinato gravava sui redditi di tutti i consumatori di farina e pane. h. La legislazione doganale del Regno sardo, di stampo liberista, fu estesa a tutta l’Italia. i. La rete ferroviaria postunitaria fu subito promossa e utilizzata. j. Il brigantaggio fu combattuto con una legge speciale che affrontava i problemi economici e sociali del meridione.
2 Completa le seguenti affermazioni con l’opzione che ritieni corretta. 1. La formula del «non expedit» promossa da papa Pio IX invitava i cattolici a... a. astenersi da ogni forma di partecipazione politica nel nuovo Stato; b. partecipare attivamente alla formazione e al governo del paese; c. svolgere il ruolo di guida morale e culturale dell’Italia unita. 2. A causa della crisi agraria, a partire dagli anni ’80... a. i governi dovettero emanare una nuova legge che ripartiva la terra in modo più equo; b. in soli venti anni più di due milioni di italiani emigrarono verso altri paesi; c. fu liberalizzata l’importazione di cereali dall’estero, e così si abbassarono i prezzi. 3. Il trattato della Triplice alleanza stipulato dal governo Depretis nel 1882... a. migliorò le relazioni di politica estera con l’Austria-Ungheria e l’Inghilterra; b. sancì la rottura delle relazioni diplomatiche preferenziali con la Francia; c. era in continuità e in sintonia con la tradizione risorgimentale italiana.
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4. Il Partito dei lavoratori italiani fu costituito a Genova nel 1892... a. dalla maggioranza dei delegati riunitisi in congresso; b. da una minoranza guidata dall’anarchico Filippo Turati; c. da un gruppo di esuli di matrice mazziniana e democratica. 5. Il movimento siciliano dei Fasci dei lavoratori... a. ricevette il sostegno dei gruppi parlamentari della Sinistra; b. perseguiva un fine insurrezionale favorevole ai conservatori; c. chiedeva una riforma agraria e la diminuzione delle tasse. 6. Dopo la battaglia di Adua del 1896... a. vi furono molte manifestazioni in Italia contro l’iniziativa militare di Crispi; b. l’Etiopia fu annessa all’Abissinia ed entrò a far parte dell’Impero italiano; c. Crispi dovette dimettersi e affidare la campagna militare al conservatore Rudinì.
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3 Completa lo schema sulla politica interna ed estera di Depretis.
GOVERNO DEPRETIS (1876-87)
POLITICA INTERNA
POLITICA ESTERA
• Istruzione elementare: .....................................
• Triplice alleanza con: ....................................... • Colonialismo: ..................................................
• Legge elettorale: ............................................. • Riforme economiche: ....................................... a. ................................................................... b. ................................................................... c. ...................................................................
4 Associa le espressioni proposte di seguito alle relative definizioni e completa queste ultime. a. Terre irredente
1. Organizzazioni operaie che avevano il compito di ......................................................
b. Società di mutuo soccorso
2. Erano quei territori italiani ancora sotto il dominio dell’ .............................................
c. Leghe di resistenza
3. Membri del ..............................................................................................................
d. Operaisti
4. Organizzazioni finalizzate a ......................................................................................
e. Opera dei congressi
5. Organizzazione ecclesiastica che aveva lo scopo di ..…..............................................
5 Scrivi un breve testo dal titolo: «La politica coloniale italiana nella seconda metà dell’800», seguendo la scaletta proposta: a. b. c. d.
Depretis e la diplomazia internazionale. Dalle prime iniziative coloniali del 1882 alla sconfitta di Dogali. Crispi e la fondazione della Colonia Eritrea. La battaglia di Adua (1896).
6 Rispondi alle seguenti domande sulla «questione meridionale». a. b. c. d. e.
Come era suddivisa la proprietà della terra nelle diverse aree dell’Italia? Quali erano le condizioni economiche e sociali degli italiani del Nord e del Sud? Vi erano rappresentanti meridionali nelle istituzioni dello Stato? Quali nuove politiche nazionali influirono sulla situazione del Mezzogiorno? Come fu attuata e da chi fu sostenuta la rivolta anti-statale nelle regioni meridionali più povere?
COMPETENZE IN AZIONE 7 Scrivi un testo informativo sull’Italia liberale tra 1876 e 1886 utilizzando la seguente scaletta e le immagini del capitolo che ritieni opportune. • • • • • •
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Motivi che determinarono la fine del governo Minghetti. Il programma politico di Depretis. La riforma Coppino. La riforma elettorale del 1882. Il trasformismo. La nascita del gruppo radicale.
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FARE STORIA
FARE STORIA Le grandi potenze e i loro imperi coloniali
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Le grandi potenze e i loro imperi coloniali I testi e i documenti di questa sezione illustrano i sistemi di alleanze, gli equilibri internazionali e la nascita dei sistemi imperiali nel secondo ’800. Si inizia con un brano della storica italiana Patricia Chiantera-Stutte [Ź82], in cui si chiarisce come in questo scenario le grandi potenze basarono il loro potere sulle teorie elaborate da alcune nuove scienze sociali in via di definizione, prima tra tutte la geopolitica. Parallelamente, la geopolitica fornì anche le fondamenta ideali per giustificare il colonialismo di fine ’800. In questa prospettiva
STORIOGRAFIA 82 P. Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo tra Otto e Novecento, Carocci, Roma 2014, pp. 11-13; 23-39.
La geografia, intesa come scienza geografica, non detiene il monopolio sulla definizione degli spazi. I presupposti su cui molti geografi o geopolitici fondano la loro concezione di spazio, le loro «mappe mentali» sono formati nell’ambito di una disciplina – la geografia – che intrattiene rapporti specifici col potere politico. […] La geografia politica è particolarmente «esposta» all’influenza della politica: essa accompagna le conquiste coloniali, misurando e permettendo il controllo dei territori d’oltremare; essa legittima la definizione dei confini interni ai continenti, in caso di guerre e nuovi accordi politici; essa sostiene i progetti imperialisti e definisce le zone di influenza, permettendo alle grandi potenze di penetrare e controllare altri Stati […]. La geopolitica non è solo una scienza geografica, ma è anche l’arte del potere geografico: geopolitici come Mackinder, Haushofer e Bowman furono al contempo geografi e consiglieri politici. La loro attività politica non era indipendente dalla loro funzione scientifica, anzi, essi usarono coscientemente nel campo politico quell’autorità che proveniva dalla loro conoscenza scientifica. […] Secondo il geografo britannico John Agnew il passaggio dalla geopolitica «civilizzatrice», caratterizzata dalle scoperte e dalla conquista dei «nuovi continenti», alla geopolitica naturalizzata, e cioè alla concezione dell’universo chiu-
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si collocano i due testi successivi: lo storico statunitense Raymond F. Betts [Ź83] analizza i fattori politici all’origine della corsa alle colonie, mentre il tedesco Wolfgang Reinhard [Ź84] si concentra sugli aspetti economici della dominazione europea e, dunque, sul fenomeno dello sfruttamento coloniale. Nell’ultimo brano, infine, Nicola Labanca [Ź85] espone la graduale colonizzazione della Somalia da parte dell’Italia, frutto di un delicato equilibrio diplomatico con la Gran Bretagna.
P. Chiantera-Stutte La nascita della geopolitica come scienza al servizio della politica La scienza geografica non costituisce un sapere neutro. Essa, anzi, si è sviluppata nel corso dell’800 a stretto contatto col potere politico, di cui è diventata, in un certo senso, “complice”. È questa l’origine della «geopolitica», cioè della scienza che studia l’interazione tra fattori geografici e azione politica. I primi passi di questa scienza nel contesto degli Stati di potenza sono ripercorsi nel seguente brano dalla storica Patricia Chiantera-Stutte (nata nel 1966). so, ormai noto e sfruttato fino ai suoi confini, è un’esperienza fondamentale a partire dalla metà dell’Ottocento. Il mondo e i rapporti politici vengono «naturalizzati»: i popoli sono divisi fra imperialisti e colonizzati; gli Stati sono definiti attraverso i loro bisogni naturali, biologici, di territori e risorse; il gioco del potere nel mondo diventa a somma zero, e cioè dove una nazione vince e l’altra perde […]. Questa trasformazione è segnata dall’inserimento nella scienza geografica europea di una nuova prospettiva e di nuovi metodi di ricerca, quelli della geografia politica, e, successivamente della geopolitica, adottati in Inghilterra da Halford Mackinder, in Francia da Paul Vidal de la Blache e in Germania da Friedrich Ratzel e poi in Svezia da Rudolf Kjellen. La nuova disciplina geopolitica traduce le ansie e la presa di coscienza di una nuova realtà politica e sociale tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: la percezione di un mondo globalizzato, sempre più interdipendente grazie alle invenzioni tecnologiche e allo sviluppo del capitalismo e della finanza internazionale […]. Un profondo mutamento dell’idea di spazio e di tempo attraversa il XIX secolo: una vera e propria accelerazione del tempo e un restringimento dello spazio […] dovuti anche al progresso tecnologico e scientifico. A partire da allora e fino ad oggi, le informazioni, la cultura e i flussi di beni e persone si spostano velocemente, in modo da re-
alizzare una profonda interdipendenza fra i vari spazi del pianeta. […] Tale cambiamento del sistema internazionale è accompagnato, a sua volta, da una nuova riflessione teorica e dalla formulazione di nuovi modelli politici e di relazioni internazionali. Politicamente l’Ottocento è contrassegnato da due tendenze apparentemente contrapposte: da un lato il successo del nazionalismo e di conseguenza della formula dello Stato-nazione e, dall’altro, l’imperialismo. L’Europa domina il mondo e impone i suoi modelli politici e culturali al resto del pianeta, esercitando il suo potere in due modi: attraverso la politica di potenza, usata anche con azioni aggressive, e attraverso l’egemonia, realizzata tramite l’imposizione di pratiche e regole commerciali e con la diffusione di suoi modelli culturali. La nazione e l’impero costituiscono, in questa prospettiva, i due attori principali dei rapporti internazionali a livello globale. […] L’impero coloniale assicura la stabilità all’Europa ottocentesca da un punto di vista politico ed economico, attraverso la creazione di una forte interdipendenza fra la madre patria e le colonie […]. La coscienza dell’interdipendenza dei processi economici, politici e culturali e la realizzazione della diversità delle culture sfociano nella ricerca di modelli scientifici in grado di ordinare le civiltà e estrapolarne i caratteri
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FARE STORIA
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
essenziali, e nella pratica e teoria dei diritti universali. La concezione estetizzante della cultura extraeuropea, considerata come esotica, propria del mondo settecentesco erudito, lascia il posto alle classificazioni «scientifiche» delle differenze tra i popoli e le culture […]. In particolare, una delle nuove scienze veicola le tensioni politiche del tempo in un nuovo linguaggio scientifico: la scienza geografica […]. La geografia, in particolare, detiene un ruolo preminente tra le scienze: essa assume un doppio status accademico e politico, ovvero è definita in ambito accademico come una nuova disciplina separata dalla storia e dalla politica, e, insieme, viene impiegata come «consulente» del potere politico. Diventa uno «strumento dello Stato» […]. In Europa la sua legittimazione scientifica è indiscussa, sia perché è l’unica disciplina che rivendica per sé, a livello globale, l’autorità di esaminare gli spazi e i territori con dei metodi, un lessico e delle procedure scientifiche, sia perché essa esercita un pote-
re assoluto per la definizione legittima dei territori politici e dei confini statali, che, a loro volta, sono oggetto dell’esercizio del potere politico e delle contese internazionali […]. Questa interrelazione del potere politico col sapere scientifico si manifesta in particolare nell’accertamento dei confini durante l’imperialismo coloniale: la spartizione delle colonie è preceduta da accordi – o conflitti – politici, che non possono prescindere dal riferimento al sapere geografico e cartografico. La geografia e la cartografia acquistano, così, insieme un valore simbolico e una funzione pratica per l’esercizio del potere politico: sono strumenti per guidare la conquista e la spartizione dello Stato coloniale e, allo stesso tempo, rappresentano il potere dei governi e della scienza occidentali. […] È evidente l’intreccio fondamentale fra la scienza geografica […] e una specifica concezione politica e storica. La politica […] fonda il sapere geografico, poiché è sottintesa alla concezione di uno specifico ordine spaziale. In
STORIOGRAFIA 83
R.F. Betts Le cause del colonialismo
R.F. Betts, L’alba illusoria. L’imperialismo europeo nell’Ottocento, il Mulino, Bologna 1986, pp. 93-97.
Anche se non segnò la fine dell’espansione europea, Fascioda1 costituì in ogni caso un momento importante, forse un momento culminante. Il fatto che gli Europei fossero giunti proprio nel cuore di un continente che fino a quel momento avevano in pratica ignorato nelle loro grandi decisioni politiche, fa perlomeno pensare a un cambiamento di atteggiamenti che sconfina quasi in uno stato di un’esaltazione politica. Ed è proprio questo ritmo più rapido che contraddistingue immediatamente la politica internazionale del «nuovo imperialismo» e giustifica il fatto che si definisca la sua più importante manifestazione come «la contesa per l’Africa». La confusione politica che si diffuse nel mondo a seguito di questa multiforme espansione trova il suo comple-
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altre parole, la necessaria relazione fra un popolo, un territorio e uno Stato indicano il quadro e il limite entro i quali lo sviluppo storico è possibile, razionale e necessariamente incanalato: il rapporto politico organico ed essenziale del popolo col territorio guida l’agire politico «giusto» e fornisce, insieme, il presupposto del lavoro del geografo. Il geografo, allora, nello scoprire le leggi naturali e il «piano della natura», individua il perfetto ordine politico e, allo stesso tempo, il fine della storia umana.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea le azioni politiche descritte legittimate dalla geografia e rendile riconoscibili attraverso dei titoli che scriverai al lato del testo. b. Evidenzia la definizione di geopolitica e sottolineane le caratteristiche principali. c. Spiega per iscritto in cosa consiste la geopolitica e quali cambiamenti culturali e politici ne favorirono la nascita.
Lo storico statunitense Raymond F. Betts (1925-2007), studioso del colonialismo, affronta in questo brano il dibattito sui fattori che spinsero le potenze europee a impegnarsi nella competizione imperialistica di fine ’800-inizio ’900. L’autore sottolinea l’importanza delle ragioni economiche nella corsa all’acquisizione di colonie in Africa e in Asia, ma ricorda anche i fattori politici e culturali che alimentarono quel processo. Le guerre coloniali fecero infatti da cemento interno dinanzi alle crescenti tensioni sociali dei singoli paesi, evocando una superiorità etnica e nazionale capace di mobilitare in favore dei governi settori significativi dell’opinione pubblica europea. mento, sia pure su scala più modesta, nelle ricerche degli storici sulle sue cause. [...] Fin dall’inizio, piuttosto che certe personalità furono certe forze a dominare i modelli causali. Tra questi modelli, nessuno ha esercitato tanta attrazione quanto quello di derivazione nettamente marxista. Secondo tale modello, il capitalismo industriale estendendosi a nuovi mercati e cercando nuove zone per gli investimenti industriali promosse l’imperialismo in quanto strumento per ottenere maggiori profitti. Che tali profitti siano stati realmente ottenuti [...] è del tutto irrilevante rispetto alla premessa di base di questa tesi: il fine economico. [...] Contro queste tesi orientate sull’economia, gli storici convinti del Primat der Aussenpolitik 2 hanno ritenuto che
generatore dell’imperialismo fu il dinamismo del sistema europeo di Stati. Quando la politica di potenza dovette cercare altri spazi al di fuori del piccolo continente europeo, in cui l’unificazione dell’Italia e della Germania aveva eliminato i centri tradizionali di scontro e di spartizione territoriale, nuovi champs de manoeuvre3 si cercarono o si trovarono in Africa, nel Vicino Oriente e nell’Estremo Oriente. Nell’ambito di quest’ipotesi, che si basa in primo luogo sull’analisi delle attività diplomatiche e su una valutazione del concetto 1. Fascioda, località sudanese, nel 1898 divenuta
oggetto di un contenzioso tra truppe francesi e britanniche che sembrò poter scatenare un conflitto tra i due paesi. 2. Primato della politica estera. 3. Campi di manovra.
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FARE STORIA
FARE STORIA Le grandi potenze e i loro imperi coloniali
di equilibrio di potere, figurano appunto la rivalità anglo-francese e quella franco-tedesca. Contro queste interpretazioni, [...] sta la più influente tra le teorie recenti, quella che postula l’esistenza di imperi «informali» (acquisiti per via commerciale) e «formali» (annessi politicamente), che mirano entrambi all’espansione economica. Questa tesi, secondo cui l’imperialismo britannico rimase una funzione permanente dello sviluppo economico interno e che dimostra come le annessioni nell’età vittoriana di mezzo furono altrettanto significative che in seguito, nega l’unicità, la subitaneità e l’intensità del «nuovo imperialismo». Infine, studi recenti che capovolgono l’impostazione tradizionale e che hanno studiato certi avvenimenti soprattutto in Africa, hanno cercato di modificare l’impostazione eurocentrica [...]. Secondo questa linea di ricerca, i fattori locali avrebbero provocato il coinvolgimento politico, a volte non previsto e non desiderato nelle capitali europee. Di conseguenza, il colonialismo, ossia l’attività coloniale locale, avrebbe preceduto l’imperialismo, ossia la politica nazionale. [...] Se non si intravvede una soluzio-
ne generale del problema, non si fanno però molti passi avanti affermando soltanto che in ogni esempio storico di conquiste coloniali operarono fattori di varia natura. [...] Il fatto che questi coinvolgimenti politici dell’Europa in tutto il mondo siano avvenuti in un ben preciso momento storico pone il problema dell’analogia delle cause generali. Ora che la tesi del «nuovo imperialismo» è stata seriamente riabilitata, è tanto più auspicabile che si prendano in considerazione quegli aspetti insoliti nell’azione e nei propositi che lo differenziano in modo significativo dall’espansione immediatamente precedente. Se nell’analisi storica contemporanea il termine «crisi» non fosse tanto abusato, esso potrebbe egregiamente riassumere quel repentino concorso di condizioni interne e di attività diplomatiche che indusse gli uomini politici ed i teorici europei a convogliare i numerosi e disparati decreti relativi alle colonie in una politica espressa a livello nazionale e in un’ideologia dell’imperialismo. Lo si potrebbe anche chiamare l’imperialismo «ansioso», la preoccupata risposta alle pressioni socio-economiche che sembravano minacciare tanto il primato del mondo europeo quanto la
STORIOGRAFIA 84
W. Reinhard Lo sfruttamento economico delle colonie
W. Reinhard, Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002, pp. 278-82.
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posizione interna delle élites di governo. [...] L’Europa, un insieme di Stati in reciproca competizione e di società in preda al disordine economico, fu quindi spinta a inaugurare un’èra dell’imperialismo. Può essere vero che non furono certi atteggiamenti a provocare eventi politici di grande portata; tuttavia essi concorsero a plasmarli e a dirigerli. Offrendosi un reciproco supporto, l’«imperialismo dell’azione», esercitato da coloro che si trovavano sul posto e si adeguavano alle condizioni locali, si combinò con la «mentalità imperialistica» che sensibilizzò in egual misura statisti e cittadini spingendoli a interessarsi di ciò che accadeva al di là delle frontiere nazionali, e spesso al di fuori del loro controllo immediato.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia i nomi delle spiegazioni storiografiche descritte e sottolineane le caratteristiche più rilevanti. b. Sottolinea le cause dell’imperialismo europeo. c. Spiega in cosa consiste «la contesa per l’Africa» e quali sono state le sue caratteristiche salienti secondo gli orientamenti storiografici descritti.
Lo storico tedesco Wolfgang Reinhard (nato nel 1937) ha descritto, nel suo studio dedicato al colonialismo europeo, lo sfruttamento economico delle colonie da parte degli Stati europei. Il seguente brano è dedicato all’Africa nella seconda metà dell’800. Inizialmente gli europei si limitarono a praticare in colonia una politica di mera depredazione delle risorse economiche, soprattutto dei prodotti naturali o delle ricchezze minerarie. Successivamente cercarono di «mettere a valore» i territori coloniali, assegnando la maggior parte delle terre a società europee. Inoltre, benché talvolta fosse permesso ai contadini africani di divenire proprietari, le loro produzioni erano comunque obbligatoriamente indirizzate verso prodotti da esportare sul mercato internazionale. Ciò legava le economie di molti paesi africani alle oscillazioni degli scambi esteri, a cui potevano far fronte soltanto le grandi società commerciali occidentali. Come nella maggior parte dei casi, anche in Africa l’economia coloniale esordì come economia di rapina, una sorta di saccheggio in grande stile, che raggiunse il suo culmine nelle colonie del Congo. Si trattava di fare il più rapidamente possibile bottino dei prodotti naturali come l’avorio e il caucciù, sfruttando nel modo più brutale gli indigeni, senza effettuare il minimo investimento nel paese. [...] Ma le crisi di cui abbiamo fatto menzione, a cui si aggiunse la disastrosa flessione del
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boom del caucciù naturale nel 1910, portarono a riconoscere, già negli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, che lo sviluppo delle colonie, la mise en valeur1 e un trattamento che si prendesse cura della forza-lavoro africana erano tutti, a ben vedere, nell’interesse dell’Europa. [...] In Africa dapprima rivestì un ruolo cruciale il fatto di poter disporre del fattore di produzione «terra». Come nella maggior parte delle culture extraeuropee, la proprietà privata senza
restrizioni secondo lo ius romano era in quel continente sconosciuta. Tuttavia, si può dire che la terra non era senza padroni, giacché su di essa avanzava pretese una rete complessa di gruppi e individui. Le amministrazioni coloniali tendevano in caso di bisogno a dichiarare proprietà dello Stato quella terra che agli occhi degli Europei ap-
1. Messa a valore, valorizzazione.
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pariva senza padrone e ad assegnarla a coloni bianchi o a società con capitali. Venne introdotta inoltre la possibilità per gli Africani di possedere in regime di proprietà privata la terra, a cui si accompagnavano la registrazione, la tassazione e altre spiacevolezze che spesso facevano sì che la terra finisse nelle mani dei creditori o degli acquirenti bianchi. Vi furono però anche casi in cui i rapporti di proprietà africani vennero rispettati a svantaggio dei bianchi. Nella regola quanto più antica era la colonia e quanto più numerosi vi si erano insediati i bianchi, tanto più la terra passava dagli Africani agli Europei. Ma le circostanze cambiavano di colonia in colonia. […] Le strategie di politica agraria sono strettamente legate alla forma predominante di sfruttamento della terra. Al mantenimento della proprietà della terra nelle mani degli Africani non doveva corrispondere assolutamente una mera economia di sussistenza, bensì la produzione da parte dei contadini africani di cash crops (colture da esportazione) per il mercato mondiale. A ciò si contrapponevano le aziende dei coloni bianchi e le piantagioni delle società con capitali, che potevano essere aziende dedite all’allevamento del bestiame o alla coltura, a loro volta, di prodotti destinati al mercato. [...] La coltivazione di cash crops da parte dei piccoli contadini africani rappresenta una forma di economia primitiva a basso costo con però scarse prospettive di commercializzazione [...]. A ciò si aggiunga il fatto che per le monocolture si instaura
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N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino 2007, pp. 85-90.
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Se l’origine dell’espansione italiana in Eritrea poté essere detta un «accidente» della politica britannica, potremmo definire quella in Somalia «un accidente dell’accidente». […] Dopo l’apertura del Canale di Suez, nel 1875 truppe egiziane – dopo essersi fermate a Massaua – si erano spinte sino alle coste di quello che era ancora noto come il favoloso e sconosciuto
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la tipica dipendenza dal mercato mondiale con elevata suscettibilità a periodi di crisi. [...] Cotone, lana, caucciù, mais, olio di palma, cacao e arachidi nel 1913 rappresentavano solo il 20,2 per cento delle esportazioni africane, nel 1935 il 25,14 per cento, mentre il 55,9 e il 53,5 per cento del ricavato delle esportazioni era rispettivamente dovuto a oro, diamanti e rame. Dal punto di vista dell’economia mondiale l’Africa era una colonia di giacimenti [...]. La distribuzione degli investimenti rispecchia la geografia della produzione. [...] Gli investitori sia pubblici sia privati, durante l’epoca coloniale, investirono il loro denaro in primo luogo nel settore delle esportazioni in senso lato. Il risultato fu uno sviluppo unilateralmente orientato al commercio estero, vale a dire agli interessi economici degli Europei anziché all’economia africana, cioè uno sviluppo economico dalla forte connotazione coloniale. Se guardiamo la carta geografica, ancora oggi possiamo ricavare una siffatta conclusione dal più importante investimento statale, la costruzione delle ferrovie2. [...] Tale costruzione ha creato un sistema di linee ferroviarie d’approccio gravitanti sulle città portuali, sistema che non rispondeva alle esigenze del continente, bensì al suo sfruttamento da parte degli Europei. Quando il commercio rappresentava il grande affare con l’Africa, la cosa era più vera per il continente nel suo complesso che per le potenze coloniali, poiché il peso che l’Africa ebbe nella
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loro bilancia commerciale rimase tutto sommato modesto fino all’epoca del secondo conflitto mondiale. Erano piuttosto certe branche industriali e imprese commerciali a trarre il maggior beneficio non solo dal commercio, ma anche dalle misure intraprese dai governi per creare infrastrutture. Per il bilancio dello Stato dei paesi europei l’Africa potrebbe essere stata un affare in perdita, mentre per i privati i guadagni furono enormi, ma poco si sa della loro entità e dei loro effetti in madrepatria. Ciò dipende in parte dalla struttura delle imprese. Mentre sul versante africano tale commercio fino a un certo grado rimase commercio di scambio, [...] sul versante europeo ormai non si trattava più di società puramente nazionali, in quanto nel commercio africano l’epoca delle «multinazionali» fece ben presto la sua comparsa. 2. Ź88.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia i nomi delle merci prodotte per le esportazioni e sottolineane le caratteristiche commerciali quando descritte. b. Sottolinea gli atteggiamenti e le politiche commerciali attuate dagli europei in Africa. c. Individua e descrivi gli effetti dello sfruttamento e del commercio coloniale mettendo in rilievo quello che ti sembra possa essere il giudizio espresso da Reinhard.
N. Labanca Gli aromi e i sogni somali Le politiche coloniali italiane della fine dell’800 furono strettamente legate allo spirito imperiale del Regno Unito e ai rapporti diplomatici con esso. In particolare, come analizzato nel seguente brano dallo storico Nicola Labanca (nato nel 1957), ciò fu evidente nel caso dell’espansione – inizialmente solo commerciale – italiana in Somalia. paese di Punt, o Ofir, o Benadir «terra degli aromi». Al più tardi da quella data la Somalia aveva attratto l’attenzione degli esploratori e, con essi, dei governi europei. Nel Vecchio Continente si conosceva poco quella che sarebbe poi divenuta la Somalia. Alla base, vi era anche una certa complessità della situazione locale. L’interno del paese aveva assi-
stito, da secoli, agli spostamenti delle popolazioni nomadi di pastori somali. […] Divisi in grandi famiglie claniche, aggregazioni riconoscentisi in un’unica discendenza agnatizia1 ma non legate a uno specifico territorio e non sempre
1. Forma di discendenza che passa dal padre al
primo figlio maschio.
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l’azione italiana agì sui due teatri della Obbia-Migiurtinia e di Zanzibar. Per ambedue l’interessamento di Londra fu decisivo. Sul primo teatro, dopo aver ottenuto il benestare britannico secondo cui l’Italia sarebbe stata la «benvenuta sulla costa dei Somali», di nuovo il Filonardi, aiutato dalla presenza di navi militari italiane, ottenne che il sultano di Obbia firmasse una richiesta di protettorato (8 febbraio 1889). Analogamente avvenne per il sultano dei Migiurtini (7 aprile 1889). Si trattò di accordi rimasti a lungo poco più di pezzi di carta, che permettevano una sovranità italiana più formale che sostanziale, e comunque limitata ai principali approdi costieri. Essi in ogni caso stabilivano titoli di possesso coloniale. Più complessa, perché relativa a città e territori strategicamente e economicamente più interessanti, fu l’azione verso Zanzibar. Una prima volta (8 febbraio 1889) il contatto fu vanificato dal comportamento inurbano di Filonardi, che giunse ad insultare il sultano locale. Qualche mese più tardi, grazie ai buoni uffici britannici, fu possibile raggiungere un accordo (3 agosto 1889). Esso prevedeva che il sultano passasse alla Imperial British East African Company, e che questa transitasse all’Italia, i diritti sui suddetti porti del Benadir (trasferimento datato 18 novembre 1889). Una successiva convenzione fra Italia e Zanzibar (12 agosto 1892) perfezionò l’accordo. […] Mentre Filonardi continuava i propri affari, mescolando cariche pubbliche e interessi privati, l’Italia poteva affermare di disporre di un’altra colonia. A nessuno sfuggiva che, a parte quelli di Filonardi e di pochissimi altri, non c’erano concreti interessi economici italiani in atto in Somalia. […] Le sab-
bie somale non si confacevano nemmeno alla retorica colonialista italiana che cercava terre da coltivare per l’emigrazione italiana. Insomma, l’Italia non sapeva cosa fare della Somalia. Essa, al massimo, poteva tornare utile per l’accerchiamento dell’Etiopia, che pochi mesi prima aveva denunciato il trattato di Uccialli. Anche per tali vie, la Somalia si connetteva all’Eritrea. Colonia solo strategica (o al massimo commerciale, ma con tanti dubbi) […] fu presto chiaro che per la Somalia non era possibile pensare a spese paragonabili a quelle per l’Eritrea. […] Invece di edificare per il nuovo possedimento uno Stato coloniale sia pure in sedicesimo, come si stava facendo per l’Eritrea, l’11 maggio 1893 venne fondata la «Società V. Filonardi & C.». La Società, o compagnia, ricevette dal governo l’esercizio triennale del possedimento e una sovvenzione annua di trecentomila lire. In cambio la società Filonardi avrebbe dal canto suo corrisposto al sultano di Zanzibar un canone annuo per l’affitto dei porti e ai due sultani di Obbia e dei Migiurtini un personale appannaggio […]. Con tale colonialismo «indiretto» (attraverso una compagnia privata) il governo aveva diversi scopi. Mirava a mettersi al riparo dalle critiche prevedibili dei conservatori non convinti di dover impegnare il Paese in ulteriori espansioni e da quelle sicure degli anticolonialisti. Riduceva il rischio di vedersi coinvolto, come sarebbe accaduto in Eritrea, in pericolose spedizioni nell’interno. E nel frattempo manteneva un proprio diritto su territori formalmente assai ampi. 2. Politico e scrittore italiano.
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operanti come unità politiche; in clan, entità più «politiche» e più legate ad una qualche esclusività territoriale ma non necessariamente insediate in territori definiti […]; e poi ancora in sottoclan, in lignaggi primari e secondari, sino ai più piccoli gruppi pagatori di tributi, i somali dovevano nel complesso apparire all’occhio ottocentesco europeo un popolo accomunato da una religione (quella musulmana) ma estremamente articolato e frazionato. […] La frammentazione del grande territorio dei somali fu forse la più evidente fra le eredità lasciate dagli europei. Fra di essi, i francesi erano nell’area sin dal 1839 e con il 1859 avevano ottenuto il porto di Obock. Fra il 1885 e il 1888 l’insediamento si rafforzò e nel 1894 Parigi ottenne da Menelik II l’autorizzazione ad avviare i lavori della ferrovia che avrebbe collegato Gibuti con Addis Abeba: tale operazione ridusse definitivamente l’importanza come sbocco al mare dei prodotti etiopici (oltre che dell’italiana Assab) della britannica Zeila. Anche i britannici erano da tempo nell’area. Da secoli in India […] e dal 1839 ad Aden, al momento del loro sopravvenuto controllo dell’Egitto nel 1882 essi avevano «ereditato» da Cairo un qualche rapporto con le sue stazioni marittime lungo il mar Rosso sino appunto in Somalia. […] Ancora una volta, come per l’Eritrea, l’Italia arrivò in Somalia via Gran Bretagna. Idee e progetti italiani sulla Somalia non erano mancati. Mentre i britannici andavano a Zeila, Menelik nell’Ogaden e la Conferenza di Berlino era in corso, Cristoforo Negri (1809-1896)2 suggerì di inviare una spedizione in quell’area. […] Efficace, anche se condotta con modi non sempre diplomatici e urbani, sembrò ai governi italiani la presenza a Zanzibar del commerciante Vincenzo Filonardi (1853-1916). Questi, fattosi finanziare dal Banco di Roma una sua campagna commerciale, poté sollecitare e cogliere al volo l’offerta del sultano locale (24 ottobre 1886) di rilevare i porti di Chisimaio, Brava, Merca, Mogadiscio e Uarsceich. In un primo momento, nel timore che l’accordo assumesse un valore troppo smaccatamente antitedesco, nei mesi che avrebbero dovuto condurre al rinnovo italiano della Triplice, fu Roma (gli Esteri di Di Robilant) a frenare. Ma in un secondo momento nel 1888-1989, con l’avvento di Crispi, tutto fu rimesso in moto. A quel punto
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PALESTRA INVALSI 1. L’autore del testo si propone di: [ ] a. dimostrare che l’Italia colonizzò la Somalia per accerchiare l’Etiopia. [ ] b. dimostrare che in Somalia l’Italia attivò una forma di colonialismo indiretto, traendo dei vantaggi da questa formula. [ ] c. dimostrare che la colonizzazione in Somalia apportava grandi vantaggi economici. [ ] d. dimostrare che l’impresa coloniale in Somalia aveva caratteri antitedeschi. 2. La seguente affermazione è coerente con quanto si sostiene nel testo? “La colonizzazione della Somalia avvenne, come le altre politiche coloniali italiane della fine dell’800, in coerenza con lo spirito imperiale del Regno Unito e con i rapporti diplomatici con esso.” [ ] a. Coerente [ ] b. Non coerente.
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LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Esamina le riflessioni portate avanti nei testi di Chiantera-Stutte [Ź82] e di Betts [Ź83] e realizza sul tuo quaderno un triangolo ai cui vertici scriverai le espressioni “scienze sociali”, “politica di potenza” e “colonialismo” e alcune parole chiave che ne condensano il valore storico-politico. Realizza quindi un testo argomentativo in cui analizzi il possibile rapporto fra queste tre espressioni nel contesto storico della seconda metà dell’800 argomentando le parole chiave da te individuate. 2. La politica coloniale è un fenomeno complesso che agisce su più livelli, da quello delle motivazioni economiche a quello della legittimazione culturale a quello degli equilibri politici. Descrivi questi diversi aspetti a partire dai brani storiografici proposti e dall’analisi del documento relativo al Trattato della Triplice alleanza [ŹLEGGERE LE FONTI, p. 490]. Seleziona quelli che ti sembrano più rilevanti ed evidenzia al loro interno i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti del trattato che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato. Il confronto storiografico 3. A partire dal brano di Betts [Ź83] schematizza il dibattito sui fattori che spinsero le potenze europee a impegnarsi nella competizione imperialistica di fine ’800-inizio ’900. Sulla base di quanto hai studiato fino a questo momento, indica la spiegazione che ritieni maggiormente condivisibile. Argomenta il tuo punto di vista in un testo organizzato in forma chiara e coerente.
Guerra di secessione e guerre coloniali Le grandi innovazioni tecniche figlie della prima e della seconda rivoluzione industriale non ebbero effetti solo nel settore della produzione: esse, anzi, comportarono cambiamenti imprevedibili e irreversibili tanto nel settore delle telecomunicazioni quanto in quello bellico. La tecnologia industriale, infatti, fu sempre più impiegata per fini militari. Il primo esempio di «guerra industriale» o, come è stato detto in seguito, di «guerra totale», fu costituito dalla guerra civile americana: come messo in luce dallo storico italiano Arnaldo Testi [Ź86], in quel contesto l’utilizzo di nuove armi si unì a quello di nuovi sistemi di comunicazione (il telegrafo) per dar vita a una nuova forma di conflitto. La produzione di armi più efficaci ebbe, però, i suoi effetti più importanti nelle conquiste coloniali. Se nella prima fase di penetrazione coloniale, le tecnologie chiave furono i battelli a vapore e l’impiego profilattico del chinino (un alcaloide che serviva a prevenire la malaria, che avrebbe potuto facilmente decimare gli occidentali in Asia e in Africa),
STORIOGRAFIA 86 A. Testi, La formazione degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2013, pp. 171-73; 202; 212-13.
I nervi del paese: notizie e velocità La conquista dello spazio fu accompagnata dalla conquista del tempo, cioè dalla velocità di comunicazione. In pochi decenni tutto cambiò, e il contra-
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nella fase di conquista furono i fucili e le mitragliatrici a giocare un ruolo di primo piano. Come evidenzia lo studioso statunitense Daniel R. Headrick [Ź87], infatti, le armi si fecero gradualmente sempre più potenti e precise, consentendo un indubbio vantaggio tecnologico agli occidentali. Nella successiva fase di consolidamento del dominio imperiale, basato sull’accentuazione dello sfruttamento economico delle colonie, furono invece le linee di navigazione a vapore, il Canale di Suez, i cavi telegrafici sottomarini e le ferrovie coloniali a rivestire un’importanza fondamentale. Nel mondo occidentale, e soprattutto in Gran Bretagna, a partire dagli anni ’40 dell’800 iniziò infatti una vera e propria fase di “febbre delle ferrovie”. I fautori della ferrovia sognavano di diffondere in tutto il pianeta rotaie e treni e, tra tutti i paesi, era soprattutto la colonia britannica dell’India a sembrare averne un particolare bisogno, come messo in luce dagli storici Tony Ballantyne e Antoinette Burton [Ź88].
A. Testi La guerra civile americana: una guerra totale Intorno alla metà dell’800, gli Stati Uniti furono attraversati da un grande progresso tecnologico: nuovi mezzi di trasporto (il treno e il transatlantico a vapore) e nuovi modi di comunicare (il telegrafo) consentirono di avvicinare non solo le due coste del continente, ma anche tutto il paese all’Europa. Per Arnaldo Testi (nato nel 1947), uno dei maggiori studiosi italiani della storia statunitense, questi progressi tecnologici manifestarono le loro conseguenze più evidenti nella guerra civile americana, che può essere considerata una delle prime «guerre totali». Essa, infatti, utilizzando le nuove tecnologie, coinvolse totalmente anche la popolazione civile degli Stati del Nord e di quelli del Sud e convogliò tutte le loro risorse – economiche e propagandistiche – nello sforzo bellico. sto fra il prima e il dopo era drammatico. […] Le straordinarie virtù della stampa e del telegrafo, delle ferrovie e delle altre applicazioni della tecnologia a vapore,
accelerarono i tempi della vita politica e imperiale, commerciale e quotidiana. Diedero agli americani una nuova idea dello spazio. Intorno al 1860, grazie ai battelli transatlantici a vapore che sta-
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vano sostituendo le navi a vela, il continente nordamericano era a nove giorni di viaggio dall’Inghilterra, molto più vicino all’Europa. Grazie alle ferrovie, che avevano velocità due o tre volte superiori a quelle delle carrozze a cavalli, anche l’immenso paese divenne più piccolo e accessibile. Per alcuni si trattava di velocità spaventose, strumenti di Satana per confondere le anime degli uomini; per altri, di segni tangibili di progresso. Per tutti, l’impressione era che le distanze si contraessero. Le nuove macchine, scrisse un periodico, trionfavano «sul tempo e sullo spazio […] annullando ogni ostacolo sul mare e sulla terra» (1846). Con un salto d’immaginazione, anche i nuovi territori nel lontano ovest sembrarono a portata di mano, partecipi della vita collettiva. […] Il telegrafo fu salutato come un mezzo per tenere insieme la nazione e per rafforzare la democrazia, proprio mentre milioni di persone si muovevano verso ovest. […] L’innovazione era in effetti radicale. Per la prima volta nella storia si operava una vera separazione fra la comunicazione di informazioni e il trasporto di cose e persone. Fino ad allora le informazioni avevano viaggiato alla velocità del messaggero umano che le portava; ora non era più così. […] Il telegrafo influenzò il modo di operare della stampa. Rese la raccolta di notizie da tutto il paese e, in prospettiva, dal mondo velocissima e accurata, ma anche costosa. Per sopportare meglio i costi alcuni quotidiani americani fondarono la Associated Press (1848), un’agenzia cooperativa che forniva informazioni a tutti i giornali abbonati. […] La guerra totale La guerra durò quattro anni, dal 1861 al 1865, e fu una guerra totale. Dopo essersi inizialmente affidate ai volontari, entrambe le parti ricorsero alla coscrizione obbligatoria, la prima nella storia del paese. In tutto, la Confederazione arruolò 900.000 uomini, l’Unione più di 2 milioni, di cui 500.000 nati all’estero. Il numero di morti fu altissimo, oltre 750.000 secondo le stime più recenti (la cifra accettata finora era circa 620.000). il totale delle vittime fu superiore a quello patito dagli Stati Uniti in tutte le guerre precedenti e successive, comprese quelle mondiali del Novecento. Anche i civili pagarono prezzi elevati, ne morirono circa 50.000, in genere per cause indirette, per la distruzione
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di risorse e proprietà, per le cattive condizioni di vita, per fame e malattie. Ciò accadde soprattutto nel sud, dove si svolse gran parte dei combattimenti. Città come Richmond, Charleston e Atlanta furono distrutte; le campagne furono ridotte in rovina. Il costo complessivo del conflitto fu di 20 miliardi di dollari, una cifra eguale a cinque volte la somma delle spese del governo federale dalla fondazione al 1865. L’enormità di queste cifre fu dovuta ai caratteri nuovi assunti dalla guerra, che fu condotta da grandi masse, con tecnologie industriali e armi micidiali. L’artiglieria e i fucili di Springfield1 falciavano i soldati; se non uccidevano subito, provocavano ferite infette che uccidevano più tardi. La vita di trincea, il cibo avariato e la pessima igiene uccisero più delle battaglie (a ciò fu dovuto il 60% dei morti del nord). Inoltre la guerra divenne lotta per la vittoria senza condizioni. I contendenti si battevano per valori assoluti, per l’indipendenza o per la riunificazione nazionale; ogni compromesso equivaleva alla sconfitta. Alla Confederazione, in verità, bastava difendersi, tenere in scacco il nemico, continuare a resistere. Non così all’Unione, che per vincere doveva cancellare l’avversario, occuparne il territorio, sottometterlo. Negli ultimi due anni del conflitto, il nord scatenò contro il sud tutto il suo potenziale distruttivo, e lo travolse. […] Soprattutto nel nord, la bontà della causa presso l’opinione pubblica fu sostenuta dalla maggioranza dei mezzi di comunicazione di massa. I giornali popolari, ormai diffusissimi, e sempre più diffusi proprio per l’interesse suscitato dagli straordinari eventi bellici, «coprirono» la guerra con un’intensità senza precedenti. Inviarono centinaia di reporter su tutti i fronti al seguito delle truppe. Grazie al telegrafo, i loro dispacci arrivarono con rapidità alle redazioni dei quotidiani e quindi ai lettori, nelle città e nelle campagne. Gli americani seppero quindi in tempo reale di operazioni militari, strategie e tattiche, vittorie e sconfitte, atti di eroismo veri o presunti. I periodici settimanali e mensili aggiunsero la dimensione visuale: sketch di campi di battaglia disegnati da artisti sul posto, e vignette satiriche di commento. Il cartoonist di origini tedesche Thomas Nast, sul settimanale illustrato «Harper’s Weekly», divenne molto influente; era un unionista convinto, e per il patriottismo del suo lavoro fu definito da Lincoln «il no-
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stro miglior sergente reclutatore». E poi c’era una novità, la fotografia. Campi di battaglia, ufficiali e soldati, morti e feriti furono ripresi da centinaia di fotografi. Non era un lavoro facile. Le apparecchiature erano ingombranti e difficili da trasportare, i tempi di posa lunghi richiedevano l’immobilità dei soggetti; quindi le immagini erano statiche, e tuttavia molte di esse erano impressionanti proprio per questa loro staticità. Per la prima volta era possibile vedere i corpi dei caduti sparsi sul terreno, coperti di sangue, mutilati, guardarli in viso, guardarli negli occhi, contemplare da lontano la morte. Le fotografie raggiunsero il grande pubblico in maniera indiretta; per essere stampate sui giornali dovevano venire riprodotte a mano in incisioni di legno (xilografie), perdendo in immediatezza e intimità drammatica. Gli operatori più intraprendenti, e fra essi il più famoso, Mathew Brady, cercarono di divulgarle e di ricavarne un profitto vendendone le copie, producendo album e libri, organizzando mostre. Fecero sensazione. Ma quale effetto avessero sul morale e sulla determinazione dei cittadini a proseguire il grande macello è difficile dire. 1. Città del Massachusetts.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia le innovazioni tecnologiche descritte e sottolinea quelle che ritieni essere le principali parole chiave afferenti alle relative caratteristiche o agli effetti. Quindi trascrivile sul quaderno e argomenta la tua scelta per iscritto. b. Spiega per iscritto perché la guerra civile americana viene definita «guerra totale» e quale ruolo hanno avuto in essa le innovazioni tecnologiche descritte.
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STORIOGRAFIA 87 D.R. Headrick, Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo¸ il Mulino, Bologna 2011, pp. 227-35.
Il XIX secolo fu, dopo il XVI, quello contrassegnato dalla maggiore e più spettacolare espansione della potenza europea nel mondo. […] A partire dagli anni trenta e quaranta, giunse una nuova era in cui l’industrializzazione e i progressi della scienza resero sempre più facile, economico e allettante per gli europei dedicarsi alle guerre di conquista. […] Fu un nuovo cambiamento tecnologico – l’invenzione di nuove armi da fuoco e la loro ineguale diffusione nel mondo – a rendere così rapido il «nuovo imperialismo» del secondo Ottocento. Il XIX secolo superò ogni altro per numero di innovazioni nel settore delle armi da fuoco. Le innovazioni che aumentavano la facilità di ricaricare, la rapidità nel fare fuoco nonché l’accuratezza e la varietà dei proiettili conferirono a coloro che disponevano dei nuovi fucili la capacità di dominare e soggiogare coloro che non ne possedevano. Le cause di queste innovazioni furono tre: le rivalità tra le nazioni europee e le guerre negli Stati Uniti; una cultura che esaltava e premiava l’invenzione; e l’industrializzazione nel mondo occidentale che fornì armi nuove e potenti. Fino agli anni quaranta l’arma da fuoco standard per i militari fu il moschetto a canna liscia ad avancarica1. […] Sparava un proiettile rotondo con una certa precisione fino a una cinquantina di metri, ma raramente superava la settantina di metri di gittata2; da qui l’ammonizione ai soldati di non sparare fin quando non avessero visto il bianco degli occhi del nemico. Caricare quei fucili era un’operazione complessa che doveva essere effettuata stando in piedi e che sovente richiedeva un minuto; solo i soldati perfettamente addestrati erano in grado di caricare e fare fuoco tre volte in un minuto. Poiché la polvere da sparo nello scodellino prendeva fuoco grazie a una scintilla della pietra focaia, questo tipo di fucili era sensibile all’umidità e non si poteva
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D.R. Headrick Armi e guerre coloniali Il rapporto tra le innovazioni tecnologiche e le conquiste coloniali europee in Africa e in Asia è stato molto stretto: le macchine a vapore, il perfezionamento delle armi da fuoco e le scoperte della medicina, che consentirono di sconfiggere la malaria che aveva tenuto lontano per secoli gli europei dall’interno dell’Africa, furono infatti fondamentali per l’avvio delle imprese coloniali. La tecnologia costituisce, dunque, un elemento necessario, anche se non sufficiente, per spiegare il nuovo imperialismo in Africa e in Asia. Secondo lo storico Daniel R. Headrick (nato nel 1941), a rendere possibile, rapida e poco costosa la cosiddetta «corsa per l’Africa» fu proprio la rivoluzione nel settore delle armi da fuoco, figlia della rivoluzione industriale e conseguenza delle rivalità tra gli Stati europei e tra essi e gli statunitensi. pretendere che facesse fuoco più di sei o sette volte su dieci tentativi. Si diceva che i soldati sparassero una quantità di piombo pari al proprio peso per ogni nemico ucciso. […] Il lungo periodo di conservatorismo tecnologico nella fabbricazione dei fucili terminò dopo le guerre napoleoniche. La prima innovazione significativa fu l’innesco a percussione3. […] I fucili a percussione facevano cilecca solo 4,5 volte su mille spari, il che rappresentava un grande progresso rispetto ai fucili a pietra focaia che si inceppavano 411 volte su mille. […] L’invenzione successiva fu il fucile ad ago, […] adottato dall’esercito prussiano nel 1842. Si trattò del primo fucile a retrocarica4 prodotto in grandi quantità, un’arma con la quale si poteva caricare e sparare da cinque a sette volte al minuto e dalla posizione prona anziché in piedi. […] Nel 1848 il capitano Minié dell’esercito francese sviluppò un proiettile cilindrico con testa conica e base cava che si espandeva al momento dello sparo. Il proiettile era abbinato a una quantità premisurata di polvere da sparo in una cartuccia di carta. Con questo proiettile i fucili potevano essere caricati facilmente e rapidamente […]. Nei primi anni cinquanta gli eserciti francese e inglese cominciarono a sostituire i loro moschetti con i fucili usando i proiettili Minié. I risultati furono stupefacenti. A cento metri un fucile Minié colpiva il bersaglio il 94,5 per cento delle volte contro il 74,5 per cento del moschetto; a quattrocento metri i fucili Minié colpivano il bersaglio il 52,5 per cento delle volte contro solo il 4,5 per cento dei moschetti. […] Il ritmo delle innovazioni continuò negli anni settanta. Dopo estenuanti esperimenti, l’esercito britannico adottò un nuovo fucile, il Martini-Henry […]. Aveva un calibro5 inferiore al predecessore, e ciò voleva dire che i soldati potevano portare più munizioni. Usa-
va cartucce di ottone ben più affidabili delle precedenti di carta. Era affidabile e preciso oltre settecento metri. Fu adottato, con numerose modifiche, fino alla prima guerra mondiale e assai utilizzato nelle guerre coloniali britanniche in Africa. […] Il progresso tecnologico non si fermò qui. Tre altre innovazioni costrinsero gli eserciti a sostituire i loro fucili obsoleti con modelli più aggiornati. Una fu l’introduzione dell’acciaio al posto del ferro […]. L’acciaio era molto più robusto e durevole del ferro per le canne da fuoco […]. La polvere da sparo, in uso fin dal XIV secolo, emetteva un fumo nero che tradiva la posizione del tiratore […]. Nel 1885 il chimico francese Paul Vieille inventò una miscela di celluloide e alcol etilico che non solo esplodeva senza fumo […] ma era assai più potente e impartiva al proiettile in canna una velocità assai più elevata rispetto alla polvere da sparo. […] Come scrisse uno storico, i nuovi proiettili provocavano «ferite orribili, il foro d’entrata è appena visibile, ma quello d’uscita somiglia a un imbuto […] la carne è ridotta a poltiglia». Un’ultima «miglioria» particolarmente sinistra fu l’invenzione di proiettili a testa cava o piatta che si espandevano a fungo nel momento in cui colpivano la carne, producendo un foro della grandezza di un pugno. […] Erano pensati espressamente per la guerra coloniale secondo il ragionamento per cui «le tribù selvagge […] non si face-
1. Che si carica dalla parte anteriore. 2. La massima distanza che possono raggiungere
i proiettili.
3. Forma di accensione delle cariche basata
sull’urto di un percussore sopra una piccola quantità di esplosivo (contenuto nella capsula dell’innesco) altamente sensibile. 4. Che si carica dalla parte posteriore. 5. Diametro della canna.
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FARE STORIA
FARE STORIA Guerra di secessione e guerre coloniali
vano impressionare a sufficienza dalle pallottole» […]. I generali erano interessati a molte altre armi oltre ai fucili […]. Nei contesti coloniali furono più importanti le mitragliatrici. La prima fu la Gatling, prodotto della guerra civile americana. Questo mostro a canne multiple poteva sparare fino a tremila colpi al minuto, ma spesso si inceppava o si surriscaldava. […] La prima mitragliatrice a rivelarsi d’uso pratico nelle guerre coloniali fu la Maxim, brevettata dall’americano Hiram Maxim nel 1884. Era un fucile automatico a
canna singola […] e poteva sparare undici colpi al secondo. […] L’acciaio, la polvere senza fumo, le cartucce in ottone e le molte parti di precisione di cui le armi da fuoco erano composte richiedevano fabbriche di tipo industriale. Solo i paesi industrializzati avevano i mezzi per fabbricare tali armi. Soltanto i maggiori paesi europei e gli Stati Uniti disponevano delle acciaierie, degli impianti chimici e delle fabbriche di armi necessari per produrre quanto serviva per armarsi. Le repubbliche latinoamericane importavano quello che
STORIOGRAFIA 88
T. Ballantyne • A. Burton Modernità imperiale e ferrovie
T. Ballantyne, A. Burton, Imperi e mire globali, in Storia del mondo, 5, I mercati e le guerre mondiali, 1870-1945, a c. di E.S. Rosenberg, Einaudi, Torino 2015, pp. 379-83; 390-92.
Secondo Karl Marx, «ferrovie, locomotive e telegrafi elettrici [...] sono organi della volontà umana sulla natura [...] organi del cervello umano creati dalla mano umana: capacità scientifica oggettivata», disponibile alle nazioni industriali. Queste tecnologie furono indispensabili a un industrialismo marcatamente espansionistico, e furono anche alla base di sistemi imperiali alimentati e plasmati da questa forma di organizzazione economica. Ferrovie e telegrafi sono esempi della massima importanza […]. Poiché richiedevano investimenti molto elevati in termini di capitale e di lavoro, pianificazione dettagliata, continua manutenzione e un sistema sostanzialmente manageriale, questi complessi della comunicazione diventarono gli elementi fondamentali della pratica imperiale dal 1870 in poi. […] Questa fase, iniziata con l’avanzamento del naviglio a vapore e conclusasi con l’avvento delle linee aeree […], fu testimone di una serie di sviluppi tecnologici che moltiplicarono le possibilità degli occidentali di spingersi in luoghi remoti ed «esotici» per motivi diversi: filantropici, turistici, riformatori o tutt’e tre insieme. Alla base di questo impulso allo sviluppo delle nuove modalità di tra-
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potevano permettersi. Il resto del mondo era molto più indietro.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le cause e i vantaggi delle innovazioni militari descritte e rendi riconoscibili queste ultime cerchiandone il nome. b. Spiega per iscritto in che modo lo sviluppo della tecnologia bellica favorì le imprese coloniali citando anche degli esempi.
La costruzione delle ferrovie incise profondamente sul processo di costituzione e sul mantenimento dei grandi imperi: esse costituirono, infatti, un importante strumento di potere e di conquista del territorio. Solo l’India britannica, tuttavia, conobbe un intenso sviluppo ferroviario: la prima linea fu aperta già nel 1853 e nel 1870 la rete indiana contava 8 mila chilometri. In pochi anni fu così costruita la quarta rete ferroviaria al mondo in ordine di lunghezza, superata solo da quelle degli Stati Uniti, del Canada e della Russia. In questo brano, lo storico neozelandese Tony Ballantyne (nato nel 1972) e la storica statunitense Antoinette Burton (nata nel 1961) analizzano l’impatto delle innovazioni tecnologiche sui contesti coloniali, con particolare riferimento allo sviluppo delle reti ferroviarie. sporto e di connessione transnazionale c’erano motivi economici quali l’esigenza di aprire nuovi mercati e il forte fabbisogno di materie prime; ciò nondimeno una conseguenza di portata globale fu la trasformazione delle relazioni sociali tra colonizzatore e colonizzato. […] Dato il grande contributo alla costruzione delle ferrovie in più continenti, non è esagerato affermare che i lavoratori asiatici furono fondamentali nei processi che, in questo periodo, contribuirono a collegare varie parti del mondo. […] Uno degli aspetti meno studiati dei sistemi imperiali di comunicazione e di trasporto è quello dei corpi dei colonizzati, vera e propria materia prima della creazione di questi sistemi di collegamento. Le industrie capitalistiche impiegarono lavoratori asserviti da contratto a termine, nuovi migranti, manovali delle caste inferiori e popolazioni tribali seminomadi per disboscare, prosciugare paludi e preparare il territorio alla costruzione delle «autostrade» dell’impero quali linee telegrafiche e ferroviarie, reti stradali e attrezzature portuali. Furono in primo luogo i lavoratori non bianchi a erigere l’impero sobbarcandosi i compiti più duri e logoranti. A causa del loro inserimento
in gerarchie del lavoro razzializzate1, i lavoratori non bianchi diventarono particolarmente vulnerabili. Furono in gran parte i loro corpi a essere stroncati da malattie quali il colera e l’influenza epidemica, mentre treni e piroscafi a vapore solcavano da una parte all’altra gli oceani e attraversavano migliaia di confini a velocità impressionante. […] Dopo il 1870, vapore ed elettricità furono fondamentali per lo sviluppo di tutte le economie coloniali britanniche. Per quanto riguarda le colonie tropicali, le ferrovie furono cruciali per accedere a merci di valore e per trasportare prodotti finiti e forza lavoro nelle grandi città portuali, veri e propri gangli del sistema imperiale britannico. In India, reti ferroviarie estese e articolate collegavano all’economia imperiale sia gli empori più remoti sia i centri più importanti. Nello stesso tempo, la ferrovia si rivelò d’importanza strategica nel «Grande gioco»2 con la Russia nel nord-ovest dell’India e nell’Asia centrale.
1. Basate sull’appartenenza etnica. 2. Il conflitto diplomatico tra Gran Bretagna
e Russia per il controllo del Medio Oriente e dell’Asia centrale, che ebbe corso per tutto il XIX secolo.
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La rete ferroviaria indiana fu ritenuta d’importanza vitale per contrastare la crescente influenza del potere imperiale russo in Asia centrale, influenza data anche dall’estensione della sua rete ferroviaria caspica e trans-caspica. Il sistema ferroviario indiano, che superò per estensione quello metropolitano nel 1895, era noto per il suo elevato livello tecnico, per i ponti impressionanti che attraversavano le grandi via d’acqua dell’Asia meridionale, per la gestione rigorosa. […] Il circuito coloniale indiano metteva in collegamento i centri commerciali dell’entroterra con la costa, ma le sue linee ferroviarie attraversavano, spesso, strade e direttrici di movimento esistenti, tagliando fuori alcune città sede di mercati consolidati e vie d’acqua importanti.
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
Di conseguenza, vennero a crearsi nuove diseguaglianze economiche intraregionali interregionali che si coagularono rapidamente lungo le linee ferroviarie dell’impero. Queste trasformazioni confermano che gli investimenti britannici nelle ferrovie indiane rispondevano all’intento di conferire all’economia indiana un rinnovato orientamento verso l’esterno, fondamentale per trasformare un’economia pensata per l’esportazione di tessuti in una fonte importante di materie prime e in uno sbocco di merci di produzione britannica. Per contro, le colonie africane della Gran Bretagna, con l’eccezione dell’Unione Sudafricana, disponevano di reti ferroviarie ridotte e sottocapitalizzate, realizzate, inoltre, più tardi che in In-
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dia. […] In linea generale si trattò […] di linee costose e inefficienti. L’Africa tropicale non fu mai inserita altrettanto saldamente dell’India nell’Impero britannico né, del resto, in nessun altro impero europeo.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia i nomi delle innovazioni presentate, sottolineane i maggiori vantaggi apportati ed evidenziane l’ambito e il continente di applicazione. b. Argomenta per iscritto la seguente frase: «Queste tecnologie furono indispensabili a un industrialismo marcatamente espansionistico, e furono anche alla base di sistemi imperiali alimentati e plasmati da questa forma di organizzazione economica».
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Lo storico racconta 1. Descrivi sinteticamente in un testo chiaro e coeso i seguenti argomenti affrontati in questo sottopercorso storiografico: a. Le innovazioni militari di comunicazione protagoniste della guerra civile americana e i loro effetti. Fai riferimento al brano di Testi [Ź86]. b. Il ruolo giocato dalle nuove armi nelle conquiste coloniali. Fai riferimento al brano di Headrick [Ź87]. 2. Facendo riferimento al brano di Ballantyne-Burton [Ź88], scrivi un testo argomentativo sull’impatto che le innovazioni tecnologiche, e in particolare le reti ferroviarie, hanno avuto sui contesti coloniali. Seleziona gli aspetti del brano che ti sembrano più rilevanti ed evidenzia al suo interno i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni. Sottolinea le parti del testo che intendi citare e numerale in ordine crescente. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato.
La modernizzazione: una sfida per Italia e Giappone Nella seconda metà dell’800 molti paesi scelsero di affrontare il processo di modernizzazione e di costruzione dello Stato nazionale attraverso politiche accentratrici talora caratterizzate da aspetti autoritari. In Italia, ad esempio, all’indomani dell’Unità, la classe dirigente liberale dovette affrontare numerosi problemi per rafforzare e legittimare le nuove istituzioni del Regno d’Italia, accentuando il controllo sulla vita politica e sociale del paese. In particolare gli uomini della Destra e della Sinistra si mostrarono uniti nella difesa dell’ordine esistente. Nel primo brano della sezione, lo storico Raffaele Romanelli [Ź89] dà conto dei motivi che portarono la classe dirigente nazionale a scegliere per l’Italia un modello accentrato, considerato l’unica garanzia contro i rischi di dissoluzione dell’unità appena conquistata. Per lo storico britannico Christopher Duggan [Ź90], queste politiche accentratrici e autoritarie – che ebbero la loro massima espressione nel ruolo attribuito ai prefetti – non vennero meno neanche col passaggio del potere alla cosiddetta “Sinistra storica”: durante il periodo in cui Francesco Crispi guidò il Ministero dell’Interno, anzi, si affermò sempre più l’idea di un “governo forte”. Nei decenni immediatamente successivi all’Unità, le
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scelte delle classi dirigenti furono fortemente condizionate dalle contraddizioni irrisolte del processo unitario. Anche nell’ambito della vita politica parlamentare si riscontravano le difficoltà e i problemi tipici di un meccanismo ancora non ben oliato. Le pagine di un celebre romanzo di fine ’800, I Viceré di Federico De Roberto [Ź91], ci portano nel vivo della campagna elettorale del 1882 (la prima dopo l’introduzione del suffragio allargato), osservata con occhio disincantato attraverso la vicenda di un ambizioso nobile siciliano. Gli ultimi due brani sono, invece, dedicati al Giappone, che in questi anni si emancipò dal suo passato e iniziò la corsa alla modernità industriale. L’apertura forzata alle potenze occidentali in seguito alla firma dei “trattati ineguali” del 1858 scatenò una profonda reazione nell’Impero nipponico, portando alla restaurazione dell’autorità imperiale e all’avvio di un processo di rapida modernizzazione politica ed economica, di cui gli storici italiani Rosa Caroli e Francesco Gatti [Ź92] hanno ricostruito i passaggi fondamentali. Infine, l’economista giapponese Michio Morishima [Ź93] spiega come la modernizzazione del Giappone nell’epoca Meiji sia stata favorita dalla tradizione confuciana.
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STORIOGRAFIA 89 R. Romanelli, Centralismo e autonomie, in Id. (a c. di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma 1995, pp. 126-30.
La prima legge che dette un ordinamento ai comuni e alle province fu votata il 20 marzo 1865. […] L’assetto del 1865 era ispirato a un modello francese di ascendenza assolutistica poi perfezionato nel periodo napoleonico e nell’età della Restaurazione. Si trattava di un sistema generalmente chiamato «prefettizio», in cui l’amministrazione centrale controllava un complesso di enti locali a due o tre gradi, uniformemente ordinati su tutto il territorio (nel sistema italiano, principalmente le province e i comuni), attraverso una rete di suoi organi locali che facevano capo appunto al prefetto, nome che fu dato nel 1861 alla massima autorità governativa nella provincia e che tutt’ora conserva. Secondo la legge del 1865, il prefetto era infatti il diretto rappresentante del governo centrale nella provincia in tutti i settori della pubblica amministrazione, eccettuate la giustizia e la difesa, e partecipava direttamente al governo dell’amministrazione locale come presidente della deputazione provinciale, che era l’organo esecutivo della provincia eletto dal consiglio provinciale. Nel prefetto si realizzava perciò un’unione personale di due uffici diversi, la provincia quale circoscrizione dello Stato e la provincia quale «corpo morale». Il prefetto aveva il potere di sospendere dalle loro funzioni i sindaci, e, per decreto reale, rimuoverli. «Per gravi motivi di ordine pubblico», il re poteva sciogliere i consigli comunali e provinciali, e convocare nuove elezioni. Le deliberazioni dei consigli comunali dovevano essere trasmesse al prefetto che, accertatane la legittimità, vi apponeva il visto o, in caso contrario, ne disponeva l’annullamento. A questo controllo sulla legittimità degli atti, se ne affiancava uno che riguardava invece il merito delle delibere co-
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R. Romanelli Il centralismo liberale: origini e motivazioni All’indomani dell’Unità, la classe dirigente liberale accentuò il controllo sulla vita politica e sociale del nuovo Stato, scegliendo un modello fortemente accentrato. Inizialmente, nel periodo risorgimentale, non erano mancate ipotesi favorevoli al decentramento ma, dinanzi alla situazione del Mezzogiorno, si preferì scegliere il sistema francese, incentrato sulla figura del prefetto. Rappresentante dello Stato centrale in periferia, il prefetto costituiva una garanzia contro il rischio di un indebolimento dell’assetto unitario appena raggiunto. Al processo che portò alla scelta accentratrice sono dedicate le pagine di Raffaele Romanelli (nato nel 1942), contenute in un volume dedicato alla storia istituzionale dello Stato unitario. Benché ammiratori di un modello di autogoverno, i liberali italiani, preoccupati delle rivendicazioni democratiche e/o legittimiste delle masse popolari, finirono per optare per un forte controllo del potere centrale sulle amministrazioni locali. munali economicamente più rilevanti, e che era esercitato dalla deputazione provinciale, organo elettivo, come si è detto, ma presieduto dal prefetto, cosa che rendeva la sua natura non del tutto chiara nella gerarchia dei poteri che legava la sommità dello Stato al sistema delle autonomie. Anche i sindaci dei comuni, oltre ad essere rappresentanti delle comunità, avevano funzioni tipicamente statuali – quali la tenuta dei registri dello stato civile o delle liste elettorali politiche –, ma nel loro caso questa ambivalenza era chiaramente sbilanciata a favore dell’elemento comunitario […]. Nel caso invece della provincia, se alcuni elementi la assimilavano al comune come ente autonomo – essa aveva infatti un’organizzazione simile a quella dei comuni, con un consiglio provinciale elettivo e una deputazione provinciale eletta dal consiglio nel suo seno – altri e più consistenti elementi sembravano far prevalere i suoi caratteri di organo periferico dello Stato. Oltre alla presidenza prefettizia, le stesse funzioni di controllo sui comuni di cui ora s’è detto, che erano di natura statale, e molti altri uffici pubblici periferici che furono localizzati nelle sedi provinciali, come le intendenze di finanza, i provveditorati agli studi, gli uffici del genio civile, nonché le camere di commercio, gli ordini professionali ecc. Questa gerarchia di poteri territoriali rispondeva a una logica assolutistica al fondo sospettosa delle autonomie e che, concependo le comunità non come soggetti autonomi, originari, tendeva ad affidarne il governo a strumenti dirigistici e di accentramento. La stessa [...] rinuncia a concepire più vasti ordinamenti regionali testimoniava di quel sospetto e di quella logica che hanno finito col governare
i rapporti tra autorità centrali ed enti territoriali lungo tutta la storia dell’Italia contemporanea […]. Fermo restando sempre il criterio dell’uniformità degli ordinamenti in tutta la penisola […], a quella logica si è però opposto fin dagli inizi, via via integrandovisi nelle forme più diverse, un altro principio, che invece fa perno sull’autonomia locale e sull’autodeterminazione degli enti territoriali. La tensione tra i due principi, l’uno che fa emanare il potere dall’alto, l’altro dal basso, domina tutta l’evoluzione del sistema tra Ottocento e Novecento, ma le sue origini possono esser fatte risalire all’epoca della concessione dello Statuto albertino, quando fu adottato il principio rappresentativo. […] Nel momento in cui […] fu scelto, per l’elezione della Camera dei deputati, il sistema rappresentativo elettorale di stampo francese, con la legge sarda emanata tra il 1847 e il 1848 venne introdotto il principio rappresentativo anche nei corpi locali con l’elezione dei consiglieri comunali e di quelli provinciali. Ora, rispetto alla logica assolutistica del sistema prefettizio, il criterio elettivo adottato nel 1848 aveva in nuce tutt’altra ragione perché non faceva derivare la nomina – e dunque la legittimazione – degli amministratori locali dal loro legame col governo, ma ne faceva invece un’espressione diretta delle comunità che non aveva spazio né nell’ordinamento costituzionale (lo Statuto infatti non parlava di autonomie), né nel sistema prefettizio. Il principio elettivo costituì perciò da allora un secondo pilastro del sistema, che andò evolvendosi in senso democratico con l’evoluzione stessa dei sistemi elettorali, senza perciò armonizzarsi con i meccanismi amministrativi e senza poter di per sé introdurre diversi modi di governare.
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Ma questo contrasto di fondo [...] era agli inizi soltanto potenziale. L’elettorato era infatti assai ristretto, e definito su base censitaria, cosicché in sostanza coincideva con le vecchie liste degli eleggibili alle cariche comunali1. A ciò si aggiunga che il capo dell’amministrazione comunale – il sindaco – pur dovendo essere uno degli eletti, era però nominato dal re (e di fatto scelto dal prefetto), mentre a guidare la giunta provinciale (anch’essa elettiva) era, come si è detto, lo stesso prefetto. Per il momento dunque le comunità erano governate da gruppi di ottimati2 socialmente omogenei la cui origine elettiva era scarsamente rile-
STORIOGRAFIA 90 C. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 578-82.
Il nuovo governo di Depretis e Crispi godeva alla Camera di una maggioranza schiacciante. Soltanto l’Estrema Sinistra rifiutò il suo appoggio. Il gabinetto mescolava insieme Destra e Sinistra, Nord e Sud. […] Crispi fece dell’energia il contrassegno della sua gestione del ministero dell’Interno. Il parlamento si svegliò dal suo torpore. Il nuovo ministro voleva rendere evidente che l’epoca dell’inerzia e dei rinvii era finita: adesso le parole d’ordine erano l’efficienza e un senso di urgenza. Portò avanti la stesura di un disegno di legge per l’ampliamento della democrazia municipale (tenne peraltro a placare certi timori dei conservatori annunciando, tra grida di approvazione, che l’allargamento del suffragio nella sfera locale sarebbe stato strettamente sorvegliato e controllato dal centro […]). Annunciò piani per ristrutturare il sistema di protezione sociale del paese, per introdurre vasti mutamenti nella polizia e nelle carceri e per integrarle nel nuovo codice penale in corso di approvazione. Voleva, disse in un discorso […], fare il possibile per utilizzare i progressi compiuti dalla «scienza odierna»: per esempio la pratica di fotografare i
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U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
vante, molto somigliando a una cooptazione di ceto3.
1. «Per la legge del 1865 avevano diritto al voto
amministrativo i maggiorenni che pagavano nel comune una contribuzione diretta proporzionale al numero degli abitanti, secondo una scala che andava dalle 5 lire annue nei comuni inferiori a 3 mila abitanti alle 25 in quelli superiori ai 60 mila. Si trattava in sostanza dei possidenti del luogo. Questa concezione patrimoniale del suffragio amministrativo era confermata dal fatto che i contribuenti potevano votare contemporaneamente in più comuni dove pagassero il censo richiesto» [N.d.A.]. 2. Esponenti dei ceti superiori per ricchezza o titoli nobiliari. 3. Integrazione nel sistema politico in virtù del proprio ceto sociale di appartenenza.
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GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia da tre a cinque parole chiave in grado di sintetizzare gli elementi principali del sistema «prefettizio». Quindi argomenta per iscritto la tua scelta. b. Evidenzia i ruoli che facevano parte della gerarchia di poteri territoriali descritta e sottolinea con colori diversi i relativi compiti e poteri. c. Individua e cerchia con colori diversi i due princìpi di organizzazione territoriale descritti e sottolineane le caratteristiche. Descrivili quindi per iscritto mettendo in rilievo le possibili conseguenze dell’applicazione dell’uno e dell’altro e i casi in cui furono applicati.
C. Duggan Crispi e il governo forte Dopo la caduta della Destra storica nel 1876, si formò un nuovo governo retto da Agostino Depretis, uno dei maggiori esponenti della Sinistra [Ź18_6]. Depretis mantenne la carica di presidente del Consiglio, a più riprese, fino alla sua morte, avvenuta nel luglio 1887. Negli ultimi mesi del suo ultimo governo, fu ministro dell’Interno Francesco Crispi, uomo politico siciliano che aveva sempre espresso posizioni politiche molto diverse da quelle di Depretis, anche se all’interno della Sinistra storica. In una corposa biografia dello statista siciliano, lo storico britannico Christopher Duggan (1957-2015) ha ricostruito la sua energica attività come ministro, fondata sulla convinzione dell’importanza della figura del prefetto. criminali e di misurare i loro crani allo scopo di ottenere informazioni aggiuntive sul loro carattere. […] Per Crispi, tra le principali questioni di politica interna sul tappeto al principio dell’estate 1887 c’era la sanità pubblica. In maggio, nel Mezzogiorno scoppiò di nuovo il colera, e Crispi fu generalmente elogiato per la sua energica gestione della situazione: i prefetti colpevoli di negligenza furono biasimati o rimossi, i consigli comunali incompetenti vennero sciolti. Fu creata in seno al ministero dell’Interno una speciale sezione incaricata di coordinare la sanità pubblica su scala nazionale, e in giugno Crispi annunciò una serie di riforme della legislazione in materia sanitaria e la costituzione di un ufficio di ispettori – la «polizia sanitaria» – con il compito di controllare e migliorare le condizioni igieniche, spesso squallide, delle città italiane. Erano i primi passi verso la legge sanitaria del 1888. Un altro tema che in questo periodo preoccupava particolarmente Crispi erano i prefetti. La tendenza del governo a interferire nell’amministrazione e a usare i prefetti in modo partigiano (ma l’aspetto forse più pernicioso1 era
che i prefetti avevano l’impressione di dover agire in modo partigiano, se non volevano compromettere la loro carriera) era da molto tempo riconosciuta come un difetto dello Stato italiano. Fin dal suo insediamento come ministro dell’Interno, Crispi impose ai prefetti una rigorosa neutralità politica. Essi ebbero istruzioni di non accordare trattamenti preferenziali a nessuno, deputati inclusi, e di mettere sullo stesso piano tutti gli uomini politici delle loro province, indipendentemente dal partito di appartenenza. In caso di elezioni, la direttiva era di assicurare la libertà e la correttezza delle operazioni di voto, e di non intervenire. Secondo Crispi, i prefetti avevano un ruolo cruciale da svolgere: fino a quando gli italiani non avessero recuperato la loro capacità di autogoverno, lo Stato aveva bisogno di funzionari «i quali educhino le popolazioni e le avviino sul cammino della libertà». Ma la qualità dei prefetti preoccupava Crispi:
1. Dannoso, pericoloso.
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FARE STORIA La modernizzazione: una sfida per Italia e Giappone
nella condizione presente, il posto era troppo incerto, e i diritti in materia di pensione troppo esigui, per attirare quelle che chiamava «le grandi intelligenze, gli uomini esperimentati». In un tentativo di porre rimedio a questa situazione, Crispi preparò un disegno di legge che accresceva la sicurezza del posto e modificava una norma del 1877 in modo da permettere che i deputati fossero nominati prefetti. […] Il disegno di legge fu presentato alla Camera il 4 luglio, e approvato in quello stesso giorno con 174 voti contro 47. Si trattava di una legge illiberale, nello spirito se non nella lettera. Crispi sosteneva che se il governo ne faceva cattivo uso, e nominava prefetti che poi si com-
portavano come lacché dell’esecutivo, il parlamento poteva chiederne conto ai ministri. Può darsi che fosse così, e tuttavia la mancanza di un’opposizione colpiva. Mostrava […] in quale misura gli atteggiamenti fossero cambiati nel corso dei dieci anni precedenti sotto l’urto della perdita di prestigio del parlamento e della crescita dell’agitazione e della sovversione nel paese. Uno Stato forte e un forte esecutivo non erano più guardati con sospetto, come si tendeva a fare quando la Sinistra era arrivata per la prima volta al potere. In molti ambienti li si vedeva piuttosto come strumenti indispensabili per correggere le disfunzioni del sistema politico e per suscitare la fedeltà di una
DOCUMENTO 91
Federico De Roberto Una campagna elettorale
F. De Roberto, I Viceré, Mondadori, Milano 1991, pp. 649-56.
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popolazione la cui mancanza di patriottismo faceva apparire il liberalismo dottrinario altamente problematico.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia le parole chiave dell’azione di governo di Crispi e argomentale per iscritto facendo riferimento anche a episodi precisi. b. Evidenzia l’atteggiamento di Crispi nei confronti dei prefetti e sottolinea con colori diversi le cause e le conseguenze. c. Leggi con attenzione l’ultima parte del brano che contiene il commento dell’autore al disegno di legge presentato da Crispi il 4 luglio del 1887, quindi sintetizzalo e argomentalo per iscritto facendo riferimenti storici precisi.
La riforma elettorale del 1882 ridusse i requisiti di censo, ma continuò a escludere dal diritto di voto gli analfabeti. Le conseguenze sociali del provvedimento furono tuttavia rilevanti: per la prima volta, infatti, accedevano alle urne ceti popolari un tempo estranei alla vita politica parlamentare. Nel capitolo finale del romanzo I Viceré, pubblicato nel 1894, lo scrittore Federico De Roberto (1861-1927) descrive la campagna elettorale di un nobile siciliano, Consalvo Uzeda, principe di Francalanza, che nel 1882 decide di candidarsi per il Parlamento come esponente progressista. Il principe viaggia nel collegio e incontra contadini, operai, artigiani, nobili e borghesi, riuscendo a conquistare il consenso di tutti grazie alla sua spregiudicatezza e al fascino del titolo nobiliare. De Roberto descrive il forte condizionamento delle gerarchie sociali in Sicilia e la debolezza politica dei ceti popolari trasformati in una massa facilmente manovrabile. La situazione del collegio era questa: smantellata la rocca affaristico-conservatrice […], floride e battagliere le società operaie che trovavano – finalmente, nel voto, l’arma con la quale poter scendere in lizza. Mentre, tra la classe borghese, gli antichi moderati […] erano costretti a nascondersi, le nuove falangi di elettori parlavano di più grandi libertà, di più radicali riforme, di repubblica e di socialismo. Ma queste parole, spaventando i progressisti timorati, potevano spingerli tra le file dei conservatori, dar nuova vita al boccheggiante moderatismo. Il posto più vantaggioso era dunque tra i progressisti e i radicali. Consalvo di Francalanza lo prese immediatamente. La sua ascrizione al partito di Sinistra, la sua rottura con lo zio dopo la «rivoluzione parlamentare» del 1876, legittimavano il programma ultra-liberale che egli veniva annunziando Appena andato via dal municipio, aveva cominciato il lavorio fuori città, nelle sezioni rurali. Popolani e conta-
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dini si svegliavano laggiù alla politica; c’erano società operaie, circoli agricoli, casini democratici ordinati e disciplinati, coi quali bisognava venire a patti. I nobili, i borghesi, i facoltosi furono conquistati subito. Accompagnato da amici e ammiratori spontaneamente offertisi, egli cominciò il giro del collegio. Il sindaco, il signore più ricco, o la persona più influente dava un pranzo o un ricevimento in suo onore, invitando gli altri maggiorenti. Non si diceva una parola delle elezioni, ma il principe, affabile con tutti, s’informava dei bisogni del paese, ascoltava i reclami di tutti, prendeva note sopra un taccuino, e lasciava la gente ammaliata dai suoi modi cortesi, sbalordita dalla sua eloquenza e soddisfatta […]. Ma dopo il banchetto o la refezione, dopo la visita ai capoccia1, Consalvo andava alla sede delle società popolari. Lì, in quelle piccole stanze con mobili sospetti, affollate da povera gente dalle mani callose, cominciava il suo tormento. Egli stringeva quelle
mani, senza guanti; si mescolava a quegli umili, sedeva tra loro, accettava i rinfreschi che gli offrivano, e non un moto dei suoi muscoli rivelava lo spasimo che quelle vicinanze e quei contatti gli facevano soffrire. Istruito con precedenza, teneva lunghi discorsi sui bisogni del paese, sulla crisi dei vini o degli agrumi, sulla gravezza delle imposte, e prometteva leggi intese a proteggere l’agricoltura, assicurava lenimenti2 di tasse, premii, agevolezze di ogni genere. […]. Quasi da per tutto egli guadagnava simpatie e accaparrava voti. Il solo fatto che don Consalvo Uzeda principe di Francalanza faceva loro una visita, disponeva quegli umili in favor suo. Le strette di mano, i discorsi famigliari, le grandi frasi e le promesse convertivano i più restii. […]
1. Le autorità. 2. Riduzioni, alleggerimenti.
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FARE STORIA
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia i nomi dei partiti politici descritti e sottolineane le caratteristiche principali. Spiega quindi a quale di questi decise di aderire il protagonista e perché. b. Sottolinea con colori diversi le azioni intraprese dal protagonista per ottenere il successo politico nei contesti sociali più ricchi e in quelli più umili. c. Scrivi un testo breve in cui racconti dal punto di vista storico le informazioni contenute nel brano sugli effetti della riforma elettorale del 1882.
Lavorava come un cane, a far visite, a scrivere lettere, a dirigere i suoi galoppini, a presiedere le adunanze del comitato. La notte stentava a prender sonno, con la mano scottata dal contatto di tante mani sudicie, sudate, ruvide, incallite, infette; con la mente
infiammata dall’ansietà della riuscita. Sarebbe riuscito? A momenti ne aveva l’intima e salda certezza […]. Ma non si contentava di riuscire, voleva stravincere, essere il primo degli eletti, assicurarsi stabilmente il collegio con una votazione unanime, plebiscitaria.
STORIOGRAFIA 92
R. Caroli • F. Gatti Centralizzazione del potere e politiche modernizzatrici nel Giappone Meiji
R. Caroli, F. Gatti, Storia del Giappone, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 137-48.
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Dopo l’apertura obbligata ai paesi occidentali [Ź16_10], il Giappone andò incontro a un radicale processo di trasformazione. Nel 1868 venne abbattuto il potere della dinastia Tokugawa, che governava il Giappone da oltre duecento anni attraverso il controllo della carica di shogun, primo ministro e comandante militare. Fu restaurata, quindi, l’autorità imperiale e il nuovo governo avviò a tappe forzate un intenso programma di modernizzazione. Tale processo, rigidamente guidato dall’alto e fondato sulla centralizzazione del potere politico, fu detto “restaurazione Meiji”. Nel brano che segue, le sue caratteristiche sono analizzate dagli storici italiani Rosa Caroli e Francesco Gatti. Meiji si riferisce al nome dell’era prescelto quando, nel 1868, fu decretato che il nengo¯ 1 avrebbe coinciso con il periodo di regno del sovrano. Il giovane Mutsuhito divenne così l’Imperatore [...] Meiji e, sotto il suo «governo illuminato» (questo il significato del termine), prese avvio l’edificazione dello Stato moderno fondata sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione capitalistica delle istituzioni economico-sociali. Più che segnare un «ritorno al passato» (fukko), il ripristino del ruolo e delle prerogative imperiali coincise quindi con l’avvio di un’opera di rinnovamento (ishin) per vari aspetti radicale, alla quale gli storici giapponesi si riferiscono con l’espressione Meiji ishin, in genere tradotta come Restaurazione Meiji. […] Le trasformazioni introdotte dopo il 1868 presentano senza dubbio numerosi aspetti rivoluzionari; tuttavia, più che di rivoluzione borghese, ovvero di evento risolutivo di una lotta tra classi antagoniste dotate di una consapevolezza politica, appare opportuno parlare di una «rivoluzione dall’alto» che, coniugando le tensioni scaturite dalla stipula dei «trattati ineguali» con i prerequisiti endogeni, poté governare il processo di transizione capitalistica. […] L’opera di centralizzazione dei poteri implicò in primo luogo il superamento del fazionalismo […] a favore di una
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nuova concezione di Stato nazionale, in cui sia i governanti sia i governati erano chiamati a sostenere lo sforzo per rendere «ricco il Paese e forte l’esercito» (fukoku kyo¯ hei). Fu questa la parola d’ordine in nome della quale vennero avviate le Riforme Meiji [...]. Con un decreto imperiale promulgato nell’agosto del 1871, si procedette alla definitiva abolizione dei feudi e all’istituzione di un sistema provinciale (haihan chiken); il territorio, infatti, fu riorganizzato in province (ken), a capo delle quali furono posti i governatori nominati in precedenza, e in distretti urbani (fu) in modo da sottoporre l’amministrazione locale al controllo del governo di Tǀkyǀ. [...] Il passo finale verso il superamento dell’autonomia locale fu compiuto con l’istituzione del ministero degli Interni nel 1873, le cui ampie e rilevanti competenze (dall’amministrazione e dalle comunicazioni sino ai governatori provinciali e alla polizia nazionale) ne fecero il posto chiave per garantire la sicurezza nel Paese. [...] Nel marzo del 1868 fu emanato il Giuramento sui cinque articoli (Gokajo¯ no seimon), che rispondeva alla richiesta di allargamento della partecipazione al processo decisionale e indicava la volontà di modernizzare il Giappone guardando all’esempio dell’Occidente. Con esso l’Imperatore si impegnava a promulgare
una Costituzione e a realizzare quelli che erano gli obiettivi del governo, tra cui figuravano l’unità di tutte le classi per promuovere il benessere del Paese, l’istituzione di un’assemblea e la garanzia di un dibattito pubblico per decidere sulle questioni di Stato, l’adozione delle norme giuridiche internazionali e la promozione della conoscenza all’estero allo scopo di rafforzare le basi dell’Impero. Il contenuto del Giuramento fu incorporato nell’articolo 1 del Documento sulla forma di governo (Seitaisho) emanato pochi mesi dopo, il quale rappresenta il primo esperimento di stesura di una Costituzione nazionale. […] Esso fu articolato in sette sezioni, assumendo in tal modo (pur nella divisione dei compiti) i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. [...] Verso il 1871, il potere del governo sembrò sufficientemente solido per procedere nell’opera riformista anche quando essa rischiava di incontrare forti resistenze o scontrarsi con interessi consolidati. […] In primo luogo, fu abrogato l’obbligo occupazionale vincolato alla classe di appartenenza e ai singoli individui fu concessa la libertà
1. “Nome dell’anno”. Questo provvedimento
restaurava l’autorità imperiale.
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FARE STORIA
FARE STORIA La modernizzazione: una sfida per Italia e Giappone
di scegliere il proprio impiego. [...] Questi radicali cambiamenti contribuirono a favorire la mobilità della popolazione, nella società così come nel territorio, liberando la manodopera da impiegare nei settori in espansione, in primo luogo quello industriale [...]. Gli investimenti statali si concentrarono in primo luogo nella costruzione di efficienti infrastrutture e nella creazione di alcune industrie di base […].L’intervento statale nel settore industriale fu orientato a creare fabbriche modello, in modo da introdurre la tecnologia occidentale e favorire l’iniziativa privata, specie per quanto riguarda le costruzioni navali, il settore tessile (lanifici, setifici e cotonifici) e quello edile (cementifici, fabbriche di mattoni, vetrerie). Altri investimenti furono indirizzati nel settore metalmeccanico e nell’industria estrattiva. Allo stesso tempo, si cercò di stimolare l’iniziativa privata incentivando gli investimenti in alcuni settori industriali e in quello finanziario,
promuovendo la crescita di una classe imprenditoriale e garantendo sussidi e condizioni assai favorevoli ai privati, specie ad alcune grandi compagnie. Nel gestire «dall’alto» il processo di industrializzazione, lo Stato acquisì dall’estero la tecnologia necessaria, impiegando peraltro un gran numero di esperti e consiglieri stranieri (oyatoi gaikokujin) chiamati a trasmettere le loro conoscenze ai giapponesi. [...] Per realizzare le riforme volte a modernizzare il Paese, dunque, gli oligarchi Meiji guardarono costantemente all’Occidente, sebbene molti di loro in passato fossero stati convinti assertori del jo¯ i 2. […] La consapevolezza dei progressi tecnologici e scientifici compiuti dal mondo occidentale indusse i dirigenti Meiji, se non a mutare il loro originario scetticismo, quanto meno a comprendere come il cammino percorso dall’Europa e dal Nord America costituisse un valido esempio da seguire per rendere «ricco il Paese e forte l’esercito». Le energie
STORIOGRAFIA 93
M. Morishima Confucianesimo e capitalismo in Giappone
M. Morishima, Cultura e tecnologia nel «successo» giapponese, il Mulino, Bologna 1984, pp. 108-11.
La diffusione del protestantesimo (puritanesimo) e l’ascesa della borghesia furono prerequisiti dell’affermazione del capitalismo moderno in Inghilterra, ma la rivoluzione Meiji in Giappone non si verificò a seguito della soddisfazione degli stessi prerequisiti. In primo luogo, negli ultimi anni del governo Tokugawa era emersa in una certa misura una classe borghese, ma essa non era ancora molto forte e non era militante come quella inglese. [...] Durante il secolo XVIII, in effetti, erano comparsi uomini quali Ishida Baigan (1685-l744)1 che enunciarono una dottrina di moralità commerciale. Asserivano che le attività volte al profitto, così come le attività di risparmio al fine di accumulare capitale mediante la frugalità, non erano affatto moralmente meschine [...]. Tuttavia, il fatto che il commercio Tokugawa sviluppato in questo modo rimanesse esclusivamente un commercio interno che agiva nella situazione di isolamento
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confluite nella realizzazione di questo obiettivo furono mosse dallo stesso spirito patriottico e nazionalistico che, in un primo momento, aveva indotto molti di loro a una reazione di chiusura. Aprirsi all’Occidente, pertanto, significò aprirsi a nuove possibilità che avrebbero consentito al Paese di rafforzarsi e resistere alla pressione esterna. 2. L’espulsione dei “barbari”, cioè dei cristiani e,
per estensione, degli occidentali.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le caratteristiche politiche e quelle socioeconomiche del periodo di regno dell’imperatore Mutsuhito. b. Descrivi come cambia la struttura dello Stato con le iniziative intraprese dal giovane imperatore. c. Spiega a cosa si riferivano le riforme intraprese dagli oligarchi Meiji, a quale modello si ispirarono e perché.
Nel brano che segue, l’economista giapponese Michio Morishima (1923-2004) stabilisce un nesso fra la mentalità e la cultura giapponese e lo sviluppo economico che seguì la “rivoluzione Meiji”. Seguendo le tracce del famoso saggio di Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), l’autore sostiene che i valori base del confucianesimo, pur essendo molto diversi da quelli dominanti nelle società occidentali, ebbero nella nascita del Giappone moderno un ruolo simile a quello svolto dall’etica protestante nell’affermazione del capitalismo in Europa e nel Nord America. significava che i mercanti non avevano né il coraggio né lo spirito di avventura che si trovavano normalmente tra i mercanti dediti al commercio estero. [...] Questa era la situazione quando il Giappone si trovò di fronte le tecniche stupefacenti create dalla scienza moderna. La cosa più importante per i Giapponesi era proteggere il Giappone dalla tecnologia di questo tipo e salvare l’indipendenza del paese; l’acquisizione del profitto personale attraverso l’uso di queste tecniche non era ancora diventata una faccenda di importanza primaria. Il problema che sorse era come si potesse riformare la struttura politica del Giappone se questo come nazione voleva impadronirsi della tecnologia moderna e diventare una nazione altrettanto potente di quelle dell’Europa occidentale. Così la rivoluzione Meiji fu compiuta dai samurai di rango inferiore e dai membri dell’intellighenzia2 che avevano un cer-
to senso di coscienza nazionale, e fu del tutto naturale che la classe borghese giapponese, che si interessava solo di profitti scarsi ma personali provenienti dal commercio interno, si ritrovasse assolutamente tagliata fuori da una rivoluzione come questa. Quindi, anche dopo di essa, la classe capitalistica, la forza motrice del capitalismo, rimase debole in Giappone. [...] Di conseguenza lo stesso governo Meiji fu costretto a costruire fabbriche moderne, sia con denaro preso ai contadini mediante le imposte, sia con fondi ottenuti stampando valuta cartacea. Ben presto, però, il governo non poté più sostenere la gestione di questa sorta di capitalismo di Stato, crebbe
1. Filosofo e letterato giapponese. 2. Classe intellettuale.
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FARE STORIA
l’inflazione e [...] il governo fu costretto a svendere le sue fabbriche moderne a prezzo basso, ma un risultato affatto inatteso di questa politica decisamente disperata fu lo schiudersi di una prospettiva più promettente. Vale a dire che gli individui che avevano acquistato dal governo queste fabbriche moderne a un costo molto basso erano diventati ad un tratto grandi capitalisti ed era stato soddisfatto anche in Giappone uno dei prerequisiti del capitalismo, l’esistenza di capitalisti potenti. [...] Tuttavia, se i Giapponesi non avessero accettato l’idea della frugalità, un altro dei prerequisiti del capitalismo, allora il capitalismo moderno non avrebbe sicuramente potuto affermarsi in Giappone. [...] Come conseguenza della politica culturale del governo Tokugawa, il confucianesimo aveva avuto ampia e profonda diffusione tra il popolo giapponese. Il confucianesimo era inteso in Giappone come un sistema etico più che come una religione, e
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
insegnava direttamente [...] al popolo giapponese che una condotta frugale era una condotta nobile. Quindi il Giappone, al termine della rivoluzione Meiji, aveva già soddisfatto il secondo prerequisito del capitalismo [...]. Il confucianesimo in Giappone sottolineava: a) la lealtà verso lo Stato (o il signore); b) la pietà filiale verso i genitori; c) la fiducia negli amici e d) il rispetto per i più anziani. Quindi secondo l’ideologia confuciana, era perfettamente naturale che si sviluppasse un’economia nazionalistico-capitalistica sulla base di un sistema di anzianità e di un’occupazione a vita [...]. Il confucianesimo [...] era intellettuale e razionale, e compatibile con la scienza moderna. Subito dopo la rivoluzione Meiji, il Giappone fu in grado di assimilare e assorbire la scienza dell’Europa occidentale con sorprendente rapidità, e nel periodo che va dal 1878 al 1900 il governo Meiji avviò con successo il «decollo» dell’economia giapponese. Così
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in Giappone fu creata un’economia capitalistica condotta con uno spirito completamente diverso dal capitalismo inglese: un’economia che univa anima giapponese e tecnologia occidentale.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le cause e le caratteristiche della realtà inglese e di quella giapponese descritte dall’autore. Segna al lato del testo i passi in cui l’autore mette in rilievo similitudini o differenze fra le due realtà. b. Individua le parole chiave delle due realtà (puoi cerchiarle nel testo o puoi pensarle tu per sintetizzare quando descritto). c. Realizza due insiemi che si incrociano, uno per la Gran Bretagna e l’altro per il Giappone, in cui scriverai le parole chiave individuate nel punto b. Attento a inserire nell’area comune agli insiemi gli elementi in comune. Realizza quindi una breve didascalia a commento del grafico.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Lo storico racconta 1. Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente dal titolo L’Italia e il modello accentrato, punti di forza, criticità ed esemplificazioni, facendo riferimento ai brani di Romanelli [Ź89] e Duggan [Ź90]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. 2. Dopo aver letto i brani di Caroli e Gatti [Ź92] e di Morishima [Ź93], scrivi un testo argomentativo sul processo di modernizzazione in Giappone seguito alla firma dei “trattati ineguali” del 1858. Seleziona gli aspetti del brano che ti sembrano più rilevanti ed evidenzia al suo interno i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni. Sottolinea le parti del testo che intendi citare e numerale in ordine crescente. Scegli un taglio e un titolo per il tuo elaborato e non dimenticare di affrontare i seguenti argomenti: • cambiamenti istituzionali; • cambiamenti economici e loro conseguenze; • tradizione e valori ispiratori.
Città e campagne nell’Italia postunitaria Il completamento dell’unificazione italiana comportò grandi cambiamenti politici, sociali e culturali, che ebbero dei riflessi anche nel settore urbano e produttivo del paese. Sul fronte dello sviluppo delle città, uno dei maggiori contraccolpi fu avvertito a Napoli che però, come analizzato dallo storico Francesco Barbagallo [Ź94], mantenne il suo aspetto di metropoli europea nonostante la perdita del suo ruolo di capitale di un regno. D’altro canto, nuovi centri urbani dovettero adattarsi al nuovo ruolo di capitale: è il caso della città di Roma, come ricostruito da Vittorio Vidotto [Ź95].
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La seconda parte della sezione si concentra, invece, sulla situazione dell’agricoltura italiana e sul suo rapporto con il Risorgimento. La condizione delle campagne fu, infatti, al centro delle tesi di Antonio Gramsci [Ź96] sulla «mancata rivoluzione agraria» e la mancata promozione di un ceto di piccoli proprietari contadini da parte della sinistra risorgimentale: queste tesi, riprese nel secondo dopoguerra dalla storiografia marxista per sostenere l’insuccesso del Risorgimento in campo economico e sociale, furono duramente contestate dallo storico liberale Rosario Romeo [Ź97].
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FARE STORIA
STORIOGRAFIA 94 F. Barbagallo, Napoli, Belle Époque, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 99-103.
FARE STORIA Città e campagne nell’Italia postunitaria
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F. Barbagallo Napoli: una metropoli ancora europea Nel 1861, con l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, Napoli cessò di essere una grande capitale. Per molto tempo, si è ritenuto che fosse iniziato allora per la città un periodo di decadenza. Tale tesi è stata però messa in discussione dallo storico Francesco Barbagallo (nato nel 1945), secondo il quale anche nei decenni successivi la città partenopea continuò a essere una metropoli europea, pienamente inserita nel clima intellettuale e culturale del resto del continente.
Fare i conti con Napoli è complicato. Una città con una storia plurimillenaria, forgiata dall’insediamento delle più diverse civiltà, venute dal bacino del Mediterraneo o discese dal Nord Europa. Una grande capitale europea, sempre ai vertici dell’alta cultura, ma segnata dall’analfabetismo della sua plebe eccessiva e anche di aristocratici potenti. Un riformismo troppo presto interrotto nell’intensa stagione dell’illuminismo e degli inizi di una dinastia indipendente, un tentativo di rivoluzione aristocratico-borghese sventato nel 1799 dalla reazione plebea guidata dalla Chiesa1, nell’eterno conflitto tra potenze straniere. Le contraddizioni di Napoli, che dalla natura ha avuto il privilegio di stendersi in un sito tra i più suggestivi del mondo, toccano l’apice nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. È questo il momento in cui l’Italia intraprende la strada della modernità capitalistica di tipo industriale, agganciandosi all’Europa più avanzata, dalla quale era ancora ben lontana al momento dell’Unità, nel 1861. È ora che il Mezzogiorno vede crescere la distanza dal Settentrione d’Italia. E inizia ad aggravarsi la «questione meridionale» […]. Certo Napoli non era più la capitale di un grande regno, che aveva largamente sfruttato per il suo fastoso splendore. [...] L’immagine nettamente prevalente di Napoli nei primi decenni unitari è quella di una città in decadenza, una «città regia» che non riesce a trasformarsi in «città borghese», una metropoli ancora tra le più popolose d’Europa ma il cui fascino appare compromesso dalla «scoperta» delle miserabili condizioni di vita della gran parte dei suoi abitanti. Limitiamoci a considerare le riflessioni e i giudizi di uno solo tra i grandi interpreti della realtà napoletana nel primo cinquantennio italiano: Giustino Fortunato2 [...]. Nella corrispondenza napoletana dell’estate 1878 alla «Rassegna settimanale» di Sidney Sonnino e di Leopoldo Franchetti3 il trentenne giornalista, seguace della Destra stori-
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ca […], delineava in pochi tratti efficaci, degni del pittore che avrebbe voluto essere, la struttura della capitale nel regno borbonico: Godendo il monopolio delle importazioni nell’interno e delle esportazioni all’estero per un gran numero di derrate, Napoli era una città assolutamente commerciale, senza industrie, senza manifatture, senza lavoro di officine: le arti e i mestieri non traevano alimento se non da’ soli bisogni immediati della vita quotidiana, e tutta la ricchezza era compendiata nelle rendite de’ proprietarii e ne’ profitti delle industrie di provincia, ne’ lucri del commercio locale e nelle spese varie e improduttive del governo. […] Eppure vent’anni dopo, a fine secolo, quando ancora non era stato sconfitto il tentativo reazionario del re Umberto I e le leggi eccezionali del premier, il generale Pelloux, non s’erano ancora infrante contro l’ostruzionismo parlamentare di liberali e democratici, sarà proprio Fortunato a rigettare il concetto di «decadenza» riguardo alla condizione di Napoli e del Mezzogiorno […]: Il progresso, grazie all’unità, il progresso morale è stato letteralmente enorme – scriveva […] nel settembre del 1899 –. E perciò io sono stato e sono tra que’ pochissimi, che ridono in faccia a’ piagnoni, sempre che i piagnoni versan lagrime su la così detta «decadenza». Decadenza ci sarà stata, se mai, nella rimanente Italia: qui no; cento e cento volte no. [...] In effetti il tema della decadenza di Napoli, sul finire dell’Ottocento, era diffuso rispetto a due grossi problemi: la perdita del ruolo di città-capitale e le miserabili condizioni di vita di un popolo che contava centinaia di migliaia di persone. C’era anche la scarsissima propensione politica dei ceti che avrebbero dovuto essere dirigenti, e questo era un addebito difficile da negare alla precedente dinastia. Ma […] Napoli mostrava di avere ancora una notevole vitalità. Era sempre la città italiana di maggiore rilievo e respiro europeo. Aveva intellettuali e
qualche politico capaci di indicare soluzioni possibili per migliorare il presente e prospettare un futuro più positivo. I progetti c’erano, qualche realizzazione anche. Insomma, non si poteva dire una «città morta» [...]. Napoli era una città antica e allo stesso tempo moderna, quale la stava faticosamente, lentamente, contraddittoriamente realizzando la ristrutturazione urbanistica operata a partire dal Risanamento. Certo il nuovo volto della città, risplendente nei quartieri e nei palazzi e villini recenti del Vomero e di Chiaia4 allietati dallo stile liberty e floreale, finiva per accrescere la tendenza largamente prevalente alla rendita urbana, in una città in cui l’attività più diffusa era quella del «padrone di case». [...] Ma c’era pure una Napoli attiva nei commerci e nelle attività imprenditoriali. Certo non era Milano, né le altre due città del nascente «triangolo industriale». [...] Tra Ottocento e Novecento, però, Napoli vive davvero la sua Belle Époque5, che non è fatta solo di luminosi café chantant e seducenti chanteuses6, ma anche di iniziative economiche e progetti politici, di espressioni culturali di elevato livello e delle prime, originali forme della cultura di massa. Una città, quindi, che non
1. Sulla rivoluzione napoletana del 1799
[Ź7_9].
2. Giustino Fortunato (1848-1932) fu uno
storico e un politico italiano di origine lucana. È considerato, per il suo interesse nel cercare una risoluzione della cosiddetta «questione meridionale», uno dei primi e principali esponenti del meridionalismo. 3. Sidney Sonnino (1847-1922) fu un importante esponente della Destra storica: tra il 1893 e il 1896 fu ministro del Tesoro e delle Finanze. Leopoldo Franchetti (1847-1917), anche lui appartenente alla Destra storica, fu giornalista e meridionalista. 4. Quartieri ricchi di Napoli. 5. Periodo tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 che, soprattutto in Francia, fu caratterizzato dalla vita spensierata delle classi agiate. 6. I café chantant (o “caffè concerto”) erano caffè dove si svolgevano spettacoli di varietà di cui erano protagoniste le chanteuses.
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FARE STORIA
sembra affatto ripiegata nella nostalgia di una mitica età aurea, quando un popolo intero cantava, felice di poter vivere all’aperto per il dolce clima e di sfamarsi grazie alla benevola magnanimità di sovrani e signori.
STORIOGRAFIA 95 V. Vidotto, Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 63-71.
U6 Le grandi potenze e l’imperialismo
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GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi quelli che b. Spiega in cosa consiste la tesi confutata possono essere definiti i punti di debolezza da Barbagallo e su quali considerazioni si e di forza di Napoli dopo l’Unità d’Italia. basa la teoria sostenuta dallo storico.
V. Vidotto Roma capitale d’Italia Con l’annessione al Regno d’Italia e l’acquisizione del ruolo di capitale, a Roma venne avviato un vasto programma di investimenti e interventi. Si trattava di imprimere alla città quello sviluppo e quella modernizzazione urbanistica che, contrariamente alle altre grandi capitali europee, Roma non aveva conosciuto nei due secoli precedenti. Il brano che segue, tratto da Roma contemporanea di Vittorio Vidotto (nato nel 1941), prende in esame i cambiamenti della città all’indomani del completamento dell’unità, mettendo in rilievo il ruolo svolto dall’iniziativa privata, dal Comune e dallo Stato.
La conquista italiana impose un ritmo più accelerato alle trasformazioni urbanistiche della città. Ma la decisione di fondo, destinata a condizionare l’intero sviluppo urbano, era già stata presa pochi anni prima. Con la concentrazione delle linee ferroviarie a Termini e la costruzione della stazione a partire dal 1867, l’espansione urbana, in questa fase, non poteva che collocarsi nella zona est della città. La struttura urbana della capitale non aveva subito sostanziali modifiche negli ultimi due secoli […]. Il centro «direzionale» si era consolidato lungo l’asse del Corso e intorno a piazza Colonna e l’impianto esistente si era rivelato [...] in grado di assorbire, nel breve periodo, le nuove funzioni grazie agli espropri e alla soppressione delle case religiose. In più la città mancava di percorsi agevoli di collegamento fra il centro e la stazione ferroviaria. Quelli esistenti erano stretti e tortuosi, privi di quella ampiezza e monumentalità che lo sviluppo dei trasporti imponeva. La stazione a Termini e l’urbanizzazione […] intorno alle Terme di Diocleziano non avevano solo la forza del fatto compiuto: ad essa si sommò presto quella degli interessi di investitori e speculatori – banche e finanzieri – che avevano cominciato ad acquistare in quella zona e si affiancò la scelta politica, sostenuta innanzitutto da Sella, di costruire la nuova città dei ministeri lungo l’asse da Porta Pia verso il Quirinale. Modernità ferroviaria e modernità degli assetti burocratici e statali dovevano concentrarsi nella città alta.
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Terreni a ville, giardini, orti e vigne punteggiati di ruderi grandiosi e modesti: tutto il quadrante est e nordest – l’altipiano romano entro le mura aureliane e oltre –, non disabitato ma non ancora o non più urbano, si offriva come lo spazio più naturale per lo sviluppo della città. La collocazione dei ministeri rafforzava la necessità di completare la direttrice, già implicita […], lungo la valle di S. Vitale che separava Quirinale e Viminale, fino al piano e alla saldatura con il Corso. […] La reggia al Quirinale, la stazione e i ministeri di via XX Settembre determinano in questa fase uno sbilanciamento a est della città. Seguiranno dieci anni dopo due altre decisioni volte a riportare l’equilibrio al centro e poi a ovest, sotto la spinta anche qui della politica e degli interessi speculativi, ma questa volta divaricati. Politica la decisione di collocare il grande monumento a Vittorio Emanuele sul versante nord del Campidoglio di fronte al Corso. Speculativa quella del nuovo quartiere Prati di Castello al di là del Tevere, reso attraversabile solo a partire dal marzo 1879 con il ponte provvisorio di Ripetta. Per quanto definita precocemente nelle sue linee generali […] la politica urbanistica manifestò incertezze e perplessità nel dotarsi di un piano regolatore generale, che l’autorità della legge avrebbe trasformato in strumento operativo per eccellenza. La storia e le tradizioni particolari di Roma, la non cancellabile dimensione religiosa che attribuiva alla città una duplicità tutelata da poteri forti e diffusi, i vincoli di un passato gran-
dioso e mitizzato, tutto congiurava a rendere culturalmente e idealmente ardua la progettazione di una nuova capitale. […] Allora, e più volte in seguito, le decisioni più forti furono prese dal potere esecutivo centrale offuscando e scavalcando il Comune, luogo in cui gli interessi contrastanti – impliciti ed espliciti – si esprimevano spesso in modo reciprocamente paralizzante. A ciò si aggiunse il sistematico mancato collegamento delle iniziative fra Stato e Comune. Come ricordava Marcello Piacentini1 tracciando un bilancio delle vicende edilizie nel 1952, «ogni Ministero, ritenendosi superiore all’autorità del Comune, ha voluto scegliere la sua sede [...] senza tener conto delle necessità generali». [...] Negli stessi primi anni Settanta vennero definite le convenzioni per i nuovi quartieri. La prima fu quella […] relativa alle aree intorno a Termini e al primo tratto di via Nazionale, stipulata già nel marzo 1871. Del novembre è quella dell’Esquilino. Seguirono fra il 1872 e il 1873 quelle relative al Celio, a Castro Pretorio, alla zona di S. Maria Maggiore. Le convenzioni venivano stipulate con i proprietari dei terreni e/o con le imprese costruttrici: il Comune otteneva una cessione di aree destinate a strade o piazze che si impegnava a urbanizzare, fornendo i servizi essenziali e le fognature; proprietari e imprese vedevano approvati i loro piani, acquisivano il diritto di edificare e, in virtù
1. Marcello Piacentini (1881-1960), architetto e
urbanista.
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di una dichiarazione di pubblica utilità, quello di espropriare. Con il largo consenso delle forze rappresentate nel Consiglio comunale l’espansione della città procedeva sotto la spinta dell’iniziativa privata […]. Era il trionfo della «speculazione». […] Il Comune, salvo la velleitaria e fallita iniziativa del sindaco Pianciani2 di costituire un demanio di aree comunali, non si poneva il problema di porre dei vincoli agli interessi economici nell’edilizia. Lo Stato, per parte sua, dava vita, come s’è visto, ad iniziative non coordinate al disegno urbano complessivo e contemporaneamente forniva forza di legge alle pratiche di intervento nella città. La ricostruzione del ruolo di questi due momenti istituzionali, Stato e Comune, e della loro spesso conflit-
tuale relazione consente di leggere tutta la storia di Roma contemporanea, nelle sue accelerazioni e nei suoi ritardi. [...] I grandi lavori furono accompagnati da una costante conflittualità fra gli ingegneri del Comune che rivendicavano un ruolo sistematicamente negatogli dagli organi dello Stato, dal Genio civile. Presto, già dopo la metà degli anni Settanta, gli elevati costi delle trasformazioni urbane e l’accumularsi delle difficoltà nel completamento dei progetti intrapresi imposero un terreno di incontro. Questo passaggio fu favorito da Emanuele Ruspoli3: come sindaco, nel 1878, avviò il Comune a stipulare quella convenzione con lo Stato […] che con la legge speciale del 1881 diede nuovo slancio e respiro alle trasformazioni della città.
DOCUMENTO 96
Antonio Gramsci La rivoluzione agraria mancata
A. Gramsci, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 1949, pp. 103-4.
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2. Luigi Pianciani (1810-1890), fu sindaco della
capitale nel 1872-74 e nel 1881-82. 3. Emanuele Ruspoli (1837-1899) fu sindaco di Roma dal 1877 al 1880.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea i cambiamenti che comportò il trasferimento a Roma della capitale e rendili riconoscibili con dei titoli al lato del testo. b. Individua l’apporto dell’iniziativa privata, del Comune e dello Stato ai cambiamenti descritti e rendili riconoscibili con dei titoli che scriverai al lato del testo. c. Spiega per iscritto quali furono i cambiamenti di Roma all’indomani del completamento dell’unità, e metti in rilievo il ruolo svolto dall’iniziativa privata, dal Comune e dallo Stato.
Intellettuale dai vasti interessi oltre che uomo politico, il leader comunista Antonio Gramsci (1891-1937) coniugò, nelle sue riflessioni, le concezioni marxiste con una tradizione “nazionale” di impronta storicistica. In queste note sul Risorgimento, scritte nel 1934-35 mentre era in carcere per la sua militanza politica, Gramsci critica la politica dei democratici, il cui principale compito sarebbe dovuto essere quello di mobilitare attorno al loro programma le grandi masse contadine sposandone le rivendicazioni essenziali e facendosi promotori di una profonda trasformazione sociale nelle campagne. I democratici, raccolti nel Partito d’azione fondato nel 1853 da Giuseppe Mazzini, sarebbero invece venuti meno alla loro funzione storica (quella che era stata svolta dai giacobini durante la Rivoluzione francese) e si sarebbero ridotti a «un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati». Perché il Partito d’Azione non pose in tutta la sua estensione la questione agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio: l’impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri, intorno al Piemonte come Stato e come esercito. La minaccia fatta dall’Austria di risolvere la quistione agraria a favore dei contadini, minaccia che ebbe effettuazione in Galizia contro i nobili polacchi a favore dei contadini ruteni, non solo gettò lo scompiglio tra gli interessi in Italia, determinando tutte le oscillazioni dell’aristocrazia […], ma paralizzò lo stesso Partito d’Azione, che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva «nazionali» l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini. Solo dopo il febbraio ’53 Mazzini ebbe qualche accenno sostanzialmente democratico […], ma
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non fu capace di una radicalizzazione decisiva del suo programma astratto. È da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese1, dove le insurrezioni furono più violente. Eppure […] la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse […]. In alcune novelle di G. Verga ci sono elementi pittoreschi di queste sommosse contadine, che la Guardia nazionale soffocò col terrore e con la fucilazione in massa. Questo aspetto della spedizione dei Mille non è stato mai studiato e analizzato. La non-impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione
del clericalismo e dell’atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e di medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo quella delle Congregazioni. Il Partito d’Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Rivoluzione francese era lì a dimostrare
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che i giacobini, che erano riusciti a schiacciare tutti i partiti di destra fino ai girondini sul terreno della quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare i loro aderenti nelle province, furono danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel processo storico reale, un significato e una concretezza immediata.
STORIOGRAFIA 97 R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959, pp. 28-39.
È su uno sfondo di debole sviluppo del capitalismo cittadino e di incipiente capitalismo agrario che va studiato il significato della mancata rivoluzione contadina auspicata da parte marxista. In un paese come l’Italia del sec. XIX, dove già la borghesia aveva posto le mani su buona parte della proprietà ecclesiastica nell’età napoleonica [...] e dove l’introduzione del codice di Napoleone aveva già cancellato ogni differenza giuridica tra proprietà feudale e proprietà borghese, una rivoluzione contadina mirante alla conquista della terra avrebbe inevitabilmente colpito [...] anche le forme di più avanzata economia agraria, liquidando gli elementi capitalistici dell’agricoltura italiana per sostituirvi un regime di piccola proprietà indipendente, e imprimendo all’Italia agricola una fisionomia, appunto, di democrazia rurale. A tutto ciò si sarebbe certo accompagnata la liquidazione dei residui feudali; fatto, questo, grandemente positivo nel quadro dei rapporti agrari italiani. Ma nel processo generale dello sviluppo capitalistico in Italia questa rivoluzione avrebbe avuto un valore assai diverso: e basta guardare alle conseguenze della Rivoluzione nelle campagne francesi per rendersene conto. [...] È un fatto incontestabile ch’essa bloccò in pari tempo lo svi-
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GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le posizioni riconoscibili attraverso dei titoli che del Partito d’azione e dei moderati scriverai al lato del testo. rispetto alle questioni politiche c. Spiega per iscritto quale fu descritte. l’atteggiamento del Partito d’azione b. Evidenzia la domanda iniziale del brano. nei confronti della questione agraria e Quindi individua i nuclei concettuali descrivi quelle che, secondo Gramsci, ne della risposta data da Gramsci e rendili sono le motivazioni.
R. Romeo Critica alla tesi di Gramsci La tesi gramsciana della «rivoluzione agraria mancata» [Ź96] è stata ampiamente discussa e criticata da un grande storico di formazione liberale, Rosario Romeo (1924-1987), autore di studi fondamentali sullo sviluppo industriale in Italia. In due articoli apparsi nel 1956 e nel 1958 sulla rivista «Nord e Sud» e poi pubblicati nel volume Risorgimento e capitalismo (1959), Romeo contestò la plausibilità dell’alternativa rivoluzionaria delineata da Gramsci. Muovendo poi da un confronto con la storia agraria francese, egli individuò nella frammentazione della proprietà terriera (conseguenza di un ipotetico rovesciamento dei rapporti sociali nelle campagne) un ostacolo al processo di industrializzazione. luppo del capitalismo nelle campagne francesi. [...] Senonché, l’arresto del capitalismo agrario francese venne in buona parte fronteggiato e compensato dalla poderosa ascesa del capitalismo finanziario, industriale e commerciale, che [...] aveva già raggiunto un alto grado di sviluppo nei secoli precedenti. Che è appunto la condizione fondamentale che mancava in Italia [...]. Una volta liquidato dalla rivoluzione contadina il più progredito capitalismo agrario, e nella generale debolezza di quello industriale e mobiliare, il paese avrebbe subito un colpo d’arresto nella sua evoluzione a paese moderno, e non solo sul piano della vita economica, ma in genere dei rapporti civili e sociali. [...] Una fonte importante dell’accumulazione capitalistica fu la politica connessa alla fondazione e allo sviluppo dello Stato unitario, che fin dalle origini convogliò grosse quantità di risparmio forzato verso l’esecuzione di grandi opere pubbliche (per esempio costruzioni ferroviarie), favorì le speculazioni finanziarie collegate con la espansione del debito pubblico, stimolò talune industrie con la politica degli armamenti ecc. [...]. Rendite e profitti agrari danno vita a una corrente che irrora tutta l’eco-
nomia urbana, da una parte stimolando la domanda e dall’altra andando a fecondare e ad ampliare nuove iniziative e intraprese. Cioè: la formazione del capitale necessario allo sviluppo della produzione industriale [...] si realizza solo nel corso del XIX secolo in Italia [...]; questo capitale si forma essenzialmente nelle campagne, e soprattutto a spese dei ceti contadini più poveri. [...] La funzione storica della classe dirigente risorgimentale, e in primo luogo dei moderati, sul piano economico-sociale, sarà dunque di conquistare (e garantire) le condizioni politiche necessarie al compimento di questo processo a spese dei contadini, e di convogliarne i proventi verso una linea di moderno sviluppo economico quale fu quella inaugurata con il liberismo di Cavour e della Destra [...]. E però, quanto più era arretrato in Italia lo sviluppo del capitalismo industriale e commerciale, tanto più gravi sarebbero state le conseguenze di una rivoluzione agraria che, difendendo i contadini dallo sfruttamento, avrebbe però travolto l’unica forma di capitalismo esistente, destinato a funzionare, nelle condizioni storiche dell’Italia, come meccanismo essenziale dell’accumulazione e trasferimento dei redditi agricoli al servizio dello sviluppo urbano e industriale.
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Tutto ciò vale, naturalmente, solo per le regioni dell’Italia centro-settentrionale: ma, a parte l’unicità del problema, non essendo pensabile che il Partito d’azione potesse scatenare la rivoluzione dei contadini nel Sud senza che il moto si estendesse al Nord, è da tenere presente che proprio nel Nord sussistevano le condizioni «oggettive» per l’affermarsi di una demo-
FARE STORIA Città e campagne nell’Italia postunitaria
crazia rurale, che nel Sud avrebbe trovato probabilmente ostacoli insuperabili nell’estrema arretratezza e povertà dell’agricoltura meridionale, oltre che nell’eccesso di popolazione contadina. [...] La rivoluzione agraria sembra configurarsi più come un elemento d’arresto che come un elemento d’impulso in questo processo, nelle particolari condizioni storiche dell’Italia.
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GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea quelli che sarebbero stati, secondo Romeo, gli effetti di una rivoluzione contadina per la conquista della terra. b. Individua e descrivi gli elementi emersi dal confronto fra la situazione italiana e quella francese. c. Spiega per iscritto quale rapporto individua Romeo tra sviluppo del capitalismo industriale e commerciale e la possibile rivoluzione agraria.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Lo storico racconta 1. In che modo la nuova realtà nazionale condizionò l’impianto urbanistico di città come Napoli e Roma? Prima di rispondere alla domanda, rileggi con attenzione i brani di Barbagallo [Ź94] e Vidotto [Ź95] e realizza una tabella comparativa fra le città citate indicando gli eventi significativi con le relative date, i cambiamenti subentrati e gli elementi di continuità col passato. Facendo riferimento alla tabella realizzata scrivi un testo chiaro e coeso per rispondere alla domanda iniziale. 2. Dopo aver letto i brani di Gramsci [Ź96], Romeo [Ź97] e il documento di Colombo [ŹLEGGERE LE FONTI, p. 541] sullo sviluppo industriale della città di Milano, individua le informazioni relative alle condizioni economiche del Nord e del Sud Italia e trascrivile schematicamente sul quaderno, citando l’autore di riferimento. Descrivile quindi in un testo organizzato in forma chiara e coerente facendo riferimento ai brani su cui si basa il tuo elaborato. Il confronto storiografico 3. Leggi con attenzione i brani di Gramsci [Ź96], Romeo [Ź97] ed evidenzia le letture storiografiche sostenute dagli autori. Sintetizza le due diverse posizioni, indicando il nome dello storico di riferimento. Quindi riporta schematicamente per ognuna di esse gli eventi e le considerazioni che le sostengono. Infine, esprimi in un testo argomentativo le tue considerazioni critiche selle tesi dei due autori, facendo riferimento a quanto hai studiato fino a questo momento.
Dopo l’Unità italiana: brigantaggio e “guerra per il Mezzogiorno” Già alle prime manifestazioni del fenomeno del brigantaggio, insieme alle disposizioni per la repressione militare nacque l’esigenza di analizzare questo problema che rischiava di minare le basi del processo di unificazione nazionale. Lo storico e politico Pasquale Villari [Ź98] fornisce [un’acuta interpretazione delle radici sociali ed economiche della guerra di brigantaggio nelle sue quattro Lettere meridionali, inviate nel 1875 a Giacomo Dina, direttore del giornale «L’Opinione», e poi pubblicate in volume nel 1876. L’economista e politico Francesco Saverio Nitti [Ź99] è stato il principale meridionalista della generazione successiva a quella di Pasquale Villari. Nello scritto Briganti (1899) Nitti allarga lo sguardo rispetto all’analisi di Pasquale Villari e vede nel brigantaggio un fenomeno di lunga durata che attraversa tutta la storia del Regno napoletano, dalle vicende del vicereame spagnolo (15031700) a quelle del regno borbonico (1734-1860). Per lungo tempo la Storia del brigantaggio dopo l’Unità (1964) di Franco Molfese [Ź100], è stata l’unica opera documentata scientificamente. Molto citata è la sua stima dei briganti caduti in combattimento o fucilati tra il 1861 e il 1865, sulla base degli archivi dell’Esercito Italiano: oltre 5000. Analisi più recenti, estese fino al 1870, raddoppiano all’incirca la valutazione delle per-
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dite; 5000 sarebbero invece i caduti dell’esercito e della Guardia Nazionale. A distanza di molti anni dall’opera di Molfese, Carmine Pinto [Ź101] propone una visione più complessa della guerra di brigantaggio definita “guerra per il Mezzogiorno”. Più che la contrapposizione tra contadini e proprietari terrieri o quella tra la corona borbonica e quella sabauda, Pinto ricostruisce il processo di integrazione del Sud nello Stato nazionale come risultato finale di una vera e propria guerra civile. Dall’Unità fino ai nostri giorni non sono mancate voci che hanno rappresentato l’unificazione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia come una forma di occupazione coloniale straniera e la guerra di brigantaggio come una spietata guerra di sterminio. Questo fenomeno ha preso particolare vigore dal 1993, quando è stata celebrata a Napoli una controcelebrazione dell’ingresso di Garibaldi in città (7 settembre): è questo l’atto fondativo del movimento neoborbonico che ha prodotto una ricca pubblicistica e soprattutto una fittissima rete di siti online. Alessandro Barbero [Ź102] contesta puntualmente su base documentaria uno dei principali miti della propaganda neoborbonica: il “lager” di Fenestrelle dove sarebbero periti migliaia di prigionieri di guerra borbonici.
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DOCUMENTO 98 P. Villari, Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Le Monnier, Firenze 1878, pp. 43-47
Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso è certo, com’è ben noto, la conseguenza di una quistione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali. La Relazione scritta dall’on. Massari1 dice: «Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle province appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice... Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra». Mangiano pane «che non ne mangerebbero i cani», diceva il direttore del demanio e tasse. Nelle carceri, di Capitanata2, e così altrove, quasi tutti i briganti erano contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco 3, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovi elementi; e in una medesima provincia si osservava, che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell’Abruzzo, per la sola ragione che il contadino, ridotto alla miseria ed alla disperazione, può andare a lavorare la terra della Campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa, lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l’esistenza del brigantaggio, e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione. «Il brigantaggio, conchiudeva l’on. Massari, diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie». [...]1’on. Castagnola, che era stato pur esso membro della Commissione d’inchiesta, [...] era stato giustamente maravigliato di trovare in quelle popolose città due classi solamente, proprietarii e proletarii, o come dicono,
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Pasquale Villari Il brigantaggio come problema sociale Le quattro Lettere meridionali sono dedicate a mafia, camorra, brigantaggio e ai rimedi per contrastarli. Villari (1826-1917), napoletano esule in Toscana dopo i moti del 1848, sottolinea come le condizioni di miseria materiale dei contadini meridionali siano alle origini del ribellismo post unitario e del disagio sociale che travalica il tema specifico del brigantaggio. Nel riconoscere i grandi progressi realizzati dopo il 1860, per esempio, nelle infrastrutture stradali e nell’istruzione pubblica, sottolinea però l’insuccesso della distribuzione di terra ai contadini e l’assenza di una stratificazione sociale tra i due poli dei proprietari terrieri e dei braccianti. Grazie alla sua vigorosa azione di denuncia Villari è considerato uno dei padri fondatori della questione meridionale. galantuomini e cafoni. Si scende dal gran signore al nullatenente, e l’odio fra queste classi gli pareva profondo, sebbene represso. «È il Medio Evo sotto i nostri occhi», esclamava egli nella Camera. [...] Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi; ma ai rimedii radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, 1’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male, che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici. Molte amputazioni abbiamo fatte col ferro, molti tumori cancerosi estirpati col fuoco, di rado abbiamo pensato a purificare il sangue. Chi può mettere in dubbio che il nuovo Governo abbia aperto gran numero di scuole, costruito molte strade e fatto opere pubbliche? Ma le condizioni sociali del contadino non furono soggetto di alcuno studio, né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni. Uno solo dei provvedimenti iniziati tendeva direttamente a questo scopo, ed era la vendita dei beni ecclesiastici in piccoli lotti, e la divisione di alcuni beni demaniali 4. Ciò poteva ed era inteso a creare una classe di contadini proprietarii, il che sarebbe stato grande benefizio per quelle province. Ma senza entrare in minuti particolari, noteremo per ora che il risultato fu assai diverso dallo sperato; perché è un fatto che quelle terre, in uno o un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietarii, e la nuova classe di contadini non si forma. Il problema per noi è ora il seguente: dal 1860 ad oggi, questi contadini che ci vengono descritti come schiavi della gleba, ingiustamente, crudelmente oppressi, hanno o non hanno cominciato
visibilmente a migliorare la propria condizione? [...] Con maraviglia lo straniero osserva nelle province meridionali molte città popolose, in cui si trovano poche famiglie di ricchi proprietarii, il più delle volte imparentati fra loro, in mezzo ad una moltitudine di proletarii, che sono i contadini. Salvo qualche impiegato, altri ordini di cittadini non vi sono. La campagna è deserta, i suoi lavoratori formano il popolo delle città. Non v’è industria, non v’è borghesia, non v’è pubblica opinione che freni i proprietarii, che sono i padroni assoluti di quella moltitudine, la quale dipende da essi per la sua sussistenza, e se viene abbandonata, non ha modo alcuno di vivere. È ben vero che anche il proprietario ha bisogno del contadino. Ma là dove la popolazione non è scarsa, e le braccia non mancano al lavoro, o abbondano, come spesso avviene in quelle province, quale è la conseguenza di un tale stato di cose? La scienza economica lo ha quasi matematicamente dimostrato. Il salario del contadino sarà ridotto a ciò che è strettamente necessario, perché egli possa vivere per continuare il lavoro.
1. Alla fine del 1862 la Camera dei Deputati nominò una Commissione di inchiesta presieduta da Giuseppe Massari, che presentò la sua relazione finale nel 1863 denunciando la radice economica e sociale del brigantaggio ma sollecitando anche dure misure repressive. 2. Area della Puglia settentrionale comprendente il Gargano e il Tavoliere di Puglia. 3. Michele Caruso, capobanda attivo in Capitanata, Irpinia, Molise, fu fucilato a Benevento nel 1863. Carmine Donatelli, detto Crocco, capobanda attivo in Basilicata, Irpinia e Capitanata, arrestato nel 1864, fu condannato all’ergastolo. Fu autore di un libro di memorie. 4. Un grande tema sul Mezzogiorno postunitario fu quello della distribuzione delle terre ecclesiastiche e dei Comuni ai contadini poveri. I lotti furono accaparrati prevalentemente dai proprietari terrieri locali.
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FARE STORIA Dopo l’Unità italiana: brigantaggio e “guerra per il Mezzogiorno”
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le cause storiche, economiche e sociali del brigantaggio. Descrivi per iscritto il rapporto esistente fra queste cause e i relativi effetti nei territori dell’Italia meridionale. b. Individua le conclusioni dei due deputati citati nel brano, membri della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del brigantaggio e descrivile sul quaderno. c. Descrivi la struttura sociale delle città più popolose delle province meridionali e spiega per quale motivo i salari dei contadini sono ridotti allo stretto necessario per sopravvivere.
Se l’industria non apre una valvola di sicurezza, il contadino sarà ben presto condotto allo stato di servo della gleba. Né questo deve attribuirsi a colpa di coloro che nelle province meridionali sono i possessori del suolo. [...] Or si pensi al tempo che durò questa condi-
zione di cose nelle province meridionali; s’aggiunga un Governo come quello de’ Borboni, che ridusse l’antagonismo di classi a sistema, ne fece base e fondamento della sua autorità, della sua forza; e si capirà il disordine morale e sociale che dové seguirne.
DOCUMENTO 99
Francesco Saverio Nitti La lunga storia del brigantaggio meridionale
F.S. Nitti, Briganti, in Id., Eroi e briganti, Longanesi, Milano 1947, pp. 20 sgg.
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Nitti (1868-1953) economista e presidente del Consiglio nel 1919-20, era nato in Basilicata da una famiglia di forti sentimenti antiborbonici. Si formò a Napoli ed esercitò una dura critica degli squilibri del processo di unificazione e, in particolare, del grande trasferimento di ricchezza dal Sud al Nord provocato dalla vendita delle terre demaniali ed ecclesiastiche e da un’imposizione fiscale sfavorevole. In questo scritto del 1899 sostiene che il brigantaggio nasce come antica espressione della ribellione dei contadini ai soprusi feudali, ma diviene poi strumento di potere dei feudatari che se ne servono per affermare il loro dominio, ma anche – e soprattutto – viene impiegato dai sovrani borbonici per reprimere ogni forma di opposizione: è quest’ultimo, per Nitti, il brigantaggio politico, protagonista della reazione contro la Repubblica partenopea nel 1799 ma anche della resistenza all’occupazione napoleonica (1806-15) e della repressione dei moti del 1820 e del 1848. Il brigantaggio postunitario è dunque espressione di un perdurante disagio sociale ma anche di un “uso politico” di antica data. [...] vi è stato un paese in Europa in cui il brigantaggio è esistito si può dire sempre e non è finito se non ai giorni nostri; un paese dove il brigantaggio per molti secoli si può rassomigliare a un immenso fiume di sangue e di odi, cui sono affluiti tutti i rivoli del dolore, della ingiustizia, e della delinquenza; vi è stato un paese in cui per secoli una monarchia si è basata sul brigantaggio, che è diventato come un agente storico di grande importanza: questo paese è l’Italia del Mezzogiorno. Per quanto io sappia, anche le monarchie più potenti non sono riuscite a estirpare del tutto il brigantaggio dal reame di Napoli. Tante volte distrutto, tante volte risorgeva; e risorgeva spesso più poderoso. Il sangue genera il sangue, e spesso più la repressione era feroce, più grande rinasceva il male. Come le cause non erano distrutte, né si poteva, ogni repressione era vana. Così vediamo in tempi assai vicini a noi i briganti riunirsi in bande numerose, formare dei veri eserciti, entrare nelle città, spesso trionfalmente, imporre al Governo patti vergognosi: vediamo intere città distrutte dai briganti e questi spingersi non
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di rado fin sotto le mura della capitale. Ancora adesso percorrendo le terre ove più il malandrinaggio1 e il brigantaggio hanno celebrato i loro fasti, ci accorgiamo subito che non solo la leggenda è viva, ma che non sono morti i sentimenti che generarono il male. Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. [...] Se pensate a ciò che è stata la feudalità nell’Italia meridionale, come vi si sia radicata per secoli, e come, mutate le forme, in qualche provincia duri tuttavia, vi spiegherete lo svolgersi e l’espandersi del brigantaggio. Ma nulla vi contribuì di più della immoralità profonda della dominazione spagnola, durata per sì lungo volgere di tempo. [...] Durante la dominazione spagnola, cioè per più di due secoli, non vi è stata guerra combattuta con le forze interne del Regno, in cui una delle parti nemiche non abbia adoperato i banditi. [...] Il brigantaggio era una gran forza da usare negli estre-
mi pericoli; i Borboni che con Carlo III avevano cercato fiaccarlo se ne valsero più tardi per riconquistare il reame e per tenere a freno, per sessant’anni, le classi ricche e colte. La storia dei Borboni, dopo Carlo III2, è anzi strettamente legata a quella del brigantaggio. Furono i briganti che a Ferdinando IV3 riconquistarono il reame nel 1799; furono essi che tentarono, durante la dominazione francese, di riconquistarlo una seconda volta e che più tardi furono adoperati, e non in una sola occasione, contro la borghesia aspirante a riforme politiche, o malcontenta. Per la prima volta forse nel mondo civile, passando sopra ogni legge morale,
1. Delinquenza. 2. Carlo III di Borbone, re di Napoli e di Sicilia
dal 1734 al 1759. Lasciò la corona di Napoli al figlio Ferdinando per assumere quella di Spagna. Monarca illuminato e riformatore, a lui si devono la Reggia di Caserta e il teatro San Carlo a Napoli. 3. Ferdinando IV, re di Napoli e di Sicilia dal 1759 al 1816 e re (col nome di Ferdinando I) dell’unificato Regno delle Due Sicilie dal 1816 al 1825, fu protagonista della repressione della Repubblica partenopea e dei moti liberali del 1820.
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i Borboni osarono scegliere come cooperatori i banditi più infami: alcune belve crudelissime ebbero grado di colonnello o di generale, titolo di marchese o di duca e laute pensioni, come se fossero vecchi e gloriosi generali; ebbero l’amicizia del sovrano e attestati di pubblica stima. [...] Così Francesco II cercò di salvarsi nel 1860, impiegando la stessa politica che più di sessant’anni prima aveva salvata la corona del suo bisavolo. Egli e i suoi, prima di andar via, gettarono in fiamme il reame. L’esercito disciolto, proprio come nel 1799, fu il nucleo del brigantaggio, come la Basilicata ne fu il gran campo di azione. Anche allora uomini di fede pura lasciarono la vita miseramente. I briganti entrarono nelle borgate e nelle città, ebbero i loro generali, i loro capi, i loro protettori, i loro sfruttatori; fu l’esplosione di tutti gli odii, fu il divampare di tutte le vendette. [...] Il popolo
non comprendeva l’unità, e credeva che il re espulso fosse l’amico e coloro che gli succedevano i nemici. Odiava sopra tutto i ricchi, e riteneva che il nuovo regime fosse tutto a loro benefizio. [...] È costata assai più perdite di uomini e di danaro la repressione del brigantaggio di quel che non sia costata qualcuna delle nostre infelici guerre dopo il 1860. V’ho detto che cosa sia stato il brigantaggio: vi ho raccontato tutta una storia di dolore. Ora permettete che io mi chieda: abbiamo noi rimosse le cause del male? La stessa domanda si rivolgeva venti anni or sono Pasquale Villari, e rispondeva con tristezza che le cause esistono tuttavia. Alcune, e le principali, non solo non sono state eliminate, ma in qualche punto si sono inacerbite. Abbiamo costruito alcune ferrovie ed è stato un bene anche quando non rappresentano un’attività; abbiamo imposta, sia pure con poca
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F. Molfese Il brigantaggio come lotta di classe
F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 342-44
Il brigantaggio si presenta […] come la manifestazione estrema, armata, di un movimento rivendicativo e di protesta che si eleva fino a rozze forme di lotta di classe, da parte di una classe contadina arretrata, nel contesto di una società generalmente arretrata, con forti sopravvivenze feudali, e che si potrebbe definire, nell’insieme, economicamente “sottosviluppata” anche nel secolo XIX. Il brigantaggio, d’altra parte, non è una “guerra contadina” contro lo Stato unitario. Sotto il profilo politico-militare, non si centralizza mai e non conduce mai grandi azioni di masse considerevoli con obbiettivi strategici e politici. Non vi sono “zone liberate” e centri abitati importanti occupati in maniera duratura; non appare mai uno stabile “governo contadino”; tutto al più, viene conteso alle autorità statali il controllo di zone disabitate fra monti e boschi. I soli programmi politici che giustifichino la lotta armata, sono quelli della restaurazione borbonico-clericale. Ma essi appaiono curiosamente “sovrapposti” alla realtà del brigantaggio e già dopo il 1861 sussistono più come “pretesto” all’azione delle bande brigan-
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efficacia, l’istruzione obbligatoria, e il popolo, se ha imparato molte cose inutili, alcune utili ha appreso. [...] Ma in tutto il resto le cose non sono mutate.
GUIDA ALLO STUDIO a. Cerchia da cinque a sette parole chiave che descrivono il fenomeno del brigantaggio e argomenta la tua scelta per iscritto. b. Spiega le ragioni storiche, economiche e sociali che hanno favorito il consolidarsi presso le plebi meridionali di un’immagine positiva del brigante, paragonato a un benefattore o a un giustiziere. c. Descrivi il ruolo e la funzione che i sovrani borbonici assegnarono ai briganti durante la dominazione spagnola, facendo riferimento ad esempi storici precisi.
La chiave di lettura di Molfese (1916-2001) è quella del brigantaggio come primitiva manifestazione di lotta di classe. Anzi, a suo avviso, il ribellismo nel mondo agrario meridionale sarebbe la prova che non è vero che il Risorgimento non ha visto alcuna partecipazione da parte dei contadini, cioè della maggior parte della popolazione del nuovo Stato unitario. I briganti meridionali avrebbero espresso non tanto l’adesione alla monarchia borbonica o l’ostilità a quella sabauda, ma il malcontento per una situazione di miseria e degrado e la rivendicazione per una più equa distribuzione della terra. tesche che come piattaforma di mobilitazione delle masse contadine. Il brigantaggio, dal punto di vista militare, è la sola “guerra” che la classe contadina riesca a condurre quando lotta da sola: la guerriglia priva di direzione centralizzata, per obbiettivi limitati e con aspetti anarcoidi. Tuttavia, se il brigantaggio non è una guerra contadina contro lo Stato unitario, non è soltanto una reazione alla repressione statale. Infatti in esso appaiono combinati inscindibilmente sia la protesta armata contro gli eccessi repressivi delle forze statali e contro i gravami imposti dallo Stato unitario (la coscrizione), sia l’uso della violenza armata per vendicare le sopraffazioni e i tradimenti dei “galantuomini”1 e, soprattutto, per estorcere ai proprietari una aliquota della rendita agraria, negata sistematicamente. Questi fattori animano l’implacabile e prolungata guerriglia contadina contro le forze dello Stato unitario e contro le milizie di classe dei possidenti, basate prevalentemente sui ceti medi urbani, nonché le innumerevoli manifestazioni di una lotta di classe rozza e cieca quanto
si voglia, ma tremendamente risoluta. Indubbiamente le azioni brigantesche e gli orientamenti delle masse contadine che sostengono le bande, appaiono in una certa misura condizionati dall’influenza della parte anti-unitaria, o anche potenzialmente trasformista e opportunista, della borghesia agraria. Però dove il movimento contadino è più forte, l’influenza dei possidenti è minore e questa influenza va generalmente decrescendo via via che il brigantaggio persiste e vibra colpi sempre più indiscriminati. Alla fine, anche quella parte della borghesia agraria che tentava di “controllare” il brigantaggio per i propri scopi, finisce, nel suo insieme, per affidare alle forze statali la propria salvezza. È un fatto che il brigantaggio costituì la “grande paura”2 della borghesia agraria meridionale. Gli effetti psicologici della spietata risolutezza del brigantaggio
1. I proprietari terrieri.
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FARE STORIA
FARE STORIA Dopo l’Unità italiana: brigantaggio e “guerra per il Mezzogiorno”
contadino ampliarono di molto la portata dei danni materiali, già di per sé considerevoli. La paura di uno scatenarsi di forze selvagge ed eversive, che assilla il pensiero, più che l’azione, di tanti esponenti della classe dirigente unitaria ancora per decenni dopo l’unificazione, era suggerita, in buona parte, dal ricordo e dal monito che emergevano dalla tragica esperienza del brigantaggio meridionale. In questa luce va anche considerata la questione della “assenza” dei contadini nel moto risorgimentale. In realtà, i contadini meridionali furono ben presenti, con le armi alla mano, a contrastare tenacemente la rivoluzione borghese liberale e a segnarne obbiettivamente i limiti. Molte istanze che dettero vita alla “questione meridionale” vennero alla luce già nel corso delle polemiche sul brigantaggio e non a caso la “questione meridionale” vera e propria s’impostò negli anni immediatamente successivi a quelli in cui era divampata la rivolta contadina. La grande protesta armata dei contadini meridionali, insorti contro il regime unitario dei “galantuomini”, venne infine
domata con la forza. [...] Abbandonati a se stessi da chi li aveva aizzati, i “cafoni” combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza prospettive, condannata all’insuccesso, perché, nei suoi aspetti contraddittori, contrastava lo sviluppo progressivo delle istituzioni politiche (il regime rappresentativo-costituzionale), nonché l’avvento economico-sociale, anch’esso progressivo, seppure realizzato in forme in parte spurie, della classe allora più avanzata (la borghesia nel suo insieme). Ma in quella lotta disperata, condotta in forme rozze e primitive, corrispondenti alla loro arretratezza e alla loro insufficiente maturità politica e sociale, i contadini meridionali dettero prova di combattività e di energia indomite che, dopo la sconfitta, si riversarono sulle tribolate vie dell’emigrazione. Indubbiamente, tra i briganti non pochi furono quelli che la miseria, l’ignoranza, la mancanza di un lavoro certo, e anche gli istinti perversi, spinsero a malfare e a porsi fuori della legge comunemente accettata per soddisfare ciechi impulsi di vendetta e di rapina. Ma molti altri furono posti, dalle
STORIOGRAFIA 101
C. Pinto La guerra civile per il Mezzogiorno
C. Pinto, La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti (1860-1870), Laterza, Bari-Roma 2019, pp. IX-XIV
La prima guerra italiana si combatté nel Mezzogiorno. Tra il 1860 e il 1870, il movimento unitario e le istituzioni del nuovo stato si scontrarono con borbonici e briganti napoletani. Tutto iniziò nell’agosto del 1860, dopo la trionfale spedizione di Giuseppe Garibaldi in Sicilia. Nel giro di poche settimane il dispositivo militare napoletano si ritirò nel continente, lasciando solo una guarnigione a Messina. A Napoli, il re Francesco II sembrò incapace di arrestare la valanga che stava travolgendo il suo regno. Così, quando la guerra giunse sul continente, nessuno pensava che sarebbe durata quasi un decennio. [...] La guerra continuò, anche dopo la resa dell’ultima roccaforte borbonica a Gaeta, come guerra di brigantaggio. Una guerra che può ben essere definita guerra per
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circostanze e dalla società in cui vissero, dinanzi all’alternativa di vivere in ginocchio o di morire in piedi. La loro scelta preannuncia, in un certo senso, le lotte sempre più civili e più consapevoli che i contadini del Sud avrebbero condotto per la propria emancipazione nei decenni che sarebbero venuti. 2. Riferimento all’ondata di panico collettivo che
si diffuse in Francia nell’estate del 1789.
GUIDA ALLO STUDIO a. Spiega per iscritto per quali ragioni il brigantaggio non può essere definito «una guerra contadina contro lo Stato unitario». b. Sottolinea con colori diversi i principali fattori che determinano le frequenti rivolte armate dei contadini sia contro lo Stato unitario sia contro i proprietari terrieri. c. Realizza per iscritto uno schema esplicativo del fenomeno descritto facendo riferimento alle 5 W del giornalismo (Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché?).
Nella visione di Pinto (nato nel 1972) la “guerra per il Mezzogiorno” vide contrapposti due schieramenti: i fautori degli interessi legati ai Borbone e dell’idea di dover difendere a tutti i costi l’indipendenza del Regno delle Due Sicilie; i sostenitori della necessità di dover modificare l’assetto politico e di governo nel Sud e dell’adesione al progetto di unità nazionale. Uno scontro – di cui la guerra di brigantaggio è un aspetto, per quanto importante – che vide tra l’altro partecipi le grandi potenze dell’epoca, Francia e Inghilterra in primo luogo, e un ruolo attivissimo del papato e delle gerarchie della Chiesa cattolica. Uno scontro, infine, in cui si profusero tutte le armi della propaganda a sostegno delle posizioni avverse. il Mezzogiorno per dare conto della più ampia articolazione – sociale, politica, internazionale – che caratterizza questo fondamentale capitolo della storia del processo di unificazione italiana. Ricca è la tradizione storiografica maturata da generazioni, sull’economia, la società e la politica del Regno delle Due Sicilie e del Mezzogiorno risorgimentale: un insieme di indagini che ampliano la prospettiva degli eventi del 1860-1870 su molteplici piani tematici e cronologici e non sono riducibili ad una sola linea analitica. Nello stesso tempo, però, la guerra per il Mezzogiorno ha assunto dei tratti prevalenti nella vulgata storica, cioè nelle narrazioni e nella rappresentazione, anche simbolica, di quegli eventi. A lungo – almeno in gran parte delle ricostruzioni post unitarie – essa
è stata considerata un “effetto collaterale” dell’inevitabile processo unitario. Nel secondo dopoguerra ha preso quota invece una interpretazione in chiave di conflitto sociale (il risultato più importante fu la Storia del brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese) o di repressione criminale. Infine, più di recente, è fiorito il mito del Regno borbonico come realtà felice e progredita, stroncata e depredata da una invasione sabauda. Un mito, alimentato da una pubblicistica molto popolare, che ha trovato il suo brodo di coltura nel perdurante divario tra Nord e Sud del nostro Paese, generando una sorta di patriottismo rivendicativo. Ma che deve non poco al perdurante fascino della figura del bandito sociale che “ruba ai ricchi per dare ai poveri”. L’aggiornamento degli strumenti
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storiografici ci consente invece di affrontare la relazione tra scontro interno, patriottismi opposti, tradizioni politiche alternative, mobilitazione e politicizzazione dei gruppi sociali. La novità decisiva del 1860 fu la definitiva saldatura tra guerra nazionale italiana e conflitto civile meridionale. Il confronto tra progetti nazionali, italiano filo sabaudo e autonomista napoletano borbonico, iniziato nel 1848, assorbì e portò a sintesi le antiche fratture tra liberalismo napoletano e assolutismo borbonico, fazioni e gruppi locali, rivendicazioni sociali e tradizioni di brigantaggio che per oltre mezzo secolo avevano frammentato il regno meridionale. […] Militari, volontari, contadini, banditi presero parte a un conflitto che registrò livelli di brutalità e di violenza che non erano stati toccati nelle campagne risorgimentali, ma erano comuni nella storia del conflitto meridionale. La guerra si riverberò anche sui civili, che ne subirono gli effetti e vi parteciparono spesso attivamente. In un conflitto privo di battaglie decisive e di eserciti schierati in campo i contendenti individuarono nel consenso e nella collaborazione popolare il principale terreno di scontro, ma anche la giustificazione delle proprie azioni. Senza dimenticare che la distinzione tra combattenti e non combattenti non fu mai netta. I briganti erano in misura significativa reclutati nelle comunità locali e spesso erano impegnati a tempo determinato. Anche tra gli unitari tuttavia le
formazioni di volontari o gli aggregati per motivi più disparati provenivano dalla società provinciale, ed erano molto più numerosi dei briganti stessi. Le operazioni militari si svolsero all’interno di una competizione tra progetti e interessi politico-ideologici. I sovrani e il papa, regine e generali, ambasciatori e ministri, vescovi e capi di partito furono protagonisti delle linee sviluppo di una guerra che entrò nei dibattiti del neonato Parlamento italiano, fu combattuta nelle legazioni diplomatiche e sulla stampa internazionale, vide il ruolo attivo dei governi di potenze straniere. [...] Ai contendenti era chiaro che la nazione italiana non poteva esistere senza le province meridionali; di converso la patria borbonica era identificata univocamente con l’antico Regno. Vincere, per gli unitari, significava dare vita e legittimità definitiva al nuovo edificio nazionale. Resistere, per i legittimisti o i briganti, era l’unica possibilità di sopravvivere come soggetto politico o attore sociale. [...] La guerra sancì il trionfo del movimento risorgimentale, la definitiva sostituzione dello Stato napoletano con la nazione italiana, l’eliminazione di un fenomeno plurisecolare come il brigantaggio. Risolse anche l’antico scontro interno che aveva attraversato il Regno meridionale dalla fine del XVIII secolo, e fu pertanto l’ultimo conflitto combattuto tra meridionali. Da quel momento, non si formò mai, nelle antiche province, un movimento politico e ideologico capace di mettere in
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A. Barbero L’invenzione del lager di Fenestrelle
A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, Laterza, Bari-Roma 20183, pp. 311-15
Mistificazioni e menzogne accumulate negli anni riaffiorano tutte insieme in un libro che in futuro verrà letto con incredulità e sgomento, come testimonianza dei livelli di frattura interna, di odio reciproco, e di spudorata reinvenzione del passato raggiunti nel nostro paese in questo inizio di millennio: Terroni di
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discussione il risultato dell’unificazione. La fine della guerra non fu festeggiata attraverso monumenti commemorativi o celebrazioni importanti, ma per coloro che combatterono o ne gestirono i processi politici, segnò l’integrazione tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia. E anticipò un problema decisivo della storia nazionale. Presentato dapprima come questione sociale, andò poi incontro a una rapida trasformazione. La presa d’atto di una distanza concreta e notevole tra le parti diverse del Paese, portò infatti a sostituire l’aggettivo sociale con quello meridionale, dando vita a uno dei più grandi e longevi dibattiti politico-culturali del paese, a cui parteciparono scrittori, politici e intellettuali che riconoscevano implicitamente che dietro di essa vi era qualcosa di più della sola arretratezza socio-economica.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi quelli che, secondo l’autore, sono le fasi storiche e i caratteri fondamentali della cosiddetta “guerra per il Mezzogiorno”. b. Evidenzia in una tabella di sintesi le principali interpretazioni che si sono avvicendate nel campo degli studi storiografici sul Regno delle Due Sicilie e sul Mezzogiorno nel periodo 1848-1870. c. Spiega per iscritto quali conseguenze politiche, ideologiche e culturali ebbe la fine della guerra per il Mezzogiorno nel processo di costruzione dello Stato italiano e dell’identità nazionale.
Tra le principali tesi sostenute dal movimento neoborbonico c’è quella che il Regno delle Due Sicilie fosse prospero e felice e che gli “occupanti” abbiano fatto strage delle popolazioni meridionali con metodi analoghi a quelli utilizzati dai nazisti nei confronti degli ebrei. Da questo tipo di asserzioni è nata addirittura la paradossale proposta di istituire una “Giornata della memoria delle vittime meridionali dell’Unità d’Italia”, che è stata posta all’esame di più consigli regionali meridionali. Barbero (nato nel 1958) demolisce il mito del presunto “lager” di Fenestrelle, in val Chisone, in provincia di Torino. Barbero con un’accurata ricerca d’archivio smentisce integralmente la “leggenda nera” di Fenestrelle e la riporta nell’alveo di quello che fu un momento certamente critico della storia militare dell’unificazione italiana: la raccolta di migliaia di soldati dell’esercito borbonico in più centri (Torino, Napoli, Milano, Gaeta e altri luoghi, oltre che Fenestrelle) per essere poi arruolati d’ufficio nell’Esercito italiano. Pino Aprile. E così si legge dei difensori di Gaeta «deportati nelle isole, nonostante fosse stato loro garantito il ritorno a casa, all’atto della resa» (ma non si dice che il ritorno a casa era garantito dopo la fine della guerra, e che quando, poche settimane dopo, la guerra finì, tutti quanti vennero effettivamente rimandati
a casa con due mesi di paga anticipata). Si legge che «decine di migliaia di soldati borbonici sono internati in campi di concentramento al Nord, il più infame a Fenestrelle» dove, inevitabilmente, «la vita media degl’internati non superava i tre mesi; per garantire ulteriore tormento ai prigionieri furono divelte le
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finestre dei dormitori» (quest’ulteriore invenzione […] è riportata da Roberto Martucci1, che però aveva avuto il pudore di segnalare che «potrebbe rivelarsi una semplice leggenda»); si apprende che «i carri bestiame usati dai nazisti per gli ebrei sembrano un lusso, a paragone delle navi e dei mezzi che si usarono per trasferire quei prigionieri da Sud a Nord» (si trattava […] per lo più di bastimenti della marina napoletana, con i loro equipaggi napoletani, e gli uomini viaggiavano sotto la sorveglianza dei loro ufficiali napoletani). Se dopo questo elegante paragone con gli ebrei e i nazisti si ha ancora voglia di andare avanti, si scopre che «molti preferirono uccidersi» (e piacerebbe che Aprile fosse capace di citarne i nomi); che «in quei lager, in quella feroce invernata, i napoletani furono lasciati con le camicette estive» e che «il conto dei morti non c’è: non li registravano, li facevano spa rire e basta (a Fenestrelle, nella calce viva: la vasca è ancora lì, dietro la chiesa)». Potrebbe bastare, ma non c’è limite all’impudicizia: «Non si sa nemmeno, con certezza, quante decine di migliaia di militari prigionieri passarono e sparirono in quei campi» (non si sa quanti vi passarono perché non ci si è degnati di fare ricerca; e quanto allo sparire, non ci sparì nessuno). Quanto all’arruolamento nell’esercito italiano, a cui […] è provato che la stragrande maggioranza dei prigionieri si rassegnò sia pur controvoglia, si ripete, invece la consolatoria menzogna per cui «pochissimi lo fecero; gli altri preferirono patire [...] e tanti ne morirono». Tutte queste menzogne, dimostrabilmente tali, stanno in due sole pagine di un libro che purtroppo ne conta 305, che incredibilmente è stato pubblicato da un editore di rilevanza nazionale come Piemme, e che è stato letto con emozione e consenso da centinaia di migliaia di persone.
FARE STORIA Dopo l’Unità italiana: brigantaggio e “guerra per il Mezzogiorno”
La cerchia di chi crede che il governo italiano, dalla fine del 1860, abbia messo in atto un autentico progetto di genocidio nei confronti dei meridionali, e che Fenestrelle sia stata l’Auschwitz di questa soluzione finale, non ha più smesso di estendersi. Seguirne le tracce nella rete sarebbe al tempo stesso futile e angoscioso; tuttavia qualche esempio bisogna pur darlo (ci si scuserà se a partire da questo momento tralasciamo di sottolineare una per una le falsità e le mistificazioni). Così, sul sito www.duesicilie.org, ripreso da vari altri siti, si legge che dopo la resa di Gaeta e di Messina i Piemontesi non rispettarono i patti di capitolazione e i soldati duosiciliani in parte furono fucilati, altri vennero deportati in campi di concentramento in Piemonte2. Sul sito dell’«Associazione culturale neoborbonica» si legge un raccapricciante articolo di Stefania Maffeo, postato il 12 giugno 2006 e poi ripreso da moltissimi altri siti, secondo cui in quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di «correzione ed idoneità al servizio», i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po’ di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie. [...] La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all’ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti3. [...] In questo clima di delirio può perfino capitare di imbattersi nella prova
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provata dello sterminio a Fenestrelle: la fotografia. Sotto il titolo «Auschwitz? Macché: soldati meridionali deportati e sterminati nella fortezza di Fenestrelle in Piemonte», ecco una fotografia in bianco e nero di deportati seminudi, scheletrici e rasati a zero. Migliaia i soldati dell’esercito borbonico massacrati nel lager di Fenestrelle in Piemonte (nella foto). E ad osservare la foto la memoria [sic] riporta subito ad Auschswitz [sic]. E invece no. Non c’erano le camere a gas? I prigionieri, portati al Nord con quattro stracci addosso, a 2000 metri d’altezza, venivano gettati nella calce viva. La fotografia, in realtà, è tratta da un sito sullo sterminio degli omosessuali da parte dei nazisti, e ritrae un gruppo di deportati in un lager tedesco4. 1. Roberto Martucci, L’invenzione dell’Italia
unita. 1855-1864, Milano 1999, pp. 228 sg.
2. Cfr. http://www.duesicilie.org/OLDSITE/
comunicati/VicendeGaribaldine.html. 3. Cfr. http://www.neoborbonici.it/portal/index. php. 4. La fotografia si trova su http://pocobello. blogspot.com/2010/02/la-pagina-piu-nera-dellastoria-ditalia.html.
GUIDA ALLO STUDIO a. Sottolinea con colori diversi le affermazioni tratte dal testo di Pino Aprile e le relative critiche e confutazioni operate da Alessandro Barbero. b. Individua i passi del brano che riguardano l’analogia tra le detenzioni dei soldati dell’esercito borbonico nel carcere di Fenestrelle e lo sterminio della Shoah. Cerchia le prove dell’assoluta infondatezza di tale analogia.
LAVORARE SUI DOCUMENTI E SULLA STORIOGRAFIA. VERSO L’ESAME Dai documenti alla storia 1. Scrivi un testo organizzato in forma chiara e coerente dal titolo: Il brigantaggio postunitario tra disagio sociale e “uso politico” di luna data. Fai riferimento ai documenti di Villari [Ź98], Nitti [Ź99] e al brano di Molfese [Ź100]. Evidenzia nei documenti presi in considerazione i concetti che intendi utilizzare nelle tue argomentazioni e le parti delle fonti storiche che intendi citare e numerale in ordine crescente. Quindi, indica fra parentesi, all’interno del tuo elaborato, i concetti o le citazioni a cui fai riferimento. Scegli un taglio per il tuo elaborato e realizza la scaletta degli argomenti che intendi seguire. Il confronto storiografico 2. Sintetizza le tesi storiografiche di Molfese [Ź100] e Pinto [Ź101] sul fenomeno del brigantaggio postunitario e scrivi un testo argomentativo chiaro e coeso in cui si mettono a confronto le due linee interpretative, cogliendone analogie e differenze. Prima di scrivere, individua nei testi i passaggi che possono aiutarti a costruire il tuo discorso. Trascrivili brevemente sul quaderno e utilizzali per costruire una mappa concettuale che userai come scaletta della tua argomentazione.
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Guida alla prima prova dell’Esame di Stato
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PRIMA PROVA TIPOLOGIA B
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Il popolo in democrazia: mutazioni di un concetto Giovanni Sartori, politologo di fama internazionale, già professore emerito alla Columbia University di New York e all’Università di Firenze, riflette sul concetto di democrazia e sul rapporto fra popolo
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Analisi produzione Analisiedel testo di un testo argomentativo · Prova guidata
e istituzioni democratiche nella società contemporanea. Come è mutato questo rapporto nel corso della storia? Quali problemi e quali sfide attendono le democrazie nel prossimo futuro?
Quando i greci coniarono demokratìa – parola che compare per la prima volta in Erodoto – il demos in questione era costituito da cittadini della polis, della piccola città che è davvero una comunità. Ma il fatto è che quel popolo che ha operato sulle scene storiche nella polis, nei comuni, e ancora – come terzo e poi quarto stato – al tempo della rivoluzione del 1789, non esiste più. Il popolo assume corporeità e consistenza o nell’ambito delle città-comunità, o nel contesto della rigida e minuziosa attribuzione delle mansioni e dei privilegi dell’antico regime. Ma di tutto questo nulla resta. Col franare delle strutture corporative e dell’ordine dei ceti, “popolo” designa sempre più un aggregato amorfo agli antipodi di quel tutto organico che i romantici avevano divinizzato. Una realtà nuova richiede un nome nuovo. Difatti, da tempo si parla di “masse” e poi di uomo-massa e di società di massa. Dovremmo allora dire “popolo-massa”? Siccome queste nozioni sono state variamente attaccate e strapazzate in tutte le direzioni, prima di scegliere la denominazione descriviamo la cosa. La domanda è: quali sono i nuovi elementi che trasformano e caratterizzano il modo di essere delle società contemporanee? Una prima trasformazione è di scala, di grandezze. Gli ateniesi che si radunavano in piazza erano meno di cinquemila, e di solito circa la metà. Siamo lì, e cioè nello stesso ordine di grandezza, nei comuni medievali e su su fino alla “piccola città” che poteva essere, nella versione che ne dava Rousseau, una democrazia. Da allora, e pressoché di colpo, siamo cresciuti di diecimila o anche centomila volte e viviamo non più nella piccola città ma nella megalopoli, nella città smisurata. E nella città smisurata vive, diceva Riesman1, la folla solitaria. Viviamo ammucchiati l’uno sull’altro in solitudine e nella depersonalizzazione. Un secondo elemento è l’accelerazione del mutamento. Il mondo contemporaneo corre a una velocità storica così vertiginosa che nel breve tempo di una vita stentiamo a riconoscere, in vecchiaia, il mondo che avevamo conosciuto da ragazzi; e in una realtà così mutevole l’uomo non ha tempo né modo di trovare un assestamento. Se oggi s’invoca con tanta insistenza l’integrazione sociale, se l’uomo contemporaneo si rivela così ansioso di aggrupparsi e di “appartenere”, è proprio perché la nostra società è profondamente disintegrata, perché l’uomo che perde i suoi naturali tessuti connet-
David Riesman, La folla silenziosa, il Mulino, Bologna 1956.
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PRIMA PROVA TIPOLOGIA B
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Analisi e produzione di un testo argomentativo · Prova guidata
tivi si sente alienato e “senza radici”. Anche se questo mutamento è per il meglio, lo sradicamento resta. Resta anche perché all’accelerazione storica si accompagna una inedita mobilità geografica. Nella società dei servizi e degli uffici siamo sempre in meno a morire dove siamo nati. La modernizzazione è anche spostamento continuo di casa in casa, di città in città; spostamento che è perdita di amici, perdita dei “vicini” e della familiarità del vicinato. Si avverta: la perdita delle radici è anche, spesso, liberazione da catene. Non dobbiamo idealizzare più di tanto il “buon tempo” antico. Tanto buono non era. Il che non toglie che il termine popolo designa oggi una entità atomizzata, sconnessa e fluttuante; una società anomica2 che ha perduto l’ubi consistam3, l’appoggio, dei gruppi primari. E se la nozione di popolo-massa è intesa così, non è sbagliato dire così. [...] L’uomo-massa è isolato, vulnerabile e pertanto disponibile: il suo comportamento oscilla tra i due estremi di un attivismo estremistico o dell’apatia. Ne consegue che: «il tipo psicologico che caratterizza la società di massa fornisce uno scarso sostegno alle istituzioni della liberaldemocrazia»4. Non importa che io entri in questo dibattito. Il punto che mi basta fermare è che la democrazia etimologica che si rifà al demos dei greci diventa oggi un edificio costruito su un protagonista che non c’è più. Democrazia o massocrazia? Con ogni probabilità continueremo a dire democrazia. Benissimo: ma a patto che il “popolo” reale non sia un falso protetto da scomunica o eretto in mistero5.
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Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano 2012, ed. digitale
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L’anomia indica la deficienza della legge, la carenza dei poteri dello Stato, l’anarchia. È un termine in uso nel linguaggio sociologico e coniato da Émile Durkheim, il quale, nell’opera La division du travail social (1893), aveva dichiarato anomiche quelle società fondate sulla divisione del lavoro in cui non vi sia solidarietà sociale.
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Punto stabile di appoggio. William Kornhauser, The Politics of Mass Society, Free Press, Glencoe 1959, p. 112. Sartori si riferisce al mistero del popolo, che nel corso del libro sarà esaminato in chiave di cosa contiene e di come viene formata la pubblica opinione.
COMPRENSIONE E ANALISI 1. A partire da quale periodo storico, secondo l’autore, il demos, parte costitutiva della parola demokratìa, si può dire che sia scomparso? Quali fattori storici, accennati dall’autore, hanno contribuito a causarne la scomparsa? 2. Quali trasformazioni proprie della società contemporanea hanno prodotto un mutamento del concetto di “popolo”? 3. Quali conseguenze ha prodotto questo mutamento nell’ambito della struttura di una società democratica? 4. Prova a schematizzare la struttura del brano proposto ponendo in rilievo gli snodi argomentativi e gli elementi utilizzati dall’autore per sostenere l’argomentazione.
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INTERPRETAZIONE Constantin-François de Chassebœuf, conte di Volney, studioso e filosofo francese vissuto fra la seconda metà del Settecento e i primi dell’Ottocento, in un’opera datata al 1792, dal titolo Le rovine ossia le Meditazioni sulle Rivoluzioni degli Imperi, affermava quanto segue: «alcune regioni della terra, indubbiamente, hanno subito una decadenza rispetto a come apparivano in altre epoche della storia, ma se il nostro spirito potesse indagare su quale fosse, proprio allora, il grado di felicità e di saggezza degli abitanti, troverebbe, nella presunta gloria di quei tempi, meno realtà che apparenza. Allora vedremmo negli Stati dell’antichità, vuoi anche i più lodati, la presenza di enormi vizi, di crudeli abusi, dai quali del resto, non poté che derivare la loro intrinseca fragilità» (cap. XIII). Sartori afferma – nel brano proposto – che anche la nostra democrazia è fragile. Alla luce delle tue conoscenze storiche e della tua esperienza rifletti sulle ragioni di fragilità proprie del rapporto fra popolo e istituzioni. Puoi attuare un confronto fra eventi della storia e del presente che ritieni significativi. Organizza il tuo elaborato in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.
GUIDA ALLO SVOLGIMENTO
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Comprensione e analisi
Indicazioni operative
1. A partire da quale periodo storico, secondo l’autore, il demos, parte costitutiva della parola demokratìa, si può dire che sia scomparso? Quali fattori storici, accennati dall’autore, hanno contribuito a causarne la scomparsa?
Presta attenzione al primo quesito: sono due le domande a cui devi fornire una risposta. La prima è correlata alla comprensione del testo proposto: rileggi il primo paragrafo per trovare le indicazioni utili, la domanda ti chiede di indicare il periodo a partire dal quale il ruolo del popolo può dirsi mutato. La seconda domanda ti chiede di ragionare su questo fenomeno a partire dalle indicazioni storiche fornite dall’autore. Sartori cita periodi storici che dovresti avere studiato nel corso dell’anno. Individua questi periodi e commenta le parole dell’autore fornendo spiegazioni utili in base alle tue conoscenze. Perché quei periodi in particolare possono essere considerati la “fine” di un determinato modo di intendere il demos?
2. Quali trasformazioni proprie della società contemporanea hanno prodotto un mutamento del concetto di “popolo”?
Dopo la premessa di ordine storico, l’autore passa all’analisi della società contemporanea e illustra le cause che giustificano l’esigenza di una nuova denominazione: non più popolo, ma popolo-massa. Ci sono almeno tre mutamenti essenziali propri del nostro tempo che ne giustificano l’utilizzo: quali?
3. Quali conseguenze ha prodotto questo mutamento nell’ambito della struttura di una società democratica?
Se la domanda 2 ti ha chiesto di rintracciare nel testo le cause che giustificano l’adozione di un dato termine, in questa domanda ti viene chiesto di indicare le conseguenze che – sempre secondo Sartori – questi fattori producono. Nota che il periodare dell’autore procede seguendo un climax: Sartori indica vari elementi per terminare con quello che – a suo avviso – risulta il nodo di maggiore problematicità in relazione al tema di discussione prescelto.
4. Prova a schematizzare la struttura del brano proposto ponendo in rilievo gli snodi argomentativi e gli elementi utilizzati dall’autore per sostenere l’argomentazione.
Rileggi il brano e considera come l’autore organizza la narrazione tenendo conto dei vari paragrafi. Troverai che si parte da una premessa di carattere storico per proseguire con una riflessione sulla società contemporanea. Lo sviluppo dell’argomentare tiene conto di: – definizione del problema; – ipotesi di soluzione; – evidenza a supporto dell’ipotesi; – valutazioni finali. Tenendo conto di queste indicazioni prova a esprimere in forma schematica il pensiero dell’autore.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo · Prova guidata
Produzione
Indicazioni operative
Constantin-François de Chassebœuf, conte di Volney, studioso e filosofo francese vissuto fra la seconda metà del Settecento e i primi dell’Ottocento, in un’opera datata al 1792, dal titolo Le rovine ossia le Meditazioni sulle Rivoluzioni degli Imperi, affermava quanto segue: «alcune regioni della terra, indubbiamente, hanno subito una decadenza rispetto a come apparivano in altre epoche della storia, ma se il nostro spirito potesse indagare su quale fosse, proprio allora, il grado di felicità e di saggezza degli abitanti, troverebbe, nella presunta gloria di quei tempi, meno realtà che apparenza. Allora vedremmo negli Stati dell’antichità, vuoi anche i più lodati, la presenza di enormi vizi, di crudeli abusi, dai quali del resto, non poté che derivare la loro intrinseca fragilità» (cap. XIII). Sartori – nel brano proposto – afferma che anche la nostra democrazia è fragile. Alla luce delle tue conoscenze storiche e della tua esperienza rifletti sulle ragioni di fragilità proprie del rapporto fra popolo e istituzioni. Puoi attuare un confronto fra eventi della storia e del presente che ritieni significativi. Organizza il tuo elaborato in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.
Il tema proposto è ad ampio respiro: la fragilità del rapporto fra popolo e istituzioni. Il mancato accordo fra chi è governato e chi governa ha prodotto nel corso di tutta la storia scontri interni e guerre verso l’esterno. Non si chiede di affrontare il tema nella sua interezza, bensì di esprimere una tesi in merito e di correlarla ad eventi significativi che la giustifichino. Per affrontare il compito puoi iniziare con il porti delle domande: – in base alle tue conoscenze ed esperienze, esistono segni di fragilità nel rapporto fra popolo e istituzioni in Italia o nei paesi europei? Se esistono, quali possono essere le cause che li hanno prodotti e quali le conseguenze che ne potrebbero derivare in un prossimo futuro? – gli elementi di fragilità che hai individuato sono propri unicamente della società contemporanea o potrebbero essere ricordati degli esempi storici che confermano la persistenza di alcuni di questi fenomeni nel tempo? – esiste – a tuo avviso – una possibile soluzione per rendere più saldo e responsabile questo rapporto nel tempo? Raccogli le tue considerazioni in una scaletta e sviluppa gli argomenti da te scelti in un testo di natura argomentativa che renda esplicita al lettore la tua tesi e gli elementi a supporto. Per guidarlo a meglio comprendere il tuo ragionamento, puoi suddividere il testo in paragrafi che rappresentino i diversi snodi argomentativi. Ricorda di fare buon uso dei connettivi fra le varie parti.
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Della verità e dell’opinione Michel de Montaigne, uomo di cultura umanista, raffinato filosofo e politico di origine francese, pubblicò fra il 1580 e il 1588 tre libri di Saggi. Opera di autoanalisi e di riflessione sull’instabilità della «umana condizione», i Saggi sono altresì una testi-
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monianza importante dell’evoluzione di un pensiero filosofico che progressivamente si allontana dalle certezze proprie dell’epoca rinascimentale, per avvicinarsi ad un atteggiamento critico verso l’interpretazione del reale tipico del pensiero illuminista.
Quando il re Pirro venne in Italia, dopo che ebbe osservato lo schieramento dell’esercito che i Romani gli mandavano contro, disse: «Non so che barbari siano questi (poiché i Greci chiamavano così tutti i popoli stranieri), ma la disposizione di quest’esercito che vedo non è affatto barbara»1. Lo stesso dissero i Greci di quello che Flaminio fece passare nel loro paese; e così pure Filippo quando vide da un’altura l’ordine e la distribuzione dell’accampamento romano nel suo regno, sotto Publio Sulpicio Galba2. Ecco come bisogna guardarsi dall’aderire alle opinioni volgari, e come bisogna giudicarle con la ragione, non per quello che ne dice la voce comune. Ho avuto a lungo presso di me un uomo che aveva vissuto dieci o dodici anni in quell’altro mondo che è stato scoperto nel nostro secolo, nel luogo dove era sbarcato Villegagnon, e che aveva chiamato la Francia Antartica3. Questa scoperta di un paese infinito sembra sia di molta importanza. Non so se posso affermare che non se ne farà in avvenire qualche altra, tanti essendo i personaggi più grandi di noi che si sono ingannati a proposito di questa. Ho paura che abbiamo gli occhi più grandi del ventre, e più curiosità che capacità. [...] Quell’uomo che stava da me era un uomo semplice e rozzo, condizione adatta a rendere una testimonianza veritiera: poiché le persone d’ingegno fino osservano, sì, con molta maggior cura, e più cose, ma le commentano; e per far valere la loro interpretazione e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la storia; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincervene, aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano e la ampliano. Ci vuole un uomo o molto veritiero o tanto semplice da non aver di che costruire false invenzioni e dar loro verosimiglianza, e che non vi abbia alcun interesse. Così era il mio; e oltre a questo, mi ha mostrato in diverse occasioni parecchi marinai e mercanti che aveva conosciuto in quel viaggio. Mi accontento, quindi, di queste informazioni, senza occuparmi di quel che ne dicono i cosmografi. A noi occorrerebbero dei topografi che ci descrivessero nei particolari i luoghi dove sono stati. Ma avendo su di noi il vantaggio di aver veduto la Palestina, vogliono arrogarsi il privilegio di darci notizie di tutto il resto del mondo. Vorrei che ognuno scrivesse quel
Plutarco, Vita di Pirro, XXXIV. Tito Livio, XXXI, 34. Nel Golfo di Guanabara, sulla costa del Brasi-
le (la Francia Antartica), dove Enrico II voleva fondare una colonia nella regione Tupinamba (1557).
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Analisi e produzione di un testo argomentativo · Prova guidata
che sa, e quanto ne sa, non solo in questo, ma su tutti gli altri argomenti: poiché uno può avere qualche particolare cognizione o esperienza della natura di un corso d’acqua o di una sorgente, e sapere per il resto solo quello che tutti sanno. Tuttavia, per divulgare questa sua nozioncella, si metterà a scrivere tutta la fisica. Da questo vizio nascono parecchi grossi inconvenienti. Ora io credo, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito: se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e deviati dalla regola comune che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. E nondimeno il sapore medesimo e la delicatezza di diversi frutti di quelle regioni, che non sono stati coltivati, sembrano eccellenti al nostro gusto, in confronto ai nostri.
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Michel de Montaigne, Saggi (Libro I, cap. XXXI, Dei cannibali), a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano 2017, ed. digitale
COMPRENSIONE E ANALISI 1. Riassumi il contenuto del brano proposto. 2. Montaigne dà inizio al suo saggio riportando citazioni e giudizi di illustri personaggi della storia antica. Quale funzione assumono questi esempi nel contesto del brano? 3. L’argomento di discussione prescelto fornisce all’autore l’occasione per esprimere le sue considerazioni sulla natura umana. Quali sono le idee di Montaigne a riguardo? 4. Individua i connettivi presenti nel brano proposto e illustrane la funzione in relazione allo sviluppo argomentativo del testo.
INTERPRETAZIONE Montaigne riflette sulla facilità con la quale gli uomini siano pronti a formulare giudizi su cose che non conoscono. Le sue considerazioni sulla natura umana sono frutto di una meditazione datata alla seconda metà del Cinquecento, eppure rappresentano il preludio di un atteggiamento critico che avrà il suo massimo sviluppo nell’epoca dell’Illuminismo. Quali punti di contatto si possono riscontrare fra il pensiero dell’autore – come emerge nel brano proposto – e le idee proprie degli illuministi? Come è mutato al giorno d’oggi il rapporto fra verità e opinione? Esprimi le tue considerazioni in un testo di natura argomentativa che risulti organico e coeso.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo · Prova guidata
Comprensione e analisi
Indicazioni operative
1. Riassumi il contenuto del brano proposto.
Per elaborare una buona sintesi è necessario individuare gli snodi narrativi presenti nel testo, ovvero gli argomenti che l’autore ha scelto di affrontare. Montaigne ha deciso qui di trattare un solo argomento di estrema attualità ai suoi tempi, riguardo al quale fornisce una sua interpretazione (tesi). Di quale argomento si tratta e quale è la tesi dell’autore in merito? Nel fluire del suo ragionamento, tuttavia, il tema prescelto gli fornisce l’occasione per avanzare varie considerazioni sulla natura umana. È importante riuscire a identificare i nessi logici fra l’argomentazione principale, rappresentata dal tema di discussione e dalla tesi dell’autore, gli esempi e le considerazioni che l’autore avanza. Rileggi ora attentamente il brano, tieni conto della suddivisione in paragrafi e sottolinea con colori diversi l’argomento di discussione, la tesi, gli esempi e le considerazioni avanzate dall’autore, elabora quindi una scaletta che ponga in evidenza i rapporti di correlazione fra le varie parti. Rielabora ora quanto hai prodotto in un discorso in terza persona che non riecheggi le parole stesse dell’autore. Per chiarezza puoi fornire al lettore le informazioni utili a sintetizzare il brano proposto seguendo questo ordine: – argomento di discussione; – tesi; – esempi a supporto della tesi; – considerazioni di ordine generale cui la trattazione dell’argomento dà adito.
2. Montaigne dà inizio al suo saggio riportando citazioni e giudizi di illustri personaggi della storia antica. Quale funzione assumono questi esempi nel contesto del brano?
Oggi sarebbe abbastanza insolito dar vita ad un saggio riportando in apertura citazioni dalle opere di Plutarco e Tito Livio, ma Montaigne era un raffinato umanista e questi autori rappresentavano una parte essenziale del suo percorso di formazione e di studio. Il perché abbia scelto proprio questi autori ha quindi una spiegazione abbastanza logica, erano autori a lui ben noti e al tempo stesso erano ritenuti fonti autorevoli. Ma perché inserire in apertura del testo proprio “queste” citazioni? La scelta non è casuale, i riferimenti servono ad uno scopo preciso connesso all’argomentazione principale. Servono a dimostrare qualcosa. Di cosa si tratta?
3. L’argomento di discussione prescelto fornisce all’autore l’occasione per esprimere le sue considerazioni sulla natura umana. Quali sono le idee di Montaigne a riguardo?
Per rispondere a questa domanda guarda nuovamente la scaletta che hai elaborato per sviluppare la sintesi. Dovresti aver annotato almeno tre considerazioni di natura generale sul comportamento degli uomini. Individuale ed elencale nel rispondere alla domanda.
4. Individua i connettivi presenti nel brano proposto e illustrane la funzione in relazione allo sviluppo argomentativo del testo.
I connettivi sono elementi del discorso che segnalano dei legami logici presenti fra diverse parti di un testo. All’interno dei vari paragrafi del brano proposto sono presenti dei termini utilizzati per segnalare il passaggio, e al tempo stesso creare un collegamento fra esempi, argomento principale e considerazioni proprie dell’autore. Fra due diversi paragrafi si trova anche un’espressione che ha lo scopo di riportare il lettore all’argomento principale dopo una digressione. Rileggi il testo proposto, individua i connettivi utilizzati e specificane la funzione nell’economia del racconto.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo · Prova guidata
Produzione
Indicazioni operative
1. Montaigne riflette sulla facilità con la quale gli uomini siano pronti a formulare giudizi su cose che non conoscono. Le sue considerazioni sulla natura umana sono frutto di una meditazione datata alla seconda metà del Cinquecento, eppure rappresentano il preludio di un atteggiamento critico che avrà il suo massimo sviluppo nell’epoca dell’Illuminismo. Quali punti di contatto si possono riscontrare fra il pensiero dell’autore – come emerge nel brano proposto – e le idee proprie degli illuministi? Come è mutato al giorno d’oggi il rapporto fra verità e opinione? Esprimi le tue considerazioni in un testo di natura argomentativa che risulti organico e coeso.
Montaigne è autore vissuto fra il 1533 e il 1592. Ebbe un’educazione umanistica, studiò giurisprudenza a Tolosa, ricoprì vari uffici in magistratura, viaggiò a lungo in Francia, Svizzera e Italia. La sua passione restarono però gli studi letterari e filosofici e a partire dal 1570 si ritirò per un lungo periodo a vita privata nel castello di famiglia per coltivare la lettura dei classici e la scrittura. Tale occupazione dovrà venire interrotta in anni successivi per svolgere incarichi ufficiali, ma lo studio creato nella torre del castello di Montaigne resterà il suo rifugio più gradito. Le letture di Seneca, di Plutarco, ma anche di autori italiani quali Petrarca, Machiavelli e Guicciardini, Ariosto e Tasso, unite all’esperienza del mondo, ispirarono in lui delle considerazioni filosofiche sulla natura umana e sul suo tempo che sembrano proiettarlo oltre gli steccati della cultura rinascimentale. Nuova è l’indagine intimistica, quasi psicologica dell’uomo, che Montaigne vede come un essere in costante cambiamento ed evoluzione, nuovo è l’approccio critico al reale basato sulla ragione. Il brano proposto presenta vari indizi di un nuovo modo di percepire il reale che ha molti punti in comune con posizioni proprie della cultura illuministica. Al contempo, le considerazioni di natura generale sull’uomo si prestano a essere poste a confronto con quello che è l’atteggiamento dell’uomo contemporaneo. All’evoluzione della tecnica è corrisposta una eguale evoluzione del nostro atteggiamento nei confronti del nuovo, della verità e dell’opinione, oppure quanto afferma Montaigne ha ancora oggi una sua validità? Per strutturare il testo è utile seguire la traccia fornita dalle domande proposte. Potresti quindi organizzare le tue considerazioni secondo la seguente scaletta: – elementi che ricollegano Montaigne al contesto culturale della sua epoca; – elementi di novità del suo pensiero; – punti di collegamento fra questi elementi di novità e il pensiero degli illuministi (fornisci degli esempi); – considerazioni sull’attualità o meno delle sue idee motivate con debiti argomenti di discussione. Il passaggio fra le varie parti richiede l’utilizzo di connettivi adeguati: ti viene richiesto di segnalare quelli che sono gli elementi di continuità e di discontinuità fra il pensiero di Montaigne e quello proprio delle epoche successive, per costruire un discorso organico e coeso è quindi necessario che gli snodi argomentativi siano opportunamente evidenziati.
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Top secret: lo spionaggio industriale in età moderna Un breve viaggio attraverso i servizi segreti e il loro ruolo nel favorire lo sviluppo delle eccellenze commerciali nella Francia della seconda metà del Seicento. Paolo Preto, già professore emerito di Storia moderna all’Università di Padova, dimostra, dati alla
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mano, come lo spionaggio industriale sia sempre esistito e come la fortuna di alcune produzioni industriali sia derivata direttamente dalla capacità dei rispettivi governi di carpire informazioni utili a migliorare lo standard dei loro prodotti.
Spie politiche, commerciali e militari, all’estero contro i nemici, all’interno contro i sudditi infidi e i cospiratori, non sono mai mancate in alcuno stato del mondo antico anche se, come ha notato Sheldon, «è assai difficile distinguere fra l’attività di spionaggio nel senso che si dà a questo termine nel mondo moderno, e la ricerca e trasmissione di informazioni»1. [...] Le città italiane, nella loro evoluzione da liberi comuni a signorie, offrono un ottimo esempio della contestualità tra sviluppo di nuove strutture amministrativo-burocratiche, in particolare eserciti permanenti e diplomazia stabile, e la nascita dei servizi segreti; molti statuti comunali registrano la presenza di spie regolarmente assunte entro gli embrionali apparati politici cittadini: a Pisa, tanto per fare un esempio, nel 1297 e nel 1345, sono menzionati un «ufficiale sopra le spie» e un «soprastante alle spie». [...] Celebre è la cosiddetta “Guerra degli Specchi” del 1664-1667: ne sono protagonisti da un lato Colbert, deciso ad attrarre abili maestri muranesi per impiantare anche in Francia questa manifattura pregiata, un gruppo di vetrai veneziani che accettano l’ambiziosa e ben remunerata avventura e il governo di Venezia deciso a stroncare con tutti i mezzi, compreso l’assassinio, l’audace attacco alla sua industria. Nell’autunno 1664 Colbert incarica l’ambasciatore a Venezia Pierre Bonzi, vescovo di Béziers, di sedurre alcuni operai; Antonio Cimegotto, detto Della Rivetta, Gerolamo Barbini, Giovanni Civran e Domenico Morasso accettano, partono in gran segreto e si uniscono a Pietro Mazzolao (che si fa chiamare De la Motte), un ottimo tecnico che ha girato mezzo mondo, e danno vita alla periferia di Parigi a una nuova fornace, gestita da Nicolas Du Noyer. L’aiuto di altri compagni fatti arrivare nei mesi successivi, le paghe alte e altri benefici convincono i vetrai a lavorare di buona lena, anche se rifiutano di insegnare i segreti agli apprendisti: per legarli definitivamente alla nuova patria Colbert cerca di far espatriare anche le mogli, procura ragazze con doti di venticinquemila scudi ai due scapoli Barbinni e Morasso e fa visitare la manifattura dallo stesso Luigi XIV, che fa generosi donativi. A questo punto scatta decisa la controffensiva degli Inquisitori2; l’ambasciatore Marc’Antonio Giustinian convince alcuni gregari a tornare, alletta il Mazzolao con la prospettiva di un salvacondotto e un onorevole ritorno in patria,
Rose M. Sheldon, Lo spionaggio nel mondo romano. L’occhio di Roma, in «Storia e dossier», IV, 1989, n. 25. A Venezia, il Consiglio dei Dieci decise di istituire, nel 1539, i cosiddetti “inquisitori di Stato”; si trattava di persone a capo dei servizi di spionag-
gio e di controspionaggio, che rappresentavano anche un supremo tribunale in materia politica e inerente alla sicurezza dello Stato. Atti diversi, relativamente ai loro compiti, sono raccolti nell’Archivio di Stato di Venezia.
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sguinzaglia spie a informarsi sui lavori e a esercitare ogni sorta di pressioni sui muranesi; intanto a Venezia gli Inquisitori scrivono false lettere a nome delle mogli, ma i vetrai capiscono subito che sono «formate da persone di sapere et non ordinaria intelligenza» e non dalle loro umili consorti. Nonostante l’attenta sorveglianza le donne riescono a lasciare Venezia e a raggiungere i mariti a Parigi e così il 14 agosto gli Inquisitori, volendo «andar alla radice» dell’affare, ordinano al Giustinian di uccidere Antonio della Rivetta, considerato il leader del gruppo, nella convinzione che «caduto lui, tutto precipita». Gustinian si muove con grande astuzia, stimola il rancore di Mazzolao, che si sente emarginato dai nuovi arrivati e durante una rissa ferisce il Rivetta, e sparge false notizie sulla cattiva qualità dei vetri prodotti; nel settembre 1666 muore, dopo un delirio di qualche giorno, un levigatore, seguito il 25 gennaio anche da Domenico Morasso: l’autopsia ordinata da Colbert conferma, il 16 febbraio 1667, che si tratta di veleno. Lo spaesamento delle donne, che mal si adattano alla nuova vita in Francia, gli attentati, il dolore per le morti, fiaccano la volontà dei muranesi; un intermediario veneziano offre quattro-cinquemila ducati e ne combina il ritorno in patria, peraltro senza grande rimpianto degli imprenditori che ne deplorano il carattere irregolare e violento; quando, nel 1669, Rivetta, Barbini e Civran fanno delle “avances” per ritornare in Francia l’ambasciatore francese lascia cadere l’offerta anche perché Colbert da Parigi assicura che ormai la manifattura è ben avviata e non necessita più di operai: la Francia ha vinto la “Guerra degli Specchi”.
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Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Spionaggio e controspionaggio ai tempi della Serenissima, il Saggiatore, Milano 2010, pp. 17, 403-409
COMPRENSIONE E ANALISI 1. Rileggi il brano proposto, sottolinea gli eventi salienti, quindi elabora una sintesi che tenga conto del contenuto, ma eviti di riepilogarne i singoli dettagli. 2. Il racconto della “Guerra degli Specchi” presenta uno stile proprio della letteratura gialla. Quali elementi stilistici conferiscono tale aspetto alla narrazione? 3. Perché nell’Europa del Seicento l’industria del vetro è ritenuta così importante da comportare una guerra commerciale? 4. Per quale ragione l’ultima richiesta degli operai italiani di tornare a lavorare in Francia non viene accolta?
PRODUZIONE Lo spionaggio industriale del XXI secolo passa anche attraverso la rete, ma i termini del contendere, il cercare di carpire, trafugare, brevetti e segreti industriali, restano simili. Cosa è mutato nel moderno sistema di spionaggio industriale? Eventi quali quello della “Guerra degli Specchi” sono ormai lontani dai nostri orizzonti, oppure no? Il livello di specializzazione del personale e la conoscenza di tecniche di produzione all’avanguardia rappresentano ancora una merce di scambio così ambita? Rifletti sul tema proposto, elabora quindi un testo a partire dalle tue conoscenze. Nell’attuare un confronto fra passato e presente ricorda di fare buon uso di connettivi adeguati.
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L’illuminismo della parola “umanità” Johann Gottfried von Herder fu scrittore e pensatore tedesco vissuto fra il 1744 e il 1803. Nutrito di cultura illuminista, discepolo di Kant e amico di Goethe, Herder sarà fra i promotori del nuovo movimento di matrice romantica Sturm und Drang. Fra il
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1793 e il 1797 compose le Lettere per la promozione dell’umanità, da cui è tratto il brano proposto: il filosofo tenta di giungere alla definizione di umanità e riflette sul ruolo proprio dell’istruzione nel forgiare il sentimento di umanità.
Voi temete che si possa abusare del termine “umanità”. Non si potrebbe, forse, cambiare parola, dicendo genere umano, umanitarismo, diritti umani, doveri umani, dignità umana, amore per gli uomini? Noi tutti siamo esseri umani e, quindi, custodiamo in noi il genere umano o, per meglio dire, apparteniamo a esso. Purtroppo, però, nella nostra lingua si è così spesso associato il termine uomo e, ancor più, all’espressione misericordiosa umanitarismo, un significato accessorio di meschinità, debolezza e falsa compassione, che si è ormai abituati ad accompagnare l’uno con un’occhiata di disprezzo, l’altra con una scrollata di spalle. «L’uomo!», esclamiamo con un lamento, o con accento sprezzante e un brav’uomo crediamo di scusarlo con il tono più indulgente quando usiamo l’espressione: «è stato sopraffatto dal suo umanitarismo». Nessuna persona ragionevole è disposta ad accettare che si sia così barbaramente svilito il carattere del genere cui apparteniamo. Si è agito, se è possibile, con ancor più leggerezza di quando usiamo, a mo’ d’insulto, il nome della nostra città o della comunità in cui viviamo. Non vogliamo essere fraintesi: non è per la promozione di un simile concetto di umanitarismo che scriviamo lettera alcuna. La formula diritti dell’uomo non può essere pronunciata senza riferimento ai doveri dell’uomo: gli uni rinviano agli altri e, per entrambi, noi cerchiamo una sola parola. Lo stesso vale per le espressioni dignità umana e amore per gli uomini. Il genere umano, quale è attualmente e quale, con ogni probabilità, continuerà a essere ancora a lungo, non possiede, in gran parte, alcuna dignità, e merita commiserazione piuttosto che rispetto. Ecco, però, dev’essere educato al carattere del proprio genere e, con ciò, al suo valore e alla sua dignità. La bella espressione amore per gli uomini è stata a tal punto banalizzata che per lo più si amano gli uomini per non amarne, di fatto, nessuno in particolare. Tutte queste parole contengono, ciascuna in parte, il senso del nostro scopo, che ci piacerebbe indicare con una sola espressione. Scegliamo, perciò, la parola “umanità” cui i più valenti scrittori, antichi e moderni, hanno saputo unire i più elevati concetti. Umanità è il carattere del genere a cui apparteniamo. Tuttavia esso è presente in noi solo come disposizione e, propriamente, dev’essere educato. Non veniamo al mondo possedendolo già compiutamente, ma, su questa terra, esso dev’essere la meta di tutti i nostri sforzi, la somma delle nostre azioni, il nostro autentico valore: non ci risulta, infatti, che l’uomo sia dotato di una natura angelica, e se il demone che ci guida non è un demone umano, allora rischiamo di tramutarci in un vero flagello per gli altri uomini. L’elemento divino del nostro essere consiste, quindi, nella capacità di educare all’umanità: tutti gli esseri umani grandi e buoni, legislatori, inventori, filosofi, poeti, artisti e ogni uomo che abbia dimostrato nobiltà nello svolgere il suo ruolo, nell’educazione dei suoi figli, nell’osservanza dei suoi doveri, vi hanno contribuito mediante l’esempio, le opere, l’ammaestramento e l’insegnamento. L’umanità è il patrimonio e il premio di tutti gli
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sforzi umani, e, insieme, l’arte del nostro genere. L’educazione all’umanità è un compito che non può mai essere tralasciato o interrotto, o noi tutti, dai gradi più elevati ai più infimi, precipiteremo all’indietro, allo stato della rozza animalità e, oltre, sino allo stato bruto.
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Johann Gottfried Herder, L’illuminismo della parola “umanità”, in Che cos’è l’illuminismo? I testi e la genealogia del concetto, introd. a cura di A. Tagliapietra, trad. di S. Manzoni e E. Tetamo, Bruno Mondadori, Milano 2010, pp. 93-95
COMPRENSIONE E ANALISI 1. Il brano proposto è articolato in una premessa funzionale allo sviluppo della tesi propria dell’autore, la quale figura solo nella parte finale del brano. Sintetizza il pensiero di Herder tenendo conto di questa indicazione. 2. Spiega il significato dell’espressione: «L’elemento divino del nostro essere consiste, quindi, nella capacità di educare all’umanità» (rr. 34-35). 3. Quali termini racchiudono e definiscono il significato della parola “umanità”, secondo l’autore? 4. La discussione apparentemente filologica racchiude in sé un argomentare che pone in evidenza l’uso errato e l’uso corretto dei termini. Perché Herder condanna l’accezione a suo tempo assunta dal termine “umanitarismo”, mentre sembra accettare il termine “umanità”? Quali concetti diversi vengono attribuiti ai due termini?
PRODUZIONE Il riconoscimento del valore della conoscenza è stato già attuato varie volte nella cultura occidentale, basti pensare al Convivio o ai famosi versi del canto di Ulisse nell’Inferno di Dante. Eppure per gli illuministi la conoscenza assume un valore particolare e con essa l’educazione al conoscere. Rifletti sul ruolo e la funzione che gli illuministi affidavano alla formazione dei giovani. Quali loro idee possono dirsi ancora di estrema attualità? L’«educazione all’umanità» è stata soppiantata da nuovi modelli di formazione in linea con la società contemporanea o rimane ancora oggi il cardine della nostra educazione scolastica? Sviluppa le tue considerazioni a riguardo in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.
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Empatia e universalità dei diritti Lynn Hunt è Distinguished Research Professor presso la University of California (UCLA). Nel volume La forza dell’empatia ripercorre la storia del XVIII secolo alla ricerca della nascita dei diritti umani, individuandola in una serie di mutamenti culturali più generali che hanno trasformato il modo in cui gli esseri umani si relazionano tra loro. I diritti
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dell’uomo sono infatti il prodotto dell’immedesimazione nell’altro, del riconoscimento dell’altrui sensibilità come simile alla propria, dell’empatia. Eppure, il riconoscimento dei diritti sembra non essere sufficiente, ancora oggi, ad evitare guerre e violenza. Quali sono, dunque, le ragioni per le quali l’empatia, da sola, non basta?
L’uguaglianza, l’universalità e la naturalezza dei diritti hanno trovato espressione politica diretta per la prima volta nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e nella Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Il Bill of Rights inglese del 1689 richiamava «gli antichi diritti e le antiche libertà» stabiliti dal diritto inglese e derivanti dalla storia inglese, ma non dichiarava l’uguaglianza, l’universalità o la naturalezza dei diritti. Per contro, la Dichiarazione di indipendenza asseriva che «tutti gli uomini sono creati uguali» e tutti sono dotati di «inalienabili diritti». Analogamente, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamava che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Non gli uomini francesi, non gli uomini bianchi, non i cattolici, ma «gli uomini», che allora come ora significava non soltanto il genere maschile, ma le persone, cioè tutti gli appartenenti alla razza umana. In altre parole, in qualche momento tra il 1689 e il 1776 diritti che il più delle volte erano stati considerati come i diritti di una particolare categoria di persone – gli uomini inglesi nati liberi, per esempio – furono trasformati in diritti umani, in diritti naturali universali, che i francesi chiamarono les droits de l’homme, «i diritti dell’uomo». [...] I diritti umani sono difficili da definire, perché la loro definizione e addirittura la loro esistenza dipendono tanto dalle emozioni quanto dalla ragione. L’affermazione dell’ovvietà si fonda, in ultima istanza, su un richiamo emotivo: è convincente se fa risuonare qualcosa in ogni persona. Inoltre, abbiamo la piena certezza che un diritto umano sia in discussione quando la sua violazione ci fa inorridire. Rabaut SaintÉtienne sapeva di potersi richiamare alla consapevolezza implicita di ciò che non era «più accettabile». Riguardo al droit naturel, nel 1755 il notissimo illuminista francese Denis Diderot aveva scritto che «l’uso di questa parola è tanto comune che non esiste uomo che non sia convinto dentro di sé di conoscere con chiarezza il concetto. Questo sentimento interiore è comune al filosofo e all’ignorante». Come altre figure dell’epoca, Diderot fornì solo una vaga indicazione del significato di diritti naturali; «sono uomo», concluse, «e non ho altri diritti naturali realmente inalienabili che quelli dell’umanità». Ma aveva identificato la qualità più importante dei diritti umani: essi richiedevano un certo «sentimento interiore» largamente condiviso. [...] L’empatia si basa sul riconoscimento che gli altri sentono e pensano come noi, che la nostra sensibilità interiore è fondamentalmente simile. [...] Secondo il politologo Benedict Anderson, [la progressiva diffusione di] quotidiani e romanzi crearono la «comunità immaginata». [...] È immaginata non nel senso di artefatta, ma nel senso che l’empatia richiede fiducia, bisogna immaginare che l’altro sia simile a sé. Le descrizioni delle torture crearono questa empatia immaginata tramite una nuova visione del dolore. I romanzi la generarono suscitando nuove sensazioni
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riguardo alla vita interiore. Ciascuno a suo modo, essi rafforzarono la nozione di una comunità basata su individui autonomi ed empatici, che potevano rapportarsi con valori universali superiori, al di là dei legami familiari più stretti, delle affiliazioni religiose o persino delle nazioni. [...] I tempi moderni evidenziano un paradosso basato sulla distanza e sulla vicinanza. Da un lato, il diffondersi dell’alfabetizzazione e lo sviluppo della letteratura, dei quotidiani, della radio, del cinema, della televisione e di internet hanno permesso a un numero sempre maggiore di persone di immedesimarsi in altre che vivono in luoghi lontani e condizioni molto diverse. Le foto di bambini che muoiono di fame in Bangladesh o le notizie sulle migliaia di uomini e ragazzi trucidati a Srebrenica, in Bosnia, possono mobilitare milioni di persone e indurle a inviare denaro, generi di consumo e talvolta persino a portare esse stesse aiuto alle popolazioni di altri paesi o esortare i propri governi o le organizzazioni internazionali a intervenire. Dall’altro lato, si apprendono da fonte sicura notizie su come in Ruanda due etnie si siano brutalmente massacrate a vicenda per motivi etnici. Questa violenza ravvicinata non è affatto eccezionale o recente; da secoli ebrei, cristiani e musulmani tentano di spiegare perché il biblico Caino, figlio di Adamo ed Eva, uccise suo fratello Abele. [...] Se le moderne forme di comunicazione hanno diversificato gli strumenti attraverso i quali si può provare empatia con gli altri, esse non sono però riuscite ad assicurare che gli esseri umani agiscano sulla base di tale sentimento. L’ambivalenza riguardo all’efficacia dell’empatia emerse intorno alla metà del XVIII secolo, e fu espressa persino da coloro che si dedicarono a spiegarne i meccanismi. In Teoria dei sentimenti morali Adam Smith esamina come reagirebbe «un europeo dotato di umanità» nel venire a sapere che un terremoto ha provocato la morte di centinaia di milioni di persone in Cina. Egli dirà tutte le cose giuste, prevede Smith, ma poi tornerà ai suoi affari come se nulla fosse accaduto. Se invece sapesse di dover perdere il suo dito mignolo l’indomani, non chiuderebbe occhio tutta la notte. Sarebbe dunque capace di sacrificare la vita di centinaia di milioni di cinesi in cambio del suo dito mignolo? No di certo, secondo Smith. Ma che cosa impedisce a una persona di accettare l’offerta? «Non è il debole potere del senso di umanità», afferma Smith, che ci permette di contrastare l’interesse personale. Deve essere un potere più forte, quello della coscienza: «È la ragione, il principio, la coscienza, l’abitante dell’animo, l’uomo interiore, il grande giudice e arbitro della nostra condotta». L’elenco di Smith del 1759 – la ragione, il principio, la coscienza, l’uomo interiore – coglie un importante elemento dello stato attuale del dibattito sull’empatia. Che cos’è abbastanza forte da motivarci ad agire in base alla compassione che proviamo per i nostri simili? L’eterogeneità dell’elenco di Smith indica che lui stesso ebbe qualche difficoltà a rispondere all’interrogativo: «ragione» è forse sinonimo di «abitante dell’animo»? Smith sembrava credere, come molti attivisti odierni dei diritti umani, che un misto di richiami razionali ai princìpi dei diritti e di appelli emotivi alla compassione potesse rendere l’empatia moralmente efficace. I critici dell’epoca e molti critici attuali risponderebbero che è necessario stimolare un senso del dovere religioso superiore perché l’empatia funzioni. A loro parere, gli esseri umani non sono in grado di vincere da soli la loro innata propensione all’apatia o al male. [...] Adam Smith si concentra su una sola questione quando in realtà le questioni sono due. Smith esamina l’empatia con persone che vivono lontane come se appartenesse alla stessa categoria dei sentimenti che proviamo per le persone a noi vicine, pur riconoscendo che ciò con cui ci confrontiamo direttamente ci spinge ad agire molto più
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di quanto non facciano i problemi di persone lontane. Le due questioni sono quindi: che cosa ci può motivare ad agire sulla base dei sentimenti che proviamo per persone lontane e che cosa fa venire meno la compassione, al punto che riusciamo a torturare, mutilare e persino uccidere le persone a noi più vicine? Distanza e vicinanza, sentimenti positivi e sentimenti negativi: tutti devono far parte dell’equazione. Lynn Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, trad. di P. Marangon, Laterza, Bari-Roma 2018, pp. 8, 171-173
COMPRENSIONE E ANALISI 1. Quali documenti redatti nell’epoca moderna possono considerarsi fondamentali nel processo di riconoscimento dei diritti umani? 2. Spiega la relazione che intercorre fra il riconoscimento dei diritti umani e l’empatia. 3. L’autrice riconosce come proprio della società contemporanea un paradosso, di cosa si tratta? 4. Quale limite viene attribuito alla tesi di Adam Smith sulle cause che limitano l’empatia?
PRODUZIONE Lynn Hunt promuove una discussione di estremo interesse: a partire dal Settecento, l’Occidente si è dotato di strumenti normativi che riconoscono l’esistenza dei diritti dell’uomo in quanto tale e la tutela e difesa di tali diritti. La violazione dei diritti dell’uomo ci colpisce, in quanto, uomini noi stessi, siamo portati a immedesimarci nelle sofferenze dei nostri simili. Ma la riprovazione non sempre conduce ad un’azione di difesa a favore di chi soffre e, soprattutto, l’empatia non frena le guerre. Perché? La domanda resta aperta, l’autrice non fornisce una soluzione. Prova a riflettere sul tema e a ipotizzare una possibile risposta alla domanda. Organizza quindi le tue argomentazioni in un testo organico che dia adeguata evidenza alla tua tesi e agli elementi a supporto. Puoi anche confutare opinioni discordi dalla tua, ma non rinunziare alla coesione.
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Mondo rurale e classi dirigenti nella storia d’Italia Nel Volgo disperso Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ripercorre la storia del mondo contadino nell’Italia dell’Ottocento. Nel brano proposto riflette sulle ragioni di una dimenticanza: nella storia,
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quella costituita dalle fonti scritte e iconografiche, il mondo rurale ha trovato scarsa menzione. Gli umili contadini furono nei fatti ignorati dalla cultura dominante: perché privi dei mezzi per farsi conoscere o per il timore che suscitavano?
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Nelle campagne italiane abbiamo visto di recente tornare i contadini. Assomigliano a quelli del millennio testé concluso: magri, stracciati, a piedi scalzi. Lavorano come allora, dieci o dodici ore nelle infuocate ore dell’estate. Però, a ben guardare, delle differenze ci sono: molti di loro hanno la pelle più scura di quella dei contadini del tempo antico e le lingue che parlano sono quelle di paesi remoti. Differenze non così grandi da nascondere le somiglianze con i contadini di allora: questi arrivano in cerca di lavoro e di diritti, quelli se ne andavano spesso nel mondo cercando altrove lavoro e diritti che in Italia non avevano. Oggi non ci sono più quei mezzadri e quei braccianti che la Liberazione vide affollarsi ai seggi elettorali per godere finalmente di un diritto lungamente negato e per chiedere terra e giustizia sociale. Nelle campagne le viti e gli olivi sono curati da immigrati rumeni, senegalesi, nigeriani, cinesi. Figli e nipoti dei contadini di un tempo sono diventati altro – operai, commercianti, industriali, insegnanti, impiegati. Quel passato si allontana vertiginosamente, la memoria si cancella, nel mutamento che ha visto l’Italia diventare una grande potenza industriale. [...] Quali erano state le condizioni di vita dei lavoratori della terra in quel secolo XIX della formazione dell’Unità nazionale? Basta formulare la domanda per avere subito l’impressione di rivolgerci a un tempo lontanissimo, più di quanto possa dire un semplice conteggio degli anni. Remotissimi i volti, cancellate le voci e i pensieri. Nel mare di scritture conservate in archivi e biblioteche le tracce di mani contadine sono quasi soltanto segni di croce in calce a contratti colonici o stentati messaggi di figli emigrati. Scarse e in genere poco significative le fonti iconografiche. I pittori, gli incisori e a partire da un certo momento anche i fotografi, pur attirati dai paesaggi rurali, rappresentarono questi ultimi in genere lasciando fuori campo i contadini. [...] In realtà è difficile sostenere che i contadini europei non siano stati un soggetto storico attivo. Ma il modo in cui lo sono stati ha lasciato una scia di paura nella storia: le loro apparizioni sono sembrate ogni volta come il minaccioso risveglio di un gigante addormentato. Come dimenticare quella giaculatoria medievale che chiedeva a Dio protezione della furia dei «rustici»? E tanti altri ricordi si affacciano. [...] Quello dei contadini del Nord della Francia, protagonisti della premessa della Rivoluzione francese: ancora una vicenda storica sotto il nome della paura, la «grande peur». E non furono forse i contadini che, a partire da quello stesso scorcio del Settecento e nel primo Ottocento, assediarono le città con le insorgenze dell’Italia centro-settentrionale e i movimenti Sanfedisti dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli? La loro ombra restò sulla genesi dell’Unità d’Italia come quella di una grande forza capace di sconvolgere i disegni dei potenti: si pensi a quando l’arrivo in massa dei contadini in soccorso alla Milano in rivolta contro gli Austriaci spaventò la classe dominante lombarda che preferiva la garanzia d’ordine promessa dalla monarchia piemontese.
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Con la vittoria dei moderati nacque un assetto statale dominato dalla sacralizzazione del diritto di proprietà, timoroso di ogni contagio di idee rivoluzionarie tra le classi subalterne. [...] Ai movimenti reali o temuti delle masse contadine si guardò come all’incombere di una minaccia da esorcizzare con ogni mezzo. Intanto, il rapporto città-campagna, un tema capitale della storia d’Italia, si fissò stabilmente nell’immagine dell’Italia come paese delle cento città. [...] Di fatto, a partire dall’Unità politica il nodo città-campagna doveva emergere come quello del rapporto tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno, questione di lunga durata del paese. Adriano Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Einaudi, Torino 2019, ed. digitale
COMPRENSIONE E ANALISI 1. Sintetizza i termini del confronto (differenze e somiglianze) attuato dall’autore fra i contadini che popolano le campagne italiane ai nostri giorni e quelli che le popolavano diversi decenni fa. 2. Perché, pur essendo l’agricoltura la principale fonte di sostentamento degli italiani della civiltà pre-industriale, scarse sono le testimonianze e le tracce del mondo rurale, sia nelle fonti scritte che in quelle iconografiche? 3. Adriano Prosperi ripercorre vari eventi della storia europea nei quali la presenza della classe contadina ha avuto un ruolo di primo piano. Prova a ricordare le cause connesse alla rivolta contadina nella Francia del 1789 e a quella dei Sanfedisti nell’Italia del 1799. 4. Perché la «sacralizzazione del diritto di proprietà» (rr. 39-40) nell’Italia post-unitaria si collega al timore di sommosse da parte della popolazione contadina?
PRODUZIONE «Il complesso del comparto agroalimentare, che include agricoltura, silvicoltura e pesca e l’industria alimentare – scrive l’Istat nel rapporto sull’andamento dell’economia agricola del 2018 –, ha segnato una crescita del valore aggiunto dell’1,8% in volume e dell’1,3% a prezzi correnti. Nel comparto si è formato il 3,9% del valore aggiunto dell’intera economia, somma di una quota del 2,1% del settore primario e dell’1,8% dell’industria alimentare. I redditi da lavoro dipendente in agricoltura silvicoltura e pesca sono aumentati del 4,2%; in particolare le retribuzioni lorde sono cresciute del 4,0%. Gli investimenti fissi lordi nel settore hanno registrato un significativo incremento (+4,1% in valori correnti e +2,5% in volume)». C’è un ritorno alla terra dopo decenni di dimenticanza? Cosa ha contribuito a favorire questa crescita? Una ritrovata redditività non potrebbe contribuire a far decrescere lo sfruttamento dei lavoratori della terra di cui ancora oggi registriamo varie testimonianze? L’agricoltura può rappresentare davvero una leva per migliorare l’economia del nostro paese? Quali caratteristiche dovrebbe avere il nuovo imprenditorecontadino del XXI secolo rispetto alle classi rurali che hanno dominato la nostra storia? Rifletti sul tema proposto, puoi far riferimento a tue conoscenze ed esperienze personali, sviluppa quindi un testo di natura argomentativa che risulti organico e coeso.
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Analisi e produzione di un testo argomentativo
In difesa dell’Illuminismo, nel XXI secolo Steven Pinker è scienziato cognitivo e professore di Psicologia all’Università di Harvard. In Illuminismo adesso, l’autore dimostra, dati alla mano, come la società attuale si trovi in una condizione di benes-
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sere ben maggiore rispetto a quelle delle epoche precedenti grazie anche alla diffusione delle idee illuministe. Esistono, tuttavia, dei segni di declino preoccupanti che vanno identificati e conosciuti.
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Che cos’è l’Illuminismo? In un saggio del 1784 che aveva questa domanda come titolo, Immanuel Kant rispose che esso consiste nell’«uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso», dalla sua «pigrizia e viltà» nel sottomettersi alle «regole e formule» dell’autorità religiosa o politica. Il motto dell’Illuminismo, proclamava Kant, è «Sapere aude!», «Osa comprendere!», perciò la sua rivendicazione fondante è la libertà di pensiero e di parola. [...] Chi potrebbe essere contro la ragione, la scienza, l’umanesimo o il progresso? Le parole sembrano accattivanti, gli ideali ineccepibili. Definiscono le missioni di tutte le istituzioni della modernità: scuole, ospedali, enti benefici, agenzie di stampa, governi democratici, organizzazioni internazionali. Davvero questi ideali hanno bisogno di una difesa? Assolutamente sì. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la fiducia nelle istituzioni della modernità si è progressivamente ridotta, e il secondo decennio del XXI secolo ha visto l’ascesa di movimenti populisti che ripudiano platealmente gli ideali dell’Illuminismo. [...] Lungi dall’avere radici in ambienti popolari o dal veicolare il risentimento degli ignoranti, il disprezzo per la ragione, la scienza, l’umanesimo e il progresso ha un’origine di vecchia data nella cultura popolare e artistica dell’élite. [...] La mia principale reazione alla pretesa che l’Illuminismo sia l’ideale ispiratore dell’Occidente è: magari fosse vero! L’Illuminismo fu ben presto seguito da un contro-Illuminismo, e l’Occidente da allora è sempre stato diviso. Gli uomini non avevano quasi fatto in tempo ad affacciarsi alla luce e già veniva loro suggerito che, dopotutto, l’oscurità non era così male, che dovevano smettere di osare comprendere così tanto, che i dogmi e le formule meritavano un’altra possibilità, e che il destino della natura umana non era il progresso bensì il declino. Il movimento romantico si oppose con particolare durezza agli ideali illuministici. Rousseau, Johann Herder, Friedrich Schelling e altri negavano che la ragione potesse essere separata dall’emozione, che gli individui potessero essere considerati indipendentemente dalla loro cultura, che le persone dovessero fornire ragioni delle loro azioni, che i valori fossero validi in tutti i tempi e luoghi, e che pace e prosperità fossero fini desiderabili. Un essere umano è una parte di un tutto organico – di una cultura, di una razza, di una nazione, di una religione, di uno spirito o di una forza storica – e le persone dovrebbero incarnare in modo creativo l’unità trascendente di cui fanno parte. La lotta eroica, e non la soluzione dei problemi, è il bene supremo, e la violenza è inerente alla natura e non può essere soffocata senza svuotare la vita della sua vitalità. «Ci sono soltanto tre esseri degni di rispetto», scriveva Charles Baudelaire «il prete, il guerriero e il poeta. Conoscere, uccidere e creare». Sembra assurdo ma nel XXI secolo questi ideali contro-illuministici continuano a essere in auge in una gamma sorprendente di movimenti culturali e intellettuali d’élite. L’idea che dovremmo applicare la nostra ragione collettiva all’accrescimento
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della prosperità e alla riduzione della sofferenza è considerata grossolana, ingenua, conformista, da rammolliti. Steven Pinker, Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso, trad. di T. Cannillo, Mondadori, Milano 2018, ed. digitale
COMPRENSIONE E ANALISI 1. 2. 3. 4.
Quali ideali propri del pensiero illuminista sono, secondo l’autore, messi in dubbio nell’epoca contemporanea? Quando è iniziato il processo contro-illuminista nella società occidentale? Quali contro valori si sono così affermati? In quali fasce sociali, oggi come in passato, ha trovato diffusione la cultura contro-illuminista? Prova a schematizzare la struttura del brano proposto ponendo in rilievo gli snodi argomentativi.
PRODUZIONE La tesi di Steven Pinker può essere dibattuta. Siamo veramente in un’epoca che tende a svalutare la scienza e l’uso della ragione? Eppure gli studi scientifici e tecnologici hanno prodotto risultati inimmaginabili fino a qualche decennio orsono, in campi direttamente connessi al miglioramento della vita dell’uomo. Quali segni oscurantisti si possono scorgere allora, e perché? Rifletti sul tema proposto ed elabora un testo argomentativo nel quale la tua tesi sia supportata da adeguati esempi. Puoi far riferimento alle tue conoscenze personali o di studio.
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Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità • Prova guidata
Essere in grado di competere con gli strumenti della storia
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Ogni documento – come ha ribadito con forza Le Goff1 – non è mai innocente e può essere anche falso. Infatti è il risultato di un montaggio, conscio o inconscio, della storia, dell’epoca e delle società che lo hanno prodotto, ma anche delle epoche e delle società successive, «durante le quali ha continuato a vivere, magari dimenticato, e durante le quali ha continuato a essere manipolato, magari dal silenzio». Non bisogna mai dimenticare che «il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di se stesse». Non può esserci un documento-verità, «ogni documento è menzogna. Sta allo storico non fare l’ingenuo». Stando così le cose, alla fin dei conti lo storico non può fare a meno di essere un po’ poliziotto (colui che ricerca gli indizi) e un po’ giudice (colui che interpreta le prove); sia gli storici sia i giudici «entrano in rapporto con fatti di cui non sono testimoni diretti» ma che «apprendono attraverso la mediazione di altri»: nel caso dello storico i mediatori sono coloro che hanno costruito e manipolato le fonti, nel caso del giudice la mediazione sta nel lavoro di chi ha raccolto la versione dei fatti. Paolo Sorcinelli, Viaggio nella storia sociale, Bruno Mondadori, Milano 2009
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Jacques Le Goff, Storia e memoria, a cura di F. Lusini, Einaudi, Torino 1996.
PRODUZIONE Paolo Sorcinelli, già professore di Storia sociale all’Università di Bologna, riflette sul mestiere dello storico a partire dalle parole di Jacques Le Goff: lo storico come poliziotto nella ricerca dei dati e giudice nell’interpretarli. Nell’era dell’accesso, in cui le fonti si moltiplicano (social, post, video, blog), il compito di ricerca e selezione delle informazioni diviene impervio, non solo per coloro che mirano a ricostruire il passato, ma anche per tutti coloro che cercano di conoscere e interpretare il presente. L’attitudine a selezionare e giudicare le fonti diventa vitale in un mondo iperconnesso nel quale i dati informativi si moltiplicano. Non dovremmo quindi disporre degli strumenti dell’indagine storica per essere in grado di interpretare correttamente il presente? Le competenze dello storico coincidono con quei saperi – ricercati e ben remunerati – propri del data analyst del XXI secolo? Rifletti sul tema proposto ed elabora un testo di natura argomentativa nel quale la tua tesi e gli elementi a supporto siano esposti in forma organica e coesa.
GUIDA ALLO SVOLGIMENTO Le ragioni per studiare la storia possono essere molteplici, ma riflettiamo mai sulle ragioni per le quali conoscere i fatti potrebbe essere importante almeno quanto comprendere come studiarli? Possedere il metodo di ricerca, analisi, interpretazione e confronto dei dati che è alla base del lavoro dello storico è una competenza che può essere applicata in una moltitudine di contesti di studio e lavorativi della nostra società contemporanea. Perché possiamo avanzare questa affermazione? In quali campi queste competenze possono risultare utili? Quali punti di contatto e di divergenza esistono fra un mestiere – quello dello storico – che è percepito spesso come distante dalla modernità e le professioni del futuro? Per sviluppare il tema proposto rifletti a partire da queste domande e procedi con il metodo inquisitivo, ponendoti altre domande che ne derivino e provando a fornire delle risposte. Elabora quindi una scaletta che tenga conto delle tue considerazioni e sia supportata da esempi. Organizza il tuo pensiero in un elaborato che risulti organico e coeso. Puoi suddividere il testo in paragrafi e fornire all’esposizione un titolo che rappresenti la sintesi della tua riflessione sul tema.
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Rifl essione critica di carattere espositivo-argomentativo 2 su tematiche di attualità
Al principio degli anni Quaranta [dell’Ottocento], uno dei più potenti veicoli di diffusione dell’idea nazionale era la musica. L’opera era una passione da un capo all’altro della penisola, e attirava tutte le classi. Le recite serali delle ultime opere di Donizetti1, Mercadante2 o Ricci3 erano le uniche occasioni in cui le autorità permettevano regolarmente al pubblico di manifestare un sentimento collettivo. I teatri erano microcosmi della società urbana. I palchi appartenevano all’aristocrazia e, come nei salotti, vi era molto forte la presenza femminile. L’area delle poltrone di platea assomigliava a una piazza: affollata da studenti, soldati, mercanti e professionisti della classe media, era un mondo quasi esclusivamente maschile. In alto, in piccionaia, quasi celate alla vita, c’erano le classi più povere: artigiani, piccoli commercianti, bottegai e servitori. Il fracasso e la confusione erano ininterrotti, e mancava il più piccolo segno di quel silenzio reverenziale che nell’Europa settentrionale stava diventando la norma nelle sale dedicate ai concerti sinfonici. [...] I governi della Restaurazione s’erano energicamente impegnati a promuovere gli spettacoli d’opera e la frequentazione dei teatri. Nei decenni post-1815 furono costruiti in Italia, soprattutto nel Nord e nel Centro, più di 600 nuovi teatri. La spinta era in parte civica, una continuazione dell’idea napoleonica che i pubblici divertimenti fossero un buon mezzo per incoraggiare i legami sociali in un ambiente controllato, adatto altresì a tenere la gioventù maschile lontana dalle strade e fuori dalle taverne nelle ore notturne. I censori badavano a che i testi non contenessero materiale sovversivo, e la polizia teneva strettamente d’occhio la platea e le gallerie per prevenire tumulti. Inoltre il fatto che di solito i teatri principali fossero dedicati a membri della famiglia reale e godessero del patrocinio del sovrano e della sua corte era considerato politicamente vantaggioso: il principe e i suoi sudditi erano uniti nello svago. Il problema era che un ambiente che nei tempi tranquilli incoraggiava le pubbliche manifestazioni di fedeltà e obbedienza, in un clima meno favorevole poteva tramutarsi velocemente in una tribuna per le proteste. Un rovesciamento del genere avvenne negli anni Quaranta, quando il giovane Giuseppe Verdi colse alla perfezione il montare in Italia di uno stato d’animo fiduciosamente, vigorosamente patriottico. Può darsi che i sentimenti personali di Verdi per l’«Italia» non fossero fortissimi: le testimonianze al riguardo scarseggiano, e per tutta la vita restò attaccato innanzitutto al grigio, piatto paesaggio agricolo intorno a Busseto, nel contado di Parma, dov’era nato (tecnicamente, cittadino francese) nel 1813. Ma aveva un’acuta percezione, condivisa dai suoi editori, di ciò che il pubblico voleva, e l’uno e gli altri sceglievano con grande scaltrezza le strategie da impiegare per scongiurare l’intervento dei censori. Nabucco (1842), con il suo tema di un popolo asservito che brama la libertà e il grande coro patriottico «Va’ pensiero» («Oh, mia patria sì bella e perduta»), evitò la matita blu grazie in parte all’«ortodossa» ambientazione religiosa;
Gaetano Donizetti, musicista e celebre operista vissuto fra il 1797 e il 1848. Saverio Mercadante, violinista, direttore d’orchestra e compositore, la sua data di nascita è
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incerta: sembra sia nato a Napoli nel 1797; è morto – sempre a Napoli – nel 1870. I fratelli Luigi (1805-1859) e Federico Ricci (1809-1877) furono compositori italiani.
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e lo stesso vale probabilmente per l’opera successiva di Verdi, I Lombardi alla prima crociata (1843), il cui successo fu quasi altrettanto grande, e che era dedicata a Maria Luisa d’Austria (forse per assicurarsi un supplemento di protezione contro una possibile accusa di convinzioni sovversive). [...] Ma ciò che negli anni Quaranta fece dell’opera un così potente veicolo di diffusione dei sentimenti nazionali non erano tanto le intenzioni dei compositori, quanto la reattività del pubblico (o di parti del pubblico), pronto a imporre una lettura politica dei libretti e a trasformare gli spettacoli in occasioni di dimostrazioni patriottiche. E a questo riguardo i censori potevano fare ben poco, specialmente nel 1846-48, quando ovunque nella penisola i governi dovettero piegarsi davanti all’onda di marea dell’euforia liberale. Già alla prima rappresentazione dei Lombardi (1843) il verso che incita i crociati alla battaglia contro gli infedeli – «La santa Terra / Oggi nostra sarà» – fu accolto da grida di «Sì! Sì!» e da fragorosi applausi. E a metà degli anni Quaranta praticamente ogni allusione alla «patria» o alla «guerra» rischiava di scatenare reazioni analoghe, anche nel caso di opere in cui in precedenza non era stato scorto nessun significato politico. Un esempio è la Norma di Bellini (1831), che nel 1846-47 diventò improvvisamente un’opera «patriottica» (spicca a questo riguardo il coro dei Druidi, che insieme con Oroveso intona «Guerra, guerra!»), malgrado gli oppressori fossero gli antichi romani. Accadeva talvolta che l’entusiasmo tracimasse dal teatro nelle strade (probabilmente con l’aiuto di un precedente lavoro organizzativo), come avvenne a Palermo nel novembre 1847, quando un’aria della donizettiana Gemma di Vergy (1834), che conteneva le parole «mi togliesti e core, e mente, / patria, nome, e libertà», suscitò una tempesta di applausi e violenti scontri con la polizia. Probabilmente i due versi erano sfuggiti all’attenzione dei censori perché si trattava di una storia d’amore, gelosia e vendetta, all’apparenza totalmente priva di risonanze politiche.
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Christopher Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, trad. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 174-177
PRODUZIONE L’ascolto dell’opera fu un importante veicolo di diffusione e di manifestazione dei nascenti sentimenti patriottici nella penisola della prima metà dell’Ottocento. La musica svolge ancora un ruolo, se non di natura politica, quantomeno sociale? Esistono musiche o canzoni in grado di produrre una maggior coesione sociale nel nostro paese? La nostra identità come popolo italiano si trasmette ancora anche attraverso la musica? Rifletti sul tema proposto e componi un testo di natura espositiva-argomentativa nel quale i dati e la tua tesi siano esposti in forma organica e coesa.
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La diminuzione – non percepita – della violenza nel mondo contemporaneo
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Ci crediate o no, e so che la maggior parte di voi non ci crede, nel lungo periodo la violenza è diminuita, e oggi viviamo probabilmente nell’era più pacifica della storia della nostra specie. Di certo tale diminuzione non è stata uniforme, non ha azzerato la violenza e non è garantito che continui. Ma è un fatto indubbio, visibile su scale che vanno da millenni ad anni, dalle dichiarazioni di guerra alle sculacciate ai bambini. Il declino della violenza ha toccato ogni aspetto della vita. L’esistenza quotidiana cambia molto se si è assillati dalla preoccupazione di essere rapiti, violentati o uccisi, ed è difficile sviluppare arti raffinate, studi o commerci se le istituzioni che li supportano sono saccheggiate e messe a ferro e fuoco in un tempo uguale a quello che è servito per allestirle. La traiettoria storica della violenza non tocca soltanto lo stile di vita, ma anche il modo di concepirla. Che cosa può esserci di più fondamentale, per la nostra idea di senso e di scopo, della risposta alla domanda se gli sforzi del genere umano, nel lungo periodo, ci abbiano lasciato in condizioni migliori o peggiori? [...] Possiamo vedere il mondo attuale come un incubo di criminalità, terrorismo, genocidio e guerra, o viceversa come un periodo che, sul metro di misura della storia, è benedetto da livelli di pacifica coesistenza senza precedenti. [...] [Alcuni esempi] La rivolta etnica mortale non è un’invenzione del XX secolo. Pogrom è una parola russa che, in origine, indicava le sommosse antiebraiche frequenti nel XIX secolo nella Zona di residenza, area di insediamento coatto creata nel 1791 per gli ebrei dell’impero russo; e tali sommosse non rappresentavano che l’ultima ondata di un millennio di massacri intercomunitari di ebrei in Europa. Nel XVII e XVIII secolo, in Inghilterra, scoppiarono centinaia di rivolte mortali contro i cattolici che, fra altre misure, portarono a una legge, il Riot Act, che un magistrato era tenuto a leggere in pubblico alla folla inferocita minacciando di pena capitale chiunque non si fosse subito disperso. Nel mondo anglofono questo metodo di controllo delle rivolte è ricordato nell’espressione «leggere il Riot Act»1. Anche gli Stati Uniti hanno una lunga storia di violenza intercomunitaria. Nel XVII, XVIII e XIX secolo fu preso di mira da rivolte mortali pressoché ogni gruppo religioso, dai pellegrini ai puritani, ai quaccheri, ai cattolici, ai mormoni e agli ebrei, oltre a comunità di immigrati quali tedeschi, polacchi, italiani, irlandesi e cinesi. E la violenza intercomunitaria contro alcune popolazioni di nativi d’America fu così estrema da potere essere definita genocida. Se il governo federale non perpetrò nessun palese genocidio, procedette più volte a pulizie etniche. La deportazione forzata di «cinque tribù civilizzate» dalle loro terre nel Sudest all’attuale Oklahoma lungo il cosiddetto «Sentiero delle lacrime» provocò la morte per malattie, fame ed esposizione alle intemperie di decine di migliaia di esseri umani. Ancora negli anni Quaranta del secolo scorso 100.000 americani di origine giapponese furono chiusi in campi di concentramento, semplicemente perché appartenevano alla stessa razza della nazione con cui gli Stati Uniti erano in guerra. Ma a subire più a lungo, negli Stati Uniti, una violenza intercomunitaria e assecondata dal governo sono stati gli afroamericani. [...]
L’espressione indica l’atto di redarguire duramente qualcuno, fornendo un severo ammonimento.
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In Europa le rivolte di ogni genere iniziarono a diminuire verso la metà del XIX secolo, mentre negli Stati Uniti le rivolte mortali cominciarono a scemare sul finire del secolo e, negli anni Venti, erano ormai avviate a un definitivo tramonto. [...] Linciaggi e rivolte razziali sono diminuiti anche per altri gruppi etnici e in altri paesi. Gli attacchi dell’11 settembre e gli attentati di Londra e Madrid furono esattamente il tipo di provocazioni simboliche che, in decenni precedenti, avrebbero potuto portare in tutto il mondo occidentale a sommosse antimusulmane. Invece non ve ne furono, e nel 2008 un rapporto sulla violenza contro i musulmani, redatto da un’organizzazione per i diritti umani, non poté citare in Occidente un singolo caso inequivocabile di morte dovuta a odio antimusulmano.
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Steven Pinker, Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, trad. di M. Parizzi, Mondadori, Milano 2013, ed. digitale
PRODUZIONE
Il declino della violenza di Steven Pinker, scienziato cognitivo e professore all’Università di Harvard, è un testo che ha suscitato pareri contrastanti. A fronte di coloro che si affidano alla innumerevole quantità di dati che l’autore raccoglie e avvalorano la tesi che sì, è vero, viviamo nell’epoca più pacifica della storia, si pongono quanti ne criticano la tendenza a trasformare dati oggettivi (la diminuzione di morti violente) in valori. Sta di fatto che le sue parole suscitano un dibattito che è bene approfondire: viviamo davvero in un mondo che ha dimostrato di disattendere l’uso della violenza per la risoluzione dei conflitti, oppure no? Il fatto che ogni giorno balzino alla cronaca fatti connessi alla discriminazione di genere è segno di civiltà (sono pochi e li notiamo) oppure di un perdurare della violenza nel nostro quotidiano? Siamo davvero migliori dei nostri padri? Rifletti sul tema proposto e organizza il tuo pensiero in un testo di natura argomentativa in cui la tesi sia sostenuta da prove a supporto. Puoi far riferimento a conoscenze di studio e personali, smentire i pareri contrari al tuo punto di vista, presta però sempre attenzione alla coesione interna del testo facendo un corretto uso dei connettivi e, eventualmente, dell’articolazione in paragrafi.
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Glossario
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GLOSSARIO A
E
M
S
accaparramento speculativo, 28 acciaio, 445 amish, 172 anarchismo, 294 animismo, 527 autocrazia, 495
ecosistema, 143 egemonia, 22 emendamento, 184 enciclica, 439 esotismo, 146 extraterritorialità, 552
B boicottaggio, 176 bucaniere/filibustiere, 132
famiglia, 4 fedecommesso, 211 filantropia, 18
macchine utènsili, 243 mandarino, 120 melassa, 136 mezzadria, 8 millet, 114 monopolio, 445 monopolio della forza legittima, 282 monopolio, 43 movimento operaio, 293
C
G
calmiere, 205 capitalismo, 292 cartello/trust, 445 catasto, 70 censimento, 3 collegio uninominale, 544 collettivismo, 134 colpo di Stato, 205 commessa, 444 compagnia commerciale, 130 Comune, 485 confederazione/ federazione, 182 cooperative di consumo, 293 creolo, 337
gabella, 8 generi coloniali, 13 geopolitica, 37 ghigliottina, 201 ghisa/altoforno, 247 Gran Bretagna, 33 guerre franco-indiane, 175 guerriglia, 218
samurai, 123 sciiti/sunniti, 118 secessione, 499 segregazione razziale, 499 seminativo, 392 separatismo, 350 settore terziario, 539 sinistra, centro, destra, 201 sistema delle caste, 120 socializzazione, 437 società civile, 291 società per azioni, 427 società/famiglia patriarcale, 422 sovranità popolare, 61 spesa pubblica, 555 statistica, 283 Stato accentrato, 220 stato civile, 211 statuto, 360 suffragio universale/ suffragio censitario, 183 svalutazione della moneta, 6
D
L
deficit pubblico, 195 democrazia teocratica, 174 demografia, 2 distillazione del carbon fossile, 246 domicilio coatto o confino, 563
lavoro salariato, 240 lealista, 338 Legge salica, 35 legittimismo, 306 libbra, 245 libertà in negativo/libertà in positivo, 290
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F
I idealismo, 285 Indice dei libri proibiti, 53 indio, 337 induismo, 119
J Junker, 480
N nobiltà di spada/nobiltà di toga, 23
O oscurantismo, 61
P pamphlet, 57 patria/nazione, 287 pellagra, 540 petrolio, 447 piante industriali, 392 pila/dinamo, 447 plebiscito, 214 pool, 445 principe elettore, 39 prodotto interno lordo (Pil), 539 produttività, 3 produzione/produttività, 242 proletariato, 297 protettorato, 511 puddellaggio, 246 puritani, 172
R reazionario, 291 religione naturale, 57 resa, 11 rotazione triennale, 10
T taglia, 8 tasso di natalità/ mortalità, 3 telegrafo, 428 titolo di Stato, 195 transazione finanziaria, 428 transumanza, 393
U ultrarealisti/ultras, 316 urbanesimo/ urbanizzazione, 431
W Whigs/Tories, 32
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Indice dei nomi
INDICE DEI NOMI
Avvertenza Sono in corsivo i numeri di pagina che rimandano alle didascalie delle immagini.
A
B
AbbƗs I il Grande, scià di Persia, 118. Abbattista, Guido, 172, 182, 266, 267, 273. Abdulcelil Çelebi Levni, 167. Adams, John, 178-179, 179, 180. Akbar, sovrano moghul, 120. Albert, Alexandre Martin, detto, 323. Alberti, Leon Battista, 4. Alberto di SassoniaCoburgo, 494. Alekseev, Fëdor, 42. Alessandro I Romanov, zar di Russia, 218, 308, 334, 488. Alessandro II Romanov, zar di Russia, 42, 496, 508-509. Alessandro III Romanov, zar di Russia, 48. Alfieri, Vittorio, 348, 371. Alì, 118. Allen, Robert C., 243, 246, 274, 276. Alula, ras d’Etiopia, 558. Amman, Jacob, 172. Andrews, Robert, 11. Angeli, Heinrich von, 495. Angiò, dinastia, 368. Anna d’Asburgo, regina consorte di Francia, 22. Anna Stuart, regina d’Inghilterra, 33. Appert, Ernest-Eugène, 486. Arabi Pascià, 515, 532. Ariès, Philippe, 95. Arkwright, Richard, 171, 243, 243, 256, 277-278. Armellin, Bruno, 138. Armellini, Carlo, 366. Arnold, David, 533. Arnout, Jules, 426. Asburgo, dinastia, 5, 15, 22, 26-27, 35, 37, 49, 72, 116, 170, 333. Ashurst Stansfeld, Caroline, 416. Ashurst Venturi, Emilia, 416. Aurangzeb, sovrano moghul, 120.
Babbage, Charles, 462. Babeuf, François-Noël, 207, 235, 237. Babur il Conquistatore, 118. Bailly, Jean Sylvain, 193. Bakunin, Michail, 294, 437438, 438, 440, 442, 485, 559. Balbo, Cesare, 357, 359. Ballantyne, Tony, 523, 580, 583-584. Bandiera, Attilio, 356, 368, 372. Bandiera, Emilio, 356, 368, 372. Banks, Joseph, 142. Banti, Alberto Mario, 357, 407-408, 418. Barbagallo, Francesco, 511, 590-592, 595. Barbagallo, Lina, 565. Barbagli, Marzio, 2. Barras, Paul, 207. Barrett Browning, Elizabeth, 416. Bassi, Ugo, 408. Bayer, Friedrich, 450. Bayle, Pierre, 57, 106. Beales, Derek, 388, 407, 415. Beauharnais, Eugenio, 218. Beccaria, Cesare, 1, 66, 73, 79-80, 102, 105, 358. Becker, Gary, 86. Bell, Alexander Graham, 449. Bellavitis, Anna, 93, 96. Bellini, Gentile, 167. Bellini, Vincenzo, 625. Bentham, Jeremy, 76. Bentinck, William, 534. Benz, Carl Friedrich, 446. Béraud, Jean, 421. Berchet, Giovanni, 368, 408. Bernard, Émile, 530. Bertani, Agostino, 555. Bertaux, Jacques, 201. Bertry, Nicolas Henri Jeaurat de, 196. Betts, Raymond F., 575-576, 580. Bevilacqua, Piero, 392-393. Biagini, Eugenio Federico, 388, 407, 415. Billaud-Varenne, JacquesNicolas, 264. Binelli, Carlo, 375.
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Bismarck, Herbert von, 483. Bismarck, Otto von, 417, 456, 477, 481, 481, 482, 482, 483, 485-488, 488, 489-490, 508-509, 512, 517, 550-551, 557, 564. Bixio, Nino, 384-385, 550, 593. Black, Joseph, 244. Blanc, Louis, 294, 301, 303, 323, 333. Blanqui, Auguste, 294-295, 301. Bloch, Marc, 103. Blondel, Merry-Joseph, 310. Bobbio, Norberto, 102, 290, 398, 406. Bockmann, A., 482. Bodmer, Karl, 182. Bolívar, Simón, 336-339, 339, 340, 341, 346-347. Bonaparte, Giuseppe, 221, 221. Bonaparte, Luigi Napoleone, vedi Napoleone III. Borbone, dinastia, 26-27, 36-37, 43-44, 48, 61, 73, 87, 212, 212, 218, 221, 221, 224, 238, 269, 306, 308, 316-317, 333-334, 364, 383, 391, 415, 491, 565, 599. Boucher, François, 147. Boulanger, Georges, 492, 509. Boulton, Matthew, 245. Braudel, Fernand, 110, 393, 533. Brecht, Bertolt, 53. Bridgewater, Francis Egerton, duca di, 241, 241. Bright, John, 493. Brissot, Jacques-Pierre, 198, 204, 207, 237, 263. Brockedon, William, 412. Brown, Ford Madox, 241. Brownscombe, Jennie Augusta, 174. Bruno, Giordano, 53, 274. Buffon, George-Louis Leclerc, conte di, 63, 64. Buhari, Abdullah, 167. Buonarroti, Filippo, 207, 209, 237. Burgo, Giovan Battista de, 169. Burke, Edmund, 208, 286.
Burton, Antoinette, 523, 580, 583. Byron, George Gordon, 282, 285, 315, 315, 398, 402-403.
C Cabet, Étienne, 295. Cadorna, Raffaele, 550. Cafagna, Luciano, 375, 407, 412, 418, 541. Cafiero, Carlo, 559. Cammarano, Fulvio, 559. Cammarano, Michele, 551, 559. Campi, Alessandro, 398, 403-404. Canella, Giuseppe, 312. Cantù, Cesare, 357. Capponi, Gino, 311, 356. Capuana, Luigi, 570. Caracalla, imperatore romano, 568. Caracciolo, Francesco, 212. Cardigan, James Brudenell, conte di, 478. Cardini, Franco, 165, 169. Carducci, Giosuè, 549. Carlo I Stuart, re d’Inghilterra, 31, 101. Carlo II d’Asburgo, re di Spagna, 26. Carlo II Stuart, re d’Inghilterra, 29, 33, 48, 100, 192. Carlo III di Borbone, re di Napoli e re di Spagna, 74, 597. Carlo V, re di Spagna, 348. Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero, 27, 104. Carlo V di Lorena, 116. Carlo VI d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero, 27, 35. Carlo X di Borbone, re di Francia, 193, 316-317, 327, 332, 335. Carlo XII, re di Svezia, 41. Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna, 361, 371. Carlo Emanuele III di Savoia, re di Sardegna, 36. Carlo Felice di Savoia, re di Sardegna, 350, 371. Carlo Magno, imperatore del Sacro romano impero, 484.
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Indice dei nomi
Carlyle, Thomas, 513. Caroli, Rosa, 505, 584, 588, 590. Carra, Jean-Louis, 264. Cartesio (René Descartes), 53. Cartwright, Edmund, 243, 246, 256. Casati, Gabrio, 543, 545, 554, 566, 572-573. Castaldi, Andrea, 353. Castro, José Gil de, 339. Caterina II, zarina di Russia, 1, 40, 41, 42, 48, 69, 71, 79-81, 88, 280. Cattaneo, Carlo, 357-359, 362, 371-372, 386, 407, 411412, 416, 418, 544. Cavallari, Alberto, 429, 449, 471, 475-476. Cavallotti, Felice, 555. Cavour, Camillo Benso, conte di, 281, 355, 374-375, 375, 376-377, 377, 378-380, 382-384, 386-387, 389-391, 407, 412-414, 416-418, 430, 506, 541-542, 548, 549, 551, 572, 594. ýechov, Anton, 495. Cellarius, Andrea, 52. Cenni, Quinto, 365. Cernuschi, Enrico, 366. Cézanne, Paul, 530. Chamberlain, Joseph, 494, 513, 521. Champin, Jean-Jacques, 323. Champollion, 233, 234. Chardin, Jean-BaptisteSiméon, 112. Chartier, Roger, 66. Chateaubriand, FrançoisAuguste-René de, 266, 270, 273, 285, 287. Châtelet, Gabrielle-Émilie, marchesa du, 60. Chávez, Hugo, 339. Chhatrapati Shivaji, sovrano indiano, 153. Chiantera-Stutte, Patricia, 575, 580. Cipolla, Carlo Maria, 274, 279-280. Ciriacono, Salvatore, 9. Clark, William, 179. Clavière, Étienne, 264. Clemenceau, Georges, 491492. Clemente XI (Giovanni Francesco Albani), papa, 103. Clemente XIV (Giovan Vincenzo Antonio Ganganelli), papa, 70.
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Cobden, Richard, 320. Colbert, Jean-Baptiste, 14, 22-23, 25, 48-50, 612-613. Coleridge, Samuel Taylor, 285. Collot d’Herbois, JeanMarie, 264. Colombo, Cristoforo, 337. Colombo, Giuseppe, 541, 595. Comte, Auguste, 424, 441. Confucio (K’ung fu Tzu), 120-121, 124. Constant, Benjamin, 217, 287, 289, 398-400, 406. Cook, James, 109, 140-141, 141, 142, 142. Cooper, W.D., 176. Copernico, Niccolò, 52-53. Coppino, Michele, 553, 554, 572, 574. Corday, Charlotte, 203. Cort, Henry, 171, 246. Cosmacini, Giorgio, 449. Costa, Andrea, 554, 559. Costaz, Louis, 462. Couder, Auguste, 230. Couthon, Georges, 205. Crispi, famiglia, 564. Crispi, Francesco, 355, 382383, 389, 416, 562-564, 564, 565, 565, 573-574, 579, 584, 586-587, 593. Crompton, Samuel, 243, 256, 277. Cromwell, Oliver, 29, 31, 49, 57, 192. Crosby, Alfred W., 130, 143. Crowe, Eyre, 250. Crowley, Ambrose, 277. Cunningham, Hugh, 5, 93, 95-96, 467, 469, 471. Cuoco, Vincenzo, 212, 212, 286. Curie, Ève, 449. Curie, Irène, 449. Curie (Skłodowska), Marie, 448-449, 449, 450. Curie, Pierre, 448-450.
D Daimler, Gottlieb, 446. d’Alembert, Jean-Baptiste, 1, 60. Damiens, Robert-François, 28, 28. Dante Alighieri, 286, 354, 615. Danton, Georges-Jacques, 197, 205, 207, 236-237, 264. Darwin, Charles, 419, 423424, 424, 425, 425, 440-441. Daumier, Honoré, 294.
David, Jacques-Louis, 5, 192, 215, 218, 234. Davis, Jefferson, 500. Dawson, George, 416. d’Azeglio, Massimo, 357, 359, 372, 374-375, 407, 410, 418. Debucourt, Louis-Philibert, 67. Defoe, Daniel, 68, 139, 146. Defrance, Léonard, 144. Delacroix, Eugène, 286, 289. Deledda, Grazia, 570. Della Gatta, Saverio, 212. De Nittis, Giuseppe, 421. Depretis, Agostino, 553-554, 554, 555, 557-558, 562, 572574, 586. Derby, Lord, 277, 493. De Roberto, Federico, 584, 587. De Sade, DonatienAlphonse-François, 193. Deseine, Claude-André, 203. Desmoulins, Camille, 197, 205, 207, 236, 264. Dewerpe, Alain, 436, 461463, 467. Dickens, Charles, 355. Diderot, Denis, 1, 40, 59, 60, 71, 74, 616. Diesel, Rudolf, 447. Disraeli, Benjamin, 492-493, 493, 494-495, 508-509, 511, 513. Doré, Gustave, 433, 467. Dostoevskij, Fëdor, 495. Douglass, Frederick, 496. Doyle, William, 15, 87, 89, 92. Ducos, Roger, 213. Duggan, Christopher, 366, 584, 586, 590, 625. Dunlop, John Boyd, 446. Durando, Giovanni, 364.
E Edison, Thomas Alva, 419, 447, 447, 449, 459, 472. Edoardo VII, re del Regno Unito, 495. Eiffel, Alexandre-Gustave, 197, 445, 458. Elgin, Thomas Bruce, 233. Elisabetta I, zarina di Russia, 40, 42, 48. Elisabetta II, regina del Regno Unito, 495. Engels, Friedrich, 239, 249, 281, 294-296, 301-303, 321, 334, 354, 398-399, 401-402, 406, 560.
630
Enrico IV di Borbone, re di Francia, 50, 57, 310. Epicuro, 106, 263. Erasmo da Rotterdam, 57. Erichsen, Virgilius, 41. Esopo, 521. Eugenio di Savoia, 43, 45.
F Farga i Pellicer, Rafael, 438. Farini, Luigi Carlo, 541. Faroqhi, Suraiya, 115, 165, 167. Fattori, Giovanni, 556, 571, 571. Favray, Antoine de, 111. Federico I Barbarossa, imperatore del Sacro romano impero, 99, 368. Federico II di Hohenzollern, re di Prussia, 1, 35-36, 38-39, 48, 51, 59, 69-70, 79, 81, 88, 102, 107, 391. Federico Guglielmo il Grande Elettore, 39, 48-49. Federico Guglielmo IV, re di Prussia, 326-327, 333, 494. Ferdinando I d’Asburgo, imperatore d’Austria, 314, 326, 349-350, 371, 597. Ferdinando II di Borbone, re delle Due Sicilie, 352, 360-362, 371. Ferdinando III di Lorena, 308, 311. Ferdinando VII di Borbone, re di Spagna, 309, 313. Fergola, Salvatore, 352. Ferrari, Giuseppe, 294, 357, 359, 372, 377. Ferry, Jules, 491, 492. Fichte, Johann Gottlieb, 222, 285, 287-288, 304. Filippo d’Orléans, reggente di Francia, 281, 327, 332, 485. Filippo di Borbone, 26, 36, 45. Filippo II, re di Spagna, 393. Filippo V, re di Francia, 35. Filippo V di Borbone, re di Spagna, 26, 36. Flesselles, Jacques de, 193. Folchi, Ferdinando, 348. Fonseca Pimentel, Eleonora de, 212. Fortunato, Giustino, 591. Foscolo, Ugo, 368, 408, 564. Foucault, Michel, 18, 87, 90-92.
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Indice dei nomi
Fourier, Charles, 293-294, 301, 303. Fournier-Sarlovèze, Joseph Raymond, 224. Francesco I di Lorena, imperatore del Sacro romano impero, 308. Francesco I, imperatore d’Austria, 104. Francesco II di Borbone, re delle Due Sicilie, 382, 384, 387, 598-599. Francesco IV d’AsburgoEste, 308, 350-351, 371. Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, 326, 333, 488, 508, 558. Franchetti, Leopoldo, 591. Franklin, Benjamin, 71, 179, 180-181, 268. Friedman, Milton, 319. Fuller, Margaret, 416. Fulton, Robert, 251. Furet, François, 198, 258, 263-265.
G Gainsborough, Thomas, 11. Galdi, Matteo Angelo, 211. Galiani, Ferdinando, 71. Galilei, Galileo, 1, 52-53, 53, 54, 79-80. Gambetta, Léon, 484, 492. Gambogi, Raffaello, 556. Garavaglia, Gianpaolo, 30-31, 97, 99-101. Gardner, Alexander, 498. Garibaldi, Anita (Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva), 363, 386, 414417. Garibaldi, Giuseppe, 281, 281, 355, 361-363, 365-366, 368, 374, 378, 380, 382-383, 383, 384-385, 385, 386-387, 389, 391, 407-408, 414-417, 484, 549, 550-551, 564-565, 595, 599. Garibaldi, Ricciotti, 416. Garrison, William Lloyd, 416. Gatti, Francesco, 505, 584, 588, 590. Gauguin, Paul, 511, 530, 530. Gavazzi, Alessandro, 408. Geffels, Frans, 117. Genovesi, Antonio, 71. Geremek, Bronisław, 18. Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra, 174. Giacomo II Stuart, re d’Inghilterra, 29-30, 32, 48-49, 99-100.
GSV2.indb 631
Giansenio, Cornelio, 24, 97. Gill, André, 491. Gioberti, Vincenzo, 357, 357, 359, 371-372. Gioia, Melchiorre, 211. Giolitti, Giovanni, 563-565, 573. Giorgio I Hannover, re di Gran Bretagna, 33. Giorgio II Hannover, re di Gran Bretagna, 33. Giorgio III Hannover, re di Gran Bretagna, 33, 140, 180, 258-259. Giovanna II, regina di Navarra, 35. Giovanni (Jan) III Sobieski, re di Polonia, 113, 117. Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra, 258. Giuntini, Andrea, 427, 471, 474. Giuseppe II d’Asburgo, imperatore consorte del Sacro romano impero, 1, 5, 69-71, 74-75, 79-81, 107-108. Giuseppina di Beauharnais, 214, 218, 218, 220. Giustiniano, imperatore romano, 216. Gladstone, William, 492493, 493, 494, 508. Gobelins, famiglia, 25. Gobineau, Arthur de, 145. Godineau, Dominique, 271. Goethe, Johann Wolfgang von, 285, 404, 614. Goodwin, Jason, 115, 165166. Gosse, Thomas, 142. Gouges, Olympe de, 266, 271, 273. Goya, Francisco, 221. Gramsci, Antonio, 590, 593595. Grant, Charles Jameson, 318. Grant, Ulysses, 500-501. Greenfield, Kent Robert, 392. Gricci, Giuseppe, 153. Grozio, Ugo (Huig van Groot), 76. Gueniffey, Patrice, 225. Guerin, Jean-Baptiste, 291. Guerrazzi, Francesco Domenico, 357, 364-365, 408. Guglielmo I, imperatore di Germania, 481-484, 488, 508.
Guglielmo II, imperatore di Germania, 39, 483, 494. Guglielmo III d’Orange, re d’Inghilterra, 29-32, 50, 98, 100. Guglielmo IV, re del Regno Unito, 494. Guillotin, Joseph-Ignace, 201. Guizot, François, 318. Guyse, Jacques de, 112.
H Hagnauer, Eugene, 322. Hamilton, Alexander, 179, 181, 184, 186, 358. Hancock, John, 179. Hannover, dinastia, 5, 31, 33, 99. Hargreaves, James, 171, 243, 243, 256, 277. Hauck, Johann Ludwig, 209. Haussmann, GeorgesEugène, 419, 434-435, 440. Hayek, Friedrich, 319. Hayez, Francesco, 368, 408. Headrick, Daniel R., 580, 582, 584. Heath, William, 450. Hébert, Jacques-René, 197, 203, 205, 207. Hegel, Friedrich, 287, 304. Helman, Isidore Stanislas, 189, 197. Hemings, Sally, 178. Herder, Johann Gottfried, 285, 614-615, 621. Hertz, Heinrich Rudolf, 476. Hewes, Gordon W., 111. Highmore, Joseph, 63. Hobbes, Thomas, 55, 55, 79. Hobsbawm, Eric J., 245, 247, 420, 436, 461, 464, 467, 477, 535. Hobson, John A., 511. Hoffmann, Heinrich, 456. Hogarth, William, 13, 19, 19, 33, 51, 51. Hohenzollern, dinastia, 39, 482. Hopkins, Samuel, 267. Howe, William, 178. Hsia, Florence C., 120. Hue, Jean-François, 202. Hume, David, 57, 71. Hunt, Lynn, 66, 177, 203, 258-259, 266, 268, 273, 616, 618. Hutcheson, Francis, 160. Huxley, Thomas Henry, 425.
631
I Ieva, Frédéric, 15, 87. Induno, Gerolamo, 366, 549. Innocenzo XI (Benedetto Odescalchi), papa, 117. Isabey, Jean-Baptiste, 206. Israel, Jonathan, 204, 258, 264-265.
J Jacini, Stefano, 392, 556. Jackson, Andrew, 342, 346. Jaurès, Jean, 192. Jay, John, 358. Jefferson, Thomas, 175, 177-179, 179, 180-181, 184, 186-187, 259, 261, 267-268, 344. Jenner, Edward, 4, 456. Jerrold, William Blanchard, 433.
K Kangxi, imperatore della Cina, 121-122. Kant, Immanuel, 39, 65, 71, 79, 102-103, 106, 358, 614, 621. Kara Mustafa, 116-117. Karim, Abdul, detto Munshi, 495. Kennedy, John Fitzgerald, 343. Kerridge, Eric, 277. King, Martin Luther, 568. Kipling, Joseph Rudyard, 513. Klaus, Anton, 326. Klein, Herbert S., 156, 160. Knapp, Georg Friedrich, 88. Koch, Robert, 450. Kocka, Jürgen, 422, 461462, 467. Kossuth, Lajos, 288, 325. Krüger, Paul, 520, 521. Krupp, famiglia, 252. Kuliscioff, Anna, 560-561. Kunisada, Utagawa, 124.
L Labanca, Nicola, 563, 575, 578. Labriola, Antonio, 560-561. La Fayette, Gilbert Motier de, 191, 195, 197, 197, 237. La Marmora, Alfonso, 379. Lamennais, Félicité de, 291, 291, 301. Landes, David Saul, 113, 161, 164-165, 241, 274-275, 471. Langevin, Paul, 449.
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Indice dei nomi
Lassalle, Ferdinand, 436437, 487. La Tour, Maurice Quentine de, 64. Launay, Bernard-René Jourdan, marchese de, 193. L’Aurora, Enrico Michele, 211. Lavoisier, Antoine-Laurent, 64-65, 79. Law, John, 28, 48-49. Ledoux, Claude-Nicolas, 283. Lee, Robert, 500-501. Lefebvre, Georges, 188, 215. Lega, Silvestro, 570-571, 571. Leggiero, maggiore, 386. Legros, Alphonse, 319. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 120. Lenin (Vladimir Il‘iþ Ul‘janov), 264, 511. Lennon, John, 150. Léon, Pauline, 271. Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Pecci), papa, 562, 573. Leopoldo I d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero, 117. Leopoldo I, re del Belgio, 494. Leopoldo II di Toscana, 71, 361-362, 365, 371. Leopoldo II, re del Belgio, 516, 516, 517, 532, 535. Leopoldo II d’Asburgo, imperatore consorte del Sacro romano impero, 5, 79. Le Roy Ladurie, Emmanuel, 6, 82. Lessing, Gotthold Ephraim, 61, 71. Leutze, Emanuel Gottlieb, 178. Levine, Bruce, 496. Lewis, Meriwether, 179. Liberti, Stefano, 536. Liebig, Justus von, 251. Lincoln, Abraham, 174, 498, 498, 499-501, 508-509, 581. Lindsay, Lisa A., 136, 156, 161. Livingston, Robert, 179-180. Livingstone, David, 514. Locke, John, 1, 33, 55-57, 76-77, 79, 95-96, 107, 181, 289. Logsdail, William, 436. Lombardi, Daniela, 5, 93-94, 96, 467-468, 471. Lombe, John, 277.
GSV2.indb 632
Lombe, Thomas, 277. Londonio, Francesco, 19. Longhi, Alessandro, 16. Longoni, Emilio, 298. Losurdo, Domenico, 288, 295, 398, 401, 406. Louverture, Toussaint, 336. Louvois, François Michel Le Tellier, marchese di, 26. Ludd, Ned, 250, 256. Luigi XIV di Borbone, detto Re Sole, re di Francia, 1, 14, 22-23, 23, 24-25, 25, 26-27, 29, 31-32, 43-44, 48-51, 51, 57, 60, 68, 82-83, 87, 90, 97-99, 101-103, 107, 133, 188, 193, 310, 612. Luigi XV di Borbone, re di Francia, 27-28, 28, 48-49, 146, 193. Luigi XVI di Borbone, re di Francia, 107, 188, 190, 193-195, 197, 198, 200-201, 207, 235, 237, 262, 266, 270. Luigi XVIII di Borbone, re di Francia, 224, 238, 310, 310, 332. Luigi Filippo d’Orléans, re di Francia, 281, 327, 332, 485. Lumière, Auguste, 449, 476. Lumière, Louis, 449, 476. Lupo, Salvatore, 394-395. Luxemburg, Rosa, 511.
M Macfarlane, Alan, 534. Machiavelli, Niccolò, 280, 348, 411, 611. Madison, James, 268, 358. Maistre, Joseph de, 291. Makoko, re del Congo, 514. Malanima, Paolo, 12, 82, 84, 86. Malatesta, Errico, 559. Malinverno, Vincenzo, 549. Mallet, Jean-Baptiste, 217. Malthus, Thomas Robert, 2-3. Mameli, Goffredo, 366, 368, 368. Manara, Luciano, 366. Manin, Daniele, 361, 362, 364, 373, 378. Mannucci, Enrico Joy, 266, 270, 273. Manzoni, Alessandro, 356, 408. Maometto, 118, 166. Marat, Paul, 197, 203, 207. Marconi, Guglielmo, 428, 476.
Maria II Stuart, regina d’Inghilterra, 29. Maria Amalia di Sassonia, regina consorte di Spagna, 73. Maria Antonietta d’Asburgo, regina di Francia, 198, 204, 220. Maria Luisa d’Asburgo, imperatrice consorte dei francesi, 220, 308, 625. Maria Teresa d’Asburgo, 26. Maria Teresa d’Austria, imperatrice consorte del Sacro romano impero, 1, 5, 35-36, 44, 69-70, 73, 75, 79-81, 198. Mario, Alberto, 416. Marlborough, John Churchill, duca di, 43. Maroncelli, Pietro, 350, 350. Marrel, Jacob, 115. Martin, Pierre, 445. Marx, Karl, 239, 248-249, 264, 281, 294-296, 301-303, 321, 334, 354-355, 398-399, 401-402, 406, 436-438, 440, 442, 485, 559-560, 583. Mason, George, 268. Mason, W.G., 247. Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Messico, 98. Matania, Edoardo, 351. Mayer, Arno J., 430, 461, 465-467. Mazzanti, Lucrezia, 348. Mazzarino, Giulio, 22, 48. Mazzini, Giuseppe, 281, 288, 304, 349, 353, 353, 354-355, 355, 356-359, 363, 365-366, 368, 371-372, 377, 386, 388-390, 407-410, 416418, 436-437, 465, 593. Meade, George Gordon, 500. Medici, famiglia, 44, 169. Medici, Ferdinando II de’, 169. Mehmet II, detto il Conquistatore, sultano ottomano, 167. Mehmet IV, sultano ottomano, 117, 169. Melbourne, William Lamb, visconte di, 494. Menelik, negus di Etiopia, 565, 565, 579. Mengs, Anton Raphael, 73. Menotti, Ciro, 351, 351. Merck, Heinrich Emanuel, 450. Mersenne, Marin, 53. Metternich, Klemens von,
632
305, 306-307, 325, 327, 333334, 350, 372. Meucci, Antonio, 448. Meyer, Henry, 565. Meynier, Charles, 220. Michau, Théobald, 6. Michelena, Arturo, 341. Mickiewicz, Adam, 288. Mignard, Pierre, 23, 51. Mill, John Stuart, 291, 301, 398, 400-401, 406. Millet, Jean-François, 115, 165, 430, 570. Milton, John, 53, 319. Ming, dinastia, 120, 128-129, 163. Minghetti, Marco, 553, 555, 574. Mintz, Sidney, 533-534. Mirabeau, André Boniface Louis Riqueti, visconte di, 270. Mirabeau, Gabriel-Honoré Riqueti, conte di, 191, 270. Mitchell, Reid, 431, 498. Mitterrand, François, 449. Modigliani, Amedeo, 147. Mohammad Reza Pahlavi, scià di Persia, 568. Mohammed Ahmed, 516. Mokyr, Joel, 242, 246-247, 274, 277. Molière (Jean-Baptiste Poquelin), 23. Moltke, Helmuth Karl Bernhard von, 481, 483, 484. Monet, Claude, 432, 453. Monroe, James, 338, 344, 346-347. Montagu, Mary Wortley, 165, 168. Montanelli, Giuseppe, 362, 364-365. Montesquieu, CharlesLouis de Secondat, barone di, 1, 59, 71, 79-81, 102-103, 160-161, 289. Montmasson, Rosalie, 416, 565. Moreau, Jean Victor Marie, 67, 216. Morishima, Michio, 505, 584, 589-590. Moro, Tommaso, 57. Morse, Samuel Finley, 428, 475-476. Mosley, Stephen, 248, 274, 278. Müller, Bertha, 495. Müller, Osar, 472.
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Indice dei nomi
Murat, Gioacchino, 218, 349. Murri, Augusto, 456. Mutsuhito, imperatore del Giappone, 503, 510, 588589.
N Nankivell, Frank Arthur, 520. Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, 171, 206, 209, 213-214, 219, 231, 233, 235-236, 381. Napoleone III, imperatore dei francesi, 226, 281, 324, 327, 333, 379, 379, 381-382, 386, 388-391, 434, 439, 478, 478, 479, 482, 494, 508, 511, 515, 550, 552. Napolitano, Nicola, 546. Necker, Jacques, 188, 191, 217. Nelson, Horatio, 213, 220, 236. Newcomen, Thomas, 244, 244. Newton, Isaac, 1, 52, 64, 79, 425. Nobel, Alfred, 446, 448-449. Nolde, Emil, 147. Novaro, Michele, 368. Nugent, Laval, 364.
O Oberdan, Guglielmo, 558. O’Brien, Patrick Karl, 274. Orsini, Felice, 379, 379, 389391. Ossoli, Angelo, 416. Osterhammel, Jürgen, 123, 161, 163, 165, 471-472. Otto, Nikolaus, 419, 446. Outram, Dorinda, 69, 102, 107-108. Owen, Robert, 293, 293, 295, 301, 303. Ozouf, Mona, 205, 263.
P Pacchiotti, Giacinto, 456. Pacinotti, Antonio, 447. Pagano, Mario, 210, 212. Paine, Thomas, 266-267. Paolo IV (Gian Pietro Carafa), papa, 53. Parsons, Charles, 342. Pascal, Blaise, 24. Pasteur, Louis, 450. Pathé, Charles, 476. Patini, Teofilo, 570-571, 571. Patriarca, Silvana, 366, 387. Pazzagli, Carlo, 393, 396.
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Peel, Robert, 318, 320. Pellico, Silvio, 350, 350, 368. Pellizza da Volpedo, Giuseppe, 560. Pepe, Guglielmo, 349. Perry, Matthew, 504. Peters, Karl, 514. Petersson, Niels P., 471-472. Petrarca, Francesco, 348, 371, 611. Piacentini, Marcello, 592. Pianciani, Luigi, 593. Picasso, Pablo, 147. Pietro I il Grande, zar di Russia, 41, 42, 48. Pietro III, zar di Russia, 36, 41. Pietro Leopoldo, vedi Leopoldo II d’Asburgo. Pilo, Rosolino, 382, 389. Pio VI (Giannangelo Braschi), papa, 72, 198, 210. Pio VII (Gregorio Luigi Barnaba Chiaramonti), papa, 216, 218, 218, 310. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 359, 360-362, 364, 366, 371373, 390, 408, 438-441, 549550, 552, 572-573. Pisacane, Carlo, 294, 366, 377-378, 378, 389-390. Pitocchetto, Giacomo Ceruti, detto il, 17, 19, 19. Pitt, William il Vecchio, 34, 34, 48. Plutarco, 608, 610-611. Polanyi, Karl, 136, 156, 158, 161. Pombal, Sebastião José de Carvalho, marchese di, 135. Pomeranz, Kenneth, 123, 161, 165. Pompadour, Jeanne Antoinette Poisson, marchesa di, 29, 146. Potëmkin, Grigorij, 41. Price, Roger, 320. Proudhon, Pierre-Joseph, 294, 301-303, 358-359, 436, 441. Puccinelli, Antonio, 357. Pugh, John S., 521. Pusterla, Attilio, 548. Puttkamer, Johanna von, 482.
Q Qianlong, imperatore della Cina, 164.
Qing, dinastia, 109, 120-121, 126, 128-129, 163-164.
R Racine, Jean, 23. Radetzky, Joseph, 362, 365. Rapport, Mike, 320. Rattazzi, Urbano, 375, 389, 543, 545, 572. Raynal, GuillaumeThomas, 71, 533. Regnault, Jean-Baptiste, 226. Reinhard, Wolfgang, 23, 26, 97-98, 101, 136, 156-157, 161, 526, 575, 577-578. Renan, Ernest, 287, 398, 404-405. Renoir, Pierre-Auguste, 420. Re Sole, vedi Luigi XIV. Rhodes, Cecil, 519-520, 531. Riall, Lucy, 352, 383, 407, 414, 418. Ricardo, David, 295. Ricasoli, Bettino, 356. Ricci, Federico, 624. Ricci, Luigi, 624. Ricci, Matteo, 110, 121-122, 164-165. Richardson, Samuel, 61, 63, 94-95. Richelieu, Armand-Jean du Plessis duca di, 22, 24, 68. Ricuperati, Giuseppe, 15, 87. Rieger, Albert, 515. Robert, Hubert, 234. Robespierre, Augustin, 214. Robespierre, Maximilien, 188, 196, 198, 200, 202-203, 203, 204-205, 205, 207, 214, 235-237, 263-265, 267, 270271, 336, 594. Robinson, John, 244. Roebling, John Augustus, 458, 458. Roebling, Washington, 458. Romanelli, Raffaele, 289, 292, 545, 550, 584-585, 590. Romeo, Rosario, 407, 417, 590, 594. Rösener, Werner, 6, 9, 87-88, 92. Rosmini, Antonio, 356, 372. Rossi, Mario G., 559. Rossi, Pellegrino, 364. Rossini, Gioacchino, 379. Rouget de Lisle, Joseph, 206. Rousseau, Jean-Jacques, 1, 59-62, 67, 71, 79-81,
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94-96, 106, 160-161, 196, 203, 287, 290, 301-302, 304, 604, 621. Rowlandson, Thomas, 8. Ruffini, Jacopo, 354. Ruffo, Fabrizio, 212, 212, 235. Ruocco, Giovanni, 26. Rush, Benjamin, 267. Ruspoli, Emanuele, 593. Russo, Vincenzio, 211-212. Rutherford, Ernest, 448.
S Sackville, John Frederick, 269. Sáenz, Manuela “Manuelita”, 339. Saffi, Aurelio, 366. Saint-Just, Louis Antoine de, 205, 236-237, 263. Saint Pierre, Bernardin de, 533. Saint-Simon, Claude-Henri de, 293. Saint-Simon, Lautrec de, 270, 301-303. Salvirch, Giuseppe, 210. San Martín, José de, 337339, 346. Santander, Francisco de Paula, 339. Santarosa, Santorre di, 315, 350. Sarti, Raffaella, 11, 82-83. Savoia, dinastia, 36, 43, 45, 48-49, 201, 218, 308, 314, 359, 361-362, 368, 371, 418, 550, 600. Savorgnan di Brazzà, Pietro, 514, 514. Schall von Bell, Johann Adam, 121. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 285, 621. Schiaparelli, Ernesto, 234. Schiller, Friedrich, 285. Schivelbusch, Wolfgang, 427. Schumpeter, Joseph A., 242. Schwegman, Marjan, 415. Sciuti, Giuseppe, 378. Scott, Walter, 285, 354. Selim I, sultano ottomano, 166. Sella, Quintino, 548, 592. Sereni, Emilio, 395. Serse, re di Persia, 415. Severn, Joseph, 285. Sharples, James, 299.
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Indice dei nomi
Shelley, Percy Bysshe, 285, 354. Sherman, Roger, 179, 180. Siemens, Karl Wilhelm, 445, 472. Sieyès, Emmanuel Joseph, 191, 213, 215. Signorini, Telemaco, 542. Simpson, William, 478. Sismondi, Simonde de, 287. Sisto V (Felice Peretti), papa, 18. Skłodowska, Bronia, 448. Smiles, Samuel, 422, 467. Smith, Adam, 1, 52, 65, 71, 79-80, 160, 248, 295, 319, 462, 617-618. Soboul, Albert, 190, 192. Soddy, Frederick, 448. Sofocle, 76. Sonnino, Sidney, 591. Sorrieu, Frédéric, 290. Spencer, Herbert, 424. Speri, Tito, 365. Spinelli, Altiero, 358. Spinoza, Benedetto, 57. Staël, Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di, 215, 217, 285, 287. Stanislao Poniatowski, re di Polonia, 41. Stanley, Henry Morton, 514. Stearns, Junius Brutus, 183. Stein, Heinrich Friedrich Karl von, 222. Stephanson, Anders, 513. Stephenson, George, 171, 251, 251, 474. Stevens, Frederick William, 153. Stoye, John, 113. Stuart, dinastia, 29-31, 33, 48, 100-101, 192.
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Sucre, José Antonio, 339. Sullivan, Louis Henry, 435. Sustermans, Giusto, 169.
T Tagliapietra, Andrea, 106, 615. Talleyrand-Périgord, Charles-Maurice de, 197. Tasman, Abel, 142. Taylor, Alan John Percival, 483. Taylor, Frederick Winslow, 248. Tenniel, John, 493. Teodosio, imperatore romano, 216. Testi, Arnaldo, 266-267, 273, 580, 584. Tetar van Elven, Pierre, 385, 545. Thibault, 324. Thiers, Adolphe, 485-486. Thiesse, Anne-Marie, 398, 405. Thököly, Imre, 116. Thomas, Sidney Gilchrist, 445. Tocqueville, Alexis de, 269, 279, 291, 301, 336, 398. Tokugawa, dinastia, 109, 123-124, 124, 125-126, 128, 503, 505, 588-590. Tokugawa Ieyasu, 124, 128. Tolomeo, Claudio, 140. Tolomeo V Epifane, faraone d’Egitto, 234. Tolstoj, Lev, 188, 495. Tommaseo, Niccolò, 361. Torri, Michelguglielmo, 534. Toyotomi, clan, 123. Toyotomi Hideyoshi, 123. Trampus, Antonio, 68, 102, 106, 195, 203, 258, 262-263. Trivulzio di Belgioioso, Cristina, 361.
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Trumbull, John, 179. Turati, Filippo, 560-561, 573. Turgenev, Ivan Sergeeviþ, 495. Turner, Frederick Jackson, 29, 343.
Voltaire (François-Marie Arouet), 40, 57, 59-60, 60, 61, 70-71, 74, 79, 81, 97, 99, 102, 104, 106-107, 193. Vries, Jan de, 13, 82, 85-86. Vryzakis, Theodoros, 315.
U
W
Uhde, Fritz von, 439. Ure, Andrew, 462.
Walpole, Robert, 33, 48. Warren Roebling, Emily, 458. Washington, George, 177, 178, 179, 179, 181-182, 183, 184, 186-187. Watt, James, 171, 242-245, 256. Weber, Max, 15, 589. Weitling, Wilhelm, 295. Wellington, Arthur Wellesley, duca di, 225. Wengenroth, Ulrich, 445. Wenzel, Franz, 281. Werner, Anton von, 483. Wheatcroft, Andrew, 113, 170. White, Jessie, 416. Wilde, Oscar, 472. Windthorst, Ludwig, 487. Wood, Gordon S., 258, 260261. Wordsworth, William, 354. Wright, Richard, 34. Wrigley, Edward Anthony, 275.
V Van Gogh, Vincent, 530. Vanvitelli, Luigi, 73. Vassa, Gustavus, 138, 161. Veit, Philipp, 326. Venturi, Carlo, 416. Verdi, Giuseppe, 368, 368, 408, 515, 624-625. Verga, Giovanni, 570, 593. Verne, Jules, 427. Verri, Alessandro, 66-67, 71, 79, 358. Verri, Pietro, 66-67, 71, 79, 358. Vidotto, Vittorio, 396, 552, 590, 592, 595. Vieusseux, Giovan Pietro, 311, 356. Villani, Pasquale, 434. Virgilio, 286. Vittori Romano, H., 379. Vittoria, regina d’Inghilterra, 153, 483, 492, 494-495, 495, 523, 523, 531. Vittorio Amedeo II di Savoia, 45. Vittorio Emanuele I di Savoia, re di Sardegna, 310, 350. Vittorio Emanuele II di Savoia, re d’Italia, 45, 365, 371, 373-375, 375, 378, 383, 387, 389-391, 545, 550, 551. Volta, Alessandro, 64, 447, 472.
Y Yoshitoshi, 505.
Z Zagrebelsky, Gustavo, 76, 506. Zanardelli, Giuseppe, 299300, 563, 573. Zola, Émile, 436, 461, 463, 467. Zucconi, Guido, 434.
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Filosofia Filosofia oltre. oltre. Percorsi Percorsi interdisciplinari interdisciplinari perper l’Esame l’Esame di di Stato Stato perper il III il III anno anno ISBN ISBN 978-88-421-0000-0 978-88-421-0000-0 Filosofia Filosofia oltre. oltre. Percorsi Percorsi interdisciplinari interdisciplinari perper l’Esame l’Esame di di Stato Stato perper il IV il IV anno anno ISBN ISBN 978-88-421-0000-0 978-88-421-0000-0 Filosofia Filosofia oltre. oltre. Percorsi Percorsi interdisciplinari interdisciplinari perper l’Esame l’Esame di di Stato Stato perper il Vil anno V anno ISBN ISBN 978-88-421-1804-6 978-88-421-1804-6
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