Lirici toscani del Quattrocento [1]


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Lirici toscani del Quattrocento [1]

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BIBLIOTECA 1)1 CI II TUBA

W* /

BULZONI

LIRICI TOSCANI DEL '400 a cura di ANTONIO LANZA

EDITORE

LIRICI TOSCANI DEL QUATTROCENTO A cura di ANTONIO LANZA

BULZONI EDITORE

Ai miei Genitori

©

1973 by BULZONI EDITORE 00185 ROMA - VIA LIBURNI, 14

IN D IC E

P R E FA ZIO N E ................................................................. M A N O S C R I T T I .......................................................... B IB L IO G R A F IA .......................................................... A N TO N IO DEGLI A G L I ..................................... I - O Padre ettemo, onde a noi nasce e piove . . II - Solo e pensoso un di fra l’erba e’ fiori . . III - Per veder cose al mondo ignote e scure . . ALBERTO ALBERTI . . . . . . . I - Se Morte prevenisse al mio partire . . . . FRANCESCO A L B E R T I ............................................ I - Al fuoco! soccorrete, oimè, ch’io ardo! . . II - Nulla è che non sia stato e sempre fia . III - Quando io rimembro ov’io lasciai me stesso . IV - Io non son più qual prima esser solea . V - O il mio fermo disio s’accompierà . . . V I - Nulla cosa è di quel ch’io mi pensai . . . V II - Io non so s’io son più quel ch’io mi soglio . V i l i - Già dell’alba era il vago lume apparso . . IX - Piacer suspetto e allegrezza incerta . . . X - Presso a mia donna e lunge al voler mio . XI - Abbia pietà del povero amoroso . . . . X II - Niun sia che del mio mal si maravigli . . X III - Misero, lasso, abandonato e solo . . . X IV - A lei, che’ prieghi onesti ascolta e degna XV - Quando sarà che dal suo consueto . . . XVI - Se madonna è bizzarra, ella sei sa . X V II - D ’uno in altro pensier, che mi traporta . . X V III - Giova nei casi avversi riserbarsi . . . XIX - Chi non è nuovo pesce alcuna volta . . . XX - L. M arradI: Speranza, fede, carità, Signore . Dove manca bontà cresce ogni errore . XXI - Comodi propri e segreti ridotti . . . . XXII - Poi che ’1 becco è isbandito, ognun s’afolti . XXIII - Ispulezzate fuor topi isfamati . . . . XXIV - Goro che a gara fai contro a quel vuole . XXV - Qualunche più conosce e men provede . XXVI - Maestro Marian s’è fatto frate . . . . XXVII - Io ho sì pieno il capo di non so . XXVIII - Sacrosanta, immortai, felice e degna . . XXIX - Se d’alto avien ch’alcuno abbasso smonte . XXX - Gentil, leggiadra, graziosa e bella . . .

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P&&. 1 5 . 1 7 . 2 3 . 2 9 . 2 9 . 3 5 . 4 1 . 5 1 . 5 1 . 5 3 . 5 6 . 6 7 . 6 7 . 6 8 . 6 8 . 6 8 . 6 9 . 6 9 . 7 0 . 7 0 . 7 0 . 7 1 . 7 1 . 7 1 . 7 2 . 7 2 . 7 3 . 7 3 . 7 3 . 7 4 . 7 4 . 7 5 . 7 5 . 7 6 . 7 6 . 7 7 . 7 7 . 7 8 . 7 8 . 8 2 . 8 3

XXXI - Io so ch’io non so più ch’altri comprenda . . XXXII - Io non so s’io mi sogno o pur son desto . . XXXIII - Guardici Idio da quel che più ci offende . XXXIV - Sara’ne tu però di me contenta . . . . . XXXV - A nessun piace il ruzzar delle mani . . . . XXXVI - Molti ci son che vivon per mangiare . . . . XXXVII - Or rido, or canto, or piango, or mi lamento . XXXVIII - Il mondo è pien di vesciche gonfiate . . . XXXIX - Femmina è senza fé, legge o ragione . . . XL - Il ciel s’allegri e così mostri il segno . . . . . XLI - Io non so qual giudizio o ragion voglia . . . XLII - Femmina ci die Tesser con l’amore . . . . . XLIII - Io ci veggo d’ogni erba mescolanza . . . . XLIV - Stanca già d’aspettar, non sazia ancora . . . . XLV - Mentre io penso a me stesso e quel ch’io sono . . XLVI - Mai per gnun tempo od alcuna istagione . . . XLVII - Le cose van com’elle son guidate . . . . . XLVIII - Poi ch’io mi diparti’ d’ambo quei dui . . . XLIX - Tanto avea il tonto attento aoperato . . . . L - Un naso imperiale è in questa terra . . . . . LI - E’ ci è un naso lungo tempo istato . . . . . . LII - Se Bartol, che quel fatto interpretato . . . . . L U I - Cigola la piggior ruota del c a r r o ............................. . LIV - Noi siam tra la Grasciuola e Cavagliano . . . . LV - Chi sforza il poter suo più non si istende . . . . LVI - Se mastro Beltramin co’ suoi lambicchi . . . . . L V II - Balzando ognor più freschi alla rugiada . . . . L V III - Fra tanti gnaffi e mai frazzi trascorsi . . . . . LIX - Io parlo poco e veggo e sento troppo . . . . . LX - Noi pigliamo ogni cosa per la p u n t a ............................. . LXI - Quel prezioso sangue e corpo d e g n o ............................. . LXII - Noi siam pur fuor di mazzocchi e streghioni . . . . LXIII - Ben se’ vendicativo in su gli a r c i o n i .................................... LXIV - Burchiello : Compar, s'io non ho scritto al comparatico . Compare, il tuo quesito m a te m a tic o ............................................ LXV - Raro mi fermo, e, s’io m’aresto a l q u a n t o ............................. LXVI - Col pensier casto ho rafermo la v og lia .................................... LXVII - Odi tu? non dir poi: « Così va ella » ............................. LXVIII - Quando il Fulminator crucciato t o n a ............................. LXIX - Dove femmine son, matti e v illa n i............................................ LXX - O sommo Giove, a cui nulla s’o c c u l t a ..................................... LXXI - O vivo fonte, ove giunta si s a z i a ............................................ LXXII - E’ c’è pasto da gufi e b a r b a g ia n n i..................................... LXIII - Gianni, se fede e sicurtà ci m o s s e ..................................... LXXIV - Le strane voglie e imprese di p a r e c c h i ............................. LXXV - Noi siam condotti ornai fra due e s t r e m i............................. LXXVI - Donne, abbiate pietà di B a r t o l i n o ..................................... LXXVII - Se fusse pien, com’era, el mio s t o v ig lie ............................. LXXVIII ■ Da poi che ’1 corpo infastidito v o m e ............................. LXXIX - Ben ritraesti a punto il monte e’1 p i a n o ............................. LXXX - Sempre è più forte il caricar sull’o r l o .............................

Pag83 83 84 84 85 85 86 86 87 87 88 88 88 89 89 90 90 91 91 92 92 93 93 94 94 94 95 95 96 96 97 97 98 98 99 99 100 100 100 101 101 102 102 103 103 104 104 105 105 105 106

LXXXI - Noi ci stiam mezzi mezzi al modo usato . . LXXXII - Ritto e rovescio el fodero intarlato . . . LXXXIII - Sia noto a tutti e manifesto appaia . LXXXIV - Se in brocco arco giammai saetta ispinse . LXXXV - Misera e fragil v i t a ............................................ LXXXVI - Se ma’ rie tante e rincrescevol doglie . . LXXXVII - Quella abbundante grazia, che procede . LXXXVIII - Fra i labri sia da la lingua inframesso . LXXXIX - Così Pigmaleon arda e sfaville . . . . XC - Pregate Iddio che spesso dal d el piova . . . XCI - In brieve eserte ogni piacer raccolto . . . XCII - Né fastidiosa lingua, invida bocca . . . . XCIII - Firenze mia, ben che’ rimedi iscarsi . . . XCIV - Se di Vaichiusa il fonte ornato è degno . . XCV - Condotti siam come chi proprio sanza . . . XCVI - Sì ben compiuto ogni cosa raccolse . . . XCVII - Divin favor, da ’nfallibil ragione . . . XCVIII - Se ’1 monte soffia e dà grilli e farfalle . . XCIX - Famoso seggio, eccelsi incliti e degni . . . C - Quel più, pel quale ogni altro è detto tale . . . CI - S’alcuna volta io parlo, o penso, o scrivo . . CII - Nessun ristoro fu mai sanza danno . . . . CHI - Mal si par ch’io m’accorga, e pur son vecchio . CIV - S’io esco mai de’ lacci di Cerreto . . . . CV - Misero a noi quant’è grave lo ’mpaedo . . CVI - Per me’ solcar dov’è più cupo il fondo . . . CVII - Noi siam pur qui, il caso è dubbio e strano . C V III - A poco a poco io mi consumo e stento . . CIX - Se mai il quinto elemento ebbe potenza . . CX - Chi ha senno e danar salvili bene . . . . CXI - O donne, per Foian sempre s’acresca . . . CXII - Ben ti puoi rallegrare, ¿Ima Fiorenza . . . CXI II - Ancor non dorme chi fia mal raccolto . . CXIV - Vegghia la pace e la lega difende . . . . CXV - Spacciati, vaten via, Malinconia . . . . CXVI - S’io esco mai d’obrighi e compromessi . . CXVII - La serpe è già entrata fra l’anguille . . . CXVIII - Vergine degna, madre, figlia e sposa . . CXIX - Amor m’ha fatto da me sì disforme . . . CXX - Quant’io più m’allontano dal bel viso . . . CXXI - So eh’è ’1 maggior fra ogni mio pensiero . . CXXII - S’io non ho lena, Amor, come poss’io . . CXXIII - Correrà il mare e fermeransi i fiumi . . . CXXIV - Concesso avea già le mie vele al vento . CXXV - Quel ch’io non voglio arei pur, s’io volessi . CXXVI - Quanto più mi rivolgo per la mente . . . CXXVII - Che giova a rimirar più donne mai? . . CXXVIII - S’io posso mai riveder pur quel volto . . CXXIX - Fusse pur tosto almen ch’io fossi fora . . CXXX - S’io ritornassi mai dov’io non sono . . . CXXXI - S’altri sapesse in che stato io mi truovo . .

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CXXXII - Quando el primo de’ due interlasciare . CXXXIII - Assai delPaltre ne mirai in pria . . . CXXXIV - Non più di me già sotto sole o luna . . CXXXV - Quanto la ’mpetuosa è più nimica . . . CXXXVI - Lena non ho, né truovo onde men greve CXXXVII - Non è sì presto a voi lo scriver mio . . CXXXVIII - Se qualche volta mai ritorna in pari . . CXXXIX - Vostro parlar, madonna, è tanto umile . . CXL - Aprasi Mongibello e del fond’esca . . . . CXLI - Carco di male carni, orbo e vizioso . . . CXLII - Se inclinar ti può miseria umana . . . . CXLIII - S’io sto, chi va? e s’io vo, chi rimane? . . CXLIV - El quatro e ’1 tre non rilieva più sette . CXLV - O voi egregi, sapienti v ir i... . . . CXLVI - Se ’1 gran Monarca quel concesse ha tolto CXLVII - Poi che Chi può t’ha ridotto vincente . CXLVIII - S’Amore e Carità [ ’n] suo core accese . CXLIX - Io son pur fior di rimorchi e di noia . . . CL - Io veggio tesi per diverse s t r a d e . . . CLI - Almo gentile, usitato a s a l i r e . . . CLII - Taccia chi in versi o in prosa mai descrisse . . CLIII - Poi che culo a suo naso i fier coglioni . . PIERO DEGLI A L B I Z Z I ........... . . . I - A qualunque animai che vive in terra . . . . BERNARDO A L T O V I T I ........... . . . I - I ’ fuggi’ l’ombra che rimuove il sole . . . . II - Qual fé Pigmali'on, mosso el gran Giove . . . III - In ricca gonna una sacrata d e a . . . IV - La nebbia, l’alterigia e’ pazzi inganni . . . . V - Col sacro Appollo in su’ più alti acumi . . . V I - S’avessi l’arme con ch’Appollo vinse . . . V II - Quel laùr degno, e ’1 mirto che m’ingombra . . V i l i - Quella felicità, che ti trasporta . . . . IX - Lauro gentil, quell’angelica l u c e . . . X - Vittorioso, eccelso, inclito e franco . . . . XI - Gli occhi lipposi ed ¿sdentata e nera . . . . AN TON IO DA B A C C H E R E T O .... . . . I - Spirto gentil, che di laurea f r o n d e . . . AN TON IO CALZAIUOLO . ..................................... I - La volubil fortuna, i cieli e’ f a t i . . . II - Muovasi un tigre o qualche caldo leo AN TO N IO DA CASTELLO SAN NICCOLO’ . . I - Dilettissima figlia, al mondo s o l a . . . AN TON IO D I G U I D O .................. . . . I - Dormi Giustiniano e non a p r i r e . . . II - Qual om si veste di carnale amore . . . . III - Anton, questo signor tuo pellegrino . . . . IV - Con lagrime sovente a te, signore . . . . V - Alfeo Beicari, io vi rimando il libro . . . . VI - Anton di Fronte, io, vostro servidore . . . V II - Nel verde tempo della vita nostra . . . .

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P a noi lontano, non però molto, con dolce mormorare. Presto mi volsi pel ridente piano e fra ’1 boschetto vidi gli angioletti tener ciascun la sua 'manza per mano. Ma' non si vide amorosi ugelletti in ischiere isgombrar l’ardor del core, che muove il cielo, i divini intelletti, che par che canti ognuno: « Amore, Amore! », come iacea questa schiera giulìa, e mormorando innarra ognun suo ardore. Ahi, come innebria mie fantasia nell'udir lor parlar tanto gentile, che, mentre U penso, fa l'alma iddia! Una dicea in atto assai umile a un leggiadro e gentil giovinetto, che parea rosa fra '1 maggio e l'aprile: « Deh, per dio, apri a me il tuo accetto! Cantasti tu giammai innamorato rime d'amor a muoverti a diletto? » E quel gentil, ch’era fresco e rosato, con un riso soave e con isguardo che 'nfiammeria d'amor ghiaccio impetrato, le disse: « Sì; ma perché ben mio dardo tu chiar conosca come passa l'alma, i' tei dirò sanza nessun riguardo. Tu sai che porto l'amorosa salma carcata per la via di questa ladra, che '1 cor rubato m'ha, tiello in sua palma; i' dico qui di Gostanza leggiadra ». Ella sorrise e disse: « Tu vaneggi com'uon che finge la perduta istrada ». « Ahi, lasso a me! dirai ch'i’ non vagheggi sempre il tuo viso, tanto gentil cosa, che l’occhio del bel del tu lo pareggi? or ti dirò mia ballata amorosa:

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La pulzelletta gentile e vezzosa, co* suoi costumi e bellezza del cielo, che chi la vede sì se ne innamora, tien la mie mente altera e grol'iosa, ma in ora in ora un amoroso gelo tutto m’infiamma, e ’1 sol lei adora. Il disio e la pena ognor m’accora, veggendomi diviso da lei mirar, ch’è ’1 mio paradiso ». Po’ ch’i’ vidi quello amoroso gioco di quel leggiadro e dilettevol canto, che fu agli amanti lieto e ricco loco, senti’ ciascun ladarne e darne vanto al dicitor cotanto innamorato; e dopo il ragionare insieme alquanto, udi’, ridente, un giovan ch’era allato a una sì leggiadra creatura che più bel viso mai non fu formato, e disse: « Lasso me! L ’alma mia pura infiammat’è d’amor, tutta fervente, che de’ durare infin che l’alma dura, i’ dico d’una Cosa sì lucente più ch’altra damigella al mondo sola, e non pur mio giudicio veramente. O come ancise a me l’altra parola che ’nanzi alla canzon tu s [ì] pregiasti, soma a mie spalle più che ampia mola, quando Cosa gentil tu nominasti! che se non fusse poi il canto chiaro dove il tuo amor perfetto dichiarasti, i’ dico: Udite, compagno mie caro, i’ dubitava forte di mia ’manza ch’a me non fusse tal piacere amaro; ma poi m’accorsi ch’ell’era Gostanza, rimaso umile, tutto lieto e giulìo ogni mie spirto con brava isperanza. E1 tuo cantar l’amor mio non è vivo, ché d ’altra innamorato in questo loco; per quel gentile oggetto, onde ’1 derivo, i’ senti’ un paragon pel vivo foco che ’nfiamma la ’nfelice anima mia, che tosto dichi, e nel rider sì poco ». Dietro senti’ altra dama giulìa, ch’attenta istava su per l’erba verde, ferma e costante men sua fantasia.

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Tosto rispose e disse: « Più si vede il piacer del cantor ne* caldi visi, dove nota d’amor già non si perde, r canterò in forma un po’ divisi duo canti, ma in sustanza è quasi sola questa mia iddia, co’ crin nell’oro intrisi. Udite ornai l’ardente mia parola: o quant’è gentil cosa, ardente e bella, giovani, esser costante e seguir d’esta iddea Forme sue sante! I ’ non credo che tanta gentil Cosa, altera e bella, candida e pulita, mai il sol vedessi; onde è l’alma smarrita: per dolcezza d’amor non trova vita. Or, s’ella fosse un poco a me pietosa, i’ sanerei la mia mortai ferita, che spesso ispesso alla morte m’invita, quand’ell’è tutta da mie vita ascosa. I ’ la seguo e adoro col mio core questa rosa leggiadra; sempre disio sanza triegua un’ora, e io non veggo in lei ardere amore. Ma però questa strada lasciar non deggio, posto ch’io ne mora. Sua infinita bellezza il mondo onora, ch’è cosa triùnfante; onde: piatà, piata al fermo amante! Ma, quando veggo il suo leggiadro sguardo, avampa il core una dolcezza diva, isfavillando amor nell’alma lieta; sicché felice in foco e ’n ghiaccio i’ ardo. O buon destino, o benigna pianeta, quando opri ch’i’ mi specchi in questa diva! » Così pens’io, e sì di riso in pianto men già col tempo di letizia pieno, ch’udia quanto amore e grolia ha vanto. Subito che ’1 cantar si venne meno, ognun ridea in suo atto gentile: è pien di fior il capo, il petto e 1 seno. Sì benigno aere mai non ebbe Tile, né si fiorita fu né pien di fronde, e mancheria a dirlo ogni istile. Mentre tra’ fiori e le fontane e Fonde i’ rimirava, senti’ un fracasso e gridar: « Piglia, piglia pria s’asconde! »

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r mi volsi, e vidi un che già lasso venia fuggendo, e ridea tanto forte che la velocità toglieva il passo. E dietro a lui duo damigelle accorte il seguitavan per quella foresta, che fa d’Amor leggiadra e prima corte. « O quanta vaga e triunfabil festa — disse Cupido a me, che stava attento di sapere o lor voglia o lor molesta — , tu sì n'arai, e rimarraix contento! Raguarda qui: ne viene il giovinetto che fugge avanti, ma non per pavento ». Presto venuto, quel gentil valletto gittossi in mezzo della vaga ischiera, e tutto istanco fé dell'erba letto. Le damigelle, ciascuna lieta e altera, addosso presto a lui sì si gittaron e non tenérsi pel loco in che era, e quivi insieme sì si voltolaron; e' si iscotea, e ella il tenea forte, tanto che l'altre a ciò preson riparon, dicendo: « O che spiacere, o che ria sorte è vostra lite, ditecene il vero; per cortesia, deh, fatecene accorte! » « E' ci ha rubato con parlare altero ». Più oltre non dice, o che, né come la vaga pulzelletta al cor sincero. « Tu che m'odi, ha’ tu di ladro nome? » Presto risponde alla domanda lieta: « Tosto iscarcate me di queste some. I' vi dirò con voce più quieta quel c'ho rubato, perché, come e quando e perché ciaschedun d'esta mel vieta ». Quel lieto cor disse: « Esto dimando: ch’assai giusto è preso ». Le donzelle liberàro quel forte, ancora ansando. Elle dicon, le due leggiadre stelle: « Deh, quanto fa gran mal chi parla cosa che 'ngiuri altrui per piacere o novella! » Il giovan disse: « Certo e' non ha cosa, e vostra fiamma anzi è ben nota assai a ciaschedun d'esta vita amorosa. Però cantar vogliate i vostri lai in piacer di voi stessi e sì d'Amore e sì di questi giovanetti gai ». Po’ si rivolse a que' che con ardore

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d’udire stavan tutti attenti e cheti, e disse: « Prima ch’io apri lo mio core, licenza vo’ da questi spirti lieti, vaghi e gentili più che criatura, e d’Amor dilacciati alle sue reti ». Elle, sghignando con lor vista pura, sì dice: « Non cantare ornai, ch’è tempo: rendici il nostro, e faccene sicura della fé data non è agual tempo; e poi ne dirai quanto a te piace, licenza avendo dirne in ogni tempo! » « Deh, vogliate cantar l’ardente face e far chiaro costoro come stesti — rispose loro — in gloria e ’n tanta pace, quando con vago canto mi dicesti tu del parlar che facesti al tuo amante: ètti quel che dal tuo tu ricevesti? I ’ sì rubai con un disio costante e filice in amor quanto innumano, dove si leggon queste note sante ». E tosto sì mostrò a mano a mano quel che dicea a loro esser vero, sicché ciascun ne rimase ceri ano. Quel che 1’ udir sembiante dolce fero alle donzelle con umìl parlare, ch’arrossat’eran pel parlar sincero. « Deh, non vogliat’a questi essere avaro a ridir vostra grolia e vostra laude, ché dirlo a voi debb’esser sempre caro, perch’io veggo che ’n voi tanto si scalde fama d’amore e tanta gentilezza: di fare a voi piacere il cor ne scalde. I ’ farò più per dar bene allegrezza ch’io canterò sonando una viola, quanto infiammato son d’altrui bellezza ». Sì le rispose; e questa meco sola il simU si farà, cantando quello che ricevea da quel che 1 cor le ’nvola. « Però fate che questo tanto fello quel c’ha rubato presto a noi ne renda, ché dovute non rimangan con elio ». E quel ladro gentil, che ciò intende, presto rende quant’era addimandato e, per udir cantar, tutto s’incende. Ciascun che venia intorno e dallato a seder si ponea lieto e attento,

per udir quel bel canto innamorato. [E ] così cominciò col cor contento: 1210

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« O gentil creature di quel cielo, dove Venere rota il suo crin d’oro, per cui è fedito d’amoroso telo ogni gentil dal vostro santo coro, i’ mi trovo in tale ardente gelo ch’è mestier soccorriate al mio lavoro a cantar cosa che ’nfiammi d’amore il mio gentile e tanto bel signore! I ’ ho eletto te, idol mie vago, tanto leggiadro e pien di gentil cosa: quando ti miro ogni mie senso appago. Perché tuo vita è molto grolìosa da te seguire e Amor mai mi spago; e però non tener tuo vita ascosa a chi t’ama e adora, segue e brama, grolla, esalta e pur te sì ama. I ’ sì mi ispecchio nel tuo gentil viso, dove mie gloria ha lucenti occhi lieti; i’ sì mi specchio nel leggiadro riso, per cui i mie’ sensi istanno tutti cheti. Specchiomi nel parlar di paradiso, che tu fai col par[lar], onde m’asseti d’un amor che ’n te piove gentilezza, onestà, leggiadria, somma bellezza, la chioma fresca intorno a quella fronte, le vaghe ciglia sì leggiadre e conte ». Finito il G iuoco

II Lr1 Or hai mostrato, Amore, ogni tua possa, or mi leghi, or mi sciogli con ti piace, ora m’ha’ dato guerra e tolto pace, or mi rinfiammi, or mi ringhiacci Tossa; ora, per fatto stremo di tuo possa, ora m’avampi come tizzo in bragia, ora mi spolpi, or m’ardi con tuo face, obliandoti il fin d ’ogni rimossa.

Da poi, i’ sento che’ valori sparsi tu hai sopra di me, e tuo faretra ha’ vóto tutto di saette d ’oro. Donne pietose, niente s’aretra questi ch’a tormentar non fa quetare: dunque seguir mel vien per mio tesoro.

Ili Lr1 Lieve penna nell’aria starie salda e grosso ghiaccio diverrebbe foco, e fiamma ardente neve in caldo loco si torrebbe a solare a falda a falda, e aier, dove il sol più la riscalda, pasceria pesci, e cupo mare in gioco ogni brutto animale, e in lito poco staria natura insieme fredda e calda, prima che questa imagin mi si tolga di questo oltre a celeste e più bel sole, ché ’n cor d’un diamante i’ l’ho scolpita. La terza spera ornai indarno si volga, ché, mentre ch’io potrò spirar parole, canterò in questa donna esser mia vita. IV Lr1 Vidi cangiare al sol l’aurata fronte quando mia donna scoperse suo’ rai fra rezzo, fiori e frondi in verdi mai, stando a sedere a piè d’un vivo fonte, d’amor cantando; e discendea dal monte una pioggia di fior faldati e gai, ove uccelletti cantan versi assai; per stupore mie còme fèrsi inconte, pe’ raggi che fendean quel sereno, onde chi si ingirava paria d’oro: li uccelli, Tonde, e pesci e’ verdi colli. Quando coglieva un fior mostrava il seno, pien della pioggia, che pareva avoro: non v ’amirate ornai s’ho gli occhi molli.

V Lr1 Gigli, rose, vivole in vasel d'oro, in verdi fronde mille uccei cantare, nude pulzelle in fonte sollazzare, e Diana col suo leggiadro coro; abete, pini, mirti e sacro alloro, ermellin vaghi in bel verde giocare, amanti con donzelle sospirare, perle, zaffir, balasci e più tesoro; mille rii mormorando in chiusa valle, mille ninfe leggiadre a un bel rezzo, Ganimede e Narcisso a lor disiro; lor sembianti e sospir, serrar di spalle, lor parlar, lor baciar, tenelli in mezzo: non faren len mie più debil sospiro. VI Lr1 Donde venne la imagin di quel viso? da quale idea o donde si diparte? Certo sopra natura fu quell'arte, ch'ordinò que’ begli occhi, il petto e '1 riso, ogni spirto divin, che '1 paradiso se ne turbò, ma non Cupido e Marte, però che più effetto è in lor parte, e be' '1 so io, che ne son già conquiso. Per me pietà è spenta e forza torta in consolar mi' alma lassa e stanca, ma pur un sol soccorso i' ci riveggio: che voi, piè miei, con amorosa scorta ne giate al mio signor, ch’ancor non manca, pietà gridando, ché raffreni il peggio. V II Lr1 S'io sono in guerra, chi me n'è cagione altro ch'i’ stesso? O s’io aghiaccio in foco, o s'io piango o lamento in sì rio foco, non so che dirmi: i' ne son pur cagione.

Se viva fiamma i’ amo, per cagione di fuggir o cessarmi d ’esto foco, d’un’orsa e tigra pur mi tene in foco sol mia la colpa, e nuiraltro è cagione, F, s’i’ pur sento l’impio mio disio, fuor di ragione è correre alla morte; per voler vita e trapassare affanno Amor si debba: sol chi ha disio di virtù ha gentilezza in fin la morte, perch’è carco dovuto e senza affanno.

Vili Lr1 Un disio amoroso spesso il core nel mio tormento antico, dolce e acro, pur mi rivolve, omè, del viso sacro: male a mio opo vidi suo sprendore. F mi consumo in questo sordo ardore più che pel tizzo non fé Meleacro; omè, l’alma mia ha morte e ’1 corpo macro, omè, ch’ogni soverchio sdegna onore! Questo è ’1 disio, che la malvagia voglia per nostra cupiscienzia la nutrica, e vola e passa come polve al vento. Doglianci, amico caro, d’esta soglia, la qual mi pare a voi troppo nimica, tosto ch’el buon pensier non vuol l’uom lento. IX Lr1 Solo e pensoso mi dolea d ’Amore, che ’n ver di me mia donna tien sì fera, dicendo: « Il gran pensier della tua spera verso di lei non mostra alcun valore. Deh, per dio, tosto spetra, ischiaccia il core d’esta sdegnosa, selvaggia e altera, sì ch’ella regga l’amorosa schera, che per mio mal distin non esco fora ». E ’ mi risponde e dice: « La tua donna non mi vale sfidar, né fedir d’arco, né avampalla in amoroso foco,

però che ’n un diaspro ella s’indonna, dove il faretra ho mille volte scarco, e a ferilla non ci veggo loco ». X Lr1 - L45[Tinucci] - IF *N 2 [Tinucci] - GV [Tinucci] - FN6*105 Perle, zaffini, balasci e diamanti, smeraldi con topazi e chiome d’oro, fior, fronde di Minerva e sacro alloro trezzar vedea, e solo era davanti. I ’ non potea mirar pe’ raggi santi, ch’uscien del prezioso e bel lavoro, ma pur talor vedea duo man d’avoro trezzare i crini e’ fior tanto raggianti. Madonna sopra sé cantando stava, isfavillando intorno mille spirti, ch’a amor moverieno un freddo sasso. « Mercè! mercè! » mille volte chiamava: sol me udia i massi, i pini e’ mirti, onde d ’ogni mio senso venni lasso. XI Lr1

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I - Nella dolce stagion, che’ verdi colli ridon per mille uccelli, fiori e fronde, e’ pian cangian pe’ prati, ché li scalda il vago tempo che l’aer circunde, per mille spiritelli, per cui volli arder d’amore e voglio, stando salda, mentre ch’el cor riscalda, la forte fantasia, perché or più che pria fulminando si vien dal terzo cielo? Omè, perché si scosta e fugga il gelo e ognuno s’innamora e arde e ride, non è però eh’un velo non facci al cor d’un ghiaccio che m’uccide. II - Quando le chiome del fi’ di Latona sparse son nel Cancro, onde sfavilla infondendo in voi ogni caldezza, perch’ogni monte, valle, costa o villa a chi l’ha meritato il frutto dona,

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aspettata in sudor tanta allegrezza, dando ogni poi dolcezza, ristorando il passato nel qual s'è affaticato, onde mertevolmente ha a consolare? Ma tu, cruda mia donna, a consumare ha* tolta la mia vita, e già ben leve, che in ogni ora ha a mancare, come '1 più ardente sol faccia la neve. I l i - Neiraltro tempo, ch’el sol duce i raggi co' men caldezza e con minor camino, onde ci porge maggior cerchio d'ombra, vedesi nella sera e nel mattino vestir la terra di superbi faggi e star coperta, eh'è di fiori ingombra, perch’el bosco disombra per lo tempo c'ha averso in mantenello perso, onde di fronde in fronde s'ha a nudare. Ma tu, che' tuoi pensier sempr'hai a durare, istando salda come pietra in poggio, e sprezzi il mio amore, ch’è di tu' ombra mi torna l'appoggio. IV - Omè, ch'i' veggio i vaghi colli e' monti perdere il verde, e ogni piaggia e pietra spogliar d'ogni fiori e leggiadr'erbe, sì che ogni disir d'amor s'aretra, dormendo Tacque per li rivi e' fonti, e 'mbianca l'alpi, e '1 pian sì si riserba per la stagione acerba, con neve, brina e ghiaccio, onde ognuno il suo laccio isgroppa e spezza, ch'amore ha intrecciato. Misero a me, ch'or più e più legato è '1 core e l'anima, ogni spirto e pensiero, anzi arso e consumato, per que’ due occhi di quel viso altero! — Canzona mia, or che farai? Girai alla mia donna, anzi salda colonna in forma umana d ’un bel diamante. « Sì ben ch'io n’anderò da lei avante, dicendo tuo lamento in ciascun loco; sarò sempre costante, fin che arà piata chi t'ha nel foco ».

XII Lr1 Chiaro seren doppo pioggia aspra e fera, porto tranquillo, in mar turbi e tempesti, amorosi sospir tremoli e lenti doppo un crudo tormento in voglia vera, benigno giorno, chiaro di suo spera, doppo notte maligna e nevi e venti, un riso lieto fra pianti e lamenti, e disdegnosa donna, umile e altera, doppo avarizia lieta cortesia, doppo a mendico infra divin tesoro, e doppo un turbo un lieto e chiaro viso: doppo un’amara una vita giulìa i ’ ebbi: or pensa ornai che gemma o oro non si potrà adequare a un sol riso. X III Lr1 Donne gentil, cui piata move el core a pianger per dolor di mia madonna, di scur perso vestita è la sua gonna, di lagrime bagnando per dolore, mirate fiso, e vederete Amore pianger con lei: straccia su’ arme e sgonna, e nel suo pianto dice: « Ornai, colonna, deh, non voler del mio regno esser fore! » Dunque, per dio, consolate està iddea! Sopra il perso ella rota il suo crin d’oro, e col candido vel s’asciuga il viso. Ahi lasso a me! o Fortuna sì rea, perché m’hai contristato il mio tesoro, qual m’è, vivendo, in terra un paradiso? XIV Lr1 Che giova investigar ciò che può arte, natura, ingegno, intelligenza o idea, poi che fra noi mortali è tale idea, che penna o lingua non potria dir parte?

Giove sì la vagheggia, Febo e Marte; Giunon la ’nvidia, Danne e Citerea. O specchio delli iddei, ciò che potea Que’ che ti misse in terra da sé parte! Dove filate fur le trezze d’oro? dove l’esempro di tanto bel viso, o del bel petto sereno e lattato? Questo pur è il più ricco e bel lavoro che mai avesse il mondo e 1 paradiso: gloria m’è grande esser di lei infiamato. XV Lr1

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I - Per volermi ritrar, ragion di fiamma, mi mosse mio pensier, ch’è ’n foco e ’n ghiaccio, sol per camparmi d’angosciosa pioggia, la qual m’aduce rotando un bel sole, che con falsa ombra mi mostra sereno, che come vetro fa lustrar la terra, II - dicendo: « O animai che vivi in terra, vuo’ tu perder lo tempo in coiai fiamma, che scurità t’aduce e non sereno, sempre infiamando in tanto forte ghiaccio? » « Deh, ch’è ragion i’ vo’ vedere il sole — mio pensier dice — e non ne temo pioggia ». I l i - Ma, quando sento la suverchia pioggia, ragion sì mi ripiglia e dice: « In terra, deh, non porre speranza in cotal sole, perché tu vedi che ti tiene in fiamma, che sopra viva bragia nutre ghiaccio, dando tempesta e fuggendo il sereno. IV - Deh, abandona ornai cotal sereno, ché, sol per lui mirar, tu senti pioggia! Tu sì noi pensi, tanto se’ nel ghiaccio nutrito, poi che conoscesti in terra ». E io: « Non ma’ lo pensi; i’ vo’ la fiamma — rispondo a lei — d’esto sommo sole». V - Ma quando aviene ch’io non veggio il sole, onde forte si turba il bel sereno e vie più mi rincende viva fiamma, ragion, più aspramente che mai pioggia, sì mi percuote, non percosse terra, dicendo il suo amonir: « Lascia il gran ghiaccio!

VI - Tu sì non pensi, ché vie più che ghiaccio per te istà gelato questo sole, e non ti giova calpestar la terra ». Deh, io pure spero il bel sereno, niente mercè curo d'aspra pioggia, pur che io senta un raggio d’esta fiamma. Ma s’elli avien ch’i’ aggia questa fiamma del più bel sol che dia sereno in terra, perch’io stia in ghiaccio, i’ non ne curo pioggia.

XVI Lr1 Vostro cortese dir, che mi circunda dove m’accide Amor con mortai daga per quella che s’intigra e sì s’indraga verso la stanca vita ch’ella ’nfonde, m’ha sì infiammato che mia alma altronde né sa né vuol pensar vers’altra piaga. Ahi, quanta cortesia sì si dilaga nel vezzoso parlar, ch’appello infonde! Ma da quel prenze che ivi tien sospeso e ’ncaccia e ’nfiamma me in foco divo, i’ non mi sciolgo, ch’elli ho sempre ateso. Ahi, com’è ricco suo viver giulivo! Seguitiamo il valor che ci ha accenso, ché cor gentile il segue e non l’ha a schivo. XVII Lr1 - L4 [Tinucci] - FN2 [Tinucci] - GV [Tinucci] - FN6 Pianger dovete, pietre, colli e mai, uomini e donne, pesci, uccelli, Amore, animai, serpi ed ogni fronde e fiore, poi che perduti avete i chiari rai di mia madonna, i cui sembianti gai hanno anciso ed infocato il core di chi la vide nel reai valore, sotto questo bel ciel felice assai! Piangete e lamentatevi ancor forte con chi nel suo bel viso si specchiava

più che altr’uomo qui, fra questi monti! Voi be’ 1 vedrete che in vita e in morte di lagrime la faccia e 1 petto lava, sì che' su’ occhi paion vive fonti.

XVIII Lr1 Tuo spirito gentil, c’hai a sublimare per quello ardore che ti strigne e abraccia, or con dolce tormento or con bonaccia, non de’ curare il folle e van parlare d’esta turba insensata, ch’a mal fare è prona e fella. Per dio, ornai discaccia di lei pensare! Il cielo, il mondo il saccia, ch’i’ mi discopro in tutto lei odiare. Il tuo non è distin, fortuna fella, non tracutanza, ma sol quel ch’i’ odo: parmi che fama etterna chieggi ornai. I ’ l’ho veduta sì leggiadra e snella, questa donna celeste, e in tal modo che penna o lingua il seguire’ giamai.

XIX Lr1 O gentili creature della spera dove Venere rota il suo crin d ’oro, sia benedetto vostro sacro coro e la vostra virtù somma e altera! Sia benedetto chi ’1 mio core impera e ’1 dolce effetto, pel quale scoloro; sia benedetto sì ricco tesoro, che mi lustrò sì forte, e ’1 loco ov’era! Fuor di speranza la mia fantasia, ripiena di dolcezza per quel viso che ’nfiammeria d’amor i freddi marmi, sola e pensosa col tempo sen già, o’, per ¡ un vago sguardo e un bel viso, lieto e pensoso, sentivo avamparmi.

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I - Donne gentili, che sì somma iddea acompagnate, piacciavi mia mente sì stupefatta soddisfar chi sia. I* miro e penso al suo raggio sovente, che Sfolgorando Amor par Citerea, e nel divino o Diana o altra iddea. Per lei mirare già in mia fantasia son mille spirti d’Amore e gentili, che m’avampano il cor per sua biltade: sacra santa onestade sì regge lei in sembianti verdi; onde stupido dico: « In paradiso fur fatte quelle membra e 1 suo bel viso ». II - Così dubbioso, scende un vago spirto di suo sante pupille entr’al mio core, eh’ancor non sa fermar che cosa sia, e dice: « Mira il divino splendore ch’esce del viso, ch’ombra il capei irto, quando rotando sen va per la via. r sono Amor, quest’è madonna mia, perché in lei piove ogni biltà da cielo con ogni santo portamento in terra: benigna e dolce guerra dona, sgombrando d’ignoranza il velo, e fa viver l ’uom morto in sua virtute ». « Ditene ornai chi è tanta salute ». I l i - « La salute di cui preghi e domandi, tanto dubbioso e si carco d’oblio, è spirito del cielo e non mondano. Lo; spiritei che di suo luci uscio ti disse assai; ma, perché ti spandi più voglioso a seguirla e non lontano, più ti diren: ma intelletto umano non può conoscer Tesser di costei, perché avanza in virtù ogni stella. Questa celeste e bella intender nolla può altro che i dei, ma più di quel che potrà il tuo intelletto direnti d’esto sacro santo aspetto. IV - Questa che tanto miri e parti donna è fra noi nove stelle un più bel viso, che ti darebbe al mondo etterna vita;

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ma noi comprende ognun, perché non vòle quel Sire eh’è del ciel prenz’ e colonna, onde a radi si mostra sua gradita. Ell’è in tanta gloria ferma e sita, che, se per vel non avesse le membra, vedendola diresti: « O, il paradiso! Doh, mira pur pel riso come l’erba, i fioretti, il ciel rimembra. Ora ten pensa, se segui tuo stella, a te si mostrerrà quant’ella è bella ». — Canzon, già mi ritruovo in tanta guerra, ch’i’ non so che ti dir; sol per un guardo i’ tremo, aghiaccio, i’ ardo, e volo in cielo, e son corpo di terra. Vattene adunque a questa donna sagra, e prega mi sia dolce e non troppo agra. XXI Lr1 È più bella [di] Diana giuso in terra; discesa ell’è del cielo con bruna vesta e con candido velo. Dappoi ch’ell’è sì gentile e vezzosa, priegoti, Amor, che regni nel bel viso, sì ch’ella sia un poco più pietosa; che vivendo m’è in terra un paradiso, e mai il mio cor da lei non fia diviso, bench’io ne ’nfiammi in gelo, stando a l’ombra del candido velo. Seguite la sua vaga e santa luce, donne gentili, con altero core; in mezzo un tron celeste ella riluce, perché negli occhi suoi triunfa Amore; e be’ ’1 so io. Mostrò lo suo valore, quando ferì suo telo, ch’uscì degli occhi ove fa ombra il velo. XXII A Franco Sacchetti

Lr1 - Ash1 Più e più volte ha infiamato il sole la sua vaga sorella umida e gela, sì che la terra, che sua faccia vela,

ha già lasciato ogni giglio e viole; le fronde verdi cangiat’han che sòie rider li colli, poi che 1 verno ingela, e in declino Febo già trapela per la vergine vaga che *1 ciel vòle. Ed io non veggio quel che’ sacri colli ha coltivato sotto il verde lauro, solo soletto ne lo ingrato tempo; ma voi, piè miei, non siate però folli, che, se ’1 vedete o tardi o per tempo, che noi pregiate più che fama o auro. F. Sacchetti a G. G herardi Sem pre il prudente cerca degne scole, quanto più sa più d ’aparar s }atela; pochi ne guida la mondana vela, perché saligia ognun da virtù fole. G li efetti tuo* e le vaghe parole m i dicon: « Q uesti in Parnaso si cela per veder dove Elicona ruscela e se le nove M use vi son sole ». Conforta la speranza gli occhi m olli di pianger que’ che tra 7 m ar indo e 7 mauro m orte non vide di far m aggior scem po; e Valtro del tuo nome, a cui m ancolli chi succedesse al m ondo falso ed empo, là dove or manca ogni gentil tesauro.

XXIII Lr1 Fama gentile, leggiadra e altera di vostra perfezion sì forte tona, perché d’Appollo mertate corona innanzi al tramontar l’ultima sera. Onde, poi chT veggio che sì vera scienzia in voi sta,, il figliuol di Latona alma gentil cerchiatila in sua zona, ché ben par che vi vogli di sua schiera. Ond’io son tutto disposto e attento d'udir le corde della santa lira

con triunfevol canto in sua altezza. Pensate ornai, poi che sì s’ispira, se io non l’odo, deggia aver tormento: mova piata a dar tanta dolcezza. XXIV Lr1

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I - Dolce mia patria, non ti incresca udirmi, perché ’1 tuo male è mio mortai veleno, che m’uccide, vivendo, ogni mio spirto. I ’ son pur tuo figliuolo, e dei volermi quale che io mi sia, perché ’1 bel seno vagheggio e 1 vago viso e ’1 capei irto. D ’un querco verde, d’un lauro, d’un mirto, d’una uliva ridente il tuo crin d’oro felice inghirlandato ha già molti anni, in onta de’ tiranni, che han voluto usurpar tuo tesoro; e bella ti se’ scossa da lor rabbia, lasciando loro in velenosa scabbia. II - Quando posar vedieti in fra li mai di porpore vestita al dolze rezzo, che t’aducien le frondi sante al viso, vidi fra l’erba i rutilanti rai girti d’intorno, ché ti stavi in mezzo, una vaga presenza in chiaro riso. Tu lieta la miravi a occhio fiso, ma ella prima a sue membra rivolse e trasformossi in velenosa biscia; con froda sì le liscia tanto che ’1 bello uffizio a ciascun tolse, e solo sanza membra questa fera rimase velenosa e più altera. I l i - Alzò la testa, poi che l’impio eccesso ebbe comesso, e con cupida voglia mostrò l ’incendio del malvagio core. Vide un mastino, che l’era ivi presso, ansarsi a uno toro in aspra doglia; ed ella, lieta d ’ogni lor dolore, sparse il velen mostrando buono amore, tanto che vidde il mastin presso a morte, per la forza del toro già affannato; con seco l ’ha legato

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per dare a ciaschedun malvagia sorte. E ben lo fé pria aiutando il tauro, poi putta lui spogliò di regno e d’auro. IV - Questo non è bisogno, madre mia, chT ti ramenti, perché ben lo sai, perché già dubitavi di tua doglia; ma pur m’aduce in mia fantasia un tenero pensier ciò ch’udit’hai, che 'mi combatte come vento foglia, veggendo ancor la disperata voglia della lupa arrabbiata a te vicina, c’ha gustato il velen per tòrti vita. O vana, o ischernita lupa malvagia, come s’avicina il tuo tormento e fin d’ogni letizia! De’ temer chi mal fa sempre giustizia. V - Questa biscia malvagia a te nimica, sì come a te a chi ben vive al móndo, pensa la bella Italia incaprestare con lusinghe e malizia; està impudica sparge il dolce velen per lo suo tondo a intenzione di sé madonna fare. Ahi, quanto è folle pur ciò a pensare, perché a tiranno non si de’ corona, onor, né regno, né felice stato! Sempre l’ha nimicato lealtà e giustizia sua persona, perch’elle son da lui state scacciate, amando fraudolenza e crudeltate. VI - Surgane il puzzo e passi ogni emisperio, sicché ad ira muova il gran Tonante in fulminar questo spirto maligno! Prenda vergogna a dimandare impero d’Italia bella e di sue donne sante! Qual gloria l’arme, gentilezza e ’ngegno? Ornai chi vuol virtù ne prenda sdegno, con forza d ’arme, con tesoro e arte, non tema sua possa assai imbecille: ché, se tiranni mille fosseno insieme, ci dimostra Marte aver trìunfo e corona d ’uliva, fonte di libertà, te, madre diva. V II - Deh, fatti bella e mostra quanto altera tu se’, ché t’è serbata questa gloria,

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ché lor nimica se* per tua natura! Pensa che ’1 traditor vii poco spera, temendo il colpo della tua vittoria, e rodel dentro una mortai paura. Pensi ciascun com’ha vita sicura: da ^odio e ferro e da mortai veleno si vede sempre intorniato a morte chiamar giustizia forte, lacrimosa il bel viso, il collo e ’1 seno. Vendetta, Giove, del rio operare: fammi alla mia Fiorenza vendicare! V il i - Pensa a tue membra e mira quanto belle conduce il cielo, o alma mia madonna; per quella libertà che t’è donata pensa alle tue matron, donne e donzelle, d’onesta leggiadria ferma colonna; deh, pensa a’ vegli tuoi che t’hanno ornata, pensa a’ piccioli infanti, che lattata ancora hanno lor lingua, e nati sono nel libero tuo seno e claman forte: « Alla morte! alla morte! Alla morte il tiranno e que’ che ’1 vono o la sua voglia, e viva liberiate! » Deh, pensa ornai se puoi fuggir pietate! IX - Tu se’ pur di quel sangue antico e sacro, e dello ancor per le divine membra, che ti diè l’alma Roma in sua famiglia. Non è sì fero cor, duro, né acro, che non trema o dolcisca se ’1 rimembra; tremane il mondo ancor per maraviglia. Apri la mente e alza su le ciglia: vedrai Bruto, Publicóla e Camillo, Orazio, Cincinato e Scipione, Marcel, Fabio e Catone, Torquato e l’African, divo a vedello, Fabrizio e più di mille in questo coro, che libertà sol vollon per tesoro. — Canzona mia, tu n’andrai in quella parte, dov’è più bella e ricca nostra donna; riverente dicendo tua ragione, dirai: « Se ’1 ciel dispone guerra o angoscia a noi, diva madonna, e’ sì men dol, ma vo’ che voi sacoiate ch’i’ chiamo sol: libertà, libértate! »

XXV Lrl O affannato cor, tempestata alma, o doglie, o pianti, o lagrime, o sospiri, o lamenti superchi, o van disiri, o pensier folli, o angosciosa salma, o vana mente, o strida a palma a palma, o guai cocenti, o singhiozzosi sospiri, o occhi miei, o rii martiri, aren mai triegua o pace o requie o palma? No, perch'io gusto un dolce amaro mèle, anzi asenzio, pace, anzi ben guerra, dove mi struggo, anzi più aghiaccio e vampo. Omè, pur chi mi ancide i’ ho più caro, adoro pur chi mi consuma e atterra, né dal mio grave mal ci veggio scampo! XXVI Lr1 Omè, ch’i’ non so che farmi ornai: or penso, ora sospiro, or piango, or rido, ora m’impetro, or mi consumo, or grido, or, muto, frango in fra me stesso i guai! Omè, ché s’io chiamassi sempre mai merzè merzè a quella per cui scrivo, non crederia mia doglia! Ornai disfido la debile mia vita in pene assai. Se orso, tigro, aspido o basilisco, idra, serpenti, drago o Minutauro, Cerbero, Polifemo, vermo o biscia udisson lo mio mal (a dir l’ardisco!) aren piata, ma il mio più car tesauro mi schifa e fugge, o nel mirar mi liscia! XXVII Lr1 I ’ non posso passare un’ora intera, qualora non pur solo un lieve stante, sanza mille sospiri, e pur costante è mio disio in questa donna altera.

Or mi fo foco, or ghiaccio, or quel ch’i’ m’era, ora m’induro più ch’un diamante, or ora ’1 sol quand’è Lion cangiante, or fera in bosco, ora alma in terza spera. I ’ non so quel ch’io voglio: ora sfavilla una dolcezza che m’indiva i sensi da quelle sante luci, onde ne tremo, e fière il core un raggio che scintilla. Sì co’ me dico: « Che pur teco pensi? Son io morto, o in cielo, o allo stremo? » XXVIII Lr1 O aer dolze, o edificio altero, o sacro loco, o ricco, o Bellosguardo, tu tieni quel bel viso pel qual ardo, né d’esto foco ancor campar non spero. Ella si canta e io mi struggo e péro. O felice palazzo, i’ ti riguardo; ahi lasso a me, che l’amoroso dardo me pure ancide, e sai chi sente il vero! Tu fra li colli tien l ’altera cima e sopra sta a Fiorenza la tua fronte, e par signoreggiar ciò che tu vedi. Qual fu mai più felice o santo monte? Tu tien madonna, anzi spiatata lima, né mai pensi a’ miei aspri martiri. XXIX Lr1 Fera che t’odia e strugge non è ragion seguire, perché seguendo ti sdegna e fugge. Semplice, puro, fedele e umile ho seguit’una per campagne e monti, stando sempre ver me spiatata altera. Ma’ pio cor non ebbe né gentile, veggendo fatto de’ mie’ occhi fonti e gir mutando per le selvi fera. Omè, che ’n tal manera son costretto a finire per questa ch’amo e ha mia vita in ugge!

Lr1 O castel sacro, o Bellosguardo altero, o filici uccelletti, o fiori e fronde, o tranquille acque, o chiare o lucide onde, Venere iddea, i’ pur mi struggo e péro! Non forza d'oro, di gemme o d’impero potrie quietar le mie doglie prefonde, ma sol quel vago viso che si asconde faria contento il mio piacere intero. Di fama altera e gentile infiammòe di questa iddea il mio stanco core, che mai da’ miei molli occhi fu più vista. Come la vide subito avampòe, perch’egli è più che fama il suo valore, sì che a seguir sol lei fama s’acquista. XXXI Lr1 Di quel gentile sguardo il grande assalto i’ non posso fuggir che più non cresca, e le piaghe mortali ognor rinfresca questo bel viso, c’ha un cor di smalto. Se ’1 gran disio io l’aumilio e essalto, i’ pur preso mi trovo alla dolce esca, e quanto più m’amorta più m’infresca: divien così chi pone amor tant’alto. Omè, stassi mia iddea infra’ bei colli d i. due fresche rivere a Monte Paldi dove talor sospira, or canta o ride. E io, misero a me, cogli occhi molli vo disviando i passi lenti e saldi, e non veggio il bel viso che mi ancide. XXXII M6 O monti alpestri, o cespugliosi mai, o selve, o boschi u’ Diana s’asconde, o campi, o valli, o caverne profonde, o parlare, o giardin belli e sì gai,

o terra, o fuoco, o aier, o dolci lai, o piani, o prati, o erb’ e fiori, o fronde, o tonti, o rivi, o fiumi, o marine onde, o celeste fiammelle, o chiari rai, o fortuna, o distino, o fati, o sterpi, o spilonche, ermi, piagge, poggi e colli, o vento impetuoso, o dolce oreggio, o pesci, o uccelli, o animali, o serpi, o pietre, o sassi del mio pianto molli, ove sono i belli occhi ch’or non veggio?

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I - O vano e falso micidial Cupido, perché fai pur di me sì schermo e strazio e nessuna piatà t’accheta o tempra? Io pur t’adoro, in te mi glorio e fido, e di cantar tua fama non mi sazio, né lingua dal mio cor si scosta o stempra. Perché non ti rattempra, dunque, piatà in racchetarmi un’ora? Che maladetto sia chi mai ti crede! Ahi lasso a me, ch’ai fuggir s’innamora più il mio disio, onde spero ed ho fede! O mala morte, ch’è sì ’nvita e fugge! deh, vogli un po’ pensar come si strugge l’anima mia infra la vinta polpa, e saprai quanto è l’empio mio martiro! Io mi trasporto in questo van disiro e dico pur: « Già mai non ebbi colpa ». Ma pur, s’al ver rimiro, spirto gentile una volta si scolpa. II - Favola al vulgo e mostro il cor gentile tu m’hai già fatto e piatà alle donzelle, ch’io veggio la mia vita tempestosa. Tu non ten curi, anzi mi scherni e ’nvile; deh, perché questo? Quai maligne stelle mostrono a me tanta diversa cosa? Non isperando posa, io latro a muto, piango, rido e strido, mescolando sospir dolci e soavi. Che puoi tu più? Già tutto mi disfido

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di mia salute, ma se pur ti sgravi, dolce mia, pensa un poco a ragion farmi ancora triunfar colle sacre armi. Io ti vedrò nel più leggiadro viso che mai natura procedessi in terra, e pace a me darai di cotal guerra. Deh, non tardar! Vedi ch’io son conquiso. Tutto ìch’io sia di terra, questo disio vien pur del paradiso. I l i - Gli empi tuoi colpi e l ’amorose fiamme e’ sacri incendi alla soverchia vampa, ch’ebbon già forza in Febo, Giove e Marte, non ha potere in questa che m’infiamme, anzi ben m’arde e strugge e mi divampa, ispolpa, spezza, isbrana in mille parte; né alcuno ingegno o arte io truovo o veggio a fuggir questa doglia, tanto so’ inviluppato in questo laccio. Borea o Austro combattè ma’ foglia, né pianger l’aier fé, né l’altro ghiaccio, come di me tu fai il core e l’alma. Deh, pensa un poco alla soverchia salma, che mi farà scoppiar per ogni verso, e con ella più m’incarchi ogni giorno! Omè, perch’al bel tempo io non ritorno, quando ero in libertà, che m’hai furata? Forse col bel soggiorno la vita mia saria più apprezzata. IV - Ora non posso più, io m’abbandono; dir non potrei l’angoscia c’ho nel core, onde: piatà, piatà al miser lasso! Per dio, pensate a quel che fatto sono, angioletti gentil cui arde amore, vedete ch’i’ son fatto un uom di sasso. Ad un malvagio passo mi vidi presso a più di mille spirti, che folgorando tutto m’avampàro. Costoro all’ombra de’ lauri e de’ mirti vidi già giovinetto ed a lor caro, ma io non cognoscea quanto potièno; e poi che quel bel viso sì sereno gli sfavillò, e ben sai ch’io lo vide, passàro all’alma come in proprio oggetto. E divenuto son quale io v’ho detto, cagion di quello ingrato che m’ancide,

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il dolce Amor diletto, e non sen cura, anzi il passa e sorride. — Canzon, tu te n’andrai al mio tesoro, che ’1 ciel vagheggia e chi è ’n terra strana assai ben nel camin, quanto egli è a grato; non riguardare allo spiatato ingrato falso Cupido, che mi spolpa e sbrana, or per un guardo or per un dolce riso. Dirai: « Donna gentil di paradiso con angelica essenza in forma umana, deh, merzè al deriso, ch’alma gentil non fu già mai villana! »

XXXIV G.

G herardi a Filippo Brunelleschi

M 13 - Vat1 O fonte fonda e nissa d’ignoranza, paiiper animale ed insensibile, che vuoi lo ’ncerto altrui mostrar visibile, ma tua archimia nihil habet substanza, la insipida plebe, sua speranza ornai perduta, la ’ede credibile, ragion non dà che la cosa impossibile possibil facci uom sine substanza. Ma se ’1 tuo badalon, che ’n acque vola, viene a perfezi’on (che non può essere) non ched’i’ legga Dante nella scuola, ma vo’ con le mie man finir mio essere: perch’io son certo di tuo mente fola, che poco sai ordire e vie men tessere.

R isposta di Filippo Brunelleschi Q uando dalValto ci è dato speranza, o tu c'hai efigia d ’anim al resibile, perviensi all’uom, lasciando il corruttibile, e ha da giudicar Som m a Possanza. F also giudicio perde la baldanza, che sperìenza gli si fa terribile:

Vuotn saggio non ha nulla d ’invisibile, se non quel che non è, perc’ha mancanza. E quella fan tasia d ’un senza scola, ogni falso pensier non vede l ’essere che l ’arte dà quando natura invola . A dunque i versi tuoi convienti stessere, c’hanno rughiato in falso la carola, da poi che 7 mio « im possibil » viene all’essere.

*

D I A LCU N E

R IM E A T T R IB U IT E A

G IO V A N N I D A

PRATO

I so n e tti sc ritti in g lo rific a z io n e d i F iren ze, d i D a n te , P e tra rc a , B o c ­ caccio, T o m m a so d e l G a rb o e P a o lo d e ll’A b b a c o , c o n te n u ti in F io r. N a z . I I , I I , 4 0 e nel L a u r. X L I , 3 4 , so n o d i n o te v o le im p o rta n z a, p o ich é ben p a le sa n o un elem en to cen trale d e lla cu ltu ra fio re n tin a d e l p rim o Q u a ttro c e n to : l ’esaltaz io n e e la celeb razio n e d elle g lo rie d e lla città. C iò e p e r ra g io n i p ratich e (e p ig r a fi in v e rsi d a a p p o rre a r itr a tti) e, so p ra ttu tto , p e r m o tiv i p a trio ttic i. E ra n o in fa tti g li an n i d e lle gu e rre con tro i V isco n ti, le q u a li, com e si sa , non m an caro n o d i in flu ire in m isu ra d a v v e ro n o te ­ v o le su g li sc ritto ri d e ll’e p o ca: ecco le in v e ttiv e d e l S a lu ta ti e d e l R in uccin i co n tro il p o rta v o c e c u ltu rale d e lla p o litic a v isco n tea , A n to n io L o sc h i, ecco il so n e tto d e l can celliere d e lla R e p u b b lic a , il S a lu ta ti, c o n tro il s i­ g n o re d i M ila n o ( « O scacciato d a l d e l d a M icae l » ) , in p e rso n a d e l q u ale risp o se a p p u n to il can celliere A n to n io L o sc h i ( « O

C le o p a tra , o m ad re

d ’I s m a e l » ) , le « L a u d a tio n e s » d e l B ru n i e d e l D e ce m b rio , la p ro d u z io n e p o e tica d e g li a ra ld i fio re n tin i, fr a tu tti A n to n io d ì M e g lio e A n se im o C ald ero n i. M a eran o an ch e g li an n i d elle p olem ich e le tte rarie . I n F ire n z e u m a­ n isti e tra d iz io n a listi s i sc o n tra v a n o ap e rta m e n te con v io len te in v e ttiv e e a sp r i lib elli, i p rim i tu tti te si a l cu lto d i A te n e e R o m a , i se c o n d i celebrato r i in tra n sig e n ti d e l vo lgare, d e lle tre coron e, d e llo sc ib ile sc o lastico . A lla p o lem ica, che in v este tu tto l ’a m b ien te le tte ra rio fio re n tin o e c a ra tte ­ rizza il clim a cu ltu rale d i fin e T recen to -p rim o ven ten n io d e l Q u a ttro c e n to , p a rte c ip a ro n o p e rso n a lità d i p rim issim o p ia n o : S a lu ta ti, R o b e rto d e ’ R o ssi, N icco li, B ru n i d a un la to ; F ra n ce sc o L a n d in i, D o m e n ico d a P ra to , G io ­ v an n i G h e r a rd i d a P ra to , C in o R in u ccin i d a ll’altro . A p p u n to a l G h e ra rd i a v e v o a ttrib u ito la co ro n a d e i so n e tti in q u e stio ­ ne n el m io v o lu m e « P o lem ich e e b e rte le tte ra rie n ella F ire n z e d e l p rim o Q u a ttro ce n to . S to r ia e te sti » ; è p e rò in fo rm azio n e p iù c o m p iu ta a g g iu n ­

g e re che n el p iù au to re v o le F io r. Naz. I I , I I , 4 0 i so n e tti so n o a d e sp o ti, d o p o , co m u n q u e, il « G iu o c o d 'A m o re » d e l n o ta ro p ra te se , e n el L a u r. X L I , 3 4 , co d ice sc ritto a ssa i elegan tem en te, m a in fid o n elle attrib u z io n i, so n o a sse g n a ti a C o sim o A ld o b ra n d in i . C o m e s i so n o c o m p o rta ti g li stu d io si p re c e d e n ti? I l W e sse lo fsk y ( I l P a ra d iso d e g li A lb e rti, I , 2 , p . 9 4 ) li g iu d icò se n z 'a ltro d e l G h e r a rd i; il F la m in i lo se g u ì ( L a L iric a to sc a n a p p . 3 3 3 - 6 ) , m a p o i n elle N o te a g ­ g iu n te (p . 7 3 8 ) s i m o strò m o lto in certo. In e ffe tti n ell'in d ice sin cro n o d e l F io r. N az. I I , I I , 4 0 le g g ia m o : « C b o m in c ia l'o p e re d i m e sse r g io v an n i d a p p ra to ch iam ato a c q u a ttin o a eh a rt e 3 9 p e r in fin o a ch arte se ssa n t aq u a ttro . E a lle d e tte ch arte so n o se i so n e tti, f e c e g l i . . . in ch o m en d are a d d a n te a m ess. fran e. ° a m ess. G io v a n n i b o cch acci a m a e stro to m m a so d e l g h arb o a m a e stro p a g h o lo d e ll'a b b a c h o » . E , se il D e l B a lz o p u b b lic a n d o il so n e tto in g lo ria d i D a n te lo a s s e ­ g n ò a ll'A ld o b ra n d in i (P o e s ie d i m ille a u to ri in to rn o a D a n te A lig h ie ri, R o m a 1 8 9 0 , I I , p . 3 1 4 ) , il N o v a ti, sta m p a n d o q u e llo su P a o lo d e ll'A b b a c o (G io r n a le d i eru d izion e, I I , 1 8 9 0 , 1-2, p p . 7 -8 ) sc riv e : « I so n e tti so n p re c e d u ti d a a ltre rim e d i C o sim o A ld o b ra n d in i, m a io non s o s e p o ssa n o esse re co n sid e ra ti fa tt u r a su a , com e q u alcu n o h a cre d u to ». Il B illan o v ich , so ffe r m a n d o si su lla n o tizia d e lla n a scita fio re n tin a d e l B o ccaccio che è n el so n e tto su l C e rta ld e se d e lla co ro n a in q u e stio n e , ( g ià e d ito d a l B a ld e lli, R im e d i M e sse r G io v a n n i B o ccaccio , L iv o rn o 1 8 0 2 , p . X L V I e d a l C o razzin i, L e tte r e e d ite e in ed ite d i G . B o cca ccio , F ire n ze 1 8 7 7 , p. 4 8 3 ) , lo a ttrib u isc e a l G h e r a rd i ( R e s ta u r i b occaccesch i, R o m a 19 4 7 , pp. 2 7 -8 ). P e r p a rte m ia d u b ito fo rte m e n te che la co ro n a sia d i C o sim o A ld o ­ b ra n d in i ( le p o ch e rim e a ttrib u ite g li in re a ltà a p p a rte n g o n o a d A n to n io A ra ld o e a F a z io d e g li L ib e r ti), m a n em m en o m i se n to , an ch e p e r ra g io n i stilistich e , d i a ttrib u irle a l G h e ra rd i, rim a to re n on p riv o d i certo g u sto , an ch e se facile, e d i u n a ac c e ttab ile m u sicalità . E d ecco i se i so n e tti, p e r i q u ali, con q u alch e lie v e d iffe re n z a, rip ro ­ d u co la m ia p re ce d e n te edizion e.

V son la nobil donna di Fiorenza, figliuola fui dell’antica romana, che per la grazia divina e sovrana èssi multipricata mia semenza. Per tutto ’1 mondo è sparta mia sennenza del fior che drento al mio giardin si grana: vi sta il tempo e la luce diana. Costor che qui vedete a mia presenza, che ciascun fu di natura dotato, sì che non ebbon nel mondo lor pari, chi in arme prò e chi scienziato sì furon da ciascun tenuti cari che ’1 mio comun ne fia sempre onorato, però ch’ai mondo nascon molti rari. Consiglio ognun ch’appari, chi disia fama, essempro da costoro che passan di ricchezza ogni tesoro.

2 Sonetto fatto per D ante

La grolia della lingua universale ebbi da Giove; in questo mondo errante, più che poeta i’ fui chiamato Dante, degli Alinghier fiorentin naturale. Questo dimostro nell’accidentale: scrissi d’abisso insino all’opre sante, per setta fui di mia terra vagante, per l’altrui terre montai l’altrui scale; e molto ne’ gran luoghi fui onorato e in ispezieltà da’ gran signori; dall’ipocriti fui perseguitato, sì li mattai mostrando loro errori; al fine mio con lor pacificato, mio corpo giace alli frati minori. Sepulto a grand’onori fui a Ravenna, la città antica, ’n tal mod’io vivo che morte m’è amica.

I* son colui che in iscienza profonda sì essercitai mia man gentile che, ben ch’i’ fusse di nazione umile, fuor di Firenze nato in sulla sponda d’una montagna dove batte Fonda da Malancisa mio primo covile, tanto segui’ di scienza lo stile che ’1 verde lauro in testa m’abbonda. Incoronato fui da re Ruberto napoletano, e unico poeta chiamato fui per tutto il mondo sperto, né mai sarà questa mia fama cheta infin che ’1 mondo durerà per certo, di che l’anima mia fia sempre lieta e s’ell’è messa in prieta. A Arquà sul padovan fui nominato, messer Francesco Petrarca chiamato.

4 Sonetto fatto per messer G iovanni Boccacci

Di foglie d’auro m’adornò la fronte il cinto sesto Carlo imperadore nella città di Roma a grand’onore, perch’a ’Licona ebbi mie voglie pronte. Ed è sì sparta l’acqua di mia fonte per la virtù che mi venne dal core, ch’etternal vita i’ ho con gran sprendore per la gran fama che passa ogni monte. Chiamato fui messer Giovan Boccaccio; nacqui in Firenze al Pozzo Toscanelli, di fuor sepolto a Certaldo giaccio. In schiera sto con questi mie’ fratelli, ch’a un tempo fumo al mondo pien d’impaccio, sì ch’io merto di viver con elli. E chi sta a vedelli pensi che affanno e fatica infinita dopo la morte acquistai’ha lor vita.

F fu’ figliuol del gran maestro Dino, ch’ebbe l’onor di tutta medicina, disceso son di stirpe fiorentina, del Garbo nato e nobil cittadino. In vita non trovai di me più fino in nulla parte lontana o vicina, e chi degli altri medici diclina falla se non fa prima mio latino. r fu’ pregato infra molti signori italiani per le gran malattie, ch’i’ trassi già di loro interiori; e fu’ chiamato per tutte le vie, passando tra’ mezzani e tra’ minori; e quando piacque a Dio, coll’opre pie la mia vita finìe. Sepulto fu’ in Firenze ad alta voce nella gran chiesa drento a Santa Croce.

6 Sonetto pel m aestro Paolo deWAbaco V V fu’ lo specchio della Istrologia, Pagol chiamato, e non trovai ma’ pari che fé già diecimilia scolari ottimi, e questi in geometria. Vissimi con onesta leggiadria; merito star fra questi nomi cari miei cittadin, però chT fu’ lor pari di mia scienza e lor di poetria. E fu’ tanto dotato da prudenza chT fé la sperienza in un bacino del fine mio a chi fu in mìa presenza. Allor mostrai ch’i’ ebbi il capo chino, e fedelmente con gran reverenza passai contrito al mio signor divino. E1 mio corpo meschino giace in Firenze con grande umiltà drento alla chiesa della Trinità.

MICHELE DEL GIOGANTE *

M ich ele d i N o fr i d i M ich ele d i M uto d e l d o g a n t e , so p ran n o m in ato il F o rte , n acq u e a F ire n z e n el 1 3 8 7 . E se rc itò la p ro fe ssio n e d i co m p u tista , v iv en d o tra n q u illa m e n te n ella c a se tta sita n el p o p o lo d i S a n L o re n z o con la m o glie C o sa e il fig lio P iero . E b b e g ra n d e am icizia e fa m ilia rità coi M e d ici, ch e lo aiu ta ro n o eco­ n o m icam en te in p iù d ’u r i o cc a sio n e ; in cam b io s i ren d ev a u tile co m e p o te ­ v a ( a d e se m p io sc risse p e r P ie ro , che d o v e v a re c a rsi a M ila n o p e r fe ste g ­ g ia re il n u o vo d u ca, un c o d ice tto , M a g i. X X V 6 5 0 , n el q u a le rac c o lse im ­ p o rta n ti d o c u m e n ti) e c o m p o n e v a p o e sie in lo ro esa lta z io n e ; sicch é h a ragio n e il F la m in i n ell’in d icare in lu i il p ro to tip o d e l p o e ta d i corte. D i c a ra tte re b o n ario e m ite, fu am ico d i A n to n io e G io v a n M a tte o d i M e glio e d i N icco lò C ie c o ; fu an ch e un u om o m o d e sto : n e ll’o ccasio n e d e l C e rta m e in fa tti le sse sem p licem en te, sen z a p re se n ta rle a l c o n co rso , le su e o tta v e s u ll’am icizia ( X V ) . L e su e rim e, p e r lo p iù so n e tti, in m a ssim a p a rte sc ritte in lo d e d e i M e d ici, e q u alcu n a p e r m an d ato a ltru i, p ia ccio n o p e r la lo ro ch iarezza e lin e a rità e p e r la fo rm a c o rre tta e sco rrev o le.

I* FN2 - L4 - M13 - P4 Magnanima, gentil, discreta e grata, vaga, benigna, saggia, onesta e lieta, con Ascendente del tuo bel pianeta sublime all’al tre, se’ dal ciel dotata. Di stirpe degna e degnamente nata, * Sonetto fatto per Lucrezia donna di Fiero di Cosimo de’ Medici, in contento di lei e di Cosmo e di Monna Contessina donna di Cosmo e di Fiero marito della detta Lucrezia.

da menar sempre tuo vita quieta col caro sposo, che di voglia asseta di farti sopr’ogn’altra esser beata, benedetta sie tu. Poi mi rivolgo alla dolcezza de’ suoceri cari, che lingua o penna sprimer noi potrebbe. E dico, tengo, termino e raccolgo che questi quattro in terra senza pari se fussino immortai degno sarebbe.

II* FN2 - L4 - Ba E veggio ben che 1 giovinetto amante a’ tuo’ begli occhi più ch’ogn’altro piace, e veggio ben che fuor della tuo pace rimane il servo tuo con pene tante. E veggio ben che dal capo alle piante a torto Amor m’ha messo in contumace e di tuo grazia fuor, che mi disface, sendo qual suto son fermo e costante. Or po’ ch’a te rinata è nuova voglia di lasciar la via vecchia per la nuova, non veggio al viver mio alcun soccorso. D ’ogni speranza amor di te mi spoglia, né più pregare o lamentar mi giova, essendo in tanta passion trascorso. Non so qual tigre o orso fusse ma’ più di te fuor di merzede: così il possa provar chi non mel crede. Ili**

FN2 - L4 - Ba Se Giove, c’ha del ciel la gran potenza, Fortuna fatta m’avesse cortese più de’ suo’ beni e me’ posto in arnese per sua benignità, per sua clemenza, * Sonetto di Michele del Gigante mandò a ser Iacopo Salvesti ch’era innamorato d’una fanciulla andò a lei. * * Sonetto di Michele detto fatto a preghiera d’un forestiero volendo una fanciulla per donna.

forse che poca o nulla resistenza, veduto del cor mio le voglie accese, fatta sariesi, ma prima palese chiarito quel che non si può far senza, cioè di tutta la mie facúltate. Notizia *tal è data al caro padre di quella per la quale il viver bramo, che se di lei e poi di me pietate avesse -avuta colla dolce madre, detto arien: « Che sie tua, contenti siamo ».

IV* FN2 - L4 - Ba Vorre’ saper qual vita esser la mia debbe in un tanto incomportabil foco, sendo tre anni e più che ’n questo loco venuto son, né parmi un giorno sia. Quanto alla voglia che *1 cor ne disia, sospinta tutta all’amoroso gioco, ancor vorrei saper sbassai o poco gradito son da chi m'ha in sua balìa, e s’egli è ver che su dal sommo coro, per far fede del ciel, quaggiù fra noi discesa in terra sia questa angiolella. Perché, Cupido mio, colParco d’oro e col dorato istral, ché far lo puoi, pietosa nolla fai quant’ell’è bella? y ** R20

Uscito della mia rimboccatura, che le tempie ricigne a mio dispetto, vi vien, come vedete, un mio sonetto, dolendosi di mia disaventura: ch’essendo vecchia, affumicata, oscura già fa più tempo in mio propio concetto istata son di tal casa per tetto, * Sonetto di Michele del Gigante fatto per un innamorato. * * Deve trattarsi di una berretta da notte, che è introdotta a parlare.

che degna non saria toccar le mura. Io mi son molte volte vergognata, agli occhi altrui veggendomi sì vile, e da Michel più volte rimbrottata. Talché già per uscir del vostro ovile più di tre dita mi sono allargata, per partirmi da fronte sì gentile. Ma se mai viene aprile m’aiuterà fuggirne la stagione, sT non son riserrata nel cassone.

VI R21 La ’nvidiosa Fortuna m’ha rivolto dal dolce tempo, tranquillo e sereno, in tanti affanni e di lamenti pieno, che più fie mai senza lagrime il volto. Felice un tempo assai libero e sciolto vissi in giovane etate, e tanto appieno servi’ chi m’ha con suo mortai veneno per sempre in vita per dolor sepolto, e in tedio messo m’ha del più bel viso, de la più bella e più gentil figura che fosse poi che fu formato Adamo; per la qual son da libertà diviso già fa più tempo, e per suo propria cura morto mi vuol, né io più viver bramo.

V II* R21 - M17 Non veggio dove far prencipio possa, scrivere in prosa o ’n versi quel ch’i’ voglio, se non che vostro sono in carne e ’n ossa.

* Versi ch'io scrissi a Cosimo da Firenze a Vinegia a dì d'ottobre 1433, quando vi fu confinato, volendomigli proferere a ogni modo, in qualunque cosa gli potessi esser buono.

Vili RIO

Vago ugelletto mio, qui ne conversi, qui ne dimostri ciò che può natura nella tua spezie, a chi dritto proccura tuo’ tanti vari e sì leggiadri versi. Ècci chi questo tiene un condolersi, per non trovarti sciolto alla verdura overo in selva o ’n bosco o ’n valle scura, separato da noi in luoghi diversi. Ma se tu miri ben tuo gabbia d’oro e poi nel loco dove fai dimora, gradito a paragon d’un gran tesoro, arbitro avendo al potere uscir fora, se già non trasvolassi al sommo coro per elezion di chi l’alme innamora, non tarderesti un’ora di tempo a ritornare a chi ti prezia: o ’n gabbia o ’n grembo de la tua Lucrezia.

IX * P4 1

Quant’è da commendar chi gusta il vero, quant’è da far capitai dell’amico, c’ha già nel cor fermato desiderio d’amar non che l’amico, ma ’1 nemico! Quant’è da commendar l ’almo sincero d’un uom, s’è liberal, saggio e pudico, e quanto de’ prestato essergli fede, quand’ei parlassi per l’altrui merzede!

2

E per questa cagion, ciò conoscendo, avendo a voi cordiale affezione, mosso da passion, quasi potendo,

* Stanze tre fece Michele di Nofri del d o g an te al maestro Niccolò Cieco da Firenze a dì 30 di dicembre 1435. Fune cagione che volendo ripigliare in iscripto le stanze cantava in San Martino con buona forma e con aiuto d'altri e lui informatone e risposto esser contento e di poi isdegnando lasciò il cantare. Il perché stette tre giorni sanza mai parlargli, diliberò fare pace con lui e adirizzogli queste 3 stanze.

in dubbio sto lo sprimer mie ’menzione: contesser può possibil non la ’ntendo la varietà e la gran mutazione, c’ha fatta in noi la ’nvidiosa Fortuna. Ma per me mai si farà scusa alcuna. 3

Se non ch’io vo’ sol esser lo ’ncolpato, non per malizia o per mio mal concetto, però ch’io son di tal conio stampato, adattato a servire in fatto e ’n detto, eh’a torta parte mendace chiamato saria s’i’ fussi; ma pure all’effetto se sdegno alcun ver me nel cor v’avanza, siemi in favor la chiesta perdonanza.

X M17 O famoso Pier mio di Cosme figlio, questo mio libricciuol ch’è tuo lo chiamo, perché ’1 Forte fatto è per tuo consiglio, ché sai sognando di servirti bramo, con certe agiunte qual vedrai ch’i’ piglio col tempo aùte donde noi sappiamo, là dove sempre germinò tal fonte, palese all’universo non ch’ai Conte.

X I* Ba Se per propio destin da’ cieli eletti, pel mezzo di Colui che tutto regge, superior delle terreste gregge, voi siate asunti e da Dio benedetti, asunti in correzion de’ gran difetti di chi non vuol costituzion né legge, ma se col ciel questo popol v’elegge,

Agli uficiali che furono eletti a porre Vaccatto.

consentendol Gesù, siate perfetti! Né vi sotterri e la grolia e la fama, mezzo che possa per mezzo venire, ché felice è chi ben felice Tama. Né mai redenzion d’un tal fallire aver si può dal popol che vi chiama, avendo in voi la speranza e ’1 disire. Non si può contradire volgervi a que* che, di spontania voglia, oferir si dovrian, se così voglia. XII Sonetto m andato a M ichele del d o g a n t e

Ba M ichel, d e’ nostri ben della fortuna quanto porta in iscritto il vostro lume, contrario al rozzo idioto costum e, sanza m ai ripetio di cosa alcuna, l ’efetto d ’ogni mia voglia rauna, diversa a chi d i se stesso pressum e: m ostram i pure, e con breve volume, form a che non mi sia greve oportuna. E se m odel m i vuo’ fare o disegno, questo caro mi fia per più certezza, ché tentato n ’abiàn ciò che puote arte . M a se per m otti oposito rivegno, cagion n’è sol c’ho di veder vaghezza lo ’ngegno tuo, M ichele, in questa parte.

R isp o sta di M ichele

Per dar men noia alla mia fantasia, mi ritrarrò dalla rima in risposta di tanta degna e singular proposta, quantunque in parte onor poco mi sia. Sol cercato ho la sentenzia ci sia, la qual dal mio voler tutta si scosta, veduto quanto e sì caro ne costa questa ricerca a vostra voglia e mia. Pur, dopo quel che Dio promette e vuole, che vuol sempre per noi l’ottima parte,

far vo' risposta alla chiesta dimanda; alla quale altro si vuol che parole, cioè tempo pèrsone a morte carte, a voler ben condir questa vivanda. X III A Piero di Cosim o

Ba Io non so chi si sia quel dicitore del qual ier sera tre sonetti vidi, ma se del mie qui giudico ti fidi, affermo mai non sentissi il migliore. Né non so chi si sia quel sonatore, né donde tratti gli hai né chi gli guidi, se non è il del solcando i nostri lidi, sol per dolcezza del tuo grande ardore. S'egli è così, ché così fermo tegno, al primo fa’ qualch’opera gentile in un capitol bel trattar d'amore della nimica tua; poi, per ritegno di quel secondo, un più propinqui vile trovar gli fa', col tuo propio favore. XIV A Bernardo d ’Alam anno de9 M edici

R6-Ba Quanto più vigoroso si dibatte l'uccel preso alla rete più s’apanna, po', se percossa alcuna ha colla canna, fa '1 tomo schiavonesco a volte ratte. Tal divien chi col cavalier combatte, né mai del campo acquistarsi ima spanna si può con lui, perché ogn'opera danna: sé sol tiene '1 supremo, ogni altro abatte. Con questa ambizì'on, con questo errore volve e rivolve ogni fidato ingegno, coll’artificio d’un maggior favore; dov’io per fermo chiarisco e sostegno che, se quell'uon se n'uscisse di fore, senza denar n’andre', lasciando il pegno.

FNP-P4 1

Nel mio piccol prencipio, mezzo e fine, se mai in prieghi mortai grazia s'infuse, o re del cielo, o tutte alme divine, o sacre, o sante, o gloriose Muse, o spiriti gentili, o peregrine ricerche in caldi dicitor racchiuse, porgete priego al mie dir tal favore eh'a voi sie gloria, a me fama ed onore!

2

O elevata, o gloriosa impresa, o spirito supremo, o chiaro ingegno, o ripien tutto di carità accesa, o di quest'opra colonna e sostegno, o inventor che ti muovi a difesa del vulgar idioma d’onor degno, in vari stili, in diverse manere, sien benedette le tuo cagion vere!

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Le qua' cagion, pel tuo degno destino, perito essendo in ogni facultate quant'altro sommo, gentil, peregrino si truovi ingegno in questa nostra etate, dove il giudicio tuo vie più raffino che non fa l’oro nel foco in bontate, ridotte ci hanno in tal congregazione con laude di vulgar commendazione.

4

Singularmente un vulgar ben tessuto, terso e ripien di vera leggiadria, con un verso sonor, degno e compiuto d'arte supprema, qual vuol poesia, colla sentenza è fondato e fronzuto, in forma tal che l'uditore stia attento e lieto all’opera gentile, per la ricerca di sì dolce stile.

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Appresso al tuo voler tanto perfetto fare' sperimentar questa matera sotto tre don nel tuo proprio concetto, a laude tutto di chi meglio impera, diliberando ogni spesa in effetto di tuo pagar; così il pensier ne spera, quand'uno spirto gentil sopravvenne, d'amore acceso e di virtù solenne.

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Sentendo d’un tant’uom sì calda voglia, po’ del suo degno fin costrutto volse; e perché la virtù sempre germoglia dopo lo ’nteso, ta’ parole sciolse: « O maggior mio, deh, non passar la soglia ch’i’ non sie teco — in sentenzia raccolse — nel seguir la magnanima tuo ’mpresa, grazia impetrando di me sia la spesa,

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ch’io non so quando ancor negli anni miei cosa sentissi più degna o più grata ». Rispose il gentil uom, qual saper dei suo degno nome e suo casa onorata, né con silenzio tacer lo potrei, sendo inventor di sì dolce giornata; quest’è messer Batista degli Alberti, a Pier di Cosmo pe’ suo’ degni merti,

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e disse: « Piero, e’ non m’è or sol noto la tuo virtù, la tuo magnificenza, veggendo te sì fervente e devoto; ch’i’ dal ciel abbi favore e credenza! Né alla voglia tua romper vo’ il voto a laude della nostra alma Fiorenza ». Così uniti rimason d ’accordo. Or vo’ seguire il mio fedel ricordo.

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D ’ogni cagion cagion Primo Motore, estupefatto all’opera tua vegno: gli angioli, i ciel pel tuo sommo vigore prima criasti in sì fermo sostegno; po’ giù il terrestre e ’1 di drento e ’1 di fore, l’uno e l’altro emisper faccendo degno, sendo un caos, e di poi il sesto giorno facesti alla tuo ’mmagine ritorno,

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criando il nostro primo padre Adamo alla ’mmagine tua, Signore etterno, faccendol possessor per tuo richiamo delle create cose in sempiterno. Te dunque invoco, te supplico e chiamo, ch’a me die lume, perch’i’ non discerno, dopo tanto mister, di tua clemenza nascer potesse tal disubbidenzà.1

11

Prevaricando il tuo comandamento, pel gustar sol di quel vietato pomo, ch’ogni suppremo lume gli fu spento,

brutto, vile animai fatto, sendo uomo, cacciandol fuor con sì greve spavento del paradiso, al qual pensando il corno, colla faccia turbata e con furore dicesti: « Viverai del tuo sudore ». 12

Così per tal peccato originale, privati fumo di tuo gloria immensa, fuor di redenzìon, ché nulla vale in riparare alla ’nf inita offensa. O del ciel Re, invisibile e immortale, per te, come tu sai, poi si dispensa mandarne il tuo Figliuol, ch’altro n’avanza per sapienza, a purgar l’ignoranza.

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Sì strabocchevol, sì tenero amore il Cffator mostrò alla criatura, volendo esser del fallo redentore: incomprensibil fu senza misura. Di quinci nasce, o mio caro uditore, il tema dato, se ben ci pon cura. Della vera amicizia il testimonio fu il buon Gesù, e non c’è altro conio.

14

Tutt’altre impronte e tutt’altri suggelli escon del vero e naturai suggetto artificiati, alla virtù ribelli, avendo l’amicizia un sol ricetto. Nota, se mai di lei pensi o favelli, perch’ogni altro veder sarie ’mperfetto, duo corpi in un voler per grazia infusa vuol con un’alma innestata e ’nterchiusa.

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Quivi è ’1 suo vero e glorioso seggio, né più quiete sotto il ciel non trova; quivi in triunfo e ’n tal fama la veggio, solo esprimer lo può chi 1 sa per prova. Il perché, degno uditor, ti richieggio ch’or la tua gran fantasia non si mova, notar volendo qui la differenza d ’alcun, che varia in fallace credenza.

16

Tenendo ch’amicizia e cari tate sieno una propria cosa, un proprio effetto esca di loro e di lor f acuitale ; questo tenere, uditor, è imperfetto: sol l’amicizia produce in bontate

duo fidi amici, ognun col casto petto; se pur per accidente alcun si piega, la carità gli riunisce e lega. 17

E per questa cagion niun mai ti faccia dal ver giudicio torcere o piegare; ogn’altro fabuloso parlar taccia; sol per virtù, la virtù debbe amare. E chi, fingendo, tentando altra traccia va, puossi e de'si mendace chiamare. Né storico t'inganni, né poeta, se la virtù coll'onestà tei vieta.

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Io ho sentito già il particulare del greco Omero e del buon Mantovano, di Tulio ancor, che seppe e dire e fare, Valerio ed altri come noi sappiàno; ognun diffusamente in suo trattare n'han detto e mostro quel che ne leggiàno, singularmente ancora i tuoi moderni, Dante e '1 Petrarca, sol per fama etterni.

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Né credo che tu creda che, raccolto, come fa l'ape, di tutti il fioretto, sed io non son dall'ignoranza involto, istando alla ragion sempre suggetto, derogar possa, o che mai ne sie tolto quel vero conio, che di sopra è detto, di quella immensa carità sincera, che '1 seggio tien dell'amicizia vera.

20

Qui vo' far punto e qui silenzio porre, qui vo’ lasciar di tanta opera il dire, d'ogni torto veder giù mi vo' torre, avendo in voi la speranza e '1 disire, alle cui leggiadrie non si può apporre, faccendo questo ed'ioma fiorire, e voglio attento star, tacito e lieto, e gustar d'amicizia ogni segreto.

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Né vo’, né chieggio esser qui messo in sorte, né venir in cimento al paragone tra oro fin, rubin, balasci, il forte di questa tanta e tal congregazione, serafini, del ciel propri consorte. Io per contrario in tal declinazione, con artificio son rame dorato, o doppio vetro in caston d'or legato.

22

Sol nella superficie colorare posso, o potrei sotto un divin furore, caldo nel dir, senza considerare, o senza averne alcun gusto o sapore. Per la qual cosa V vo' ratificare suggetto e paziente star di fore, pur che *1 mio buon voler non mi sie tolto del far poi triunfar questo raccolto.

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Di tali e tanti dicitori in versi, illustri e degni di fama supprema, sotto tant'alti, leggiadri e diversi solenni stili, pur all'eccelso tema già sento di dolcezza i sensi persi, tanto licor mi par giù dal ciel prema in laude propria della lingua nostra, come la vera esperienza mostra.

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Poi il fronte di queUuom tanto eccellente incoronar del glorioso dono veder vorrei sì magnificamente che per tutta Europa andasse il sono, sendo tra* dicitor tanto eminente; s'i' trasandassi ancor, vaglia perdono. Vorrei vederlo uscir poi del Duom fori, con tutti e venerandi dicitori;

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ciascun con vaghe grillandette in testa, piccole e peregrine, il secondasse di lauro o di mirto per più festa, con tanti suon che l'aire ne tonasse; con quella compagnia degna ed onesta insino al proprio suo seggio s'andasse, per più sublime sua commendazione. E qui sie fine al mio fatto sermone.

XVI Ria

Com’esser può che 'n un peregrin core della più bella e più gentil figura che mai formasse sotto '1 ciel natura regni tal crudeltà, che sprezzi Amore e vilipenda un suo car servidore, qual sempre amato l'ha con fede pura? ;

Questa mi pare impossibile ingiura, che mi fa svaporar dentro e di fore e supplicar quel faretrato arciere, che col dorato strai regge e governa ogni e qualunque più robusto ingegno, che 1 faccia in forma e amare e temere, che per amar sempre conosca e discerna del mio grieve languire il giusto sdegno. XVII R18 QuelFimbendato arder [e] (che) 1 cor mi cinse d un’amorosa fiamma, in modo tale ch’alcun ripar per assentar non vale, poi che ’1 dorato strai la corda pinse. Quel miniatore e] (che) ’1 bel viso dipinse suppremo sopra 1 corso naturale di quella mia nemica, colla quale Amore insieme in tal guisa mi strinse, per far quel volto in tal perfezione che perla orientai proprio parea. Ma poi col tempo per vari accidenti cangiato è tutto a tal mia passione ch’i’ho menar col tempo vita rea, se non ritornan quegli occhi lucenti. Guarita le rammenti di risanar la mia incurabil piaga, dov’erbe non ci vai, né arte maga.

Ria

XVIII

A dì d i M arzo 1449. Sonetto il qual m andai in dì detto al m aestro A ntonio che canta in San M artino, perché il dì detto Piero d e’ Ricci trovandolo o lir’Arno gli disse com ’io avevo fatto uno nesto di uno melarancio e che già aveva m esso due vette: cioè di quel fanciullo canta in San M artino (Simone di Grazia). R ispuose ch’egli non farebbe melarance, e p u r facendole, sarebbon vane. D ove io gli voglio raccordare che anche nel 1437 fu già chi disse: « D i lui non s ’appichere’ m ai » ; e pure prese errore, quantunque noi dicesse volto in m ala parte. C osì gli vo’ m ostrare che le parole che disse del fanciullo non doverono avere alcun tenere e che per questo non s ’avea a dirogare la buona am icizia tra lu i e me. E d issi così:

Chi già mentito senz’alcun ritegno nel trentasette, s’io l’ho bene a mente avesse, che tu mai esser valente atto non fussi in questo canto degno; e non mosso da ’nvidia né da sdegno come sai che si fa per la più gente, voglio al giudicio star d ’ogni intendente: ché di quel tale e colonna e sostegno tu esser dei, e con tal pazienza quanto si de* per uom ch’abbia intelletto, né portargli odio o fargli violenza. Così per quanto inteso ho ch’abbia detto di quel fanciul la tuo propria credenza, in questo giorno vo’ sie per non detto; ché tal nesto imperfetto riuscirà e senza melarance: tegnàn pur d’amistà par le bilance. D issi nella soprascritta: nobili viro M aestro A ntonio di M usica e di canto in Firenze proprio. N ota ch'io fé ' quella giunta a dire di m usica e di canto perché avendo detto cantatore solam ente, non m i parea degno titolo, quantunque ab bia l'arte somma. Parvem i più onorevole farvi quella giunta, cioè per dire d i m usica e di canto; e noi d issi per vilipenderlo in verun modo, chi arei m entito, ma per più onorallo, quantunque della m usica non sappia se n'è intendente.

GIOVANNI DI CIÑO CALZAIUOLO *

Q u e sto p o p o la n o , a u to re d ’un tern ario che n a rra con p re cisio n e un im p o rta n te a v v en im en to p e r la c ittà d i F iren ze, la co n sa cra zio n e p e r m an o d i E u g e n io I V d e l D u o m o , a v v e n u ta n el 1 4 3 6 , a b itò n el p o p o lo d i S a n ta M a ria N o v è lla . M o rì il 9 ap rile 1 4 5 1 e fu so tte rra to in S a n ta L u c ia d 'O g n is­ san ti. I l tern a rio è ra g g u a rd e v o lissim o p e r la sto r ia e la cro n ica fio re n tin a d e l tem po .

I* L 4 - FN2 - FN6 - P4 - R19

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Nel tempo che Firenze era contenta di riposarsi in grembo a Ugenio quarto con quel florido onor che ’1 ciel presenta, piacque al suo santo stato far diparto e stabilì di Bologna la stanza, per poste scritte divulgato e sparto. La Signoria, ch’avea allor possanza, con umiltà a* santi piè n’andàro con ogni reverenza ed onoranza, e quanto fu possibil supplicàro degnassi consecrare il lor bel fiore, Santa Maria, ché Fior la titolàro, a Dio la gloria e di tal madre onore e fama etterna di suo santitate e per più divozion del peccatore. Ancor gli ricordar con caritate per Dio riguardo avessi alla suo vita

* Giovanni di Cino Calzaiuolo per la coronazione di Santa M. del Fiore fatta per papa Ugenio.

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per la salute di cristianitate, che qui si conoscea chiara e spedita la ruma d ’Italia, s’alcun male sopragiugnesse per cotal partita. Rispuose pronto al verbo principale esser grato dator di tanto dono, quant’è consegrazion propria papale. Il sicondo parlar suo santo e buono conosce fatto di duo cuori un core, e però temavam del suo abbandono. Soggiunse: « Iddio, de’ pastori el pastore, provedé sempre alla sua pura sposa, che disperso non sia suo santo onore ». Qui fece punto con silenzio e posa, la Signoria molte grazie rendendo di sì alta risposta e graziosa. La quarantana entrò, marzo giugnendo, ch’era il suo dì del termine a partire e prolungollo, il miglior conoscendo. Per questo travalcar, in corte un dire si levò suso: « E ’ pasceria l’agnello prima che del bel cerchio e’ voglia uscire ». Al promesso mister sì alto e bello nostro signor Ugenio il tempo colse, e l’anno e ’1 mese e ’1 dì, proprio a pennello. Nostra Donna di marzo scelse e volse, in cui s’anunziò tanta virtute ch’a profonda umiltà colpe disciolse. Tre cose principal furo adempiute: el bel nome del tempio e gli anni presi e ’1 dì festivo di nostra salute. Erano a divozion gli animi accesi, di Lazer la domenica aspettando, che vi concorse ancor bontà de’ mesi. Vennesi el degno giorno approssimando. El Comun fatto avea creare un ponte da corte al Duomo a nobiltà guardando. Furon le suo misure chiare e pronte, ché novecento braccia ebbe lunghezza, sospeso due e quattro largo in fronte; le sponde un braccio e, per più gentilezza, di se’ braccia in se’ braccia avea colonne circundate di mirto otto d’altezza. Veder nuovo Parnaso o Eliconne, dove già incoronarsi in poesia, tanto lauro e mirto qui mostronne,

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parea maravigliosa fantasia veder quel magno ponte tant'ornato di panni, arazzi a nuova leggiadria. Era sopra '1 del suo poi divisato d'azzurro e bianco su' arme papale con drappellon pendenti d’ogni lato. Quant’e’ fusse apparecchio trionfale lascione il grido alle nazion del mondo che fur presenti e vidonne il segnale, i fiorentin paesi a tondo a tondo tutti commossi venendo a vedere Tessere e ’1 fare e 1 dir di tutto 1 mondo. Prima, la Signoria fatto ha sapere tre di sicuro ognun venir potesse, libér da ogni danno e dispiacere; e perché degnità più s'accrescesse, molti prigion di career liberàro, donando a Dio lor colpe grave e spesse.

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G ià terza si vedea scolpita chiaro, quando le cirim onie e ' sacri ufizi per l ’Orsin Cardinal si riposàro.

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Cominciò 1 papa allor più santi indizi, quando, pontificalmente parato, giunsono a corte i costretti patrizi. Qui v'era di San Pier tutto lo stato, non così proprio alla spirituale come già fu in suo grazia dotato. Ed eravi pomposo il temporale: ambasciate di re, duchi e signori, insino alla maggiore imperiale. Allora Ugenio con que' sacri onori mosse i suo’ santi piedi in ver di quella Santa Maria, ch'è fior di tutti e fiori. Volò su per le strade la novella: « E1 papa vien! » Ciascun vuol sollevarsi reverente a veder cosa sì bella. Facea suo santo aspetto a rimirarsi proprio comparazion al paradiso, tanto ineffabil venne a dimostrarsi. Passò per San Giovanni e, quivi fiso, rimirò Tornamento e maraviglia d'un'anticaglia in piè di tanto aviso. Po’ giunto al magno Duomo, ove si piglia sulle prime scalee l'entrar maggiore, discese lui e suo santa famiglia. Qui v’era di Firenze il grande onore

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de’ maggior cittadin inginocchiati; reverenti, accettar nostro Signore; e’ passò là con que’ signor prelati, e risguardando del tempio l’altezza e la lunghezza sua d’ambedua e lati. Po’, giunto ove consiste ogni bellezza, fra tre cupole in croce è ’n mezzo l’una, che ’1 mondo parla della suo grandezza. Di queste tre nasce ancor di ciascuna cinque cappelle, onde quindici altari circundano il maggior della tribuna. Le braccia sua, a far gl’ingegni chiari, settantotto negli angoli è ’1 suo vano, centocinquanta è alta, ornata e pari. Nel mezzo era sospeso in sur un piano un rilevato altare, e da man dritta sede ’1 santo Pontefice romano. La calca era sì grande e tanto fitta che farie commendare il bel trovato del ponte, a schifar via mortai trafitta. Già era l’ora e l’ordin preparato per dar cavalleria al Davanzati; perdon sopraceleste infuso è dato. Quattro onor singulari appresentati furon al degno titol di milizia, per far quest’uom, tra gli altri trionfati, tenere in man gonfalon di giustizia nel più bel tempio ch’abbino e cristiani; di man del papa, il dì di gran letizia, fu fatto cavalier, che’ senni umani porrieno immaginar tal nobiltate, se non che i cieli a ciò puoser le mani. Simili onori e maggior degnitate vidi in un altro, a patria tanto caro ch’el chiamò degno d’immortalitate; s’i’ taccio il nome, i ciel lo publicàro per la suo carità maravigliosa, co’ tal trionfo lo rimpatriare. La messa sì solenne e gloriosa monsignor di San Marco incominciata l’avea, ché toccò a lui sì degna cosa, con quelle sacre cerimon cantata che meritava il dì, loco e cagione: non più solenne mai fu celebrata. Così finì questa consegrazione per man di papa Ugenio preallegato

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col suggel della sua benedizione. A corte ritornossi accompagnato, adorato dal popol padre santo, e quel benedicendo umile e grato; al novel cavalier drieto l’ammanto iacea tener per fiorentina gloria, che s’aspetta allo ’mperio far cotanto. Giunto ove posa suo santa memoria, ciascun lodando le suo grazie sparte, partirsi lieti d ’eccelsa vittoria, rimembrando le cose a parte a parte.

GIOVANNI DI MAFFEO DA BARBERINO *

Nacque intorno al 1376 a Firenze e appartenne (v. I l i ) alla cerchia di Cosimo. In tenzone con Antonio di Meglio, scrisse sonetti scherzosi, ne' quali entrambi si burlano p e' loro acciacchi. Morì nell'agosto del 1446.

I A ntonio A raldo a Giovanni di M affeo

L4 - FN2 - Ba G iovanni, i' mi p arti' non meno offeso che tu dalla tuo propia passione, dubitando poterne esser cagione, per volerne piacer, disagio preso. E per in parte alleviar tuo peso, che tutto a tórlo via non t'è cagione, rim brotti, bizzarrie, m ugghi e quistione sien te co sem pre, e nel guarire acceso, esser di tutte cose im paziente, far traboccare all'appitito il sacco, viver sem pre lascivo e 'ncontenente; aceto, agresto, agrum i e frutte a sbacco in ogni cibo e continuamente, nondimen non lasciar Vuso di Cacco. Seguir V enere e Bacco t'ingegna, quando se ' d al duol più afflitto, con trincar m alvagia e chiavar ritto.

G iovanni di M affeo ad A ntonio A raldo

L ’avere e corpi d ’uno umor compreso, gli animi di medesma oppenione fan l’un dell’altro aver compassione,

ch’abbin d’ira e di sdegno il cor acceso. Il rimedio a me dato ho bene inteso; a te il rimando con duplicagione, con questa aggiunta alla tuo purgagione, c’ha da purgarti lo sciloppo preso. Tedio, rabbia, dispetto e duol di dente sien tuo riposo quando se’ più stracco, d’albitrio privo, d’amico e parente. Vivi sopposto al morso del tabacco, in odio e ’n dispiacere a tutta gente, ed apprezzato men ch’un vii patacco. Ancor questo v’attacco: da’ rimpruover tu sia ognor trafitto e patir pena dell’altrui delitto. II A d A ntonio A raldo

L4 - FN2 - Ba Tu mi saetti nel dir medicarne ed io a te bombarderò di notte; tu mi vuo’ dar medicina alle gotte: guarisci te con le tuo cose grame. O che bue, porco, pesce con salame, anguille, agrume e vivande corrotte, vin turbo, grasso, agresto empie le botte e di quel mangia e bei quando n’ha’ fame. S’io mangiar posso, i’ vo’ stame e capponi, lamprede, anguille, arrosto ed in tocchetto, quaglie, fagiani e pollastri e pippioni, malvagie e trebbian ber per diletto, mandorle, pere, pesche e buon poponi, vernaccia doppo il cibo e del confetto. Di Venere l’effetto l’accidente e l’età me n’hanno privo, ché, se ’1 potessi usar, non sare’ vivo. Antonio A raldo a G iovanni d i M affeo N on son gli unguenti tuoi d i verderam e , ma ser A go fé m ai sì gran condotte d i bubbon, di scorpion, d 'asp id i o botte, dond*uscisse velen per far suo tram e,

sim ile a quel che trai; e se 7 farsam e, che d i’ ch’i ’ piglio, e le cose m alcotte con ber vin ferrarese a tutte dotte e 7 gustar cibi ghiotti mi sie infam e, non m ’è invidia il cibar di buon bocconi, li quai tu fai pensando al tuo difetto, che di più scuoter non poter gli arnioni. r pure ancor mi voltolo pel letto, né Sforza mai inforcò m eglio arcioni di me, quando d al duol non sono istretto. E fa ’ questo concetto: che ancora mi risponde il genitivo più olio che qual hai migliore ulivo.

Ili*

L4 - FN2 - P4

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Pietà per dio del mie grieve dolore, offeso a tanto stremo e sanza amici, povero, vecchio, infermo e peccatore, ingiusto giudicato in negli uffici, né udita, né ’ntesa è mie ragione, ma trattato da lor come nimici, di me avendo falsa oppenione, sotto presunzion dannando il vero, per non lo essaminar con discrezione Or veder puoi sT ho dolor severo, vedermi sì crudelmente trattare da chi è posto a far giudicio intero; ed ogni mie ragion veggo mancare, se già soccorso non vien da colui, il qual santificò nel medicare, perché le piaghe fattemi d’altrui ingiustamente bisogna curare e risanarle con gli unguenti sui. Né altra via ci veggio al mie scampare se non di quest’uom giusto i degni unguenti,

* Versi fatti di Giovanni di Maffeo da Barberino insino a dì 8 d’aprile 1 4 )J, adiritti a Cosmo de’ Medicit raccomandandoseli che della ragione pregasse un certo ufizio che l’avesse per raccomandato, volendo intendere bene quella causa e poi dargli spaccio ed era di tanta importanza che, avendo perduta, n’era sempre disfatto / t perché, parendogli esser allo stremo, veduto che quello ufizio quasi tutto gli giudicavano in quel piato il torto adosso, dove più cordialmente dogliendosi, così in questi SUO9 versi supplicando disse:

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ch’ogn’ incurabil mal fanno saldare. Tutt’altre vie e tutt’altri argomenti sarieno scarsi, anzi diverrien vani, quantunque giusti e quantunque prudenti. Supplico adunque le suo sante mani porga, e vogli veder la trista cura, ch’è suta fatta a me da questi strani; e poi veduta con giusta misura, mi faccia giudicare e con ispaccio, com’è dotato in suo propria natura; sì ch’una volta di tant’aspro laccio mi deggi trar, che, se noi fai, rimango privato di speranza in tanto impaccio. Ché sempre dentro al cor con l’almo piango, né sotto ’1 ciel più gnuna cosa spero; vilipeso qual piombo terso o fango, sol rimarrò tra la gobbola e ’1 zero.

GIUSTO DA VOLTERRA *

I FN2 Non per dormir s'acquist'onore o regno, né per fuggir si viene in alto stato, né per rispondere ognor quand’è chiamato, sì morte per superbia e per isdegno. Non troppo dura chi si vuol far segno, non chi palesa cosa in sé serrato, non chi più spende che non port’a lato, sì chi con tempi accosta suo ’ngegno. Non chi vuol sempre render mal per male, non chi non è umil sofferitore, sì chi conosce sé per quel che vale. Non chi vuol esser d'altrui usurpatore, non chi non vuol vicino a sé uguale, sì chi caccia da sé vizio ed errore. Deh, noti di buon core chi questa rima legge e seco face, mentre che vive averà bene e pace.

II FN2 Temp'è di levar su, alma gentile, più non dormire in oziose piume, lasciar le tenebre e venire al lume di perfetta virtù: non esser vile! Armati tutta! Deh, lascia il servile giogo del tuo peccato, e nel volume delle virtù ti scrive; il buon costume voglia sempre servir co' mente umile!

Deh, pensa quanta gloria onora Cato, Cesare, Iscipion, Fabrizio ancora, più e più molti, chT non t’ho contato, che per virtù non si curaron fora di vita uscire e, ciascun meritato, quivi la fama e ’1 ciel di su gli onora.

ANTONIO GUAZZALOTRI *

I*

Sen1 - P1 (an.).

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Per gran forza d’Amor commosso e spinto, donna leggiadra, a porger dolci prieghi a voi, con volto a lagrime dipinto, suplico almen che il vostro udir non nieghi al mio stanco parlar dar aùdienza, ma per benignità gli orecchi pieghi, perch’ è costume di gentil semenza a madonna o signor udire il servo e soddisfarlo poi con sua clemenza. Or io, che mi consumo a nervo a nervo sol per soperchio amore, a voi ricorro com’al bel fonte l’assetato cervo. Ma la vostra prudenza, s’io trascorro nel troppo caldo dire, esso corregga, perch’ a voi ubidir sempre concorro. Quella vera affezion mio priego regga che ’1 cieco alato m’improntò coll’arco nel mio cor, dove sempre voi che segga. Vaga, bella, vezzosa, i’ sono al varco di fine di mia vita, se per voi non m’è aleviato questo carco, ché la vaghezza de’ begli occhi tuoi ogni dì più mi stringe con suo nodo, quando gli volgi ben, come tu suoi. Talor, madonna, infra me stesso godo di chi m’ha preso, e amor mi lusinga, ed io, attento e tutto aiegro, lodo. Or vuol che più avanti a dir mi spinga, a l’alma aflitta dando gran baldezza,

* Capitolo del nobile giovane Antonio de’ Guazalotri da Prato, fatto a* prieghi di me Iohanni Buonafé qui in Vinegia anno MCCCCX, el quale feci fare per mandare a una donna.

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prima che morte il suo albergo estinga. Deh, piacciati d’udir, vaga bellezza, se ben la mia nazion non è uguale, quanto afariesi alla tua gentilezza! Tu se’ pur, sì com’io, cosa mortale e di natura umana, sì com’io ho forma d’uomo e non d’altro animale. Se più formosa te ha fatta Iddio che non ha me, ringrazia la natura, che per te ringraziarla io non oblio. Ma, se riguardi ben la mia figura, tu vedrai ch’io non son tigre né orso, stando col qual dovessi aver paura, o animai protervo, che col morso mai maculassi le tue membra belle, diliberando tu darmi soccorso. Non pur sol tanto tua lucente pelle ardirei toccar, ch’io mi credessi un pel tòr dove più legger si svelle. Che credi, o cara luce, ch’io facessi, trovandomi coperto teco e nudo? Per certo i’ tei dirò, se m’ancidessi! Fra te e me non essendo altro scudo, tutto tremante a te verria pian piano; e, perché non mostrassi il volto crudo, in prima piglieriei tua bianca mano e stretta fra le mie me la terrei, standoti per temenza ancor lontano. Asicurato alquanto poi verrei umile verso te, e come muto per gran dolcezza so non parlerei. Poi, avendo mio senso riavuto, con boce rotta dopo un gran sospiro direi: « Tempo aspetatto or è venuto; or ho con meco quel che più disiro: ell’è con meco quella ed io con essa, che m’ha già dato sì crudel martiro. » E poi direi: « Oh, può ell’esser dessa? » stando in dubio pel disiato bene. Beato a chi tal gloria è impromessa! « O dolce mio governo, o cara spene, o albergo di tutti i miei pensieri, perché cagion m’hai date tante pene? » E, detto questo, un bacio assai leggieri con un soave e tremulo abracciare

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darei al tuo bel primo messaggeri; quell’occhio vago, che d’innamorare mi fu cagione e de’ mie’ gran dolori, or l’ho con meco, e aver non mel pare. Poi, volendo gustare altri sapori, m’inchinerei a baciar la tua bocca, che fa spirar mille soavi odori. Poi, dove l ’un con l’altro cor si tocca, riposerei le già umide ciglia, sotto le quali ogni dolor trabocca. Dove il primo liquore il fantin piglia, sul bianco sen, ti lasceria per segno con ciascun bacio una rosa vermiglia. E, fatto poi di tanta gioia degno, verrei alla dolcezza che avanza tutti i diletti del terresto regno. Dato fine a questa ultima speranza, in sul tuo sen rimarria tramortito per gran soavità e dilettanza. Ma, poi ch’io fossi alquanto risentito, dalla cima persino alla radice ti conteria mie pene a dito a dito; e, chiamandoti ladra e traditrice, ti conteria gli oltraggi che m’hai fatti, sì come fa chi d ’amore è felice. E tu, ridendo con piacevoli atti, so che diresti: « Può egli esser questo, ch’io tanto avessi a me tuo’ sensi tratti? » Ed io risponderei allegro e presto: « Per certo sì », faccendo tanti giuri che ’1 creder poi non ti saria molesto. Io so che tu lo sai e non ti curi di me, cui tua bellezza tanto accora, ch’io mi distruggo, e tu vie più t’induri. Se di tua grazia mi ritrovo fora, posso te riputar mortai nimica, ché per te non riman ch’io non mi mora. Vedi che tua speranza mi notrica: vogli pel servo tuo, gentile e bella, cangiar proposta e farti a lui amica! Da te spero d’aver lieta novella, scrivendoti il mio dir con tanto effetto che, scrivendo, mi pare essere a quella. Della tua gioventù prendi diletto, perch’ogni giorno la biltà si fugge

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e sotto ’1 capei can cangia suggetto. Chi ben riguarda, bellezza si strugge sugli uman corpi come neve al sole, stando scoperta sanza avere altr’ugge. Le più olenti e tenere viole perdon più tosto e vie più si disfanno che non fan Taltre. E nota mie parole: se ti lasci invecchiar con questo inganno, tu piangerai per quel che tanto t’ama aver tenuto lui in tanto affanno; mentre ch’è *1 frutto su la verde rama, dà di prenderne al servo liberiate, che sopra tutto quel disia e brama, gridando a te: « Piata, piata, piatate! »

JACOPO DA BIBBIENA *

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Girò sempre piangendo con tormento, per far chi n’è cagione esser contento, el volto umile e basso, el cor con lutti, lontan per luoghi alpestri, aspri e silvaggi, gli occhi dolenti, mai di pianto asciutti; e, come uom disperato, i vostri raggi fuggirò sempre, ben che ’1 cor ne caggi in morte; ma che dich’io? Già la sento.

Baliata ser lacobi de Bibiena precettoris meì (cioè del Pigli).

UN A D A T T A M EN T O T A R D O Q U A T T R O C E N T ESC O D E L L O « ST U D IO D A T E N E »

N el bell’articolo A n e d d o ti d i le tte ra tu ra fio re n tin a Pier G iorgio Ric­ ci, in mezzo a una congerie di indicazioni e notizie importantissime, se­ gnalava un nuovo manoscritto (con ogni probabilità identificabile col per­ duto M 3, cioè il Magi. V II 162) dello S tu d io d *A te n e : il Nuovi Acquisti 1013 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Trattasi di un lacerto di un codicetto 1 in ottavo, membranaceo, del­ la seconda metà del sec. XV, scritto assai nitidamente, acquistato (come leggesi in inglese sul recto della guardia anteriore) il 22 aprile 1902 da Sydney Cockerell presso la Casa Sotheby e successivamente dalla Biblio­ teca Nazionale di Firenze presso la libreria antiquaria Barès, dove era passato. Il Ricci giudicava il codice importantissimo per la ricostruzione cri­ tica del poemetto e concludeva: « Il nuovo testo è dunque Punico com­ pleto e costituirà senza dubbio il fondamento indispensabile a chi vorrà ripubblicare criticamente lo scritto del F in igu erri... Non esagerato dun­ que dirlo fondamentale per una critica ricostruzione del testo, e tale da recare un contributo decisivo alla storia interna di un’opera interessante del volgare quattrocentesco ». Il codice infatti a prima vista giustifica questo entusiasmo, in quanto 1 E ’ visibile infatti l’antica numerazione, che andava da carta 25 a 44, poi so­ stituita con quella di mano del Cockerell da 1 a 20; ora M3 accoglieva la Sfera del Dati prima dello Studio di Za, e, nota il Ricci, « un facile computo delle strofe che potevano trovar posto in 24 carte del codicetto di recente acquistato dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, assicura che tale era per l’appunto lo spazio richiesto dalla Sfera. Dato ciò, è ben difficile sottrarsi alla tentazione di pensare che il lacerto esi­ stente sia la seconda parte (carte 25-44) di quel codicetto che un tempo sparì e che s’apriva con la Sfera del Dati ». E se è vero che nel catalogo dei Magliabechiani, dove sono riportate le prime quattro terzine dello Studio secondo M3, manca la terza terzina, che è invece nel cod. in esame, questo si dovrà certo a una dimenticanza del compilatore e non al fatto che si tratta di altro manoscritto.

pare recare completo il poemetto che, purtroppo, è mutilo di almeno una terzina in tutti i m anoscritti2 (ivi compreso l ’Ottoboniano lat. 2151 da aggiungere alPelenco che è in P o lem ich e e b e r te , che ha la stessa chiusa posticcia di L 1); ma ad un esame più attento non sarebbero sfuggiti di­ versi elementi. Il motivo ricorrente nelle terzine presenti nel N . A . 1013 non è in­ fatti il vecchio degli sciocchi studianti, ma il nuovo delle gazze di Valdimagra. E malgrado l ’autore tenti di ricalcare in esse lo stile del Finiguerri, 2 Non siamo d’accordo col Ricci sul fatto che i versi nuovi contenuti in N. A. 1013 siano il « naturale e necessario compimento del testo ». L’autentico finale, pur mutilo di almeno una terzina, è quello quale appare dalla mia edizione. Costui si è dottor sanza ragione, non ha naturale, né scienza, né pratica e sempre fu di Soddoma prigione. « Veniatis » dice a’ pincioni in gramática, quand’egli uccella a suo parete o ragna.

Costui si fa chiamar messer Provedi, che si botò di gire in romiaggio se rimanea dottore, e chiaro ’1 vedi. — Costui è molto dotto e molto saggio perché e’ disse: — Tu mi pon nella fine perché tu sai ch’io volentieri caggio fuor di ragione e tutto suo confine. — L’altro fu composto sessantanni dopo, quando il buon Za aveva da tempo raggiun­ to il mondo dei più. Un problema maggiormente consistente è invece quello della esatta collocazione del cap. II (secondo la mia edizione), che in GV, Ott, N.A., oltre che in M 1, R2, L1, viene trasportato tra il quinto e il sesto. Il Ricci ritiene più esatta questa partizione pur possibile, ma — a parte la grandissima autorità di R e L — all’inizio del cap. V II non si dovrebbe alludere a Maestro Antonio Marcucci (cap. II, 88-120), ma a un medico non nominato (perché troppo noto), i versi riguardanti il quale sono in L (cap. V, 142-7). Al più si potrebbe sopprimere la distinzione tra i capp. V e V I per la continuazione delle rime, ma, poiché i poemetti dello Za erano recitati, io penso che sia meglio interrompere il cap. V, anche perché nei versi seguenti si passa a narrare altri fatti ed è manifesto l’inizio d’un nuovo capitolo. Estremamente arbi­ trario è il procedimento di N. A. 1013, che lega il capitolo II con il V I, modificando in modo grossolano i w . 121-3 del cap. II, che così suonano:

Sì tosto l'occhio in ver di lor ponemo ser Giusto de* Pagnin che pare un asso e suo cervel per certo ha dello scemo, mancando oltretutto il v. 124. Per di più N. A. è l’unico manoscritto che si permette una tale licenza; infatti tutti i codd. che hanno un tale ordinamento presentano l’interruzione delle rime,

riuscendovi abbastanza b e n e 3, anche perché i poemetti dello Za erano sempre popolari, subito ci si accorge che la mano è un’altra. Questi nuovi versi sono legati infatti ai temi propri delle compa­ gnie degli spiantati, che informano i due sonetti (l’uno di Filippo Scarlat­ ti Venite ad aiutarmi, o mie* maggiori, l’altro di Comparino O compagnon della Magra, ascoltate) presenti in G V e i Capitoli della Compagnia della Miseria o della Gazza (poi, prima di passare a quella del Mantellaccio, divenuta del Falcone), pure presenti nell’amplissima raccolta scarlattiana ed editi dal M orpurgo nel fondamentale articolo La Compagnia della gaz­ za, i suoi capitoli e le sue tramutazioni.

Orbene gli statuti della Gazza risalgono al 1467 e così pure i due sonetti sopra citati; ed appunto intorno al 1467 G V fu m esso assieme. I personaggi stessi che ricorrono nell’aggiunta di N . A. 1013, inoltre, sono del secondo Quattrocento; Antonio Pollani, solo per fare un esem­ pio, è ricordato nel son. X IV dallo Scambrilla, contemporaneo del Bur­ chiello; per giunta vi è menzionato Giovanni Betti, l’autore del Libro de* Ghiribizzi, che nacque nel 1396 e quindi, quando Za compose lo Studio d}A tene (1406-9, cfr. Polemiche e berte p. 139) avrebbe avuto poco più di dieci anni! Ma c ’è di più! In G V alle carte 176v-183r c’è la Buca di Montemorello e alle carte 191r-203r lo Studio dyA tene fino al v. 48 del cap. V II (se­ condo la mia edizione); dopo questo verso nel N . A . 1013 iniziano alcune

che al massimo potrebbe rivelare l’inizio d’un nuovo capitolo. Il solo G V, suo affine, così modifica: viddi ser Giusto Pagnini ch’er’al basso. Gli stessi versi che chiudono i capitoli III (v. 163 Or lasciam qui per fare un’altra guerra) e IV (v. 169 E noi seguimo la nostra scienza) (e inoltre il V Ma lasciai far, ch’e’ ne fia ben pu­ nito, che andrebbe inserito dopo il v. 141 della mia edizione, con l’esclusione dei w . 142-7) e che pure potrebbero essere vantaggiosamente inseriti nell’edizione da me procurata mi lasciano non poco perplesso. 3 Ecco alcuni esempi evidenti: 37 pere’ho forato il cervel com’un vaglio ; 50-1 ti vo’ contar questi altri ad uno ad uno / che son privati d’ogni sentimento; 54 che totalmente del senno è digiuno ; 58 gran tempo è che sarebbe allo spedale ; 60-4

Guarda quell’altro sanza accidentale / el quale è messer Biagio Nicolini / che barattò e suo’ libri alle parete / e chiamava in gran muffa gli uccellini: / « Pincones, veniatis a mia rete »; 71 forte dalle marmegge divorato ; 84 e per ir più leggier piantò il mantello ; e inoltre i vv. 94-102. Per l’inquadramento culturale dei poemetti dello Za si dovrà partire dal mio volume Polemiche e berte , pp. 136-161 e da quello del Guerri, La corrente popolare, pp. 33-63. Per tutti i problemi testuali della Buca di Montemorello, dello Studio d’Atene e del Gagno si veda la mia « Nota critica ai testi » in Polemiche e berte , pp. 390-3. Quivi alle pp. 309-57 troverai inoltre l’edizione definitiva dei tre poemetti.

terzine, che legano il ternario nuovo allo S t u d io : ebbene in G V esse non sono accolte e il poemetto resta mutilo; poi segue un nuovo ternario con la didascalia « Qui incomincia uno aroto (cioè una a g g iu n ta ) fatto per ... ». Ebbene questo ternario è il finale posticcio dello S tu d io come è in N . A. 1013; mancano, come ho notato sopra, le terzine che legano il poemetto dello Za al nuovo ternario, e, guarda caso, in G V le carte 203v-204v sono bianche. Come è noto, lo Scarlatti prima attribuì la paternità della Buca e dello Studio allo Za (« Qui incomincia la Buca fatta pel Za » ; « Qui in­ comincia il Za fa tt o p e r lu i p ro p io »), ma poi cancellò e sostituì con « fatto per Maestro Antonio barbiere da Granaiuolo di Valdelsa ». Orbene, co­ stui era un canterino del tempo che riadattò i vecchi poemetti del celeber­ rimo Za, inserendovi spunti nuovi in voga in quegli anni, come quello del­ le gazze e di Valdimagra (e una spia evidente è la didascalia dello Studio « fa tt o p e r lu i p ro p io »). Il cod. N. A. 1013 della Nazionale di Firenze dunque, se non ci dà, purtroppo, il finale completo originale del poemetto del « poeta so­ vrano della città di Firenze », pur tuttavia testimonia potentemente la sua fortuna, vivissima ed attuale ancora sessantanni dopo la composizione. E d ecco il ternario inedito, preceduto dalle terzine che sono nel solo N . A . 1013: [Q uasi non mi sentia per tal tremore, quando costor ne vennon terra terra per voler passar via con gran furore. Disse ’1 maestro a me: « L ’occh io diserra e guarda ben messer Lion da Prato, che par che col civile abbi gran guerra ». « Messer Lion, deh, non mi siate ingrato; che mi diciate di grazia vi chieggio chi è costui ch ’è ’n sul sinistro lato ». E d egli a me: « D i quel p oco ch ’i’ veggio cosa ch ’i ’ sappi eh a grado vi sia il farò volentier senza motteggio. Costui ch ’è qui da la sinistra mia egli è messer Lionardo ed è pratese e vien con esso m eco in compagnia, e certo dice non vuol far difese di venir m eco ’ acquistar scienza, perché da giovan poca ne comprese » . ] Inteso questo, i ’ detti lor licenza, ed ecco a me venir con festa e m otto

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quattro vecchion canuti in mia presenza. Buonaventura è *1 primo, antico e dotto, con suo' compagni consoli di Magra, Giovanni Betti, Zecheri e Cuzotto, dicendo: « O tu che fai la gran ciragra, no’ ti preghian ch’aspetti i nostri savi, che son iti a Girone a una sagra! E perché di niente e’ non son gravi, NA E però che non son di nulla ma di senno e tesor bretti e leggieri, saran qui tosto come tori bravi ». Mentre ei parlava i’ viddi assai gazzieri d ’abito e di parlar diversi e strani, sguitti, stiracchiatori e trabalzieri; e ’nnanzi agli altri scimuniti e vani veniva salmeggiando per diletto el glorioso e saggio Anton Pollarli. E ’ disse: « O Za, deh, non ti sia in dispetto . di spacciar noi che torniam da Girone, dov’avemo assai milze in un tocchetto! » Allor i’ dissi al barbuto vecchione: « Zecheri antico e degno lastraiuolo, dimmi: son queste bestie oppur persone? » Ed egli a me: « Intendimi, figliuolo, ché mie sentenzia dal ver non si varia: quest’è di svemorati un bello stuolo ». GV memoria NA e’ n’hanno Ed io a lui: « Per certo egli hanno l’aria d’esser sanza sustanzia tutti quanti e piglierebbon ben le gazze in aria ». Allor Anton Pollan si fé davanti GV Intendi ciò e disse: « Intendi, Za, quel ch’io vo’ dire se vuo’ spacciar di Magra gli stuellanti di’ lor che debbin dietro a me venire, èd io gli trarrò fuor d’ogni travaglio, se mi vorran come scorta seguire, perc’ho forato il cervel com’un vaglio NA il cervel forato più ch’un e nel fondaco già feci un pollaio, NA fe’ già un gran dove vender si suol panni a ritaglio; ond’è ’1 mie nome ancor famoso e gaio, NA Dond’è ché pel pollaio son chiamato Pollano NA chiamato son e merito portar coranto e vaio ». Volsimi allora al Zecheri sovrano e dissigli: « Per certo egli ha ragione d’esser de’ capassoni il capitano ». Ed egli a me: « Tu hai buona intenzione; che sia lor duca io son molto contento, però che gira forte per ragione. NA ed è magrone Ma perché ’1 tempo varca, in un momento

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ti v o ’ contar questi altri ad uno ad uno, che son privati d ’ogni sentimento. Q uel viso stran, ch ’è ’nnanzi a ciascheduno, degli Ubaldini è messer Benedetto, che totalmente del senno è digiuno; NA ch’è ...................senno digiuno e se non che ’1 pippion l ’ha ora eletto, però che par diè padre naturale né maschera bisogni a suo cospetto, gran tem po è che sarebbe allo spedale. NA i’ tengo che sarebbe Ma lasciamo il dottor degli Ubaldini. Guarda queiraltro sanza accidentale, el quale è messer Biagio N icolini, NA Bartol de* Giannini che barattò e suo' libri alle parete e chiamava in gran muffa gli uccellini: « Pinciones veniatis a mie rete » dice questo dottor con fronte lieta. E quel che d o p o lui venir vedrete NA seguir si chiama messer Checco da Gaeta, c ’ha per salario assai dobre e bisanti, e oltre all’utriusque ha del poeta. P o ’ vien messer Iacopo Agolanti, forte dalle marmegge divorato, con un che darà spasso agli studiami: quest’è messer Filippo svemorato, quel d e’ Biliotti sanza altra dottrina, che non sa tre cuiussi del D onato. Q uel grande è un maestro in medicina, N A dottor di mastro Lorenzo da San Pier Maggiore, che balzerebbe in sulla trementina. Maestro Sperandio segue il dottore, che piglia gazze in aria sanza uccello e medica crepati in gran fervore. Seguita p oi ’1 maestro G abriello come ’1 più degno dietro a tutti quanti, e per ir più leggier piantò il mantello. L o scriba è ser Batista de’ Bocciam i con ser Rinaldo in carta bambagina, che s’aspetta notaio de’ soprastanti. M a ’ntendi, A n ton Pollani, or mia dotrina: a te com m ette la brigata magna el glorioso seggio di Cercina, NA triunfante e fa’ che non gli meni per Cuccagna né per Padova grassa, ma conviene passar per Valdimagra e per Brettagna. E giunti all’alma e gran città d ’Atene al duca tutti vi rapresentate,

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com’a nuovi stuccanti s’appartiene. E ogni giorno il Miserar cantate collo stenteril(lo) ch’è suo vicino, acciò che ’1 Dirumpisti me’ sappiate. E soprattutto studiate il Vannino, lasciando Plato, Socrate e Pittagra ». Allor con festa presono il cammino gridando: « Mike milze e Magra Magra! »

NA stenturionne

NA E lor