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Italian Pages 707 [803] Year 1975
BIBLIOTECA DI CULTURA 37** / BULZONI EDITORE
LIRICI TOSCANI DEL '400 Voi. II
« cura di ANTONIO LANZA
© 1975 by B ulzoni editore s.r.l. 0 0 1 8 5 Roma - Via dei Liburni, 14
LIRICI TOSCANI DEL QUATTROCENTO A cura di A N T O N IO L A N ZA
Il VOLUME
B U L Z O N I E D IT O R E
Ai miei Genitori
IN D IC E
FILIPPO LAPACCINI ...................................................................... I - L'armeggeria di Tommaso Benci . . . . II - L'eccelsa fama tua pel mondo sparsa . . . I I I - Bongianni, i’ fu* l’altr'ier messo in prigione . IV - Di Luca Fitti ho visto la muraglia . . . V - Lieto prendea riposo ad una fonte . . . . FRANCESCO M A L E C A R N I ............................................................. I - Nel tempo che riduce il carro d'oro . . . . II - Ahi lasso me, durerà sempre il foco . . . I II - Cupido m'ha giurato incontro guerra . . . IV - Per ingiuria d’amore om furiato . . . . V - Qual fallo, qual peccato, ingiuria o sdegno . . VI - Che fai, anima stanca, che pur guardi . . . V II - Sarà pietà in Siila, Mario e Nerone . . . V ili - Veggio al sol oscurar gli aurati crini . ANTONIO M A N E T T I ........................................................................... I - Veloce in alto mar solcar vedemo . . . . II - Fia ogni cosa chiara e sempre bruna . . . GIANNOZZO M A N E T T I .................................................................... I - Se tu ti recherai la mente al petto . . . . CARLO MARTELLI ................................................................................... I - Ossa spogliate da la madre antica . . . . II - Signor che sopra Tonde allor salvasti . . . I II - Di porfir, diamante o di berillo . . . . IV - Vedovi, soli, abandonati e sciolti . . . . V - Passo, per consolar li affanni mei . . . VI - Volson già dire alcun che la latina . . . V II - Piango la mia fortuna e ’1 tempo breve . GIOVANNI MARTINI . I - L’alta virtù di quel collegio santo . . . . CAMBIOZZO DE' M E D I C I ............................................................. I - Poi che superbia ti vince e (di^balestra . . . II - Di nuova rima mi convien far versi . . . CARLO DE’ M E D I C I ........................................................................... I - « O madre patria, (deh) dimmi ov’or ti truovi! » II - D e[l] basso tempo, al quale i’ penso ancora . I II - Amor, che dentro al cor l’afflitta mente . . IV - Che fai, che pensi, animo mio stanco? . . . V - I' veggio nella mente mia inserte . . . . VI - O fresche erbette, gentil fronde e fiori . . . V II - Tacito in fra me, pensando come . . . V ili - Piangete voi ornai quando conviense . . IX - Non posso più tenere in tal tormento . . .
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- Pensando agli anni, mesi e giorni, ch’i o ......................... F. Scarlatti: In isperar piata si truova in Dio . . . COSIMO DE’ M E D I C I ......................................................... I - Fia prima arato e seminato il m a r e ............................... ANTONIO D I M E G L I O ......................................................... I - L’alma pensosa, il corpo vinto e s t a n c o ............................. II - Regna dentro al mio cor per una d o n n a ............................. I II - Sopr’un bel verde c o l l e .................................................. IV - O sire Amor, nelle cui fiammea c c e s o ............................... V - F non credetti che da poi cheM o r t e ............................. VI - O triunfal signore Amore, io s e n t o .................................... V II - Alma gentil, nelle più belle m e m b r a ............................ V ili - Andrà pur sempre mai co’ venti aversi . . . . IX - Maraviglioso Amor, mi fai s e n t i r e .................................... X - Venere, se già mai pel caro f i g l i o .................................... XI - Eccelsa patria mia, però che a m o r e ............................ XII - Poi che lieta Fortuna e ’1 del f a v e n t e ............................. X III - Guarda ben ti dich’io, guarda ben, guarda . . . XIV - Crudel Rinaldo, cavalier s u p e r b o .................................... XV - Viva viva oramai, viva l’o n o r e .......................................... XVI - Il gran famoso Publio S c i p i o n e .................................... XVII - In morte di Lorenzo de’ M e d i c i ............................. XVIII - Vergine santa madre g l o r i o s a .................................... XIX - Deus, in adiutorium meum i n t e n d e ........................... XX - Ave Regina coeli, o virgo p i a ........................................... XXI - Se alcun uom mortai può render grazia . . . . XXII - Se l ’estremo valor ch’Amor co n sen te............................. XXIII - O trionfai Fiorenza, fatten b e l l a ............................. XXIV - Sogliono e buon fedeli e veri amanti . . . . XXV - La Madre di Colui ch’ogni ben move . . . . XXVI - Il tempo, l’ore, i giorni, i mesi e gli anni . . . XXVII - Chi non può quel che vuol, quel che può voglia . XXVIII - Eugenio quarto, pontefice n o s t r o ............................. XXIX - Foll’è chi falla pell’altrui f a l l i r e ............................. XXX - O puro e santo padre Eugenio quarto . . . . XXXI - Antonio, i’ sento che fra nuovi pesci . . . . XXXII - Giovanni mio, i’ sono or concio in modo . . . [C. de ’ M edici ]: Michele, il nostro cavalier m’è porto . Risucitare un di buon tempo m o r t o .................................... XXXIV - Non è giuoco sì bel che non rincresca . . . . C ompare : Formica è meglio assai esser che cane . XXXV - Un puro e fedel servo tuo mi manda . . . . XXXVI - O Conte illustre, l’avere e la v i t a ............................. XXXVII - Vittrice illustre Conte e gran signore . . . XXXVIII - Se vuoi veder quanto ’1 mondo è fallace . . XXXIX - Superbia ha l’Umiltà sommersa in terra . . Rime dubbie: I - Sempre si dice che un fa male a cento . . GIOVAN MATTEO D I M E G L I O ........................................... I - I ’ son certo che ’1 mondo e la F o r t u n a ............................. II - Vecchia azzimata, ricardata e v i z z a .............................
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a i - Deh, udit’ un po’ n o v e l l a ............................. IV - O scalandrona, stregonizza errante . V - E corpi femminin son tutti chiocci . . . VI - Corpo lascivo, acerbo e scellerato . . . V II - O specchio d’ogni rubald’uom vizioso . V ili - Segugio vecchio non abbaia indarno IX - Corrono e fiumi per vie torte al mare . X - Non cred’alcun eh un uomo ’1 tutto sappi . XI - O fredda Gelosia, in quanta noia . XII - Son rade volte che dopo ’1 baleno . X III - Lungo tempo nudrito e costumato . XIV - Giusta cosa non è voler sapere . . . XV - Non dev’esser a morte condannato . . XVI - S’tu volessi vedere un doppio errore . XVII - O falsa ladra, traditrice strana . . . XVIII - Io nacqui al mondo sventurato e povero XIX - Io veggio ben che ’ndarno m'affatico . XX - Michele, io sento per antica usanza . . XXI - Dicesi che la gotta è un gran male . . XXII t Non d ’amicizia mai si disse tanto . . XXIII - O testa laùrata, o divo ingegno . . XXIV - E1 prete del popol mio . . . . XXV - O cuor gentil, che amor provato avete . XXVI - A me soletto il mio danno rimprovero . XXVII - Non è amico ognun ch’è detto amico . XXVIII - Qual cerc’avere amici sotto ’1 sole . XXIX - O dolente mio cor, chit’ha ferito? . XXX - Già molte volte, non sol una o due . XXXI - Conoscer non si può ben vero amico . XXXII - Chi vuol aver del paradiso fede . . . NICCOLO’ M O R A N D I ........................................... I - Quando più ghiaccio o più neve rinfresca . II - Come amoroso augel, che, fuor di gente . I II - Dolce mie lira, ov’è colei che spesso . . IV - Quell’aspetto reai ch’è mio signore . . V - Fili portati intorno al collo d’oro . . NICCOLO’ C I E C O .................................................. I - Giusta mia possa una donna onorando . . II - Ave, pastor della tua santa madre . . . I II - Ave, Padre santissimo, salve, ave . IV - Ave, nuovo monarca inclito e vero . . V - Magnanimo signor,per quello amore . . VI - Premia costui del merto suo, Signore . . V II - Viva virilità, florido onore . . . . V ili - Penso il secreto in che Natura pose . IX - Sola dirò virtù, che ’1 mondo onora . X - O misera, sfacciata, al ben dispetta . XI - Quella soave ed angosciosa vita . . XII - Fama, gloria ed onor, merito e pregio . X III - Di nove cose si lamenta il mondo . . XIV - Signor, membrando l’effettivo amore .
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XV ■ Pronto all’ufizio, all’udienza u m a n o .................................... XVI - Se’ fati, la scienza o la F o r t u n a ......................................... XVII - O vivo fonte, onde procede o n o r e ................................... XVIII - Amor, che tanto può, porrà mai t a n t o ............................ XIX - Quelli innudi di laude e di c o r o n a .................................. XX - Per saziar gli occhi miei, sospira il c o r e .................................... XXI - Agli alti essordl e vaghi p a r la m e n t i.................................... XXII - Quantunque e’ vi sie inanzi agli occhi tolta . . . XXIII - Null’arte, incetta, disegno o p e n s i e r o ............................. XXIV - Sollecitudin con discreto a r d i r e .................................... XXV - Già per le nozze era inpunto l’u l i v o ..................................... XXVI - O ignorante plebe, oturba s t o l t a ...................................... GIOVANNALE P A N D O L F IN I......................................... I - S’avessi contemplato il T a c c u i n o ........................ NANNI P E G O L O T T I ....................................................... I - Se Minos tenne nella torre s t r e t t o ........................................... II - Per far palese i tradimenti t u o i ........................................... I II - Te Deum laudamus, te confessian signore.................................... IV - Opera ........................................................................................... V - È *1 gran disio che mi mostrò el bel s o l e ............................ VI - Sol una volta in qualche ombroso l o c o ............................. V II - Giusta querela spongo, padre s a n t o .................................... V ili - Benché il caso possa r i t o r n a r e ........................................... IX - Mort’è il disio, perduta è la s p e r a n z a .................................... X - Dal tuo impromettere e collo mioaccettare . . . . XI - Gratia tibi, angelica f i g u r a .................................................. XII - Piangete, occhi dolenti, e fate un f i u m e ............................. XIII - Teribil Morte, che scurasti el s o l e .................................... XIV - Non mi posso c o n t e n t a r e ................................. XV - Amor, vertù, gentilezza e f e d e .......................................... XVI - Prima ritornerebbe il Pado al s e n o .................................... APPENDICE: A nonimo : Velocemente per mare unabarchetta . PELLEGRINO DA CASTIGLION FIORENTINO . . . . I - Lamento del Conte di P o p p i .................................................. La gloria triunfale e ’1 dolce n o m e ......................................... II - O sacro, santo e prezioso c h i o v o .......................................... I I I - Nessun profeta mai accetto f u e ........................................... LUDOVICO P E T R O N I ......................................................... ....... . I - Ben vedi e pensi e corpi de’ m o r t a l i .................................... II - Io ho sentito e visto la gran f a m a ............ 262 F. A ccolti: Ciò che 7 vulgo ignorante apprezza edama GIOVANNI P I G L I ....................................................................... I - O Andrea mio, che sì ben ti par d i r e ............................. II - Nave sanza timon, perso l’a v e r e .................................... I I I - Ipocrate, Avicenna e G a l i e n o ........................................... IV - O Fortuna crudel, che puoi più f a r e ? ............................... V - In mezzo d’aspri colli, in verde p r a t o ............................ VI - Pasconsi gli occhi miei d’una d o l c e z z a ........................... VII - Lasso! che quando avien che gli occhi giri . . . V ili - Sotto candidi veli in bruna v e s ta ............ 268 IX - Strigoli di porco e di c a s t r o n e ......... 268
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X - Al gusto quel che piace tutto è b u o n o ............................ . .269 XI - Trentasei volte ha già rivolto il c o r s o ............................ . .269 XII - Quella virtù che ’1 cor gentil n o t r i c a ............................ . .270 X III - Quel dolce, vivo e glorioso f r u t t o ............................ . .270 XIV - Amor, che pasce e con virtù n o t r i c a ............................ . .271 XV - Porcellane rifritte in i n s a l a t a .......................................... . .271 XVI - Prezzemoli bolliti in acqua a m a r a ........................... . .272 XVII - Fave riconce con fior di b o r r a n a ............................ . .272 XVIII - A voler ben guarir d e i r a n g u in a i a ............................ . .273 XIX - La vita senza frutto è grieve m o r t e ........................... . .273 XX - A voler fare buona m e d i c i n a ........................................... . .274 XXI - Da poi che piaciuto è al gran Monarca. . . . . 274 BONACCORSO P I T T I .............................................................................................275 I - O Giudice maggior, vieni alla b a n c a ........................................... . 275 II - Più e più volte, e tutte con gran t o r t o ........................................... .277 I II - Quattrocentuno e mille l’an c o r r a n t ........................................... . 279 BERNARDO P U L C I .............................................................................................281 I - O sacro tempio, ove la vista c o r s e .................................................. . 282 II - Vostra biltà, ch’ai mondo pare un s o l e ........................................... . 282 I II - Da poi che rinnovar l’antiche d o g l i e ........................................... . 283 IV - Non più l’ira crudel la gran G i u n o n e ........................................... . 283 V - Quando, donna, da prima io r i m i r a i .......................................... . 283 VI - Qual fato avverso fu, qual cruda s t e l l a ........................................... . 284 V II - Lasso! qual destin vuol che d i p a r t i t a .................................... . 284 V ili - Spense qui fra’ mortali un chiaro s o l e .................................... . 285 IX - A. P opoleschi: Bernardo, i’ mi credevo esser già franco . . . 285 Vinse in Tesaglia già l’ardito e f r a n c o ........................................... . 286 X - Piangi tu, che pur dianzi eri f e l i c e .................................................. . 286 XI - F vo sovente rimembrando i g i o r n i .................................................. . 290 XII - Più volte gli occhi al cor lasso r i v o l t i ........................................... .291 X III - S’i’ fussi stato nel principio a c c o r t o ........................................... . 291 XIV - O dolci, vaghi e stanchi mie’ p e n s i e r i .................................... . 291 XV - Era ’1 giorno solenne a ciascun d i v o .......................................... . 292 XVI - Illustrissima, clara, eccelsa g l o r i a .................................................. . 292 XVII - S’i’ posso trovar pace alla mie g u e r r a .................................... . 295 XVIII - Amor, perdona alla faretra el’a r c o ...................................... . 295 XIX - I* n’ho pregato già più volte A m o r e ......................................... . 296 XX - Riprese un giorno Amor l’arco e los t r a l e ..................................... . 296 XXI - Per trovar pace, poi che ’1 sol sip a r t e ...................................... . 297 XXII - Quella nube contraria, che nel v i s o ........................................... . 297 XXIII - Madonna, i’ veggio ogni mie speme al vento. . . . . 297 XXIV - Avea di nostra vita stanca eb r i e v e ..................................... . 298 XXV - M. P. P ieri : Esperto la facundia e 7 dolce stilo . . . . . 302 Inclita Musa, che dal sacro a s i l o .................................................. . 303 XXVI - M. J acopo da P ilaia : Pensando, rimirando econtemplando . . 303 Se l’antico desir s’accende, q u a n d o .................................................. . 303 XXVII - Leggi di Filomena e tristi v e r s i ........................................... . 304 XXVIII - I ’ son qui giunto a contemplar V u l c a n o ............................. . 304 XXIX - Dolce mie cara e gloriosa v i t a ................................................ . 305 XXX - Amor ed io più volte r a g i o n a n d o ........................................... . 305 XXXI - Amor, se de’ sospir nostri ti g i o v a ........................................... . 306
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XXXII - Una fragil barchetta in mezzo T o n d e ............................ XXXIII - È questo il colle dove Amor già stanco. . . . XXXIV - Qui giunse il cor ben doppo milleimprese . . XXXV - Né sì candida perla anel mai s t r i n s e ........................... XXXVI - Giovane bella, che, dogliosa e s t a n c a ............................. XXXVII - ConTè lieta e felice nel ciel f i s o .................................... XXXVIII - Natura per sé fa il verso g e n t i l e ............................ XXXIX - Nuova influenza dalle Muse p i o v e .................................. XL - r piango il dì clTAmor l’arco suo t e s e .................................... XLI - Umiltà, reverenza e g r a v i t a t e ........................................... XLII - La fronte di cristallo, gli occhi s t e l l e ............................ XLIII - Parole dolci, mansuete e s a n t e .................................... XLIV - Quando la sera gli animai sen v a n n o ............................ XLV - La notte il sole e ’1 giorno sanza l u c e ............................. XLVI - Era già Febo co’ cavagli un p e z z o .................................... XLVII - Triboli, pruni, spine con o r t i c a .................................... XLVIII - Sempre a memoria mi sarà quel giorno . . . . XLIX - E1 cor pien di pensier, la mente d’i r a ............................. L - Piango il presente e mio passato t e m p o ............................. LI - Se ’1 dolce si cognosce per T a m a r o .................................... LII - Per isfogare in parte il mio d o l o r e .................................... L III - Dinanzi agli occhi miei ma’ non si p a r t e ............................. LIV - Onestà in bocca e castità negli o c c h i ............................ LV - Ogni buona speranza intendo c e r t o .................................... LVI - Mille volte adirar, donna, mi f a i .................................... LVII - Non è pianeto in del ch’abbi p o t e n z a ............................. LV III - Come lume maggior minore o f f e n d e ............................. LIX - Saper vorrei, Natura, onde p i g l i a s t i .................................... LX - Adolescenti gli anni, e s e n e t t u t e ........................................... LXI - Quella stella che tutti i legni g u i d a .................................... LXII - Da poi che l’arte cominciò natura . . ... . . LXIII - Se ’Adriana fu crudel T e s e o .................................................. LXIV - Volsimi un giorno indietro riguardando . . . . LXV - Amor col tempo esperienza m o s t r a .................................... LXVI - Rido tal volta che mi piange ’1 c o r e .................................... LXVII - Gli occhi leggiadri m’han furato il core . . . . LXVIII - Piangendo rido e sospirando g o d o ............................. LXIX - Quante vaghe parole e quanti r i s i .................................... LXX - O sacra Vergin santa, alma p u e l l a .................................... LXXI - Amor creò per noi la prima p a c e .................................... LXXII - O tu, che hai l’universal g o v e r n o .................................... LXXIII - Occhi miei tristi, or come far p o t r e t e ............................. LXXIV - Quando fie ’1 dì ch’Amore il freddo petto . . . LXXV - O pacifiche lagrime t r a n q u i l l e ........................................... LXXVI - Benedette le lagrime e’ s o s p i r i .................................... LXXVII - Veggio del tempo esperienza troppa . . . . LXXVIII - Nell’età pronta, giovinile e v a g a .................................... LXXIX - Quel che forza né ingegno uman non vinse . . . LXXX - Tornata è Progne e la sorella a m i c a ............................. LXXXI - Né per lungo silenzio il gran d e s i r e ............................. LXXXII - Lasso, quando per forza, Amor, da prima . . .
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LXXXIII - Aveva al sol le trecce ornate bionde . LXXXIV - Qui, bench’io sia col corpo stanco giunto LXXXV - Or che nostra Fortuna e ’1 Ciel ne ’nsegna LXXXVI - Né sì fulgide stelle in mezzo un sole . LXXXVII - Furato hai, Morte dispietata e rea LXXXVIII - Vinse protervo amor la chiara fama . LXXXIX - Quanto presso al valore ogni altro lume . XC - Io veggio, altera donna, il tuo bel seno . XCI - Solea già stanco ne’ sospir più gravi . . . XCII - Queste cose mortai che sempre vanno . XCIII - Se mai priego mortai nel ciel s’intese . . XCIV - Salve, diletto e glorioso legno . . . . XCV - Non bisogna più foco o più dolce esca . . XCVI - Qual felice, celeste e verde pianta . . . XCVII - Prima ch’ai sommo del tuo gran furore XCVIII - Io guardo spesso la tua gran mina . . XCIX - Felice sempre aventurato giorno . . . C - Apollo, se d’Amor l’ardita forza . . . . CI - Lasso! ch’io ardo e ’1 mio fallir conosco . C II - Lasso! ch’io me n’accorgo de’ mia danni . . C H I - Venite, sacre e gloriose dive . . . . CIV - Se viva e morta io ti dovea far guerra . . CV - S’ tu fussi andata al bel pastor troiano . . BERNARDO DE’ R I C C I ........................................... I - Dappoi che lasciat’hai la terra egregia . . . I I - Anton, se ’1 mio intelletto medioco . . . I II - Ahi, babbiionio avaro e cismático . . . . NICCOLO’ DE’ R I C C I .................................................. I - Poi che Fortuna, Destino ed Amore . . . . PIERO DE’ R I C C I ......................................................... I - Burchiel, perché per fama udito io ho I I - Fratei, se tu vedessi questa gente . . . . I II - Sette son Farti liberali: è prima . . . . IV - Eccelso re, o Cesare novello.................................... V - O da me visti, udite il mio clamare! . . . VI - Car compagno, se Dio ti torni in gioia . . V II - Spirito degno di laurato onore . . . . V ili - Della ciclópea schiatta mille semo . . . NICCOLO’ R IS O R B O L I.................................................. I - Non fu del buon Catón più gloriosa . . . II - Gite, rime dolenti, a trovar quella . . . B. P ulci: F senti* già nel cor mille quadrella . ANTONIO R O S E L L I .................................................. I - Quelli or veggiàn che si dierono in sorte . . . BERNARDO R O S E L L I .................................................. I - Se a’ prieghi umani il quinto sentimento . . GIOVANNI R O S E L L I .................................................. I - Era la notte ombrosa in ciascun loco . . . II - Fra fronti, arbori, boschi e verde piagge . . I II - Se mai divo furor famoso e degno . . . . ROSELLO R O S E L L I ..................................................
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I - L’undecimo anno del mio grave p i a n t o ............................. . . . 400 II - Né tempo, né dolor, né grave o f f e s a ............................ . . . 401 I II - Se vera guida acciò ch’el cor d i s i a .........................................................401 IV - Di giorno in giorni, Amor, di mese in m e s i ...........................................402 V - Se Lucrezia fu simile a c o s t e i .......................................................................402 VI - Rotto è ’1 disegno mio e V or è t a r d i .........................................................402 VII - Fara’mi mai chiamar felice a m a n t e .........................................................403 V ili - Ri tornará già mai quel divin s o le ................................................................ 403 IX - O ’ son le rose in paradiso c o l t e ................................................................ 404 X - Ritorna, aura gentil, a star fra i f i o r i .........................................................404 XI - Per poter contemplare el sommo B e n e ..................................................405 XII - Or è tanto il diletto e il gran p iacere......................................................... 405 X III - Questa donna gentil, per cui si s p e r a ............................................................... 405 XIV - Io mi veggio cangiar el viso e il p e l o ............................................................... 406 XV - Io ho veduto mille volte il s o l e ...................................................................... 406 XVI - Amor, da poi ch’io fui dentro al tuo r e g n o ..................................................407 XVII - Or è ¿ardi ogni aiuto al mio la n g u ir e .........................................................407 XVIII - Or è /al l’aspra doglia che me i n f e s t a ..................................................408 XIX - Non fu, non è in me, non sera m a i ............................................................. 408 XX - Poi che Fortuna el mio debile l e g n o ............................................................... 408 XXI - Or è tanto el dolor che ’1 cor s o s t e n e ............................................................... 409 XXII - Felice fiume, che ’1 tuo corso p r e n d i ............................................................... 409 XXIII - Or hai, crudel Fortuna, ogni tua p o s s a ........................................................ 410 XXIV - Or è tal donna, Amor, nel mondo v i s t a ........................................................ 412 XXV - Or è tal la mia vita, donna a l t e r a .........................................................413 XXVI - Or è tanto il dolor che al core a h o n d a ........................................................ 413 XXVII - Non è mia doglia, Amor, se tu ben g u a r d i .................................................414 XXVIII - Piovi dal cielo una crudel t e m p e s t a ........................................................414 XXIX - Vinto dal sonno e pel cammino s t a n c o ................................................414 XXX - Io cerco libertà con grande a f f a n n o ......................................................... 415 B. d’Alamanno de’ Medici: Da que' che più gli efetti d'Amor sanno . 415 XXXI - Per triunfare el mondo e stare in f e s t a ..................................................416 XXXII - Non seppi parlar mai sì d o lc em e n te......................................................... 416 XXXIII - Deh, sappi pacientemente a m a r e ......................................................... 417 XXXIV - S’io non seppi parlar per gran te m e n z a .................................... .417 XXXV - Sappi parlare accortamente e d i r e ........................................... .418 XXXVI - Come porrà questa affanata v i t a ........................................... .418 XXXVII - Ove s'andrà ornai per qualche a i u t o .................................... .418 XXXVIII - Amor m’ha ricondotto al loco ove i o ............................ . 419 XXXIX - Donna vaga, leggiadra, onesta e b e l l a .................................. . 419 XL - Or è tanto maggiore el mio d o l o r e .................................................. . 420 G. de’ Conti: Rosello, io fui dinanzi ai bel sembiante . . . . 420 XLI - Se or è tal ch’io debbia aver mai p a c e ........................................... . 420 XLII - Fiere selvagge e inabitati b o s c h i .................................................. .421 XLIII - Che giova 'nnanzi a questa alma d i v i n a .................................... 424 XLIV - Prima s'andrà per mar senza alcun l e g n o ............................ . 424 XLV - Perché mi vo dolendo pur del c i e l o ........................................... . 425 XLVI - Che fortuna è la mia che nel cor p a r m e .................................... . 425 XLVII - Non ha natura, s’io ben penso e g u a r d o .................................... . 426 XLVIII - Per voi sta nel cor sempre el foco e F e s c a ............................ . 426 XLIX - Ove è, donne leggiadre, el vostro l u m e ? .................................... . 426
Pi s p i r a
z i o n e p r e v a l e n t e m e n t e a m o r o s a , è d i c h ia r a d e r i v a z i o n e p e t r a r c h e s c a . M a l g r a d o l ' a s s o l u t a c o n v e n z i o n a l i t à d i t e m i , t o n i e s i t u a z i o n i , n e l l e s u e l ir i c h e , s c r itte in u n o s tile s tu d ia ta m e n te p r e z io s o , n o n m a n c a n o im m a g in i e s p u n ti fe lic i, c h e fa n n o d i B e r n a r d o u n o d e i m ig lio r i p e tr a r c h is ti d e l Q u a ttr o c e n to to sc a n o . M a n o n t u t t e le p o e s ie s o n o d 'a r g o m e n to a m o r o s o ; te s tim o n ia n o il s u o f o r t e le g a m e c o n i M e d ic i il s o n e tto V i l i in m o r te d i G io v a n n i, il te r n a r io X , i n v ia to p e r la s c o m p a r s a d i C o s im o a L o r e n z o , a l q u a le in d i rizz ò
an ch e i s o n e tti X X X V I I I
(X C )
e X X X IX ;
la c a n z o n e i n
lo d e d i P ie r o
e i l t e r n a r i o c o m p o s t o p e r G i u l i a n o i n o c c a s io n e d e l l a m o r t e d i S i
m o n e tta C a tta n e o
(C H I).
L a c a n zo n e X V I è in d ir iz z a ta a l D u c a d i M o d e n a e M a r c h e s e d i F e rra ra . Da
se g n a la re
(L X X X II)
in o ltr e
la
ca n zo n e
che
tr a tta
d e lle
q u a ttr o
s ta g io n i
e i s o n e t t i X C V I I e X C V I I I c o n tr o la c h ie s a c o r r o tta .
I lu n g h i te r n a r i r e lig io s i, in v e c e , c i a p p a io n o n o te v o lm e n te i n f e r i o r i F u in
c o r r is p o n d e n z a p o e tic a c o n
n io P o p o le s c h i
r im a to r i d i s e c o n d o
p ia n o :
A n to
( 1 4 0 0 - 1 4 7 0 ) , P a u l o P i e r i , I a c o p o d a P il a i a e N i c c o l ò R i -
so r h o li, d i t u t t i q u e llo p iù c e le b r e .
I L4 - M11 O sacro tempio, ove la vista corse fra tante donne a rimirar un sole, venute a venerar la santa istole ch'a Tomaso Maria salendo porse, occhi vaghi, leggiadri, ove si scorse quanto puote natura, intende e vuole, alteri sguardi, angeliche parole, da fare ogni intelletto umano in forse! O felice casetta, o lieto ospizio, che serbi ogni mio bene e quel ch'io solo vorre' di mille albergar pure un giorno! Felice giorno, e più ch'altro propizio, che sì degni pensier levasti a volo, quand’io vidi duo stelle, un sole addorno!
II L4 - M11 Vostra biltà, ch'ai mondo pare un sole, e gli occhi e '1 lampeggiar del chiaro volto m'hanno dal mie camin sì dolce vólto che mi giova seguir quel che mi dole. Gli atti leggiadri, onesti e le parole, c’hanno del mondo ogni valor ricolto, m ’infiamman sì eh'i' fui libero e sciolto e bramo or di voler quel ch’altri vòle. Però più dolci sproni, Amore, al fianco, bisogna a me sovente lei ferire; ch’i ’ son pur suo ella noi pensa o crede. E ben ch'io sia del seguitar già stanco, di pianger fioco, al fin del ben servire spero negli occhi suoi trovar merzede.
L4 - M 11 Da poi che rinnovar l ’antiche doglie, convienimi seguir quel che più mi spiace, Amor, sotto cui mai triegua né pace pur non ebb’io, né Morte ancor mi scioglie. Ecco dunque di me l’ultime spoglie a torto, e l ’alma che per te si sface sotto false lusinghe e tuo fugace dubbie speranze e cieche umane voglie. Ma voi, dolenti mie’ lagrimos’occhi, e più ch’altri cagion del nostro male, che giova or che ’1 fallir vostro vi spiaccia? Seguir conviene il vulgo degli sciocchi e dietro a chi di noi poco gli cale: così va chi ragion da sé discaccia.
IV L4 - M u Non più l ’ira crudel la gran Giunone versò sopra’ Troian per ogni parte, per tórre inizio al buon popol di Marte e dall’alta suo impresa il gran Scipione; né più crudo a Siccheo Pigmalione, o Giove sazio delle membra isparte nella valle Flegrea, ove in disparte suo stanco lato Enchelado ripone; Mario con tra Giugurta e Siila acervo, Tieste, Atreo o’ duo Teban, ch’ai fine fecion più manifesto il fier disdegno, quanto pronto ver me, impio e protervo, Amor, c’ha volto l ’alma in tal confine ch’invidio que’ che son nel cieco regno.
V L4 - M11 Quando, donna, da prima io rimirai gli occhi leggiadri alle mie pene intenti e senti’ l ’ermonia de’ dolci accenti, d’amorosa biltà preso, infiammai.
Da poi, s'i’ arsi e ardo, Amor, tu ’1 sai, che dolc’esca porgesti a' raggi spenti, e ben lo provan mie’ sospir dolenti e ’1 volto, ove mie stato dipinto hai. Ma tu, se 'n cor gentil merzè s'accende, rendi l'usata vista e ’1 chiaro lampo all'alma, che s ’affretta alla partita; e, se pietà di me pur non ti prende, almen con morte tra'mi d'esto vampo, dolce a tanti martir vie più che vita. VI * L4 - M11 - GV Qual fato avverso fu, qual cruda stella che nuova Circe al mondo ricondusse, onde mort'ebbe chi ministra fusse a tór da noi quell’alma onesta e bella, gloria del sangue Strozzo, in cui novella nobiltà risurgea, qual mai rilusse? È Morte acerba, ohe 'n sul fiore strusse quel di che sol potea trionfar ella. O materno dolore, o padre privo di quella speme eh' a tuo stanca vita solea in ciascun caso esser conforto! Ma tu, anima diva, in ciel se' gita, dove sempre sarà tuo spirto vivo, che non altro di te che '1 corpo è morto. V II* * L4 Lasso! qual destin vuol che dipartita facci dalla mie donna e lasci 1 core ne' suo' begli occhi e quel vago splendore, che, da sé più lontan, più m'arde e 'ncìta? Qual saran mie’ sospir? qual fie mie vita, sendo di mirar lei di speme fore? ché son già, rimembrando i giorni e l'ore, qual neve al sol, se chi può non m'aita.
* B. Pulci per la morie di Jacopo Strozzi. ** B. Pulci per Alessandro di Èoccaccino.
Così dubbioso al fin pur mi conforta che, ritornando a lei, memoria spero scritta trovar di me nel suo bel volto. Or mi sforza ubidir mie duca altero, ma, se fede non è per me sol morta, non fia il mie cor da lei già mai disciolto. Vili* L4 - M11 Spense qui fra* mortali un chiaro sole e '1 più bel frutto a noi di terra tolse acerba Morte, il giorno ch'ella volse mostrar ben di poter quel ch'ella vuole, po' che Giovanni, onor della suo prole, ove alcun tempo ogni valor s'accolse, com’a le' piacque, giù dal mondo sciolse per farne illustre le superne scole; tal che sovente a lagrimar ne 'nvita il dipartir di quest'alma sì bella e far del nostro pianto a ciascun segno. Ma '1 ciel ne splende ov'ell’è già salita a far più chiara ogni benigna stella, e de' nostri martir si fa più degno.
IX A n t o n io P o p o le s c h i a B . P u lc i V B e r n a r d o , i } m i c r e d e v o e s s e r g ià fr a n c o d a ’ la c c i e h ’A m o r t e n d e c o n s u ’ a r te , g li o c c h i g r a v i v o lg e n d o in o g n i p a r te , s e n d o d e l g io g o a n tic o a n c o ra s ta n c o . T u s a i q u a l f u ’ e m i v e d e s t i e l fia n c o a p e r t o t u t t o d e n t r o a p a r t e a p a r te , o v e r o a m ic o , a c u i t u t t e le c a r te d e l v i v e r m io s o n c h ia re i l p i ù e ’l m a n c o . Q u e s ta s p e r a n z a m ie d i v i e n fa lla c e , e h ’a n tic a s p e r ie n z a n u o v o in g a n n o , b e n c h ’e lla m o s tr i, n o i p r e c id e o to g lie .
Così m i trovo nel sicondo affanno: colpa di quel che mai non rende pace, ma 7 suo trionfo è sol d'um ane spoglie. Risposta di B. Pulci ad A ntonio Popoleschi Vinse in Tesaglia già l ’ardito e franco Amor quel che sprezzar solea ogn’arte, simile a Giove, al bellicoso Marte, con non manco furor percosse il fianco. Altri vidde di lui legato e stanco trionfando spezzar su’ ale isparte; felice donna, onde si mostra in parte ch’a virtù nuda ogni suo strai vien manco! Fuggi dunque il disio che ti disface, ché chi dal primo nodo con suo danno al sicondo si lega, mal si scioglie. Queste cose mortai fuggendo vanno al fin; poc’ombra ogni pensier fugace, salvo quanto del verde laur si coglie.
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Piangi tu, che pur dianzi eri felice, misera patria, sconsolata e mesta, piangi, ché solo a te di pianger lice! Pianse Pericle Atene e cangiò vesta, Epaminonda Tebe, e la gran Roma quello a chi ’1 nome ancor d’Affrica resta; e con volto piangente e sparsa chioma vide il suo primo Bruto in terra morto, che la regai superbia avea già doma, Furio e quel Muzio, ch’ai ferir accorto non fu, di cui l ’errante mano ardente non sofferse mirar Porsenna iscorto. Cosm’era il tuo ben solo, il tuo parente, il tuo refugio, tua salute e speme, che t ’ha fatta sì bell’alma e fiorente. Or Morte, che nissun riguarda o teme, a te l ’ha tolto e ’n sul feretro giace, e già le membra un freddo sasso preme,
Bernardo per la morte di Cosimo de* Medici a Lorenzo.
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tal che ciascun di lamentar non tace. Così crediam ch’errando se ne dolga per le selve ogni fera aspra e rapace; Febo par che 1 bel lume a sé raccolga e, fra nube ascondendo i santi raggi, dal corso i suo* cavagli arretri e volga. Che giova aver fra’ più antichi saggi cercato esser per fama tanto altero, quanto tra’ vili arbusti gli alti faggi? o d’acquistare onor, gloria, o impero e col proprio tesor la patria alzare e farla addorna d ’ogni magistero, po’ che’ più degni ancor posson furare gli stremi fati, ch’a ciascuno è dato un fine oscuro dalle Parche amare? Vedi Lucullo, che fu tanto elato dalla Fortuna di potenza e d’oro, che ’1 secol suo lo tenne esser beato: costui fu pari in ciascun suo lavoro a Cimon di delizie, e ’1 fiero artiglio non valse lor fuggire, e ’1 gran mar toro. Vedi il buon Cato pien d’alto consiglio; Manlio che con robusta e pronta mano tolse dal Campidoglio il gran periglio; Pompeo, quel ch’ogni forza e caso umano contro a’ suo’ fati volle sostenere, per far sé degno e senator romano. Non però vincer mai né contenere di questi alcun potè Morte crudele, né le sue armi dispietate e fere. Come ’nanzi all’assenzio è posto il mele, così porge la nostra mortai vita un dolce prima ad uno amaro fele. O natura, di noi cotanto oblita, perché tanti animai bruti conservi al mondo con età quasi infinita, quando gli umani ingegni, a cui riservi il saper d ’ogni cosa e le ragioni de’ pianeti benigni e de* protervi, passon tanto veloci e brevi e proni e spesso in mezzo caggion del camino, per volare a quel fin, ch’a ciascun poni? Gite, ciechi mortai, con tal destino per acquistar superbia, onori e regni, a cui restremo dì sempr’è vicino. Agrippa, quel che degli antichi degni innanzi al tempo fé ’1 grande edifizio
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che Roma mostra ancor tra gli altri segni, sentì de’ fati Fui timo giudizio; e così e nostri santi maggior patri periron tutti di cotal supplizio. Edifica Marcel nuovi teatri, vestibuli, palazzi, terme e scene, e fa voltar la terra a mille aratri. E tu sie pronto, Emilio, al patrio bene, Crasso e Murena alle divizie grandi, ch'ai fin fallace fia la vostra spene! Non vale esser intento a' casi infandi, e tanto sperto, acuto e previdente che spesso alla Fortuna ancor comandi; né in alto grado, né ’n sì eccellente eh'a gli altri di potenza, onore e fama il mondo gridi te solo eminente, o quel che tanto si ricerca e brama, gran prudenza di cose e gran dottrina, ché più l ’ultimo giorno ognor ci chiama. Così nostra prestanza al fin declina, nostra fatica è vana, e tutti siamo sogni da sera e ombre da mattina. Non altrimenti tosto via passiamo che di suo’ fiori e frondi arido e privo un tenero virgulto e piccol ramo. Anzi dura ogni spirto eccelso e divo per fama eterno, e chi fu mai cagione salvar suo patria sarà sempre vivo. Vive Attilio, Cornelio ed Iscipione, vive Sempronio e ’! gran Tito Flaminio, e ’1 titol ancor tien suo regione; e già son giunte a l ’ultimo esterminio le ricchezze di Tiro e le troiane e ogni forza del roman dominio. Già Smirna e Babillon son fatte vane, l ’ardir de’ Galli e la potenza argiva, le vittorie e ’ trionfi e pompe umane. Ma sin che ’1 mar bagnerà alcuna riva, non torrà Morte a Cato il chiaro nome, ched e’ non sia di lui chi parli o scriva. La fama di chi prese il bel cognome da Creta e da Numidia immortai fia, benché ’1 temp’ogni cosa oscuri e dome. Se Regulo con pena acerva e ria finì suo vita, pur sempre memoria
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convien ch’ai mondo di lui ferma sia. Ogni latin poema e greca istoria canta che Palma di virtute addorna non de’ mancar di sempiterna gloria. Così ’1 morto sovente vivo torna, così la degna fama e ’1 giusto onore come pianta a risurger non soggiorna. Così ’1 tuo nome, Cosmo, e ’1 tuo splendore per tutti gli anni sarà sempre chiaro e per morte tuo gloria assai maggiore. O fortunato saggio! o fido e caro alla tuo patria! per te i giorni nostri * un nuovo Lelio in terra rimiràro, per te, perch’ogni essemplo si dimostri della prisca eccellenza, che già tanto fé Roma addorna d’alti templi e chiostri. Tu, pudico, sever, tu giusto e santo, tu liberal, tu sì clemente e pio ch’a Cesare o Caton nissun diè vanto. La tuo speme era sola e ’1 tuo disio al ben comune e publica salute, ogn’altra cura vii posta in oblio; le tuo divizie son più volte sute pronte a salvar la patria in liberiate, di che parlar potrien le lingue mute. In te d ’antica stirpe e nobiltate refugio è di famoso, degno erede, quant’alcun delle gente mai togate di preclari nipoti; onde si vede, se vera è la sentenza di Solone, ch’a te grazie sublime il ciel concede. Però che più vogliàn, per qual ragione facciàn querele in contro a Dio, usando stolte parole spesso e van sermone? Appio, quel cieco, prima militando, poi nel senato fé suo patria degna; tu col saper la tua vie più inalzando, la qual cerca or che premio o quale ’nsegna a te riferir possa, e nulla truova ch’a tuo magna eccellenza si convegna. Pur del tuo ben oprar tanto gli giova ch’un titol singular, non mai più scritto, da lei per te da Roma si rinnuova, ché di comun decreto e santo editto a eterna memoria sie scolpito Cosmo, della suo patria padre invitto.
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Ma, s’egli è ’1 ben pe’ meriti gradito, veramente beato in d el ten vai a posseder quel gaudio, ch’è Sfinito. E perch’a’ tempi nostri alcun già mai a te fu simil, degli antichi eletti molti venire in contro ti vedrai: Tullio, che Catellina e gli altri eretti contr’alla patria oppresse, e per tal cosa ebbe il cognome, ch’or tu solo accetti; Fabio con la suo gente assai pietosa a vivere e morir; Curio e Fabrizio, ohe Roma tennor già da Pirro in posa. Con questi ed altri insieme al sommo ospizio giugnendo, il coro adornerai, nel quale canton l ’alme, che visson sanza vizio. Dunque, Cosmo, ornamento al secol, vale! E tu, florida patria, ornai t’allegra, se più che del tuo ben del suo ti cale! Lascia ’1 pianto e la vesta oscura e negra, tornando al primo tuo più bello stato d’ogn’arte clara e disciplina intègra; conserva, onora il suo felice nato, ver successor della virtù paterna, che ti farà fiorir sì ’n ciascun lato che la tuo fama fia nel mondo eterna.
XI L4 - M11 r vo sovente rimembrando i giorni ove tanti sospir già ’ndarno sparsi, e veggio il foco acceso dov’io arsi, mirando gli atti di madonna adorni. Sento la voce, e questa vuol ch’i ’ torni a quelle -luce che mi fur già scarsi, e lei, già cruda, sì benigna farsi ch’ogni dolce pensier par che soggiorni. DaH’altra parte un sì benigno lume mi mostra ognor quanto valor immenso s’acquista all’ombra di suo sante foglie. Non so se l ’alma sua divo costume seguirà al fine, o se ’1 contrario senso arà di me le disiate ispoglie.
L4 Più volte gli occhi al cor lasso rivolti: « Perché tanti sospir rendi di fore, repetendo pur gli anni, e giorni e Tore che ci fan lagrimar miseri e stolti? » « E voi, che fusti già da’ lacci sciolti e poi seguiste il giovimi ardore, se vi rimembra ben del nostro errore, cagion porgesti a chi così ci ha volti ». Ma io, che colpa delle vostre fole? Tal volta Palma: « E sono in tal suplizio che poco resta a morte d'intervallo ». Soggiungo allor con simili parole, sorridendo: « D i me miglior giudizio sarà censor del vostro immenso fallo ».
XIII L4 - M11 S'i’ fussi stato nel principio accorto, eh'Amor misse nel cor gli acuti dardi, di torcer gli occhi agli amorosi sguardi, forse ch'i’ non sarei, vivendo, morto. Ma or, ch'a ritornare il tempo è corto, il camin lungo e' passi lenti e tardi, convien che l’alma ognor si strugga ed ardi e segua pel sentier, ch’Amor gli ha scorto. E s'i' credessi pur doppo alcun tempo venire al fin della mi' antica guerra per tempestosi venti e gran procella, ogni lungo sperar saria per tempo; ma veggio pria che '1 corpo sarà terra ch'i' giunga a porto e l ’alma ancor ribella.
XIV L4 - M11 O dolci, vaghi e stanchi mie' pensieri, che fusti già d'ogni mie guerra pace, non v'accorgete voi che '1 cor si sface drieto a' begli occhi di madonna alteri?
Volgete ornai per più retti sentieri, non pur qua giù dov ogni ben si tace, sì che del petto l’amorosa face si spenga e l ’alma al suo suggetto imperi. E voi, di lagrimar conversi in fiumi, che pur porgete l ’esca innanzi al fuoco, che lungi e presso ognor più v ’arde e ’ncende, levate in alto a que’ celesti lumi, dove si scorge il viver nostro un giuoco e d’ogni bene oprar premio sottende! XV* L4 - Mu Era ’1 giorno solenne a ciascun divo spirto celeste al sommo coro eletto, e Febo, al carro suo il fren ristretto, volgea lontan daH’orizzonte estivo, quando fu’ preso mentre indarno givo libero in pace e sanz’alcun sospetto, onde, giunto d’Amor lo strale al petto, subito svelse ogni pensiero schivo. E fur, madonna, sol tuo luce sante che, rimirando in alto, m’infiammàro d ’un tal desir che mai nel cor fie spento. Or sì non truovo a’ mie’ sospir riparo, ch’a te rinasce ognor bellezze tante ch’i ’ sono in cotal foco arder contento. X V I** L4 - Mu
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I - Illustrissima, dara, eccelsa gloria, essemplo e fida insegna a noi mortali, ch’ai ciel per fama sali sopra Giove, Minerva, Febo e Marte, le tuo laude supremi, alte e regali, da ornar con poema e degna istoria per eterna memoria qual di Druso o Marcello empion le carte, le virtù risonanti in ogni parte,
* B. Pulci per il dì d*Ognissanti. ** B. Pulci allo Ex.mo Duca di Modena e Marchese di Ferrara.
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l ’opere viste, al nostro mondo rare, mi stringon celebrare il tuo nome eccellente e signorile, benché ’1 mie basso stile paventi e tema a far la ’mpresa ardita, se ’1 sacro biondo Apollo non Tana. II - D i nobil sangue antico e generoso surge tuo prisca, degna e gentil prole e, come in cielo il sole, così in terra fra l ’altre ognor più splende. Chi potre’ dir di quella con parole il dominio ammirando e glorioso, tanto vittorioso che già mill’anni sempre più si stende? Ed or per te in alta cima ascende d ’insegne imperiali e regie ornate, di trionfi essaltate, di forza, ardir, potenza e di valore, d ’ogni pompa e onore, di principi magnanimi ed immensi, di ducal nome e di marchesi Estensi. I l i - È tra questi el tuo saggio, inclito e degno padre, per cui ti fai tanto felice quanto d ’alcun mai lice che nato sia con più benigna sorte. D i questo in te si scorge alterna vice e di tuo stella fulge un chiaro segno, che non ti mostra indegno viver com’esso, ancor doppo la morte, moderato, costante, invitto e forte, specchio lucente a tanti successori, a sudditi e minori unico assilo e tempio di salute, essempio di virtute, refugio, ospizio agl’ingegni elevati, ornamento d’Italia e de’ suo’ nati. IV - Se queste cose te beato fanno quanto a gloria mortai qui si conviene, le tuo virtù serene quant’al fin ti dovranno in ciel più fare, giunto a quel disiato e sommo Bene che le superne grazie a pochi danno, come que’ che più sanno per lor sentenza soglion giudicare, addorno d’altre dote essimie e care
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che sono in te di corpo e di fortuna, qual mai sotto la luna natura finse in uom tanto perfetto, o supremo intelletto, che’ buoni essalti, ond’ogni bene inizia, usando a’ rei sanza rigor giustizia? V - Nasce da’ tuo’ costumi ancora indizio d’ampliar tuo potenza e stato altero, perché non fu severo quanto te mai Caton né sì pudico, né Pirro in arme tanto ardito e fero, né Dario, Scipion, Curio e Fabrizio lontan da ogni vizio, e ’1 buon Camillo, d’ogni laude amico, Torquato, quel ch’uccise il gran nimico, fedel, modesto, temperato e giusto, né ’1 divo Ottavio Augusto tanto benigno, affabile ed equale, né grato e liberale Cesare nostro o quel magno Alessandro, piatoso Enea che pianse sotto Antandro. VI - Per te sol dunque il secol si rinuova e torna di Saturno il primo regno, per chi è fatto degno sotto tuo dizion menar suo vita. Ogni prestanza d’animo e d’ingegno, ogni cosa elegante in te si truova, come tuo fama pruova, che, pel mondo volando, molti incita. L’alma tuo patria, splendida e gradita, trionfa in pace in ciascun suo confine e d ’arti e discipline libere ognor si fa più chiara e bella; e quasi un’alta stella lampeggia, posta in su l ’amena fronte del grande Eridan, fiume di Fetonte. V II - Ma se fie mai concesso al voler mio d’esser propinquo a tuo magn’eccellenza, con maggior eloquenza dirò tuo laude, e con più degna lira. Allor verranno a ornar mie sentenza dal giogo di Pirene Erato e Clio con fervente desio, come ’1 vate di Delfo a quelle spira. Quest’è quel che mi spigne e che mi tira,
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benché tuo clara e degna monarchia del gran metro saria degna, o del mantovan tanto sublime, o di più alte rime, Borsio, che te con tuo stirpe paterna facessin qui fra noi per fama eterna. — Canzon, se, come spero, al mio signore di chi tu parli innanzi giugnerai, reverente dirai il desir che ti spinge al grande effetto; e da tanto cospetto fa' ch'ai fin supplicar non ti riservi ch'accetti me fra' suoi infimi servi.
XVII L4 - M11 S'i' posso trovar pace alla mie guerra, o triegua, o posa agli amorosi affanni, dov'io son, lasso, già visso molt'anni, misero più che alcun altro in terra, vedrem forse lo stile, ove non s'erra, levare a volo e rinnovarsi i vanni e manifesti i falsi e dolci inganni d'Amor, che ta' desir nel petto serra. Per più retti sentier, onde si sale, seguirete, pensieri, el sacro legno, dal qual sol virtù nuda in voi s'infonde. Ma tu, se ’1 priego mio, Appollo, vale, non disdegnar che un sì basso ingegno a cantar vegna di tuo sante fronde.
XVIII L4 - M11 Amor, perdona alla faretra e l'arco, perdona alla man pronta, allo strai d'oro; non ti ricorda che per mio martoro ben mille volte sopra me l’hai scarco? Perdona a quel, ch'ai periglioso varco fu preso lasso, disarmato e soro; perdona a quel che del tuo santo coro segue la 'nsegna, d'onorar non parco!
E quel vago desir, che mi tormenta, accenda ’1 core a chi si fa più degna delle tuo spoglie e che ’1 mie mal gli è gioco: po’ che’ mie* preghi e tuo saette sdegna, almen per pruova ch'ella gusti e senta qual sie dolce l'assenzio e freddo '1 foco.
XIX L4 - M11 r n ’ho pregato già più volte Amore, donna, po’ che di me nulla vi cale, ch’almen di mille un amoroso strale dirizzi nel vostro impio e crudo core. Ma contro al vostro degno, alto valore né l'arco può, né la saetta vale, né altro schermo nel mie doppio male trovo che quel che gli occhi versan fore. Così, lasso, per voi Amor m'ha volto, madonna, e fra duo stremi ancor non veggio alcun partito alla mie dura sorte. Fuggir non posso e '1 seguitar m'è tolto; e veggo ben che non sarebbe il peggio che fra tanti sospir giugnessi Morte.
XX L4 - M11 Riprese un giorno Amor l ’arco e lo strale, commosso da' mie' prieghi a tanta impresa, per far contro a colei l ’ultima offesa che gli avea mille volte iscosso l'ale. Ma quella, che fra noi più ch'altri vale, alteramente volta alla difesa con gli occhi e '1 cor di smalto in alto ascesa, parò da co tal colpo aspro e mortale. Tornare, adunque, indietro la saetta vid’io, eh'appena di mirar soffersi e fuggirsene lui pien d'ira e sdegno. Allor, com'io solea gridar vendetta, Amor, subito a lei le braccia apersi: « Miserere di me, se '1 priego è degno! »
L4 - Mn Per trovar pace, poi che *1 sol si parte, ridotto al loco ov’ogni cura è vinta, veggio colei che, di biltà dipinta, m’infiamma e strugge dentro in ogni parte. Gli occhi, le chiome sue dorate e sparte raguardo, e parmi ogn’altra luce finta, e quasi che la man per forza è spinta tentar quel ch’ai desir mai giunse l ’arte. Tal volta il suon della suo voce sento soavemente ed un bel riso addorno empier la mente d ’immortal desiri. Ma, come i sogni se ne van col vento, fuggesi ogni mio ben, po’ ch’egli è ’1 giorno, e nel cor si raddoppiano e martiri.
XXII L4 - M11 Quella nube contraria, che nel viso giugne di mie madonna alcuna volta, mi fa spesso dubbiar se Palma è sciolta dal cor, non sendo ancor da me diviso. Se non che dietro un sì leggiadro riso segue ohe ’1 primo effetto si rivolta, e ne’ begli occhi sua rimane involta ogni speranza, ogni mie senso fiso. E più s’accende ogni desio nel petto, quando la voce angelica e soave forma del nostro amor qualche parola. P o’, come il sol veloce al suo ricetto fugge, così costei, onesta e grave, doppo un dolce saluto a me s’invola.
XXIII L4 - M11 Madonna, i ’ veggio ogni mie speme al vento, e voi sempre più pronta a’ mie’ martiri; e, come avvien di questi uman desiri, quanto manca di lei cresce il tormento.
Tu, che nel pett’ogni pensier più drento, Amor, volgi e ministri, ascolti e miri, ben te n’accorgi, ma di mie’ sospiri t’essalti e pasci del mie doppio stento. Ma, se dato dal cielo era per sorte queste misere spoglie in tanti affanni languire e Palma consumarsi in pianto, almen soggiunto una più dolce morte fussi, che, preveduta già molt’anni, è contra mie voler tardata tanto.
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Avea di nostra vita stanca e brieve corso già più del terzo del camino che con seco ne porta il tempo leve, quando, dubioso al mie fero destino pensando, ov’ogni cura si discioglie, venuto il giorno già fatto vicino, una donna leggiadra in ricche spoglie m’apparve innanzi con le chiome d ’oro, coronate di gemme e sacre foglie. Pareva in vista del superno coro discesa, da stupirne ogn’intelletto, forse divin, non che ’1 mie basso e soro. Ma poi ch’assai propinqua al mie cospetto porse la man con sì dolce parole ch’ogni mesto pensier cacciò del petto, i ’ ero attento al viso, come suole chi vede cosa che la dubbia mente aver già vista rimembrar si vuole; e cominciai con boce bassa e lente: « Dimmi chi se’, che da’ mie’ doppi danni par misurata sì piatosamente! » « I ’ son colei che già ne’ tuo’ prim’anni — disse — t’apparvi, e che ti scorsi in prima la via da sciòrti da’ tenaci inganni, e quella che tu già laudasti in rima, assalendo sì grati e dolci versi che ti potevon far degno di stima. Ma po’ che vidi i tuo’ pensier diversi drieto a mille speranze dubbie e vane, che partoriscon casi sempre avversi,
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volsi da te le luce un po' lontane, non che teco non fussi sempre ’1 core, quasi pensosa di tuo voglie insane. Ma tu che piangi? o qual grieve dolore t’affligge sì che dal tuo primo stato ti mostra tanto trasmutato fore? » « Piango l’avverso mie sinistro fato, la mia più ch’altra sorte acerva e dura — rispuosi a lei con volto umile e grato. — E certo, se ’1 mio mal non si misura, pensando al tempo dov’io m ’aparecchio, egli è giusto il dolor che ’n me si cura ». Come chi fermo tien l ’acuto orecchio alle parole e già la mente attesa a dar risposta a uom maturo e vecchio, così colei, da poi ch’ell’ebbe intesa la mie querelale ’n sé tutto raccolto, cominciò, quasi di pietate accesa: « O cieco! o veramente insano e stolto, che piangi quel che chi fra voi più ’ntende acquista sempre e perde con un volto, dove questo voler vostro s’intende di questi doni instabil di Fortuna? qual è questo desir che sì v ’accende? Quanto tra voi si cerca e si raguna che altro acquisto che di cose incerte, dove salute mai s’intende alcuna! O fidanze fugace! o mente inerte, ché si v ’abaglia questa cieca vista, che vi fa ignoti nelle cose aperte! Se perdendo di vizio altri n’acquista spesso fama nel mondo e ’n ciel vittoria, ben è folle colui che se n ’attrista. Ché pur sempre cercate vostra gloria dove posta non è, fuggendo tale che lascia sol di voi degna memoria? Miseri, il tanto vaneggiar che vale? ché tanta cupidigia al cor vi tocca di cose al fin pestifere e mortale? Ignota turba, temeraria e sciocca, reputando colui vero felice che d’ogni parte d’esti ben trabocca, se quel ch’a te veder già mai non lice potessi allor, conosceresti scorto che quel che più n ’abbonda è più ’nfelice.
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Ma, perché il tuo veder è tanto corto, convien che* cibi tuoi sien sogni e venti e che '1 tuo giudicar sia sempre torto. Doppo brieve desir, quanti tormenti vi porgon questi che vi son sì cari; doppo un lasso riposo quanti stenti, paure, incendi manifesti e chiari, rapine, istorsioni, sdegni ed ira, con certi dolci più ch’assenzio amari! Disordinato gusto, che vi tira come gli piace per sentier non degni, e cresce quanto quel ch’ognor desira! Quant’ angusta la via de’ sommi regni! quanto misero e stolto è quel che crede salire a quei per sì contrari segni! Felice no quel che di lor possiede, contrario all’uso che dimanda poco, ma quel che con virtù nulla richiede! Antica fiamma, inestinguibil foco, acro, mesto diletto e dubia spene, lungo tormento a sì: penoso gioco, o più d’altro sicuro odiato bene, grata, vera quiete e dolce affanno, dove sempre si cerca opre serene! Felice inopia, avventuroso danno, possedendo costei, s’altri si scioglie da sì gran cura e manifesto inganno! Se pur seguite queste umane voglie, queste pompe mortai caduche e grievi, dove alcun frutto mai dolce si coglie, fuggon vostri desir contrari e brevi, veloci in alto come avvolti fumi o come fiori o frondi al vento levi; sì che, seguendo questi van costumi, arde sempre il desir, perché non può te nulla nel foco star che non consumi. Ma qual di voi nelle più degne rote giunto, che noi minacci un’altra sorte di più cader con suo potenze mote? Quanti vari pensier precisi ha Morte, quanta ignoranza giù fra voi si spande, qual da Dio vi dilunga per vie torte! Avventurato secol, che di ghiande contento sol, non già con tal malizia facesti el tuo valor sempre più grande! Non dico tanti essempli; alcun ne ’ndizia chi vende il sangue dov’ogn’uom si fida
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dove il conduca suo crudel nequizia: Polinestor, Pigmalione e Mida a che stremo furore o Crasso d'oro, qual, più che sazio più oro non grida. Non per divizie o per cercar tesoro meritò fama Curio e '1 buon Fabrizio, Valerio e gli altri che seguir costoro; né tanti saggi, d'ogni virtù inizio, tanti e clari inventor d’ogni memoria acquistar lode per seguir tal vizio. Non assunta Maria a tanta gloria, non Pietro eletto e quel eh'è sempre santo sotto cotal milizia transitoria; non si vestì Colui di questo amanto che diede al fermamento vostro effetto e che vi tolse dall'eterno pianto. Ma, ritornando al mio primo soggetto, questo cieco desir che ti tormenta, mostrandoti pel ver contrario oggetto, discaccia, isgombra e tuo salute tenta in chi s’attende ogni dolcezza intera e che può vostra mente far contenta! Quinci fama immortale e gloria vera, di qui seguendo la suo santa luce, vedrai quanto pel vulgo in van si spera. Ma per ciò che '1 cammin ch'a lei n'adduce non è concesso sanza degni frutti, arai sempre me guida, scorta e duce ». Così diss'ella. Ond'io, ch'avea già tutti i sensi accesi, come seppi, a lei mossi, sendo già gli occhi alquanto asciutti. O luce, o sol conforto a' pensier rei, qual prego, qual voler, qual merto degno sì grata oggi t’ha mostra agli occhi miei? Quanto ne fia concesso al basso ingegno, sarà sempre tuo nome ornato e chiaro, bench’i' sie di contar tuo laude indegno. Quel c'ho gustato già nel mondo amaro han fatto dolce i tuo' sembianti adorni, ma veggio al mie fallir breve riparo; onde convien ch'i' maladica i giorni perduti e quel disio ch'a forza nacque di mercè degne e d'ogn’infamia e scorni. Quanto dolce pensier nel petto giacque, quando ti vidi, e poi quanti sospiri
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ch’i’ segui* quel che sempre mi dispiacque! Più volte già ne* mie* stanchi martiri per seguir tuo sant’orme mi rivolsi, ma troppo posson questi uman desiri. Più volte per aprir la voce accolsi quel che dentro nel petto si celava; né potè* mai, di che mi dolgo e dolsi. È quel che più m’offende e più mi grava ch’i’ veggio il tempo andar, più ch’un baleno veloce, d’esta vita oscura e prava. E quanto appresso al tuo stato sereno mi fia lecito viver, m’è nascoso per contemplare il loco tanto ameno. Ma dimmi, se *1 voler non è tropp’ oso, almen s’alcuna volta i ’ potrò fiso mirar gli occhi tuo’ vaghi e ’1 mio riposo ». « Potrai, quanto ’1 tuo cor non sie diviso dal mio » rispuose alquanto ritardando. E, così detto, i passi torse e ’1 viso. I ’ volea dir più altre cose, quando, sendo già Febo aH’oriente giunto, si partì quella donna salutando e ’1 sonno drieto a lei quasi ’n un punto.
XXV M . P a u lo P ie r i a B . P u lc i U E s p e r t o la fa c u n d ia e 7 d o lc e s t i l o , c h 'A p o llo in la t u o m e n te in f o n d e e s p ir a , t e m o d i r is v e g lia r m ie s o r d a lir a in p r e s e n z a d i te , c h 'a s s e m b r i A c h ilo . Q u a l g e o m e tr a m a i f é ta n to a f i lo s u o ' tr ia n g o li, o t o n d i , o v e r im ir a p i ù e p i ù v o lt e , q u a n to la tu o m ir a c ita r a s u o n a in r is o n a n te i s tilo ? C a llio p e , a iu tr ic e d e g li r u d i, s u p p l ì a l d i f e t t o d e l m io b a s s o d ir e e d e le n is c i in m e q u e l la rg o f iu m e , n e l q u a le E g e r ia c o n s u o ' m e m b r i n u d i s i b a g n a , p e r m o ll i r s u p e r b o a r d ir e d i q u e ' c h e p e n s a n s u p e r a r ta l lu m e !
R is p o s ta
d i B . P u lc i a M .
P a u lo
L4 - M 11 Inclita Musa, che dal sacro asilo delfico in te tant’alta grazia aspira che ne surge tuo gloria e si rigira dal mar siculo all’indo e quel di Tilo, non quella Parca, che per forza il filo tronca di nostra vita acerva e dira, vai contro a tuo virtù, ch’ai ciel ti tira, di ch’io per me’ parlar mi taccio e silo. Quanto di laude a me benigno alludi, fa’lo non per virtù che ’n me fiorire veggia, ma per tuo degno almo costume. Spirto, ch’ogni eloquenza in te reciudi, s’i’ potrò mai più dolci versi aprire, vergherò di tuo fama altro volume. XXVI M . J a c o p o d a P ila ia a B . P u lc i
L4 P e n s a n d o , r im ir a n d o e c o n te m p la n d o t a n t o e le g a n te t u o g e n t il l i b r e t t o , c h e si b e n h a i t r a d u t t o a d e t t o a d e t t o , m i p a r fra i p a s t o r g ià ir c a n ta n d o . N e l m ie c o r m i r im e m b r a s o s p ir a n d o V a n tica s p in a c h 'io p o r t a i n e l p e t t o p i ù e p i ù a n n i, la s s o , a m ie d i s p e t t o , p ia n g e n d o , d is ia n d o e la g r im a n d o . C o s ì le g g e n d o , l'a lm a m ia s 'in fia m m a , g u s ta n d o c e r te p a r o l e tt e a c c o r te c h e d is s e 'A le s s i C o r td o n p a s to r e , b e n c h 'a ltr o f o c o a m e , d iv e r s a fia m m a d ' o n e s t o a m o r g ià m i c o n d u s s e a m o r te d 'u n a e h 'a n c o r m i s ta fis s a n e l co re .
R is p o s ta d i B . P u lc i a l d e t t o M . J a c o p o
L4 - M 11 Se l ’antico desir s’accende, quando leggesti del pastor piatoso affetto, non materno idioma o stil perfetto
fu, ma del Mantiian liquor gustando. Ma, se sì dolce Tuona si strugge amando, qual tu seguendo un sì leggiadro aspetto, felice quel che sì benigno oggetto truova, suo tante lode al cielo alzando! Non lascivo furor, non mortai fiamma, ma viva luce ove si vede iscorte virtù, caste bellezze, alto valore, la qual, s’alcuna volta il cor rinfiamma, è per mostrar quant’è penoso e forte per levarsi di terra a tanto onore. XXVII * L4 - M u Leggi di Filomena e tristi versi, Pilaia, se in te pietà s'infonde, po' che tolto ne fu voci seconde parlar, doppo a' mie' casi antichi aversi. Miser, i ’ cerco ho già tanti diversi rivi, colli, boschetti ornati e fronde nel caldo giorno e poi che '1 sol s’asconde, continuando i suon piatosi e tersi. Or quel crude!, ch’a te mi manda vivo per più mie strazio, con suo reti e ’nganni, tanti, lasso, di noi n’ha dati a morte. Ma lascia! ch’ancor lui, libero e schivo, vedrà tendere a sé anzi molt’anni mille lacci d’amor con altra sorte.
XXVIII ** L4 - M11 F son qui giunto a contemplar Vulcano per gran procella e per contrari venti, tal ch’i ’ non so se più grievi accidenti sentissi là da Scilla il buon Troiano. Lasciato aven l ’aspetto siciliano, quando Zefiro e Noto, insieme intenti, ruppon le vele; e già Tonde eminenti * Sonetto a tnesser Jacopo di Pilaia detto con uno usignolo gli mandò una. ** B. al detto messer Jacopo, sendo a Vulcano per fortuna trascorso.
vincevon noi contrapponenti in vano. E se non fussi che ciascun piangendo corse con prieghi a quella gran Regina, giunt’eran l ’ultime ore e ’ giorni grami. Ringrazio lei, e passa il duol, veggendo l ’antiche fiamme della gran fucina, cogitando talor quanto tu m’ami.
XXIX L4 - M11 Dolce mie cara e gloriosa vita, mentre c’ha sdegno nel suo albergo Amore, misera, stanca, or ch’è di lei signore, dal qual indarno ogni mortai s’aita; anima bella, che sì pronta, ardita, già disprezzasti ogni mortai furore e con la tuo costanza e ’1 tuo valore quasi nel cominciar da te fuggita, che farem dunque, se ’1 fatai desire nelle più ferme stelle ha preso forza, dove Febo, né Marte si difende? Lasso! che ’1 foco nella verde scorza più si riscalda, sì come il martire negli amorosi affanni più s’accende.
XXX L4 - M 11 Amor ed io più volte ragionando della mie donna e della suo nimica, duolsi sovente della mie fatica, in lei più tempo indarno consumando. Io, come quel c’ha la suo vita in bando e che qual salamandra si notrica colpo me sempre, e lei come pudica scuso, vari argumenti simulando. E quanto ’1 veggio irato o più crudele ver lei, più grido che non tenda l’arco, come chi teme di più bassa sorte, come quel ch’a se stesso men fidele, sendo al duro nimico troppo parco, prova, lasso, tal volta incendio e morte.
L4 - M 11 Amor, se de’ sospir nostri ti giova per tener sempre duo fideli in guerra, contra costei, che 1 mio cor apre e serra, mostra del tuo valor l ’ultima prova; non pur a quel che la tuo legge approva e che più teme e riverisce in terra, crudel, l’arco e lo strai drizza e diserra, che sempre il petto disarmato trova. Non è giusta pietate in chi si sforza, non di clara vendetta onesta loda di chi vinto servir confessa e brama. S’almen contra costei non vai tuo forza, dal mie cor lasso le catene snoda, per fuggir lieto ov’altra donna il chiama!
XXXII L4 - Mu Una fragil barchetta in mezzo Tonde, ripercossa dal vento, sanza duce, che, volgendo com’altri la conduce, surge vinta, piegata e si nasconde, veggio, lasso, mie vita e non so donde, ricercando la mie diletta luce, Amor, Fortuna a forza mi conduce dove Morte chiamando mi risponde. Così vada colui c’ha posto il freno del veloce corsier di sopra il collo, dove a prender la man più non si stende. La mie piaga mortale al fin vien meno, ogni sant’erba, ogni liquor d’Apollo, donna, se ’n voi pietà non si raccende. XXXIII L4 - M 11 È questo il colle dove Amor già stanco tra mille guerre mi rinchiuse e strinse? È questo il colle onde m ’avvolse e cinse mille lacci crudel dal lato manco?
È questo il vivo sol, ch’aperse il fianco? quello sguardo seren, che ’1 mio cor vinse? È questo il riso, che di là mi pinse sotto un lucido vel, sottile e bianco? È questo il tempo e la stagione aprica? quel bel, divo, felice e lieto giorno, ch’i’ fui con teco, Amor, beato assunto? Benedetta la mia dolce fatica! Benché stanco, già ’1 quinto anno ritorno a veder que’ begli occhi, ov’io fu’ giunto.
XXXIV L4 - M 11 Qui giunse il cor ben doppo mille imprese Amor, nascoso in questo ombroso colle; qui, di dolce liquor bagnato e molle, volsi stupido, lasso a tante offese. Quivi duo stelle, d ’onestate accese, vidi, tal che la vista altro non volle; qui d ’un bel riso un più soave e folle pensier l’esca gentil nel petto apprese. Qui la vid’io già sopra l’erba accolta tra fiori e frondi sotto un verde alloro, qui parlò dolcemente e qui si tacque. Quivi fuggia, dalle mie luce tolta; qui la rividi con le chiome d’oro, bella, sì ch’altra mai sì non mi piacque.
XXXV L4 - M 11 N é sì candida perla anel mai strinse, rubino o gemma lampeggiò più in oro, né Giotto o Cimabue simil lavoro, Prasitel, Fidia o Policreto finse; né più chiara colei, che col suon vinse Orfeo, non quella che divenne alloro, non di Diana il glorioso coro ninfa degna, pudica ma* più cinse; né più saggia, celeste o più felice Giunon, Venere, o Palla, o altra diva
luce, quanto la mia propizia stella. Essemplo un vivo sole, una fenice veramente costei leggiadra, ischiva, e, se punto pietosa, assai più bella.
XXXVI* L4 - M 11
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I - Giovane bella, che, dogliosa e stanca, tutta pensosa, de' tuo’ lunghi affanni forse pensando, ti raddoppia il pianto, perché la vista lagrimosa e bianca non riconforti, se i tuo’ doppi danni può ristorar colui che t’ama tanto? La benda e ’1 nero manto non si conviene a sì felice donna, ma più fulgida gonna, onde s’allegrin tuo’ diletti figli. G l’insulti e gran perigli son tolti, e spenta ogni superbia aldace, tal ch’ogni tuo potenza è posta in pace. II - Se del tuo Cosmo ancor t’affliggi e duoli, ch’avea tant’onorato il tuo bel volto e che volgeva ogni tempesta in calma, chi sarà che non dica a’ tuo’ figliuoli: « Assai per tempo crudelmente tolto; mort’è, lasciando la terrestre salma »? Ma se felice l’alma là su più splende e ’n terra ognor suo fama, chi piangerà, s’egli ama tanto costui eh’è giunto al suo fin degno, a noi sì caro pegno di sé lasciato, onde si mostra indizio a te sempre natura e ’1 ciel propizio? I l i - E se forse chiamato alcuno iddio da te pur dianzi si mostrò crudele, fu per drizzarti alle più degne scole. Più si discerne il ben sempre pel rio, più per l ’assenzio si degusta il mele: così fa chi ’1 fedel suo sempre cole;
* B. Pulci a Piero de’ Medici fatta la pace del 1468, parlando con la patria, co' figliuoli e con esso Piero.
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così quel che ci duole non è qual si dimostra sempre avverso. Colui che l ’universo volge sovente ci risveglia e desta; po’ mostra quant’è presta suo pietà grande, se da lui non move, nostra speranza rivolgendo altrove. IV - Bastiti sol che di sì lieve impresa altri, tardi pentuto, in sé si rode, assai più d’odio che di fama degna, tu, lieta e vincitrice, dall’offesa con regi e duchi chiar, degni di lode aver portato gloriosa insegna. Or vede quanto indegna giunse la speme alla suo voglia incerta, ogni fallacia aperta de’ suo* congiunti e collegati in terra; vede di doppia guerra partorir frutto che suo gloria perde, e tuo gloria immortai sempr’è più verde. V - Ma voi più crudi, che sì degna madre, mentre dubbiosa desiando teme, non consolate con benigno effetto, sì che per l ’opre sue tanto leggiadre ricolga il frutto di suo santo seme, qual si conviene al suo piatoso affetto, fugando ogni sospetto che più nel suo bel sen par che gli offenda? Amor vuol ch’io mi stenda di lei, creato non per altro merto, essendo uman per certo: io dirò pure, e se tropp* osa è l ’opra, s’i ’ dico il ver, quel mi difenda e copra. VI - L’ire, l ’invidie, l ’avarizie ingorde sien tolte e gli odi, d ’ogni mal cagione, tal ch’ogni cupidigia si diparti, rotte l ’insidie manifeste e sorde, sì che si posi in una intenzione ciascun, premendo i velen ciechi sparti. Le discipline e l ’arti domandon pace sol nel vostro core; così ciascun minore aspetta già che di qui grazia fiocchi. Dunque, volgete gli occhi, po’ che di qui dipende ogni salute, con opra ove consiste ogni virtute!
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V II - Quella che luce più che l'altre stelle servate, poi che l'universo regge e che *1 d el volge con la spada in mano; accompagnate sue opere belle con supreme virtù, con sante legge, tal che sie chiuso il gran delubro a Giano! L'antico pianto in vano di Geremia sopra di voi ritorni felice, ove soggiorni donna, per cui Torquato il figlio uccise; altri da sé il divise per consolar l'orbata vedovetta. Dunque, quanto seguir costei s’aspetta? V i l i - Così colei che tanto al mondo è cara amate, onde la madre antica Roma pianse, po' che '1 civil suo sangue sparse. Questa sola virtù nel mondo chiara a tutt'i Deci fu già grieve soma, simile a chi l'errante sua destra arse. Questa ne' Fabi apparse sempre più degna; in Furio si discerne, in quella che Oloferne soletta ancide, in Codro si dimostra: di qui la gloria vostra. Luce però costei tanto gradita, a voi sempre più grata assai che vita. IX - Tu, viva petra, dove il tuo bel nido ha posto ogni suo speme, ogni suo fede, da non l'offender mai vento né pioggia, se tu se' stato già costante e fido nelle cose più strette, or che si crede nell'ampie, ove Fortuna più non poggia? Ma solo in te s'appoggia ogni vittoria; or sie fida di smalto, donde si levi in alto la bella donna già fatta sicura, e cresca ogni tuo cura quanto '1 sospetto, ch'ogni picciol regno per le vigilie sol si fa più degno. X - Spesso quel che crudel ferro non vinse vinse la pace, e nel tranquillo mare il sopito nocchier percosse il vento. Tu, che fato, né ozio anco non strinse, questo conserva e le tu' opre chiare,
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che ’1 proveduto dardo è sempre lento; la piaga occulta drento è da curar sol con la tuo prudenza, onde la tuo clemenza col buono Augusto e Scipio si contempli, benché di molti essempli già si conosca aver te fatto un solo, ond’è tuo fama al ciel levata a volo. XI - Vince la tuo pietate ogni perfidia, vince la crudeltà, donde ci mostri la comune salute a te preporre. O tenace costanza, o dolce invidia, con virtù ma* più vista a’ tempi nostri e che futura età non potrà torre! Ecco eh’ognun ricorre nelle tuo braccia qual torrente a fiume, o come ogn’altro lume al sol refugge; e ben si può dir cieco chi la suo gloria seco nella salute tua non riconosca, onore e fama della gente tosca. XII - Vivi dunque felice, acciò che viva questa tuo donna dolcemente, all’ombra con teco sempre di duo verdi rami. E tu, florida, bella, onesta e diva, ogni mesto pensier da te disgombra, po’ che, felice giunta a quel che brami, chi fia che non ti chiami più ricca donna d’un sì car diamante, pur che tu sia costante di servar quel come tuo sommo bene, non, come ispesso avviene, nella mollizia, d’ogni ben nimica, ché chi ben posa mal seme notrica? — Canzon, se tu vedrà’ mai il nostro duce, digli che ’1 tuo fattor converso è ’n cigno, che canta, posto nel maggior martire; né fra tanta procella altro Polluce più non discerne, fato o dio benigno, ma solo ha sculto in petra ogni desire. Se del tuo grande ardire cerca, dirai: « S’i’ fu’ manco modesta, colpa la nova età, ch’è pronta e presta ».
L4 - M11 Com’è lieta e felice nel ciel fiso l’anima attenta a contemplare Iddio, contenta tal che sol questo disio basta, maggior quant’è fra più diviso, così, sempre mirando nel bel viso, qua giù, donna, beato sare’ io, se 1 dolce sguardo un po’ benigno e pio fussi, che mostra in terra un paradiso. Ma, come quel che ’n basso loco e stremo aspetta sol che l’angelica tromba lo guidi innanzi al suo sommo Fattore, misero, sempre nel mio cor rimbomba d ’essere a destra o da sinistra, e temo come servo non giusto il suo signore. XXXVIII * L4 Natura per sé fa il verso gentile, studio le rime e ricche le ’nvenzioni; vere scienze solvon le quistioni e *1 dilettarsi poi fa il dolce stile. Amor l ’ingegno sempre fa sottile. D ote dal cielo, privilegi e doni son questi, benché sien molte cagioni che fanno un dir superbo, l ’altrui umile. Diversi casi fanno il dir diverso; quando Amor e Fortuna a dir ti strigne, e color temperrai con discrezione. Chi pensa il vero e poi compone il verso, eterno con la penna si dipigne, ché poi, morendo, ha più riputazione. XXXIX L4 Nuova influenza dalle Muse piove novellamente, ed ho cangiato stile: cagion di quel signor vago e gentile B. Pulci a Lorenzo de’ Mediti.
che per Calisto fé trasformar Giove. Così amor d’un esser mi rimuove, libero sendo, in atto ora servile; e tanto è in sé crudel quant’io umile colei che favellando i sassi muove. Sonetto mio, a Cafaggiuolo andrai, paese bel, che siede nel Mugello, dove tu troverai Lorenzo nostro; e con gran riverenza porgi a quello questi altri tuo’ consorti, e sol dirai: « Questi presenta a voi Bernardo vostro ».
XL L4 F piango il dì eh*Amor Parco suo tese per ferirmi nel cor sì duro e forte, tal che Tultimo scampo ha esser morte, poi che pietà non è in questo paese. Almen degli occhi suoi fusse cortese quanto altrui cari son. Per loro smorte porto le labbra, e le parole corte si senton del mio petto uscir contese. Meglio è morir che *n transito star vivo: però grazia dal cielo or mi provedi, ch’i’ son vicino all’ultimo sospiro. A tal vedess’io te che tu me vedi! Donna, pur non vorrei. S’i* ’1 dico o se scusimi amor, ch’egli è perch’io m’adiro.
XLI L4 Umiltà, reverenza e gravitate veggio negli occhi pulcri di costei, tanto ch’i ’ non sapre’ co’ versi miei mostrar quel che natura ha in potestate. La forza ha grande, ancor la libértate di cosa far qua giù simile a dei, or tal ch’alleggerrebbon gli occhi miei non più veder, né men fra le beate.
Benedetto sia dunque il giorno e *1 punto che natura fornì sì bella ’magine, da non ne riveder forse ma’ piùe. Né men si lodi quel ch’a sua imagine creò lo spirto, il qual poi v ’ebbe assunto gloria maggior deirai tre opere sue.
XLII L4 La fronte di cristallo, gli occhi stelle, le ciglia d’oro, e cape’ d’ariento, di perle il naso, e le suo guance e ’1 mento son di rubin fra tante cose belle. Le labra suo viole paion quelle, dì neve il collo, e ’1 suo ragionamento pien d ’onestà, dolcezza e sentimento, nuovi cenni dal cielo, anzi novelle. Non è forma mortai, ma celeste ombra, balasci con cristallo e cari membri, e ciò che vede in sé ritien com’ambra. Ogn’altra luce questo sole ingombra. Felice casa e camarlinga zambra la notte del tesor, ch’è sanza essembri!
XLIII L4 Parole dolci, mansuete e sante si senton trar del suo segreto petto a questa donna, ch’un celeste oggetto pare a vederla tutta nel sembiante. Perché non fusti in questo tempo, o Dante, insieme col Petrarca? ché sol detto aresti di costei con gran diletto, scrivendo suo bellezze e virtù tante, e casti modi, gli atti e ’1 dolce riso, e gli occhi accomodare a’ lieti passi; sponendo questo in versi, era grand’arte. Ciascun pianeto a contemplare stassi costei, ch’ai mondo vien di paradiso con gran tesoro, e mai non ne comparte.
XLIV L4 Quando la sera gli animai sen vanno nelle lor tombe e paurose celle, disiando colei, che suol novelle recar del giorno ch'aspettar lo stanno, allotta cresce nel mio cor l'affanno, ch’assai m'è più dolor non veder quelle lucerne sante e radiose istelle, che 'n ciel per grazia ancor si rivedranno. Or tu, ricca natura, che formasti sì bella cosa in queste parti estreme, tu la vagheggia, ch’io per me l'adoro! Qual grato frutto di sì util seme nacque mai fra’ mortai? Dunque, non basti esser contenti di sì bel tesoro.
XLV L4 La notte il sole e '1 giorno sanza luce, guerra su in cielo e pace nell'inferno, la state sarà fredda e caldo il verno, sanza timore chi regno conduce; il signor servo e '1 servo sarà duce, e l'uom ch'è qui mortai sarà eterno, il ver tornerà falso e, s’io discerno, nel fuoco il pesce a viver si riduce; sanza piante la terra e sanza venti vedremo il mare, e ’ corpi parleranno sanza gli spirti, e fia dolce ogni tosco; né più fien purgator, pene o tormenti, e queste varietà sol si vedranno, prima ch'io v'abbandoni e non sia vosco!
XLVI L4 Era già Febo co' cavagli un pezzo corso veloce col bel carro d'oro, quand'io vidi apparire un tal tesoro che '1 ciel porse per grazia, e non per prezzo.
Un bel rubin fra perle era ’n un vezzo, che incatenava il suo collo decoro, qual fu cagion di gaudio e di martoro, per cui il petto di lagrime fu mezzo. N el tempio intrava di chi ’1 nome porto e sempre porterà chi s'innamora, qual chi di libertà si vede privo. Dinanzi a quella Madre stette un'ora che '1 Figlio sudò poi sangue ne l'orto. Virtù con senno ragionar sentivo.
XLVII L4 Triboli, pruni, spine con ortica son le parole della donna mia; un giorno appunto mi si mostrò pia in atto, benché dentro era nimica. Nel tempo fu della stagione aprica, ch’io mi fidai, e pur con gelosia pietà negli occhi e 'n grembo cortesia mostrava solo aver, qual cara amica. Ma per gli essempli già di lor natura conoscevo il mio male e '1 molto strazio. Amor mi lusingò, quando il considero. Or sia che vuole, Amor, io ti ringrazio pur ch'io possa veder questa figura, ché altro in questa vita non desidero.
XLVIII L4 Sempre a memoria mi sarà quel giorno che ghiotti furon del mio core e ladri gli occhi suo' dolci, vaghi e sì leggiadri che sol di notte fan parere un giorno. Felice Italia e più il paese adorno Toscana bella, che sì degni padri in te ricevi con sì care madri, eh'un sol per figlia si mirono intorno! La sua dolce aria e '1 modo mansueto
con que’ vezzosi risi e le parole divote, pien di senno e di virtute, farebbon suscitare un morto lieto. Rose incarnate il volto e di viole, da farne contro al sol mille dispute.
XLIX L4 E1 cor pien di pensier, la mente d ’ira, volontà disperata, e ’n su quel punto vorrei vedere il mio corpo defunto, quando sol per mirarla ella s'adira. Sdegno mi spinge, amore a lei mi tira e con diletto al primo danno assunto ritorno, e son da lei ingannato e giunto; poi lieta par quando il mio cor sospira. Vermiglie guance e cristallina fronte sotto le ciglia al tremolar degli occhi mi fan provar d ’amore i crudi assalti. Dal dolce viso par che gemme fiocchi parole sagge, mansuete e pronte nuova Medusa a far gli uomin di smalti.
L L4 Piango il presente e mio passato tempo, pensando or quel ch’i ’ sono e quel ch’i ’ ero; ancor piango il futur, perch’io non spero trovare in lei pietà di nissun tempo. Ancor saresti, o cara donna, a tempo, se mi volgessi il dolce viso altero; ardemi '1 cor com’uno acceso cero e del mio mal ti pasci e dai bel tempo. Donna, deh non star più, ché fia po’ tardi; quantunque al male inteso medicina sia per sé buona, può seguirne il peggio. Perché, s’egli è disposto, vuol si guardi riceverla di sera o da mattina; ma l ’acqua in vaso fesso metter veggio.
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Se *1 dolce si cognosce per Tamaro, Tamaro ancor pel dolce di converso; così il purpureo bel dal proprio perso, qual -turbo tempo a suo dolce contraro. Il largitore ancor per Tuomo avaro, e *1 mansueto umìl per un perverso, e ’1 ver pel falso e *1 ben pel suo avverso; così volendo el non potere imparo. Piangendo pruovo quanto è dolce un riso, e ’nfermo so che cosa è sanitate, e pruovo a sofferir forzata morte. Or per l’inferno intendo il paradiso; sendo suggetto, gusto liberta te e quanto a racquistarla è duro e forte. LII L4 Per isfogare in parte il mio dolore, vo meco alcuna volta ragionando, dicendo: « Pure io mi ricordo quando vivevo in libertà, di me signore ». Ma or, che forza a comandarmi Amore, mille imbasciate il giorno, amor, ti mando, pregando che mi dica il punto e ’1 quando verrai quest’alma a trar di prigion fore. Deh, vienne, Morte, a cor Taeerbo frutto, quantunque più amara in questo tempo tu paia che in vecchiezza a’ membri stanchi. Megli’ è morir contento innanzi al tempo che vivere stentando in pianto e ’n lutto; piacendo prima al d el fa’ che non manchi. LUI L4 Dinanzi agli occhi miei ma’ non si parte questa leggiadra donna, per cui volse mostrar natura quel che di ciel tolse, formando qui lo specchio di su’ arte. Simil figura mai in queste parte
non si vide dal dì ch’Adam non volse ubidire al Signore, infin che sciolse esso Fattor la grazia ch’or comparte. r piango il dì che nel bel prato verde sola la vidi sotto un alto pino di primavera, e stavasi a quell’ombra. Con licenzia di lei mi fé* vicino, e ’1 traditor, con cui gioventù perde, il cor m’ebbe a ferir con sì bell’ombra. LIV L4 Onestà in bocca e castità negli occhi, bellezza in fronte e purità nel core, dolci pensier dipinti con amore, modi di savi e non atti di sciocchi, or quanto dar può ’1 ciel par ch’a lei tocchi e fassi ogn’altro bello a lei minore, pianeti, stelle qui le fanno onore; ma’ più mostrasti, ciel, quel ch’or tu fiocchi. Amor nel volto le dipinse un sole la prima volta ch’io la vidi, ed arse il core a me, cagion di tanti affanni. Sì bella stella in ciel mai non apparse, né mai in giardin sì candide viole; è vecchia al senno e pueril negli anni. LV L4 Ogni buona speranza intendo certo che tolta m’è, trovando in ogni loco costei sempre crudel, che brieve e poco el mio viver sarà, eh’è bene merto. S’i’ fu’ poco avveduto e manco sperto il dì che, per piacer, sì strano giuoco presi in diletto, debba giovar poco il dolersi or di chi m’ha sì diserto. El mio poco intelletto e ’1 minor senno con quel falso giudicio m’ha condotto quasi aH’estremo di que’ danni eterni. S’i’ fu’ mai d’amoroso sguardo ghiotto, per mia salute bramo or crudel cenno per fuggire in un tratto tanti scherni.
LVI
Mille volte adirar, donna, mi fai, pensando pur ch'io t’amo, e tu noi credi, e so che ì mio dolor cognosci e vedi; non pur per fede, ma per pruova il sai. La millesima parte tu non sai del mio amar, se pur punto ne credi; s’a tutti Ì gravi mal sono i rimedi, essemplo d’Antioco piglierai. Tristo a chi in tutto da pietà si scioglie, qual chi cattivo seme in terra getta si truova poi che ’1 simile ricoglie! E tanta penitenzia dar s’aspetta a quel che l ’altrui vita qua giù toglie, quanto fie ’1 guidardon di chi l ’ha retta. LVII L4 Non è pianeto in ciel ch’abbi potenza di comandare a nostra libértate, né stella ha seco tanto di bontate che ne mostri contraria esperienza. Ciascun governa con la sua influenza le cose di qua giù mortai create; però se crudeltà voi, donna, usate, vostra è la colpa: or vostra penitenza! Nulla vi costa quel che m’è sì caro, un riso sol, con cui fui d ’amor preso, che l ’esca fu con sì dispettoso amo. Coverse poco dolce molto amaro, il qual gusto sovente; e pietà chiamo: e so ch’io sono udito e non inteso.
LV III L4 Come lume maggior minore offende, così rimane offeso il nostro sole dal bel lume, ch’uscir degli occhi suole di quella che ’1 mio cor per suo lo spende. Che resta dunque chi ’n sé la comprende?
E1 disputarne certo non si vuole, ma questo naturai creder si vuole che la suo gloria nel bel volto splende. Dorransi quei che tardi saran nati per non aver veduto sì bel viso, in cui natura e ’1 d el pronto dipinse. O dolce sguardo, o glorioso riso, che tanto volentieri amar mi strinse, gloria de* presenti anni e de’ passati! LIX L4 Saper vorrei, Natura, onde pigliasti essemplo, ritraendo sì bel viso; credo che tu andassi in paradiso e *1 santo volto del Signor guardasti. Angeliche letizie e modi casti, atti, cenni, parlari, sguardi e riso mi fanno co’ pareri star diviso, e di cosa immortai par ch'io contasti. L'erbe, le frondi, gli animali e i sassi, la luna e *1 sole, ogni pianeto e stella vagheggion lei, che forse in ciel s’aspetta. Quand’ella alza i begli occhi e muove i passi, per leggiadria volar par ch'alia metta e '1 paradiso aprirsi alla favella. LX L4 Adolescenti gli anni, e senettute mi par veder col senno ed onestate, reverenza modesta in gravitate, vestita di bellezza e di virtù te. Le sue parole son dolci e sapute, liete, vezzose e non indarno usate, ma tutte necessarie e ben pensate, da farne per le scuole alte dispute. N el gentile orto di Toscana bella nacque il bel fiore, in cui virtù si regge e '1 secol chiama alla contemplativa. D i lei si scrive più che non si legge di nessun'altra e massime di quella ch’a sé diè morte per rinascer viva.
LXI
Quella stella che tutti Ì legni guida, quando con l'altre il ciel se ne richiama, non è sì bella o di Titon la dama né quella che Calisto al fonte sgrida, quanto è costei, per cui ciascun si fida creder che 1 cielo a sé per lei ci chiama, gloria del sesso feminile e fama, per cui sempre convien ch'allegro rida. L'anime sante a' bei balcon celesti si fanno, vagheggiando il casto viso, che fra duo spere alberga un sole in mezzo, anzi più tosto un dolce paradiso, che di letizia par che ’1 mondo vesti, sanza qual rimarrebbe in un bel rezzo. LXII L4 Da poi che l'arte cominciò natura, creata sol da chi poteva in prima, non so se 'n questa parte bassa ed ima il ciel vedessi mai simil figura. Se facilmente Amore il cor mi fura, nissun si meravigli, ché chi stima Amor non possa in noi, pruovi suo lima fervida e calda sì fuor di misura. La voglia cresce e la speranza manca, né già mai sono inteso e sempre chiamo colei che mi tien qui, vivendo, morto. Pallida, oscura, essanimata e bianca porto la faccia e sol, per mio conforto, il volto e '1 petto a lagrime ricamo. LXIII L4 Se 'Adriana fu crudel Teseo lasciandola soletta, e pur fu bella, abbandonata in tutto non fu quella, ché a pietà si mosse alcuno iddeo. Così costei in questo pianto reo
mi lascia solo all’ombra d ’ogni stella, ma, se di questo il cielo ara novella, Ercol sarà cortese al tristo Anteo. Donna pietosa già non vidi mai; cerchinsi tutte, e più veggo Medea crudel, qual sa’ già fu al suo Giansone, che ’1 cor de’ propri figli a quel porgea. E già per lor ne reston morti assai; pietate in cielo e crudeltà in Didone. LXIV L4 Volsimi un giorno indietro riguardando s’alcun d’Amore al mondo si difese, ma quel che più che gli altri seppe e ’ntese vidi soletto andarsi vergognando. Allor, come un che si desta sognando, sospeso stetti e gran dolor mi prese; maraviglia e paura il cor m’offese, vedendo sapienza andare errando. Allor cognobbi indarno e giorni miei avere spesi per amar Medusa, benché morto sarei già sanza lei. Amor difese me con quella scusa che difese l’amica da’ Giudei; ma pur giustizia e la ragion m’accusa. LXV L4 Amor col tempo esperienza mostra di sé e d’altri, e quanta forza ed arte seco congiugne, quando alcun si parte da quella libertà ch’abbiam per nostra. Sanz’arme nudo con l ’armato giostra chi s’innamor, sanza timone e sarte vuol navigare e sanza l ’util carte. Or ben può dire Amor: « Cechità vostra ». Dove è lo ’ngegno, la virtù te e ’1 senno dell’uomo? e la ragion che ci governa? Smarrita è per noi forse, anzi perduta. I ’ vo’ dir sol di me che per un cenno d ’una cosa mortai lascio Fetterna; ma peggio chiamo quel che mi rifiuta.
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Rido tal volta che mi piange '1 core, di fuor letizia e gravi dolor drento, e par ch’i ’ goda trionfando e stento: tutto il contrario a quel ch’appar di fore! Di tutto questo n ’è cagione Amore, che quello a me negò ch'altrui consento, tal ch'ogni lume di ragione spento in me conosco, e gir vo'mi al peggiore. Amor mi sforza, qual rettor prigione, a far com'egli ad ir con tra suo vita; libertà chieggio e vommene in prigione. E corro dietro a morte e chiamo aita, e cerco di pietà in grembo a Nerone, seguendo lei, di crudeltà vestita. LXVII L4 Gli occhi leggiadri m'han furato il core, le vezzose parole mansuete mi fanno sospirare, e voi el sapete, donna mia cara e dolce mio signore. Di voi mi dolgo spesso con Amore, vedendo che potresti, e non volete, con sì poc'acqua trar sì lunga sete, conservando del mondo il suo migliore. El primo dì eh'Amor per voi mi vinse, rimasi contemplando innamorato, sanz'aver disider d'altro diletto. Chieggiovi al viso dolce e temperato un riso, quel ch'amar tanto mi strinse, che del licito amar premio n'aspetto.
LXVIII L4 Piangendo rido e sospirando godo e, gran coste salendo, m’è riposo, e sto sanza sospetto e son geloso, po’ lieto son quando mi struggo e rodo. Talor rispondo che chiamar non m'odo,
timido e vile e son sempre animoso, allegro vivo e sto sempre pensoso, e dormo in sulle piume al terren sodo. Son pe’ giardini, per le selve oscure, soletto sendo e sempre a compagnia, e di chi più mi fugge veggo il viso. Fra gran soqquadri e ben mille paure mi tengo esser felice, anzi beato; così in inferno godo il paradiso. LXIX L4 Quante vaghe parole e quanti risi, quanti vezzosi sguardi e lieti passi i’ l ’ho veduto fare, e quanti sassi calcati già da lei si son divisi! Le rose, le viole e ’ fioralisi di grazia arebbon sol che gli toccassi; l ’erbe, le fronde ancor che le guardassi con quei begli occhi suoi, due paradisi. Quanti vari uselletti ed animali lascion le selve per veder sua fronte cantando, e chi latrando per letizia! N é riman ninfa in selva, in campo, in fonte, né in d e l nissun di quei sacri immortali, per venire a veder tanta milizia. LXX L4 O sacra Vergin santa, alma puella, che parturisti qui nostra salute col poter d’altri e con la tua virtute, faccendo ogn’alma al tuo Figliuol sorella, soccorri or quel che con Morte favella e l ’entrinseche forze ha già perdute, e l ’alma ha far quell’ultime dispute dubbiose col nimico e sua facella. Raccomandami a chi può quel che vuoi e quel che piace a te sempre mai vuole, ch’a me porga la man ch’a Pietro porse. Vita da lui e morte abbiam da noi: ora, se Amor dal suo voler mi torse, col cor pentuto piango le parole.
Amor creò per noi la prima pace, amor tolse da noi la mortai guerra, amor fece venir di cielo in terra il buon Signore, a cui solo amor piace. Ma io son per amore in contumace, e veggo cominciar novella guerra a chi, parlando, crudeltà diserra e gode(r) sol di quel ch’altrui dispiace. Il giorno in terra gli animali invoco con debil voce dimandando aiuto, la notte chiamo cieli, stelle e luna; né pietà truova il misero Antioco, ma forse arà di me più pietà Pluto, se morte mi provede in tal fortuna. LXXII L4 O tu, che hai l ’universal governo, Monarca sacratissimo, invisibile, che puoi delTimpossibil far possibile e fare un paradiso nell’inferno, ’n un tempo giorno e notte, estate e verno, e di cosa invisibil far visibile, pietà ti stringa, ohe ti fé passibile colonna e guida a noi, timone e perno! A te mi volgo sol co’ pensier casti, pregando te che ’1 mio mortale iddio ispiri di pietà eh’a te non spiaccia (lecito amare onesto fa il disio), ch’a me sia dolce e lieta nella faccia, se per mia morte già non la creasti.
LXXIII L4 Occhi miei tristi, or come far potrete sanza vedere il vostro allegro sole? poi che chi vuol felice far ne vuole un’altra gente, e voi più noi vedrete. Piangete dunque, a voi dico, piangete,
ché d'altro qui il cor tristo non si duole! Privo sarò d'udir quelle parole umili, savie, rare, atte e discrete. Tu, d'Italia e Toscana o paradiso, non piangerai tu meco la partita di quel che or hai in grembo, s'tu tei perdi? Di mille guerre pace con un riso far sapeva, 'n un punto morte e vita, e secchi rami nel mirargli verdi. LXXIV L4 Quando fie '1 dì ch'Amore il freddo petto ti scalderà, dal d e l discesa stella? Quando fie '1 dì che tu sarai, qual bella, pietosa nell'altero e vago aspetto? Quando fie '1 dì felice e benedetto ch’i’ possa dir: « Testé parl'io con quella che, quando sguarda altrui, ride o favella, contemplativo fa ogni intelletto? » Gli occhi duo soli, il bel fronte sereno co’ dorati capelli son cagione che sospirando a' suoi piè m'inginocchi. N é posso crudeltà spegnerle in seno, ma tanto piangerò fra le persone che troverò pietà ne’ suo' begli occhi. LXXV L4 O pacifiche lagrime tranquille, dolci sospiri alla mia vita sani, lieto ramaricar degli altri insani, suave mio riposo udir le squille! Amore un'oncia fa il peso di mille e '1 paradiso in luoghi ombrosi e strani e civil uomin cittadin silvani col viver dolce in solitarie ville! Questo fai tu, scherzando con Amore, donna, e ridendo ci apri il paradiso, parlando l'aier di letizia piena. Natura per suo gloria e tuo onore ti formò primavera nel bel viso, serenissima fronte nazzarena.
Benedette le lagrime e* sospiri, benedetti i disagi con gli affanni, benedetti gli strazi con gl’inganni, benedetti gli sdegni e’ mie’ desiri! Non m ’è vergogna, poi che tanti viri presi fur già d’amor ne’ maturi anni, che poco più di quattro lustri d ’anni son che qui venni a posseder martiri. Latini, Greci, Ebraici e Caldei hanno scritto d’amor mille volumi, e ’1 legger m’è paura, cibo e pasto. Un testo truovo, e dice a’ dolor miei: « O tu, che per amor pur ti consumi, medicina non giova a dente guasto! » LXXVII L4 Veggio del tempo esperienza troppa, tal che di meraviglia or mi dipingo e, se col vero insieme mi ristringo, tutti siamo ombra, vento, fumo e loppa. Vola il nostro cavai, non pur gualoppa, ché, pensando, dal cor lagrime attingo; ma, per dir brieve, el nostro viver fingo essere un cavalcar con Morte in groppa, e nimici alle staffe armati e pronti, Fortuna che fa scorta co’ martiri, e sento al vecchio dir: « Pur nacqui ieri ». Favole e sogni par che di sé conti; tutti siam mercatanti di sospiri, al ben far gravi, al mal destri e leggeri. LXXVIII * M I11 I * N ell’età pronta, giovinile e vaga, quando i nostri desir, ferventi e sciolti, apron nel petto l ’amorose chiavi, l ’anima bella, del suo mal presaga, C anzona fin g en d o che la P oesia aparisca a Vauctore in vision e.
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turbata e i sensi desiosi e volti per inculti sentier, rigidi e pravi, con atti onesti e gravi m ’aparve inanzi una benigna idea, che tolto a Citerea avrebbe fama e fatto invidia ’ Apollo, con un diamante al collo, vestita a verde e le sua trecce d'oro coronate d'ulivo e sacro alloro. II - La sua man destra graziosamente a me dubbioso sorridendo porse, formando di sua voce un dolce sono: « O cieca, stolta e desiosa mente, che t'ha fatto di te più volte in forse, cercando ne' begli occhi van perdono, perché più caro dono non cerchi conseguir con degno effetto, cacciando via del petto questo folle pensier, questa impia voglia, che ti divide e spoglia di quella luce dove al fin si spera ogni nostra salute, unita e intera? » III - Così parlando, al fin d’un basso loco mi trasse accortamente, e poscia i passi volse per un camin serrato ed erto. Ond'io, che drento già sentiva il foco, cogli occhi gravi, tenebrosi e bassi segui', come colei mi fece esperto, fin che in un colle aperto giugnemo; e stanco, rimirando intorno un verde prato adorno di freschi rivi ed arbuscelli spessi, laùr, faggi, cipressi, dov'è Febo già caldo, all'ombra intenti rendevan fuor gli uccei grati concenti. IV - N el mezzo un chiaro e delicato fonte, ove sedevan nove donne belle parlando cose gravi al nostro ingegno, a lor fatto vicin, chinai la fronte alle dolci acqui per gustar di quelle, sì che ciascuna il viso empiè di sdegno. Madonna mi fé segno ch’io ritornassi indietro e poi sogiunse: « Qual gran voler ti punse tentar cosa ch'a pochi ha dato il cielo? Cangerai prima il pelo
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che tu possi libar di quel che brami, o cór solo una fronde d ’esti rami ». V - Poi, detto questo, m ’accennò con mano, alquanto sopra noi levato in alto, un loco assai repente e pien di spine. E cominciò con un sembiante umano: « Lassù, dove tu vedi il duro smalto, si stanno liete sette gran regine, che cose alte e divine contemplon sempre. Il lor degno negozio è sempre uno equinozio, né pioggia o nube o venti mai l’offende. D i quivi si comprende ciò che si copre al mondo; è lor liquori ambrosia e nettar con sùavi odori. VI - Non è lecito a alcun la gran salita sanza gran merto o sanza fida scorta; così Chi tutto regge far gli piacque. Quanti già colla mente troppo ardita si son perduti nel cercar la porta, non avendo bevute di queste acque! » Così detto, si tacque e con l ’ultimo suono abassò il viso; poi, dopo un dolce riso, si partì salutando assai veloce. Io mossi in van la voce per ringraziarla, e già più d’una volta, né mai s’intese la parola sciolta. V II - Tornava indrieto a rimirar la vista tante cose e sì degne, e le parole scolpite eran nel cor d ’altro che ’nchiostro; e meco, con desio di doglia mista: « O celeste bellezze, o vago sole, ch’a me sì grato manzi ti se’ mostro, o cieco e duro chiostro, lasso, dov’io sofferto ho tanti affanni, perché ne’ mia primi anni non volsi gli occhi a rimirar costei, che forse i passi miei avrebbe scorti a seguitar coloro che posson dar perfetto ogni tesoro? » — Canzon, se mai parlar ti lice in terra, benché ornata non sia di quelle spoglie che ti dovevan far tra l ’altre accetta, racconta quanto si vaneggia ed erra, seguendo sempre queste umane voglie
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dove nulla speranza è mai perfetta, e quanto ben s’aspetta per chi drieto a costor dirizza Tale, che fan dopo il morire altri immortale.
LXXIX * M11 Quel che forza né ingegno uman non vinse e che già spense ogni desio mortale, benché più volte l ’au-rato strale Amore indarno e la faretra cinse, subito aperse e dolcemente strinse una ch’ai nome gli mancò sol l ’ale e, per mostrar quanto più d’altri vale, ratto con mille nodi lor avinse. N é riconobbe il suo più degno stato, finché dubbioso in piocioletta barca si volse a rimirar il bel confine. Chi sa quanto si stenda il suo dur fato? chi nega, Anton, sì come il mio Petrarca, nessun vero felice, anzi che ’1 fine?
LXXX ** M11 Tornata è Progne e la sorella amica, tal ch’ogni valle del lor suon risponde, ed altri assai, che tra l ’amate fronde pruovon l ’usata lor dolce fatica. L’ombra, che densa si mostrò nimica, rende le rive già grate e gioconde, e Zeffir l ’aùr più sùave infonde, benigno Febo alla stagione aprica. Così d ’erbe e di fior lustra ogni piaggia, ove col suono ogni pastor contenta l ’ornata gregge, che parea già stanca. P e’ verdi boschi ogni fiera selvaggia, lieta scherzando, le sue fiamme tenta: ma per me solo ogni campagna è bianca. * S o n etto a A n to n io P o p o le sc h i sen do a P rato 1461. ** S o n etto a d e tto A n to n io d'a p rile 1463.
Né per lungo silenzio il gran desire, né celato si spense il dolce foco, poi che la mente nel più saldo loco puose rimmago, onde non può fuggire. Quante volte moss’io per discovrire, come chi sente già furor non poco, ma, dubbiando lo stil mio basso e fioco, volse tacendo sol tua laude dire! Or, se gustare ogni dolcezza lice dopo la vista desiata tanto, qual maraviglia se ’1 voler s’ingegna? N é più grata ad Orfeo Euridice, dopo le noti del suo dolce canto, che la tua Musa a me propizia e degna.
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I - Lasso, quando per forza, Amor, da prima nelle tue reti giunto, vidi il cor di pensier leggiadri involto, poi che tue insegne gloriose in cima vidi solo in un punto del mio lucido sol cangiare il volto! Misero, allor fu tolto ogni sperar, che mi potea far lieto, gioir nel foco e ne’ sospir contento! Così, d’ogni tormento colmo, di libertà già scosso e privo, amaro frutto mieto d’un dolce riso simulato e schivo. II - Queste riviere lacrimose il sanno, queste campagne e boschi, ov’io già stanco i mia sospiri apersi. E torna per mio strazio il decimo anno che co’ be’ rivi toschi cantando ho mostro le mie piaghe in versi;
* S o n etto a m aestro B ernardo da M on talcin o fisico. ** C anzona fa tta in M u gello nel 1468 o v e son figu rate 4 stagion i dell'anno.
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dal giorno in qua ch’io apersi gli occhi a mirar costei che mi disface, pur non ebb’io un’or, lasso, tranquilla. Quel che dagli occhi stilla vedessi il cor che spegne ogni desire, ov’io non chieggo pace, ma triegua o spazio al mio lungo martire! I l i - Qual ninfa o qual driada in questa piaggia del mio pietoso canto con Ecco sventurata non si dole? Qual dea silvestra o qual fera selvaggia non conosce il mio pianto? Chi non vede il mio mal non vede il sole. Qual dura legge vuole, Amor, ch’i’ mi distrugga, e quel ch’io bramo fugga sempre dinanzi agli occhi miei? Qual fati o quale idei in me senza ragione uson tal forza che sempre indarno chiamo chi di mia vita a me lascia la scorza? IV - E pure in terra ogni animai che vive dopo la sua fatica usa quanto di grazia il d el ne ’nfonde. Chi verso il sol, chi nell’amate rive nella stagione aprica suona dolci concenti tra le fronde; altri le più gioconde silve circunda e con più dolce tempre le rive, e boschi e ’ rivestiti colli; chi ne’ liquor più molli tiepidi lustra per la sua vaghezza, come natura sempre ciascuno al suo desir traendo avezza. V - Ma io, da poi ch’a l’Ariete torna il sol nello equinozio e che Zeffiro spira più suave, ogni bel colle, ogni campagna adorna, ogni sol lento ed ozio, fior, frondi e silve, ogni ruscel m’è grave, e le più oscure e prave spilonche cerco d’uno in altro scoglio, ov’io canti il mio mal, converso in cigno; quivi non dio benigno, non pensier dolci o più tranquilla sorte chiamo nel mio cordoglio, ma sol lei cruda e mia fortuna e morte.
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VI - Quando nel mezzo del suo segno Apollo, nell’ora ohe più infesta, ogni pastor ramata gregge acoglie, nessun giovenco ha più Tarati’) al collo, sol la cicala è desta, dormendo ogni uccelletto tra le foglie, qual con più calde voglie fera s’asconde in solitaria valle, cercando l ’ombre e ’ più gelati fonti; ma io, perché il sol monti, né Tacque tento né dal sol mi fuggo, ma ’1 più diserto calle cerco sempre, del foco ov’io mi struggo. V II - Simile il raggio, qual Tuccel di Giove o qual fenice il foco, accendo e seguo ov’io ardo e ritorno; poi, quando il sol più temperato move lasciando a poco a poco la Virgin colla notte, e, qual è il giorno di ricchi pomi adorno, il mondo è di liquor dolci e giocondi, quasi ogni pianta poi fredda si spoglia; ma Tostinaia voglia sanza alcun frutto suo vigor non perde, né speme cangia o frondi per contraria stagion sempre più verde. V i l i - Non neve alpestre o freddo, ghiaccio o pioggia, da poi ch’ai Sagittario contrario Febo ha volto ogni sua lampa, spegne l ’alto desio che sempre poggia; ma, come l ’un contrario spesso l ’altro risveglia, ognor più avampa. Lasso, chi fugge e scampa nelle usate caverne, allor che grave Giove tonante fulminando versa! Ma la mia dura, aversa voglia contro seguir sempre gli piacque, sì come stanca nave che fugge ogni tempesta in mezzo Tacque. IX - Così per voi, donna, conduco e guido la mia misera, stanca vita, da poi che ’1 sol discaccia ogn’ombra, finché ritorna al suo leggiadro nido e che la luna imbianca la terra, quando il d el la notte ingombra. Però, se il cor disgombra
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questi sospir, giusta cagione il regge, perché, celando il foco, più s'accende. Se Amor né voi m'intende, pur fia chi gusti le mie rime in parte; ma così va chi elegge sempre fra due la più contraria parte. — Canzon, di monte in monte, lasciando me qui dove Sieve nasce, ricercherai sol della mia fenice; dove, se mai ti lice parlar con seco, di' che forte temo. Digli di che si pasce il suo servo fedel, giunto all'estremo. LXXXIII M11 Aveva al sol le trecce ornate bionde, contrarie al volto suo, bagnate e sparte quella dove natura e '1 ciel sua arte mostrò, per non vederne altri seconde, quand'io, seguendo quale uccello in fronde, ascoso e tutto volto in quella parte, percossi in certo ramieello in parte dubbia, come chi segue e non sa donde. Tutta si scosse e, per veder che fusse, rizzossi, e certo coprimento lieve di fila avolte si levò di testa; né più subito lieta a me rilusse che '1 sol, fuggito un nuvoletto brieve, con riso ch’io ne vidi in ciel far festa. LXXXIV * M11 Qui, bench'io sia col corpo stanco giunto, con teco è il core, ove più tempo è stato e sarà sempre, fin che miglior fato l'ara col suo desir lieto congiunto. Mille vari pensier cangio in un punto e resta solo al mio misero stato quanto questo signor benigno e grato
* S o n etto a A n to n io P o p o lesch i sen do in Sicilia.
a’ mia stanchi martir di speme ha giunto. Tal volta, lasso, a sospirar m’induce la dolce patria, il mio diletto nido e più nostra amicizia onesta e degna. Poi mi rivolgo ed a me stesso grido che debbo altro voler, eh’è Chi conduce sempre al vero camin la nostra insegna.
LXXXV M11 Or che nostra Fortuna e ’1 Ciel ne ’nsegna quant’è il lungo sperar dubbioso e lieve, per camin fosco alla stagion più grieve temp’è di rivoltar la vostra insegna, simile al nocchier saggio, che s’ingegna volgere in porto per camin più breve. Dubbi, vaghi pensieri Che non si deve seguir sempre colei che sì vi sdegna. Bastivi sol che chi vi tenne in pianto, non volendolo far, mosse l ’ingegno e fé sé nota e voi levar di terra. Ad ogni altro desir più basso e indegno da fuggir uon gentil questo sia tanto, rivolgendo a Colui che mai non erra.
LXXXVI M 11 Né sì fulgide stelle in mezzo un sole da fare uon divo al mondo e ’n d el felice, né in terra mai sì candida fenice qua giù discese da l ’eterne scole; né più sùavi o più dolci parole, eh’Amor nel volto di costei ridice, né più conviensi, né veder più lice tante chiare eccellenzie uniche, sole. Chi vuol veder del ciel tante sue prove e quanto il mondo di bellezze serra, miri della mia donna il sacro aspetto . Io direi cose ancor più alte e nove, s’io non credessi a tutte Pai tre in terra empier d ’ira e d’invidia il viso e ’1 petto.
Furato hai, Morte dispietata e rea, anzi tempo del mondo il suo tesoro, che concesso n’avea dal sacro coro per essemplo di noi la casta iddea; mentre che la sua tela avolta avea per tessere Imeneo sì bel lavoro, mossa dal suo pudico concestoro, mostrò costei quanto fra noi potea. Né virtù te o bellezza a morte vale, né ’1 sacro nome suo, simile a quella che discaccia la notte e reca il giorno. Triunfa altri di lei fatta immortale, agiugnendo nel cielo un’altra istella, e ’1 mondo piange chi l ’avea già ’domo.
LXXXVIII *** M 11 Vinse protervo amor la chiara fama del più saggio figliuol: dunque ben mira a che periglio sta tua voglia dira, ch’ognor t’induce più, quanto più ama. E, se virtute ornata al ciel ti chiama, perché non volgi ove tua mente aspira? E teco pensa ch’ai fin si sospira per chi quel ch’a sé nuoce cerca e brama. Pon fine al van desio che ti trasporta, ch’io temo ornai che l ’ostinata voglia non si cangi più tardi in te che ’1 pelo. Che vai desio a chi quel torna in doglia? Chi puote essere ad altri fida scorta ch’a scorger sé ha inanzi agli occhi un velo?
* Sonetto per VAlbiera di Maso degli Albizzi, la quale morì dovendo fra pochi giorni andare a marito a Gismondo della Stufa. ** Sonetto in reprensione a uno amico che per amore avea lasciato gli studi.
Quanto presso al valore ogni altro lume manca d ’Apollo ove lassù più splende, quanto dei-fonde men si volge e stende fonte, rivo, ruscel, torrente e fiume, tanto da celebrarne altro volume, tua virtù clara sopra ogni altra ascende, sì che ogni gloria e fama in te discende di chi con Sorga par che *1 mondo allume. Vidi, lessi, compresi, benché il seno debile ha tanto assai maggior l ’effetto che quel che di te suona in ogni parte; qual, s’io non mostro ne’ mia versi appieno, colpa forse non mia ma dello oggetto, dove manca l’ardir, l ’ingegno e l ’arte.
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I - Io veggio, altera donna, il tuo bel seno colmo di gemme preziose e d’oro, e l ’antico tesoro recuperato, già posto in oblio. Veggio l ’aspetto tuo tanto decoro più che l ’usato grazioso ameno, e ’1 tuo stato sereno pien di dolce riposo e di desio; ogni altra cura, ogni altro pensier rio fugato, e posto in alto il bel vessillo, dappoi che ’1 buon Camillo ha posto in pace la sua sposa Roma, e la sua inculta ed arruffata coma ristaùrato con alterna vice, tal che ciascun ti noma e loda bella donna, alma e felice.
* Sonetto a uno amico, avendo letto sue opere in versi. ** Canzona a Lorenzo de* Medici per la novità di Firenze nel 1466, parlando con la patria, sendo in Sicilia.
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II - Veggio il tuo primo Bruto, il ferro stritto mostrante al popol, di furor dipinto, tutto fedato e tinto nel casto petto di Lucrezia degno; Tarquinio assente, già per forza spinto della sua patria e dello imperio affritto, con simulato amitto ridomandare il posseduto regno; Virginio è giunto e con pietoso sdegno posto Roma e la figlia in liberiate, onde sua nobiltate s'inalza e sua virtù dar a s’aprezza. Così, donna gentil, tua gran bellezza da ogni parte duplicar si vede, sì eh’ogn’altra si sprezza; e qual più degna a tua dignità cede. I l i - Venuto è Ciceron nel gran senato, e di Caton l'alto parer si prende; Cesare invan difende, fin che con ferro è di tacer costretto. Lentulo oppresso in basso loco scende cogli altri giunti al loro ultimo fato, Catilina spogliato d’ogni sua speme è da Metello stretto; Cicero patre della patria è detto e manifesta ogni cospirazione aperto, e di Pisone ogni segreto, dalla patria sciolto. D i qui, donna leggiadra, el tuo bel volto con maraviglia ognor più splende e luce, dappoi che in te s’è volto pietosamente un sì benigno duce. IV - Ecco che '1 secol degno si rinova e di Saturno il primo regno torna, tal che più non soggiorna l'età del ferro, ove ogni mal s'adempii. Tu, di leggi e costumi ornati adorna, rendi della tua madre antica prova; tanto essaltarti giova al buon Torquato con famosi essempli. Vedi levar sommi edifizi e templi, oraculi, delubri e sacri fani con divini ed umani culti, decreti e plebisciti santi. Dunque, Tosane bende e' tristi amanti
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lèvati, donna, che ’1 tuo Scipio t’ama e mostrane sembianti, onde ne segue ogni tua gloria e fama. V - Atene alla sua publica salute più pronto mai Temistocle non vide, né Tebe il grande Alcide o ’Paminonda in sua gravi perigli, che tu vedrai con sua costante fide il tuo Fabrizio, e con maggior virtute da te già conosciute ben mille volte in sua santi consigli. Costui non t’ha renduti tanti figli ch’eron già stanchi di chiamar merzede? O vero e degno erede del padre tuo, di che tanto ti dolse, quel ch’a sua voglia Italia e ’1 mondo volse e che tanto onorava i tempi nostri! Ma il ciel se lo ritolse per adornarne su gli eterni chiostri. VI - O fortunata e graziosa donna, giunta a sì degno e glorioso sposo, che sì lungo riposo ti mostra e ’nsegna con eterna vita! Non è questo colui che sol fu oso di rivestirti di sì ricca gonna, viva petra e colonna, dove ogni nostra speme è stabilita? Posati, bella donna, e con gradita virtù serba sì fermo e bel diamante, e le sue care piante onora e degna con pietoso affetto; di che surger vedrai sì degno effetto che insino a’ Parti s’udirà il romore, e ’1 tuo nome fia detto felice al mondo con eterno onore! — Lascia Trinacria con Caribdi e Scilla, canzon, bench’io non t’abbi ornata d’ostro, e cerca il lito nostro, dal qual più lunge or mi consumo e scarno. Quivi la donna in sul bel fiume d’Arno vedrai, che serba il mio degno tesauro; non ti posare indarno, fin che tu giunga appiè d’un verde lauro.
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Solea già stanco ne* sospir più gravi, vinto dal pianto, convocare, Amore, tal volta, lasso, nel mio gran furore colei che tolse del mio cor le chiavi. Non chieggio più pensier dolci e siiavi, non triegua o posa al mio fervente ardore, ma che tu, cruda, sol con Fultim’ore giunga a tanti mártir dogliosi e pravi. Già tanti al mondo col tuo dente hai morsi, principi, regi gloriosi e spesso rotti mille pensier famosi e degni. A me, che drieto a te chiamando ho corso, ad altri in odio e debito a me stesso, dopo molti anni sovenire isdegni.
XCII M 11 Queste cose mortai che sempre vanno vicine al senso, onde talor sospira nostra diva natura che oi tira come più degna al glorioso scanno, muovon vari accidenti, che ci fanno volger contrari ove la mente aspira; onde al vero camin si scerne e mira dumosi colli, ch'ai desire ostanno. Ma pur, se da virtù non si disiunge, vedrassi ogni pensier propizio a riva e quanto ogni contrario si rattrista. Segui dunque tuo ’mpresa onesta e diva, e cerca musa ove chi laude aiunge meritamente a sé fama s'acquista.
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Se mai priego mortai nel ciel s ’intese, Vergine sposa del tuo Figlio eletto, in cui l'eterno amor tanto s'accese, volgi gli occhi pietosi al tuo suggetto,
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sì che, cantando di tua laude immense, almen presso al desir giunga Teffetto! Vedi le voglie sue già tutte accense, e, per seguir sua degna intenzione, nel tuo bel volto le sua luci attense. Non Musa, non Parnaso o Citerone, non l ’aiuto di Febo qui s’attende, né dello antico Orfeo né d’Anfione, ma sol quanto da té valor discende, il qual, giugnendo in ogni sorda lira, faria le noti dolci e reverende. Vergine, adunque di tua grazia spira nel caldo petto, senza ’1 qual sarebbe ogni speme di lui manca e delira. E se forse l ’ardir troppo alto crebbe, scusilo il tuo celeste e santo ardore, ch’un cor di neve o ghiaccio scalderebbe . O fidissima stella, o sommo amore, cui né lingua né ’ngegno o carta o inchiostro basta per celebrare il tuo splendore, tu sola, eletta nel superno chiostro, predestinata fusti a tanto bene con altri culti ohe di gemme o d’ostro. Sendo sterili e vecchi senza spene i tua parenti Giovacchino ed Anna, disceson giù dal ciel voci serene, annunziando con sì dolce osanna tuo nascimento, che dove’ tór tanta resia dal mondo, che le menti inganna. Così dunque nascesti e giusta e santa in Nazaret, o glorioso essempio, di David tua prole eccelsa pianta, ove in Ierusalem nel sacro tempio nutrita fusti con sì degna vita ch’accende ogni pensier contrario ed empio, avendo ogni tua speme stabilita di viver casta e consecrato a Dio quella che fu da te tanto gradita, prezioso concetto, alto desio, in prieghi, in orazion perseverando sempre con essercizio santo e pio, finché l ’angiol di Dio, dal ciel volando, porgeva l ’esca al tuo vitto sereno e veniva a’ tua detti ministrando tanto ogni suo sermon di grazia pieno che parlando tu fussi conosciuto
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essere il sommo ben nel tuo bel seno. Sendo il debito tempo già venuto, per mirabili segni disponsata fusti a Ioseph con divin tributo, col qual vergine pura, immaculata vivendo, come stato era promesso esser nel ventre tuo ristaiirata nostra salute per lo antiquo eccesso del primo padre, a D io fatto ribello, non potendo pagar tanto interesso, venne da Dio vocato Gabriello con gaudio e con sì dolce cantilena nel tuo segreto e solita? sacello, cantando: « Ave Maria, di grazia piena, Dominus tecum, benedicta et pia più ch’ai tra donna angelica e serena ». N é sì altro misterio udito pria fu né simil saluto, ove la mente nostra non può salir già mai né fia. Sì come il sol, giugnendo in oriente, lustra co’ raggi suoi lucenti e vola in un momento insino all’occidente, così tu dopo l ’ultima parola « Ecce anelila Domini » dicendo, concetto il Verbo in questa voce sola, sopra l ’uso mortai carne prendendo, integra, pura, e germinato insieme l ’alma col corpo santo e reverendo. O celeste bellezze alte e supleme, che provocasti i cittadin del cielo venire in terra in queste parti estreme! Già tanto il mondo con oscuro velo stato per non trovar vaso sì degno dove si raccendessi il dolce zelo, volendo suscitar misero, indegno l ’uman lignaggio, in te sola dispuose essere il prezzo di cotanto pegno. Ecco di Gedeon quel che propuose l ’angiol, che sol doveva liberare e far nel popul suo mirabil cose. Ecco qui d’Isaia le noti chiare; ecco di Zecchici la chiusa porta, per la qual sol doveva Idio passare. Ecco di Geremia la voce scorta, di David la pioggia, ove si bagna l ’alma che solo in te si riconforta.
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Ecco la visione altera e magna di Tiburtina al buono Augusto, el quale dalTincetto suo indegno si scompagna, umiltà vera a nessun’altra equale. Ecco il Signor sopra la nube lieve assiso, oggi per noi fatto mortale; ecco la colpa d’Èva fatta brieve e di quel che la Sganna già fornito per tanto effetto la sentenzia grieve. Maria, di gaudio angelico infinito piena, pensando di cotanta offerta e dello essemplo in Lisabeth udito, vicita quella, non del nunzio incerta né di tanta promessa ricevuta, ma per far lei di cotal grazia certa; né per lungo sentiero è ritenuta, povera, sola col suo vecchio sposo, come chi pompa uman sempre rifiuta. E pur l ’alto Fattor, nel grembo ascoso, va con costei sanza gravezza alcuna, sì come aH’altre al suo camin noioso. O fortunato albergo, ove s’adduna sì care madri con sì degne piante e sì felici vecchi si raguna! Canta già piena di dolcezze sante Elisabeta: « Benedetta tu tra l ’altre donne e ’1 tuo frutto prestante, onde tal grazia a me concessa fu che la madre di D io ha vicitato oggi la serva sua con tal virtù. Sappi che ’1 mio figliol s’è inginocchiato nel ventre mio per la divina essenza e per grazia di lei santificato, grata, dolce di D io vera semenza », già profeta Giovanni e Zaccheria, Elisabeth pien d’ogni scienza. Non tace più gli occulti don Maria, anzi conclama tutta essilerata: « Magnifica *1 Signor l’anima mia! » Guarda quanto sia oggi umilitata Maria, servendo a lei con ogni offizio; quasi regina s’è dimenticata! Quinci tornando al suo povero ospizio, sua vita estrema colle proprie mani ricerca, a lei non debito essercizio.
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Insaziabili gusti degli umani! Costei, che in sé tante ricchezze asconde, va bisognando gli altrui cibi strani. Ioseph vede e, non sappiendo donde Maria gravida, pensa di lasciare quella e di maraviglia si confonde, finché l ’angiolo a lui ne’ sonni appare, manifestando ogni divin misterio, e fallo in gaudio con Maria tornare. E già propinquo l ’alto magisterio era che ’1 Verbo eterno generato dovea finire ogni superbo imperio. Cesare vuol nel suo regno pacato tutto universo il mondo essere scritto e ’1 numero de’ populi signato; sicché Ioseph per cotanto editto Maria con seco in Bethlem aduce, dove il posar paterno gli è interdetto. O benigno fattore, o sommo duce, che, mostrando oggi ogni clemenzia fora, in così vii capanna si riduce! Ove, giunto del parto all’ultim’ora, partorisce costei pien di bontate colui che ’1 cielo e l ’universo onora. Vedi con quanta estrema povertate, col proprio vel del suo capo coverto, adora quel con somma umilitate. Già nel presepio il Redentore offerto, venerato da dua vili animali, rende del nostro error non degno merto. Qui non delizie, non culti regali, ma povertate e umilitate intorno, divizie essemplo a voi ciechi mortali! O felice presepio, o lieto giorno oggi di tante angeliche ricchezze e di tante virtuti ornate adorno! Oggi quanto splendor, quante dolcezze, poi che ’1 Verbo di Dio, fatto passibile, mostra del regno suo Talte bellezze!
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Oggi [è] visibil quel ch’era invisibile e palpabile fatto, onde si mostra più chiaramente a lui nulla impossibile.
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Oggi firmata è la salute nostra; oggi, superbi uman populi ingrati, è posto fine alla querela vostra.
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Come del Paradiso essiliati fusti per Èva, oggi per questa -madre siate allo eterno gaudio rivocati. Oggi conciliato è il vostro padre, oggi aperta la via donde non s’erra, tante dote in Maria viste leggiadre. Oggi termin è posto a tanta guerra contro al nemico, onde si canta e dice: « Vera gloria nel cielo e pace in terra ». Oggi l ’editto misero e infelice preciso è d’Èva in tal dilezione, partorito costei lieta e felice. Come la stella sanza offensione produce il razzo in ogni parte chiaro, non mancando di sua perfezione, così costei, del suo ventre preclaro renduto al mondo II lume santo e giusto, non minuisce il suo tesor sì chiaro. Questo è quel rubo santo ed incombusto che ’1 nostro padre Moisè già vide acceso in alto senza essere adusto. Questo è quel che d’Aronne si previde, quando la virga dalla sua man mossa fiorì tra tante, come Idio provide. Questa è la pietra che, non sendo scossa, Daniel vide giù cader dal monte, qual dovea rovinar ogni altra possa. Queste son d’Isaia le voci pronte, d’Abacuc, Michea e d’altri mille vati profeti con sentenzie conte. Questo è quanto conclamon le Sibille, delfica, cuma, libica, eritrea, persica e l’altre accese di faville. O cieca e dura Bethleem iudea, veramente la spina infra la rosa oggi restando in tua credenzia rea! Questa è la scala dove Idio si posa e che vide Jacob [be] sopra stare al ciel, quando nel monte si riposa. Maria, volendo l ’ordine servare, festina essere il Figlio circunciso l ’ottavo giorno e 1 nome dichiarare. Piange Gesù, donde si bagna il viso costei veggendo; o lacrimar benigno, cagion di tanto gaudio e tanto riso!
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Oggi di noi qual cor tanto maligno, Signor, che non ringrazi, poi che versi quel che ci comperò nel santo ligno? Ecco tre Magi, anzi tre regi persi, Maria, dall’oriente seguitati drieto alla stella per camin diversi. Vedili a’ santi piedi inginocchiati per offerire al tuo Figliuolo immenso tre don con giusti effetti figurati: aiiro, come degno e regai censo; mirra, sì come ad uon fatto mortale, e come a vero sacerdote incenso. Ma che aiiro a te presentar vale, Maria, se presto ad altri lo comparti e di tua povertà nulla ti cale? Sì come Saba dall’estreme parti vien d ’Etiopia, per aver più nota del saggio padre ogni scienzia ed arte, vedi nel tempio già tutta divota Maria col Figlio, come fussi impura quella ch’ad ogni colpa era remota. Vedi con quanta miserabil cura, non avendo agno al tempio d ’offerire, dua colombette presentar procura. O giusto vecchio, pien d’ogni desire, che, tenendo Gesù nelle tua braccia, più non ti curi tua vita finire! Che sarà, Simeon, più che ti spiaccia, poi eh’è concesso nella tua vecchiezza abracciar quel che l ’universo abraccia? Quanti dolci pensier, quanta allegrezza celebrata fra voi, e quanto affanno già s’apparecchia con più lunga asprezza! Vedi Maria, che dal crudel tiranno pavida fugge col suo sposo e figlio, da Dio mostrato ogni futuro inganno, come Jacob [be] con turbato ciglio fugge dal frate, e da Saul si scioglie David, tolto dal mortai periglio; vedi che, giunti nelle prime soglie d ’Egitto, cade ogni delubro in terra e simulacro dove Idio s’accoglie, sì come l ’arca nell’antica guerra, ratta da’ Filistei, per divin segno nel tempio posta, il loro idolo aterra.
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Vedila stanca dallo essilo indegno, dopo sette anni nella patria giunta, spento d'Erode ogni superbo isdegno. Vedi che, di dolor nuovo compunta, dopo tre giorni disputando truova Gesù nel tempio in allegrezza assunta. Quanto l ’immenso amor fra voi si muova oggi pe’ prieghi tuoi, deir acqua vino nelle nozze facendo assai s’aprova. Vedi che ’1 giorno è già fatto vicino, dove vedrai fra gente aspra e feroce, Vergine, il tuo Gesù tanto tapino. Vedilo in tanto strazio posto in croce, che sparge il sangue per lo altrui delitto e che ti chiama con pietosa voce. O miseranda donna, o core afritto, oggi come sostengon gli occhi tuoi vedere in alto il tuo Figliuol confitto? Quanto pianger convienti e quanto puoi l ’antica offesa, che ’1 tuo Figlio appaga, meritamente ricordare a noi? Misera gente, di mal far sì vaga! Vedil di spine coronato e morto, che ti dimostra l ’una e l’altra piaga: chi può tanto dolor mostrare scorto? Finché, risuscitato al terzo giorno, prima vedesti il tuo fido conforto e dopo alquanto, di splendore adorno, salire al ciel, dove promesso gli era di far sempre felice e bel soggiorno; onde, mostrando ogni sua gloria intera, simile il Primo Amor d’ardente lingue misse fra voi, come promesso v’era. O diletta di Dio, ove s’impingue tanto di grazia l ’uno e l ’altro polo, sì come piace a quel che ben distingue, parendo il ciel di tua bellezze solo, oggi dal mondo tenebroso sciolta, prendi sì alto e sì spedito volo; e, verso il regno tuo lieta rivolta, col corpo ascendi ove dintorno vedi tutta la corte angelica raccolta. Già sotto posto agli tua santi piedi vedi la luna nelle eccelse rote, dove alla destra del tuo Figlio siedi.
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O dolci amplessi, o reverende note, o superne accoglienze uniche e sole, dolce armonie e sinfonie divote! Già rivestita da sì chiaro sole, già di dodici stelle incoronata, contempli quel che sì t'onora e cole. Ave, Regina, più ch'altra beata, chi potrà degne laude referire a te, oggi nel d el tanto essaltata? Non può lingua mortai tanto salire, né facundia né stil se tu, diletta, non degni al grande incetto sovenire, Vergine, per la qual felice è detta l ’umana spezie, già d ’error sì carca, fatta per te più grata e più perfetta. O vero tempio, dove '1 gran Monarca volse che ’! mondo sol fussi salvato, sì come già Noè nella grande arca! Fonte di grazia e di bontà signato, orto dove ogni fior dolce e sùave respira di delizie drcundato, tu se' la vera porta e quella chiave fabricata da Dio che '1 cielo aperse, chiuso pel nostro error, tanto e sì grave. Nave d ie pria la grazia al mondo oferse, onde più il sesso feminin si loda in te, che non si biasma in chi l'aperse; stella, ch'ogni nocchier più stanco a proda dopo lunga procella alfin conduce, dove più si trìunfi e più si goda; fulgida lampa, che nel ciel traluce, degna sol d'impetrar quel che tu vuoi dal tuo sposo diletto e caro duce, piega le luci tue pietose a noi in questa valle pien d'ogni nequizia, dove son tanti benefici tuoi! Chi giusta, chi dem ente e chi propizia madre, ch'ai priego uman sempre procede, e donde è nato il fonte di giustizia, la tua grande umiltate ogni altra eccede, prima e vera cagion di tanto effetto che quel ch'era 'mmortal mortai si diede. Senza te nulla il mondo saria detto, senza te pace e senza te salute, senza te l'alto d el saria interdetto.
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In te somma clemenzia, in te virtute quante ne chiude il ciel, quant’egli scorge vere eccellenzie, in te sola compiute. Tu vedi il pianto e quanto error ne porge chi con varie lusinghe immondo guida, misero, lasso, dove non s'accorge! E vedi quanto in te si riconfida nostra speranza in così basso loco, dove l'ultimo giorno ognor ci sfida. Per la tua carità, pel dolce foco, senza '1 qual non potrebbe rilevarsi nostro misero stato assai né poco, per tanti prieghi lacrimosi sparsi, non per merito lor, non ché sien giusti, ma per tua grazia, ché non sieno scarsi, soccorri al popol tuo, pel qual tu fusti dignata a tanta gloria, a tanto onore, sì che a te giova gli altrui falli ingiusti! Salve, cara, diletta e dolce amore, salve, luce del ciel, dove tu chiami sempre merzè del nostro immenso errore! Prend'i sospir, prendi gli affetti brami, sì che pervenga l ’orazione indegna grata dinanzi a Quel che tu tanto ami; serva la patria mia florida e degna, integra sempre in libertade e in pace e reverente sotto la tua insegna; e serva il tuo fedel, quanto a te piace, in questo career che si chiama vita, dove essaltare il tuo nome non tace, sì che, cantando dopo la partita con altre rime di tue fiamme accese, venga a veder la tua bontà infinita, se mai priego mortai nel ciel s'intese. XCIV M11
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Salve, diletto e glorioso legno, salve, confitto in su la santa croce, per cui l'uman lignaggio è fatto degno! Spira nel petto mio, sì che la voce possa, piangendo, del tuo gran martire aprire alquanto, che per noi ti nóce. O benigno, clemente e giusto sire,
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che pel nostro peccar volesti scendere di cielo in terra e le tua grazie aprire! Essendo vero Idio, degnasti prendere umana carne e, tua bontà servando, a tutto ’1 mondo le tue braccia stendere. Quanto la tua pietà mostrasti, quando quel che ’1 mondo per sé non potea torre recuperasti, il tuo sangue versando! Non dovendo impunito il fallo sciórre per la tua legge, tua iustizia e cura, a tua gran potestà volesti opporre. Né potea l ’uon, finita creatura, peccando contro airinfinito Bene, esser sufficiente a tal fattura; ma, passando esso el termine, convene satisfar lui legato a tanti eccessi, per rivocarci nell’antica spene. Onde fu necessario e che dovessi criatura perfetta esser congiunta con Dio, dove s’agiunse, e che potessi. Dunque, vera passibil carne assunta, a noi suo regno destinato aperse; onde più larga speme al mondo è giunta. Così vittima a noi se stesso offerse e per suo gregge, come buon pastore, e fame e sete e passion sofferse. O mirabile effetto, o grande amore, che, ricomprando il secol oggi adorno, si mostra assai che nel crear maggiore! Sendo del tuo martir presente il giorno, nel monte orasti con dolor sensibile, come di nostre spoglie cinto intorno, dicendo: « Padre mio, s’egli è possibile, questo calice dur da me sia tolto; se non, come tu vuoi, s’egli è impossibile »; di sanguigno liquor bagnando il volto, nostra fragil natura si dimostra e tua virtù dal primo effetto volto. Venuto il tempo alla salute nostra, da sì vii turba voluntario oppresso, abracci quel che ti tradisce e mostra. Ahi, cupidigia! ahi, velenoso eccesso, ch’a sì vii prezzo il tuo maestro vendi, a te suo corpo e suo sangue concesso! Poi ti diffidi di sua grazia e rendi, correndo al laccio, la pecunia inorma,
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onde più ch’ai principio pecchi e scendi. Fuggita è del pastor l ’amata torma, Pietro tagliando nella dura sorte quel che formato la tua man riforma; che pensi tu quel che l ’eccelsa corte seco non vuol da un discepol solo essere oggi difesa di sua morte. Così nel mezzo dell’armato stuolo legato e vinto, come al primo furo si convenia pel suo delitto e dolo, menato ad Anna ed a Caifas duro, dove tu sia beffato e più deriso con simulati testi e falso giuro, quivi sputato crudelmente il viso, così da queHa man che tu formasti battuto inanzi al duro servo assiso, dicendo essere Idio, quanto peccasti o sacerdote, che la veste irato spogliando, allor te d’ogni ben privasti! D i qui nel gran pretorio di Pilato, quinci ad Erode, da Erode a quello ritorni, il qual non trova in te peccato. Quivi s’adoppia ogni tuo gran fragello, quando per tema a quella gente prava ti rende a’ lupi, un mansueto agnello; poi sopra al sangue tuo le man si lava, come se forse la pulita palma purgassi quel che più la mente agrava. Omè, che Pietro, che volea por l ’alma per te dianzi, negò la terza volta, onde gli giunse al cor sì grieve salma. Ma, tua vera pietate a lui rivolta, rilevò presto la sua mente alquanto da lui, per tema oltre al voler disciolta. Felice pietra, o lacrimar tuo santo, ché nella tua fortezza solidata dove non mancò zelo abundò il pianto! In te non dilezion già simulata oggi il Maestro tuo discerne e mira, ma sol la tua costanzia esser turbata. O benigno Fattor, qual degna lira giugne a tanto misterio presso al segno, per mostrar la tua doglia acerva e dira? Tu che, formato l ’uno e l ’altro regno, oggi di spine incoronato e tinto
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di sangue il volto prezioso e degno, portando in collo il tuo suplicio avinto al crudel monte, alle spietate soglie con tanta ingiuria strascinato e spinto, quivi nudato, e le tue sante spoglie già per sorta divise, onde la voce del gran profeta si dimostra e scioglie, confitto apresso e su levato in croce fra dua ladron con sì crudele offensa da gente ingrata, iniqua, aspra e feroce, o pietà grande, o caritate immensa, voci che mille e mille cori accendono di quella turba essiziale infensa, « Padre, perdona a questi che m’offendono » dicesti, posto in così gran martoro, « perché quel che si faccin non intendono ». Ove c’insegna, perdonando a loro, quanto alPalma gentil lasciar la ’ngiuria e pregar pel nimico è bel tesoro. A quel ch’è a destra teco a simil furia, confessando te Idio, non per dottrina, oggi prometti la tua degna curia. A dichiarar tua potestà divina non derelitta e ch’è del cielo aperta la via per la tua morte a noi vicina, alla tua madre lacrimosa, incerta vólto, mostri Giovanni per suo figlio, al qual commendi lei con voce aperta, dicendo: « Donna », a non turbargli il ciglio, essemplo a noi quanto Tamar materno servar convenga in ogni gran periglio. Poi con gran voce al tuo Padre superno « Eli, Eli, Signor, perché lasciato? » Signor, dicendo (o parlar dolce, eterno, avendo nostra voce inferma usato, come se da quel fussi derelitto dal qual non potevi esser separato, querela sol del nostro senso afflitto, onde il tuo aiuto in ogni caso estremo invochian tolti dallo eterno editto!), benigno Padre d’ogni colpa scemo, ch’ancor non sazio di cotal suplizio, per rivocarci al tuo regno suplemo, nel quinto verbo tuo dicesti: « Sizio » sì naturai, sì del tuo men fedele
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armento, che t'ha posto a tanto essizio, al qual portò la manna. Il vin col fele gusti; così mutata, la tua vigna oggi t'ha dato aceto aspro e crudele. Ma non cessando tua bontà benigna, quasi le voglie tue tutte adempiute per riparar l ’uman gregge maligna, « Consumato » dicendo, ogni salute nostra è perfetta, ogni scrittura impleta, dove tutte le grazie son compiute. Ogni turba celeste, ogni profeta, ogni figura, ogni misterio è giunto, ogni vate e sibilla oggi quieta. Come nel legno il primo fallo assunto, oggi pel legno al Sommo Ben si varca, il qual Iacob al d el vide congiunto. Così Noè salvato fu nell'arca, onde la schiatta sua degna risurga, che fu di grazia e di sp[l]endor sì carca. Così il serpente dove ogni uon si purga fu posto in alto dal gran duce antico, al qual benigno il ciel par che assurga. Col legno similmente il gran nemico tuffato e vinto, con la virga il mare diviso, quel ch'a Dio fu tanto amico con essa già converse Tacque amare in dolci e fuor del duro sasso atinto liquor, donde la sua potenzia appare. Simile il popol da Malech vinto, levando in croce Moisè le mani, così l'altar d'Abram del legno è cinto. O ciechi, stolti e miseri profani, che più dunque vi resta che v'accenda a sì grato pastor, diversi cani? Gesù inclinato nelle man commenda lo Spirto al Padre, onde il principio venne, sì che ogni nostro fine a lui si renda; alla qual voce e morte non sostenne e cielo e terra, che s’aperse e scosse, né labefatta sua natura teme. Così ciascuna pietra si percosse e ruppe insieme ognun degli elementi. A sì terribil voce si riscosse tanti corpi beati in monimenti, a far ciascun del suscitare attenso,
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aperti al suon di sì pietosi accenti. Simile il sol, da* sua raggi dimenso, nella più densa notte il giorno aduce, per la pietà del suo Fattore immenso, volendo insieme la sua degna luce finir col suo Motor, lasciando il cielo; ma noi consente sì benigno duce. Così del tempio ad imo a sommo il velo diviso, mostrò ben ch’alcuno obietto non potea più celar Fé terno zelo. Ecco ch’ancor non sazi, il santo petto ferito, onde acqua e sangue manifesta redenzione e battesimo perfetto, Maria, più ch'altra sconsolata e mesta, che gusti ogni tormento, ogni atto crudo, dove nostra speranza e fede resta, omè, Tanima tua, omè, il tuo scudo, padre, sposo diletto e figliuol pio, a torto è in croce lacerato e nudo, per guida, essemplo a tutto ’1 popol rio, ch'a seguir lui ciascun si spogli e privi d’ogni concupiscenzia e van desio, perché gli occhi piangenti, anzi dua rivi, non rivolgi a costui? perché non stringi baciando e sua piè preziosi e divi? Forse per lui di non veder t'infingi tanto misero scempio, o Madalena, che' tua capei del giusto sangue tingi. O veramente d'ogni grazia piena, tu ch'ogni colpa da te mondi e lavi per fruire altra vita più serena! Dove se' Pietro, che cotanto amavi costui cogli altri dieci, o tu fedele Giovanni, posto in tanti pensier gravi? Dura gregge di D io troppo crudele, perché il tuo Redentore oggi non piagni, tanto che s'apri il tuo core infedele? Perché il volto di lacrime non bagni, ingrata, col tuo cor sempre più tardo? Perché Maria col duol non acompagni? Omè, ch'i' tremo, io mi consumo e ardo quel che colpa e ignoranza tien coverto aprir, dolce Gesù, quand’io ti sguardo! Benché ogni effetto a te sia sempre aperto, ogni nostro volere, e che tua grazia passi sempre di lungi il nostro merto,
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pel giusto sangue tuo, di che si sazia oggi l ’umana spezie e che tu versi tra gente cruda alla tuo doglia insazia, per tanti acerbi, crudi e sì diversi tormenti e per ciascuna santa piaga, ove restoron vinti i nostri aversi, per la tua morte, che nel mondo appaghi ogni cor impio da' tua lacci sciolto, propizia e degna d’ogni ben presaga, perdona al popol tuo, benché rivolto per contrari sentier, com’altri il guida, nell’umane delizie fisso e involto! Perdona alla mia patria, che si fida troppo con seco nella tua clemenzia e che solo sforzata « Merzè! » grida! Perdona a me, che, nella tua presenzia piangendo, scrivo come mille offese per dimostrarci la tua gran potenzia perdonasti in un punto a quel che chiese perdon morendo, benché poi né pria non si trovassi don tanto cortese! E benché io non sia posto in compagnia con teco in croce dalla destra mano, onde sempre ogni grazia a noi s'invia nella vendemmia del tuo sangue umano, ove giugnendo in tua figura santa ferisca il raggio nel mio petto insano, e se la contrizion mia non è tanta suplisca e basti tua bontà perfetta, di che ciel, terra oggi piangendo canta. Volgi Tanima stanca a più diletta vita, questa tua anelila a miglior foce, dove lieta posar con teco aspetta lassù, cantando con più degna boce: « Salve diletto e glorioso legno, salve, confitto in su la santa croce, per cui l ’uman lignaggio è fatto degno! »
xcv M11 Non a quel né più ch’a le
bisogna più foco o più dolce esca che sol di fiamme si notrica, costanzia a questa mia nemica, imprese crudel sempr' è più fresca;
ma pietà sol, tal che di noi gl’incresca, non lasciando la suo ’mpresa pudica, e che per pruova ella ne parli e dica ’Amor, che ’1 mie cor arde, abbaglia e invesca. Lipari alfine e Mongibello è spento, ma il mio cor lasso, simil d’un piropo, arde sovente e il mal suo tardi approva, sì come, giunta alPultimo tormento qual più piena di colpe, il penter dopo ultimo giorno all’anima non giova.
XCVI* M11 Qual felice, celeste e verde pianta formò sì fresche purpuree viuole? Qual leggier pioggia o qual benigno sole produssono al suo fine opera tanta? Qual lunga e schietta man pudica e santa la porse a me con accoglienze sole, né mai più viste e tal dolci parole, eh’appena di ridille il cor si vanta? Così potessi come gemma in oro serbar te sempre per più caro pegno o trapiantarti qual viva radice, o tu conversa in piecioletto alloro, per mirar te, qual Febo il sacro legno, in rimembranza della mia fenice! XCVII ** M11 Prima ch’ai sommo del tuo gran furore, che con la? tua iustizia si concorda, giunga costei, che più non si ricorda della ferita dello antiquo errore, volgi benigno, come buon pastore, alla tua figlia scelerata e ingorda, se ’1 continuo suon già non t’assorda di tante colpe, ov’ella ha posto il core. Sonetto per una viuola da Domasco fu donata allo auctore. Sonetto fatto a Roma Vanno 1474.
Padre immenso, Gesù, serva la nave colma di vizi, che non ben si regge fra tanti scogli in sì dubbiosa sorte, ed a Pietro, duttor della tua gregge, che smarrito ha quaggiù la bianca chiave, ricorda che per noi corresti a morte.
XCVIII * M11 Io guardo spesso la tua gran mina e veggio i campi dove fu già Roma da l ’età vinta e dagli affanni doma, come ogni nostra gloria al fin s’inchina. Felice un tempo, alma città divina, a cui Fortuna ornò tanto la chioma tu ch’ai mondo ponesti già la soma, se’ fatta albergo d’infernal fucina. Similemente i tua diletti figli, degenerati e colmi d’ogni pecca, hanno scurato la tua degna voce. Misera, ha’ tua nemici negli artigli, ove il buon Cristo nella tua Giudecca ogni dì mille volte è posto in croce.
XCIX ** M11 Felice sempre aventurato giorno e per me fortunato il loco e ’1 punto ov’io fu’ lieto a tanto bene assunto e dove spesso a contemplar ritorno! Sendo propinquo al mio bel sole adorno, come improviso alcun tal volta è giunto, ed il viso al volto suo quasi congiunto dette per forza Amor breve soggiorno. E benché alquanto d’onestate e sdegno
* Sonetto a detto proposito parlando con Roma Vauctore. ** Sonetto riscontrandosi Vauctore nella cosa amata e improviso percosso Vuno nelValtro.
turbata in vista, dopo un dolce sguardo sorrise alfin del subito accidente. Così quel che non giunse arte né ingegno fece Fortuna, e, s’ i' fu* lento e tardo, sallo il mio cor, che indarno se ne pente.
C M11 Apollo, se d'Amor Tardità forza, ignoto quanto sua deità vale, sentisti e quel che possa del suo strale Talto valor, che tutto il mondo isforza, almen licito fu Tamata scorza toccar, poi che, per te fatta immortale, è dal ciel dato privilegio tale ch'ogni saetta del gran Giove amorza. A me, che sempre d'onorar non sazio in immagine fitta al sole, all'ombra, un tigre aspro seguir fu dato in sorte, qual io veggio sovente per mio strazio divenir presso a me cieca e fals'ombra, veramente cagion della mia morte.
CI M11 Lasso! ch'io ardo e '1 mio fallir conosco, ma come uccel, che dell'amate fronde nel freddo tempo, poi che '1 sol s'asconde, va ricercando nel più folto bosco, non proveduto, simplicetto e fosco, vede la luce e quivi si confonde, ivi s ’arresta e, non mirando altronde, prova del duro strai l'acuto tosco, simile avien che disarmato e nudo, fisso nel volto ove '1 desio mi sforza, Amor, nascoso drento a' sua begli occhi, tira la corda con la usata forza; poi se n’essalta come arder più crudo, lieto ch'ai desiato segno tocchi.
Lasso! ch’io me n’accorgo de’ mia danni e vorrei non veder quel ch’io pur veggio, e con questo pensier, mentre io vaneggio, veggo dinanzi agli occhi fuggir gli anni. L’anima stanca, vinta dagli affanni, sospira a guisa d ’uom ch’aspetta peggio e grida la ragion, ch’è fuor del seggio, e vede presso a sé tender gl’inganni. Sì come avien ch’a la mortai ferita, poi ch’è dagli occhi e ’1 cor tolta la luce, per lo nimico sguardo il sangue riede, simil, veggendo l ’anima smarrita, lasso, colei ch’a morte la conduce lacrime versa e tardi se n’avede.
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Venite, sacre e gloriose dive, venite, Grazie lagrimóse e meste, ’acompagnar quel che piangendo scrive; venite, sante immortai dee celeste, all’estremo furore, al crudo scempio, vedove lasse con oscure veste! Caduto, anime dive, è il vostro tempio fabricato per man de’ sacri iddei, che fu già di bili ate al mondo essempio. Ninfe, se voi sentite e versi miei, venite presto e convocate Amore prima che terra sia fatta costei. Ogni pompa v ’è tolta, ogni valore oggi per Morte dispietata e rea, che vi fé, viva e morta, al mondo onore a chi dato la forma Citerea, l ’ingegno Palla, e ’1 gran nunzio di Giove ogni eloquenzia a lei concessa avea. La casta iddea, che ’1 gran collegio move, costumi infuse nel suo petto fido con leggiadre accoglienze al mondo nove. L’arco e lo strai gli avea dato Cupido per sua difesa, e tutte l’altre belle
Bernardo Pulci a Giuliano de* Medici nella morte della diva Simonetta.
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sanza invidia a costei la fama e ’1 grido; ondagli è tolto speme al mondo a quelle silvestre ninfe e dee fatte immortale, poi ch’è fatta sì degna alma rebella. Che giova in ciel volar con ambo Tale se costei, eh’è del vostro concestoro regina, contro a Morte oggi non vale? Né gemma orientai mai giunt’è in oro quant’è meritamente a voi congiunta l'alma che scende nel più degno coro. E benché a vita più tranquilla assunta, benignamente delle membra isciolta, duolsi la gente, di pietà compunta: tanta chiara virtute in sé raccolta piange ciascun, concess’ a lei natura, forse da non vedere un’altra volta. Invida Parca, che per forza fura sempre qual pianta a noi vie più diletta, per mostrar che niente al mondo dura! Alma diva leggiadra Simonetta, ove ci lasci, al ciel levando a volo, là dove è chi ti brama e chi t’aspetta? O v’è tuo albergo isconsolato e solo, Genova mesta e tua Cattana prole, sol di te degni, lasso, in tanto duolo, quel tuo Febo al mondo sanza sole, ch’avendo i giorni tuoi sempre onorati della sua Dampne si lamenta e dole? Quanti dolci pensier benigni e grati rompesti, dira inessorabil Morte, crudel leggi, destino, avversi fati! Mentre sì dolce fiamma ardea più forte, fra dua troncasti crudelmente il filo, come sempre tu vai cangiando sorte, tal che lingua né ingegno uman né stilo giugne a tanto dolor pien d’alto isdegno, noto dal mar Tireno a quel di Tilo. Chi vedrà più fra noi spirto sì degno, tante doti eccellenti, essimie e dare, dove puose natura ogni suo ingegno? Chi vedrà più virtù nel mondo rare in un cor generoso, onesto e schivo, ove ogni nostra gloria al mondo appare? O fido essemplo, animo eccelso e divo, alto valor, che ’1 secol nostro ingrato conobbe sol poi che di lui fu privo!
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Aveva già più volte trfunfato costei di Morte e le sue armi scosse; sendo d’ira e d’invidia il d e l turbato, che la terra di lui più adorna fosse di sì bel sol, per arricchir se stesso Morte crudel contro di lei commosse. Era del suo bel fin vicina apresso e l ’anima volea prender licenzia dal dolce albergo che gli fu concesso. Morte non con la usata sua potenzia, ma con nuove arti avea provato il giorno, timida fatta nella sua presenzia, quando gli occhi costei girando intorno in un mesto collegio ivi raccolto per contemplare un dolce passo adorno, pavida no, ma con sicuro volto mosse come chi d’aspra e dura legge dopo alcun tempo per sentenzia è sciolto. « Se così piace a quel che tutto regge, da questa valle lacrimosa e bruna trasmutar l ’alma dove pochi elegge, non colpate né Morte né Fortuna, ma del vostro fugace error iscorto piangete, ove non è fidanza alcuna; onde ciascun mortai misero, a torto fisso nel mondo, si lamenta e dole spesse fiate del suo viver corto. Che più si cerca o che s’aspetta e vòle che per dubbio camino al dolce ospizio giugnere inanzi al tramontar del sole? Nessun di voi s’arà retto iudizio mentr’è rinchiuso in questo career fosco: vita dirà, ma dispietato essizio. Da poi ch’i ’ venni in sul bel fiume tosco, benché forse di fuor per me si tacque, questo conobbi, ed or più lo conosco. Certo vivere a me sempre dispiacque e stato mi sarebbe ancor più greve se non quanto ad alcun nel mondo piacque. Vivete e quanto sia fragile e breve questo corso mortai nel cor di smalto fingete, per mio essemplo, al sol di neve ». Così detto, levato gli occhi in alto, dopo un dolce sospir, lieta dipose le membra, vinte dal crudele assalto.
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E qual conviensi alle celeste spose, essendo eletta al gran convito santo, di splendor cinse sua guance vezzose. Adorna, involta in un candido amanto, come fra l ’erba alcun tal volta è avinto, parea dormendo consolarsi alquanto, o come fior quando dal sole è vinto, che per troppo valor bassa le foglie, di suo virtù non già privato e "stinto. Felice alma beata che si scioglie oggi dal mondo e sua lunghi martiri, per rivestirsi di più ricche spoglie! Qual Musa o qual furor sarà che spiri quante lagrime intorno a lei fùr sparte fra tanta pompa e tanti incliti viri? Venne Giunon crucciata in quella parte, coverta el capo suo d ’oscure bende, e mostrò suo dolor piangendo in parte. Diceva lasso ognun: « Chi ci contende le dilicate sua membra pudiche, ove la voce sua dolce s’intende pudica e bella? Omè, duo gran nemiche chi ce l ’ha tolte o chi ce le nasconde, rade volte o non mai nel mondo amiche! » Non son queste le trecce crespe e bionde con l ’angelica forma del bel viso, che fé Delio obliar l ’amate fronde? e gli occhi, donde uscia sì dolce riso ch’a mezza notte nel più freddo gelo potea far luce e in terra un paradiso? Ciprigna, se tu hai potenzia in cielo, perché non hai col tuo figliuol difesa costei, de’ regni tuoi delizia e zelo? Amor, quanto la tua potenzia è scesa, poi che ’nsieme con lei manca tua forza e non vai tuo furor a tanta impresa! Morte, che ’1 cielo e l ’universo sforza, quanto la può con seco se ne porta, benché furato ha sol di lei la scorza. Febo non pianse la sua donna morta percossa dalle sue saette pronte, onde la faccia sua divenne smorta; né le sorelle sue pianson Fetonte, quanto merito ancor lice e conviensi a noi bagnar di lacrime la fronte!
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Piangane il secol nostro orbato e pensi senza i raggi di sua propizia stella nave, ch’a forza in dubbio stato attiensi! Ma forse eh’ancor viva al mondo è quella, poi che vista da noi fu doppo il fine in sul feretro posta assai più bella. Forse le membra caste e peregrine solute ha Giove e le nasconde e serra per mostrar lei fra mille altre divine. Poi ripor la vorrà più bella in terra, sicché di nostro pianto il d el si ride e vede il creder nostro quanto egli erra. Così, giunta fra degne alme più fide, maravigliasi il d el di sua bellezza, come fé prima in terra chi la vide. E così tra’ pianeti sì s’aprezza ch’ognun cerca di lei farsi felice, ma Giove Tha tirata alla sua altezza. Ecco Laura bella e Beatrice, che li fan loco nelli etterni chiostri. Com’è volato in ciel nuova finice, essendo unica stata a’ tempi nostri, così vuol che costei, Chi lassù regna, fra tutte Taltre più chiara si mostri. Dunque pianger di lei par cosa Indegna: nuova luce nel ciel, qui gloria e fama, più che di pianto assai di laude degna; ché, se ’1 mondo costei qual se stesso ama, perché di tanti premi a sua degne opre contro agli dii sovente si richiama? Ninfa, che in terra un freddo sasso copre, benigna stella or su nel ciel gradita, quando la luce tua vie più si scopre, torna a veder la mia patria smarrita!
CIV* R23 (ad.) Se viva e morta io ti dovea far guerra, vinti d’un foco e d ’un pudico strale, po’ ch’è dato al mio voi sì corte Tale, * D iv a S im o n e tta a G iu lian o de* M ed ici felix. Anche se adespoto, come il Flamini, siamo certi dell’appartenenza del sonetto al Pulci.
duoimi se per tuo mal discesi in terra. Ma se fato o destin, che mai non erra, vuol che per morte io sia fatta immortale, se venerasti già cosa mortale, qual di me invidia in te si chiude e serra? Vinci tanto furor che ti trasporta, sì che ’1 pianto non giunga più nel cielo a turbar chi ti fu sempre diletta. Ché piangi tu colei che non è morta, ma viva e sciolta dal terrestre velo sol di te pensa e qui nel ciel t'aspetta? CV Parm S’ tu fussi andata al bel pastor troiano, a te donava quel pomo dorato, e Febo non aria seguito invano Tarnata sua, che poi divenne lauro. Se avessi visto el bel sembiante umano e '1 mio lucido sol, ohe tanto adoro, e non cercato aria Orfeo d’Euridice, veggendo te fra noi sola fenice. Né love seria sceso in pioggia d'oro per acquistar colei che si li piacque, né si serebbe trasformato in toro per portar la su' amata sopra Tacque, se avessi visto in terra el mio tesoro, al qual sempre el mio viver li dispiacque; né mai, veggendo sì liggiadre prede, avrebbe in ciel rapito Ganimede.
BERNARDO D E ’ RICCI (n. 1426) *
I FN6 — Lr1 (ad.) Dappoi che lasciat’hai la terra egregia, Florenzia degna, sol per abitare nella lucida fonte in mezzo il mare dell'alma, illustra e florida Vinegia, Bernardo è quel che questa carta fregia d'inchiostro per volerti salutare, sol con quel buono efetto, qual suol fare un minor fra, che '1 suo maggior ben pregia. Assai mi duol di qua la tua partita, perché sanza governo esser mi pare in albagia, e la stella smarrita. Ma se tu vuoi mio almo quietare, con tua doppia risposta atta e gradita voglia lo stil di tuo ingegno operare, che grazia singulare mi fia di te saver novelle alquanto, donando un po' di freno al mio dur pianto.
II FN6 Anton, se '1 mio intelletto medioco qual l'almo a petir fussi seguace, forse la tua memoria, che or giace, sare' da me commendata, e non poco. Ma lo 'ngegno mio fragile e sì fioco è che restar mi fa la man che tace, di te scrivendo quel ch’è me' capace, perché dov'io vorrei non se’ in quel loco.
Il seguir le virtù, secondo me, è la diritta via, mentre che noi in questo scuro career dimoriamo. Dunque, a cercalle io ne consiglio te che tu vi metta il tempo, or che tu puoi, per ornar te del penneido ramo. III FN6 Ahi, babbiionio avaro e asmatico, imitator d’ogni cattivo stile, lupo rapace, crudo e ’n vista umile, leo febricoso, indomito e salvatico, a suponend’ un puer se* sol pratico, amico d’ozio e d’ogni cosa vile, non vicar no, ma mostro di porcile, da stare in sulle forche per istatico, tu se’ aversaro della Chiesa sacra, per cupidigia d ’infima avarizia, non prete, ma tiranno al mio parere! La voglia tua insaziabile e aera molte volte ha ’mpedito la giustizia, onde di ciò ti faccia Iddio il dovere.
NICCOLO D E ’ RICCI ★
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I - Poi che Fortuna, Destino ed Amore m’hanno condotto al doloroso punto ove il vero è dispunto, ché giunto è ’1 sezzo punto — a mezzo il core, piangendo priego e priego te, Signore, anzi che’ sensi miei sien tutti ispersi, ch’io possa dir per versi quel che drento nel cor per me si sente, acciò eh’a tutta gente sia manifesto poi, quand’ io son morto, ch’una donna m’ancise e femmi torto. II - Quando da prima quella gran beltade vidi in colei, ove tutto s ’accolse, quantunque al mondo tolse aver di sue bellezze e di boutade, né mi pensai nella primera etade finisse in me per lei la mente afflitta, che Venere trafitta dal figlio m ’assembrò, sì bella parse. Ella avie tutte isparse -all’alto Appollo le sue trezze bionde, che fan parer quando un nugol s’asconde. I l i - Oh, con quanta dolcezza e gran disio d ’una fiammetta soave e vivace portai quel tempo in pace, mentre piacque a colei ch’ebbe il cor mio! Or d’ora in ora alla morte m’invio e già veggio quel punto esser presente che dal corpo dolente partir convienmi e d ’esta vita rea, pel poter d’una iddea, alla qual lungo tempo servo giacqui. Da lei mi tolse Amore, ond’io le spiacqui.
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IV - Lasso! che quando di due parti Luna presi, poi ch’io fu’ preso, la più acerba, per virtù di Minerva si fé la donna mia di piata ignuna, di poi, più volte volto il sol, la luna, costei ognor ver me più incrudelita: però manca la vita, ché Morte alle mie membra ha stese l ’ale. Però lascio il mortale corpo per terra e le voci meschine, e sono al punto ove sarà mia fine. V - Qui finirò tutti li miei martiri ornai, ché i membri son da Morte tolti; però ciascun m’ascolti, mentre che potrò dire, o donne e viri, che l ’aier piange già de’ miei martiri. Giunta è la vita ove rimarrà spenta; ogni persona il senta ch’io moro a torto; e questo è ben palese, ché, se Vener mi prese da quella iddea e femmi altro seguire, non fallai io, ché mi convien morire. — Canzone, come l’anima dal corpo vedi partita, non ristar già mai, ed a que’ tai — n ’andrai ch’amor di donna non ebbe in lor corpo. Dirai come a gran torto due celesti occhi stanno anzi al mio core. O servitor d’Amore, se bene intendi tutto quel ch’i ’ scrivo, piglia essemplo di me, che non son vivo!
PIERO D E ’ RICCI *
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6 fe b b r a io d e l 1 4 7 3 . F u a m ic o d e l B u r c h i e l l o e d i A n t o n i o d i G u i d o . C i h a la s c ia to
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e fa m ilia r e , i n v ia ti a l B u r c h ie llo
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( I ) , a B a r to lo m e o C e r r e ta n i q u a n d o fu
t r a t to p o d e s tà d i M o n te v a r c h i ( V I ) , a m a e s tr o P a o lo m e d ic o
(V II).
P e r A lfo n s o d 'A r a g o n a c o m p o s e tr e s o n e tti la u d a tiv i ( I V , V , V i l i ) , il p r im o d e ’ q u a li f u r e c ita to a l m o n a r c a d a ta l R ic c a r d o B o r g o g n o n i. L a c o sa m ig lio r e
(b e n
p iù d e l so n . I l i
s u lle a r ti lib e r a li)
è p e r ò il
s o n e tto I I ( g ià a t tr ib u it o n e W e d iz io n e d i L o n d r a a l B u r c h ie llo ) , n e l q u a le c o n u n r e a l i s m o e c c e z i o n a l e e c o n v e r a m a e s t r i a d i s t i l e e r i c c h e z z a d ’i m m a g in i r i t r a e i l p a s s a g g io p e r R o m a d e l l e s o l d a t e s c h e
a v v ilite
e m a le in
a rn ese.
I* M 13 - Cors1 Burchiel, perché per fama udito io ho del profondo saper che regna in te, essendo tu cortese come se*, a te con sicurtà ricorro mo’, perché m’insegni tu quel ch’io non so: se la gragnuola o neve format’è d’acqua per freddo che lassù esser de’, come natura questo operar può; e come per gran freddo, che ’1 cielo ha, piove la neve, ch’è tenera sì;
Sonetto mandato da Piero de* Ricci quando era a Napoli al Burchiello.
[ s ’]è spesso il caldo che la state dà dura gragnuola, come pare a mi, e s’egli è ’1 sol quel che ’1 caldo ci dà; come in montagna, che più presso ha* lì, meglio ch’ai basso qui regni la neve, che ci mostra l ’arco, nel tempo che di nugoli è il ciel carco.
II M13 - Ash2 (Burchiello) - L1 (Burchiello) - M15 (Burchiello) - R5 (Burchiello). Fratei, se tu vedessi questa gente passar per Banchi tutti sgominati co’ visi magri, gialli e affummicati, diresti dell’andare ognun si pente. Le panche suonon sì terribilmente, quando son giù dal Ponte in qua passati, ed hanno cera come d’impiccati, né ’n piè, né ’n capo o ’ndosso hanno niente. Le coste annoverresti in sul coiame a’ lor cavalli, e le lor selle rotte hanno ripiene di paglia e di strame. Sì si vergognan che passan di notte; vannosi inginocchiando per la fame, trottando e saltellando come botte. E le lor armi rotte hanno lasciato là ’nfino alle spade; stan cheti come ’1 cui, quando si rade.
I li M13 - R5 (Burchiello) - GV (Ser Pacolo) Sette son l’arti liberali: è prima gramatica, dell’arte via e porta; loica la seconda, per cui scorta il ver dal falso si conosce e lima. Rettorica la terza, che, per rima parlando e ’n prosa, l’uditor conforta; arismetrica la quarta: la via torta per numeri dirizza in vera stima. E la quinta si è geometria, che ogni cosa con ragion misura; ■musica è la sesta melodia,
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che suona e canta con gran dirittura. La settima si è astrologia, che ’1 ciel qua giù ci mostra per figura. Sopr'ogni criatura sarebbe chi sapessi ciascun’arte, ma contentar si può chi ne sa parte.
IV * M13 - FN6 - L7 - L8 - Ba (ad.) Eccelso re, o Cesare novello, giustizia con fortezza e temperanza, prudenzia, fede, carità, speranza ti farà trionfar sopr’ogni bello! Se queste donne terrai in tu* ostello, quella sedia fia fatta per tua stanza; ma ricordasi a te tu farai sanza, se di giustizia torcessi il suggello. È la ventura che ti porge il crino; non ti dar tutto a lei, ch'ell'è fallace, che me che trionfai misse in dichino. E1 mondo vedi che mutazion face; che sia voltabil tienlo per distino, e questo vuole Iddio perché li piace. Alfonso, re di pace, Iddio t’ essalti e dia prosperitate, salvando al mio Firenze libertate.
V ** M13 O da me visti, udite il mio clamare! Saturno son di gran circunferenza; dato m ’è forza di somma clemenza e mia costellazione è d'affannare.
* Sonetto di Piero de’ Ricci fatto in Napoli per lo trionfo si fece al Re di 'Raona quando entrò in Napoli. ** Sonetto di Piero de* Ricci. Fello in Napoli che parla in nome di Saturno, par lando del Re di *Raona alle nozze del Conte d*Ariano e nella sua festa fu recitato a una rapresentazione ck’elli feciono in detta festa.
Chi 'n alto monta i' lo fo rovinare, no’ li valendo ricca diligenza; ma solo Alfonso re con sua prudenza vinto mi tiene, e follo trionfare. Dello emisperio ciel son discenduto solo per umiliarmi a sua persona, ché tra' pianeti iunto è per partito ogni uom discenda e diegli sua corona; e tutti i ciel questo hanno consentito, perch'altro nome su tra noi non suona. Monta a cavallo e sprona; di piombo v'incorono, degno onore, e con voi vengo a farvi imperadore.
VI * A Bartolomeo Cerretani M13 Car compagno, se Dio ti torni in gioia di quella Marietta dolce 'manza, odi benigno noi, ch'abbiàn fidanza con queste rime cacciarti da noia. Piccioni arrosto, non lonze di troia, abbiàn da darti a cena, o vuoi a pranza; se vuoi venir, d'Arrigo non far sanza, e priegai meni seco mona Scuoia. D i viver lieti è nostra intenzione; el tuo ser Marco, Giulianetto e Piero han fatto in lor questa composizione di cacciar via ogni tristo pensiero; e, perché ti portiamo affezione, ti ripreghiam che venga: questo è vero. Aren piacere intero se lieterai con noi con puro cuore; poi vanne a Monte Varchi sancìtore.
* Sonetto fatto in Roma per Piero de* Ricci e mandato a Bartolomeio] Cerre tani in Roma perck’era tratto podestà di Monte Varchi.
M13 Spirito degno di ¡aurato onore, virtù suprema con ornato stile, fuggitivo, sprezzante d’ogni vile, eloquente saver, solenne core, specchio in cui luce tant’alto splendore, providenzia famosa, atto gentile, che sopra ogni altro tiene almo verile, nel cui cospetto regna ogni valore, notizia ho presa del vostro alto ingegno; ond’io, per sete di tal sapienza, fidatamente alla vostra ombra vegno. Dite se ’n alcun’arte o ¡scienza mai conoscesti, per pratica o segno, o se mai ne vedesti isperienza d’una cotal sentenza: quale in un corpo sia più duro fleto, o febre acuta o l ’animo inquieto. V i l i ** *
M 13 Della ciclopea schiatta mille semo a te suggetti e d’ubbidir contenti, o glorioso re, pien d’ardimenti atti a ridurre i nimici allo stremo! Con Marte in terra e con Netunno al remo, governatore e dell’onde e de’ venti, a noi suggetti son tutte le genti, ricchi d ’avere e di saver supremo. Piacciati comandar, se mestier face, di Bellarcacco co’ seguaci suoi e porre il dolce mondo tutto in pace. Altro governo non si attiene a noi che di scacciare ogni lupo rapace, che gloria etterna fia di te e de’ tuoi. Restaci, e non ti nói, ch’amici tutti siam d’ogni città, che vive in pura legge e libertà. * Sonetto di Piero de’ Ricci al maestro Paolo medico. ** Sonetto di Piero de’ Ricci al Re di ’Raona in Napoli. Parla uno giogante al Re per la festa di san Giovanni.
NICCOLO’ RISORBOLI *
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( I I ) , e p iù a n co ra d e l
P ig li, s u r ic h ie s ta d e l q u a le il 6 o t t o b r e 1 4 6 6 v o lg a r iz z ò V « O r a tio C a te tin a e in C i c e r o n e m » d i B u o n a c c o r s o d a M o n t e m a g n o , f u l e g a t i s s i m o a i M e d ic i, c o m e p r o v a n o
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I - Non fu del buon Caton più gloriosa contro a de* congiurati la sentenzia che la tua gran demenzia d'aver renduti a me tanti miei civi. Questo m'ha fatto sol vittoriosa, che tua virtù, tua somma sapienzia, tua benigna eccellenzia sparge fuor di pietà ondanti rivi. O consiglio celeste, o pensier divi, o presagio di mente al bene intesa, quando piccola offesa contro a' rei si dimostra e men supplicio, è ’nver de' giusti immenso beneficio!
* Morale canzona di Nicolò del Risorvole, nella quale induce la patria fiorentina a rendere grazie a Piero di Cosimo de* Medici di molti cittadini per sua opera da cssilio revocati ed a* publici onori e dignità restituiti del mese d’ottobre mille quatrocento sessanta sei.
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II - Ma perché forza e lingua umana cede nel poter a te render grazia degna, Quel che nel ciel su regna ti dia el debito premio di tale opra. Ecco la turba che per te rivede di libertà la mia sublime insegna, né seguir lei disdegna fin eh’alle stelle volerà di sopra. Questo convien, che ciaschedun si scopra, ché Palme, già d’essilio rivocate, vanno cantando grate a te sol gloria ed ottimi auspici, del tuo bel nome e fama osservatrici. I l i - Tu se’ el mio Petro e sopra questa petra ho rinovato il tempio a liberiate, che già molte fiate aperse el tuo parente invitto e saggio. Ciascun che dentro a quello entrare impetra, el verno, primavera, autunno e state vedrà mie cóme ornate di verde frondi d ’uno alpestre faggio. O splendor rilucente, o santo raggio, che ’1 cor m’infiammi di sì lieta gioia ch’ogni molestia e noia è da me tolta, el mio novello stato è oggi più che mai per te beato! IV - Dunche, a bene sperar giusta ragione induce el vulgo mio, già sì giocondo che par che dal profondo del più crudele abisso sciolto sia, nuovo Fabrizio in toga e Scipione disceso giù dal cielo a noi nel mondo, Bruto e Marcel secondo, per essaltar la fama e gloria mia, alma superna, degna, giusta e pia, ove fede e costanzia si discerne ed altre dote eterne: ardire al cominciar d’ogni periglio e, nel seguir, prudenzia e gran consiglio. V - A te sol dunche esser chiamato erede tra gli altri nati del tuo padre lice, Cosmo santo e felice che mi fa del suo nome ancora adorna. E s’egli è gito alla più celsa sede del trono dove impera Beatrice, io riveggio in sua vice
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ciò che per te di lui al mondo torna; ma, s’all’occasion non si soggiorna, il farò di metallo rifulgente col titolo eccellente del padre mio, che virtù vivo face, che morto è chi di lui al fin si tace. VI - Veggio dal tuo sinistro e destro lato surger due laiiretti e verdi rami, e par che ciascun brami con sue frondi adombrar la chioma mia, in mezzo una colonna ed uno armato, eh’asembra fare e tuoi nimici grami, perché tu temi ed ami quel che fé superare a lui Golia. Questo fu che la setta iniqua e ria, che tór mi volle quel che meco nacque, sì come al ciel sol piacque si torse in fuga, e la sua gran nequizia ha ceduto a ragione ed a giustizia. — Canzon, di quegli accenti el tuo tenore saria sol degno e risonante lira che di Parnaso spira. M'hai fermo la mente in un penserò: ch'assai ben parla chi raconta el vero.
II Messer Nicolò da R isortoli a B. Pulci L4 Gite, rime dolenti, a trovar quella che fu cagion dell'alta vostra impresa, po’ che dal ciel contra Morte difesa non è, per cui sol vive al mondo bella. E sospirando dite, giunte ad ella, che l'alma al suo bel fine a D io è 'ntesa; ascende all'alto regno, ond’è discesa, a prender forma di fulgente stella. N é le pompe o disiri o mortai voglie alcun fanno lassù degno di gloria; mal pentersi e sperare all’ultim'ora! Altri è ben qui, che con poema e storia farà '1 suo nome chiaro e le suo spoglie dicate al sir che tutto '1 cielo onora.
R i s p o s t a d i B e r n a r d o a tn e s s e r N ic o lò p r e d e t t o
L4 - M11 r s e n t i ’ g ià n e l c o r m ille q u a d r e lla , c h e m i f é r d i d i s i o la m e n te a c c e sa , e p iù v o l t e a c a n ta r la m a n s o s p e s a m o s s i , p e r e s s a lta r c o sa s ì b e lla . M a c a n g ia ti p e n s ie r , v o l t o e f a v e lla , e l'a lm a a l s u o F a tto r p e r g r a z ia a tte s a , c o m ’a l d e l p ia c q u e , a c c o r to d a ll'o f f e s a to r n a i, v o lg e n d o a p i ù b e n ig n a s te lla . S 'a lcu n d e l v i v e r s u o g ià i f r u t t i c o g lie , m is e r e r e la ssù e q u i m e m o r ia , s e c o s ì p ia c e a q u e l c h e 7 m o n d o a d o ra . A m e , b e n c h 'io n o n s p e r i la v it t o r i a , c a n ta r c o n v ie n d e ll'o n o r a te f o g lie , q u a l n e sc o r g e tu o m u sa a lta e s o n o ra .
ANTONIO ROSELLI *
N acque ad A rezzo S tu d io
nel 1 3 8 0
e nel 1421
le g g e v a d i r i tt o
c iv ile n e llo
d i F i r e n z e . E b b e g r a n d e f a m a c o m e g i u r i s t a ; s u ll a s u a
P adova
n e l la
A n to n iu s d e
c h ie s a
di
S a n t'A n to n io
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R o y c e llis M C C C C L X V I d ie
s c r itto : XVI
« M o n a rch a
D e c e m b r is » ;
t o m b a in S a p ie n tia e
e G a m b in o
d ’A r e z z o l o a n n o v e r a v a t r a l e e c c e l s e g l o r i e d e l l a c i t t à : « Q u e l l ' a l t r o , in c u i a l b e r g a o g n i v i r t u t e , e g li è c h ia m a to e l m a g n o A n t o n R o s e llo , e l q u a l n o n tie n e le s u e s c ie n z e m u te » . F u le g a to a i M e d ic i, c o m e p r o v a u n 'a ffe ttu o s a le tte r a in v ia ta d a P a d o v a a G io v a n n i d i C o s im o a m m a la to . H a l a s c i a t o u n t e r n a r i o s c r i t t o in d i s p r e g i o e o n t a d e i p r e l a t i s i m o n i a c i e d a v id i.
I Rio .
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(F Accolti) - P4 (ad.) - R19 (ad.)
Quelli or veggiàn che si dierono in sorte per eredi di D io in santa via e poi tornàro indietro per la morte. La divina virtù, benigna e pia, per introdur la nova e vera legge incarnò el santo Verbo di Maria. Questo divino agnel fé la sua gregge in summa povertà di virtù tanta che pari alcuna a questa non si legge. Poi, raguardando a la fragile pianta de Fumana natura quanto è inferma, che in povertà non sapia viver santa,
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perché sua buona Chiesa stesse ferma, né per questa lassasse el divin culto, tant’ òr gli diè che da lei ben si scherma. È ’1 tóme, più dicendo, insano e stulto; e questo in lor figura la corona, che fa di pochi crin lor capo culto. La mirabile vita, santa e buona, perseverò insin che fu confitto quel mendace sermon, che ancor rinsona, che Cesar Costantin l ’ampio profitto desse del magno dono a santa Madre, pel qual n’ha oggi il ciel quasi in dispitto; per che da poi l’estituzion leggiadre sempre son state strette da la soga de’ temporali e lor opere ladre. Diventata è la nova sinagoga madre di fornicar, Babilon magna, che fra’ miseri avar ciechi s’afoga. Puttaneggia costei, bramosa cagna, oggi co’ regi e ¡’idolatria face, che disfé degli Ebrei sì gran compagna. Per por rimedio a tale ardente face, la divina giustizia Ambrosio santo e me mandò a ricordar la pace già predicata nel suo primo canto con Girolamo pio, che ta’ ricordi per far con voi durò fatica tanto. Ma poco valse, ché più vi son sordi e su tratti da’ dolci ben terreni, nei qua’, lassando Idio, son vissi ingordi. Né c’è valuto e mandati sereni per quel che tutto arse di caritate, che ancor Dio fé per spenger tal veleni; né del consorte suo pien di pietate, tutto divin, sarafico Francesco, che volson rinovar la prima etate, ché quasi ciascun oggi lieto e fresco cheric’ha non per Dio né per virtute, ma per d’oro e d’argento aver gran desco. Questi son tratti da catene acute d’oro infocato, che gli tiran dietro, dimenticando l ’eternai salute; e ciascuno è giboso, claudo e tetro da putrida caligine; or rimira la turba che sospira tristo metro.
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Onde io vidi color, qual divina ira gastiga, indrieto venir forte tratti e curvi come l ’arco che si tira. Gridavan tutti gl’infelici capti: « Mal di Gereboan la via seguimmo e di Giezi, per ch’or siàn sì disfatti! E mal dietro a color miseri gimmo, che vendevan nel tempio le colombe, né ’1 santo minister di Dio udimmo! Che queste eran le voglie torte e gombe di chi el Santo Spirito aliena, cacciati fuor de’ tempi e sante tombe ». Guardando e zoppi stretti a la gran pena, vidi un che fatto avea di sé tal arco, qual mai fesse delfin de la sua schena; onde, dicendo a lui, mi feci al varco: « Che t’è cagion di così duro pianto e di pena crudel e grave incarco? » Respuose: « Perché volsi el Spirto Santo per simonia, per che ancor con forza mi rivisti’ del gran papale amanto. Questa eretica specie, ch’oggi sforza quasi ogni reo prelato, ancor mi trasse, poi che presi le chiave e la gran forza, che ogni spiritual grazia alienasse, preponendo e cattivi agli uomin santi, che le plebi di D io mal governasse ». Io cominciai con così aspri canti: « Scelerati, quanto è giusto el giudicio, che vi tien stretti a così duri pianti! Ché ’1 povero, mirabil, santo inizio pien di zel, di virtù contemplativo, colle ricchezze volto avete in vizio. Non seguitate el primo padre divo, ch’a Simon disse: “Teco in perdizione sia la pecunia e di D io tu sia privo”. D el crucifisso fatto gonfalone avete e delle chiavi e de la croce a ogni ruberia ed estorsione. N é la vostra ambizione a color nóce che sieno eversi a la legge di Cristo, ma sol fidel cristian percote e coce. Con pianto di fervor di Dio amisto, feron Gemente, Lino e Cipriano e Marcellino e ’1 venerabil Sisto
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l ’alto divin principio, e non umano, umeli perseguiti in nei martiri, volendo sol del cielo el regno in mano. E voi, superbi, fier tiranni diri, cercate sol del mondo el tristo regno. Ahi, iusticia di Dio, che non t’adiri? Ché quei che dovrian esser padre e segno e direttivi de Fumana vita a porre inverso el cielo ogni suo ingegno, seguire il mondo cieco ognun c’invita, in ogni gran lussuria disonesti, sì che ogni via di D io hanno smarita. Digiuni e scalzi e primi padri onesti fur con vestiri umili; voi elati tirate di scarlatto le gran vesti, da molti servi a portarle aiutati, sì che più bestie aiutano una grande, onde se’ primi fur santi e beati, di pan pasciuti e di povare ghiande, voi in ogni lasciva séte involti, servi di Bacco e di molte vivande, sì che’ servi di Dio non son or molti. E quei che son devoti, onesti e miti, voi isfrenati reputate stolti, perché non seguon vostri bestiai riti di lussurie, rapine e varie pompe, de le qual siete mal cinti e vestiti. Quanto gli essempli vostri mal corrompe la sciocca plebe, poveri idioti, che guardan quanto mal per voi si rompe nelle ricchezze e ’n questi mortai loti, de’ quai son quei che vengono legati en legazion con lor pazzie non noti! Entran per le città superbi e ’nfiati con gran cavalleria, con vestimenti lor di scarlatto e cava’ covertati. Fansi far ciel di ricchi coprimenti, che portan sopra ’1 capo, quando vanno, sì che di sé fan idolo a le genti credule, pie, che contra mal gli vanno. Non fé così quel benedetto agnello, che venne a tór la colpa e ’1 nostro danno, che, sedendo umil sopra d’uno ascilo, al popol venne suo divoto e pio pover vestito d’inconsutil vello, sì che ben si mostrò figliuol di Dio.
BERNARDO ROSELLI *
B e rn a r d o d i R o s e llo , c itta d in o
fio r e n tin o
d e l G o n fa lo n e R u o te , s e r
v i t o r e d e l c o n t e d ’U r b i n o , è a u t o r e d ’u n a c a n z o n e s u ll a f o r t u n a .
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I - Se a’ prieghi umani il quinto sentimento porgesse quella in cui pietà non regna e che alcun non degna per sangue, per virtù né per ricchezze, Tanimo, ch'ai voler sempre s’ingegna, faria con gli umil prieghi tal concento ch’egli faria attento ogni turbato cor in grande asprezza. Ma costei, che non ha in sé fermezza, prieghi non cura, equità né ragione; segue il volubil corso suo veloce, però ch’errò la voce a pregar lei con questa oppinione di viver sopportando in speranza, ché suo male o suo ben non ha costanza. II - Vedi il turbato mar con qual rumore, con tempestose e con terribili onde, che talvolta nasconde alto navilio e par sotto sommerso, e poi la furia sua vince e confonde e ’1 grido abassa e dell’onde il tumore e sanza alcun furore chiaro e quieto sta per ogni verso. Però, se ’1 tempo io ho ora traverso, spero d’averlo ancor chiaro e quieto e veder fine a sì gravosi affanni,
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già durati molti anni; e con questo sperar mi vivo lieto, per non perir nel pelago notando, e suo male e suo ben poco curando. I l i - Raguarda il ciel che volgendo si move or chiaro, or turbo in un picciol momento, ed ora acqua ed or vento, or caldo, or freddo e quando è temperato. Così di questa nostra vita sento, come ogni dì si vede vere prove sanza cercare altrove, volubil essere ogni nostro stato, però che la natura ha ordinato agli stati mondan le stelle guida, che son volte dal ciel sanza fermezza. E però chi disprezza questa fallace, ed in lei non si fida, vive contento, perché può sperare che suo male e suo ben non pò durare. IV - Nullo in perpetuo può perpetuo dare, e però il mondo corrotto e cattivo, di perpetuo privo, perpetuo non dà stato o ricchezza. Alcuno stenta per fin ch’egli è vivo, perché attende sempre a cumulare, né mai crede mancare e manca e lascia a om che non l ’aprezza; e, caduto in superbia per vaghezza, spende, consuma e non pensa onde viene, sì ch’è in povertà presto caduto. Ed umil divenuto, con umiltà fa roba e più la tiene; e così transmutando, s’ tu pon cura, il suo male e ’1 suo ben poco ci dura. V - Affaticansi e più per esser ricchi, chi per stato e chi per signorie, e con diverse vie cerca ciascuno al suo pensier venire con poca coscienza e con bugie: niun si cura benché ’1 petto picchi. Fa’ pur ch’io tiri a micchi e possi il mio voler a pien finire, e però vedi tu ed odi dire che spesse volte la ragione è vinta dall’altrui forze, ond’ella è occupata.
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Ed alcuna fiata la forza è dall’ingegno morta e spenta; così l’un l’altro ognor rubando provi che suo male o suo ben fermo non trovi. VI - Benché sian duri e colpi di Fortuna, con picciol arme gli fai resistenza, scudo di pazienza leve al portare e forte al sostenere, sperando sempre in la divina essenzia, dove non è volubilezza alcuna. Etterna elTè sol una, da cui si può etternità avere. E questo mondo e l ’altro godere sol sa colui che s’accorda col tempo con pazienza quando il mal gli vene e gode, s’egli ha bene, tardo che venga o venga pur per tempo, e pone amore alle cose superne, dove è ogni bontà, e sono et terne. — Canzon, tu cercherai li malcontenti, perché da lor ti sarà porta fede; di’ a chiunque ti crede che chi vuol riparare a’ crudi venti della Fortuna e non curare un fio, ami pur sopra tutto e temi Dio.
GIOVANNI ROSELLI ★
N a c q u e n e l 1 4 2 2 d a A n to n io e A n g io la d i G u id a c e lo P e c o r i; n e l 1 4 5 1 F e d e r i g o , c o n t e d ’U r b i n o , l o n o m i n ò l u o g o t e n e n t e d i F o s s o m b r o n e . M o r ì d o p o il 1 4 7 8 . A n c h e lu i, c o m e il p a d r e , fu lo d a to d a G a m b in o : « E f a ’ c h e s o m m a m e n te a n c o r t i p ia c c i l ’o p e r e d e g n e d i G i o v a n R o s e l l o
».
L a s u a p o e s i a p i ù c e l e b r e è i l l u n g o t e r n a r i o I , v i s i o n e d ’i m i t a z i o n e d a n te s c a ; in e s s a fa n ta s tic a c h e A m o r e g li c o n c e d a d i p o s s e d e r e u n a n in fa , ch e p o i p e r ò lo a b b a n d o n a . D i q u i u n a s e q u e la d i p e r s o n a g g i m ito lo g ic i t r a d i t i d a l d i o ; i l t u t t o in u n o s t i l e t a n t o e n f a t i c o q u a n t o n o i o s o . M ig lio r i c i se m b r a n o
il so n e tto
I I , a n c o rc h é c o n v e n z io n a le , e a n ch e
il c a p i t o l o c o m p o s t o p e r la m o r t e d i P e l l e g r i n o d i N o f r i P a r e n t i .
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Era la notte ombrosa in ciascun loco quiete agli animai ch'alberga in terra doppo gli razzi del superno foco, quand'io senti' la fiamma, onde s'atterra, sfavillarmi nel petto d'amor crudo di colei, che mi mosse or pace or guerra, e vidimi nel foco essere ignudo d'ogni aiuto fedel; e l’alma trista nutriva la speranza, saldo scudo. Allor m'aparve manzi dalla vista un uccel faretrato ardito e franco, di ben mille color suo penna mista,
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el qual si puose dal sinistro fianco d’esto corpo mortai, misero, aflitto, d’infiniti sospir pasciuto e stanco. « Che giova il lagrimar senza profitto? — cominciò, e con voce alta e soave tal che atento mi fece al santo ditto — Se tu vorrai che la possente chiave, la qual io porto, snodi la catena che ti par a portar cotanto grave, o se vorrai temprar l ’ardente pena, vedendo a te benigno quel signore che sospirando a morte ognor ti mena, lèvati suso e vinci ogni dolore colla virtù, che affaticata avanza ogni vostro mortai, profondo errore ». Allor ripresi alquanto di baldanza e benigno mi volsi al divo sole, che diede al viver mio ferma speranza, e cominciai: « Le tue sante parole porgono al tristo cuor tanto conforto che ripiglia valor, qual far si suole. Se da contrari venti il vero porto si nega a’ naviganti e ’1 mar s’adira, tal che contro non vai governo accorto, e, mentre tempestando il legno agira, si leva un venticello e gonfia il velo e dal torto camin franchi gli tira, e come que’ pel già posato cielo stracchi da la difesa ognun s’aviva, che per fortuna avea cangiato il pelo, così quella favella altera e diva dette franco vigor al corpo lasso, qual dispetto con pianto ognor. nutriva. Onde con riverenzia, a capo basso seguiterò le tue orme divine, non curando montagne, o bosco, o sasso ». Allor mostrò le luce pellegrine accese tutte in un soave riso, ove il folle sperar già mai non fine. Po’ m ’amunì che ’1 mio guardar diviso unque non fusse dal suo presto volo, tenendo sempre al ciel levato il viso; e colle penne insino al primo volo levossi allora e poi drizzò il camino, ond’io mossi, sperando, aiegro e solo.
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Mentre io seguiva el mio fatai destino, radoppiando la fiamma e ’1 fuoco acceso, che notrir mi dovea, tristo e tapino, vidi ne l ’aier già esser sospeso Cupido roteando, e gli occhi fissi teneva in terra e nel calare inteso. Chiuso neirale poi parve che gissi per l ’aer, fulgurando in quella parte ove le forze sue volse sentissi. Quivi per influenzia erano sparte in pochi abitator l’ample virtuti, ch’ebbe Mercurio, e l ’eloquenzia e l ’arte. Poi che la guida ed io fummo venuti nel luogo triunfal, ove mi piacque sentir del mio signor gli ultimi aiuti, vidi fioriti colli e le dolce acque surger intorno al dilettoso monte, ove della mia stirpe el nome nacque; e surger vidi dalla avversa fronte due rivi in Appennino a piè del colle, qua’ nutricava un generoso fonte. Natura triunfar del mondo volle quel ch’a man destra discendendo tolse el nome, che Tiberio ancora estolle. Da man sinistra il sopranome colse Arno da Sarnia apresso a la colina, ove in mille lacciuoli il cuor s’involse. Crebbemi dentro un’amorosa spina il luogo adorno e la dannosa gente, che m’invitava alla fatai rapina. Stavami sempre accesa nella mente l ’alta impromessa, ond’io gridai allora: « Porgi a’ prieghi, signor, l ’urecchie intente: poi che ’1 mesto dolor tanto m’accora ch’ai grave mio martir non truovo scampo e l’ardente mia fiamma cresce ognora, qual fia il soccorso e ’1 dilettoso campo ch’aver dovevo, e questo dolce sito che tempra il foco e l ’amoroso vampo e, come già ben puoi aver sentito, radoppia il caldo e la bramosa voglia, che m’ha in tanti sospir sempre nutrito? Come adunque farò, ch’io non mi doglia della tua fede e del superchio affanno,
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che di vera quiete il cuor mi spoglia? Ecco l ’adorno loco; e senza inganno temprar tu puoi la dispietata fera e le durezze che nel cuor gli stanno. L’alto tuo ingegno, in cui la mente spera, adopra, qual facesti in grembo a Dido, quando piegasti la sua fé sincera, e qual facesti al doloroso grido ¿ ’Adriana, che Bacco accese e strinse a farla degna di cotanto nido. E come la tua forza ancor sospinse Febo a seguir la ninfa insino al fiume, ove di laùr le suo membra cinse, tale ora accendi il disiato lume, sì che, dall’auro strai percosso e vinto, senta la forza di sì degno acume. E come il viso di pallor dipinto ebbe Medea poi che Iason l ’accese, sì che fé del suo sangue il mondo tinto, simil l’alte tue fiamme in lei discese senta, onde, in vista impalidita e smorta, vendetta vegga di cotante offese. Tanto il dolor ne l ’ira mi traporta ch’ancor direi, se non ch’altronde spero giusta mercè dalla tua mente accorta ». Vinto Cupido dal parlar altero, sorrise risguardando in quelle ville, ov’era il mio signor tanto severo; e coll’ orato strai quelle tranquille luci turbò, spirando in lei la fiamma che l’alma accende d’immortal faville. Il cuor, che nel pensier sempre rinfiamma, sentì la piaga, e il generoso sangue consumava languendo a dramma a dramma. E come, dal disio commosso, un angue rapido cerca spegner l ’alta brama, né già mai nel furor posando langue, l ’impeto ardente a così degna trama simil la trasse; ond’io senti’ el diletto dentro da l’alma dolorosa e grama. Poi con mille sospir congiunsi il petto colla leggiadra ninfa e in terra giacqui, per impir l’alto e disiato affetto. Raccontar non porrei quanto gli piacqui, finché lassù giacemmo in su quell’erba,
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ove poi più che prima a lei dispiacqui. Qui la fiera selvaggia, aspra e superba rinovar cominciò l ’antico stile, che la vita mi fé cotanto acerba. Lasso! ch’io vidi il cuor già fatto umile, acceso in fiamma ancor più che non lice, sentir la forza del piombato astile. E quanto mi pareva esser felice po’ ch’adopiammo il dissolubil nodo, tanto dolente or esser mi condice. « Amor, la forza e il dispiatato frodo, che fatto m’ha’, a lamentar m’invita, e l ’alto sdegno per lo qual mi rodo. Ma pria ch’io venga alla dolente vita, dirò degli altri per dolore spenti, tanta pietade in te vider smarita. Filide ancor si duol de’ tardi e lenti passi di Demofon, sì che conversa, piangendo, mostra gli amorosi stenti. Fedra, da poi che la fortuna avversa d ’Ipolito sentì, se stessa danna di morte dolorosa, aspra e perversa. Siila Minos del suo amor condanna esser indegna, onde l ’uccel rapace per la giusta ira nel fuggir l ’affanna. Biblide a Tacque lagrimando giace co’ crini sparsi, e duolsi del fratello che non si piega all’amorosa face. Ifis, ch’è vinto dal maligno e fello amor, quale Anasarte ancor non cura, pendette inanzi a l ’infelice ostello. Ecco per doglia le sue membra indura, onde Narcisso l ’ombra al fonte geme, che dal soave amplesso ognor si fura. Ahi, falso Amor, perché cotanto preme l ’aspra tua fiamma e la tua gran durezza, per cui venir conviensi all’ore estreme? Raccontar ben vorrei quanta fermezza in te si truova e quant’è frale e vana tua fede, tua speranza e tua dolcezza; ma, perch’io sento la mia mente insana già vacillar per la futura morte, la qual mi par non sia troppo lontana, partir conviemmi e lagrimar sì forte ch’a pietà muova il ciel, a cui s’aspetta
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aver mercè di sì malvagia sorte ». Mentre ch’io parlo e che ’1 dolor m ’affretta alla giusta partita, manzi scorsi una donna venir tutta soletta; poi che di me ed io di lei m’aecorsi, ella parlò con un soave accento, onde tristi sospir dal cuor levórsi: « Pietà mi muove al tuo aspro tormento trovar soccorso, e ciò ben far vorria coll’alte forze che nell’erbe sento. Io son la ninfa graziosa e pia ch’amai Ulisse e Pico, a cui fu’ cruda perché dal nostro amor chiesto fuggia. E perché brieve nel mio dir conchiuda, io son severa a chi amar perdona l ’amante, di pietà spogliata e gnuda. Segui adunque la dea che ’1 ciel ti dona per degna guida al tuo tristo languire, mentre la voglia nel venir ti sprona ». « Poi che nel tuo cospetto il mio martire par per vera virtù trovar mercede, — rispuosi a Circe — e’ mi convien seguire ». Ella m’intese e dal sinistro pede spogliata entrò ne’ luoghi oscuri e foschi, ove l’erbe a cercar china si diede. Quivi raccolse più di mille toschi di radici e di fior, fin che la luna lume stillò ne’ dolorosi boschi. Poi urlar cominciò per l ’aier bruna; diversi canti, orribili sospiri, pianti, mugghi, latrari insieme auna. « Che pur pensando nel pensier t’agiri? — disse la dea — Del sol brieve fia ’1 tempo ch’averan fine i tuoi lunghi desiri. Vedi le stelle, ch’ai turbato tempo fanno splendor, sì che facciàn ritorno mentre ch’è atta la stagione e ’1 tempo ». Ragiunto avea la luna ogni suo corno quando tornammo, e lei non volle intrare dentro alle porte di quel luogo adorno. Quivi di cera a lei vidi creare simil forma alla ninfa, cui non calse del fuoco, a cui già mai potti restare; e sparse Tacque simulate e false del fonte, che, da poi passato è Tonda, indrieto ritornar unque si valse.
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Tre volte poscia queiraltra circonda di tre fila diverse, e fé tre nodi ch'ogni somma potenzia in tre gioconda. L’immagin volse a’ simiglianti modi e l'erbe messe in sulla fiamma accesa, l ’erbe che vincon gli amorosi frodi. Spesse volte la luna esser offesa si vede per la forza, e stare i fiumi; né sa, né puossi contro usar diffesa. Cominciò poi sopra gli ardenti fumi: « Proserpina, ch'ai centro etterna regni, vinto Phiton da’ generosi lumi, Aletto, che nutrir sempre t’ingegni, Discordia, e voi sorelle, che vendetta fate in inferno de’ celesti sdegni, Minos per cui giustizia al fin s’aspetta, Caron che l'ombre navigando passi e cacci indrieto qualunque s’affretta, Cerber, che’ luoghi tenebrosi e bassi guardi da’ spirti ch’innumati al sonno vengon da’ corpi consumati e lassi, poi che l ’erbe per sé guarir non ponno la fiamma di costui, vi chiamo in versi, pe' qual da luogo a luogo immoti vonno. Questi cantando, per la selva spersi Pico e’ compagni, e feci il tempo oscuro e in più di mille forme gli conversi. Solvete il nodo inviluppato e duro, spengasi il foco e il dispiatato sdegno, sì che viva d’amore ornai sicuro! » Volse mostrar natura il vero segno della mia libertade e la gran forza che gli dei hanno del terrestre regno. E quando il foco le radici sforza superando l ’amor, vidi 'n quell'ochi, non so per qual virtù, la fiamma smorza; e senti’ spirti, ch'ululando rochi dicean: « Rimanti, che finita è l'opra c’ha in te spento gli amorosi fuochi! » Mentre che Circe nel gittar s’adopra all’acque il cener, subito mi parse il cielo aperto e l ’emisper di sopra, e quella fiamma, che gran tempo m’arse, volar là dentro, e far serene e belle l'alte cose del cielo. E la dea sparse, ed io rimasi a contemplar le stelle.
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Fra frondi, arbori, boschi e verde piagge era il dolce signor che m’innamora, quando giunse el dolor, ch’or sì mi accora ch’esser vorrei fra le sassose spiagge con venti, con tempeste aspre e silvagge, tal che Morte chiudessi l ’ultim’ ora della vita angosciosa, ove dimora pianti, doglie, sospir aspre e silvagge. Ma se colei, ch’allor tanto mi piacque, mostrassi alzati e disdegnosi lumi e discordia nascessi ov’ora è pace, qua’ rivi, qual fontane o gelide acque spegnarian meglio in me gli ardenti fumi, accesi di mortai eternai face? Ili*
Rio - R22 - R23 - L6 - FN1 (ad.) - FN2 (Ant. di M. Rosello) - B (M. Rosello).
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Se mai divo furor famoso e degno mosse Talma a cantar sì alte rime che d’ogni mio altro stil passasse il segno, ora mostri mie ingegno ampio e sublime, per consolar color che duro caso di sì dannosa morte tanto opprime. Era el mondo ne l ’orto e ne l ’occaso di splendor pelegrino ornato e chiaro, del qual per morte ora è cieco rimaso. Al laùdabil fine in pianto amaro molti commosson l ’alma sbigottita, come chi più suo ben che d’altri ha caro. N é cognobber costor l ’alma esser gita a quell’alto Signor ch’a chi ben vive pace promette con eterna vita; onde el poeta nostro ben descrive la morte fin d ’una pregion oscura, a chi voi contemplar cose alte e dive. E però a chi par troppo aspra e dura così beata morte, el proprio bene
* Versi e capitolo fatto da messer Giovanni Rosselli per la morte di Pellegrino di Nofri Parenti al padre e la madre.
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ama più che di quel che a noi si fura. Onde chi amicizia alma mantene de l ’amico perduto si duol tanto quanto ch’ai primo moto si conviene; poi rafrena sua doglia e ’1 tristo pianto, consolando se stesso con ragione, eh’ esser de’ guida a ciascun giusto e santo, e rimembra di D io l’alta intenzione, el qual, se alcun suo ben a noi concede, non vuol che ci dogliàn, s’altro dispone. Così faccia ciascun che aperto crede l ’alto don p e le g r in o a noi concesso da quel sommo Rettor che tutto vede; e de l ’amico la memoria apresso a lor dolce rimanga, e per languire non sperin l ’alto Idio aver mai flesso. Finisca adunque il lor crudo martire; savio consiglio e non lunghezza vana, se dal comune error voglion partire; ché per mille ragion par folle e strana l’aspra passion che prendon per la morte, la quale a lor non è troppo lontana. Chi esser dee che lacrimando forte si doglia che la morte lui aterra, se a lui seguirla è necessaria sorte? Ben misero è colui che ’1 duolo afferra, se non fa con l ’amico alcun profitto e col vulgo comun gravemente erra. Esser dee di ciascuno equo e dritto l ’animo, poi che per vero destino lassar convien le membre e ’1 corpo aflitto. Non veggiàn noi quanto è frale el camino d ’esta misera vita, e in quanto affanno nutrito è il corpo misero e tapino, e del presente e di quel che daranno gli alti pianeti a noi nulla esser certo, se non la morte, fin d’ogni rio danno? Costei ci mostra el nostro error aperto e ’1 tempo breve, misero che corre inver di lei per mille casi incerto. Perché dunque ci duol, se quel che tórre non può potenza over caso felice, ne l’amico diletto prima occorre? Se l ’universo tempo o quanto lice viver altrui nostro ingegno comprenda,
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nostra vita vedren quant’ è infelice; e noto ci sarà quanto si stenda in breve caso el cupido disio de la plebe, che par che nulla intenda. E però ciascun, ch’è santo e pio, ama la morte, per uscir del laccio di questo corpo tenebroso e rio. Miseri noi, quanto è grave Pimpaccio del viver nostro pien d’ogni tormento, suddito a fame, a sete, a neve, a giaccio E però, rimembrando il crudo stento qual mantener conviensi in tal terreno, non facciàn del perduto alcun lamento. Anzi, con gran quiete el nostro seno de li purpurei fiori e di viole odoriferi assai sia colmo e pieno; e là dove doler altri si suole, al p e le g r in sepulto el dono inane faccia, po’ che da noi ancor si cole le membra da lo spirto sì lontane.
ROSELLO ROSELLI *
R o s e llo d i G io v a n n i d i R o s e llo n a c q u e n e l 1 3 9 9 a d A r e z z o . F u c e le b r e g iu r is ta rità
e v e s tì V a b ito
che a veva
c o i M e d ic i
e c c le s ia s tic o . (fu
G r a z i e a lla s t r a o r d i n a r i a f a m i l i a
a m ic is s im o
r is p o s e p e r le r im e a d u n su o s o n e tto
d i B e r n a r d o d 'A la m a n n o ,
(XXX),
che
d i G io v a n n i e F ie r o , su o
c o m p a r e ) , e b b e c a r ic h e d i n o t e v o l e im p o r ta n z a : fu n u n z io d i M a r tin o V p resso IV
L a d is la o d i P o lo n ia
e C a r l o V I I d i F r a n c ia , t e s o r i e r e d i E u g e n i o
a P e r u g ia , c h ie r ic o d e lla C a m e r a A p o s to lic a . N e l 1 4 4 3 s e g u ì il p a p a a
S ie n a , d o v e s e la fa c e v a c o l B u r c h ie llo ( s c r iv e v a a G io v a n n i il 2 9 g iu g n o : « I e r i m i v e n n e i l B u r c h ie llo a v e d e r e . D is s ili c h e fa c e s s e q u a lc h e c o sa : d ic e c h e è s ì f o r t e in n a m o r a to c h e h a p e r d u to il c e r v e llo ; p u r e v e d e r à d i r i t r o v a l l o p e r a m o r e t u o » ) , o r m a i in o t t i m i r a p p o r t i c o i M e d i c i ; m a c o n lu i p iù
t a r d i s a r e b b e s c o p p i a t a u n ' a s p e r r i m a i n i m i c i z i a , t e s t i m o n i a t a d a l la
v io le n ta te n z o n e . N e l '4 3 to r n ò a F ir e n z e ; i v i g r a z ie a G io v a n n i o tte n n e i l p r i o r a t o d i S a n I a c o p o O l t r a r n o e p i ù t a r d i i l c a n o n i c a to . D a l 1 4 4 7 a l '5 0 p e r ò f u a R o m a a l s e r v iz io d 'u n c a r d in a le . M o r ì i l 7 f e b b r a io Le
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e s s o , o l t r e a l le p o e s i e d e l P e t r a r c a , c 'è i l s u o c a n z o
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p e r m a d o n n a O r e tta , c h e c o m p r e n d e 5 7 s o n e tti, 1 2
(« O r e ta r d i » )
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s o n e t t i c o n tr o il B u r c h ie llo , u n a b a lla ta e u n c a p ito lo . I l B r u ti h a p r o p o s to d i id e n tific a r e q u e s ta O r e tta c o n O r e tta d i D o m e n ic o d i F r a n c e s c o S a p iti e d e lla L e n a d i G io v a n n i d i M . D o n a to B a rb a d o r i, a n d a ta s p o s a n e l 1 4 3 8 a d A d o a r d o d i G io v a n n i P o r tin a r i, c u i R o s e l l o d o n ò i l l i b r o . D i q u i il s o s p e t t o c h e s i t r a t t i p e r la m a g g i o r p a r t e d i p o e s ie
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1 La sestina « Forza d’erbe, de pietre e di parole » è stata recentemente asse gnata a Leon Battista Alberti da G. G orni, Nuove rime di L.B. Alberti, « SFI » XXX (1972) pp. 225-50, il quale ha ravvisato nella redazione di R4 un rimaneggiamento roselliano.
donne (per lo più adombrate con Vartificio del nome secreto) sono cantate: Nannina (IV) , Pippa, amata da Luigi Vettori ( X X X I I I ) , San dra ( XXXVI I , XLI V) , Castora ( X X X I X ) , Giovanna degli Strozzi vagheg giata da Piero di Cosimo (X L I I I ), Maria (L X X I ); per Guidaccio di Faenza inoltre compose un sonetto inviato a Lena (II I) e probabilmente la ballata L X X I L Nel complesso, il canzoniere di Rosello è forse il migliore tra i pur numerosi di genere petrarchesco per immagini limpide, stile corretto e mai tortuoso o aspro, assenza (tranne che nella canzone X X X I X ) del l'erudizione mitologica e storica, fardello che grava immancabilmente su quasi tutti gli altri lirici del tempo. Questa simpatica figura di prete gau dente dunque, malgrado non si segnali per originalità tematica, si riallac cia a quella corrente petrarchista del tardo Trecento che nel Rinuccini aveva avuto il suo migliore esponente. Pochi sono i componimenti non amorosi: il sonetto L X X V contro i malparlanti; la canzone LV nella quale, imitando Giovenale, contrap pone la vita semplice e pudica dell'età dell'oro a quella corrotta del mondo contemporaneo; il capitolo L X X I V in cui, ricollegandosi ad una tematica che risaliva agli gnomici del Dugento e al Pucci e reperibile nel Quattrocento in Francesco Alberti, descrive minutamente i mali della vecchiezza. Particolarmente interessante il son. LXX, felice esempio della letteratura equina (cfr. M. Davanzati XI I I ) .
I R4 L’undecimo anno del mio grave pianto è già passato, e son pur quel ch'io m’era; e, infino al dì ch’el d el vorrà ch'io péra, vestirò, veggio, de sì tristo amanto. O ria fortuna mia, perch'am'io tanto? Perché non è mai dì, ma sempre sera al viver mio? Perché sì aspra e fera m’è ogni stella, che mai rido o canto? Non fu vista mai più tal crudeltade, che per amar con fé om viva e mora
sanza speranza di trovar piatade. Se debbia Talma uscir del corpo fora, serebbe segno di qualche onestade una morte donar, non mille ognora.
II R4
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Né tempo, né dolor, né grave offesa, né morte ancor farà libera l ’alma, che non porti d’amor sua dolce salma. Non pò mostrarsi alcuno esser virile, se non sotto el suo bon, giusto governo, specchio d’ogni virtù e vera pace. Ivi ogni umanità chiara discerno, ivi om se fa magnanimo e gentile, cercando sempre far quanto a ognun piace. Grazie ti rendo, o gloriosa face, che m ’infiammasti di donna alta e alma, per cui spero dal cielo aver la palma.
Ili* R4 Se vera g u id a a c c iò ch’el cor disia sarà madonna, per cui vivi in pena, prendi, signore, arditamente le n a e forza tal, che tu beato sia. Non guardare al dolor che toglie via el pensier che può far l ’alma serena e stringe l ’intelletto con catena, sì che non pò del d el scorger la via. Poi che sua gran beltà d ’ogni virtute, di pace, d’onestà e gentilezza se vede ornata, come fama dice, avendo nel servir sempre fermezza, acquistarai per lei somma salute, quella che sola ti può far felice.
* A l sig n o r d i Faenza ch iam ato G u idacelo, il quale am ava una don n a chia m ata Lena.
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Di giorno in giorni, Amor, di mese in mesi e d'anno in a n n i n*a\ di me tal prova che seria ben ragion ch'io piata trova. Tu hai veduta la mia pura fede e quanto è grave ognora el mio tormento per tener dentro al cor tua fiamma ascosa. Merzè dunche, per Dio, ohimè, merzede! Innanzi al mio morir fammi contento di farmi mia madonna graziosa! Ella è bella e gentil, ma non piatosa; però vogli da te tal grazia piova, sì ch’ai soccorso mio ella si mova. V* R4 Se Lucrezia fu simile a costei, la qual porti nel cor con pura fede, sanza manco veruno il ver si crede per chi vuol ch'ella stia fra gli altri iddei. Madonna tua, non solo agli occhi miei, ma di ciascun che drittamente vede, d'ogni virtù, che gran beltà rechiede, dotata è sai più ch'io dir non saprei. E veramente spero che nel cielo ara el più degno loco delle stelle, sì come ornata di maggior splendore. E tu perché stai seco al caldo e al gelo, mirando con piacer le membra belle, meriti parte aver del ver suo onore. VI ** R4 Rotto è '1 disegno mio e Y o r è ta r d i a poter proveder d'altro governo; e quanto penso più, via men discerno modo a far sì ch'io non mi struggili ed ardi
* A d P etru tn . ** A d P etru m .
Stanno fissi nel cor ben mille dardi, orati tutti, ognor la state e il verno, onde estimar si può mio male etterno, Piero, si ben tutti i miei segni guardi. Credea che allontanarmi da quel loco, ove è quel sol che tanto infiamma il core, donasse qualche aiuto al mio languire. Niente giova, ma più cresce il foco, sì che disposto son star nel bel fiore; e dica mal di me chi mal vuol dire.
V II R4 Fara’mi mai chiamar felice amante, poi che tu vedi, Amor, ch’io ne son degno? Che non fu, né sarà, dentro al tuo regno chi in ben servir, come io, facci sembiante. Io ti son stato sì dritto e costante, non partendomi mai d’alcun tuo segno, che doveresti el mio percosso legno condurlo al fine ornai di pene tante. Perché non dai soccorso a tanta fede? Perché vuo’ far di me ognor più prova, che mi sento morir, tanto è il tormento? Deh, non più crudeltà! Fa’ che si mova pia tosa mia madonna, e ben contento facci il cor che dieci anni a lei sol crede.
Vili R4 Ritornarà già mai quel divin sole che confortava la mia vita stanca? Rivederò mai più quella man bianca ch’apre e serra el mio cor, com’ella vòle? Udirò più l ’angeliche parole che farien l’alma gloriosa e franca? Ohimè, ch’ai tutto la mia vita manca, tanto di mia madonna el partir dole! Se ben per vero, Amor, merito aiuto,
fra’ boschi non tener madonna mia; rimandala in fra’ fiori o nel tuo regno. Aggi piata di me, che in tua balìa già dieci anni passati m’hai veduto fedel, suggetto, sanza ira ed isdegno.
IX R4 O ’ son le rose in paradiso colte che confortavan l’anima smarrita? O v’è V aura gentil, che spesse volte col suo dolce spirar mi dava vita? Sonno le mie dolcezze in pianti volte, perché, lasso dolente, ella è partita e le virtù vital dal cor son tolte, sì ch’io veggio mia vita esser finita. O sfortunato amante, o crudel villa, o donna aspra e selvaggia e sanza amore, che lasci i fior per abitar fra’ boschi! O pensier miei già chiar, fatti sì foschi che mi veggio morir con gran dolore, quando sperava aver vita tranquilla!
X R4 Ritorna, aura gentil, a star fra i fiori, fra donne innamorate e pellegrine; fuggi l’ardente sol, fuggi le brine e chi non voi che qui tu t’innamori! O ’ son li pregi degni, o ’ son gli onori, che meritan le tue beltà divine? Non stan fra uscuri boschi e crudel spine, ove, per darmi morte, ognor dimori. Qui pòi tu fama aver, qui el paradiso sarà, se tu ritorni; e il primo seggio terrai di ciaschedun di virtù segno. Ma, se non torni, rimarrò conquiso, ché, non vedendo te, la morte veggio: e, ch’io mora per te, non ne son degno.
Per poter contemplare el sommo Bene a ciascun' ora co la mente pura, risguardo questa nobil creatura, che suo vestigio qui nel mondo tene. In altro non debbian por nostra spene, perché cosa non è tanto sicura quanto servir colui, che in sé mesura non ha e tutto il mondo sol sostene. Già non posso io pensar com’altramente servi' questo Signor, di grazia un fiume, se non mirando mia donna gentile. Costei ognora mi fa star presente el sommo Iddio col suo bel costume, e ciascun’ altra cosa io tengo a vile. XII R4 O r è t a n t o il diletto e il gran piacere, che madonna mi dà col suo bel volto, che son contento che m’abbi il cor tolto e che ne facci tutto el suo volere. Maggior felicità non potrei avere che non esser da lei già mai disciolto, ove el cielo e natura hanno ricolto ogni lor forza e tutto '1 lor sapere. Io non viddi già mai tanta beltade; Piero, madonna mia è un paradiso di senno, di virtù e di bontade. Quando io mi volto al suo angelico viso, ornato sempre di vera onestade, torno contento s'io fusse conquiso.
XIII R4 Questa donna gentil, per cui si spera a ciascun'ora aver tranquilla vita, se la natura, quanto pò, l’aita, non mostrandosi a lei molesta e fera,
ritornerà ciascuno alla fé vera, la qual gran tempo già stata è smarrita. O divina virtù, bontà infinita, di tal donna mantien la vita intera! Qual donna fu già mai nella tua gregge d ’ogni virtù ornata come è questa, per cui pace e riposo è in questi regni? S’io guardo ben l ’antiche e nove legge, simile a lei non trovo; e però presta l ’orecchie agli miei prieghi e falli degni.
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R4 Io mi veggio cangiar el viso e il pelo, mancar le forze e gir col capo basso, vecchio, angoscioso, consumato e lasso, senza caldo verun, vinto dal gelo. E questa donna, che m’ha data el cielo per mia fidata scorta, a ciascun passo più ferma nel cor porto e mai non lasso volerla seguitare, e ciò non celo. Vedi di quante forze è el cieco alato figliuol di Citarea, che fra i mortali ogni vecchiezza vince ed ogni stato! Se de l’uccel di Giove avessi l ’ali, non volarei sì alto che da lato non mi fusse madonna con suoi strali.
XV R4 Io ho veduto mille volte il sole, la cui bellezza mai dir non potria, ed ho veduto de la donna mia le trezze star senza oro, perle o viole. E temo veramente dir parole le qual mi sian cagion ripreso sia; ma pur dirò non fu già mai, né fia cosa sì bella; e sia come esser vòle. Da esse ogni splendore, ogni virtute,
ogni cosa leggiadra se produce, e senza fallo il sol nasce da loro. Però chi seguirà lor santa luce per certo acquistarà somma salute de gire ad abitar nel divin coro.
XVI R4 Amor, da poi ch'io fui dentro al tuo regno, altro già mai non ebbi che tormenti ed infiniti guai; e tu il consenti, pieno di tradimenti, d'ira e sdegno. Condutto hai el mio debile legno in mezzo '1 mar con tuoi atti piacenti e poscia il lasci fra contrari venti senza vela, temone o altro ingegno. N é può' però di me, tiranno, dire se non che fedel troppo ti son stato, sprezzando ogni altro, sol per te servire. Se questo tu mel metti per peccato, l ’ira di Dio possi in te venire, sì che d’ogni tuo ben tu sia privato.
XVII R4 O r è ta r d i ogni aiuto al mio languire, non è più da sperar soccorso o pace, sol Morte spengerà l'ardente face, eh' accese Amor con sì falso desire. Madonna è sorda e mai non volse udire l'aspro crudel dolor che mi disface; e, quanto più sospiro, ella più tace, sol per veder più tosto el mio morire. Misero me, che giova amar con fede? Falso, crudel Amor, pien d ’ogni inganno, che maledetto sia chi mai ti crede! Sia maledetto el giorno, el mese e l'anno ch'io mai sperai in te trovar merzede, poi che mi sei cagion di tanto affanno!
O r è ta l l ’aspra doglia che me infesta, perché ’1 mio caro sol non mi fa luce, che a mio dispetto sì mi sforza e induce a star co’ l ’alma dolorosa e mesta. Niun soccorso al mio scampo non resta, se già chi de l ’inferno è sommo duce per piata non si move e sia mio duce contra questa crudel, che mi molesta. Ahi, sommo Dio, che ’1 ben far non vale, non vale amor, né fé, non vai gran tempo servir chi se fa lieta del mio male? Non posso più, ma spero ancor per tempo se moverà qualche furia infernale a gastigar costei, per cui m’atempo.
XIX R4 Non fu, non è in me, non serà mai, perché non voi el ciel, né ’1 mio destino, ch’io vera scorta trovi al mio camino, privo di ciascun ben, carco di guai. Vo consumando la mia vita in lai, con pianti, con sospiri, e son sì al chino ch’ogni fato teren, ogni divino par ch’a dispetto m’aggi, e tu noi sai. Come posso adunque io cantare in rima o d’Amore o di donna o di me stesso, essendo albergo d’infinita doglia? Prega Fortuna mi rimetti in cima; allora cantaro teco sì spesso che contenta farò sempre tua voglia.
XX R4 Poi che Fortuna el mio debile legno condutto ha in mar con mille scogli intorno e non veggio riparo, onde ritorno far possi al disiato e vero segno,
non di piacere alcun, ma d'ira pregno, con dolori infiniti e grave scorno, sonando vo lo stemperato corno con rabbia, con istizza e con isdegno; sì che non sarà mai donna sì bella, né al ben fare ancor tanto veloce che facci chiaro el mio turbato cielo. Chi m'era fida guida e vera stella di me non cura e più sempre mi nóce, ch'io cerco di farmi ombra al suo bel velo. XXI R4
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Or è ta n to el dolor che '1 cor sostene per amar donna dispiatata e fera, che solo in morte l'alma trista spera. La morte mi trarrà di tanti affanni ove son visso per amar con fede, poi che piatà non trovo al mio languire. Sien maledetti, Amor, tanti tuoi inganni, sia maledetto chi mai più ti crede, poi che per bene amar debb’io finire! Chi piangerà, madonna, el mio morire, poi che tu sola se' cagion ch'io péra, amandoti con fé deritta e vera? XXII R4 Felice fiume, che '1 tuo corso prendi da l ’Appennino monte, per venire a piè del colle ove è il mio desire, ove è el bel fior per cui tuo nome estendi? Poiché tu solo i miei sospir comprendi e cognosci el mio stato e '1 mio languire, per piatà ti commovi e voglil dire, sì che madonna al mio soccorso atendi. Non so ove cercar più deggia aiuto, perché '1 mio mal non sa se non Amore e le tue onde, al mio pianger compagne. Fiume leggiadro, deh, non esser muto; movi a piatade el despia tato core, quando vedi madonna in te se bagne!
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I - Or hai, crudel Fortuna, ogni tua possa dimostrata in ver me, fedele amante; però lagrime tante escon degli occhi, onde è già fatto un fiume. Or hai questa mia vita sì percossa ch’io più non mi sostengo in sulle piante e vorei aver davante chi mi facesse in ver la morte lume. Io non viddi già mai peggior costume, per bene amar ricever doglia e pena, aspra, spia tata dea piena d’inganno! Tu lieta del mio male e del mio danno al lagrimar ch’io fo, mai non dai lena, né sciogli la catena, ch’a mio dispetto mi mantiene in vita, umile e sbigottita in modo eh’ io non so ove mi sia, dispetto al mondo e a te, malvagia e ria. II - Radoppia el mio penar, perch’io non veggio, meschino me, chi m’ha percosso a morte, con sì dolente sorte che non posso morire, e non san vivo. Fortuna trista, che mi puoi far peggio che di quella prigion chiuder le porte, ove già vidi scorte le bellezze del cielo, onde or son privo? Io mi credetti aver già stato divo, acquistatolo in tanti lungi affanni, che non doveva mai essermi tolto. Ora, senza cagion, mi s’è rivolto el mondo a dosso con tutti i suoi inganni; e son tanti i miei danni che son peggio che Giobbe divenuto. Deh, fusse io cieco e muto, acciò che s’adempisse ogni sua voglia di chi prende piacer tenermi in doglia! I l i - E r a el mio viver senza alcun sospetto, amando in pura fé donna gentile, altera e signorile, che ben parea su dal ciel discesa. Pigliava in veder lei tanto diletto ch’ogni cosa mondana avevo a vile
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e con leggiadro stile in fargli onor iacea ogni alta impresa. Ora tu, invidiosa, hai fiamma accesa che per maggior mia pace morte cheggio, non sapendo a cui far debbia mia scusa. S’io potesse veder chi è che m’accusa, chi è che m’ha privato del mio seggio, con gran ragione io veggio che come mentitore el farei tristo, essendo chiaro visto ch’io servo mia madonna con disio che per virtù di lei poi veggi Iddio. IV - Ciascun, che d’Amor sente il mortai colpo, debbia sapere quel ch’è amar con fede e poi, senza merzede, per altrui error cader d’ogni speranza. Mirate, amanti miei, quanto io mi spolpo per questa bestiai turba che non crede, quanto più chiaro vede, che la ragione ogni appetito avanza! Però tosto ve armate, e con baldanza pigliate a far di me scusa e vendetta con questi che al mal dir stan tanto intenti. Fate che sien del mondo al tutto spenti, come gente malvagia e maledetta, chi in mal dir si diletta, sì che di lor si secchi ogni radice. Allor sarà felice questa anima dolente, ch’arde sempre in crudel foco e non è chi la tempre. V - Tal donna non fu mai per certo in terra ornata di virtù e di bellezza e con tanta fortezza quanto è madonna mia, per cui sospiro. Perché, mondo dolente, in tanta guerra viver mi fai? Non vedi che disprezza madonna con fermezza ciò che se trova in questo mortai giro? Quanto più mi rivolto e intorno miro non posso altro pensar che a Dio far priego, che facci trare a ogni om l ’ultimo strido. Signor che reggi el tutto, in te mi fido; umilemente in ginocchion mi piego, ché non mi facci niego di quel che giustamente a te dimando:
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manda, Signore, il bando con l ’angelica tuba e da' inizio a far venire el tuo santo giudizio. VI - -Ahi, turba maledetta, che cercate l ’altrui penar con sì malvagia mente, misera trista gente che dolcezza acquistate nel mal dire! Bugiardi e traditor, voi non pensate quante anime gentil son sute spente per non istare intente, quando a torto cercate il lor morire. O giustizia de Dio, puoi consentire a non ponir chi ha sì forte errato, mostrandone vendetta manifesta? Alza, Signor del cielo, ornai la testa; risguarda il mondo, che è già dissolato sol per questo peccato, che contra chi ben fa vinca l ’ingiusto! Signor, se tu se’ giusto, mostra nel cielo ornai sì fatto segno che veggi ognun che tal peccato ha ’ sdegno. — O r è t a n t o , canzone, il core afflitto, per aver sempre mal, facendo bene, che non posso più dir quanto io vorria. Convien che truovi tu dunque la via e modo di mostrare a chi mi tene per mal dire in gran pene, con quanta dritta fé sempre ho servito, e che prendi partito non accusar mai più persona a torto, perché ne fia punito o vivo o morto.
XXIV R4 O r è ta l donna, Amor, nel mondo vista, ornata di virtù e di bellezza, che te non cura e a suo voler si spezza l ’arco e lo strale tuo, sol con sua vista. Che debbia dunque far l’anima trista, la quale in veder lei hai tanto avezza che per servirla ognor la vita apprezza, né mai del suo ben far merito acquista?
Se le divine forze non ripigli a dimostrar la tua possanza in terra, non serai fra gli dei più nominato. Ed io, che preso fui da' gran tuoi artigli, vedendomi per bene amare in guerra, dirò che sei bugiardo, falso e ingrato.
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O r è ta l la mia vita, donna altera, per servirti con fé, che senza tua merzè convien che in pianti e doglia al tutto péra. Se mai in donna bella debbia regnar piatade, aitami, per dio, ch’è ’1 tempo e Torà! O sol sopra ogni stella, non usar crudeltade; aita el servo tuo prima che mora! Gentil madonna mia, non più dimora! Sciogli l ’aspra catena, che tiene in crudel pena chi sol per te servir la vita spera.
XXVI R4 O r è t a n t o il dolor che al core abonda che mi veggio finir senza alcun manco. Misero me, che del pregar so’ stanco, merzè chiamando, e non è chi risponda! Prima sera el mar privo de l ’onda e prima el sol verrà del lume manco ed ogni loco oscur splendido e bianco che lagrime da gli occhi ognor non fonda. Che deggio in tanta doglia altro sperare? Che maledetto sia chi mai se fida poter pace trovar per bene amare! Convien che Morte mi sia scorta e guida per poner fine a sì lungo penare, poi che Amore e madonna mi diffida.
Non è mia doglia, Amor, se tu ben guardi, perché madonna ascondi el suo bel volto, e non mi curo perché m'abbi tolto l ’afflitto core e che '1 consumi ed ardi. E son contento che fra mille dardi, orati tutti, ancor mi tenghi involto e piacemi già mai non esser sciolto da lei, né da' tuoi lacci a scioglier tardi. Sonno i dolor miei, perch'io non posso saper queste tue legge ognor contrarie, né intender quel che voi chi mi conduce. Le voglie di madonna son sì varie che or qua or là, or giù or su percosso fo mille errori, come om senza luce.
XXVIII R4 Piovi dal cielo una crudel tempesta sopra di te, malvagia, aspra tiranna, sì che di ciaschedun tuo ben ti danna ed aggi a viver dolorosa e mesta, poi che per te del mal far non si resta in verso el tuo fedel, che non t ’inganna né ingannò mai, anco a ogni or s'afanna per aver l'alma a onorarti presta. O giustizia de Dio, voltati un poco in ver costei, che mi tormenta forte, e falla devenire umile e queta, e non voler che sempre stia nel foco, ché son vicino ornai alla mia morte e non ho ancora avuta una ora lieta!
XXIX R4 Vinto dal sonno e pel cammino stanco, avendomi Paura in sua prigione, e percosso dal tempo che Giunone turbato avea più ch'io vedesse anco,
in loco alpestro mi trovai già manco sotto le crude! furie di Plutone, sì che più volte chiesi in mio sermone la morte a Dio, o l ’aer fesse bianco. Per volerti servir con fede, Amore, così divenni, né però contento fui di poter veder chi mi tormenta. Ahi, falso, dispiatato, aspro signore, fa’ al manco che la donna, per cui stento, per tua virtù questa mia vita senta!
XXX R4 - R6 - L4 - FN2 - Sen Io cerco libertà con grande affanno, perché lo star suggetto ho in gran piacere; la ragione è contraria al mio volere e, così stando, ognor più cresce el danno. Cognosco el vero, e pur me stesso inganno, né posso alcun rimedio prevedere che non mel tolga Amor, che può vedere tutti i consigli che nel cor si fanno. Quanto è crudel martire esser costretto da le voglie d’Amor, che non ha legge, e voler libertade a suo dispetto! Non è dolor che a questo s’aparegge; onde non spero mai alcun diletto, se già non muta voglie chi mi regge.
R i s p o s t a d i B e r n a r d o d fA la m a n n o d e } M e d i c i
R6 - Sen D a q u e ’ c h e p iù g li e f e t t i d ’A m o r s a n n o , a v e n d o ric e r c a to il lo r p a r e r e p e r p o r r im e d io a l v o s t r o g ra n d o le r e e t r a r v i d e lle m a n d i ta l tir a n n o , e n f in e a lc u n r ip a r o n o n m i d a n n o se non so l u n , se q u e l p o te te a v ere : q u e s t ’è la c o sa a m a ta p o s s e d e r e , c h é l ib e r s o n c o lo r c h e q u e l s i t o h a n n o .
N o n h a fo r z a m e m o r ia o i n t e l l e t t o tó r r e a lla v o lo n tà q u e l ch'eli* e le g g e p e r c r e d e r e q u e ta r o g n i s u o a f f e t t o . A m o r , c o m e a lu i p ia c e , l e s u o g r e g g e g u id a e c o n d u c e ; e V a m a n te p e r f e t t o h a q u e l c h e c erca , s e b e n s i c o rre g g e .
XXXI R4 « Per triunfare el mondo e stare in festa e devenir nel d el pudica stella, giovinetta leggiadra, altera e bella, di bianche rose ornai mia bionda testa. Qual altro segno mia vita molesta non sa che d’onestà vera? Son quella che cercò conservar la navicella carca di rose ad onorarmi presta ». Questa è colei che mi fu sempre intorno già cinque anni, passati in pura fede, per farmi, onde ne venni, aver ritorno. Però dentro al mio cor fermo risede volerla conservar fino a quel giorno che l ’alma torna alla sua prima sede.
XXXII R4 Non seppi parlar mai sì dolcemente, né dimostrar el cor di fede armato, ch’Amor mi concedesse quello stato che sòie aver ciascun suo buon servente. Però disposto son esser fervente a dimostrar quanto è signore ingrato, a ciò che del suo regno el sia cacciato come tiranno falso e scognoscente. El ben far non mi giova; io voglio el male adoperar con lui, ch’è falso e rio, mancator di sua fé, crudo e bugiardo. Rotto gli sia el suo arco e tolte l ’ale, né mai possi trovar chi gli sia pio, né chi al danno suo se facci tardo.
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R4 - FN6 - M15 (Petrarca) Deh, sappi pacientemente amare e soffrir la gran pena che al cor porti, che spero ancora arai tanti conforti che ti potrai felice nominare! Io ho veduto in gran tempesta il mare, i navicanti quasi tutti morti, e poi, per esser stati bene accorti, in lieto porto ciascun ben posare. Amor vuol fé provata, ferma e certa e mostra in prima vita tenebrosa per saper degli amanti el lor talento. Ma, poi che vede l ’om che *1 premio merta, la cosa amata fa tanto piatosa che alfin colui che serve è ben contento.
XXXIV R4 S’io non seppi parlar per gran temenza de non fallire a te, signor mio caro, deh, non voler però in pianto amaro tenermi sempre con crudel sentenza! Amor m’ha ricondutto in tua presenza sol perché al mio languir ponghi riparo, sì che non esser del soccorso avaro, poi che la vita mia è in tua potenza. Tu se’ bella, leggiadra e signorile e vedi el mio servir con pura fede: per Dio, piatà ti prenda al mio gran male! Non se conviene a donna alta e gentile esser crudele e non aver merzede del servo che al signor sempre è leale!
* S o n etto d i M. R o sello canonico fio ren tin o fa tto in su lla galea vin izian a p e r L uigi V e tto r i , essen d o inn am orato d ella P ippa.
Sappi parlare accortamente e dire a tua madonna la gran pena c’hai, dimostragli che vivi in tanti guai che più la vita non puoi sofferire. Ella è piatosa e vorrà bene udire i tuoi tormenti e gli angosciosi lai e daratti conforto, che porrai esser contento del tuo buon servire. Amante mio, non essere restio né vile a dimandar, ché omo muto non potè mai adempire el suo disio. Per vera esperienzia è ben veduto che in donna bella sempre è il cor sì pio che chi la serve al fin contento è suto.
XXXVI R4 Come porrà questa affanata vita star senza el cor, signor, ch’è teco lasso? Come porrò già mai movere el passo per far questa dolente, aspra partita? L’anima stanca è tanto sbigottita che diventato son peggio ch’un sasso e gli occhi lagrimosi in terra abbasso, sol la Morte chiamando, che m’aita. Ma s’io el voler tuo fermo vedesse a volermi seguire ove el destino a mio dispetto mi conduce e tira, non creder che ’1 partir tanto dolesse. Però, caro mio ben, prendi el camino; soccorri a chi per te piange e sospira.
XXXVII R4 Ove s'a n d r à ornai per qualche aiuto che dia soccorso al mio grave languire, poi che madonna mia non vole udire né creder che per lei sia al fin venuto?
Io gli ho mostrato el cor, che sempre è suto disposto fedelmente a ben servire e sempre far quanto avesse in desire, né mai, tanto è crudel, l ’ha cognosciuto. Se non soccorri tu, Amor, che reggi ciascuno amante, per menor mia doglia la morte pigliarò con propria mano; sì che vogli, signor, che ornai si veggi che chi osserva bene ogni tua voglia non se trova da te già mai lontano. XXXVIII R4 Amor m’ha ricondotto al loco ove io vivo contento con beata pace, ed è tanto el diletto che mi piace star dentro al foco, ove ogni male oblio. Or son contento d ’ogni mio disio, or intendo d’Amor sua dolce face, sì che a servirlo più non mi dispiace e ben cognosco che è piatoso dio. Io benedico ogni crudel tormento, che ho per seguitarlo sostenuto, poi che m’ha fatto in un punto contento. Battista, senza fallo io ho veduto che chi serve con fé senza pavento al fin del ben servire è proveduto. XXXIX R4
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Donna vaga, leggiadra, onesta e bella dal mio crudel languir, perché gli spiace, per piatà m’ha rimosso e posto in pace. Amor, poi ch’io son servo a gentil donna, starò cast'oraxn aì) starò costante fino alla morte a seguitar tua voglia: servirotti con fé de vero amante. Questa sola di me sera madonna, per cui virtù da pena el cor si spoglia. Piacciati, signor mio, che mai si scioglia la vita mia dalla tua dolce face, ché viver teco più ch’altro mi piace.
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O r è ta n to maggiore el mio dolore quanto più chiaro veggio el mio finire, e duoimi ch’io non posso el mio languire dimostrare a costei, che m’è signore. Giusto, s’io mai cogliesse el gentil fiore che Tanima dal corpo fa partire, el piacer che n’arei noi potrei dire: seria contento s’io son servidore. Ma questa donna, che m’è vera duce, di me non cura e non mi mostra el segno, sì ch’ai tutto convien la morte io cheggia. Per servirla con fé posto ho ogni ingegno; ella pur cruda a pianger mi conduce e non crede el mio mal, ben ch’ella el veggia.
R i s p o s t a d i G i u s to de* C o n t i
Bruti, p. 74 R o s e llo , io f u i d in a n z i a l b e l s e m b ia n te e v i d i in fo r m a v e r a i l P a r a d is o , m ir a n d o l ’e c c e lle n z ie d e l b e l v is o e g l i a t t i a d o r n i d i v a g h e z z e ta n te . l o s ta v a a l s u o n d e ll e p a r o le s a n te , a l b e l ta c e r e , a l m o v e r d e l b e l r is o q u a le in s e n s a to e q u a s i c h e d i v i s o f u s s e d i v it a c o lla m o r t e a v a n te . O g n ’a ltr o lu m e d i p i ù a c ce sa s p e r a p a r r e b b e u n * o m b ra a p p r e s s o i l v i v o s o le c h ’io v i d i s o t t o l ’o n o r a te cig lia . O n d e o r p e n s a n d o a g li a t t i , a lle p a r o le n o n so m e s te s s o s ’io s o n q u e l c h ’io m ’e ra , s ì m i r i t r o v o p ie n d i m a ra v ig lia .
XLI R4 Se o r è ta l ch’io debbia aver mai pace e trovar qualche fine ai miei tormenti, convien per certo, Amor, che tu consenti al mio morir, come a madonna piace.
Io mi consumo in sì cocente face e son percosso da sì vari venti che, per por fine ai miei crudeli stenti, bramo la morte e la vita mi spiace. Madonna di soperbia e crudeltade sì forte è armata che priego o sospiro niente cura, e mai non ha piatade. Però, quanto più penso e intorno miro, poi ch’ella vinci te per gran beltade, convien che Morte vinca el mio mar tiro. XLII R4
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I - Fiere selvagge e inabitati boschi, crudel fortuna, aspro e rio destino, spirito pellegrino che volesti nel cielo equarti a Dio, anime desperate, e tu divino Cerbaro crudo, lochi negri e foschi, e voi, serpenti toschi, movetivi oggi mai al mio disio! A star sempre con doglia son solo io, né piata trovar posso al mio tormento; per bene amar ognor più piango e strido Io ho provato amor, per cui mi guido in questo viver mio con tanto istento; e con giusto lamento noi potei mai pi[e]gare a darmi aiuto; sempre più fiero è suto al mio languir. Però ricorro a voi, ché m’ascoltiate e provediate poi. II - Questo crudel signor di cui mi doglio mi fu tanto benigno in primo aspetto, per farmi a lui suggetto, ch’io fui contento a seguitar sua impresa. Mostrommi nel servirlo ogni diletto, donandomi speranza e grande orgoglio di non rompere a scoglio, né sentir mai per lui alcuna offesa. Ohimè, quanto mi duol, quanto mi pesa lo ’inganno, onde io ne vivo in tal dolore che non spero mai più tranquilla vita! Quando era nell’età mia più fiorita senza pensiero alcun, fuor d’ogni errore,
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mostrando farmi onore, in sun un carro triunfal mi tolse ed al collo m’avolse una catena tutta de fino oro, la qual mi fu cagion ch’io piango e moro. I l i - Perdei in quell’ora la mia libertade, più cara assai che alcuna altra cosa, e, senza aver mai posa, una donna crudel volse io servisse. Credendo che di me fusse piatosa, essendo ornata di molta beltade con perfetta onestade, feci sempre per lei quanto mi disse. Per certo amante al mondo mai non visse con tanta fé suggetto a sua madonna quanto io a costei che la mia morte brama. Ella m’ha visto amare e mai non ama, né vuol ch’io pur di sé vegghi la gonna; sempre soperba donna non cura el mio languir né ’1 mio gran pianto: hammi condutto a tanto che son peggio che morto e a stento vivo e d’ogni ben per lei mi trovo privo. IV - Son visso in tanta doglia già sette anni, sperando sempre alla mia pura fede poter trovar merzede e non dover per bene amar finire. Che premio è suto el mio ognun sei vede, ché son tanto rivolto negli affanni, con tradimenti e inganni, che cerco morte e non posso morire. Se questo s’acquistasse per servire, metteria paciente el collo sotto, disposto a sostenere ogni aspro giogo; ma non mi par ragion, però mi sfogo, facendo ben, portare el capo rotto ed esser sì condotto che non posso acquistare altro che affanno. Sia maledetto l ’anno, el mese, el giorno e l ’ora ch’io fui preso, ché più non posso sostener tal peso! V - E sì vi priego voi, furie infernale, se potenza veruna al mondo avete, che rompiate la rete di questo traditor cieco bugiardo.
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A tanta crudeltà, deh, provedete! E tu, giusto Pluton, non esser tardo; togligli el fiero dardo, rompegli l ’arco e fallo andar senza ale e vogli privar me di tanto male; sciogli l ’aspra catena che me tiene suggetto a chi del mio pianger se gode! Poi che le mie ragioni el ciel non ode, a chi sta ne l ’inferno e ’ se conviene giudicar le mie pene e quanto in farmi mal se passa el varco. Io son sì forte carco d’ogni tormento senza alcun peccato che doveria da voi esser aitato. VI - Se pure el mio destin questo volesse, ch’io dovesse servir fino alla morte, siatemi almanco scorte a far piatosa questa donna fera! Voi sapete le vie deritte e torte, voi cognoscete quanto io far dovesse sì che acquistar potesse grazia con essa, che vuol pur ch’io péra. Commovete del ciel ciascuna spera, el foco, aiere, acqua e ancor la terra, dimostrate che voi reggete el tutto; e fate che costei, che m ’ha distrutto, umile e mansueta senza guerra dentro al suo cor mi serra, sì che cognoschi che è ben tempo ornai trarmi di tanti guai e, come degno del suo amor, gli piaccia ricevermi per servo in fra le braccia! V II - Se o ra è tardi a voler provedere alla mia libertà, come adimando, e debbio stare in bando di non aver mai pace con costei, acciò ch’io più non vivi lagrimando e ponghi fine a cotanti omei, finite i giorni mei, se mai debbio da voi soccorso avere. Fatemi l’ombre stigie ornai vedere, datimi morte, ch’io son ben disposto a volerla pigliar con lieta fronte. Meglio è morir che sofferir tante onte e non avere al tribular mai sosto. Deh, movetivi tosto,
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spezzate questa vita e l'alma afflitta, che è consomata e vitta, menatela nel foco, se vi piace, che starvi dentro me seria più pace! — O r è ta n to ho aspettato, o canzonetta, che doveria trovar qualche conforto e non andar ognor di male in peggio. Tu vedi ben che con ragione io cheggio o libertà o grazia o esser morto, e sai che ’1 cielo a torto non ha voluto mai rimedio darmi, sì che si vóli aitarmi e far che ’1 mio gran pianto non sia etterno, commover ti convien tutto l’inferno. XLIII * R4 Che g io v a 'n n a n zi a questa alma divina contrarie vie cercar per libertade, essendo di virtù e di beltade ornata sì che '1 cielo a lei se ’nchina? Come oro adunque che nel foco affina, così sta nel servir con gran bontade, tanto che lei se movi a aver piatade, com’è de bella donna e pellegrina. E1 fuggir vai niente all’om che è preso, perché nel cor sta fermo el gran disio, che conduce ogni amante all’ora estrema. Aconcia adunque el collo all’aspro peso d ’Amore, e prega lui, che è vero iddio, che, come te, così madonna prema. XLIV R4 Prima s 'a n d r à per mar senza alcun legno e del suo frutto fia priva la terra e ’1 mondo tutto sera in pianti e guerra e ’1 ciel privo del sole e d’ogni segno, ch’io non sia fermo, Amor, dentro al tuo regno, suggetto a questa che mia vita serra nelle sue mani, e mai non mi disserra
* A d V etru m .
da sé, perché ’1 servir mio non gli è a sdegno Spero per sua virtù poter vedere le bellezze del cielo, ove ella ancora vincerà ¡’altre stelle di splendore, sì che disposto son non far dimora a servirla con fé e con piacere cantar di lei e fargli sempre onore.
XLV R4 Perché mi vo dolendo pur del cielo, del corso de’ pianeti o del destino? Ché, s’i’ piango, sospiro e son taupino, altro non è cagion che un mortai velo. Madonna è quella, el cui amor non celo, che col suo atto onesto e pellegrino legato m’ha, e il suo splendor divino mi fa cangiar color, costume e pelo. Le stelle non han colpa del mio male, ma io dolente, che volar sì alto non dovea cercar, non avendo ale. Se proveduto avesse el primo assalto degli occhi ove el pregar niente vale, come son, non seria già freddo smalto.
XLVI R4 Che fortuna è la mia che nel cor parme avere un sempre che madonna pinga e contra ogni dover sì mi sospinga a doverla servir, né posso aitarme? Non giova ingegno alcun, non forza d ’arme a cacciarla de lì, ben che solinga se veggi star, perché chi la costringa non trovo, ed io da me non so che farme. Quanto è mortai piacere esser costretto da un falso desio, che Amor notrica nel petto di ciascun misero amante! D e qui nasce el mio pianto con diletto; sperando far piatosa mia nemica sempre alla morte mia mi faccio avante.
XLVII R4 Non ha natura, s’io ben penso e guardo, produtto al mondo mai sì gentil fiore né di tante bellezze e degno onore quanto è madonna mia, per cui sempre ardo. Costei, per sua virtù, umile e tardo farebbe Giove nel maggior furore e vincerebbe el sol del suo splendore a ogni suo voler, con un sol sguardo. Però son ben contento esser suggetto, Amore, a tal madonna, ove si trova quel che può al mondo far ciascun felice. Ma piacciati, signor, ch’ella si mova piatosa ad amar me, e con diletto ferme mantien fra noi le tue radice.
XLVIII R4 Per voi sta nel cor sempre el foco e l ’esca, che con pianti e sospir mi strugge in doglia. Mostrate, signor mio, di me ve incresca, sì che tanto dolor dal cor si toglia. Vedete che ’1 disio ognor rinfresca, né per tempo verun mutai mai voglia, la qual, quanto più invecchio, par più cresca, né credo che da me già mai si scioglia. Se premio debbio aver di tanta fede, da chi el posso sperar, ch’altri che voi el mio morir non sa né intende o crede? Piacciavi adunque aver di me merzede; pensate che non vale el pentir poi, né mai tempo passato uom più rivede.
XLIX R4 Ove è, donne leggiadre, el vostro lume? ove è la vostra fida e vera scorta? ove è colei, che ne’ begli occhi porta foco che fa dei miei nascere un fiume?
Ove è quel dolce angelico costume, che può far la mia vita viva e morta? ove è la saggia donna sempre accorta a rifreddare el sol, scaldar le brume? Ove è la fonte di ciascun piacere, di pace, d'onestà, di cortesia, ove d’ogni virtù nasce radice? Se '1 ben che 1 ciel può dar cercate avere, tornate indietro per madonna mia, che sol per lei potete esser felice.
L R4 Otto anni m’ha tenuto Amor legato con un ardente nodo che mi sface, e, quanto più cognosco, più mi piace vivere in questo amaro e dolce stato, nel qual, piangendo, son tanto beato quanto altri che mai fusse in lieta pace, vedendo ogni mio ben da questa face solo poter venir, che m'ha infiammato da sospirare e star col cor pensoso, da cercar con dolor solitar porto e da chiamar la morte con dispetto. Mi nasce poi nel core un tal conforto che canto e rido, e con novo diletto bramo la vita per maggior riposo.
LI R4 Io temo sì non ricader nel foco, nel qual già lungo tempo vissi in doglia, che triemo, come fa per vento foglia, ove madonna sia trovare el loco. Consomato mi sono a poco a poco, né altro m'è rimaso che la scoglia per trovar libertà, sì che mia voglia è di servarla e stare in festa e gioco. Se adunque in fuggir lei pongo ogni ingegno,
non è perché suggetto ad altri sia, ma sol per non vedere el suo bel volto, il qual sopra di me tanta ha balìa che mai non potei fare alcun disegno, che non fusse da lui spezzato e tolto.
LII R4 Sia maledetto l ’anno, il mese e il giorno, il punto, l’ora, il tempo e la stagione, il loco e il bel paese, che cagione mi fu di far veder tuo viso adorno! E maledetto el primo amaro scorno ch’ebbi a seguir d’Amor sua intenzione, e le saette e l’arco e la prigione e le piaghe, ch’ai cor mi stanno intorno! Maledette le voce coi sospiri, che, chiamando madonna, ho sparte invano, le lagrime angosciose e i miei disiri! Sia maledetta la lingua e la mano, con che fama gli ho data, e i miei martiri, che mi fanno per lei da ogni altro estrano!
LUI R4 Piangete ciaschedun con gran dolore che seguite d’Amor la bella insegna! Duolti, Fiorenza, che non se’ più degna d’esser chiamata fior sopra ogni fiore! Tu hai perduto el tuo divin splendore, sì ch’abitarti ornai ogni uom se sdegna; poi che madonna mia teco non regna, se’ fatta albergo d’infinito orrore. Una picciola villa t’ha privato d’onor, di pace e di tanta dolcezza, quanta mai al mondo si potesse avere. Sia maledetto el tuo sì crudel fato e Morte, che la mia vita non spezza, ché viver senza lei non m’è in piacere!
LIV RI*45*10I Che pena, che dolor, che crudel morte star fra vermiglie rose e bianchi fiori e non poter gustar dei lor sapori, né intender lor virtùe quant’e’ sien forte! Amore, io vidi le tue bracce accorte, né non fu sogno già pieno d'errori, intorno al collo mio, onde gli odori sentia uscir de l ’amorose porte. Ma tanta grazia non me diede el cielo ch’io passasse più avante, sì che '1 frutto coglier potesse di sì nobil pianta. Un parlar di signore, un picciol velo mi tenne a fren, sì ch’io ne son distrutto e serò sempre, infin Morte mi spianta.
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I - N el tempo che Saturno regnò in terra, regnava Pudicizia e Castitade, e con grande onestade viveva il mondo, or pien d’ogni bruttura. Fin che del ferro poi venne l’etade durò tal viver lieto senza guerra e, se ’1 mio dir non erra, casa non era a quel tempo con mura. Viveva ciaschedun senza paura d ’adulteri, di furti e di rapina e d ’infiniti mal, ch’ai mondo or veggio. Solo lochi selvaggi era a lor seggio, con dolci canti senza scoglio o spina. Parca cosa divina el senno e la bontà ch’a quel tempo era; ogni parola vera si ritrovava con dolcezza e pace, facendosi al ben fare ogni om sequace. II - Ma poi che venne la pessima usanza de l ’argento e de l ’oro al mondo tristo, omo non fu mai visto che fusse di virtù perfetto amico.
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Chi di tesoro fa maggiore acquisto di senno e di bontà ciascuno avanza, ben che tenghi per ’manza qualunche vizio a Dio sia più nemico. Egli è per certo, ancor più ch’io non dico, che questo fragil mondo è sì imbrattato che non se trova più chi guardi el cielo. Prima vede uom cangiarsi el viso e ’1 pelo che gastigar se vogli dal peccato; misero e tristo stato d ’ogni mortai, che non cognosce e crede quel che più chiaro vede, ché per ben far s ’acquista eterna vita e per mal operar doglia infinita! I l i - Giustizia è gita via, Prudenza ancora, uomo né donna non cura vergogna: deh, quanto è trista rogna che se chiama el mal far maggior sapere! Ciascun, per far quanto al corpo bisogna, niente cura e vuol che l’alma mora, né mai non fa dimora a far quanto mal può per più tenere. Se mai la tua ragion cercassi avere, se non t ’aiti con molta moneta, grida quanto più puoi, mai serai inteso. El povero uom, facendo bene, è offeso; per lui sta ogni legge sempre queta ed égli posto meta che non possi parlar più ch’altri voglia. Ma chi ha buona scoglia di molto argento può ben far gran male, ché legge alcuna con tra lui non vale. IV - Non ci è più Pudicizia né Fortezza: ciascuna ornai perduto ha il suo valore; non se curan d ’onore, sonno fuggite e veramente morte. Superbia è fatta del mondo signore, e, quanto più se regge con asprezza, è maggior gentilezza, pur che Ira e Sdegno tenghi per sue scorte. Solo colui è tenuto uom forte che può per forza far quanto ha in disio, non guardando a ragion né cosa onesta. Beato è chi del mal far non si resta e chi vedere el ciel posto ha in oblio!
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Devenir falso e rio è tenuto virtù e gran prudenza, e con questa sentenza se regge el mondo e voi ch'ogni ria cosa se possi far per dare al corpo posa. V - Se volessi trovar donna pudica, far a'ne una scolpir di marmo fino, ohé chi beve acqua o vino, quando uom la vuol, al suo voler la piglia. Chi ha denari sempre al suo dimino qualunche donna, ancora a lui nimica, se la farà sì amica che non che lei, ma gli darà la figlia. Quanto potrai pensare e alzar le ciglia, già mai non troverai chi casta sia, pur che tu voglia al tuo piacer condulla. Sia donna antica, giovene o fanciulla, ciascuna a fare il male è falsa e ria; non giova gelosia né in guardia grande star per farle oneste; sonno ognor sì moleste e nel peccato tanto fiere e pronte che tutto fanno con sfacciata fronte. V I - Misero è ben colui che è sì gnorante che per figliuoli aver voi pigliar moglie, e per uscir di doglie entra in pena eternale e crudel foco. Lo sfortunato convien che se spoglie d'onor, de libertà, e per astante arà sempre davante la morte, sì che in pace starà poco; in chiamando merzè diverrà fioco, né mai porrà sì far ch'ella si mova a confortarlo d'un piccol sospiro. Contenta serà ben del suo martiro, volendo che di sé facci ogni prova e, perché più gli giova el mutar spesse volte novo isposo che star con lui in riposo, il farà far per forza cieco e muto: meglio seria non fusse mai veduto. V II - Temperanza se trova sol dipinta che con misura l'acqua e il vin dimostra,
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ma questa gente nostra vuol pure il corpo impir più che non tiene. Nel spender troppo ogni uom fa festa e giostra, poi che ragione dal mal fare è vinta ed in tal modo estinta che tòr la robba altrui già se conviene. Amico né parente uom non retiene per poter ben saziar sua voglia estrana, libidinosa, adultera e perversa. La gloria d’esta donna è sì somersa e lei fatta è da noi tanto lontana che cosa iniqua e vana se può ben fare ornai senza alcun freno. Non è più el ciel sereno, ma tanto oscuro e sì di nebbia carco ch’a suo volere ogni uom trapassa el varco. V i l i - O potenzia de Dio, quanto è dolente chi spera, stando al mondo, esser felice, essendo esso radice di pianto e doglia e venenoso frutto! D i lui per ciascheduno il ver se dice eh’esso è cagion che le virtù sien spente e dal primo parente non generò già mai altro che lutto. Conviensi adunque abandonarlo in tutto per potere acquistar vita beata e non veder ben mille morte il giorno. De inganni e tradimenti ha tanti intorno che, seco stando, Lamina è dannata veder chi l ’ha creata e gire ad abitare al foco eterno, ove, se ’1 ver discerno, modo non è a minuir la pena, la quale a maggior morte ognor ci mena. — Canzon, che vedi questa vita attiva alla nostra salute esser contraria e chi la segue al fine esser disfatto, dirai che Colui che el mondo ha fatto e giorno e notte in mille modi varia per cosa necessaria, comanda a chi vuol seco esser giocondo ch’egli abandoni el mondo e che contempli lui che è Signor vero, ponendo al suo servigio ogni penserò.
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Ferma costanza con perfetta fede, gentil madonna, arò nel mio servire, s’io ne dovesse per certo morire. N é sdegno alcuno ara tanta possanza che dal giusto voler mio mi rimova, sperando ognora in te pace trovare; morte sol mi torrà da tal costanza, e fa’ di me, quanto tu vo’, gran prova: sempre mi veder ai più fermo stare. Solo per tua virtù posso sperare a quel felice ben poter venire,, in cui debbia ciascun porre el disire. LVII R4
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Ben ch’io mi veggi per amar finire, pur mi convien per forza esser suggetto a chi prende in diletto l ’aspra pena ch’io porto e il mio morire. Cognosco el mio fallir, né posso aitarme da sì nuovo furore, chiamato a torto Amore, che vedete in ver me tanto crudele. Ingegno non mi vai né forza d’arme contra el suo gran valore, ohe lega el preso core e fallo a chi gli piace esser fedele. Poi ch’io non posso rivoltar le vele dal suo voler, né seguir altra via, basti la doglia mia, sanza voler di me ancor mal dire. LVIII R4 Poi che crudel fortuna e rio destino mi costringi a partir, signor mio caro, seguirò suo voler con pianto amaro. Starò tanto lontan dal tuo bel volto,
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lasciando a te el mio core, fin che piata tu arai del mio languire; né per altra già mai ti serò tolto, se ben volesse Amore, tenendo sempre in te fermo el disire. Molto mi duol da tua beltà partire, ma contro el ciel non trovo alcun riparo, ché d’ogni grazia in me si mostra avaro.
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I - Morte, che tua possanza sia sì grande che inanzi a te niun possi scampare noi potrei mai negar, s’io ben volesse. Per ogni loco el tuo nome si spande; ove ti piace tu pòi triunfare, né fu chi mai da te si difendesse. N é trovo chi sapesse, 0 per forza o per arte, tòrti solo una parte del mondo che non fusse in tua balìa; convien che ciasohedun suggetto sia a te, come a madonna, a ciascuna ora, perché non fu né fia omo che possi far sì che non mora. II - Tu uccidesti Adam, primo parente, che lo compuose Iddio con propria mano per dar principio all’umana natura; e ben che contra te fusse possente novecento trenta anni, pur sovrano fu el nome tuo, che ognun tiene in paura. E la bella figura d ’Èva, sua donna, terra facesti; e, si non erra mio dir, Noè, che fu giusto e perfetto, da Dio nel tempo del diluvio eletto che non morisse, tu poscia volesti con Sem, Cam e Jafetto, 1 quai principio del mondo vedesti. I l i - Danari tu non curi né fortezza, giustizia contra te niente vale;
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non vale esser prudente e temperato. Non valse a Creso la sua gran ricchezza, né a Dario ancora, il cui nome è immortale sol pel tesoro del qual fu dotato. Sanson tanto nomato per esser suto forte; Ercole, che le porte aperse de Tinferno e il suo custode Cerbero prese, onde ebbe al mondo lode, facesti poscia a te bene obedire, sì che *1 tuo nome s’ode sotto al profondo, se più se può dire. IV - Io guardo Bruto colla sua giustizia, che fé libera Roma dagli regi, quando Lucrezia el suo sangue distilla; Torquato ancora, che per la milizia donò morte al figliuol, degno di pregi, ch’a Roma data avea pace tranquilla; poi piccola favilla di tuo sovran valore con Nerva imperadore, con Traiano, con Tito ed Aristide, con Salamon, che ’1 bel figliuol divide a due dolente e lagrimose madre; in un punto gli uccide non riguardando loro opre leggiadre. V - Non riguardasti ancor la gran prudenza d ’Affrican Scipibn, che la sua Roma fece esser donna e d’asedio la tolse; né di Catone, che a cotal sentenza con esso Ottavian, che ’1 mondo doma, mandasti, sì che ogni om forte si dolse. Né già mai ti rivolse da tanto tuo potere temperanza o sapere di Socrate, Platon, Pirro e Pompeo, né i dolci canti del dolente Orfeo, che le furie infernale e tenebrose con suo cantar si feo benigne, mansuete e graziose. VI - E che madonna mia, che al mondo è un sole, tu abbi al tuo volere io ne son certo, ben che dotata sia d ’ogni virtute. Ma scolta le devote mie parole, risguarda el mondo, che seria diserto
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se ’1 fessi privo di tanta salute. Le lingue serien mute, perduto el nostro bene, e d ’infinite pene albergo ogni omo di tormenti e doglia. Seria la terra senza fiori e foglia, el ciel senza le stelle, el mar senza onde; però prego tu voglia lasciar costei e contentarti altronde. V II - Non ci togliere ancora el nostro lume, il soave conforto e santa pace, quel vero sol ch’ai sommo Ben ci è scorta. Madonna col suo angelico costume, col dolce rimirar, che a ciascun piace, è quella ch’ogni afflitta alma conforta. Si essa fusse morta, ogni dolcezza tolta serebbe, e in pianto volta la vita di ciascun ch’ai mondo regna. Onore, gentilezza e fama degna acquistar sol si pò mentre ella è viva, perché sola c’insegna come si possi far l ’anima diva. V i l i - Increscati del mio penar crudele, ove tu finiresti la mia vita, quando madonna mia salisse al cielo. Deh, vogli esser piatosa al tuo fedele, che non se perdi sua bontà infinita, né che i begli occhi copri ancor tuo velo! Vogli vedergli el pelo in prima variarse e il suo color cangiarse, come a chi viene al fin d’ogni sua etade; non esser donna di tal crudeltade che natura già mai né Iddio il consenta che sua alma beltade senza cagion sia ’nanzi tempo ispenta! IX - E se o ra è tardi a rivoltar la rota, che vòle or terminare el viver nostro, né sia più da sperare alcun soccorso, deh, non impallidir la bianca gota de mia madonna, in prima che nel chiostro tu entri di ciascun con crudel morso! Quando finito el corso arai di tua giornata
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e spenta e consumata sera mia vita e di chi è in tua possanza, perché qua giù non seria più sua stanza, non mostrandoti a lei molesta e fera, ben che non sia tua usanza, mandala in ciel come è di carne intera. — Con pianti e con sospiri, piatosa e umil voce e colle braccia in croce, canzone, a Morte te ’nginocchia a* piei; digli, si farà degni i prieghi miei di conservar madonna, come io cheggio, sopra tutti gli dei, per merito di ciò, ara el suo seggio. Q u esta canzone fece alla M o rte qu an do m adonn a e b b e m ale .
LX R4 Viveva afflitto e del mio mal pensoso, quando giunse, madonna, el tuo conforto e, vedendomi vinto e quasi morto, ripresi vita, ardito e valoroso. El fanciul, che parlò ben grazioso, dicendo: « El fior che mai non nacque in orto ti manda questo don », mi fece accorto subito dare al mio gran mal riposo. Onde io ringrazio el ciel che t’ha commossa a tanta carità, onde ho la vita, la qual per gran dolor presso era al fine, e prego el sommo Iddio, bontà infinita, che, quando el tempo fia lasciar queste ossa, ti faccia andar fra l ’altre alme divine.
LXI R4 O falsa, pien d’inganni e sanza fede, femina maledetta, bene è pazzo chi aspetta poter trovare in te, crudel, merzede! Tu sì fusti cagione
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di tòrci nostra pace per contentar tua insaziabil voglia. Sanza alcuna ragione ogni gran mal ti piace, tenendo chi ti serve sempre in doglia. Più ti rivolti non fa al vento foglia, bestiai furia rissosa, superba e venenosa, ch’ognor cerchi ingannar chi più ti crede.
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I - S’io ritornasse al disiato loco, ove dimora el mio perfetto bene, non mi serebbe più la vita doglia; ma è tanto turbato e oscuro il cielo ch’altro non posso sentir che tormenti, sanza speranza di trovar mai pace. II - Ahi, mondo traditor, privo di pace, che tieni in tanta doglia ciascun loco, trovando sempre più novi tormenti! Per te privato son da quel ver bene, che mi potrebbe far vedere el cielo, e fatto albergo d ’infinita doglia. I l i - Ma, s’io ponesse fine a tanta doglia, che m’è cagion di tórmi ogni mia pace, e rivedesse rischiarito el cielo, mai più non partirei dal santo loco, cognoscendo da lui aver quel bene che sol mi pò privar dei miei tormenti. IV - Risguarda, signor mio, gli aspri tormenti che mi consuman sempre, e la gran doglia ch’io sento per non star presso al mio bene. Per te, caro signor, posso aver pace e racquistar el delettevol loco, che mi può far la via de gire al cielo. V - E ben ch’io non sia degno star nel cielo e ch’io fin ponghi a sì gravi tormenti né riveder l ’aventurato loco, deh, moviti a piata la crudel doglia ch’io sento al core ornai! Deh, dammi pace, s’i’ in te debbio sperar trovar mai bene! V I - Quando racquistarò el perduto bene
e farammisi bello intorno el cielo, dirò che se* signor vero di pace; ma stando ognor suggetto a tai tormenti, moltiplicando giorno e notte doglia, gridarò forte: « Morte! » in ciascun loco. - Per non vedere el loco — ove è el mio bene, mi struggo in doglia ed èmmi contro el cielo, sì che in tormenti chiamo: « Pace, pace! ». LXIII R4 Io veggio Morte eh'a nisciun perdona e che 1 tempo ci togli ognor la vita e che, quanto più vivo, più espedita trovo la via, eh'a Morte oi sperona. E so che quando Amore omo imprigiona, el servo non può far da lui partita; e, se prima non salda la ferita, di spregionarsi invano si ragiona. E cognosco el mio male e la gran pena e che di me si dice quel ch’om vole e che «n’è poco onore esser suggetto. Ma chi può con tra el cielo? Io non ho le n a d atarm i da lui, e sotto il sole non fu né sera mai chi sia perfetto. LXIV R4 Picciola Lauretta, che donavi soave rifrigerio al lasso core, ov’è '1 tuo salutifer buono odore, che solea uscir di te, quando spiravi? Perché ’1 bel fior gentil ove abitavi hai sconsolato? Perché ’1 servidore, che stenta infermo e di gran mal si more, ’nanzi alla tua partita non aitavi? Deh, non esser crudel di chi tua fama essaltar cerca e mai non trova posa di farti onor, quanto può lingua umana! Ritorna a consolar chi ognor ti chiama per suo soccorso! Benigna e graziosa, vogti esser di piata vera fontana!
LXV* R4 Chiara, bella, fresca acqua e nobil fonte, felice fiume e delettevol valle, verdi e fioriti prati e sacro calle, che pòi condurne al benedetto monte; boschi a cui son le Muse al cantar pronte, Appollo e Orfeo col suon sempre alle spalle, fruttifero paese onde ognor salle una aura gentil con lieta fronte; ben fortunato albergo, ove dimora quella che vince di bellezze il sole, aiere temperato in ciascun segno; rose virmiglie e candide viole, e voi, ugelletti, che 1 ciel tanto onora, ch’io venghi a star con voi fatimi degno! LXVI R4 N é più bella, più savia e più gentile donna fu né sarà quanto è la mia, né più costante, graziosa e pia, né più benigna, altera e signorile, né che tenesse tanto il mondo a vile per farsi su nel ciel spedita via, né che cercasse ognor con leggiadria onorarsi con alto e bello stile. Tacciano ornai l’antiche donne chiare, Penelope, Lucrezia e l’altre belle, ch’ebbero fama di vera onestate! Madonna al mondo mai non ebbe pare e farassi tal loco in fra le stelle che vincerà ogn’altra di beliate. LXVII R4 Io cognosco che son già presso al fine del viver mio e più non posso ai tarme, e che rotte e spezzate si son l’arme A lla fo n te.
di queste membra fragile e meschine, e ch’è ornai tempo alle parte divine alzar la mente, e più non servo farme al miser mondo, ch’altro non può darme che ardente foco, overo algente brine. Però, Signor del ciel giusto e piatoso, col cor dolente e lagrimosa faccia pentuto del mio mal, perdon ti cheggio. E sì ti priego, Signor grazioso, ben ch’io sia peccator, ch’ai fin ti piaccia ch’abitar venga nel tuo santo seggio.
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Merzè, madonna mia, piata ti mova al mio crudel languire; tu mi vedrai morire, volendo ognor di me far nova prova! Deh, non tanta durezza alla mia pura fede, che solo in te servir tutta è mia spene! Alla tua gran bellezza, donna, non se rechiede tener sì fedel servo in tante pene. Ama, madonna mia, chi ti vuol bene; non gli dar più tormenti. Tempo è ornai che consenti a mostrar che piata teco si trova.
LXIX R4 Non è lo rettardar qui nel bel. Fiore per seguitar d’Amor sua falsa insegna, ma sol per poter far l ’anima degna di vedere al mio fin suo Redentore. Qui è colei, per cui s’acquista onore ed ove ogni virtù trovo che regna; qui è colei che ’1 gire al ciel c’insegna, sol contemplando il suo divin splendore. Che debbia omo sperar per farsi etterno, se non far l ’alma angelica e serena,
servendo il ver Signor che non ha fine? Queste mondan bellezze, ove discerno ogni peccato, non mi danno pena, ma cagion di pensar cose divine. LXX R4 Potresti prima movere una torre eh'un ronzin tristo ch’io tolsi a vettura; né speron, né baston, niente cura, dal suo dolente andar mai si può tórre. Passo non ha né trotto e via men corre; di quel poco che vede ha gran paura, inciampa spesso sanza aver mesura, ogni sasso, con bocca ei voi ricórre. Non viddi a’ dì miei mai tal maraviglia, ché, pungendol pur forte perché andasse, tornava indietro più di quattro miglia. Convenne al fine ch’io sì lo votasse, avendo rotte gambe, muso e ciglia, temendo nel camin non mi mancasse. Di me chi ’1 ver pensasse direbbe ch’io son tutto fracassato e ben punito d’ogni mio peccato. LXXI R4 Se m a ' ria mia Fortuna s’è rivolta a non volermi tormentare ognora, forse che, innanzi venghi el dì ch’io mora, legarò questa, che d’amore è sciolta. Non m ’è ogni speranza al tutto tolta, né creder posso che chi m’innamora, essendo bella, sia sì cruda ancora ch’io non trovi piatà seco una volta. Però disposto son d’esser costante a volerla servir sempre con fede, non temendo d ’amore alcun tormento. E se Fortuna ara di me merzede, vedendomi fedele e buono amante, spero sarò del mio servir contento.
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Da poi che vole Amore e il mio distino ch'io tuo fedel suggetto, donna, sia, aggi piata della gran pena mia. Deh, non esser crudele a tanta fede, a sì perfetto servo, a tanto amore, ch'io porto sempre a tua beltà infinita! Io ho tanto chiamato tua merzede che più le n a non ha Taflitto core ed è quasi da me l'alma smarrita. Se tosto el tuo soccorso non m'aita, essendomi contraria ogni altra via, Morte convien che m'abbi in sua balìa. LXXIII R4 Quello ch’occhio non vede o veder possa se non per lungo tempo e con affanno, ohimè, misero me, quant'è '1 mio danno, mi consuma le polpe, i nervi e Tossa! Questa pena crudele onde sia mossa sallo Amor sol, che vede ond'io m'inganno più ogni giorno, e nel tredecimo anno intrato son dal dì ch'io fui in sua possa. Ben è infelice amante chi tanto ama e con vane speranze in pianti e doglia mor mille volte el dì, né nulla el preme, e non cognosce alfin ciò che se voglia ed ha in odio se stesso, e quel che brama or fugge or cerca, e di trovarlo teme. LXXIV Ba-FN4 ( 1 )
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Dovunque el sol suoi raggi chiari porge dal loco ove si leva e poi si pone, del nostro ben per pochi el ver si scorge. E del contradio ancor vera ragione1
1 II capitolo è stato confrontato anche coi Ricc. 2322 e 2272, che avevano costi tuito il fondamento deU'ed. Bruti.
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comprender non si sa, tanto è accecato ciascuno in seguitar sua oppinione. Che ci è di quanto ha om disiderato che non si pent’ alfin doverlo avuto, ben che Tabbi felice dimostrato? Guarda qualunche mai possente è suto per favor popolare o per milizia che danno e che dolor n’ha ricevuto. Chi d’eloquenzia avuto ha gran perizia, per esser ben facundo in saper dire, morto n’è suto con sua gran tristizia. E chi in fortezza ancor pose el desire, per voler dimostrar quanto sia forte, miseramente s’è visto morire. Chi di molti denar s’ha fatto scorte ed ha piena la borsa al suo volere, quanta dolente poi stata è sua sorte! Mira Longin, che volse molto avere, al tempo di Neron Seneca ancora, come si veggon nulla possedere. Non passa mai del giorno solo un’ora che non abbi ogni ricco mille pene, veggendo sì come altri el lor divora. La dolce povertà sempre sta bene, né mai d’alcun rapace è vicitata; non bisogna a guardalla uscio o catene. Se mai sarà da te gioia portata, bench’ella poca sia, temenza arai sol d ’una canna dal vento agitata. Ma quando nulla teco porterai, se in fra mille ladron pigli el cammino, ben che solo tu sia, cantar porrai. El primo voto, ch’ai Signor divino si faccia per ciascuno, è che lui possa sempre trovar denari al suo dimino. Ma col veleno non si fa la fossa chi con un vetro voi spenger la sete come chi in oro aver sua mente ha mossa? Qual più de’ duo prudenti loderete: Democrito, ch’ognor che ’1 piè moveva ridea, vedendo 1 tempo ove ’1 perdete; o Diogene, il qual sempre piangeva, considerando tanta vanitade ove ’1 mondo imbrattato ognor vedeva? Quanta è, Fortuna, la tua varietade, che chi grande tu fai è in sommo onore
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e, se l ’abassi, mai truova piatade! Caio Seian, che fu di gran valore, ricco, magno, onorato e ben possente, come si vede star con disonore! Volgi a Crasso e a Pompeo ancor la mente ed a colui che fé suddita Roma, come lor vita finir tristamente. Chi di corona mai ornò sua chioma, pochi son suti che di morte oscura non abbi alfin portata crudel soma. Quanto fu ria, Demosten, tua ventura, e la tua, Ciceron, che nel più caro tempo ti venne di morir paura! Le vostre orazion veneno amaro diér alla vostra vita inanzi al tempo, né contra lui potesti aver riparo. Or vi levate a studiare per tempo per morte guadagnar vituperosa, perdendo ogni sustanza e anco il tempo. Quanto Fortuna ti fu graziosa, magnanimo e gentil Cartaginese, quando desti a* Roman doglia angosciosa! Tu ti movesti di lontan paese, ornato di triunfi e gran vittoria, seguitando pur lei a te cortese; e quando t’ebbe posto in tanta gloria che rompevi i monti alla tua voglia, sì che Italia di te fa ancor memoria, in un momento d’ogni ben ti spoglia, togliendoti onoranza e signoria, mandandoti in esilio con gran doglia. E, non trovando al tuo scampo altra via, morir volesti, pigliando il veleno, più tosto ch’esser d’altri in sua balìa. Vedi Alessandro, a cui il ciel sereno tanto si dimostrò ch’ai tutto volle, sì come Dio, tenere il mondo a freno, come di tante onoranze il tolle piccola sepoltura. O vita nostra, quanto ch’in te si fida è vano e folle! La morte è quella ch’ai fin ci dimostra quanto sien questi corpi da stimare, per li qua’ sempre facciàn festa e giostra. Ove se’ Serse, che potesti fare de’ monti mare e del mar come terra, sì che coi carri si potè passare?
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E1 popol, che menavi teco in guerra, era sì grande che seccava i fiumi, quando ciascun di loro al ber s’atterra. Tu sa’ ben che di rabbia ti consumi, ché, sendo rotto presso a Salamina, perdesti tutti i tuoi reai costumi. E fu sì grande allor la tua ruina che solo una barchetta aver potesti, per poterti fuggir da tal rapina. Perché l ’animo tuo dunche ponesti a voler tanta gloria, or pensa al fine e alla pena che per essa avesti. Alzate gli occhi alle parte divine, o miseri mortali, e non cercate cose vi sien cagion di ta’ ruine! E voi, che lo ’nvecchiar desiderate, a quel che vi conduce la vecchiezza e i suoi lunghi martir considerate. Quando omo è vecchio, ciascuno il disprezza e non ch’ad altri, ma a se stesso spiace. Con le gengive sole il pane spezza; triemagli il capo, che ma’ truova pace, el naso a ciascun tempo gli distilla, el sapor del mangiar più non gli piace. D el caldo naturai non ha scintilla, e, ben eh’un gridi forte, non lo intende: non sa s’è voce umana o pur di squilla. E quando per mangiare el cibo prende, pelle man d’altri convien che s’imbocchi e, come rondinino, el collo stende. Perduto ha ’1 sentimento e ’1 lum degli occhi, non conosce famiglia né figliuolo, muovesi com’un sasso, quando ’1 tocchi. Di giorno in giorno più gli acresce ’1 duolo o per morte di figlio o di sua donna o di fratelli o d’altri di suo stuolo. Ogni anno si rinuova nera gonna, la casa ha piena ognor di nuovi pianti chi vuol vecchiezza aver per sua madonna. Mettiti, prego, il re Pilio davanti, ch’altro non fa se non forte dolerse, veggendo gli anni suoi già esser tanti. Quando Antiloco suo car figlio perse, chiamavasi infilice e bestemiava la morte, perché inanzi noi somerse. Così il padre d ’Acchille ancor gridava,
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così Laerte pel suo figlio Ulisse, quando per mar secretamente andava. Che guadagnò Priamo, se lui visse molti e molti anni, veggendosi morto Ettorre m a n z i a sé, se ’1 ver si scrisse? E poscia, per trovar qualche conforto, morti molti figliuol in sua presenza, vidde Polite essere ucciso a torto. Non bastò al ciel questa crudel sentenza, che vidde la sua Troia esser disfatta e lui ancor aver tal penitenza. Non fu, Solone, di persona matta la voce tua, quando tu dicevi: « Solo nel ¡Fin filicità s’accatta ». O caro cittadin Marco, ch’avevi sottomesso Cartagine a’ Romani, grandissima ragion se ti dolevi, ché ti convenne tra popoli strani, * i qua’ da te fùr già fatti suggetti, gir mendicando ’1 pan con prieghi vani! E tu, Pompeo, che pur meglio aspetti per viver lungo tempo, or che vergogna t’è ora che ’n due parti il corpo getti? Non fu macchiato di sì trista rogna Lentul, che ’n gioventù finì ’1 suo corso, degno d ’ogni gran mal, se ’1 ver s’agogna. Cetego e Catellina ancor tal morso fuggiron di fortuna, e non troncati finir lor vita sanza alcun soccorso. Voltatev’ora a que’ che onorati son suti di bellezza in quanti affanni per lor bellezze si son consumati! O Lucrezia gentil, che ne’ prim’anni della tua gioventù con propria mano pigliasti morte per mostrar gl’inganni ricevuti da chi con pensier vano corromper volse la tua casta vita, mostrando ne’ suoi atti esser villano! E tu, Virginea, ch’eri sì gradita di tua bellezza, guarda che ’1 tuo padre vuol che non servi, ma che sia servita. Quant’era meglio che tua cara madre non avessi pregato ognor gli dei che le bellezze tue fusson leggiadre! Non aresti gustati tanti omei che ’1 tuo buon genitor t’avessi uccisa
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per finir la quistion de’ falsi e rei. Sempre sarà e sempre fu divisa beltà da pudicizia, e q u e sti certo; però non vestir mai simil divisa. E ben che ’1 tuo dottor sia stato sperto in dimostrarti ogni moral virtute e come del ben far s’ha ancor buon merto, per questo non arai la tua salute, perché ’n tal modo el mondo è ornai corrotto che le lingue de’ padri om sa far mute. Lo spendere abbondante e buono scotto, che doni ad altri, ti fa sempre ardito a corromper ciascun, ben che sia dotto. Or vedi come puoi esser gradito del tuo figliuol, vedendol tu somesso, per sua beltà ad ogni mal partito. Degli adulteri ne farà sì spesso, 0 costretto d’Amor o per denari, ch’altro sperar ne puoi che tristo messo. E se i pensier suoi fusson pur vari da ogni cornitela e cosa vana, fuggendo d ’Amor sempre e morsi amari, verranne quella che con mente strana Ipolito mandò a’ lochi oscuri, perché non seguitò sua voglia insana. Quanto son falsi e quanto son duri 1 pensier d’una donna, quando vole eh’alle sue triste voglie om sempre duri! Quand’Amor la costringe, onde si dole, non è cosa sì aspra e sì crudele quanto essa, né sarà mai sotto el sole. Non cura onestà né esser fedele; spécchiati in Messalina e sta’ qui fermo, ch’alia mia barca più non vo’ dar vele; e pensa che col mondo om non ha schermo e che son vani e prieghi al sommo Giove che facciàn col pensier fallace e infermo. Lascia adunque el governo a lui, che piove le grazie tutte, e lui solo sia quello che provvegga al bisogno che ti muove. Non dubitare che filice ostello troverrai nel suo regno imperiale, e secondo il bisogno ogni mantello. Ma tu, che nella zucca ha’ poco sale, cieco e da cupidigia ancor commosso,
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cerchi quel che non sai s’è bene o male. Non vo’ però lasciarti tanto scosso che non abbi da me qualche buòn detto, se pur al dimandar fussi percosso. Se oferisci al Signor benedetto per grazia aver da lui, non esser lento a dirgli che ti dia buono intelletto, e che ’1 corpo sia sano e ben contento coiranimo gentil, che mai non tema di morte alcuna suo crudel pavento. Ma credi veramente Torà estrema esser don di natura; e gran fatiga portar ben possa, che niente il prema; e che neirira mai non facci riga, 0 desideri nulla, e eh'è meglio d'Èrcole le fatiche ed ogni briga che con lussuria avere in man lo speglio e viver con vivande, come fece Sardanapal, lussurioso veglio; e che vogli virtù aver per vece d ’ogni mondana cosa, c’ha possanza a liberarti d ’ogni trista pece. Chi vuole aver Prudenza per sua ’manza 1 fatti tutti a lui propizi vede, ben che si dichi che Fortuna avanza e come dea nel cielo abbi sua sede.
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Chi dice mal di me Dio mal gli dia; se non si muove di suo mal pensiero, tanto l’accechi el mal, che dica el vero. A quella falsa lingua maladetta, c’ha posto in mal parlare ogni sua voglia, seccar si possa el tronco e la radice. O giustizia d’iddio, fanne vendetta; a chi mal dice, dagli tanta doglia sì che non possa mai esser filice! Gastiga, Signor mio, chi più mal dice, con giudicio crudele, aspro e severo, sì ch’ai ben dire abbi l ’animo intero.
LXXVI S o n e t t o m a n d a to d a m e s s e r R o s e llo
L1 - L2 - Ash2 - M12 - R5 Burchiel mio caro, s’tu girai al fonte che sta in Ovile presso a San Francesco, fa* che non sia polacco né tedesco, ma parla fiorentino a larga fronte. Dirai a colei per cui ricevesti onte che non t’asconda più sotto ’1 suo desco, perché, volendo scuoter troppo il pesco, la via faresti che fece Fetonte. Tu hai nome d ’aver cattiva coda, la qual t ’ha data già tanta mattana, secondo c’ho sentito da Giovanni. Quand’eri al bagno non mutavi proda, ma di continuo colla tua gualdana ti stavi, ricevendo molti inganni, sino a lasciarci i panni. Tornasti a Siena a piè senza un quattrino, pulito e netto più che ’1 tuo baccino.
R is p o s ta d e l B u r c h ie llo a m e s s e r R o s e llo B e n t i s e ' f a t to s o p r a a l B u r c h ie l c o n te , b e n p e r v ia d i S an G a llo n e v ie n f r e s c o , m a s 'tu sa r a i s ì f ie r o b a r b e r e s c o , v e d r e l lo in C a lim a la o in s u l P o n te . G ià d i ra z za n o n s e ’ d i C h ia r a m o n te , m a lu n g o , a lto , s o t t i l , m a rin c o r d e s c o ; e d e ll'e s s e r e s t a t o s ì m a n e sc o , p e r G i u p i t e r , c h 'e lle t i f ie n o s c o n t e ! N o n t i v e r g o g n e r a i c h e q u e s to s 'o d a ? tu b e z z ic h i i l fin o c c h io a lla ro m a n a , n o n is c h ifa n d o s c a b b ia n é m o li'a n n i. L e g a ti q u e s t o a l d i t o e b e n l'a n n o d a : n o n è f in e s p a g n u o la o m a rc h ig ia n a la s e ta e 'l p e lo c h e p e r fa m e in c a n n i. F u C o r s o o S a n G io v a n n i c h e t i f é a z z u ffa r c o l p e c o r in o p e r la q u is tio n d e l r e s to d e l f io r in o ?
LXXVII S o n e t t o à i m e s s e r R o s e llo a l B u r c h ie llo
L1 - L2 - Ash2 - M12 Burchiello, or son le nostre poste sconte e di giucar con teco io sì me n’esco, perché non se’ toscan né buon francesco, né nato in bel paese d ’Aspramonte. Figliuol fusti per certo d’Acheronte, tanto ogni tuo costume è asinesco, e, parlando corretto, anzi mulesco, avendo a morder sol parole pronte. Sicché statti pur fitto nella broda, seguitando all’usato gente vana con tuo doglia infinita e molti affanni, e per soccorso aspetta la campana, la qual faren sonare al nostro Boda per porre fine a* tuo’ gravosi danni. Ma fa’ che non lo inganni: dirai che ’1 panno fu di San Martino di quel che tu facesti al masculino.
R i s p o s t e d e l B u r c h ie llo a m e s s e r R o s e llo R o s e i, tu to c c h e r a i d i m o l t e c io n te , s ì r i v o lt o a! tuo* v e r s i s t o in c a g n e sc o e r im e i n a u d ite in v e r s i p e s c o p e r d i r le tu o m a g a g n e n o n ra c c o n te . B a n d ’h a i d a lla lo g g ia B u o n d e lm o n te , b a r a ttie r , b a ro in a b i to a r c iv e s c o ; o h im è , t i d ia D i o , b e n e s t a ’ fr e s c o , s p e d a le o c h ie sa , o v e t u s ia v is c o n te . A m a cc a d e ’ lo r b e n c o n v ie n c h e g o d a la g o la , e d a d i, i l p i v o e la p u t t a n a : s o n l e ta v e r n e e ’ b o r d e l li e t u o ’ sc a n n i. L a casa tu a d i S o d d o m a ru ffia n a t u t t a la n o t t e e 7 d ì i m b o t t ’o lio e fr o d a , sì c h e r is to r a i l car d e ’ p a s s a ti a n n i. C h e M in o s t i c o n d a n n i c o n u n a la n c ia in c u i d ’u n p a la d in o , s ì c o m e u n p e s c e d i m a z z a m a r in o !
N o n p r e g a to d 'a lc u n , R o s e i, m a s p o n te , p e r d a r ti b e r d 'u n v in b r u s c o t i m e s c o , e v e g g io b e n e orn ai ch 'i' t i r in c re sc o c o n r i s p o s te e m e s s iv e s p e s s e e p r o n te . N o n fu ta l g u e rr a m a i tr a 7 Z o p p o e 7 C o n te q u a l i ' h o te c o , e d ' o d io o g n o r r in fr e s c o ; o r c o n p i ù s p a d e , z u g o , a d o s s o t'e s c o : n o n h a i p iù g iu o c o , e s o f a r e s ti a m o n te . O t e r r i b il m e m o r ia g r ie v e e s o d a , c e r v e llin d 'o c a e g ra n te s c h io d 'a lfa n a d a fa rn e s p a v e n ta c c h io a' b a rb a g ia n n i, d o t t o r a t o fra l'o c h e in V a l d i C h ia n a , h a' tu c iv i le o c o lo n ic a lo d a ? T u p ig lie r a i d e ' g r illi, s e tu a p a n n i. N o t o t i c h e t'a m m a n n i p e r la f e s ta d e ' M a g i in p u n t o o n n in o , c h é t i v u o le in s u l c a rro M ic h e lin o .
R o s e i, p e r r im b e c c a r ti a f r o n te a f r o n te d i r im e e v e r s i io m 'a r m o e a b b e r te s c o , e p e r m e g lio s tr e g h ia r ti 7 g u id a le s c o r u s tic o p a lto n ie r , a sin d i m o n te ; c iv e tta , c h e p u r m ir i in o r iz z o n te , s e la lo g g ia , il b o r d e llo e 7 b u c o 'n v e s c o e c o n t e s t e e m u c in , b a ro , t'a e s c o , o t o s o r d i m o n e te e f o g lie e ’m p r o n te . I o g o d o p e rc h é p a r che tu ti ro d a , m e n tr e p e r t r o p p i a ffa n n i v o ta e 'n sa n a , d a g u a r ir ti sa n P ie t r o e s a n to G ia n n i. T u n a s c e s ti la n o t t e d i B e fa n a , q u a n d o o g n i b e s tia le g a ta s i s n o d a e in s ie m e p a r la n s e n z a T u r c im a n n i. E l v in c h e tu tra c a n n i, p o r c o d a b r o d a , la se ra e 7 m a ttin o , fa r n e tic a r t i fa , s c h ia v o a r e tin o .
LXXVIII S o n e t t o d i m e s s e r R o s e llo a l B u r c h ie llo
L1 - L2 - Ash2 - M12 - R5 Caro Burchiello mio, se *1 vero ho ’nteso, parmi che faccia compagnia co’ topi, ché tutte le prigion convien che scopi, tanto mal da piccin fusti ripreso.
Con ben mille ragioni io t’ho difeso, le qua’ ti mando tutte ché le copi, dicendo sol pietà c’ha’ degli inopi t’ha fatto sì al furare il braccio teso. Veggo che scusa ornai non ci vai nulla; convien pur che tu vada al pecorile, sicché acconciati bene a penitenza; e fa’ come de’ far ogni uom virile che vogli render infino a una frulla quel che togliesti con mala coscienza. E non aver temenza, ché, se t’acconci ben d’ogni peccato, sanza fallo niun sarai salvato.
R i s p o s t e d e l B u r c h ie llo a m e s s e r R o s e llo I o t i m a n d o u n t iz z o n , R o s e llo , a c ce so e q u a t t r o s o m e d 'a s in o d i s c o p i, s ic c h é b e n t o s t o t i v e r r a n n o a u o p i, c h é p e r p u b r ic o f r o d o sa r a i p r e s o . A fu r ia a fa r fa lò n ’a n d r a i d i p e s o p e r m a lific t c o m m e s s i in gra n c o p i, p e r u s u r a io a n c o r, s e n o n t i s p r o p i d e l g iu d e o in te r e s s o s o p r a p r e s o . P e r t u t t i i m a li, e m a s s im e la fru lla , c o s ì a rs ic c io a s t r a z io e p r e g io v il e sa ra i g i t t a t o in A r n o p e r s e n te n z a . M u ti f ie n p e r t e e p r e t i, e l c a m p a n ile e 7 G o lia e h ’in G h ia c c e to s i tr a s tu lla is c io p e r a to e g o d e s i a c r e d e n z a . A lc u n a v io le n z a n o n t i fa ra n n o e p e s c i, o s c h e r ic a to , p e r c h é n o n m a n g ia n d i s c o m u n ic a to .
A v e n d o m i , R o s e llo , a to r t o o ffe s o , q u i t ’h o r i s p o s to p e r le r im e p r o p i ; n o n b o lle i l s o l jì s o p r a g li E t i o p i c o m ’io fo v e r s o t e c o ll ’a rc o te s o . T u n o n h a i b e n q u e s to m e s tie r i a p p r e s o c o n f a v o le d ’O v i d i o e v e r s i e s o p ì, s ic c h é c o n v ie n c h e 7 m a s tr o il c u i t i s c o p i, a v e n d o il te m p o tu o s ì m a le s p e s o .
B e n p u o i d o l e n te m a la d ir la c u lla d e lla tu o p r im a im p r o n ta d e l c o v ile , p o ’ c h e v ir tù n o n h a tu o c o n o sc e n za . D i s u ti l b r o h r io , b e s tia d i p o r c ile , s t e r ile , a lid a , b r e tta , n u d a e b ru lla , d o v e a lig n a r n o n p u ò b u o n a s e m e n z a , la t u o s o z z a p r e s e n z a n o n m e n te in t e d i s t o l t o e s c e lle r a to . O r g o d i, R o m a , d i c o ia i p r e la to !
R o s e i, b e n m ’h a i s c h e r n ito e v il i p e s o p e r t u t t ’i n o s tr i p a e s i e u r o p i, s ic c h é c o n v ie n c h ’i ’ t e m ite r i e s c o p i d ’a ltr e v e r g o g n e tu e d i m a g g io r p e s o . C a r r e tto n , v e t t u r in , b o ls o e r a p r e so , o r sa n za c a ssia , p i ll o l e e s c i lo p p i ca car t i fa r ò s t r o n z o l i s in o p i e d u r i s ì c h e ’l c u i p a r r a tti a c ce so . L a c a n a p a p e r t e g ià s i m a c iu lla p e r p e ttin a r la e p o i fila r s o t t i l e c o l t e m p o s c e lta a s t u d i o e d ilig e n z a . U n a q u e r c ia s i ta g lia a lta e g e n tile , p u l i ta e to n d a p e r fo rc a r id u lla p e r im p ic c a r v i su la tu o p r e s e n z a . E p e r fa r r e v e r e n z a a l c a v a lie r , c h e t i f ie t o s t o a la to , sa r a i la s c ia to a c u lo n u d o a lz a to .
APPENDICE S o n e t t i d e l B u r c h ie llo c o n tr o R o s e llo
1 L1 - L2 - Ash2 - M 12 - R5 F io rra n c io m io , d e h , f u g g ite n e a l e t t o , n o n v e g lia r p iù a l v e n to a lla f in e s tr a ; fa s c ia ti il c a p o e f a t t i u n a m in e s tr a : c r e d i a l B u r c h ie l, tu h a i u n g ra n d i f e t t o ! U n p r o p r io s e g n o d ’e s s e r c iò m ’è d e t t o , c h e s e ’ p i ù g ia llo c h e f io r d i g in e s tr a ; d e h , n o n ir p iù u c c e lla n d o a lla f o r e s ta , r i t r a ’t i orn ai, s c ig n e ti V fia s c h e tto !
D is s e m i u n c ie c o c h e g li d is s e u n m u to c h e t u a t te r r i u n p o r c o c o s ì b e n e c h e in C u la v r ia n o n fo r a m a i c r e d u to e s e m p r e 7 f i e d i d i e t r o n e lle r e n e e c o llo s p ie d o tu o f ie r o e p i n z u t o g li r o m p i e s fa s c i 7 f o n d o d e ll e sc h ie n e . L a s s o ! s'u n d ì a v ie n e c h 'u n p o r c o t'e s c a a d o s s o d e ' la c c iu o li, c h i p a sc e rà m a ' t u t t i e t u o ' fig liu o li?
2 L1 - L2 - Ash2 - M12 - R5 F io r d i b o rr a n a , s e v u o i d ir e in r im a , c o n v ie n t i e s s e r p iù g ra s so d ' a g g e t t iv i , d i n o m i e v e r b i , e c o n v e r s i c o r s iv i s a lir b e llo e s o a v e e v a g o in c im a . D e l fa ls o a c c id e n ta l n o n fa re s tim a , c h e c re a v e r s i c r u d i, a s p r i e c a tt i v i , m a n a tu r a le e f a c ilm e n te s c r iv i, p o i n e lla fa n ta s ia g li s p e c c h ia e lim a . L a m a te r ia e 7 s u g g e tto e le s e n te n z e ( o B a ia r d in o , p o v e r o i d io t a ! ) v o g lio n d e l c a so le c ir c o n fe r e n z e : e tu d 'a lte z z a c a d i n e lla m o ta ; e p o i c h i v u o l s e g u ir t r o p p e s c ie n z e g li m u lin a il c e r v e l c o m e la r u o ta . T u h a i la zu cc a v u o ta ; in M u g n o n fr u g h i e m a i c a z z u o le p e s c h i, s ì c h e s e i 7 p r im o d i e t r o a i b a r b a r e s c h i l .
Ll - L2 - Ash2 - M12 - R5 R o s e i m io c a ro , o eh e rica a p p o s to lic a , i l p i v o tu o t o r n ò l'a ltr ie r d a N a p o li, sic c h ' a b b i i tu o ' p e n s i e r i s c io l t ' e s c a p o li d a lla f o r n ic a z io n v e r l u i d ia b o lic a , c h é c iò n o n p a t é l 'o n e s tà c a tto lic a .
1 Su questo splendido sonetto, fondamentale per la piena comprensione della poetica del Burchiello cfr. L a co rren te popolare del G uerri , pp. 94-6 e P olem ich e e b e r te , pp. 210-11.
M e s c h in o , d e h , n o n a v e r e p i ù i c a p o ti; s a r a tti o n o r s e n o n v i t i ra c c a p o li, c h é q u e s t o v iz io s o tte r r a t i c o r ic a i L a sc ia i c a p r e tt i e p ig lia d e ll e l e p r i s e n o n v u o i fa r e u n d ì f u m o e b a ld o r ia d ’o d o r if e r a s t i p a d i g in e p r i. O d o lo r o s o , q u e s t ’è l ’a ltr a s to r ia , c h e m a i d a ’ m u n is te r n o n t i d is e p r i, m a c o n m o n a c h e s ta i in b e r ta e ’n g a llo r ia . I n te r o v a i p e r b o r ia , s e n d o in V ir e n te s o l d ’U g e n io c h e ric o , e p e r s a v io p a r e r tu r b o e c o lle r ic o .
ROBERTO D E’ ROSSI *
Q u e s to
n o b ile
f io r e n tin o , fr e q u e n ta to r e
d e i c o n v e g n i in
S a n to
S p i
r ito , d is c e p o lo
d e l M a lp a g h in i e d e l C r is o lo r a , p r im a a V e n e z ia
F ire n ze
q u e s ti v e n n e s o p r a ttu tto 'p e r su o in te r e s s a m e n to ) , fu u n o
(d o v e
e poi a
d e i p i ù s t i m a t i e c e l e b r i d o t t i d e l c ir c o l o u m a n i s t i c o d e l l a s u a c i t t à . P u r tr o p p o M a n e tti: P r a to s u ll a
d i lu i n o n
r e s ta n o
ch e p o c h is s im i s c r itti,
un a ca n zo n e e un s o n e tto
d i c o r r is p o n d e n z a
tu tti
e d iti d a l
co n D o m e n ic o
da
( c h e v e d r a i n e l v o i. I ) , il s o n e tto r e s p o n s iv o a M a la te s ta d a P e s a ro in v in c ib ilità
d ’A m o r e ,
d e lla tr a d u z io n e d e g li
un
e p ig r a m m a
la tin o ,
la
le tte r a
d e d ic a to r ia
« A n a ly tic a p o s te r io r a » d i A r is to te le e s o p r a ttu tto
il « S e r m o s u p e r d e tr a c tio n e r h e th o r ic e » , d o c u m e n to i m p o r ta n tis s im o d e lla p o le m ic a
tr a
u m a n is ti
e
tr a d iz io n a lis ti.
(A l
rig u a r d o
v.
« P o le m ic h e
b e r te » , pp. 2 3 -4 ).
I S o n e t t o d e l s ig n o r e M a la te s ta d a P e s a r o a R u b e r t o de* R o s s i
FN6 S e V o n o r a te t u e t e m p i e m a i v e s ta d i m ir to d ia d e m a o v e r d ’a llo r o , s o t t il i s s i m o in g e g n o , a lm o te s o r o , c h e c o m ’a d e g n o t i rilu c a in t e s ta , e s e la d o lc e tu a r im a , c h e p r e s ta s o a v e c ib o a l m io d e b il la v o r o , p o s s a v o la r n e l m o n d o fr a c o lo r o c ’h a n n o la m e n te a d e s a lta r ti d e s ta , e p e r q u e lla a m is tà , la q u a l p e r c a r m i p i ù v o l t e m o s tr a m ’h a i, c h e ’n t e s o l p r e m e , p e r t u o g ra n s e n n o e n o n p e r m io v a lo r e , p ia c c ia ti a lq u a n to d i c o n s ig lio a r m a r m i, c o m e c o lu i c h e *n t e p o s t ’h a su a s p e m e , s ’io s e g u ir d e b b o o v e r fu g g ir e A m o r e .
e
R is p o s ta d i R u b e r t o d e ' R o s s i a M a la te s ta
Qualunque fugge Amore, o Malatesta, fugge delle virtù reterno coro, fugge le Muse, Tarmi e *1 dir sonoro della fama ch’ognor vola più presta. Però fuggire Amor mente modesta non debbe mai, né le sue frecce d’oro; se fugge perché schifa anzi costoro, più crudelmente Amor punge e molesta. Né forza vai né scudo alle sue armi, che spezzano ogni tempra, e mai non teme di non passar colle sue punte al core. Però, car signor mio, se vuoi vere armi, seguita Amor con onestà, il cui seme ti farà glorioso e sempre onore.
COLUCCIO SALUTATI *
L i n o C o l u c c i o S a l u t a t i d i F i e r o d i C o l u c c i o n a c q u e a S t i g n a n o in V a l d in ie v o le
il
26
fe b b r a io
1331.
A
B o lo g n a ,
dove
il p a d r e
e s ilia to
s ye r a
r i f u g i a t o , p a s s ò la g i o v i n e z z a e f u d i s c e p o l o d i P i e t r o d a M o g l i o . N e l ’5 1 d iv e n n e
« n o ta r iu s
et
iu d e x
o rd in a r iu s
et
o ffitia lis
p o i f u c a n c e l l ie r e a T o d i ( 1 3 6 7 ) , a L u c c a ( ’7 0 - 1 )
c o m m u n is
P is c ia e » ;
e fin a lm e n te a F ire n ze
d a l 1 9 a p r i l e 1 3 7 5 f i n o a l 4 m a g g io 1 4 0 6 , d a t a d e l l a s u a m o r t e . D is c e p o lo
d e l P e tr a r c a
e d e l B o c c a c c io , a m ic o d e l M a r s ili, f r e q u e n
ta to r e d e i c o n v e g n i a l P a r a d is o d e g li A l b e r t i a s s ie m e a l m u s ic o F r a n c e sc o L a n d in i, a l M a r s ili s te s s o , a l m e d ic o p a d o v a n o M a r s ilio d i S a n ta S o fia , a l f i l o s o f o e m a t e m a t i c o p a r m e n s e B i a g io P e l a c a n i , a l t e o l o g o
e m a te m a tic o
G r a z ia d e * C a s te lla n i, C o lu c c io f u a l c e n tr o d e lla v ita c u ltu r a le e p o litic a d e lla F ire n ze d i f in e T r e c e n to . C o n tr o
il
L o s c h i,
c a n c e llie r e
del
V is c o n ti,
in F l o r e n t i n o s » , i l S a l u t a t i s c r i s s e u n a i n v e t t i v a d a tio
F lo r e n tin a e
u r b is
a u to r e
d e lla
« I n v e c tiv a
c h e , a s s i e m e a lla « L a u -
» d e l B r u n i e a l lib e llo d e l R in u c c in i, d e l q u a le
p o s s e d i a m o s o l o f r a m m e n t i d ’u n v o l g a r i z z a m e n t o , è i l p i ù i m p o r t a n t e d o c u m e n to
d e ir u m a n e s im o c iv ile c h e , p e r m o ti v i p o litic i, a F ir e n z e n a c q u e
e p iù c h e a ltr o v e p r o life r ò . M a l'a ltr o
a s p e tto
e s s e n z ia le d e lV a ttiv ità
d e l g r a n d e c a n c e l l ie r e è la
s u a p o s i z i o n e i d e o l o g i c o - c u l t u r a l e . N e l l e l e t t e r e s c r i t t e in p o l e m i c a c o l D o m in ic i e G io v a n n i d a S a n M in ia to e n e g li a s p r i a tta c c h i a g li s c o la s tic i
in d if e s a d e g li « s tu d ia
h u m a n ita tis
( v . la l e t t e r a a R o b e r t o
»
G u id i c o n te
d i B a ttif o lle e q u e lla a P ie tr o A lb o in o m a n to v a n o , s u lle q u a li c fr. « P o le m ic h e e b e r t e » , p p . 2 2 - 3 ) , C o lu c c io S a lu ta ti s i r iv e la V e r e d e d e lla tr a d i z io n e
d e lle
tr e
co ro n e
e n e l c o n te m p o
il fo n d a to r e
d e lla
nuova
c u l tu r a
u m a n is ti c a . I « De
su o i
tr a tta ti
n o b ilita te
(« D e
le g u m
et
v e r e c u n d ia » , m e d ic in a e » ,
«D e « De
fa to ,
fo r tu n a
ty r a n n o » ,
« De
et
casu »,
la b o r ib u s
H e r c u lis » ) , le s u e o r a z io n i e s p e c ia lm e n te il s u o r ic c o e p is to la r io s o n o i m a n if e s ti d e lla le tte r a tu r a e d e lla s p ir itu a lità d e l n a s c e n te U m a n e s im o .
C o l u c c i o c i h a l a s c ia t o a n c h e u n g r u p p e t t o d i p o e s i e v o l g a r i ; o l t r e a l b e n n o to s o n e tto in d ir iz z a to a l V is c o n ti
( I V ) , c u i r is p o s e p e r le r im e il
L o s c h i, r e s ta n o d i lu i u n a s c a d e n te te n z o n e c o n Z a n o b i f a n t i n i u n s o n e tto
a m oroso
m a e s tr o B e r n a r d o
(III),
d u e g n o m ic i
(V , V I)
ed
un
(V II).
I S o n e t t o d i Z a n o b i T a n tin i a s e r C o lu c c io
M4 Q u i d t i b i p r o d e s t s e p e r t u t t o il m o n d o la f a m a tu a g ià f o s s e Volgata? Q u i d t i b i p r o d e s t a v e r ra u n a ta p e r tu a b o n tà r o b a sa n za f o n d o ? Q u id t i b i p r o d e s t V e sse r t u g io c o n d o p e r a v e r d e ’ f i g li u o ’ b u o n a c o v a ta ? Q u ia s a t n o s ti c h ’u n a m a ttin a ta fa r e t i p u ò d i d o lo r e f e c o n d o . T e m p u s e s t b r e v e c u m v it a p e n o s a : c e d i t c o r p u s e tia m g iu v e n ile ; in p a r v o t r a t tu s i fu g g e o g n i c o sa . M o r s is t a t; m a p e r tim o r s e r v i le p u r c i o c c u p ia n o s a n z ’a lcu n a p o s a , e tt e r n u m t e m p u s r e p u ta n d o v ile . M a s e m p r e l ’u o m o e r ile n o n s i c o n d u ce p u r e al p u n to s tre m o , c h é m o l t i n e ’n a b iss a i l « b e n fa r e m o ».
R i s p o n d e s e r C o lu c c io
Prodest fama a chi è del cuor sì mondo che fama sprezza che dall’uon sia data; prodest ricchezza a chi se l ’ha ’cquistata, s*a D io la rende per non gire al (pro)fondo. Prodest stirpis a chi quel lieto pondo fa che dirizzi a Dio la sua giornata, onde sicuro aspetta lor chiamata e in speme vive di stato secondo. Bene viventi vita spaziosa semper contingit, nec unquam senile dolet corpus, o che fugga ritrosa
a ltr o
(I, I I ), in v ia to
a
fortuna mundi; ma col cor virile mortem spernit, e solo a Dio si sposa etterna curans e 1 beato ovile. Che l ’anima gentile continuo pensa allo stato supremo e mena con virtù sempre suo remo.
II S o n e t t o d i Z a n o b i T a n tin i a s e r C o lu c c io
M4 V i d e o s a n to s f u g g ir q u e s to to n d o d e l m o n d o i n f e t t o p e r o g n i b o s c a ta , u r b e s [ e t ] v ic o s e o g n i b r ig a ta , p e r te n e r e da* s e n s i il c o r r i m o n d o . V i d e B a tis ta m t a n t o m ir a b o n d o c h e *nnanxi a l p a r to f u s a n tific a ta is s iu s a lm a , p u r , c o m e p e d a ta p o t è f e r m a r , fu g g ì b io n d o b io n d o . V i d e A n t o n iu m e le g g i sa n za c h io sa I la r io n , R o m u a ld o e l o r s ti le , q u a n o r u n t la s ta n z a p e r ig lio s a ; u ltr a C ir e n e m g ir o n o , o lir à T i l e . N o n è F ra n ce sc o o g n i u o m o ; e c h i la ro s a c a r p e t a b s q u e p u n tu r a d a la s t i le ? N o n è c o sa e s ile in g ra n t e m p e s t a t e n e r f e r m o il r e m o , f u g g e n d o i s a n ti p e r c h é s ta r v o le m o , p e r c h é n o n a s p e t te m o p e r c o lp a p e n a , p e r b e n g io ia , o fo r s a c r e d ià n la v it a a v e r s e m p r e in b o rs a . R i s p o n d e s e r C o lu c c io
Credi tu per dire: « Io mi nascondo, fuggo le genti e tengo ben serrata mentem mundi rebus, e gastigata tengo la carne, ond’io non mi confondo », petere stellas, che nel d el ritondo fonda la man divina, ond’è sì ornata regio cieli, mansion beata? Se dici: « Il credo », or ecco io ti rispondo quod nunquam fuit res tanto gravosa o sì pugnente o ’ngegno sì sottile quod mentem ducat ove sia gioiosa.
Nam prius rediret questo mondo in ile che sanza grazia mai si tesse sposa numinis veri, ch’è sì signorile. Ben giunse a quel cubile Petro e Paulo, che così credemo senza fuggir il mondo, ove noi semo. Dal qual, se noi vorremo e se divina grazia non ci smorsa, verremo al d el con ogni santo in borsa. Ili* Lr1 Io ti priego per Dio, che t'amò tanto, quando crear dispuose la tua forma, i' ti priego per te, per cui s'informa ciascun d ’amare il regno etterno e santo; i' ti priego per me, che sempre canto il tuo chiaro sprendor che mi trasforma; i' ti priego pel tuo nome, che storma e occupa già il mondo tutto quanto, Elena mia gentil, che le grandi arre delle immense virtù, che date ci hai, tu compia di pagar colle santi opre. E io prometto a te, se già le sbarre tosto del viver mio non passo e' guai, d'atternarti con penna in sonanti opre.
IV S o n e t t o d i C o lu c c io S a lu ta ti a G ia n G a le a z z o V i s c o n t i
L(ad.) - La - Ld(ad.) - FN6 - M - M10 - R10 - GV - Vat1 O scacciato dal ciel da Micael, ruina della sede d'Aquilon, o venenoso serpente Fiton, o falso ucciditor del giusto Abel; o mal commettitore Architofel, o successor d'incanti d'Eriton, maladicati Paltò Iddio, Sion, che benedisse i figli d'Israel! S er C o lu ccio , parlan do a m adon n a Elena.
Contro ti sia la fede d ’Abraam e l'orazion che fé Melchisedech e l'angel che diè storpio a Balaam! Nascer possa per te nuovo Lamech, che ’1 sangue vendicò del fi* d’Adam; tal sia tuo fin qual fu d'Abimelech! Contro ti sia la grazia di Jacob, poi che procacci crescer pene a Job!
R is p o s ta
di
A n t o n io L o s c h i, c a n c e llie r e in v ic e d i lu i
del
D u ca,
L - La (Saviozzo) - FN6 - M - M10 - R10 - Vat1 O C le o p a tr a , o m a d r e d ’I s m a e l, o g ra n S e m ir a m is d i B a b ilo n , io s o n p iù p i o c h e 7 f i g l i m i d ’A m o n , p e r c h é m i g u a r d a V a n g h i R a fa e l! I p p o l i t o , N a r c is o e D a n ie l s e m p r e h o n e l c o r ; n é g ià c o m e S a n so n v i n t o sa r ò , n é c o m e S a la m o n , n é c o m e i l g ra n m a r ito d ’A n tr a c h e l. I l fu o c o V a rd a c h e a r s e A r a a m ; in o d io v e n g a a D i o c o m e I s m a le c h , o c o m e a l s u o v ic in o C a n a a m ! E s v e n tu r a ta si* c o m e I s p o s e c h , o c o m e S e d e c h ia o R o b o a m ; n e l tu o c a m p o n o n n a sca S e m e le c h ! S e n o n t i b a s ta , a b b i q u e l d i J o b , e io s e n ta la g r a z ia d i J a c o b .
V R I°
Qual cuor gentil fu mai, le punte d'oro per stimoli d’amor gravosi esperto, pianga di me el stato dubio e incerto e '1 fuoco ove ardo e non vivo e ne moro. Troppo la mente e li occhi mie' van fuoro •mirar sì alto e sperare tal merto; lasso! che, per voler guardar troppo erto, consumo gli anni e '1 viver dissonoro. La forma è sacra, in vista altera e franca me par; ma, ben che sia cosa tirena, fidarse ad om uman non se contenta.
Cerca cosa a te par, anima stanca, ché gran soperbia ed ignoranza el mena chi vuol più che ’1 poter, ch'avi va e stenta. VI L4 - Ash3 (ad.) - FN2 - M 13 - P4 Qualunque è posto per seguir ragione fugga pietate, amor, odio e paura, giudichi ne’ diritti con misura el tempo, el modo, el loco e le persone. Non abbia pertinace oppenione e solo ascolti fermo in dirittura; fugga dall'ira, sì che dismisura di mal giudicio non gli dia cagione. Gl'impronti e folli e lusinghieri scacci e '1 timido assicuri e '1 poverello, e le cose intrigate presto spacci. Più ami onore eh' empiersi il borsello, più cred’ al ver ch’a chi riso gli facci, più in lui sie grazia che crude! coltello. D'ogni vizio ribello, e' soprattutto gli potenti imbrighi; e rei astuti e' cattivi gastighi.
Se la cosa ch'uom vuole in sua natura si potesse veder se l ’è perfetta, tal spesse volte col desir s’affretta che '1 non giugner terrebbe gran ventura. Però ben fa chi ha cosa incerta e scura: e', che non sa come di vizi è netta, tien la sua voglia sì col freno stretta che di penter non sente mai puntura. Or tòi quel ch'aspettat'hai con gran festa e, per veder se t'ho scoverto il vero, fa' tutto legga con la mente desta e che non sia nel contra dir leggiero, perché, se pur alcun dubio ti resta, son pronto al dichiarar col cor sincero. Ma ben ti priego che del bianco nero non facci per difendere '1 tuo torto: sia '1 soffistar fra noi sbandito e morto. M esser C ólu ccio a m aestro B ernardo.
FRANCESCO SCAMBRILLA *
Q u e s to im p o r ta n te r im a to r e f io r e n tin o c o n te m p o r a n e o d e l B u r c h ie llo c i h a la s c ia to q u a r a n ta c o m p o n i m e n t i 1 d i g e n e r e s o p r a tt u tt o b u r le s c o , d e i q u a l i , p u r t r o p p o , m o l t i s o n o m u t i l i p e r m a c c h i e d ’u m i d i t à o g r a v i la c e r a z io n i. E d è u n v e r o p e c c a to , p e r c h é lo S c a m b r illa , a l q u a le F r a n c e s c o A l b e r ti in v iò C o m e d io V ili,
è
un s o n e tto
V e n u ti c e r to
(L X V III),
(X L ),
una
e che
d e lle
p iù
ch e fu
ven ne
in
c o r r is p o n d e n z a p o e tic a
r ic o r d a to
im p o r ta n ti p e r s o n a lità
to s c a n a d e l Q u a t t r o c e n t o . L o
S c a m b r illa p iù
con
a n ch e d a l B e tti n e l son . d e lla
p o e s ia
c o m ic a
a u te n tic o n o n è d u n q u e d a
r i c e r c a r e n é n e l l e p o e s i e d ’o c c a s io n e ( I , I I I e I V , s c r i t t a p e r l a m o r t e d i G io v a n n i d i C o s i m o ) , n é in q u e lle a m o r o s e , tr a le q u a li s i s e g n a la n o c o m u n que
i s o n e tti X X I I I , X X I V ,
XXV,
ma
n e lle
fa m ilia r i
e
n e lle
g io c o s e .
P i a c c i o n o i n f a t t i i b e i s o n e t t i in c u i i n d u g i a a d e s c r i v e r e l e d u r e z z e e l e d i f f i c o l t à d e l l a v i t a d ’o g n i g i o r n o I I a lla V e r g i n e )
( X , X X , X X I , X X I I , e il b e l c a p ito lo
e le s u e n u m e r o s e c o m p o s iz io n i b u r le s c h e .
C o m e F ran cesco A lb e r ti ( X C I )
a n c h ’e g l i s c r i s s e t r e s c h e r z o s i s o n e t t i
p e r l ’a s s e d i o d i F o i a n o d a p a r t e d i d o n F e r r a n d o ( V I , V I I , V i l i ) , e d a l la tr a d iz io n e
r e a lis tic a
r ip r e s e
uno
dei
p e r iu m » ; c o sì c o m p o s e in v e ttiv e
m o tiv i
v io le n te
ed
c e n tr a li,
q u e llo
e s tr e m a m e n te
del
« v itu -
v o lg a r i
(X I,
X III, X X V III, X X X V I). M a le c o s e m ig lio r i s o n o c e r to
l ’o t t i m o
so n e tto
IX
su la d r u n c o li e
m a l v i s s u t i ( c f r . a n c h e s u l l ’a r g o m e n t o i l X X X I X ) e il X X X , n o t a d i s p e s a a lla
m a n ie r a d e llo I l m o tiv o
s tu p e n d o
« V a ’ in
m e r c a to ,
G io r g in »
d e l B u r c h i e l lo .
c a r ic a tu r is tic o , c h e in R u s tic o a v e v a t r o v a to
il su o in iz ia
to r e e m a e s tr o , to r n a n e llo S c a m b r illa c o n p a r i m a e s tr ia n e l s o n e t t o X V I I , v i v a c e p i t t u r a d ’u n i n n a m o r a t o
b u ffo
e g o ffo
e n e l X V I I I , in c u i b e ffa
S a l v a la g l i o .
1 M15 attribuisce i sonetti a « Giovanni Scambrilla », manifesto fraintendimento per « Francesco di Giovanni Scambrilla ».
In
q u e s ta
b a r b ie r e i n e tto
d ir e z io n e
si p o n g o n o
t ic a c a r a a l P u c c i ( s o n X I I I D al
anche
i g u s to s is s im i s o n e tti su
(X X X III, X X X V , X X X V III),
B u r c h ie llo
in v e c e
un
ch e r ip r e n d o n o u n a te m a
d e ll'e d . C o r s i) .
d e r iv a
la
s a tira
c o n tr o
un
a s tr o lo g o
(XV),
p ie n a d i d o m a n d e a ss u r d e e str a v a g a n ti. Da
u ltim o
va
r ic o r d a to
q u e s to fo r tu n a tis s im o
3
6
9
12
15
18
21
24
il s o n e tto
V
per
r e tto r i,
gen ere.
Clementissimo in Cristo sacro e santo, singular membro nello apostolato di Pietro sotto el suo celeste manto, a cui per sola grazia a voi ha dato Monsignor Patriarca Cardinale, sì come uom degno a sì felice stato, non può l’errante volgo universale immaginar quanto tal grado sia In grazia a Dio, che ’n paradiso sale. E ben che la mia bassa fantasia non possa ripricar le degne lode, che ’n voi interchiude el figliuol di Maria, pell’opre vostre effettuose e sode in somma carità, pura e finace, di che 1’anima vostra in ciel già gode, come è spirato dall’eterna pace, nella qual si conserva quella morte che fa l’anime sante in ciel vivace, o consiglier del principal Pastore, per cui si regge la cristiana fede, in grazia a Dio e al mondo con onore, po’ che dal ciel spira in voi merzede e carità, donde il ciel si guadagna, come per l ’opre vostre chiar si vede, Roma, Fiorenza e ’1 mondo non ristagna, fanno fiorir di quel celeste dono
tr a
i m ig lio r i d i
27 30
33 36
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ch’usa vostra virtù con possa magna. L’alma vostra gentil, che ’n abandono già mette questa vita temporale, per impetrar d ’ogni fallir perdono, tanto supernamente in alto sale ch’assai miseri tratti ha già di pena, per quel celeste Amor che tutto vale. Per voi si vede rotta la catena de’ poveri tapini abandonati, con dare a molti refrigerio e lena, per modo tal che son sì divulgati gli effetti delle vostre caritate che chi più sa più ne sono avisati. O fiume e mar di somma veritate al seggio prencipal de’ veri eletti per grazia dare a chi l’ha meritate; o vaso di divini e veri effetti, ch’escon del giusto petto del Signore, dov’esso ha volti tutti e suoi diletti; o gloria principale, o sommo onore, disprezzator delle cose terrene, per far frutto di sé nel d el maggiore, divina grazia mai al secol viene, se non promessa dal voler d’iddio, che tutto sa, conosce, vede e iene! V o’ dunche acceso in quel caldo disio, che fa nascere e frutti e fiori etterni, ch’amono el cielo, e ’1 mondo hanno in oblio, spira da’ vostri sin gulari.............. divina carità, grazia e amore, con gloriosi effetti alti e superni. Grida la fama e voi nomina el fiore di quanti mai portonno capei rosso con grazia degna e singulare onore. N é sprimer col mio basso ingegno posso quel che di voi la plebe volgar dice; il perché a parlarvi mi son mosso. O spirito gentile, alto e felice, di suppreme virtù tanto dotato che detto siete l’unica finice, per opre giuste a quel grado aspettato, che si diclina principal Pastore di tre sante corone incoronato, virtù per giusta fama mai non more, ma se m p re................. fronde, che spira in cielo come [in terra] odore!
75 78 81
85
La vostra previdenza n o n ..................... il nome vostro el q u a l................. in cima di g ra z ia .....................vola el popolo t u t t o .......................... prima grida la g lo r ia ........................ e sì T e sa lta ............................ E t a n t o ...................................... che ’n p ia g g e ........................ n'ha sì r ip ie n o ............................ Però vi priego, che D io vi contenti, Monsignor mio, en grazia m’accitiate, che siete el fior di tutti altri eccellenti, che vi mantenga in gran felicitate.
II* FN6
3 6 9 12 15 18 21 24
O santissima luce eterna e degna, figliuola e madre e sempiterna sposa di quello immenso Iddio che sempre regna, felicissima speme e groliosa di chi ti chiama e chiede di buon core, e d ’infinite grazie facund[i]osa, verginissima Madre, in cui Famore etterno resunto, ch’era cangiato pel padre primo e per suo grand’errore, tu se’ quel vivo lampo immaculato che ci apristi del ciel la santa via, e chi ben t’ama è sol da te salvato! Madre di Cristo, vergine Maria, mar di santa umiltà e di mercede e nostra avocatrice tutta via, dinanzi al tuo Figliuol, che tutto vede, Iddio figliuol di Dio puro e sereno, che quel che tu dimandi a te concede, per tua santa mercè non venir meno a me, tuo servo indegno, che ti chiamo, aflitto sì che ’1 pianger non rafreno, dolcissima regina! E quel ch’i’ bramo è che tu prieghi il tuo Figliuol diletto mi levi l ’aspra pena e Tesser gramo. Io ho enfiata la gola e duoimi il petto; o dolce Madre, più posso parlare,
27
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se io non ho tuo poter benedetto. Priego te che m’aiuti salvare l ’anima e ’1 corpo ad ogni mio bisogno e facci dal demon sempre snodare in questa brieve vita ch’è un sogno.
III* FN6 Clementissima possa alta e sovrana, sapienza terresta al mondo sola, di cui la fama tanto eccelso vola ch’ogn’altra suta insino a or par vana, la tua benignità degna ed umana fa de’ tuo’ fatti parlamento e scola, tal che per l ’universo far parola di te conviene ogni parte lontana. Per te l’onor delle conclusioni di senno, di saper e di boutade fa triunfar di senno i compagnoni. Per che dal terzo ciel sopra a te cada d ’arme e di forza e poter le magioni per piani e poggi e per valloni e strade. Tu tieni in degnitade Palma Fiorenza e la sua santa chioma, come fé Scipio Emilio all’alta Roma.
IV **
FN6 - G E1 bel pianeta, onde Venere spira amor ch’è ’n cor mortai, lamenta e dole, e piange Apollo e turba il vivo sole, quantunche il corso suo scaldando gira. Piange la tramontana e si martira stella che l ’aurora dir si sòie, e qual più viva luce ama e più vole pianger per doglia e di pianger disira. E duolsi in terra ogni animai terreno, e fiori e fronde e erbe e lucide acque, * S o n etto d i Francesco S cam brilla in com en dazion e d e l C ive la orafo. ** S o n etto d i Francesco S cam brilla p e r la m o rte d i G io v a n n i d i C osim o d e } M e d ici - 1463 m en sis n o vem bris.
e sol s’allegra il sommo d el sereno di Giovanni gentil, ch’ai mondo nacque per venir presto fra i viventi meno e per salire in ciel, come a Dio piacque.
V * Vat1 O cittadin della città del Fiore, ch’a san Giovanni per vicar venite, per dio, notate ben e gli occhi aprite al giudicar colla mente e col core! Qui son le furie, gli strazi e ’1 terrore, raporti, torti, tire, gare e lite, gli odi, gli ’mpacci e le mortai ferite e l ’ingiust’ire, el correre e ’1 furore. Qui son tormenti, l ’urla, colla e guai, qui si dichiara e ladri e gli assassini, qui si dan frutte colme e pien di lai. E però, spirti supremi e divini ch’avete il pondo del governo assai, deh, fate sì che ’1 diavol non v ’acrini! E paesi e confini nettate ben d ’ogni fallo e tristizia, usando il braccio di santa giustizia. VI Vat1 - FN6 (ad.) Fu Adam padre primo da Foiano vinto, e perdenne ogni senno e ragione, e vinto da Foian fu Salamone, più ch’altro saggio d ’intelletto umano. Per questo dolce e buon Foian veggiamo eh’Ercole tenne il fuso a chi ’nnaspone, e gittò in terra il palazzo Sansone, da Foian vinto, come chiar leggiamo. Per Foiano ebbe Aristotile sella, e per Foiano entrò Vergilio in cesta, come Pirramo al moro e Tisbe bella. Però le donne di Foian protesta, tirate sol dall’amorosa stella.
A te, o don Ferrando, è manifesta che spezzarti la testa in campo ti potrai per tuo martoro, ché le donne Foian voglion per loro. V II Vat1 - M12 (Burchiello) A voi, superfilice, alta e prudente serena magistà, re d'Aragona, le donne di Foian parla e ragiona, più ch’altre acostumate e reverente; e dicon che Foian principalmente voglion per lor, ché sì dolce le sprona che madonna Lucrezia n'acagiona, se vostra nobiltà lor non consente. E dicon c'hanno scritto a don Ferrando e Foian dolcemente dimandato in libertà, né altro van cercando. Lu' non consente, ond'ell'hanno voltato a farne, giusto rege, a voi dimando, che siete da Foian e siete stato. Se da voi fie negato, le donne di Foian chiaro si vede, ma Lucrezia in Foian v'arà merzede.
Vili Vat1 Donne mie, festeggiate or di Foiano, ch’è tuttor vostro e fuor di compromesso; ora riarete ogni danno e 'nteresso del tempo perso, e chiaro no' '1 veggiàno. C’è de’ Peruzzi il mio mastro Attaviano, successor vostro; avetegli concesso che porti al re d'Aragona il processo che don Ferrando sei trastulli a mano, pensando a tanti dotti e onorati del tempo c’hanno perso a quel castello, che fortemente e' ne sono biasmati, però che frate Puccio e Gherardello, stando per Foiano in sugli aguati, sì v'han perduto lo stato e '1 cervello. I' ho raso il mantello sol per Foian riauto, a voi offerto; tenetel, donne, or chiuso e non aperto.
Vat1 - M15 - FN6 - L8 - Lr1 Chi vuol di ladroncelli una chiassata cerchi da sant’Ambrogio in quelle vie e troveravvi birri, messi e spie da ’mpiccarne ogni mese una funata; traditor, ladri e gente miterata, e ragazzame e trecche di ginie, che sempre piangon per le carestie, che non hanno da fare una schiacciata; uomini sanza orecchi e mozze mani, assassin, soddomiti e barattieri, ch’alle volte s’uccidon come cani; mettitor di ma’ dadi e tavolieri, mangiando cibi disusati e strani, cioncator cogli orciuol sanza bicchieri. Rettor, fate pensieri, po’ che vivono al mondo come diavoli, di farne una piantata come cavoli!
X Vat1 Incliti, sapienti signor sei, protettor saggi di mercatantia, mi racomando a vostra signoria con mille volte miserere mei. Questo sonetto alle sette ore fei, piangendo e sospirando tutta via, vedendomi oppressar da tal gi[n ia ], e qua* son messi peggio che gfiud ei]. E mi mandaron circa a otto me . . . con una b o lla ............................... aprilla p r e s to ...............................
.
E fanno una barata d’un minacciar, che pur questo ho disc [aro]; car signor sei, poneteci riparo.
Vat1 Elle van col suggello alla spagnuola, queste trombette sozze carovane, asine, troie, rozze e belle trane, che fanno della chiesa piazza e scuola. E non fu mai sì ’ngesta una cagnuola, quanto son ellon perfide puttane, bulivaccacce, trentine e ruffiane, c’hanno un braccio e più di caliamola. Micce, gaglioffe, vecchie ratorsate, pecciute, sculatacce e fastidiose, porche, assassine, rotte e fracassate, voi, buggeresse prette e maliose, che sempre all’ora e tempi vo’ scoccate con punture aspre, acerbe e velenose, cervelli in )acce ritrose, Satanas ha un caviglio d’un mulo di fuoco, sol per cacciarvelo in culo. XII Vat1 Francesco, po’ ch’i’ fu’ essiliato di casa vostra contra ogni ragione e perché carco adosso mi si pone di quel fatto, ond’io son sanza peccato, cioè [di quel] sonetto sederato ..............non è mie condizione ..............Iddio n ’è testimone ..............tre donne . . . pensato ..............a vostra sposa ..............signorile ..............qual lei nato gentile ..............andar la fa sdegnosa ..............al ver le mostri e facci umile.
XIII Vat1 Fuora ghinasse a suon di campanelle, che la rasegna è giunta; orsù sbucate, che una per un’altra dimostrate.
di Dio nimiche e del diavol sorelle! Mulacchie, false, trecche e berghinelle, vizze, grinzose, ruvide e sfacciate, vituperose, e non vi vergognate: mostrate e forachiassi e le mammelle. Streghe lisciarde, scimmie rincazzite, mocceche, taccolette e superchine, i ’ vi desterò, se voi dormite, cessarne, stemperate e serpentine, attizzator d ’infamie, d’odi e lite, d’affanni, di tormenti e di rovine. E ’ verrà pur quel fine che dello ’nferno uscirà Cappelluccio, che tutte v ’arderà ’n un capannuccio.
XIV Vat1 Scuandrina mio, se cerchi di tòr moglie, vattene al Radda e al mio Anton Pollani, Nicolò Lachi, che n ’ha per le mani, ch’assai ne ’mbratta, e vie men ne scioglie. Tu l ’hai a pascer di sogni, e non di voglie, gnocchio di fanfaluche intra’ pantani, che ’1 sanno gli stranieri e ’ paesani che Tarai grossa, e sarà pien di doglia. Sandro Barbigi e quel del p o ................. ch’esce per pelo ed è tira to re................. che sì permuta s p e s [ s o ] ................. cante ela rg h ..................... ti voglion d a r ........................ e credi al t u o ........................ tu n o n ........................ fatti le g a r ............................... che n e l ............................
XV Vat1 Strolago mio, over filosofante, che studi in ciel per voltare il pianeta, per seguir la virtù del geometa che studiò in sogni ed ebbe virtù tante, sa’mi tu dir dove posò le piante
il primo bruco dond’uscì mai seta, o qual fu il primo legno, che ’n Gaeta Zeffir condusse e levò di levante? O sa’mi dir se ’n acqua zappatore fa nascer frutto d ’aire in Soria, ch’aleghi e denti a Tuoni che segue Amore; o sa’mi dir se la filosofia facessi per seder venir le more, per studiare al lume dell’ombria? O sai quel che si sia quel ch’esce fuor del corpo al miccerello, che ragghia e mena e fottesi il cervello?
XVI R23
Savina mio, tu sai ch’è ’1 mondo errante, fallace, falso, pessimo e ’ngannese; sett’anni stetti con lui per le spese come famiglio, servo, schiavo e fante. Apersi gli occhi e feci uno squadrante, ch’ora per ora vivo e vanne il mese; non già ch’i’ sia ritornato in paese, ch’i’ raffreni le lingue tutte quante. Misura i passi e su vi pensa un poco colPintelletto saldo e colla mente, e lèvati con vincita dal giuoco. Guarda la stoppa dal caldo cocente, che una favilluzza fa gran fuoco; non esser molle, né tardo, né lente. E fa’ che ti stia a mente a viver con onore e masserizia, e manterrai la roba e l ’amicizia.
R is p o s ta p e r B u r g u tto L ’a m ic o tu o , S c a m b r illa , è s ì ig n o r a n te c h ’a v e n d o c e r ti d a n a r i e a rn e s e c o n o g n u n c e rc a fa r b r ig a e c o n te s e , m a s s im e c o n tr o a q u e ’ d e l l ’a m o s ta n te . M a la F o r tu n a , m o b il e e v o lt a n t e , tie n s e m p r e in m o d o le s u e r a g n a te le c h e c h i v i in c a p p a n o n p u ò fa r d if e s e , a n z i lo fa r u ir ’n u n b r i e v e s ta n te .
E c o m e i l s o l v a tr a s m u ta n d o lo c o , c o s ì l i s t a t i d e ll'in f im a g e n te p e r m u ta s o l c o le i, c h 'i' o ra in v o c o . M a le c o s e c a d u c h e e tr a s p a r e n te p e r is c o n , c o m e a l p a s s o a M a la m o c o t a lo r l e b a r c h e p e r f ie r o a c c id e n te . E c o s ì fa s o v e n t e la r o b a c h e s 'a c q u is ta c o n t r is tiz ia , c h e m a n c a t o s t o p e r c h é v u o l g iu s tiz ia .
R is p o s ta p e r F ra n c e sc o S c a m b r illa
Tu se’, Burgutto, un po’ troppo arogante col tuo parlar sì aspido e burchiese di chi tu di’; è verde e cortese, magnanimo, benigno, alto e galante. Ma se leggessi o il Petrarca o Dante, e fra gli studi usassi o per le chiese, ti leveresti da noie e contese di lingue acute, pugnente e rotante; e non farai com’uom vile e da poco di dir mal d’altri, e tienti sapiente, come fa quel eh’è fallace e bizzoco. Tu se’ di questo e d’altro discredente; parloti chiar com’amico, e non roco; so che ti fia a bastanza e sofficiente. Or resta paziente; vissuto è bene insin da puerizia, di gentil sangue e nat’è di milizia.
XVII GV - Ambr H a’ tu visto Pezzon, che van capegli? En dosso porta un mantel pagonazzo, e per Firenze va gridando el pazzo: « r l ’amerò a dispetto de’ frategli; quella signora mia cogli occhi belli adesso i ’ l ’amerò più ». Per sollazzo la plebe gli fa dietro un gran rombazzo, sonando panche, bacini e sportelli. E ’ s’ha fatto un giubbon di chermisille; deh, non vi fate beffe della fava, che di notte vi sta infino alle squille,
più per amor che per la voglia prava; e delle dame e* n’ha ben più di mille fra le donne e le fante e una ischiava. Ma chi el cuor gli cava sì l ’ha pregato più volte che balli con quelle zanche di caci cavalli.
XVIII * Ambr Volete voi venire, o compagnoni, a vicitar quel nobil Salvalaglio, c’ha fiorin tanti che par un barbaglio, oro e monete di varie ragioni? E ha scudieri e sergenti e baroni, che ciascheduno ha d’un signor l ’agguaglio, e lui istà in sedia e in petto ha un fermaglio, che vai ducati ben duo milioni. Tarteri, ischiavi ghezzi e ballachini sono a suo guardia e altra gente istrana, coperti di cuo’ cotto e accia’ fini; e hagli posti dintorno alla tana ov’è ’1 tesoro: l ’or, perle e fiorini, e quai gli ha dato la fata Morgana. Tutta la fé cristiana insieme se n ’accorda e ne bisbiglia, sol per veder questa gran maraviglia.
XIX M13 Per mirabile effetto alma terrena non vidde mai in pueril figura vera onestà in Dio celeste e pura, sopra ogni esser mortai luce serena, quanto è questa novella Pulisena, che mostra cose in sé sopra natura, sì che per fama, quanto ’1 secol dura, Lucrezia, Giulia avanza e anco Elèna.
S o n etto d i Salvalaglio fa tto p e r lo Scam brilla.
Poi che ’1 liuto tanto gentil tiene in man sonando, sì che Isotta mai in Camellotto l ’arpa mai non iene, duolsene Orfeo con lenti e lunghi guai, che ’1 tempo per costei tòr vede a sene, che ’n d el sopr’ogni Musa sprende rai.
XX M15 Mal non fu mai che qualche ben non fusse, e tiene ogni rovescio il suo diritto, e tale spesso la fa ora al gitto che poco inanzi mai ben la condusse. Tal voll’ir basso ch’alto si ridusse, e tal con grida il suo nimico vitto ha piatà mosso; e tal si corca afflitto, cui lieto giorno poi fortuna adusse. Tal andar scalzo su per siepe veggio che spin noi punge, e tal sta sempre in risse, che ne guadagna vita e ricco seggio. Ma io, nimico al ciel (ch’or pur s’aprisse!) ho d’un mal mille e sempre segue il peggio; e or volesse Iddio ch’un sol mentisse!
XXI M15 Cerco, pensando, quegli antichi lutti degli spirti famosi e de’ gran viri, somerso el fior degli anni ne’ martiri e crudelmente da Fortuna strutti. E quando più gli acolgo insieme tutti, dice ’1 cor: « Se drittamente miri, non sembra pure un sol de’ miei sospiri, quand’ebbi mai più pace agli occhi asciutti ». Aliar conosco quanto mal s’intende nostro cammino e schifasi lo ’ntoppo, che ne’ tempi più lieti ognor ci offende; ch’andai correndo già di gran gualoppo, or son condotto ove ’1 buon pan si vende e hami giunto un carro col bue zoppo.
Ogn’uomo ha qualche tempo di riposo, qualche dì pace, qualch’ora tranquilla, qualche notte quieta in qualche villa, o qualche vento al suo camin gioioso; ma per me, lasso, ognindì vien ritroso, ogni alba infosca e ogni suon di squilla m ’indovina sospiri; ogni favilla m’accende un foco al cor, che ’1 fa doglioso. Ogn’uom de’ suoi pensier qualcuno adempie, qualcuna voglia delle mille sazia, sicché non sempre in mala parte dura. Ma io ho sempre da bagnar le tempie, e ’1 d el de’ mie’ martir mai non si sazia: in tale stella nacqui e ’n tal sciagura!
XXIII M15 Occhi mie’ lassi, che di pianto in pianto, poi che voi fusti del bel viso privi, correr fate di voi ben mille rivi, né v ’accorgete ancor, ciechi, del quanto, ponete mente al cor, ch’è giunto a tanto ch’ogni dolce pensiero, ogni atti divi, ugualmente gli son venuti a schivi e cerca uscir del suo naturai manto! Per certo voi dovresti pure ornai consolarvi con seco e star quieti, e prender del mal vostro quel che piace; ché non sempre lontano e dolci rai a voi saranno; e’ saranvi ancor lieti, e piaceràvi allor quel che vi spiace. XXIV M15 Cor mio doglioso, ov’è la vostra fida? ov’è la mia compagna? ov’è ’1 mio duce? ove son gli occhi, che con chiara luce sempre mi fum o specchio e buona guida?
O v’è quella piatà, ch’a nostre strida già fu sì larga? Or saprà’ chi riluce l ’alta bellezza, or dove si riduce, o in che parte il mio signor s’anida. Tu sai che questo tempo è d’ambo voi, com’io gli offersi già con tuo licenza, quando prima ti piacque i suo’ be’ rai. Lei dunque cerca e ’ngegnati, se puoi, condurla teco, ché, tornando senza, non sperar pure in casa entrar più mai. XXV M15 Provedi, Amore, or che madonna viene, se irata fussi del buon varco uscita, che sia ver me qual fu alla partita, e ancor m’ami, ancor mi voglia bene. D ille ch’ancora in me avie la spene e il desir, ch’è sol di lei l’aita, ch’i’ non spero troncar, per fuggir vita, questo giogo dal cor, che stretto tene. E, se dicesse ch’io fussi bugiardo, per esser stato dal bel viso lunge più che l ’usato mio de’ passat’anni, mostrale il foco e di’ che sempre io ardo; e di sì dolce strale la repunge che torni col pensier non qual co’ panni. XXVI M 15 Quegli occhi, per cui già così fort’arsi, steso hanno l’arco e chiuso lor faretra, e per isdegno crudel fatti di petra, dove di foco pria solien farsi. Se già fum o piatosi, or fatti scarsi son del lor lume, che da me s’aretra; onde per grave doglia el cor ne ’nvetra e ben mille sospiri o più n ’ho sparsi. Così s’afanna l ’alma col pensiero or per molto disio, or per dispetto dell’infido voler che mi fa guerra.
E ben ch’i’ gissi già lieto e altero per la promessa fé, or mi martira l’altrui mal dir più che ’1 mio difetto. XXVII M15 Domine, il vescovado ier mattina la Magra per di certo ti ritolse, e de’ tuo’ modi assai ella si dolse, dicendo che non se’ della cucina; e più ch'ai cui ti pende una decina di spanne di budello, che ier s’avolse al piè a uno e mai non si disciolse, ché lo percosse a terra a testa china. Sicché provedi, caro mio prelato, nuova cappella (che) ti paghi lo scotto, ch’a tuo campana ornai ciascuno è sordo.
Or piglia il mio ricordo: se vuoi guarir del mal del zufolacchio lasc’ire il Cicca e attienti al Tacchio. XXVIII M15 Stenda l ’arco Antropos e con lei morda la furia di Carid, anzi disperda tuo puzzolente sangue, o brutta terga, stolta, lent’e oziosa, vile e lorda; bestia, ver cui non pur piata sia sorda, ma, s’ancor tien Moises l ’antica verga, con essa fra gli Egizi ti somerga nuda, ladra, superba, sciabbia, ingorda; bordelliera ifl baldracco over San Salvo, ordisca il gran tedesco tale un cappio che sia, purgando te, degli altri essempio. E non venga Balbian più bianco e calvo, ma presto spenga il seme del Malippio, sanza ’1 buon consiglierch’ordinò ’1 tempio, poi che con crudo scempio cerchi fama infra noi, sciancato mulo, per bocca, dadi, male mani e culo.
Perda ciascuna madre el caro figlio, e d’ogni seme fiere e serpe naschi, e tanto il sangue l ’un dell’altro paschi che ’n vista tenga il mar sempre vermiglio; venga spin velenoso ciascun giglio, el sol nimico al ciel pien d ’ombra caschi e non sia gioco ove piata s’intaschi, né sanza gelosia di gran periglio; non si sent’altro che lamenti e doglia, strida, pianti, sospiri, ira o isdegno, fuoco, forza, rapina, (ira), odio e rabbia; e chi veste mortai terrena spoglia venga di crudeltà sì forte pregno che sol dell’altrui mal vergogna s’abbia. Pien di marcia e di scabbia fugga ciascun da chi gli può dar pace, poi che fuggendo el mio signor mi sface.
XXX M15 Fattor, tien qui quarantatrè pilossi, va’ comprarmi se’ rocchi di salciccia e to’la cotta, che non sia di miccia, perch’io ho denti tutti rotti e scossi. E se ancora del pan bianco fossi, d i’ al Cibacca te ne dia una piccia, che non sia la corteccia punto arsiccia, e guarda (che) non t’apicchi di que’ grossi. Sappi da lui chi miglior bianco spilla, comprand’un fiasco (che) sia di buon magliuolo, tenuto bene e nato in buona villa. Poi passa el Giglio e’ Lapaccini al volo, vanne in mercato ove vende lo Squilla, e sì mi compra un cacio raviggiuolo. Non guardar ch’i ’ sia solo; va’, torna presto, ché di fame io casco e soprattutto abbimi cura al fiasco.
Asino mio, i ’ son condotto a tale eh’un piccol favillar d un ferro vecchio mi farebbe fuggir di qui a Fucecchio, bench’io non tenga in casa l ’orinale. Io ho duo capi e l ’uno e -¡’altro ha male, e posso ben guardargli di sottecchio, che, quanto più di là, di qua gli specchio, se l ’uno è rotto e l ’altro poco vale. E per sedere io ho fiancato un’anca; non vo’ che tu mi creda ella mi crocchi, ch’i ’ non so s ’ell’è ritta o s’ell’è manca. I* mi sto ’n casa come capi sciocchi, mangiando pan con latte, e mona Bianca si mangia pien d’anguille e di ranocchi. Pensa, se credi (che) fiocchi un erpice forato, un occhio bieco sì mi fa guerra e liti ancor con seco.
XXXII M 15 Barba, se Fruosin tuo doman ci valica, di’ (che) non si tenga più sì gran maestro, ché non saprebbe guarire un canestro tinto di robbia o di calcina galica. Tu sai che l ’altra sera la ceffalica trovare non mi seppe al pugno destro; ond’io mi cencischio com’un pedestro uscito della gran zuffa tesalica. E ’ vien co’ suoi ferruzzi e svelte barbe e non saprebbe formare una cura: ch’i ’ gliel ficcassi dalle rieto parte! Digli ’n malor ch’attendi a rader barbe e non al medicar, ch’è arte oscura e non ne sa chi n ’ha ben pien le carte. Digli che guasta l ’arte e, benché venga a medicar col mulo, se ci ritorna, i ’ gli mosterò il culo.
Batista, questo ranno è troppo caldo; t’usa del freddo presto, e ’ par tu dorma. Certo, se io avessi istaman l ’orma, i ’ ti farei gir ratto o ’ tu stai saldo. Ahimè, tu vorrai esser l ’araldo del Geta e del Biria in ogni forma, esser di loro dolorosa torma, lento, pigro, da poco e gran ribaldo! Ma fa’ pur pian, perché, faccendo presto, Antonio qui se ne potre’ crucciare, che tanto t’ama quanto se’ piggiore. Ma io tei vo’ pur dire, or ch’i ’ son desto: costor ti fanno torto a non ti fare di tutti gl’infingardi imperatore. Ascolta: io ho dolore. Contale prima e, quando arai contato, i ’ ti vo’ dir quando sarai impiccato. XXXIV M15 Maestro 1 Antonio qui col pettinarmi spesso mi fa succiar più di quatr’uova, che, quando incaprestati i cape’ truova, sembra una lupa che voglia sbranarmi. I ’ posso ben di qua, di là chinarmi, che par che cardi lana; e ’ fa tal pruova che, se non che co’ pazzi nulla giova, arei gridato un tratto: « A ll’armi! a l ’armi! » S’i’ dico: « Deh, fa’ piano », e ’ non m ’intende, anzi fa forte; ond’io mi chiugo sotto come la starna, ch’a spander s’arrende. Egli si ciancia, e io forte borbotto che nulla costa chi del suo non spende: a questo modo pago doppio (lo) scotto. E ’ m’ha sì ’1 capo rotto col maladetto pettinar ritroso ch’i’ porto invidia di qualunque è toso. 1 Cod. S cam brilla. Evidentemente il nome dell’autore nella fonte di M15 si tro vava scritto pressoché in linea con il primo verso, seguito dall’abbreviazione di M aestro. Di qui l’equivoco del copista.
Antonio, che dia voi sarà questo? Deh, fa’ pur piano, e’ par tu pettin stoppa; se tu non credi (che) i ’ paghi, tien la cioppa pegno infin ch’io ti dia poi il resto. Se non bassotto, i’ ti vo* dar più il sesto, pur che tu non mi peli più la coppa, che l ’altra sera una ribalda zoppa mi fece un buco col fioccar d’un testo. Non rider, ch’alle guagnele (che) più d’un anno starò ch’i’ non verrò a tuo bottega, s’i ’ dovess’ire a radermi dal Barba. E ’ ti par sempre avere a far com’anno; sappi chi una volta me la frega non può giucar poi meco a bella barba. L’opera non mi garba, ch’i’ venni qui per levarmi e capelli: tu m’hai lavato, e or sì me li svelli.
XXXVI M 15 Quel frate che la tua gran salimbacca ruppe l ’altrier con que’ cuochi e bricconi, che t’apiccomo al cui tanti coglioni che mai si vide la più ricca tacca, manda a saper se tu se’ anco stracca di farti fot ter o di poppar garzoni, ché dice che di cazzi fai bocconi maggior che que’ di fegato in baldracca. Se tu di’ no, e’ ti conforta e dice c’han tolti tutti al portinaio le chiavi, per venire una notte a starsi teco. Deh, quanto fia quel tuo conno felice, (che) ti fotteran Bretton, Tedeschi e Schiavi, Ungar, Bùemi e del paese greco. Nollo tener lor bieco, ma raco’ l’olio e farai tutto un anno lume a color che poi ti foneranno.
Currado mio, se tu quinci ti sbratti, va’, truova el Tacchio nostro compagnone, ch’or Io lasciai per sette far ¡ione là agli Strozzi, dove gastiga i matti. Convienci con Isacche mutar patti, ché non patisca che, com’un ghiottone, egli abbia a ire al vespro in capperone e tanta pena dar de’ suo’ ma’ fatti. E s’tu noi truovi là dov’io t’accenno, va’ in Palagio, ché lo vedrai fra cento spade e brocchieri allettar vacche al fuoco. E perch’egli ebbe sempre poco senno, tu lo vedrai stare fermo e lento a mille quiv’intorno far buon giuoco. Vedi che, come il cuoco c’ha rotto la scodella e la pignatta, lo vedrai stare fresco che si gratta.
XXXVIII M 15 Barba, se ’1 lion mio tu non guarisce, i’ ti prometto che cotesta barba i’ te la sveglierò, come si sbarba novella pianta quando non fiorisce. Che vergogna è la tua! Con pezze e strisce or sciogli, or leghi, or tagli, or bagni, or scialba; ornai tuo medicar più non mi garba, anzi a mirar te par che mi scompisce. Ma va’, ch’i ’ t’imprometto, s’io guarisco, empierti il zufolacchio di spinaci e la cogliaccia tua piena di visco, e ’n sulle chiappe poi darti ta’ baci, co’ quali el fianco a l 1 mio ronzin colpisco, ch’allora imparerai guarir de’ caci. Non bisogna tu sbraci con erbe, impiastri, con ferruzzi e foco, ch’i’ ti conosco e so (che) tu vali poco. 1 Cod. d e l
O teste bugie, o mercennai sciocchi, o ciarlatori al vento, o femminelle, o mangiator di capi e di mascelle, o nidiata di matti e di balocchi, o putrida fossaocia di ranocchi, o portator di cianee e di novelle, o giucator di cioppe e di gonnelle, aspettatevi pur che ’1 verno tocchi! O canaglia da broda ben condita, o tirator di coregge e rutti, o gente fuor d’ogni buon modo uscita, gaglioffi, porci, ribaldacci brutti, la virtù vostra in Firenz’è chiarita, ch’a questo modo siete fatti tutti. Così fussi voi strutti, come per voi s’aspetta! E vostre pruove [è ] a fare al pome in sul terzo di nove.
XL Ar S o n e t t o d e llo S c a m b r illa f i o r e n tin o a C o m e d io V e n u t i
Quelle ire ingiuste e i dolci e acri sdegni del faretrato arder che mai ha posa, in cui consiste ogni forza amorosa, per tórre a chi più sa sapere e ’ngegni, fan di laldarlo i miei pensier sì ’ndegni che Talma mia non sa né vede cosa orribil, più fallace e perigliosa che seguir lui e’ suoi mendaci regni. Però, se le chiare onde d ’Elicona mai grate furti al prudente intelletto, sì come’ laura ti oggi ragiona, dimmi da lui qual forza l ’uman petto di so9pir caldi e piangere acagiona e molte noie fa sommo deletto.
R is p o s ta d i C o m e d io C o m o in s a ls e o n d e d e s a r m a ti le g n i d a o r r ib il p r o c e lla a tr a a n g o s c io sa , f l u t t u a t i c o n f o r z a d e s p e tt o s a , d e lo r s a lu te in c e r ti e d ’o r r o r p r e g n i, s e t r u o v a e l c o r d e c h i l ’in g iu s ti s e g n i s e q u e d ’A m o r , c h e s e m p r e t ie n n a sco sa su a g ra n f r a u d e e m a liz ia a lfin n o io sa . O f r a g il v ita , a c h e n e }n d u c i e s tr e g n i? A m o r , q u a n to a lcu n d o t t o in c iò s e r m o n a , a ltr o n o n è e h ’u n la s c iv o c o n c e t t o , c r e a to d ’o z io e d e fo r tu n a b o n a . E , s e v i v e s ic u r s e n z a s o s p e t t o , t r is tiz ia , n o ia e d o lo r i a b a n d o n a ; m a , s e d u b b i o h a, s ta f e r m o c o n d e s p e tt o .
ANTONIO SCAPUCCINI *
A n to n io
S c a p u c c in i d a F a b r i a n o f u
u n o d e i p iù
f a m o s i a r a ld i d e lla
S ig n o r ia d i S ie n a . C i h a la s c ia to a lc u n e p o e s ie r e lig io s e s ta m p a te g ià n e l 1511
e due
c a n zo n i s c r itte
in
nom e
d e lla
Lupa
( c io è S ie n a )
al L eon e
( F i r e n z e ) n e l l ’o c c a s io n e d e l l a l e g a t r a F i o r e n t i n i e S e n e s i , p e r c u i c o m p o s e il s o n e tto
« L a M a d r e d i C o l u i c h ’o g n i b e n
m ove »
S ig n o ria d i F ir e n z e A n to n io d i M e g lio .
I AshI*3*510I (ad.) - B
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I - La tua, come sorella trionfante, - Lupa, che l’alma Siena ha per insegna, ha voluto ch’io vegna a te, degli animai reai signore, e porgati per lei salute tante cordialmente e con vista benegna, quante dimora e regna stelle nel ciel, ch’a noi rendon splendore. E doppo questo con zelante amore come a fratello te ragiona e dice che mai fosti felice quanto al dì d ’oggi; e tal felicitade deriva sol da vera fedeltade. II - Questa fede veril, che tra voi giace, la mente di color che vi pon cura puoi veder ch’asicura Toscana, fior d ’Italia e del mondo. Questa fede è che fa vivere in pace di F. e S. le superbe mura e tutta lor congiura; ne vive ogn’omo splendido e giocondo
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di sé, considerati a tondo a tondo. De Funi verso è un simile gioiello, gentile, adorno e bello quanto Toscana? Or si mantenga il modo che *1 cultivato non diventi sodo. I l i - Perché dagli animai dal bosco uniti temuti e amati séte sempre suti, ché gagliardi e saputi vi tengon di prudenzia a lor maggiori, e per tal segno i ciel v'han stabiliti nel fior di quanti mai paesi induti fuor trovati o veduti di glorie, di triunfi e d'alti onori, or, poi che i fati, i pianeti e auguri prosper vi sono, non manchi da vui, ché vien da essemplo altrui e dessi ancor per ragion naturale, amar più '1 ben, quando è provato el male. IV - E chiunque ha punto di iudizio vero giudicarà che non è altro guerra se non mettere a terra libertà, pace, onore e coscienza, guastar di legge e far del bianco nero, preson de' boni e far liber chi erra, e per pian, monti e serra discacciar securtà con violenza, distruggimento d'umana semenza, tenere inculti tutti i suoi terrini e i fanciul piccolini limosinare e spersi con doglie atre, perder li patri e l'onor delle maire. V - Qual è colui ohe, considerando el male ispeso per guerra talento, ogni suo sentimento non operasse a pace conservare e poner guerra e i suoi sequaci in bando per poter viver securo e contento ed a l'ultimo stento el suo figliol del suo erede lasciare? Chi cerca guerra si brama ubligare a tal ch'essendo in pace l'ubedisoe. Chi voi guerra apetisce l'aiuto altrui, che tardi è, se pur véne: véne a cagion di far solo el suo bene. VI - Veduto che per pace un paradiso di contentezza in terra se possiede,
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e per guerra se vede profondar molto peggio eh’a l'inferno, la eccelsa Lupa con perfetto viso, perché come lei pace non gli crede, t'asicura e fa fede che mai da lei non mancarà in eterno; e così di Toscana el bel governo per pace s'ampliarà senza suspetto, usando questo effetto di carità per animo discreto: comunicar l ’un Fabro ogni secreto. — Canzon mia nova, fa’ che ’1 tuo ricordo vada a quel degno re Leon chiamato, come tu hai el mandato de la prefata Lupa, e digli el tutto. Dal qual, se non farà el suo senso sordo, tutto l ’esponer tuo serà notato e poi adoperato, perché secondo l'arbor nasce el frutto. E di* che dice un motto che, quando el corpo cade in dolor rei, el pò più presto aitar le man che i piei.
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I - Seneca in epistolis suis scrive che Tomo al tempo se dovria adattare, onde per tal parlare la Lupa eccelsa con amore e fede a te, Leon, degli animai che vive signore e re, che pòi fare e disfare, unico senza pare, manda salute; e poi dice che crede, per quanto da la lunge pensa e vede, che mai più fosse l'universa terra tutta commossa a guerra quanto '1 dì d'oggi. Onde, lettor verace, è da veder che sia guerra e che pace. II - Guerra è un far da D io seperazione ed a la coscienza el lume spinge, la carità destinge: [ed ] eccoti del mondo fatto inferno. Guerra discaccia giustizia e ragione e d'ogni mal pensier se veste e cinge;
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©n lei non se continge né per l’antiquo, né per il moderno altro che tutto mal, com’io discemo, esterminio di gente e di paese, e in ascoso e in palese, rubando robe d ’ogni qualitade; el pentimento è poi taglio di spade. I l i - Per essa guerra sempre se ragiona mecidi, tradimenti e inganni molti e sormontar li stolti, ghiotton lascivi e pien d’ogni follia; e chi può peggio fare ha la corona, e gli omin bon convien che stieno occulti e tengano sepulti i san consegli e di pace la via. Guerra non cerca altra mercanzia che ferri d’omicidio, se ben guarde, polvere da bombarde, veneno in saetame, e Taltro more, e sempre c’è suspetto dentro e fore. IV - Guerra le donne fa vedove e oscure e fa del seme uman perdere el frutto e quel paese tutto, là dove è guerra, sempre morì inculto, e pover fa le ricche creature, cercare el pane altrui con pianto e lutto, e fa el paese asciutto di donne caste e meretrice fulto. Guerra discaccia e leva il divin culto ed ogni mala pianta fa creare, disonesto parlare; lì non se serva nulla bona legge. Or questo può aspettar chi guerra ellegge. V - La pace d’ogni bon ben fa divizia e dove sta la pace lì sta Idio, onde che senza rio s’essalta sempre quel loco a più onore. Ivi triunfa ragione e iustizia, ivi s’adopra ciascuno atto pio, sì che da l ’a al fio de la pace cercar tutto è ’1 migliore. Là dove è pace, lì vive l ’amore, la carità, onestate e sacra vita; lì se trova adimpita la voluntà di chi el ben viver piace e morte de l ’iniqui e di fallace.
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VI - Veduto adunque la preditta Lupa el tempo tutto a guerra sullevato, ormai s’è consigliato di quanta orribiltà per guerra vene, e come ella è colei che ’1 mondo occùpa e fallo star diviso d ’ogni lato; e quello è sol beato che oggi senza guerra se man tene. Te manda a dir per l ’uno e Taltro bene di voi sol dui eh’a fuggir tal ruina la somma medicina è di secreti palesarsi spesso e fare ad altri quel che per se stesso. — Canzon mia, tu dirai quel che t’è ’mposto, e di reprension non dubitare, però che ’1 tuo parlare è d’un verace, sacro e bel subietto. Ed a chi intende non sera nascosto che col tuo detto crescerà Tamare d’un perfetto operare, sì che di pace manterrà Teffetto. Onde con tal diletto e gloria triunfale, alta e soprana crescerà in stato el giglio e la balzana.
FILIPPO SCARLATTI *
N a c q u e a F ir e n z e il 2 1
a p r ile
1 4 4 2 . S c a r s e n o t i z i e p o s s e d i a m o s u ll a
su a v ita ; fu d e i G o n fa lo n ie r i d i C o m p a g n ia e n e l 1 4 8 7 s p o s ò D ia n o r a d i T a d d e o d i L u c a U g o lin i. T r a il 1 4 6 7
e il 1 4 8 1
(m a
la m a g g i o r p a r t e d e i t e s t i f u
tr a s c r itta
i n t o r n o a lla p r i m a d a t a ) , l o S c a r l a t t i m i s e a s s i e m e u n a m p l i s s i m o z i b a l d o n e di
r im e
v o lg a r i,
V a ttu a le
i m p o r t a n z a p e r la p o e s i a
G in o r i
V e n tu r i
3.
Q u e s to
c o d ic e ,
di
c a p ita le
q u a t t r o c e n t e s c a , p r e s s o c h é s c o n o s c i u t o f i n o a lla
d e s c r iz io n e d e l F e rra r a , a m p lia ta p o i d a l P a s q u in i, è q u a s i t o ta l m e n te a u to g r a fo , a n c h e s e s i p o s s o n o r ic o n o s c e r e a ltr e u n d ic i m a n i, tr a le q u a li q u e lle d e l f r a t e l l o G i o v a n n i , e s t e n s o r e d e l V A m b r . C . 3 5 s u p ., e d i R i n i e r i B u o n a fé , fig lio p e tiz io n e
d i q u e l G io v a n n i B u o n a fé tr a s c r itto r e d e l S e n . I
d e l q u a le A n to n io
G u a z z a lo tr i c o m p o s e
il te r n a r io
IX
1 8 , su
« P e r g ra n
f o r z a d ’A m o r c o m m o s s o e s p i n t o » . L }a u t o r e t r a s c r i s s e n e l c o d i c e m o l t e s u e c o m p o s i z i o n i , a m o r o s e , c o m i c h e , d i c o r r i s p o n d e n z a , n o n n o t e a l F l a m i n i s e n o n in m i n i m a p a r t e ( s o l o q u e l l e c o n t e n u t e in M u
1 e l e t r e d i A m b r , in q u a n t o n o n c o n o s c e v a G V ) ,
le q u a li c o s titu is c o n o u n c a n z o n ie r e c o m p a tto e im p o r ta n tis s im o . P u r tr o p p o
e g li
u sava
a p p r o p r ia r s i
in d e b ita m e n te
di
m o lte
p o e s ie
a l t r u i , s i c c h é q u e s t a s u a s o r t a d i c l e p t o m a n i a m e t t e n o t e v o l m e n t e in d i f fic o ltà
lo
S c r iv e
g iu s ta m e n te
s tu d io s o
c h e in te n d a
p u b b lic a r n e
il
c a n z o n ie r e ,
tu tto
il F e rra r a : « C h i v o r r à , d u n q u e , s tu d ia r e
lo
in e d ito . S c a r la tti
p o e t a , d o v r à r i c o r r e r e a l c a s e ll a r i o g i u d i z i a r i o d e l l a R e p u b b l i c a d e l l e L e t te r e »
(p .
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N e lle p o e s ie a m o r o s e , c o m p o s te q u a s i t u t t e p e r u n a C a te r in a , a n c h e essa
d ile tta n te
d i p o e s ia ,
lo
S c a r la tti a d e r is c e
c o m p le ta m e n te
a lla
tr a d i
z io n e p e tr a r c h e s c a . A v o lt e p e r ò s e n e d is ta c c a , r ip r e n d e n d o p i u t t o s t o m o d i e fo r m u le
d i c e r ta
tr a d iz io n e
d i d e r iv a z io n e
a n g io lie r e s c a ;
è il ca so
del
b e l s o n e t t o X X X V I I I , n e l q u a l e s f o g a i l s u o c r u c c io d i n o n p o t e r v e d e r e V a m a ta p e r la s t r e t t a g u a r d ia f a t t a l e d a l l a m a d r e , e d e l C I I , i n c u i a m m o -
n i s c e la d o n n a a g o d e r e la g i o v i n e z z a p r i m a c h e p a s s i. I n o l t r e , a lla m a n i e r a d e i p o e t i p e r u g i n i d e l T r e c e n t o e d e l P e g o l o t t i , a n c h ' e g li c o m p o s e e q u i v o ch e p o e s ie a m o ro se p e r g io v in e tti ( L I , L I I ) . M o lto s c a d e n ti in v e c e s o n o le p o e s ie r e lig io s e , n e lle q u a li fa u n a b u s o s e m p r e fa s tid io s o e u r ta n te d e ll'a c r o s tic o
(L X III, L X X V ).
N o n v ' h a d u b b i o c h e i l m e g l i o d e l l a p r o d u z i o n e s c a r l a t t i a n a s t i a n e l le c o m p o s iz io n i b u r le s c h e . E c c o la n o t e v o l i s s i m a o t t a v a I I I , m a c c h i e t t a d ' u n a v e c c h ia v o g l i o s a , c h e r ic o r d a il so n . X X I V d e l B u r c h ie llo d e ll'e d . M e s s in a ; il so n . I V , v iv a c e r i t r a t t o d i u n a d o n n a s m a l i z i a t a e n a v i g a t a c h e i n g a n n a l 'i g n a r o s p o s o ; i l V II
g a r b a ta m e n te
c o n fo r ta ta
sch erzo so
su
u n a n o v e lla
sposa,
tim o r o s a
d e l m a r ito ,
ir o n ic a m e n te d a lle a m ic h e ; il C L V I , c a r ic a tu r a a p p e n a a b b o z
z a ta d i L u ig i P u lc i. D a l p o e t a b a r b i e r e r i p r e n d e la m a n i e r a p i ù p r o p r i a m e n t e « b u r c h i e l le s c a » ;
ecco
u n a s tr a v a g a n te p r o fe z ia
(X X )
e s o n e tti in te s s u ti d 'im m a
g in i a s s u r d e e b iz z a r r e a c c o z z a te s e n z a u n s e n s o lo g ic o , m a c o n u n c r e p itio v e r b a le c h e p e r ò
n o n r ie s c e m a i a d e g u a g lia r e q u e llo d e l m a e s tr o
(C V I,
CVII, CVIII). A n c h 'e g li, c o m e lo
S c a m b r illa , il B o n c ia n i, l'A r n o lf i, lo
c h ie llo e d a ltr i, c o m p o s e « v itu p e r ia (L V II, L V III, L IX , L X I) A lla
m a n ie r a
di
s te s s o
B u r
» v io l e n t i e v o lg a r i, a lc u n i d e ' q u a li
r a g g iu n g o n o u n a tr iv ia lità im p e n s a b ile .
G io v a n
M a tte o
di
M e g lio
sc r is s e
in o ltr e
g r a z io s e
b a l l a t e e c a n z o n e t t e d i g u s t o p o p o l a r e g g i a n t e ; n o t e v o l e la b a l l a t a L X , l u n g o e le n c o d i a r n e s i e o g g e t t i n e c e s s a r i p e r m e t t e r s u c a s a , n e l la q u a l e s c o n s ig l i a i l e t t o r i d a l p r e n d e r m o g lie ( è e v id e n te l'in flu s s o d e lla c a n z o n e tta d e l B u r c h ie llo
« F r a te i m io , n o n p ig lia r m o g lie » )
Né
d is d e g n a
un
a ltr o
g n o m ic o . E c c o i s o n e t t i I X
g en ere
p e c u lia r e
e la c a n z o n e a b a l l o C X X V . d e lla
p o e s ia
c o m ic a : q u e llo
e X C I I I s u ll a i n s t a b i l i t à d e l l a g l o r i a e d e i b e n i
te r r e n i; il X V I e il X C V s u i f a ls i a m ic i; il X L , n e l q u a le in v ita g li u o m in i ad
essere
c o n te n ti d e lla
p r o p r ia
c o n d iz io n e
e
a
non
fa re
del
m ondo
il
p a r a d i s o ; i l X L V I I I c o n t r o l ' i n g r a t i t u d i n e ; i l X L I X s u ll a n e c e s s i t à d i o p e r a r e b e n e i n q u e s t a v i t a ; i l L I V , in c u i i n v i t a i r i c c h i a f a r e l ' e l e m o s i n a se n z a o s te n ta z io n e ; il te r n a r io L X V I c o n tr o il v iz io d e l g iu o c o e il s o n e tto X C V I c o n tr o q u e llo d e l b e r e ; i l X C I I d o v e te n ta d i a m m a e s tr a r e u n in c a l l i t o p e c c a to r e ; il C X X I I c o n tr o i p ig r i; la f r o t t o la C L X I I I c o n tr o A m o r e e fin a lm e n te il C L X V I I , n e l q u a le i m o r t i a m m o n is c o n o i v i v i a p r e g a r e p e r l o r o e a d a g i r e r e t t a m e n t e in q u e s t a t e r r a .
A
v o lte
(X L V I)
r ic o rre
a fa v o le tte
s in g o la r is s im o
com e
il
P u c c i,
il
e a p o lo g h i, c o m e
ca so d i p o e s ia
s c r itta
B u r c h ie llo
e
n e l so n e tto
in
F ran cesco
VI
A lb e r ti
e nel C X X V III,
c o lla b o r a z io n e c o n a ltr i r im a to r i,
c io è M a e s tr o S im o n e e B a c c io d a M o n te G o n z i. T r a le c o m p o s iz io n i f a m ilia r i s i s e g n a la n o p a r tic o la r m e n te i s o n e tti: X L V II, dove V a iu to sfo g o
d e g li
c o n s ta ta a m a r a m e n te a m ic i
d e l p o e ta
e
c o m e , u n a v o lta
c a d u to
in
ven ga
m en o,
L X X X V III,
e sse rs i g io c a to
tu tti i su o i
d e l p r o s s im o
i n c a r c e r a to
per
d e b iti
del
dopo
tu tto
d i s g r a z ia ,
a v e r i « i n f i n o a } p a n n i » e X C I X , n e l q u a l e d e s c r i v e la s u a v i t a
tr is te e
s te n ta ta . G l i a u t o r i c h e s o n o a l la b a s e d e l l a c u l t u r a d e l l o S c a r l a t t i , o l t r e a lle tr e c o r o n e e a l B u r c h ie llo , s o n o b e r r im o
il S a v io z z o
( p e r le c o n so n a n z e d e l c e le
« C e r b e r o i n v o c o » e g l i c o m p o s e u n « C e r v e r o r i v o l t o a l lo s p i r i
t u a l e » ) , i l P u c c i ( a d i m i t a z i o n e d e l q u a l e s c r i s s e i s o n e t t i X L I I - X L V s u ll a c o r r u z i o n e d e g l i o r d i n i r e l i g i o s i ) , F a z i o d e g l i l i b e r t i ( s i v e d a la c o r o n a d i s o n e tti L X V I I - L X X I I I su i s e tte CXXXV
è in fa tti u n
a p p r o p r iò
del
p ia c im e n to in s e r ì tr e
per
fa rn e
v e r s i d e llo
A ltr a f o n te « S tu d io » n a io lo )
q u in to
vero
te r n a r io un
di
p o i però
s u n to
q u e s to
c a p ito lo
s te s s o
im p o r ta n te fu (c h e
v iz i c a p ita li) ,
e p r o p r io
p e r lu i lo Z a .
( i l s ir v e n te s e
« G ia r d in o » ;
p o e m e tto
r e s p o n s iv o
« G ia r d in o »
il B o n c ia n i
del ad
uno
d e lla
C o p iò
i n f a t t i la
m a e s tr o
si
a su o
C a te r in a ,
n el cap. X X X I V ,
a ttr ib u ì a d A n to n io
in o ltr e
m a n ip o la n d o lo
ed
vv.
1 0 0 -2 ).
« B uca
» e lo
b a r b ie r e d a
G ra
e n e r i p r e s e i d u e m o t i v i c e n tr a li : l a s a t i r a c o n t r o i m e d i c i i n e t t i
( m a n e llo Z a , c o m e è n o to , e s s a è e s te s a a n c h e a l e t t e r a ti , g iu d ic i e n o t a i ) , s v o l ta c o n g r a n d e e ffic a c ia s o p r a tt u tt o nei C X X X IX , L X X X V II,
C L IX
che
è da
e C L X II
e la
c o n s id e r a r e
n el b e l so n e tto L X X X I V b e r ta
d e i fa lliti,
p r e s e n te
e anche n e l son .
u n o d e i p r im i m a n if e s ti d e lla
C om pa
g n ia d e l l a G a z z a , i c u i s t a t u t i f u r o n o p u b b l i c a t i e s e m p l a r m e n t e d a l M o r pu rgo
e su
d im o s tr a to
cu i si veda che
V A p p e n d i c e a l v o i . I , n e l la q u a l e a b b i a m o
i m o tiv i d e lle
g a zze
e d i V a ld im a g r a
« p o e ta s o v r a n o d e lla c ittà d i F ir e n z e F ilip p o r im a to r i, n o tti
ma
S c a r la tti fu V u n ic o
(C L X X ).
in o ltr e
v e r a m e n te
in
so n o
però
p o s te r io r i al
» d i c ir c a s e s s a n t a n n i .
c o r r is p o n d e n z a
im p o r ta n te
tr a
p o e tic a
essi
è
con
n u m erosi
T o m m a so
B a ld i-
Non fu la capta Elèna al mondo ancora, ardirò questo dir, madre d’amore, pari in bellezze al mio caro signore, che non la patria sol, ma *1 mondo onora. Fiamme dagli occhi lampeggiar di fora e nel viso si mostra un tal colore eh’ a rose bianche e rosse to’ l ’onore, onde ’1 mio cor si strugge e si divora, che, s’abitassi in lei umanitade, di suo laulde direi non versi bassi, ma alti sì ch’ai ciel girebbe il sono. Ma, poi del mio martir non ha piatade, mi convien lamentar e dir che’ sassi, né si duri gli scogli del mar sono. II GV Questa aspra fiamma ch’è nel cor m’accende Amor sovente del suo ardente foco, che divampa e distrugge a poco a poco col suo splendor, che ’1 biondo Appollo offende; miserere de l ’alma, che s’arrende a voi, madonna, a l ’amoroso gioco, per trovar pasce e posa in qualche loco, quand’a voi piascerà, donna, s’intende. Ché, poi ch’io vidi vostra santa lusce, lagrime né sospir non valse ancora a mostrarmi piatosa una scintilla. Pur, poi che piasce ’ Amor ch’io viva e mora, eh’ a questo istremo punto mi condusce, sentissi almen d ’amor qualche favilla!
Ili GV Andandomi l’altrier pur solazzando lungo le mura per maninconia, e di mia fatti m’andavo pensando solo soletto e sanza compagnia, una vecchia m’apparve borbottando.
Or udirete istrana fantasia: quando mi vide da lunge salutommi, sfibiossi il petto e le poppe mostrommi. IV GV Una donna l’altrier tolse marito, benché non fussi di sua volontate, ma, per salvar me’ la suo castitate, subito prese a fare un bel partito. Tolse un fil; quel legosselo al dito grosso del piede con gran falsitate; po’ tessè un laccio con gran crudeltate sopra *1 suo giglio, ch’era già fiorito. E il marito, non sappiendo il fatto, misse la bestia subito in pastura; ella stese il piè, ché sapea l ’atto, e un cicognel per cotal misura (che) mediate saltò dentro adatto, che mai più ebbe cotanta sciagura. Con tal disaventura venne a Firenze a farsel procurare; dir non vi so s’ella nel vuol cavare. V GV A v e , de’ cielli imperadrisce santa, M a r ia , e santa nel divin cospetto, g r a z ia fecunda sanza alcun difetto, p ie n a di carità se’ tutta quanta! D o m in u s Domino chi di te si vanta te c o sarà chi farà puro e netto, b e n e d e t t o fu ’1 latte che del petto
tu gli porgesti, o groliosa santa. F r u ttu s portasti e non di men, Madonna, v e n tr is tu i rimanesti inviolata e sempre in castità ferma colonna. Però ti priego che sia mie ’vocata e ricuopri e mie’ vizi con tua gonna, acciò che l ’alma mia non sia dannata. Io so che ’nginocchiata tu stai al tuo Figliuolo e sempre isproni con umiltà, ch’a ciaschedun perdoni.
L’asino, quando e’ ragghia, pargli avere sì bella bosce e sì bella luchera che, quando egrincomincia alla ’mprimiera, tutto sforza la bosce al suo potere. E porta tanto affanno, per tenere questa suo bosce, ch’egli esce di schiera fra gli altri micci e va per la sentiera, correndo salta sue po’ là ’ndo’ pére. E quando e ’ vede che non può durare questa suo bosce ch’egli ha cominciato, ed e ’ si ferma e comincia a fiutare. E quand’egli è così un po’ restato, el muso inverso ’1 cielo egli ha a levare, mostrando a tutti d ’esser isdegnato. Chi non è svemorato gusti la chiosa e del miccio il valore: comincia bene e poi n’ha poco onore.
V II GV Donne, e ’ mi par che la donna novella istia con voi turbata, e sì ha il torto, considerando ch’ell’è giunta al porto che dovre’ star più chiara eh’una stella. Ciascuna di voi fu come ora ella; però vi priego le diate conforto e dite che niun ne fu mai morto, e torneralle alquanto la favella. E, s’ella sta con voi, donne, crucciata e non ardisce a dir nulla parola, o che farà quand’ella fia serrata col suo marito in cameretta sola? E, quando la fia un po’ rasicurata, le converrà rifar nuova carola. E per non istar sola, dite a lei: « Non temer, che noi l ’abbiam provato, che non c’è rischio niun dal nostro lato ».
Vili
Già era Appollo in tutto l ’universo spargenti e raggi sua alluminando, ed io dormendo mi venni destando, parendom’esser ’n un mare a traverso. E ’n quel punto senti’ cantare un verso con umil vosce, e me venne chiamando discendo: « I ’ vengo e non verrò mandando dov’è ’1 cor mio, che mel paria aver perso ». I ’ mi rivolsi a le piascevolezze di tal parlare e, rimirando fiso, non posso dir quant’io vidi bellezze d ’uno sprendido, angelico bel viso, ch’a quel vicin si fascèn tal chiarezze che paria rimirare in paradiso. Veggendomi conquiso, disse: « Sappi ch’io son per tòr molesta, ch’a te rinalzi il cuore in gaidio e ’n festa ».
IX GV Tu che ti truovi in istato felisce, avendo da tuo speme posta al mondo, quando tu orederrai esser giocondo, secondo che si truova, legge e disce, Colui che siede in sull’alta cornisce, veggendo il tuo pensier sì vagabondo, in una brevità manderà al fondo te, per mostrarti tuo stato infilisce. Dicono e savi ch’alile cose umane porre speranza è troppa gran pazzia, che quel ch’è oggi non sarà dominane * e quel che fia domman l ’altro non fia, perché son tutte transitive e vane. Dunque, perché ci diàn tal ricadia? Lieva tuo fantasia da questo mondo e abbi il cuore a Dio, ché morte vien quando se’ più giulìo.
Ovidio, Tulio e ’1 Dante fiorentino, se ¡’opre loro avessin fatto in prosa, non arien tratto spina della rosa, qual festi voi in un vulgar latino. Umano spirto siate, ma divino m’assembra fantasia maravigliosa; veduta l ’opra vostra virtudiosa, forzato son venire a capo chino, perché, considerata l’amicizia criata fra noi dua e ’1 grand’amore, non par ch’ai voi servir gusti avarizia. Quanto d ’amor discesti con valore, trattando quel che segue in pudicizia, e com’al fin po’ quello è mancatore! Conosco il mio errore: più giorni per trovarvi a san Simone venni per dirvi il fatto del Comune.
XI GV Ben mi par tempo, aspettando piatade, di doverla trovar dal mio signore e, se per mio difetto è tale errore, dunque chieggio perdon con umiltade. A me fie indegno, ma per caritade, per penitenzia i ’ ne porto dolore, sperando d ’atutare il grande ardore, po’ ch’io l ’ho perso per flagellitade. Resta che gnun non ci può riparare, se non tu sol, perché se’ mie speranza, e non bisogna a te ’1 modo insegnare. Tu non debbi guardare a mia ignoranza, ma solo una risposta debbi fare per riparare alla fatta mancanza; o l'h o perso a fidanza, /mettendo i mia tormenti in te per pasce. Or leggi il nome tuo ch’appresso ghiasce.
Né a vedove o popilli non farete in nessun modo mal, ma tutto bene, ché la Chiesa vi mostra scritte piene che ciò dispiasce a Dio, se leggerete. Però a questi tai non nooerete, che son d’affanni stretti con catene; quando in giudicio sentite lor pene, dunque di lor misericordia arete. « E se offenderete pur costoro, e ’ chiameranno me — ciò parla Iddio — ed io essaldirò la vosce loro. Non vogliate aspettare il furor mio, che sopra a voi verrà con gran martoro. Chi fa lor mal si guardi, vi dich’io. Io, che son giusto e pio, col mio coltel percuoto i casi mostri; farò orfani, donne, e figliuo’ vostri ».
XIII GV I ’ non credetti mai che tanto bene, tant’allegrezza o tanto amor perfetto, quant’era fra noi dua, e a tuo difetto giammai mancassi, ché da me non viene. O signor mio, da poi che piace a tene, questo gran fallo per me sia corretto; se mi comandi, mi fie gran diletto, perché tu sola mi può’ trar di pene. E s’ tu vivendo poi conoscerai chV ti son fedel servo sanza fallo, dunque tu poi mie morte piangerai. O chiara lusce più che chiar cristallo, che vuo’ tu far di me? che ne farai? vuo’lo tu morto o vivo il tuo vassallo? Omè, che sanza fallo tu lo conduci a morte, e hai il torto; però gnun servo buon pigli conforto.
S un tempo è guerra e poi ritorna pace, ed è per altri e non per tuo difetto, e lievati dal core ogni diletto, straziando te, e denti in contumace. Ma se conoscer vuoi l ’amor verace, qual esca la radisce del suo petto, fa’ che gli muova qualcosa in dispetto e sta’ a veder s ’ella ’1 comporta in pace. E se questo sarà verace amore, quanto peggio farai più t’amerà, per che più gli ferisci allora il core. Ma alcuna fiata e’ t’averrà che tu commetterai alcuno errore per ignoranza, e lei se n’avedrà e crucciata starà, per modo tal che tu viverai in pene e consaprai di che pur gli vuoi bene.
XV GV Far non può in versi chi non ha scienza. Per me lo dico; come ciascun vede, poca sustanzia ne* mie’ versi siede, perché gustato non ho sapienza. I o vengo innanzi a tua magnifiscenza, che sanza te non posso muover piede; riscevi il falcon soro ch’a te riede: di sostenerlo tu solo hai potenza. La vosce mia a te con umiltade di grazia arà, se la frail morale ti fia accetta; benché indegnamente ? fatta l ’abbia sanza nulla sale, priego che di me servo abbia piatade, ché gl’insegni virtù, viro eccellente. Piacciati avermi a mente, po’ che questa moral di’ ch’a te piace: o [r] leggi il nome in capoverso diace.
Se vuo’ conoscer qual sia vero amico, fa’ che tu vadia a un con aroganza e sì ’1 richiedi del suo in prestanza: allor conoscerai se t ’è nimico. Fa’ che tu intenda ben quel ch’io ti dico, che, se ’1 richiederai di sua sustanza, inverso te e’ piglierà baldanza, a te discendo non avere un fico. E colui, il qual tu credi che ti serva, peggio farà al fatto del servire, sì che t’ingegna aver da te tant’erba ch’alle merzè d ’altrui non abbi a ire; ma ridenti ciascun con dolce verba, se ’n questo mondo vorrà’ preterire. E se vuo’ poter dire: « Io ho amici assai », fa’ che non muovi tal caso scritto, ma pochi ne pruovi.
XVII GV Piange l ’aflitta, mesta brigatella, piange la plebe e tutti gli uditori, che non han più dolci e vivi sapori, errante, abbandonata vedovella. O mastro Anton, la santa e sesta stella spiri nel vostro cor e sacri ardori, e riscaldivi e sensi e sua vapori, sì che vampeggi in noi vostra fiammella. Possonsi condoler le sante Muse, lamentar puossi Apolline e Orfeo, po’ che privata ha l ’arte il sucessore e che vostr’opre degne sono ottuse. Piangerà dunque Anfitrion Museo se non mostrate for vostro splendore, qual ci gitta dolzore, che siate di scienza abergo e scuola; Orfeo parete a toccar la vivola.
La più chiarita lusce o più bel sole z' mai non vidi ancor cogli occhi miei, o cieli, o stelle, o gloriosi kklei, «essun più bel non è contesser sòie. Amore è nato in nostre mortai prole, retto in biltà negli atti dolci e irei; domi l ’ingegno e tutti e pensier miei or veggo in forza altrui, che '1 cor mi dole. Afa *1 dolce speme è vita degli amanti e temperanza di sì .ardente fuoco d ’ogni crudel dolore e aspro affanno. In brieve risa, in angosciosi pianti, come acces'esca, i' manco a poco a poco, che morte ultima chieggio per mie danno. XIX GV Ri-man la terra lacrimosa e mesta, vedova intenebrata, avendo perso il suo navil, che è ito attraverso; di Falterona il figlio ha preso vesta. Or è fornito il gioco, il ballo e festa, qual si fasce' per tutto l'universo; or vedi Chiffo pel dolor disperso, per modo che non può alzar la testa. Adunque agli alimenti compagnia farmi bisogna, e con lor pianger voglio, seguitando con lor la ritta via. Là dove il detto fiume ha gran rigoglio cinque miglia finito par che sia da indi in giù, e percuote in iscoglio. Omè, che tal cordoglio m'acuora in modo che '1 viver fie corto, veggendo il mio navil surto in tal porto. XX GV Quest'è la profezia di questo anguanno di quel che de' venir sopra alla terra: aranno i Turchi co' Cristian gran guerra,
sarà caro pe’ poveri, e noi sanno; e le bestie minute torneranno per sei mesi ’abitar nella lor terra, e metteranci tutti a mala serra; le pulce d’allegrezza salteranno; s’arà dovizia di cacio pisano e di baccegli e più con una fava da potergli isgusciar con una mano; e troverrassi in Toscana una cava di sì fine oro che sarà mezzano e ’1 lion purgherà la gente prava. Mentre ch’i ’ strologava, vidi una stella, che fé tal segnale che ci sarà gran carestia di sale.
XXI GV Contesser può che i’ sto stupefatto pel tuo suppleme e grazioso ingegno? Però con umiltà ’nanzi a te vegno, perc’hai posto il suggello a questo tratto. ap petto a te posso dir quasi matto esser, perch’io cavalco debil legno; ma colla tuo scienza fo disegno che teco il servo tuo arà buon patto. Tu sola se’ fontana di scienza, tu se’ profondità, degno intelletto, tu se’ colei in cu’ regna sapienza, e di reai costumi nell’aspetto, angeliche bellezze in tua demenza, vaso versante di virtù il tuo petto. Riguarda a questo effetto: n o n satisfatto avessi i’ me ne lagno, #dolorato del morto compagno. DÌ lagrime mi bagno, che questa morte molto mi dispiace. Leggi il tuo nome in capoverso diace.
XXII GV Da poi che vaso e fonte di scienza tu se’, dà * bere al servo tuo asetato,
che della tuo virtù è sì Sfiammato che già mai in vita farà dipartenza. Dunque gran discrezion la tuo clemenza priego ch’abbia inver me, ch’adottorato non sono, e chiaramente l ’hai provato: nulla far posso senza tuo liscenza. Tu m’hai fatto smarrir la fantasia col tuo supleme e virtudioso ingegno, po’ che se’ sopr’ogn’altra poesia. F so ch’a te scrivendo i ’ non son degno, perché bellezze di tuo monarchia han nome forse disutile a sdegno. Priego che mi dia segno di tuo risposta, acciò che ’mparar possa; se m’abandoni ho rotte membra e ossa. Fuggir vo’ tal percossa; s’egli è possibil, tra’mi di pigrizia, eh’un gran tempo ha ’ durar nostr’ amicizia.
XXIII GV Tal fantasia ti veggio che errore esser non può in nulla di tuo cosa; hai fatto pruova se se’ virtudiosa, sì ch’io t’appello maestra maggiore. Un Tulio non are’ tanto valore, né Dante, né Uvidio, ché in te posa le 'lor virtù; e tanto graziosa se’ chi ti mira tu gli tocchi il core. O chiara lusce, corregger puoi me, ch’i’ so ch’io pecco, ed è per ignoranza; ma credi certo ch’io ti terrò fé. Se tu avessi di me dubitanza, non ti bisogna, ch’io servirò te con fedeltà, e puoi fare a fidanza. E ripiglia baldanza; vivi con sicurtà e piglia ardire, o prima alleggerei voler morire. Non mi lasciar perire; voglia seguir di darmi tal contento, ché, non mi rispondendo, arei tormento.
Mentre ch’io penso allamorevolezze de’ tuo’ be’ versi e del tuo pronto ditto, del primo verso ch’io viddi tuo scritto, vidi un parlar pien di piascevolezze. E bench’al core i’ senta amare asprezze, come chiar vedi i ’ tengo il core affitto, in modo ch’io non reggo a pena ritto il corpo, e so ch’elle son pur mattezze. Ma per tuo ’mor i’ vo’ aver pazienza; po’ che m’usasti tanto confortare, priego non m’abandoni tuo clemenza. E se tu mi vuo’ fare allegro stare, non mi rammentar più cotal sentenza, ché, s’i ’ ’1 potessi, il vo’ dimenticare. Non mi voler lasciare tórmi questo contento di tuo scritto: or, s ’io lo perdo, sempre starò aflitto.
XXV GV Non posso far per tuo compassione, ch’i ’ veggo inverso me che hai a usare; fraile ingegno noi può ristorare ma tu, discreta di mie discrezione. Ché, s’io ho persa una consolazione, ch’io te non perda noi voler negare. Se ’1 servo vuoi non s’abbia a disperare, priego t’incresca di mie passione. Finché mie vita non sarà privata, giammai non cercherò altro signore se non te, po’ che quella è trapassata. Liberamente t’ho donato il core, perché sì virtudiosa t’ho trovata ch’altro che te non sentirà mie ’more. Vogliami tór dolore di non abbandonare il servo indegno, ch’i’ so che di risposta non son degno. Non t’arecare a sdegno. Questo segreto tien; quando l ’hai letto, straccialo presto e rifammi un sonetto.
O Pier, tutta la turba in fuga è volta contra di te, per gastigar gli errori; tu di' che '1 primo se’ fra’ sonatori: voglion la bosce e fama ti sia tolta e fra la cieca, misera e più stolta farti il più degno e darti e grand’onori di giunchi, di radisce e d'altri fiori, con certe gazze e milze a quella volta. O Pier, ciascun mi priega il ver ti dica cogli eleganti miei brievi sermoni, ch'egli hanno fatta una grillanda antica, e vogliàn che con quella t’incoroni e ch'ai ritrarti non ti sia fatica al tempo delle zucche e de' melloni. Però tuo oppenioni io vo’ gli lasci; attienti al mio consiglio, che cerco se’ più che la pazza il figlio.
XXVII ** GV Ingegnisi ciascun d ’aver da sé, poi che la carità è quasi spenta, ché chi d'aver da sé non s’argomenta non gli vai dietro al dir poi: ohimmè! E voglia ben ciascun guardar perché lasciarse per altrui egli aconsenta, ché de' servigi nessun si ramenta, fornito il suo bisogno in buona fé. Ond’io priego ciascun che s’alimenti, se può, di non cadere in povertà, perché Io fuggon gli amici e' parenti, e sottomette la sua libertà ed è schernito fra le molti genti, e ognun disce come ben gli sta. E così averà a chi di povertà non ha paura, ché più che morte ell'è crudele e dura. * Sonetto fatto per me Filippo mandai a Piero Martini. ** Sonetto fatto per me Filippo trovando in bisogno.
Memento homo te qui tu es(t) pulvere e dopo vita polver tornerai; dunque, se sentir vuoi gli ardenti rai, non ti bisogna al mundo tanto avulvere, però che nostra vita è uno asciolvere, e, se ’n tesoro al mondo spererai e penitenzia di te non farai, più greve fia il tuo peccato assolvere. Se del peccato astinenzia vo’ fare, te medesmo conoscerti bisogna e sia disposto in core al digiunare. Chi altrimenti vaggellando sogna difiscile è che si possa salvare. E puossi dir a quel che tien tal rogna che ’1 suo cuor non agogna, essendo infermo, al pigliar medicina; quel si discosta dalla grazia divina.
XXIX GV Domine Gesus Criste, i ’ non son dignus che tu venga ’ abitar la casa mia, ma, se sanar tu vói la malattia, sol la tuo verba basta a cotal signus. Morte tu sostenesti in su quel lignus, per salvare el peccato e la resìa; fede con volontà operatìa fa possedere a ciascuno il tuo rignus. Però che fé con buona volontade non basta a uon sanza Ite r a z io n e , potendo seguitar tal caritade, po’ che chi voi far vera orazione convien che mosso sia da umiltade, intendendo seguir con contrizione. Se vuoi remissione, fa’ ch'abbia volontà, fé, effezione, e grazia arai come Centurione.
Dilige prossimum tuum sì come te e fa* che faccia bene al tuo nimico, che, come pel Vangel chiaro ti splico, bisogna così far chi ha vera fé. Abbi tuo volontà perfetta in sé, se di Gesù tu vói esser amico; chi carità non ha, chiaro ti dico, per sé non truova e non vale ohimè. Quando la destra man fa caritade, fa’ che non vegga l ’altra tua sinistra, se non vuoi esser come ’1 publicano. Falla coperta, ch’ella non sia vista se non da te e dalla Trinitade, se non che ’1 ben che fai lo gitti invano. D i’ l ’orazion tua piano; sta’ ginocchion col cuore alla Regìa e non volere istare in pocresia.
XXXI GV Confidite ego sum nolite timere e in voi stia buona fé e speranza, ché queste dua virtù han tal sustanza che posson farti la gloria vedere. E se tu vuo’ ’n quella sieda sedere dove posta sarai dalla possanza, fa’ ch’ai servire a Dio fugga ignoranza, se vuoi in ciel col Trino ppssedere. E se tu vuoi acquistar paradiso, fa’ che nel creder non abbia resìa, ma colla Chiesa tuo voler conquiso. Chi vagellando va con fantasia prima da Dio e poi dal mondo impiso e perde il regno dove andar disia. Servi alla Virgo pia, qual è di tutti quanti madre nostra, credendo ciò che Chiesa a tutti mostra.
Fi-liscissima, bella, onesta e grata, Giuletta pellegrina, alta e vezzosa, angelica, gentile e graziosa, candida, rossa, in paradiso nata, tu siedi in terza spera incoronata, dove Amor vive e trionfando posa; tu se’ quella luscente e radiosa stella, che' navicanti sempre guata. N é puossi al tuo bel viso nulla apporre, tu mar d'ogni bellezza e di costumi, sì che in cielo e terra fama corre. Però volgi a piata que' santi lumi, che dalla vita mia possimi tórre, prima che morte in tutto mi consumi. Mar, poggi, piani e fiumi di sospiri empio, amando '1 tuo bel viso, pel qual di vita quasi i' son conquiso.
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Lasso! dov'andrò io, ché lo sprendore, che risplendeva in me, or mi s’è tolto, tail ch'io rimango in tenebre e 'n dolore? Almanco fuss’io or di vita sciolto, po' che perduto io ho ogni mio bene e po’ che '1 cor del petto mi s'è tolto! Ah, quanto credo si faria per mene che Antropos rompessi il fil dell'oro e traessimi fuor di tante pene! Po’ fra me stesso dico: « Pur, s’io moro, non vedrò lo sprendor che '1 mondo abaglia; e, s'io lo veggo, i’ sento gran martoro. Dunque, che farò io in tal battaglia? Convienimi star contento al suo volere infino a tanto che in su si saglia. Nessun contra di quel non ha sapere; ella comanda a tutto l'universo, né puossi tórre alcun dal suo potere. Ma poi che tanto in basso i' son sommerso, quando a lei piacerà di trarmi fore
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di questo mio navi! che va a traverso, credo ch’Appollo già col suo splendore una fiata l’Ariete ha scorso. E sempre stato sono in tal dolore e mai nessuno seco fu rimorso di seguir l ’onestà eh’è in costei; ma certo son ch’arò qualche soccorso. E1 giusto tempo intenderlo vorrei, ché, se al termin di Iacob andassi, allor vie più contento i’ mi starei, purché Venere bella t’ispirassi d ’aver piata del mio lungo martire e l ’amicizia poi si conservassi. Deh, signor mio, per dio, non sostenere che in tenera età mi venga manco, po’ che disposto sono a te servire! E tu, Cupido, non ti far sì stanco; riprendi l ’arco tuo e la volante e ferisci costei dal lato manco, e fa’ che l ’un dell’altro resti amante, ché sai che sempre costei seguiròe e buon servo sarò fermo e costante! Pur, poi che piasce a te, i’ mi staròe infino a tanto che Megera cruda farà che le compagne i ’ sentiròe. Ah, quante volte la testa mi suda, quando lontano i ’ sono, e poi da presso triema la mia persona come nuda! E questo m’è Scontrato tanto spesso che al nonnulla quasi i’ son venuto, ma ciò da tue bellezze m’è commesso. Almanco innanzi l ’avess’io saputo, quel che di te e’ mi dovea incontrare, ché altro modo arei forse tenuto. Ma, poi che qui i’ mi lasciai legare, convienmi istar contento a mie dispetto e sempre in tale amor presseverare. E così sia quel giorno benedetto che da tanta onestà i ’ fui legato e l ’ora, che ’1 tuo amor m’entrò nel petto. Ma ’1 falso e traditor sì m’ha ingannato che nel principio di sì gran camino dolce mi porse, e di po’ ’1 fel m’ha dato. I ’ porrò fin, perch’io ho già vicino chi da misera vita mi voi tórre e volentieri a quella ’i mi dichino.
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Ma voless’eMa poi il si-mil disporre di quella che gran tempo m’ha ’nfiamato e volesse in cielo insieme porre, e l ’uno e l ’altro poi sarie beato. Ma fa’, canzona, che gli chieggia pasce, ché samza pasce i’ sarò disperato, perché sanz’essa nulla il mio cor fasce; e se pasce non hai, com’a me torni, cosa ne seguirà che mi dispiasce: giunta finir vedrai tutti e mia giorni. XXXIV GV
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Non posso far ched io non mi lamenti del gaidio che nel cuor già mi trovai; or è riverto in novelli accidenti. Ma se te, diva stella, cominciai ’amare, i ’ ebbi nel core allegrezza, ché contento più giorni i’ trappassai. Ma or, s’in brieve tempo con asprezza mi son trovato e non so ritrovare di chi colpa si sia cotal gravezza, so chi sempre in mia vita ho ringraziare e, ringraziando, i’ non sodisfarei di cui i’ vo’ tacer più che parlare. Troppo nel dire i’ mi distenderei, ma non mi servirebbe la memoria; perché ’diota ell’è, mi smarrirei. Già non mi sazierei di darle gloria, fama e onor, perch’io so ch’ella ’1 merta, da poi che contra Amor mi diè vettoria. I ’ non ti vo* tener costei coperta, ma vo’ che sappia ch’ell’è quella dea, qual sopr’ogni biltà costei è sperta. Venere è questa e non è già Enea, qual m’ha ferito il suo figlio in nel core e non m’ha fatto qual fesce Medea. Veggendo il nudo alato me in dolore, ebbe pietà di me giovan meschino; dedl’or mi trasse lo strai suo d ’amore. Onde, giugnendo a me, a capo chino mi volsi a lui e con umil talento dissi: « Ringrazio te, spirto divino ». Poi si partì e me lasciò contento innanzi a quella, in cui reai costume
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regnano in lei, ond’io ne fo lamento. Gli occhi acompagnono, un rigo di fiume spargendo in terra com’acqua corrente, sendo rimasto cieco e sanza lume. A ogni cosa istarei paziente, pur ch’io potessi in me immaginare qual cagion lasciar me costei consente. So ch’a costei non posso colpa dare, ch’i ’ so che lei come me passione ell’usa per mio amor nel cor portare. Poi vengo investigando per ragione, e son sì acupato nella accidia, qual non mi lascia trovar la cagione. E vinto più da questa grande insidia, coH’animo mi pare aver trovato che non sia altro che la mala invidia. N el preterito, nel presente i’ ho guardato, e nel futuro anche pensando voe: altro che ’nvidia veggo non n’è stato. Ma, quando certamente i’ lo sapròe, ingegnerommi di farme vendetta, ricovrendo l ’onor più ch’io potròe. Però ti priego, o signor mio elletta, che tu non voglia di me tanto strazio, po’ che nel cuore i ’ ho per te saetta, ché di guatarti il mio cuor non è sazio, veggendo in te angelichi costume. Però Cupido per tuo ’mor ringrazio, che fu cagion di darmi tanto lume ch’io potetti mirar le tue bellezze; perdendo te, farei degli occhi un fiume. E poi risguardo a tue piascevolezze, le qual m’hanno legato in modo ’1 core che di non le veder sentire’ asprezze. Però ricorro a te, dolce signore, sperando in te sostegno di mia vita, ch’el mi tolga dal cor tanto dolore. S’a me comandi, sarai ubidita, ch’i’ t’amo in terra quanto Iddio in cielo; così vo’ fare insino a mia partita. Tuo stiavo e servo son con ver il zelo; a’ tuo’ comandi sempre apparecchiato, il sangue metterò, la carne e ’1 pelo. Però ti priego che racomandato ti piaccia avermi e tòrmi ta’ tormenti e non m ’aver in tutto abandonato.
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Se di volermi bene tu aconsenti, e non guardare alla ’nvidia crudele; dunque lieva dal cor tanti lamenti! Tu sai che nel principio io ebbi il mele, quand’io apersi gli occhi al tuo bel viso; dunque nel fin non mi voler dar fele. Quando te miro, veggio il paradiso cogli angioli e co’ santi in una gloria, faccendo un regoletto al tuo bel riso. Dunque, per non far lunga la mie storia, che noi sofferirie ’1 fraile ’ngegno, e smaririesi mia bassa memoria, mora! temali a me, che sono indegno, mi farete ’mbasciata al mio signore: dite eh'a lei scrivendo io non son degno, ma ch’io le racomando solo il core che nollo voglia da sé dipartire, e muovasi a piata del mio dolore. Po’ che disposto son di te servire, fa’, signor mio, di me quel ch’a te piasce, ch’io porterò per te ogni martire. Così sien posti i mia tormenti in pàsce come i’ t’atterrò quel ch’io prometto; se non, ch’io arda com’un’unta brasce! Dunque, se d’amar te prendo diletto, non mi distenderò in altre parole; se non, memento mei: questo è l ’effetto, perché a me scuro sei splendido sole.
XXXV GV Disse colui che ’1 volgare ebbe tutto che ’1 perder tempo a chi più sa più spiasce. Questa sentenzia sì mi par verasce che viver non dovria chi non fa frutto. Però, signor, togli il servo dal lutto, se por tu vogli e suoi tormenti in pasce; comanda a lui quel ch’a te propio piasce e cavera’lo d’ogni pensier brutto. O adolescente, s’al venir son forzato in braccia in croscè a tua magnifiscenza, per aiuto trovar de’ mia martiri, tre soli istato son con gran temenza, pria ch’a te i’ mi sia rivelato.
Mal primo dì del mese ebbi, is’tu miri! D ’ottobre gran martiri porto per te, però memento mei, nel mille quattroscensessantasei. XXXVI GV Orfeo, Omero, Scipio e Catone nelle virtù non poson la speranza, come fai tu, dove non è sustanza, misero, cieco nello oppenione. Tu dai giocondità alle persone, passando gioventù che non t’avanza; or m’è in tutto mancata la fidanza, ché me lo insegna la tuo discrezione. Amor mi fa parlar, ché non vorrei del poco ingegno tuo aprir la gola; ma pur tu se’ cagion de’ tuoi gran danni. Or lascia, Piero, e dolorosi e rei pensier che tien nella dolce vivuola, e non passare indarno e mesi e gli anni. Non ti dar tanti affanni, ch’io tei ricordo come a car fratello: grosso capo hai, m’have poco cervello.
XXXVII GV Per quel Signore che passion sostenne per noi ricomperare in sulla croscè, che tutti que’ che mi mettono in vosce chiamar si possono ucce’ sanza penne! Questo sol dico perch’a me un venne da parte tua molto iniquo e atrosce, con picciola sentenzia a me ferosce venne più presto che a dire un amenne. I ’ spricai la quistione al suo disio e poi un’altra a lui gnen’ebbi a dare: chi prima fu, o il Padre o Iddio. So che se’ dotto e sapra’la spricare, sì che per mio maestro t’apell’io; di grazia arò se mi vorrai insegnare. Non mel voler negare ch’imparar possa da te tal dotrina, perch’a te dissi fu prima gallina.
GV Lasso! che farò io, che *1 falso Amore m’ha messo in fantasia peso sì grosso, per modo tal che sopportar noi posso? E quest’è perch’i ’ ho presso il mio signore. Dunque, se tolto m ’è del petto il core, per te bel sir, ch’è a’ tuo’ comandi mosso, ma veggomi tant’occhi aperti addosso che guardon te e me: quest’è il dolore. F non t’ho persa perché ita via tu sia in nessun luogo o ch’io sia morto, ma sol tuo madre mi dà ricadia. Parmi, secondo me, ch’ell’abbia il torto che per tuo ’mor ciascuna cortesia a lei fare’ in questo viver corto. Però, pensa, sopporto pena per non poter vederti il giorno, e a tuo casa a ogni ora vo intorno.
XXXIX* GV
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Certo Gesù intendo di chiamare, ché ’nver di lui rivolga la mie voglia e da me e vizi miei usi levare, acciò ch’i ’ non istia più ’n questa doglia, ché forte piango il tempo ch’i’ ho perduto e, quando penso a ciò, triemo qual foglia. Veggomi in tanta miseria venuto ch’altro che vizi addosso i’ non porto, ma certo il mondan bene ormai rifiuto. Or fussi istato il dì ch’io nacqui morto, ch’entrato non sarei in questa rete di questo mondo non ritto, ma torto. O sascerdoti sacri, or vi movete: venite a cavar me d ’esto proscinto, ché di servire a D io ho molta sete! Omè, che ’1 dimon rio m’avea sì vinto che nel far bene ero molto crudele! Ma or per penitenzia a Dio son pinto.Il
Il « Cervero » rivolto allo spirituale per me Filippo.
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Fra tutte l'alme intendo esser fedele e ’n tutto vo' lasciar quella dea Venere, ch'a me pareva dolce, ed era fele. Omè, che 'n capo ci è posta la cenere, per darci sol di nostra vita lume e far venir le nostre mente tenere! Occhi, pianger dovete il mal costume eh’è 'n questo mondo per ciascuna sorte; però rigate in terra un magno fiume! Non vo' restar per infino alla morte di penitenzia far con mia martire, gridando miserere a vosce forte. Ah, quanto si fascea per me il morire quel giorno ch'io apersi gli occhi miei e 'n questa selva i' ebbi a pervenire! F non so ancor ben dir quel ch'io vorrei, né di quel ch'io nutrisca la mie vita; ma pur di salvar l'alma appitirei. Come ciascun che di qui fa partita e non ne va con buona contrizione e la rimession è da lui fuggita, ogni piascere, ogni consolazione di questo mondo fai, Solescitudine, ma dopo vita n'ara' passione. Ah, quanto poca fia la dolcitudine di questo mondo e 'n quanto poco spazio alfin ti tornerà in amaritudine! Non fu mai fatto di niun tanto strazio quanto far debbo della carne mia, per salvar l'alma, e allor sarò sazio. Da poi che piasce al ciel che mia resìa conosciuta ho, intendo mutar forma e vo' servire alla virgo Maria. I' vo’ che la piata per me non dorma, miserere gridando in monti e 'n piaggi; d'abito monacil vo' prender forma. Orsi, tigri, leon fra pruni e faggi abitan sempre, e io in comendazione con lor vo' stare in luoghi aspri e selvaggi, miser condotto a tanta passione ch'i' non ho forza poter ralegrarmi, perch'i' ho fatto a Dio offensione. Ognora di pregar mill'anni parmi Virgo piatosa, che già non è cruda, che 'n questa malattia venga a sanarmi. Triema di caldo e poi di freddo suda la mente mia, pensando quanto scherno
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ch’io ho fatto a Gesù, simele a Giuda. Ah, velenosa superbia, o crudel vermo, colla tuo possa tu hai valor tale che ciascun corpo sano tu fai infermo! Fuggir non vuol da te ignun mortale, ma, quando poi tuo voglie egli ha gustate, vede ch’altro non son che tutto male. Et vos adolescentes, che cominciate a questi ben terreni a porre amore, c’hanno già fatto tant’alme dannate, prendete essemplo a me, che ’n tale errore molto tempo in mie vita i’ sono stato, e or tornato sono al Salvatore! E1 giovan pentitor molto è pregiato, quando superbia lascia, ch’è sì rea, e così ciascheduno altro peccato. Amor mondan sì fa l ’alma giudea, perché pone speranza nel tesoro e poi alfin rinverte in simonea. Amor divin, chi l ’ha, merita alloro, perché conosce la stanza serena, e chi noi gusta è propio com’un toro. Gesù spezzò del limbo la catena; di carne uman suo corpo aveva forma, e ’ santi padri trasse d’ogni pena. Amor carnale è una cosa innorma: fa discostar ciascun dal Criatore e de’ peccati fa seguir la torma. Amor lascivo è tutto mancatore, però che ciascheduno usa ingannare e poi gli lascia aflitto l ’alma e ’1 core. La gioventù non crede mai mancare; seguita il mondo con suo voglia prava, tanto che poi di qui ha a trapassare. Amor corrotto ancora io l ’amava e cavalcion m’ero fermo in suo sella, ma conosc’or che l ’alma mia dannava. Vedete l ’alma ignuda e poverella; in questo mondo vien anche l ’ebreo: la suo più che la nostra è tapinella. Vedete ancor che, ben che sia giudeo, ce n ’è alcun che di D io si diletta, ma lasciar non intende il vizio reo. Però vedete che v ’è chi aspetta che Cristo incarni, salvator superno, ma questo creder dalla gloria il netta.
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E per mille cagioni il ver discerno che quel che vuole il mondan ben seguire alfin dannato si truova allo ’nferno. E non credo che niun possa fruire in questo mondo bene senza inganni e poi alfin le pene n’ha a patire. E vo’ fornir per me e giorni e gli anni di dare al corpo mio gnun talento, anzi vo’ vivere in pene e affanni. Quanto più presto il fo, più son contento, perché, s’io ben ci penso, il ver conosco, eh’ognora inverso Iddio fo morte cento. Non intendo di star più in questo fosco, ma vo’ lasciarci e istare e andare a chi sentir vorrà l ’infernal tosco. Dolci versetti mia, vo’vi pregare ch’andiate a ciaschedun ch’è invilupato; di questo mondo il facciate slegare. E dite lor che anch’io sono stato in questo mondo, a Dio faccendo offese, ma or da lui i ’ mi son seperato. Un atto monacil mie membra ha ’mprese, per poter risalire a quel giardino che Palme spente vi si fanno accese. Gran tempo seguitai tristo cammino; ma, come piacque a Gesù salvatore, ebbe piata di me, pover meschino. Pres’ho ’1 partito e son disposto in core servir a Dio e non vo’ cercar altro, pur che inver me e ’ sia perdonatore, se ’n questo mondo no, priego nell’altro. XL GV Di questo mondo niuna concrusione ne possiam far, perch’è troppo fallasce, ché, quando credi riposarti in pasce, ed e ’ ti vien qualche percussione. Chi più ne piglia ha questa condizione, che men ne porta al Salvator verasce e poi alfin si truova in contumasce, perc’ha seguito il vano oppenione. Però star debba ciaschedun contento nel grado suo, pensando che ’1 Signore patì in croscè per noi tanto tormento.
Sì che fuggi ogni vizio, o peccatore, e d’ogni tuo peccato pentimento, se vuoi che Iddio ti sia perdonatore! Sa* donde vien Terrore? che noi facciàn del mondo paradiso e poi in un punto siàn da lui diviso. XLI GV Tu di tòr donna conforto m'ha' dato; so che l ’hai fatto perché mi vuoi bene, ché ’1 tuo parlare è a ogni buon fine e sol pell’opra me l ’hai dimostrato. E certo tu lo scambio arai trovato, ché, s’io fussi legato con catene, non potre’ far ch’io non ti voglia bene, po’ che ’1 mie ’more a te tutto ho donato. S o che tu presto sara* maritata e mie persona po’ abbandonerai, onde rimarrà l ’alma sconsolata. O sciagurato a me, pianger potrai! Quando vedrai costei acompagnata con altro sozio, allor sospirerai. Non lascerò giammai /a tuo persona, e chi io amo diròe: attendi al capoverso ch’io fatto hoe. Non mi dispereròe perché non hai risposto all’altro detto; non ti pesi la penna a un sonetto.
XLII GV D e’ romitan direbbe meglio il vero chi gli chiamassi frati vagabondi; come vedete, vanno grassi e tondi con men fermezza che foglia di pero. Qualunche lontan va si dà intero a procacciar benifici profondi, volendo al mondo viver più giocondi che non richiede loro abito nero. Non fé così messer santo Agostino; primo romito fu tutto soletto
con fame e sete di pane e di vino; po’ vescovo fu fatto a suo dispetto. Seguillo Nicolò da Tolentino, che penitenzia si recò in diletto. Gli altri ch’udien l ’effetto, secondo che mi pare, e* non bisogna che ’n calendario ignun di lor si pogna.
XLIII GV Non volle Elia in sul monte Cannelli la cappa bianca col becchetto grande, né volle a mensa le dolce vivande, quando mangiava co* suo* fraticelli; ma solamente, per l ’amor di Quelli che le sue braccia in sulla croscè spande, si nutricò di meluzze e di ghiande; vestia cilicci ed altri pannicelli. Ma li suo’ discendenti carminini mi par che l ’abbin sì ben seguitato ch'egli hanno a esser poco a lui vicini; secondo il mondo egli hanno il cielo a grato e hanno tolta la volta agli ermellini: qual è più bianco quello è più beato. Con abito lattato pagoneggiando vanno fra le donne, onde e mariti mal contenti sonne.
XLIV GV E frati, i cui no' chiamian d’Ogni Santi, con san Filisce e Camaldoli insieme, che, se ciascun in spezieltà si prieme, mille ducati trarrà di contanti, ma' non si vidde più puliti fanti. ’N ben mangiare e ’n vestir post’hanno speme; vanno la notte spargendo lor seme, armati con be’ suoni e dolci canti. Così non fé il lor san Salvadore o Maurizio, che no' vogliàn dire, neanche il succedente san Rossore. Ma di lor nel diserto gran martire
fèr di lor carne, usando digiunare, non si curando indosso di vestire. Chi gli debba seguire seguono il mondo in pensier vagabondi; or fama e viso il disce grassi e tondi.
XLV GV Que’ che di Trinità usian chiamare, con que* di Valembrosa e san Brancazio, con molti abati ch'io lascio lo spazio, perché sarebbe lungo a raccontare, que' di contado attendono a cacciare, né di far roba gnun si vede sazio; que' di Firenze, in ben vestir parazio, in chiesa e fuor ne vanno a vagheggiare. Giovan Gualberto santo non voleva, insieme col vecchion san Benedetto, quando ciascun penitenzia fasceva. La disciplina in man era il diletto, po' d'erbe e d’acqua ciascun si pasceva, servendo a D io e ognun poveretto. Non eredien che l'effetto loro abito di que' che lo portassino ch'almanco de' mille un lor seguitassino.
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Per farti fine a ciascheduna verba, vo' por silenzio a questo mie dolore; ma, se conoscer vuoi il tuo errore, priego che solo un verso a te riserba; il qual vo' che tu dica: « Io ho a Svecchiare e di qualcuno i' arò pur bisogno, e certo questo dir non sarà sogno, ché, se tu vivi, tu l'arai a provare ». Adunque, se bisogno tu hai avere, perché se' tu così villano altrui? ché sarai propio servito da lui come tu servi quello, al mio parere. Però ti priego non facci del grosso, dico con altri qual fatto hai con meco,
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ch’i’ veggo ben che crudeltà è teco, ma ta’ dispetti patir più non posso. Dunque, i’ ti priego per l’amor d’iddio che tu ti faccia a ciascun voler bene e, se noi fai, da vecchio n ’arai pene, perch’ognun ne farà com’ho fatto io. Sì che rimanti in pasce, o caro amico, che Iddio ti conservi in buono stato e, quando un altro tu arai provato, conoscerai s’i ’ son suto nimico. E se far posso per te alcuna cosa mentre che tu od io vi ver à al mondo, bramerò sempre vederti giocondo. La tuo comanda non mi fia penosa, anzi mi fie gioiosa. Se mi richiederai ti serviròe; o voglia o no, tuo servidor saròe. XLVII GV Ingegnisi ciascun di non andare alle merzè d’altrui, ch’i ’ vel ramento che all’andar tu senti tal tormento ch’andar vorresti più tosto a furare. Dicol per me, che l ’ho aùto a provare. Quando tu se* in istato contento ah, quanti falsi amici a piacimento a darti lode e volerti levare! Però rattieni il caso ch’io riplìco e, se nulla ti truovi in masseria, sorbii per te, e questo chiar ti sprico, ch’a scialacquarla è troppa gran pazzia. Sanza roba ciascun t’è poi nimico, onde tu cadi in tal maninconia. Se vuoi mandarla via, el tuo conserva e fa’ sempre tuo sia: s’un pan non hai, non truovi chi tei dia. XLVIII GV I ’ ti protesto con parola pronta sol un proverbio che mi par ver asce, il qual ramenta a que’ che gli dispiasce
che chi serve lo 'ngrato a Dio fa onta. Questo proverbio ancor sì ti raconta che spesse volte ti sarà fallaste, ché lo 'ngrato ha il voler tanto mordasce che volentier '1 beneficio rafronta. Ma grado non ti sa di niuna cosa che tu gli faccia in sua utilitudine, tant'ha la voglia sua trista e 'gnorosa, perché la maladetta ingratitudine ignota fa ogni opra virtudiosa. Chi ha 'gnoranza istà in sugettudine. Ah, quanta amaritudine a chi '1 servigio fa a uno ingrato! Acquistar crede, e se l'ha via gittato.
XLIX GV Ogni mondan sì si de' ricordare ch’egli ha in suo vita una volta a morire, e al suo fin non gli varrà po' '1 dire: « Dimolto bene arei voluto fare ». Però ciascun ch’è saggio de' pensare che 'n questo mondo non arà a reddire, sì che ciascuno in vita pigli ardire lasciare e vizi, attender al ben fare. D i dire: « I ’ lascerò a mia partita » questo non sia ognun di voi capasce « chi farà ben per me dopo mie vita », ché tal pensier molto spesso è fallasce, perché cuncupiscenzia sempre incita. Dunque, tu non ne puoi andare in pasce. L'alma sta in contumasce e da sé piange il tempo c’ha perduto: in suo vita il ben far non ha voluto. L GV E ’ mi par esser cavol diventato che col piuol si fa la piantagione; intendere i' vorrei per che intenzione i' fu’ iarsera da te piolato. E se con meco ti sarai acostato
e che chiarita m'arai la cagione, se tu arai più di me la ragione, forse ch’allora i ’ t’arò perdonato, ch’intendo in ogni modo di sapere per quel che tu mi vai tanto sottecchio. Più giorni fa non t’ho ’uto a vedere. Sa’ che m ’appiolasti al Ponte Vecchio? F so che non ti fe’ mai dispiascere e la ripruova ti stia per ispecchio. Prima che tu sia vecchio chiarisci me; se non, ti pentirai e da me con quistion ti partirai. LI GV O pulcro adolescente, o giovinetto, Cupido ha gli occhi mia inver te aperto, ch’io sol t’appello, ben ched io noi merto, per mio signore e son tuo servo eletto, però ch’io veggio dentro a tuo cospetto tante benignità a me offerto, piascevolezze e costumi, che certo m ’hanno cavato il cor dentro al mio petto! Guardar non debbi a mia prosunzione; così ti priego, giovan pellegrino, ma del tuo servo abbia compassione, che temoroso e’ viene a capo chino. Usa inver lui un po’ la discrezione, ché per lo mondo e’ non vadia tapino. E ’, dolente meschino, ha preso ardire a far fraiil preposta; galdente fia se gli farai risposta. LII GV Bisognati operar gran maestria a volere istar ben con un garzone, di ciò che disce e fa dargli ragione e non andar con lui in traversia. E se alle volte il vedi in fantasia ti muova lite per pigliar quistione e chiar sarai che non ara cagione, ma paziente convien che tu stia.
Ogni altro pensier vano non ti riesce, però che tanto basta il loro amore quanto da te molta pecunia t'esce. Mentre che doni, a quel basta il valore; come tu resti, il tu' omor gli rincresce, ché di tuo ben non ne gusta il sapore. Ed è assassinatore e non si curere’ cavarti gli occhi; prima la paga vuol che tu lo tocchi.
LUI GV In sacra teolosia maestro dotto, abbi compassion di me meschino; perché scienza non ho in latino sarò sempre a* tua eguali al di sotto. Ma poi che ’n questo mondo i ’ son condotto, ardisco pregar te, spirto divino; con mia prosunzione a te m’inchino, ché non mi lasci aver così gran botto. I ’ chieggio solo a tua gran fantasia che al mandarmi non ti sia dolore iscritta di tuo man Salve Regìa, perch’io so di virtù hai tal valore, dico in volgar, che la memoria mia non gustere’ di scienza il sapore. Deh, siami essalditore: servi il tuo servo di ciò che ti chiede, ché, se ’n volgar l ’ara, sazio si vede.
LIV GV Tu che limosina dai per Dio verasce, guardar tu debbi di darla coperta; quando la fai, al popol non sia aperta, perché, così farcendo, a Dio dispiasce. Acciò che tu non caggia in contumasce, guarda di darla a colui che la merta, ché, se non ha bisogno, eli’è isperta e Palma tua non ne risceve pasce. Però debba ciascun molto guardare di far la carità ch’accetta sia
e non volere ipocresia usare. E se noi fa, e* commette resia e fa la plebe stolta mormorare; neanche a Dio quella accetta non fia. Fuggir tal frenesia, ciascun libenter far carità lieta al bisognoso, e far che sia secreta!
LV GV Non ti vergogni tu, o amichino? Se’ uon da bene e vuoi pormi la taglia, ché, se tu fussi nato di Cenciaglia, ragion vorre' che tu fussi assassino. Benché tu sia di persona piccino, so che vai senno che ’1 tempo raguaglia; fa* che non sia come al vento paglia, ché non saresti stimato un quatrino. Ma chiunque viene a te per un servigio ingegnati servillo in ogni modo, eh'esser non dee al servire ignun negrigio, ma del servir s'acquista fama e lodo. Così far debbi, sendo in basto bigio, ché, te veggendo, i' sto allegro e godo. E sì ti dico modo che, se tu vuo' servirmi, i' te ne priego che 'nsino in un fiorin non farò niego.
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Con gran prosunzìone a te m'inchino, vaso versante di tutte scienze; per dio sovieni il tuo servo meschino, perch’egli acresce le tuo riverenze, di questa grazia la qual ti dimanda, perché sa che se' dotto in sapienze! Cagion sarai che suo fama si spanda; se gliela cedi, dotta monarchia, gustar f ara'gli una dolce vivanda. E ’ t'adimanda la Salve Regìa, dico 'n volgar, perché non sa scienza,
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e ’mende pur laldar virgo Maria. Ma bisogna che in lui regni prudenza; perché da sé poca virtù adopra, ricorre a tua superfisce eccellenza, ché ’ncipiar gli aiuti cotal opra, ché merito n’arai da Dio superno, se non Tarai da lui, che sol te sciopra. Ma stiavo e* ti si lega in sempiterno, se gli concedi grazia ch’appitisce, qual è Salve Regìa, s’i ’ ben discerno. Acciò che ’n-tenda, innanzi che assaldisce la tuo magnifiscenzia al servo indegno perché di tua scienza se nutrisce, fa’ che tu intenda, maestro benegno: volgarezzata e’ vuol questa orazione, perc’ha grossa memoria e basso ingegno. Mandagli tutta la dichiarazione, ciò che dire ella vuol dal capo a’ piei, sol per Tamor di quella passione, che Chirios portò. Memento mei.
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O amico dell’amico amico, tu sai che ’1 ver ti dico, ché coccola per fico hai riscevuto! Tu fusti il ben fottuto l ’altra sera, quando co’ lieta cera a casa dell’amico andasti, benché ti ritrovasti un po’ schernito. Trovastiti al convito d’un malandrino, ché davanti al mattine* tu n’avesti un bottino d’una ventina, benché la medicina ti fu sana. Tu fusti la puttana de’ saccomanni, che per molti e molti anni eran suti affamati; tu gli hai risucitati,
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al parer mio. E1 culiseo con disio ha fatto ogni suo mostra e nella giostra ha rotto ogni suo lanza, che sarebbe abbastanza in acqua dura. Benché fu tua ventura a questa volta, tu sonasti a racolta d’ogni ragazzo; ma tu l ’hai per sollazzo che frate cazzo t’apra il buco del forame. I ’ non so se ’1 merdame si sostenne o se ne venne liquido per forza. Tu hai rotta la scorza del tuo bucherello e ’1 tuo budello pare un borsello da salimbaoca, mescolato con cacca di bambino. Se delle brache miri il panno lino parrà colore strano. A uon che voglia non ti mostri villano e fai del grosso; ora i’ non ti posso più dire: ingegnati di servire cotal gentaglia. Se questo mi vaglia, tu (mi) pari una can[a]glia sbardella ta. E ben hai rilevata la tua fama; la plebe ti chiama: « Brai! », ruffiani, pastaccini, purgator, galigai e simil gente. Ond’è che non ti mente il mio sermone, ché per un buon boccone
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dietro a ogni poltrone tu anderesti e non ti cureresti fussino un centinaio, o amicaccio mio più bel ch’un merdaio, che ben puoi portare il vaio nella berretta. Tu se’ messo alla setta de’ cattivi; tu ti mescol fra’ pivi e non di' il vero. Tu se’ corto e nero che par propio un polero di campagna. Tu mi pari una cagna che vadia ingesta e ’1 tuo cui non ha festa né vigilia. Madonna Cicilia, il cui ti zampilia ed hai gran ressa. Or io t'ho detta la messa e hot tela detta spressa; per non ti racontar più il tuo danno, rimanti col malanno che Dio ti dia, ch’esser non puoi più tristo che ti sia.
LVIII GV Un giovan vidi un dì d’aspetto bello, che con parola grata, infitta e magna artificatamente entro alla ragna metter mi volle questo ladroncello. Non fu mai marcia puttana in bordello che con tanta arte e con tanta magagna fascessi quel fai tu, sfrenata cagna, sputtaneggiando sempre or questo or quello. Maccheron sanza cacio è cibo sciocco, che pari un di quegli uomin d’Ogni Santi, sempre faccendo al giuoco del balocco. Tu non servi a credenza, ma a contanti, e vuo’ prima la paga ch’esser tocco
e non ti curi o di dietro o davanti. Ma sia certo che ’nnanti ch’i’ voglia prender teco alcun sollazzo, ho fatto mio pensier menarmi il cazzo.
LIX GV Che credi fare, o svergognata troia, nimica a castità e pudicizia? Ah, quanto godi se tuo spuerizia tu puoi sfogar coll’arabiata foia! Lievamiti dinanzi, che ti muoia! Vatt’anegar colla tuo immundizia, nido di tradimenti e d’avarizia, però che tu mi se’ venuta a noia! D i quel tuo buco tanto puzzolente esce sanguaccio mischio con gran muffa, con tale odor che guai a chi lo sente! Spesso con faldelloni e ’ si rabbuffa e, quanto più si lava fortemente, tanto più puzza quanto più si struffa. Nella merda ti tuffa col capo e po’ co’ piè e colle mani: venir ti possan cento vermocani!
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Chi non vuol pensieri assai non faccia mai masserizia, né per car né per dovizia moglie non prenda giammai. Converratti aver pensieri di fornir la masserizia di scodelle e di taglieri e di mestole a dovizia; e non userai avarizia: comperrai esca e fucile, canavaccio col mantile e dovizia di cucchiai. Arai bisogno d ’un saccone, la materassa col primaccio e della paglia per ragione,
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po’ ’1 burattel collo staccio e la lancia e 1 tavolaccio; per guardar me’ la tuo casa, comperrai di nuovo vasa, ché bisogno tu n’arai. Una madia e un cassone con una cesta da grano, e di verno un pelliccione, ché ’1 tuo corpo stia più sano, e tovagliuole da mano, conconcegli e colatoi e alquanti sciugatoi fa’ che non ti manchin mai. Guardo ch’arai di bisogno d’un barile e d’un barletto e d’un botticel, d’un cogno, della zappa e del marretto; e bisognati un deschetto e piattegli e scodellini. Non gli prestare a’ vicini, se smarrir non gli vorrai. Una tavola nuova o vecchia per potervi su mangiare, e bisognati una secchia, la granata da spazzare; ma, sicondo che mi pare, bisognati il cane e la gatta, e hai la masserizia fatta e con essa scherzerai. Della lucerna non v ’ho detta, ché sanz’essa non si può fare. Ballatetta, senza stare a ognun vanne pregando che chi pasce va cercando moglie non prenda giammai. Chi non vuol pensieri assai non faccia mai masserizia, né per car né per dovizia moglie non prenda giammai. LXI GV Crespel, tutta la plebe fa romore; de’ dolorosi di tutta la terra son sollevati tu se’ a mala serra,
se tu non cedi d ’esser lor signore. Trianca, cervellino e ciarlatore, che, se la lingua mia di ciò non erra, verratti un dì men sotto e piè la terra e purgheratti d’ogni tuo errore. Tal biasma altrui che se stesso condanna, e chi prende diletto di dir frode non si lamenti poi s’altri lo ’nganna. r te lo dico chiar pereh’ognun m’oda: tu ha’ ’1 cervel com’una vana canna e ’n te non è gnuna parola soda. Dietro a’ fanciul, tuo goda, sempre vai tutto il dì, non sendo idonio; tuo lingua t’ha a dar festa, o Piero Antonio.
LXII GV Lingue proterve, ignote, triste e prave, che per dir mal d ’altrui siete menate, che coprir si vorre’ di bastonate chiunque l ’ha in bocca da persone savie, mirate l ’altrui bruscol, ma la trave, che dentro agli occhi vostri voi portate, non rimirate già, ma aspettate che per purgarvi vien chi ha ’n man le chiave. Però, se di dir male è tuo costrutto, fa’ prima come fa il bel pagone, che vagheggiando sé si guata tutto e po’ gli muove tanta passione che, guatandosi a’ piè, si truova brutto: allor d’altrui gli vien compassione. Quand’hai tale intenzione, rico’ti a’ piè e netta il tuo imbrattato, prima che mal d’altrui abbia parlato.
LXIII GV Regina d’ogni cielo e terra, la qual santa parola ti fu detta da l’angel Gabriel, che mai non erra! M a r ia , il cui santo nome, a chi il diletta, vive sicuro d’ogni mondan laccio
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e tira l ’alma al d el pulita e netta, dal cielo, ogni cor pigro e diaccio riduci in caldo e ’n perfetto operare, e se’ contro al nimico nostro braccio, p ie n a d ’amore, al qual piaccia infiammare la mente mia, sì ch’io confesso e netto non resti mai del tuo nome invocare. D o m in u s te c u m in etterno diletto è ’1 Padre, el Figlio e lo Spirito Santo, e tu con lor: eh’ognun sie benedetto! B e n e d it t a sia il tuo nome quanto tutte le orlature hanno valore, laidata e ringraziata in ogni canto! T u fusti fatta e ’n te si fé il Fattore, ché fusti, e se’, d ’iddio madre e figliuola, degna di laide e sempiterno onore. I n m u lie r ib u s , donna, se’ sola eletta a tant’onore e a tal misterio che noi comprende appien del mondo scuola. B e n e d it t u s sia il Re del sommo imperio, al qual tu prieghi che per grazia chiami l ’anime nostre al sommo refrigerio. B r u ttu s fu quel che tu possiedi e brami, a noi salute e ’n venia de’ peccati, menando al d el di lui gli antichi brami. V e n t r i s intatto tuo, tutti e beati ebbon la grazia di poter fruire Iddio, dal qual s’avamo ribellati. T u i siàn tutti e ’n te è ’1 nostro disire; e chi non ha da te grazia o aiuto non credo che mai possa al d el salire. l e s u s , Maria, che non fu conceduto da’ suoi, né da noi remunerato, priegai per noi, ch’io per vergogna amuto, s a n ta e umile e nel più alto lato infra l ’etternità nostra sustegna sì che ’1 nimico nostro istia prostrato! M a r ia , alta, umìl, presida e degna, sopr’ogni criatura alma colenda, e della umanità bandiera e ’nsegna, M a t e r , per grazia il mio orar si stenda al cielo, atato da’ tuo’ santi prieghi, si ch’a’ peccati mia invenia si renda. D e i tu se’ cagion ch’a noi non dinieghi el perdonare a me pien di peccati e da’ nimici miei mi tolghi e sleghi. g r a z ia
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per me, benché mie’ membri ingrati non sien ferventi a ubidir la legge, sendo da’ mondan lacci avilupati. P r o n o b is ora, come per tuo gregge, protettor nostra, monarca avocata, per la qual l ’uon si salva e ’1 mondo regge. A m e n , clemente, come se’ chiamata, nella cui grazia tutto mi confido: tu sola puoi far mia alma salvata e d'ogni mie pensier fermo sussido. O ra
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Omè, perché sono io sì intriso nel peccato e son privato — dell’amor d'iddio? r mi tenni beato mentre che 'n puerizia ero pulzello; ora son sì accecato chT son co' vizi condotto al lavello. Lasso me tapinello, ch'egli è da me partito l'alma dal corpo e ha sentito el dimon rio! Vore’ trovar ventura sol per salvar l ’anima poverella, ma per la mie sciagura i' l'ho condotta in amara novella. Ma, virgo Maria bella, piatà del doloroso, d'ogni vizio mendoso — e sto in obrio! Vanne, moral laldata, va' publicando a ciascun la suo doglia, di' che l'alma è dannata, se dall'amor carnai non si dispoglia! D el giuoco perda voglia, ch'è quel che manda ratta l'alma disfatta, — e vanne al dimon rio. LXV GV O sir, del servo tuo, che in libertade già si trovò e ora è sì suggetto che amor gli conviene a suo dispetto,
perché di lui non ti muovi a piatade? Forse ch’egli è in tanta ciechitade che non conosce dentro a suo cospetto avere offeso te in gnuno effetto? Ginocchion viene a te con umiltade e sì ti priega che, s’egli ha fallato, che per misericordia gli perdoni e ogni correzione arà spettato. Com’a te piace, la soma gli poni; portalla vuol per te, com’ha portato già fa più tempo molte passioni. Tanta grazia gli doni ti piaccia averlo e tòrgli tal tormento; se gli rispondi, si chiama contento.
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Giuochi ciascun, sed e ’ sa ben giucare, ché, quando egli arà ben perduto o vinto, dificil fia che si possa salvare, però che dal dimonio è tanto pinto che non pone speranza ad altra cosa, se non nel giuoco, e portai sempre cinto. E ha la volontà tanto bramosa che la memoria sua resta smarrita e conducesi alfin per via ritrosa. Sul trapassar della presente vita vorrebbe l ’uon ciò ch’egli ha fatto o ditto aver ben fatto, e ha l’alma contrita; ma ’1 corpo suo, che gli sta tanto affitto, pensa a’ suo’ figli, suo’ fratri e congiunti e ’1 mal acquisto non pensa c’ha in diritto. Ah, quanti tristi son cotai difunti, che si lasciono al mondo sì schernire, el qual ci trae e giuoca di mispunti! E non vogliono alfin ristitiiire quel ch’egli hanno d’altrui in questo mondo, perché non credon sì tosto morire; e ripensono al lor tempo giocondo, che ’n vita loro hanno auto a gustare: questo dà loro all’alma grieve pondo. Massime un giucator, ch’è uso a stare sempre in suo vita sanza aver piatade, per sé non usa alfin piatà trovare.
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Or non è questa ben gran ciechitade, che un pel giuoco si dinuda e spoglia e cade in vergognosa povertade? Come può l ’uon di giucare aver voglia, che carte o dadi non hanno fermezza e ’1 giuoco è mobil com’al vento foglia? Ma, quando e* perde, e ’ gli par tanta asprezza, e chi dice il contrario e ’ non è il vero: chi giuoca il mondo brama e D io disprezza. Come dice il salmista nel Salterò: « Non truovo verità in bocca di genti » e ’ non avien d’alcuno altro mistero, pel qual mendichi van tutti e saccenti. Chi questo giuoco vuol pur seguitare, contro a que’ tali i dimon son vincenti. Ma sai tu di che l ’uon si dee guardare, se vuole in questo mondo avere onore? D i non prometter quel non crede fare, che, quando egli è un gran promettitore, po’ nolFattenga è aguagliato alla gatta, ed è sempre chiamato traditore. Però, compagno, abbi la lingua ratta a ripensar se mai tu promettessi mai cosa niuna che non abbia fatta. Vorrei che per tuo onor sì ¡’attenessi, ché per tal modo amor sempre si porta; però gli orecchi tua a ciò tien dessi e fa’ che abbia la tuo mente acorta di prender altro spasso che di giuoco e che per te sia la superbia morta; e partiti da’ vizi a poco a poco, se trovar vuoi dal Redentor piatade, e fuggirai da quello ardente foco. Fa’ che non usi mai la crudeltade con nessun che tu abbia a praticare, ma ghiaci sempre in luogo d ’umiltade. Ah, quanto trista cosa è quel giucare, ché, quanto più vi penso, più mi muovo a dover questo vizio disprezzare, ché, benché al presente i ’ non lo pruovo, vengo pensando al mie tempo passato e nessun lieto o ricco non ne truovo! Quand’uno ara un gran tempo giucato, traverrà sé e sua famiglia ignuda, e in anima e ’n corpo fía dannato, perch’egli ha l ’alma e ’1 corpo tanto cruda che questi tai vivon qual animali
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e poi fanno la morte che fé Giuda. E1 giuoco è tutto falsità e mali, ché, quanto più ben dentro vi t’affanni, vie più t’intridi ne’ sette mortali. Come ciascun lo sa, egli è tutto inganni, ch’ogni cosa faresti, vincer credendo, ma tu stessi allo ’nferno ti condanni, ch’i ’ crederrei che ciaschedun, veggendo e suo’ cattivi fini e sua radice, lo dovessi lasciare, altro prendendo. Quanto si può chiamare un uon felice quel che ’ntende fuggir questo tormento, qual più tristo è, secondo che si dice! Però, amico car, resta contento di lasciar questo giuoco eh’è sì tristo e far d’altro essercizio nudrimento, se far tu vuoi del paradiso acquisto. LXVII GV Superbia è quella che più a Dio dispiace, perch’un superbo sta in grande errore, ché gli pare esser di tutti il maggiore e in suo vita vive in contumace. Ah, questo suo pensier quant’è fallace, però che quello etterno Creatore conosce del suo vizio el suo sapore e disce: « Ugual ti feci a quel servace! » Ma perché ’1 vizio gli dispiace tanto, ciascun sa che cacciò del paradiso chi possedeva l’angelico santo. Quel Lucibel, ch’era nel vizio intriso, giù ricascò con lagrime e con pianto e brutto fece il suo lucente viso. Maria col suo bel riso ogni superbo abbassa, qual si vede, gli umili essalta e nel suo regno siede. LXVIII GV Invidia ancor dispiasce al Criatore, perché uno invidioso duo mal fa: primo si è che in tormento istà,
del ben che vede altrui e* n’ha dolore; el sicondo è che non pensa al Signore, che gli ha prestata la carnalità ed hagli data tanta libertà che esser può com’un altro il maggiore. Non doverrebbe ignun ramaricarsi, non possedendo d’esti ben del mondo, ma debbasi più presto gloriarsi, pensando che di là sarà giocondo e potrà con quel gaidio ristorarsi che non fie transitivo o vagabondo. Ché ciò ch’è in questo tondo son cose vane, mancative e stolte: chi te le presta alfin quel te l ’ha tolte.
LXIX GV Ira commette ancor più d ’uno errore, ché ’nduce il vir l ’un l ’altro a verberare e anche ciascun santo a bestemiare, de’ quali alfin ne sentirà dolore. E ciascheduno induce a ta'l tenore che non si cura di micidio fare e ’1 nome di Gesù invan ricordare, tant’è la forza del suo gran furore. Da questo maladetto vizio d ’ira i’ priego ciaschedun che de’ guardarsi, perché chi ’1 segue allo ’nferno lo tira. Ma ognun debba da questo spiccarsi, perché chiar vede, chi fisso ci mira, ch’egli è cagion di se stesso dannarsi. Però debba ingegnarsi ciascun l ’ira lasciar, vivendo umile, e seguitar del buon Gesù suo stile.
LXX GV Gola è ’1 più tristo che si possa avere, ché per la gola ogni cosa faresti e d’andare a furar non cureresti, pur ch’a lei dessi da mangiare o bere.
Ella vorre’ ciascun giorno godere e sempre tiene e sua appetiti desti, e tu pur lei contentarla vorresti, ma ella po’ mal fin ti fa vedere. Solo ella ti fare* mal capitare; se tu guardassi a suo voglie sfrenate, alle pene infernal (ti) farien andare, dove tal alme vi sono aspettate, c’hanno voluto gola seguitare; que’ son colle demonia collocate. Quant’anime dannate ardon nel fuoco per cotal peccato, sol perc’hanno la gola contentato!
LXXI GV Lussuria fa l ’uon più presto dannare, perché al corpo ella dà gran piacere, ma per iscritto chiar si può vedere che chi la segue non si può salvare. Colui che questo vizio ha a seguitare far non potrebbe maggior dispiacere a Gesù Cristo, ch’ell’usa sapere pria che questo vizio induca a fare. Conviegli spesso andarsi a confessare chi vuol questo reo vizio levar via, e col digiun la carne rafrenare da’ troppi cibi, che gli fan resia, e castità s’ingegni d’osservare, se vuol ch’ai regno l’alma accetta sia. Poi pensi a Virgo pia, che la verginità gli piacque tanto che in lei discese lo Spirito Santo.
LXXII GV Avarizia, secondo che si disce, dispiace molto all’alta Maestade, perché l ’avaro non ha mai piatade di povertà, vedendo sé felisce. Però andrà nelPinfernal pendisce, là dove esser non può più scuritade,
ma, se a* poveri farà caritade, non arà a ricercar quelle radisce. Far carità a’ poveri in suo vita si debba ciaschedun di voi volere, non conducendo sé a sua partita. Sì come chiaramente puoi vedere, quando Palma dal corpo fia partita, non sai qual luogo quella debba avere. Però si fa assapere: chi carità non ha per sé non truova, secondo che san Pagol chiar ti pruova.
LXXIII GV Accidia è quella che amazza l ’uomo e ’1 corpo e l ’alma, perché ’n passione sempre mai sta e in van tentazione, dal nimico cercando il che o ’1 corno. Quand^ha peccato, gli fa dare un tomo per modo che lo manda in perdizione, e non truova da Dio redenzione, come trovò colui che mangiò il pomo. Cacciar da sé, ingegnando viver lieto, debba ciascuno ogni maninconia, con pace e unione, moto e quieto, sempre temendo il figliuol di Maria, e in letizia debba esser discreto, sempre del mezzo pigliando la via. E arà gran balìa di vincer sé da tutti questi mali, qua’ son legati ne’ sette mortali.
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Gloria rendiamo all’alto Iddio verace, fattor di cielo e terra per natura, qual senza lui miuna cosa si face. Nel cielo è Iddio in istante e ’n figura, in terra, in acqua e in ogni altro lato, sì che chi spera in lui l ’alma è sicura. In terra pace sempre ci ha donato, la qual, chi l ’ha, non sente mai tormento,
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e chi non l ’ha sta sempre tribulato. Gli uomini, e quali prendon nudrimento servire a Dio, vivon col cor giocondo e truovonsi a lor fine a salvamento. Buona è la volontà chi in questo mondo ha posta ferma e fissa suo speranza in Dio, che ’1 può cavar dell’air fondo. Noi laldiam te, che se* ferma sustanza, per la cui laide tu ci doni grazia, che non la può donare altra possanza. Ciascun te benedir già non si sazia, che per te in questa selva siàn venuti, e per tal dono ciascun ti ringrazia. Te adorar solamente tenuti no’ siamo, e non cercare altra resia, ché col tuo sangue tu ci hai sostenuti, glorificando te e la regia tuo Madre santa, ch’è tanta piatosa che in lei sola sta la monarchia. Grazia risceve tanta luminosa colui che col buon cuore a lei la chiede, e Tagnel dona, perché graziosa. Da te la gran misericordia cede, e sì Taspergi a ciascun peccatore, perché tre in una essenzia teco siede. Signore Iddio, signor d ’ogni signore, che solo a noi ci basta un termin tale che inver noi tu sia perdonatore, tu se* quel vero Iddio celestiale, che far tu puoi il peccator felice: però libera me dal rio mortale! Onnipotente Iddio, Padre e radice di ciaschedun che ’ntende di far bene, scampar tu *1 puoi dalTenfernal pendice. Signor, Figliuolo unigenito sène, di quella Trinità uno Iddio solo, però può* trarre il peccator di pene. Signore Iddio, agnel dTddio, che ’1 duolo di ciascun tribulato puoi sanare e più far salvo ciascheduno stuolo, figliuol del Padre tuo, ch’usò mandare se stesso in carne con bramosa voglia sol per Tumanità ricomperare, el cui nel mondo tu lievi la doglia, e ciascun peccator vive a speranza né altro brama che salir tuo soglia,
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miserere di noi! Ed è a bastanza che la tuo Madre con lucente ammanto rìcuopra de’ peccati mie ignoranza, perché tu solo se’ sopr’ogni santo, tu solo se’ sopra ogni signore, tu sol piantasti in terra il primo pianto, tu sol se' alto Gesù Cristo e altore di ciascun che s’abassa a tue virtute e se’ di chi si innalza abassatore. Col tuo Spirito Santo dai salute a chi ’nverso di te volge suo voglia; ciascun alme contrarie son perdute. Tuo gloria e di tuo padre è una soglia, la qual chi salir può non sente affanno e chi la scende sta sempre mai in doglia, e così sempre sia nell’alto scanno. L’alma mie aflitta, intrisa nel peccato, tu sol la puoi cavar di pena e danno. Però ti priego che racomandato è ’1 tuo servo Filippo, o car Signore, ch’a suo ignoranza non abbia guardato, ma sol di lui tu sia perdonatore. LXXV GV
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Regi(n)a di tutto quanto il mondo! Ciascheduna ora ti dovere’ laldare chi è a tuo governo in questo tondo; ed io in spezieltà ti vo’ pregare che l ’alma venga al tuo regno giocondo, perché tu sola sì la puoi salvare. Donale aiuto, ché è col corpo unita, acciò non sia dannata a sua partita. M a r ia è ’1 nome tuo; umile e pura più che gnun’altra donna si trovassi, piacque a Gesù incarnare in tuo figura. Riscaldi col tuo amore infino a’ sassi. Chi serve te vive senza paura, e quel che ti diserve perde e passi: di sua vita viziosa mancheràe, nelle pene infernal si troverràe. G r a z ia risceve ciascun peccatore che viene a te contrito con buon zelo; tu la ’mpetri per lui da quel Fattore A ve
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di cielo e terra, eh’è con teco in cielo. Istà unito Gesù salvatore e per tuo’ prieghi e* lieva ciascun velo, e sì ci dela tutte le peccata, quando tu sola se' nostra avocata. P ie n a se' vaso di misericordia, e chi ha diferenza col tuo Figlio colla tuo possa tu ’1 metti in concordia. Chi ti risguarda fisso col suo ciglio non arà mai col tuo Figliuol discordia, perché tu se’ quel saggio e buon consiglio; e ciascun peccator ch’amerà tene non sentirà alfin suo mortai pene. D o m in u s fue il tuo Figliuol diletto, il qual ci portò tanta affezione, mentre che l ’alattasti col tuo petto, e ’n trenta tre anni patì passione per noi ricomperar. Quest’è l’effetto, per la cui morte si arà salvazione: ciascun conserveràe e comandamenti di Dio, scamperàe da que’ tormenti. T e c u m s’acosta chi ha l ’alma cara e ’ntende al mondo viver costumato, perché se’ gioia lucida e preclara; e chi del tuo amor fie innebriato la suo partita alfin non sarà amara, perché chiaro sarà d’esser salvato. E chi nel mondo co’ vizi sta verde el corpo muore e l ’alma sua si perde. B e n e d it t a sia sempre, o dolce amanto, col qual ricuopri ciascun peccatore! Tu col tuo Figlio fai preghiera tanto che tu lo plachi, ed è perdonatore. Quel che ’n te spera si può chiamar santo, perch’è infiammato del tuo santo ardore; quel che te laida e sempre benedisce del tuo ardente amor sì si nudrisce. T u sola se’ che ’1 mondo puoi salvare, per da cui salvazion saren beati, se tua clemenzia userà perdonare le ’ngiurie ti facciàn e’ gran peccati. Dificile è, tanti sono a contare; parcegli fare a noi tanti celati che non credian ci vegga criatura: ciò che facciàn lo vede tua figura. I n m u lie r ib u s , donna, se’ degna, ché ciaschedun s’ingegna te amare;
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tu se’ nostra bandiera e nostra insegna. ’Nanzi al tuo Figlio usi in ginocchia stare, e, quando lui col peccator disdegna, con umiltà tanto Fusi pregare ’nanzi ti rizzi tu gli fai far pace, perché di te uscì; quest’è verace. B e n e d it t u s tuo nome in ogni canto, el qual si chiama vergine Maria. In te discese lo Spirito Santo, perché ’n te vidde tanta leggiadria. Penasti a ’ngravidare a punto tanto quanto penò uscir tuo vosce pia; discesti: « I ’ son l’ancilla del Signore ». Allor discese in te quel Redentore. F r u ttu s fu quello il qual tu concepisti; portato che l ’avesti nove mesi, sanza nessuna doglia il partoristi; onde nostri almi furon tutti accesi, e nel tuo cuor molta allegrezza avesti. Cristo fu il frutto che portò gran pesi; sol per ricomperar la orlatura portò tormenti e ’n croce morte dura. V e n t r i s tuo rimase tutto purifico; vergine innanzi al parto e apo’ il parto, el tuo corpo restò tanto pacifico, come per altri versi chiar t’incarto. Di te si nutricò, quest’è certifico, come ci mostra il vangelista quarto san Giovanni; e, s’il mira bene in vista, chi studia in suo’ vangei virtù acquista. T u i gaidio grande fu quando Gesù nato vedesti in sull’alba del giorno, e sì lo riscaldò l’asello e ’1 bu, in molta povertà fra ’1 fieno addorno. Allor ripiene le profezie fu. Pecore e mandrìan gli stava intorno; ciascun gridava e non faceva resta: « Gloria in eccelsis Deo! » con gaidio e festa. G e s ù fu ’1 nome del tuo car Figliuolo; suo madre, figlia e sposa fusti certa, onde di lui ricevesti gran duolo, quando la piaga del costato aperta vedesti, qual gli fece quello stuolo. Onde per la ferita ciascun merta, chi ben contempla, quella passione, la qual portò Gesù, nostre cagione.
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e benigna tu se* nello aspetto; e chi si inchina innanzi a tua clemenza molta allegrezza ara nel suo cospetto di vederte unita colla essenzia, tuo Padre e Figlio, un medesimo effetto, del qual discese in te la sua potenza. Che per tua umiltà ardisco dire: ricorra a te chi vuol grazia dal Sire. M a r ia , sempre mai vergine tu stesti; ma non discese in te quel Creatore pella verginità che tu avesti, ma per la umilità quello splendore com’un baleno apparir lo vedesti. Allor ripiena fusti del suo amore; accettata ch’avesti la proposta, all’angel Gabriel festi risposta. M a te r tu se* di tutto l ’universo mondo, così pagan come cristiani, e, bench’egli abbin lor fede a traverso e in lor vita vivon come cani, alfin lor l’alma e ’1 corpo egli hanno perso e variati son d’animi strani, perché e’ non credon che tu concepissi e che di te Gesù Cristo n’uscissi. D e i è quello in cui creder doviamo, propio in lui sol, lasciando ogni altra cosa, perché da lui carne umana aviamo, che ce la diè con sua voglia bramosa. Adunque tegnàn via che gnel rendiamo al nostro fin l’alma che sia gioiosa, perché ce la prestò lucida e pura, e sì la criò propio a sua figura. O r a p r ò n o b i s , ché n’abbiàn bisogno, massima io Filippo peccatore; e benché il nome mio qui ’ncarto e pogno, degno non son di trattar tal tenore, ch’io pecco desto e dormendo anche in sogno e sono intriso in modo in questo errore che, se la tua piatà non mi tien fermo le mani in capo, i’ me n’andrei allo ’nferno. P e c c a to r ib u s siam ciascun mortale e, benché nati siàn con libertate, ché ciascun de’ conoscer ben dal male, c’induce tanto la carnalitate e dacci più pensieri attalentale S a n ta
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perché conosce nostra ciechitate e seguita ciascun con suoi inganni, tanto che pecca, e poi il lascia in afanni. N u n c è venuto il tempo che piatate aver tu dei del tuo famulo infermo, ché torni l ’alma sua in sanila te: se non la sani, è com’un morto vermo. Priego m’aiuti in questa infermitate, ch’i’ vinca contro al nimico lo schermo. Miserere di me, donna divina, perch’io non truovo miglior medicina! E in o ra m o r t is fontana di clemenza, fa’ che ci libri da quel dimon rio, ché non ci vinca contro la sentenza del tuo Figliuolo unigenito e pio. Omè, ché, s’io non veggo quella essenza, certo sarebbe mia alma in obrio. Quel che mi fa te pregar con baldanza si è che sola in te ho gran fidanza. A m e n . Sie tu sempre mai ringraziata; orar ti debba ciaschedun cristiano, e la nostr’alma ti sia ricordata; e non guardare al nostro pensier vano, quando la fia dal corpo seperata, ché non la lasci far camino strano. Altro non ho da dir 1, o Mater Dei, se none ognora: miserere mei!
LXXVI GV
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Nel mille quatrocensessanta e cinque d’agosto una mattina a dì ventotto, al cor grievi pensier fur apropinque, perché colui eh’a Venere sta sotto non pensa mai se non poter servire a’ raggi suoi, che l ’han così condotto. Tornando una mattina da udire e da veder quel sacro sacramento,
1 Cod. dar.
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giugnendo in casa a mensa volendo ire, quella che di me fé 'ngeneramento con duo mie’ fratti mi parloron corto; ma ella cominciò il proponimento, el qual dissella a me ch'egli era morto quel propio ben ch'io disidero al mondo, onde per questo i' ne presi sconforto, perch'io pensavo a quel tempo giocondo ch'auto avevo e speravo d'avere e cogitando scesi giù al fondo. Volendo il certo ingegnarmi sapere, e così sendo, feci premissione per la sua alma a Dio di buon volere: po’ che aver non potia consolazione del corpo, intesi a l'alma dare aiuto e salmi dir per lui coll'orazione. E 'n un punto il mio almo fu pentuto, perch'io pensai prima voler sapere s'egli era vero il caso conosciuto. Non potendo in tal doglia più manere, presi partito con afrizione, volendo tal viaggio sol tenere. E ambulando in questa afflizione, mi riscontrai in un mie sozio caro, ch'alquanto mitico la passione, perch'io gli dissi il mio dolore amaro ed egli a me: « Dove se' tu inviato? » I' gnene dissi e mi diè un riparo. E quando tal ripar m'ebbe mostrato, insieme ci aviamo ragionando, onde che 'n San Martin fui capitato. Con umiltà e' mi venne pregando ch'i' dovessi con lui quivi ristare, ché con meco verrebbe poi cercando qualcun che mi dovessi dichiarare, in parlar fiorentino e non todesco, se questo tal di vita avia a mancare. E nel voltar ch'io fe’, viddi Francesco de' Ricci, il quale avevo in lui fidanza e che nel dirmi il vero era manesco. Quando Simon fornì la sezza stanza, i’ m'acostai a'1 Francia con sospiri; dissi: « Io ti parlerò con aroganza, a ciò che mitigar possa e martiri ch’i’ ho portato e porto in questo giorno,
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come mie vista il mostra, se ben miri; perché mi par ricever troppo scorno d ’un caso che m’ha ’1 cor tutto conquiso: però ricorro a te, compagno adorno, ché chiaro son che mi puoi dare aviso di questo dubio che mi par sì strano, se ’1 tuo vicino s’andò a paradiso ». Ed egli a me: « Tu ti mostri lontano che par che da Firenze tu non sia: iarsera morì, quest’è certano ». Pensa s’a me turbò la fantasia; quando a quel modo lui m’ebbe parlato, el cor coll’almo mio olisse in resia. E’ disse a me: « Tu par svemorato », perché di mio dolor si fu accorto. Disse: « Sta’ lieto e non adolorato, acciò che chiaro il caso i ’ t’abbia pòrto: colui che è morto si è il terzo fratello di chi tre soli amasti; piglia conforto ». Ond’è ch’allora i’ fe’ come l ’uccello: quando vede venir la primavera, viene in amore’e fa un riso bello. Ma per far chiara tutta la matera, dissi: « I ’ non ne conosco più ch’un paio; deh, dimmi il nome suo e come egli era! » Ed egli a me: « Per far fiorir tuo maio, undici anni è che questo tal fu nato: pulclo era e nome avea Niccolaio. Ma fa’ che ’ntenda ch’egli è ben malato il secondo fratei di quel ch’amasti e anche quel tre lune hai seguitato ». Ed io a lui: « Se mai amor mi portasti, se ti ricorda, dimmi in conclusione quanti giorni è che con lui favellasti ». Veggendomi allenare la passione, mi disse che gran male aveva auto, ma migliorata era la infezione. E quando il caso vero ebbi saputo, ringraziai l ’alto Iddio e sua clemenza di tanto benificio riscevuto. E poi, sendo col Francia alla presenza, dissi: « Perdona a me che a disagio tenuto ho te », e sì presi licenza. A casa mi tornai al mio bell’agio, pensando poi la sera di tornare
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nella via che petito ho tal palagio, sempre pensando di poter parlare al meschinel eh’è nel letto malato e la suo malattia vorrei levare. Quando a Dio parrà, Tara sanato.
LXXVII S o n e t t o d ’u n a m ic o
m a n d a to a d im a n d a r m i
GV B e n c h é de* tu a q u e l c h e m ’h a i m a n d a to n o n sia , m a p u r e i ’ t i r is p o n d e r ò e , e c r e d ia n c h ’e g li è v e r o i ’ t i d ir ò e , p e r n o n p a r e r c h ’io sia s v e m o r a to . T u v u o ’ s a p e r q u a l f u p r im a c r ìa to , o 7 P a d r e o D i o ; r i t r o v a to l ’h o e p e r h c r i t tu r a e n o n t e i n e g h e r ò e , c h e n e l C r e d o d i D a n te è d ic h ia r a to c o m e il P a d r e e I d d i o s o lo u n o è n e e p r im a l ’u n c h e l ’a ltr o g ià n o n fu e . S o c h e s e ’ s a v io e h a ’lo i n te s o b e n e e s e ’ m a e s tr o p ie n d ’o g n i v ir tu te , m a p u r e u n ’a ltr a i ’ n e v o ’ d a r e a te n e , c h é m e l d ic h ia r i, e n o n s e g u ir ò p i t i e . D i m m i q u a l p r im a f u e b a le n o o tu o n o , e f a ’ c h e n o n m i in g a n n i; n o n t e i fa r d ir e a L o r e n z o d i V a n n i.
R is p o s ta d i m e
Libenter tuo sonetto i’ ho accettato e di buon cuor teco carmineròe, perché chiar son che da te impareròe, po’ che scienza Iddio non m’ha prestato. Parmi eh’un po’ ti sia disonestato pel tuo sonetto che riscevuto hoe, perché tu di’ che io fatto non l ’hoe; credi che vuoi, ché ’1 ver non è celato. Ma pure il tuono dico prima viene, benché in uno stante; colà sue omor frigidi sono, e al caldo viene. Ma, se il balen tu prima vedi in giùe, è per distanzia della via che viene, perché così promesso ha il buon Gesùe.
Ma con tuo virtù tue rivesti ignudo me co* tua buon panni; s’una sera ti truovo, esco d’affanni. LXXVIII GV Com’esser può che tu sia sì legato e tal figura non abbia mirata? Questa fattura di Venere è stata e sempre debi aver lei ringraziato. Alquanto al mio dolor conforto hai dato, po’ che tu di’ non aver publicata costei, che ’n paradiso par sia nata; però dico eh’Amor non t’ha ingannato. Tu hai usata gran discrezione, da poi che sol t’usi meco allargare per racontarmi le tuo aflizione. E se a mio modo tu intenderai fare, al fatto tuo darai concrusione, che l ’un sozio coll’altro si dee atare. Risposta mi dei dare n e l modo festi prima che mi piace; almanco il nome in capo verso ghiace. LXXIX GV O trinus, etterno, infinito Signore Padre col Figlio e lo Spirito Santo, cedi a frail mie mente il vero pianto, che fa giustificare il peccatore! E fa’ di conservar sì lo mio core che giustamente i ’ viva insino a tanto che l ’alma da me parta e vesta il manto, ch’avanza ogni fior d’erba il suo colore! Anime sante che sono a abitare dentro da’ cor, dove sempre si canta con voci umili uniti de’ peccanti la Vergine Maria, ch’è virtù tanta, sì ci die lume, che siamo accecati, e lavi ben la mente tutta quanta! Ciascuna chiesa ammanta, Regina, mater Dei, vergine ornata, etternalmente sia nostra avocata!
LXXX GV « Pax vobis » diss’e a* discepoli suoi Gesù lasciò per lo suo testamento, quando gli parve di far partimento e ascendere al ciel, qual leggian noi. Disse: « Fra tei, la pace sia con voi ». Pace mantien ciaschedun reggimento; se con giustizia fa nutricamento, a porto di salute ariva poi. La pace è gloria di tutti e beati, consolazion di tutte vedovelle, affezion di tutti e disperati, spasso di maritate e verginelle, ed è conforto di tutti affannati; nella pace son tutte cose belle. Ville, città e castelle per pace mantengon tranquilla vittoria; pace speriamo alfin d’etterna gloria. LXXXI GV
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Non posso più ched e* non si discuopra el mio affritto e cordoglioso pianto, chV posso portar vanto di quanti messi n'ha rota sozopra. Qual fia colui che ’1 mie affanno ricuopra, veggendomi perduto il caro bene, chT sono in tante pene ohed io non posso dir che più non sia? Ma, po’ che piace a’ ciel, che così sia, ch’F pur ti porterò sempre nel core, benché con gran dolore, ricevo questa pena con gran torto! Tu fusti mio tesoro e mio conforto; non posso discordare in nessun modo quel glorioso nodo, con che legasti me per sempre mai. Deh, non volere almen che ’n tanti guai faccia da te sì cruda dipartenza, ma vo’ centra liscenza andar sanza mie cura di me stesso! Perché da te mi veggio esser summesso, non guarderò mai più nessuna in viso;
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credo che '1 paradiso non potrà la mie doglia raffrenare. Ora finisca i pianti e '1 sospirare, or è finito il grieve dolor mio; quel che m’era uno iddio hommel perduto, e vonne lacrimando. Non resterò, che sempre andrò cercando di chi somigli tua gentil figura; s'i' *1 trovo per ventura, me li farò suggetto a tutte l ’ore. Priego te come caro e mio signore ti ricordi del ben ch'io t'ho voluto; così mi sia in aiuto el nome tuo benigno e grazioso. O passata dolcezza, o mio riposo, certo i' ti porterò sempre nel core, farotti sempre onore fin alla morte, dovunch’io mi sia! Così poss'io veder vendetta ria di chi è stato principal cagione di tal seperazione: da' can vegga mangiar le carne e Tossa! Quella fiamma infernal, cocente e rossa sì lo consumi come un traditore, c ’ha messo tanto errore per dipartire el nostro ben volere! I' priego Iddio ch'i' '1 possa ancor vedere a coda di cavallo strascinare e possa ancor mangiare delle suo carni, e po' sarei contento! Così di quella lingua i' vegga stento, la qual non ha potuto peggio fare: col folle e rio parlare ha fatto venir me d'ogni ben privo; cagion ched io ho perso tale ulivo che saria suto pari a Ganimede. Non resta che gran fede ti porto stretta e cinta più che mai. Or va’, canzona mia, dove tu sai; gittati ginocchione agli occhi belli e fa’ che non favelli finché ti chiamerà piatosamente. E digli che, se mai le fui servente, mi do di certo tutto al suo bel volto e da ogni altro sciolto, salvo che lei, che mi tien sì legato. Così di certo i' ho diliberato
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di non volere al mondo altro seguire; con ogni gran martire sempre fie ferma e pura la mia fede. Piacciati addunque aver di me merzede; piglia delle mie carni ogni vendetta, e cosi pura e netta ti dono l ’alma mia, vivo e morto. Rafrena il duro cuor, ch’i’ sono al porto, fa’ ch’i ’ non sia in tutto abbandonato, però che gran peccato commetti contro a quel che t’ama tanto. Però t’ho scritta questa con gran pianto; mandola a te perché mi vo’ partire. Paura ho di morire, se prima non ti do mie ’menzione. E dovunch’io mi sia, in divozione vedrotti e parlerò visibilmente; e nessun’altra gente, altri che tu, sarà mai mio signore. I ’ t’ho donata l ’alma, il corpo e ’1 core, i’ ti chieggo liscenza, o Caterina; partomi domattina: ricorditi del tuo Chiffo servidore. Addio, ti lascio e vonne con dolore, immaginando vederti a ogni passo; col capo chino e basso passionato n’andrò, plorando forte, pensando che per te fo mille morte! LXXXII S o n e t t o f a t t o p e r G i o v a n n i à i P ie r o F ra n ce sc o d i s e r N ig i e m a n d a to a F ilip p o S c a r la tti q u e s to d ì 1 4 d i g e n n a io 1 4 7 7
GV I o t i v i d d i is ta m a n d a l p o d e s t à e p e r p a r la r ti istu d ia * f o r t e e l p a s s o , m a tu g i v i s ì r a t t o a c a p o b a s s o c h ’i ’ m i r im a s i u n g ra n p e z z o d i q u a . C e r c a to h o lo s c r i t to i o d a t r e d ì in q u a d e l ta c c u in , s u l q u a le p o s a i u n sa sso , p e r d a r g li c o m p i m e n to p e r m io s p a s s o ; n o n l ’h o t r o v a to , o n d e m a l m e n e sa. S ì c h e t p o i c h e v e n u t o sa r a i q u i, f a ’ c h ’i ’ p o s s a f o r n ir lo , s e t i p ia c e , a c ciò c h e in o z io n o n s p e n d a e m ie ’ d ì.
Se per tuo suora, che inferma giace, posso qualcosa, o tu mel scrivi o d i’, ché di servirti, sai, non m i dispiace. Iddio ti doni pace e renda a quella intera sanitate, sì come tu tti so desiderate. Risposta del detto Filippo al detto G iovanni a dì 24 detto Quand’io risguardo alla tuo carità, la qual mi fa di virtù brullo e casso, anzi dormente, pigro quale un tasso, involto da pensier di vanità, s’io non seguo la legge d’amistà non è perch’io sie sazio, anzi son lasso per mio destino, el qua1! mi dà fracasso, dandomi in giù e ’n su e ’n qua e ’n là. El calendario tuo ho posto lì nello scrittoio in sul desco mio verace, onde lo puoi fornir, come tu di*. E quando Arno ti trae di contumace, ti piaccia ritornare a veder mi, come per uso t’è suto capace. La ’nfermità si tace di mie sorella, perché assai pregate hanno per lei la somma Trini tate. E di queste derrate ci pasce el mondo con affanni e pene; ma che differenza è dal male al bene! LXXXIII * GV Qua si ragiona che la ipocresia abbi quasi ismarrito el suo cammino, di che si dole e plora el Camerino sanza ragion sopporti villania. Non so se n ’è cagion tuo malattia disturbar questo frate isoappucdno, che conta paternostri a mattutino, mostrando in vista pien di cortesia. * S o n etto fa tto p e r F ilip p o S carlatti e m an dato a G a ie tto d i N ico lò M asi q u esto d ì 2 4 d i gennaio 1477.
La causa a di presso ci dimostra da gran labor lui essere ocupato, com’è per uso nella vita nostra. Però, se tu non se’ in tutto sanato, teco verrò a veder questa giostra, e colla lira ciascun fia provato. Di quel ch’i ’ ho parlato, secondo che fra 1 vulgo si ragiona, lo ’mpedisce el figliuol di Falterona. E a me tu perdona se il tuo vicitar non ho a seguire; giusta cagion m’impedisce el venire. LXXXIV * GV Piglia conforto, o popol fiorentino, che Avicenna, Ipocrate e Galieno dice han auto ereda in un baleno per pratica dottor sine latino. Se tu gli mostri ranno, agresto o vino bianco te ne dirà, né più né meno, che ’1 gusto suo d ’oppenion sia pieno, questo tuo sperto ispezial Paperino. La sua botega è ’n sul canto alla Paglia e con religiosi e contadini o con donnucce sempre si travaglia. Beato s’è chi cerca sua confini, però che dice a caso: « Se vai, vaglia; se non, i’ manterrò grassi e becchini ». E vuol pochi quatrini, perché molti orinai gli fanno siepe a vederlo pestar le spezie e ’1 pepe. LXXXV GV Zelante è ’1 cor suggetto esser di cosa ch’a molti ne faria gran maraviglia, uscita di faretra tal cintiglia che fa esser materia mostruosa. * Sonetto fatto per Filippo Scarlatti per cagione d’un certo Paperino ispeziale al Canto alla Paglia era divenuto medico in poco tempo e medicava, questo dì 29 di gennaio 1477.
Ancor questa saetta non si posa, ch’aperto ch’ebbe a me le chiuse ciglia, con me d’infiammare altri si sfavigli a, per far di pace vita tempestosa. Oh, quanti con tal arco son feriti! Oh, quanti pello mondo tapinando! Oh, quanti da costui suti ischerniti! È tal ch’ailquanto tempo dominando, è ’n una brevità al fondo giti. Non è valsuto, i ’ mi ti racomando. Morte vanno chiamando sol per farne una uscir d ’ogni stento. Chi Amor ferisce ognor fa morte cento,
LXXXVI GV Non mi par buon costume d ’uon giulìo di far d’una tal cosa promessione, mostrando il puro core alla intenzione, e poi di metter la suo fé in oblio. Ed io, tirato dall’amor disio, sa’ ch’io ti feci a ciò contradizione, e so che ne pigliasti alterazione; ma sie che vuol, ch’i’ mi rifido in Dio. Credetti avere acquistato un fratello, e io veggo criata nimicizia; onde m’è al cor venenoso coltello. Però lieva da te tanta nequizia e sia piacevol qual tu mi par bello, acciò che si conservi l ’amicizia. Passata è puerizia di te come di me; chiar ti riplìco: o voglia tu o no sarò tuo amico.
LXXXVII GV Venite ad aiutarmi, o mie’ maggiori, a stiracchiar tal milze, ch’è mestieri a tutti que’ di Magra e barattieri che siate, come me, stiracchiatori! Bisogna venghin tutti e giucatori, sguitti, sviati, bari e trabalzieri,
uccellate* con molti altri gazzieri, pastaccini e ruffiani e purgatori. Que’ ch’a bottega non vogliono stare dietro a’ fanciugli spendon lor derrate, tutti verrete meco a stiracchiare; e ogni giorno il Miserer cantate, qual per gran forza l ’arete a ’mparare collo stenterillo che praticate. Con festa ve n’andate pel perdono a Pontriemoli alla sagra, gridando: « Milz’ e gazze in Valdimagra! » LXXXVIII GV I ’ ho gittata le coltella e ’ vanni e l ’altre penne, sì ch’i’ ho mudato e son condotto per lo mio peccato a giucar ciò ch’i’ ho, infino a’ panni. E per ristoro di tutti e mie’ danni un dì di Pasqua ed essendo in mercato, forse con venti soldi ch’i’ avie allato missigli in giuoco, e parvemi mill’anni. I ’ m’ero quasi com’a dir riscosso e avie vinto bolzon pure assai, e tutto di levarmi i ’ mi fu’ mosso. Duino e quatro mi fé trar gran guai, e berrovier m’ebbe le mani addosso; disse: « Sta’ saldo, con noi ne verrai! » Allor missi gran lai; nulla mi valse el dolor radoppiato, ond’io mi truovo perciò incarcerato. LXXXIX GV Fior di tutti e fiorin vo’ siate, rosa e dilettoso pome da vedére e compimento di molto sapere, ché ’n voi bontà e bellezza si posa. Fontana d’acqua chiara, dilettosa verzura di giardino, al mio volere, o carro imperiale al mio parere, rocca dell’altre rocche più forzosa, vo’ mi potete vita e morte dare,
sì stretto avete me in vostre braccia, e non so qual partito deo pigliare. E come ’1 sol distrugge dura diaccia, così fa lo mie cuor sempre apensare di fare o dirvi cosa che vi piaccia. Cosa ch’a voi dispiaccia mi guarderei di fare a voi, madonna, sostegno di mie vita, o gran colonna!
XC GV Po' che sonetti cominciamo a dire, parlian di Gieso Cristo salvatore, di gloria re e del mondo signore. E ’ volle nella Vergine venire, e po’ gli piacque morte sofferire per vincere e scacciar via ogni errore; el mondo alluminò con suo splendore Cristo beato, nostro padre e sire. E questo conterai agli Cristiani, sonetto mio, ciò che tu parli e dici, che Gieso Cristo aperte tien le mani per ricever color che sono suo' amici e que’ ch'ai mondo vivon come cani Cristo gli manderà fra' suoi nimici. Non ti partir di quici, essendo in alto tuo pensiero al mondo, ché ’n una brevità ti truovi al fondo.
XCI GV Oh paradiso tutte gentilezze, oh tu ninferno d’ardente vapore, oh paradiso pien d ’ogni dolzore, oh tu ninferno pien di grave asprezze! Oh paradiso canto e allegrezze, oh tu ninferno pianto e gran dolore, oh paradiso pien d’ogni splendore, oh tu ninferno pien d’ogni stranezze! Ha diversi tormenti chi è assiso dentro da te, inferno dispiacente, e più gente a te vien ch’ai paradiso!
Or che farebbon s’tu fussi piacente? ché ne verrieno a te con festa e riso, più tosto ch'a Dio padre onnipotente. Ma chi è intelligente non porrà mai in te el suo disio, ma tutto volterassi inverso Iddio. XCII GV Oh tu, che fin va’ cercand’al sentieri, or se’ tu cieco? or non vedi tal fallo? Perché sproni tu tanto il tuo cavallo colle tu’ armi che non t'è mestieri? Oh come, oh quanto spendi volentieri nel tuo corpo per bene adoperarlo, le mani e ’1 viso tuo usi lavarlo e non ti par gravoso, anzi leggieri! Tu hai le man più nere che ’1 carbone e di peccati la faccia imbrattata; oh quanto Todi, e non vuo’ correzione! Tuo libertà tu l'hai sì ben guidata che del diavol tu se’ servo e schiavone, ond’a suo casa alfin fie coricata, da lor martorizzata nel fuoco ardente, qual è sempiterno: cagion ne fia el tuo tristo governo.
xeni GV Sovente, dove son gl’imperadori settanta che di Roma furon nati, che ’n questo mondo furono onorati1? Dove son re e gli altri gran signori? Dove son cavalieri e barbassori, che dopo il tempo d ’Adam furon nati? Oh, quanti di lor son mal capitati, regnando in seggi, in trionfi e ’n valori! Non senno né valor né gentilezza né lor potenzia a lor fecion difesa, tant’è ’1 valor di morte e sua fierezza! 1 Cod. ed en ta ti.
Portar non ne potetton lor ricchezza: quanto più ricchi fur con più asprezza portoron la lor soma che più pesa. Chi ha su* alma stesa inverso Iddio e di divina sorte, legger ne va e non cura la morte. XCIV GV Dappo' che v'è in piacer ched io novelli d'alcun sonetto d'operata rima, ringrazione il Signor di tutto in prima, po' tutti voi sicondi, a me frategli. Colui ch'ascolta vuol ched io favelli, secondo che la mente mia si stima, sol per levarne colla dolce rima se' mie' versetti fossin lungheregli. D'alcun ce ne intendete, i' dico a lui, i’ faccio alquante cose a mio diletto e piacemi d'udir cose d'altrui. E se mi' opre aranno alcun difetto, i' son sanza scienza e sempre fui; però il dir mio non può esser perfetto. Se '1 frail mie intelletto non satisfa, priego non biasimiate, ma sol per mie ignoranza mi scusiate.
XCV GV Assai si truovano oggi degli amici, ma non al fatto di prestar moneta, però che oggi corre una pianeta che non piacciono altrui cotali ufici. I' ho richiesto per insino a quici parenti, amici, palese e sagreta, e, 'nnanzi che la boce sia raccheta, mi guardon come corporal nimici. Però priego chi ha del guadagnato che ben lo guardi e sappilo tenere, sì come me non si truovi ingannato; e chi non ha sì ne pensi d'avere e 'nsacchi quanto può sanza peccato
e non si lasci altrui merzè cadere. S’al mondo vuol godere, faccia d’aver da sé e fia giulìo, e sopra tutto questo tema Iddio. XCVI GV Egli ha perduto il senno e la scienza e ha saputo men eh’un bambolino chi ha chiamato per signore il vino: questo non ha in sé la previdenza. Queste parole dico per sentenza, ché l ’ubriaco non vale un lupino, e beffe se ne fa ciascun vicino e gnun non se lo reca a coscienza. Questo non dico per un né per due, ma truovone la sera ben cinquanta, che hanno grosso il capo come il bue. L’un s’adormenta e l ’altro si millanta, l ’altro si leva e dice: « Che di’ tue? » D ’una parola ne fanno quaranta. Alcun ve n’è che canta, sì che chi seguitar non vuol lor sogno bevalo temperato, il suo bisogno. XCVII GV Se tu diletti di voler rimare, parla quanto più puoi coperto e chiuso, rett’e appuntato, come vedi il fuso, sì che non ti si possa calognare. Fa’ otto piè e sappi consonare duo colonnegli e da nove in giuso principio e fine lega per lo muso, dall’otto in giù t’aconcia di mutare. D ’undici silabe farai tuo versetto, né più né men vi metti, se ’1 vuoi bello, e questo è modo e taglia di sonetto. Sarà trovato a filo e a pennello; tien bene a mente questo ch’io t’ho detto e recati a memoria e al cervello. Però, dolce fratello, se questo modo tien, non potrai errare, e gnun tu’ opre potrà calognare.
XCVIII
O fonte chiara d’ogni gran diletto, o reai fiume dilettoso e bello, o sol che ’1 giorno fai venir novello, come tu mostri il tuo dolce cospetto, tu se’ cole’ in cu’ naturai diletto prese a formarti sanza alcun ribello di bellezza, che fu più che in anello stesse ma’ gemma sanza alcun difetto! Io senza te più viver non vorrei e, s’tu dovessi prima a me venire, la vita mia a te rammenterei e in un dì vorrei teco morire; di grazia a Cristo questo chiederei, per farmi teco in braccio seppellire. F crederrei fiorire se ’n un sipulcro nuovo fra noi dua trovassim’io e la persona tua.
XCIX GV A speranza mi vivo in giorno in giorno, sperando sempre uscir di tanta pena, e più l ’un dì che Taltro manca lena e consumomi come legne in forno. E quando spero d’avere un soggiorno, truovomi raddoppiata mala cena; e allor forte il dolor mi raffrena e mugghio più che non sonò mai corno. La Morte chiamo, ché spenga mie vita; po’ che Fortuna in dolor pur mi tiene, almen facessi all’alma far partita. Sarebbemi rimedio alle mie pene. Però dico a te, Morte: « A me aita, po’ che privato son di tutto bene! » Spezzate le catene son da Fortuna, e hammi sì percosso, macera m’ha la carne e rotto ogni osso.
C
Ora m'aiuti Cristo ch’i ’ non péra e la suo madre vergine Maria, ch’amor m’ha preso di sì gran balìa d’una brunetta, che ’1 suo nome è Nera. E sopra tutte l ’altre ell’è mie spera e consumar mi fa la vita mia; pregar ti vo’ per la tuo cortesia ch’ai tuo servente non sia tropp’altera. F son colui che ti grido d’amore; merzè ti chiedo tanto umilemente che non faccia morir tuo servidore. Piata ti prenda, o stella rilucente; grazia mi fa’ d’amor con umil core, ché sempre ti sarò reai servente. Dolce signor clemente, ogni piata da Dio truova perdona, e crudeltà uccide e abbandona.
CI GV O caro amico discreto e fervente, il qual ti posi alla città del Giglio, pregar ti voglio che ’1 tuo buon consiglio donarmi debbi ancor discretamente, però ch’i’ son quaggiù fra questa gente, che hanno pien di nebbia il lor ventriglio, e sonvi fitto già perfino al ciglio! Dunque ti priego che subitamente tu mi conforti col tuo gran sapere, ch’ai tempo ch’io ci ho stare allegramente possa passar con diletto e piacere, ché l ’aria grossa e la nebbia putente colla cucina non abbia potere, com’ell’ha fatto e anco fa ’1 presente. Lieva lo Sconveniente di levarmi tal male o tanto affanno e ch’io a te ritorni sanza danno.
CII
E viticci saran tosto sermenti e gli alberi fien presto sanza frondi e cangeran colore e cape’ biondi, c’han fatto gli occhi miei tanto dolenti. E1 tempo vola e non con passi lenti e tu, che da’ mie' piè sempre t’ascondi, non arai più que’ labri rubicondi, né le tuo guance tante splendienti. E tuo’ begli occhi, che paion duo stelle, diventeranno ancor di color bruno e tutte le tuo parte tanto snelle. Tu rimarrai come ’1 verno il pruno quand’egli ha perse le suo veste belle, che poi diviene in odio di ciascuno. Così fuss’io digiuno d’averti vista, come verrà tempo che piangerai il tuo perduto tempo!
CIII S o n e tto
di
C a r lo
S ca la
m a n d a to
a
F ilip p o
GV D o lg o m i s o l d ' A m o r c h e m 'h a in g a n n a to , S c a r la tto m io f in q u e s ta m ia to r n a ta , p e r c h é , s e n d o d a m e V e n u s s p r e z z a ta , o ra p iù c h 'a ltr i m i tr u o v o le g a to d 'u n s ì b e l v is o c h e 'n d e l p a r c r e a to } e d a V e n e r e m a n la p a r f o r m a ta e s o p r 'o g n i a ltr a d o n n a è d ilic a ta , p e r m o d o c h e d i l e i s o n o in fia m a to . E s o lo tu m e n e f u s t i c a g io n e , s e n te n d o la io a t e ta n to lo d a r e , p e r m o d o c h e m i d à g ra n p a s s io n e . O n d 'io p e r q u e s to s ì t i v o ' p r e g a r e , p o ' c h e m 'h a i m e s s o in ta l c o n fu s io n e , c h e t r u o v i il m o d o d i m e c o n so la re . E n o n p iù in d u g ia r e , c h é , s e t r o p p o p e n r a i, p e l d o l o r la g n o ; la m o r t e s e n tir à e l tu o c o m p a g n o .
R is p o s ta
di
F ilip p o
m a n d a ta
a
C a rlo
Non ti fidar del falso faretrato, che mai ottenne fé ch’egli abbia data, e l ’afritta Canace sventurata memoria fanne e ’1 suo ’nfelice stato. Raguarda Lotto, il qual fu sì beato, e venne in vizio colla figlia amata; po’ guarda Ecùba, che gì seperata, e Fillis, ch’ebbe il suo voler saziato. Ma l’ore perse sanza alcun sermone dolgono al cor gentil, che le tien care, che ’n lor consiste l’opre giuste e buone. Ma noi (che) ’1 tempo usian sì disprezzare che rende fama per suo guidardone a chi ’n virtù ’1 consum’a esserci tare. L’aiuto ch’io t’ho a dare è che tu abbia il cor fervente e magno e del car tempo far frutto e guadagno.
CIV* GV
3 6 9 12 15 18
Come’ Giovanni vangelista scrisse nel cominciar del suo Vangel superno, così dirò di punto come disse. Egli era nel principio un Verbo etterno e questo Verbo era ’1 Figliuol d ’iddio; era con lui e fia in sempiterno. Quest’era nel principio, al parer mio, apresso all Padre, e poi fé cielo e terra, l ’acqua creando e l ’uomo, bono e rio. E se ’1 testo vangelico non erra, i ’ dico ch’egli è fatto sanza lui peccato tal che l ’alte porte serra, per lo qual dico e per poter di cui è fatto vita che è luce de l ’omo; e’ morir volse pel peccato altrui, cioè d ’Adamo pel vietato pomo; e questa luce è ne lo scuro accensa, del qual per lui cavati tutti forno. Tenabre nulla già mai l ’ha comprensa, e p o’ vivo uon mandato fu tra noi,
* Q u i incom incia il V an gelo d i San to G io va n n i, d isp o sto e sc ritto p e r m e Fi lip p o S ca rla tti .
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Giovan chiamato, da divina essensa. Questo ver testimon comprender puoi esser venuto di Gesù predetto, che è là suso in gloria fra gli suoi, per far testimonianza in fatto e ’n detto dell’alta gloria e della gran clemenza di quella luce, che di sopra ho detto. E questa luce era di tal potenza che ’lluminava ciascun che veniva nel mondo di giustizia e di prudenza. Era nel mondo quel che fatto aveva la terra e gli viventi tutti quanti, e già nessun di lor lo conosceva: calcòr la terra poi que' suo’ piè santi; e da suo gente non fu ricevuto, venne ’n Gerusalem ne* luoghi santi. A chi lo ricevè diè tal trebuto e la possanza d ’esser d’iddio figlio, facendol salvo, dov’era perduto. E1 qual fu fatto dal divin consiglio e non di volontà né seme umano, neanche di carne quel candido giglio. E carne fatto fu ’1 Verbo sovrano e abitò fra noi, pigliando carne, per cui benignità salvati siàno, nel qual vedemo tanta gloria farne, sì come ’1 Padre de l ’unico Figlio, onde contenti possian tutti starne, che liberò nostr’alme da periglio.
CV GV Essendo in vision con Caliòpe in un prato bel sott’un lauro pino e, di là sorto, vien Tubalcaino dicendo: « V o’ vi state così inope, ed i’ rivengo delle parti ’tiope per coronar quel degno Pier Martino, d’Orfeo la cetra darli e ’1 ribechino, per riempier la voglia d’este lope ». E così stupefatto, ecco Minerva con Aganippe insieme e Citarea imbasciador con loro e Polinnìa, gridando: « O v’è quel Pier, che ci conserva
en gloria e ’nna-lza nostra gran nomea? E noi coronian lui di poesia. E gnuno ardito sia toccar vi vola o ’n versi dar sentenza, se dal poeta Pier non ha licenza! »
CVI GV Uova di testicciuole e fichi azzurri e sugo di tambur non troppo grosso e d ’un pane impepato il suo dur osso hanno fatto quistion con que’ di Surri. E tre penne d ’un’oca eran su' curri e un punto di birro s’era mosso, perch’un temperatoi’ s’era riscosso, ch’ave’ perduto sei baril di burri. Dormendo in su ’n un fascio d ’acqua rossa, senti’ venir mugghiando tre bicchieri, che mi fecion venire una gran tossa. Allor si volse a me el re Bravieri, e disse: « Quella boce è tanto grossa ch’ella sarebbe buona a far panieri ». I ’ tei dirò, Zeri: i’ ho veduto il bisesto mortale, che ci sarà gran carestia di sale.
CVII GV Grasso di cipollini e fior d ’anguille dice ch’è buono al mal dello ’nfredato, e fa’ stillare un zoccol bene armato coll’acqua dolce, che vien dalle sdille. E to’ne libre e once incirca a mille con un becco di grue ¿stemperato e Mungibello e Mugnon foderato, e quest’è la ricetta che diè Achille. E se non ti guarisce al primo tratto, torrai spinaci gialli e uova nere colla semplicità d ’un mucigatto, foglie di canna con picciuol di pere, e falle masticare a un uon matto
e con una cornetta gnel da’ bere. E noi fare assapere alle cornacchie o a' pesci o a' grilli, che non ti varrà po' '1 dir: « Billi, billi! » CVIII GV Tre fette di panico e lance sorde col basto, che portò Monte Morello, ballavan le lumache e '1 lioncello, perché Mugnone avia rotte le corde, sendo le zarìe d'un pisan sì lorde ch'egli spegneva il fuoco a Mungibello, perché le milze avien fatto fardello, veggendo un grillo eh'una lepre morde. Maccheron fritti con Tubalcaino insegnavan notare a un tettuccio, ch'andava a conficcare un ramerino. E perché gli aliossi hanno il cappuccio, s'innamorò un asin d'un mulino e dava lor ber porri col beccuccio. E A m o ne fé cruccio, dicendo: « Duo bombarde e sei martegli fanno in Gaville far buon fegategli ». CIX S o n e t t o f a t t o p e r F ra n ce sc o d a C a n n i e m a n d a to a P ie r M a r tin i
GV C a p o d i g h io z z o e v is o d i m e llo n e , b a t te z z a to C a s tr o n p e r c a r e s tia , i } n o n s o o n d e d i a v o l tu t i s ia u s c ito c o l s u p e r h io tu o te s tio n e . N e lla v is ta tu p a r i u n p e c o r o n e d i g ira c ò p a s c iu to in B a lo r d ia , m a p e r la v e r g a , c h e t i v a d ia v ia , ? n e v o r r ò c a v a r q u a lc h e ra g io n e . S o c h e s e ’ de* M a r tin i; i* t e i c o n f e s s o : M a r tin v u o l d i r d i c a p r e g u id a iu o la . D u n q u e se* b e c c o , o rs ù s i e t i c o n c e s so . N e lla tu o v o ta e q u a d r a c a p a c c iu o la , o v e B o e z io in c a rn e s*è r im e s s o ,
tr a r m e n e
fa ' q u e s ta s e n te n z ia s o la , c b é , p e r u n a p a r o la , s e ' o r q u a l f u s t i il d ì c h 'i' t i c o n o b b i: u n d i q u e ' c h e p e r p ia g n e r s i s o n g o b b i.
R i s p o s t a a d e t t o s o n e t t o f a t ta p e r F ilip p o S c a r la tti in n o m e d i F ie r o
Fu mai capo d'allocco o di frusone rustico con sì vana fantasia? Avendo tu studiato in poesia, n ’acquisterai de’ pazzi il gonfalone. Ceduto t’è per men confusione el serbar delle chiave di Badia. Sèrra ti col malan che D io ti dia, come ’1 più vile e publico poltrone! H o già veduto più orrevol messo di podestà qual non se’ tu, gracchiuola, a far raporto a quaJunche processo. Che repetisci tu? Tuo cervel vola; ha' tu turato ben la bocca al cesso: non far più versi e non toccar viola. Nel seguitar la scola i’ veggo che ti pasci di marrobbi, che t’insegnono a studio ire a Campiobbi.
CX S o n e t t o d i F ra n ce sc o d a C a n n i e m a n d a to a F ie r o M a r tin i
GV C h e fa r e m , s e r M a t t e o , d i P ie r M a r tin i, a c c iò c h e d i lu i r e s t i q u a lc h e lu m e ? E g li è d i z o lf a p ie n s in o a l c o c c u m e , e ' s u o ' c o lo m b i e l s a n n o , e ' b o ttic in i. A l b e r g o d i g o t t o s i e p e lle g r in i, F e b o e le M u s e s u p e r a d 'a c u m e , b e n c h é le g ra s se t e m p i e e 7 s u c id u m e to g h in l'a llo r o a' s u o i b is u n ti c r in i . E lir ic i g l i c e d o n , d ic e l u ì , b e n c h é m i p a ia d i v i s a t o m o s t r o ; o r o l tr e s u c e r c h e r e n d i c o lu i , c h é g l'in c a ic a la m u s ic a n e l r o s tr o , e t u t t i in s ie m e a 'n c o ro n a r c o s tu i
s a r e te in p u n t o c o llo a iu to v o s tr o . C o s ì d a l la to n o s tr o , m is tia n d o d i m e r d o c c o c e r te c io c c h e , u n a g h ir la n d a g li fa r e n d i n o c c h e . (E ) p o i, v o lte a lu i le b o cch e, v u o i s i g r id a r e a u n a v o c e s o l a : « V i v a il p o e ta n o s tr o c a p a c c iu o la ! » E b e n c h é ta l p a r o la l o fa c c i r ip u ta r p e r u n c a p o c c h io , g li è u n p e z z o d i c a rn e c o n u n o c c h io . P u r , sa n za p iù , f in o c c h io ; p e r ò ’n B e fa n a n o n s e g li d i e is p a c c io : c o r o n e r a llo e l d ì d i b e rlin g a c c io .
R i s p o s ta d i d e t t o s o n e t t o f a t ta p e r F ilip p o I s c a r la tti in n o m e d i P ie r o M a r ti n i
Tutti han per uso, questi contadini, vestirsi dell’altrui gentil costume, tirando l ’apetito a quelo agrume terreno, il qual noi cede or d ’indivini. F ho sentito in tuo’ sciocchi latini beffar chi di vertù è largo fiume, e crediti, giacendo in coltre e ’n piume, coprirti colla loda de’ vicini. Isguarda, quando ciarli, almen di cui, imperò che, se mai e’ ti fu mostro, leggendo tal son oggi ch’io non fui, che, se non ch’io riguardo all’onor nostro, e ’ si publicherebbe e vizi tui, recitandogli appien con carta e ’nchiostro. Verso levante e ostro e ’ vien plorando forte a voce sciocche, laldando te, che guardi le lor rocche. Lascia votar le brocche ove Tubalcain lasciò la scola, ché non vi puoi entrar tu, ceriuola. A tuo ’nsaziabii gola zuccher ti parrà ’1 fiel, sì ti dizocchio, zappando el legno tuo, ch’è sanza nocchio. O selvaggio pidocchio, deh, lieva giuoco altrui e datte impaccio a non voler rimaner preso al laccio! Se non che per un braccio i ’ ti vedrò legar, testa balzana, non ti sciogliendo, se non per Befana.
C X I* GV O tu, che vien Filippo a vicitare, coll’occhio guarda le cose appiccate e non Tavere a lui adomandate né ’n presto o ’n don, ché ’nvan fie 1 tuo parlare! Se pur da lui desiassi acattare, arecherai del tuo tante derrate che le merce fra voi sien bilanciate, acciò che e ’ ti ricordi di tornare. Ergo, veduto c’hai, piglia il partito da te medesmo sanza averti a dire alcuna cosa in averti ischernito. Ma, richiedendo te, m ’abbia a servire; ogni servigio arò remunerito e contento da me fie ’1 tuo partire. Nota bene il mio dire; generalmente parlo e non per tee, ch’i’ non son più d’altrui ch’altrui di mee.
CXII S o n e t t o f a t t o p e r m e F ilip p o S c a r la tti e m a n d a to a M a e s tr o N ic o lò d i s e r A n t o n io S p in e p a lla n ti d a S ie n a m e d ic o
GV Se l ’immortal desir qual è bramato s’abbarbicassi nella mente all’omo, gli farebbe gustar più dolce pomo che nel mondan, dove lui s’è fondato. Però m’accade avervi domandato, sendo intrinsico amor fra omo e omo e ciaschedun sotto tal giogo domo, chi tale amor può aver seperato. E se pur questo amor fra lor si sepre per caso alcun che la ragion noi soffera che l ’atto d’amistà li resti calvo, pur, se da chi non viene all’altro proffera bramosamente, qual cane alla lepre, quest’amor racquistato fia mai salvo. * S o n etto fa tto p e r m e F ilip p o S ca rla tti p e r ten ere in cam era .
R is p o s ta d e l d e t t o
m a e s tr o N ic o lò a F ilip p o
Q u a n d o il d i v i n o a m o r s o lo è b r a m a to , a b itu a to n e ll'a n im a a ll'o m o , g u s te r à s e m p r e in d e l q u e l d o lc e p o m o , d iv in a f lu iz io n d o v 'è f o n d a to . E c c o , r i s p o n d o a t e , c h e d o m a n d a to m 'h a i s e v e r o a m o r fr a o m o e o m o s i tr u o v a , c h e cia scu n d a q u e l sia d o m o , c h i r o m p e o ta le a m o r h a s e p e r a to . E n 'h o s e r v a to p a t t o e , s e s i s e p r e l'ira d 'a m o r e , e ' r ile g a r lo s o f f e r a p iù c a p ig lia to p o i c h e p r im a c a lv o . T e r r e n z io tu o ta l s e n te n z ia p r o f fe r a sa n za c o m p a r a z io n fr a c a n e e le p r e , e s p e s s o ta le a m o r d i v e n t a s a lv o .
R i s p o s t a d i F ilip p o a d e t t o m a e s tr o N ic o lò
In questo amor, qual avete parlato, non sappiendo da me né ’1 che né '1 corno o se lascivo o d'amistà tien domo, né chi '1 può seperar ma' dichiarato, se questo caso arai bene istudiato, alFintelletto come valente omo non mi stimerai poi el far d'un tomo, ch'io resterò perdente in ogni lato. In tuo giardin tu hai mirti e ginepre, acompagnar non de'ti con chi proffera ripricar che se stesso non fa salvo; o pur, s'altra virtù a te se off era, abbila cara e fa’ che non si sepre nell'età verde prima che sia calvo; ch'a volere esser salvo, operando in virtù minimi bioccoli, rado si dura al camminare in zoccoli.
CXIII GV Esser può ben ch'i' mostri essere isciolto dal vecchio amor, seguitando altra impresa, ma mai sarà che nuova fiamma accesa mi privi del servir di quel bel volto.
Matt’è adunque e veramente istolto chi credessi che Palma fossi appresa, o che mie libertà da altri ispesa, se non per te, che m ’hai dal vulgo tolto. E se mi fosse quella età concessa di quel che sette e settenni servire volse per acquistar la degna palma, i ’ non mi volterei dall’ubbidire di te, anzi atterrotti la ’mpromessa, finché l’ultimo parto farà Palma. CXIV* GV Essimio sacre pagin professori, per cagion che la ’nfamia non si spanda, d’accordo con preghiera a voi si manda dicendo diate festa agli uditori; però che dicon che cota’ sapori gustar non posson, ch’è strana vivanda aver vituperata la ghirlanda, che s’acquistò con fatiche e dolori. C’ha far Semiramis o c’ha far Dido, c’ha far Cleopatras di stran paese con voi, che biasmo date loro a torto? Paiil si cruccia e Dante mette un grido; ergo, nel cominciar tropp’alte imprese, vi si de’ raguardar, ché ’1 tempo è corto.
cxv GV Sendoti istato più tempo suggetto e vis so a speme di tuo promissione, e* me n ’è surto tal revelazione che mi fa l ’alma e ’1 corpo istare infetto. E pur convien ch’i’ t’ami a mio dispetto, perché natura in te tal biltà pone ch’i ’ son servo forzato, ed è ragione conservar debba quel ch’io t’ho prometto. * S o n etto f a tto p e r m e F ilip p o S carlatti e m an dato a M a estro D o m en ico G io van n i de* fra ti p red ica to ri , ch e d isp o n e v a il D an te.
La libertà m ’è guerra e 1 servir pace. Che giovami un veder perder biltate, spirando il fior sanza produrre il frutto? Né temerei di mia calamitate, se s’aùmiliassi quel rapace lupo, che da man manca ha ’1 suo costrutto.
CXVI GV Dolgomi sol di te, crudo tiranno, sendoti in verde età stato buon servo, e sempre tu inver me crudo e protervo ti mostri, e così segui d’anno in anno. Ma tuo’ begli occhi che legato m ’hanno, pe’ qua’ contento son d’esser conservo di te che mi consumi a nervo a nervo, finché porga socorso a tanto danno; ma tu, lucente sole o viva stella, o almo degno e supremo e verile, di cui l ’umane lingue ognor favella, perché or tòrci il tuo diritto istile? Sappi che tal sentenzia non s’appella al degno, se non segue suo simile. C X V II* GV Se’ tu, come e ’ m’è detto, sì spiacevole? Tu vorrai avere a pagar la matricola; vedi che Salamone in sua cravicola dice non è gagliardo animo fievole. I ’ non ti parlo dello sconvenevole, anzi t’insegno serrar la graticola, ché, se la lasci aperta, e’ mi formicola el pensar quanto diverrai piacevole. Tu bram eresti quel tempo preterito vertissi per servir chi non ti proffera né danar né derrate di tuo merito. Ancor mie lingua più s’invita e off era in doverti scoprir, ma io mi perito
beffando el ver dicendo non si soffera. I* dico che chi s’offera servire a poesia, suo ’ngegno istriga ove acquista ghirlanda d’una spiga. Gente son che gastiga non sé m’a altri con agrità lesina; ordunque taci e con questo ti desina. CXVIII S o n e t t i 4 [ C X V I I I - X X ] d i M a e s tr o G i o v a n n i d i L o r e n z o M a n z i d e ll ' O r d i n e d e l C a r m in o e m a n d a ti d a L u c a a F ir e n z e a F ilip p o S c a r la tti
GV N o n sc e s e m a i d a l c ie lo a l m o r ta i r e g n o u n 'a lm a s ì le g g ia d r a n é e c c e lle n te , n é m a i t r o v o s s i fr a la m o r ta i g e n te ta l b a sa fe r m a , d i v ir tù s o s te g n o . L o s p i r t o tu o , d i g e n tile z z a p r e g n o , le g g ia d r o , d i v o e p i ù c h 'a ltr o c le m e n te , a d o g n i b e l d itta r e a tto e p o te n te , l'in f im e r im e m ie n o n a b b ia a s d e g n o . T o lt a la p e n n a e s a n z a fa r d im o r a h o v in ta la m ie p ig r a c o n d iz io n e f e d i S a tu r n o m i s o n f a t t o M a r te . M a p u r la m e n te d i c iò la n g u e e p lo r a , d i n o n p o t e r v e n ir e a l p a r a g o n e ; n é a tu o v e le f ie n b u o n e m ie s a r te . L e m ie v ir tù s o n s p a r t e a m o lt e c o se , e n o n è m a r a v ig lia s e l ' i n t e l l e t t o a l d i r m a l s 'a s s o tig lia .
R is p o s t a
d i F ilip p o
S c a r la tti
Per quel Signor che non ebbe a disdegno, anzi patì per noi morte dolente, per la qual daschedun libertà sente, che *1 debito pagò in sul santo legno, (ch’lP mi son mosso e per risponder vegno a’ degni carmi e con almo fervente; ma nel cammin mi sento nigligente, per modo che’ mie’ sensi ho dato in pegno. Ma pur con rozza lingua e penna sora, benché ’1 poter non segua alla ’ntenzione,
risponderovi almanco a una parte; sì come il sole appare all’aurora, nella orientai sua amagione, scerner si può Proserpina in disparte. Voi, che n’avete l ’arte, correggerete ben vostra famiglia, che non si sa da sé metter la briglia. CXIX G io v a n n i d i
L o ren zo
M a n zi a
F ilip p o
S c a r la tti
GV E ’ p a r c h e G i o v e a ’ m o r ta i fa c cia in g iu r ia n e l v o le r lo r o a s p e t t i s e p e r a re p e r la d is ta n z ia o d i te r r a o d i m a r e , e fa r c h e d i v e d e r s i a b b in p e n u r ia . E q u e l d e s t in , c h e ta n to m a le a g u ria , v o r r e b b e s i d e l c ie lo e r a d ic a r e , a c c iò eh* e $ im p a r a sse a g o v e r n a r e s ì c o m e d i o , e n o n in f e r n a l fu r ia . O h , q u a l f r u t t o è n e lle p r o s p e r e c o se se n on hai un ch e co m e te n e g o d a , q u a n tu n c h e d o lc e s ie n o e d i l e t to s e ? L e c o se a v v e r s e a p o r t a r s o n n o io s e , q u a n d o , g r id a n d o , a lcu n n o n h a i c h e L o d a : a h i, c r u d e s o r te , m a lv a g e e p e n o s e ! V a n ir n e g a iild io s e , c h e s o n o in c ie lo e v iv o n d ’a m ic iz ia , l ’u n l ’a ltr a d i v e d e r s i h a n n o le tiz ia .
R is p o s ta
d i F ilip p o
S c a r la tti
I* ho sentito dir che nell’Asturia per chi v ’è stato v ’è mal camminare e che sovente l ’uon vi può mancare per cagion che non v ’è troppa caloria. Ma se la mala pianta di lussuria volle tutte suo posse adoperare in voler le radice al sol mostrare, acciò di lui non restassi peluria, uno ignorante all’opre virtuose non ha istabili-tà, né ’ntenzion soda, ch’e’ colle spine crede còr le rose.
Ma le vere scintille e virtuose discuopron lor velen po’ nella coda e fan con verità a' testi chiose. La lor vergogna è in prose, perché la giusta vendetta gl’innizia e purgheragli di lor gran malizia.
CXX G i o v a n n i d i L o r e n z o M a n z i a F ilip p o S c a r la tti
GV S c r iv e n d o e s s o r ti, e v u o i c h e m i s t i e a m e n te e l t u o p r o t e s t o c o lV a r te n o to r ia ; e f a t t i d e g li a m ic i d i m e m o r ia n o n m i fu g g o n g ià m a i, m a so n p r e s e n te . A l l o s p r o n a r m i i f sare* p i ù f e r v e n t e s*i* n o n p ig lia s s i s ic u r tà c o n te c o t c o r n e o v o r r e i c h e la p ig lia s s i m e c o : e q u e s t o è q u e l c h e m i fa n ig lig e n te . I* n o n h o t e m p o d * a v a n zo a l p r e s e n t e , p e r eh* io s o n p a d r e d i m o lta fa m ig lia , q u a le a* d is a g i n o n è p a z i e n t e . E t a n to q u a n to p u ò p ig lia r c o l d e n t e sa n za d is c r e z io n m o r d e n d o p ig lia ; e p e r d i o , ch*i* h o a fa r c o n s tr a n a g e n te ! M a tu , c h e se* p r u d e n te , m a n d a m i il te m a c o m e s i g o v e r n a n o F o c h e , eh*a P a la z z u o l p a s c e n d o v e r n a n o .
R is p o s ta
d i F ilip p o
S c a r la tti
Esser mi converria più ’ntelligente a volere acquistar quella vettoria, che fa fruir lassù Tetterna gloria a chi quaggiù con contrizion si pente. Ergo, domine mi tam eccellente, con sicurtà V vi resorto e preco che col protesto facciate istia seco alquanti giorni prima sia servente; idest che mel mandiate immantanente, che mie memoria farà maraviglia a sperimento tanto sapiente.
E, perch’io temo non esser perdente di ciò che l ’almo mio di quel bisbiglia, penso el futur settembre esser possente. Deh, siate diligente a pensar che le plebe non discernano l ’opere virtuose, anzi le spernano! CXXI G io v a n n i à i L o r e n z o M a n z i a F ilip p o S c a r la tti
GV L ic c e to a G a n g a la n d i e F a lte r o n a c o ll'a lp e is p e s s a d i sa n B e n e d e t t o d e ll e s u o s p o g lie fa c e n m i f a r s e t t o in s ie m e c ò lla v a lle d i L a m o n a . E p o i d e ll'a lp e t u t t a la c o r o n a , c h e v a c ig n e n d o d ' I t a li a il d i s t r e t t o , m a n d a c i, p r i e g o t p e r b r i e v e t r a g e tto , in m o d o n o n s ' i n t o p p in o in p e r s o n a , p e r c h é a c a v a i c i s o n o in s u lle p o r t e e F r e s c o b a ld i c o lle f o r z e lo r o , c h e fu g g o n d a V u lg a n o e M u n g ib e llo e c r u d e lm e n te m in a c c ia n d i m o r te c ia scu n d i n o i, e m a s s im e c o lo r o c'h a n la s c ia to a G r o s s e t o e l g iu b e r e llo . M a n d a c i u n a lb e r e llo d i b u o n b a lz a n ti in s u lla tr e m e n tin a , p e r ò c h e l 'A r n o h a f a t t o g e la tin a . T u o fra G io v a n n i c o n s u o g ro s sa lim a c o n q u e s t i v e r s i su a r is p o s ta m a n d a e sc u sa n o n a v e r p o t u t o in p r im a .
Anno Domini M CCCCLXVIIII primo decembris.
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Lo spezie che si fa nella Gorgona dice ch’è buono e purga ogni difetto, e un zoccolo armato in sul deschetto andava a Roma pella via d ’Ancona. E riscontrò fra via chi da Verona veniva presto sanza alcun sospetto, portando l ’ambasciata d ’un tal detto
che fé maravigliar que’ da Cortona. E tutti andavan colle code torte giucando il matto e mostrando esser soro, credendo sotterrare un lor fratello. Allor Tubalcain colle suo sorte fece ordire e po’ tessere un lavoro che gli coperse tutti col mantello e mandògli in bordello. Perché putivan tutti di tonnina, gli fé po’ confinar nella sentina. CXXII GV Ergo convien che sollecito spoltri, po' che si vede in chiara sperienza che fama, onor, virtù te o sapienza non s’acquista a giacer fra piuma e coltri, pensando tutto ’1 tempo che tu poltri, cioè *1 superchio, ’1 quale alla sentenza non ti potrà scusar tuo nigligenza; e sanza fama ti truovi ir più oltri. Che fama lascia al mondo un nigligente? che lume di sé lascia uno ignorante? che frutto può produrre un rozzo stile? Lascia qua grossa istiuma in rio corrente; spira qual fumo in aier eh’è volante; di questo resta nome infimo, essile. Ciascun uom ch’è ver ile, temendo Iddio, se esserciti in virtute, se vuole al mondo fama e ’n d e l salute. CXXIII GV I ’ sento il foco, che sempre rinforza dentro al mio petto con sì gran calore; m’ha in tal modo riscaldato el core che quanto più lo bagno men s’ammorza, perché ’1 vapor fu di cotanta forza, qual nel volto mi porse lo splendore quel divo sol, ch’io chiamo a tutte l ’ore: e quanto più lo seguo più mi sforza.
Ma, se da' primi moti o da suo stella porto mi fu quello splendor del sole che chiara e degna fa ogni altra luce, giammai mia alma da lui fia ribella, ma ringraziargli vo' con degne prole, ché m'hain) dato a servir sì degno duce. CXXIV GV Mozzone, i’ t’ho trovato tanto afritto per le man di Donato tuo d’Arezzo che, te leggendo, di sudor son mezzo e ’1 fraile mie ’ngegno è derelitto. Sopra a’ felici antichi c’hanno scritto pongo questo Donato; ogni altri sprezzo, ché fra’ vassalli sua i’ sono il sezzo, perché ’1 più degno fa più degno il ditto. Riman Fiorenza lacrimosa e mesta, prorando, e lacrimosa e vedovella, po’ che luntan gli sta sì degna vesta. Dunque, Mozzon, se vuoi consolar quella, dirai al fonte che suo magna gesta per nostra utilità abiti ad ella. Per me fie gran novella, ch’i ’ ’mparerò da sua magna eccellenza, ché d’Elicona è vaso di scienza. CXXV GV - Ambr
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Dolze Chiffo sventurato, fusti preso a una regina, che ’1 suo nome è Caterina, che t’ha preso e poi lasciato. Però giuro a sacramento ch’i’ non porrò più ’1 mie amore a gnuna donna di buon cuore, po’ che questa m’ha ingannato. I ’ fu' preso di settembre che comincia la fredura, stando sempre con paura di quel ch’ora m ’è 'ncontrato. « Tanto tempo t’ho seguita, sendoti servo fedele;
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s’io gustai da prima il mele, ora il fele ho saporato. S’io t’amavo di buon cuore, perché me non devi amare? Debi tu ’1 servo scacciare, che sai ben t’ha ’1 cor donato? Quanto sono in questa terra tanto sono in paradiso, perch’è mio il tuo bel viso, con il qual m ’ha’ ’1 cor furato. Sì ch’io priego tua cremenza, po’ ch’ai tuo servo sugetto tu gli ha’ tolto il cor del petto, che non l ’abbi abandonato ». « Dolze servo, i’ sono stato a udire il tuo parlare, e ’1 tuo gran ramaricare molta pena al cor m’ha dato », « Dolze sir, la tuo risposta che m’hai dato ha fatto bene, che m’hai tolto molte pene; son da doglia ralegrato ». « Servo mio, i’ ti vo’ dire che non debbi dubitare, ch’i ’ non t’ho ma’ ’bandonare, mentre me arai amato ». « Bel signor, con umil vosce el servo ti si racomanda che gli doni tal vivanda ch’el vi viva consolato ». « r ti giuro in fede mia ch’i’ prometto contentarti, e tal cosa vo’ donarti ch’a nullo uon non l ’ho donato ». « Per le tuo promissioni i’ ti giuro a buona iene ch’i’ ’ntendo morir per tene, se da te non son lasciato ». Canzonetta senza sosta al mie sir n’andrai piangendo, umilmente a lei dicendo ch’io le sia racomandato. Dolze Chiffo sventurato, fusti preso a una regina, che ’1 suo nome è Caterina, che t’ha preso e poi lasciato.
Vedi ’1 tuo servo, dolce mia ¿speranza, privato d'ogni luce in career tetro; i' non potre' ridire in prosa o metro quanto a me sia penosa questa stanza. Or vedi in che si pon la sua fidanza: in uom mortai debil più che '1 vetro, che quando quel più chiami e' torna aretro, tanto regna nel mondo la ignoranza. Ma tempo aspetto con giusta cagione, ch'ancor mi sarà el dolce signor grato, quando fie di piacere a chi '1 propone. r pur mi fido in Quel che m'ha creato, che volta al mondo e voltere' a ragione a me e chi gnene ara dimandato.
CXXVI I * GV Fu la nostra partita sì dolente, pensando di lasciarvi ¿sconsolati, che per la via più volte ritornati fumo inver te con animo fervente. Ma, per contarti tutto il convenente, po' ch'a Fibian fumo rapresentati, con gente ci trovamo acompagnati eh'ognun di noi ne fu molto galdente. E però chi si lega egli è legato e chi sta sciolto si mantiene ¿sciolto, e tu cel sai chiarir, ché l'hai provato. Dunque, si può appellar quell'uomo istolto che in età verde il freno arà imboccato, qual dal buon tempo s'è privato e tolto; e da pensieri involto si truova sempre e non con suo simile piacer può aver, qual noi col puerile.
S o n e t t o f a t to p e r M a e s tr o S im o n e e F ilip p o S c a r la tti e B a c c io d a M o n te G o n z i
GV Guardatevi dal lupo quando e ’ passa, agnei mansueti senza cane; non vi lasciate tór di bocca il pane, ché c’è chi vuol la pastorella grassa e va quatton quatton dietro alla massa e sempre di grossoni ha pien le mane, promettendo per oggi e per domane, dicendo: « V n’ho altrettanti nella cassa ». E va sì pian che niun can nogli abbaia, con cenni e gesti spesso intorniando, né mai con altre fiere non s’appaia. Però, quando il vedete irsen aliando, e’ sarie buon che gli dessi la baia, dicendo: « Pocciator, che vai cercando? S’tu ti vai viluppando tra questi agne’ per volergli rapire, preso sarai e venduto tre lire ».
CXXIX GV Mosso già d ’ira e tutto disdegnoso, mi rivolsi a mirar quel crudo foco che mi vien consumando a poco a poco la notte e ’1 giorno, ond’io non ho riposo. E nel voltar ch’io fe’, mi fu ascoso ogni pensier fallace e venni roco; sì come muto mi restai in quel loco inanzi a chi è di me più ch’io piatoso. E disse a me: « O tu ch’a dietro fuggi a chi volando dovrest’ire avante, non muover guerra altrui per la tuo pace! Ma, se dello sprendor veder ti struggi, non ti voltar, ma ferma le tuo piante e potrà* posseder quel ch’a te piace ».
Se per averso caso l ’uon s'attrista mostrando dentro avere alterazione, anzi lo stringe tanta passione che gli fa forza al dimostrarlo in vista, questo non perde meco e non acquista, ché superato son da tal cagione ch’i ’ ho perduto il ben della ragione e stento senza possa e 'n voglia mista. S’i’ sono infetto, già non mi ramarco, anzi deiraltrui mal porto dolore; più che del mio ne resto mal contento. Però ti piaccia, dolce mio signore, accettar la mie scusa, poi ch’ai varco i’ son per non vederti in gran tormento. E quando i ’ mi ramento d’amistà nostra, el cor m’usa scoppiare, pensando non poterti vicitare.
CXXXI*** GV Voi che ghiacete nel terreste trono e talvolta sentite alcun dolzore, mirate quanto Amore ha di valore, ch’i’ ’1 vo’ fuggire, e pur ver lui mi sprono! D el vario oggetto, cui tanto incorono che da vana speranza e’ piglia el fiore, se v ’è tra voi chi per pruova il sapore gustassi, ispero aver riparo bono. Ma ben conosco el mio frail costrutto, ché fui favoleggiato fra la gente, pel qual corregger me stesso dispogno. E non resterà mai mi’ occhio asciutto; pentendomi, il discerno certamente, ché, più piacendo, Amore più è van sogno.
* Sonetto di Filippo Scarlatti fatto per Bernardo di Nicolò Bartolini, dolendosi della caduta sua, questo dì 31 d'agosto 1470. ** Sonetto fatto per Filippo Scarlatti questo dì 23 di settembre 1470.
Passa qual acqua il mar bellezza umana e sempre non sta verde o fronda o fiore, ma 'n picciol tempo perde il suo vallore: ergo, il porvi speranza è cosa vana. O voi ch'avete vostra mente sana, mirate quanti n'ha già indurti Amore sotto '1 suo giogo e, porgendo dolzore, son giunti a morte, e non suona campana! Ma così non avvien d'amor perfetto: non spira, no; anzi sempre mai dura infin che l'alma fa l'ultimo parto. E sempre si conserva puro e netto, quand'è vera amistà semplice e pura. Ogni altro amor lascivo ti disparto.
CXXXIII *** GV Credetti in libertà ogni uomo isponte fossi in vita al bramar le tranquille ore, ma conosco or ch’i' ero in grande errore, po' che le poste altrui son per me sconte. Al mirar con desio nella tuo fronte, ebbe tal forza el fulgido splendore di tuo biltà che 'n un punto l'ardore m'accese el core, a mio dispetto e onte. Resto nel foco e non è chi ’ atarmi si rivolga a piatà de' miei martiri, a porgermi socorso a tante asprezze. L'onor mi lega, e l'amor con sospiri mi sprona; or sì or no convien ritrarmi, potendo, dalle tue piacevolezze. Le tua degne bellezze oppressato m ’han sì ch'i' temo forte, e per men pena chieggo ognor la morte. * Sonetto fatto per Filippo Scarlatti questo dì 26 di settembre 1470 per Bernar do Bartolini, avendo ira contro a di lui. ** Sonetto fatto per me Filippo a Carlo Bisdomini.
CXXXIV * GV
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Quanto sono in verde età te tanto ho parte in paradiso; poi ’nvecchiato i’ son diviso per cagion del mio peccato. E più tempo ho seguitato con mie' vizi ciascun’ ora; or conosco che m’accora el dimon, eh’è mio vincente. Fia beato chi si pente in questa vita faticosa, dicendo: « Vergine piatosa, aiuta l’alma afflitta e stanca! » Da Dio l ’ebbi pura e bianca, pien d’angeliche bellezze; or co’ vizi l ’ho sì avezze che salvar più non si crede. O felice quel che vede che la morte ogni uomo uccide! Chi l ’ha in odio forte stride, ché del mondo fa partita. Miser quel che ’n questa vita sarà tardo peregrino, che non fornisca il cammino di suo’ vizi penitente! La Regina intercedente non aita il superbo omo, né di chi ’1 vetato pomo mangerà, come fé Adamo. D ell’altrui non esser bramo, né accidia o gola ria; ira e ’nvidia caccia via, se vuoi l ’alma sie accettata, acciò che quando ell’è chiamata dal supremo, illustro Sole, che ’n quel punto ch’el ci vuole ella sia sanza peccata.
* Incomincia una laida fatta per Filippo Scarlatti questo dì 28 di febraio 1470; cantasi come Quanto sono in questa citiate etc.
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E' piace a fato, a fortuna e destino ch'i’ sia furato, e non sappia di cui dolermi, di colui che m'ha privato del mio bel Giardino. Non so se '1 sesso è maschio o femminino; ma sia chi vuol, ché fatto ha villania, ch'ogni cosa in balìa hanno da me tutti e buon compagnoni. E1 caso occorso ha messo confusioni, ché traslatar farà mia libértate, né magnanimitate non userò, po' ch'io ho perso l'orto. Se m’è amico, e' m ’ha fatto gran torto, fidandomi di lui, a farmi fallo. I' vorre' ritrovallo sol per saper chi m'ha fatto trestizia. Né vo' per questo perder l'amicizia degli altri, che non sono in ciò incolpati; anzi vo' preservati avergli per fedeli e buon compagni. O Chiffo, s'or non duolti, quando piagni, da po’ c’ha' perso el tuo bel primo frutto di tuo degno costrutto di quella dama e del signore Astore? Che l'uno e l ’altro gli ave' presi Amore, fignendo di trovargli intro '1 giardino, e 'n suo degno latino ti narra tutta la suo passione. Movendo a te di lei compassione, mostrar tu vuo’ di darle alcun sussidio: di pistole d’Ovidio una ne leggi a quietar suo fronte, la quale iscrisse Filli a Demofonte, essendo a le' mancator di suo fede; più vederlo non crede, po’ ch’è passato el termin che l'ha detto. Leggendo tu, la fermò l'intelletto, fra sé dicendo: « Miser tapinella chi è ’n simil procella
* Incomincia una canzona fatta per me Filippo Scarlatti, dolendomi d'uno libro che mi fu tolto di camera e non sappiendo da chi. Questo dì 28 d'aprile 1469.
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com'era Fille, e io l'uso seguire! » Come finisti il dir, riprese ardire; volgendo inverso te le suo popille, disse: « Queste duo aneille con meco insieme noi ti propognamo e con tutta onestà ci t'offeriamo che tu comandi a noi alcuna cosa, la qual sia virtuosa, ché noi satisfaremo al tuo desio ». Videndo, tu dicesti: « Il don voglio: né terre chieggio, né argento o oro, ma di sapere accoro per quel che, quand'io lessi gli accidenti, facesti con silenzio gran lamenti, mostrando aver nel cor tanti martiri. Con amari sospiri ti vidi come cener diventare, e in più forme t'usasti mutare; talor bianca, or vermiglia ti vid'io, ché m'acresce il desio di saper donde tal doglia deriva. Ed io prometto a te, per quella diva gloria celeste che triunfa in cielo, mie carne, sangue e pelo per te metterò io, non sendo sazio ». Piangendo, quella disse: « I' ti ringrazio. Dappoi che vuo' saper tutti e mie’ affanni, passato è quindici anni ch'un giorno i' mi trovai a un convito. E1 mantovan signor iacea lo 'nvito, quando menò la suo sposa novella. Apparvevi una stella, che' raggi suo' mi trasferì nel core, qual fu '1 magno gentil signore Astore, che prima noi vidd’io che nel mie petto mi fece el cor suggetto a lui, e io volentier gnel donai. Po' presi forma sì ch’io gli parlai; fra lui e me gli contai le mie pene. E' mi disse: “E' conviene, donna, che per ora abbia pazienza, perché forzato son prender licenza e di lasciarti troppo mi dispiace". Allor mi diè la pace nella mie fronte, ed io, forte piangendo, inverso lui parlai, così dicendo: "Omè, signor, che cattiva novella
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detta m’hai! Tapinella, per tua partenza i’ perdo e sensi miei! Se pur ti parti, almen memento m ei”. Ed egli a me: “Per gl’iddei ti fo giuro che Ì tornar non fie duro in un sol, per veder tuo viso addorno ”. Neirapparir che fé poH-altro giorno, prese licenza e con molti scudieri inverso e suo* sentieri si dirizzò, lasciando me in tal noia, come sa chi d ’amore aspetta gioia. Io l ’aspettai con desio tutto l ’anno, trovandomene inganno, e ’1 secondo col terzo fu seguito, e ’1 quarto e ’1 quinto e ’1 sesto ne fu ito. Seguendo el quarto decimo passato, non sendo a me tornato, i ’ mi feci profeta del mio danno; e veggo che’ mie’ giorni indarno vanno, sì che di lui, sappiendone niente, parlami apertamente, perché ’1 mie cor da te aiuto spera ». Ed io a lei: « Donna leggiadra e altera, confortati, ché vive el tuo signore; e con maggior dolore che non hai tu, e’ vive notte e giorno. E conviegli guardar da molti intorno, e tal l ’offende che lo dovre’ atare; non si può riparare da tanti morta’ colpi, quant’è offeso. Con pazienza e ’ comporta ogni peso, sperando riaver presto vettoria, ché la divina gloria gli cede che d’ebb’esser vincitore; sì che, donna, raffrena el tuo dolore col ripensar le pene del tuo amante, che ne sopporta tante con pazienza per venir felice! Con questo ti ricordo che si dice che nell’afrizion l’aver compagno si mitica el suo lagno: pensando l ’un dell’altro, el ver ti dico ». Ed ella a me: « Piacciati, caro amico, di dirmi se ’n Faenza fai ritorno sanza troppo soggiorno; ti priego che di ciò il ver tu mi dica,
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ch’i’ bramare! darti alquanta fatica, se terminassi farvi ritornata, di picciola imbasciata al mie signor, dandogli un po' conforto. Vorrei che li dicessi in parlar corto come tu m’hai trovata, e dove e quando ti venni domandando di lui, e tu contentasti mie voglia. D i’ che mi cuoce e duol più la suo doglia che non mi fa la mia, pensando quanto offeso è d ’ogni canto da chi ’1 dovre’ mantenere in potenza. Ma di’ che per divina previdenza s’è mosso per suo aiuto el forte Marte e viene in quella parte per farlo presto in vettoria giocondo. E non fie niun che non gli sia secondo d ’uomin terren, che così vuol Chi puote. Volgendo le suo rote, abbasserà chi più alto è salito, che ogni male alfin sarà punito e ’1 ben remunerato, per usanza che Quel che n ’ha possanza promette ch’a ciascun così sia fatto. Chi vagellando altro credessi è matto. Chi con virtù segue il timor d’iddio, questo certifich’io: che ’n ogni vita arà prosperitate. E di’ che quando egli è ’n felicitate che si ricordi come e ’ m’ha lasciata, che faccia ritornata a rivedermi, come e ’ m’impromisse ». A'ilor Chiffo rispose a lei e disse: « Rafrena ’1 tuo dolor, donna tapina, ch’i’ parto domattina per satisfar la tua domanda intera. E ho di punto inteso tua matera, e ’nfino a là non farò riposata per dispor tuo ’mbasciata al tuo Astor, dinanzi a sua presenza. Dunque non indugiar: dammi licenza! » E con questo parlar fuor del giardino uscisti a capo chino per riverirla, e mettestiti in via e camminasti tanto notte e dia che ’1 terzo giorno giugnesti in Faenza. Sanza far ricistenza
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t’apresentasti a quel signor gentile, dicendo: « Quella donna signorile per suo parte mi manda a confortarti, volendo ricordarti che, quando puoi, la torni a rivedere. E più m ’ha detto i ’ ti faccia assapere che presto sa che tornerai in tuo stato, e per racomandato ti piaccia averla, quando tu potrai ». Canzon, poi ch’a Faenza n’andrai, con diligenza spon la tuo ’mbasciata, la qual t’ha consegnata la gentil donna. E per tutto ’1 camino sappi chi m’ha privato del G ia r d in o .
CXXXVI * GV
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Salve Regina eccelsa, singulare, ferma colonna che risprende e luce fra l ’altre com’un sol che sempre appare, tu se’ vera speranza e guida e duce, fra noi mortai, d’ogni pace e concordia, e per tuo mezzo ogni ben si conduce! Tu fin ponesti all’orribil discordia che fu fra ’1 tuo Figliuolo e quell’antico padre, ove in etterno ognun te essordia, ché pel suo fallo era fatto nimico di tuo città tutta l’umana gregge e per tuo umiltà si fece amico, cercando el tuo Figliuol la nuova legge per far tornare a lui ogni ribello e riempier lassù le vote segge. Veduto adunque el mansueto agnello ch’altri che lui non n’avie degnitate, ti mandò ’1 suo ministro Gabriello, ’n figura umana a dispor l ’ambasciate come di te vestir vuol carne umana per tua virginità e umiltà te. Illustrissima stella tramontana, come ’ntendesti quel saluto santo,
* Orazione fatta a nostra Donna per Filippo Scarlatti questo dì d'aprile 1468 Iddio lodato.
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istupefatta istie tuo mente sana. Lo ’ngravidar di te fu in quel tanto quanto penasti a dire: « Ecco Tancilla del mio Signore ». E lo Spirito Santo in uno stante in ombra di favilla obumbrando ti misse in ventre el seme, pel qual Fumana gregge fu tranquilla. Posò in te e tu in lui la speme. « Magnifica, Signor, l’anima mia » dicesti per piata ch’ai cor ti preme, perché ripien fuss’ogni profezia, come gli antichi savi avien parlato, Davit e Samuel e Geremia. O degno frutto da te generato in capo a nove mesi, e tu pulzella restasti pria e poi che fussi nato! Sacratissima, degna, umile e bella, di te è nato el Padre e Sposo e Figlio, invitta, eccelsa Madre, illustra e snella. Corporalmente, sanz’alcun periglio o duol di tua persona, el tuo vasello partorì il degno frutto e ’1 fresco giglio, acompagnata da quel vecchierello Ioseph, e ’1 bue era nella capanna col degno frutto in mezzo all’asinelio. Regina, e ’ si cantò per te Osanna, rendendo grazie a te tutte le mente, perché porgesti al secol dolce manna. L’altra allegrezza, che ti fé galdente, quando e tre Magi vennon col tesoro, guidati dalla stella in oriente, avendo nel tuo gremio el divin coro, Guasparre primo re fu ’nginocchiato; basciando e piè, offerse el censo d’oro. Toccando, statim quel fu diventato, ch’era in decrepità, sì giovinetto che l ’uman secol fu maravigliato. Tosto po’ Baldassarri con diletto incenso offerse, e santi piè baciando, e dal tuo frutto quel fu benedetto. In mirra il dono fu poi, seguitando, d ’india quel Marchionne t’ebbe offerto col puro core e sempre te laldando. P o’, come santa Chiesa mostra aperto, in braccio ha Semeone il Re divino per la circuncision di tanto merto;
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po’ da Giovan Batista suo cugino fu batezzato nel diserto tempio, qual fu principio al novo e bel cammino. Portando quel nel tuo mantello iscempio, nutristil come fa il figlio la madre, di lui veggendo mirabile essempio. Seguir volendo el voler di suo Padre, acciò che s’adempiessi ogni scrittura, si misse in man di quelle genti ladre. Per salvar tutta Fumana natura sofferse morte cruda, e ’1 terzo giorno isplendiente apparve a tuo figura. P o’ ascese in ciel quel Creatore addorno; la sesta fu sacratissimo amanto. Avendo in Galilea il collegio intorno, infuse in voi l ’ardente Spirto Santo, mandato a te in ispezie di colomba, qual riscaldò l ’appostolato santo. Lingua di fuoco a ciaschedun rimbomba sopr’alle teste di quel sacro Amore della dolcezza della eccelsa tromba. E la settima fu quando ’1 Signore lo Spirito dal corpo ti disciolse e nelle braccia sua con gran dolzore el corpo e l ’alma insieme a sé racolse. Ergo, chi ama te quel ben si fida, po’ che per te da tanto error ci tolse. O fonte di piatà, colonna e guida, che chi t’appella per sua avocata tirerà l ’alma dove ’1 ben s’annida, verginissima, pura, immaculata Madre del ciel, ti priego c’hai a pregare per me ’1 tuo Figlio, che t’ha tanto amata. Accettala, merzè, non indugiare, Vergine umìl sanz’alcuna mancanza, viva speranza del nostro adorare! Io so che ’1 picciol don non è abbastanza qual a te converiesi all’orazione, ma mie lingua s’è mossa a tuo speranza. Or questa ultima prece e intenzione a te dirizzo, Virgo inclita e pia, fede e speranza a mia redenzione, ché sanza te pregare invan saria ogni opra di mortale a mio socorso, e sarie scarsa ogni altra nostra via. Vergine immaculata, s’io son corso dinanzi a tuo clemenza, o degno fiore,
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la tuo virtù parca *1 vizio trascorso. Felice quel che t’invoca col core, e ben nat’alma chi ti brama e cede con pura fede e con perfetto amore. O gloriosa madre, abbi merzede dell’afritta città ch’è tribulata, Fiorenza bella che ti porta fede! D i cielo in terra pace gli abbi data, e fa’ che tutti insieme sieno uniti. Madre, deh, non guardar nostre peccata, ma scaccia e feri e crudi aspri appetiti de’ cittadin che a lei sono ribelli acciò che’ titol suoi sien più graditi! Racomandoti ancora e mia fratelli e padre e madre e suore, Istella diana, pupilli e vedovette e orfanelli. Passa qual acqua el mar bellezza umana, e quel fior fresco è or palido e smorto, che l’alma mia da te facìa lontana. Ergo, ti priego ch’ai mie viver corto i ’ liberato sia da quello errore, dove ciascuno in etterno sta morto. O vaso di clemenza, alto valore, per te, splendor, non per acuto ingegno, noi possiam esser libri dal dolore! Sacratissima, umile, i ’ non son degno di te parlar col mio fraile stile; però ti priego che non m ’abbi a sdegno, me, che cognosco ch’io son vermin vile e flagil peccator, somma clemenza: miserere di me, Virgo gentile! Guardami, Madre, dalla ria sentenza! E qui fo fine al dire, o Mater Dei, raccomandando l ’alma a tua eccellenza, non dicend’altro che: memento mei. CXXXVII * GV Eximio artium medicina doctori si può ben dir per divina influenza, dappoi che ’nfusa è ’n voi tanta scienza ch’asceso siete ne’ superni cori.
* S o n etto fa tto p e r m e F ilip p o e m an dato a m aestro G irolam o d a P a d o va in S a n ta M aria N u o va .
Fra' loici e filosafi e migliori un sol si sceme per isperienza, per la virtù di sua retta eloquenza in medicina a cercar gli autori. Però, se v ’è concesso da natura che abitiate alla magna cittate, siate contento a seguitar virtute e non guardate alle gran falsitate dell’orribile lingua ignota e oscura, perché la verità le fa star mute. Se volete salute, correte a Cato, il qual dice: « Semprorum, cum recte vivas, ne cures verba malorum ». CXXXVIII * GV Posossi il core all'ombra d'una Petra in isperar di trasmutarsi in quella, essendo preziosa e tanto bella; risistenza gli fé la dura Petra. Or poi, per grazia che dal d e l s'impetra, piacque a Cupido colle sua quadrella infiammar quella, sì ch'uman favella arie potuto creder fussi petra. Tolta da crudeltà, divenne umile 'apropinquarsi al mesto cor ch'ardeva, della cui umiltà prese conforto. E però, se 'n principio dur pareva, la forza tua, arcier, la fé gentile; salvala, sì che non mi faccia torto. E se 1 tempo ci è corto, riscalda lei col tuo potente ardire, volendo o no, ch'i' non perda il servire. CXXXIX ** GV Chi vuol veder quanta scienza regna in uon per ignoranza dottorato, raguardi mastro Anton, detto Rosato, * Sonetto fatto per me Filippo e mandato a Piero di Jacopo Tanaglia dalVAncisa a dì 8 di febraio 1472 con una pistoletta concordanti. ** Sonetto fatto per me Filippo e mandato a Maestro Antonio Rosato a priego di Maestro Girolamo da Padova.
operator de’ casi sanza insegna. Come in alcun senetto o ’n donna pregna in accidente e ’ s’è sperimentato, ricorre a quella che l ’ha ’ngenerato, osservando ’1 precetto qual gl’insegna. Però a questo si vuol dar commenda; o popol che di lui vai sì cercando, riserbagli l ’onor, secondo l ’opra! Ché una cura e’ venne immaginando: in quatordici porci ire a vicenda a sparger dell’un sangue e metter sopra. Ignun non lo ricuopra, o, s’Escolapio già di ciò non falla, che virtù istia in un porco intro la spalla. CXL * GV Pianger convienmi, e ieri ero galdente in desiata spene aver merzè, e bramo servitù tra amore e fé, ragiunto col preterito el presente. Or son sì lacrimoso e sì dolente del futur tempo, il qual passa per me in tempestoso mar, ch’i ’ dico, ohimè, in ogni mio partito esser perdente. Aspetto riaver maggiore orgoglio, come già dirizzai tutte mie vele, opposto da fortuna tempestosa. P o’ mi disdegno e a gran torto mi doglio, perch’altro servo mai fu sì fedele che fusse degno amar sì bella cosa. C X LI** GV Po* che le tue virtù mi stanno in core, io son com’un uccel ch’è preso a rete,
* Sonetto fatto per me Filippo Scarlatti e mandato a Fiero di Jacopo Tanaglia dalVAncisa a dì 10 di febraio 1472 per Vandata di villa che lui fece, e io rimasi in Firenze. ** Sonetto fatto per me Filippo Scarlatti e mandato a Fiero Tanaglia a dì 8 di maggio 1473.
e ogni giorno più m'acresce sete restarti in sempiterno servidore. Or dico adunque, poi che scalda Amore di te sì forte e poi che lo vedete, i' priego tutti voi che '1 conoscete al confortarlo che sia mie signore. Corri, sonetto, e fa’ che presto vada oggi inanzi a del quale i' son costretto, prima che ’1 corpo spiri o l’alma péra. E se ti domandassi el giovanetto chi te gli manda, noi tenere a bada; di’: « Egli è colui che morir per te spera ». Priego che 'nnanzi a sera tu lo saluti e per me falli onore, e di': « Memento del tuo servidore ».
CXLII * GV Partesi l'annuare in quatro parte: in primavera, e seguita la state, e utunnal, che muta quali tate; ragiugne el verno, onde più ’1 sol si parte. Onde porge influenza in molte parte, movendo e corpi infetti in quantitate, sottomettendo la lor libertate, mostrando quanto e cieli han possa e arte. E però, s'egli avien ch’i' sia infetto, non di me colpa, ma de' cieli e fato, tolto da servitù per lor contento. Omè, chT moro e sono abandonato, mancandomi '1 servir ch'era '1 diletto, e veggomi di vita ognora spento. Io non moro, anzi stento se '1 desio non s’adempie in una Petra, la qual per gentilezza ogni altri arretra.
* Sonetto fatto per me Filippo e mandato al detto Fiero in detto tempo, aven dolo male.
Mosso dal d el già milTardenti rai e fiuminati son dallo dio Giove; mostrando alla natura far tal prove, essendo allegro alcun gli fa trar guai. Non credo che fussi uon mortai giammai tolto da libertà e posto altrove, osservando ’1 servire, e non sa ’1 dove, mentre che ’n vita e* non è sazio mai. E però, se talvolta i ’ rido o piango in uno stante, e' n’è cagione Amore, per la viva speranza che rinasce. Ergo, libenter suddito rimango; tant’è dolce 1 servir che ’1 mie signore risceve il core e di suo vita el pasce. O spiritei, che ’n fasce ha’ ’nvilupato sì el cor del tuo servo, che, perso te, e’ triema a nervo a nervo! CXLIV ** GV Io veggio alfin del mio antico amore mille volte istraziarmi, e sol dico una, il giorno da costui per mia fortuna, tacito, ubidiente al suo furore. F più non ho possanza o alcun valore, ragion, virtù o isperanza alcuna, adunque, vinto da quest’ombra bruna, chiamata per mio aiuto a tutte l’ore. O G oto, tra’mi d’esto foco ardente, menandomi a qualunque altro martoro, a gustar passion che fie più lieve. Non una volta, mille il giorno i’ moro, da ch’io non posso restar paziente: omè, omè, che morte fia più breve! Po’ ch’i ’ ardo al sol di neve e veggo contro a me fortuna opposta, troverre’ pace dandomi risposta. * Sonetto fatto per me Filippo e mandato al detto Fiero a dì 10 d'agosto 1473. ** Sonetto fatto per me Filippo Scarlatti e mandato al detto Fiero a dì 15 d'ago sto 1473.
Pace cercando, ispesso truovo guerra, involto da pensier dolci e soavi e t visto oppenion di molti savi, resto invilito, anzi confuso in terra. Or chi fie quei che ’1 cor non se gli serra di veder gli almi uman diventar pravi in e casi leggier, per fargli gravi in allegrezza o ’n duol, che per noi incerra? Adunque aw ien che nostra mortai vita, ciò ch’è di qua oprando si contenta, osservando del senso l ’appetito. P o’ si contrista Palma al corpo unita; oviata dal ben, brutta diventa, se con flagillità piglia ’1 partito. Tu, giovane perito, domando te se questa oppenione nel mondo può trovar consolazione. CXLVI *** GV Pensa, alma mia, quant’è breve il contento in questo mondo e quant’è il grieve passo, e quanto fie al giudizio gran fracasso, racolto in te del fallo pentimento! Oh, quanti n’hai già visti al pavimento di verde età finir pulito e grasso! In isperar fiorire, invan con passo involti al mondo han fatto il fondamento. Ah, quanto è da stimare un’amistà che sia creata d ’un amor perfetto, oviata da putrida nequizia! Per questo aw ien che di calamità ogni alma è tratta, e seguene il diletto di posseder quel ben che su s’inizia. Deh, fuggi ogni malizia, e con puro intelletto tuo scienza opra a ritrar d’esti versi sentenza! * Sonetto fatto per me Filippo Scarlatti e mandato al detto Piero a dì . . . di settembre 1473, send’io in villa loro e egli a Firenze. ** Sonetto fatto per me Filippo e mandato al detto Piero in detto tempo pure in villa.
Per seguitar mie ’mpresa del servire, son condotto ch’è poco più morte, essend’io achiuso alTamorose porte, ridotto a libertà per più martire. Oh, quanto mi sarie dolce el morire, dappoi eh’Amor m’incita e sprona forte in isperar, benché Tore sien corte, aver presto dolzor del mio languire! Certo chi non ha amor giammai non sente or gaidio, or pianto, or duolo, or allegrezza, pensando sempre eh’amor venga manco. Oh, chi fie quel che in suo giovinezza fuggir non voglia il vizio e stia galdente e nel seguir virtù non sia ma’ stanco? Ch’i’ non ho visto unquanco, pensando, al mondo esser tutto malizia, né ’1 più dolce gustar che l’amicizia. io
CXLVIII ** GV P o’ che piace a* destin che ’n servitudine /sperda e verdi e mia giovanili anni, e ognor m’apparecchio a più affanni, ripensando al servir suo dolcitudine. Oh, quanti già con lor sollecitudine d ’amar son vissi e con vestir be’ panni! Involti da lacciuoli e molti inganni, hanno perduta la beatitudine. Cieco si vesta chi l ’amor pur segue o chi di lui altra fine non pensa, però ch’egli è caduco, infimo e vano. Oh, beato colui ch’amor dispensa in perfetta amicizia e faccia triegue colla carnalità, ch’è vizio istrano! Col tuo intelletto sano raguarda s’egli è ver quel ch’io ti dico e quanto importa al conservar l’amico. * S o n e tto fa tto p e r m e F ilip p o S carlatti e m an dato al d e tto P iero in d e tto tem p o 'opra am icizia. ** S o n e tto fa tto p e r m e F ilip p o e m an dato al d e tto in d e tto tem p o p e r d e tto caso.
Impie, crudeli e dispiatate mani, che v ’intrigasti in quelle bionde chiome c’hanno del mondo l ’altre forze dome per paesi propinqui e per lontani! Tigri, leoni indomiti e silvani han fatti mansueti sol col nome, che rimbomba nel del; ditemi or come ardisti a far li assalti sì villani. O Giove, come tanto l ’ira tempre che non mostri vendetta di costui, percosso da furor sanza suo colpe? Faranno gli elementi guerra sempre e tutti gli animai si vestan bui, dolendosi del caso che mi spolpe. Per questa falsa golpe patirie pena la pura innoscenzia, s’al parlar del Mancin non s’ha avertenzia. CL *** GV Mosso è dal cielo una ’nfluenzia tale, occupativa dell’umana speme, resister non si può, tanti ne geme, mostrando lor natura infettuale. Or visto questo tutto in generale, ragunati si son, perch’ognun teme ad esser prosequenti a questo seme, in tutto per ispegner questo male. Oltr’agli altri ce n ’è un sol di questi che vuol menar questi animali in pasco, però che gl’impediscon la scienza. E ha posta suo speme intro ’n un fiasco per rinfrescare e mantenere e testi, da’ quali ispera imprendere eloquenza. E se questa influenza lasciassi in pace el popol fiorentino, costui verrebbe dotto intro ’1 latino. * Sonetto fatto per Filippo Scarlatti e mandato a Jacopo di Biagio, avendo bat tuto Fiero suo figlio. ** Sonetto fatto per Filippo Scarlatti e mandato a ser Bernardo Mormorai al tempo de9 bruchi, cioè a dì 13 di luglio 1474.
CLI *
Puossi chiamare al mondo un uon dolente, sperando, esser privato, sia alcun tempo riserbato riaversi del caso, eh'è perdente. Omè, star non poss’io più paziente, datomi a te più tempo ed obligato in avere e ’n persona, ed osservato insino a ora come car servente. Adunque, qual giustizia o qual cagione comportar mai ti fece tanto pianto o duol, qual mi vedesti in tua presenza? Può esser ch’a piatà o tanto o quanto operando qual hai la ’ntelligenza, potessi sofferir tal passione? Io piglio ammirazione, avendo noi tant’oblighi preteriti, tacito, duro istar, bench’io noi meriti. in alcuno e non gli
CLII ** GV Po* che quieto è ’1 pianto e i sospiri riposato voto e sacramento eficacemente in fondamento, retifico a tal giuro, al qual mi tiri. Osservato da te, tutti e martiri da me fien tolti e viverrò contento, in modo tal ch’ogni altro amico spento in me sarà, e ’n te fie ’1 mie desiri. Adunque, se fatt’hai promessione con la tua labia, fa’ concorde el core, osservativo in tempo di tuo vita, perché tu l ’hai promesso a tal Signore, obligandoti più che ’n confesione, o ch’altro mai potessi fare in vita. Seriati e sia finita verso d’ognun generalmente in tutto abbandonare el seme del mal frutto. in ed
* Sonetto fatto per Filippo Scarlatti e mandato a Fiero Tanaglia. ** Sonetto di detto Filippo al detto Fiero.
Il vizio a Dio fa lutto; giù nelFinferno gli condanna in pene, rovinati e privati d’ogni bene. Sarà perfetta spene se ’n piè terrai la giurata proposta, dando per segno a questo una risposta. CLIII * GV Potrò io mai riveder quella luce m nella qual mie vita si notrica e , per dio, prima ch’alia madre antica ritorni, vesta qual natura adduce? Opri chi può, e ’n forma sia mie duce menarmi a porto che tanta fatica eleggerita sia, o che in rubrica mostrar si possa come Amor conduce. E se talvolta i’ mostri non mi curi nella presenza del mie perso bene, tanta più doglia al cor mi si raddoppia. O fortuna del cielo, o che più duri mandarmi tuo giudizio, poi ch’a spene è mie vita privata d’esta coppia? Il cor di doglia iscoppia, se mosso non sarai a gran piatate per rilevar chi è in calamitate. Tuo magnanimi tate sì si conforti con questo sonetto, risposta dando, ché so n’hai diletto. CLIV ** GV
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Salve, de’ cieli Imperadrice santa, viva radice dell’umana speme, che surse al mondo salutifer pianta! Madre, al parlar di te mio occhio geme, non send’io degno alzare a te mie ciglia;
* Sonetto di detto Filippo al detto Fiero. ** Morale fatta per Filippo Scarlatti in laide della nostra Donna della pieve di Santo Vito dalVAncisa, racomandando Jacopo e Bartolomeo di Biagio Tanaglia e le lor donne e tutta loro brigata, nominandogli; questo di 22 di luglio 1473.
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per mia flagelità mie mente teme. Tu madre, tu compagna, isposa e figlia, vergine intatta umìl di quel Signore che l’uman secol nel dolor consiglia, fontana di piatà, chiaro splendore, deh, porgi al mie ’ntelletto, che vuol dire del tuo Figlio e di te, tanto valore, in forma tal chV possa remedire a tanta altezza colla fantasia, che sine te so sarebbe a smarrire! Laidato el nome tuo sempre mai sia; clemente Madre, voglia esser contenta a questo orare esser la guida mia. Immenso, etterno Iddio, priego consenta per merto non di me, ma di tuo Madre che la merzè all’orar non sie spenta, poi che ancor son fra le mortale isquadre, fra le qua’ più conosco essere indegno poter trattare opre sì leggiadre. Però, clemente Iddio, signor benigno, dinanzi a te io miser peccatore insieme col Salmista a dir ciò vegno. Ora dimetti al servo tuo, Signore, secondo la tuo verba el suo peccato in pace, ogni commesso suo errore; da ohe e mia occhi aranno raguardato innanzi a te per trovar lor salute, miserere del fallo adimandato, avendo già parate le virtute della tuo faccia innanzi al popol tuo, per salvar Palme quale eran perdute! Nel lume chiar del santo petto tuo qualunque vi raguarda penitente è redemito d’ogni peccar suo. Tu, a rivelazion di molta gente, mandasti di tuo gloria Gabriel, per salvar chi del delitto si pente. O gloria di tuo plebe dTsdrael, che fusti redemita del tuo duolo, di che parla David e Samuel! Nella gloria sia el Padre e il Figliuolo e lo Spirito Santo sempre mai in una essenzia tre, uno Dio solo. In modo tal come nel principio hai la gloria posseduta talor sia nel secolo de’ secol, che fatto hai.
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Or non si stende più la lingua mia, però che 1 breve orar penetra al cielo, se per caso avvien ch’accetta sia. Immacuìato e bel virginil velo, io rendo a te non tal debita grazia qual converriesi a tuo ardente zelo; sed, quanto per me puossi, mai non sazia sarà la voglia mia di ringraziarti, per liberarmi dalla tuo disgrazia. Consenti, Madre, ancor non risparmiarti di pregar pel divoto tuo diletto Iacopo, che non resta d’adorarti, acompagnato d’un che fu concetto da medesimo seme e ventre umano: Bartolomeo da te sia benedetto. Raguarda ancor di Iacopo primano la Lena ohe gli hai data in compagnia, ché l ’alma e ’1 corpo si mantenga sano. L’altra che mostra tua famula sia, Bartolomea, del secondo sposa, sie conservata d’ogni ricadia. Ancor bisogna misericordiosa tu sia della Ginevra figlia loro, ché l ’alma nel suo fin sie teco posa. Tu, che Regina se’ del divin coro, ancor la Nanna i’ te la racomando, ché ’nfra’ beati sia del numer loro. Terza figlia di questo v-ien chiamando, che par Cammilla sia dinominata: con l ’occhio, Madre, vienla raguardando. Il cor mi sprona più està fiata al doverti pregar cordialmente, quanto più posso, sia d’esto avocata. Tien mano in capo a questo adolescente, però ch’egli è il baston della vecchiezza di questo tuo divoto e car servente. Vivendo faccia sì in suo giovanezza questo tuo Pier, ch’è di boto acquistato, ohe parte teco abbia ’lfine in altezza. Ossecro, Madre, anco che raguardato abbia nel viver della tuo Francesca, che parte gli abbi nel tuo regno dato. Sento mie lingua che nel dir rinfresca per questo quinto genito seguente, sì che a raccomandartelo m’adesca. E per cagion ch’egli è quasi innocente, però che giace ancora in puerizia,
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Giovati Batista, Madre, ti stie a mente. Rivolta gli occhi ove non è malizia, e guidai sì per retto e buon camino che la Lucrezia abbi la tua amicizia. Vedi, Regina, un puro e biondo clino di Raffaello tuo sì parvoletto; deh, cedigli Centrata in tuo giardino! Ovviati da più per tuo concetto si rapresenti el genito sezzaio; Madre, ritieni a te questo angioletto! Sempr’è per grazia tua mie dir più gaio, dir di Bartolomeo, ch’è il secondo geniptor, che a Iacopo fa paio. En prorisso parlar più non abbondo, anzi più breve potrò strignerotti, correggendomi tu il dir sitibondo. Nel geniptor secondo conterotti e frutti sua, che son del sangue mio; igitur, Madre, sien da te ridotti. Primo di questi, che ha in te il desio, sendo della vecchiezza suo il bastone, ti racomando quanto più poss’io. Reggilo, Madre, poi ch’egli è garzone questo tuo Biagio, e conducilo a porto ch’abbi acquistato alfin suo salvazione. E l ’altro poi, ch’è d’età el più corto, Madre, dappoi ch’abitare è venuto dove si può trovar d’alma il conforto, amaestralo in modo che adempiuto sie tuo desio, Francesco, in gioventute, sì che al suo fin da te sie conosciuto. Terzo di questi Antonio abbia vertute quant’ebbe chi per fama e ’ tien suo nome, né sia privato alfin a più salute. El quarto par ch’abbi pùeril chiome, perch’ancor giace in verginile stato, sanza gustar del mondo grave some. Donami grazia, Madre, che accettato tu abbi il priego d ’esta Manetta, che ’1 regno tuo non gli sie ’lfin vietato. In ginocchion dinanzi a te si getta un parvoletto pùeril fantino, detto Zanobi, che tua grazia aspetta. Cedigli grazia facci buon camino; però che ’n ’fanzia è suto quasi infetto,
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serbagli parte al sacro e bel giardino. E l ’ultimo di questi sie tuo eletto, però ohe la innocenzia gli è cagione in parte che da te sia benedetto. Or questa ultima prece e mie ’menzione per questo Luca a te dirizzo e preco, che al suo fine venga a salvazione! Madre, e’ mi stringe el pregar che sien teco du’ altri figli di costui predetto, benché l ’un sì e l’altro non stia seco. Acquistati fur prima che ’1 perfetto isponsalizio o sacro matrimonio in una carne dua per tuo precetto. Tolto del mondo l ’uno e l ’altro idonio, però che ’1 primo è dato al sacramento, l ’altr’è nel suo mestier buon testimonio. El sacerdote primo i ’ ti ramento, Giovanni prete e divoto di te, che ’1 merto al sacrificio non sia spento. Ricevi di Girolamo la fé, la qual ti porta e la gran divozione, ché possa per tuo mezzo salvar sé. Dua alme poste all’aministrazione della lor casa per consuetudine, priego ch’accetti la loro orazione. E ’n vista sien con tal sollecitudine l ’Anna e la Margherita ohe non si opri nel mondo ailfin per loro amaritudine. I ’ ti ricordo ancor, Madre, ch’adopri per dua, che ’n casa in villa hanno il ministo: la mamma e figlia che per tua l ’apropri. Mosso da carità, sì lungo listo mi stringe ch’io ti debba ancor pregare pel correttor di tuo chiesa o ministo. E strettamente t’ho a racomandare tutti color, che di tuo compagnia voglion con union con teco istare; mettigli, Madre, per diritta via, acciò che, tal fraternità salvata, per la tuo grazia a lor salute sia. E non aver però dimenticata di tuo pivier la generai masnada, benché in lor sia inumerabil peccata. Non altrimenti ohe que’ di rugiada e manna e mel pascesti nell’Egitto,
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per lor salute tal brigata vada. Tolto dal mondo alcuno e derelitto, abbi portato in modo la suo vita che sia peU’alma sua in te il profitto. Oh, dolce Madre, più oltre non gita sarà mie fantasia che l ’intelletto, sperando che la prece sia essaldita! Memento mei sarà sempre el mio detto per grazia e non per merto, ché indegno mi truovo innanzi a tuo divin cospetto. E però, Madre del celeste regno, donami grazia ch’io abbi vettoria in vita mia contra ’1 dimon maligno, in modo ch’io sia degno di tuo gloria poter veder la salutifer pianta, che mi confermi al dir per tua memoria. Salve, de’ cieli Imperadrice santa!
CLV S o n e t t o f a t t o p e r P ie r o d i J a c o p o T a n a g lia e m a n d a to a m e F ilip p o S ca a d ì 2 3 d i s e tte m b r e 1 4 7 4 .
GV S u g o d 'u n o s c a m b ie t to d 'u n c o ltr o n e e m e s c o la to c o l m u g g h io d 'u n b u e , d e l q u a l s e n e v u o l t ó r s e i o n c e o p itie , e n c o r p o r a c o n g ra s s o d i m o s c io n e , e fa r a 'n e d i t u t t o u n 'u n z io n e , e p e r d ic o z io n b e c c o d i g ru e ; u g n i l e r e n i e t ir a lo a llo g iù e , s e g u a r ir v u o i d e l m a l d e ll'a m a tr o n e . Q u e s ta t 'è d a ta p e r p r im a r ic e tta e , s 'e lla n o n t i g io v a , m a n d a t o s t o p e r u n a a llo s p e z ia i d e lla c o r n e tta . F a lla fa r b u o n a e n o n g u a r d a r e a l c o s to , t o g li u n 'o n c ia d i sg u a r d o d i c iv e t t a e c u o c in e co n e ssa u n p o llo a r r o s to . A z z u f f a t i c o l m o s to , c h e t i fa rà p o s a r p o ' m e ' la te s ta , fu g g e n d o e g h i r i b i z z i e l o r te m p e s ta . L a v ig lia d e lla f e s ta , c io è la n o t t e d e lla E p ifa n ia , m o l t i g u a r is c o n d 'o g n i m a la ttia .
R is p o s ta d i F ilip p o a d e t t o
P ie r o
Sugo non di coltron, ma d’un metone, che grida come ’1 bo che non può piùe, e* vuoisi mescolar con chi ha vertùe; ma troppo pesa sua presunzione. E s’tu farai di ciò conclusione, le dicozion saran ¡’opere tue, che, se fien buone, ti merranno in sue, dove si truova ogni consolazione. D i tal ragion ricette a te s’aspetta, cioè qual sopra appunto t’ho proposto, e non seguir de’ ’dioti lor setta. Fa’ ch’ai ben far tu non ne stia discosto, ch’egli è mirato altrui po’ molto in fretta, scernendo la ignoranza o virtù tosto. Se nel mese d’agosto, quand’io rivalsi alle Muse la cresta, m’avessi atteso, i’ sare’ d’altra gesta. Onde che per te resta e* parmi che tu m’usi villania non valermi mostrar quanto che sia. Deh, per tuo cortesia, sendoti stato, e son, buon servidore, non mi negar d ’esser mie precettore! che tu n’arai onore, però ch’ognor mi duplica la voglia, avendo il mezzo tuo serra’ 1 la soglia.
CLVI * GV Lui è detto un minimo uccellino, ma, ’n compenso di quel, tu se’ minore, e vuoi libero el campo a tuo onore: or t’ha spugnato ser Matteo Franchino. Sì per sentirti è ’1 popol fiorentino per tutte le pendici dentro e fore e, visto che con mogliata il valore non hai, t’hanno istimato un cervellino.
1 Cod. sono. * Sonetto fatto per Filippo Scarlatti e mandato a Luigi Pulci questo dì 16 di maggio 1474.
Pur lo vedrai, e credi avere ispento la ’nfamia col cessar gli altrui sonetti, per libito far lecito a tuo gregge. Ci insegna e modi tua Anton Manetti, che di tuo strazio mostra esser contento, perché del predicar va teco a legge. Assai ’mpara chi legge; igitur guarda alla teologia, se tu l ’offendi a usar soddomia.
CLVII GV O fugace dolcezza, o ben dubbioso, o duolo incerto, o desiata speme, o fonte viva, ond’ancor surge e geme ogni dolce licor, ch’avea nascoso! O dolce tempo, a me tanto invidioso, te desiando tu ristringi e preme disdegno, crudeltà, volere insieme, tal ch’ogni mie pensier volgi a ritroso! Così sperando il core in diaccio suda e di dolci sospir nudrito pasce: or teme, or brama, or non vorrebbe e vòle. Così cangiando, el suo voler non muda, ma vive e more e poi morendo nasce, pascendo in fiori e fronde e in viole.
CLVIII * GV Un m’ha con certe parole sonato dentro all’orecchio che mi tocca onore; non so di chi o donde sia l ’errore, ma più di voi mi son forte amirato, essendovi di me d’alcun parlato, credendom’io che mi portiate amore, com’aspettiate ch’altro imbasciadore per voi m’abbia il mio ben manifestato. E massime sappiendo ch’oggi al mondo c’è carestia d’uon che dic’altrui ’1 vero, Sonetto fatto per Filippo detto e mandato a ser Girolamo di Zanobi Alesi prete.
se non per simular o per trar frutto. Ergo, a voler nostro viver giocondo, non si vuol dimostrar bianco per nero, ma con perfetto amore el ver costrutto. Si vuol con fede tutto esser col buono amico e conferigli el bene e ’1 mal per tórlo da* perigli. E fuggonsi e bisbigli di chi mal dice. Or uscian del giardino: guardate e correggete el mio latino. CLIX* GV Ogni becchin morria di fame certo per l ’abondanzia de’ medici dotti, ma èccene un sol, che n’ha condotti mille alla fossa, tanto è poco sperto! Costui è volterran, detto Lamberto, quale ha studiato in libris tante notti che fa che’ pedignon diventan gotti, allegando Boezio nel Diserto. E ’ non conosce polso né orina, e ha negli accidenti tanta pratica ch’a ognun dà l ’ultima medicina. E fa d’un duol di testa una fiematica e d’ogni po’ di freddo una contina e un gavocciol fa d’una volatica. Non sappiendo gramática, si dottorò di notte sanza vaio verso Grosseto in un bel mellonaio. Ma perché non ha acciaio, da* Volterran fu dato per giudizio ched e ’ perdessi de’ prior l’ufizio. CLX GV Se convien che nell’almo Amor dipinto mi sia, e io suggetto gli divento, ed ogni dolce suo comandamento * Sonetto fatto per Filippo detto e mandato a Maestro Lamberto da Volterra Medico essendo in Firenze venuto a sperimentarsi in medicina.
faccio, perch’ella sola è che m’ha vinto. M ’ha del suo sangue el core e ’1 petto tinto, e di lei prigion sono e son contento e, sed io moro o s’io rinasco e stento, contento sono esser d’Amor distinto. Ma se dolci sospiri, Amor, ti chieggio, un sol ne basta del mio car signore, pur che venga del loco ond’io vorrei; ed io, che nel mie core iscorto veggio quanto conforta, anzi consiglia Amore, ch’i ’ mi rimetta in forza di costei. CLXI * GV Se mai tu t’allegrasti, o degno ospizio, per la dolcezza di tuo caritate, ragion paria n’avessi libertate, sendo sì buon ministro al degno ofizio. Or ch’è perso el pastor, tal benefizio non si reggerà più con degnitate, ma fia forzato alla calamitate, che carità, prudenzia han perso indizio. Ergo, scerner tu puoi s ’è mai cagione da dover restar mesta e lacrimosa, sendo da te partita ogni tuo spene. Ma, se l ’umana spoglia ci s’è ascosa, rallegratevi ornai coll’orazione, perché l ’alma è condotta al sommo Bene. CLXII ** GV Sparta è la fama al mondo che in Fiorenza molti dottor mandati dal Caverna vi son venuti a straziare Avicenna, allegando el Vannin per lor sentenza. Ma vista già di lor la sperienza, n’ha mandato uno e quatro di Picherna, * Sonetto fatto per Filippo detto per la morte di Bonino castaido di Santa Maria Nuova insino a dì 7 d'ottobre 1471. ** Sonetto fatto per Filippo detto per Maestro Nicolò degli Spimpallanti sanese, abitando in Firenze a ’mparare.
acciò che tenga agli altri la lucerna, qua* son digiuni, come lui, di scienza. Costui ha rinegato el dottorato per manco error, non volendo pagare: chi ha da lui aver s’è fatto prete. Però, quando e' vi vien per medicare, domanderete dovagli ha studiato, ch’egli ha ’mparato a tender simil rete. E quando voi il saprete, diretegli in volgare e non latino che lasci istare el sesso masculino. E, se gli piace el vino, gli dite che non voglia medicare, ché l ’arte sua è loica insegnare. Io non vel vo’ celare di ser Anton Nicolò Spimpallanti: si fa chiamar da Siena agli studiami. CLXIII * GV
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Ciaschedun fugga Amore, perch’egli è traditore. Alcun non sia che voglia cercar fatica e doglia, potendo aver diletto; anzi, per altro detto, è singular pazzia che di suo signoria si privi l ’uon, faccendosi suggetto. O Amor maladetto, quanti mal capitare, che t’hanno a seguitare, n’ha’ fatti alfin, sanz’alcun lor sussidio! Ché te ne mostra Ovidio d’Archita, che ’n prigione solo ha contemplazione di non partir da Emilia suo ’manza. Ma e ’ non è a bastanza: chi in esilio e chi preso, sendo d’Amore offeso, e chi mal capitato, chi morto disperato,
* Frottola fatta per Filippo Scarlatti per mandare al detto Piero a dì primo di gennaio 1474.
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chi perso ha '1 sentimento, chi a guardar l ’armento come vii femminella, e chi con freno e sella è suto cavalcato e quale isvergognato, sì c’ha perso l ’onore; e chi sempre in dolore e chi anegato in mare, chi condotto a filare in suo vita è vissuto. Però fate rifiuto al lascivo Amore, iniquo e ’ngannatore, se volete esser liberi; e ciascun si diliberi non voler più seguire suo ’mprese, anzi fuggire lui co’ suo’ van sollazzi. O giovanetti pazzi, aprite ornai vostri occhi prima che l ’arco iscocchi della sensualitate! Se la flagellitate o ’1 dimon vi fa cadere, vogliatevi riavere vostro onore e baldanza. Non pigliate fidanza in vostra giovanezza, perché poco si prezza cosa che poco duri. E ’ par ch’i’ non mi curi d’aprir bene el quaderno: el viver non è etterno, anzi è un breve gioco; ma chi pensassi poi al foco, el qual sempre mai dura, porrebbe poca cura alle cose mondane, che sono infime e vane, sanza stabilitate. Cercate liberiate, mentre che ’1 viver basta; intridian poca pasta, acciò che me* si gusti. Tu dirai ch’io ti frusti: io lo fo per tuo bene.
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O pazzi da catene, chi ha spasso di giuoco! Quanto repente foco sento che ha chi s’imbrode: un vermin che ti rode la notte e ’1 dì el core, e con pena e dolore costui sì si nutrisce! Da questo partorisce ogni cattivo vizio. D ’onore el benefizio perde e ’1 tempo e’ danari, che sono oggi sì cari che non ci se ne truova. Che sperienza o pruova può fare un giucatore che se perde l ’onore? Egli ha perduto el credito e si conduce in debito e sanza aviamento, per seguir suo contento, con trabalzi e inganni si trae di dosso e panni; non potendo altro fare o si mette a furare, o micidio e bugia, bestemmia e tirannia, inganni e falsi tate; e la golositate sempre gli dà penuria, superbia con lussuria. E* si può porgli il vaio, e però il mal danaio malvo'lentier si spende. F dico a chi m’intende. O giovani e fanciulli, pigliate altri trastulli! I ’ non lo dico a’ vecchi, che oggi son tristi specchi a mirare a lor cose. L’opre virtuose vogliatele seguire, e vogliate fuggire questo mal viver d ’oggi, però che chi c’è oggi non ci sarà istasera. Se troppo in tal matera
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i’ mi son dilatato, so che m'arai iscusato, ch'i' veggo il mondo iscorso al viver sanza morso, correndo sanza freno, e veggo! tutto pieno di gente mal condotta. E Ì ragunarsi in frotta sott'ombra di far cene? So quel che ne perviene; i ’ me lo vo’ tacere, ché lo tocca asapere a chi ha a custodire. Gli orecchi e gli occhi aprire usi a* figliuoli e padri, a le figlie le madri. Abbiatene ben cura, però ch’i' ho paura che la troppa larghezza di lasciargli in cavezza non generi trestizia, ch'i' veggo più malizia ne* giovan che ne' vecchi; e par che s'apparecchi piggiorar condizione. Facciàn conclusione a questi nostri detti: che siate benedetti padri, madri e ciascuno che ha custodio alcuno di correggergli in modo che sia di fama e lodo con salute dell'alma. Credo che questa salma a molti ispiacerà, ma chi considerrà ben ogni suo costrutto ne potrà trar tal frutto ch’adempierà el desio e per grazia d’iddio n ’andrà di bene in meglio, avendo per ispeglio chi ’1 contradio facessi o altra via tenessi che questa che s’è detta. Non seguite la setta
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de* tristi o giucatori c certi isviatori di loro propri e d’altri; siate prudenti e scaltri, mentre siate picchini agli ufici divini e lo iscrivere e ’1 leggere, acciò vi possiate spergere e diventar d’assai; e fate che non mai el giuoco vi s’addossi: palla, iscacchi, aliossi, trottola, ferri o rulli. I ’ lo dico a’ fanciulli per levargli dagli ozi, alle compagnie co’ sozi sempre con vostri pari; e non sarete avari di spesso confessarvi e poi comunicarvi quando siate nel tempo. Ma voi, che di più tempo condotti a gioventute cercate ila salute del pacifico vivere, el leggere e lo scrivere sie tutto ’1 vostro ispasso, ché vi mosterrà il passo di vostra salvazione. Ogni consolazione si trae dell’essercizio; ciascuno al suo ufizio pigli la ferma piega, fermandosi a bottega, ché gli darà allegrezza. E chi questa non prezza non può capitar bene. E levate la spene dall’altre vani tate, ché, se le essaminate, non son se non dolore; e il lascivo Amore abbiatel per nimico. Avendo alcuno amico, fatene masserizia, ché la buona amicizia è un gaidio nel mondo.
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Ma chi fie sitibondo fia ciottol di Mugnone, che mai muschio o sabione non vi si posa su. Oltre non diciam più, acciò che inteso sia; e" c'è gran carestia di chi dica altrui il vero. Oggi il bianco per nero sì si mostra adulando, e sempre simulando l'un l ’altro si costuma. L'ozio e '1 giacere in piuma e' dilicati cibi par che sien gl'introibi di questa mala messa, la qual narrata ho spressa. Beato è chi l'ha 'ntesa, perché farà difesa contro a tanta trestizia. Col cor sanza malizia mettetevi a studiare o in latino o 'n vulgare se volete godere; questo sarà il piacere e lo spasso e '1 diletto. Chi ha sano intelletto suoni la dolce lira, però che questa tira a cercar testi o storia, e qua’ danno la gloria per fama in questo mondo; po' sarà in ciel giocondo nel numer de' beati. Dunque, siate pregati fuggir lascivo Amore.
CLXIV S o n e t t o f a t t o p e r F ilip p o S c a r la tti e m a n d a to a l d e t t o P ie r o c o lla in f r a s c r itta f r o t t o la
Chi segue Amor nella suo giovinezza s'avede poi col tempo quanto egli erra, perché false lusinghe e 'nganni incerra contro ad el senso, che non ha fermezza.
E chi con giuoco ha sua domestichezza costui attendi sua fama sotterra, però che tal sentenzia el savio serra che Iddio, el mondo, l ’alma e ’1 corpo sprezza. Ma ch’è un uomo al mondo sanza amico Tulio ti mostra, ch’alcun non può vivere sanza amicare, e amico è altri tu. Igitur, chi alla lettera o lo scrivere si darà e la cetra in suo suplico risalverà l ’alma, e qui sie con virtù. CLXV * GV S e r v a si fa di Nettunno la terra, ¿wttendola coll’ala amaramente; c iò che può si difende, e paziente Z e f f iv o col suo adonco pè l’aferra. .Mentre sen va con questa amara serra, m e spinge a contemplar se fra la gente /occhi lo spin d ’amor tanto pungente m e g l i 9 un ch’un altro, eh’a speranza incerra. I o sento sonar tante campane, per corre alcuna erbetta al tuo giardino, onde e ’ par che Minerva ancor ne bolla. Prostrato fra duo volte, e non c’è vino, abito in una madia sanza pane, circundata da-ll’acque e non s’immolla. Mugghiando non si crolla, e per queste cagion sono in assedio, se tuo prudenza non ci pon rimedio.
CLXVI ** GV « Guarda intro quanto errore è ’1 tuo Batista: inver, di bello egli ha oppenione ». « O perché? con chi hae conversione? » « Vuol tu vedere? or leggi questa lista ».
* S o n etto fa tto p e r F ilip p o S ca rla tti q u e sto d ì 2 0 d i se tte m b re 14 7 6 in M u tro n e e m an d a to a ser B accio Z effi. ** S o n e tto fa tto p e r F ilip p o e m a n dato a G io v a n B a ttista d i Jacopo Tanaglia q u e sto d ì 2 3 d ’a p rile 1 476, a ven d o o p p e n io n e d i sé estim an dosi.
Ah, quanta fama, onor, pregio s’acquista ne’ pastaccin, fornai o in treccone, beccai e pizzicagnol più persone, orafi e maliscalchi e gente trista! Tu sai ch’i’ posso dir d ’assai più gente; i ’ ne vo’ riserbar qualcun secreto, sappiendo che d ’alcun ti duole el dente. Tu hai cento bambin sempre mai drieto; almen nel frascheggiar tu se’ valente; d’esser corretto istimi men eh’un peto. F ti veggo indiscreto in ogni caso e di superbia pieno, a bocca il mele e ’n man porti el veleno. Ciarlerai un po’ meno ormai, po’ che ne vien quel di Mugello; ponti ben mente: tu non se’ più bello. Tu se’ un villanello; ancora ispero di veder quel tempo agli amanti vendetta al perso tempo.
CLXVII * GV O voi, che fisso nostre ossa mirate, però che ’nsieme ci vedete tante, persone fumo e vive tutte quante sì come siete or voi, che ci guardate! E come innanzi a voi noi siàn passate, così assai ce n ’andoron davante; e voi farete ancora el simigliante, perché convien che drieto ci vegnate. Però toccarci non si schifi alcuno, ché tutti siàn dal nostro padre Adamo: sanza frategli aver non c’è nessuno. Piacciavi ricordar che morti siamo e far per noi lemosine e digiuno, s’alcun per sé di carità è bramo. Guardatevi dall’amo che ’1 mondo porge sotto una dolce esca, prima che l ’alma del vostro corpo esca.
* Sonetto fatto per Filippo Scarlatti questo dì . . . de' morti cioè di sopra.
d'agosto 1478 in nome
CLXVIII * GV Tutti di stanzia siàn della Fortuna e della Morte, ove sempre s’accascia: però nel grande aver già non è grascia, come pensa chi ’1 guarda e chi ’1 rauna. Valendone ragione, èccene alcuna; dico di sì, che nell’ultima ambascia l ’avaro vede ch’ogni cosa lascia: maggior di questa non gli è pena ignuna. Addunque, che c’è più eh’esser cortese a D io innanzi e al prossimo poscia, e pace aver nelle povere ispese? Sanza gran cólpi, che la Morte croscia, non passi, perc’hai il cuore al tuo arnese e di lasciarlo n ’hai gran pena e angoscia. Onde convien che poscia ciò che ’n cento anni tu hai ragunato lasci in un punto e di là se’ passato. CLXIX ** GV Dubbio s’i’ sono o nel diaccio o nel foco, o in almo tranquillo o angoscioso, né posso o so dove trovar riposo al viver mio: però la Morte invoco. Tór mi potrei da questo incendi’ a gioco ovunch’io fossi, o palese o nascoso, dinanzi a quel bel volto luminoso, el qual mia vita istrugge a poco a poco. Resta che quella luce si nasconde in isguardar de’ mia lacrimosi occhi; giunto già presso al fin dell’ultim’ora ove mille dolcezze par che fiocchi a risentir quella voce sonora, gusto l ’oggetto e com’Ecco risponde. Cerco chi mi confonde. Contro a ogni ragion pecca in errore ingrato esser del servo il suo signore. * Sonetto fatto per Filippo Scarlatti, mostrando quanto sia breve, misera e caduca nostra vita, questo dì 7 d’agosto 1478. ** Sonetto fatto per Filippo e mandato a Donato d*Arigo Arigucci questo dì 5 di giugno 1481. A0
CLXX * F ilip p o S c a r la tto a l B a ld in o tto
Ser Baldinotto, le tue cose fatte, a me sute recate al zibaldone, m'hanno messo in sì gran confusione ch’io non ho in petto gocciola di latte. E parmi e polli vedere e le gatte venirti intorno al capo a processione, e credo el fin tuo fia nella prigione e ’1 nome auto dalle gente matte. Se già tu non ti muti di proposito, ser, lascia andar tuo’ sonettuzzi e versi, qual ti par saper fare: egli è l ’opposito. El nome tuo, ch’ai vulgo è di ser Sersi, si spegnerà, e ’1 cervel c’hai in diposito si potrà con buon modo riaversi. Egli è ’1 me’ ravedersi, dice un proverbio, un tratto che non mai; e questo, is’tu se’ savio, lo farai. E mi perdonerai s’i’ t’ho ripreso, ser mio, ch’i’ ti dico ch’i ’ son di te ornnin perfetto amico.
B a l d in o tt o a d e t t o
S c a r la tto p e r le r im e
U n d o lc e fa r fa llin l e p e n n e b a t te e g ià m e z z o c o n C l o to s i c o m p o n e , u n o u c c e lla c c io v ie n e a l b a d a lo n e m a e s tr o d i t r i s t i z i e e n o n d i n a tte . « L a b a lia c o n la p o p p a a n c o r F a lla tte , — c ia n cia e d ic e S c a r la tto in s u o s e r m o n e io v e g g o d ’u n a fa sc ia in s u l g h e r o n e c h e tu sa ra i p o e ta d a m ig n a tte ». C h ’è d i q u e l z ib a ld o n s ì b e n c o m p o s ito ? T u a ra i c o l tu o B o r s i g li a t t i p e r s i ; n o n sa i p u r d e l la tin q u a l sia il s u p p o s ito . S o n o m ie * c a r m i f u lm in a n ti e te r s i; q u e s t o t i sia d e l te m a m io V a p p o s ito , e V u n o e V a ltr o e l p r im o d ì d is p e r s i.
—;
* Dal Magi. VII 1148, il cod. autografo del Baldinotti, contenente rime di corrispondenza, soprattutto col Borsi.
B e n c h ia r o p u ò v e d e r s i c h 'io re g g o e p e r t im o r m a i n o n r e s ta i; a n c o r t u là p e r d e b i t o sta ra i. E l B o r s o s c a m b ie r a i , c h e n e v a in r o t t a o p o v e r o e m e n d ic o , e d io v o ' t e p e r p r in c ip a l n im ic o .
APPENDICE *
CORRISPONDENTI D I FILIPPO SCARLATTI ★
I n G V s o n o c o n te n u te r im e d i c o r r is p o n d e n ti e a m ic i d i F ilip p o S c a r l a t t i . S i t r a t t a i n d u b b i a m e n t e d i fipyu r e d i s e c o n d o p i a n o , a l c u n e d e l l e q u a li,, p e r ò , in u n a s t o r i a d e l l a l ir ic a t o s c a n a q u a t t r o c e n t e s c a n o n p o s s o n o e s s e r e la s c ia te
s o tto
sile n z io .
È
il
ca so ,
ad
e s e m p io ,
d e lla
C a te r in a ,
la
donna
v a g h e g g ia ta d a F ilip p o S c a r la tti, a u tr ic e d i u n c a p ito lo a m o r o s o , d i u n ta l N i c c o l a i o , d i c u i r e s t a u n s o n e t t o c o n t r o u n s o d o m i t a , d i B e n e d ’A g o s t i n o d e l B ia n c o , c h e , o ltr e a d u n n o io s o te r n a r io la u d a tiv o p e r u n p e r s o n a g g io n o n n o m in a to z io n e
( c h e a b b i a m o l a s c i a t o i n e d i t o ) , s i s e g n a l a a lla n o s t r a a t t e n
s o p r a ttu tto
per
un
« v itu p e r iu m »
c o n tr o
un
p r o f itta to r e , d i G io
v a n n i d e l R a g g i o , i l c u i u n i c o s o n e t t o , d * a r g o m e n t o g n o m i c o , s i r i a l la c c ia a lla
te m a tic a
p a r e n e tic a
di
d e r iv a z io n e
b o n ic h ia n a ,
di
P o g g io
da
T erra
n o v a ( c e r to n o n id e n tif ic a b ile c o l B r a c c io lin i) , c h e c i h a la s c ia to u n o sc a d e n te so n e tto m a e s tr o
N ic o lò
in
b i s t i c c i a lla m a n i e r a d e l B a r d u c c i e d e l F r e s c o b a l d i , d i
d a V o l t e , a u t o r e d ’u n s o n e t t o
a m o ro so , d i F ran cesco d a
C o lle , d i G io v a n n i d i s e r D in o F o r tin i e d i s e r B a c c io Z e f f e . M a d i g r a n lu n g a p i ù i m p o r t a n t i s o n o i l s o n e t t o d i C o m p a r i n o s u l l o s c h e r z o s o te m a d e lle g a z z e e d i V a ld im a g r a e s o p r a tt u tt o il n o te v o lis s im o , i n c o n s u e t o s o n e t t o 1 d i A l e s s a n d r o G ia c h i, s p r e g i u d i c a t i s s i m a p r o f e s s i o n e d i a te is m o e s a tir a d is s a c r a tr ic e n e i c o n f r o n ti d e lle v e r ità r e lig io s e . A b b ia m o in o ltr e r ite n u to u tile p u b b lic a r e a lc u n e r im e a d e s p o te , s e m p re
c o n te n u te
s in g o la r is s im o
in
GV,
p o e m e tto
che
p r e s e n ta n o
in tito la to
« La
un
p a r tic o la r e
q u is tio n e
in te r e s s e .
E cco
d e * c a c c ia to r i » ,
il
il bel
s o n e tto b u r c h ie lle s c o 2 , a ltr e s c h e r z o s e c o m p o s iz io n i s u l te m a d e lla M a g r a ( 3 , 7 ) , la c a r i c a t u r a d yu n s o d o m i t a ( 8 ) , la s c o n o s c i u t a c a n z o n e a b a l l o 1 0 e s o p r a t t u t t o i c o m p o n i m e n t i c h e s i r i a l la c c ia n o a u n a d e l l e m a n i f e s t a z i o n i
p i ù i m p o r t a n t i d i t u t t a la c u l t u r a q u a t t r o c e n t e s c a : la b e r t a d e l l a l o ic a , c h e n e l c a n t a r e d e l « G e t a e B i r r i a » , n e l p o e m e t t o d e l l ’« A c q u e i t i n o » e s o p r a t t u t t o n e i p o e m e t t i d e llo Z a e n e lle r im e d e l B u r c h ie llo a v e v a a v u to le s u e e s p r e s s io n i p iù s ig n ific a tiv e . I n f a tti, i s o n e tti 4 , 5 , 6 e 9 , c h e r ip r e n d o n o g li s c h e r z i su G r o s s e to , B a lo r d ia , il V a n n in o , B o e z io , il P e c o r o n e e G a lie n o , c o n V in s e r im e n to d i a l t r i e f f i c a c i g i o c h i d i p a r o l e ( C a p r a i a , S a m b u c a . . . ) , d o c u m e n t a n o la g r a n d e f o r t u n a d i q u e i t e s t i d e l p r i m o Q u a t t r o c e n t o , f o r t u n a s u ll a q u a l e s i è i n s i s tito
n e ll* A p p e n d ic e a l v o i. I . S u l la b e r t a d e l l a l o ic a s i d e v o n o
v e d e r e « L a c o r r e n te p o p o la r e » d e l
G u e r r i, p p . 1 -1 0 3 e il m io « P o le m ic h e e b e r te » , p p . 1 0 3 - 2 2 7 .
1 CATERINA
1 GV
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Dappoi che mi convien pur seguitare questi mie* versi, intendo d'ubidire, ma la mente non basta al sodisfare; ma per voler la mia storia seguire, dove n'andrò per aiuto e consiglio? Chi mi darà possanza a cotal dire? Così discendo e poi alzando il ciglio, m'apparve innanzi quella dea sì degna, la qual mi disse: « Non temer periglio. Sappi ch'i' son Minerva, quale insegna: ogni scienza in me aberga e posa e solo i' son colei in cui la regna. Questa virty in me istà nascosa e dalla a' tempi e spando con ragione; a chi mi piasce la fo graziosa. I ’ son colei ched atai Salamone ed i molt'altri che per morte zasce,
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i cui dotai di singular sermone. Però venuta son per darti pasce e poco stante mi convien partire; però mi chiedi e arai ciò che ti piasce ». Allor mi volsi a lei con questo dire: « r ti ringrazio del tuo buon parlare e son disposta te voler seguire. Sol una grazia i’ ti vo’ dimandare, che della tuo virtù i ’ sia copiosa acciò possa mie storia racontare. Non mel disdire, o idde[a] graziosa, acciò la ’mpresa possa seguitare, e fa’ ch’i ’ sia di ciò vitturiosa, ché temorosa i ’ sono al camminare pel grosso ingegno, e di ciò temo forte; dunque d ’aiutar me non mi negare ». Ed ella a me: « Coll’animo sta’ forte e non temer, ch’i ’ sarò tuo sostegno: non lascerò perirti in cotal sorte. Da te mi parto e lascioti per segno che sempre nel tuo cuor tu mi ramente a seguitar tuo storia con tuo ingegno ». Partissi favellando immantanente. Or cominciare a racontar vorrei quando del tuo amore i’ fu’ fervente. N el mille quatroscensessantasei, nel tempo che comincia la freddura, nel mese di novembre addì venzei ch’i’ fu’ del tuo amor ferma e sicura, mercole dopo santa Caterina, ch’udita avevo la nuova sì scura, piangendo forte i ’ povera meschina, d ’aver perduto il mio primo signore. Così soletta mi stavo tapina in camera rinchiusa con dolore, sempre piangendo e sol disiderando di racquistare il mio perduto amore; e colla mente i’ pur fantasticavo, discendo al cuor: « D i che se’ tu privato! » E ognora altro che morir bramavo. Alzando gli occhi, i ’ ebbi risguardato che ’nver di me veniva il gran Cupido; stavo stupita e col cor tributato. Ed egli a me con un dolce suo grido: « Che piangi tu, o vaga giovinetta?
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I" son venuto qui per tuo sossido. H otti trovata qui tutta soletta, alla tuo pena i ’ ti darò riparo quando tu sentirai la mia saetta ». Allor gittai un gran sospiro amaro; dissi: « Non se* tu quel che m’ha ingannato ed ha’mi tolto il mio signor sì caro, che del suo petto il cuor m’avia' donato, legato in mille nodi con catene, e ora al tutto sì m ’ha ’bandonato? E però non intendo seguir tene, né più sentir le tuo passion forte, che chi ti segue sempre ’1 tieni in pene. Tu m’ha’ condotta misera a tal sorte, po’ che m’ha’ tolto quel mie dolce sire, che dolce vita mi sare’ la morte ». Ed egli a me: « Deh, piacciati d’udire quatro parole e sara’ consolata, perch’io porrò silenzio al tuo martire. I ’ veggo che ’nver me tu se’ crucciata; non dubitar, ch’i ’ ti vo’ consolare e sara’ di tuo doglia consolata. Ma ben ti vo’ d’una cosa pregare: che tu mi creda e pigli il mio consiglio. Certo, se questo fai, t’arà a giovare, perch’io ti scamperò d ’ogni periglio; se esser tu vorrai a me servente, terrotti allegra e fresca come giglio. D ipo’ venir farotti prestamente uno spirito uman che par divino, il qual del tuo amor molt’è fervente: un garzon vago, onesto e pellegrino t’infiamerà sì forte del suo ’more, e del tuo vecchio amante egli è cugino. Più tempo fa ch’a te e ’ donò il core; del mese di settembre intro ’n un orto fu che di te gli cominciò l ’ardore. Ed io, veggendo costui per te morto e che in te egli ave’ posta suo fede, allor mi mossi per dargli conforto; e non avendo tu di lui merzede, allor ti sciolsi da chi i’ ti legai e fesci che ’1 tuo amor più non possiede. Or truovo te or qui con tanti guai ch’i ’ son disposto a volerti aiutare,
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e certo son ch’alfin mi credermi. Sappi chT ho a partire e te a lasciare; il tuo fedele i ’ te lo racomando, che dal tuo ’mor non lo debbe slegare ». Così discendo e poi le braccia alzando, ferita m’ebbe collo strai dell’oro, sì ch’a ogni altro amore allor diè bando. E poi si parte sanza far dimoro, ed i ’ rimasi sotto tuo speranza, perch’io nel cuor risceve’ tal tesoro. E però star di me tu puoi a fidanza, ché di farti apiascer i’ son bramosa, ma temorosa sto sanza baldanza. Ancora intendo dirti un’altra cosa: che tu non creda essere abandonato quando mi troverrò novella sposa; ma molto più sarai raconsolato, perché racquisterò la libertade, e da tanti parer sarai privato. Ma sol bisogna giuochi fedeltade, ché sanza lei non può esser amore, e questo certo so ch’è veritade, acciò che ’1 nostro amor venga a onore e lungo tempo insieme praticare, perché fra noi non fia alcuno errore. In sempiterno te sol voglio amare; tu se’ il mio signore e ’1 dolze sire, il quale i ’ bramo sol di consolare. Però lieva da te ogni martire e vivi lieto sanza alcun sospetto, ché sol te amo e cerco di servire. Tu se’ la mie speranza e ’1 mie diletto e se’ colui che mi tien consolata di singulare amor buono e perfetto. Moral canzona, a lui ne sara’ ’ndata, di’ che non guardi alla mie ’ndegna storia, e al mie servo fara’ tuo imbasciata, scusando a lui la mie debil memoria e lo ’ntelletto e ’1 mie fraiie ingegno, perché di tal virtù non ho vettoria. E ’n ginocchion dinanzi al signor degno a lui direte la detta proposta, ché solo egli è di mie vita sustegno; e poi tornate a me colla risposta.
GV Contesser può, o caro mie signore, che tu mi lasci con tanti martire, po' ch'io ti viddi iarsera partire, e la cagion non so del tuo dolore? Ond'io rimasi afritta per tuo 'more, e solo i' bramo di voler morire; po' ch’aconsenti a questo mie languire, cagion sarai del mio achiadato cuore. Po' mi rivolgo agli spiatati e rei que’ crudi giorni che mi ti torranno, ch’i' ben potrò gridare: « Omè! omei! » E rimedio non truovo a tal affanno, perché di questa andata i' non vorrei, ch'ogn'ora mi parrà ben più ch'un anno. Dolgati del mio danno; non so della tornata tua il quando e mille volte a te mi racomando, dolcemente pregando che stanza tu non faccia a Laterina, ché pena sentirà la Caterina.
II ALESSANDRO CIACHI ■k
1 GV Dal tetto in su è nugolo e sereno, come si vede e sole e luna e stelle, po' dice Salaiboc e Ismaellc che tutto il resto è buio come in seno. P o’ che noi non vedren l'arcobaleno, che pensi tu di ritrovar la pelle in Giusaffà? Ché pentole e scodelle ne fie già fatto, o cener sarà almeno. N o’ faren gli scambietti affusolati cogli occhi chiusi in una scura tomba e ’ sensi morti e’ membri intirizzati, e soneren le nacchere e la tromba; o pazzi spigolistri e smemorati,
o ciechi que’ ch’aspettan la Colomba! Non ti partir da bomba con tuo’ digiun, perdoni e paternostri per ingrassar po’ l ’orto a frati o chiostri! E ben ch’alcun ti mostri suo’ scartabelli iscritti, di che gracchia, ch’appena si sa ’1 ver fino a Quaracchia? Vuo’ne tu trar la macchia? E ricchi stanno dalla state al verno in paradiso e ’ poveri in ninferno.
2 GV Giusta vendetta a tempo mi riserba incontro a tale sdegno conceputo, o anima ch’ai dolce mio saluto volgesti tuo risposta aspra e superba. Ma se non che tu se’ d’etate acerba, nella qual di scusarti m’è paruto, non dubitar che tosto a te renduto i’ are’ ’1 velen di tuo vilana verba, che d’ira il cor m ’accese alte fiammelle, anzi mi spense amor con che tenerti volevo, ond’i’ n ’ho fatto ormai il pianto. Adunque, s’io sinistro di vederti, le tuo spiacevolezze son pur quelle c ’han tirati i mie’ passi indietro tanto.
Ili NICCOLAIO *
1 GV Quel nudo spiri tei cieco e alato gli spiriti gentil ne’ lacci serra, e ’1 corso di costui rade volte erra, * Potrebbe anche trattarsi di quel Niccolaio di Pagolo linaiolo, autore di 24 sci pite ottave, che ricorrono a c. 334 e che cominciano: « Molti hanno già nel lor principio detto ».
o ciechi que’ ch’aspettan la Colomba! Non ti partir da bomba con tuo’ digiun, perdoni e paternostri per ingrassar po’ l ’orto a frati o chiostri! E ben ch’alcun ti mostri suo’ scartabelli iscritti, di che gracchia, ch’appena si sa ’1 ver fino a Quaracchia? Vuo’ne tu trar la macchia? E ricchi stanno dalla state al verno in paradiso e ’ poveri in ninferno.
2 GV Giusta vendetta a tempo mi riserba incontro a tale sdegno conceputo, o anima ch’ai dolce mio saluto volgesti tuo risposta aspra e superba. Ma se non che tu se’ d’etate acerba, nella qual di scusarti m’è paruto, non dubitar che tosto a te renduto i’ are’ ’1 velen di tuo vilana verba, che d’ira il cor m ’accese alte fiammelle, anzi mi spense amor con che tenerti volevo, ond’i’ n ’ho fatto ormai il pianto. Adunque, s’io sinistro di vederti, le tuo spiacevolezze son pur quelle c ’han tirati i mie’ passi indietro tanto.
Ili NICCOLAIO *
1 GV Quel nudo spiri tei cieco e alato gli spiriti gentil ne’ lacci serra, e ’1 corso di costui rade volte erra, * Potrebbe anche trattarsi di quel Niccolaio di Pagolo linaiolo, autore di 24 sci pite ottave, che ricorrono a c. 334 e che cominciano: « Molti hanno già nel lor principio detto ».
ché non vuole a suo legge ignuno ing[rato]. Però non ti chiamar preso e legato, discendo che l ’Amor tuo vita atterra; chiamati ignoto, ingrato e sainza guerra d’Amor, che volge il suo felice stato. Tu mostri che’ sospiri tuoi sien molti e che gli occhi di te faccin un pianto, eh'a piatà il cielo e Cupido si volti. Duolti, misero lasso, perché, quanto più dì se' conosciuto, e' son racolti e vizi tuoi, e io giubillo e canto. Va', vestiti uno ammanto di fiamma accesa, per publico grido di Soddoma figliuol, non di Cupido! E io di te mi rido, ché, se giustizia non dorme o non diace, vedrà'ne segno come al d el dispiace.
IV COMPARINO * 1 GV O compagnon della Magra, ascoltate: el tempo vien; non si vuole indugiare, anzi si vuol questa galea armare e non si vuole indugiare alla state! Tutt’i stiracchiator convien vegnate, ché ’n Valdimagra ella vuol camminare. Chi è leggier di panni vi può andare, sì che farsetto e calze non portate, ch’andar si vuol leggieri in su ta’ legni, ché gli adiacciati v'usan parer caldi: chi ha troppi panni gli venda o gl’impegni, ché là cavalcon tutti e Frescobaldi, e chi v ’è stato a chi noi sa lo ’nsegni, ché colla penna là si copia laidi, non istando mai saldi, andando a uccellar sempre alle gazze e di legno bevendo sempre in tazze.
BENE D ’AGOSTINO DEL BIANCO * 1 GV Assunto spirto, a noi per sorte dato per rafermarci fermi in quella fede e mostrar la potenzia in che si crede di sì mirabil cosa aver formato, felice membra, in cui fu generato ogni biltà di nostre antiche rede, o sole, specchio, o lume, ove si vede l ’opre suppreme del regno beato, o forza data a te per nicistate, o fonte di pietà, o ben celeste, o alma, dove *1 degno cor s’aggira, criata grazia in te da prima etate per fare or lume alle cose terreste, socorrimi, che l’età passa e spira!
2 GV Mala pianta di biscia, in cui s’annida il velen d’ogni tristo bavalischio, conducitor d’ogni dubioso rischio e d ’ogni via, che l ’amicar divida, la tuo insaziabil voglia par ch’ancida el ben vivere e, come serpe al fischio, non altrimenti fa tuo seme mischio, in essenzia Neron, padre di Mida. Come spina tu par: tu pugni e tiri, or chiedi, trai, tien, com’oncin pigli, lasciando ogni amistà, che danar venga. Inver d’amico mai non guardi o miri, né ami lui, ma sempre t’assotigli in farlo far che tuo sete si spenga. Questo verso contenga ch’ogni cosa faresti pel quatrino, signor di Crasso e re d ’ogni assassino.
GIOVANNI DEL RAGGIO
1 GV La superba, la ’nvidia e l ’avarizia, c’ha preso albergo dentro da’ cor vostri, isvegliono ad ogni or gl’ingegni nostri a far noto a ciascun vostra malizia. O germin rompitor d’ogni amicizia, come che vostra legge par che mostri, abbia sbandito fuor de’ vostri chiostri ogni ordin, ogni d ritto1 di iustizia! O gente ontosa, maligna e suffisma, indomita, proterva, iniqua e prava, seminatrice di lite e di cisma! Se non che ’1 dir prolisso oggi ci grava, certo vergato di fogli una lisma aremo, tante cose ci abbondava. Né rime ci mancava a compilar vostra insaziabil fame, che pascer non si può del nostro strame.
VII POGGIO DA TERRANOVA
1 GV La nave nova che ti guida e guada sì ritto retto che la voglia vaglia al messo mosso, che ti scoglia e scaglia la pigrizia, po’ grazia grida e grada. La luce lece che reda non rada gli stretti istratti di suo coglie caglia niente in onta sì che toglie e taglia la fresca frasca, che vedi che vada.
1 Cod. litio .
Lo spirto sporta Parte all’irto e fugge, ma pur appar il vero vir tuo tosta che la lingua non langue all’uggia in logge. Ma fiori fieri escon d ’esca ’n costa piana, piena di rami, in rime e strugge le chiuse chiose, date in dota a posta. E per pasta proposta grazia adimanda, ammenda, acusa caso te, ’n virtù specchio spicchio al viso vaso.
Vili MAESTRO NICOLO’ DA VOLTE ★ 1 GV Come mi partirò dal sacro viso che vince ogni celeste gerarchia, tal che non mostrere’ teologia da qual parte del ciel tu sia diviso? Ganimede si duole, anzi Narciso, ch’ogni lor fama s’è già tolta via dalla tuo forma pien di leggiadria, che ci fa testimon del paradiso. Ma, se ’1 corpo da te pur si diparte, l ’alma riman nel sacro santo albergo sempre per contemplar la sua figura, tal che, s’i’ non ritorno in questa parte presto a veder per chi da morte emergo, veggio giacermi alla mia sepultura.
IX FRANCESCO DA COLLE * 1 GV Queste bardasse isfondolati e ghiotti vanno scopando il dì mille bordelli e per mostrarci se son vaghi e belli
cercando van per chi dietro gli fotti. N é troppo lusingar né troppi motti bisogna far che per duo fegatelli gli tireresti; e sa’ quanti son quelli? D e quatro, tre hanno e forami rotti. O Soddoma, o Gamor, chi fu cagione di tuo ruina, che pel mondo vola, se non delle cagnuole el gonfalone? O Mongibel, con tuo Sfiammata gola rapisci tutti questi in un boccone e schianta e spezza e snerva e membri imbola! Ché *1 forame lor cola isperma sangue merda mocci e rolle, e sempre tra le cosce e *1 culo è molle. O frodelente e folle chi per cavarsi la rabbiosa fame aspetta fin che gli è rotto il forame! X GIOVANNI DI SER D IN O FORTINI * 1* GV O almo infra’ gentil mortali un sole, o spirto peregrino, o Ganimede, o ’ngegno alto e sublimo, onde procede che per virtù de’ cieli ognun si dole, l ’antico senno tuo e le parole leggiadre per Minerva si concede; Mercurio e gli altri t’hanno fatto erede di lor virtù, ciascun come ’1 ciel vòle! Ma, quand’isguardo el citerante tiglio nelle tuo braccia, la dolcezza parmi di Latona sentir e ’1 propio figlio. Or muovi addunque e risonanti carmi, non temerario el cor d ’alcun periglio, se vuoi contento in questo mondo farmi. * Sonetto fatto per Giovanni di ser Dino fortini e mandato a. .. questo dì 6 di novembre 1474.
XI SER BACCIO ZEFFE
1* GV Se la virtute, Luca mio, è duce a far nobile al mondo nostra pròle, se’ candidi costumi e le parole accorte e sagge danno ad alcun luce, vero splendor di sangue in te riluce più che sopra le stelle el chiaro sole; se stirpe antiqua punto onorar sòie, questa ancor somma gloria ti produce. Adunque, essendo e per nativo seme e per virtù generoso e prestante, giovan gentile e di ricchezze ornato, felice quella a chi con certa speme le sacre nozze ti faranno amante e con maritai giogo sodato! XII SCELTA D I RIME ADESPOTE INEDITE CONTENUTE NEL GINORI VENTURI 3 1 La
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q u is t io n e
d e ’ cacciatori
O vero Iddio, che fusti paziente a tante pene per noi peccatori, donami grazia dentro alla mie mente ch’i’ possa dire de’ bei colori qua’ son più goditori: que’ che van vagheggiando o que’ che van cacciando e stanno al poggio con buon cani a mano! Iddio m’ha dato ornai tanto di lume ch’i’ conosco quel che è ’1 vagheggiare e hammi tratto di sì aspro fiume
* Sonetto fatto per ser Baccio Zeffe e mandato a Luca degli Albizzi questo dì 20 di dicembre 1478.
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ch’i’ ’ntendo l ’arte più non seguitare, ma vo’ ire a cacciare, e le donne si stien pur dall’un lato. Da lor si trovò ingannato Salamone, che de’ savi fu ’1 sovrano. « V o’ ve n ’andate rompendo le braccia, o cacciator, bussando tutte siepe, e bracchi e veltri voi mettete in traccia per cavar de’ cespugli moke lepre; vo’ ricercati scopeti e ginepre e ’1 giorno tutto v ’andate affannando, monti e valle cercando, e spesse volte fate gite invano ». « E nostri affanni prendian con diletto e non ci grava nessun[o] tormente ma, se voi avessi la febre nel letto, voi non aresti sì dura la mente; e vostre dame vi fanno dolente, triste vostr’alma e la vostra persona, e la notte col dì il dolor vi sprona con uno spron, qual è molto villano ». « Puliti andiamo e in calze solate l ’anno, di verno portian le pienelle; dove le donne si son raunate sempre andiamo a veder quelle più belle, e spesse volte noi trovian di quelle che ci pagon sì nella vista nostro cuor subito acquista, sì che ’n tal modo non siamo iti invano ». « Se voi andate in pedul, vagheggiando vostre dame veggendo alle finestre, no’ ci levian la mattina cornando sempe gridando e menando tempeste; e ’ nostri can mettian tutti in foreste e spesso spesso ci udite gridare: "Ve’ là, te! lascia! non lasciare! lascia tu, c’hai il buon cane a mano!" » « Intendo ben che fate gran romore con vostri molti uccegli e molti cani, po’ fate morir di dolore spesse volte molti villani; guastate lor[o] le vigne e’ grani che tutto l’anno se l ’hanno guardato, ma spesse volte n’avete comiato none in atto cortese, ma villano ». « Noi andian ben forniti di mazze
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per gastigare e villani e lor pari, e abbiàn ben nostre teste sì pazze non curian villan né danari, e di busse non siàn loro avari, anzi rinfondian lor le poste e per piaggi, monti e coste, sì che da lor non voglio essere lontano ». « Se rinfondete a lor vostro visaggio con vostre pugna e ancor co’ bastoni e a tutti volete fare oltraggio, forse, e que’ che non sono pittoni metton mano a’ lor spuntoni. “Acorri! acorri!” Qual è il più vicino chiamerassi ciascun di lor tapino, il quale imprima gli venne a mano ». « Quando siam sotto l’olmo in brigata, siàn restati d ’andare a cacciare; Lancilotto con suo brigata no’ crederremo con lui contastare, e ci darebbe el cuor di pigliare pello ciuffetto ogni buon lioneello, Pallamides e ’1 buon Lionello di Cornovaglia e l ’ardito Tristano ». « V o i ve n’andate colle calze legate e colla foggia dinanzi al becchetto, e per voi non si dice ventate, anzi si dice bugie a diletto; e poi dite che sanza difetto sopr’ogni altra gente godete con uccei, bracchi e con rete, occellando per «monte e per piano ». O cacciatore, che D io ti die pace, po’ che l ’ha’ preso con contentamento, i’ non intendo di più vagheggiare né di «perder più mie sentimento, anzi intendo d’andare a cacciare e le donne sì si stien dall’un lato, ché si truova da loro ingannato Salamone, che fu il più sovrano!
2 In vision, crucciato Giove e ’1 figlio, vidi Vener da sé cacciar Cupido; e Febo usciva fuora, e a quel grido
misse tutti e suo' raggi in iscompiglio. E le Muse gridar: « Facciàn consiglio, che questa aversa che ci porge sido va cavando e poeti fuor del nido e mette nostro stato a gran periglio! » E lo dio Bacco allora, andando ’ Ascesi, isguardò ’1 sole e disse: « E' mi ricorda che più qua non si spendono e tornesi » Allora udendo una bombarda sorda, che veniva *1 suo tuon di stran paesi, e per paura non passar s’accorda: « Tempera ben la corda, che ’1 gesso basti quatro mesi o piùe, se vuo’ ingessar, però non ce n’è piùe ».
3 Magnifico e potente consol nostro di Magra invergolata divenuto, un vostro servidor, che sempre è suto, si racomanda all’uficio vostro, dicendo a voi che ’1 navicar per ostro sarebbe in sinagoga buon saluto; Monte Ri tondo ha bisogno d ’aiuto: socorretel, ch’egli è di vostro inchiostro. E per fare il consiglio viver lieto con rinnalzar la vostra signoria, fate che non si passi per Bugeto. E s’alcun passa per la Scarperia e non n ’entrassi per l’uscio di drieto, vuoisi che perda la cavalleria. Odi: vita giulìa fra le ventotto è col fior del sambuco, sì è dov’a stillare i’ mi conduco.
4 Un poeta che studia in carne secca, filosafo ne l ’alpe di Cavrenno, conduce da Grosseto tanto senno ch’alle civette se ne fa cilecca. E se non ch’egli è servo d’una trecca, Maremma sì Tare’ preso col cenno, ma c’è Befana che caccia al tentenno:
però fuggite, gufi, la stambecca. I* lessi già ne’ salmi di Bellico del dolce predicar di Colombaia, eh* el dopo nona iacea per Tamico. Però, caciaio, fuggiti in Capraia e mena teco la mandria da vico, ché di qua ogni gente sì t’abaia. Passa pella Cerbaia e porta in testa ghirlanda di datteri, ché tu se’ fatto poeta de’ guatteri.
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Po' che di Muse t’empi sì la bocca, poeta, una ghirlanda t’è recata da Grosseto, qual è tanta pregiata quant’appartiensi a tuo persona sciocca. Que’ di Capraia sì t ’han dato una rocca e aletto signor di lor brigata, che di pazzi hanno fatto una Esalata e condir non si può, perch’a te tocca. Dunque, filosafo, ti metterai in via, ché ritrovar si vuol con sua semenza; esci di fuora e va* per Balordia tanto che giunga loro alla presenza, che governati son per mala via, perch’a te solo è data l ’ubidenza. Ma guarda che eloquenza lo ’ngegno tuo ’n quest’anno non abbassi, ché poeta sarai de’ babbiiassi.
6 O fisico gentil da far cristeri, massime a chi sentissi di morice, deh, aldite un poco Galieno che dice: « Quid facitis d’albos testicul neri? » Ricordar parmi d’avervi visto ieri un viluzzo erbolaio sol di radice; oggi venite nella superfice dell’arte, onde, per dio, è me’ stranieri e mettere la vita contro un peto, ché vo’ non conoscete ancor l ’orina dall’agresto o dal ranno o dall’aceto.
Come straziata se’ tu, Medicina, arte ¿'adoperarti per decreto e venir mastro da sera a mattina! Ma per vo' s'indovina come colui che dice: « Se vai, vaglia; e se non vai, per dio, non te ne caglia ». 7 Se la luna non fussi nostra aversa, e' fiorire' la Magra in concestoro, l'otton varrebbe a cambia quanto l'oro. Ma perch'ell'è una fera diversa, questa crudel che sì suo lume versa, la notte ci fa dì per più martoro, ma sol de' viandanti ell’è ristoro, quand’ella fuor di nube si conversa. Ma certo a lei se le farà dar bando, sed e' ci passa di qua nugolone ch'andrà per Valdimagra ricercando. Se truova questa amica di Titone, subito le dirà: « I' ti comando che tu non vadia sanza caperone ». Armati di nebione e, se ci passa lanterne o candele, no' daren lor la caccia colle mele. 8 * Quando la notte viene e '1 dì vien meno, chi desse al Pulitino un bel ducato non resterebbe d'andare in mercato con atti e cenni e colle brache in seno. Guardai di fuori; è dentro tal veleno eh'ognun tambura questo isforamato, e '1 bordello è per lui mal vicitato, cotanto fa fruttare il suo terreno. La gola di costui par un condotto; menalo alla taverna e dagli bere: cento volte il faresti per iscotto. E se tei vuoi amico mantenere, dagli danar da giuoco: andrà di botto; * Sonetto fatto per . . . e mandato al "Pulitino, cioè ser Jacopo.
e non gli fare un piccol dispiacere. Ma, se tu stai a vedere questo porcaccio disoluto e strano, spesso ’1 vedrai andare a Brancolano. 9 Poeta mio, che non istudi invano in sul Vannin eh’è ’ già per legger cieco, dove trattò gli onor del vivere bieco, dispregiando e trionfi del Soldano, Boezio, que par est, hai tu alla mano? O eh’è del Pecoron? non l'hai tu teco, col comento del Ghianda ’taliano? Boemia con Grosseto alla Sambuca istudio han fatto altro che di frittelle, perché la gloria loro al ciel t’induca. N el concestor delle nove sorelle maccheron sanza cacio si manduca in pentolin, perché non v ’è scodelle. Dunque, s’tu vuoi la pelle del vaio in capo, a studiar là t’invia, e po’ ti va’ con venta in Balordia.
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Facciasi avanti chi è innamorato, ch’i’ vo’ contargli el mio misero stato. Una che ’n cerchio m’ha furato el core ed hallo involto in una rete d’oro, ond’io son tutto di libertà fore, a lei non cale el mio crudo martoro, anzi sen va; ond’io ne discoloro, sol qui restando, d ’ogni ben privato. Così sen va per lo nuovo sentiero: portane el core, el quale ha ’n sua balìa; di non mel render par sia suo pensiero, anzi si vanta con suo compagnia che l ’ha rapito con suo leggiadria; però lo tiene occulto e sì celato. Com’un corpo sanz’alma resto in questa fugace vita, che ’1 tempo ne porta.
* C anzona a b a llo fa tta p er . . . q u e sto d ì d 'a prile 1476 , a ven do m ale.
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Ella davanti a me fugge e non resta per la più dritta strada e per più corta, benché la vita mia più si conforta, ch’alfin del corso suo m’arà aspettato. Questa nuova speranza mi lusinga, dicendo: « Aspetta, che '1 tempo pur viene ch’ambo le vostre voglie un bacio istringa, e così rafrenate le tuo pene fieno in quel punto al desiato bene, eh’Amor farti felice ha già pensato ». Onesta mia ballata, tu n’andrai davanti a quella che ’1 mio core ha seco e, s’io parlo coperto, le dirai ch’io porto l’onestà sempre con meco, e così spero d ’albergarla teco mentre serberai il cor, qual m ’hai furato. Facciasi avanti chi è innamorato, ch’i ’ vo* contargli el mio misero stato.
NICCOLÒ SODERINi *
La luce che risplende agli occhi miei in vist'è più che tra* mortali el sole, ove specchiarsi alcuna volta suole natura, e cieli, el mondo, uomini e dei. Amor, tu che* pensier mia intender dei, rotti pel mezzo, e non mi vai parole, datti alma pace; se non che ’1 ciel vuole, oggi libero al mondo ancor sarei. Ma, s’io son servo o prigionier legato, per cui sospiro o canti versi ognora e dagli dei, non che da me, chiamato, una gloria è di voi, occhi, che allora fuste cagion del mio felice stato, che non pur io, ma il ciel suo vista onora. II M - L 4 (N. Morandi) Trovomi nudo il ferro e primo dardo, ch'aria passato non che Tarme e muri, e nel ferirmi Amor fé mille giuri d'imprigionar colei, per cui dentro ardo. Così mi dette in sul primiero sguardo mille speranze de’ giorni futuri; or n'ha paura e par che non si curi d'esser tenuto un lusinghier bugiardo. Il dico a lui, e quel seco sospira pur vergognoso, e non vuol far ritorno con tra cuor di diamante, e non di vetro. Questi vi trasse mille volte un giorno per ¿scaldarlo, e così indarno tira: ogni strai vi si rompe e torna a rietro.
FRANCESCO TEDALDI *
C i h a la s c ia to u n a d e c in a d i s o n e t t i d 'a r g o m e n to a m o r o s o e fa m ilia r e ; tr a i p r i m i , l'u n ic o c h e a b b ia d e i p r e g i è il V , c h e r is e n te d e l D a n te lir ic o a ssa i p iù c h e d e l P e tra r c a . D e lle p o e s ie fa m ilia r i s e g n a lia m o il s o n e tto V I , i n c u i r i c o r d a c o n n o s t a l g i a i l a u t i b a n c h e t t i d i F r a n c ia , d o v e s i t r o v a v a n e l 1 4 8 4 , e il V I I , n e l q u a le d e s c r iv e i m a g ri p a s ti d 'o g n i g io r n o .
I Lr1 E1 mal, che da Fortuna si distilla per oggetto conforme di sue rote, quando più presto Tarco li percuote, di subito fa rompere o aprilla. E se superfluo amor non la distilla, tutte ragion allor li son remote, esse non son però del tutto note perché gran foco fa poca favilla. N é ci dobbian però forte amirare, veggendo che nel ciel già non consiste la forza, donde fa l’opera degna. Ma quel che più ne sa può operare per le ragion che son di virtù miste, la qual fa vita d ’ogni laude pregna. II Lr1 Abondant’è virtù ne l ’alto cielo, che volge all’intelletto lo splendore, di che s’accende nel supremo amore, quando la terza rota ha rotto il velo.
Allor, sublime d’amoroso zelo, ripresa la sua forza e *1 suo vigore, abraccia la virtù parte del core che di dolor non ne trarrebbe pelo. Però Tanima nostra sconsolata, non per colpa del ciel che la governa, si lamenta del corpo che la regge. E s’egli avien che sia raconsolata per la virtù della suo luce etterna, non debbe esser sommessa a questa legge. Ili* Lr1 Per comun corso da natura dato, quella ch’ai mio dolor era conforto ed a mia aversità tranquillo porto in cielo è gita e di qua m’ha lasciato. Morte in un punto ogni ben m’ha levato, né so se io son dritto o se son torto, né s’io voglio esser vivo o esser morto, perché sanz’essa sono in basso stato. Ma solo un punto è quel che mi notrica, se ’1 qual non fusse, certo io crederei alla Fortuna come a mio maggiore, ch’ella, parlando meco, par che dica: « Vivimi allegro e non temer di lei, ché per te prego sempre il mio Signore ». IV ** Lr1 Già non ha molto tempo ch’io solea viver allegro e gir sempre cantando; or doloroso e sempre lagrimando, poi c’ho perduta la mia bella dea. O lass’a me, che per nulla credea, sì bella cosa sempre riguardando, che ora adorna il ciel lassù istando, mal mi venisse, e per certo ’1 tenea! * S o n e tto d e l d e tto a d ì 13 d 'o tto b r e 1 4 6 4 . ** S o n e tto d e l d e tto Francesco a d ì 18 d 'o tto b r e 1 4 6 4 .
Ma, se chi tutto può lassù la vuole, ben è ragion perch'è degna del loco via più che noi qua giù d'averla in terra. Già di suo morte a me punto non duole, ma ben m'incresce stare in questo foco, fin ch'ella non mi trae di questa guerra.
V* L r1 Madonna m’è venuta a vicitare di mezzanotte al letto ov’io dormia, tre belle donne seco in compagnia, le quali in vita solian con lei stare. Gli abiti lor non saprei divisare, ma el color l'una bianco vestia e l ’altra verde e la terza paria rossa, come carbon si suol soffiare. Intorno al letto mio le quattro belle donne vi fecion tanto di splendore qual la casa del sol descrive Ovidio. Io amirato di cotal novelle, madonna mi parlò piena d'amore: « Io presto ti trarrò di gran fastidio ».
VI Lr1 - FC - R1 A Pisa giunsi come arai inteso sano e salvo, la grazia di Dio, e ti vo' dir, carissimo Anton mio, che vita tengo e come son fornito. Marino assai del fritto e del bolito già mai non manca dove mi truov’io; tinche e lucci troppo non li spio, ch'a voi li lasso per far in mortito. E tutti questi nobili mercanti per farmi festa ciascun mi convita e par che d'onorarmi ognun si vanti. Lamprede e cheppie cotte a la pulita, S o n e tto d e l d e tto a d ì 9 n o v e m b re 1 4 6 4 .
muggin, pagelli, orate mangio tante che stuccheresti a fiutarmi le dita. E per far miglior vita, e* non s’accosti a me Melanconia; razzese beo a pasto e malvagia. V II Lr1 - FC - Rx Sommi nutrito ne la magna Francia a copia di vin buoni e a capponi, fagian, conigli, pernice e pagoni e pesci buon da tener ben la pancia. Or son tornato a carne secca rancia, a vecchi infermi e a magri castroni; vin tristo beo e spesso di cerconi: quando ho del buon, mi par aver la mancia. Pur a le volte un po’ di torticina di carne fredda, di formaggio e d’ova, di quella che ci avanza la mattina. In casa nostra spezie non si truova, però non ragionar di gelatina, ché troppo ci parrebbe cosa nuova. E questo sa chi 1 pruova, che giuoco egli è spiacevole e malvagio tornar a questa vita da quell’agio.
Vili L r1 Antonio, spirto di suprema fama, a cui tante virtù gli van dintorno ch’ogni dotto om ne serebbe adorno, secondo che per tutti si diclama, per la vertù, che germina tuo rama, seremi car di vederti ogni giorno per udir la dottrina del tuo corno, ché altro el mio enteletto più non brama. Ma, poi che or non si può far presente, prego mi scriva quel che più ecceda, o l ’uon costante o quel ch’è continente, e la cagion, a ciò che chiaro el veda; e dimmi grato poi, se sei intendente, e d ’ira e di lussuria la più feda.
Lr1 O vir preclaro e di sublime ingegno, Francesco mi mandò un tuo sonetto, di rime e di vocaboli perfetto, adritto a Bastian nostro, d’onor degno. Tu non hai tratto drittamente al segno; volendo immaginar con l ’enteletto, debbesi lasciar far cotal efetto a quei che stanno nel celeste regno. Se non sapevi el nome de l ’amico, non ti portava nulla, ma dovevi responder al contento de la tema. Sì che da nuovo ti prego e replico che mi responda come far potevi, che drieto al senso la ragione scema.
S o n etto d i Francesco T e d a ld i non li esen do re sp o sto al p ro p o sito .
IACOPO TEDALDI *
I* Lr1 Prima vedrassi el mar privo de Tonde e quelle divenir dolce e soave, e gTignoranti vinceranno i savi e Tanime dannate ancor fien monde; prima convien che yn tutto Apoi s’asconde e ’ monti tutti fien concavi e cavi e che in grazia di D io fien i più pravi e le facce de’ morti rubiconde; prima serà la terra sanza frutto e nella rena fie fertilitade e la femina ancor costante e forte; prima serà nel d el gran pianto e lutto e ne Tenferno sol tranquillitade chT ti possa lassar se non per morte.
PIERO DI MAFFEO TEDALDI *
N a to in to r n o a l 1 3 8 3 , c i h a la s c ia to d u e s o n e t t i c h e il R o s s i ( R e c e n s . a lla « L i r i c a t o s c a n a » d e l F l a m i n i , c it . p p . 3 9 4 - 3 ) g l i h a a s s e g n a t o , d i m o s tr a n d o
in c o n fu ta b ilm e n te
com e
e s s i , e p e r la d i d a s c a l i a d e l l a u t o r e v o l i s
s i m o F N 6 e p e r la p r e s e n z a d e l l a c o d a
(c h e c o m p a r e s o lo
n e l la s e c o n d a
m e t à d e l T r e c e n t o ) , n o n p o s s a n o a p p a r t e n e r e a l p i ù n o t o P i e r a c c io . N e l p r im o
c h ie d e
c o n s ig lio
ad
un
a m ic o
su l m o d o
d i lib e r a r s i d a i
m a l i d ’a m o r e ; n e l s e c o n d o s i r i v o l g e s c h e r z o s a m e n t e a d u n s u o d e b i t o r e , c h e d i l a z i o n a d i g i o r n o in g i o r n o i l p a g a m e n t o , p e r o t t e n e r e o la p r o m e s s a c h e s a l d e r à v e r a m e n t e i l d e b i t o o p e r l o m e n o la s i n c e r a a m m i s s i o n e d e l l e su e re a li in te n z io n i.
I* Tu sai la ’nfermità mia de l ’altr’anno quanta mi fu noiosa o malagevole a comportalla; e quanta fu spiacevole color che l ’han provato sì lo sanno. Poi pur guari’, ed è duo volte un anno, o poco men, ch’i’ fui di ciò godevole: or vedi ben com’egli è convenevole ch’io vada ricadendo in tale affanno! Ed io mi sento pur tornar nel core, poi che tornò colui ch’era partito, non so se dico pazzia o amore; ed io sto in forse e son sì sbigottito ch’i ’ fo come colui che cerca onore e fo pazzie com’uom del senno uscito. E son sì indebilito che, s’io non ho da te consiglio o regola, sono impaniato come tordo in pegola. * Per entrambi i sonetti abbiamo seguito l’ed. Vitale in R im a to ri com ico reali Torino 1956, pp. 747-9.
stici d e l D u e e T re ce n to ,
Oggi abbiàn lunedì, come tu sai; domani è martedì, com’è usato; mercoledì è Faltro nominato; poi giovedì, el qual non falla mai. L’altro so che cognosci, perché sai che carne non si mangia in nessun lato; sabato è Faltro, F non l ’ho smenticato; Faltro è quel dì che a bottega non vai. Qualunque s’è di questi, mille volte hai detto del fornir del fatto mio, e poi mi di’ che hai faccende molte. Tu hai faccende men che non ho io; le tue promesse tutte vane e stolte le truovo, con sustanza men ch’un fio. Dimmi s’tu credi ch’io ne sia servito innanzi al die iudicio; quando che non, rinunzio al beneficio.
NICCOLO’ DA UZZANO *
N a c q u e a F i r e n z e n e l 1 3 3 9 e f u u n o d e i c a p i d e l p a r t i t o o l ig a r c h ic o . V ic in o
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d e g li A lh iz z i, a v v e r s ò
i M e d ic i; m o rì n e l 1 4 3 1 , tr e an n i
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a b b ie n ti d e lla
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a s s i e m e u n a b i b l i o t e c a a b b a s t a n z a r ic c a . C i h a l a s c i a t o u n t e r n a r i o , c h e n e l 1 4 2 6 f e c e t r o v a r e a f f i s s o a l P a la g i o d e * S i g n o r i , n e l q u a l e p r e d i s s e la m u t a z i o n e d e l l o s t a t o p e r i d i s s e n s i e le l o t t e tr a i r e g g ito r i.
I* L6 - FN6 (ad.) - R22 - R23
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Antichi amanti della buona e bella, magnificata dalle vostre spese tanto che tutto '1 mondo ne favella, lasciate ornai passar vostre contese, ch'avete fatte per farvi maggiori della sua corte e del suo bel paese. Se non lo fate, tosto con dolori sarete spinti fuor della sua sala da gente nuova e vostri debitori, però che la lor gente è tanto mala e tanto ingrata e tanto sconoscente che a vo* torranno l'uso della scala. Adunque, antica e valorosa gente, ponete giù al tutto vostre gare
V e rsi fa tti d a N iccolò da liz za n o , p re d ice n d o la m u ta zio n e d e llo sta to .
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e fate fra vo’ pace prestamente e non lasciate più in alto montare l ’orgoglio dell’ingrate e nuove genti, che voglion vostra donna trasmutare. V o’ siate savi e siate sì possenti che, seguitando degli antichi Torme, vo' tornerete ne' buon reggimenti. Farete risentir colei che dorme e ha dormito dopo il settantotto, perché vocar non può Tantiche forme. Se vo’ tirate tutti a uno scotto, la bella donna convien che sia vostra sanza contesa e sanza far rimbotto. A terra caccerete chi dimostra d ’amar lo scudo azzurro e ’ gigli d’oro e nel segreto fanno falsa giostra. E son già tanto forti su nel coro del bel Palagio colle bianche e nere eh’è poco men che tutto il cerchio loro. E quando va a partito il cavaliere o ’1 mercatante o ’1 cittadino antico, va come va la zuppa nel paniere. Adunque, antichi, il mio consiglio dico: che questa donna sia tosto soccorsa sanza soggiorno e sanza altro riplìco. E dico che, per far la buona borsa, che vo’ facciate arroti allo squittino col suon del parlamento alla ricorsa; dove il mezzano, il grande e ’1 piccolino s’accorderanno insieme ad una boce nomar chi sortirà vostro dimino. Saranvi Santo Spirto e Santa Croce, Santa Maria Novella e quel del Duomo, che schiacceranno la malescia noce. Per tal maniera fia dato lor tomo giù per le scale a quella gente nuova che voglion rimbottare ogni vii uomo. Deh, non temete, fate detta pruova, la qual fu fatta nel novantatré dal cavalier che più non ci si truova! Il qual sarebbe stato degno re, pella sua grande e degna vigoria, che spesse volte ci si vede, ed è. E ’ c ’insegnò di far la buona via, la qual ci convien far d’ogni dieci anni solo una volta e con piena balìa,
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acciò che nuove genti sotto i panni non facessi con le fave lor postierra, come più volte han fatto con inganni. Se vo’ indugiate a far la detta guerra, la bella donna fia sì mal menata che la sua fama ne sarà poi ’n terra e di far questa fra gli antichi grata concordia, che sarà la medicina da rampognar la gente ch’è mal nata. Ma fate capo alla rossa aguglina, col drago verde della fedel parte, che dette al gran tedesco disciplina. Eirè colei che sempre ben fa arte, quella che c’insegnò in quelle schiere dove Martino s’adorò per Marte. Ma date di giustizia il gonfalone a uom prodotto di famiglia antica, esperto e franco, e che non sia garzone. E quando fornirete la rubrica dell’ordinanze delle vostre leggi, non vi rincresca di trarne fatica di farla in modo tal che apareggi a quelle della donna vineziana, che son mill’anni stati ne’ lor seggi. Fate ogni legge sempre non sia vana; quella che guidi questa donna pia non sia baciata da gente villana. Se non lo fate, la mia fantasia mi profetizza, e fovvene protesto, che mala fin convien che di no’ sia. Davanti che dua volte fia l’agresto rinovellato nella vostra vigna, il vostro stato sarà tutto pesto da quella nuova gente che traligna.
COMEDIO VENUTI *
Comedio di Bartolomeo Venuti nacque a Cortona il 14 settembre 1424. Esercitò l'arte notarile nella sua città e ne divenne il poeta più celebre del Quattrocento. Le sue rime, totalmente sconosciute al Flamini, non note che a pochi eruditi e tutte inedite, tranne una mezza dozzina, si conservano autografe in Ar., manoscritto appartenuto già alla Raccolta Morbio e acquistato e donato alla Biblioteca di Arezzo dal Gamurrini. Il vasto canzoniere del Venuti (del quale, come nel caso dello Scar latti, non pubblichiamo alcuni testi eccessivamente oscuri e scadenti, che comunque sono ben pochi) si divide in due parti: nella prima sono rac colti un centinaio di sonetti amorosi; nella seconda seguono rime di corri spondenza con vari poeti del tempo. Il Nostro fu in contatto non soltanto con figure di secondaria importanza (come un tal Mantuano Dannato », Antonio da Montepulciano, Francesco Palmaro anconitano, Guasparre Barba, Ranaldo Castellani, ser Goro da Poppi, Giovanni Antonio da Poppi, fra Mariotto fiorentino, Giovanni di Taddeo Coppi), ma anche con perso nalità di primo piano, quali Feo Beicari, Francesco Scambrilla, Filippo Arnolfi, Iacopo di Niccolò di Cocco Donati, Gambino d’Arezzo, Antonio da San Miniato, ser Giovanni d'Arezzo, e inviò rime ad Antonio di Guido ( CXI X) , Mariotto Davanzati (CXX, CXXI ) e Giovannantonio Cam pano ( CXXVI) . Comedio appartenne, come quasi tutti i letterati del tempo, alla cer chia medicea. Compose infatti in lode di Francesco Sforza, il principale amico e alleato di Cosimo, il sonetto C X X X I V e per le nozze del Magni fico con Clarice Orsini, avvenute nel maggio del 1469, scrisse due ottave (CLIV). Le sue rime amorose, di derivazione petrarchesca, costituiscono un gruppo ben compatto ed omogeneo; il dettato non è quasi mai oscuro (al contrario di quanto accade in molte poesie di corrispondenza) «
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e spesso s'incontrano immagini abbastanza nuove e originali (XI, XII, XVI , XIX, XX, X X I XLIV, LIX, LX, LXI I ) . Dunque in una storia della poesia volgare quattrocentesca e in un panorama della fortuna della tradizione petrarchesca la figura e l'opera di Comedio Venuti non potevano certo essere ancora ignorate. Non sono da passare sotto silenzio da ultimo i sonetti scritti su Cor tona (XCI, XCII, XCII I) , il bel sonetto CI sulla straordinaria destrezza dei suoi falconi, una macchietta alla Rustico (CII) e il «Responso de Sancto Antonio de Padua » (CVIII).
Voi che leggete le diffuse rime e forse misurate i nostri versi, in materie e subietti e tuon diversi, vedrete quei composti a nuovo archime. E dove s’apartien le gentil lime circa i dir vaghi e leggiadri, alti e tersi, l ’ingegno allor non con suon crudi e spersi, ma dolci, pur se sforza esser sublime. Così nelle sentenzie infime e basse provede d'ordinar conforme stile, secondo il suo iudizio e studio e cura; e, se questo tal canto non gustasse a' dotti e a' vulgar, pur corno vile, me scusando, incolpate la natura.
Amor, che dolce appar nel primo assalto, falso e fallace in brevissimo spazio spesso se truova, e de sé crudo strazio fa chi impronta al cor suo simil smalto. Felice è quel che a sé pò dire: « Essalto ora me stesso, e te, Amor, ringrazio e de sequirte non me veggo sazio, che in degno luoco m’hai posto e sì alto ».
Ma in verità che pochi over n'iuno credo che alfin d ’Amor possa lodarse, tanto se truova d’onne ben disgiuno. Guarda el dolce Petrarca, che tanto arse, se nome consequente e ben comune pose a l ’amor, che amar debba chiamarse.
Ili Ar Ben mille volte e più rivolse Amore gli occhi di quella mia gentil madonna verso di me, onde amorosa gonna vestito fui dal mio dolce signore. Non so qual crudo o dispiatato core, creato di marmorea colonna, ai colpi aspri e mortai non se dissonna del cieco alato, attento feridore. Per forza fui da due belli occhi preso, poi per tal modo ferito senz’arme che sbigotì ciascun mio polso e vena. Sol chi sì aspramente m’ha offeso pò di questa mortai piaga sanarme, è vita darme poi dolce e serena.
IV Ar Come credo io poter vivere in pace o con felicità trovar quiete, che so’ involuto in l ’intricate rete d ’Amor, qual già comprendo esser fallace? Corso celeste subito e rapace m’ha infuso al cor Finsanziabil sete ed ha reflesso in me l ’impio comete, intero tutto il raggio suo tenace; onde se strugge l ’anima e consuma, e lo spirto se parte senza scorte, e già l ’alito fuor del corpo fuma, con crudo aspetto s’afronta la morte, la carne è quasi fredda in su la piuma. Ohimè, Amor, soccorre al passo forte!
Quel subito pensier che al cor me nacque, nocivo troppo a questa vita stanca, fa la mia barba, ancor tenera, bianca e fo el peggior, che tale esser me piacque. Guai a me, poi che aconsentendo tacque che serva fusse mia libertà franca, a cui ciascun deletto e piacer manca più che ad alcun che mai navigasse acque. Io sono in terra e veggome perduto più che colui che solca Talto mare, a cui Fortuna dona il suo tributo. Sentome a poco a poco consumare, e chi dar me porria perfetto aiuto par che non curi il mio crudo penare. VI Ar Rinforza Amore il suo sacrato foco al mio petto angoscioso, e spessa fiamma tormenta il cor, che quanto una vii dramma non pò pigliar de lena al tristo gioco. Solo in chiamar merzé so’ quasi roco e truovo men piata che in quella mamma, qual crudeltà ed ira tanto infiamma ohe consumar fa il figlio a poco a poco. Como arde e se consuma al foco un legno infin che sente il colpo aspro e mortale, sì fo acerbo il materno desdegno; e tanto men che l ’amor naturale de propria carne, a me piatoso segno, non pò mostrar, ché non è sangue equale. V II Ar Stanco Tanimo mio e quasi sazio del van voler, che sì subito asalse lo »preveduto core, onde non valse, per dar remedio al mal, poi longo spazio, se consuma e destrugge in tanto strazio,
solo ingannato da fittive e false demos trazion, che saporose salse paiono, e son del corpo aspro desfazio. Il cor, che già soleva stare allegro, offeso dal dolore e dal sospetto, sfrenatamente se stesso mar tira; e con tal forza rinfiammato petto e ’1 debil corpo comincia a farse egro e stride e langue e con furor sospira.
Vili Ar Turbato e tristo dei miei casi avversi, me chiudo e serro e gittomi disteso in quel remoto loco, ove onne peso lo stanco cor ripon per guai diversi, che i buon rimedi miei veggo sommersi e sentome de nuovo tanto offeso che non so corno io possa esser deffeso da tanti e tali infortuni perversi. Ricordome nel tempo già passato la mia lassa e sconsolata vita goder contenta nel suo dolce stato, onde sol questo a sospirar me ’nvita; ma credo ben che sia il mio gran peccato casgion di questa tal pena infinita. IX Ar Vive come uccellin richiuso in gabbia lo spirto mio suggetto a quella e servo, sola casgion del mal crudo e protervo che ognor l ’affligge con impeto e rabbia. E star conven, per qual forza ch’egli abbia, a obedienzia; ma fa corno il cervo, a cui l’aspra saetta ha tocco il nervo, onde il venen li dà mortale scabbia. Or qua, or là, or de sotto, or de sopra con furia corre, ché non pò star fermo, guidato da l ’amor tenace e forte; e bisogna per forza che se scopra l ’acerba malaria di questo infermo, facendo a l ’error suo le gente accorte.
Cristiana fé non ha sì pessima alma, né gente saracina over giudea quanto è costei, più cruda che Medea, nimica di pietà beata ed alma; la qual vittoriosa e chiara palma portò de crudeltà la farisea, quando ai propri figliuoi de morte rea sostener fece gravissima salma. Dico verso di me, ché non vorria che alcun credesse che coll’altra gente costei fusse però sì poco pia. E* pare invero grande inconveniente quando la cosa amata mai desvia de l ’amator la sua sincera mente.
XI Ar Yris, de le discordie inventrice, opera tanto con sua arte acerba che l ’umil faccia fa mostrar superba verso me tristo, misero infelice. Quella celeste e naturai fenice, ch’esser solea com la tagliata erba, de nuovo intera occulta in sé reserba d’alta mansuetudin la radice. Mostrase altera, e prima universale era con onne gente e tanto umana che ognun teneva lei tutta da bene. Prima era pia ed or de naturale crudeltà par dotata, e meco strana esser non porria più, tai modi tene.
XII Ar Zara di dado mai tanto nociva fo a nullo giocator che usasse l ’arte, quanto a me il remirar le luci sparte di quella mia inimica, al mondo diva.
Qual maggior gioia è in questa vita attiva che guardar non costei, ma sol la parte dove è posata, che, quando se parte, il luoco di splendor lucido aviva? La via, onde la dea superna passa, se fa ornata, triunfante e bella e chiara pel venir del nuovo sole. Siiavissimo odor nel sentier lassa, la primavera qui se rinovella con gigli ed altri fior, rose e viole.
XIII Ar Donna gentile, in cui natura volse interamente mostrar sua bella arte, tante bellezze in te sola ha cosparte che a molti corpi ornati aspetti tolse. Il raggio del chiar sol tutto se volse, Mercurio, a tua figura, e Giove e Marte, Diana con Saturno, ed in disparte sua luce Tamorosa stella sciolse. Tua infinita bellezza in terra nacque sol per purgar la mia peccatrice alma in questa oscura e miserabil valle. S’io paziente so*, più chiara palma che Job acquistarò, a cui non spiacque a tanti impi mal chinar le spalle.
XIV Ar E1 santo e glorioso dì di Luca, che me trovò libero e sciolto in terra, principio fu de Timpia e lunga guerra che fa mia vita misera e caduca. Negli anni quatrocento in trista buca con mille cinquantun Cupido serra mia franca libertà, onde forte erra lo spirto sol, che non ha chi ’1 conduca. Se tu, dolce madonna, scorta e guida
dei miei dubbiosi passi e temon salvo d’esta mia fluttuosa e debil barca, non spandi tua potenzia e virtù fida sopra questa alma sola in duol sì carca, vedrai far morte il miser corpo calvo.
XV Ar Forza d’Amor m’ha desto, che dormiva in pacifico stato e tranquil lago, di prospera fortuna lieto e vago, vivendo in libertà dolce e gioii va. Soleva andar sicur per onne riva, ma, poi che ’1 crudo arcier venenoso ago nel cor m’ha fisso, sto tristo e presago del mio futuro mal più ch’uom che viva. Che fo? che dico? a cui soccorso chieggio? Ché quella ch’io più amo che me stesso continúo nimica esserme veggio. Ma mai, s’alquanto spazio n’è concesso d’alcuna lena, già non credo il peggio pigliar, per dar rimedio al cor sì fesso.
XVI Ar Girando intorno vo, di doglia affranto corno tortora priva del riposo, quando chiamando va il suo morto sposo con mormorio e lamentevel canto. Vago di vita solitaria, in pianto misto d’affanno spesso e ruinoso consumo il tempo mio, sì delettoso che di piacer nìun se pò dar vanto; anzi de lutti e sospir se notrica lo spirto miserabil, tristo e lasso, pur fermo agli occhi de l ’acerba amica. Così, insensato e d’onne rasgion casso, nei lacci occulti s’aviluppa e ’ntrica del falso amor, che l ’ha condotto al basso.
Ora di giorno, over di mese o d’anno non pò passare, o attimo o momento, che tutto il mio pensier non truovi intento e fermo sempre al suo pur maggior danno. Io so’ sol quel che me medesmo inganno, lieto credendo vivere e contento, per sperare in cosa, più che ’1 vento labile e vana e monìzion d’affanno. Fieramente rasgion pugna e combatte col fragil desider che l’uomo acceca, e nondimen volontà il vero occupa. Più lascivo è ch’agnel che corre al latte l ’appetito terren, che sempre reca seco in effetto desonesti strupa. XVIII Ar Io pruovo e gusto gli asprissimi frutti d ’amore, i fior del qual dolci e suavi paiono, in sé tenendo occulti i gravi dolori e i sospir doppi e i lunghi lutti. Gli occhi, che star solien già sempre asciutti de lacrime, or conven ciascun se lavi, e fatti sono in vista oscuri e cavi per lungo pianto, e tenebrosi e brutti. Remoti stan da la vulgare schiera, di veder certo ogn’altra cosa sazi se non colei, che dà lor luce intera. In pazienza gli amorosi strazi portan più che se pò, perché spera farse per loro ancor dolci rengrazì. XIX Ar Kalende d’alcun mese mai non nasce che non sia dei miei nuovi dolor guida, e se Fortuna non vien, che divida o tolga in tutto a me sì sconcio fasce,
so’ un altro Promoteo, a cui pasce l'uccello il core e sopra esso s'anida; ma l'alma mia in colei se confida corno in Ercole quel, che '1 tra' d’ambasce. Voluntaria speranza ognor governa lo spirto con l'inferma carne unito, più che mai lieto del suo mortai morbo; e par che per li ciel sia stabilito che tal pena debba esser sempiterna a l'animo insensato, errante ed orbo.
XX Ar Luoco non so, né tempo più né modo ch’io possa avere aiuto o pur consiglio a tante pene; e ben me maraviglio corno usa Amor sì duplicato frodo contra a chi el seque, ohé fermo né sodo patto, che lui prometta con chiar ciglio, già mai non tene. Onde io a tal periglio so' gionto, avendo al cor volubil nodo. L'animo manca a questa umana scorza, che sente già 1Tamoroso veneno del corpo macular più nobil parte. Avicenna, Ipocrate e Galieno de liberarme non avarien forza, ma sì certo un bel viso con sua arte.
XXI Ar Mugghia il leon per -la febbre che '1 preme dei tre dì l'uno, e poi pur se riposa, e langue il marinaio per la rabbiosa tempesta, e nel tranquil tempo non teme. Ma io vorria saper quando non geme questa alma, cruciata d'amorosa fiamma crudel, che sempre sta nascosa nel petto mio privato d'onne speme.
Qual giorno è più letissimo e felice a l ’umane ombre, in questo secol basso, a me è di sospir verde radice. Chi più se truova di ben privo e casso che lo spirto mio misero infelice, eh’ognora aspetta l ’ultimo e sol passo?
XXII Ar Non s’interpon già mai tra ’1 gran pianeta e i volti dei mortai l ’umbrante Terra che non rinforzi al mio cor l ’aspra guerra ed umidezza agli occhi consueta. Sirà mai tempo alcun, che alquanto lieta se truovi l ’alma mia, che sì forte erra, sequendo pur colui che ognor la serra in più oscuro career senza pièta? Credo di no, perché el mio fatai corso guida la vita avversa in tanto affanno che speranza da me sempre più fugge. Se pò dir « ben me sta », s’io son trascorso nei lacci citarei con nuovo inganno, sapendo corno Amor sopra i cor rugge.
XXIII Ar Oscura nebbia de nuovo s’oppone al mio intelletto e la memoria offusca e fa il cerebro più legger che crusca, perché el voler conculca la rasgione. O quanto cieca è quella opinione, il cui fervido corpo ognor corrusca d’ardente fiamma e la pena rembrusca e conosce e non lieva la casgione! E questo è sol che mal pò prender freno la sensualità, sempre atta e prona a l ’influenzia che dà il ciel sereno. Ma dimme un poco qual saggia persona inaverata da simil veneno possa Amor vincer, che sì forte sprona.
Porto già mai non pò pigliar mia nave, perch’è percossa da contrari venti, e vaglion poco gli usati argomenti a la Fortuna perigliosa e grave, se già colei, che tien la propria chiave del mio core, i suoi ancor pungenti non gittasse, che, afflitto da tormenti, in vita me porria dolce e sùave. Ma il soccorso e l’aiuto, che sta in forse, quasi il più de le volte invan s’aspetta da chi n ’ha necessario e gran bisogno. Ed a chi il falso Amor messo ha sue morse, de la cosa che è certa ancor sospetta, dubitando che ’1 ver non torni in sogno.
XXV Ar Al sol la bella dea, che ’1 mio cor tene, oscurat’ha gran parte de la luce, che, corno già solea, più non riluce, ma quasi il raggio suo pallido véne. Diana e l ’alte stelle in aer serene Natura move ciascuna e conduce a cruda invidia, e odio in sé produce ciascun segno ver lei, che ’1 ciel man tene. Ma Natura, che volse demostrare sua potenzia e virtù fra noi mortali creando tal figura a maraviglia, formò quel corpo con sì naturali dote perfette che mai maculare non porrebbe influenzia i vaghi ciglia.
XXVI Ar Bella poi che Natura te fé tanto, creatura gentile, al mortai mondo, per te la crudeltà sia messa al fondo, ché gentilezza dee vestir b e[l] manto.
Como siria contrario assa’, se *1 vanto de le bellezze tue alto e giocondo non fosse ornato de quel don secondo che beltà fa più grata! Sei cotanto, cioè cara, onesta, gentile e pia che tanto luce in un bel corpo umano quanto tra i sei pianete il chiaro sole. Così, se Tatto in te sdegnoso e strano esser mostrasse, tua gran leggiadria e tua beltà sarebbon nude e sole.
XXVII Ar Candida, vaga, adorna e peregrina, dagli occhi lassi miei longe non troppo, vidi una capriola, lieto intoppo a quel cor labil, che al suo mal s’inchina. Non già cosa mortale, anzi divina parse in aspetto, onde io, andando doppo a la «traccia gentil de buon galoppo, sequT la nobil fera assa’ festina. Subito allegro me condusse al passo dove arivar dovea quella agnolella, che faria innamorare i cor di marmo. La luce me coniunse, ohimè lasso!, tanto di sua leggiadra faccia bella che d ’onne mia costanzia me disarmo.
XXVIII Ar Dice un pensier: « Costei me pare un fiore, sì leggiadra e gentil se mostra in vista ». L’altro responde: « O tu se’ il goffo artista, non vedi tu che te ne ’nganna Amore? » Or l ’ingegno se truova in grande errore e ’1 cor tutto dubbioso se contrista, che non cognosce ancor dove consista il ver, né qual iudicio sia migliore. Ma la rasgion, che vuol mostrar sua forza, forma un terzo pensier, che alfin conchiude
questa una esser il fior de ¡’altre belle; onde l’arbitrio mio se stesso sforza star suggetto a costei, che ’1 mio cor chiude ed apre col girar de le sue stelle.
XXIX Ar Era il mio sol già fuor del dolce albergo d’una purpurea ricca veste adorno, splendor rendendo quanto l’altro al giorno, coi raggi che passar mio nudo sbergo. Onne speranza in me spesso sommergo, per viste altere recevendo scorno, poi pure al dolce primo pensier torno e d’alta fede il credul cor respergo. Così questi brevi anni guida e regge l ’usato mio pensier, che non s’avede quanto veloce il nostro tempo vola. Fa del proprio voler rasgione e legge, che a l ’apetito onne piacer concede, sì che la mente è senza virtù sola.
XXX Ar Felice loco, ove il mio uman sole già nacque, alberga e surge la matina, abitazion serena, anzi divina, che ascolti il suon de le dolci parole; ben nate piume, in cui madonna sòie posar sua gentil forma peregrina, beati tei, che i tener più che brina membra toccate e beltà fra noi sole, movete a ’nvidia de tanto deletto, de tal piacer e sì singular dono il mio inquieto e sfavillante petto! O lasso me! quanto più stringo e sprono in tal pensiere il mio fragil concetto, ardo ognor più, né meco a me perdono.
Giusta piata da doi belli occhi piova almen per temperar quel grato foco che ’1 petto ha inceso e 1’alma a poco a poco arde e consuma, e tal pena al cor giova. Se nel tuo regno, Amor, già mai se trova merzede alcuna o grazioso loco, umile e genuflesso sol te invoco, ché crudeltà dal freddo cor remova. Spero, benché non sia gionta ancor Torà, che certamente d’un gentil cor nasca somma piatà, che onne uman spirto onora; onde conven che in tal cibo se pasca Tanimo insan, ma pur se discolora la debil carne, e ’n detrimento casca.
XXXII Ar Onestà, singular bellezza intera, doi naturai nemiche insieme unite star vidi in mortai donna senza lite, vivendo in pace l'anima sincera. O iudizio alto, o sapienzia vera, ove albergan virtù chiare infinite, o del collegio feminil sì mite gloria ed onor, per cui se teme e spera, se gli occhi miei, pur vaghi del lor lume, facessar troppo smesurati assalti ai vostri, corno a' suoi lucidi specchi, incolpatene Amor, che tal costume l ’insegna e falli far sì legger salti, mostrando alfin che così non se ’nvecchi!
XXXIII Ar Irato, tristo, combattuto e vinto da l ’amore in diversi e strani modi, me sento al cor sì venenosi chiodi ch’io temo in verde vita esser estinto.
Io son richiuso in stretto laberinto, legato ad arte con ben mille nodi d’asprissime catene, e chi me snodi non truovo, onde io sto cieco e d ’orror cinto. Non spero più già mai trovar merzede, ché chi darme soleva alcun conforto me fugge e non m’ascolta più, né crede; per che la nave mia felice porto prender non pò, e da questo procede ch’io so’ quasi smarrito e mezzo morto.
XXXIV Ar Lieto già me ’nviai verso il bel viso, che più volte me fé pur da me stesso vario e diverso; e corno a quel m’apresso, fui tutto ai duo bei lumi intento e fisso, e, sol parlando al gentil fiordaliso con voce bassa e con atto sommesso, mostrai parte del duol, mentre concesso fo l ’udir, che m’alzava in paradiso. Ma l ’invida Fortuna, che s’oppone solo in quel tempo che l’uom più felice se tiene in vita ed ancor meglio spera, quella piatosa prima intenzione converse in fitto sdegno, ché disdice la dolce audienzia in vista altera.
XXXV Ar Mille volte, madonna, ai bei vostri occhi rivolgerebbi i miei, bramosi e vaghi del lume lor, se non che da tai maghi mutato in gufo so’ fra molti allocchi. Rasgion tien quanto pò che non trabocchi l ’anima in tutto, e ’1 corpo non se piaghi più che se sia, ma leon feri e draghi pur porto in petto, e non pascon finocchi.
E voi, in cui piatà mai non alberga, anzi ver me più rigida che Altea, non vi curate s’io me struggo e spolpo. O gloriosa mia leggiadra dea, da voi tal pertinacia se disperga, se esser mai debbo san dal mortai colpo!
XXXVI Ar Non piacque già tanto Europa a Giove quando prese ¡'effigie del bel toro, né Dafne a Febo, prima che in alloro mutasse il viso chiar, sequito a prove; non sì caro era a Pirramo, che trove Tisbe mentre aspettava sotto il moro; né fu sì grato a Paris lo strai d’oro ch’Elena indusse ad abitare altrove, quanto a noi quella faccia alta e serena, che fa lucido e vago onne aer fosco e vince il sol con sua virtù visiva. Non fu Diana mai cacciando al bosco sì leggiadra e gentil, né Polisena, allor che Achille insano al tempio arriva.
XXXVII Ar O signor mio, speranza, o somma luce, o animo gentile, o vivo sole, o lingua pronta, o voi, dolci parole, o specchio in cui virtù tanto reluce, o fronte e faccia lieta, che produce a mezzo il verno fior, rose e viole, o bellezze divin, sotto il d el sole, o dea, che a tanto amor me reconduce, vostra è quest’alma e ’1 core! Io sol posseggo la stanca carne; vostro è ciascun senso, vostro è l ’ingegno mio, le rime e l ’arte. S’io dormo, vegghio, mangio, scrivo o leggo, in voi, madonna, e giorno e notte penso, e de vostre virtù s’empion mie carte.
Più degna stella, che ne’ mobil cieli locata fusse fra Mercurio e Marte, dal proprio sito suo pronta si parte per precetto divin con caldi zeli e prende abito umano. Adunque celi ormai natura sua mirabile arte, ché tutte le beltà secrete ha sparte in questa sola ornata di suo* veli. O quanta gloria, gaudio e gran deletto fia a’ mortai veder il fiammeggiante viso de questa dea, che pare un sole, quale occhio uman vuol sentir sazio il petto del vivo raggio di doi luci sante, che resguardar non pò quanto già sòie! XXXIX Ar Questa diva gentil, che al nostro mondo con sua chiara beltà tanto reluce, chiama, priega, lusinga, alfin conduce ciascun mortale a l'amoroso pondo. L'aspetto glorioso, alto e giocondo, l'atto predar che in lei virtù produce, gli occhi splendenti sopra ogn'altra luce fan co' lor raggi in terra un sol secondo; onde così leggiadra, ornata e bella, magnanima, oggi saggia, altera e sola, i vaghi ciglia mai non move invano. Sia qual vuol quel che l’una e l ’altra stella col vibrante splendor che ratto vola, ferisca, che pur sente il colpo strano.
Non posso a l'alma ardente adoppia el foco; non posso il caldo petto incende e 'nfiamma; non posso affligge mia sinistra mamma; non posso il cor consuma a poco a poco; non posso di speranza occupa el loco;
non posso fredda già la dolce fiamma; non posso quasi crea de sdegno dramma; non posso abatte onne piatoso invoco; non posso il tenero animo fa crudo; non posso il mansueto spirto indura; non posso lassa il primo pensier nudo; non posso mostra al viver nuova cura; non posso a rintelletto è forte scudo; non posso è stato alfin la mia ventura! XLI Ar Tu me fai più contento e glorioso, più lieto, più giocondo e più gradivo che alcuno altro uom felice al mondo vivo, più che Metello, amico a’ ciel grazioso. Non è sì grato forse a l ’angoscioso cervo, dai can cacciato, stagno o rivo, né ramo frondentissimo d ’olivo doppo gran guerra a popol pauroso quanto a me quello sdegno altero e vile, che sciolse al mio cor lasso il forte nodo, per tór da l ’alma stanca aspri martiri. Mostra alcun fuor l ’animo aver gentile, ma il vizio interior con sotil modo scopre i perfidi errori e i van desiri. XLII Ar L’uman voler, che pur vorria fuggire quel passo a sé contrario ed inimico, de tal se fida e tielse per amico, ch’è casgion con più guai del suo perire; e considera poco il bel tradire, che già, per moderno uso e per antico, ordina questo tal fin che mendico fa chi li crede, e ciò non pò fallire. Onde sì corno ignar sua vita mena con sensualità nel falso e cieco secol mortai, che onne animai nutrica, considerando rade volte seco la santa luce in ciel vaga e serena poter ciascun mundan trar de fatica.
L’età che corre quanto il leggier vento e i dì che volan corno uccel raipace o tu, che se’ nell’esser che più piace al viver nostro alfin pien de spavento, considera (e ’1 dir nota); e se contento se’ al presente, sappi che ’1 mordace tempo te ’ngannarà, perch’è fallace* e doppo el fatto non vai pentimento. Tu vive or lieto in fior di giovinezza, in stato alto e felice, in teneri anni, in dolce vita, in deletto e gran pompe. Deh, pensa al futur tempo, che bellezza, mortai gioia e piacer consuma e rompe, e mena altri in vecchiezza pien d’affanni! XLIV Ar Un zenepro gentil, verde, alto e lieto, le cui fiondi al mio cor fan sì dolce ombra che l ’amorose fiamme spesso inombra del furibundo petto e già inquieto, or m’allegra, or m’atrista e nel secreto de’ miserimi lai l ’anima ingombra; e libertà dal nobil loco sgombra quello sguardo onesto, umile e mansueto. Como de l ’airbor grande il sacro legno tocco dal foco occulto per natura continuando uno anno abruscia ed arde, così Tanimo stanco e d’ardor pregno se consuma e riscalda oltramesura, temendo ognor che sue grazie sien tarde. XLV Ar O preziosa gemma margherita, candida perla ornata fra balasci, o fior dei fior, che nel mio cor renasci, sommo conforto a questa stanca vita; o bellezza gentil, d’amor vestita,
dolce sussidio a l ’indurate ambasci, solennissimo cibo che ognor pasci l ’anima trista al tutto indebilita, l ’ardor me sforza e vuol pur ch’io demostri l ’artifizioso foco, che devora e consuma e -riarde il petto lasso! Ohimè, che mai non fo nei tempi nostri un sì infiammato cor, né credo ancora esser uom prima a me gionto a tal passo! XLVI Ar D el coro triunfal superceleste Natura trasse sì mirabil forma che, mentre mortai carne in noi s’informa, tal gonna spirto uman mai più non veste. Deh, quante cose belle al gir terreste già mai se vidde per diritta norma, sola è costei la prima, in cui non dorma! Ben par virtù tra le bellezze oneste. O lieti amanti dai gentil coraggi, venite a resguardar costei, che sola se pò chiamar sopra le donne belle, che d’un bel viso e d ’una ornata gola sfavillar vedarete ardenti raggi e gran luce mostrar due chiare stelle! XLVII Ar L’ardor, che solea far desti i tuoi sensi in vedere e trattar cose gentili, che fa? dorme egli? o con più ornati fili tela orde, eh’imperfetta occulta densi? E li spirti, in amor già punti e ’ncensi d ’ardenti raggi, e i detti alti e sottili sarien mai forse estinti e fatti vili per star longe a quel sol, c’ha i lumi intensi? N oi credo già, ma s’io el credessi, ah, come? non leggi tu il Petrarca glorioso quanto amò sol doppo la morte il nome? Penelope ancor quanto il caro sposo aspetta e chiama, portando aspre some di paura e dolor nel cor pensoso?
Qual merito o mercè, qual frutto degno più utile è che *la santa iustizia, che dei superbi abassa la nequizia e guasta ai malfattor ciascun desegno? O virtù somma, che trapassi el segno, la quale il Re de l ’etterna milizia, per vincer del demonio la malizia, volse a torto per noi gustar sul legno! Dunque, nobil pretor, priego te specchi in questa eccelsa e leggiadra virtù e quella cerchi, prenda, ami e abracci. E tien per certo che in ciel s’aparecchi gloria infinita a chi fra noi qua giù tien tesi contra i rei occulti lacci.
Se cento lingue e altrettante penne copiose d’altissima eloquenzia, qui constitute a la nostra presenzia, pronta ciascuna, espedita e perenne, volessaro esplicar l ’alta e solenne di tanto cavalier magnificenzia e fra l ’altre virtù sua pazienzia, alfin remarien vinte e mute e menne. Chi porria racontar la carità da messer Giovannozzo e la gran fede mostrata al popol di questa cità? Io non già mai, onde Colui, che vede il tutto ed è via, vita e verità, renda a questo uom di ciò premio e mercede.
Non per prosopopea, superbia o pompa acquista onor chi regge alcun governo, né per ratto furor pien d’ira e scherno che con proprio voler rasgion corrompa, ma per somma virtù, ch’anulli e rompa
onne odio e premio e sequa quel superno celeste amor, temendo el tristo inferno, sì che '1 pensier protervo s'interrompa. Prudente, forte, temperato e giusto convien che sia il rettore, al punir tardo, col cor benigno e nel volto robusto. Le qual virtù nel nostro Leonardo regnan con tanta grazia che d’Augusto merta corona e l'inclito stendardo.
Quanta onestà con degna leggiadria, qual pudicizia ed onor glorioso, quanta costanzia e atto virtuoso, qual castità se pò estimar che sia in una fanciuletta, che desvia senza alcun fren suo vano occhio e bramoso, desprezzando l'amor del proprio sposo e fasse amante chi passa per via? Dove è la continenzia? ove è el timore? Ben par virtù nel mortai secol cassa; nulla modestia e fede è oggi in donna. L'età moderna subito conquassa la fama di Lucrezia, che colonna fu di fortezza, presgio e d ’alto onore. LII Ar Più magnanimo spirto e più gentile, che abiti queste nostre atre sentine, è quel che a le buone arti e discipline se dà, sequendo il bel viver civile, e fugge onne altro inetto studio vile, corno ratto a le cose alte e divine, d ’ingiustizie inimico e de rapine e de qualunche indotto e rozzo stile. Alzate adunque, umani spirti, al cielo i vostri occhi mentali, e quello etterno Verbo considerate e la sua gloria; e sentirete in voi sì caldo zelo che vi farà star lieti in sempiterno con gran triunfo ed immortai vittoria!
LUI
Deh, vogliànci far bei dei nostri panni e non n'atribuian gli altrui onori, ché spesso a rocchio variano i colori e ’n vista ben non se comprendon gli anni! Non posson molto occulti star gringanni; sono i ligustri bianchi e vaghi fiori, ma cascan presto e rendon pigri odori: e però contra il ver nisun s'affanni, ché le busgie han corte gambe e ’nfine la verità per sé se fa far loco, vincendo le malizie saturnine. E1 colombo, ch’è troppo ghiotto al moco, ha da guardarse, ohé nelle vicine reti non caschi, ché aria fatto poco.
LIV Ar O leggiadri, preclari e alti ingegni, vaghi di contemplar mirabil cose, venite a veder quella, in cui già pose Natura e '1 Ciel sua arte e suoi ordegni! Qual Giotto o Cimabue fra i lor desegni, Policleto o Prasitele compose bellezze in forma tanto gloriose, quanto ha costei, che par qui star non degni? Venite presto, dico, perché Morte vuol prima il meglio, e Palma in ciel s'aspetta, tanto umana beltà ratto trascorre. Ben se diran mie rime poco accorte, veduta in lei tal grazia e sì perfetta, che oggi in corpo mortai più non concorre.
LV Ar Nobil natura eccelsa, che comparte infinite bellezze in varie forme, al procrear gentil cosa non dorme, ma virtù, industria, ingegno opra e molta arte.
O potenzia del d el, qual dotte carte, qual sagge penne antiche san dar norme d’un sol divin, che ognor par se trasforme fra noi con suoi chiar raggi e luci sparte? L’occhio mortai, del dolce splendor vago, mentre tien per obietto il viso adorno, non è de morte o d ’altro mal presago; anzi, corno ebbro, insensato e musorno di quel tesor più car che 1 fiume Tago, celeste gloria estima aver dintorno. LVI Ar Alme felici, che abitate intorno al mio secondo, anzi pur primo sole, che con sue beltà somme, in terra sole, fa de l ’oscura notte un vago giorno, l ’atto gentil de quel bel viso adorno con l ’amoroso aspetto e le parole dolci, che dentro in retoriche scole paion comprese, onde io lieto e vii torno, per forza incitan voi ad amar quella gloriosa figura, in cui richiusa sta l ’alma mia, presa ad un saldo laccio! E se foste più crude che Medusa, chiama piatà l ’una coll’altra stella e grida amor quel lucido e chiar ghiaccio. LVII O glorioso spirto, o vago viso uscito fuor de l ’angellica schiera, o celeste splendore, o luce intera creata su nel sommo paradiso, vostro aspetto gentil col lieto riso, vostro atto uman, la chiara vista altera condussar me nell’amorosa spera quel dì che agli occhi bei mirai sì fiso! Questa alma e ’1 corpo al viver mio congionte avete in man, dolcissima madonna; disponete or di me, corno a voi piace. S’Amore impierà mai sue forze pronte, spero accostarmi a vostra alta colonna, trovando ai piei benigni etterna pace.
Leggiadra gentilezza in alma lieta, angellica beltade in forma umana, cor magnanimo in vita umile e piana, somma prudenzia in gioventù discreta, aspetto allegro in natura secreta, memoria alta e profonda in mente sana, parlar sublime in lingua tuliana, signorile atto in donna mansueta, mirabile intelletto in teneri anni, subita providenzia in saggio seno, laùdabil modestia in vista altera, gloriosa costanzia in molti affanni, virtù pronta in onesto e dolce freno han preso un cor gentile, e par che péra. LIX Ar
Quello impio e crudo fenestrin di panno, che sale e scende mentre s’apre e serra, agli amanti in un dì fa maggior guerra che 1 Turco contra ai Cristian tutto l ’anno. Or odi onde procede il grande affanno, che ’1 nostro afflitto cor sì spesso afferra un gentil fiordaliso, che oggi in terra simil non truova, a me non piccol danno. Per suo dolce piacer se rapresenta alcuna volta al fenestrino usato e con la bianca man l’apre sol mezzo. D el viso singular, vago e beato sta la più nobil parte occulta e spenta a la mia stanca vista sparsa al rezzo. LX Ar Non fu mai sì contraria ombra di noce a quale uom sia dal caldo afflitto e stanco, quando avien che riposi el lasso fianco sotto i frigidi rami, onde li nóce, quanto quella fenestra a noi feroce,
che, mezza aperta, del bel viso bianco la miglior parte cela, e tutto franco fa dai nostri occhi allor suo guardo atroce. E questo è il mal che ne consuma e strugge, che la leggiadra vista, che già punse l'offeso core, or se nasconde e fugge; e ’1 petto, dove il rigido strai giunse, per passion suspira, langue e rugge, colpando Amor, che a tal giogo il congiunse. LXI Ar Poi che la fantasia, la lingua e Parte presaro ardir de far palese in rima, ch'era (bench'altri amasse) occulta prima del corpo mio la più secreta parte, tempo niun tanto ha sue virtù sparte verso l'ingegno mio, né quel sublima tanto alcun loco e con sì salda lima per me non s'ornò mai lavoro in carte, quanto in quella stasgion, che Febo i raggi bagna nell'oceano, onde del lume priva gran gente nei mortai viaggi, e quanto al sito de le dolci piume, dove ben par da sé la mente n’aggi remosso d'ignoranza ciascun fumé. LXII Ar Quella adorna e leggiadra cicatrice, che nel bel volto tuo sì altera siede, mille cor fasse schiavi, una alma chiede amica a lei per carta debitrice. Gentil madonna, singular fenice, ecco lo spirto e '1 cor, ch'ognor richiede l ’alta bellezza tua, ecco chi il piede non move senza il tuo voler felice! Fa' di me dunque quel che al pronto e fino animo, che in te regna, agrada e piace, ché sempre ai piedi del mio sol me 'nchino. Vezzoso segno, che sì ben rigiace a l ’occhio splendidissimo vicino, ricorda al signor mio la nostra pace.
Tu, che or trìunfi in tempo giovenile, in teneri anni ed in età fiorita, né pensi che tua fresca e verde vita perda lo stato suo vago e gentile, se in questo nostro breve viver vile non ben misuri la leggier partita del tempo velocissimo (impedita già tua beltà, che ognor non è d'aprile), chiamarai gli anni andati e l'età calda con voci cordiale e suspir tristi, « Ohimè — gridando — ohimè, in quanto errore stato è la cieca opinion mia salda! Quando sirà mai più che amici acquisti, o quale or pò ver me drizzar più amore? » LXIV Ar Quando quello infelice caso spinse el mio incostante arbitrio a tanto errore, Tesifone e Megera un tal furore fulminar sopra a me, che '1 ben n'estinse; onde d’infamia vii l ’alma se cinse, spogliando al corpo il glorioso onore; ma qual cristian non vive peccatore? oggi al mondo qual mai se stesso vinse? Peccò Pietro e David, al Signor servi, e meritar perdon nel dir « Peccavi », essendo il pianto al penter testimonio. Mia colpa dico e virtù il peso sgravi a la mente orba e carità s'oservi, pria che il cor se desper: memento, Antonio. LXV Ar Discreti cieli e voi or pie stelle, benché crudei nei miei già passati anni, che '1 longo pianto e gli amorosi affanni con vostre dolci e graziose fiammelle mutate in pensier lieto, onde si svelle
l ’antiche pene e i consueti danni, Tarnare voglie e i certissimi inganni per doi luci gran tempo a me ribelle, mossi a piata del mio infelice stato, rendete or chiar più il lume, ch’era prima già tolto a questo spirto infortunato! D ’un basso loco me retruovo in cima per gran destino e per sì dolce fato di questa rota, che ogni uom poco stima. LXVI Ar La dolce amica a pochi, ai più fallace, che or qui, mo’ ’stì, o là o qua commove (de tempo in tempo mostrando sue prove) la gregge dei mortai che al secol giace, non tien mai con alcun sincera pace, ma muta stati, ordendo tele nove, e sopra tale alcuna volta piove tanta miseria che ’1 viver gli spiace. Guai a chi la crudel volta le spalle, che non cura bellezze, òr né nazione, e poco vale a dimandar merzede! Costei disperse il robusto Aniballe e mal remunerò il buon Scipione; però con senno al mio parlar da’ fede. LXVII Ar Leggiadro ingegno, in cui Minerva spira sue dolci note e ’1 sacro Apollo infonde la celeste armonia, che corresponde al tintinno gentil de l ’alta lira del glorioso Orfeo, che ogni alma dira fece già mite e pia a le stigie onde, sequendo le beltà verdi e gioconde d’Euridice sua, che sì el martira, piatà dunque e rasgion ti mova e guidi in dar soccorso a la tua stanca patria, poi che a l ’arbitrio tuo dato è tal soma! Guarda Cato, Metel, Muzio sì fidi, quasi degno ciascun d’etterna latria, preclari alunni a la famosa Roma.
Misero me! che per le lucide acque libero andava senza tema alcuna de caso avverso o de trista fortuna, ma fato acerbo al mio bel viver nacque, che un dolce amante, a cui sempre amar piacque il più bel fior che sia sotto la luna, contra di me suoi artifizi aduna e reti e ami, onde io preso ne giacque. Così de libertà felice privo, madonna, il fedel servo a voi ne manda, dicendo: « A lei te rapresenta vivo ed al viso gentil me racomanda ». Onde io ve priego non m'abbiate a schivo, ch'io mor contento essendo a voi vivanda.
LXIX Ar Amanti vaghi a remirar quel sole che natura creò con sotile arte nel d el supremo a più beata parte per mostrar fra i mortai sue virtù sole, io son Cupido, a l 'amorose scole publico erede per antiche carte, de Vener nato e del feroce Marte, punto d'amor, ma non corno altri sòie; ch’io già percossi d’uno orato strale me stesso e quella dea, che più se brama da voi nel mondo; e sèn con dolce nodo congiunti insieme. Adunque al vostro male date altra medicina, che questa ama me solo, e guai a chi ne vuol far frodo!
LXX Ar Poi che la cruda peste il suo veneno sparse mortai sopra l ’umana gregge, tal che fisico alcun, decreto o legge non sa dar vera al morbo senza freno,
Francesco mio, io me retruovo il seno carco d’affanni, e sì mal se corregge l ’afflitta alma che a gran pena se regge nel miser corpo sotto il ciel sereno. Morta è la virtù mia, morto è l’ingegno, perduto ho già l ’aspettata speranza, eh’esser solea del lasso cor sostegno; e quel poco de viver che m’avanza, se ’1 ciel non mostra almen più grato segno, fie breve e corto. Ahi, caduca fidanza!
LXXI Ar Altissimo Fattor de l ’universo, che reggi il ciel, la terra, acqua ed inferno, e sotto il tuo giustissimo governo vive ciascun mortai nel mondo avverso, da l ’incurabil morbo, acro e perverso, piacciati liberarne in sempiterno e farne degni alfin de quel superno loco, onde Lucibel fu già disperso! Ma, prima che veniamo a tanta gloria, spira, Signor, nei nostri cor tal grazia che d’onne tentazion portian vittoria, vincendo la terribil pertinazia del maligno Pluton, che transitoria superbia accecò sì per sua disgrazia.
LXXII Ar Rime leggiadre e voi versi alti e dolci, per cui grazie speziai tante s’impetra, ite a quel cor d’adamantina petra e diteli: « Perché non te demolci? Vuol tu che ’1 nostro artifice s’affolci da l ’opre sue gentil, giacendo in tetra presgione e sprezzi sua sùave cetra? » Or va’ presto e lusingalo e raccolci e, se pur corno fero, impio ed alpestro
stesse ostinato, dur, tenace e rigido, non volendo inclinarse ai vostri prieghi, pregare te Cupido che lo estro suo amoroso in quel petto aspro e frigido richiuda, sì che per forza se pieghi.
LXXIII Ar Sotto 'l’insegna del signor Cupido me truovo rotto e disarmato al campo, d ’acuto strai ferito senza scampo nel petto, onde io del viver me desfido. Dogliome de me stesso e piango e strido; or m ’allegro, or m’atristo, or tutto avampo, ma tremo alfin che per sì crudo inciampo l ’alma abandonar vuol suo mortai nido. La vita mia se vede in gran travaglio; Paura la tormenta, affligge e punge, ed ornai de la spada è presso al taglio. Amor m’accora e Speranza pur munge, onde io me sento percosso a bersaglio da Coscienzia alfin, che ’1 cor compunge.
LXXIV Ar Tanto penetrativo fu quel guardo, che fece agli occhi mei la prima mossa, che a lo spirto mancò sua miglior possa e fu presso a quel fin, che a nul par tardo; perché Cupido d ’oro un leggier dardo lanciò veloce, e diede tal percossa nel petto mio che subito commossa se sentì l ’alma, e d’occulta fiamma ardo. O vista peregrina, o luce vaga, che fusti prima principio e casgione di questa mia crudele e mortai piaga, allevia alquanto l ’aspra passione che ’1 tristo cor di doppia doglia allaga, se ’1 tempo ancora el paté e la rasgione.
Voi, animi gentil, che a l ’alte imprese date i lieti pensier, le dolci cure, vaghi a sequir l ’angelliche figure, c’han già d’amor più nobil menti incese, specchiatevi in quel nuovo sol, che scese (ad abitar con mortai creature) dal ciel fra noi senza fede o scritture, quanto natura pò per far palese! O singular bellezza, o sommo lume, o unico splendor d’umana faccia, onde se parte un sì splendido raggio, gustate, o spirti alteri, il bel costume, la virtuosa essenzia, che disghiaccia in alme crude onne indurato oltraggio!
LXXVI Ar O Pazienzia, che passi le stelle e voli ai santi piei del gran Monarca, o gloriosa, inviolabil barca che vinci el mondo e sue tante procelle, copre col manto tuo mia fragil pelle povera, nuda e de gravi ricarca, placa Tuom ancor, che se ramarca, con ragion vive, vere, oneste e belle! Tu Superbia conculchi e odi occulti, tu Tinvidie superchi ed ire e sdegni, tu lieta godi e pacifica essulti. A te palesi son molti cor pregni; assa’ pensieri altrui te vedrai sculti denante agli occhi per espressi segni.
LXXVII Ar Cesare fui; io sonno Ottaviano illustrissimo principe, al cui regno nacque Cristo Gesù, che fece degno de pace e de salute el mondo vano.
A le terene imprese acuto e sano, a le celesti pigro ebbi l’ingegno, e massime quando io viddi el gran segno nel del, tornando al mie solio romano. Onde or, cinto d’error, confuso e tristo, privo de quella immensa e dara luce ch’adorna questa vita e l'altra illustra, ricorro a te, vero vicar de Cristo, ché per me preghi el sommo eterno duce, corno orò per Traian Gregor non frustra.
LXXVIII Ar D ’infinita piatà quel vivo fonte, che meritò per l ’umiltà sua tanta portar nel sacro ventre l’alta pianta che purgò già de l’uom le colpe pronte, volgendo a noi la mansueta fronte, gli occhi ognor pii, la bella faccia santa, ne priega, ne conforta, o Dio, con quanta dolcezza, salir seco il sommo monte! Non siate più, mortali, al ben far pigri, date gli animi vostri a quella luce che chiama voi per farvi aiegri sempre! Quai cor de leon fer, d’orsi o de tigri non seguirren l ’eccelsa e cara duce, gustando i suon de le sùave tempre?
LXXIX Ar G li occhi lucenti, occhi leggiadri e pronti, fier feridori, a cui lor guardo giunge, in uno alzar piglian l ’uom da la lunge, pur che insieme ciascun guardar s’affronti. È ’1 bianco co’ lo ner sì ben congionti co’ la lucente lucciola, che punge l ’alma, lo spirto e ’1 cor tuttavia munge e penetra tal luce oltra alti monti.
Questa sì chiara e luminosa vista d ’amoroso disio ciascuno infiamma, de virtù tanto e di bellezze abonda. Sommo onor, fama e alto presgio acquista ricco tesor, vaga orientai giamma; qui onne altra bellezza ora s’asconda.
LXXX Ar Con somma reverenzia, eccelso Padre, che per gran carità mandasti in terra per noi tuo Figlio a sostener la guerra dei Giudei, gente ree, perfide e ladre, per l’umiltà de la sua santa Madre, in cui chi se confida mai non erra, prego la tua piatà, la qual non serra sua porta a chi seque opre alte e leggiadre, che noi miser mortai, caduci e ’nfermi, peregrin fuor del diritto sentiero de l ’etterna salute or forse indegni, riduca a servir te costanti e fermi, e scampine dal pestilente e fero morbo, che ’1 seme uman par tanto sdegni.
LXXXI Ar Quel dì sacro e felice a l ’uman seme, in cui fé il sol de duol già aperto segno, scurando i raggi suoi, mentre nel legno pendea il sommo Fattor, nostra alma speme, qual cor perfido e dur non strigne e preme a contenzione? o quale acerbo ingegno non fa de perdonanza e merto degno, almo fedel, buon, ch’ama Dio e teme? Dunque ornai, Cristiani, alzate al cielo la mente, i vostri occhi, e i cor sinceri levate a quel che altro cibo non pasce! O mirabil virtù, fondato zelo, qual mortai scelerato è che in Dio speri, che non sia corno quel che giace in fasce?
Qual pessimo cristian superbo e fero, perfido, iniquo, atroce e disleale, qual scelerato acerbo altro mortale, misero, ingiusto, protervo ed altero ha cor sì duro, ostinato e severo, o sì ignorante, vii, simplice e frale che non comprenda da uno immortale Fattor creato ciascuno emispero? E se per tale onnipotente artifice son fatte tante innumerabile opre diverse, eccelse, leggiadre e magnifice, qual sirà quello ingrato mai che adopre sagacità sì profonda e malifice che neghi il sommo artista, ch’è di sopre? LXXXIII Ar S io fussi longe più che mille e mille miglia col corpo dal tuo vago aspetto, el cor, che alberga in questo afflitto petto, punto per te d'amorose faville, convien che stia denante a le tranquille luci degli occhi tuoi sempre suggetto, ché quelle amar con gran forza è costretto più che fanciul da latte le mammille. Non creder, car signor, che 1 mio pensiero mai volger possa altrove la speranza che in te, somma sua pace e refrigero. Prima ciascun tradimento leanza e la busgia se porria chiamar vero ch'io non sia tuo nel viver che m'avanza. LXXXIV Ar Un color vago, una celeste insegna d'azurro oltramarin, ch’adorna e veste quel vivo sol, che ognor tante e sì preste lacrime trar degli occhi miei se 'ngegna, fa variar mia vista d'error pregna
e genera a la mente tal moleste che confusa se truova in gran tempeste per chi mostrarse como pria non degna. Dunque, s’alquanto, Amor, di ciò ti cale, il cor di quella acerba mia nimica punge per me col tuo dorato strale; ché, s’ella sente in parte la fatica de l ’amoroso giogo e ’1 grave male, se farà forse a noi costante amica. LXXXV Ar Poi che felice t’ha fatto l ’amore triunfar del mio cor afflitto e stanco e che ’1 viso leggiadro, adorno e bianco consuma e strugge l ’alma in tanto ardore, piatà, signor, merzede a tal furore, ché, se l ’animo mio gentile e franco servo d’un sì bel fior se truova or manco di libertà, non è suo proprio errore! La natura, che fé sì nobil cosa [al te]mpo nostro abitar fra i mortali, [in] parte fu casgion del mio gran foco; ché non so qual diva alma gloriosa, vedendo in gli occhi bei gli orati strali, d ’amor non pruovi el periglioso gioco. LXXXVI Ar Felicità non posso aver senza arte, né contentar mia voglia senza ingegno; ma, s’io dovessi incantar ciascun segno del cielo e i gran pianeti Giove e Marte, convien ch’io me conduca in qualche parte secretissima, almen sì ch’io sia degno parlare al signor mio con tal desegno che sua beltà descriver possa in carte. E se tal grazia il cielo or me concede, già mai non cantò Dante né el Petrarca Laura e Beatrice in dolci rime, corno oggi io per felicità di fede cantaro, navigando in salda barca, bellezze e virtù somme, alme e sublime.
S’io Comedio felicità sempre amo con cor perfetto e con sincera fede, per merto non debbo io qualche merzede trovar nel mio signor, che onoro e bramo? Ché non fu mai, doppo l ’error d ’Adamo, uom nel mondo d ’amor sì saldo erede quanto io, né sì fedele; e chiar se vede, tanto in mie rime el suo bel nome chiamo. Non sarebbe gran torto eh’un gentile cor magnanimo e nobil senza colpa morisse amando in sì tenera e tate? Amor, non esser più pigro né vile a riscaldar colei, che sì me spolpa, affligge e snerva con sua feri tate! LXXXVIII Ar Se mai arò felicità in balìa, doppo molte fortune, affanni e strazi, converrà forse che in parte se sazi l ’infelice e sfrenata voglia mia. Ma par che ciascun segno e stella ria tutte sue influenzie accresca e spazi contra me, sì che i gran prieghi e’ ringrazi placano el mio signor men mo’ che pria. Nostra speranza a poco a poco manca, e così va perdendo amor sue forze, ché amar procede sol da ferma fede. Tolta via quella, l ’alma aiegra e franca rimane e sciolta d ’amorose scorze, ché carità reciproca non vede. LXXXIX Ar Stava el mio core tutto attento e volto a quel corpo uman sol nato uno e trino per dimandar mercede umile e chino d ’onne colpa commessa e viver sciolto, quando colei, che amando el cor m’ha tolto,
scontrosse agli occhi miei per tal destino che degna parve a me d’onor divino, mostrando in sé celeste abito accolto. Quivi Amor me ramenta i dolci tempi, qui coscienzia me promette el cielo, quivi spiega el mio sol sua vaga luce. A lei me volsi, e se fuor miei spirti empi ver te, Signor, poi che de sì bel velo Tornasti, or me perdona, ama e reduce.
XC Ar S’Amor Tali s’adorna col bel guardo per rinfrescar Tamara e dolce piaga al lasso cor, che de speranza allaga e d ’amorosa fiamma, onde io tutto ardo, corno posso or dal forte arcier gagliardo defenderme e da quella faccia vaga, vermiglia più che rosa, corgna o fraga, che fa el mio ingegno ad ogn’altra opra [tardo]? Veggo Cupido star colTarco teso da Tuna parte e col turcasso al fianco e nella corda ha grosso strai sospeso; tirando, a me trapassa el lato manco; da l ’altra parte li s’agiugne inceso foco mortai, che arde el mio p [etto] stanco.
XCI Ar Più feconda eminente piaggia e vaga de me non vidde a le toscane parte Corito re, né sì contraria a Marte, cercando già nostra italica plaga. E con mente al futur poco presaga edificò nel mio bel sito ad arte suo seggio antico, onde in noi fuóro sparte sorti infelici e longa e mortai piaga. Così l ’inclito re la terra e ’1 monte Corito fé chiamar per »proprio nome, perché fusse più chiara in sé l ’origine.
Poi ne nobilita Elettra, che -in fronte corona ha d ’or, ch’orna sue tempie e chiome, con Dardan figlio e Iasio a noi terrigine.
X C II* Ar Piaggia sì verde, sì fiorita e lieta, sì fertil, sì munita ancor non veggio quanto io in Italia, e de sì nobil seggio sotto aer pur pacifica e quieta. Como esce d’occeàno el gran pianeta dietro a l ’amica sua senza pareggio, tutta de raggi lucidi campeggio: [ri]dono i colli miei pien de vineta. [Le v]alli, carche d’erbe saporose, spiran dintorno odore irrefragabile con dolce mormorio de lubriche acque. Qui son d’uccelli armonie gloriose, ai sensi umani deletto insaziabile, onde abitarme al mio Corito piacque.
XCIII * * Ar Poscia che me e ’1 mio fiorito colle Corito ornò del suo vetusto nome, non fuoi mai sì contenta e lieta come me fan mo’ l ’opre tuoi, ora aspre or molle. Ringrazio el ciel, che a me rettor dar volle angelo uman, che le disforme some, che opressavan mio dosso e collo e chiome, adequa, e, i rei puniendo, i giusti estolle. Angelo, il caldo de tua magna Stufa refrigerà mia membra ed ossa e nervi, mentre fai che ’1 mio popol non s’agufa. L’angel celeste mio tutor conservi Angelo uman, che nel ben far s’atufa, corno in acqua asetiti e stanchi cervi.
* I d e m d e C orton a. ** C o rto n a parla con A g n o lo d e la Stufa.
XCIV
Mille colpi d’Amor, mille saette, madonna, col bel guardo al cor me mandi: talor gran pace e talor mille bandi tua vista dolce e gentil ne promette. Perché, signor, perché guerre sì strette? perché ver me tante ire e sdegni spandi? che te piace, amor mio? che me comandi? ecco Palma, ecco el cor: fanne vendette! S’io merto morte per mio gran fallire, non chieggio altro tormento, altra iustizia, ma vo’ morir per le tue sante mani. Si per me s’usò mai teco malizia, già non vo’ che me vaglia alcun pentire, ma morto andar fra spirti impi e profani. XCV Ar O luce alta, preclara, inclita e santa, morte e rimedio a la mia stanca vita, diva mortai, de tal gonna vestita qual donna oggi fra noi più non s’amanta, poi che in te sola regna beltà tanta, perché se’ sì di crudeltà vestita? Ché m’hai furato el core, onde smarrita l ’alma quasi dal corpo se dispianta? [Ren]dem e ornai, o dolce ladra, el core [prilma ch’io mora, altramente in iudizio [cojmparir te farò con poco onore, [e] più farò ai super sacrifizio e convocarò gl’infer con furore che . . . 1 mandino in precipizio. XCVI Ar Cupido, s’io con rima alta e magnifica laudai mai polzelle egregie e tenere, per te d ’amor compunte o per tua Venere con acuto strai d’or, che i cor letifica, e si tua arte esquisita e mirifica
per me se onorò mai, parlando in genere d’amanti assai, resoluti oggi in cenere corno per le scritture se testifica, te prego che saetti con tuo ingegno a mia cruda Medea suo cor de marmo, de superbia precinto e d’ira e sdegno. E sì per me la fera or mia lingua armo a cantar te sì pel terrestre regno che de dubbio onne amante altro desarmo.
XCVII Ar Beate son quelle province e regni, le città, le republiche e gli stati dirittamente retti e governati da dotti naturali eccelsi ingegni. Felici popul per sì lieti segni son quei che vivon sotto i magistrati de gentil sangue e stirpe nobil nati, de ragion, sapienzia e virtù pregni. Qui fede, qui speranza e carità, qui regna devozione e buon costumi, qui nasce el fonte de benignità. Sempre convien che chiara luce allumi l ’oscur, secondo la sua quantità, e ’n mare entrino, inde eschin, tutti i fiumi.
XCVIII Ar Grazia di Dio, al glorioso porto condotti siàn de la città d’Ancona, degna d’ornata e triunfal corona, che pare un fre[s]co giglio in un bell’orto. Gioven prudente, al studiar te conforto; le virtù segui e i vizi abandona, che onne atto virtuoso fama dona a l ’uomo in vita e da puoi ch’egli è morto Però terrai el tuo cor mondo e raso da vizi e sceleranze a ciascun’ora, s’esser vuole in virtù splendido vaso.
Da puoi te priego caramente ancora me recomandi al benigno Tomaso e simelmente a monna Dianora. Senza alcuna dimora sia ubidiente al tuo savio e car padre, sempre osservando operazion leggiadre.
XCIX Ar Un fior gentil, leggiadro e pelegrino, pien di somma bellezza senza fallo, che ’namora ciascun solo a guardallo col viso adorno e l ’aurato crino, più luce che smiraldo o bel zaffino, e ’1 volto suo chiarissimo cristallo par certamente, e i labbra fin corallo, e bianco è quanto un candido ermellino. Alti costumi e ampia leggiadria con atto mansueto e grazioso in questa nobil forma han gran balìa. Splendido aspetto al mondo glorioso, parlare uman con voce dolce e pia [rendono] aulente el fior sì virtuoso.
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ElCoquio], nobiltà con leggiadria e virtù somma con frutto sincero al tutto regna e ampia cortesia nel generoso e franco cavaliero messer Francesco altramente Corbino, senese citadino e ver dottor nelle rasgion civile, nato di sangue nobile e gentile, pien d’eloquenzia in ciascun suo sermone. Più dolce condizione non credo si trovasse in uom che viva. Chi sirà quel che scriva o parli a pien de la magnificenzia di cotanto uom, fontana d’eccellenzia?
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Bisognarla la lingua italiana, Tornato dir de Dante e del Petrarca con quella savia testa mantovana a laudar questo novel monarca, pien di virtù civil, costumi e fama. Oltra misura Fama chi solamente gli parla una volta. Poveri e ricchi caramente ascolta tutto umile, benigno e grazioso; onne atto virtuoso in lui consiste e magna gentilezza. Iustizia santa aprezza; puppilli, orfani e vedove disbriga, punisce i rei e i malfattor gastiga.
CI Ar S’alcun ce fosse pratico strozziero, per certo el ver da quel saper vorria, qual de’ doi miei falcon più gentil sia: ciascuno è pelegrin, vago e leggiero. L’un già domestico è e ben maniero, conciosse presto e con gran leggiadria; mai dimostrando nulla villania, al pugno torna tutto aiegro e fiero. L’altro è veloce e molto più silvestro, volonteroso con poca fermezza, rigido e aspro e non di men pur destro. Non so se fosse mai per gentilezza Tesser tanto feroce e sì alpestro o veramente pur per giovinezza. A me sirìa vaghezza esser chiar per rasgion vera e sottile qual de,questi falconi è più gentile.
CII Ar Nuovi uccellon veduto ho far pasaggio e già diversi pesci andare al frego, ma, mentre nuovamente l ’occhio piego, t’ho scorto un gufo nato de lignaggio.
Somiglia un barbasgiagne nel visaggio; d'aver sai poco in zucca non fa niego. Mostrando in sé dir sempre: « Quis sum ego! » par proprio un civetton, che uccelli al maggio. Fa più trasgressi’on quel suo cervello che i trascorrenti punti de la luna, e più che 'n arbor foglia ognor vacilla. Vanissimi pensieri in sé raguna, perch’è più pertusgiato che un crivello, e con tenerse savio se tranquilla.
CHI Ar Con tutto io sia da te tanto lontano, pur non di meno intendo satisfare l'animo tuo e te certificare commo sta bene e gode Feliziano; molto contento ed è gagliardo e sano, e non bisogna a noi recomandare, ché notte e dì ciascun vorria sognare trattarlo bene, e non commo uno strano. Confortarai Cristofano e monna Anna per parte sua e che pò star contenta, ché sirà buon figliuol, se non c'inganna. Per lui a Lisabetta e Lorienta, con gran letizia aprendo ben la spanna, tocca la mano e '1 sonetto presenta.
CIV Ar Cari fra tei, con animo perfetto ve scrivo e do migliaia di salute e priego sien da voi ben receute; che volentier le dono ve prometto. Per voi priego, se non v'è troppo dispetto, le lingue vostre non teniate mute, ché di tante sol doi me sien rendute salutazion, che aiegro ognor l'aspetto. Per parte mia salutate Bernardo, Benedetto el senese con Mazino, e a Iacomo ancor, che stia gagliardo.
A Petronio, dal viso pelegrino, dicete pur che s'abbi buon reguardo e che atenda a empir quel ventricino. Giovan di Zaccagnino, Giovan Cristofan puoi con ’Larione salutate, che son da ben persone.
CV Ar O sommo Padre, sotto il cui governo vive ciascun creato a mortai vita, disposto sempre a onne alma contrita donar per merto il paradiso etterno, per quel sacro abitacul del materno ventre dov’incarnò l'alma gradita del tuo Figliuol, che dolcezza infinita n'ebbaro i santi padri nell’inferno, riempierne de quella eccelsa grazia che infusa fu nel cor del giusto Iob, ch’ebbe tanta costanzia ai casi avversi! Dolce Signor, la mia gran pertinazia non estimar, ma quanto il buon Iacob in te fa degni i sensi miei perversi.
CVI Ar Colonna dei mortai, fidata e salda, unica speme a la cristiana setta, sola, Maria, fra l ’altre donne eletta madre di Dio, d'amor fervente e calda, se la tua carità or non riscalda noi miseri mundan fallaci in fretta, io veggio mossa dal ciel tal saetta che apre i cor più che acuto dente cialda. Onde preghiamte, singular fenice, che supplichi denante al tuo car Figlio che da noi cessi questa crudel peste e rendane quel buon tempo felice, nel qual già se vivea senza periglio, facendo ralegrar le gente meste.
Ar O martir gloriosi, invitti e franchi, Fabian giusto e tu Sebastiano, cavalier chiaro al consorzio cristiano, a cui fu saettato il petto e i fianchi, piata, merzè, aiuto, ohimè, non manchi a noi terren caduchi, dal villano morbo impio atroce oppressi, non invano, anzi morti, feriti, attriti e stanchi! Non fia per Dio, secondo i nostri merti, concessa a noi misericordia e pace, ma corno a servi buon de Dio fedeli. O sommi awocator benigni e sperti, pregarete Gesù padre verace che più sua faccia pia non ne celi!
CVIII* Ar
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O sole immenso, ornatissimo e chiaro, che sì re9plendi in quello specchio santo del misterio divino, alto e preclaro, spira neirintelletto mio alquanto del tuo celeste ardor suave e piano, sì ch'io possa onorar con dolce canto Tintimo nostro padre paduano, di Cristo confessore inclito Antonio, caritativo quanto altro cristiano, ohe del suo amore a nostro testimonio de fuoco -porta in man fervente fiamme, in ciel dei 'peccator saldo preconio! Non aman tanto le pìatose mamme i loro car figliuoi, né de tal voglie i tener paschi famellici damme, quanto el fedele Anton l'alme e le spoglie nostre terren, che a D io de dir non cessa: « O divin Verbo, i peccatori accoglie! » Qual Torazion d'Anton crede e confessa, da subita, improvisa e mala morte
* R esp o n so d e san cto A n to n io d a P adu a in rim a.
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salvo se renda e da miseria espressa. Non dubiti tempesta de mar forte, né legami aspri de ferri o de funi o altra rea periculosa sorte. Non tema grinfelici, acerbi pruni d’essilio, over l'incomportabil lebbra, non maghi, incanti deceptivi e bruni. Speri la mente de fantasie ebbra nel responso d'Antonio e fia ben sana, e i corpi oppressi ancor d'acuta febbra. Alcun non abbia speranza sì vana che, se perduto avesse alcuna cosa per latrocinio o per altra via strana, che recitando l'orazion graziosa d ’Antonio, over responso almo e felice, che non se manifesti, essendo ascosa. E qualunche mortai per infelice caso se truova de' membri impedito, se quel sacro responso spesso dice con devozione e fedel cor contrito, presto se vede senza mancamento san de tal membro, libero e spedito. Questo responso per esperimento da sé discaccia onne necessitate e ’n parte l'uom fra noi fa star contento. De miracoli chiar gran quantitate ha dimostrato per sua gran virtù e grazia di Colui ch’è ventate e vita e via, signor Cristo Gesù. CIX S o n e t t o d e l M a n tu a n o D a n n a to a C o m e d io
Ar Q u a n to s o * p i ù lo n ta n d a q u e lla lu c e de* t u o i b e lli o c c h i , c h e m *alu m a e l c o r e , t a n t o p i ù s e r isc a ld a i l g r a n d e a r d o r e , c h e a re to r n a r e a t e s e m p r e m* in d u c e . I l tu o b e l v is o ta n to p iù r e lu c e d i g io r n o in g io r n o s e m p r e a t u t t e V o re q u a n to p iù il m ir o c o n q u e l c a ld o a m o r e , c h e in o n n i p a r t e è la m ia s c o r ta e d u c e . I o h o p r o v a t o , a m o r , b e n m ille v o l t e , s e s e n z a t e p o t e s s e s ta r e u n g io r n o c o n a lto s tu d io e c o n p iù n u o v o in g e g n o .
M a tu , c h e m ’h a i le b io n d e t r e z z e a v o ! te a l c o r, m e s f o r z i c o l tu o v is o a d o r n o ; n o n a v e r d u n q u e il m io s e r v ir e a s d e g n o .
S o n e t t o d e C o m e d i o a l M a n tu a n o D a n n a to r e s p o n s iv o in n o m e d e la v a g a su a
Poi che dagli occhi mei sfavilla e luce un sì chiar lampo, un sì vago splendore, che rende a l'alma tua tanto valore che ognor da morte al viver te reduce, s’io fusse ben sorella de Polluce, che tenne de bellezze el primo onore, so’ disposta amortar quel gran furore, che spesso in pianti e ’n pene te conduce. Delibero che mai non te sien tolte nostre viste amorose, a ciò che scorno non gusti più, né stia de dolor pregno. Ecco l'alte adornezze, ecco Tacolte beltà del volto mio. Lieta ritorno a te, che se' del nostro amor ben degno.
CX S o n e t t o d e l M a n tu a n o D a n n a to a C o m e d io
Ar L a m ia m a d o n n a a lc u n a v o lt a s ò ie d e s u e b e ll e z z e ta n to a n d a r s i a lte r a e b e n c o n o s c e a ssa i p e r p r o v a v e r a c h ’e lla è so la fra V a ltr e u n v i v o s o le . B e n ig n a t a n t o a c h i v e d e r la v à ie s e m p r e s e m o s tr a c o n d o lc e m a n e ra , c h e p a r c e le s te su a b e lle z z a in te r a n e g li a t ti , n e l l ’a n d a r, n e lle p a r o le . S e m a i s e v o lt a s o t t o e l b ia n c o v e lo , c h e fa d e l ’a lm a m ia b e n m ille p r e d e , n o n p a r c h e 7 m io s e r v i r g ià l i sia in g ra to . D e t a n to d o n o io n e r e n g r a z io e l c ie lo , c h é n o n è p ic c o l p r e m io d e su a f e d e q u a n d o l ’u o m o è d a l s u o s ig n o r e a m a to .
R e s p o s ta d e C o m e d io a l D a n n a to
Maraviglia non è se le viole fiorite al verno con virtù sincera sonno in più presgio che a la primavera ¡'altre, che per natura non son sole. E se madonna tua, de gentil prole descesa e nata, a l’amorosa spera fu dedicata, corno or de minerà unica al tempo suo, qual se ne dole? Degna cosa è che quel virente pelo se mostri a te nel mover del bel piede più che ad altri uom, ch'ai mondo oggi sia nato, perché Cupido con dorato telo ferì d'un colpo te con lei, se crede, per lo più singulare a tanto stato.
SONICTI MISSIVI PER COMEDIUM NOTARIUM CORT. ET RESPONSIVI PER DIVERSOS HOMINES AD EUNDEM ET E CONVERSO. S o n ic tu s s e r A n t o n in i p r e s b i t e r i d e M o n te P o lic ia n o a d C o m e d iu m a n te d ic tu m
CXI Ar N e l g lo r io s o p o g g io d 'E lic o n a t e v i d i tr iu n fa r d e q u e lla fr o n d a in a lto se g g io a la p iù d e g n a s p o n d a , d o v e s'u s 'a c ia scu n p o r ta l c o ro n a . F e lic i s o n n o i c o lli d e C o r to n a , c h e p r o d u s s a r ta l f r u tt o , in c u i a b o n d a i l sa c ro b e v e r a g g io , c h e g io c o n d a in fr a le M u s e c ia scu n a p e r s o n a . P e r ò , p o i c h e a b u n d a n te è s t a t o il f o n t e in c re a r t e d e lu i a m p ie o f iu m e d e l s u o c e le s te e g lo r io s o u m o r e , m o s tr a a d a ltr u i la v ia d e l 'e r t o m o n te , c h e a l o r f i e s p e c c h io , a t e v ie m a g g io r lu m e , s p a r g e n d o tu d e q u e l sa c ro lic o r e !
R e s p o n s io C o m e d i i p e r r im a s
Quanto l'ornato tuo metro consona con dolcezza vulgar d'onne error monda, componendo sentenzia alta e profonda, s'io noi posso esplicare, or me perdona.
Naturalmente a somme virtù prona è la tua fantasia, per cui s'asconda molti intelletti, e chi quella seconda satisfa sì che mai non s’abandona. Perché col naturai quando congionte son l ’accidental dote, un pien volume de virtù se compon tutto migliore. Simile avvene a te, che rette e pronte parole ognor del supremo cacume ritrai, creando de sustanzia el fiore.
CXII S o n ic tu s p e r i tu m
C o m e d ii
ad
F ra n cisc u m
P a lm a r u m
A n c o n ita n u m
Ar Veloce già volando senza penne l’inclita fama tua, co’ la qual pronte e splendide virtù vivon congionte, ai miei orecchi subbito pervenne, onde la lingua mia non se ritenne; bramosa di sustanzia, al vivo fonte tuo si rivolta con benigna fronte sol per gustar di quel licor solenne. Però, dolce Francesco mio Palmaro, dimostra alquanto el tuo ingegno sublime prima a me grato e or molto più caro. Benché indegne a ciò sien mie rozze rime, pur niente di meno el tuo preclaro parlare estende, ornato a doppie lime.
R e s p o n s io e iu s d e m F ra n c isc i a d C o m e d iu m p e r r im a s Q u e l f o c o , c h e g ià v iv o m e m a n te n n e in d o lc e g h ia c c io e f é s a lir m e a l m o n te , o n d ’io sc a m p a i d a V a c q u e d e C a r o n te , d a c u i n e su n g ià m a i f e lic e v e n n e , f u s o lo q u e l c h e l ie t o m e s o s te n n e , c h 'io p u r m ir a v a e l v a g o m io o r iz z o n te , s o l c o n te m p la n d o le b e lle z z e c o n te ,
lu r h
c h e o r d a m e v o l t e s o n m o r ta i g e n n e . O n d e d a m e lic o r e a ltr o c h e a m a ro s t i ll a r n o n p u o i e; o r q u i c o n v e n c h 'io s t i m e o n n e m o n d a n p ia c e r e e s s e r e ra ro e d u r a r p o c o . O r s e le n o t e p r i m e f u o r g io c o e c a n to , o r m o } d e n u o v o im p a r o c o m e c o n v e n c h e b e n a m a l s 'a v v im e .
R e s p o n s io
C o m e d ii a d
eundem
F ra n c isc u m
per
r im a s
r e p lic a ta s
Doppi temon tua nave e doppie antenne tien per salvarse, e non corno Fetonte, che i cavai mal guidò con sue grande onte, onde nel caso fortunoso avvenne. La dolce fiamma, a cui già s’apar tenne sopra l ’undose stigie el fermo ponte fabricar per salute de l ’insonte spirito tuo, che remanesse indenne, dimora fra Ì mortali in questo avaro al ben far secol, pien d ’onne brucime, dove diffidi par prender riparo; overo in quel luoco è che se redime con buone operazion che Fuom fan chiaro, lassando vane volontà tanto ime?
CXIII S o n ic tu s C o m e d ii a d G u a s p a r e m in L a p id e
B a r b a m d e M o n te s a n c te M a r ie
Ar Tuo nome eccelso, che per tutto suona, ornato di virtù preclare, induce mia mente vaga a ricercar la luce de la tua fantasia, al bel dir prona, sol per sentir tua lingua, che corona d’alta eloquenzia porta, e ben produce buon frutto, quando a parlar se conduce, sì corno chiar per più se testimona. Sommo conforto e soave diletto
a me sirìa pigliar la virtuosa tua amicizia, quanto a te sol piaccia. Onde priego el sublime tuo intelletto s'operi alquanto e tua man preziosa, che farà più ch'essere a faccia a faccia.
R e s p o n s io G u a s p a r is B a r b e a d C o m e d iu m p e r r im a s
M ir a b ilm e n te in s in a l c o r m 'in to n a u n a lto s t i le s o p r a g li a l tr i d u c e , c h e d a l f o n t e P a rn a s o r e p r o d u c e q u i 7 g ra n p o e ta , c h e 7 v u lg a r c o n so n a . I o n o n h o v is to a n c o r la tu a p e r s o n a , m a e l s a p id o t u o in g e g n o ià s u b d u e e en t u t t o l'a n im o m io p e r m io d u c e v o le r v e , s e 7 v o le r m e s e p e r d o n a . P e n s a r n o n s o s e 7 p r o p r io c o n c e tto o a l tr i p e r p e r i to a v u i m 'a c c o sa ; q u a lu n c h e sia , t e p r ie g o n o n s e ta ccia . N o n s o p e r ò q u a l f o r s e v 'è p o r r e t t o , m a , s e p u r p ia c e a v o i m ia r u z z a p r o s a , s e q u ir l'u m a n p r in c ip io n o n v i s p ia c c ia .
R e s p o n s io C o m e d ii a d e u n d e m G u a s p a r e m p e r r im a s
In quel sacrato monte d'Elicona diadema acquistasti che riluce più che 'n ciel love, Castore e Polluce, dii coronati, corno si rasgiona. El dolce suon del bel parlar mi sprona, e tua sentenzia florida reduce in me franca memoria, e reconduce al mio cor voglia e gran piacer gli dona. Ond'io ritorno al conclusivo effetto, corno fo nota a me, già stando ascosa, tua chiara fama, che onne error discaccia. Un mio compagno, amico a te perfetto, ser Matteo Pergolese, mai non posa mostrarme de l'itiner tuo la traccia.
CXIV S o n ic tu s C o m e d ii a d F ilip p u m
d e A r n o l f i s f lo r e n tin u m
Ar In quel sacrato e sempre ombroso bosco onde Apollo, Anfion, Lino ed Orfeo fuor del licor del fonte pegaseo infusi e scarchi d’onne ingegno fosco, te, nato sotto el gentil aer tosco, vidi e fra gli altri eccelsi, che al dirceo rivo bagnar le labra, ove Museo, Omero e *1 Mantovano ancor cognosco. Adunque, se sì ampia grazia piove sopra l’ingegno tuo e ’n sì gran golfi s’arischia a navigar tua salda barca, piglia la penna in man, Filippo Arnolfi, mostrando a noi cose leggiadre e nove, che arai forse d’error risposta scarca.
R e s p o n s io
e iu s d e m
F ilip p i a d
C o m e d iu m
per
C o m e d io , il m io in g e g n o o s c u r o e lo s c o d e l d o lc e a m a to la u ro d e F e n n e o p e r m ezzo d e poem a, M u se o d eo n o n m e r ta q u a l m o s t r a t e n e l d i r v o s c o ; m a p e r fo r z a d e lim a u n p o ’ m i s fo s c o p e r r is p o n d e r e a l d i r v o s t r o id o n e o e , s e q u a l m e r ita te q u i n o n f e o m ie s t i l , p r e n d e t e il d o lc e e n o n il to s c o . P e r c h é A p o l l o v e r m e g ra zia n o n m o v e ta l c h e s u a fia m m a r e s p le n d a in m i e ’ z o l f i , c o lp a e v e r g o g n a d e m ia v o g lia in ca rca . D o l g o m i in q u e s to e rro r , s e m a i m i d o lf i, c h e o r s a tis f a r n o n p o s s o a v o s t r e p r o v e ; m ’a c h i d à d e q u e l d r i t t o se n va rca .
cxv S o n ic tu s F i li p p i d e A r n o l f i s a d
C o m e d iu m
Ar D a p o i c h e V sa c ro A p o l l o v i r t ù i n f o n d e d e n t r o a l tu o p e t t o e M in e r v a t i g u id a t a l c h e in P a r n a s o o g n i d o n n a t ie n f id a
rim a s
c o r o n a r ti M e tte r n e e s a n te f r o n d e , d i m m i , s e n o v a m e n te v a fra F o n d e d e l m a lo S tig e u n a a lm a e l ì s ’a n id a , s e n e fa n f e s ta V a ltr e i n f e t t e o s tr id a in iq u e , a tr o c i, c r u d e e r u b ic o n d e . P e r c h é , s ’e lV h a n n o r e fr ig e r o a lc u n o , seg n o d e sp e m e e d i p o sa sa reb b e ; m a n e ll* a b isso o g n i d o lc e z z a è s p e n ta . S ’e lle n 'h a n d o g lia , q u i p i e t à p a r r e b b e c h e a v e s s in d i q u e lla a lm a a V aer b r u n o , c o n tr a r o e f f e t t o a lo r t r i s t a s e m e n ta .
R e s p o n s io C o m e d ii a d F ilip p u m
p e r rim a s
Apollo no, né Pallade nasconde furor celeste in me, per qual confida mio debile intelletto over sorrida l ’alma aliena a tal glorie gioconde; ma al tuo dir per satisfar risponde con basso stil, che vuol saper se grida e piagne o goda o pur se stessa allida la turba impia infernal d’anime immonde. Quando un spirto mal nato al ben disgiuno giugne fra ’1 popol van, chi crederebbe non crescere a lor pene e gran tormenta? Non per pietà che sia in la brutta plebbe, ma perché contra abbia sì aspro pruno, per lo più che se pò far la scontenta. CXVI S o n ic tu s s e r l o a n n is A r e t i n i 1 a d C o m e d iu m
Ar P o e t i c o fu r o r , c h e d 'E lic o n a g u s ta to h a i s u o lic o r e e s u e d o lc e a c q u e , s e m a i n e l n o m e tu o fa m a n o n ta c q u e , d e la q u a l fra i m o r ta li o g g i s i so n a , io p r ie g o t e , p e l f ig liu o l d e L a to n a c h e c o lla c a sta su a s o r e lla n a c q u e
1 Dovrebbe trattarsi di ser Giovanni di ser Donato d’Arezzo lettore dello Stu dio il 21 ottobre 1451; da escludere invece l’identificazione con il «ser Giovanni» burlato dallo Za (S tu d io %V, w . 79-120). Cfr. inoltre P o lem ich e e b e r te , pp. 158-9.
n e l l ’is o l e t t a o v e a b ita r l i p ia c q u e
si co rn o d a i p o e t i s i ra sg io n a , c h e , s ’a m ic iz ia p iù e m e n s i s t e n d e o r in q u e s to o r in q u e l corn o l i p ia c e s ta n d o d i l e i il p r im o e f f e t t o s a ld o , c h e n e l p r e s e n te tu n o n m i c o n te n d e , s e v u o i c h ’io t r u o v i r e fr ig e r o e p a c e , d i q u e l p e r f e t t o a m o r c ’h a i c o n R in a ld o .
R e s p o n s io C o m e d ii a d s e r I o a n n e m p r e f a tu m p e r
Inclita, eccelsa e splendida corona de quella amata fronde, a cui già spiacque del sol l ’ingiusto asalto, onde alma giacque conversa in lauro sua casta persona, orna la fronte tua, al canto prona del dolce Orfeo con quel per cui rinacque gran fama a l ’arbor delfica e compiacque sempre al bel viso eh'Arno e Sorga intona. S’al mio debile stato pur conscende tua dircea eloquenzia e l ’audace sermon sonor con stil sublime e caldo, ecco l ’alma, ecco el cor, sicurtà prende ornai di me corno amico verace, che ad amar te ognor più me riscaldo!
CXVII S o n ic tu s s e r l o a n n is A r e t i n i a d C o m e d iu m
Ar I n d i l e t t o , in p ia c e r e , in g r a n p e r ic u lo , in p a u r a , in tr e m o r e , in s o m m a g ra z ia , in f a m e e s e te , in u n a v o g lia sa z ia , in lo n g a v ita , a n z i in e s tr e m o a r tic u lo , o r s o ’ n e l p o r t o e o r s o ’ n e l m a r s ic u lo , o r p a r m ia lin g u a e b r e a , o r m i p a r la zia , o r t r u o v o c h i m ’o n o r a , o r c h i m i s tr a z ia , o r p a r la r s a ld o , o r co rn o s t i z z o c ic u lo . I n ta l d i v e r s it à t u o v e r s o m u s ic o v u o l n e l m io d e b il p e t t o l a u d e in f o n d e r e , c h é d o g lia i l p r e n d e d e l s u o v a r io a r tif ic e ;
p o i v ie ti la g ra z ia tu a , o b u o n c e r u s ic o , ta l c h e s p e g n i il d o lo r e , e n e l r is p o n d e r e m o s t r i d e g li a l tr i i l p i ù p e r f e t t o o p ific e . E s e , p e r E u r id ic e , c a rm in a m o v e s , p o e ta in c lito , illu s tr e , u s c irò f u o r p e r tu e s u ti l i in d u s tr e .
R e s p o n s io C o m e d ii a d s e r I o a n n e m p e r rim a s
Non Tinfimo mio ingegno atro e ridiculo chiama el sonetto tuo, ma l ’audazia del sacro e gran dottor nato in Dalmazia, fonte e fior d’eloquenzia, umile Aniculo. Qual forza ha in sé nostro basso versiculo? Che vai la mente oggi, in cui non si spazia l ’acridalio liquor? Bene è in disgrazia chi solca el mar (corno io) in debil naviculo. Tremo, ardo, aghiaccio e poi nel fin corrusico a tal risposta, ché ’1 vigor confondere s’ingegna onne umor, vii, freddo e malifice. Lo stil, ch’è immite più ch’acro lambrusico, vorebbe volentier se stesso ascondere, ma vuol seguir tue rime alte e magnifice, ché ’1 perfetto aurifice lapillos ornat car più che ligustre; non sona me’ mia fistula palustre.
CXVIII S o n ic tu s s e r lo a n n is A r e t i n i a d C o m e d iu m
Ar E s s e n d o a n c o s m a r r ito in a n z i a l te m p o c h e r A u r o r a in su a o r n a ta g o n n a esca d e l l ’o c eà n , m * a p p a rv e d o n n a in s o n n o , e m ir a r l e i m a i f i e p e r te m p o . E d io , c h e n e i b e ll i o c c h i e n e l s u o t e m p o m e s t e s s o sc o r s i, d is s i: « D e h , m a d o n n a , q u a l g r a z ia m e n a s ì a lta c o lo n n a a V ig n o r a n zia m ia , in c u i m 'a tte m p o ? »
E d e lla : « I o v e n g o q u i d a l f o n t e sa g ro p e r d a r c o n f o r to a l ’a ffa n n o n o ttu r n o , c h e n e l r is p o n d e r t ’era p a r u to ag ro . l o v e , F e b o , l u n o n , M a r te e S a tu r n o , C u p id o , p e r c u i m o r ì M e le a g r o , e V e n e r , c h e fu t a n to in fe s ta a T u r n o , t u t t i n e l d ì d iu r n o tu o v a te c o ro n a r d i m ir to v o n n o ». E d io m e r e s v e g lia i a llo r d a l s o n n o .
R e s p o n s io C o m e d i i a d I o a n n e m p e r rim a s
La dea, che fo nell’infelice tempo emula acerba a la gente ilionna, per far tranquilli i tuoi dubbiosi sonna, dando el soccorso e buon sussidio a tempo, corno a ’nterprete suo de tempo in tempo presta la grazia orfea ed anfionna. O alto don, che sì ratto dissonna virtù in sé, quando vuol, né fa col tempo, eccita me, che nel pensier dismagro per non saper calzar Tatto coturno fuor de Taonio saluberrimo agro! S’io fosse pur da quel bel viso eburno de Bacco alquanto visto, Tumor magro più fertil deverria che ’1 gran Taburno. Se '1 mio verso susurno e Taspre dizì'on sforzate sonno, me scuso ai sermon tui, che tanto ponno.
CXIX * Ar Nei gloriosi e l ’uno e Taltro giogo del bel Parnaso vidi el gentil tribo de le Muse dircee suo nobil cibo largirte in vita e doppo el mortai rogo. Apollo, singular tuo pedagogo, teco parlando disse: « Ornai describo
te fra gli alunni miei, e corno a scribo t’asegno in mio collegio el quinto logo ». Poi lieto prese in man sua vaga citra e cominciò cantando un sì dolce inno che porria far tornar li spirti ai corpi. Al canto ameno e siiave tintinno, de laiir fé compor corona e mitra e tua fronte adornò senza aschi o storpi.
CXX* Ar Spirto celeste a la materna lingua, che le leggiadre rime e *1 dolce stile col tuo facundo ingegno alto e sottile spieghi sì ch’onne uom dotto par ne ’mpingua, non età mai, né tempo fia ch’estingua tua gloriosa fama alma e gentile. Non so qual mente ingenua e senile, secondo el mio iudicio, me’ distingue. Poi che nel saggio petto adunque alberga tal dota singular, mai non s’asconda in te l ’eccelso don dato de sopra; onne imaginazion vii se posterga: Apollo, Orfeo ed Anfion seconda, ché nulla vai virtù se non s’adopra.
O K I**
Ar Se l’infime mie rime e i nudi versi da l ’alta tua virtù degnan resposta, l ’eleganzia e dottrina in te reposta non me celare e i detti ornati e tersi; ché, s’io nel primo scriver non m’apersi, vago del tuo responder, pur disposta mia mente era gentil cosa composta aver da te con suon dolci e diversi.
* S on ictu s C o m ed ii scrip tu s ad M a rio ttu m D avan zatu m floren tin u m . ** S on ictu s C o m ed ii ad a n ted ictu m M a riottu m .
Ma, poi che infine a qui cotal letizia non toccò mai questo quasi arso petto, pregote scriva, a ciò che Tamicizia sia tal fra noi qual già con gran deletto fu fra el fedel Damone e ’1 leal Fizia, o Lelio e Scipion, ciascun perfetto. CXXII S o n ic tu s p r o p h e t i e in c e r ti a u c to r is m is s u s a R a n a ld o C a s te lla n o a d C o m e d iu m a n n o D o m i n i 1 4 5 5 .
Ar I o v e g g io u n v e r m e v e n ir d e L ig u r ia , a v o lt o a d o s s o a d u n a lu p a fe ra , e m e n a d r ie tr o a s é s ì g r a n d e sc h ie ra d ’u c c e llo n m is c h i, c h e la ssa n p e n u r ia ; o n d e e l lio n s e la reca a d in g iu r ia e c o l g r ifo n , c h e s u o v ic in o im p e r a , b a sc ia la v o lp e e p o s c ia la p a n te r a , o n d e e l c a v a i s f r e n a to g ià n e fu ria . E q u e s to g li a d e v ie n p e r ò c h e 7 m o n te , c h e h a e l s u o s o p r a n n o m e d ’a n im a le , sp a r g e t r o p p o d e l ’a c q u a d e su o f o n t e ; d i c h e l ’u c c e l d e G i o v e b a t te l ’a le e p a s s a u n a a ltr a v o lt a R u b ic o n te , p e r fa r m u g g h ia r la v a c c a p r o v e n z a le .
S o n ic tu s C o m e d ii r e s p o n s iv u s p e r rim a s a d R a n a ld u m C a ste lla n u tn v ir u m g r a m m a tic u m
Impì auspici e crudeli auguria mostrano i cieli a questa alma e sincera fertil region nostra, inclita, altera, gloriosa e gentil vetusta Etruria; e massime a quella arca de lussuria che alattò el gran Quirin, prima lumera de gli antichi Romani, onde severa giustizia nacque per malizia spuria. Poi pare ancor che a ciò col dir sien pronte le profezie, minacciando tal male, quando scrive che insegna vien per ponte. Qui vederen qual zucca tiene el sale e qual sirà la più provata fronte con iudicio perfetto e naturale.
CXXIII * Ar Gionto or forse è, compar, quel vaticinio molti anni fa descritto per astrologi, non materia da stolti ma teologi, vaga a lo studio quanto Livio o Plinio. Ma qual mente gentile oggi ha el dominio de le cose future? Anzi anfibologi e sofisti vacillan con lor prologi e gran cartafilati ornati a minio. , Parme per certo in questo tal principio del vero esser secreti sì gl’indizi che mal se pò saper con breve spazio l ’eccelse imprese, onde el senno de Scipio me par rinasca ed i leggiadri artifizi d’Anibai già con tra el paese lazio.
CXXIV ** Ar Tu, che quei sacrosanti e gloriosi gioghi del bel Parnaso ai teneri anni abitasti gran tempo e i degni scanni d ’Apollo e l’altre Muse, a te graziosi, e sotto l ’ombra dei luochi amorosi del vago bosco aonio i lieti affanni nutriva ognor, fuggendo i chiari inganni de la gente vulgare e i dir noiosi, per quel gentil liquor, che del dirceo fonte stillava, onde esser sazio accenna a noi tuo gusto ottimo e perspicace, piglia la lira, dal sùave Orfeo a te donata, e colla dolce penna publica i sonor versi e *1 canto audace.
* S o n ictu s C o m e d ii a d R an aldu m C astellan u m gram m aticum co m p a trem su u m . ** S o n ictu s C o m e d ii ad B atistam A rn o lfu m floren tin u m .
CXXV S o n ic tu s C o m e d ii a d la c o b u m N ic o la i d e D o n a tis f lo r e n tin u m
Ar Se ’1 basso ingegno mio, la man, lo stile son forse idoni a far tua voglia sazia, a me fia singulare e speziai grazia servire uno uom sì chiaro e sì gentile, per l’alta fama e virtù già non vile •de l ’esquisita oggi eloquenzia lazia, che non poco or, corno intendo, se spazia nelFintelletto tuo tanto sottile; onde, s’io posso o vaglio alcuna cosa, ecco la fantasia, l ’opera e Parte sempre a ciò pronte, preste e ben disposte. Adunque, a noi l’intenzion tua nascosa manifestar porrai de parte in parte per lettere o ’mbasciate ad altri imposte.
R e s p o n s io l a c o b i a n t e d ic t i a d C o m e d iu m B e n c o g n o sc o io p o t e r m i d ir e in g r a to , C o m e d io s o a v is s im o e b e n e g n o , c h e s ì e c c e d i g li a ltr i c o n tu o in g e g n o , a v e n d o a t e r is p o n d e r r ita r d a to ; e d a n c o r c h e d a l d e l m e sia n e g a to p o t e r d e i tu o i e q u a i g iu g n e r e a l s e g n o , p r e g o n o n fa c c i m e d i t e in d e g n o , c h é m 'h a i c o i v e r s i t u o i s ì o b lig a to . C e r to le tu e o f f e r t e n e s o n g r a te e la l e t t e r a a n c o r m i g u s ta a ssa i e 'n b r e v e d is p o r r ò c h 'in te n d o fa re , e p e r l e t t e r e a t e m ie s ig illa te l ' e f f e t t o d e l m io a n im o sa p r a i, c h é p e r s e r v i r s o t'h a i a *n d u s tr ia r e -
S o n ic tu s C o m e d ii r e p lic a tu s p e r
rim a s a d a n te d i c t u m
E1 tuo gentil sonetto alto ed ornato, che par composto al penneo sacro regno, onde Muse e poeti acquistar degno e chiar nome, fra noi ognor laudato, ha di mirto e d’allor già circundato tua fronte e tuo bel capo tutto pregno,
la c o b u m
e delegatizia e d’arte util sostegno ed ornamento a quale uom regge stato. Ed oltra a ciò per sua benignitate e grande umanità non porria mai, benché volesse, al tutto in pruova errare, ché parole sì dolce e costumate usan sue rime adorne e i versi gai, che arien forza le pietre inamorare.
CXXVI * Ar Qual gentil, glorioso, inclito ingegno, nato in Campagna sotto i caldi raggi del sacro Apollo, e nutrito dei saggi liquor de Cirra e Dirce al dotto regno, sento io cantar con poetico segno e grave stil per le toscane piaggi, a l ’ombra d ’alti pin, lauri e faggi, le cui fronde ornar già quel crin sì degno? Non voce d ’Anfion, canto d’Orfeo, non suon d ’uom vivo ch’oggi merti mirto fu mai sì dolce, egregio e sì sublime. O singular facundia, o divo spirto, te priego m ’ami, e ’1 mio vulgar pigmeo non desprezzar colle sforzate rime.
. CXXVII S o n ic tu s d a tu s C o m e d io u t r e s p o n d e a t i n c o g n iti a u c to r is
Ar A m ic o e s p e r to d e ta n ta v ir tù c h e d e le q u e s tio n fa i n o e s ì, v u o i} te p reg a r che m e re sp o n d a e d i * p e r c h é s ta r s u g e t t o io e s ig n o r tu . Q u e s to g e n e r a lm e n te e è e f u ; d ’A d a m n a s c e m m o e d a l u i s è n n o i q u i. S e s a p a r a n n e d i r p e r c h ’è c o s ì, p o e ta io t e d ir ò d e g iù e su .
S o n ictu s C o m e d ii a d lo a n n e m A n to n iu m C am panum .
E s ì t e g iu r o e d ic o in b u o n a f é , s ’tu m e d e c h ia r i o r b e n p e r c h é è s ì m o }, a le g r e z z a d e c iò s ir à in m e . A lc u n m a e s tr o d o m a n d a to io n 'h o ; h a n n o m e d e t t o c h 'io re c u rg a a te , p e r ò la q u e s tio n t e m a n d o e d o . S o n e tto , v a ' a q u e l c h e t u t t o sa ; n o n t e p a r tir s e r e s p o s ta n o n fa.
R e s p o n s io C o m e d ii
S’io fosse dotto quanto Belzabù d'onne scienzia, el tuo dubbio esponi', squadernando la Bibbia e ’1 Genesi; ma mal pò dir chi ne sa men ch'un gru. Colui che nacque tra l'asino e '1 bu tòi per essemplo, che '1 mondo avili, e pover visse e pover se morì. Chi altro cerca non intende più. Specchiate ben nel santo Moisè, che D io padre superno tanto amò eh'a li terren tesor de calce dè; David ancor, che umil servo e re fo, superbia vinse già per salvar sé e dominio e ricchezze desprezzò. Nudi nascemo, onde a la povertà sugetti sèm, ché natura cel dà.
CXXVIII S o n ic tu s C o m e d ii a d G a m b in u m A r e tin u m
Ar Se nel gentil, leggiadro, ornato chiostro del pronto ingegno tuo dolci exquisiti vocabul, rime e versi alti e fioriti albergan quanto in altro al tempo nostro, che fai? che pensi? a che tanto a l'inchiostro carta e penna perdoni? O sensi arditi, corno potete star sì sbigotiti, sopiti e morti a l'essercizio vostro? Poi che de sopra in voi tal grazia versa, repigliate le forze e l'eccelse opre
publícate con fama altera e scorta. Sia taciturnità vinta e sommersa, che poco vai saper se non se scopre, e senza uso e frequenzia è virtù morta.
R e s p o n s ió G a m b ir ti d ir e c ta a d l o a n n e m A r e t in u m q u a c r e d id i t ip s u m m is is s e e i s o n ic tu m s u b n o m in e a lte r iu s c a u sa d e c e p tio n is u t in te r d u m i n t e r e o s e r a t c o n s u e tu m V i e n c o s tu i d a l l e v a n t e o v ie n d a ll'o s tr o , o d a l f iu m e P e n n e id o o d a ' s u o i l i t i , c h e v a e s s a lta n d o i m ie i s e n s i i n v il i ti , co rn o io m e r la s s i a v e r c o ro n a d 'o s tr o . V i s t o m e p a r e a v e r e u n n u o v o m o s tr o , g u a rd a n d o i v e r si s u o i te r s i e p o liti; c e r to i s u o i a n d a m e n ti s o n n u d r i t i fr a G i o v e e A p o l lo , e n o n d a l s e c o l n o s tr o . D e h , n o n m i d a r, G io v a n n i, ta l tr a v e r s a c h e c o l n o m e d ’u n a ltr o t e r ic o p r e ; v u o i m e t u fo r s e f a r f a llir la p o r ta ? B e n c o g n o s c o io la v e s ta g ia lla o p e r s a ; s ì, s e d i v o p o e ta e i v ie n d i s o p r e , tu o c a v a llo è s ì b u o n c h e t i tr a s p o r ta .
CXXIX S o n ic tu s A n t o n i i S a n m in ia te n s is a d C o m e d iu m
Ar D a v a n t i a G i o v e , p o i e h 'è 7 g ra n T if e o e g li a ltr i v i n t i d e te r r e n a g e s ta , c o n c h io m a d 'o r o e c o n to g a ta v e s ta A p o l l o n o n s ì d o lc e c a n to fé o . N é d e n t r o a m e z z o e l r e g n o p lu to n e o , p e r d a r d i v it a la s e c o n d a t e s ta a la su a d o n n a la c r im o s a e m e s ta , n o n s o n ò s ì s o a v e m e n te O r f e o q u a n to in c o m m e n d a z io n d e l v is o b e llo , c h e a d o m b r a d i b e ll e z z e i l p u lc r o b a llo , s o n a s ti c o lla lir a e c o l m a r te llo . O n d e io t e v e g g io s u l g o r g o n c a v a llo e s e n to D a n n e s c ó r r e u n a r b o s c e llo , e v u o lo a le tu e c h io m e c o ro n a llo .
R e s p o n s io C o m e d i i a d p r e d i c t u m
A n to n iu m
p e r r im a m
Difficultà non minima a Museo almo, ad Anfion sarebbe or questa gentil dea mortai, pudica, onesta laudar, non che al mio verso plebeo. E1 gran pastor, che prima ridumeo ramo reporta a Mantua con festa, fatica arebbe a far ben manifesta tanta beltà con suo stil semideo. E1 forte Ercole ancor, che in Mongibello descese arditamente non in fallo, quando Cerber ne trasse iniquo e fello, non aria forza el lucido cristallo far dal proprio color già mai rebello, non ch’io rauco in gabbia papagallo.
CXXX S o n ic tu s C o m e d ii a d I o a n n e m A r e t in u m g r a m m a tic u m
Ar Mentre a l’ordita tela io volto el subbio, pingendo col mio stile in versi ghiotti de Marzial faceto i dolci motti, m ’occorre a l ’intelletto orribil dubbio: son doi navil de’ Cristian nel Danubbio circundati da’ Turchi ed alfin rotti; preso è el miglior carco de gentilotti (caso amar più ch’assenzio over marubbio), sopra el qual siede una regina gravida, che incarcerata fa el fanciullo e poi par perda in parto sua facunda lingua. E quivi così sta col figlio pavida dieci anni o più a tal tempo. Per voi se ’1 mammol parla o no or se distingua.
R e s p o n s io I o a n n is A r e t i n i a d C o m e d iu m p e r r im a s M e n t r e n e l tu o s o n e t t o p e n s o e d u b b i o , p i n g e n d o d e n a tu ra i m o d i d o t t i e d e l m io c u o c o i s u o i g e n til b i s c o t t i , m 'o c c o r r e a l p e n s ie r b ia n c o , o r n e r o , o r r u b b io . A l t r o p o m e m e p a r c h e a p p iu o lo o g u b b io
e m a le d ic o i T u r c h i, i M o r i e i G o t t i , c h e n o n è p a s to d a c e r v e l c h e t r o t t i i n v e r d e S ie n a p e r a n d a r e a U g u b b io . M a p u r la m e n te m ia , a l s o l v e r a v id a , f a n ta s tic a n d o v a c o i p e n s ie r s o i e v u o l c h e u n a n ’a c c e n d a e l ’a ltr a e stin g u a . N a tu r a , e h ’è in s é p e r f e t t a e v a lid a , o r g a n iz z a to h a t u t t e p a r t e in n o i, m a p r a tic a c o n v ie n c i a d o t t i e ’m p in g u a .
CXXXI S o n ic tu s C o m e d i i a d l o a n n e m A r e t in u m e t s o c io s c e te r o s t e m p o r e p e s t is a n n o D o m i n i 1 4 5 6 t e m p o r e a u tu m p n a li.
Ar O poveretti miei compagni cari, ass a5 me duol vostra desaventura, perch’io ve veggo non aver paura de quella, al cui furor non son ripari! E pur sequite pessimi contrari; a la vostra salute pò natura alquanto contrastar, ma la matura pesca alfin cade e non vai doi denari. Voi senza ordine alcun vivete sciolti per ben pappar, credendove esser salvi, derotti al giuoco in mezzo ai maggior cerchi. Guardate pur che non siate racolti fra gli altri già d’umana vita calvi, per poca cura e per troppi soperchi.
R e s p o n s io I o a n n is A r e t i n i e t s o c io r u m a d C o m e d iu m O f o lle , e i t u o i p e n s ie r q u a n to s o n v a ri, q u a n to è V o p in io n tu a c ie c a e d o sc u ra , d iv e r s a d a la n o s tr a , s e n z a c u ra o te m a d e f u t u r c a si a v v e r s a r i! Q u a c i tr o v ia n n e i n o s tr i sa n tu a r i, f u g g e n d o f r e d d o e d iv e r s a c a lu ra , v iv e n d o a lle g ri, a D io c o n m e n te p u r a p r o n ti a s e r v ir co n s e r m o n c a s ti e rari. M a v o i, s e lv a g g i m o n ta n in i s t o l t i , s t e n ta n d o , r i v e d i a n v i s m o r t i e s c ia lv i
p e l v i v e r fr a le c a p r e e ’ lo r o s t e r c h i; e p o c o a n c o ra il fu g g ir v o s t r o v a iv i , p e r c h é q u i r e to r n a r n e v e d ia m m o lt i c o n f e b r e a c u te e c h i c o n n u o v i m e r c h i.
CXXXII S o n e c to d e s e r G io v a n n i d ’A r e z z o m a n d a to a C o m e d io Ai O v e r c o g n o s c ito r d e l ’a e re f u s c o , d i c u i s o n V o p r e s e m p r e p iù p e r f e t t e , a l b ig o n c ia io n o n v a i s u e c a n z o n e tte , p e r c h é n e l l e t t o g ia c e c o m e lu sc o . E p i ù ce n e s o n c ’h an p r e s o a m a ro tu s c o ; F ilip p o e 7 T e s ta c o lle lo r s a lm e tte h a n f a t t o m a z z o , p e r c h ’a ta le s t r e t t e n o n c i v a i p i ù p o r ta r e s p o g n a o m u sc o . P e r ò f a ’ c h e m i t r u o v i u n b e l tu g u r io , c h ’i ’ h o 7 c e r v e l g ià p ie n d i m a r a v ig lia e v e g g o a p a r e c c h ia r m e t r i s t o a u g u rio . O p r a p e r m e e p e r m e t ’a s o tig lia , c h é co rn o fe b r ic o s o lio n fu r io e d ’u n d e i m ie i v a sa r q u a s i b is b ig lia . l o h o la m ia fa m ig lia m a n d a ta ’A r e z z o a f o r n ir l ’a u tu n n o , p e r is c h ifa r c o n tr a la p e s t e i l c u n n o .
R e s p o s t a d e C o m e d io p e r le r im e
Non è qua su fra noi sì folto busco, né valli in questi poggi sì sospette ch’io non ricerchi; e vita ne promette d’arboscello onne foglia, onne lambrusco. Un fiumicel quasi in fondo corusco con sue chiarissime onde terse e nette, sopra le dolce rive verde erbette, castagne fresche e saproso vin brusco me fan viver contento. Io non ingiurio altro che pesci, uccelli, lepri; e ben piglia preda assa’ el nostro ordegno, onde un gran Curio me truovo in questi monti, e sella e briglia metto a questo e questo altro; né Mercurio
temo più, né Saturno o gli aspri ciglia de quella che simiglia in vista Eolo irato con Nettunno. Viene adunque e sirai di fauni alunno.
CXXXIII S o n e c to d e C o m e d io m a n d a to a s e t G io v a n n i A r e t in o
Ar Giovanni mio, non è tempo da matti; goder se vuole e fuggir tal tempesta, or cercar questa ed or quelPaltra festa, schifare infermi e altri mal contratti. Usa con compagnoni aiegri e atti a far buon tempo, e fa* ch’a l’ora sesta doi volte quel tribian d’Anton del Testa salutato abbi, e non manchin tai patti. Filippo con Cristofan me saluta, Anton del Testa, Tomasso e lo Spina e ’1 gentile uom che a scacchi non refiuta, Iacopo ancor, ohe mena tal ruina colli scacchi di Iacomo, perduta c’ha la donna o l’alfino, e puoi se sbrina de dar per medicina un pugno al gentile uom nella cacioppa, più ch’io al zugarel dolce faloppa.
R e s p o s ta d e s e r G i o v a n n i p e r le r im e O n o s tr o m o n ta n in , c o n p e n s ie r r a t t i a l s o m m o d e l , d e c a sta g n e u n a r e s ta f a ’ c h e c e m a n d i, p e r c h é g ra ssa te s ta u n to h a la s tr o z z a c o n s u o i n u o v i im b r a tt i . E d o n n e d ì fr a n o i s i fa b a r a tti: c h i sa lsa e c h i s a v o r , c h i p e p e p e s ta e c h i p r ie g a c h e 7 ta s s o v e n g a in c h ie s ta , p e r c h é d o v e n o n r o d e i v i n o n g r a tti. E p e r fa r b e n la c o sa a ssa i c o m p iu ta , p e r n o i s ’è s u g e lla ta la d iv in a , c h é l ’e n tr a ta d e l ’u s c io s i s ta m u ta ; e rin g r a z ia ta e lla è o n n e m a tin a , e c o n n u o v i c e r v e l s i b e v e e f iu ta t r e v o l t e o q u a t t r o , in fin c h e 7 s o l s i c h in a .
Q u e s ta tria c a fin a d a o n n e p e s t e c i s c io g lie e s v i lo p p a , si c h e a b u o n v e n to n a v ig h ia m o in p o p p a .
S o n e c to d e C o m e d io r e p lic a to p e r le m e d e s im e r im e e m a n d a to a l d i c t o s e r G io v a n n i
Non so se Vener con suoi gesti adatti o Diana o sua ninfa per foresta mai tal se vidde qual l ’inclita onesta nostra Perilla, dai dolzi scarlatti -labruzzi e fresche guance far gran fatti, ballando corno un daino aiegra e presta, al cui passar dolcezza manifesta mostravan piaggi e poggi, i più disfatti. Questa è salsa e savor, questa è la ruta, questa è testa che fa buona cucina, questa è vivanda assa’ ben cognosciuta. Dissi io quando la vidi: « O peregrina rosa gentil, tu sia la ben venuta, conforto del cor mio, alta regina! » O progenie aretina, ornai da la pigrizia te disgroppa e vien qua su, che aremo stanza troppa! CXXXIV * Ar Serenissimo principe animoso, sotto la cui potenzia or lieto e franco vive el Biscion lombardo sol già stanco dal senno e sforzo tuo vittorioso, el fiore italian fresco e gioioso, el cui color già mai non venne manco, né verrà, credo, infin che accosta el fianco al nuovo Cesar suo sì glorioso, in te se fida, a te sol rende onore, in te unico spera e te solo ama, conculcator de rinimica parte. Non dubitar, ché quel che Cristo chiama intra i figliuoi de le donne el maggiore mantien tuo partesgian l ’invitto Marte.
S o n ecto d e C o m ed io fa tto p e r lo co n te Francesco qu an do era duca d e M ilano,
CXXXV S o n e c to d e S e r G io v a n n i A r e t in o a C o m e d io
Ar I o h o d e n o v e p ie n a u n a fa ls a ta , n o n d i q u e lle c h e 7 v u lg o s p e s s o so g n a , m a s o n o u s c ite f u o r d ’u n a gra n fo g n a , c h ’è t u t t a d i b a m h a sg ia a v il u p p a t a . S e tu le v u o i s a p e r e , u n a in sa la ta c i m a n d a , c o lta a l s u o n d i tu a s a m p o g n a , e s e n tir a i q u e l c h e d i q u a s*agogna, c h é 7 S a r c h i n e fa rà b u o n a im b a s c ia ta . E s a p a r a i s ì c o m e a l S e t ti c o ll e tr e c a r d in a i tr a m o n ta n s o n c r e a ti e c o m e i l P ic c in in c o l re s o g io rn a , e d u d ir a i s ì c o m e a P o n t e M o lle i D u c h e s c h i o r a i o r s o n o a n e g a ti e c o m e la tu a va cc a a l n id o to rn a . E c o n a m b o l e co rn a risc a ld a q u e s to e q u e lV a ltr o o r iz z o n te , e t u p u r , M e lib e o , t i s ta i a l m o n te .
R e s p o s ta d e C o m e d io p e r le r im e a s e r G io v a n n i
Non so che guazzabuglio o che imporrata over novella piena de menzogna da un mortai nimico de Bologna me scrivi esser di nuovo recitata, cioè che il Piccinin la sua brigata lassi e sia or col re. Odi, uom da gogna, non li creder, ché fa corno la spogna che piglia la chiara acqua e dà brodata. Or dimme un poco ancor qual fia quel folle, avendo in tutto i sensi alienati e la memoria simplice e musorna, che creda che quel sol, per cui si bolle ed arde il petto mio nei più beati tempi, a voi venga con sua faccia adorna. Presto adunque ritorna a chi t’ha tali e tante busgie conte, e di’ che Silen canta a’ piei d ’un fonte.
CXXXVI S o n e c to
de
C o m e d io
m a n d a to
a
G a m b in o
d ’A r e z z o
Ar Gambin mio dolce, questi tuoi mottetti che ascrivi al Golia, a Draghinazzo, a Cacco ed altri assai, dei quali hai colmo el sacco, sì leggiadri, puliti e pronti detti, te dan gran fama, e ’n amarte han costretti mille spirti gentil. Tu pare un Fiacco, un Lino, un Maro, onde io, cervel da macco, sprezzo miei versi, rime, arte e sonetti. Che pur volem col nostro accidentale e retorica alzarce al paradiso, tanto che a pena ce ’ntendian noi stessi? Gambin, non te partir dal naturale, se vuol gloria perpetua, ch’io t’aviso che simil doni a pochi son concessi.
R e s p o s ta d e G a m b in o p e r le r im e C o m e d io m io g e n t il , t r o p p o t ’a s e t ti p e r e tte r n a r e u n G e ta , u n m is e r C ia c c o , i m p e r f e t to , i d i o t o e v in to e str a c c o , c o p io s o d 'e r r o r , p ie n d i d i f e t t i. M a tu , d i v o , le g g ia d r o in fr a g li e l e t t i v ir g ilia n i, o r a z ì e p iù c h e G r a c c o , c o l p o e ti c o s t i l m i d o n i sc a cco , p e r c h fa g iu s ta tu a p o s s a in d e l m i m e t t i. N o n è m io b a ss o in g e g n o a l tu o e q u a le , a n zi a o n n i p o e m a o g n o r d iv is o m a te r ie in f im e e b a s s 'i m ie i p r o c e s s i. E g li è tu a g ra n v ir tù c h e p ò e v a le c o ll'a p o llin e o d ir , s 'io m ir o f i s o ; p e r ò t e m p o è c h e p e r m io d i o t'e le s s i.
CXXXVII * Ar Piange Polimia e Clio coll’altre Muse, duolse Minerva e ’mpalidisce Apollo, * S o n ecti d e C o m ed io m a n dati a ser R an aldo C astellan o in una sua certa avversità.
secco è il Parnaso irriguo e già mollo, e le vene castalie tutte ottuse per Tinfelice caso; e son diffuse saturnine influenzie, e dè tal crollo Cerbar, c’ha fatto franco il duro collo: per noi regnan Megere oggi e Meduse. D ’ira, di rabbia e de dolor me rodo, ch’io sento lamentar campagne e piaggi e dintorno i vicini, ognun d’un modo. Già non cognosco cor tanto selvaggi che non li pesi il durissimo nodo, che ve tien fuor dei vostri alberghi saggi.
CXXXVIII Ar Se l’impie stelle, ai giusti ognor nemiche, e i crudi fati iniqui, acri e perversi ne fan contra, che giova pur dolersi? che vai giugnere al mal tante fatiche? Tu sai, compar, che nelle storie antiche e moderne se legge de diversi uomin famosi, alfin per casi avversi già posti in miserie infime c mendiche, e de minimo stato in nobil seggio, corno Camillo e l ’ardito Aniballe: l ’un de vii sommo e l’altro d’alto in basso. Onde spera e sta’ forte, ch’io chiar veggio doppo un gran monte una profonda valle, e truovase nel dado il sei e l’asso.
CXXXIX S o n e c to d e S e r G o r o
da P o p p i
Ar I o f u o i g ià , A m o r , n e i t u o i la c c i s ì *n v o l to c h e l i e v e r ip u ta v a P a lm a t r i s t a a v e r la sc ia ta q u e s ta lu c e m is ta ; p o i s e n z a s p e m e g ra n t e m p o d i s c io l t o . O r s o n r ip r e s o , m e r z è d i q u e l v o lt o c h e s e m p r e l ie t o m e s i m o s tr a in v is ta , v o lg e n d o v e r s o m e s ì g ra ta l is ta c h e sa n za m o r t e m a i m i sa rà t o lto .
N é m a i t r o v a i in c o r d i d o n n a p a c e c h e r a te n e s s e u n s o l c a ld o s o s p ir o d e l la s s o p e t t o , c h e a r d e a corn o fa c e , s e n o n c o s te i, i c u i b e g li o c c h i m ir o c o l d o lc e s g u a r d o c h e 7 c o r m e d is fa c e ; p o i d i s p e r a n z a e l c o n f o r to e r e s p ir o .
R e s p o s ta d e C o m e d io
Se ’1 nudo arder mendace e crudel molto, d ’aparente rasgion sommo sofista, famoso tanto ed onorato autista da ciascuno insensato, insano e stolto, t'avea già sazio, stanco e ’nfin rivolto dal suo ignar collesgio, quale artista da poi consuma, afflige, arde e contrista el tuo cor vii, da van pensier sepolto? Quanto più util t’era le fallace speranze conculcar ohe tal martiro aver nel petto e sì mortale antrace! Ormai te desta e non star corno ghiro dal sonno vinto, entra in la via verace e non stimar degli occhi un falso giro!
CXL S o n e c to d e C o m e d io m a n d a to a s e r G i o v a n n i A n t o n io d a P o p p i
Ar Desceso Apollo del celeste coro vidi e Minerva e con lei Faltre Muse star nel Parnaso, corno più volte use, tutte distintamente ai luochi loro. Vidi denante al sacro concistoro Giovan da Poppi far diverse scuse, ma pure infine al tutto se conchiuse sua fronte ornar del glorioso alloro. Onde Apollo e Minerva aiegri e saggi al nuovo vate allor de sante fronde coronar le leggiadre e degne tempie. Così per le fiorite e verde piaggi, Giovanni mio, te vidi fra chiare onde gloria acquistar, ch'el cor de disio t'empie.
R e s p o s ta
d e s e r G i o v a n n i A n t o n io
p e r le
r im e
Q u a l d i v i n v a te o q u a l d e g n o te s o r o d 'e lo q u e n z ia , d 'in g e g n o e d 'a r t i in c lu s e , o q u a l v ir tù s u p e r n e t a n t o in fu s e n e l p e t t o u m a n d 'a lc u n g ià m a i s p ir o r o , o q u a le a lto c o tu r n e o la v o r o s 'u d ì g ià m a i c h e n o n fu s s in c o n fu s e d a l t u o p o e m a , n e l q u a l s o n d if f u s e le M u s e t u t t e d e l p a r n a s e o f o r o ? I n t e , v a te n o v e llo , i s a c r i ra g g i e l f ig liu o l d i L a to n a s p ir a e 'n fo n d e , t e d e l l ic o r c a s t a lio M in e r v a e m p ie ; e n o n l i v e r s i m ie i r u d i e s e lv a g g i m e r ta n c o ro n a , n é s o n s ì p r o f o n d e m ie r im e c o m e d i'; m a n u d e e s c e m p ie .
R e s p o s ta d e C o m e d io a s e r G io v a n n i A n t o n io p e r le m e d e s im e r im e
L’alta eloquenzia e ’1 vago stile onoro e le virtù nel tuo ingegno precluse e desprezzo mia mente, arca d’ottuse intelHgenzie, e ’nfiammo e discoloro; onde dal magno Orfeo aiuto imploro, che già gl’inferni spirti tanto illuse con sua dolce armonia, d’acque aretuse e pegasee nutrito al secol d’oro, pregandol pur che i sacri beveraggi d ’Elicona gustar me faccia, donde ciascun poeta se sazia e riempie, a ciò ch’io sotto mirti, lauri e faggi del bosco aonio con rime faconde demostri quanta gloria in te s’adempie. CXLI S o n e c to d e s e r G io v a n n i d a P o p p i m a n d a to a G a m b in o d ' A r e z z o
Ar L a fa m a c e le b e r r im a e s u b lim e d e l tu o p r e c la r o in g e g n o , o G a m b in m io , lo s t i le e g r e g io e d il c a n ta r g iu lìo d e l e t u e v a g h e , m a g n e , o r n a te r im e , ta n ta b e n iv o le n z ia e g r a z ia o p im e t'h a n n o a c q u is ta to e m e s s o n e l d is io
d e V in c lito m io p r e s i d e , c h e io g ià m a i n o i p o t r e ’ d i r q u a n to t e s t i m e . P e r ò n o n d in e g a r la tu a p r e s e n z a a c h i la c o n c u p is c e e ta n to b r a m a , b e n c h é t i d o g lia f o r s e la p a r te n z a ; m a p ia c c ia ti e s s a lta r la tu a g ra n fa m a c o n q u e s to m a g n o s ir p ie n d i c le m e n z a , c h e ( c o m e v e d i ) a s é t 'i n v i ta e c h ia m a .
R e s p o s ta fa c ta p e r l e r im e d a s e r C o m e d io a s e r G i o v a n n i d i c t o a } p r ie g h i d e C a m b in o
Qual divin fato o quale umano archime, qual poetico canto antico e prio ha l ’ignoranzia in te posto in oblio, corno uom che imitar vuol le norme prime? Che i miei versi sforzati e sentenzie ime ne l ’infimo mio stil, più vii ch’un fio, equiperar non san tuo dolce e pio parlar facundo, ornato a doppie lime. Scusase adunque nostra lira senza arte e suavità, ma d’udir grama l’amena psalmodia, l’alta eloquenza; pur tantosto verrà con verde rama d’alloro a vostra gran magnificenza, per adornar la fronte, a cui tanto ama. CXLII S o n ittu s B o n o n ie n s is
Ar S u o l c o n v a g h e z z a l ’u o m t u t t o g e n tile , c h e v u o le al m o n d o in fa m a e s s e r p r e s ta n te , O r f e o s e g u ir e e fa r s e d e g n o a m a n te d ’o g n i a t to v ir tu o s o e s ig n o r ile . Q u a l c o n M in e r v a in u n le g g ia d r o s t i le d im o s tr a l ’o p r e s u e d i v i n e e s a n te , q u a l M a r te s e g u e c o n v o le r c o s ta n te , n im ic o d ’o g n i i n e r te e v i v e r v ile . M a , p e r c h ’io v e g g io d u b i t a r s o v e n t e là d o v e in a t to a lc u n o o n o r s ’o f f iz ia q u a l p r o c e d a d i lo r o o s ia p i ù l e n te , r ic o r r o p e r s a p e r lo a tu a p e r iz ia , p r e g a n d o te c h e m o s t r i a p e r ta m e n te q u a l s ia p i ù d e g n o : o s c ie n z ia o m iliz ia .
R e s p o n s io A g a m e n o n is
Muovonse a seguitar l’alme virile le due madonne per lo mondo errante non sol per farse in fama etterna ovante, quanto per bear puoi l ’età senile. Chi fusse re da Traprobana a Tile non siria sì di dolcezza abondante come chi segue le loro orme spante per l ’universa terra nostra umile. Milizia tra* colui de vulgar gente e fai beato che segue iustizia ed ha bona fortuna e sana mente. Scienzia dà de’ miglior ben notizia a le nostre alme che in fantasma sente, e l ’intelletto n’ha maggior letizia.
A l ia r e s p o n s io H a n n ib a lis
Qualunche vuol di luoco basso e umile salir del mondo a fama triunfante convien che segua Torme radiante di quelle che tu mostri in dir sotile. Ma benché Tuna e l ’altra al suo ovile mostra la luce sua più sfavillante, non è però che Tuna più micante non porti al col che l ’altra el car monile. Milizia a chi lei segue virilmente dà di presenti e mortai ben notizia e trailo a voi d’oscura e vulgar gente. Scienzia al ciel salir sola se inizia, e quanto più del bene etterno sente tanto in più chiaro e degno albergo ospizia.
A l ia r e s p o n s io J o a n n is r o m a n i
Deh, va’, dormi in servizio in un fenile, novel Petrarca, imitator de Dante, omuncol che te stimi esser gigante; va’, guarda i porci e statte in qualche ovile! S’tu portasse per lancia un campanile e cavalcassi sopra uno elefante,
non sireste però se non pedante, ché te gonfi nel dir come un barile. Taci, ché se ne perda la semente. Che sai tu d ’arme, tu, somma tristizia, o de sc’ienzia, misero dolente? Van mentecatto, reo pien de nequizia, che spetti? che ’1 tuo dir qua se comente? cucurlurù, ch’egli è passa’ in Galizia.
A l ia r e s p o n s io C o m e d ii
L’opposizione e controversia ostile de Siila e Mario già tanto arrogante, de Cesare e Pompeo, l’un l’altro ostante, sempre amator de la guerra civile, da quale ingegno ottuso e puerile fie laudata, e qual pò la sonante tuba salustiana mal parlante de Tulio sì spresgiar pregna de bile? S’Alessandro, Aniballe e quel prudente Scipion fuor famosi con sevizia e forza, fèr qualche inconveniente; ma Mar, Plato e Solon, per cui s’indizia non sol che fu, ma ’1 futuro, el presente e ’1 viver bel, non dien tener primizia?
A l ia
r e s p o n s io
R a n a ld i C a s te lla n i
M iliz ia , n e l c u i g r e m io e b e l c u b ile a lb e r g a n p a c e , lib e r t à e q u a n te d ig n ità , m a g is tr a ti e le g g e s a n te in s é c o n te n e e l b e l v i v e r c iv ile , r im e d io e s c a m p o a d o n n e i m p e t o o s tile , d e g n a è , s e c o n d o m e , a n d a r e in a n te a s c ie n z ia e q u a lu n c h e a ltr a o n o r a n te o p e r a u m a n a , b e n c h é a lta e v ir ile : c h é m ig lio r f u p e r R o m a v e r a m e n te a v e r C a m illo e S c ip io co n p e r iz ia d 'a r m e c h e t u t t a la to g a ta g e n te . S ’io d o s e c o n d o i m e r ti la p r im iz ia , e l tu o p r in c ip e e l sa, a c u i n ie n te d e le d u e a r ti r im a n e in in sc izia .
CXLIII S o n e t t o d i f r a te M a r io t t o f io r e n tin o d e ll'o r d in e Ai O s p i r i t o g e n til, la c u i v i r t u t e r i s p le n d e ta le in fr a ' p o e m i in g e g n i c h e p e r r a s g io n e , e s p e r ie n z ia e s e g n i c o n v ie n ric o rra a t e c h i v u o l s a lu te , e l fr a le in g e g n o m io h a l 'o r p e r d u t e in v a n s e q u e n d o t u r p i e r e i d is e g n i, e d h o c a n g ia to e l p e l fr a g u e r r e e s d e g n i d e c o s e in n o m in a h il, n o n d o u te . O r m i v o r r e i r e tr a r ; n é s o , n é p o s s o a l b u o n p o r t o v o lt a r la n a v ic e lla , q u a le è se n z a n o c c h ie r fr a V ira te o n d e . A t e r ic o r r o , p r ia e h 'A n tr o p o s s o m 'o c c u p i in s ì t e r r i b il e p r o c e lla , c h é m i m o s tr i e l c a m in o , il m o d o e 7 d o n d e .
R e s p o n s io C o m e d i i
L’ornate rime e le sentenzie acute degli alti versi tuoi sonori e pregni, non già d’infimo stil né rozzo degni, ma de dolci eleganzie antevedute, farien le lingue in sé confuse e mute sequir per li beati e vaghi regni Apollo e le sue Muse, ehé l ’insegni l ’eloquenzie e virtù somme e compiute. E se Ciprigna ha gran tempo commosso el petto e l ’alma tua sì poverella e vuol consiglio a tal pene profonde da me, che so’ non men forse percosso da símil furibunda e aera stella, me scuso a te, ché ne copre una fronde. CXLIV * Ar Quale uman già speculativo spirto fu mai più eccellente ai tempi nostri de te, che al par con Dante par che giostri
in stil leggiadro, ornato, eccelso ed irto? Sì salva per Caribdi, Siila e sirto passa la nave tua, che ben demostri alunno esser de chi gli elisi chiostri abita ognor, d’allòr precinto e mirto. Adunque, poi che al numer degli scribi poetici triunfi in tanta gloria, sempre acquistando gloriosa fama, fa’ participi noi dei sacri cibi che nutriscon tua inclita memoria con versi che ogn’uom dotto aprezza e brama. CXLV * Ar Apollo acceso d’ira e di disdegno vidi seder togato in Elicona, triunfante e pomposo con corona d ’allòr, che ornava suo bel capo degno. Seco è Minerva e qual mai ebbe ingegno, dove, parlando, el figliuol de Latona disse: « Consorzio mio, ma che persona incoia facciam noi del nostro regno? Un non so chi mantuan crudo, impio tarlo, che dà tal fama a la litteratura ch’io vo’ de questi liti sbandeggiarlo ». Così fu’ vinto, e, se non ch’io con cura promisi che verresti a sequitarlo, eri poco onorato: or te misura.
CXLVI S o n e tto d e l M a n tu a n o D a n n a to a C o m e d io
Ar D o v e so n g li a t t i d o lc i e 7 v is o c h ia ro c h e n e l tu o c o m in c ia r , d o n n a , m i f e s t i? D o v e so n q u e lli s g u a r d i a c c o r ti e p r e s t i c h e le s a e t te c r u d e a l c o r m a n d à r o ? D o v e è il v a g o p a r la r b e n ig n o e ca ro , o n d e d o lc e z z a a l c o r ta n ta m i d e s t i?
D o v e s o n g li o c c h i t u o i le g g ia d r i, o n e s t i , c h e t a n to a m o r d a p r im a m e m o s tr à r o ? T u non d o v e v i, d o n n a , cor fu r a r m i c o n tu e lu s in g h e , z a n z e e t u e p r o m e s s e , p e r la s s a r m e m o r ir e in ta n ta d o g lia ; e , s e v o l e v i a l t u t t o a b a n d o n a r m i, b e n e era m e g lio a ssa i c h e m 'u c c id e s s e , a c iò c h e f u s s e sa z ia o r m a i tu a v o g lia .
R e s p o s ta
d e C o m e d io
a l D a n n a to
O crudel mio destino, o fato amaro, o fortuna infedel che mai non resti, corno sì ratto al mio signor potesti del nostro amor mostrar pensier contraro? Che non so quale ingegno alto e preclaro sia oggi al mondo de sì manifesti doni e virtù dotato e modi e gesti d’uomo eccellente al mortai secol raro, quanto è el mio dolce amore; e, s’al mostrarmi alquanto al suo parer mancato avesse, da me el costume ingrato ora se spoglia. E pregote, signor, che al perdonarmi sia benigno e cortese, ch’io te elesse per mio ognor, né so chi me te toglia. CXLVII S o n e t t o d e l D a n n a to a C o m e d io
Ar O sc io c c o , q u a l p e n s ie r e o q u a le im p r e s e f a i tu c o n tr a l 'A m o r ? T u d i ' c h e s c io lto s e i d a m a d o n n a e s u o iu c u n d o v o lt o , e n o n h a i d e l'A m o r l e f o r z e in te s e . S e la tu a 'm a n za a v e s s e a lc u n e o f f e s e c o m m e s s e in v e r d i t e , d i r e i c h e t o l t o a v e s s e a t e l 'A m o r e c h e r ic o lto in n e l tu o c o r e a v e s s e f ia m m e a c cese. N o n s a i tu q u a n ta f o r z a h a il f a r e tr a to f i lo s o f o le g is ta , n o n p o e ta ? P ò ' c o n tr a d ir e a' s u o i c o lp i in f ia m m a ti? F a ' d u n q u e la tu a m e n te p r e s ta e q u ie ta , r ito r n a a q u e l s o le i a i t e m p i p a s s a ti, s e v ó i d a c ia scu n o m o e s s e r la u d a t o .
R e s p o s ta d i C o m e d io a l D a n n a to
Già mie virtute alquanto stan sospese, mentre el sonetto tuo attento ascolto, che, pien de van pensier, me chiama stolto, credendome far contra Amor defese. Che sia difficultà questo è palese da l ’Amor far divorzio, ma, per molto crudele e longo sdegno, Tuoni sepolto nel fango ha sue miserie alfin comprese. Gran forza, inganni e lacci ha il cieco alato e, bench’el savio, l ’artista e ’1 profeta abbi fatto cascar nei falsi agguati, non di men l ’alma, che libera e lieta trovar se vuol, se guarda dai trattati suoi doppi, pien d’errori e gran peccato.
CXLVIII S o n e tto d i C o m e d io a l D a n n a to
Ar Deh, pensa ben, lettor, quel che tu fai! Pesa il principio, el mezzo, ma più el fine d’onne cosa che adopri, e le divine scritture aprezza, Idio temendo assai. Considera e misura, £ fa’ che mai tue voglie al giudicar non sien festine; piglia le rose e lassa star le spine, sia ratto al bene e ’n gran presgio sarai. Quanto è da laudar l ’uom ch’è prudente, che cosa alcuna non fa senza legge e de niun suo fatto mai si pente! Colui ch’è savio onne pensier corregge e presto sgombra e scaccia da la mente vii passioni, e con rasgion se regge.
CXLIX S o n e t t o d e C o m e d io a l M a n tu a n o D a n n a to
Ar Per forza ares’tu mai forse pel ciuffo Apollo preso o legato Minerva, che a te se mostra più suggetta e serva
che a cardo lana ancor non messa in luffo? Tu fai le Muse per un sol rebuffo con volto irato e con faccia proterva, correndo, a te venir tutte in caterva, dicendo che comandi; e già non truffo. Comici ed elegiaci poeti, tragici con eroici e satirici senza intervallo t’han giurato fede. In Elicona ognor costanti e lieti a tua posta se truovan molti lirici, per far per te ciò che a lor se rechiede.
R is p o s ta d e l D a n n a to B e n f a ’ tu e s s e r v e n u to u n g ra n m a r u ffo A p o l lo c o l su o c o ro c h e m e s e r v a e c h e o n n i g io r n o a m e p iù s e c o n n e r v a c h e ’l v e l t r o a l m a s tr o s u o , q u a n d o o d e il c h iu ffo . O r c h e b is o g n a d ir ? T u t t o io m e a r u ffo in v is o e s ì m e c a d e i h r a z z i e n e r v a ; m i fa i s u g g e tta d ’o n n i M u s a a c e r v a e n o n r e p o n i p a r te a l m a g a lu ffo . L a s tr if e r o te m o n c o n l i p ia n e ti, li s e n s i g lo r io s i t u t t i e m p ir ic i in e l tu o p e t t o h an p o s t o i l f e r m o p e d e . D e l s o f o c le o c o n p o r t a m e n ti m u r ic i d ig n o s e i tu , m a al g iu d ic a r m e i e f f e t i s o n o i iu d ic ì tu o i, p e r c h é a n tiv e d e .
S o n e tto
de
C o m e d io
per
le
m e d e s im e
r im e
Teco di giorno in giorno maggior guffo esser me par per forza, sì s'osserva per te dolce eleganzia che preserva tua fama più tenace assai che tuffo. Sto stupefatto e tutto me raguffo, leggendo el tuo sonetto, che reserva virtù in te alta ed onor coacerva, onde in esso io, più ch'ape in mèl, me tuffo. Furor celesti, occulti, almi e secreti, solocismi acutissimi porfirici certo dal cielo in te spirar se crede. Se gl'intrinsici tuoi sensi repleti son di tal don, dunque ornamenti sirici vestano el corpo bel, d'Apollo erede.
ir o n ic e
C L* Ar Se Pacuvio, Cecilio e Nevio e Plauto studiasse sempre e Menandro e Lucrezio, esser già non porresti in maggior prezio, né più dotto e diserto, esperto e cauto. Tu hai preso un tuo stil sì terso e lauto che avanzi Tulio, Virgilio e Boezio, Ovidio con Lucan, Silio e Vegezio, né nel tuo scriver mai se* gionto incauto. Se’ profeta alto e sommo istoriografo, oratore erudito in tanta copia che pare a chi t'ascolta un gran miraculo, astrologo perfetto e buon cosmografo, ed hai d’onne scienzia meno inopia che del facundo Apollo il sacro oraculo. CLI S o n e t t o d i G io v a n n i d i T a d e o C o p p i a C o m e d io
Ar O sin g u la r a m ic o , s e r C o m e d io , p ia c c ia v e d i g u s ta r e a lcu n m io v e r s o , p e r ò c h 'io s o ' d ’A m o r t a n to s o m e r s o c h 'io g ià n o n t r u o v o v ia , m o d o o r im e d io c h 'io p o s s a r ip a r a r e a ta le a s s e d io . O n n e c o n f o r to e d o n n e b e n e h o p e r s o , o h im è , p e r c h é m e p a r s e t a n to te r s o e l v is o c r u d o , c h e m e tie n e a te d i o ! O h im è , c h 'io f u o i g ià in a lto d e la r u o ta c o n f i tt o a m ille c h io d i, e o r s o ' in b a ss o e s p e s s o s p e s s o m e v a in o d io e l v iv e r e ! N e l p e lla g o c r u d e l m io s e n s o n u o ta d a p u o i c h 'io s o ' d e la su a g ra z ia ca sso . P r e g o v e p ia c c ia a lcu n r im e d io s c r iv e r e .
R i s p o s t a d i C o m e d io
L'Amor che già per lo tuo steril predio gittar t'ha fatto buon seme e diverso
e d’Ateon in cervo t’ha converso e tien tuo verde stato in mortai sedio, dolce in principio appar, ma il fine e ’1 medio è crudo, amaro, infelice e perverso, e pel deritto altrui mostra el reverso; onde io, pensando a ciò, tutto m’atedio. Ben te trovava in mezzo de la mota; quando aver te parea più fermo el passo, ei fati cominciavano a prescrivere già la ruma tua, perché tal dota s’acquista da l ’Amor, che qual fé sasso, quale uccel, come Ovidio sa descrivere.
OLII S o n e tto
di
C o m e d io
a
ser
R a n a ld o
C a s te lla n o
Ar Bendi’ognor quanto pò più la natura se sforzi generar cosa perfetta, non de meno a le volte è pur costretta crear deforme alcuna creatura; onde avvien che per suoi modi e figura tale uom sirà che a mille altri despetta solo a guardallo, e tanto a un deletta ch’amarlo ha posto onne suo studio e cura. Perché dunque è che questo tal dispiace a cento, a mille e di quello altro è in grazia, corno se fusser d’un medesmo sangue? Dolce Ranaldo mio, compar verace, te prego facci in ciò mia voglia sazia, mostrando tal casgione al cor che langue.
R e s p o s ta d e s e r R a n a ld o l o tr u o v o tr e ca sg io n n e lla s c r ittu r a , c o m p a r C o m e d io , p e r c h ’a lcu n s ’a s e tta a m a re u n a p e r s o n a c h e sia in e tta a ’ b e i c o s tu m i e d ’a p a r e n z ia oscu ra . L a p r im a p e r c h é q u e l p e n s a e p r o c u r a tr a r n e u tile o p ia c e r e , e q u e s to a s p e t ta ; V a ltr a è u n a s im ig lia n z a e n tr o c o n c e tta , c h e a ta le a m o r e e l p r o v o c a e s ic u ra ; la te r z a è p e r c h é D i o a u n c o m p ia c e
in u n a c o sa , s ì in m o lt e lo s tr a z ia , p e r c b ’e l n o n s ia e s s o s o corn o u n o a n g u e. C o m p a r , s e m ia r is p o s ta n o n t e p ia c e , d u o im i c h e sia a t a n t o u o m o in d is g r a z ia l'in g e g n o m io o t tu s o e q u a s i e ssa n g u e .
CLIII S o n e tto
di
G io v a n n i
di
T adeo
C oppi
a
C o m e d io 1
Ar D e l g io r n o e l m io p ia c e r , C o m e d io , h a i v is to ; n o ta o r q u e l d e la n o t t e , e h ’è p iù h e llo , c h é s e m p r e h o in to r n o il n o m e d ’u n g io ie llo c o l n u o v o ta v e r n a io , c a lz o la r m is to . O p r a l ’in g e g n o d i n o m i, i q u a i t ’e lis io : g ia c c io s e m p r e fr a C h iu s c io e M o n te c c h ie llo e s p e s s o s e n t o a d e s te s a e a m a r te llo c h e a m a ttin s u o n ò e l s e g n o d e C a lis to . L ’a u to r e lo n g o , a g li sc o la r t e d i o s o , s e n to d a p r e s s o b ie n d ie c e d u z z in e , c h e o g n u n s o f f ia c o l c a n to fu r io s o . S o t t o ho el Castel, che tien le sue confine con L u c i guano, e fischia sì noioso che agli orecchi m e dà gran discipline. E p o i n e lle m a r in e e s s e r m e p a r r i m p e t t o a la G o r g o n a . C o ia i p ia c e r la n o t t e h a m ia p e r s o n a .
R is p o s ta
di
C o m e d io
ai
s o p r a d ic t i
so n e tti
Giovanni, se studiassi in matematica, scienzia nobilissima da porci, ¡’ingegno saldo, scrutando i chiar torci supercelesti e la spera lunatica, non te daria tal noia tua sciatica né i diversi animai dei gran balorci, non che per Val di Chiana o per Val d’Orci, ma s’abitassi in contrada asiatica
1 Giovanni Coppi ne aveva indirizzato un altro a Comedio (C o m ed io , io v iv o oscuro e di scarsissimo valore.
ta n to a la sa lva tica )ì
fra Persi, Sciti, Medi, o in Guascogna o Unnia o Gotia, paese inumano, che fa grattare altrui senza aver rogna. Ringrazia Dio che te ritruovi sano, che oggi è l ’ottima cosa che bisogna, e canta con tua citra e sia silvano. E Cetona ed Asciano non aprezzar, né 1 mosto o le gran botte. Breve respondo a tue poesie ghiotte.
CLIV * 1
2
j
Non è nel ciel più che un lucido sole, non è nel mondo più che una fenice: di maggio nascon fiori, rose e viole, di maggio appar gentil sola Clarice. Qual penne ornate o qual terse parole o quale ingegno uman sempre felice porrian dar lode a sì degna madonna, di bellezze e virtù specchio e colonna? Esser vorrebbe al mondo uno altro Orfeo, un Lino, uno Anfione, uno altro Julio, over l ’antiquo greco semideo che onorò el forte Achille, e Gaio Julio, Pindaro, Anacreonte e ’1 buon Museo, quel Mantuan che a l ’antiquo de Amulio accrebbe fama, e non mio roco istile per laudar sì car tesor gentile.
* 1469, d e m en se M ai. A l t C o m ed iu s C o ritb o n e n sis a d m agnificam d. C la n c em spon sam m agnifici L a u ren tii V ie ti C osm e d e M ed icis fioren tin i. Le ottave sono nel cod. Parm. 286. Sono state edite da L. Suttina , R im e in o n o r d e g li sp o si L o ren zo de* M e d ic i e C larice O rsin i, per nozze Giordana-Zardetto (14 maggio 1911).
APPENDICE I
I S o n e tto
à i s e r R a n a ld o C a s te lla n o
in f a v o r e
O t t u s o in g e g n o e d i in d iz io in e tt o , o v e ig n o ra n zia h a p o s t o il s u o a s s e d io , c r e d e n d o tu c h 'e l m io d o t t o C o m e d io s e s ia in c lin a to a s ì b a ss o c o n c e tto c h e a l r o z z o tu o e d in c u lto t e r z e t t o , s ì p ie n d e b a r b a r is m i e d ’o n n e t e d i o c h e a fa r lo b u o n n o n v 'è a lcu n r im e d io , r i s p o s to a v e s s e in v e r s o ta n to a b i e t t o . C h é , s e in t e v e g g h ia s p i r t o d i d o ttr in a , g u s ta n d o e l m o d u la r d e la su a lira , q u e l te r n a r t e p a r r ia u n g ra c c h io d }o c h e . P a rn a s o e V A c c a d e m ia l i s'in c h in a ; c ia scu n p e r i to il r iv e r is c e e m ir a , t e n e n d o l'a ltr u i r im e o m u te o fio c h e .
1 Scritto contro il « Mantuano Dannato ».
d i C o m e d io
1
APPENDICE II F ilip p o d i B a tista A rn o lfi nacque a F irenze nel 1423. F edelissim o d i F iero di C o sim o d e ’ M ed ici, è au tore d i d u e n o te v o li so n e tti giocosi: il p rim o è un v io le n to « v itu p e riu m », n el seco n do descrive con efficace realism o la co n d izio n e disagiata d elle galee. M o r ì n el 1477.
I A B a rtolom eo P eco ri
Ambr - GV O p o p o l vago d ’ogn i istran o uccello, fa ’ d ip ig n er a cazzi un gonfalone, ché già è m osso il B accio pecoron e p a ra to a c ia m b ello tto , e vien p er elio! V u o ilo p iù grosso e d u ro in tro l ’anello, s e tte p e r m azzo in ogn i su o p u n zo n e e un o in gola p e r m ig lio r boccon e, ch ’eg li arde in fu oco com e M u n gibello. N é sarà p rim a n el p a lazzo g iu n to che farà far p e r legge e p e r d e creto ch ’ognu n con tra natura sia con giu n to. B en hai da pianger, p o p o l m an su eto, d i q u e sto porco d iso lu to e un to, che l ’aier piange d i co ta n to fieto. D ’una cosa son lie to : che Satanasso una lancia g l’incocca che lo ’n filza p e l culo e p ella bocca.
Q u a non m i adorn a d ra p p i né doagio, n é m angio starn e, capon i o fagiani con m alvagia, razese o bu on treb b ia n i, n é d o rm o in piu m a s o tto co ltre in agio; an zi v e s to d i stu o ie grosse albagio e m angio pan non ro d erien o i cani con acqua m arcia e vin c o ta n t’ istran i eh ’a b ere uno argom en to è m en disagio. E sem p re do rm o alle gualchiere a R e m o li co lle g a m b e a lte e basso il capo e 7 collo, ch e p a io in grata c o tto c o ’ p re zzem o li; e sp esso vo so tto acqua e non m i im m ollo, ten en d o il m io cam in verso P o n triem o li, e ’n ta l m o d o s ’ascen de il d r itto collo. E ancor p iù d iro llo c h ’i ’ m ’em pio v o to e d o rm o in picciol luogo, co m e (c h e ) fa 7 p o rco nella stalla al truogo.
ANDREA VETTORI *
P o c h e n o t i z i e a b b i a m o i n t o r n o a lla v i t a d i A n d r e a V e t t o r i . F u p i s a n o , m a p a s s ò p r e s t o a l s e r v i z i o d e i V i s c o n t i ; g ià n e l 1 3 8 2 e r a p r e s s o B e r n a b ò e
nel
1425
s c r iv e v a
a
F ilip p o
M a r ia
una
can zon e
per
c o n s o la r lo
d e lla
n a s c i t a d ’u n a f e m m i n a , B ia n c a . C i h a l a s c i a t o a n c h e u n a c a n z o n e in l o d e d i B r a c c io d a M o n t o n e , a s s a i s in c e r a ,
se
s i c o n s id e r a
che
q u e s ti era
s ta to
fie r o
a v v e r s a r io
d i F ilip p o
M a r ia . P u r t r o p p o la f o r m a è p o v e r a e s c i a t t a e s p e s s o , p e r l e m e n d e d e l V u n ic o m a n o s c r i t t o A n d rea fu in v iò
( R 1 0 ) , i l s e n s o n o n è a f f a t t o c h ia r o .
in o ltr e
in
c o r r is p o n d e n z a
con
F ra n co S a c c h e tti,
u n s in g o la r e s o n e tto .
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I - Se per cantar più alto ancor mi lice parlar di te, signore, e di tua gesta, piglia con gioia e festa quella tua prima prole che t’è nata, ché ’1 grande Iddio a chi non si disdice cosa ch’el faccia, non t’ha data questa perché ti sia molesta, ché non senza cagion te l ’ha creata. Ché se tu guardi ben quanto ella è grata l ’alta signoria tua per tue virtute, tu per nostra salute troverai nato e conservato in terra, per tór via quella guerra intestina, civil di Lombardia.
C an zon e d ’A n d rea da P isa p e r la nascita d i Bianca V isco n ti.
al q u a le
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Così credi che sia nata tua figlia pur a grandi effetti, che son secreti e da Dio benedetti. II - Nobile, grande e necessario al mondo è veramente il sesso feminile, benché pure il virile conforta i padri più che Tal tra erede; ma volsi sempre mai pigliar iocondo il primo parto e non l’avere a vile con l ’animo gentile che vince tutto e serra ogni mercede. Questo sempre fra noi si tocca e vede, che ’1 mondo si conserva per quel sesso e ch’el nasce per esso Cesari, antisti e maggior dittatori e gran duca e signori e quanto in terra sia triunfo altero. D i qui volse Dio il vero mandare al mondo suo figliol benegno. Or vedi quanto questo sesso è degno. III - In tre parti è divisa questa terra, ch’è posta sotto il globo della luna e ’1 nome di ciascuna è feminil, come tu pòi vedere. Asia, che maggior paese serra ed è più sotto il sol, questa si è l ’una; e drieto a lei s’aduna Africa, che fé già Roma temere. Ecco la terza drieto nel venere, Europa, che pur feminil sona. To’ la torrida zona, to’ Roma, to’ Ravenna, to’ Cartagine. Quante senza contagine son state al mondo femine virile, potente e signorile in arme, in senno, oneste e virtuose, e per loro opre ancora son famose! IV - Nacque Minerva greca giovinetta, che per le sue virtù venne sì grande che per tutto si spande esser lei vera dea di scienzia. Isis d’Inaco figlia garzonetta diede in Egitto prima le vivande, assai miglior che ghiande, di lettere, di senno e di prudenzia.
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E quella che a voi diede sapienzia Carmenta fu, del re Evandro madre, antico latin padre. E Saphos greca tanti libri scrisse che per molti si disse lei superare ogni poetica arte. Pantasilea con Marte nella guerra di Troia que’ magnalia fece del corpo, e Camilla in Italia. V - Nacque di Elettra figlia di Atalante Dardano, capo del regno troiano, e Teucro del romano radice prima dette ad altri regni. E Manto giovinetta, navigante drieto alla guerra del regno tebano per lo mare adriano, con grande astrologia e grandi ingegni, doppo i mortali ed orribil disdegni degli due re, che son figlioli e frati di Iocasta creati, venne in Italia e Galatea costrusse e Mantua, che indusse per proprio nome, quasi che (in) Mantua per la fortezza sua tegnesse, ché fuggiva ogni tempesta, vergine data a pudicizia e Vesta. V I - Vegna Lavina, figlia di Latino, di cui discese tanti siri albani e principi romani. Vegnan con essa le donne sabine, e Clelia, natando Tiberino colle polcelle uscite delle mani dei nemici profani. Facciasi innanti l’alte Sibilline, con le scienzie profonde e divine da lor discese. E poi vegna Lucrezia, la quale il mondo aprezia, in questo sesso vera pudicizia, perché di sé iustizia fece del sangue suo e di sua vita, consumata e finita in la presenzia de' cari parenti: del padre, del marito e d ’altre genti. V II - Chi è colui, che sia mezzanamente dotto in istorie, che dubiti mai
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di donne terre assai esser fondate e gran regno costrutto? Ecco Semiramìs, che molta gente in Asia dominò, se cercarai; e anche troverai che Babilonia dilatò per tutto. Ecco da Dido il gran reame strutto onde discese poi il fiero Anniballe, che si fé dar le spalle per tutta Italia sedeci anni e mesi. Altri molti paesi, molte famiglie e molte signorie, senza dirti bugie, te potria racontar, signore, adesso, che procedute son da questo sesso. V i l i - Io lasso star tua ava e la tua madre, per non mostrare altrui vender parole; ma dica chi dir vòle la gran virtù di loro e la gran fama. L’una dimostra ch’è 1 tuo caro padre, che fu nel mondo secondario sole; e Tal tra te sua prole ingenerò, di che il mondo avea brama. Per questo ciasch[ed]una che si chiama nel numero de l ’altre valorose illustre e virtuose quanto si sa chi sopra lor si stima? E però nostra rima ormai qui faccia fine, o signor mio, e ricevi da Dio questa figliola, che Agnese t'ha sciolta, e valla a ritrovare alcuna volta. IX - Tu sai, canzon, quant’io sia fedel servo di quel signor, a cui tu t'apresenti, e sai ben gli argumenti ed anche la cagion che così sia. La quale una altra volta mi riservo a farne con altrui ragionamenti, ché' miglior sentimenti son non parlarne e tacer vilania. Ma va' dinanzi alla sua signoria e confortai che torni 9pesso al fonte, che le nature pronte già sono a conservar la gran famiglia, che mo’ da lui si piglia,
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perché tornando li troverai poi fare a li popul suoi un buon servizio ad acquistare un figlio, che sia nel regno a fortezza e consiglio.
II S o n e t t o m a n d a to a F ra n co , e s s e n d o n e la c it t à d i M e la n o , d a m a e s tr o A n d r e a d a P is a p r o v i s i o n a t o d i m e s s e r B e r n a b ò V is c o n ti, M C C C L X X X II
A sh 1 [Ediz. in F. S a c c h e t t i , I l l ib r o d e ll e r im e a cura di A. Chiari, Bari 1936, p. 265] Maggior virtute in maggior corpo cape e maggior corpo vuol maggior salute; però quelle che ’n voi son conosciute son comendate da colui che sape. Un vostro amico con sua mente rape el bel dir vostro, e dice che vedute ha de le cose assai care tenute, ma pur le vostre al gusto son più sape di buon savore, e quelle più comenda. Onde vi piaccia farmi tanto onore che vostra paga fin ver me si stenda. Maestro di parlar e vero autore, non isdegnate perch’io poco intenda; fate ch’io senta il vostro gran valore.
F ra n co a m a e s tr o A n d r e a S ’io fo s s e q u e l c h e 'n v o s tr a m e n te c a p e , b e n m i s e r ia a m ic a o g n i s a lu te ; m a l'a p p a r e n z e b e n n o n c o n o s c iu te s p e s s o m o s tr a n d 'a s s a i c h i p o c o s a p e . C o m e c h 'io sia , il v o s t r o s t i l m i r a p e c o n v a g h e r im e e u d i t e e v e d u te , s ì c h e l e p o s s e m ie v i s o n t e n u t e a b e n s e r v i r d 'u n o a m o r o s o sa p e . D e g n o d i fa m a è c o lu i c h e c o m e n d a , e l'o n o r è d i c h i fa a d a l tr i o n o r e ; q u e s to m 'a c c o rc ia e 'n v o i p a r c h e s i s te n d a . O C o lio p o d i q u a lu n q u e a u to r e , a v o i s ta g u id a r s ì c h 'io in te n d a , c h é p r e s t o s o n s e g u ir v o s t r o v a lo r e .
APPENDICE
PIETRO CANTERINO *
P ie tr o d i V iv ia n o C o r s e llin i, s o p r a n n o m in a to P ie tr o q u e a S ie n a n e l 1 3 4 3 . F u p e r lu n g o
te m p o
C a n te r in o , n a c
a l s e r v iz io d e l C o m u n e e sì
a ffe r m ò c o m e il p iù c e le b r e c a n ta m p a n c a d e lla su a c ittà . C i h a la s c ia to
un
p o e m a in
tr e c a n ta r i d i
161
o t ta v e s u lle s o le n n i
e s e q u ie f a tte a M ila n o il 2 0 o t to b r e 1 4 0 2 a G ia n G a le a z z o V is c o n ti e u n P a p a l i s t o in t e r z i n e , t e r m i n a t o i l 9 g i u g n o
1410.
D u b b ia è la p a te r n ità d e l te r n a r io « I o
c h ia m o e p r ie g o il m io sig n o r
I d d io » , a s s e g n a b ile p r o b a b ilm e n te a l C a ld e r o n i. L a su a o p e ra
p iù
in te r e s s a n te
è c e r ta m e n te
il te r n a r io
r e c ita to
a lla
m e n sa d e i s ig n o r i, c h e è il p iù a n tic o e c e le b r e e s e m p io d i q u e l p a r tic o la r e t i p o d i p o e s ia s u lla n a tu r a d e lle f r u tta , d i c u i ta n to r is e n te u n o d e i p o e ti m ig lio r i d e l
Q u a ttr o c e n to
V e n u m e ra zio n e
p u n tu a le
to s c a n o : A n to n io
d e lle
f r u tta
B o n c ia n i.
e s o p r a ttu tto
la
Il
to n o
s p ig lia to ,
v iv a c is s im a
z i o n e d ’u n a s c e n e t t a n e l m e r c a t o d i S i e n a f a n n o d i q u e s t o t e s t o
d e s c r i uno dei
p iù c a r a tte r is tic i d e lla p o e s ia d e l s e c o lo X V . I n a p p e n d i c e h o r i t e n u t o u t i l e r i p u b b l i c a r e u n a c a n z o n e d i B e n u c c io b a r b i e r e d a O r v i e t o ( c h e f u in c o r r i s p o n d e n z a p o e t i c a c o n F r a n c o S a c c h e t t i e Ia c o p o d a M o n te p u lc ia n o )
3 6
s u l l ’a r g o m e n t o .
Cari signor, po’ che cenato avete le bandigioni e la vivanda tutta, per amortar la dilettevol sete donar vi voglio tre panier di frutta; ma stien fermi e bicchier su la tovaglia, sì che la mensa non rimanga asciutta. Son di trenta ragion, se Dio mi vaglia, benché sieno svariate le maniere:
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dirolle, se la mente non travaglia. E dieci frutti del primo paniere si posson mangiar tutti dentro e fuore, e ve n ’è da mondar, chi n’ha piacere. Que’ del sicondo son d’altro vigore: quel che v ’è dentro non si diè mangiare, ma quel di fuore ci dà lor sapore. D el terzo e frutti si debbono usare mangiando quel eh’è dentro; e la coverta, che hanola adosso, lassatela stare. Or vo’ tornare a quel che fu proferta, di trenta frutti dirvi ad uno ad uno, sì che la mente vostra sie ben certa. Del primo panìer (questo si è l ’uno), come vi dissi, tutto dentro e fuore puossi mangiare e cossi ciascheduno. Prima de l ’uva con dolce licore: trebiana, moscadella e passarina, nera, c’ha nome dal suo bel colore; ed uva paradisa, la più fina, uva agnola e duracina, non sana, che rado senton calci ne la tina. Fichi d’ogni maniera più sobrana: bianchi e castagnuoli e botantani, cigoli e fichi secchi a la toscana, e piccioluti, uccedegli e pissani, perugin, badalon, grossi e menuti, neri corbini, sanguegni, [romani]; cedri maturi ancora e ben cresciuti del giardin di san Rombol di riviera, e da Gaeta e Malfi ancor venuti. Pere vi reco d’ogni lor maniera: spinose, carvelle e sementine, rogge e anche robuiole in gran schiera, sanicole, zuccaie e ciampoline, durelle e vendemmiali, el cui sapore coll . . . si gusta, e le rugine. Vi reco ancor di tre maniere more: del gelso, de la macchia e gangarelle, che tutt’e tre si veston d’un colore. Melle vi reco in più maniere belle: apiuole, calamagne e sassoferrate, e mele pere, sì vaghe a vedelle, anco melonte e de le vergate e fragole vi dono ancor con quelle,
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le quali fano piccole derate. Anco vi dono sorbe e albatrelle, pere e mele cotogne in duo maniere, che sono el fine a queste dieci belle. Seguino e dieci del sicondo paniere, che non quel dentro, ma sol quel di fuore diesi mangiare e sì dan lor piacere. Prima sarage col lor bel colore, corniuole, amarine e acquaiole, eh’a risguardarle ralegrano el cuore. Sonvi cornie del bosco, a chi ne vuole, e giuggiule e bacocche le più fine, susine d’ogni fatta, a non dir fole; dico le melaruole ed agustine ed avorie e ballocce ancor vi porto, e bufale, acetose e amassine. Anco vi dono pesche d’un bell’orto, partitoie, duracine e rosselle, pesche cotogne, che hano el color morto. Dattar vi sono e carrobe sott’elle, nespole . . . son nel fondo, quali vendo a misura di sardelle. N el terzo mie panier, sì cupo e tondo, son gli altri dieci frutti, el cui sapore si diè gustar, se son del guscio mondo: dico le noci, buone a far savore; sonvi mandorle dolci e de l'amare eh'e medici vi dano a tór dolore, lupini, lumie e pine, che son care, nocciuole, melarance e zaccarelle, castagne, malagevoli a sgusciare. Sonvi melagranie buone e belle, che son l ’ultime al numero di trenta: or chi ne vuol comprar venga per elle, inanzi oh’i’ mi parti o oh’i’ mi penta. « Quanti date de’ fichi? » « Trent’e sei per un quatrino, a chi se ne contenta ». « Quaranta, buona dona, ne vorei ». « A la croce di Dio, che non farò, ch’i’ no gli posso dar, ché non so’ miei ». « Le pere come date? » « Sei ne do ». « F vo’ che me ne diate otto a quatrino ». « In verità, fanciul, che non darò ». « Deh, dimi un poco: piacetegli el vino? » « Tu può' provare ». « Andiamo a la taverna, ché [del]la mie vita si è ’1 g[i]ardino ».
BENUCCIO DA ORVIETO * I*
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I - O be’ signor, poi ohe mangiato avete la ’mbandigione e la vivanda tutta, un bel panier di frutta vi vo’ donare in tre parti partito, perché la mensa non rimanga asciutta a sullazzar la dilettevol sete; ma prima intenderete i nomi loro e com’egli è sortito. Dieci per ogni parte, ognun fiorito, e l ’una delle tre niente lassa, ché saporita passa senza gittarne; e gli altri di fuor netti, emperò che perfetti dentro non sono; e gli altri di fuor mondi, però che dentro son molto giocondi. II - Di fichi e d ’uve il primo è colmo e pieno, di pere e mele (son pur testé colte); cotogne ancor ci ha molte, cederni e muse che par un diletto; frave e more con esse son raccolte, sorbe dure e mature acolte in fieno da non venir mai meno; così le vo’ riposte in luogo netto. Dirò ’1 secondo, poiché ’1 primo è detto, cioè di quegli che son buon di fuori. Tutti di buon sapori son, come gli altri, e d’ottima ragione; e dinanzi si pone il datter per migliore, e tal mi pare, ch’ad altro frutto noi sapre’ aguagliare.
* C anzona d i B enuccio b a rbiere , che sp esso i n o stri S ign ori m andavan p e r lu i p er a vere piacere d i su o i s o n e tti e b allate e m ai da lo ro p o tè avere alcun p rem io ; e p e rò fece loro q u e sta canzona. Sia il capitolo del Corsellini sia la canzone di Benuccio furono editi dal Novati in L e p o esie su lla natura d e lle fr u tta , cit.
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III - Ciriege ci ha d’ogni ragion che sia, e molte muniache e 'pesche ancora; di giugiole s’infiora questa seconda parte del paniere, tal ch’a vedello tutto m’inamora, tanto è ripieno d’ogni leggiadria. Le susine per via già non mi caddon di tutte maniere, né quella che rallegra il barattiere, quando la puote aver con un pan caldo (e, per intender saldo, nespole dico, e sono poco sane); carube con melane e molte cornie belle e colorite, che del Terresto ben paiono uscite. IV - La terza parte melarance e pigne, ed évi la lumia e la nocciuola, non due o una sola, ma gran dovizia ci ha di queste e quelle; quelle c’han dentro color di viuola, mele granate ricolte di vigne; noci non ci ha maligne, amandorle, castagne e zaccherelle; fistuche ancora in ultimo con elle. Più bel presente non fu mai veduto, però sia ricevuto in grazia da voi, gentil signori. Gustate lor savori, come son dolci, buoni e odorosi, e come son perfetti e saporosi. — E vederete ben s’io son perfetto e buon lavorator dell’orto mio; ma, ’n buona fé di Dio, che la brinata mi ci fa gran danno! Che, se non frutta meglio in quest’altr’anno, me ne conviene andare alla montagna, e con una mia ragna i’ piglierò d’ogni ragione uccelli. E giuochi non son belli, chi perde il tempo in acquistar la state! Rendetemi il paniere e a Dio siate.
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INCIPITARIO
Abbia pietà del povero amoroso . . . . Abondant’è virtù ne l’alto cielo . . . . Accidia è quella che amazza l’uomo . . . Adolescenti gli anni, e senettute . . . . Agli alti essordi e vaghi parlamenti . . . Ahi, babbiionio avaro e cismatico . . . Ahi lasso me, durerà sempre il foco . . . A lei, che’ prieghi onesti ascolta e degna . . Alfeo Beicari, io vi rimando il libro . . . Al fuoco! soccorrete, oimè, ch’io ardo! . . . Al gusto quel che piace tutto è buono . . Alma che cerchi pace in fra la guerra . . A lm a gentil, nelle più belle membra . . . Alme felici, che abitate intorno . . . . Al mio giudicio mai non fu incredibile . . . Almo gentile, usitato a salire . . . . Al sol la bella dea, che ’1 mio cor tene . Alta pianta e vivace, in cui mie vita . . Altissimo Fattor de l’universo . . . . Amanti vaghi a remirar quel sole . . . A me soletto il mio danno rimprovero . . A mezzo giorno giace un’isoletta . . . Amico esperto de tanta virtù . . . Amor, che dentro al cor l’afflitta mente . . Amor, che dolce appar nel primo assalto . Amor, che pasce e con virtù notrica . . . Amor, che sempre all’amante è cortese . Amor, che tanto può, porrà mai tanto . Amor col tempo esperienza mostra . . . Amor creò per noi la prima pace . . . . Amor, da poi ch’i’ fu’ fuor di tuo torma . . Amor, da poi ch’io fui dentro al tuo regno Amor, da poi ch’i’ son drento al tuo regno Amor ed io più volte ragionando . . . Amore ha sì mutato sua natura . . . . Amor m’ha fatto da me sì disforme . . . Amor m’ha ricondotto al loco ove io . Amor m’insegna ciò ch’io scrivo e canto . . Amor novo martir nel cor m’infonde . . Amor, perdona alla faretra e l’arco . . . Amor per nobiltà ogni te s o r o ...................................
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70 651 544 321 211 368 28 . 71 . 173 . 56 .I I 269 . 211 . II 72 . I I 689 . 219 . 148 .I I 676 . 293 . I I 695 . I I 694 .I I 157 . 292 . I I 727 II 50 . I I 666 II 271 . 281 .I I 209 .I I 323 . I I 326 . 206 .I I 407 . 255 .I I 305 . 436 . 131 .I I 419 . 285 . 527 .I I 295 . 253 . I I .I I . I I II .I I II
Amor, se de’ sospir nostri ti giova . Amor, se mai per alcun tempo infondi . Amor, se sì per tempo già da i raggi . Amor, tu ben mi strigni il sangue al core Amor, vertù, gentilezza e fede Ancor non dorme chi fia mal raccolto . Andandomi l’altrier pur solazzando . Andrà pur sempre mai co’ venti aversi . A nessun piace il ruzzar delle mani . Anima bella, ch’ancor te ne vai . Antichi amanti della buona e bella . Anton di Fronte, io, vostro servidore . Antonio, che diavol sarà questo? Antonio, i’ sento che fra nuovi pesci . Antonio, spirto di suprema fama . Anton, questo signor tuo pellegrino . Anton, se ’1 mio intelletto medioco . A Pisa giunsi come arai inteso A poco a poco io mi consumo e stento . Apollo acceso d’ira e di disdegno Apollo no, né Pallade nasconde . Apollo, se d’Amor l’ardita forza . Aprasi Mongibello e del fond’esca A qualunque animai che vive in terra Asino mio, i’ son condotto a tale . A speranza mi vivo in giorno in giorno . Assai dell’altre ne mirai in pria . Assai si truovano oggi degli amici Assunto spirto, a noi per sorte dato . A tanto quanto fortuna promette A te ricorro, o dolce mio signore Ausonia mia, in cui di Dio l’uccello . Avarizia, secondo che si disce Avea di Febo il fiammeggiante foco . Avea di nostra vita stanca e brieve A v e , de’ cielli imperadisce santa . Avendomi, Rosello, a torto offeso Ave, nuovo monarca inclito e vero . Ave, Padre santissimo, salve, ave Ave, pastor della tua santa madre Ave, Regina c e l i ........................................... Ave Regina coeli, o virgo pia A v e Regi(n)a di tutto quanto il mondo! . A v e Regina d’ogni cielo e terra . Aveva il sol le trecce ornate bionde . A voi, superfilice,' alta e prudente A voler ben guarir dell’anguinaia A voler fare buona medicina . . . . Balzando ognor più freschi alla rugiada Barba, se Fruosin tuo doman ci valica Barba, se ’1 lion mio tu non guarisce .
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II II II II II II II
306 526 520 285 244 128 498 75 85 262 661 174 485 135 654 172 367 653 126 744 719 359 139 151 483 566 137 564 637 269 275 538 543 490 298 499 453 180 176 173 189 126 546 536 335 471 273 274
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95 483 486
II II II II II II II II II II II II II II II II
II II II II II II II
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Batista, questo ranno è troppo caldo . . . Beate son quelle province e regni . . . Beatissimo padre, in cui si posa . . . . Bella poi che Natura te fé tanto . . . . Benché de’ tua quel che m’hai mandato . . Benché il caso possa ritornare . . . . Benché scontento e sol, milite mio . . . Benché si dica nel volgar parlare . . . Ben ch’io mi veggi per amar finire . . . Ben ch’io non sia quale i versi cantaro . . Bench’ognor quanto pò più la natura . . Ben cognosco io potermi dire ingrato . . Benedette le lagrime e’ sospiri . . . . Ben è felice il c o r e ........................................... Ben è filice questa nostra etade . . . . Ben fa’ tu esser venuto un gran maruffo . Ben mille volte e più rivolse Amore . . Ben mi par tempo, aspettando piatade . . . Ben ritraesti a punto il monte e 1 piano . . Ben se’ gagliardo fante in sul garrire . . Ben se’ vendicativo in su gli arcioni . . . Ben ti puoi rallegrare, alma Fiorenza . . . Ben ti se’ fatto sopra al Burchiel conte . Ben vedi e pensi e corpi de’ mortali . . . Bernardo, i; mi credevo esser già franco . Bisognati operar gran maestria . . . . Bongianni, i’ fu’ l’altr’ier messo in prigione . Buffon non di comun né d’alcun sire . Burchiello, or son le nostre poste sconte . Burchiel mio caro, s’tu girai al fonte . . . Burchiel, perché per fama udito io ho . Cacciando per l’usata selva, ov’io . . Candida, vaga, adorna e peregrina . . Cantando un giorno d’Isotta la bionda . Canti ciascuno a me di grazia degno . . Capo di ghiozzo e viso di mellone . . Carco di male carni, orbo e vizioso . . Car compagno, se Dio ti torni in gioia . . Cari fratei, con animo perfetto . . . Cari signor, po’ che cenato avete . . . Caro Burchiello mio, se ’1 vero ho ’nteso Caro fratei, poi ch’io partita fei . . . Cercato ho sempre vivere in concordia . Cerco, pensando, quegli antichi lutti . . Certo Gesù intendo di chiamare . . . Certo mi rendo che la tua ricchezza . . Cesare fui; io sonno Ottaviano . . . Che credi fare, o svergognata troia . . Che fai, anima stanca, che pur guardi . Che fai, che pensi, animo mio stanco . Che farem, ser Matteo, di Pier Martini .
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II 484 II 706 365 II 676 II 553 II 239 440 348 II 433 567 II 749 II 726 II 328 500 179 II 747 II 667 II 502 105 355 98 128 II 450 II 261 II 285 II 528 II 18 356 II 451 II 450 II 371 204 II 677 488 487 II 572 143 II 374 II 709 II 761 II 452 203 213 II 478 II 519 215 II 697 II 534 II 30 II 50 II 573
Che fortuna è la mia che nel cor parme Che giova a rimirar più donne mai? . Che giova investigar ciò che può arte C h e gio va ’nnanzi a questa alma divina . Che pena, che dolor, che crude! morte . Che sie felicità o ’n che consista . Chiara, bella, fresca acqua e nobil fonte . Chiaro seren doppo pioggia aspra e fera . Chiaro splendore e di virtute el fonte Chi avesse una mandria di cavalle . Chi brama e cerca el regno supernale Chi con virtù sopra ’1 tesoro imperia . Chi dice mal di me Dio mal gli dia . Chi già’ mentito senz’alcun ritegno Chi ha senno e danar salvili bene Chi non è nuovo pesce alcuna volta . Chi non può quel che vuol, quel che può voglia . Chi non vuol pensieri assai . . . . Chi segue Amor nella suo giovinezza Chi sforza il poter suo più non si istende Chi vuol aver del paradiso fede Chi vuol di ladroncelli una chiassata . Chi vuol veder quanta scienza regna . Giaschedun fugga A m o r e ............................ Cicerbita e scherola e tperpinella . Cigola la piggior ruota del carro . G ò che ’1 vulgo ignorante apprezza ed ama Clementissima possa alta e sovrana . Clementissimo in Cristo sacro e santo Colonna dei mortai, fidata e salda . Col pensier casto ho rafermo la voglia . Col pronto ingegno tuo ciascun sopraemini Col sacro Appello in su* più alti acumi Colui che nasce di stirpe gentile . Come ambo l’emisperi tra dì e notte . Come amoroso augel, che, fuor di gente . Come color c’hanno fede sincera . Come credo io poter vivere in pace . Comedio, il mio ingegno oscuro e losco Comedio mio gentil, troppo t’asetti Come Giovanni vangelista scrisse Com’è lieta e felice nel del fiso . Come lume maggior minore offende . Come mi partirò dal sacro viso . Come porrà questa affanata vita . Com’esser può che i’ sto stupefatto . Contesser può che ’n un peregrin core . Com’esser può che tu sia sì legato . . Com’esser può, o caro mie signore . Comodi propl e segreti ridotti Como in salse onde desarmati legni . Compare, il tuo quesito matematico .
II II II II
II II II II II II II II II II II II II
II II II II II II II II II II II II II
425 134 644 424 429 591 440 644 229 428 233 212 449 680 127 73 133 534 622 94 161 472 599 617 325 93 262 469 466 710 100 223 157 277 559 163 261 667 718 736 569 312 320 639 418 507 679 554 634 75 488 99
Compar, s’io non ho scritto al comparatico Comuomo spaventato il viso tegno . . . Concesso avea già le mie vele al vento . Condotti siam come chi proprio sanza . Confidite ego sum nolìte timere . . . . Confortati cogli agli infin ch'io torni . . Con grande industria e con sottile indagine . Con gran prosunzione a te m’inchino . . Con lagrime sovente a te, signore . . . . Con l’aiuto di Quel che visse insonte . . . Conoscer non si può ben vero amico . . . Con quella luce della qual te cingi . . . Con quella reverenzia, versi miei . . . Con somma reverenzia, eccelso Padre . . Con tutto io sia da te tanto lontano . . . Cor mio doglioso, ov’è la vostra fida? . . Corpo lascivo, acerbo e scellerato . . . . Correndo gli anni già di Gieso Cristo . . . Correrà il mare e fermeransi i fiumi . . . Corrono e fiumi per vie torte al mare . . Così Pigmaleon arda e sfaville . . . . Cosmo cosmicon cosm’ha derelitto . . . Costretto sono a dir quel ch’odo e veggio . Credetti in libertà ogni uomo isponte . . Credi tu per dire: « Io mi nascondo . . . Crespel, tutta la plebe fa romore . . . . Cristiana fé non ha sì pessima alma . . . Crudel Rinaldo, cavalier superbo . . . . Cupido m’ha giurato incontro guerra . Cupido, s’io con rima alta e magnifica . . Currado mio, se tu quinci ti sbratti . . . Dal del dato mi fu, per quel comprendo . Dal tetto in su è nugolo e sereno . Dal tuo imprometere e collo mio accettare D’amor pensando, per la via passava . . Da poi ch’a te rinata è nuova voglia . . Da poi che l’arte cominciò natura . . Da poi che *1 corpo infastidito vome . . Da poi che ’1 sacro Apollo virtù infonde Da poi che piaciuto è al gran Monarca . Da poi che rinnovar l’antiche doglie . . Da poi che vaso e fonte di scienza . . Da poi che vole Amore e il mio distino . Dappo’ che v’è in piacer ched io novelli . Dappoi che lasciai’hai la terra egregia . Dappoi che mi convien pur seguitare . Da que’ che più gli efetti d’Amor sanno . Dato che la mia man sia reprensibile . Davanti a Giove, poi ch’è ’1 gran Tifeo . Deh, pensa ben, lettor, quel che tu fai! . Deh, sappi pacientemente amare . . .
II II II II II II II II
II II II II II II II II
98 490 133 120 512 282 212 530 173 351 160 572 203 699 709 479 146 388 133 148 114 372 273 589 461 535 670 94 28 705 486
430 II 634 II 240 493 205 II 322 105 II 718 II 274 II 283 II 507 II 443 II 564 II 367 II 630 II 415 219 II 729 II 746 II 417
Deh, sole o luna, deh, pianeti o stelle . Deh, udit’un po’ novella . . . . Deh, va', dormi in servizio in un fenile . Deh, vogliànci far bei dei nostri panni . D e[l] basso tempo, al quale i’ penso ancora Del ciel discese un falcon pellegrino Del coro triunfal superceleste Del giorno el mio piacer, Comedio, hai visto Della ciclopea schiatta mille semo . De’ romitan direbbe meglio il vero . Desceso Apollo del celeste coro . Deus, in adiutorium meum intende . Dicesi che la gotta è un gran male . Dice un pensier : « Costei me pare un fiore Difficultà non minima a Museo . Di foglie d’auro m’adornò la fronte . Di giorno in giorni, Amor, di mese in mesi Dilettissima figlia, al mondo sola . Dilige prossimum tuum sì come te . Di Luca Pitti ho visto la muraglia . Dinanzi agli occhi miei ma’ non si parte . D ’infinita piata quel vivo fonte . Di nove cose si lamenta il mondo . Di nuova rima mi convien far versi . Di porfir, diamante o di berillo . Di quel gentile sguardo il grande assalto . Di questo mondo niuna concrusione . Discenda sopra me dal sacro lume . Discreti cieli e voi or pie stelle . Disse colui che ’1 volgare ebbe tutto . Diva gemma del cielo, alma puella . Divin favor, da ’nfallibil ragione . Dolce mia lira, ov’è colei che spesso . Dolce mia patria, non ti incresca udirmi . Dolce mie cara e gloriosa vita Dolci car figli miei, che, per paura . Dolgomi e piango, anzi contento rido Dolgomi sol d’Amor che m’ha ingannato . Dolgomi sol di te, crudo tiranno . Dolze Chiffo sven tu ra to ............................. Domine Gesus Criste, i’ non son dignus . Domine, il vescovado ier mattina . Donde venne la imagin di quel viso? Donna gentile e di benigno aspetto . Donna gentile, in cui natura volse Donna in cui venne il sole . . . . Donna vaga, leggiadra, onesta e bella Donne, abbiate pietà di Bartolino Donne, e’ mi par che la donna novella . Donne gentil, cui piata move al core . Donne gentili, che sì somma iddea . Donne mie, festeggiate or di Foiano .
II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II
491 144 741 688 50 434 685 750 375 523 738 123 154 677 730 664 402 165 512 19 318 698 206 47 40 656 522 249 692 517 191 120 164 651 305 381 550 568 578 584 511 481 640 288 671 190 419 104 500 644 648 471
Donne più che 1 sol belle, accorte e sagge Don singolare, celeste e divino . . . Doppi temon tua nave e doppie antenne Dormi Giustiniano e non aprire . . . Dov’è lo ’ngegno e be’ versi fann’opra Dove femmine son, matti e villani . Dove manca bontà cresce ogni errore Dove son gli atti dolci e ’1 viso chiaro Dovunque el sol suoi raggi chiari porge Dubbio s’i’ sono o nel diaccio o nel foco D ’uno in altro pensier, che mi traporta Duo spiriti gentil van sempre ad orza
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II II II
È animai di tanta altera vista . . . . Eccelsa patria mia, però che amore . . . Eccelso re, o Cesare n o v e llo ............................ E’ c’è pasto da gufi ebarbagianni . . . E’ ci è un naso lungotempo istato . . . E corpi femminin son tutti chiocci . . . E frati, i cui no’ chiamian d’Ogni Santi . Egli ha perduto il senno e la scienza . . . El bel pianeta, onde Venere spira . . . El ciel, che sopra noi si mostra e gira . . El core in corpo tutto me formicola . . . El cor pien di pensier, la mente d’ira . El duca di Beri fu tanto gaio . . . . È ’1 gran disio che mi mostrò el bel sole . . Elle van col suggello alla spagnuola . . . El mal, che da Fortuna si distilla . . . . Elfoquio], nobiltà con leggiadria . . . . El prete del poppi m i o .................................... El publico negozio, anzi il gran Monte . . El quatro e ’1 tre non rilieva più sette . . . El santo e glorioso dì di Luca . . . . El tuo bel stil, leggiadro ed accessivo . . El tuo gentil sonetto alto ed ornato . . . E’ mi par esser cavol diventato . . . . E’ par che Giove a’ mortai faccia ingiuria . E’ piace a fato, a fortuna e destino . . . È più bella [di] Diana giuso in terra . È questo il colle dove Amor già stanco . . Era già Febo co’ cavagli un pezzo . . . . Era U mio sol già fuor del dolce albergo . . Era la notte ombrosa in ciascun loco . . . Era ’1 giorno solenne a ciascun divo . . . Ergo convien che sollecito spoltri . . . . Esperto la facundia e ’1 dolce stilo . . . Essendo anco smarrito inanzi al tempo . . Essendo in vision con Caliòpe . . . . Esser mi converria più ’ntelligente . . . Esser può ben ch’i’ mostri essere isciolto Essimio sacre pagin professori . . . .
541 270 716 170 220 101 74 744 443 625 73 224
263 II 83 II 373 102 92 II 146 II 524 II 565 II 469 443 223 II 317 323 II 237 II 473 II 651 II 707 II 155 230 145 II 761 444 II 726 II 527 II 580 II 591 649 II 306 II 315 II 678 II 389 II 292 II 583 II 302 II 721 II 570 II 581 II 576 II 577
E’ suole arte e natura insieme unirsi . Eugenio quarto, pontefice nostro . E viticci saran tosto sermenti . . . Eximio artium medicina doctori . Facciasi avanti chi è innamorato . . . . Facondissima lingua, ingegno oppimo . . . Fama di te udita in questo piano . . . . Fama gentile, leggiadra e altera . . . . Fama, gloria ed onor, merito e pregio . . . Famoso seggio, eccelsi incliti e degni . . . Fara’mi mai chiamar felice amante . . . Far non de’ ornai il mio cor che lamentarsi . Far non può in versi chi non ha scienza . . Fattor, tien qui quarantatrè pilossi . . . Fave riconce con fior di borrana . . . . Febo e Diana e l’altre cose belle . . . . Felice fiume, che ’1 tuo corso prendi . . . Felice loco, ove il mio uman sole . . . Felice sempre aventurato giorno . . . . Felicità non posso aver senza arte . . . . Femmina ci diè Tesser con Tamore . . . . Femmina è senza fé, legge o ragione . . . Fera che t’odia e stru g g e................................... Ferma costanza con perfetta fede . . . . Fertil sonora lingua, ingegno esimo . . . Fiamma da’ ciel sopra di te ruini . . . . Fia ogni cosa chiara e sempre bruna . . . Fia prima arato e seminato il mare . . . Fiere selvagge e inabitati boschi . . . . Figliuol mio, nel chiamar tu prendi errore . Fili portati intorno al collo d’oro . . . Fi liscissima, bella, onesta e grata . . . Fior di borrana, se vuoi dire in rima . . . Fior di tutti e fiorin vo’ siate, rosa . . . . Fior d’ogni antico e moderno poeta . . . Fiorrancio mio, deh, fuggitene a letto . Firenze mia, ben che’ rimedi iscarsi . . . Foll’è chi falla pell’altrui fallire . . . . Formica è meglio assai esser che cane . . . Fortuna, a cui el mondo è sottoposto . . . Forza d’Amor m’ha desto, che dormiva . ' . Fra frondi, arbori, boschi e verde piagge . . Fra i labri sia da la lingua inframesso . . Fra’ miei tanti pensieri oscuri e torbi . . . Francesco, po’ ch’i’ fu’ essiliato . . . . Fra sospir dolci il cor sovente spira . . . Fra tanti gnaffi e mai frazzi trascorsi . . . Fratelli, il senso e Belzebù v’inganna . . . Fratei, se tu vedessi questa gente . . . . Fra urla e strida, doglia, angoscia e pianti . . Fresco mie caro, qui tra mille lucciole . .
536 II 134 II 568 II 598 . . .
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II 647 429 492 650 II 202 122 II 403 518 II 504 II 482 II 272 492 II 409 II 678 II 358 II 701 88 87 655 II 433 430 178 II 36 II 55 II 421 572 II 165 II 513 II 455 II 561 360 II 454 116 II 134 II 138 195 II 672 II 396 114 413 II 473 184 95 229 II 372 181 599
Frondosa testa, in cui misse natura . Fu Adam padre primo da Foiano . . . Fu la nostra partita sì dolente . . . Fu mai capo d’allocco o di frusone . Fuora ghinasse a suon di campanelle . . Furato hai, Morte dispietata e rea . Fusse pur tosto almen ch’io fossi fora . Gambin mio dolce, questi tuoi mottetti . Gentil donna ed Amor nel cor mi stanno . Gentil donne e leggiadre, o pulcellette . Gentil, leggiadra, graziosa e bella . . . Gentil, vaga, cortese, e tuo’ begli occhi . Già con lo estivo tempo ambo i Gemelli . Già dell’alba era il vago lume apparso . Già è passato il tempo che richiesto . . Già era Appollo in tutto l’universo . . . Già er’entrato ’1 sol nel segno Tauro . Già ho sentito il grido, o miei compagni . Già mie virtute alquanto stan sospese . Già molte volte, non sol una o due . . . Gianni, se fede e sicurtà ci mosse . . . . Già non ha molto tempo ch’io solea . Già per le nozze era in punto l’ulivo . . . Gigli, rose, vivole in vasel d’oro . . . . Ginocchion, con man giunte e gli occhi molli Gionto or forse è, compar, quel vaticinio Giovane bella, che, dogliosa e stanca . . . Giova nei casi avversi riserbarsi . . . . Giovanni, i’ mi parti’ non meno offeso . Giovanni mio, i’ sono or concio in modo Giovanni mio, non è tempo da matti . . . Giovanni, se studiassi in matematica . . . Giove il suo figlio avea a ber mandato . Giràn destri per cielo a vele e remi . . . Girando intorno vo, di doglia affranto . Girò sempre piangendo con tormento . . Gite, rime dolenti, a trovar quella . . . . Giunse a natura in ciel l ’alto concetto . Giuochi ciascun, sed e’ sa ben giucare . Giusta cosa non è voler sapere . . . . Giusta mia possa una donna onorando . Giusta piatà da doi belli occhi piova . . . Giusta querela spongo, padre santo . . . Giusta vendetta a tempo mi riserba . . . Gli atti di Cristo furon purgativi . . . . Gli occhi leggiadri m’han furato il core . Gli occhi lipposi ed isdentata e nera . . . Gli occhi lucenti, occhi leggiadri e pronti . Gloria rendiamo all’alto Iddio verace . Gola è ’1 più tristo che si possa avere . Goro che a gara fai contro a quel vuole .
II II II II II
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215 470 586 575 473 337 135
II 736 515 417 83 289 543 69 292 II 501 388 274 II 746 II 159 103 II 652 II 213 640 386 II 725 II 308 73 689 II 136 II 733 II 750 258 431 II 672 699 II 379 429 II 539 II 151 II 169 II 679 II 238 II 635 238 II 324 160 II 698 II 544 II 542 76
Gran caro ci è di popon ben segnati . . . Grasso di cipollini e fior d’anguille . . . Grata Ciprigna pel bel pome d’oro . . . Gratia tibi, angelica f i g u r a ............................. Grazia di Dio, al glorioso porto . . . . Grazia somma dal ciel par che t’abbonde . . Graziosa, gentile anima l i e t a ............................ Groria è nel cielo a Dio di tua milizia . . . Guarda ben ti dich’io, guarda ben, guarda . Guarda intro quanto errore è ’1 tuo Batista . Guardatevi dal lupo quando e’ passa . . Guardici Idio da quel che più ci offende . .
377 II 571 395 II 241 II 706 428 360 363 II 90 II 623 II 587 84
Ha’ tu visto Pezzon, che van capegli? .
II
Idio è solo somma sa p ie n z a ............................ I ’ fu’ figliuol del gran maestro Dino . . . I ’ fuggi’ l’ombra che rimuove il sole . . . I’ fu’ lo specchio della Istrologia . . . . I ’ ho fornito in questo carnasciale . . . I ’ ho gittato le coltella e’ vanni . . . . I’ ho sentito dir che nell’Asturia . . . I’ ho sì pregno il petto di veleno . . . Il ciel s’allegri e così mostri il segno . . . Il fiero sguardo e ’1 non dovuto sdegno . . Il giorno sesto del mese d’aprile . . . . Il gran famoso Publio Scipione . . . . Illustrissima, clara, eccelsa gloria . . . . Il mondo è pien di vesciche gonfiate . . . Il tempo è breve e la mia penna è stanca . . Il tempo, l’ore, i giorni, i mesi e gli anni . . Il tempo spira, e l’ora corre e vola . . . Il verde mar sarà privo dell’onde . . . . Impì auspici e crudeli auguria . . . . Impie, crudeli e dispiatate mani . . . . In brieve eserte ogni piacer raccolto . . . Inclita, eccelsa e splendida corona . . . Inclita Musa, che dal sacro asilo . . . . Incliti, sapienti signor s e i ............................. Inclito, franco, giusto signor mio . . . . In concave caverne aspri leoni . . . . In diletto, in piacere, in gran periodo . . Ingegnisi ciascun d’aver da sé . . . Ingegnisi ciascun di non andare . . . . Ingegno usato a solver dubbi passi . . . I ’ n’ho pregato già più volte Amore . . . In isperar piatà si truova in Dio . . . . In mezzo d’aspri colli, in verde prato . . I’ non credetti che da poi che Morte . . . I’ non credetti mai che tanto bene . . . I’ non posso passare un’ora intera . . . In quel sacrato e sempre ombroso bosco . .
II II
II II II II II II II II II II II II II II II II II II
476 267 665 155 665 339 561 580 376 87 433 291 101 292 86 533 133 282 664 724 605 115 720 303 472 408 179 720 510 526 239 296 53 267 67 503 654 718
In quel sacrato monte d’Elicona . . . . In questo amor, qual avete parlato . . . In ricca gonna una sacrata dea . . . . In sacra teolosia maestro dotto . . . . Inteso questo, i’ detti lor licenza . . . . In una valle tra due montagnette . . . . In un vago v e r z e r o ......................................... Invidia ancor dispiasce al Criatore . . . In vision crucciato Giove e ’1 figlio . . . Invittissimo prencipe, signore . . . . Invittissimo re, Cesar n o v e llo ........................... Invitto, eccelso e strenuo monarca . . . Invitto trionfante e sacro Amore . . . . Io cerco libertà con grande affanno . . . Io ci veggo d’ogni erba mescolanza . . . Io cognosco che son già presso al fine . . . Io dormo in sul cavai di messer Corso . . . Io fo con teco l’ultimo lamento . . . . Io fuoi già, Amor, nei tuoi lacci sì ’nvolto Io guardo spesso la tua gran mina . . . Io ho de nove piena una falsata . . . . Io ho sentito e visto la gran fama . . . Io ho sì pieno il capo di non so . . . Io ho veduto mille volte il sole . . . . Io mi veggio cangiar el viso e il pelo . . Io nacqui al mondo sventurato e povero . Io non so chi si sia quel dicitore . . . . Io non son più qual prima esser solea . . Io non so qual giudizio o ragion voglia .. Io non so s’io mi sogno o pur son desto. Io non so s’io son più quel ch’io mi soglio. Io parlo poco e veggo e sento troppo . . Io porto sempre Troia agli occhi avante . . Io pruovo e gusto gli asprissimi frutti . . Io so ch’io non son più ch’altri comprenda . Io son nel fondo della magna altezza . Io son pur fuor di rimorchi e di noia . . Io temo sì non ricader nel foco . . . . Io ti mando un tizzon, Rosello, acceso . . Io ti priego per Dio, che t’amo tanto . Io ti viddi istaman dal podestà . . . Io truovo tre casgion nella scrittura . . Io veggio alfin del mio antico amore.. Io veggio, altera donna, il tuo bel seno.. Io veggio ben che ’ndarno m’affatico.. Io veggio Morte ch’a nisciun perdona.. Io veggio tesi per diverse strade . . . Io veggio un verme venir de Liguria . . Io vidi in mezzo di vermiglio e bianco . . I ’ piango il dì eh’Amor l’arco suo tese . . Ipocrate, Avicenna e Galieno . . . . E provai già quanti sospir s’asconde . .
II 717 II 576 156 II 529 704 503 516 II 541 II 643 588 537 441 II 1 II 415 88 II 440 359 II 663 II 737 II 358 II 735 II 262 78 II 406 II 406 II 153 674 68 88 83 69 96 437 II 673 83 201 147 II 427 II 453 II 462 II 557 II 749 II 602 II 338 II 153 II 439 148 II 724 434 II 313 II 265 207
Ira commette ancor più d’uno errore . Irato, tristo, combattuto e vinto . . . r senti’ già nel cor mille quadrella . . I ’ sento e veggio a torno . . . . I’ sento il foco, che sempre rinforza . . F son certo che ’1 mondo e la Fortuna . F son colui chein iscienza profonda . I ’ son la Carità, che son mandata . . I ’ son la nobil donna di Fiorenza . I’ son Mercurio, di tutto l’olimpicoregno V son qui giunto a contemplar Vulcano I ’ son venuto, o rilucente stella . . Isplendor orbis, princeps serenissimo . Ispulezzate fuor topi isfamati . . . I’ ti protesto con parola pronta . . I ’ ti rispondo, Burchiel tartaglione . . I ’ veggio ben che ’1 giovinetto amante . I ’ veggio nella mente mia inserte . I’ vo sovente rimembrando i giorni .
II 542 II 679 II 380 373 II 583 II 144 664 233 663 400 II 304 287 186 76 II 526 355 668 II 51 II 290
Kalende d’alcun mese mai non nasce
II
La dea, che fo nell’infelice tempo . . La dolce amica a pochi, ai più fallace . La fama celeberrima e sublime . . . La fama tua, che tiene aperte l’ale . . La forte rima pur convien che scopra. . La fronte di cristallo, gli occhi stelle . La gloria triunfale e ’1 dolce nome . . La gloriosa fiamma, al secol rara . . L’Agnus Dei fece il quinto papa Urbano . La gran ricchezza e ’1 don dell’amicizia . La grolia della lingua universale . . . La grolia di quel sir ch’è tanto altero . L’alma dolente in tutto si sconforta . . L’alma pensosa, il corpo vinto e stanco . L’alta eloquenzia e ’1 vago stile onoro . L’alta virtù di quel collegio santo . . La luce che risplende agli occhi miei . La Madre di Colui ch’ogni ben move . La mente col pensier sempre mi porta . La mia ignoranza o altro mio difetto La mia madonna alcuna volta sòie . . L’amico tuo, Scambrilla, è sì ignorante . L’amor che già per lo tuo steril predio . L’amor, la pace e la benivolenza . . La nave nova che ti guida e guada . . La nebbia, l’alterigia e’ pazzi inganni . La notte il sole e ’1 giorno sanza luce . La ’nvidiosa Fortuna m’ha rivolto . . La peste ha posto in questa valle villa . La più chiarita lusce o più bel sole . .
II 722 II 693 II 739 232 221 II 314 II 250 290 233 337 663 611 494 II 58 II 739 II 43 II 649 II 132 393 236 II 713 II 475 II 748 269 II 638 157 II 315 670 207 II 506
673
L’ardor, che solea far desti i tuoi sensi . La sacrosanta degna alma Scrittura . La santa chiesa, che ogni ver comprende . L’ascosa fiamma ch’ai cor dà più vampo . La serpe è già entrata fra l’anguille . L’asino, quando e’ ragghia, pargli avere . L’aspetto grave e le domande oneste . Lassato avevo Apollo e preso Marte . Lasso! che farò io, ché 1 falso Amore . Lasso! che farò io poi che quel sole . . Lasso! che quando avien che gli occhi giri . Lasso! ch’io ardo e ’1 mio fallir conosco Lasso! ch’io me n’accorgo de’ mia danni Lasso! dov’andrò io, ché lo sprendore . . Lasso! qual destin vuol che dipartita . Lasso, quando per forza, Amor, da prima Lasso, quando talor meco ripenso . . Lasso tapino, omè ben posso dire! . . La superba, la ’nvidia e l’avarizia . La tua, come sorella triunfante . . . La tua risposta porge incomprensibile . Lauro gentil, quell’angelica luce . . . L’avere e corpi d’uno umor compreso . . La vita mia ormai per te s’afragne . . La vita senza frutto è grieve morte . . La volubil fortuna, i cieli e’ fati . . . L’eccelsa fama tua pel mondo sparsa . Le città magne floride e civili . . . Le colonne de’ Servi e la graticola . . Le cose van com’elle son guidate . . Le crude querce per piatà io faccio . . Leggiadra gentilezza in alma lieta . Leggiadro ingegno, in cui Minerva spira . Leggi di Filomena e tristi versi . . Lena non ho, né truovo onde men greve . Le palle e’ gigli dentro al campo d’oro . Le strane voglie e imprese di parecchi . L’età che corre quanto il leggier vento . L’eterno Dio fé l’uom sì magno e divo . Le toghe e l’arme son le degne parte . . Libenter tuo sonetto i* ho accettato . Libero nacqui, e or son fatto servo . Licceto a Gangalandi e Falterona . Lieto è il mio core redarguir sentirsi . . Lieto già me ’nviai verso il bel viso . . Lieto prendea riposo ad una fonte . . Lieve penna nell’aria starie salda . . . L’immenso ingegno e l’etterna memoria . Lingue proterve, ignote, triste e prave . . Li primi moti nell’arbitrio nostro . . L’ira di Dio sopra ’1 mie capo caggia . . L’occulto amor, che da me non si parte .
II 685 216 217 260 130 II 500 528 231 II 519 182 II 268 II 359 II 360 II 513 II 284 II 332 586 290 II 638 II 489 220 159 689 276 II 273 163 II 16 418 222 90 589 II 690 II 693 II 304 138 385 103 II 684 234 222 II 553 280 II 582 536 II 680 II 19 639 217 II 536 568 432 253
L’onor che tu mi fai tanto eccessivo L’opposizione e controversia ostile L’ornate rime e le sentenzie acute Lo spezie che si fa nella Gorgona . Lo stato mio è sì dubbioso e fosco Lucia un sol, ma or di nuovo luce Lui è detto un minimo uccellino L’ultimo giro della folle rota L’uman voler, che pur vorria fuggire L’undecimo anno del mio grave pianto Lunga quistion fu già tra’ vecchi saggi Lungo tempo nudrito e costumato Luoco non so, né tempo più né modo . Lussuria fa l’uon più presto dannare L’util domanda tua savia e onesta Madonna, i’ veggio ogni mie speme al vento Madonna m’è venuta a vicitare . . . . Maestro Antonio qui col pettinarmi Maestro Marian s’è fatto frate . . . . Maggior virtute in maggior corpo cape Magnanima, benigna e signorile Magnanima, gentil, discreta e grata Magnanimo signor, per quello amore Magnifico e potente consol nostro Mai per gnun tempo od alcuna istagione Mala pianta di biscia, in cui s’annida . Maledictus homo che in uom si fida! Mal non fu mai che qualche ben non fusse Mal si par ch’io m’accorga, e pur son vecchio Mal va il mio ingegno infermo senza grucciole . Maraviglia non è se le viole . . . . Maraviglioso Amor, mi fai sentire . Mari, s’tu miri colla mente al manto Memento homo te qui tu es(t) pulvere Mentre a l’ordita tela io volto el subbio Mentre ch’io penso all’amorevolezze Mentre io penso a me stesso e quel ch’io sono . Mentre nel tuo sonetto penso e dubbio Meridiana luce, in cui sua spera . . . . Meridiana luce, o vivo s o l e ............................. Merzè, madonna mia, piatà ti mova Messere Anseimo, e’ non è mia magagna Messer Anton, della più eccelsa petra Michel, de’ nostri ben della fortuna Michele, il nostro cavalier m’è porto . Michele, io sento per antica usanza Milizia, nel cui gremio e bel cubile Mille colpi d’Amor, mille saette Mille volte adirar, donna, mi fai Mille volte, madonna, ai bei vostri occhi Mirabil cosa il del, la notte, il giorno
II II II II II II II II II II II II
214 742 743 582 435 380 613 437 683 400 330 150 674 543 192
297 653 484 77 II 759 287 667 II 183 II 644 90 II 637 596 II 478 124 599 II 714 II 79 427 II 511 II 730 II 509 89 II 730 490 526 II 441 354 420 673 II 136 II 153 II 742 II 705 II 320 II 680 283
Mirabilmente insin al cor m’intona . Miraeoi nuovo, che la specie umana . Misera e fragil v i t a ............................. Misericordia, Madre pia . . . Misero a noi quant’è grave lo ’mpaccio . Misero, lasso, abandonato e solo . . . Misero me! che per le lucide acque . Molti ci son che vivon per mangiare . Morta fé la mia vista il cieco lume . Morte, che tua possanza sia si grande . . Mort’è il disio, perduta è la speranza . Mosso da gentil fiamma, in che sta il core Mosso dal del già mill’ardenti rai Mosso è dal cielo una ’nfluenzia tale . Mosso già d’ira e tutto disdegnoso . Mostra suoi raggi in sul bel far del giorno Mozzone, i’ t’ho trovato tanto afritto . Mugghia il leon per la febbre che ’1 preme Muovasi un tigre o qualche caldo leo . Muovonse a seguitar l’alme virile . Natura per sé fa il verso gentile . Nave sanza timon, perso l’avere . . . Né a vedove o popilli non farete . . . Né fastidiosa lingua, invida bocca . Negli occhi tuoi il sol sue rote gira . Nei gloriosi e l’uno e l’altro giogo . . Nel glorioso poggio d’Elicona . . . Nella dolce stagion, che’ verdi colli . Nell’aere partoriva un nuvol pregno . Nella stagion che Febo i rubicondi . Nell’età pronta, giovinile e vaga . . . Nel mille quatrocensessanta e cinque . Nel mio piccol prencipio, mezzo e fine Nel paese d’Alfea un colle giace . . . Nel tempo che Firenze era contenta Nel tempo che riduce il carro d’oro Nel tempo che Saturno regnò in terra . Nel trentasette, il dì primo di maggio . Nel tuo intelletto el bel Terenzio e Plauto Nel vago tempo che Febo ritorna . Nel vano trasparer del fosco centro . Nel verde tempo della vita nostra . Ne’ novelli anni della dolce etade . . Né per lungo silenzio il gran desire . Né più bella, più savia e più gentile . Né sì candida perla anel mai strinse . Né sì fulgide stelle in mezzo un sole . . Nessun profeta mai accetto fue . . . Nessun ristoro fu mai sanza danno . . Né tempo, né dolor, né grave offesa . Niun sia che del mio mal si maravigli .
II
II II II II II II II II II
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717 415 108 325 125 71 694 85 576 434 240 258 602 605 587 489 584 674 163 741
II 312 II 264 II 503 115 484 II 722 II 714 642 551 II 223 II 328 II 550 675 560 683 II 21 II 429 356 237 528 553 174 486 II 332 II 440 II 307 II 336 II 257 124 II 401 71
Nobil natura eccelsa, che comparte . . . Noi ci stiam mezzi mezzi al modo usato . . Noi pigliamo ogni cosa per la punta . . Noi siam condotti ornai fra due estremi . . Noi siam pur fuor di mazzocchi e streghioni Noi siam pur qui, il caso è dubbio e strano . Noi siam tra la Grasciuola e Cavagliano . . Non bisogna più foco o più dolce esca . . Non cred’alcun eh’un uomo 1 tutto sappi . Non d’amicizia mai si disse tanto . . . Non dev’esser a morte condannato . . . Non è amico ognun ch’è detto amico . . . Non è giuoco sì bel che non rincresca . . . Non è lo rettardar qui nel bel Fiore Non è mia doglia, Amor, se tu ben guardi . Non è nel del più che un lucido sole . . Non è pianeto in ciel ch’abbi potenza . . Non è qua su fra noi sì folto busco . . Non è sì presto a voi lo scriver mio . . . Non fu del buon Caton più gloriosa . . . Non fu la capta Elèna al mondo ancora Non fu mai sì contraria ombra di noce . . Non fu, non è in me, non sera mai . . Non giova il suon della lira d’Orfeo . Non ha natura, s’io ben penso e guardo . . Non l’infimo mio ingegno atro e ridiculo . . Non mi par buon costume d’uon giulìo . Non mi posso c o n t e n t a r e ............................ Non per dormir s’acquist’onore o regno . . Non per prosopopea, superbia o pompa . Non piacque già tanto Europa a Giove . . Non più di me già sotto sole o luna . . Non più l’ira crudel la gran Giunone . . Non posso a l’alma ardente adoppia el foco . Non posso far ched io non mi lamenti . . Non posso far per tuo compassione . . . Non posso più ched e’ non si discuopra . Non posso più tenere in tal tormento . . Non pregato d’alcun, Rosei, ma sponte . . Non può che ’n savio vera amistà cadere . Non regna al mondo cosa indicatoria . . Non scese mai dal cielo al mortai regno . Non seppi parlar mai sì dolcemente . . Non s’interpon già mai tra ’1 gran pianeta . Non so che guazzabuglio o che imporrata . Non son gli unguenti tuoi di verderame . . Non Sorga ed Acabernia e non Parnaso . . Non so se Vener con suoi gesti adatti . . Non sperai altro che periglio o morte . . Non tien Minos in Dite alma sì ria Non ti fidar del falso faretrato . . . . Non ti vergogni tu, o amichino? . . .
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II 688 106 96 104 97 126 94 II 356 II 148 II 154 II 151 II 157 II 137 II 441 II 414 II 751 II 320 II 732 138 II 377 II 498 II 690 II 408 226 II 426 II 721 II 560 II 243 693 II 686 II 681 137 II 283 II 682 II 515 II 509 II 555 II 52 II 452 199 218 II 579 II 416 II 675 II 735 690 410 II 734 579 434 II 569 II 530
Non truovo altro rimedio alla mia pena . Non veggio dove far prencipio possa . Non volle Elia in sul monte Cannelli . Nulla cosa è di quel ch’io mi pensai . Null’arte, incetta, disegno o pensiero . Nulla è che non sia stato e sempre fia . Nuova influenza dalle Muse piove . Nuovi uccellon veduto ho far pasaggio O aer dolze, o edificio altero . . . O affannato cor, tempestata alma . . O almo infra’ gentil mortali un sole . O alto, o sommo Sire, or grazia dona . O amico dell’amico amico . . . . O Andrea mio, che sì ben ti par dire . O animai sacro, santo e degno . . O benigno S i g n o r e .................................... O be’ signor, poi che mangiato avete . O cari amici, el dì primo ch’i’ nacqui . O caro amico discreto e fervente . . O castel sacro, o Bellosguardo altero . . Occhi miei tristi, or come far potrete . Occhi mie’ lassi, che di pianto in pianto . O cittadin della città del Fiore . . . O Cleopatra, o madre d’Ismael . . . O compagnon dellaMagra, ascoltate . O Conte illustre, l’avere e la vita . . O crudel mio destino, o fato amaro . O cuor gentil, che amor provato avete . O da me visti, udite il mio clamare! . . O della nostra Italia unico lume . . Odi tu? non dir poi: « Così va ella » . O divo ingegno, in cui natura e arte . . O dolce amante con candida vesta . . O dolci, vaghi e stanchi mie’ pensieri . O dolente mio cor, chi t’ha ferito? . O donne, per Foian sempre s’acresca . O eccellente e divino intelletto . . . O elevato ingegno immenso e divo . . O falsa ladra,traditrice strana . . . O falsa, pien d’inganni e sanza fede . O famoso Pier mio di Cosme figlio . O fiamma eterna, guai a chi t’accende . O figliuol mio, che Dio ti benedica . O fisico gentil da far cristeri . . . O folle, ei tuoi pensier quanto son vari . O fonte chiara d’ogni gran diletto . . O fonte fonda e nissa d’ignoranza . . O Fortuna crudel, che puoi più fare? . O fredda Gelosia, in quanta noia . . O fresche erbette, gentil fronde e fiori . O fugace dolcezza, o ben dubbioso . .
II II II II
II II II II II II II II II II II II II II
II II
II II
II II II II II II II
556 670 524 68 212 67 312 708 655 654 640 275 531 264 268 188 764 427 567 656 326 479 470 463 636 139. 745 156 373 343 100 230 259 291 158 128 225 214 152 437 672 569 254 645 731 566 659 265 149 51 614
O gentili creature della spera............................ Oggi abbiàn lunedì, come tu sai . . . . O Giudice maggior, vieni alla banca . . . O glorioso e trionfante Amore . . . . O glorioso spirto, o vago viso . . . . Ogni becchin morria di fame certo . . . Ogni buona speranza intendo certo . . . Ogni luce, ogni lampo prende luce . . . Ogni mondan sì si de’ ricordare . . . . Ogni mortai si truova alcun difetto . . . Ogni virtù ed ogni don perfetto . . . . Ogn’uomo ha qualche tempo di riposo . . Oh paradiso tutte gentilezze............................ Oh, quanto è grande la tua carità . . . Oh tu, che fin va’ cercand’al sentieri . O ignorante plebe, o turba stolta . . . O il mio fermo disio s’accompierà . . . O indiscreto, perfido tiranno . . . . O infelici e poveretti amanti . . . . O ingegni antichi, che per i moderni . . O isprendida Vener sacra e santa . . . O leggiadri, preclari e alti ingegni . . . O luce alta, preclara, inclita e santa . . . O lume de* terrestri cittadini . . . . O madre patria, (deh) dimmi ov’or ti truovi! O martir gloriosi, invitti e franchi . . . . Omè, ch’i’ non so che farmi ornai . . . . O me, o me, o me, o me dolente . . . Omè, perché sono i o ................................... O misera mortai volatil v i t a ............................ O misera, sfacciata, al ben dispetta . . . O monti alpestri, o cespugliosi mai . . . Onestà in bocca e castità negli occhi . . . Onestà, singular bellezza intera . . . . Onorando mie car degno maggiore . . . O nostro montanin, con pensier ratti . . . O pacifiche lagrime tranquille............................ O Padre etterno, onde a noi nasce e piove . O Padre etterno, o sommo plasmatore . . O Pazienzia, che passi le stelle . . . . O per me lieto e fortunoso giorno . . . . . O Pier, tutta la turba in fuga è volta . . . O popol vago d’ogni istrano uccello . . . O popul fiorentin, tu non comprendi . . . O poveretti miei compagni cari . . . . Opra mirabil fu e gran mistero . . . . O preziosa gemma margherita . . . . O pulcro adolescente, o giovinetto . . . O puro e santo padre Eugenio quarto . . O puzzolente e velenosa botta . . . . Ora che Febo men suo’ razzi spande . . . Ora di giorno, over di mese o d’anno . .
647 II 660 II 275 295 II 689 II 615 II 319 380 II 527 209 236 II 479 II 562 254 II 563 II 213 68 428 338 377 305 II 688 II 705 344 II 49 II 711 654 II 247 II 538 585 II 198 656 II 319 II 679 II 105 II 733 II 327 29 586 II 697 436 II 510 II 753 361 II 731 268 II 684 II 528 II 135 324 241 II 673
Ora è venuto il tempo, ora è il destino . Ora m’aiuti Cristo ch’i’ non péra . Or che nostra Fortuna e ’1 Ciel ne ’nsegna O r è ta l donna, Amor, nel mondo vista . O r è ta l la mia vita, donna altera O r è ta l l’aspra doglia che me infesta Or è ¿anto el dolor che ’1 cor sostene . Or è ta n to il diletto e il gran piacere Or è ta n to il dolor che al core abonda . Or è ta n to maggiore el mio dolore Or è ta rd i ogni aiuto al mio languire . Orfeo, Omero, Scipio e Catone . Or hai, crudel Fortuna, ogni tua possa . Or hai mostrato, Amore, ogni tua possa . Ornatissimo spirto e chiaro ingegno . Or piangi Marte nella tua Tessalia . Or rido, or canto, or piango, or mi lamento Or se n’andrà il suggetto alli martiri . Or son d’ogni tuo laccio, Amore, isciolto . O sacra maestà, a Napol venni . O sacra Vergin santa, alma puella O sacro, santo e prezioso chiovo . O sacro tempio, ove la vista corse . O santissima luce eterna e degna . O scacciato dal ciel da Micael . . . . O scalandrona, stregonizza errante O sciocco, qual pensiere o quale imprese . Oscura nebbia de nuovo s’oppone . O serafico padre, ottimo duce O signor mio, speranza, o somma luce . O singular amico, ser Comedio . O sir del servo tuo, che in libertade . O sire Amor, nelle cui fiamme acceso . O sole immenso, ornatissimo e chiaro . O sommo Giove, a cui nulla s’occulta . . . O sommo Padre, sotto il cui governo . O’ son le rose in paradiso colte . O specchio d’ogni rubald’uom vizioso . O spirito gentil, la cui virtude . O spirto eletto all’opra meritoria . Ossa spogliate da la madre antica . O testa latitata, o divo ingegno . O teste bugie, o mercennai sciocchi . O trinus, etterno, infinito Signore . O trionfai Fiorenza, fatten bella . O triste a noi dolenti, in quanti affanni . O triunfal signore Amore, io sento . Ottavante, otto venti han sempre vinto . Otto anni m’ha tenuto Amor legato . Ottuso ingegno e di iudizio inetto . O tu, che hai l’universal governo O tu, che vien Filippo a vicitare
II II II II II II II II II II II II
II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II
340 567 336 412 413 408 409 405 413 420 407 518 410 638 438 337 86 279 431 372 325 254 282 468 462 145 745 675 587 681 748 538 65 711 101 710 404 147 743 218 39 155 487 554 131 274 70 600 427 752 326 575
O vano e falso micidial Cupido . . . . Ove è, donne leggiadre, el vostro lume? . O Venere formosa, o sacro lume . . . . O ver cognoscitor de l’aere fusco . . . . O vero Iddio, che fusti paziente . . . . Ove s'andrà ornai per qualche aiuto . . . Ovidio, Tulio e ’1 Dante fiorentino . . . O vir preclaro e di sublime ingegno . . . O vivo fonte, onde procede onore . . . O vivo fonte, ove giunta si sazia . . . . O voi ch’entrate dentro a questo chiostro . O voi, che fisso nostre ossa mirate . . . O voi egregi, sapienti v ir i....................................
657 II 426 333 II 732 II 641 II 418 II 502 II 655 II 209 102 327 II 624 145
Pace cercando, ispesso truovo guerra . . . Padre della tua patria inclita e degna . . . Parmi risuscitato quell’Orcagna . . . . Parmi veder l’arcangiol Gabriello . . . . Parole dolci, mansuete e sante . . . . Partesi l’anniiare in quatro parte . . . . Partito s’è da me ogni dolore............................. Pasconsi gli occhi miei d’una dolcezza . . Passa qual acqua il mar bellezza umana . Passo, per consolar li affanni mei . . . « Pax yobis » diss’e a’ discepoli suoi . . . Pel nunzio fatto a te da Gabriello . . . . Pensa, alma mia, quant’è breve il contento . Pensando agli anni, mesi e giorni, ch’io . Pensando, rimirando e contemplando . . . Pensier, ch’a consigliar te stesso avesti . . . Penso il secreto in che Natura pose . . . Pensoso vengo a te, cara sorella . . . . Perché, deposta vita, ogn’uom s’interra . . Perché mi vo dolendo pur del cielo . . . Perch’io ti paia un tal, lasciami stare . . . Per comun corso da natura dato . . . . Perda ciascuna madre el caro figlio . . . Per dar men noia alla mia fantasia . . . . Per del primo uom purgar la iniquitade . . Perduto ho il tempo per non più aspettarne . Per far palese i tradimenti tuoi . . . . Per farti fine a ciascheduna verba . . . Perfetto non fu mai il frutto acerbo . . . Per forza ares’tu mai forse pel ciuffo . . . Per gran forza d’Amor commosso e spinto . . Per ingiuria d’amore om furiato . . . . Per isfogare in parte il mio dolore . . . Perle, zaffiri, balasci e diamanti . . . . Per me’ solcar dov’è più cupo il fondo . . . Per mirabile effetto alma terena . . . . Per non por freno al nostro primo fomite . . Per passar tempo e fuggir l’ombra oscura .
II 603 227 353 240 II 314 II 601 277 II 267 II 589 II 41 II 555 439 II 603 II 53 II 303 205 II 192 278 259 II 425 271 II 652 II 482 673 569 481 II 219 II 525 224 II 746 695 II 29 II 318 642 125 II 477 213 291
Per più fiate esto career retroso . . . . Per poter contemplare el sommo Bene . . Per quel ch’i’ abbia in molti libri letto . . Per quel Signor che non ebbe a disdegno . . Per quel Signore che passion sostenne . . Per risturare a chiunque giace . . . . Per saziar gli occhi miei, sospira il core . Per seguitar mie ’mpresa del servire . . . Per triunfare el mondo e stare in festa . . Per trovar pace, poi che ’1 sol si parte . . Per veder cose al mondo ignote e scure . Per voi sta nel cor sempre el foco e l’esca . Per volermi ritrar, ragion di fiamma . . . Piacer suspetto e allegrezza incerta . . . Piaggia sì verde, sì fiorita e lieta . . . Piange l’aflitta, mesta brigatella . . . . Piangendo rido e sospirando godo . . . Piange Polimia e Clio colPaltre Muse . . Fianger convienimi, e ieri ero galdente . . Pianger dovete, pietre, colli e mai . . . Piangete daschedun con gran dolore . . . Piangete, occhi dolenti, e fate un fiume . . Piangete, occhi mia lassi, perch’io temo . . Piangete voi ornai quanto conviense . . . Piangi tu, che pur dianzi eri felice . . . Piango il presente e mio passato tempo . . Piango la mia fortuna e ’1 tempo breve . . Picciola Lauretta, che donavi . . . . Pietà per dio del mie grieve dolore . . . Piglia conforto, o popol fiorentino . . . Piovi dal cielo una crudel tempesta . . . Più ch’altra avventurata e bella donna . . Più degna stella, che ne* mobil cieli . . Più e più volte, e tutte con gran torto . . Più e più volte ha infiamato il sole . . . Più feconda eminente piaggia e vaga . . Più magnanimo spirto e più gentile . . . Più maschi assai che femmine bertucce . . Più volte gli occhi al cor lasso rivolti . . Po’ che di Muse t’empisì la bocca . . . Po’ che le tue virtù mi stanno in core . . Po’ che piace a’ destin che ’n servitudine . . Po’ che pregato i’ son, che deggio i’ fare . Po’ che quieto è ’1 pianto e i sospiri . . Po’ che sonetti cominciamo a dire . . . Poeta mio, che non istudi invano . . . Poetico furor, che d’E licon a............................. Poi che Chi può t’ha ridotto vincente . . . Poi che crudel fortuna e rio destino . . Poi che culo a suo naso i fier coglioni . . Poi che dagli occhi mei sfavilla e luce . . Poi che felice t’ha fatto l’amore . . . .
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II II II II
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II II II II II .
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II II II II II
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II II II II
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536 405 225 579 518 344 210 604 416 297 41 426 645 70 704 505 324 736 600 646 428 241 440 52 286 317 41 439 691 559 414 521 682 277 649 703 687 226 291 645 600 604 284 606 562 647 719 146 433 149 713 701
Qual cerc’avere amici sotto ’1 sole . . . Qual cuor gentil fu mai, le punte d’oro Qual divin fato o quale umano archime . Qual divin vate o qual degno tesoro . Quale uman già speculativo spirto . . . Qual fallo, qual peccato, ingiuria o sdegno Qual fato avverso fu, qual cruda stella . Qual felice, celeste e verde pianta . . . Qual fé Pigmalion, mosso el gran Giove . Qual forza, qual destin, quale aventura . Qual gentil, glorioso, inclito ingegno . . .
II II II II
369 408 694 691 75 221 II 87 II 106 283 531 493 II 47
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Poi che Fortuna, Destino ed Amore . . . Poi che Fortuna el mio debile legno . Poi che la cruda peste il suo veneno. Poi che la fantasia, la lingua e Parte . Poi che ’1 becco è isbandito, ognun s’afolti Poi che ’1 benigno ciel per adornarte . Poi che lieta Fortuna e ’1 ciel favente . Poi che l’impia, crudel, aspra e rapace . Poi che miseria strigne nostra vita . . Poi che nel tristo fin convien ch’io scopra Poi che per poesia venuti siàno . Poi che superbia ti vince e (diSbalestra Poi che t’hai posto in c o r e Poi ch’io mi diparti’ d’ambo quei dui . Porcellane rifritte in insalata . . . . Porco putente pessimo poltrone . . . . Porto già mai non pò pigliar mia nave . Poscia che me e ’1 mio fiorito colle . . . Posossi il core all’ombra d’una Petra . . . Potresti prima movere una torre . . . . Potrò io mai riveder quella luce . . . Povero infermo e col capei senile . . Pregate Iddio che spesso dal ciel piova . Premia costui del merto suo, Signore . . . Presso a mia donna e lunge al voler mio . Prezzemoli bolliti in acqua amara . . . Frima ch’ai sommo del tuo gran furore . Prima ch’avanti alla tuo maestate . . Prima che venga l’ultimo giudicio . . Prima fie del parlar priva ogni lingua . Prima ritornerebbe il Fado al seno . . . Prima s ’andrà per mar senza alcun legno Prima vedi qual son, che tu mi leggi . Prima vedrassi el mar privo de Fonde . Principe glorioso e terzo duca. . . . Prodest fama a chi è del cuor sì mondo . Fronto all’ufizio, all’udienza umano . . . Provedi, Amore, or che madonna viene . Publican sono, e non son fariseo . . Puossi chiamare al mondo un uon dolente
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91 II 271 395 II 676 II 704 II 599 II 442 II 607 235 114 II 186 70 II 272 II 357 368 228 204 II 245 II 424 383 II 657 342 II 460 II 208 II 480 237 II 606 II II II II II II II II
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158 463 740 739 743 29 284 357 156 491 727
Qual merito o mercè, qual frutto degno . Qual mirabile fato il terzo cielo . . . . Qual misero nel mondo unico io sia . . Qual om si veste di carnale amore . . . Qual pessimo cristian superbo e fero . Qual scintillare o subito fulgore . . . Qualunche è posto per seguir ragione . . Qualunche più conosce e men provede . . Qualunche vuol di luoco basso e umile Qualunque fugge Amore, o Malatesta . . Quand’io penso talvolta all’ultim’ora . . . Quand’io risguardo alla tuo carità . . . Quando a colui che volentieri acquista . . Quando dall’alto ci è dato speranza . . . Quando, donna, da prima io rimirai . . . Quando el primo de’ due interlasciare Quando fie ’1 dì ch’Amore il freddo petto . Quando il bel viso di mia donna guardo . Quando il divino amor solo è bramato . Quando il Fulminator crucciato tona . . . Quando io rimembro ov’io lasciai me stesso . Quando la notte viene e ’1 dì vien meno . Quando la sera gli animai sen vanno . . Quando più ghiaccio o più neve rinfresca . Quando quello infelice casospinse . . . Quando sarà che dal suo consueto . . . Qua non mi adorna drappi né doagio . . Quanta onestà con degna leggiadria . . . Quant’è da commendar chi gusta il vero . . Quante vaghe parole e quanti risi . . . Quant’io più m’allontano dal bel viso . . . Quanto la ’mpetuosa è più nimica . . . Quanto l’ornato tuo metro consona . . . Quanto più mi rivolgo per la mente . . . Quanto più vigoroso si dibatte . . . . Quanto presso al valore ogni altro lume . . Quanto sono in verde e t a t e ............................. Quanto so’ più lontan da quella luce . . Quantunque al vostro elevato, alto ingegno . Quantunque e’ vi sie inanzi agli occhi tolta . Qua si ragiona che la ipocresia . . . . Quattrocent’uno e mille l’an corrant . . . Que* che di Trinità usian chiamare . . . Quegli occhi, per cui già così fort’arsi . . Quel che forza né ingegno uman non vinse . Quel che ’1 mal fato a sua natura tolse . Quel ch’io non voglio arei pur, s’io volessi . Quel dì sacro e felice a l’uman seme . . . Quel divo ingegno, qual per voi s’infuse . . Quel dolce,vivo e glorioso frutto . . . Quel foco, che già vivo me manteime . . Quel frate che la tua gran salimbacca . .
II
II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II
686 435 567 172 700 527 464 77 741 458 261 558 209 659 283 136 327 514 576 100 67 646 315 163 692 72 753 687 671 325 131 137 714 134 674 338 590 712 206 211 558 279 525 480 331 168 133 699 421 270 715 485
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Quella abbundante grazia, che procede . . . Quella adorna e leggiadra cicatrice . . . . Quella felicità, che ti trasporta............................ Quella nube contraria, che nel viso . . . . Quella soave ed angosciosa v i t a Quell'aspetto reai eh’è mio signore . . . . Quella stella che tutti i legni guida . . . . Quel laiir degno, e 1 mirto che m’ingombra . Quella virtù che ’1 cor gentil notrica . . . Quelle ire ingiuste e i dolci e acri sdegni . . Quell’imbendato arder [e] (che) 1 cor mi cinse . Queirincreato eccelso e ardente foco . . . Quelli innudi di laude e di corona . . . . Quelli or veggiàn che si dierono in sorte . . . Quello ch’occhio non vede o veder possa . . . Quello impio e crudo fenestrin di panno . . . Quel nudo spiritei cieco e a la to ............................ Quel più, pel quale ogni altro è detto tale . . Quel prezioso sangue e corpo degno . . . . Quel sir, che creò e cieli e diede al sole . . . Quel sol, che ’n fra' mortai lume risplende . . Quel subito pensier che al cor me nacque . . Questa aspra fiamma ch’è nel cor m’accende . . Questa diva gentil, che al nostro mondo . . . Questa donna gentil, per cui si spera . . . Queste bardasse isfondolati e ghiotti . . . Queste cose mortai che sempre vanno . . . Quest’è la profezia di questo anguanno . . . Questi c’hanno studiato il Pecorone . . . . Qui, bench’io sia col corpo stanco giunto . . . Quid tibi prodest se per tutto il mondo . . . Qui giunse il cor ben doppo mille imprese . . Raro mi fermo, e, s’io m’aresto alquanto . . Regna dentro al mio cor per una donna . . Ricordo per chi passa in Inghilterra . . . Ridestonsi di fiori i praticelli............................ Rido tal volta che mi piange ’1 core . . . Riman la terra lacrimosa e mesta . . . Rime leggiadre e voi versi alti e dolci . . . Rinforza Amore il suo sacrato foco . . . Riprese un giorno Amor l’arco e lo strale . Risuscitare un di buon tempo morto . . . Ritorna, aura gentil, a star fra i fiori . . . Ritornarà già mai quel divin sole . . . Ritto e rovescio el fodero intarlato . . . Rogo te, care velut frater mis . . . . Rosei, ben m’hai schernito e vilipeso . . Rosello, io fui dinanzi al bel sembiante. . Rosei mio caro, o cherica appostolica. . Rosei, per rimbeccarti a fronte a fronte . . Rosei, tu toccherai dimolte cionte . . . Rotto è ’1 disegno mio e Yor è tardi . . .
II II II II II II II II II II II II
II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II II
110 691 159 297 20*0 164 322 158 270 487 680 581 210 381 443 690 635 123 97 363 216 668 498 682 405 639 341 506 354 335 460 307 99 60 601 451 324 506 695 668 296 137 404 403 107 584 454 420 455 452 451 402
Sacra eccelsa colonna invitta e giusta . . . Sacrosanta, immortai, felice e degna . . . S’alcuna volta io parlo, o penso, o scrivo . S’alcun ce fosse pratico strozziero . . . S’altri sapesse in che stato io mi truovo . . Salve, de* cieli Imperadrice santa . . . Salve, diletto e glorioso legno . . . . Salve Regina eccelsa, singulare............................. S’Amore e Carità [ ’n] suo core accese . . . S’Amor Tali s’adoma col bel guardo . . . Saper vorrei, Natura, onde pigliasti . . . Sappi parlare accortamente e dire . . . . Sara’ne tu però di me contenta . . . . Sarà pietà in Siila, Mario e Nerone . . . S’avessi contemplato il Taccuino . . . . S’avessi l’arme con ch’Appollo vinse . . . Savina mio, tu sai ch’è ’1 mondo errante . . Scrivendo essorti, e vuoi che mi stie a mente . Scuandrina mio, se cerchi di tór moglie . Se a ciascun mestier bisognasse arte . . . Se ’Adriana fu crudel T e se o ............................. Se alcun uom mortai può render grazia . . Se a’ prieghi umani il quinto sentimento . . Se Bartol, che quel fatto interpretato . . . Se cento lingue e altrettante penne . . . Se convien che nell’almo Amor dipinto . . Se d’alto avien ch’alcuno abbasso smonte . Se dei begli occhi Amor pietà ne spingi . . Se di Vaichiusa il fonte ornato e degno . . Se’ fati, la scienza o la Fortuna . . . . Se forza non m’aiuta in terra franca . . . Se fu amante mai con tanta fede . . . . Se fuggir voglio, mi sento alla traccia . . . Se fusse pien, com’era, el mio stoviglio . . Se Giove, c’ha del del la gran potenza . . . Segugio vecchio non abbaia indarno . . . Se in brocco arco giammai saetta ispinse . Se inclinar ti può miseria umana . . . . Se io potessi spriemer ne’ miei versi . . . Se i primi moti nella podestade . . . . Se la cosa ch’uom vuole in sua natura . Se la luna non fussi nostra aversa . . . Se l’antico desir s’accende, quando . . . Se la pace di fuor prodotta ha Dio . . . Se la virtute, Luca mio, è duce . . . . Se ’1 basso ingegno mio, la man, lo stile . . Se ’1 dolce si cognosce per l’amaro . . . Se l’estremo valor eh’Amor consente . . Se ’1 gran Monarca quel concesse ha tolto . Se l’immortal desir - qual è bramato . . . Se l’impie stelle, ai giusti ognor nemiche . . Se l ’infime mie rime e i nudi versi . . .
II II II II II II II II II II II II II II II II II
II
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II II II II II II II II II II
421 78 123 708 136 607 350 595 147 703 321 418 84 33 215 158 475 581 474 202 322 128 385 93 686 615 82 571 119 208 286 264 526 105 668 147 108 143 589 568 464 646 303 376 641 726 318 131 146 575 737 723
Se ’1 monte soffia e dà grilli e farfalle . . Se *1 nudo arcier mendace e crudel molto . Se l’onorate tue , tempie mai vesta . . . Se Lucrezia fu simile a costei . . . . Se madonna è bizzarra, ella sei sa . Se mai arò felicità in b a l ì a ........................... Se mai divo furor famoso e degno . . . Se mai il quinto elemento ebbe potenza . Se mai meritamente infra costoro . . . . Se mai priego mortai nel ciel s’intese . . Se mai tu t’allegrasti, o degno ospizio . Se ma* ria mia Fortuna s’è rivolta . . . . Se ma’ rie tante e rincrescevol doglie . . Se mastro Beltramin co’ suoi lambicchi . . Se me portasse dentro il crudel core . . . Se Minos tenne nella torre stretto . . . Se Morte prevenisse al mio partire . . . Sempre a memoria mi sarà quel giorno . Sempre è più forte il caricar sull’orlo . . Sempre il prudente cerca degne scole . . Sempre si dice che un fa male a cento . Sendo per me transita sesta e nona . . . Sendoti istato più tempo suggetto . . . Seneca in epistolis suis scrive . . . . Se nel gentil, leggiadro, ornato chiostro . . Se non hai, o non sai,altr’arme usare . . Se’ nostri antichi agli dei falsi e vani . . . Se or è ta \ ch’io debbia aver mai pace . Se Pacuvio, Cecilio e Nevio e Flauto . . . Se* pensier tuoi, che son di grazia grassi . . Se per averso caso l’uon s’attrista . . . . Se per cantar più alto ancor mi lice . . . Se per propio destin da’ cieli eletti . . . Se piango, se mi dolgo e mi lamento . . . Se qualche volta mai ritorna in pari . . . Ser Baldinotto, le tue cose fatte . . . . Serenissimo ingegno immenso e divo . . . Serenissimo principe anim oso............................ S erva si fa di Nettuno la terra . . . . Se tra’ nomi eccellenti io bene annovero . . Sette son l’arti liberali: è prima . . . . Se’ tu, come e’ m’è detto, sì spiacevole? . Se tu diletti di voler rim are............................. Se tu ti recherai la mente al petto . . . Se vera guida acciò ch’el cor disia . . . Se veri sono, o Feo, tanti abiettivi . . . Se viva e morta io ti dovea far guerra . . Se vuo’ conoscer qual sia vero amico . . . Se vuoi campar della cruda epidimia . . . Se vuoi vederquanto ’1 mondo è fallace . . Sia maledetto l’anno, il mese e il giorno . Sia noto a tutti e manifesto appaia . . .
122 II 738 II 457 II 402 72 II 702 II 396 127 393 II 341 II 616 II 442 109 94 510 II 218 51 II 316 106 650 II 141 232 II 577 II 491 II 728 432 227 II 420 II 748 239 II 588 I l 755 672 280 139 II 626 443 II 734 II 623 217 II 372 II 578 II 565 II 38 II 401 238 II 364 II 505 220 II 140 II 428 107
Sì ben compiuto ogni cosa raccolse . . . Sì come gli Otto Santi della guerra . . . S’i’ fussi stato nel principio accorto . . . Signor che sopra Tonde allor salvasti . . . Signor, membrando l’effettivo amore . . . Sì magni doni e tante grazie semini . . . Simon, quanto più penso al mondan vivere . S’io Comedio felicità sempre amo . . . S’io esco mai de’ lacci di Cerreto . . . S’io esco mai d’obrighi e compromessi . . S’io fosse dotto quanto Belzabù . . . . S’io fosse quel che ’n vostra mente cape . S’io fussi longe più che mille e mille . S’io non ho lena, Amor, come poss’io . S’io non sapessi, o mio Beicaro Feo . . . S’io non seppi parlar per gran temenza . . S’io posso mai riveder pur quel volto . . . S’io ritornasse al disiato loco . . . . S’io ritornassi mai dov’io non sono . . . S’io sono in guerra, chi me n’è cagione . S’io sto, chi va? e s’io vo, chi rimane? . . S’i’ posso trovar pace alla mie guerra . . So ch’è *1 maggior fra ogni mio pensiero . Sogliono e buon fedeli e veri amanti . . . Sola dirò virtù, che ’1 mondo onora . . . Solea già stanco ne’ sospir più gravi . . . Soletto con pensier spesso in selvagge . . Solia Caliopè trar d’E licon a............................. Sollecitudin con discreto ardire . . . . Solo en più folti e disusati boschi . . . Solo e pensoso mi dolea d’amore . . . . Solo e pensoso un dì fra l’erba e’ fiori . . Solo una volta ciascuno esser puote . . . Sol una volta in qualche ombroso loco . . Sommi nutrito ne la magna Francia . . . Son rade volte che dopo ’1 baleno . . . Sopra a naturai corso o di ciel segno . . . Sopra d’un rivo cristallino e bello . . . Sopr’un bel verde c o l l e .................................... S’or la mia spenta fantasia raccende . . . Sotto candidi veli in bruna vesta . . . . Sotto l’insegna del signor Cupido . . . Sotto una nugoletta in un bel prato . . . Sovente, dove son gl’imperadori . . . Spàcciati, vaten via, Malinconia . . . . Sparta è la fama al mondo che in Fiorenza . Spense qui fra’ mortali un chiaro sole . . Spenta veggio merzè sopra la terra . . . Speranza, fede, carità, Signore . . . . Spirito degno di laurato onore . . . . Spirto celeste a la materna lingua . . . . Spirto gentil, che di laurea fronde . . .
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120 348 291 39 207 223 208 702 124 130 728 739 700 132 237 417 135 438 135 640 144 295 132 132 195 341 538 231 212 431 641 35 276 238 654 150 438 289 62 439 268 696 279 563 129 616 285 335 74 375 723 161
Spirto gentile, ingegno ornato e divo Spirto suppremo, pien di gentilezza . . . Sponte lo spento mie ingegno ho già spinto Stanca già d’aspettar, non sazia ancora . Stanco l’animo mio e quasi sazio . . . Stava el mio core tutto attento e volto . Stenda l’arco Antropos e con lei morda . Strigoli di porco e di castrone . . . . Strolago mio, over filosofante . . . . S’tu fussi andata al bel pastor troiano . S’tu volessi vedere un doppio errore . . . Sugo d’uno scambietto d’un coltrone . . . Sugo non di coltron, ma d’un metone S’un tempo è guerra e poi ritorna pace Suol con vaghezza l’uom tutto gentile . Suon di campane e picchiar di martello . Superbia è quella che più a Dio dispiace . Superbia ha l’Umiltà sommersa in terra . Supremo ingegno, elevato e sottile . . Surge, nunc surge, nec tantum prolixe .
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Taccia chi in versio in prosa mai descrisse . Tacer non posso e ’1 parlar m’è gravoso . . Tacitamente cercando r i p o s o ............................ Tacito in fra me, pensando come . . . . Tal fantasia ti veggio che errore . . . . Tanta alta groria spesso al cor m’accende . . Tanto avea il tonto attento aoperato . . . Tanto penetrativo fu quel guardo . . . Teco di giorno in giorno maggior guffo . Te Deum, laldamus te, tutti cantando . . Te Deum laudamus, te confessian signore . Temp’è di levar su, alma gentile . . . . Tempo fu già che errar mi fece Amore . . Tener qual vetro saranno i diamanti . . . Teribil Morte, che scurasti el sole . . . Tolsemi il sguardodi te, rosa bella . . . Tolto v’ha morte il più leggiadro oggetto Tornata è Progne e la sorella amica . . . Tre fette di panico e lance sorde . . . . Trentasei volte ha già rivolto il corso . . . Triboli, pruni, spine con ortica . . . . Trovomi nudo il ferro e primo dardo . . . Tu che limosina dai per Dio verasce . . . Tu, che or triunfi in tempo giovenile . . . Tu, che quei sacrosanti e gloriosi . . . Tu che ti truovi in istato felisce . . . . Tu di tór donna conforto m’ha’ dato . . . Tu me fai più contento e glorioso . . . Tu mi saetti nel dir medicarne . . . . Tuo nome eccelso, che per tutto suona . . Tuo spirito gentil, c’hai a sublimare . . .
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II II II II II
II .. II II II II II II II II II II II II
234 214 600 89 668 702 481 268 474 365 152 612 613 504 740 281 541 140 235 523 149 537 286 52 508 433 91 696 747 346 221 693 564 181 243 489 437 331 572 269 316 649 529 692 725 501 523 683 690 716 647
Turbato e tristo dei miei casi avversi . Tu sai la ’nfermità mia de l’altr’anno Tu se’, Burgutto, un pò* troppo arogante Tutti di stanzia siàn della Fortuna . Tutti han per uso, questi contadini .
II II II II II
669 659 476 625 574
Umiltà, reverenza e gravitate . . . Una donna l’altrier tolse marito . Una fragil barchetta in mezzo Tonde Un color vago, una celeste insegna Un disio amoroso spesso il core . Un dolce farfallin le penne batte Un fior gentil, leggiadro e pelegrino Un giovan vidi un dì d’aspetto bello Un m’ha con certe parole sonato . Un naso imperiale è in questa terra Un poeta che studia in carne secca Un puro e fedel servo tuo mi manda Un zenepro gentil, verde, alto e lieto Uova di testicciuole e fichi azzurri Uscito della mia rimboccatura . . .
II II II II
313 499 306 700 641 626 707 533 614 92 644 138 684 571 669
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II II II II
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Vago ugelletto mio, qui ne conversi . Va’, lascia l’uccellare a quei c’han l’arte Vecchia azzimata, ricardata e vizza Vedi ’1 tuo servo, dolce mia isperanza Vedovi, soli, abandonati e sciolti . Vegghia la pace e la lega difende . Veggio al sol oscurar gli aurati crini . Veggio del tempo esperienza troppa . Veloce già volando senza penne . Veloce in alto mar solcar vedemo . Velocemente per mare una barchetta . Venere, se già mai pel caro figlio . Venite ad aiutarmi, o mie’ maggiori . Venite a pianger meco, o gente italice . Venite, sacre e gloriose dive . . . . Vera - Amicizia - glorioso - bene . Vergine degna, madre, figlia e sposa . Vergine gloriosa, quand’io penso . Vergine santa madre e gloriosa Video santos fuggir questo tondo . Vidi cangiare al sol l’aurata fronte . Vien costui dal levante o vien dall’ostro Vinse in Tesaglia già l’ardito e franco Vinse protervo amor la chiara fama . Vinto dal sonno e pel cammino stanco Vita caduca, fragile e penosa . . . . Vita ed onor vi presti l’alto Idio . Vittorioso, eccelso, inclito e franco . Vittrice illustre Conte e gran signore . Viva verilità, giustizia e fede . . . .
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671 202 144 586 40 129 33 328 715 35 245 81 560 445 360 396 131 587 120 461 639 729 286 337 414 284 293 159 139 270
Viva virilità, florido onore . . . . Viva viva oramai, viva Ponore Vive come uccellin richiuso in gabbia Viveva afflitto e del mio mal pensoso . Voi, animi gentil, che a l’alte imprese Voi che ghiacete nel terreste trono . Voi che leggete le diffuse rime . Volendo seguitare il mio disegno . Volete voi venire, o compagnoni . Volsimi un giorno indietro riguardando Volson già dire alcun che la latina . Vorre’ saper qual vita esser la mia . Vostra biltà, ch’ai mondo pare un sole Vostro amoroso stil soave e chiaro . Vostro cortese dir, che mi circunda . Vostro parlar, madonna, è tanto umile Yris, de le discordie inventrice
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Zara di dado mai tanto nociva . . . . Zelante è ’1 cor suggetto esser di cosa .
189 95 669 437 697 588 666 601 477 323 41 669 282 566 646 139
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p. 4 p. 12 p. 53 p. 191 p. 226
fior zaffini al 1401 causante per tener fermo el tuo superbo nome, né la miseria abasserà el tuo ciglio, p. 324 scuola p. 350 Volumio p. 441 strenuo p. 451 col quale Gemini p. 529 rimira p. 613 forse conseghi p . 614 godo infonde a compiacer d’avere in ver p. 615 amiràrmi tal ride Il guardo, il veder p. 616 impe(n)tro p. 617 toccherall’a con gnun su asetti p. 619 in altri Mai! si acquistaron p. 621 con amomo p. 624 raga zablia p. 625 Cominciate p. 627 dolci mai conseghi conseghì p. 628 d’uomini p. 629 si può (neh, non oprare) p. 632 confida l’ha’ a beffare? p. 634 ch’a me Dietro p. 635 del cantor p. 636 prima corte p. 637 cantare ètti p. 638, v. 1222 vita p. 642 zaffini p. 690 O che, bue
fuor zaffiri al 1400 causarum per tener fermo el tuo superbo nome; ne la miseria abassera’ el tuo ciglio. scuola Volunnio strenuo col qual Gemini rimira forte consegui glorio circonde e con piacer dovere aver amiraimi qual ride Il giallo, il verde impentro toccherebb’a ch’ognun a sé asetti, né altri Mais! e gustaron cennamomo ragazaglia Comincia te dolci anni consegui consegui’ duo mani si può, né non oprare confide t ’ha a beffare? ch’a te Dir ciò del cantar ricca corte cianciare e ttu vista zattiri Oche, bue
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